dimanche, 08 novembre 2009
Primo futurismo italiano e futurismo russo
Primo Futurismo italiano e futurismo russo: estetiche a confronto in occasione del centenario
di Stella Bianchi / http://www.italiasociale.org/
I rapporti tra i movimenti futuristi italiano e russo servono a capire l’esordio delle avanguardie europee:,Marinetti e Majakovskij, rappresentano un’intreccio di confronti e divergenze tra i due filoni futuristici. .
Il Futurismo ha conosciuto la sua realizzazione più grande in Italia e in Russia, e la storia dell’ intersezione dei due movimenti è di primaria importanza perché spesso si è posto il problema del primato cronologico del primo rispetto al secondo.
Dietro alla complessa vicenda dei rapporti tra i due "futurismi", si cela una questione ancora più intrigante, che tocca la nozione stessa di "avanguardia". Questo termine nacque in Francia e fu mutuato dal registro linguistico militare perché la sua funzione di superamento della cultura borghese, doveva essere di rottura e d’innovazione sia nel campo estetico che in quello politico..
L'agognata saldatura delle 'due avanguardie' fu un sogno che divenne dominante dopo lo sconvolgimento dovuto alla prima guerra mondiale, col sovvertimento degli istituti politici tradizionali e con il sorgere del Bolscevismo in Russia e del Fascismo in Italia.
Così, la questione del "primato" e delle "influenze", pur continuando ad esser discussa soprattutto sotto il profilo artistico, ha acquisito una valenza metastorica, perché si rifaceva retrospettivamente al periodo d'oro del primo Futurismo.
La ricostruzione documentaria del dibattito che ne scaturì (con l'intervento, tra gli altri, di Marinetti e Majakovskij , di Prezzolini, di Croce, di Jakobson,di Livsic, di Chlebnikov e di altri..) consente di mettere in luce lo snodo decisivo dell’interpretazione critica dell'avanguardia novecentesca.
L’ampia silloge di fonti originali esaminate negli ultimi trent’anni da più studiosi, ha portato un contributo essenziale alle celebrazioni per il centenario del Futurismo, evidenziando gli aspetti dell’influenza occidentale nei confronti della cultura slava in Russia.
Il dibattito sul primato del Futurismo italiano rispetto a quello russo sembra aver trovato una soluzione perché ormai tutti gli studiosi sono concordi nel sostenere che quello italiano precedette quello russo.
I due movimenti artistico-letterari si sono influenzati a vicenda pur provenendo da formazioni differenti.
Il Futurismo italiano si è affacciato alla ribalta con il noto Manifesto di Filippo Tommaso Martinetti pubblicato agli inizi di febbraio del 1909 da diversi quotidiani inizialmente a Milano e poi su La Gazzetta dell’Emilia a Bologna il 5 febbraio 1909, L’Arena di Verona il 9 febbraio 1909 e infine su Le Figaro di Parigi il 20 febbraio 1909.Questo fu il primo di una lunga serie di manifesti programmatici del Futurismo che seguirono negli anni successivi.
Nel 1910 Marinetti, dopo esser stato assolto dall’accusa di oltraggio al pudore con la sua opera Mafarka il futurista,trovò inaspettati alleati tra i giovani pittori Boccioni,Carrà e Russolo e con il poeta Palazzeschi.
Nel 1910 uscì il Manifesto Futurista della pittura promosso dai pittori divisionisti Boccioni,Carrà,Balla e Severini.(abolizione della prospettiva tradizionale).
Iniziò così una serie di serate a tema futurista durante le quali Marinetti incontrava il suo pubblico e spesso nascevano risse e discussioni.
Nello stesso periodo in Europa si erano sviluppate molte correnti poetiche di avanguardia che riflettevano i gusti dell’epoca come il Simbolismo che in Russia aveva trovato una sua specifica collocazione che facilitò l’introduzione del Futurismo italiano.
La prima volta che in Russia fu introdotto il termine Futurismo fu quando si compose il gruppo di artisti che operavano a San Pietroburgo e che furono denominati egofuturisti poiché esaltavano l’individualismo come chiave di filosofia del futuro.
Gli scambi culturali tra Italia e Russia si erano realizzati già dal 1905 con la rivista letteraria simbolista di Marinetti “Poesia” che era talmente diffusa a Mosca che tra il 1909 e il 1910 comparvero altrettanti articoli futuristi italiani su riviste letterarie russe.
Nel 1911 e anche nel 1912 più di un artista cubista russo venne in Italia per conoscere di persona il Futurismo nascente e da qui si formò una corrente di cubofuturisti russi tra cui Kamenskij.
Nello stesso anno, cioè nel 1911 veniva pubblicata in Francia un’ampia raccolta di manifesti futuristi che trovarono nei poeti francesi Guillaume Apollinaire e Blaise Cendrars(il poeta soldato) i suoi più illustri estensori ampliando così la platea degli artisti che conobbero ed aderirono alle teorie di Marinetti e dei suoi compagni.
In questo modo anche in Russia cominciarono a fervere molti sperimentalismi letterari soprattutto intorno al poeta Chlebonikov che giocava con gli echi simultanei delle parole , con le assonanze , con la creazione di neologismi , con il linguaggio infantile asemantico.E già da allora,la ricerca strettamente formale russa antiaccademica stava avanzando i suoi primi rilevanti progressi attraverso molti sperimentalismi letterari.
Spesso alcuni gruppi di artisti russi organizzavano mostre,si riunivano in serate speciali in cui declamavano i principi della loro estetica oppure passeggiavano per strada con vestiti stravaganti e i volti dipinti declamando tra i passanti a viva voce e in maniera provocatoria i versi dei loro poemi come soleva fare Natalja Goncarova Michail Larionov,David e Nikolaj Burljuk,Benedict Livsic,Aleksej Krucenyc e Vladimir Majakovskij (1909).Ma c’e’ da dire che le loro provocazioni non erano condivise dal popolo.Questi artisti che operavano a Mosca , facevano parte del gruppo Gileia e si contrapponevano ai futuristi di San Pietroburgo perché si battevano per la collettività e per il movimento organizzato.
La ricerca del nuovo, in Russia non era però proiettata verso il mondo moderno, come in Italia(modernismo tecnologico) poiché la Russia necessitava di un profondo e strutturale rinnovamento della società e questo elemento era vissuto come una basilare esigenza anche se spesso l’artista si dibatteva tra le innovazioni occidentali e la necessità di non snaturare la cultura slava e quindi si poneva l’esigenza di rimanere fedele alle proprie radici e alla propria nazione(primitivismo)
Per questo motivo,la diffidenza nei confronti dei modelli occidentali,portò alcune avanguardie russe agli antipodi della cultura futurista dominante, privilegiando modelli fantasiosi con riferimenti preistorici e precristiani(gruppo neoprimitivista “Fante di Quadri” di Natalja Goncarova).
Ecco perché Marinetti trovò spesso grandi ostacoli nei contatti con il Futurismo russo e più volte venne accolto da loro con diffidenza in quanto nella sua estetica predicava la realizzazione del futuro nel presente e perché le sue teorie risultavano paternalistiche,invece i russi concepivano l’arte come ricerca delle radici popolari del passato,al servizio del popolo e come precorritrice della futura rivoluzione
La divergenza tra i due Futurismi si concretizzò definitivamente nel 1914 ad opera di Majakovskij che attorno al LEF (Levyi Front Iskusstv),Fronte di sinistra delle arti, aveva riunito poeti,scenografi e registi.(Einsenstein)
Nel 1913 fu fondata da un gruppo di intellettuali(Papini, Soffici e Prezzolini) la rivista letteraria Lacerba che diede spazio al Futurismo italiano nell’esaltazione anarchica del “genio” e del “superuomo”.In questo periodico comparvero interventi di Marinetti,Folgore,Boccioni,Carrà e Govoni.
Lacerba pubblicò anche il Programma politico futurista nel quale venivano attaccate le istituzioni clericali,liberali e moderate di Giolitti e di Gentiloni.
Le contraddizioni tra i due Futurismi sono molte.Il Futurismo italiano inneggiava alla rivoluzione tecnologica, esaltava la fiducia illimitata nel progresso, decretando inesorabilmente la fine delle vecchie ideologie e della letteratura ottocentesca, viste come passatismo da superare.
“Un’automobile ruggente è più bello della Nike di Samotracia” l’aggettivo bello andava al maschile perché l’automobile era considerata un oggetto maschile che esprimeva un senso di potenza ascrivibile solo ad un soggetto maschio .….
L’esaltazione del dinamismo, della velocità ,della simultaneità nella scrittura e nelle arti figurative erano gli elementi fondanti del Futurismo italiano e li troviamo espressi al meglio nelle opere di Boccioni.
In occidente, l’espandersi di grandi città, il moltiplicarsi di industrie, di catene di montaggio, di mezzi di trasporto, di metropolitane, di automobili, l’estendersi di strade illuminate artificialmente,il telegrafo senza fili ,la radio ,gli aeroplani,spingeva ad un concetto di arte vista come cambiamento veloce delle cose fino all’elaborazione di un’estetica della velocità.
Il Futurismo russo esaltava la visione frammentaria della realtà ,e nella lingua scritta usava le parole come mattoncini(cubismo a parole)in una concezione dello spazio che si stava sgretolando e che ibridandosi con altre avanguardie diventava cubofuturismo..
I futuristi italiani per contrapporsi alla cultura tardo ottocentesca ormai priva di forti contenuti, arrivarono a scardinare completamente la sintassi con l’abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio,della punteggiatura e con l’esaltazione dell’onomatopea enfatizzata dalla ripetizione martellante di parole o di intere frasi(ma questo elemento lo troviamo anche in Apollinaire)alla ricerca di un linguaggio slegato dai canoni di bellezza tradizionali(Palazzeschi)…

Se nel Futurismo russo emergeva la frammentazione della realtà in particelle più piccole(movimento letterario della Centrifuga), in quello italiano invece si rappresentava l’attimo inteso come parte del movimento stesso…fino ad arrivare al Divisionismo.
Nel Futurismo russo spesso vi erano interpolazioni tra testo visivo e testo scritto in un analogismo transmentale dal quale scaturivano tutti i significati possibili e tutte le idee (uso del linguaggio come potenza creativa).
Nel transmentalismo, le parole rappresentavano segni (una specie di Strutturalismo in fieri) generatori di nuovi inediti orizzonti espressivi che diventavano le chiavi interpretative della realtà.
Nello sforzo di pervenire ad un’interpretazione più definita della realtà,si arrivò fino al Raggismo(Goncarova) in cui la struttura a raggio colpiva ogni elemento per cogliere anche la più piccola rifrazione della luce.
Kandinskij tradusse più tardi, Il Trattato dell’Armonia di Schomberg e per spiegare la sua estetica pittorica usava una metafora musicale(transmentale): ”il colore è il tasto,l’occhio è il martelletto,l’anima è un pianoforte con molte corde”.
Da qui si evince la funzione estetica e poetica del linguaggio,come la definì
Jacobson nei suoi studi.
Molti artisti russi mutuarono la loro arte da pregresse esperienze come cartellonisti(i lubok erano delle stampe popolari russe usate come cartelloni pubblicitari).Ma questo accadde anche per artisti italiani come Soffici e Boccioni
E poi si ritorna alla russa Goncarova anch’essa disegnatrice prima che poetessa…
Majakovskij aveva iniziato come cartellonista pubblicitario approdando poi alla poesia intesa però come propaganda politica ed espressione della rivoluzione e come capovolgimento dei valori sentimentali e ideologici fino ad arrivare a rappresentazioni teatrali nelle quali l’azione è definita dal movimento della folla,l’urto delle idee,le critiche al mondo piccolo-borghese.
I futuristi italiani si descrivevano come’ prepotenti’ , dinamici ,militaristi,patrioti,esaltavano la guerra come sola igiene del mondo,si opponevano alle istituzioni come i musei e consideravano la donna come un soggetto destabilizzante per l’arte e quindi da emarginare.(anche se più tardi nel 1912 qualcuno scrisse Il Manifesto delle donne futuriste) Ecco un’altra contraddizione che evidenziava la magmatica dialettica interna al Futurismo italiano.
Nel Futurismo russo invece operavano molte donne attive come Natalja Goncarova,Alexandra Exter,Olga Rozanova,Lioubov Popova,Varvara Stepanova,Nadeshda Udaltsova.
In poche parole , Martinetti voleva trasmettere un impulso impattante, una forte spinta alla trasformazione e al rinnovamento della società e avrebbe voluto creare un fronte unico futurista in Europa per poi estenderlo a tutto il mondo.
I tentativi di mettere a confronto questi due Futurismi hanno spesso portato a conclusioni ossimoriche : è stato detto tutto e il contrario di tutto.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che il Futurismo russo avesse influenzato quello italiano, qualcun altro ha sempre sostenuto il contrario, come il poeta russo Majakovskij.
Ma è certo che il Futurismo italiano ha il grande merito di aver contagiato anche altre nazioni come la Francia,e resta nella sua unicità come la confluenza di quelle avanguardie europee che il Modernismo influenzò profondamente.
Forse il Futurismo italiano si avvantaggio di un primato cronologico,anche se c’è da dire che i primi contatti tra intellettuali italiani e russi avvennero a Parigi.
Ardengo Soffici nel 1903 si recò nella capitale francese dove conobbe una coppia di editori e lì inizio a pubblicare suoi scritti;ci fu poi la collaborazione di G.Papini a riviste letterarie francesi …ma nello stesso tempo Goncarova si trasferì a Parigi insieme ad altri artisti russi e lì nell’ effervescente capitale d’oltralpe, i contatti con i migliori autori simobolisti furono inevitabili.
Insomma, ci furono contatti e scambi da ambedue le parti e Parigi all’epoca era la culla delle migliori produzioni artistico-letterarie.
Ci furono molte interrelazioni tra l’estetica russa e quella italiana che stanno a testimoniare la speciale corrispondenza tra la nostra spiritualità e quella russa e ciò dimostra una certa consonanza tra le due culture.
In tutti e due i casi però,si è passati dall’elaborazione teorica ad uno sbocco politico dei due movimenti che suggellò un divergente percorso ideologico poichè, dopo il deflagrante evento della Prima Guerra Mondiale , gran parte dei futuristi italiani appoggiarono più o meno attivamente il regime fascista che nella sua propaganda si riferiva continuamente a quell’insieme di valori propugnati dai marinettiani mentre il Futurismo russo si fece portavoce dei principi dei soviet.
Prezzolini assimilava il Futurismo al Bolscevismo e Croce assimilava il Futurismo al Fascismo..due posizioni estreme e semplicistiche al punto tale che il nostro Futurismo venne ben presto sconfessato dal Fascismo poiché non dava il giusto spazio alla Storia , alla memoria del passato e alla città di Roma culla di Civiltà.In Russia, dopo l’avvento dei soviet, molti futuristi esiliarono all’estero soprattutto a Parigi e Majakovskij si suicidò nel 1930.
In Italia il secondo Futurismo si divise in due fasi:la prima và dal 1918 al 1928 e in questo periodo il Futurismo si legò al postcubismo e al costruttivismo.
Nella seconda fase che và dal 1929 al 1938 il Futurismo si affiancò al surrealismo.Di quest’ultima corrente fecero parte i pittori: Fillia(Luigi Colombo), Enrico Prampolini,Nicolay Diulgheroff,Mario Sironi,Ardengo Soffici e Ottone Rosai.CarloCarrà si staccò ben presto dal gruppo prendendo le distanze dall’ideologia fascista e abbracciando la metafisica.
-L’Avanguardia trasversale –Il futurismo tra Italia e Russia di Cesare G.De Michelis
Conferenza di presentazione libro presso libreria Mondatori Venezia 16 giugno 2009
-L’Arena di Verona 18 maggio 2008 pag.57 a cura di A.Pantano
-Archivio del Corriere della Sera.it-La Goncarova e Larionov:mostra a Milano
-Il venerdì futurista-Conferenza tenuta dal prof.Rino Cortiana presso la
Biblioteca dipartimentale di Cà Foscari Venezia il 12 giugno 2009
30/06/2009
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Bodo Uhse - im Spannungsfeld von Nationalem Sozialismus und sozialistischem Patriotismus
Bodo Uhse – im Spannungsfeld von Nationalem Sozialismus und sozialistischem Patriotismus
Verfasser: Richard Schapke, Juni 2002
"Eine Eigenschaft vor allem ist nötig, Mut, Mut zur Eroberung wie zum Verzicht, Mut zur Erkenntnis, sei sie auch noch so schmerzlich, peinigend und bitter. Du musst es wagen, mit dem Herzen zu denken und mit dem Kopf zu fühlen. Von den Deutschen haben das nur wenige gekonnt."
- Bodo Uhse
Gegenstand dieses Aufsatzes ist die Person des Schriftstellers und Publizisten Bodo Uhse. Im Verlaufe seiner höchst bemerkenswerten Vita gelang es Uhse, seinen Lebensweg vom Teilnehmer des Kapp-Putsches bis hin zu einem der führenden Kulturpolitiker der Deutschen Demokratischen Republik zu gehen. Unsere Darstellung beruht auf Bodo Uhses romanartiger Autobiographie "Söldner und Soldat", auf Klaus Walthers dem Protagonisten gewidmeten Bändchen der DDR-Reihe "Schriftsteller der Gegenwart", zeitgenössischen Quellen aus Weimarer Zeiten und nicht zuletzt diversen Publikationen zum Nationalbolschewismus der 20er und 30er Jahre. Die kursiv gesetzten Zitate stammen, sofern nicht anders angegeben, aus der Feder Bodo Uhses
1. Jugendzeit im Bund Oberland
Bodo Uhse wurde am 12. März 1904 als Sohn eines preußischen Berufsoffiziers in der Garnisonstadt Rastatt geboren. Infolge der zahlreichen Versetzungen des Vaters verlief seine Kindheit in relativ unregelmäßigen Bahnen, wozu auch die Trennung der Eltern ihr Scherflein beigetragen haben mag. Nach jahrelangem Unterricht durch Privatlehrer kam Uhse erst 1914 in den fragwürdigen Genuss eines regulären Schulbesuches, und zwar in Braunschweig. Hier lebte er bei seinen Großeltern, und hier schloss er sich wie so viele seiner Altersgenossen der Wandervogelbewegung an, um der familiären Enge zu entkommen.
Die gehegten Hoffnungen auf eine Offizierslaufbahn nach des Vaters Vorbild – genährt durch den Ersten Weltkrieg und die Vision eines klassenübergreifenden nationalen Aufbruches hin zu besseren Zeiten – fanden durch den Zusammenbruch des morschen Kaiserreiches im November 1918 ein jähes Ende. Frustriert musste Uhse zu seinem Vater nach Berlin übersiedeln, wo er fortan die Oberrealschule besuchte. In diese Zeit fielen die ersten Kontakte zu paramilitärischen Verbänden der radikalen Rechten (für einen preußischen Offizierssohn und Wandervogel wahrlich nichts Ungewöhnliches), und im März 1920 beteiligte er sich, kaum 16 Jahre alt, als Zeitfreiwilliger und Meldegänger am Kapp-Putsch gegen die ungeliebte Republik.
Im Frühjahr 1921 brach Uhse mit der ungeliebten Familie und verließ Berlin, um fortan seinen eigenen Weg zu gehen. Der talentierte junge Mann wurde auf Vermittlung des rechtsradikalen Agitators Karl von Gebsattel als Volontär in die Redaktion des "Bamberger Tageblattes" aufgenommen. Das Blatt war trotz einer Auflage von 20.000 Exemplaren stark von den Wünschen des Tabakindustriellen Baron Michel-Raulinos abhängig, was der journalistischen Betätigung nicht nur Uhses so manche Schranken setzte. Bereits jetzt zeichnete er sich durch einen unruhigen Geist aus, was nicht zuletzt durch einen spontanen Redeauftritt auf einer Versammlung des Deutschvölkischen Schutz- und Trutzbundes dokumentiert wurde. "Wo sollte die nationale Sache hinkommen, wenn sie ängstlich vor Demokraten und Katholiken auswich?"
Stammtischreden und Vereinsmeierei der Deutschnationalen, Alldeutschen und Völkischen lagen dem aktivistischen Uhse nicht, also trat er Ende 1921 dem paramilitärischen Bund Oberland bei. "Wer auf diese Fahne schwört, hat nichts mehr, was ihm selbst gehört." Die Flucht aus der Vereinsamung in die entschlossene Gemeinschaft stellte hierbei neben politischen Aspekten einen wichtigen Faktor dar. Der Bund Oberland war aus dem gleichnamigen Freikorps hervorgegangen, das zwar einerseits gegen die Münchener Räterepublik und gegen die polnischen Insurgenten in Oberschlesien kämpfte, aber andererseits im Gegensatz zum Gros der anderen rechtsextremen Landsknechte den Einsatz gegen streikende Arbeiter verweigerte. Nach der Umwandlung in den Bund betrieb Oberland mit Hilfe der Reichswehr weiterhin intensive paramilitärische Ausbildung.
Bei Oberland lernte Uhse Persönlichkeiten der völkisch-nationalsozialistischen Szenerie bis hin zum Radauantisemiten Julius Streicher kennen. Einen gewissen Eindruck machte Gottfried Feders Theorie von der Brechung der Zinsknechtschaft – schon früh entwickelte sich ein diffuser antikapitalistischer Affekt. Kommandeur der Bamberger Oberländer war der "rote Leutnant" Audax, der während der Revolution als einziger Offizier auf Seiten der Sozialisten stand. Erscheinungen wie Audax waren bei Oberland keine Seltenheit: Auch der ehemalige Kommandeur Beppo Römer tat sich schon früh durch ausgesprochen "nationalbolschewistische" Tendenzen hervor. Auf der anderen Seite nahm Uhse selbstredend an Aufmärschen und Zusammenstössen mit Kommunisten und Sozialdemokraten teil, wobei er einmal erhebliche Verletzungen davontrug. "Viele hundert gebückte Gestalten sah ich vor mir, die suchten etwas. Ich hörte meine Stimme sie fragen: 'Was?' – 'Deutschland', antworteten sie, und ich empfand den Zwang, ihnen zu sagen, wo sie es fänden. Aber es war so, dass ich es selbst nicht wusste."
Im Laufe der Zeit kamen Rivalitäten mit den von den militärisch ungleich professionelleren Oberländern belächelten Nationalsozialisten auf, die unsinnige antisemitische Propaganda des Hitler-Intimus Hermann Esser führte im Frühjahr 1923 sogar zu einer Saalschlacht zwischen Oberland und der SA. Esser lehnte den Kampf gegen die französische Besatzungsmacht an der Ruhr strikt ab und erhob die Vernichtung des "jüdischen Weltparasiten" zum alleinseligmachenden Ausweg. Oberland nahm bekanntermaßen mit zahlreichen Aktivisten am Ruhrkampf teil und reagierte entsprechend gereizt auf die nationalsozialistischen Wahnvorstellungen. Dennoch verbündeten sich die Rivalen bald darauf im Kampfbund gegen die republikanische Ordnung.
Der einsetzende Massenzulauf zu Oberland warf erhebliche Probleme auf und sorgte für Unbehagen: "Der alte Ton persönlicher Kameradschaft verschwand aus dem Bunde...Der Bund konnte sie nicht mehr seiner Gemeinschaft voll einordnen. Die wohlausgewogene Mischung von Romantik und Sachlichkeit, von rebellischem Wandervogeltum und politischer Reaktion, von Aufrührertum und Disziplin wurde getrübt. Die Leute im Bund waren erst einmal Studenten oder Rechtsanwälte, Kaufleute oder Angestellte und erst lange nachher das, was wir ganz und gar sein wollten. Der selbstverständliche Grundsatz, dass, wer dem Bunde angehöre, nur ihm verpflichtet sein dürfe, wurde nicht mehr respektiert." Im Dienst wurden die mittleren und höheren Angestellten bevorzugt, die Korpsstudenten führten ohnehin ein striktes Eigenleben.
Im November 1923 wurde Bamberg im Zusammenhang mit dem Hitler-Ludendorff-Putsch in München von tagelangen Krawallen erschüttert, an denen auch Bodo Uhse und seine Oberland-Kameraden teilnahmen. Nachdem die SA sich zuvor widerstandslos entwaffnen ließ, wurden die Oberländer von ihrem neuen Kommandeur Apfelstedt kurzerhand nach Hause geschickt. Die Wut entlud sich in dreitägigen Straßenschlachten mit der Polizei und wüsten Radauszenen. Im Anschluss lieferten sich Bambergs Oberländer einen regelrechten Privatkrieg mit der örtlichen SA, namentlich der provozierend "Adolf" getaufte Mischlingshund der Uhse-Kumpanen sorgte stets für Zündstoff.
Der Bund Oberland erstickte langsam im provinziellen Treiben der einzelnen Gruppen, das Gros der alten Mitglieder verlief sich. Uhse und seine Freunde suchten nach tieferen Inhalten. Man "spottete über die, die mit weltanschaulichen Belichtungstabellen durchs Leben zogen und für jede Situation dort die richtige Einstellung gewannen. Für diese Leute gab es nichts Neues mehr. Das Überraschungsmoment war für sie ausgeschaltet, sie hatten für alles eine Formel, von allem eine fertige Meinung. Es war gewiss bequem, sich auf solche Weise mit dem Leben auseinanderzusetzen, denn es gab keine Auseinandersetzung mehr. An Stationen, die im Weltanschauungsfahrplan nicht vermerkt waren, fuhr man vorüber, ohne aus dem Fenster zu sehen. Es war angenehm und bequem, mit breitem Arsch auf seinen Überzeugungen zu sitzen und nicht das Leben vor sich zu haben, sondern seine Weltanschauung, nicht die Dinge, sondern seine Meinung von den Dingen. Weltanschauung verpflichtete nicht, sondern pflichtete bei."
2. Anschluss an die nationalsozialistische Linke
Wie das "Bamberger Tageblatt", so fungierte auch Oberland letztlich nur als Durchlauferhitzer für Bodo Uhses weitere Radikalisierung. Am 1. Mai 1927 erschien im Bundesorgan "Das Dritte Reich" erstmals ein Aufsatz aus der Feder Uhses, der eine deutliche Hinwendung zu den Positionen des linken Flügels der NSDAP und des Neuen Nationalismus eines Ernst Jünger erkennen ließ. Im gleichen Monat erfolgte auch der Eintritt in die Redaktion des Ingolstädter "Donauboten", mithin eine der ersten nationalsozialistischen Zeitungen überhaupt. Nach dem Parteieintritt im Spätsommer 1927 reihte Uhse sich in die Phalanx der NS-Linken um die Gebrüder Strasser ein, die bemüht waren, der kleinbürgerlich-reaktionären Fraktion um Hitler ein national-sozialistisches Gegengewicht entgegenzustellen. Gemeinsam wollten die NS-Linken der Partei einen sozialrevolutionären Geist einhauchen, der "an Stelle des Kehrrichthaufens aus Bierkellerromantik, Kleinbürgersehnsucht und einer Winzigkeit echten, aber irrenden Gefühls treten, den die fünfundzwanzig Punkte des offiziellen Parteiprogramms darstellten".
Aufschlussreich über den politischen Standort Uhses ist der im Dezember 1927 im "Dritten Reich" erschienene Aufsatz "Die neue Front. Saboteure an der Arbeit": "Brennend geworden in jener Stunde, da das Gewaltdiktat der kapitalistischen Siegermächte nicht das alte Deutschland, sondern das arbeitende, deutsche Volk mit vernichtendem Schlage traf. Damals verriet die Sozialdemokratie die sozialistische deutsche Revolution und streckte die Waffen. Der deutsche Arbeiter wurde zum Kuli. Er bekam die durch die Machtdiktate (die Reparationen des Versailler Diktats, d. Verf.) veranlasste Sozialreaktion zu spüren und empörte sich dagegen in blutigen Aufständen. Damit wurde zum zweiten Male die Frage der Verbundenheit von Arbeitern und Frontkämpfern brennend. Wenn die Frontkämpfer - statt vom Unternehmertum sich zur Niederwerfung der sozialrevolutionären Bewegung ausnutzen zu lassen - in den revolutionierenden Arbeitern ihre natürlichen Bundesgenossen erkannt hätten, so wäre damals schon die nationalrevolutionäre Front gegen Versailles entstanden. Die besitzenden Kreise wehrten sich gegen den neuen Nationalismus, der sich mit der sozialistischen Revolution um der nationalen Freiheit willen verbünden wollte, nicht aus taktischen Gründen sondern grundsätzlich um durch die sozialistische Organisation der Nation die Widerstandsfähigkeit auch für die Zukunft aufs Höchste zu steigern. So musste das Unternehmertum - nach einem halben Versuch im Ruhrkampfe - sich der Herrschaft der Finanzbourgeoisie ergeben und den Gedanken des nationalen Widerstandes mit dem Einschwenken in die Locarnofront (Sicherheitspakt mit den Westmächten statt Bündnis mit der antiwestlichen Sowjetunion, d. Verf.) verraten. Nachdem die Sozialdemokratie ihre Büttelrolle erfüllt hat, hat das deutsche Unternehmertum die Rolle des Fronvogtes der Finanzbourgeoisie übernommen. Die bittere aber eindeutige Lehre ist, dass man als Nationalist Sozialist sein muss, denn der Sozialismus ist unser Schicksal."
Als Protegé der vor allem in Norddeutschland einflussreichen Strasser-Brüder machte Uhse Karriere und übernahm noch vor Jahresende die Chefredaktion des "Donauboten". In dieser Funktion arbeitete er eng mit Otto Strasser und Herbert Blank zusammen und wurde praktisch das dritte Sprachrohr der NS-Linken. In Süddeutschland dominierte jedoch der rechte Parteiflügel, und als Uhse im Frühjahr 1928 öffentlich gegen die Kandidatur des reaktionären Generals von Epp auf der NS-Liste protestierte, warf man ihn aus der Redaktion hinaus. Seiner Agitation für einen nationalen Sozialismus tat das keinerlei Abbruch. Im August 1928 veröffentlichte er wiederum im "Dritten Reich" den Aufsatz "Der proletarische Deutsche", der deutliche Einflüsse der SPD-Renegaten August Winnig und Ernst Niekisch verriet. Diese sahen in der Arbeiterschaft die zur Machtausübung im kommenden neuen Staat bestimmte Klasse, propagierten die Mobilisierung des bolschewistischen Chaos gegen den Westen und standen damit in deutlichem Gegensatz zum herkömmlichen Nationalismus oder zur nationalsozialistischen Volksgemeinschaft:
"Außerdem aber verrät die Ansicht, dass das sachliche und persönliche Bekenntnis zum deutschen Arbeitertum ein Verrat am ‚Ideale‘ der Volksgemeinschaft sei, eine solche Unkenntnis zum deutschen Proletariat, das - wie man doch wird zugeben müssen - ein sehr beachtenswerter Teil der deutschen Volksgemeinschaft ist, dass es besser ist für die Träger diese Ansicht, sie geben die Beschäftigung mit der Politik auf (...) Wer um die deutsche Freiheit sinnt, der kann am deutschen Proletarier nicht mit blinden Augen vorbeigehen. Er ist im Gegenteil gezwungen, seine Augen auf ihn zu richten und wenn sein Freiheitswille ehrlich ist, d.h. wenn es ihm gleichgültig und unbeachtenswert ist, unter welchen Formen und Fahnen die Freiheit gewonnen werden soll, wenn er also alle Vorurteile und Gedankenhemmnisse überkommener Begriffe wegwirft, dann wird er den deutschen Proletarier sehen, achten und lieben lernen. Zunächst ist es nötig, sich einmal des durchaus bürgerlichen Begriffes der ‚Klasse‘ zu entledigen. (...) Nicht Bürger, sondern wahrhaft marxistischer Bourgeois ist, wer den Unterschied zwischen den Begriffen der Klasse und der Schicht nicht zu sehen vermag. Der materialistische Begriff der Klasse erfasst ja nur einen Teil, nur eine Seite des deutschen Arbeitertums, während die Schicht das deutsche Arbeitertum auch in seinen immateriellen Kräften umfasst. Nicht dialektische Schablone, sondern lebendige Kraft, das ist der Unterschied zwischen Klasse und Schicht. Wer aber diesen Unterschied kennt - und der Weg zu dieser Erkenntnis ist offen für alle, die guten Willens sind - der wird nicht ‚hinabsinken in die Masse‘, sondern er wird die lebendige Kraft des deutschen Arbeitertums aufsuchen."
3. Die "Schleswig-Holsteinische Tageszeitung"
Im September 1928 empfahl Gregor Strasser seinen Protegé als politischen Redakteur für die geplante "Schleswig-Holsteinische Tageszeitung" mit Sitz in Itzehoe. An der Besprechung im preußischen Landtag nahmen u.a. Parteiprominente wie Erich Koch, Karl Kaufmann, Robert Ley und Wilhelm Kube teil. Strassers Vertrauen in diese Truppe wurde von Uhse mitnichten geteilt: "Selbstlose Vorkämpfer eines deutschen Sozialismus waren diese erfahrenen und gewiegten Draufgänger wohl nicht." Dennoch ergriff er die neue Gelegenheit am Schopfe, war ihm die sich steigernde Unruhe im Deutschland der späten 20er Jahre doch durchaus bewusst: "Wenn sie scharf hinhören, werden sie das Ticken der Würmer im Gebälk vernehmen. Sehen sie nachts über das Land, am Horizont stehen Flammen. Unruhe und Ungewissheit liegen in der schwülen Luft." Die SHTZ sollte die erste norddeutsche Tageszeitung der NSDAP werden und die bisher kümmerliche Propagandaarbeit in der Nordmark vorantreiben. Das Terrain war günstig: Bei den Reichstagswahlen von 1928 erzielte die NSDAP in Schleswig-Holstein überdurchschnittliche Ergebnisse, und Strasser witterte hier Möglichkeiten, seine Basis zu verbreitern.
Im Oktober attackierte Uhse in den strasseristischen "NS-Briefen" noch einmal den parteioffiziellen Antimarxismus, bevor er nach Itzehoe übersiedelte. Die Itzehoer Parteibasis bestand zumeist aus Landwirten und Handwerkern und forderte, die SHTZ dürfe nicht nur ein Parteiblatt, sondern auch und gerade ein Blatt für die unter der Agrarkrise mit Preisverfall, Verschuldung und steigenden Steuern leidenden Bauern sein. "Ein Blatt also gegen die Regierung, ein Blatt des Umsturzes, ein Blatt der Revolution." Zu dieser Zeit entwickelte sich gerade die militante Landvolkbewegung, die sich durch Widerstandsaktionen gegen Gerichtsvollzieher und Polizeibeamte hervortat. Uhse nahm prompt an einer Protestkundgebung des Landvolks teil und zeigte sich beeindruckt: "Diese Bauernhaufen hatten eine rücksichtslose Entschlossenheit in ihren Gesichtern gezeigt. Ihre Methoden waren überraschend in der Unmittelbarkeit, mit der sie sich gegen den Staat wandten. Es gab kein spießbürgerliches Für und Wider, keine biedere Vereinsmeierei, keine Satzungen und keine Statuten, Abzeichen und Fahnen, wie sie sonst bei allem, was in Deutschland geschah, das Wichtigste und Vordringlichste schienen. Hier war wirklich Bewegung, gefährdet allerdings durch ihre fehlende Reglementierung, durch die anarchischen Formen ihres Ablaufes und durch die drängende Ungeduld. Man musste einen Weg finden, mit der unbändig rebellierenden Kraft der Bauern zusammenzuarbeiten."
Am 3. Januar 1929 erschien die erste reguläre Ausgabe der SHTZ, wenn auch anfangs nur als Wochenblatt. Uhse legte sich prompt mit Gauleiter Hinrich Lohse an, als er den Abdruck eines gegen das Landvolk gerichteten Artikels verweigerte, und drohte sogar mit seinem Rücktritt als Chefredakteur. Er traf auch mit dem Landvolkführer Claus Heim zusammen, der die bedingungslose Unterordnung der NSDAP unter die schwarze Fahne der Bauernnot und der Rebellion verlangte. Der NS-Agitator erkannte, dass die Abneigung der Parteibürokratie gegen das Landvolk und gegen Heim vor allem auf die Angst des Funktionärs vor der Persönlichkeit zurückzuführen war. Obwohl er sich eher zu den Landvolkaktivisten wie Herbert Volck, Walther Muthmann oder Bruno von Salomon hingezogen fühlte, übernahm er bald die Führung der NSDAP-Ortsgruppe Itzehoe. Die bislang vor sich hindümpelnde Parteiarbeit belebte sich unter Uhses Leitung sprunghaft. In den alle 14 Tage abgehaltenen Versammlungen agitierte er unter den Bauern und den Absolventen paramilitärischer Kurse und wetterte gegen den platten Antisemitismus der reaktionären Parteigeneralstäbler in München. "Die Revolution von 1918 hat nur den alten Bau vernichtet. Wir sitzen ohne Dach über dem Kopf im Wetter. (...) Das deutsche Volk ist ausgebeutet und unterdrückt. Im deutschen Volk aber stehen auf der untersten Stufe Arbeiter und Bauern. Auf sie werden alle Lasten abgewälzt. Ihre Not ist die Not des ganzen Volkes, ihnen gebührt die Führung." Zu Uhses Entsetzen erkannte Hitler jedoch im Interview mit einer amerikanischen Zeitung und auch im "Völkischen Beobachter" die Auslandsverpflichtungen Deutschlands und damit die Versailler Kriegstribute an.
Die Antwort bestand in einem prononcierten Radikalismus, der auch vor Saalschlachten mit anderen rechtsgerichteten Organisationen nicht haltmachte. In Husum provozierte Uhse eine aufsehenerregende Saalschlacht auf einer Versammlung des Jungdeutschen Ordens: "Ihr werft uns Terror vor? Wenn wir nur so terrorisieren könnten, wie wir wollen! Aber der Tag kommt. Nicht mit der klügelnden Vernunft – mit der vom eisernen Willen geführten Faust werden Revolutionen gemacht. Wir glauben an die Gewalt, wir lieben die Gewalt und wir üben Gewalt." Die SA ließ sich das nicht zweimal sagen, geriet völlig außer Rand und Band und schlug alles kurz und klein. Hitlers Privatkanzlei schickte prompt einen Beschwerdebrief an Lohse und verwies auf das Legalitätsprinzip der NSDAP.
Geradezu traumatisch wirkte sich kurz danach ein schwerer Zusammenstoß mit den Kommunisten in Wöhrden bei Heide aus, bei dem die Nationalsozialisten Otto Streibel und Hermann Schmidt sowie der Kommunist Johannes Stürzebecher den Tod fanden. "Ich konnte diesen Toten nicht hassen und nicht die, die seine Gefährten gewesen waren in dieser blutigen Nacht...Dieser Stürzebecher da hatte ehrlich für seine Sache gekämpft und für die seiner Kameraden. (...) "Ich erschrak, da ich fühlte, wie ich die beiden Toten vor mir verleugnete und mein Herz sich vor dem dritten beugte, vor der anklagenden und hassenden Grimasse des Kommunisten, der dem Namen des alten Seeräubers und Rebellen, den er trug, mit seinem Tode Ehre gemacht hatte. Leben und Tod waren bei ihm eine gerade Linie und sinnvoll einfach durch ihr Dasein. Er war arm und unterdrückt und ausgebeutet, daran hatte ich nicht zu zweifeln, und er hatte – wer wollte das in Frage stellen? – gegen das ihm und Tausenden der Seinen aufgezwungene Geschick gekämpft...Die schmerzverzogenen Züge formten für mich das Gesicht seiner Kameraden, seiner Klasse, an deren Kraft ich doch glaubte. Ich hatte nicht kämpfen wollen gegen diese Klasse, das war doch der simple Sinn meines Handelns gewesen, darum auch war ich National-Sozialist geworden."
Nach dem Wöhrdener Zwischenfall befürchtete Gauleiter Lohse anfänglich ein Parteiverbot, fing sich jedoch rasch wieder in schlachtete den Tod der zwei SA-Männer propagandistisch aus. Zur Trauerfeier am 13. März 1929 stattete auch Hitler Schleswig-Holstein seinen ersten Besuch aus. Im Anschluss an die Beisetzung tauchte er in der Redaktion der SHTZ auf und verlieh seinem Unmut über Uhses radikalen Kurs Ausdruck. Zwar lese er das Blatt täglich, aber die Umstände würden zur Zurückhaltung mahnen. Der Kritisierte konterte, der Radikalismus des Landvolkes zwinge ihn zu einer anderen Sprache. Bald darauf wurde die SHTZ für 4 Wochen verboten, und im Zwangsurlaub freundete Uhse sich mit der Redaktionsmannschaft der Konkurrenzzeitung "Das Landvolk" um Bruno von Salomon an.
Am 23. Mai 1929 eröffnete die Landvolkbewegung ihren Terrorfeldzug gegen die Republik mit einem Bombenanschlag auf das Itzehoer Landratsamt. In weiten Teilen Schleswig-Holsteins übernahmen revolutionäre Bauernkomitees die faktische Kontrolle und errichteten eine Parallelverwaltung. Für Wirbel sorgte die Beteiligung des Uhse-Kumpans Hein Hansen am Sturm auf ein Gefängnis, wo ein in Beugehaft befindlicher Bauer befreit werden sollte. Die Systempresse konstruierte einen Zusammenhang zwischen der NSDAP und den Terroristen, und um ein etwaiges Parteiverbot abzuwenden, bot Hitler eine Belohnung von 10.000 Reichsmark für denjenigen, der die Urheber der Anschläge namhaft macht. Damit machte die NS-Parteiführung sich bei den Landvolkextremisten und anderen Nationalrevolutionären geradezu zum Gespött. Es bildete sich eine Art informeller Zirkel aus Uhse, den beiden Landvolkterroristen John Johnson und Bruno von Salomon sowie dem Kommunisten Kreuding. Lohse ermahnte Uhse nachdrücklich, die Finger von den Terroristen zu lassen.
4. Bruch mit Hitler
Wasser auf die Mühlen der NS-Linken war der am 7. Juni 1929 von der Pariser Sachverständigenkonferenz verabschiedete Young-Plan zur Regelung der Reparationsfrage. Das Reich sollte bis 1988 116 Milliarden Reichsmark Reparationen in mit fortschreitender wirtschaftlicher Erholung ansteigenden Raten zahlen.
"Die Staatsmänner, beunruhigt von den drohend sich erhebenden ersten Wellen der Krisenspringflut, übergaben die Sache, von der sie bisher den Völkern erzählt hatten, es handele sich um die heiligsten Güter der Nationen, um das eben, wofür Millionen Soldaten einen harten Tod gestorben waren, den Geschäftsleuten, den Händlern, den Industriellen und Bankiers. Die traten nun bescheiden als Sachverständige aus den Kulissen heraus, hinter denen sie bisher die Regie geführt hatten, und unternahmen es, auf einer Konferenz in Paris...mit dem Geschick der Völker zu spielen. Es war das erste Mal, dass sich Vertreter Deutschlands in ihrer eigenen Sache als gleichberechtigt an den Tisch setzen durften; es war kein Zufall, dass dies in einem Kreis geschah, von dem man sagen könnte, dass hier Kapitalisten unter sich seien." Hintergrund des Youngplans waren die horrenden Kriegsschulden Großbritanniens und Frankreichs bei den USA, die durch deutsche Reparationen beglichen werden sollten. "Die Bourgeoisie dieser Länder fand es recht und billig, die Rückzahlung der Milliardensummen, die aus den Feuerschlünden der Kanonen mordbringend in die Luft gespien worden waren, auf die deutsche Bourgeoisie abzuwälzen, als 'Wiedergutmachung' eben. Der sachliche Ton der Pariser Verhandlungen der in diesen Dingen wahrhaft Sachverständigen war nicht zum letzten durch das Bewusstsein bedingt, dass die Bourgeoisie Deutschlands sich keineswegs an diesen Lasten übernehmen, sondern sie ihrerseits wieder auf die Massen des deutschen Volkes abwälzen werde. Von der Tüchtigkeit und Zuverlässigkeit des deutschen Volkes, von seinem Fleiß und seiner Arbeitskraft wussten nicht nur die ausländischen, sondern auch die deutschen Vertreter auf der Konferenz mit jener schäbigen Anerkennung zu sprechen, mit der etwa jemand das Geschick und den Fleiß seines Haustieres rühmend erwähnt. Die 'deutschen Kapitalisten' – der Ausdruck wirkt störend, denn der Kapitalismus zieht es vor, sich als Zivilisation, als Grundlage moderner Kultur, als Wahrer christlicher Güter, als Prinzip des wohlerworbenen Eigentums bezeichnen zu lassen..."
Das deutsche Kapital überwand die Deklassierung der ersten Nachkriegsjahre, indem es über den Rücken der Volksmasse stieg. Der Young-Plan stellte ein ausgezeichnetes Agitationsobjekt gegen die Weimarer Republik dar. Nicht die Alliierten hatten den Krieg gewonnen, sondern das internationale Finanzkapital. "Die deutschen Staatsmänner repräsentierten nicht den Willen des Volkes, sondern die Mächte der Ausbeutung. Die deutschen Kapitalisten hatten Frieden geschlossen mit den Kapitalisten der Feindstaaten. Der Widerstand gegen den Young-Plan musste dem Inhalt nach proletarisch und in seinen Formen revolutionär sein." Eine kalte Dusche für die revolutionären Hoffnungen war jedoch Hitlers Pakt mit DNVP und Stahlhelm zum Volksbegehren gegen den Young-Plan. "Wir hatten uns bisher mit Leidenschaft und Heftigkeit von diesen Gruppen distanziert. Wir hatten sie tagtäglich als Vertreter der Reaktion in der Presse und in Versammlungen angeprangert, und es war ein Hauptstück unserer Propaganda gewesen, dass wir ihnen den ehrlichen nationalen Willen ebenso abgesprochen hatten wie den Sozialdemokraten und Kommunisten den Willen zum Sozialismus. Nun brach Hitler mit dieser Linie unserer Politik und schlug nach rechts hin eine Brücke, auf der Bein brechen musste, wer mit der sozialen Lüge darüberschreiten wollte. Wir hatten bisher die abgetakelten Generale, die breitbeinigen Wirtschaftsführer mit ätzendem Spott übergossen und mussten nun Hitler in der Gesellschaft dieses gepflegten Pöbels sehen."
Die Redaktion der SHTZ reagierte mit Entsetzen und Empörung: "Hitler hat uns verkauft!...Mit denen, die wir täglich leidenschaftlich anklagten, denn sie schändeten mit ihrer Profitgier den Namen der Nation, mit den krebsfüßigen Rückwärtslern voll ekelhaften Standesdünkels hatte Hitler die jungen Armeen der Braunhemden verkoppelt. Er hatte in der entscheidenden Stunde, da der Kampf außerhalb der Gesetze dieses Staates geführt werden musste, seinen Weg in die friedlichen Gehege der Weimarer Demokratie gerichtet, hatte in Gemeinschaft durchschauter Scharfmacher, denen die Nation niemals mehr gewesen war als ein Deckmantel für ihre Geschäfte, an das Volk eine Frage gestellt, die nicht ehrlich gemeint, die ein Betrug war. In dem Augenblick, da Gefährliches zu tun notwendig schien, spielte Hitler ein sicheres Spiel. Er verband sich mit der Reaktion und dem unzufriedenen Kapital." Gegen diese Linie wollte Uhse Widerstand leisten, blitzte allerdings bei Lohse ab und auch bei Otto Strasser, der das Volksbegehren als seinen eigenen Erfolg feierte. Vergeblich warnte der NS-Linksausleger seinen bisherigen Mentor, dass so nur die Münchener Richtung gestärkt werden würde.
Am 16. Juni 1929 marschierten in Itzehoe 1000 Mann SA auf. Hauptredner Joseph Goebbels traf anschließend mit Bodo Uhse zusammen und notierte im Tagebuch: „Ein junger, sehr klarer Kopf. Er weiß, was er will. Dazu ein konsequenter Sozialist.“ Auf dem Nürnberger Parteitag kam es zu einem Zusammenstoss Uhses mit Rosenberg, der eine Zusammenarbeit mit den unterdrückten Kolonialvölkern aus rassischen Gründen strikt ablehnte. Der Antiimperialismus laufe lediglich hinter der Linie der KPD her. Gegenstand der Kritik wurde auch das Eintreten der Parteilinken für ein Bündnis mit der Sowjetunion gegen den kapitalistischen Westen. Der Parteitag verwarf zudem eine stärkere Orientierung hin zu gewerkschaftlichen Fragen und hin zur Arbeiterpropaganda.
Als die Polizei sich an die Zerschlagung der Landvolkbewegung machte, wurde auch die Redaktion der SHTZ am 12. September 1929 verhaftet. In der U-Haft in Altona hatte der NS-Journalist Zeit zum Nachdenken: "Gewiss, man konnte Nationalsozialist sein, die Masse umschmeicheln und verachten, den Krieg vergotten und die Legalität beschwören, für die Auslese sich begeistern und selber die Stufen der Hierarchie hinaufklettern, den Arbeiter achten und ihm schlechtere Löhne zahlen, nach Freiheit rufen und die Unterdrückung vorbereiten. Man konnte Faschist sein, ich war es nicht, das begriff ich jetzt. Und jenes faschistische Jakobinertum, das die Gewaltsamkeit gutmütig handhaben, die Freiheit rationell anwenden und die Revolution konservativ durchführen wollte, es war zum Kotzen." Die letzten Sätze bezogen sich auf Otto Strasser und seine Parteigänger, bei denen die meisten auf halbem Weg zum Sozialismus stehen blieben. Derweil vermuteten Goebbels und Lohse in Berlin, Strasser habe die Querverbindungen zwischen Landvolk und NS-Linker zustande gebracht, und der schleswig-holsteinische Gauleiter war seitdem alles andere als gut auf Bodo Uhse zu sprechen.
Nach seiner Entlassung aus der U-Haft kandidierte Uhse bei den preußischen Kommunalwahlen und wurde im November 1929 in den Itzehoer Stadtrat gewählt. Hier konkurrierte die NS-Fraktion mit der KPD, weil Uhse sich verstärkt um die Interessen der Arbeitslosen und der Arbeiter bemühte. Er freundete sich mit dem Kommunisten Waldemar Vogeley an. Dieser sagt ihm auf den Kopf zu, er werde nicht lange bei den Nazis bleiben, erkannte aber Uhses aufrichtiges Wollen an. In der Tat zeigte der neu gewählte Stadtrat sich beunruhigt über gleichgültige Haltung der Parteiführung gegenüber den Bauern und der Not des Proletariats sowie über Hitlers Legalitätskurs. Wohl nicht zuletzt unter Vogeleys Einfluss wurde Uhse zum Besucher in der örtlichen Buchstelle der KPD, wo er sich gründlich mit den Werken Lenins vertraut machte. Ab Januar 1930 richtete die SHTZ die Beilage "Der Proletarier" ein und opponierte offen gegen Hitlers probürgerlichen Kurs.
Am 10. Februar 1930 organisierte die Itzehoer NSDAP eine Kundgebung zum Hungermarsch der kommunistischen Arbeitslosen ("Hungermarsch oder Freiheitskampf"), die zum Schlüsselerlebnis werden sollte. Zwar sprach mit Johannes Engel einer der Begründer der im Entstehen begriffenen Nationalsozialistischen Betriebszellen-Organisation, aber Uhse zeigte sich eher von den Ausführungen des kommunistischen Diskussionsredners Karl Olbrysch aus Hamburg beeindruckt: "Ist denn der Kampf für die Freiheit eure Sache? Wieso kämpft ihr und wieso für die Freiheit? Ihr schleicht euch über die Hintertreppen der ratlos gewordenen Demokratie...Auf der Parlamentstribüne nennt ihr euch Revolutionäre, vor dem Richterstuhl aber beschwört ihr die Legalität. Und es ist euch ernst damit, denn ihr seid die missratenen Kinder des Liberalismus und treibt dessen doppelte Moral demagogisch auf den Gipfel. Er sagt: Gleichheit, und lässt für den Profit von einem halben Tausend Mächtiger sechs Millionen ohne Arbeit in Elend und Hunger. Ihr seid nicht so duldsam, ihr ruft mit kühner Stirn zum Kampf gegen das Kapital, und mit gleicher Stimme lockt ihr, in eurer Volksgemeinschaft habe der Arbeiter wie der Trustbesitzer, der Handwerker wie der Sohn des davongelaufenen Verbrechers von Doorn seinen Platz. Nationaler Sozialismus, ruft ihr grimmig, aber eurer Sozialismus endet, bevor er anfängt, denn das Privateigentum erklärte Hitler für heilig...Wenn ihr auf die Demokratie schimpft, um sie zu betrügen – auf den Kapitalismus schimpft ihr, um ihm besser dienen zu können. Das nennt ihr Kampf, wenn ihr mit den mächtigsten Mächten im Land verbündet seid? Das nennt ihr Revolution, wenn ihr das Grundgesetz der alten Ordnung von vornherein heilig sprecht?... Ihr Narren, wir eifern nicht mit eurem Patriotismus. Aber wer ist denn Deutschland? Die Millionen Arbeiter, die Millionen kleiner Bauern! Wie kann Deutschland frei sein, wenn sie, sein Volk, unterdrückt sind? Die Freiheit der Nation liegt außerhalb der Kraft des Nationalsozialismus... Deutschland, das Deutschland der Arbeiter und Bauern, gilt uns viel. Darum wollen wir es davor bewahren, dass sich die Bourgeoisie, die zu feige war, achtundvierzig im Sturm sich zu erheben, als dieses Deutschland ihre Sache war, sich jetzt aus diesem Deutschland ihr Sterbebett macht."
Folgerichtig war Bodo Uhse auch in die Bestrebungen der Parteilinken verwickelt, eine Parteispaltung herbeizuführen und zusammen mit den norddeutschen NSDAP-Gliederungen, Nationalrevolutionären wie Ernst Niekisch und dem Landvolk eine neue nationalsozialistische Partei aufzubauen. Es ging um nichts weniger als um die Sprengung der NSDAP von innen heraus, um den Pressekonflikt zwischen Goebbels und dem Strasserschen Kampfverlag auszunutzen. Kurz vor dem Parteiaustritt der Revolutionären Nationalsozialisten um Otto Strasser suchte Uhse diesen in Berlin auf. Strasser wollte jedoch Hitler lediglich den "wahren Nationalsozialismus" streitig machen und keinesfalls auf Linkskurs gehen. Der Parteirebell warnte Strasser vergebens, man brauche eine andere Idee, um erfolgreich gegen Hitler anzutreten. Folgerichtig entwickelten sich die Revolutionären Nationalsozialisten zu einer lautstarken, aber unbedeutenden Splittergruppe, die für viele Renegaten lediglich als Durchlauferhitzer für den Wechsel zur KPD oder zu nationalbolschewistischen Gruppen fungierte. Bei seiner Rückkehr nach Itzehoe fand Uhse ein Ultimatum Lohses vor: Bedingungslose Unterordnung unter die Münchener Richtung oder Ende der Redaktionstätigkeit. Der Chefredakteur der SHTZ lehnte ab und wurde am 16. Juli 1930 mit Wirkung zum 1. August aus der NSDAP ausgeschlossen.
5. Hinwendung zum Kommunismus
Nach dem Hinauswurf aus SHTZ und NSDAP bewegte Bodo Uhse sich zunächst im Dunstkreis der Revolutionären Nationalsozialisten – vollständig wollte auch er nicht mit dem nationalen Sozialismus brechen. Am 15. August feierte er als neuer Chefredakteur der strasseristischen "NS-Briefe" den terroristischen Kampf der Landvolkbewegung. Seine rechte Hand war der Landvolkagitator Bruno von Salomon. Bereits im November reihte Uhse sich in den nationalbolschewistischen Widerstands-Kreis Ernst Niekischs ein, um gleichzeitig unter dem Pseudonym Christian Klee weiterhin die NS-Briefe herauszugeben. Für den "Widerstand" referierte Uhse auf zahlreichen Veranstaltungen über die Landvolkbewegung, wobei er vor allem unter den Überresten des Bundes Oberland regen Zuspruch fand.
Am 21. März 1931 fanden die Aktivitäten für Niekisch ein Ende. Uhse verließ Itzehoe, um antifaschistische Bauernkomitees im Raum München zu organisieren. Endgültig überzeugt wurde er durch Gespräche mit den Kommunisten Christian Heuck und Karl Olbrysch: "Während wir sprachen, begriff ich..., dass die Sehnsucht meines Lebens sich erfüllte, dass etwas Neues begann und alles Bisherige nur mit Platzpatronen geschossen war. Es wurde Ernst, da der Krampf eines Jahrzehnts sich löste und der Zwiespalt, der bisher mein Leben zerrissen hatte, jener Zwiespalt, entstanden aus dem Bewusstsein von der Kraft der Arbeiterklasse und aus dem ständigen Kampf mit ihr und gegen sie, dass dieser Zwiespalt sein Ende fand dadurch, dass ich mich der großen Kraft ergab...Die große Kraft, mit der ich mich herumgeschlagen hatte, seit wir ausmarschiert waren unter der Edelweißfahne, die ich hatte mit kleinen Mitteln betrügen wollen unter dem Hakenkreuz, sie beschenkte mich, da ich mich ihr unterwarf, in dieser Nacht mit dem kostbarsten Gut. Das Leben bekam wieder einen Sinn."
Bedeutsam dürfte sich hierbei ausgewirkt haben, dass die KPD seit ihrem Programm zur nationalen und sozialen Befreiung Deutschlands vom August 1930 eine ausgesprochen nationalistische Haltung einnahm – die sozialistische Volksrevolution der unterdrückten Klassen sollte der Auftakt zur nationalen Befreiung sein. Im Frühjahr 1931 veröffentlichte die KPD als weiteren Teil ihres nationalistischen Kurses das Bauernhilfsprogramm mit der Forderung nach Zerschlagung des Großgrundbesitzes, das nicht zuletzt von Uhse und Salomon auf einem antifaschistischen Bauernkongress in Fulda der Öffentlichkeit vorgestellt wurde. Die Motive der sogenannten Komiteebewegung legte Uhse unter seinem Pseudonym Christian Klee in der Erstlingsnummer des "Aufbruch" nahe. Mit diesem Blatt wollte die KPD unzufriedene Nationalsozialisten und frustrierte Nationalrevolutionäre für sich gewinnen. Zur Redaktionsmannschaft gehörten neben bekannten KPD-Funktionären prominente "Nationalkommunisten" wie Ludwig Renn und Alexander Graf Stenbock-Fermor oder NS-Renegaten wie Wilhelm Korn und Rudolf Rehm, denen sich bald auch der ehemalige Oberland-Führer Beppo Römer hinzugesellen sollte.
"Darum ist jetzt die Stunde da, in der die revolutionäre Arbeiterschaft die historische Wendung zum Bauern tun musste. Die Kommunisten haben durch die Proklamation ihres Bauernhilfsprogramms alle vor die Entscheidung gestellt...An diesem Bauernhilfsprogramm der Kommunisten scheiden sich die Wege. Die Kampfgenossin der verarmten Bauernmillionen, die revolutionäre Arbeiterschaft, wird für dieses Programm kämpfen. Wer gegen die schaffenden Bauern ist, wird dieses Programm ablehnen, und das tun sie alle, von SPD bis zu den Nazis! Die revolutionäre Arbeiterschaft aber wird dieses Programm ins Dorf hinaus tragen. Sie hat begriffen, dass es in der kommenden Volksrevolution keine Vendée, keinen weißen Ring um die Städte geben darf. Der Arbeiter geht zum Bauern, ihm geht es nicht um Taktik oder Stimmenfang, ihm geht es um die Revolution. Die Revolution ohne den Bauern ist nur eine halbe Revolution, und eine halbe Revolution ist keine Revolution. (...) Wir sagen dir, Bauer: Du und der Arbeiter in der Stadt, ihr leidet die gleiche Not. Euch richtet derselbe Ausbeuter zugrunde, gleichgültig ob es der jüdische Wucherer oder der christliche Regierungsmann, der semitische Bankier oder der arische Junker ist. Ihr habt beide den gleichen Todfeind: das kapitalistische System. Dieses System muss sterben, wenn das Volk leben will. Darum Bauer Ahoi! Her in die revolutionäre Front!"
In diesem Sinne setzte Uhse seine Agitation unter der Bauernschaft fort. Auf der Tagung der Widerstands-Bewegung auf der Leuchtenburg bei Jena gehörte er zu den Hauptreferenten, weitere Auftritte gab es auf Veranstaltungen der Gruppe Sozialrevolutionärer Nationalisten. Schon im Januar avancierte der Agitator zum Sekretär des Reichsbauernkomitees der KPD. Im Frühjahr verhinderte Uhse in dieser Funktion die Kandidatur des zu einer langjährigen Zuchthausstrafe verurteilten Landvolkführers Claus Heim bei den Reichspräsidentschaftswahlen – die Komiteebewegung und der "Aufbruch" unterstützten die Kandidatur des KPD-Vorsitzenden Ernst Thälmann gegen Hitler und Hindenburg. Der Winter des Jahres 1932 sah Uhse in der Rhön, wo er den aktiven Widerstand des Landproletariats gegen den lohndrückerischen Freiwilligen Arbeitsdienst organisierte.
Nach dem Reichstagsbrand musste Bodo Uhse untertauchen, um einer Verhaftung zu entgehen. Einer Mitte April unter dem Vorwand einer Mordverschwörung gegen Hitler eröffnete Razzia unter prominenten Nationalrevolutionären entging er nur knapp und setzte sich nach Paris ab, wo er Bruno von Salomon wiedertraf. Nach anfänglichem Misstrauen etablierte Uhse sich sehr schnell in der Exilpublizistik und in der Propagandaarbeit der KPD gegen das Dritte Reich. Von Paris aus unterhielt er Verbindungen zu der im Untergrund aktiven Widerstands-Bewegung Niekischs. 1934 erfolgte mit einem offenen Brief an den nunmehrigen Chefredakteur bei der SHTZ die literarische Kampfansage an den real existierenden Nationalsozialismus. "Heute sitzen Sie an meinem Platz. Ich beneide Sie nicht darum. Die Schweigsamkeit ist ja Ihr vornehmstes Amt geworden...Wo Sie nicht schweigen, da müssen Sie lügen...Es lässt sich auch vom Standpunkt der nationalen Politik nichts Schlimmeres denken, als Eure nationalsozialistische Politik." Das Regime antwortete mit der Ausbürgerung am 3. November 1934.
Etwa gleichzeitig konnte Uhse mit Hilfe des Journalisten und Publizisten Egon Erwin Kisch seine ersten eigenen schriftstellerischen Arbeiten veröffentlichen. Im Jahr 1935 erfolgte der Beitritt zur Exil-KPD, für die er im Juni neben Johannes R. Becher und Bertolt Brecht am Ersten Internationalen Schriftstellerkongress in Paris teilnahm. Nach dem Ausbruch des Spanischen Bürgerkrieges meldete der bei Oberland ausgebildete Uhse sich zu den Internationalen Brigaden. In Spanien kämpfte er in den Reihen des französischen Bataillons "Edgar André" und war ab April 1937 als Politkommissar im Stab der 17. Division unter Hans Kahle tätig. Gemeinsam mit Ludwig Renn betätigte Uhse sich in der Propaganda unter den Truppen der Legion Condor, so im Rundfunk: "Kameraden! Ihr seid die Träger einer ruhmreichen Tradition – so sagt man euch, und ihr seid es wirklich. Der deutsche Soldat hat sich zu allen Zeiten tapfer geschlagen. Meist für andere, häufig gegen den eigenen Bruder, nie für sich, nie für sein Glück, nie für das Wohl von Vater und Mutter, von Bruder und Schwester." Anfang 1938 kehrte Uhse erkrankt nach Frankreich zurück. Im April 1939 ging er in die USA, um dort unter den deutschen Emigranten für die KPD tätig zu werden. In gleicher Funktion siedelte Uhse 1940 nach Mexiko über, wo er zusammen mit Ludwig Renn für die Bewegung Freies Deutschland tätig war.
5. Kulturpolitik in der DDR
Im Sommer 1948 kehrte Bodo Uhse nach Paßschwierigkeiten in die Sowjetische Besatzungszone zurück. Hier wurde er im Januar 1949 Chefredakteur der kulturpolitischen Monatszeitschrift "Aufbau". Bis zur Einstellung des Blattes im Jahr 1958 war er in dieser Funktion maßgeblich an der Ausformung des kulturpolitischen Lebens der frühen DDR beteiligt. Von 1950 bis 1954 gab es zudem ein Intermezzo als Volkskammerabgeordneter der SED. Im Tagebuch notierte Uhse zu dieser Zeit: "Ja, ich glaube, man kann mit Worten etwas ausrichten. Man hat es immer gekonnt und kann es auch jetzt – auch jetzt noch. Nicht mit dem Wort allein – aber mit dem Wort, das wahr und richtig die Wirklichkeit erkennt und schon genug wiegt, um Teil der Wirklichkeit zu werden, und als solches die Menschen beeinflusst. Ich fühle, dass ich nun wieder da bin, wo ich angefangen habe, nämlich bei der beklemmenden Schwere meiner Aufgabe. Aber wie sie zu lösen ist, darüber bin ich mir nicht klargeworden."
Von 1950 bis 1952 bekleidete Uhse die Posten eines Präsidialrates des Deutschen Kulturbundes und des Vorsitzenden des DDR-Schriftstellerverbandes. Selbstverständlich widmete er sich auch der Agitation gegen die separatistische BRD und Adenauers rücksichtslose Westintegration: Schon Ende der 20er Jahre und in den frühen 30er Jahren hatte man in Deutschland die nationale Frage unter dem Schlagwort der bolschewistischen Gefahr im Sinne der Großbourgeoisie gelöst. Der Uhse-Biograph Klaus Walther formulierte treffend: "Als 1948 durch die separate Währungsreform und 1949 durch die Errichtung eines Westzonenstaates die staatliche Einheit Deutschlands zerstört wurde, hatte der Klassenkampf übernationale Dimensionen gewonnen; auf deutschem Boden wurde er als Kampf um die deutsche Einheit ausgetragen."
Der Kampf um die nationale Einheit Deutschlands und für den Frieden sollte Sache einer breiten Einheitsfront sein. Schon in der ersten von Uhse zu verantwortenden Nummer des "Aufbruch" kamen so unterschiedliche Autoren wie Arnold Zweig, Rudolf Alexander Schröder oder Wolfgang Weyrauch zu Wort. Neben der kulturpolitischen Arbeit, die stets mit aktuellen Fragen verknüpft war, widmete die Zeitschrift sich auch der Förderung von Nachwuchstalenten. "Wir müssen überall dort anknüpfen, wo sich die deutsche Literatur gegen die Misere erhob oder sie gar überwand, wo sie wahrhaft humanistische Züge trägt und also im tiefsten Sinne national und fortschrittlich ist." Im Wechselverhältnis mit der "Beachtung, Prüfung, Durchsicht und Wertung" des literarischen Erbes sollte eine neue deutsche Literatur geschaffen werden.
1956 avancierte Uhse zum Sekretär der Sektion Dichtkunst und Sprachpflege der Akademie der Künste. Er nahm für die DDR am PEN-Kongress in London und an der antiimperialistischen Schriftstellerkonferenz in Neu-Delhi teil. Nach einem Kuba-Aufenthalt im Jahr 1961 setzte eine schwere Erkrankung seinen Aktivitäten ein Ende - Bodo Uhse starb am 2. Juli 1963 in Berlin.
"Wenige Stunden vor seinem Tod saßen wir lange in seinem Arbeitszimmer über dem Strausberger Platz zusammen. Er war heiter, aufgeschlossen, wie ich ihn seit langem nicht gesehen hatte...Er sprach so leise, zögernd, tastend wie immer. Und wie immer spürte ich, was sich hinter dieser leisen Stimme verbarg: dass es in ihm brannte, in ihm schrie." (Kurt Stern)
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Pasteur Blanchard: Aux sources du national-populisme
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES 1998
AUX SOURCES DU NATIONAL POPULISME
Entretien avec le Pasteur Blanchard
Q.: Votre ouvrage sur le National Populisme doit paraitre prochainement aux Editions de l'Æncre, pourquoi avoir traité ce sujet?
R.: Simplement parce que j'appartiens au peuple, je suis sorti du rang du milieu ouvrier; et même si je n'en ai pas eu toujours conscience, il est une constante dans mon engagement —pour paraphraser de manière humorisitque Maurice Thorez: «être un fils du peuple», et dans mon cheminement intellectuel tout me ramenait à cela. Il me revient que ma fille ainée voulant, il y a quelques années, m'apporter la contradiction en me montrant combien mon cursus était peu conforme aux normes intellectuelles de l'idéologie dominante, et croyant me vexer, m'a dit: «Dans le fond, à l'origine, tu n'étais qu'un ouvrier»; je lui ai répondu que s'il est une chose dont je suis fier, c'est bien “d'être un ouvrier!”. Donc, le populisme est ma famille naturelle, j'y suis comme un poisson dans l'eau. Et bien qu'il m'ait fallu cheminer, lire des auteurs d'horizons différents, je suis arrivé à cette famille naturellement, trouvant là de manière autant intuitive qu'intellectuelle, ce qui est la cohérence profonde de ma personnalité.
C'est pour cette raison que j'ai éprouvé le besoin d'écrire cet ouvrage. Il n'est pas né d'hier. En réalité, à l'origine, ce n'étaient que des notes prises au cours de mon cheminement intellectuel, certaines remontant à plus de dix ans. Etant venu au nationalisme sans connaître les réseaux nationalistes, il a bien fallu, à coup de lectures, que je trouve ma voie; j'ai donc lu les auteurs principaux de tous les courants de pensée de notre famille, pour enfin rencontrer ceux avec qui j'étais totalement en phase. Cet ouvrage est donc une mise en forme déjà existants que je gardais par devers moi au fil des années.
Q.: Comment situez-vous ce que vous nommez le “national-populisme” par rapport aux autres courants de pensée de la famille nationale?
R.: Tout d'abord, ce qui définit le national-populisme est la séparation entre le spirituel et le temporel. On peut très bien être populiste et avoir des métaphysiques différentes. Il n'y a pas d'incompatibilité entre ce courant de pensée et des prises de positions païennes, chrétiennes, ou tout simplement agnostiques. Le populisme n'a pas la prétention d'apporter des réponses dans le champ du religieux; ça ne veut pas dire que, à titre personnel, on ne puisse pas avoir de conviction. Mais cette distinction, éminemment moderne, entre les deux champs, temporel et spirituel, est l'apanage du populiste, ce qui fait de lui un homme tolérant par nature, car il a l'intime conviction, comme aimait à dire Martin Luther, que, en ce qui concerne les convictions personnelles, “il n'est pas bon de forcer les consciences”.
Mais le populisme se différencie aussi par sa modernité. On peut, de manière un peu schématique, sans tenir compte des nuances, diviser notre famille en deux grands courants: l'un populiste, l'autre contre-révolutionnaire, ce dernier s'opposant à la modernité issue des immortels principes; il revêt un caractère théocratique et il a la prétention de changer les choses en y mettant, sur le plan social, une dimension spirituelle. Dans ses grandes lignes, ce courant se trouve dans la tradition catholique issue du Concile de Trente. N'oublions pas que celui-ci est une réaction contre le protestantisme et qu'il a durci, sur bien des points, la position des catholiques; ce qui le cractérise, c'est le refus du monde moderne. Le national-populisme, lui, accepte la modernité. Il pense que 1789 a été pernicieux et que les élites naturelles ont été broyées par une mécanique administrative; mais il a la conviction que, pour autant, comme le disait Maurice Barrès, on ne peut pas distraire cette période de l'histoire de notre pays, celle-ci est indivise. On peut dire que l'ancêtre du national -populisme est Bonaparte avec sa dimension plébeienne de l'appel au peuple et du césarisme. Dimension que, d'ailleurs, nous retrouverons au moment de l'affaire Boulanger avec cet ouvrage magistral de Maurice Barrès L'appel au soldat qui est une constante du national-populisme. Nous pouvons dire, à cet égard, que le Front National est l'héritier de ce courant et que, dans le fond, Jean-Marie Le Pen est un général Boulanger qui a réussi.
Q.: Mais ne pensez-vous pas que tout cela puisse conduire au totalitarisme, comme on a pu le voir entre les deux guerres, et que cette idéologie puisse être dangereuse?
R.: On peut considérer que tout système idéologique peut être dangereux, quel qu'il soit, et qu'il y a des travers repérables et condamnables dans tous les systèmes de pensée. On a l'habitude de mettre en avant le fascisme, le nazisme et le communisme, pour montrer les travers de ces idéologies. Il est vrai que, lorsque des idées s'incarnent, elle finissent par dévoyer la cause qu'elles croyaient servir. Et concernant ces trois idéologies, il y aurait des choses, comme partout, condamnables et même abominables. Je crois que toute honnêteté intellectuelle doit avoir le courage de dénoncer, quelles que soient ses convictions, ce qui n'est pas défendable. En tant que protestant, si je réprouve la Saint Barthélemy, je reconnais aussi que dans mon camp le massacre des Irlandais par Cromwell est inqualifiable. Pour autant, je crois qu'il faut se garder de toute caricature. Il n'y a pas, dans l'histoire, un bien absolu et un mal absolu, cette lecture manichéenne relève du conte de fée. Et je voudrais aussi souligner que le libéralisme, à ses origines, a des aspects pernicieux. Quand l'Armée du Salut a été créée à la fin du l9ème en Angleterre, c'était suite au capitalisme sauvage qui faisait vivre dans des quartiers insalubres, pires que ceux de Bombay ou de Calcutta, des personnes qui n'étaient pas des esclaves mais de bons anglais qui ne se trouvaient pas au fin fond du pays mais bien dans la ville de Londres.
Dans l'histoire, rien n'est tout blanc, rien n'est tout noir. Dénonçons ce qui doit être dénoncé et gardons-nous de tout manichéisme.
Q.: Comment s'intitulera votre livre, et quand paraitra-t-il?
R.: Aux sources du national-populisme, Maurice Barrès, Georges Sorel. Il sortira aux Editions de l'Æncre en septembre1998.
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samedi, 07 novembre 2009
Mei '68: de mythe, de realiteit, en de hormonen

Mei ’68: de mythe, de realiteit, en de hormonen
Lezing gegeven in het Vlaams Parlement, 17 mei 2008
Johan Sanctorum / http://www.visionair-belgie.be/
Van kostschoolopstand tot teletubbie-dictatuur
Ik dank de organisatoren van dit colloquium voor de uitnodiging. Een ook ter linkerzijde goed aangeschreven filosoof erbij halen, het blijft een risico, je weet nooit wat de man gaat vertellen, en het pleit alleszins voor de breeddenkendheid van de initiatiefnemers. En dat cordon sanitaire doorkruisen,- het blijft zoals U weet een geliefde hobby van me.
Ik zal het vandaag kort hebben over drie zaken die me nauw aan hart liggen,- en ik denk dat ik ook voor het grootste deel van deze achtbare vergadering mag spreken,- namelijk politiek, cultuur en sex.
Mei ’68, het betekent voor ieder van ons iets anders, in zoverre zelfs, dat ik me afvraag of het wel als algemeen begrip de geschiedenis zal halen. Ik was toen veertien en herinner me vaag zwart-wit TV beelden van Franse studenten die met straatkasseien gooiden, Sovjettanks in Praag, gitaarspelende hippies in Berkeley, anti-Viëtnambetogingen zowat overal, kabouters in Amsterdam, en niet te vergeten: de tirades tegen het establishment vanwege studentenleider Paul Goossens in Leuven, naderhand topfiguur van datzelfde politiek-cultureel establishment, en onlangs door heel de pers uitgewuifd als gepensioneerd Belga-journalist.
Die metamorfose van rebel tot boegbeeld van een ‘links-progressieve’ elite, daar heb ik het straks nog over. Maar wat hebben al deze evenementen, van Praag tot Berkeley, eigenlijk gemeen? Vrijwel niets. Behalve dat ze zich allemaal in het jaar 1968 afspeelden en schone plaatjes opleverden. Het zijn eigenlijk vooral de media, met het nieuwe medium televisie op kop, die er een verzamelnaam aan gegeven hebben, als hing er toen wereldwijd iets in de lucht. En het zijn ook de media die vandaag hun archieven oprakelen om dit non-event met een nostalgisch parfum te besproeien. De ’68-gebeurtenissen leverden immers de beste TV-beelden van die decade op, naast de Vietnam-oorlog natuurlijk. De mediatieke hype die zo gecreëerd werd, vanuit een aantal onsamenhangende gebeurtenissen, leidde tot een historische mythe waar de protagonisten zelf in gingen geloven. Tot op vandaag.
Er stelt zich dan ook een dringende behoefte aan een kritische lezing van de feiten en een demystificatie van het begrippenkader. Een poging dus tot echte historische kritiek die ballonnen doorprikt, mechanismen ontrafelt en processen reconstrueert. Uit die reconstructie blijkt namelijk vooral de inhoudelijke leegte, de gewichtloosheid en het Narcistisch-puberaal karakter van heel dat Franse mei-68 gebeuren. Het heeft een hypotheek heeft gelegd op het politiek bewustzijn van vandaag, ons taalgebruik, de beeldcultuur, de zogenaamde vrije sexuele moraal. Het dient overigens gezegd dat tenoren uit de Franse denkwereld, zoals de psychoanalyticus Jacques Lacan, ook al die ballon doorprikt hebben. In 1969 al sneerde hij zijn Maoistische studentenpubliek toe dat ze het woord 'revolutie' hebben uitgehold en dat ze binnenkort dat establishment, waartegen ze zo tekeer gingen, zouden overnemen. Profetische woorden...
Neem nu inderdaad het woord ‘revolutie’ zelf. Het is niet toevallig dat sinds die periode alles en iedereen zich ‘revolutionair’ is beginnen noemen,- de weergaloze inflatie van deze term weerspiegelt al het licht soortelijk gewicht van de politieke statements uit die tijd. Sinds het ultrafijn borsteltje dat Chanel bij de mascara ‘Chanel Inimitable’ meelevert, door de producent zelf als ‘revolutionair’ wordt bestempeld, is het misschien nuttig om dat woord eens tot zijn essentie te herleiden.

Historisch gezien zijn er namelijk maar twee vormen van authentieke revoltes, namelijk de hongeropstand en de vrijheidsbeweging. Op straat komen omdat Uw kinderen van de honger creperen, dàt is een goede reden om met kasseien te gooien. Ik ben in dat opzicht een Marxist. De tirannenmoord anderzijds, een instinctief-liberaal vrijheidsgebaar tegen de verknechting, is een tweede archetype van de revolte. De Franse revolutie van 1789 verenigde die twee, dat gaf haar het historisch momentum. Wat men achteraf ook moge beweren: de intellectuelen liepen er maar achter, en zaten op café toen de hongerige meute de Bastille bestormde.
Honger en/of verknechting. De maag en het hart. De probleempjes van de Grote Revolutie ontstaan echter daar, waar er eigenlijk geen objectieve voorwaarden voor de revolte aanwezig zijn, maar waar de jeugdige hormonen toch beginnen op te spelen. Op dat moment ontstaat er een soort verkleutering, tot op een niveau van kinderachtige charades, collectieve verbrandingssessies van testosteron, Narcistische opflakkeringen van gelegenheidsredenaars, allerlei ludieke acties rond ‘emancipatie’-issues, kat-en-muisspelletjes met de politie om toch maar de schijn van een repressief klimaat te creëren in de hoop dat er eentje zijn matrak bovenhaalt en er een TV-camera in de buurt is, kortom: er wordt een virtuele realiteit gecreëerd die, in het geval van mei-68, zichzelf opblies tot ‘een historisch moment’. En omdat er geen honger in het spel was, en eigenlijk ook geen echte repressie, althans niet in het 'revolutionaire' epicentrum Parijs, bedacht men ter plekke dan maar een derde soort revolte die hier van toepassing leek, nl. de 'culturele revolutie'. Een lege doos, zo blijkt nu.
Want uit heel de reconstructie van het discours uit die dagen blijkt, hoe de jongens en meisjes wanhopig zochten naar een politiek-culturele legitimatie voor hun hormonenopstoot. We weten ondertussen allemaal hoe het is begonnen: in Nanterre wilden de mannelijke kotstudenten op de meisjesslaapkamers geraken. Een kostschoolopstand, als het ware. Pas toen dat niet lukte, werden de grote retoriek en het revolutionaire programma bovengehaald. Het staat inderdaad nogal idioot om het aftreden van een regering te eisen omwille van vlinders in de buik. Men afficheerde het dus als een ‘culturele revolutie’, een algemene Umwertung aller Werte, een zaak van vrouwenemancipatie, sexuele vrijheid, artistieke vrijheid, om tenslotte zelfs de arbeiders in de Renault-fabrieken wijs te maken dat dit hun strijd was
De ironie van de geschiedenis is dus, dat er rond 1968 een aantal min of meer authentieke verzetsbewegingen het nieuws haalden (de Praagse Lente, de anti-Vietnamdemonstraties, Leuven-Vlaams…), maar dat het meest gemediatiseerde feit, datgene waarvan de beelden heel de wereld rondgingen, nl. de Parijse studentenopstand, weinig meer was dan een hormonaal aangestuurd straattheater.
Los van bv. de gebeurtenissen in Praag en het protest tegen de Vietnamoorlog, vormden de Parijse studentenrellen van mei ’68 in essentie weinig meer dan een ludieke vadermoord, een uit de hand gelopen testosteron-opstoot vanwege een zorgeloze jeugd met tijd teveel. De zoektocht naar een politieke legitimatie voor deze quasi-revolutie eindigde in een volstrekt leeghoofdig ‘progressisime’, dat op zijn beurt de politiek-correcte ideeëndictatuur van de jaren ’90 zou voortbrengen. Het handhaven van deze bewustzijnsvernauwing was dé voorwaarde voor de ’68-generatie om haar politieke en culturele machtsgreep te bestendigen.
Ik denk dat de leugen, die toen al in het verhaal zat, zijn eigen leven is gaan leiden en zichzelf heeft versterkt, doorheen de tijd, tot diep in de jaren ’90-, met als apotheose bij ons het aantreden van 'paars'.
Want het tweede groot probleem dat zich stelde voor de protagonisten van die onnavolgbare Chanel-generatie, na de politieke legitimatie van de testosteronrevolte, is het moment waarop ze als veertigers en vijftigers zelf aan de macht kwamen. Toen moesten de Vandenbrouckes, de Van de Lanottes en de Van den Bossches, die in hun jonge tijd nog met het rode boekje van Mao hadden gezwaaid en nu hun ‘lange mars door de instellingen’ beloond zagen met een buikje, een ministerpost, en tenslotte een functie van gedelegeerd bestuurder bij BIAC, beletten dat hun lege doos werd opengedaan,- de doos van een tot jeugdsentiment verworden kostschoolopstand. Hoe konden de contestanten van weleer beletten dat ze zelf gecontesteerd werden?
Daartoe moest het huidige regime van de oud-'68-ers bijna voorgesteld worden als een verwezenlijkte utopie, de beste der mogelijke werelden waar zij zogezegd voor op de barrikaden hadden gestaan, en die zij nu ook rechtmatig mochten besturen. Deze buikjesdans van oudstrijders heeft een specifiek en subtiel soort onverdraagzaamheid opgeleverd. Het is namelijk in deze teletubbie-sfeer van verplichte blijdschap en het eeuwigdurende carnaval dat het ‘politiek-correcte’ discours is ontstaan: een complex van retorische en semantische kunstgrepen, censuur en zelfcensuur, waardoor vrijheid en bevoogding elkaar perfect overlappen. Het resultaat was een soort mainstream-progressiviteit die vooral gericht was op het onderdrukken van tegenstromen, het afstoppen van externe vraagstelling (‘waar zij we eigenlijk mee bezig?’) en het ontmoedigen van historische kritiek.
De eerste leugen (de mythe van de 'culturele revolutie') werd dus toegedekt met een tweede leugen (de demonisering van elke fundamentele dissidentie). Om te beletten dat er fundamentele vragen zouden gesteld worden rond die speeltuinrevolutie en haar politieke travestie, moest de euforische logica van de bezette meisjesslaapzaal ook in alle geledingen van de maatschappij doorgetrokken worden. Alles wat daarbuiten viel, was fout, politiek-incorrect, ondemocratisch, rechts, extreemrechts, racistisch, sexistisch, fascistisch enz.
Mei '68 heeft ons niet bevrijd, het heeft alleen de vrijheid tot sloganeske sluier verheven, die breed gedrapeerd is over de repressiemechanismen van de postmoderne netwerkstaat, de fluwelen logedictatuur, de democratie van de kiesdrempels, de cordons sanitaires en de politieke processen.
Mei '68 riep zichzelf eerst uit tot het jaar nul, het begin van een nieuwe tijdrekening, maar stremde gaandeweg tot het einde van de geschiedenis, het jaar 1984 van Big Brother. Binnen dit postmodern paradigma wordt elke kritiek zinloos en zijn de machthebbers tegelijk de behoeders van de vrijemeningsuiting via hun ingenieuze newspeak. Paars heeft dat procédé van de taalmanipulatie en de bewustzijnsvernauwing tot een kunst verheven. Zo ontstond er rond deze machtsgeneratie van de 68-ers een aureool van immuniteit. In het zelfverklaarde paradijs is er geen ruimte voor dissidentie, vermits het per definitie perfect is. Chanel inimitable, weigert alle namaak. De enige gepaste regeringsvorm van Utopia is die van de fluwelen dictatuur. En daar zitten we middenin. Nog altijd. Al zijn er tekenen dat er sleet op begint te komen.
'De verbeelding aan de macht': apotheose van het cultureel establishment
Men zou nu verwachten dat de culturele elite,- kunstenaars, academici, media- die manipulatie doorziet en er zich tegen afzet. Niets is minder waar. Ze is zelf meegestapt in de euforische parade van de verwezenlijkte utopie, en heeft het motto 'de verbeelding aan de macht' op een bizarre wijze gerealiseerd, nl. als een feest van de perceptie, een stroom van simulacres,- zoals de Franse filosoof Baudrillard ze karakteriseert. Schaduwvoorstellingen die ons het zicht op de realiteit ontnemen en dus ook de externe kritiek onmogelijk maken, hetgeen hun systeembevestigend karakter verraadt.
Cultuur, althans de officiële, geaccrediteerde versie, verwerd tot het hilarische trompetgeschal rond de tribune van de poco-dictatuur. De opdracht was en is om te verwarren, mist te spuiten. De ontzettende logorrhee en beeldenstroom die elke dag op ons afkomt, oversatureert ons bevattingsvermogen compleet, maakt ons murw en mentaal weerloos. Ook dat is een erfenis van het ’68-theater en de machtsgreep van deze ludieke generatie. Alles is scherts, ironie, spel, franje. Het politiek bedrijf, de cultuurindustrie en de media convergeren rond deze mateloze cultus van de schijn, het beeld en de perceptie, in een spektakelmaatschappij waarin je alleen bestaat als je op TV komt. En ook dat heeft hoger vernoemde Jacques Lacan achteraf scherp ontmaskerd,- ik citeer: "Cultuur is verworden tot een machinerie van hysterische waarheden die elkaar opvolgen als modieuze gadgets zonder samenhang en zonder schaamte."
De aan hysterie grenzende libertaire roes van na ‘68, die ons figuren als Jan Hoet en Hugo Claus opleverde, heeft de modale burger niet kritischer of mondiger gemaakt. Integendeel, de veelbezongen artistieke vrijheid beperkte zich vooral tot de zelfverheerlijking van een nieuwe, mediagestuurde elite van trendintellectuelen die zich klakkeloos associeerden met de paarse euforie en haar perceptielogica.
Daarbij hanteerden ze het ‘surrealistische’ Belgische model als een spiegelbeeld van hun eigen flou artistique. Omgekeerd blijft het neo-unitaire regime deze elegante cultuurclowns koesteren, als apologeten van een complexe, ondoorzichtige staatsbureaucratie.
In het zog van Coco Chanel definieert elke kunstenaar zich als een 'rebel', terwijl hij eigenlijk de intransparantie van de postmoderne macht reflecteert. Zo’n half jaar geleden sloeg de Amerikaanse installatiekunstenaar Paul McCarthy (geboren in 1945, afgestudeerd in 1969, de data spreken voor zich) letterlijk en figuurlijk een gat in het SMAK-museum. Met een ketchupfles van 18 meter hoog, reusachtige hopen stront, een vastgebonden varken, en nog wat toestanden waarvoor muren moesten gesloopt worden, kwam de SMAK-directie uit op een deficit van een half miljoen Euro gemeenschapsgeld. Het lijkt populistisch en laag-bij-de-gronds om dat deficit te koppelen aan een waardeoordeel over die mijnheer McCarthy, maar er schuilt wel degelijk een logica in: achter de ludieke absurditeit van dit soort happenings zit een enorme kunstmarkt die in een inhoudloze vernieuwingsspiraal zit en dus constant moet choqueren om de aandacht te trekken. Alles moet duur zijn, groot, opgeblazen, excentriek, en al het nieuwe wordt even snel weer vervangen door het nieuwste. Als toeschouwers en participanten worden wij constant meegelokt in dit opbod. Iedereen moet blij zijn, enthoesiast, vooruitkijkend, positief, en vooral niet ‘verzuurd’. Zo convergeerde het exces van de kunstmarkt en de beeldcultuur met de ambities van de oud-'68-generatie om elke politieke en sociale dissidentie preventief af te blokken.
Er is binnen deze hype-industrie immers geen enkele ruimte voor bezinning, zelfbevraging of zelfs maar kritisch voorbehoud. De post-68-kunst, die ons zogezegd bevrijd heeft, produceert de ene fata morgana na de andere. Ze wordt gecreëerd door vedette-clowns die via een absurdistisch-ludieke beeldtaal ons oordeelsvermogen buitenspel zetten en ethische reflexen bij voorbaat ontzenuwen. Kunst zou volgens hen continu langs de kassa kunnen passeren zonder zich ergens voor te moeten verantwoorden. Ik ben niet de enige die wijst op die quasi-subversiviteit van de hedendaagse post-68-kunst en zijn ‘revolutionair’ marktlabel. Ook critici als Marc Holthof komen tot die analyse. Ik citeer even een essay van hem: “Sinds marketing de kunst in haar macht heeft moet ze constant revolteren. Maar niet tegen de maatschappelijke orde, wel tegen zichzelf, tegen de concurrerende kunststromingen. De kunst speelt een permanente thuiswedstrijd. Daar gaat alle energie naar, met als resultaat dat de maatschappelijke relevantie vaak nihil is.”
Nihil, dat is dus de balans van het Jan Hoet-tijdperk. Groteske grappen die ons moeten verzoenen met het ethisch deficit, de intellectuele verwarring en de politieke intransparantie. Macht is vandaag gebaseerd op vaagheid en gecodeerde informatie. De cultus van de artistieke vrijheid loopt zo op een bizarre wijze parallel met een publiek afstompingsproces, een gewenning aan het onredelijke en absurde. De gewone man haalt finaal zijn schouders op en leest Dag Allemaal. Hij heeft afgehaakt, zowel wat de politiek betreft als wat het kunstgebeuren aangaat. Opdracht vervuld, de narren mogen andermaal langs de kassa passeren.
Zo komt het dat vrijwel alle kunstenaars hier te lande uitbundig het paarse regime bejubeld hebben,- de meest ‘progressieve’ voorop: de symbiose tussen een politieke cultuur van de perceptie en de gebakken lucht, en een op deze thermieken zwevende, vrolijke cultuurindustrie, was hier volmaakt. Politiek en cultuur, als twee podia van een surrealistische totaalhappening. En zo komt het ook dat haast heel dat cultureel establishment het 'Belgische model' vreugdevol omarmde: Ik hou van U, je ‘taime tu sais. De post-68-culturo’s houden van België, zoals het gefederaliseerde Belgische kluwen van 1970 zelf baadt in een halfslachtig flou artistique.

Het is tenslotte evenmin een toeval dat de diepbetreurde Vlaamse schrijver Hugo Claus en aanvoerder van de artistieke ’68-generatie, een intimus was van Guy Verhofstadt, de man die de geschiedenis zal ingaan als diegene die realiteit met perceptie compleet kon verwisselen.
Vraag is hier: Wie houdt van wie? Wie houdt wie recht?
Van ‘sexuele revolutie’ tot pornificatie: sex als drug en marketing-tool
In het waanidee van de ‘culturele revolutie’ speelt de zgn. ‘sexuele revolutie’ een centrale rol. En inderdaad, de borsten en billen zijn alomtegenwoordig, je kan geen TV meer aanzetten of een tijdschrift ter hand nemen, of het gaat over sex. Meisjes van elf lopen met een T-shirt rond, waarop te lezen staat ‘fuck me’. Jongens van twaalf die ‘het’ nog niet gedaan hebben, zijn achterlijke nerds. Maar achter deze zogenaamde emancipatie blijkt weer een verhaal te schuilen van maatschappelijk-politieke recuperatie en ook weer brutale marketingstrategie.
Want hoe kan men het plebs beter aan de leiband houden, dan zijn energie helemaal te laten omzetten in sex, voor, tijdens en na het eten? Naarmate het sperma van de muren druipt en de publieke sfeer doordrenkt wordt van erotische metaforen en verborgen of open verleiders, verengt zich weerom dat bewustzijn tot een zelfverslavend spel van prikkels en reflexen. Er ontstaat een sfeer van constante hitserigheid die perfect het hysterisch consumentisme imiteert, en die door Herbert Marcuse –nochtans weer een ‘68er…- werd omschreven als ‘repressieve desublimatie’. Simpel gezegd: ‘Laat ze neuken, dan denken ze niet na.’ In deze overprikkelde samenleving is het weerom heel moeilijk om afstand te bewaren,- het is een cultuur van de onvervulbare begeerte die alle menselijke energie afleidt naar een fixatie op lustbeleving. Niet dat U alles zomaar krijgt wat wordt geafficheerd, het gaat evenzeer om illusie en ersatz-bevrediging. De knappe, halfnaakte blondine op de motorkap zal de Uwe niet zijn, alleen haar simulacre, haar afdruk wordt meegeleverd als U de auto koopt. De mysterieuze Mister Dash die de vrouwen komt verrassen temidden van hun wasgoed is even reëel als Sinterklaas, maar als erotische passé-partout en universele verleider werkt hij perfect: droom zacht, dames, zet U op de wasmachine en laat U eens goed gaan.
Onvermijdelijk lopen ook hier de massamedia mee als animatoren van het pretpark. Tegenwoordig maakt het dagblad De Standaard reklame met soft-pornoboekjes die U voor vijf Euro plus een uitgeknipte bon kan gaan afhalen bij de krantenboer. Het is echt zielig om zien,- op de redactie van die kwaliteitskrant heerst de opgewonden sfeer van collegejongens die een bordeelvitrine passeren. De lezer wordt, in zijn zoektocht naar informatie, afgeleid naar een rossig amalgaam van erotiek, fictie, voyeuristische pretlectuur. Heel subtiel draait de journalistieke missie, via een verkeerd begrepen ‘progressiviteit’, om tot een verpulping in dienst van de verkoopcijfers, maar tegelijk ook met het oogmerk om het publiek te gewennen aan een gemakkelijke, lichtvoetige en in se onbenullige vorm van infotainment.
De puberale erotomanie van mei ’68 is mettertijd weggegleden in een universele pornificatie, die de eros banaliseert, die intellectueel afstompt, en die door de moderne marketing helemaal is geïnstrumenteerd. De alomtegenwoordigheid van sex, als drug en marketing-tool, is misschien wel het meest hallucinante teken van een emancipatie-idee die in haar tegendeel is omgeslagen. Ze belemmert een echte sexuele bevrijding, in het kader van een menselijke ontplooiing op fysisch, psychisch en sociaal vlak.
Zo zijn we weer bij de kern van de zaak: de zgn. ‘sexuele vrijheid’ is vandaag vooral een marketeerskwestie. De strategie om kinderen zo snel mogelijk tot pubers op te fokken, heeft uiteraard niets met emancipatie te maken, maar alles met de mogelijkheid om hen zo snel mogelijk beschikbaar te maken voor de commerciële tienercultuur, de markt van GSM’s, I-pods, tot en met, jawel, de revolutionaire mascara van Chanel. Komt daarbij dat pubers veel gemakkelijker om de tuin te leiden zijn dan kinderen, net vanwege hun labiele hormonale huishouding. Borstjes en puistjes doen de kassa's rinkelen! De alomtegenwoordige opdringerigheid van sexuele signalen, wat men vandaag aanduidt als de ‘pornificatie van de publieke ruimte’, is misschien wel het meest hallucinante teken van een emancipatie-idee die in haar tegendeel is omgeslagen. Wat Marx ooit over godsdienst zei, als ‘opium van het volk’, geldt vandaag voor het universele erotisme. Het heeft de verveling, de afstomping en de totale deconcentratie van het onderbroekenuniversum voortgebracht. Ik citeer nog maar eens Baudrillard: "Alles kan en alles mag, alles is bevrijd en er zijn geen taboes meer, maar in de plaats van een opwindend feest levert dit een geweldig gevoel van leegte op. We leven in de hel van hetzelfde".
Terug dan maar naar het preutse Victorianisme? Neen, allerminst. Sexuele ontplooiing blijft voor mij als een rode draad lopen doorheen het menselijke rijpingsproces. Dat zit echter niet in het puberaal-erotomane register van mei ’68 en zijn depolitiserende, hektische, escapistische onderstroom. Wel in een zoektocht naar zelfverwezenlijking op fysisch, psychisch en sociaal vlak. Dat is een verhaal van emotionele intelligentie, empathie, gevoel voor intimiteit, keuzebekwaamheid, maturiteit.
Om maar te zeggen, beste vrienden: de politicus die tepels laat overplakken, heeft een probleem. We hebben als zuigeling haast allemaal aan die tepels gehangen, en ik kan me echt geen kind of tiener voorstellen die een trauma overhoudt aan een afbeelding ervan. De krampachtige censuur van wat menselijk en normaal is, is zo aberant als de pornificatie zelf. Het zijn twee kanten van één medaille. Onlangs werd in de VS een kleuter van vier veroordeeld omdat het kind zijn juf knuffelde. Men vraagt zich af wat voor soort rechters tot dit soort uitspraken komt. En in wat voor een klimaat van sexuele overspannenheid de politici leven die deze perverte magistraten benoemen. Het was evenzeer onzin om de expositie van L.P. Boon's fameuze Feminatheek als een uiting van zedenverwildering af te schilderen en te verbieden. Het eigenlijke schandaal bestond erin dat heel het gedoe inhoudelijk naast de kwestie was, ons niets wijzer maakte over het werk van Boon, en vooral diende als publiekstrekker in een door de Vlaamse boekenindustrie gesponsorde reklamestunt. Kunst, sex en marketing dus, andermaal.
Ach, dat verhaal van normen en waarden. We mogen onze kritiek op de fluwelen dictatuur van de vrijheid-blijheid-generatie niet zelf laten scleroseren tot een verhaal van ouderwets conformisme en nieuwe preutsheid,- een gemopper van opa’s die beweren dat alles vroeger veel beter was. Ook het christendom, inclusief zijn lichaamsvijandig puritanisme, is ons als staatsgodsdienst opgedrongen, omstreeks het jaar 800 van onze tijdrekening. De ‘normen en waarden’ die daarbij tot een traditie gingen behoren, zijn bij ons vastgelopen in het Vlaamse parochialisme, de verstikkende pastoorsdictatuur en de betuttelende tsjevenmoraal. Inclusief zwarte plakband op tepels. Maar Mei '68 heeft ons van die benauwdheid niet verlost. Ze heeft nieuwe cirkulaire processen gecreëerd van de obsessie en de verslaving.
Ons radicaal perspectief is niet het tijdperk van vóór het IIde Vaticaans Concilie, maar een tijdperk achter de horizon, waarin zingeving en spiritualiteit –om eens die belegen term te gebruiken- een nieuwe invulling krijgen. Vrijheid en autonomie, gekoppeld aan bewustzijn en zin voor het Grote Geheel. Onvermijdelijk zal daarin bv. ook het ecologisch thema sterk op de voorgrond komen. Voor mij moet de normen-en-waarden-discussie gepaard gaan met een nieuwe vraagstelling rond de emotionele en instinctieve uitbouw van het individu en de groep. We zijn natuurwezens met een libido en een doodsangst, en tegelijk zijn we cultuurwezens, met een tijdsbesef, een geschiedenis, en een besef dat ons verstand eindig is, dat er wellicht altijd iets achter de horizon zal blijven. Dat spanningsveld tussen natuur en cultuur moet helemaal van vooraf aan geëxploreerd worden,- en, sorry vrienden, van de begrippen ‘staat’, ‘elite’, ‘politieke macht’, ‘geïnstitutionaliseerde godsdienst’, en dies meer zal, vrees ik, eens we daaraan toe gekomen zijn, niet veel meer overschieten.
Besluit: uitzicht op een contre-démocratie?
Welke conclusie moeten we nu trekken uit dit verhaal vol charades, gezichtsbedrog en bewustzijnsvernauwing,- het verhaal van een revolutie die er geen is, en een vrijheidsbeweging die meer onvrijheid heeft voortgebracht dan welke kerk of secte ook?
Ik denk dat de revolte, of als U wil de contra-revolte, meer dan ooit aan de orde is. Maar hoe contesteren in een universum waar alles mag en alles kan? De voetafdruk van de mei-68-generatie is, via haar lange mars door de instellingen, zo groot en desastreus geworden op die instellingen,- ze heeft m.a.w. het politiek-cultureel systeem zodanig naar haar hand gezet, dat men voorlopig binnen dat systeem nog maar bitter weinig aan politiek activisme kan doen. De uitgang en de diaspora wenken, naar het internet, de zgn. burgerjournalistiek, de civil society, de buitenparlementaire oppositie, de tegencultuur. Het is een moeilijk maar louterend proces.
Het zgn. apolitisme van de burger en heel de anti-establishment-onderstroom wijzen hier de weg. Het is de weg van de contre-démocratie, (Pierre Rosanvallon), de informele en onrecupereerbare waakzaamheidsattitude die men vooral buiten het parlementair halfrond bespeurt, buiten de praatbarak, buiten de instellingen, buiten de klassieke media.
De verzieking van het Belgische regime, waar de oudgedienden van Mei ’68 zich haast paniekerig aan vastklampen, versterkt nog deze maatschappelijke onderstroom van het grote ongenoegen. En het zal sommigen in deze zaal bizar in de oren klinken, maar misschien zijn de gedoodverfde protestpartijen zoals het Vlaams Belang, Lijst Dedecker, Pim Fortuyn, maar ook de nieuw-linkse S.P. van Marijnissen in Nederland, zelfs Obama in de VS, de laatste partijpolitieke verschijningsvormen van het anti-establishment-gevoel, alvorens dat gevoel opgaat in een globale toestand van burgerlijke ongehoorzaamheid, die kan leiden tot meer politiek bewustzijn, meer mondigheid, meer echte ‘vrijheid’. Verrassend genoeg ligt de échte, late erfenis van mei ’68 dan misschien wel eerder bij vernoemde protestpartijen, in de rand van de parlementair-democratische arena opererend, dan bij de huidige 'progressieve' elites die tot nader order het establishment uitmaken...
Ik dank U allen voor Uw aandacht.
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L.-F. Céline et Jacques Doriot

L.-F. Céline et Jacques Doriot
Textes parus dans "Le Bulletin célinien", n°297, mai 2008
Durant l’Occupation, deux grands partis étaient en concurrence : le PPF de Jacques Doriot et le RNP de Marcel Déat. Les collaborationnistes, eux, se partageaient tout naturellement en deux camps : ainsi, au sein de la rédaction de l’hebdomadaire Je suis partout, Lucien Rebatet était un partisan de Déat alors que Pierre-Antoine Cousteau, lui, soutenait Doriot. La parution d’une monographie consacrée au chef du PPF nous donne l’occasion de revenir sur les relations entre lui et Céline.
Une chose est certaine : même s’il lui reconnaissait du talent, Céline estimait Marcel Déat suspect en raison de ses anciennes fréquentations maçonniques et de ses liens étroits avec le parlementarisme de la IIIe République.
Ainsi, dans sa correspondance à Lucien Combelle, Céline n’a que sarcasmes pour le chef du Rassemblement National Populaire ¹. Avant-guerre, Céline ne réservait d’ailleurs pas un sort plus enviable à Doriot, le raillant comme tous ceux (La Rocque, Maurras,…) qu’il qualifiait ironiquement de « redresseurs nationaux » ou de « simples divertisseurs » : « Alors avec quoi il va l’abattre Hitler, Doriot ? (…) Il veut écraser Staline en même temps ? Brave petit gars ! Pourquoi pas ? D’une pierre deux coups !... (…) Nous sommes en pleine loufoquerie » ². Céline, chantre d’une alliance continentale censée prévenir une guerre fratricide, voyait naturellement d’un mauvais œil les menées qu’il estimait bellicistes.
Mais, sous l’Occupation, son appréciation de Doriot évolue, celui-ci ayant adopté le tournant radical que l’on sait après la rupture du pacte germano-soviétique. Le chef du PPF lui-même s’engage en septembre 1941 dans la Légion des Volontaires Français contre le bolchevisme qui vient de se créer. Dans un entretien que Céline accorde peu de temps après à l’hebdomadaire doriotiste L’Émancipation nationale, il déclare : « Doriot s’est comporté comme il a toujours fait. C’est un homme. Eh oui, il n’y a rien à dire. Il faut travailler, militer avec Doriot. (…) Chacun de notre côté, il faut accomplir ce que nous pourrons. Cette légion si calomniée, si critiquée, c’est la preuve de la vie. J’aurais aimé partir avec Doriot là-bas, mais je suis plutôt un homme de mer, un Breton. Ça m’aurait plu d’aller sur un bateau, m’expliquer avec les Russes. » ³. Pour les besoins de sa défense, Céline démentira après-guerre avoir tenu ces propos. Mais, dans une lettre adressée au même moment à Karen Marie Jensen, il écrivait : « J’irai peut-être tout de même en Russie pour finir. Si les choses deviennent trop graves, il faudra bien que tout le monde participe – ce sera question de vie ou de mort – si cela est vivre ce que nous vivons ! 4 »
Quelques mois plus tard, le dimanche 1er février 1942, a lieu au Vélodrome d’Hiver un meeting organisé par la LFV sous la présidence de Déat avec Doriot comme invité vedette. Céline y assiste en compagnie de Lucette Destouches. Une photographie en atteste, légendée de la sorte dans L’Émancipation nationale : « Le grand écrivain Louis-Ferdinand Céline a assisté à la réunion du Vél’d’Hiv’. Le voici suivant avec attention l’exposé de Jacques Doriot, “Ce que j’ai vu en U.R.S.S.“ » 5 .
Alors que Doriot a regagné le front de l’Est, Céline lui adresse une lettre qui sera publiée dans le mensuel de doctrine et de documentation du PPF, les Cahiers de l’émancipation nationale. Céline y préconise notamment l’instauration d’un parti unique, « L’Aryen Socialiste Français, avec Commissaires du Peuple, très délicats sur la doctrine, idoines et armés » 6. Un passage vilipendant l’Église ayant été caviardé, il critiquera vivement « Doriot, formel et devant témoins, [qui avait juré] de tout imprimer » 7. On observera que, durant toute l’Occupation, aucune lettre de Céline n’est publié dans L’Œuvre, le quotidien de Marcel Déat.
Après une permission, Doriot rejoint à nouveau le Front de l’Est en mars 1943. Occasion pour son journal Le Cri du peuple de solliciter, durant une quinzaine de jours, les réactions de personnalités, dont Céline qui, laconique, aurait déclaré : « Je n’ai pas changé d’opinion depuis août [en fait, septembre] 1941, lorsque Doriot est parti pour la première fois » 8.
Comme on le sait, toutes les lettres que Céline adressa aux journaux de l’occupation n’ont pas été publiées. Un exemple fameux : la lettre sur la France du nord et du sud adressée de Bretagne à Je suis partout (juin 1942). Jugée impubliable par la rédaction, elle fut conservée par le secrétaire de rédaction, Henri Poulain, pour n’être exhumée qu’un demi-siècle plus tard 9.
Apparemment, une autre lettre – adressée en août 1943 à Jacques Doriot – aurait subi le même sort car elle mettait en cause des cadres du PPF. Elle n’était d’ailleurs peut-être pas destinée à la publication, celle-là, encore que Céline l’aurait remise personnellement à Doriot. Voici ce qu’en écrit Victor Barthélemy, secrétaire général du parti et familier des réunions dominicales à Montmartre : « Un dimanche de septembre [1943], je profitai de l’occasion pour dire deux mots à Céline à propos d’une lettre qu’il avait adressée, ou plutôt portée lui-même à Doriot, après l’affaire Fossati [NDLR : cadre du PPF exclu pour avoir entamé, sans l’aval de Doriot, des négociations avec le RNP en vue de la création d’un parti unique]. Céline affirmait qu’il n’était pas étonnant que Fossati « fût un traître », car avec ce nom en i et son origine « maltaise » c’était couru d’avance… D’ailleurs il était urgent que Doriot se débarrasse de ces Méditerranéens douteux (toujours les noms en i ou en o) tels que Sabiani, Canobbio, etc., et aussi de ce Barthélemy, dont le patronyme commençant par « Bar » pouvait à bon droit laisser supposer des origines juives. (À l’époque, on prétendait volontiers que les préfixes Ben, Bar, Ber pouvaient constituer présomption d’origines juives.) Cette lettre, Doriot me l’avait fait lire, en riant à gorge déployée : “Ce Ferdinand, il est impayable !”, avait lancé Doriot. J’en étais, pour ma part, un peu irrité, et bien décidé à dire à Ferdinand ce que j’en pensais. Il prit lui aussi la chose en riant et l’affaire fut « noyée » comme il convenait » 10. Maurice-Ivan Sicard, autre cadre du PPF, écrira, de son côté, que « les lettres que [leur] envoyait Céline étaient délirantes, difficilement publiables » 11.
Plus tard, lorsque les jeux seront faits, Céline daubera sur le jusqu’au-boutisme des ultras et fera, dans D’un château l’autre, un portrait sans complaisance des rescapés de la collaboration échoués dans le Bade-Wurtemberg. Quand on lui reprochera d’avoir fréquenté Doriot à plusieurs reprises, il écrira : « Il n’était point bête et mon métier de médecin et de romancier est de connaître tout le monde » 12. Manière de dire que seule sa curiosité était coupable…
Marc LAUDELOUT
Notes
1. « 43 lettres à Lucien Combelle (1938-1959) » in L’Année Céline 1995, Du Lérot-Imec Éditions, 1996, pp. 68-156. Relevons que ce sentiment n’était pas réciproque :
« Céline, cette source vivante du verbe, qui, après des livres prophétiques et macabres, rabelaisiens et pessimistes, avait publié Les Beaux draps, ceux-là mêmes que les bien-pensants vichyssois n’auraient pas voulu qu’on lave à la fontaine, et que, justement, il fallait blanchir avant de refaire le lit de la France » (Marcel Déat, Mémoires politiques, Denoël, 1989, p. 774). Voir aussi cette relation d’un dîner chez le docteur Auguste Bécart, ami doriotiste de Céline : « On arrive ainsi à 8 h moins le quart. Lecourt et le Dr Bécart viennent nous prendre. Nous dînons chez celui-ci avec Céline, etc. Très intéressant. Pluie de vérités truculentes sur tout le monde. Attaques raciales contre Laval “nègre et juif”, etc. Au demeurant très sympathique. » (« Journal de guerre de Marcel Déat », note du 23 décembre 1942, Archives nationales. Extrait cité par Philippe Alméras in Les idées de Céline, Berg International, coll. « Pensée Politique et Sciences Sociales », 1992, p. 172.)
2. L’École des cadavres, Denoël, 1938, p. 257. Doriot est également évoqué pages 84 et 174. Voir aussi Bagatelles pour un massacre, Denoël, 1937, p. 310.
3. Lettre inédite à Karen Marie Jensen, 8 décembre [1941], citée par François Gibault in Céline. Délires et persécutions (1932-1944), Mercure de France, 1985, p. 288.
4. Ivan-M. Sicard, « Entretien avec Céline. Ce que l’auteur du Voyage au bout de la nuit “pense de tout ça...” », L’Émancipation nationale, 21 novembre 1943. Repris dans Cahiers Céline 7 (« Céline et l’actualité, 1933-1961 »), Gallimard, 1986, pp. 128-136.
5. Albert Laurence, « Le Meeting », L’Émancipation nationale, 7 février 1942.
6. « Lettre à Jacques Doriot », Cahiers de l’Émancipation nationale, mars 1942, repris dans Cahiers Céline 7, op. cit., pp. 155-161.
7. Lettre à Lucien Combelle, 17 mars [1942] in L’Année Céline 1995, op. cit., p. 117.
8. « Le Départ de Doriot, Céline a dit... », Le Cri du peuple de Paris, 31 mars 1943, repris dans Cahiers Céline 7, op. cit., p. 185.
9. Louis-Ferdinand Céline, Lettres des années noires, Berg International, coll. « Faits et Représentations », 1994, pp. 29-35.
10. Victor Barthélemy, Du communisme au fascisme. L’histoire d’un engagement politique, Albin Michel, 1978, pp. 365-366.
11. Saint-Paulien, Histoire de la collaboration, L’Esprit nouveau, 1964, p. 257.
12. Lettre à Thorvald Mikkelsen, 2 juillet 1946 in Louis-Ferdinand Céline, Lettres de prison à Lucette Destouches et à Maître Mikkelsen, Gallimard, 1998, p. 257.
Jacques Doriot
Formé dans les écoles du Komintern à Moscou, député communiste à 25 ans, maire de Saint-Denis à 32, Jacques Doriot fut au sein du PCF le grand rival de Maurice Thorez. Pour avoir refusé de se plier aux exigences de Staline et prôné trop tôt un rapprochement avec les socialistes, il est exclu du Parti en 1934.
Deux ans plus tard, il fonde le Parti populaire français (PPF), qui n’est pas encore un parti fasciste au sens strict du terme, mais qui le deviendra pendant l’Occupation. Rallié prudemment à la Collaboration tant qu’a subsisté l’hypothèque du pacte germano-soviétique, Doriot ne brûlera vraiment ses vaisseaux qu’en juin 1941, lorsque les divisions allemandes se lanceront à l’assaut de l’URSS. Il réclame alors la création d’une Légion des volontaires français contre le bolchevisme (LVF) et, de tous les dirigeants des grands partis collaborationnistes, il sera le seul à combattre sur le front de l’Est, à plusieurs reprises.
Alors que les Allemands se méfient de lui, il affiche désormais sa volonté de faire du PPF « un parti fasciste et totalitaire » (novembre 1942) et finit par trouver auprès des SS le soutien que lui a refusé Otto Abetz sur instruction d’Hitler. Il trouvera la mort en Allemagne, le 22 février 1945, mitraillé sans doute au hasard par des avions alliés.
Ainsi disparaissait l’une des figures les plus énigmatiques de l’histoire politique française du XXe siècle. Le livre de Jean-Claude Valla retrace le destin singulier d’un personnage dont Pierre Pucheu, qui ne l’aimait guère, a pu écrire : « À vrai dire, je n’ai pas connu dans notre génération d’homme ayant reçu à tel point du ciel des qualités d’homme d’État. »
Jean-Claude Valla, Doriot, Éd. Pardès, coll. « Qui suis-je ? », 2008, 128 pages, ill. (12 €).
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"Vitales Denken ist inkorrekt"
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
Politische Theorie: Interview mit Robert Steuckers
"Vitales Denken ist inkorrekt"
von Jürgen Hatzenbichler
In diesem Jahr haben wir das 30jährige Jubiläum der 68er Revolte. Welchen Stellenwert hat die Neue Linke heute für einen rechten Diskurs?
STEUCKERS: Zunächst muß gesagt werden, daß die Neue Linke in Paris im Mai 1968 zwar demonstrierte, Krawall machte und die Fabriken mobilisierte, daß aber am 30. Mai eine Million Gegendemonstranten auf den Straßen waren, um dem ein Ende zu machen. Also im Mai hat die Rechte gewonnen; im Juni ist de Gaulle zurückgekommen. Man muß festhalten, daß die sogenannte antiautoritäre Bewegung erst 1988 nach der Machtübernahme durch Mitterand mit der Besetzung der Institutionen beginnen konnte. Zwischen 1968 und 1981 hatte in Frankreich die Neue Linke zwar sehr viel Gewicht, aber trotzdem ist die liberal-konservative Rechte an der Macht geblieben und hat ihre Weltanschauung entwickeln können. Man muß außerdem, um ’68 zu verstehen, wissen, daß de Gaulle nach dem Algerienkrieg seinen Kurs vollständig geändert hatte, daß er antiimperialistisch und antiamerikanisch war, daß er 1965 Rußland besucht hat und die Nato verlassen hatte. Er stellte in einer Rede in Kambodscha Frankreich als die führende antiimperialistische Macht dar, als Partner für die Länder, die weder amerikanisch noch kommunistisch waren. Er pflegte auch Kontakte nach Südamerika, so daß die französische Flugzeugindustrie die amerikanische dort verdrängen konnte. 1967 rief er in Québec das "freie Québec" aus, was eine direkte Provokation für die USA war. Die Amerikaner haben das nicht toleriert. Der Mai ’68 ist dann teilweise auch von den amerikanischen Geheimdiensten gemacht worden, damit Frankreich auf seine antiimperialistische Funktion verzichtet.
Im deutschen Sprachraum verbindet man 1968 in der Folge mit politischer Korrektheit. Wie hat sich die Revolte im frankophonen Bereich ausgewirkt?
STEUCKERS: Der Moralismus ist in Deutschland und bei der deutschen Linken viel stärker ausgeprägt als in Frankreich. In Frankreich gibt es zwei Begriffe. Es gibt den Mai ’68: die Studentenbewegung als eine auflehnende Bewegung. Aber es gibt auch noch das "Denken von 68", la pensée ’68. Wenn man davon spricht, meint man eine Reihe von dekonstruktivistischen Philosophen wie Foucault, Derrida, Deleuze, Guattari oder andere, die sich besonders von Nietzsche haben inspirieren lassen. Heutzutage aber kritisiert die political correctness diese Philosophen, weil sie lebensphilosophisch denken, weil sie "Vitalisten" sind.
Diese Methode der Dekonstruktion richtet sich vor allem gegen die Moderne...
STEUCKERS: …ja, gegen die Aufklärung. Ich würde hier etwa einen Akzent von Michel Foucault nennen. Foucault gilt selbstverständlich als linker Philosoph, aber er hat am Anfang seiner Karriere, die er mit einem 1961 erschienenen Artikel begonnen hat, eine These entwickelt, die besagt, daß die Aufklärung überhaupt nicht die Befreiung des Menschen ist, sondern der Anfang seiner totalen Überwachung und Bestrafung. Als dieser Artikel erschienen ist, wurde Foucault von gewissen Tugendwächtern als Reaktionär abgestempelt. Foucault war homosexuell; das ist bekannt. Er hat gesagt: "Ich muß mich für die Außenseiter engagieren, ich muß den Linken spielen, anders ist meine philosophische Karriere verloren." Nichtsdestoweniger gilt seine These, daß Aufklärung überwachen und bestrafen heißt. Foucault kritisierte weiter, daß die Aufklärung bis heute die Grundlage des französischen Jakobiner-Staates ist. Für Foucault verkörpert sich die aufklärerische Gesellschaft im neuen panoptischen Gefängnis, wo mitten im Gefängnis ein Turm steht, von dem aus der Wächter beobachten kann, was alle Gefangenen tun. Das Modell der Aufklärung verkörpert also eine gläserne Gesellschaft ohne Mysterien, ohne Privatsphäre oder persönliche Gefühle. Die political correctness hat sehr klar gesehen, daß dieses Denken äußerst gefährlich für die aufklärerischen Staaten ist. Foucault wird als "Vitalist" abgestempelt.
Welche Ideen der Neuen Linken sind noch aktuell?
STEUCKERS: Diese Frage muß ich über eine Umweg beantworten: Was will die heutige Neue Linke? Will die Neue Linke die Ideen von Foucault weiterverbreiten, also gegen Gesellschaften sein, die die totale Überwachung und Bestrafung wollen? Ich kann nicht für die Linke anworten. Aber was ich sehe, ist, daß die Neue Linke heutzutage gar nicht mehr denkt, sondern eben politische Korrektheit durchsetzen will.
Von manchen Rechten wird das Schema Rechts-Links mittlerweile in Frage gestellt. Ist die Aufhebung des Gegensatzes aktuell?
STEUCKERS: Ich meine, die Rechte wiederholt seit mehreren Jahrzehnten zu oft die gleichen Schlagwörter. Ich beobachte zwar, daß heutzutage in Deutschland gewisse philosophische Strömungen Foucault zusammen mit Carl Schmitt und Max Weber lesen. Das ist sehr wichtig. Das ist der Kern einer neuen Konservativen Revolution, weil es antiaufklärerisch ist. Wobei ich selber nicht die ganze Aufklärung ablehne – zum Beispiel nicht den aufklärerischen König Friedrich II. von Preußen. Ich leugne nicht alles von Voltaire, der ein aufklärerischer Philosoph war und eine sehr gute Definition von Identität gegeben hat, als er sagte: "Es gibt keine Identität ohne Gedächtnis." Ich lehne also nicht alles ab, ich lehne aber sehr wohl die political correctness ab, die von sich behauptet, daß sie die Erbin der Aufklärung sei und uns eine verballhornte Aufklärung verkauft. Man muß sagen, daß antiaufklärerische Ideen sowohl rechts wie auch links vorhanden sind. Andererseits hat eine gewisse Rechte, vor allem die technologie-konservativen Kräfte, die Frage der Werte nicht mehr gestellt. Diese Konservativen wollen sich aufklärerisch profiliert sehen wie die political-correctness-Linken.
Kann man sagen, daß in so einer Gesellschaft, die alles nur noch in ökonomischen und Konsumbegriffen sieht, die linken und rechten Intellektuellen die letzten Verteidiger von Sinn und Wert sind?
STEUCKERS: Das hat die amerikanische Debatte sehr gut beantwortet, wo der Philosoph John Rawls die Frage der Gerechtigkeit gestellt hat. Wenn die Aufklärung im Konsumismus endet, ist weder Gemeinschaft noch Gerechtigkeit möglich. Es gibt wahrscheinlich Wertkonservative und Wertprogressisten. Und hier ist eine Debatte möglich über die entscheidenden Fragen von Morgen. Aber die organisierten Kreise der political correctness werden alles tun, um das zu verhindern.
Wo sehen Sie auf der Rechten die mögliche Trennlinie zwischen wertkonservativer Haltung und reaktionärer Position?
STEUCKERS: Eine wertkonservative Haltung kann heutzutage überhaupt nicht strukturkonservativ bleiben. Eine wertkonservative Haltung verteidigt die Werte, die die Gemeinschaft zusammenhalten. Wenn Strukturkonservative, das heißt Wirtschaftsliberale, es unbedingt vermeiden, die Frage nach den Werten stellen, dann wird das die Auflösung der Gemeinschaften vorantreiben. Dann haben wir die Gefahr, daß die Staaten, aber auch eine eventuelle Weltgemeinschaft, absolut unregierbar werden.
Welchen Stellenwert hat die Nouvelle Droite, die Neue Rechte im heutigen intellektuellen Diskurs?
STEUCKERS: Sie hat heutzutage nicht mehr die Stellung von Einzelgängern. Sie sollte mehr auf die amerikanischen Kommunitaristen setzen und die Debatte gegen die Globalisierung und für identitätsstiftende Werte führen. Außerhalb Europas und Amerikas ist zu beobachten, daß nichtwestliche Zivilisationen wie China und die asiatischen Staaten die aufklärerische Idee der Menschenrechte zweimal abgelehnt haben, zuerst in Bangkok, dann in Wien. Sie haben sich dafür eingesetzt, daß die Menschenrechte den Traditionen der jeweiligen Zivilisationen angepaßt werden, weil, so sagten es etwa die Chinesen, die Menschen nie nur Individuen sind, sondern immer in eine Gemeinschaft und eine Kultur eingebettet sind.
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vendredi, 06 novembre 2009
"Ernst Jünger " de Dominique Venner
Le livre que Dominique Venner vient de publier aux Editions du Rocher (ici) sur Ernst Jünger fera date. Cet essai du Directeur de La Nouvelle Revue d’Histoire sur le monumental écrivain allemand n’est ni une biographie, ni une étude littéraire proprement dites.
Dans cet essai Dominique Venner tente d’expliquer comment un des penseurs de la droite radicale de l’après Grande Guerre, auteur de La guerre notre mère est devenu un adversaire du nazisme qu’il avait, avant son avènement, espéré voir donner à l’Allemagne vaincue une renaissance attendue et à quel point sa pensée peut être intemporelle
L’auteur est bien placé pour comprendre l’émetteur d’idées allemand, sensible comme un sismographe aux évolutions du temps. Car comme lui il a connu l’épreuve du feu. Jünger sous les orages d’acier de la Grande Guerre, Venner en tant que soldat perdu de la guerre d’Algérie.
Ceux de ma génération qui n’ont pas connu de guerres du tout ont du mal à comprendre réellement, profondément, que les guerres puissent féconder ainsi les vies intérieures des hommes, être de véritables expériences fondatrices, avec des résultats bien différents d’ailleurs selon les tempéraments :
Si l’on compare deux témoignages de guerre parmi les plus marquants, écrits par deux auteurs souvent rapprochés, on découvre que La Comédie de Charleroi, de Pierre Drieu la Rochelle, malgré la victoire française de 1918, ressemble fort à un livre de vaincu, alors que Le Boqueteau 125, écrit [par Jünger] après la défaite allemande de 1918, semble plutôt un livre de vainqueur.
Ce qui fait d’Ernst Jünger un soldat et un écrivain hors normes c’est qu’il [vise] plus haut que le but qu’il s’est assigné et qu’il a une constante « tenue » au moral et au physique. Un tel homme, qui est un écrivain né, ne peut pas être un doctrinaire et ne l’est d’ailleurs pas. C’est un écrivain qui a des idées, mais :
Ces idées sont soumises à variation sans souci de cohérence idéologique.
En réalité :
Jünger vivait pour l’idée et non par l’idée. L’idée était sa raison de vivre, mais elle ne lui rapportait rien sinon des tracas. Jünger était un penseur idéaliste et profond. Il ne fut jamais un politicien pratique, tout en s’adonnant au romantisme politique plus qu’il n’en a convenu.
Si les œuvres de jeunesse semblent contredire celles de la maturité qui commencent avec Sur les falaises de marbre, Jünger considère ses œuvres comme des périodes et non pas comme des contradictions. Pour lui il y a continuité dans ses œuvres de jeunesse et de maturité comme le Nouveau Testament prolonge l’Ancien :
Seule la conjugaison [des parties de mon œuvre] déploie la dimension au sein de laquelle je souhaite qu’on me comprenne.
Jünger en dépit de son nationalisme originel ne pouvait que s’opposer à Hitler. Dominique Venner en fin d’ouvrage résume les idées qui ont nourri cette opposition :
Son refus de l’antisémitisme et du darwinisme racial, son opposition à la russophobie, lui-même souhaitant l’alliance de l’Allemagne et de la Russie, même bolchevique.
Et souligne :
[Sa] répugnance toujours plus grande […] à l’égard des dirigeants d’un parti brutal, indignes d’incarner la nouvelle Allemagne.
Il y a plus :
[Jünger] a pris […] la mesure de ses vraies aptitudes, finissant par détester en Hitler ce qu’il n’était pas. Il avait commis l’erreur fréquente des idéalistes perdus en politique. Il n’avait pas compris à temps que celle-ci appartient au monde de Machiavel et non à celui de Corneille.
Une fois comprise cette opposition l’œuvre de Jünger s’éclaire d’un tout autre jour, surtout quand on sait que :
Dans toute son œuvre, Jünger montre qu’il ne pense pas de façon historique, mais à travers des mythes intemporels.
Jünger, dans Le Nœud gordien, paru initialement en 1953, explique que l’essence de l’antinomie dans chaque débat entre l’Est et l’Ouest se trouve dans la notion de liberté qui a deux significations majeures pour l’Occidental : liberté spirituelle d’abord et :
Liberté politique ensuite, refus de l’arbitraire, dont Jünger perçoit tout à la fois les limites et la nécessité.
En héritier de cette conception de la liberté typiquement occidentale Venner est convaincu :
Que l’Europe, en tant que communauté millénaire de peuples, de culture et de civilisation, n’est pas morte, bien qu’elle ait semblé se suicider. Blessée au cœur entre 1914 et 1945 par les dévastations d’une nouvelle guerre de Trente Ans, puis par sa soumission aux utopies et systèmes des vainqueurs, elle est entrée en dormition.
Cette intime conviction repose sur ce que l’étude historique lui a appris, mais aussi sur l’exemple insigne donné par l’attitude et la pensée d’un Ernst Jünger.
Pour ma part je reconnais qu’il y a en moi de l’anarque, figure tardive de l’univers jüngerien, qui m’est contemporaine et est décrite dans Eumeswil, roman publié en 1977 par Jünger à l’âge de 82 ans :
Sa mesure lui suffit ; la liberté n’est pas son but ; elle est sa propriété.
Francis Richard
Pour l'internaute intéressé, Dominique Venner a depuis peu un blog : (ici).
00:20 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : nouvelle droite, révolution conservatrice, littérature allemande, lettres allemandes, lettres, littérature, allemagne, années 20, années 30, années 40, première guerre mondiale, deuxième guerre mondiale, seconde guerre mondiale | |
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L'educazione alimentare del popolo
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Genocidio armenio hoy: Las sombras de 1915
![]() Genocidio armenio hoy: Las sombras de 1915
por Garabed Arakelian Recientes expresiones públicas del primer ministro turco Recip Erdogan, amenazando con el exilio a más de 40 mil armenios que residen en Turquía, han reavivado las heridas y el recuerdo del Genocidio cometido por el estado turco en perjuicio de la población armenia que vivía ancestralmente –antes de la llegada de los turcos- en los territorios que hoy integran los dominios de ese país. | |
“Vamos a terminar con la Cuestión Armenia, terminando con los armenios”, comenzaron a decir los dirigentes turcos sobre fines del siglo XIX, cuando el tema de los armenios ingresó en la agenda de los asuntos internacionales y se constituyó en la Cuestión Armenia, reconociendo y otorgando derechos de diversa índole a esa minoría. Años después, luego del visible fracaso de esa política, pues Turquía no pudo eliminar a los armenios y tampoco a la Cuestión Armenia -que, aunque con otro formato, sigue existiendo y es una piedra grande en sus babuchas- el Primer Ministro turco Recep Tayyip Erdogan el pasado 16 de mayo de 2009 en Varsovia, volvió a amenazar afirmando: “Hay 40 mil armenios que viven en Turquía en la actualidad. Ellos llegaron a nuestro país porque había dificultades en Armenia (“They came to our country because they had difficulties in Armenia"), y concluyó: y si es necesario, los vamos a exiliar ("If necessary, we will exile them, but I think it will be inhuman”, ” confirmó y agregó con humor, seguro que el auditorio internacional le acompañaría en su ingeniosa deducción: “pero creo que nos podrían tachar de inhumanos” Lo cual es una forma socarrona pero indecente de decir: lo hemos hecho, sabemos como hacerlo, podemos volver a hacerlo. Pero también algo para prevenir, pues Turquía ha demostrado que no se detiene en detalles para distinguir entre exilio y deportación. Pero como las cosas no se juzgan de manera aislada sino en su contexto, en el que valen también los antecedentes, a Turquía se le podría tachar no sólo de inhumana, y no sólo los armenios podrían hacerlo, también judíos, griegos, kurdos y una cantidad de minorías que han sufrido y sufren las consecuencias de la política xenófoba de Turquía pueden hacerlo recurriendo a una larga lista de excelentes adjetivos disponibles para tachar la inconducta turca con respecto a los Derechos Humanos, desde hace mucho, mucho tiempo hasta el presente. Pero es interesante advertir queErdogan profiere estas amenazas en momentos en que negocia con Armenia la apertura de fronteras, cerradas unilateralmente por iniciativa turca desde 1992. Pero, mientras declara solemne que tiene interés en dicha apertura, hace lo posible, para que eso no se convierta en realidad. Con el expreso apoyo de agencias de noticias internacionales, y medios de comunicación muy poderosos, Turquía despliega desde sus dependencias gubernamentales una importante política informativa a nivel internacional para hacer creer que el tema de la liberación de fronteras está resuelto y que Armenia ya ha aceptado dichas condiciones. La maniobra publicitaria turca para cercar a Armenia creando opinión pública en el terreno internacional, en la diáspora y dentro de Armenia, para hacer creer que ésta ha cedido posiciones es evidente: los ministros de Exteriores de los dos países anunciaron el pasado miércoles 22 de abril -en vísperas de un nuevo aniversario del Genocidio- que habían llegado a un acuerdo para "normalizar" sus relaciones mediante un delicado proceso de acercamiento. Citando "fuentes del ministerio de Exteriores", los principales diarios turcos, "Sabah", "Hurriyet" y "Radikal", informaron de inmediato que varias comisiones elaborarían medidas graduales para la reapertura de las fronteras y el restablecimiento de las relaciones comerciales y diplomáticas entre ambos Estados. En definitiva, esto es en términos generales y con suaves matices diferenciales, lo que reprodujeron las agencias internacionales haciéndose eco de la versión aparecida en tres periódicos turcos que, curiosamente, reflejan la posición oficial, aunque tengan orientaciones políticas diferentes y no sean coincidentes con el gobierno Según estas informaciones y trascendidos de fuente otomana que han hallado eco en los medios internacionales, Armenia habría aceptado las condiciones turcas que se sintetizan así: 1)designación de una comisión de “sabios” o “eruditos” que investigarán acerca de si hubo genocidio o nó; 2) Armenia renunciaría a plantear reclamos territoriales y las fronteras quedan tal como están ahora aceptando un acuerdo firmado entre Turquía y la Unión Soviética; 3) Nagorno Gharapagh pasa a ser parte de Azerbeydján y se agregan algunos detalles instrumentales de nombramientos de embajadores y otros etcéteras. Obama estuvo con Erdogan antes del 24 de abril último, tuteándose cordialmente luego de intercambiar cariñosos besos islámicos en ambas mejillas y anunció que no se iba expedir sobre el tema Genocidio, respetando que los dos países estaban tratando de encontrar una vía de solución. Es decir, traicionó a los armenios a quienes prometíó en su campaña electoral que si era presidente reconocería el Genocidio y le echó una mano a su socio y amigo, argumentando que una definición en ese sentido sería como una injerencia en problemas entre dos estados soberanos. Pero además, Erdogan ya le había advertido que no debía entrometerse en ese problema que era entre Armenia y Turquía. De modo que, juicioso, Obama explicó que entrometerse no era correcto. Doble puntaje: aparece como respetuoso de esas delicadezas internacionales, que seguramente no forman parte de su menú cotidiano al tiempo que no reconoce la existencia del Genocidio y deja a Armenia a expensas de su poderoso vecino. Al día siguiente, en el seno de la Unión Europea, olvidó ese fugaz principio de respeto a la soberanía y se metió de lleno en ese organismo internacional para decirle a Sarkozy que los europeos debían aceptar el ingreso de Turquía en su seno. Como se vé, siempre jugando a favor de Turquía, aunque no le sirvieron de mucho esos esfuerzos, porque su socio y amigo es como las o los amantes que retienen a su querido/a no por amor sino por chantaje: el 24 de abril se cuidó de utilizar las palabra genocidio, estuvo haciendo filigranas con el lenguaje y se hizo el simpático al referirse al hecho expresándose en idioma armenio y utilizando la expresión “Gran Tragedia” para referirse al mismo y se dolió de las muertes y los excesos, etc. etc..pero Erdogan , que lo había despedido de Ankará, la capital de Turquía, afirmando que el presidente de USA se iba con ideas más claras y definidas sobre el tema del Genocidio Armenio, se sintió defraudado y realizó declaraciones públicas manifestando su disgusto. Es que Obama no dijo lo que tenía que decir y tal como le había indicado que debía decirlo. Entretanto, fiel al cariño manifestado y al compromiso aceptado, USA continúa haciendo sus deberes para con Turquía y presiona a Armenia para que entregue Gharapagh. Con ese respaldo, el jerarca turco después de haber firmado con Armenia lo que se conoce como "hoja de ruta" en torno a una posible apertura de fronteras, dice públicamente que mientras no se solucione el problema entre Armenia y Azerbaydján no habrá liberación de esos límites. La posición de Armenia es débil: sin salida al mar, acosada por países vecinos con los cuales vive una histórica desconfianza mutua, siente además el asedio de Rusia, que la quiere su aliada pero sin comprometerse mucho en ello, y la de USA que desea liquidarla para satisfacer a su socio y amigo de Ankará. Hitler se preguntó y le preguntó a sus soldados, cuando iban a invadir Polonia con la orden expresa de no perdonar vidas: “quién se acuerda de Armenia ahora?" USA y sus sucesivos gobiernos guiados por cálculos "Pentagónicos", están diciendo algo semejante: "¿qué son tres millones y medio de armenios? ¿Quién se acordará de ellos cuando nuestro cine y nuestra televisión, que manejamos globalmente, hará que eso se olvide?" No hay razones para dudar que esto suceda, o que ya esté planeado que suceda. Por lo tanto sí hay razones para preocuparse. Esta no es una deducción vana, los datos objetivos lo demuestran: Obama asume posición de no ingerencia para perjudicar a Armenia frente a Turquía y cuando tiene que repartir la torta de su presupuesto último, rebaja la ayuda a Armenia y se la aumenta a Azerbeydján. No pueden haber equívocos ni dudas tampoco respecto a cuál es su posición. Esta región del Cáucaso es una zona históricamente conflictiva donde siempre hay muchos más factores en juego que los que se dicen y ven a simple vista y para los cuales la explicación fácil suelen ser la existencia de diferencias religiosas. Sin negar que ese detalle incide no hay que olvidar que allí hay petróleo, minerales raros y escasos que se utilizan en las más modernas tecnologías, allí hay vías de cruce y acceso a esas riquezas cada vez más codiciadas y por eso el dominio allí significa tener poder en los términos actuales de la organización mundial. Y para el oocidente político significa hacer retroceder los límites del oriente, el este político. Por ahora Turquía está pisando fuerte: se sabe necesaria por la posición geopolítica que detenta. Importante para los intereses de muchos que la necesitan, pero también sabe que no la quieren. Ella, Turquía, sabe que es la mal querida, y se esfuerza en ser aceptada. Casi siempre lo consigue por las malas, pues tiene, por ahora, argumentos contundentes para lograrlo. Pero por encima de estas realidades no hay que olvidar que ella ha fortalecido su posición en la medida en que juega como peón de USA quien le permite salidas de tono como las que mencionamos. Pero también es cierto que los demonios que crea el imperio suelen tomar vida propia pues los sueños imperiales que sostiene el panturquismo están aún vigentes día a día en la enseñanza y en la sociedad turca. De modo que para Armenia el peligro se duplica: al asedio histórico al que la somete Turquía, se agrega el pase libre que USA le otorga a su -socio y amigo- aliado privilegiado, y la desembozada actitud negacionista que asume frente a Armenia. Armenia y su diáspora deberían plantearse, y quizás lo hagan, que la hoja de ruta es el pretexto que los enemigos le ponen por delante para que se discuta lo que a ellos les conviene y que podrán concretar o nó. Quizás lo importante para Armenia sea tener un claro objetivo común que integre al pueblo armenio, el de adentro y el de la diáspora, que es lo que su bando enemigo no quiere que suceda. Quizás los armenios debieran pensar en el concepto de "pueblo armenio" y actualizar su contenido para analizar los avatares próximos de su historia. Aunque se debe reconocer que, por ahora, están jugando con las reglas que le marca el enemigo. ·- ·-· -······-· |
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Le "socialisme allemand" de Werner Sombart
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES – 1990
Thierry MUDRY:
Le “socialisme allemand” de Werner Sombart
Né en 1863 à Ermsleben, Werner Sombart est le fils d'Anton Ludwig Sombart, hobereau et industriel prussien, membre libéral de la Chambre prussienne des Députés et du Reichstag.
Werner Sombart étudie l'économie politique et le droit dans les Universités allemandes. Après avoir obtenu son doctorat, il est d'abord secrétaire de la chambre de commerce de Brême puis professeur extraordinaire (chargé de cours) à l'Université de Breslau. Mais le "radicalisme" de Sombart (influencé par Lassalle et Marx) lui vaut la défaveur du ministère prussien de l'instruction publique: son avancement est stoppé. En 1906, il donne des cours à l'Ecole des hautes études commerciales de Berlin et plusieurs années plus tard, en 1918, il devient enfin professeur ordinaire à l'Université de Berlin où il prend la succession d'Adolf Wagner, l'un des maîtres de la Jeune Ecole historique et du "socialisme de la chaire" (Kathedersozialismus).
Economiste et sociologue, Sombart apparaît comme l'historien du capitalisme mais aussi comme un critique impertinent du capitalisme. Sombart s'éloigne cependant peu à peu d'une critique d'inspiration marxiste pour adopter une critique d'inspiration nationaliste et luthérienne. On distingue aisément le Sombart qui se consacre à l'étude scientifique du capitalisme et particulièrement à l'étude de la genèse de l'esprit capitaliste et le Sombart militant qui prend fait et cause pour le mouvement ouvrier à la fin du XIXème siècle et au début de ce siècle, pour l'Allemagne pendant la Grande Guerre et pour le "socalisme allemand" dans les années 30. Le premier Sombart est l'auteur en 1902 des tomes I et II du "Capitalisme moderne" qui connaîtront des rééditions successives en 1916 et 1924/27 (Sombart publiera en 1928 le tome III traduit en français sous le titre L'apogée du capitalisme); en 1903 de L'économie allemande du XIXème siècle; en 1911 d'un ouvrage sur Les Juifs et la vie économique (traduit en français); en 1913, il publie Le bourgeois (également traduit en français) et ses études sur le développement du capitalisme moderne: Luxe et capitalisme, Guerre et capitalisme, etc. En revanche, Le socialisme et le mouvement social au XIXème siècle publié en 1896 (traduit en français), Commerçants et héros qui parut pendant la Grande Guerre, Le socialisme prolétarien publié en 1924 et Le socialisme allemand publié en 1934 (traduit en français) sont indiscutablement l'œuvre du Sombart militant.
Sombart = Marx + l’école historique?
D'après Schumpeter (à qui Sombart céda sa chaire à l'Université de Berlin), Sombart aurait subi tout autant l'influence de Karl Marx que celle de l'Ecole historique.
Sombart étudia l'économie politique à Berlin, or "l'enseignement économique était alors dans les universités allemandes sous l'influence de l'Ecole historique réagissant contre l'étroitesse d'esprit et l'optimisme exagéré du libéralisme (le Manchestertum "fossile") et plus ou moins imbu de socialisme d'Etat" (André Sayous, préface à L'apogée du capitalisme de Werner Sombart, Payot, Paris, 1932, pp XII et XIII). Sombart eut pour maîtres à l'Université de Berlin Gustav Schmoller et Adolf Wagner. Ce dernier, qu'une commune admiration pour les travaux de Ferdinand Lassalle (l'un des pères du socialisme d'Etat) rapprochait de Sombart, le désigna d'ailleurs comme son successeur à l'Université. Pour certains, il conviendrait de ranger Sombart parmi les auteurs de l'Ecole historique mais ce n'est pas l'avis d'André Sayous: "économiste et sociologue, il (Werner Sombart) traite en réalité l'histoire comme une "science auxiliaire" qu'il utilise, répétons-le, avec une grande liberté d'esprit et même, parfois, selon son bon plaisir" (ibid., p. XVII) mais, reconnaît Sayous, "Sombart a conservé des liens avec l'Ecole historique. Généralement, son argumentation repose sur l'histoire et il se sert de celle-ci dans l'esprit démonstratif des maîtres de l'école allemande" (ibid., p. XVIII).
Sombart a subi aussi l'influence de Karl Marx. En 1894, Sombart accueille avec enthousiasme la publication du troisième volume du Capital et publie une étude sur le marxisme qui lui vaut les éloges de Friedrich Engels. Deux ans plus tard, il écrit Le socialisme et le mouvement social du XIXème siècle. Mais Sombart s'éloigne peu à peu du marxisme, la 10ème édition de son Socialisme et mouvement social parue en 1924 sous le titre Le socialisme prolérarien apparaît aux yeux de certains comme une diatribe anti-marxiste. Mais devenu pourtant "anti-marxiste", Sombart reconnaît volontiers sa dette envers Marx. Dans l'introduction à L'apogée du capitalisme, il se défend d'avoir voulu attaquer Marx: au contraire, affirme-t-il, "je m'étais proposé de continuer et, dans un certain sens, de compléter et d'achever l'œuvre de Marx. Tout en repoussant la conception du monde de Marx et, avec elle, tout ce qu'on désigne aujourd'hui, en synthétisant et précisant son sens, sous le nom de "marxisme"; j'admire en lui sans réserves le théoricien et l'historien du capitalisme. Tout ce qu'il y a de bon dans mes propres ouvrages, c'est à l'esprit de Marx que je le dois, ce qui ne m'empêche naturellement pas de m'écarter de lui non seulement sur des points de détail, voire dans la plupart de mes façons de voir particulières, mais sur des points essentiels de ma conception d'ensemble" (ibid., p.15). En 1934, dans Le socialisme allemand (paru dans sa traduction française chez Payot, Paris, 1938), Sombart opère une distinction entre le "marxisme pratique" et le marxisme "qui, à titre de théorie historique, est d'une incomparable valeur pour les sciences sociales" (p. 100).
Sombart et l'étude du capitalisme
Pour Sombart, le capitalisme -qu'il définit par ailleurs comme une "catégorie historique"- est un "système économique" qui "repose d'une façon subjective sur le primaire de l'acquisition, trouvant son expression dans le gain; il est essentiellement "individualiste", car il a comme base la concurrence; enfin, il représente les idées de rationalisation dans l'ordre économique" (André Sayous, op. cit., p. XX).
Sombart distingue trois périodes dans l'histoire du capitalisme:
- le "capitalisme primitif" qui prend fin avec la révolution industrielle;
- le "haut capitalisme" ou "apogée du capitalisme" qui correspond à la période s'étendant de l'emploi métallurgique du coke (dont Sombart situe les débuts dans les années 1760/1770) à la Ière guerre mondiale. "C'est au cours de cette époque que le capitalisme a réalisé son épanouissement le plus complet et est devenu le système économique dominant" (L'apogée du capitalisme, p.12);
- le "capitalisme tardif", période qui s'ouvre avec la Ière guerre mondiale.
Pour Sombart, il ne fait pas de doute que "les forces motrices de la vie économique" ne sont pas plus la piété puritaine que la plus-value du capital (Sombart renvoie ici dos à dos Weber et Marx); ni même la division du travail et la concurrence chères aux économistes classiques, ni non plus le système juridique, la technique ou la démographie. Les seules forces motrices de l'histoire en général et de la vie économique en particulier, ce sont les hommes vivants avec leurs pensées et leurs passions et surtout certains d'entre eux. C'est l'homme, en tant que sujet de l'histoire, qui construit les systèmes économiques. Ainsi, le capitalisme naissant "fut l'œuvre de quelques hommes d'affaires entreprenants, appartenant à toutes les couches de la population. Il y avait parmi eux des nobles, des aventuriers, des marchands, des artisans, mais ils ont été pendant longtemps trop faibles pour imprimer à la vie économique une direction décisive. A côté d'eux, des princes énergiques (...) et plus particulièrement de hauts fonctionnaires, comme Colbert, ont joué dans l'évolution économique de l'époque un rôle de premier ordre (en poussant les particuliers dans des entreprises capitalistes)" (ibid., p. 29). A l'époque du capitalisme avancé "toute la direction de la vie économique a passé entre les mains des entrepreneurs capitalistes qui, désormais soustraits à la tutelle de l'Etat, sont devenus (...) les seuls organisateurs du processus économique, pour autant que celui-ci se déroule dans le cadre de l'économie capitaliste" (ibid., p.30). L'entrepreneur capitaliste est donc la seule force motrice de l'économie capitaliste moderne. Il est la seule force productive: "tous les autres facteurs de la production, le capital et le travail, se trouvent sous sa dépendance, ne sont animés que par son activité créatrice. De même, toutes les inventions techniques ne reçoivent que de lui leur vitalité" (ibid., p.31).
Le capitalisme va-t-il mourir d’un excès de rationalisation?
Sombart a consacré les deux premiers tomes de son Capitalisme moderne à l'étude du pré-capitalisme et du capitalisme primitif et le troisième tome à l'étude du haut capitalisme. Quant au capitalisme tardif, Sombart y a consacré la conclusion de son Apogée du capitalisme. La principale caractéristique de cette période serait "la substitution du principe de l'entente à celui de la libre-concurrence". Le déclin du capitalisme s'amorce et celui-ci, pense Sombart, va probablement mourir d'un excès de rationalisation. "La crise allait évidemment donner une puissante accélération à la thèse du déclin, largement vulgarisée par Fried, disciple de Sombart et collaborateur de la revue Die Tat, dont le livre intitulé La fin du capitalisme (1931) fut une manière de best-seller dans les milieux nationalistes" (Louis Dupeux, Stratégie communiste et dynamique conservatrice ..., Librairie Honoré Champion, Paris, 1976, p. 12).
Sombart "a distingué des périodes de civilisation et conçu chacune d'elles comme un "système" d'un "esprit" ou "style déterminé" ... "où ainsi que chez Karl Marx, les fonctions économiques constituent les bases et les caractères propres de la période, mais où, différence fondamentale, chaque sentiment de l'économique est précisé d'une façon spéciale" (André Sayous, op. cit., pp. x et xi). "Ce qui imprime à une époque, et aussi à une période économique, son cachet particulier, c'est son esprit" écrit Sombart (ibid., p.8). Le capitalisme s'accompagne d'un "esprit capitaliste" et c'est cet esprit qui, en se transformant, a fait évoluer le capitalisme.
Mais, quel est cet "esprit capitaliste" et quel rôle joue-t-il dans l'apparition et l'évolution du capitalisme? Sombart apporte des éléments de réponse dans son livre Le bourgeois.
L'esprit capitaliste (c'est-à-dire l'esprit qui anime l'entrepreneur capitaliste et qui caractérise le système que celui-ci crée) est né, pense Sombart, de la réunion de l'esprit d'entreprise et de l'esprit bourgeois: "(...) L'esprit d'entreprise est une synthèse constituée par la passion de l'argent, par l'amour des aventures, par l'esprit d'invention, etc. tandis que l'esprit bourgeois se compose, à son tour, de qualités telles que la prudence réfléchie, la circonspection qui calcule, la pondération raisonnable, l'esprit d'ordre et d'économie. (Dans le tissu multicolore de l'esprit capitaliste, l'esprit bourgeois forme le fil de laine mobile, tandis que l'esprit d'entreprise en est la chaîne de soie)" (Le bourgeois, Payot, Paris 1966, p. 25).
Sombart distingue parmi les sources de l'esprit capitaliste:
- des bases biologiques: les "natures bourgeoises" et les "prédispositions ethniques" (chez les Etrusques, les Frisons et les Juifs);
- les forces morales: la philosophie (interprétation rationaliste et utilitariste des écrits stoïciens, auteurs rustiques romains), les influences religieuses (catholicisme, protestantisme, judaïsme), les forces morales proprement dites (morale sociale conduisant à l'adoption et au culte des "vertus bourgeoises");
- les "conditions sociales": l'Etat, les migrations, la découvertes de mines d'or et d'argent, la technique, l'activité professionnelle pré-capitaliste, le capitalisme comme tel.
La controverse entre Weber et Sombart
Max Weber s'est élevé "contre les prétentions dogmatiques d'une explication totale de l'histoire par l'économie" mais "il ne voulait nullement -constate Raymond Aron (La sociologie allemande contemporaine, PUF, Paris 1981, pp.112/113)- réfuter le marxisme en lui opposant une théorie idéaliste de l'histoire, qui lui aurait paru aussi schématique et indéfendable que le matérialisme historique". Sombart approuve Weber sur ce point: dans Le bourgeois, Sombart constate la multiplicité des causes qui permettent d'expliquer la genèse de l'esprit capitaliste. Il s'en prend aux "partisans intransigeants de la conception matérialiste de l'histoire", mais écrit-il, "opposer à l'explication causale économique une autre explication universelle est une chose dont je me sens incapable (...)" (p.338). Tous deux voient dans la religion une des causes du capitalisme. Dans L'éthique protestante et l'esprit du capitalisme, Weber attribue au calvinisme un rôle important dans la genèse de l'esprit capitaliste: "jamais assuré de son élection, le calviniste en cherche les signes ici-bas. Il les trouve dans la prospérité de son entreprise. Mais il ne peut s'autoriser du succès pour se reposer ou utiliser son argent en vue du luxe ou du plaisir. Il doit donc réemployer cet argent dans l'entreprise: formation de capital par obligation ascétique. Bien plus, seul le travail régulier, rationnel, le calcul qui permet à chaque instant de se rendre compte de la situation de l'entreprise, seul le commerce pacifique sont en accord avec l'esprit de cette morale" (Raymond Aron, op. cit., p.112). Sombart, pour sa part, attribue au thomisme et au judaïsme un rôle bien plus important que le calvinisme dans l'apparition de l'esprit capitaliste.
En imposant un droit naturel rationnel fondé sur le Décalogue mais qui intégrait aussi "la philosophie grecque de la dernière période de l'hellénisme", le thomisme a opéré une rationalisation déjà de nature à favoriser la mentalité capitaliste. "Pour que le capitalisme put s'épanouir, l'homme naturel, l'homme impulsif devait disparaître et la vie, dans ce qu'elle a de spontané et d'original, céder la place à un mécanisme psychique spécifiquement rationnel: bref, l'épanouissement du capitalisme avait pour condition un renversement, une transmutation de toutes les valeurs" (Le bourgeois, pp. 227/228). A cela, il faut ajouter la condamnation par le thomisme et les scolastiques, de la prodigalité (mais aussi de l'avarice) et de l'oisiveté, l'idéal bourgeois "d'une vie chaste et modérée", le culte de la décence et de l'honorabilité, les préceptes d'une administration juste et rationnelle: ainsi s'opéra une sorte de "dressage psychique" qui réussit à transformer en entrepreneurs capitalistes "le seigneur impulsif et jouisseur d'une part, l'artisan obtus et nonchalant d'autre part" (ibid., p.231). Sombart note enfin chez certains scolastiques (notamment italiens), qui ici dépassent la pensée de Thomas d'Aquin, une profonde sympathie pour le capitalisme.
En jugeant très favorablement la richesse, en élaborant un rationalisme très rigoureux, le judaïsme contenait et développait "jusqu'à leurs dernières conséquences logiques, toutes les doctrines favorables au capitalisme" (ibid., p.250)". Mais ce qui a permis à la religion juive d'exercer une action vraiment décisive, c'est le traitement particulier qu'elle appliquait aux étrangers. La morale juive était une morale à double face, et ses lois différaient selon qu'il s'agissait de Juifs ou de non-Juifs" (ibid., p.251). "Le traitement différentiel que le droit juif appliquait aux étrangers" a eu pour conséquences: le relâchement de la morale commerciale et la transformation précoce des "conceptions relatives à la nature du commerce et de l'industrie, et cela dans le sens d'une liberté de plus en plus grande" (ibid., pp 254 et 255). Sombart étudia d'une manière plus précise dans son livre sur "Les Juifs et la vie économique" les rapports entre judaïsme et capitalisme.
Luthérianisme, calvinisme, thomisme et scolastique
Le protestantisme apparaît dès lors singulièrement en retrait: "comme le mouvement inauguré par la Réforme a eu incontestablement pour effets une intériorisation de l'homme et un raffermissement du besoin métaphysique, les intérêts capitalistes devaient nécessairement souffrir dans la mesure où l'esprit de la Réforme se répandait et se généralisait" (ibid., p.239). Le luthérianisme se montra particulièrement anti-capitaliste (et Sombart devait recueillir l'héritage de cet anti-capitalisme luthérien). Le puritanisme lui-même (variante anglo-saxonne du calvinisme) fut une entrave au développement du capitalisme avec son idéal de pauvreté hérité du christianisme primitif, sa "condamnation sévère de tout effort ayant pour objectif l'acquisition de la richesse, c'est-à-dire, et avant tout, une condamnation des moyens de s'enrichir qu'offre le capitalisme" (ibid., p.241). Mais, après la morale scolastique (ou thomiste), "à son tour, la morale puritaine proclame la nécessité de la rationalisation et de la méthodisation de la vie, des instincts et des impulsions, de la transformation de l'homme naturel en un homme rationnel". "Lorque la morale puritaine exhorte les fidèles à mener une vie bien ordonnée, elle ne fait que reproduire mot pour mot les préceptes de la morale thomiste, et les vertus bourgeoises qu'elle prêche sont exactement les mêmes que celles dont nous trouvons l'éloge chez les scolastiques" (ibid., pp 243/244). Ce qui apparaît favorable au capitalisme chez les puritains semble donc emprunté au thomisme et aux scolastiques.
La raison première de cette divergence entre Weber et Sombart, Raymond Aron croit la trouver "dans le fait qu'ils n'utilisent pas la même définition du capitalisme". Pour Weber, le "capitalisme", c'est essentiellement le capitalisme occidental, le capitalisme "s'oppose à une économie qui tend, avant tout, à la satisfaction des besoins. Le capitalisme serait le système qu'anime un désir de gains sans limite, qui se développe et progresse sans terme, économie d'échanges et d'argent, de mobilisation et de circulation des richesses, de calcul rationnel. Les caractères sont moins dégagés par une comparaison avec les autres civilisations que saisis intuitivement dans leur ensemble" (Raymond Aron, op. cit., p.114). Autre raison probable de cette divergence: les convictions des deux auteurs. Max Weber est un protestant libéral qui croit réconcilier protestantisme et capitalisme dans l'esprit de l'homme allemand en distinguant une morale de la conviction obéissant aux impératifs de la foi et une morale de la responsabilité soumise aux impératifs de l'action. La morale de la conviction délimite un domaine religieux de plus en plus intériorisé (ce qui est bien conforme à l'essence du protestantisme), la morale de la responsabilité un domaine économique abandonné au capitalisme (et un domaine politique soumis à la raison d'Etat). A l'inverse, Sombart est un anti-capitaliste d'obédience marxiste et, plus tard, d'obédience luthérienne.
Vertus bourgeoises et éléments héroïques de la psyché européenne
Après avoir passé en revue les diverses manifestations nationales de l'esprit capitaliste (Italie, Espagne, France, Allemagne, Pays-Bas, Grande-Bretagne, USA), Sombart s'intéresse à l'évolution de celui-ci. (Pour Sombart, nous le savons, l'évolution du capitalisme est intimement liée à celle de l'esprit capitaliste).
- Dans un premier temps, les "vertus bourgeoises" se joignent à l'esprit d'entreprise et à l'amour de l'or (caractéristiques mentales des peuples européens) pour donner naissance à l'entrepreneur capitaliste d'abord tout à la fois héros, marchand et bourgeois. Puis, les "vertus bourgeoises" l'emportent peu à peu sur l'élément héroïque. A cela plusieurs raisons: le développement des armées professionnelles, l'auto-rité des forces morales, le mélange des sangs (cf. "Le bourgeois", pp 339/340).
Deux époques se succèdent alors:
- celle du "bourgeois vieux-style" tenu en laisse, selon l'expression même de Sombart, par les mœurs et une morale d'inspiration chrétienne;
- celle de l'"homme économique moderne" (à partir de la fin du XIXème siècle) qui ne connaît plus ni entraves, ni restriction.
Sombart aborde enfin un délicat problème de causalité: le capitalisme est-il l'émanation ou la source de l'esprit capitaliste? Selon Sombart, on ne peut opposer l'esprit capitaliste au capitalisme dont il est partie intégrante mais on peut en revanche l'opposer à l'"organisation capitaliste" (qui comprend tous les éléments constitutifs du système capitaliste qui ne peuvent être rangés dans la catégorie "esprit"). "Sans l'existence préalable d'un esprit capitaliste (ne fût-ce qu'à l'état embryonnaire), l'organisation capitaliste n'aurait jamais pu naître" (ibid., p.328): une création ne peut préexister à son créateur mais elle peut acquérir une certaine autonomie et agir en retour sur son créateur. Ainsi le capitalisme, création de l'esprit capitaliste, est devenu une des sources (et "non la moins importante" ajoute Sombart) de cet esprit.
Deux dangers menacent désormais l'esprit capitaliste: la "féodalisation" ("l'enlisement dans la vie de rentier ou l'adoption d'allures seigneurales") et la bureaucratisation croissante des entreprises. "Peut-être, conclut Sombart, assisterons-nous aussi au crépuscule des dieux et l'or sera-t-il rejeté dans les eaux du Rhin" (ibid., p.342). Voici un rêve auquel le "socialiste" Sombart s'efforce de donner quelque consistance ...
Sombart et le socialisme allemand
Après s'être consacré à l'étude du capitalisme, Sombart devient en 1934 le porte-parole d'un "socialisme allemand". Mais, quel est le contenu de ce socialisme allemand à la Sombart?
Sombart s'efforce de donner une définition du socialisme. Après avoir passé en revue les diverses acceptions courantes du terme et porté sur chacune d'elles un jugement, Sombart définit le socialisme comme un "normativisme social". "J'entends par là un état de vie sociale où la conduite de l'individu est déterminée en principe par des normes obligatoires, qui doivent leur origine à une raison générale, intimement liée à la communauté politique, et qui trouvent leur expression dans le "nomos" (Werner Sombart "Le socialisme allemand", Payot, paris 1938, p.77). "On n'est vraiment socialiste que lorsqu'on considère comme nécessaire que la conduite de l'individu soit soumise, dans ses manifestations extérieures, à des règles générales" (ibid.).
Sombart distingue ensuite les variétés de socialisme:
- d'après la nature de l'ordre socialiste imaginé: "du point de vue de l'espace ou de la quantité", ce peut-être un "socialisme total ou partiel"; "du point de vue du temps" "un socialisme absolu ou relatif"; "du point de vue de la forme", "un socialisme de l'égalité ou de l'inégalité", ou bien "un socialisme de l'individu ou de l'ensemble", ou encore "un socialisme méca-nistique, amorphe, espacé, abstrait, pensé, international, social" ou "un socialisme organique, morphique, technique, concret, imaginé, par classes sociales, national, étatique";
-
- d'après les fondements de l'ordre socialiste: socialisme évolutionniste ou révolutionnaire, socialisme sacré ou profane;
- d'après la mentalité en vertu de laquelle l'ordre socialiste est construit (mentalité mercantile ou héroïque).
Un socialisme anti-économiste
Sombart, lorsqu'il définit le socialisme et les variétés de socialisme, veut faire œuvre scientifique mais on sent qu'il prend déjà parti et qu'il dessine à gras traits les contours de "son" socialisme. Peu après avoir défini le socialisme, Sombart écrit: "Etant donné que la libération des forces sociales avait eu pour principal effet de mettre au premier plan l'économie et de subordonner toute l'existence de la société à ses lois, le mouvement socialiste moderne est naturellement dirigé surtout contre la primauté de l'économie. Le cri de guerre du socialisme fut: débarassons-nous de l'économie!" (ibid., p.81). On comprend déjà que le socialisme de Sombart sera essentiellement un anti-économisme. Lorsque Sombart énumère les diverses variétés de socialisme, à l'évidence il porte son choix sur certaines d'entre elles. Le socialisme qu'il prône ne peut être que "partiel", "relatif", inégalitaire, "organique, concret, national, étatique ...": il ne peut être que révolutionnaire (ou volontariste, c'est-à-dire "engendré par la liberté, par un acte créateur") et profane -ici, Sombart dévoile dans sa critique du socialisme chrétien une de ses principales sources d'inspiration: Martin Luther lui-même, pour qui l'Evangile n'enseigne en rien la façon dont on doit gouverner les hommes et administrer les biens matériels (cf "Contre les paysans pillards et meurtriers")-; Sombart se prononce enfin pour un socialisme "héroïque" -Sombart reprend ici les thèmes développés dans son livre de guerre ("Marchands et héros", 1915). Deux conceptions de la vie s'opposent: d'un côté, la conception mercantile (qualifiée pendant la guerre d'"anglo-saxonne") qui vise au "plus grand bonheur pour le plus grand nombre" (le bonheur étant "le bien-être dans l'honnêteté") et qui cultive le "pacifique côte-à-côte des commerçants" (Sombart vitupère ici les "vertus bourgeoises" qu'il avait froidement examinées dans "Le Bourgeois"); de l'autre côté, la mentalité héroïque considère la vie comme une tâche et cultive les "vertus guerrières" (cette mentalité se serait incarnée dans l'Allemagne luthérienne et prussienne). Le "socialisme allemand" de Sombart apparaît comme la traduction à tous les niveaux, notamment au niveau économique, d'une mentalité héroïque dominante: le service de la communauté, de l'Etat et du peuple prime le sevice de soi-même.
Sombart précise le sens qu'il donne au terme "socialisme allemand": " (...) l'on pourrait entendre par socialisme allemand des tendances socialistes répondant à l'esprit allemand, qu'elles soient d'ailleurs représentées par des Allemands ou des non-Allemands. Dans ce sens, on pourrait considérer comme socialisme pensé à l'allemande un socialisme qui serait relativiste, adapté à toute la nation, volontariste, profane, païen, et qu'on pourrait -à fortiori- qualifier de socialisme national. Sous le terme général de socialisme national, on peut entendre un socialisme qui tend à se réaliser dans une association nationale, qui part de l'idée que socialisme et nationalisme sont parfaitemebt adaptables" (ibid., pp. 139/140). Sombart précise encore: "Pour moi, socialisme allemand veut dire socialisme pour l'Allemagne, c'est-à-dire un socialisme qui vaut seulement et exclusivement pour l'Allemagne" (ibid.), parfaitement adapté au corps, à l'âme et à l'esprit de la Nation allemande.
Un socialisme réactionnaire?
On peut dire du socialisme de Sombart qu'il est "réactionnaire":
- en raison de ses objectifs: le socialisme allemand aspire à la "culture" qui est appelée à abolir "l'état actuel de la civilisation". Il faut pour cela briser la primauté de l'économique et des biens matériels qu'a instauré l'âge économique et se libérer de la foi dans le progrès qui obnubile l'âme allemande. Le socialisme de Sombart se veut donc une rupture avec la modernité occidentale (l'"âge économique") et l'idée même de progrès.
"Ce que j'appelle "socialisme allemand" écrit Sombart, signifie -exprimé d'une façon négative- l'abandon de tous les éléments de l'âge économique" (ibid. p.60) "sortir l'Allemagne du désert de l'âge économique, telle est la tâche que le socialisme allemand estime avoir à remplir" (ibid., p.180). Ce qui caractérise l'âge économique c'est que les mobiles économiques, les mobiles matériels "ont prédominé toutes les autres aspirations" (la théorie matérialiste de l'histoire apparaît aiinsi valable pour cette périàde, "mais pour cette période seule"); "(...) c'est la prédominance des intérêts économiques, en tant que tels, qui marque l'époque de son empreinte -étant bien entendu, naturellement, que le caractère de cette empreinte est déterminé par le caractère même de l'économie, en l'espèce l'économie capitaliste" (ibid., p;.18). L'âge économique a conduit à l'explosion démographique de l'Europe, à l'augmentation de la durée de vie moyenne, à l'accroissement considérable de la consommation et de la production des biens matériels. L'Europe industrielle est devenue une ville immense de plusieurs centaines de millions d'habitants, les autres pays du globe formant une banlieue autour de cette ville. Les rapports des pays entre eux furent bouleversés. En Europe, les sociétés et les formes de vie ont été bouleversées: Sombart constate la dissolution des communautés traditionnelles et la fin de l'enracinement, les Européens ne formant plus que des masses d'individus "errant ça et là"; notre existence a été soumise à un processus d'intellectualisation (fin de l'initiative, du travail intelligent, du métier), de matérialisation (c'est-à-dire de mécanisation) et d'égalisation (tendance à l'uniformité). La vie publique elle aussi a été bouleversée (un seul fondement et une seule mesure de la valeur: la richesse; une seule hiérarchie: celle qui se fonde sur le capital et le revenu; des partis de classe sont apparus et l'Etat s'est mis au service des intérêts économiques). Enfin, toute vie spirituelle a disparu ("la vie humaine est devenue vide de sens").
Le socialisme allemand de Sombart, qui est une réaction contre cet état de fait, veut opérer un retour vers un ordre humain (c'est-à-dire un ordre dans lequel l'état de péché qui définit l'homme depuis la chute n'est pas nié, un ordre dans lequel l'homme peut de nouveau servir Dieu). En condamnant l'âge économique et ses manifestations diverses, Sombart apparaît proche d'autres "socialistes allemands" les plus radicaux (les nationaux-bolchéviques) condam-naient la "fuite dans le Moyen-Age", la "tendance anti-industrielle et anti-technique" (et le christia-nisme) qui caractérisaient l'idéologie des frères Strasser et de Sombart; ils repoussaient un "socialisme allemand" si ouvertement réactionnaire et se voulaient résolument modernes: ils acceptaient la société industrielle et le pouvoir de la technique les fascinait.
- Le socialisme de Sombart apparaît réactionnaire en raison de ses références luthériennes.
Ce qui s'est passé en Europe occidentale et en Amérique depuis la fin du XVIIIème siècle est pour Sombart l'œuvre de Satan. Luther jetait son encrier sur Satan venu le tenter, Sombart, émule de Luther, utilise sa plume pour dénoncer l'œuvre de Satan: l'âge économique ...
De Luther et des luthériens, Sombart a retenu l'idée que l'autorité politique est directement instituée par Dieu. Luther a justifié l'autorité politique par le péché originel, par la corruption dont il est cause sur terre; pour Sombart, le "socialisme allemand" exige un état fort car "il met le bien de tous au-dessus du bien de l'individu" et "parce qu'il estime qu'il a à faire à l'homme pécheur". Au sein de la société, affirme Luther, "chaque homme trouve sa vocation dans les obligations ponctuelles de son état (Beruf), dans la réalisation de la charge que Dieu lui a confiée, domaine dans lequel il reste soumis à l'autorité séculière" (Jacques Droz, "Histoire des doctrines politiques en Allemagne", PUF, que sais-je?, Paris 1978, p.22). Sombart rejoint ici aussi l'opinion de Luther. Enfin, pour Luther comme pour le luthérien Sombart, la division de l'humanité en peuples et en Nations correspond à un plan divin: le peuple (Volk) est un organisme d'origine divine appelé à remplir une mission au sein de l'humanité (idée reprise et développée par le luthérien Herder).
Etre un peuple de l’esprit, de l’action et de la variété
Pour remplir la mission que Dieu lui a confiée au milieu des autres peuples, le peuple allemand doit, selon Sombart, être toujours plus un peuple de l'esprit, de l'action et de la variété.
Le luthérianisme conduit donc Sombart à l'étatisme (dans sa version prussienne), au rationalisme -les germanistes français ont révélé le lien très étroit qui unissait le luthérianisme au nationalisme allemand (Jacques Droz, "Histoire des doctrines politiques en Allemagne", Edmond Vermeil "l'Allemagne Essai d'explication", etc.) mais ils l'ont évidemment, caricaturé-, au "corporatisme" (le terme de "corporatisme" n'est peut-être pas très approprié: il ne s'agit pas ici en effet de la Corporation mais du "stand", l'état, voir plus loin).
Sombart est un nationaliste mais il apparaît en retrait par rapport à d'autres auteurs nationalistes, notamment par rapport aux "völkische" stricto sensu (ceux qui mettent l'accent sur la dimension raciale-biologique du peuple): le peuple n'est pas conçu à la manière völkisch comme race, le peuple pas plus que la Nation ou l'Etat ne sont assimilés à des organismes naturels (mais plutôt, à des entités spirituelles -l'organicisme au sens strict est rejeté comme biologisme.
Il faut remarquer que le luthérianisme professé par Sombart l'est aussi par des "socialistes allemands" proches de lui: Otto Strasser, les membres du groupe constitué autour de la revue "die Tat" notamment Hans Zehrer et Léopold Dingräve (surnom de Wilhelm Eschmann).
Le socialisme de Sombart est un anti-judaïsme: "(...) ce que nous avons défini comme étant l'esprit de l'ère économique est justement, à beaucoup d'égards, l'esprit juif. Et, dans ce sens, Karl Marx a certainement raison quand il dit que "l'esprit pratique des Juifs est devenu l'esprit pratique des peuples chrétiens" et que "les Juifs se sont émancipés dans la mesure où les chrétiens sont devenus juifs" et encore que "la nature réelle des Juifs s'est concrétisée dans la société bourgeoise"." ("le socialisme allemand" pp. 215/216). Le capitalisme incarne l'esprit juif, il appartient au "socialisme allemand" d'incarner l'esprit allemand.
Le socialisme prolétarien est un capitalisme à rebours
Par sa nature même, le socialisme allemand" s'oppose au socialisme prolétarien. Le socialisme prolétarien est "un capitalisme à rebours, le socialisme allemand est un anti-capitalisme. L'œuvre libératrice du socialisme allemand ne se limite pas à une classe ou à un autre groupe de la populaton mais s'étend à celle-ci toute entière, dans toutes ses parties (...). Le socialisme allemand n'est pas un socialisme prolétarien, petit-bourgeois ou "partiel", c'est un "socialisme populiste" (ibid.p.180). Il embrasse le peuple entier dans tous les domaines de sa vie.
Pour Sombart, le socialisme prolétarien est "le fils authentique" de l'ère économique. Il en a toutes les tares. Dans son livre sur "Le socialisme allemand", Sombart définit rapidement le contenu idéologique du socialisme prolétarien et critique ses fondements pseuod-scientifiques: il lui reproche notamment d'avoir, avec sa théorie de l'histoire, transformé "les traits particuliers de l'ère économique en traits généraux ce l'histoire de l'humanité" (ibid. p.130). Sombart ne fait que reprendre, pour l'essentiel, les thèses qu'il développa dans "Le socialisme prolétarien" en 1924.
A l'époque où Marx fit ses débuts das la vie active (entre 1840 et 1850), écrit Sombart, "le capitalisme représentait un chaos, quelque chose d'informe, dont il était impossible de prévoir avec certitude les effets et les conséquences. Celui qui en abordait l'étude, guidé par l'idée de l'évolution (et telle fut précisément l'idée directrice de Marx), pouvait assigner à son devenir tous les buts qu'il voulait. Il pouvait y voir en germe les choses les plus magnifiques, prétendre que ce chaos était fait pour enfanter un monde de merveilles, un monde idéal, dont le capitalisme serait la phase préalable, la condition nécessaire" ("L'apogée du capitalisme", pp. 15/16). On comprend ainsi les "bizarres prédictions" de Marx "relatives à l'augmentation illimitée de la productivité, à la "concentration" générale des industries, à l'écroulement final et inévitable de l'édifice économique, etc.". Ainsi se justifiait l'optimisme de Marx. Mais, constate Sombart, le capitalisme nous est désormais connu: "Nous ne sommes plus assez naïfs et ignorants pour adorer le capitalisme comme une Sainte Vierge qui porte dans ses flancs le Rédempteur" (ibid, p.17).
Se mettre à l’écoute dela “Volkheit”
Le "socialisme allemand" exige un Etat fort. Cet Etat fort s'identifie à l'Obrigkeitstaat de tradition luthérienne, dont le chef, le Prince, n'est responsable que devant Dieu, et que Sombart veut, comme Goethe, à l'écoute non du peuple mais de la "populité" (Volkheit) -sur ce dernier point, Sombart démarque Wilhelm Stapel, auteur protestant d'une "théologie du nationalisme" (dont le titre exact est: "L'homme d'Etat chrétien. Théologie du nationalisme", paru en 1932). Stapel écrivait: "Les lois justes ne doivent pas correspondre à la "volonté du peuple", mais à la "volonté de la Volkheit". Car le peuple ne sait jamais d'une volonté claire ce qu'il veut, mais la Volkheit est raisonnable, constante, pure et vraie."- Sombart n'est pas le seul à préconiser un renouveau de l'Obrigkeitstaat, d'autres en Allemagne préconisent aussi (des représentants de la jeune génération parmi lesquels ses disciples de "die Tat").
L'étatisme de Sombart n'est pas fondé sur la seule doctrine de Luther. Sombart cite Hegel et prétend se rattacher à "la conception allemande de l'Etat" (l'Etat y est envisagé comme une "union idéale" par oppo-sition à la conception rationnelle et individualiste) à laquelle sont restés fidèles les conservateurs prussiens et les socialistes allemands (Lorenz von Stein, Rodbertus, Lassalle).
L'Etat allemand qu'il imagine devrait s'inspirer de l'exemple de l'Eglise catholique ou de l'armée prussienne et, tout en étant fort, il devrait être fédératif et décentralisé.
"Le socialisme allemand désapprouve (…) la forme qu'a revêtue la société à l'époque économique". Il aspire à un ordre social "corporatif" ou "organique" ou "populaire", notions qui paraissent s'unir toutes en celle de répartition par états"("le socialisme alle-mand", p.240). Sombart établit "une distinction catégorique entre deux notions d'état: la notion sociale et la notion politique". Dans le premier sens, l'état est un "tout partiel" qui, avec d'autres "touts partiels", constitue "l'organisme social". "La notion politique de l'état-classe est par contre celle qui entend par état un groupe qui est reconnu comme tel par l'Etat-pouvoir politique, qui y est incorporé et qui en a reçu des missions déterminées. Ces missions sont principalement les suivantes: (1) entretien d'une mentalité particulière, d'un esprit particulier (…); (2) renforcement du principe de l'inégalité dans l'Eta-pouvoir politique par l'octroi à l'état-classe de privilèges déterminés ou le retrait de droits déterminés; (3) exercice de fonctions dans la vie po-litique et sociale." (ibid, p.242). Pour Sombart, c'est dans un sens politique qu'il convient d'entendre la notion d'état.
Cette conception de l'état procède à la fois du "Beruf" luthérien et du "Stand" romantique remis à l'honneur par l'école viennoise d'Othmar Spann. L'idée d'état connaît alors un vif succès dans les milieux nationalistes allemands, particulièrement chez ceux qui s'y veulent "socialistes allemands".
La technique doit se plier au nomos
Nous vivons dans l'âge technique, constate Sombart. "Si notre époque est celle de la technique, c'est qu'elle a oublié les buts pour les moyens, autrement dit, qu'elle a vu le but final dans la création artificielle des moyens". Tout le monde admire les produits d'une technique perfectionnée "sans se demander quels buts seront ainsi atteints, sans apprécier les valeurs qui seront ainsi produites" (ibid. p.276). "A quel point la technicisation de notre époque est avancée, on le voit par la façon dont le culte de la technique s'étend à tous les domaines de notre culture et les marques tous de son empreinte" (ibid, p.277). Face à cet état de fait, comment réagir? Sombart rejette les "théories fatalistes" ("la technique moderne permet aux hommes de rationaliser la terre"): le "socia-lisme allemand" domestiquera la technique et la pliera au nomos! Sombart préconise, outre un certain nombre de mesures policières, un contrôle de l'office des Brevets sur la valeur de l'invention puis un contrôle sur l'application de l'invention; la recher-che scientifique sera enlevée à l'initiative privée et confiée à un institut d'Etat; les inventeurs seront rémunérés sans tenir compte de la valeur com-merciale ou industrielle de l'invention, "ainsi la fièvre des inventeurs tombera".
Le "socialisme allemand" doit encourager une "bonne consommation" qui entretienne "des formes de vie simples et naturelles". Sombart rejette la culture prolétarienne et lui préfère une culture "bourgeoise" (c'est-à-dire une certaine aisance) et paysanne (bien enracinée et variée). Il rejette aussi le "luxe capitaliste du bourgeois" et réserve l'éclat et la splendeur à l'Etat.
La consommation en Allemagne est pour Sombart mal organisée d'un point de vue quantitatif et qualitatif. Beaucoup de défauts de la consommation actuelle dépendent de certaines conditions de la vie moderne (urbanisation, notamment). L'Etat doit donc intervenir pour amener les masses à modifier leur consommation.
Le "socialisme allemand" vise aussi à l'orga-nisation de la production. Sombart veut subs-tituer une économie planifiée à l'économie "libre" (c'est-à-dire abandonnée à l'arbitraire des individus). Remarque préalable: "économie plani-fiée" ne signifie pas pour Sombart "collectivisme". Dans l'économie qu'il envisage "la propriété privée et la propriété collective subsisteront côte à côte" (éco-nomie mixte) mais la propriété privée sera "une propriété donnée en fief" (ibid., p.346). Opposé au collectivisme doctrinaire, Sombart ne manifeste cependant pas un respect exagéré pour la propriété privée: pendant la Grande Crise, il réclame la création d'une "propriété sociale" (Louis Dupeux, op. cit., p.15).
L’économie planifiée selon Sombart
Une véritable économie planifiée, d'après Sombart, se caractérise par:
- la totalité "c'est-à-dire qu'il n'y a économie planifiée que lorsque le plan embrasse l'ensemble des exploitations et des phénomènes économiques à l'intérieur d'un territoire important" ("le socialisme allemand", p.302). Mais le plan peut comptendre des zones libres "où l'individu pourra faire et laisser faire ce qui lui plaira".
- "l'unité, c'est-à-dire un centre unique d'où émane le plan" (ibid., p.303). L'économie doit être soumise au "Führerprinzip" et au-dessus des chefs d'entreprise, il doit exister une direction suprême: le "conseil suprême économique" (le centre unique de décision ne peut être que l'Etat, ou une émanation de celui-ci, c'est dire qu'une économie planifiée ne peut être qu'une économie nationale. Mais l'économie nationale doit être nécessairement planifiée si on veut qu'elle assure l'unité de la Nation).
- la variété: le plan doit tenir compte de la dimension des domaines économiques; de la structure sociale d'un pays donné; du caractère national, du niveau culturel et de toute l'histoire du pays. Les diverses branches de l'économie doivent être organisées différemment et cette organisation varie à l'intérieur même de chaque branche. L'économie planifiée doit aussi avoir des moyens d'action variés.
C'est ainsi que l'économie planifiée nationale cor-respond à cette "économique qu'Aristote opposait à la chrématistique"." (ibid., p.306).
Autarcie et autarchie
A l'économie mondiale en crise, Sombart oppose l'autarcie. "Autarcie ne signifie pas, bien entendu, qu'une économie nationale doive devenir indé-pendante d'une façon intégrale (…), qu'elle doive renoncer à toute relation internationale quelle qu'elle soit (…). En considérant les faits, je qualifierais déjà d'autarcique une économie nationale qui ne dépend en aucune façon de ses relations avec les peuples étrangers, c'est-à-dire qui n'est pas obligée de recourir au commerce extérieur pour assurer sa propre existence (…)" (ibid., p.310). Mais "l'autarchie est plus importante que l'autarcie. Or l'autarchie nationale réside dans le fait que les catégories où nous pensons les relations internationales de l'avenir ne sont plus celles du commerce libre -où l'on trouvait, à la première place, la funeste clause de la nation la plus favorisée- mais celle d'une politique nationale planifiée: traités de commerce, unions douanières, droits préfé-rentiels, contingentements, interdictions d'impor-tation et d'exportation, commerce de troc, principe de la réciprocité, monopole du commerce de certains articles, etc." (ibid., p.348).
Sombart s'en prend à la grande industrie: son socialisme doit favoriser l'économie paysanne et artisanale et donc les classes moyennes. A l'opposé du socialisme prolétarien, le "socialisme allemand" met au centre de sa sollicitude non pas le prolétariat, mais les classes moyennes qui sont le plus aptes à défendre les intérêts de l'individu comme de l'Etat: c'est uniquement dans les exploitations paysannes et artisanales que l'hommes ayant une activité économique trouve la possibilité de se développer pleinement, de donner son véritable sens au travail, forme la plus importante de la vie humaine" (ibid., pp.318/319). Le "socialisme allemand" veillera au développement de l'activité artisanale, à la réorganisation du pays et s'opposera à l'indus-trialisation croissante de l'agriculture.
Domaine de l’industrie et Plan
Dans le domaine de l'industrie, Sombart préconise, outre la soumission des entreprises aux objectifs du plan:
- la socialisation de certains secteurs stratégiques de l'économie et un contrôle de l'Etat sur les entreprises abandonnées au capitalisme (notamment un contrôle du crédit);
- l'amélioration des conditions de travail et la fixation des salaires ouvriers par l'Etat;
- la fin de la concurrence sauvage et de la "con-currence suggestive" (la publicité); en revanche "la concurrence matérielle ne doit pas être exclue des cadres de l'économie dirigée";
- l'abandon du principe de rentabilité remplacé par l'"esprit ménager"
- une "production permanente et continue": "nous sommes maintenant mûrs pour une économie stationnaire et nous renvoyons l'économie "dynamique" du capitalisme là où elle avait son origine: au diable". "En stabilisant nos méthodes de production, de transport et de vente, nous supprimons une des causes des arrêts et troubles périodiques du processus économique et, par conséquent, le danger toujours menaçant du chômage, la pire des plaies de l'ère économique" (ibid., pp.340/341).
Lutte contre le chômage et travaux publics
L'Etat doit lutter contre le chômage et en même temps entreprendre la transformation de l'économie nationale. Pour lutter contre le chômage, écrit Sombart, l'Etat doit se créer une capacité d'achat supplémentaire qu'il utilisera afin d'entreprendre ou d'encourager des travaux convenables (c'est-à-dire des travaux "dont la réalisation peut entraîner une augmentaton, notamment une augmentation durable de la productivité nationale, plus exactement encore une augmentation du volume des marchandises"; ces travaux doivent être des travaux durables ou entraîner des travaux durables qui contribuent à un développement permanent de l'organisme produc-teur"; ces "travaux doivent ouvrir ces sources intaris-sables au sein de l'économie nationale allemande, afin de la rendre plus productive et susceptible de devenir indépendante"(ibid., pp 356/357).
Pour Sombart, la colonisation agricole semble le meilleur moyen de ranimer l'économie allemande et d'entraîner une transformation de celle-ci et de la société elle-même dans le sens voulu par le "socialisme allemand".
Sombart reprend ici à son compte le programme d'Heinrich Dräger et de Gregor Strasser qu'il avait approuvé et soutenu en 1932. Heinrich Dräger, fabricant de Lübeck et fondateur de la "Société d'Etudes pour une économie monétaire et une économie de crédit" (à laquelle collaborait Ernst Wagemann), défendait l'idée de "la création de travail par la création de crédit productive" (cf. Jean-Pierre Faye, "Langages totalitaires", Hermann, Paris, 1973, pp.647/648). Dräger rédigea pour Gregor Strasser (alors n°2 du Parti nazi et dirigeant de son aile gauche), la seconde partie du "programme économique de la NSDAP" publié en août 1932 sous le titre de "Sofortprogramm". Ce texte proposait un programme de création de travail de grande envergure mené sous l'égide de l'Etat et accompagné de réformes de structure. Il prévoyait, à côté de la modernisation des villes et de la construction d'habitats sains, le partage des grandes propriétés foncières non rentables en vue de l'établissement de paysans sans terre et l'exécution de travaux nécessaires au développement de l'économie rurale (ibid., pp 656 et 672).
En guise de conclusion …
Il est impossible de dissocier le scientifique Sombart, sociologue, économiste et historien de l'économie, du Sombart militant, marxiste puis "socialiste allemand" et nationaliste luthérien. Le premier étudie froide-ment le capitalisme et l'esprit capitaliste, le second les condamne en bloc et bâtit une alternative. Les deux se complètent. Pendant la Grande Guerre, "Marchands et héros" fait écho au "Bourgeois", Sombart y oppose au type humain bourgeois, porteur du capitalisme, le héros porteur de ce qu'il définira plus tard comme "socialisme allemand". Le "socialisme allemand" fait écho pendant la Grande Crise au maître-ouvrage de Sombart, "le capitalisme moderne" achevé peu avant.
Sombart a probablement influencé (et subi l'influence) de nombreux autres "socialistes allemands". Sombart avoue d'ailleurs cette parenté: le socialisme dont il se réclame, il le voit représenté en Allemagne par de nombreux nationaux-socialistes (sans doute pense-t-il plus particulièrement à Gregor Strasser), "par plusieurs adhérents à l'ancien Front Noir parmi lesquels se distingue Otto Strasser, auteur d'un livre plein de pensée, "Der Aufbau des deutschen Sozialismus" (1932), ainsi que par plusieurs isolés, comme les partisans de l'ancien milieu du "Tat" (de l'"Action"): Eschmann, Fried, Wirsing, Zehrer, etc., par des hommes comme August Winnig, August Pieper, et beaucoup d'autres encore" ("Le socialisme allemand", p.140).
Mais, les convictions personnelles de Sombart, et plus encore: son ton, le rapprocherait plutôt d'un autre courant situé nettement plus "à droite" et dans lequel on peut ranger Oswald Spengler; Wilhelm Stapel, directeur de la revue "Deutsches Volkstum" (Hambourg); Karl-Anton Prinz Rohan, directeur de l'"Europaïsche Revue"; Othmar Spann, idéologue de l'"austro-fascisme"; Edgar Jung, animateur du "Münchener Kreis", conseiller de von Papen; Heinrich von Gleichen, animateur et président du "Herrenklub"; voire Julius Evola. etc. Avec eux Sombart partage l'inspiration chrétienne, une idée de la race (et du Volk) dégagée de la biologie, une conception de l'Etat autoritaire éventuellement ditrigé par une aristocratie de naissance, une conception "universaliste" du corps social et la vision d'un ordre social fondé sur la hiérarchie des "Stände" qiu n'est pas sans évoquer, tout nuance péjorative mise à part, l'ordre des castes, etc. Un crédo qui s'oppose point par point au crédo du nationalisme populaire (Völkisch) qui s'est pourtant inspiré de Sombart pour construire sa doctrine économique.
Thierry MUDRY.
(article paru dans la revue “Orientations”, Wezembeek-Oppem, n°12, été 1990/hiver 1990-91).
00:05 Publié dans Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : théorie politique, politologie, socialisme, sciences politiques, allemagne, révolution conservatrice, philosophie | |
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jeudi, 05 novembre 2009
Entortende Verortung
Entortende Verortung
ex: http://www.sezession.de/
Der Begriff „Parallelgesellschaften“ ist heute sehr beliebt, wenn es darum geht, die Auswüchse der gescheiterten Integration von Ausländern zu beschreiben. Mir erscheint er als völlig ungeeignet, weil sich in Deutschland ja kein nettes, kleines gallisches Dorf im Römischen Reich gebildet hat, mit dem es zwar hin und wieder Ärger gibt, das aber intern ganz gut funktioniert.
Weil diese „Parallelgesellschaften“ allein nicht lebensfähig sind und gesellschaftszerstörend wirken, möchte ich ein alternatives Begriffspaar vorschlagen: entortende Verortungen.
Wie ist die Lage? In allen westdeutschen Großstädten gibt es Stadtteile, in denen Ausländer bereits die Mehrheit der Bevölkerung stellen. In einigen Fällen drohen sogar ganze Städte zu kippen (z.B. Offenbach). Überproportional viele Ausländer in diesen Vierteln leben auf Staatskosten, weil sie keine Notwendigkeit erkennen, eine Arbeit zu ergreifen und weil der Staat keine Anstrengungsbereitschaft abfordert. Ein Blick in die Kriminalstatistiken beweist des weiteren, daß wiederum überproportional viele Ausländer straffällig werden.
Diese eindeutigen Zahlen dürfen jedoch nicht dazu verleiten, die Deutschen als Opfer und „die Ausländer“ als Täter oder Schmarotzer zu klassifizieren. Es ist komplizierter, denn auch orientierungslose Ausländer sind in gewisser Weise Opfer. Sie leiden ebenso wie die Deutschen an der desaströsen Einwanderungspolitik der Bundesrepublik, die einerseits dieses Land überfremdet und andererseits entortende Verortungen geschaffen hat.
Zwar ist dieser Ausdruck, den ich bei dem italienischen Philosophen Giorgio Agamben in Homo sacer aufgespürt habe, für eine breite Debatte zu kompliziert. Er hilft aber dabei, Wesen und Folgen der planlosen Masseneinwanderungspolitik offenzulegen.
Was geschieht also? Bildungsferne Ausländer kommen mit Wohlstandserwartung nach Deutschland, das in einer Identitätskrise steckt und weder Kraft noch Willen hat, die Neuankömmlinge an das eigene Leben heranzuführen. Der Staat ist aber nicht tatenlos: Asylbewerber versorgt er in Heimen und „integriert“ Migranten, indem er ihnen unabhängig von deren Leistungen und Fähigkeiten, ein angenehmes Grundeinkommen (mindestens HartzIV) zusichert. Das führt dazu, daß für sie die Möglichkeit besteht, abgeschottet von der Außenwelt in irgendwelchen sozialen Brennpunkten, in denen kaum noch einer Deutsch spricht, auf relativ niedrigem Niveau zu leben. Durch seine Sozialpolitik unterstützt die BRD solche Ghettoisierungen.
Das Leben in solchen Ghettos läßt die betreffenden Migranten in großem Abstand zu den Deutschen leben, aber – und das ist der entortende Faktor – er entfremdet sie auch von der eigenen Kultur. Sie üben zwar vielfach noch ihre Religion aus, aber insgesamt stumpfen sie doch erheblich durch monotone Tage in diesen Ghettos ab. Die Reaktion von vielen Jugendlichen mit Migrationshintergrund, die in diesem entortenden Umfeld aufwachsen, ist Gewalt. Das nennen wir dann Vorbürgerkrieg.
00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : sociologie, immigration, multiculture, multiculturalisme, moeurs contemporaines | |
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« L'euphémisme est indispensable pour susciter durablement la confiance des investisseurs – dont on aura compris qu'elle est l'alpha et l'omega de tout le système économique, le fondement et le but ultime, le telos, de l'Europe de l'avenir – tout en évitant de susciter la défiance ou le désespoir des travailleurs, avec qui, malgré tout, il faut aussi compter, si l'on veut avoir cette nouvelle phase de croissance qu'on leur fait miroiter, pour obtenir d'eux l'effort indispensable. […] Si les mots du discours néolibéral passent si facilement, c'est qu'ils ont cours partout. Ils sont partout, dans toutes les bouches. Ils courent comme monnaie courante, on les accepte sans hésiter, comme on fait d'une monnaie, d'une monnaie stable et forte, évidemment, aussi stable et aussi digne de confiance, de croyance, que le deutschemark : « Croissance durable », « confiance des investisseurs », « budgets publics », « système de protection sociale », « rigidité », « marché du travail », « flexibilité », à quoi il faudrait ajouter, « globalisation », « flexibilisation », « baisse des taux » – sans préciser lesquels – « compétitivité », « productivité », etc. Cette croyance universelle, qui ne va pas du tout de soi, comment s'est-elle répandue ? Un certain nombre de sociologues, britanniques et français notamment, dans une série de livres et d'articles, ont reconstruit la filière selon laquelle ont été produits et transmis ces discours néolibéraux qui sont devenus une doxa, une évidence indiscutable et indiscutée. Par toute une série d'analyses des textes, des lieux de publication, des caractéristiques des auteurs de ces discours, des colloques dans lesquels ils se réunissaient pour les produire, etc., ils ont montré comment, en Grande-Bretagne et en France, un travail constant a été fait, associant des intellectuels, des journalistes, des hommes d'affaires, dans des revues qui se sont peu à peu imposées comme légitimes […] Ce discours d'allure économique ne peut circuler au-delà du cercle de ses promoteurs qu'avec la collaboration d'une foule de gens, hommes politiques, journalistes, simples citoyens qui ont une teinture d'économie suffisante pour pouvoir participer à la circulation généralisée des mots mal étalonnés d'une vulgate économique. Un exemple de cette collaboration, ce sont les questions du journaliste qui va en quelque sorte au devant des attentes de l’économiste : il est tellement imprégné par avance des réponses qu'il pourrait les produire. C'est à travers de telles complicités passives qu'est venue peu à peu à s`imposer une vision dite néolibérale reposant sur une foi d'un autre âge dans l'inévitabilité historique fondée sur le primat des forces productives. Et ce n'est peut-être pas par hasard si tant de gens de ma génération sont passés sans peine d'un fatalisme marxiste à un fatalisme néolibéral : dans les deux cas, l'économisme déresponsabilise et démobilise en annulant le politique et en imposant toute une série de fins indiscutées, la croissance maximum, l'impératif de compétitivité, l'impératif de productivité, et du même coup un idéal humain, que l'on pourrait appeler l'idéal FMI (Fonds monétaire international). On ne peut pas adopter la vision néolibérale sans accepter tout ce qui va de pair, l'art de vivre yuppie, le règne du calcul rationnel ou du cynisme, la course à l'argent instituée en modèle universel. Prendre pour maître à penser le président de la Banque fédérale d'Allemagne, c'est accepter une telle philosophie. Ce qui peut surprendre, c'est que ce message fataliste se donne les allures d'un message de libération, par toute une série de jeux lexicaux autour de l'idée de liberté, de libéralisation, de dérégulation, etc., par toute une série d'euphémismes, ou de double jeux avec les mots. […] Si cette action symbolique a réussi au point de devenir une croyance universelle, c'est en partie à travers une manipulation systématique et organisée des moyens de communication. Ce travail collectif tend à produire toute une série de mythologies, des idées-forces qui marchent et font marcher, parce qu'elles manipulent des croyances : c'est par exemple le mythe de la globalisation et de ses effets inévitables sur les économies nationales ou le mythe des "miracles" néolibéraux, américain ou anglais. »
Pierre Bourdieu, "Dans la tête d’un banquier", Le Monde Diplomatique, septembre 1997 |
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Eurasia: Continente autarchico!
Archives - 2004
Eurasia: Continente autarchico!
Che l’Eurasia possa divenire un continente autarchico non è un’utopia, ma lo confermano i freddi dati economici; per scongiurare tale eventualità, che metterebbe la parola fine alla globalizzazione capitalistica, i moloch del libero mercato stanno correndo ai ripari.
Peraltro, l’Eurasia è l’unico blocco potenziale che negli ultimi 25 anni abbia ridotto i consumi di petrolio a vantaggio di altre fonti energetiche, idrogeno, energia solare … e con il protocollo di Kyoto abbia almeno ipotizzato la possibilità di uno sviluppo economico alternativo.
Analizzando le stime accertate per quanto riguarda le riserve di greggio, gas naturale e carbone, possiamo facilmente comprendere gli scopi delle guerre statunitensi contro Afghanistan e Iraq: un disperato tentativo di accaparrarsi immensi giacimenti di materie prime, evitare un declino ormai irreversibile e mantenere uno stile di vita insostenibile (36,1% di emissioni di anidride carbonica nel mondo, a fronte di una popolazione del 4% circa dell’intero pianeta).
Ma lasciamo parlare le cifre. (1)
Il 65,4% delle riserve petrolifere accertate alla fine del 2002 si trovano in Medio Oriente, il 9,4% in Sudamerica e solo il 4,8% in America settentrionale; 8 milioni di barili di greggio vengono estratti ogni giorno in Arabia Saudita, 7,8 in Russia, 5,8 negli USA, 3,5 in Iran, 3,3 in Cina, 3,05 in Messico.
* Riserve di greggio (accertate al 2002 in miliardi di barili):
Asia del Pacifico: 38,7
Nord America: 49,9
Africa: 97,5
Eurasia: 97,5
Sud e Centro America: 98,6
Medio Oriente: 685,6
* Giacimenti di gas naturale (accertati al 2002, in migliaia di miliardi di m3):
Sud e Centro America: 7,08
Nord America: 7,15
Africa: 11,84
Asia del Pacifico: 12,61
Medio Oriente: 56,06
Eurasia: 61,04
* Disponibilità di carbone (accertate al 2002 in miliardi di tonnellate)
Medio Oriente: 1,7
Sud e Centro America: 21,8
Africa: 55,4
Nord America: 257,8
Asia del Pacifico: 292,5
Eurasia: 355,4
Ricapitolando, l’Eurasia possiede il doppio delle riserve di greggio degli Stati Uniti (la cui supremazia è ancora schiacciantemente detenuta dal Medio Oriente), è superiore di nove volte per quanto riguarda i giacimenti di gas naturale rispetto a quelli nordamericani e ha disponibilità di carbone per oltre 1/3 maggiore.
Teniamo inoltre presente che -in base agli scenari individuati dai ricercatori della multinazionale Royal Dutch Shell- si assisterà nei prossimi anni a una vera e propria corsa verso il gas naturale -risorsa della quale la Russia è ricchissima-; entro il 2010, esso sostituirà il carbone (che oggi costituisce il 24% della produzione d’energia primaria nel mondo), entro il 2020 il petrolio (ora al 35%).
Se teniamo presente la disponibilità manifestata da vari paesi arabi di vendere il proprio petrolio in euro (Iraq -poi aggredito- Libia, ma anche paesi dell’OPEC e Russia), riusciamo a immaginare facilmente perché oggi gli Stati Uniti stiano giocando allo «scontro di civiltà» e di quale portata sia il tradimento operato da quelle classi dirigenti europee che insistono a mantenerci legati al carro di Washington.
Una sovranità limitata che la nazione italiana paga in modo particolare; nel maggio 1994 viene completamente liberalizzato il prezzo dei prodotti petroliferi, dopo un lungo periodo nel quale esso veniva stabilito dal governo attraverso il CIP (Comitato interministeriale prezzi).
Premesso che il prezzo del petrolio incide in minima parte sul prezzo finale e che il 68% di quello di un litro di carburante è costituito da gravame fiscale che finisce nelle casse dello Stato, bisogna ricordare che rincari o ribassi del restante 32% segue l’andamento di logiche particolari, spesso legate al rapporto domanda-offerta ma che hanno in linea di massima origine negli Stati Uniti (che dominano il mercato mondiale con i loro 19,8 milioni di barili di greggio consumati ogni giorno).
Come rivela Gabriele Dossena sul “Corriere della Sera” «nella formazione delle quotazioni del greggio al New York merchantile exchange intervengono per esempio fattori come il calo delle scorte americane, oppure cambiamenti climatici locali che possono spingere la domanda oltre le previsioni… Un ruolo determinante lo rivestono pure le raffinerie, gli impianti in grado di trasformare il famoso barile di petrolio in una diversità di prodotti finiti…
Ebbene basta un guasto in una di queste raffinerie, oppure un improvviso spostamento della domanda dalla benzina al gasolio o più semplicemente una parziale inattività per manutenzione dell’impianto, ed ecco che i prezzi del prodotto finale come per incanto si impennano per tutto il resto della popolazione mondiale. C’è infatti un indice, sconosciuto ai non addetti ai lavori, che ogni giorno riporta l’andamento delle quotazioni di carburanti e prodotti finiti: è l’indice Platt’s (Platt’s oilgram price service), di origine americana, una sorta di bussola utilizzata dalle compagnie petrolifere per fissare i prezzi che poi vengono applicati in ogni parte del mondo». (2)
Se qualcuno finge ancora di non capire quanto ci costi la dipendenza dal protettorato a stelle e strisce e la logica del mondialismo usurocratico farebbe bene a svegliarsi: la battaglia finale per la “Terra di Mezzo” (l’Heartland) è da tempo iniziata; la coscienza del destino imperiale dell’Eurasia, blocco continentale autarchico e Tradizionale, dev’essere diffusa, pena l’estinzione nel magma indifferenziato del villaggio globale.
Stefano Vernole
Note:
(1) Tutti i dati riportati sono tratti dal “Corriere della sera - Documenti”, 20 giugno 2003, p. 5
(2) Gabriele Dossena, “C’è un guasto a una raffineria americana? Da noi benzina più cara”, ibidem
Ultimo aggiornamento: domenica 15 febbraio 2004
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Paganisme et nature chez Hermann Löns
Paganisme et nature chez Hermann Löns
Recension: Martin ANGER, Hermann Löns. Schicksal und Werk aus heutiger Sicht, G.J.Holtzmeyer Verlag, Braunschweig, 1986, 190 p., 32 ill., ISBN 3-923722-20-6.
- Thomas DUPKE, Mythos Löns. Heimat, Volk und Natur im Werk von Hermann Löns, DUV/Deutscher Universitäts-Verlag, Wiesbaden, 1993, 381 p., DM 64,
ISBN 3-8244-4140-3.
- Thomas DUPKE, Hermann Löns. Mythos und Wirklichkeit, Claasen, Hildesheim, 1994, 224 p., 20 ill., DM 38, ISBN 3-546-00086-2.
Dans sa thèse de doctorat sur Löns, Dupke récapitule toutes les thématiques qui font de Löns un précurseur des mouvements naturalistes allemands (Wandervögel, écologistes, adeptes de l'amour libre). La thématique de l'amour libre procède d'une volonté de sensualiser la vie, d'échapper à la rationalité bureaucratique et industrielle. Amour libre et sentiment de la nature vont de paire et s'opposent à la Ville, réceptacle de toutes les laideurs. Löns fuit dans un espace sans société, où les règles de l'urbanité n'ont pas de place.
Le rapport paganisme/christianisme transparaît clairement: les paysans de la Lande de Lünebourg sont certes devenus de “bons chrétiens”, mais en surface seulement; dans leur intériorité, ils sont restés les mêmes, “ils secouent les liens que leur avait imposés la religion des chrétiens”. Mais, chez Löns, qui n'est pas à proprement parler un auteur néo-païen Dieu n'est pas remis en question, mais, face aux marodeurs qui écument la région, il devient, pour les paysans armés (les Wehrwölfe) un Dieu de la vengeance, comme dans l'Ancien Testament, mais aussi comme dans l'idéal païen-germanique de la Feme. Löns expose un conglomérat païen et vétéro-testamentaire, où il n'y a aucune séparation nette entre les deux héritages.
Pour Löns, le paysan de la Lande est un être éternel, sans histoire, inamovible face aux changements: il est l'Urtyp (le type originel) de l'“être du Volk”. Le paysan selon Löns est l'idéal d'un homme de communauté qui sélectionne sans état d'âme les plus forts, pour que survive sa communauté, matrice du peuple. L'idée dérive du projet eugéniste d'Otto Ammon, cherchant à préserver et à valoriser les classes rurales dans l'Allemagne en voie d'industrialisation et d'urbanisation. Cet idéal dérive également, constate Dupke, d'une triple lecture de Nietzsche, Lagarde et Langbehn. De Nietzsche, Löns a retenu les tirades contre les “Philistins”, imbus de leur “culture”. De Lagarde, l'idée d'une renaissance germanique, d'un retour aux valeurs originelles de la Germanie et des rites païens, capables de fortifier un christianisme régénéré et germanisé (Lagarde n'est pas païen!). De Langbehn, l'idée du paysan comme “meilleur Allemand”, par sa simplicité, sa frugalité et sa forte capacité d'intuition.
Le contexte dans lequel évolue Löns, qui est celui de toute la contestation allemande de 1890 à 1914, débouche sur deux perspectives pratiques: l'Heimatkunstbewegung (= le mouvement de l'art du terroir) et sur la fondation de “parcs naturels”. Le 30 mars 1898, le parlement prussien vote une mention préconisant la création de réserves naturelles sur le modèle de la loi américaine de 1872 (pour le “Yellowstone Park”). Löns a soutenu cette initiative, avec le botaniste Hugo Conwentz, mais était sceptique; les parcs ne deviendront-ils pas zones récréatives pour citadins, les dimanches ensoleillés? Pour Löns, la protection de la nature et du patrimoine rural ne devait pas se limiter à ces parcs, mais être généralisée à tout le pays, en tous domaines (Robert Steuckers).
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mercredi, 04 novembre 2009
Trece poetas argentinos y un homenaje a Ezra Pound
Trece poetas argentinos y un homenaje a Ezra Pound
“ARGENTARIUM”, UNA ANTOLOGIA BILINGÜE DE LOS POEMAS CORTOS DEL ESCRITOR
En 1885, en una cabaña de Idaho, en la norteamerica profunda, nacía un bebé de nombre Ezra y de apellido Pound. A poco de crecer, Ezra fue expulsado por conductas indecorosas como ayudante universitario, emigró a Europa y desde allí fue el padre maldito de la poesía norteamericana contemporánea, promotor e influjo de las vanguardias literarias en el mundo. Hoy el sello Ediciones en Danza le rinde tributo con “Argentarium”.
El título corresponde a un libro bilingüe que, bajo la mirada atenta del poeta Jorge Aulicino, reúne las traducciones que 13 poetas argentinos de distintas generaciones hicieron sobre la obra de Pound a lo largo del último siglo. Desde la versión que en 1946 Rodolfo Wilcock publicó sobre La Primavera, hasta los recientes trabajos de Ezequiel Zaidenwerg. Los créditos de las traducciones no están debajo de cada uno de los 47 poemas incluidos, sino al terminar el libro. El fin buscado es el de exaltar la obra poética y poner en segundo plano la intervención de los traductores.
Esta decisión produce un segundo efecto, curioso. Porque si, efectivamente, una voz homogénea parece recorrer los textos, hay una segunda voz que, si bien prudente, por momentos emerge del Pound universal: es la voz de un Pound rioplatense.
A pesar de su presencia intermitente, el uso del voceo, la incorporación de términos coloquiales o locales como “chicos” en vez de “niños”, y hasta la decisión que Aulicino toma al elegir -con todo lo que connota en estas tierras- la palabra “asado” para referirse a la carne asada al horno en el poema Versos gnómicos, son rasgos que diferencian a “Argentarium” de cualquier otra antología del poeta en lengua castellana. Decisiones que, cuando se toman, armonizan con la idea que el propio Pound tenía de la traducción: traducir lenguas, épocas, situaciones culturales, generar textos autónomos respecto de los originales e, incluso, a veces, rubricarlos con la firma del traductor.
Cuenta Javier Cófreces, poeta y director de Ediciones en Danza, que hacía más de 20 años que no se publicaban libros con traducciones argentinas de Pound. La decisión de “Argentarium” es, en cierto modo, una toma de posición en el campo intelectual.
Pound es un padre incómodo para la literatura norteamericana y para la poesía contemporánea en general. “Está claro que su genio y figura resultan más conocidos por los escándalos políticos, que por la lectura profunda y minuciosa de su obra” opina Cófreces.
“Argentarium” comienza con las traducciones que ya habían sido publicadas. Son los trabajos de Alfredo Weiss, Rodolfo Wilcock, Carlos Viola Soto, Marcelo Covian, E.L. Revol, Jorge Perednik y Gerardo Gambolini.
A continuación aparecen las traducciones inéditas hasta el momento. Son las de Jorge Aulicino, Jorge Fondebrider, Javier Cófreces-Matías Mercuri, Jonio González, Ezequiel Zaidenwerg y Silvia Camerotto.
En uno y otro caso, la mitad de los poemas elegidos por traductores y poetas, corresponden a “Lustra”, un libro en que Pound experimenta cabalmente con la utilización del verso libre. Una práctica que marcó a fuego los últimos cien años de poesía.
Gabriel Reches
Extraído de Clarín.
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Hommage à Friedrich Naumann: visionnaire européen et homme politique national-libéral
Anton SCHMITT:
Hommage à Friedrich Naumann: visionnaire européen et homme politique national-libéral
Les partis politiques de la République Fédérale allemande cherchent tous à se donner des traditions spécifiques, ancrées dans leur propre histoire. Au cours de ces cinquante dernières années, la CDU, rassemblement de conservateurs, de catholiques, de libéraux et de nationaux, n’a pas cherché à se donner une légitimité historique et ne s’est pas davantage donné de ligne politique claire; ce n’est pas le cas chez les sociaux-démocrates et les libéraux. Ces deux familles politiques donnent aux fondations et aux agences fédérales proches de leur parti le nom de personnalités historiques qui ont jadis structuré ou promu le parti.
La fondation proche de la FDP libérale a reçu le nom de Friedrich Naumann, mort il y a 90 ans. Naumann était né le 25 mars 1860 à Leipzig, dans la famille d’un pasteur évangélique. Après son examen dit de “maturité”, il s’en alla étudier la théologie évangélique à Leipzig et Erlangen. Sur la scène politique allemande, il se manifeste pour la première fois à l’âge de 21 ans en adhérant au VDSt (“Verein Deutscher Studenten” ou “Association des Etudiants Allemands”), un association étudiante d’inspiration nationale. De cette association naîtra plus tard le “Kyffhäuser Verband”. En 1883, Naumann accepte un poste à la “Rauhes Haus”, une institution sociale établie à Hambourg. En 1886, il est nommé pasteur à Glauchau en Saxe puis s’installe à la “Mission Intérieure” à Francfort sur le Main en 1890. Il vise à promouvoir une rénovation fondamentale du protestantisme. Lors du Congrès évangélique-social, structure nouvellement fondée, il devient porte-paroles d’un groupe chrétien-social d’inspiration libérale. A partir de 1896, il mettra toujours davantage l’accent sur la nécessité de s’engager politiquement et fonde, dans cette optique, le “Nationalsozialer Verein” (“Association nationale et sociale”) et édite la revue “Die Hilfe” que reprendra plus tard Theodor Heuss, qui devint le premier président de la République Fédérale allemande après 1945. Les deux hommes vont propager l’idée d’un libéralisme socialement responsable. Après la fusion entre le “Nationalsozialer Verein” et la “Freisinnige Vereinigung” (“Union libre-penseuse”), Friedrich Naumann obtient un mandat au Reichstag. Il sera désormais membre du parlement allemand jusqu’à sa mort, à l’exception d’une très brève interruption.
Parallèlement à ce mandat politique, le “Naumannkreis” ou “Cercle Naumann” rassemble tous les esprits se définissant comme “libéraux”, qu’ils appartiennent à la grande bourgeoisie, aux classes moyennes ou au monde ouvrier; Theodor Heuss, Gustav Stresemann, Max Weber, Luja Brentano et Hellmut von Gerlach oeuvreront au sein de ce réseau associatif. En 1910, Naumann tente d’unifier tous les groupements libéraux de gauche et plaide pour une coopération active au sein du Reichstag avec les sociaux-démocrates. En 1914, il soutient le gouvernement dès qu’éclatent les hostilités mais rejette tout projet d’annexions trop importantes. Au lieu de cela, Naumann se fait l’avocat d’une fusion volontaire des Etats et puissances d’Europe centrale (Mitteleuropa) pour des motivations essentiellement économiques. Il veut donc une fédération économique étroite des pays centre-européens, flanquée d’une politique de développement des pays d’Europe orientale et d’Europe balkanique. A l’automne 1915 paraît son ouvrage “Mitteleuropa”, où il couche ses idées sur le papier. Rapidement, ce livre devient le plus lu de tous les écrits évoquant les buts de guerre de l’Allemagne. “Mitteleuropa” fut donc le travail qui exprima au mieux l’alternative que proposaient les civils aux annexions sauvages préconisées par les militaires, qui n’auraient provoqué que des morcellements inutiles, assortis d’irrédentismes chez les nations lésées qui auraient crié vengeance. L’idée d’une “Europe des Patries”, formulée plus tard par De Gaulle, remonte en fait à Naumann. Les structures du pouvoir de l’époque et la pensée des élites monarchistes auraient contrecarré la réalisation du plan “mitteleuropéen” de Naumann, aurait rejeté la fusion volontaire de toutes les entités politiques centre-européennes car une telle fusion impliquait un droit élargi à l’autonomie, une auto-limitation de tous les nationalismes devenus exacerbés au cours du conflit, une auto-limitation dictée par le nécessité que les sentiments de supériorité déclarés ne pouvaient toutefois pas admettre.
En 1917, Naumann soutient au Reichstag une résolution émanant de tous les partis de centre-gauche en faveur d’une paix de compromis. Et pour améliorer et garantir la qualité du personnel politique en Allemagne, il fonde, toujours en 1917, la “Staatsbürgerschule” à Berlin (“L’école des citoyens”) qui deviendra, à partir de 1920, la “Hochschule für Politik” (“Haute école de politique”). En 1918, on parvient enfin à rassembler les nombreux courants libéraux en deux partis, la DDP, libérale de gauche, et la DVP, libérale de droite. Naumann devient président de la DDP. Comment opérait-on, à l’époque, la distinction entre “libéraux de gauche” et “libéraux de droite”? Ils se distinguaient par leurs attitudes différentes sur la question sociale, qui ne peuvent plus s’expliquer aujourd’hui par la terminologie et les concepts actuels. Naumann représentara, en tant que président du parti, la DDP à la Commission constitutionnelle. Avec son parti, il luttera publiquement contre la signature du Traité de Versailles. Naumann espérait que le redressement de l’Allemagne s’opèrerait par des réformes spirituelles-intellectuelles , comme ce fut le cas de la Prusse après sa défaite face aux armées napoléoniennes.
Le 24 août 1919, Naumann meurt à Travemünde des suites d’une thrombose. Son décès prématuré, l’assassinat de Walther Rathenau par d’anciens combattants des Corps Francs, ensuite la mort de Gustav Stresemann, ministre libéral des affaires étrangères, priveront la jeune démocratie allemande de ses plus prestigieuses personnalités. Elles vivantes, la communauté populaire allemande aurait pu s’opposer efficacement aux bandes qu’Adolf Hitler et Ernst Thälmann ont lancées dans les rues. Dans ce contexte, il ne faut pas oublier non plus la mort prématurée du social-démocrate Friedrich Ebert. Theodor Heuss, Marie Elisabeth Lüders, Gertrud Bäumer et Wilhelm Heile ont tenté de poursuivre l’oeuvre intellectuelle de Naumann.
La FDP actuelle est un parti pour rire: son principal intérêt économique est de plaire aux grands consortiums; elle a, disons-le en utilisant un euphémisme, un rapport assez difficile avec la question sociale. Rien ne rappelle l’oeuvre de Naumann dans cette FDP allemande. L’héritage de Naumann, dans l’espace linguistique allemand, n’est-il pas davantage incarné par la FPÖ autrichienne?
Anton SCHMITT.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°34/2009; traduction française: Robert Steuckers).
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Falange Espanola - Nationalsyndikalismus in Spanien
Falange Espanola – Nationalsyndikalismus in Spanien
Teil 1: Faschismus der Intellektuellen (1922-1932)
Verfasser: Richard Schapke, im Februar 2004 / http://www.fahnentraeger.com/
Ernesto Giménez Caballero
Im Dezember 1922 erschien in Barcelona die erste und einzige Ausgabe der Zeitung „La Camisa Negra“. Wie schon der Titel verrät, orientierte man sich am italienischen Vorbild. In der unruhigen und kosmopolitischen Mittelmeermetropole trafen katalanischer und spanischer Nationalismus und linke wie rechte Ideen aufeinander und erzeugten ein aufgeheiztes Klima, und hier entstanden auch die ersten faschistischen und semifaschistischen Splittergruppen. Wie in anderen Ländern auch, so wurden die ersten genuin faschistischen Ideen von kleinen Intellektuellenzirkeln und einigen Aktivisten verbreitet.
Bedeutend für die Entstehung des spanischen Faschismus ist vor allem Ernesto Giménez Caballero. 1899 als Sohn einer wohlhabenden und liberalen Madrider Familie geboren, erlebte er als Wehrpflichtiger den Kolonialkrieg in Spanisch-Marokko. Sein 1923 veröffentlichter Erlebnisbericht „Notas marueccas de un soldado“ löste mit scharfer Kritik an der militärischen Führung einen kleinen Skandal aus, der Giménez Caballero vorübergehend ins Gefängnis brachte. Mit seinem Elitismus der Frontsoldaten erinnert das Buch an den Frontroman der Weimarer Republik, und wie in diesen vergleichbaren Werken wurde auch hier die Frage nach der Rolle der Nation und nach ihrem Platz in der Welt gestellt. In der Folgezeit lehrte der Spanier als Englischdozent an der französischen Universität Straßburg und entwickelte alsbald einen ausgesprochenen Hispanismus als Gegengewicht zu den Einflüssen des westlichen Materialismus. Die Regionen und Völker der Iberischen Halbinsel sollten sich unter einem gemeinsamen Zeichen, einer gemeinsamen Aufgabe („Haz“) vereinigen. Giménez Caballero heiratete die Schwester des italienischen Konsuls in Straßburg und wurde von dieser in die Welt des Faschismus eingeführt. Bald kehrte er nach Madrid zurück und reihte sich hier als Chefredakteur der „Gaceta Literaria“ in die literarische Avantgarde ein.
In dieser Funktion wurde Giménez Caballero zum führenden Autor der „Generation von 1927“. Diese literarisch-intellektuelle Vorhutgruppe strebte nach einer Politisierung der Literatenszene. Eine Kombination der extremistischen Manifestationen des Avantgardismus mit dem kulturellen Nationalismus – nach Vorbild des italienische Frühfaschismus - sollte die Rückwärtsgewandtheit Spaniens überwinden und den Schlüssel zur Lösung seiner Probleme sein. Eine neue Kunst und eine neue Kultur hatten ganz Sinne Nietzsches oder d´Annunzios nichts weniger als die Schaffung eines neuen Menschen zum Ziele. Zunächst war die Gruppe kulturpluralistisch orientiert, sie gewann wichtige Impulse aus der Modernität und Vitalität der Katalanen und Portugiesen. Giménez Caballero machte sich nicht zuletzt um die Ausstellung moderner Literatur aus Katalonien, Portugal, Argentinien und Deutschland in Madrid verdient. Eine Rundreise durch den Mittelmeerraum endete 1928 in Italien, wo er sein Damaskus erlebte – der spanische Avantgardist war überwältigt vom italienischen Faschismus. Es schien ihm, als hätte der Faschismus Rom als Zentrum der modernen Zivilisation und des Christentums wieder belebt: Der PNF entwickelte neue kulturelle und politische Formen, um unter Vereinigung der Intellektuellen und der Masse die Modernisierung und die kohärente innere Entwicklung Italiens durchzuführen. Hierbei stand der Faschismus in den Augen des spanischen Besuchers sowohl für die echte Revolution der Moderne, als auch für die katholisch-lateinische Volkskultur. Er überformte Materialismus und Künstlichkeit, um sie mit der Volkskultur und einer nationalistisch aufgeladenen Atmosphäre zu einer gewalttätigen und weitreichenden nationalen Mission zu verschmelzen. Giménez Caballero schwebte fortan das italienische Modell als Lösung für Spaniens Schwierigkeiten vor, die seiner Ansicht nach vor allem auf die unausgegorene Übernahme nordeuropäischer Ideen zurückzuführen waren.
Das Bekenntnis des Chefredakteurs der „Gazeta“ vom 15. Februar 1929 zum Faschismus löste eine offene Redaktionskrise aus. Zugleich kündigte Giménez Caballero die spanische Übersetzung des Malaparte-Klassikers „Italia contro Europa“ an. Er adaptierte Curzio Malapartes militanten und populistischen Nationalsyndikalismus und erklärte, zur Schaffung eines spanischen Faschismus müsse man viel weiter gehen als der noch an der Macht befindliche Diktator Primo de Rivera. Der eher konservative Teil der Redaktionsmannschaft verabschiedete sich, um protofaschistischen Intellektuellen wie einem gewissen Ramiro Ledesma Ramos zu weichen. Noch vermied Giménez Caballero den Begriff „Faschismus“, thematisierte aber immer mehr die Gewalt als Weg zur kulturellen und nationalen Erneuerung Spaniens. Ein panromanischer Faschismus ging einher mit scharfer Kritik am Rassismus und Antisemitismus der deutschen Rechten, generell waren der Gruppe protestantisch geprägte Nationen suspekt. Allerdings war die „Gazeta“ bei Beginn der Zweiten Republik weitgehend isoliert. Als Giménez Caballero sich der sozialistischen Linken annäherte und dort nach seinen Vorstellungen nahe kommenden Persönlichkeiten suchte, galt er vielen ehemaligen Freunden und Anhängern als Opportunist.
Ramiro Ledesma Ramos und die Geburt des Nationalsyndikalismus
Der philosophische Essayist und Schriftsteller Ramiro Ledesma Ramos sollte dem vagen Projekt Giménez Caballeros eine viel deutlichere, radikalere Form verleihen. War letzterer der erste faschistische Intellektuelle Spaniens, so sollte ersterer den ersten spanischen Faschismus entwerfen. Ledesma Ramos wurde 1905 in eine Lehrerfamilie der Provinz Zamora hineingeboren. Zunächst lebte er als Postbeamter in Madrid und entwickelte sich als Autodidakt zum pessimistischen Intellektuellen. Sein Erstlingswerk „El sello de la muerte“ verrät deutliche Nietzsche-Einflüsse. Nach einer Vorlaufzeit konnte der verhinderte Philosoph sich an einem angesehenen Institut der Madrider Universität immatrikulieren und dort 1930 seinen Abschluss in Philosophie machen. Schon vor Beendigung des Studiums galt er als der belesenste Jungintellektuelle der Hauptstadt und erwarb sich einen Namen als Übersetzer deutscher Philosophen und als Essayist.
Der in den Salons von Ortega y Gasset und Giménez Caballero verkehrende Ledesma Ramos kam bald nach Studium Husserls und Heideggers zu dem Schluss, die Angst und die Bedeutungslosigkeit des menschlichen Lebens könnten nur durch den Willen und das Erreichen von Zielen bezwungen werden, wobei die von den Anarchisten entlehnte Direkte Aktion als probates Mittel erschien. Die spanische Kultur galt ihm als mangelhaft, da Spanien als einzige große Nation keine bedeutende Philosophie und keine intellektuelle Diktatur entwickelt habe. Unter Rekurs auf die Hispanisten formulierte Ledesma Ramos, der Niedergang des Landes sei durch eine Kombination von militärischen und kulturellen westlichen Einflüssen hervorgerufen worden. Eine Rückkehr zur Vergangenheit wurde verworfen – Spanien brauchte eine moderne Revolution mit Massenbasis, Autorität, Willenskaft, nationaler Einheit, zentraler Führung und einem revolutionären Wirtschaftsprogramm. Spanien brauchte also so etwas wie den Faschismus. Die Madrider Kulturbourgeoisie reagierte irritiert, als ihr bisheriger Liebling sich im Rahmen eines literarischen Banketts zu Ehren von Giménez Caballero zu seiner Radikalisierung bekannte. Nach Studienende begab Ledesma Ramos sich auf Reisen und verbrachte unter anderem 4 Monate in Heidelberg, wo er in engen Kontakt mit der als besonders extrem geltenden Ortsgruppe des NS-Studentenbundes geriet.
Zum Entsetzen seines bisherigen sozialen Umfeldes gründete Ramiro Ledesma Ramos zusammen mit einer Handvoll Sympathisanten die Zeitschrift „La Conquista del Estado“, die sich nicht nur äußerlich an Curzio Malapartes gleichnamiges Pamphlet (faktisch eine Theorie des Staatsstreiches) anlehnte und am 14. März 1931 erstmals erschien. Emblem der Zeitschrift waren Joch und Pfeile, „yugo y flechas“, das Symbol von Ferdinand und Isabella, den Katholischen Königen. Ein politisches Manifest bombardierte den Leser mit Parolen gegen Liberalismus, gegen den internationalen Marxismus und die Dekadenz der spanischen Gegenwart.
Spaniens Jugend wurde aufgerufen, durch gewaltsames Vorgehen gegen die bestehende Ordnung und die Parteien einen Neuen Staat zu schaffen. Dieser neue Staat sollte totalitäre Züge tragen, Freiheit gewährte er nur innerhalb der von ihm gesetzten Ordnung. Zwar wurden die Verschiedenheit und die Autonomie der spanischen Regionen und Nationalitäten anerkannt, aber der Separatismus sollte ausgerottet werden. Aufgabe des Neuen Staates war die Erfüllung der politischen, kulturellen und wirtschaftlichen Ziele des spanischen Volkes. Die gesamte spanische Wirtschaft war in Zwangssyndikaten zusammenzufassen, die wiederum zwecks höherer Effektivität und vermehrter sozialer Gerechtigkeit der staatlichen Kontrolle unterstanden. Hier zweckentfremdete Ledesma Ramos den anarchistischen Syndikatsbegriff: Verstanden die Anarchisten der CNT hierunter die Zusammenfassung aller Arbeitnehmer, so ging er von einem vertikalen Syndikat unter Einschluss der Arbeitgeber aus. Das Programm sah eine radikale Landreform mit Enteignung der parasitären Großgrundbesitzer, Landverteilung an das Agrarproletariat und Genossenschaftsbildung vor. Darüber hinaus forderten Spaniens erste Nationalsyndikalisten die Verstaatlichung der Schlüsselindustrien, der Banken, der Versicherungen und des Transportwesens, strikte Außenhandelskontrolle und staatliche Wirtschaftsplanung – ein ausgesprochen „linker“ Faschismus.
Der Gruppe schwebte nicht die Gewinnung von Wählerstimmen vor, sondern der Aufbau von militanten und bewaffneten Kampfverbänden. Diese Milizen sollten den als anachronistisch und bourgeois empfundenen pazifistischen Antimilitarismus zertrümmern und die Politik durch einen militärischen Sinn für Kampf und Verantwortung anreichern. Als organisatorische Grundlagen der Bewegung waren syndikalistische (gewerkschaftliche) und politische Zellen vorgesehen. Ledesma Ramos war sich bewusst, dass er eine spanische Form des revolutionären Nationalismus schaffen musste. Nicht umsonst war und bleibt er der aggressivste und rücksichtsloseste nationalistische Intellektuelle, den Spanien jemals hervorgebracht hat.
Die Klärung des Verhältnisses zur noch immer mächtigen katholischen Kirche erfolgte in der „Conquista“-Ausgabe vom 20. Juni 1931. Ledesma Ramos verkündete, die Kirche könne niemals irgendeine Souveränität gegenüber dem Staat beanspruchen. Zwar seien die religiösen Gefühle der Bevölkerung zu respektieren, aber die katholische Kirche sei über Jahre an Verbrechen gegen den Wohlstand des spanischen Volkes beteiligt gewesen – der Staat müsse daher ihre Rolle neu definieren. Verklausuliert hieß das Enteignung und strikte Trennung von Kirche und Staat. "Die nationale Revolution ist ein Unternehmen, das es als Spanier zu verwirklichen gilt, katholisches Leben hat damit nichts zu tun, denn es betrifft nicht den Spanier, sondern den Menschen, der seine Seele retten will." Hier wurde also nicht an die traditionelle katholisch bestimmte Gesellschafts- und Staatsordnung angeknüpft. Die Propaganda wandte sich ohnehin an die sozial benachteiligten Schichten wie Landarbeiter und Industrieproletarier, die der Kirche weitgehend entfremdet waren. Durch die Parolen vom syndikalistischen Staat sollten von den Grabenkämpfen innerhalb der CNT frustrierte Anarchisten gewonnen werden, bei denen schließlich auch Malaparte einen gewissen Ruf besaß. Das Werben um die Ultralinke hatte wenig Erfolg, auch wenn sich der Madrider Anarchistenführer Nicasio Álvarez de Sotomayor der Gruppe anschloss. Im Juli 1931 landete Ledesma Ramos als Folge seiner aggressiven Agitation erstmals im Gefängnis, und nach mehreren Ermittlungsverfahren und Verboten stellte die „Conquista del Estado“ im Oktober ihr Erscheinen für immer ein. Trotz der Bedeutungslosigkeit der Gruppe hatte Ramiro Ledesma Ramos als erster die Idee eines revolutionären Nationalsyndikalismus propagiert und der Bewegung wichtige Schlagworte gegeben.
Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista
Onésimo Redondo Ortega, der dritte wichtige spanische Frühfaschist, wurde wie Ledesma Ramos im Jahre 1905 geboren, und zwar in Valladolid. Redondo Ortega war zunächst als Finanzbeamter tätig und arbeitete dann als wissenschaftlicher Assistent an der Handelsschule Mannheim, wo er ebenfalls mit dem Nationalsozialismus in Berührung kam. Anschließend beschäftigte ihn ein Verband altkastilischer Großgrundbesitzer, wobei er Einblicke in Fragen der wirtschaftlichen Organisation gewann. Die Kontakte zu den ländlichen Arbeitgebern Altkastiliens sollten niemals abreißen. Um Redondo Ortega sammelte sich ein weiterer Zirkel spanischer Faschisten, der sich im Gegensatz zum Radikalfaschismus der „Conquista“-Gruppe eher auf nationale Einheit, traditionelle spanische Werte und soziale Gerechtigkeit besann. Am 13. Juni 1931 erschien die Wochenzeitung „La Libertad“. Unter Verherrlichung der traditionellen ländlichen Gesellschaftsordnung wurde Kastilien aufgerufen, den spanischen Gesamtstaat vor Materialismus und Kulturzersetzung zu retten. Antisemitische und frauenfeindliche Anklänge waren hierbei durchaus vorhanden.
Da der politische Katholizismus als unzureichend erschien, strebte Redondo Ortega den Aufbau einer radikal-nationalistischen Jugendbewegung an – konservativ in Religions- und Kulturfragen, aber militant in Stil und Taktik. Die „Libertad“ bekannte sich offen zu einer gesunden Gewaltanwendung. Spanien lebe bereits im Zustand des Bürgerkrieges, also solle sich die Jugend zum Kampf bereitmachen. Im August gründete der Zirkel zusammen mit Studenten der Universität Valladolid und anderen Anhängern die „Juntas Castellanas de Actuación Hispánica“. Zwar war diese Gruppierung deutlich reaktionärer als Ledesma Ramos, aber im Kampf gegen Materialismus, Dekadenz und Bourgeoisie lagen erhebliche Gemeinsamkeiten.
Am 10. Oktober 1931 kündigte die „Conquista del Estado“ den Zusammenschluss beider Fraktionen zu den „Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista“ (Nationalsyndikalistische Angriffsgruppen, JONS) an. Man übernahm yugo y flechas, zu denen sich als Symbol für den revolutionären Charakter der Bewegung die schwarz-rote Fahne der Anarchisten gesellte. Basiseinheit war die Gruppe aus 10 militantes unter einem Gruppenführer; 10 Gruppen wiederum bildeten eine Junta unter Leitung eines Triumvirates. Der Lokalrat, consejo local, als Parteigremium auf unterster Ebene setzte sich aus allen Triumviraten der betreffenden Gemeinde zusammen. Auch dem consejo local stand ein Dreiergremium vor. Die Lokalräte entsandten Delegierte in den consejo provincial, und die Delegierten der Provinzialräte bildeten schließlich den consejo nacional. Als höchstes Parteiorgan erteilte der Nationalrat bindende Befehle, Richtlinien und Mitteilungen. Die Geschäftsführung hatte ein aus den Reihen des consejo nacional gewähltes Zentraltriumvirat inne. Zu einer echten Verschmelzung kam es nicht, und faktisch bestanden die Jonsistas aus zwei verschiedenen Flügeln um Ledesma Ramos und Redondo Ortega. Ungeachtet der angesichts der zahlenmäßigen Schwäche maßlos übertriebenen Organisationsstruktur verhinderte diese doch, dass es eine absolute Befehlsgewalt eines Einzelnen gab. Als erste überregionale faschistische Organisation standen die JONS sowohl in Frontstellung gegen die Linke wie gegen die katholische und monarchistische Rechte.
Das Programm der JONS stellte gegenüber dem der „Conquista“-Gruppe einen Rückschritt dar. Der Parlamentarismus sollte durch ein sich auf die nationalsyndikalistischen Milizen und die Volksmassen stützendes Regime abgelöst werden. Innenpolitisch waren einerseits Anerkennung der katholischen Tradition, Unterordnung des Individuums unter die Ziele des Vaterlandes, Säuberung der Verwaltung, Verbot aller marxistischen und antinationalen Parteien, Ausmerzung ausländischer Einflüsse und Aburteilung von Spekulanten und verräterischen Politikern vorgesehen. Auf der anderen Seite enthielt das Programm aber auch das Konzept der Zwangssyndikate (die unter dem besonderen Schutz des Staates stehen sollten) und der staatlichen Wirtschaftskontrolle. Aller Reichtum hatte sich den Belangen der Nation unterzuordnen, zu denen explizit der wirtschaftliche Aufbau, soziale Gerechtigkeit, Chancengleichheit im Bildungswesen und eine gemäßigte Agrarreform gehörten. Gänzlich neu war die Forderung nach einer imperialistischen Außenpolitik, vor allem in Hinblick auf Gibraltar, Marokko und Algerien. Erwähnt sei noch die interessante Bestimmung, dass im Neuen Staat die Inhaber höchster Ämter mit Erreichen des 45. Lebensjahres zurückzutreten hatten.
Redondo Ortega führte infolge seiner größeren finanziellen Möglichkeiten zunächst das Wort, aber für Ledesma Ramos blieb infolge zahlreicher vager Definitionen Freiraum genug. Einzelne Aktivisten und kleine Gruppen von Kommunisten, Trotzkisten und Anarchisten konnten gewonnen werden. Die Expansion der JONS erfolgte vor allem im so genannten „anarchistischen Bogen“ Spaniens zwischen Barcelona, Valencia und Málaga sowie in Madrid. Gerade hier etablierte sich eine stark mit ehemaligen Anarchisten durchsetzte und entschieden antiklerikale Gruppe. Im Verlauf des Jahres 1932 waren die Jonsistas kaum aktiv. Ledesma Ramos provozierte am 2. April 1932 im Madrider Athenäum den ersten Zusammenstoß mit Linken, es folgten Angriffe auf linke Zeitungskioske oder Sowjetfilme zeigende Kinos. Die Fraktion Redondo Ortegas zeigte sich aktiver und lieferte sich mehrfach heftige Auseinandersetzungen mit politischen Gegnern. Auf einer Demo gegen den katalanischen Separatismus am 11. Mai 1932 in Valladolid hatte die Bewegung ihren ersten Toten zu beklagen, als es zu einer Straßenschlacht mit der Polizei kam. Da der rechte Parteiflügel am Rande in den dilettantischen Rechtsputsch des General Sanjurjo verwickelt war, musste Redondo Ortega sich im August 1932 nach Portugal absetzen. Ledesma Ramos und der Großteil der Aktivisten wurden zunächst inhaftiert, und am Jahresende zählten die JONS vielleicht 200 auf freiem Fuß befindliche Mitglieder.
Lesen Sie auch:
* Falange Espanola – Nationalsyndikalismus in Spanien - Teil 2: José Antonio und die Gründung der Falange 1933-1934
* Falange Espanola – Nationalsyndikalismus in Spanien - Teil 1: Faschismus der Intellektuellen (1922-1932)
* Falange Espanola – Nationalsyndikalismus in Spanien - Prolog: Die Entstehung des spanischen Nationalismus
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Les signes symboliques des monuments funéraires du Schleswig et de la Flandre
Les signes symboliques des monuments funéraires du Schleswig et de la Flandre
par Marc. EEMANS
(texte issu du Bulletin de l'Ouest, 1942, 17, pp. 196-197)
Le folkloriste bas-allemand, Freerk Haye Hamkens, que l'on connaît déjà par de nombreux travaux des plus intéressants dans le domaine de la «Volkskunde» de l'Allemagne du Nord, parmi lesquels nous citerons plus particulièrement «Das Nordische Jahr und seine Sinnbilder» et «Sinnbilder im Schleswiger Dom», vient de publier un nouvel ouvrage, dans lequel il nous expose toute sa science du symbolisme des signes traditionnels que l'on a coutume de graver depuis des temps immémoriaux sur les monuments funéraires.
Comme son titre l'indique (Sinnbilder auf Grabsteinen von Schleswig bis Flandern), le champ d'investigation du présent travail de Hamkens va des cimetières du Schleswig-Holstein, et plus particulièrement de l'île frisonne de Föhr, à ceux de l'agglomération bruxelloise. Partout Hamkens a soigneusement noté les signes symboliques conservés sur les tombes et il les a réunis dans son ouvrage en plusieurs catégories, essayant chaque fois de les grouper par genre et par familles. Pour chaque signe, Hamkens n'essaye pas seulement de déterminer la nature exacte du symbole relevé, mais encore de découvrir sa signification originelle qui diffère bien souvent du sens qu'on lui donne à l'heure présente, car «le but ultime, dirons-nous avec Hamkens, de l'étude des signes symboliques est, non seulement de relever le symbole comme tel, mais encore de déchiffrer sa signification ancienne et de trouver, si possible, les raisons qui ont présidé à sa signification actuelle. Certes, ce travail ne peut se faire en quelques mots, car le symbole étant quelque chose de vivant, ne se laisse pas enfermer dans un mot inerte. D'ailleurs, en tant que signe, il renferme en sa présence toute une série de significations, dont la connaissance est indispensable pour déchiffrer l'une de ses significations particulières».
Si pour certains symboles, tel le sablier, muni ou non de la faux fatidique, le symbolisme est clair; pour d'autres, au contraire, telle la main ou la couronne héraldique, le sens demeure obscur, et se prête à plus d'une conjecture.
Le même signe symbolique peut, d'autre part, avoir un sens totalement différent, selon qu'il sert à évoquer ou la mort, ou la vie. Il en est ainsi, par exemple, de la «main» que l'on trouve parfois, et cela depuis la préhistoire, sur certaines pierres funéraires, mais qui sert également de signe bénéfique, voire même de symbole de fécondité, comme l'affirment d'ail leurs, non sans quelque témérité, W.-F. Van Heemskerck-Düker et H.-J. Van Houten dans leur ouvrage consacré aux «Signes symboliques dans les Pays-Bas». Comment donc le passage a-t-il pu se faire de la «main», symbole funèbre, à la «main» en tant que signe bénéfique? Les explications possibles sont nombreuses cependant: il n'est également pas exclu que, même sur une tombe, la «main» figure aussi en tant que signe bénéfique notamment pour chasser les mauvais esprits qui pourraient troubler le repos du défunt.
Dans bien des cas également, les signes symboliques trouvent leur explication dans les coutumes ou le folklore général du lieu où on les relève. C'est ainsi, par exemple, que la couronne héraldique, figurant sur la tombe d'une jeune fille de 23 ans, rappelle la coutume de déposer une couronne virginale, c'est-à-dire l'ornement des épousailles, sur le cercueil de celles qui n'avaient pu s'en parer de leur vivant.
Partant de l'analyse des différents éléments qui ornent la pierre funéraire de l'évêque Nicolas 1er (1200-1216), qui se trouve au Dôme de Schleswig, Hamkens constate que les symboles qui ornent cette tombe (la croix, des palmettes et des signes solaires) relèvent de trois mondes totalement différents: le monde chrétien, le monde antique et le monde païen, et Hamkens de noter, dans son introduction, et cela non sans quelque raison: «Il est certes intéressant de noter que les signes que l'on retrouve encore de nos jours sur les pierres funéraires relèvent toujours d'un de ces trois mondes». «Comme signes chrétiens, écrit-il encore, il y a en tout premier lieu la croix, ensuite la croix et la feuille de palmier, ainsi que la composition faite de la croix, le cœur et l'ancre, en tant que symbole du groupe «foi-amour-espérance». Parfois aussi l'on trouve l'ancre seule, par allusion au passage des Psaumes: «J'ai trouvé enfin la terre qui éternellement retiendra mon ancre». Au même groupe, il faut rattacher les feuilles de palmier croisées, et la feuille de palmier seule. Il arrive qu'on évoque également la Jérusalem Divine, cependant que sur une tombe on voit également des mains sortant des nuages et se tendant vers la terre pour évoquer le fameux «laissez venir à moi les petits enfants». Comme il va de soi, il faut également rattacher au groupe chrétien les angelots et les têtes de Christ en porcelaine que l'on retrouve sur plus d'une tombe.
«Le monde antique n'a que fort rarement trouvé accès aux cimetières ruraux ou citadins, aussi peut-on dire que ce ne sont que les tombes des monarques, des nobles, des riches commerçants, des armateurs ou des savants qui sont pourvues de symboles empruntés au monde antique. Si ceux-ci, par hasard, sortent de leur sphère d'utilisation habituelle, ils sont aussitôt appelés à quelque symbolisme particulier, comme la Justice de telle tombe de l'île de Föhr, revêtue d'une crinoline du XVIIIe siècle. Quelques exceptions, comme la tombe du
«glücklichen Matthias» de Föhr, qui évoque la Fortune, se révèlent avec leurs inscriptions latines, comme un bien étranger à la tradition funéraire de nos contrées.
«Au troisième groupe appartiennent en premier lieu les attributs professionnels, comme ceux du menuisier, du maçon, du forgeron et du boucher, le moulin du meunier, ou le métier du tisseur de chanvre. Signalons plus particulièrement les images de vaisseaux sur les pierres tombales des cimetières de la côte, telles que celles que les grands navigateurs, les terre-neuviens, voire même les simples pêcheurs, avaient coutume d'en avoir, et cela en partie comme allusion à leur métier, et en partie comme symbolisation de l'ultime voyage. Un ancien marin devenu cultivateur n'hésitait également pas à croiser l'ancre et le sextant avec la gerbe de blé, pour rappeler les deux professions de sa vie».
«Ce troisième groupe se compose cependant surtout de signes, dont le rapport avec la mort et les funérailles n'est pas très évident; il en est ainsi du soleil ou du soleil levant avec un ou deux yeux, de la lune ou des étoiles, des oiseaux, des papillons, des serpents, des fleurs, des arbres ou de leurs branches, des ruches d'abeilles, des pommes, des couronnes, des losanges, des cœurs et des spirales. Tous ces signes se retrouvent seuls ou accouplés à d'autres signes du même groupe, ou à ceux de l'un des deux autres groupes. Ils sont toujours exécutés avec le plus grand soin et dominent généralement la pierre tombale, de telle manière que l'inscription funéraire n'est bien souvent plus que chose accessoire».
Il nous est hélas impossible de suivre ici, faute de place, Hamkens dans la description minutieuse de tous ces signes qui se font de plus en plus rares dans nos cimetières car la banalisation de la vie moderne et le détachement de plus en plus grand de nos contemporains des signes éternellement vivants qui nous lient à l'essence même de notre existence, y font également leurs ravages, au point que d'ici quelques décades, nos cimetières, à moins qu'un revirement ne se produise, seront devenus des lieux arides, dépourvus de tout contact avec les lois qui rythment la vie de l'homme et le font communier avec le principe de toutes choses.
Avant de terminer ces notes, trop brèves, en marge du beau livre de Hamkens, parfaitement édité par le «Deutscher Verlag: Die Osterlingen in Brüssel», constatons encore avec lui qu'un observateur attentif remar quera que la plupart des signes symboliques figurent sur des pierres tombales réparties dans plusieurs régions, cependant que d'aucuns, par contre, ne figurent que dans certaines régions bien déterminées. C'est ainsi, par exemple, que les papillons et les ruches d'abeilles se retrouvent un peu partout, ce qui n'empêche que ces dernières manquent cependant dans les environs de Eckernförde et de Borby. Le navire est une spécialité des îles frisonnes, que l'on ne trouve guère sur les tombes des gens de mer dans les cimetières des ports de la mer du Nord; sur certaines tombes de pêcheurs, on trouve cependant un bateau à voile avec filet. Le serpent entourant une boule, appartient en propre au duché de Schleswig, et plus spécialement à la région de Flensburg, tout comme la croix ou nœud magique ne se retrouve que sur les croix tombales d'Eckernförde. En comparant les dates on peut également constater que certains symboles n'apparaissent qu'à un moment déterminé pour évoluer lentement, comme on a pu le constater pour le groupe «foi-amour-espérance». D'autres symboles disparaissent brusquement, comme c'est le cas pour les bateaux à voile des îles frisonnes. Peut-être faut-il trouver pour cet exemple la raison de sa disparition dans le fait que de moins en moins de gens pratiquent encore le métier de marin».
Nombre d'autres constatations pourraient encore être faites, tout comme nombre d'autres conclusions (Hamkens ne s'en fait d'ailleurs pas faute), pourraient encore être tirées du présent travail d'investigation. Nous nous contenterons cependant d'en tirer, pour l'instant, la seule conclusion que voici: Avant qu'il ne soit trop tard, c'est-à-dire avant que toutes les tombes à symboles n'aient irrémédiablement disparu de nos contrées, il importe d'en dresser un inventaire aussi complet que possible, cela selon toutes les méthodes scientifiques de la «Volkskunde». De ce travail on pourra alors déduire certaines conclusions irréfutables quant à l'appartenance de telle ou telle région à tel ou tel groupe ethnique, quant aux influences étrangères, ou encore, quant à l'apparition ou à la disparition, dans les régions étudiées, de tel ou tel phénomène religieux, politique ou spirituel etc., etc. Bref, l'étude des signes symboliques des monuments funéraires, est un secteur nullement négligeable, comme on a pu s'en rendre compte par les présentes notes, de la «Volkskundeforschung»
Marc. EEMANS.
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mardi, 03 novembre 2009
Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie

Andreas MÖLZER:
Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie
C’est par des louanges exagérées que l’on a célébré récemment la signature de deux protocoles, où la Turquie déclare vouloir améliorer, en toute apparence mais en apparence seulement, ses relations avec l’Arménie. Très peu de temps après la signature de ces protocoles, le Premier Ministre turc Erdogan a émis une restriction: Ankara ne fera aucun pas en direction de sa voisine mal aimée, tant que l’Arménie ne retire pas ses troupes du Haut-Karabakh, région montagneuse qui appartient de jure à l’Azerbaïdjan. Il appert donc que, pour la Turquie, la protection qu’elle entend offrir au peuple frère azéri est plus importante que l’entretien permanent de bonnes relations de voisinage avec l’Arménie, comme en entretiennent entre eux les peuples d’Europe. En émettant cette restriction par la voix de son Premier Ministre, la Turquie, faut-il l’ajouter, exprime une conception fondamentale: elle se profile, par la définition qu’elle se donne d’elle-même, comme un Etat non européen et comme la puissance d’avant-garde des peuples turcophones, dont l’aire de peuplement s’étend très profondément en Asie centrale.
Mais il y a un autre comportement de l’Etat turc qui prouve son immaturité à adhérer à l’UE; il a été soumis à débat vers la mi-octobre 2009 dans la Commission des affaires étrangères du parlement européen. La Turquie refuse toujours obstinément d’appliquer le protocole dit d’Ankara, qui prévoyait l’ouverture des ports et aéroports turcs aux navires et avions grecs-cypriotes, ce qui impliquait aussi de reconnaître indirectement Chypre, Etat membre de l’UE. Cette situation a provoqué de nombreuses critiques au sein de la Commission des affaires étrangères du parlement européen. On sait que la question cypriote, depuis la fin de l’année 2006, a entraîné le gel de huit chapitres relatifs aux négociations quant à l’adhésion turque: les Turcs ont été invités à attendre et à reconsidérer leur attitude. Depuis lors, effectivement, Ankara n’a pas avancé d’un millimètre, attitude de refus pour laquelle il convient désormais de tirer les conséquences. Finalement, c’est la Turquie qui est demanderesse pour entrer dans l’UE et non le contraire. Par ailleurs, il n’est pas question d’accepter que la Turquie, comme elle le croit en apparence, dicte à Bruxelles ses conditions.
Fin octobre 2009, lors du Sommet de l’UE, nous aurons enfin la chance de rompre les négociations en vue de l’adhésion turque. C’est le chef des socialistes autrichiens et président de la république autrichienne, Faymann, qui devra agir. Avec ses amis rouges du parti socialiste, il a toujours promis aux Autrichiens qu’ils pourront décider par référendum s’ils acceptent ou non la candidature turque, une fois les négociations achevées. Une question demeure toutefois ouverte: pourquoi Faymann attendrait-il encore de nombreuses années, alors que l’écrasante majorité de nos concitoyens autrichiens rejettent absolument l’adhésion turque?
Andreas MÖLZER.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°43-44/2009).
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Triste mondialisation...
Triste mondialisation... |
« En vingt ans, les pays de l'Est se sont mondialisés à la vitesse grand V. A peine le mur de Berlin était-il tombé que les enseignes du "monde libre" déboulaient en force pour y planter leur logo. […] Les mêmes chaînes de vêtements low-cost, les mêmes fast-foods, les mêmes centres commerciaux, reproduits à l'identique et à l'infini aux quatre coins de la planète. Les sorties dans les shopping centers sont d'ailleurs devenues un but d'excursion en soi. […] Grâce à Ikea, les intérieurs du monde ont d'ailleurs de plus en plus tendance à tous se ressembler. Ne dit-on pas que, déjà, un Européen sur dix aurait été conçu sur un lit Ikea ? Pour ensuite vivre sa vie dans des salons et des chambres à coucher copies conformes des pages du catalogue. Question gastronomie, voyager loin ne permet plus forcément de manger différemment et de découvrir des plats typiques. Tant il devient difficile d'échapper à la dictature des hamburgers et à leurs corollaires : les pizzas, les crêpes et les sandwiches, assortis de quelques nouilles sautées. Ces fleurons de la world food nous poursuivent jusqu'au bout du monde, sur les plages de Tunisie ou de Thaïlande, comme au pied des pyramides d'Egypte ou de la Grande Muraille de Chine. Est-ce pour éviter tout dépaysement ? L'aéroport de Genève vient en tout cas d'inaugurer "un nouveau concept de restauration" (sic) qui, sous l'appellation Les Jardins de Genève, réunit la quintessence de la bouffe mondialisée – Burger King, Starbucks Coffee, Upper Crust... Mais à l'heure où même le Musée du Louvre à Paris va prochainement accueillir un McDonald's, il n'y a plus qu'à s'incliner. Et à se diriger dare-dare vers le premier M jaune venu, pour y commander tranquillement son McRösti. »
Catherine Morand, Le Matin Dimanche, 18 octobre 2009 |
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La resistencia corporativa en Francia: socialismo, tradicionalismo y "comunidades naturales"
La resistencia corporativa en Francia: socialismo, tradicionalismo y “comunidades naturales”
por Sergio Fernández Riquelme / http://www.arbil.org/ Una introducción histórica explicativa | |
Socialismo y tradicionalismo, supuestos enemigos doctrinales (histórica e ideológicamente) presentan rasgos comunes, e incluso caminos paralelos, en la Historia de las ideas políticas y sociales, en especial sobre el tema del corporativismo. Como bien demostró en el caso español Gonzalo Fernández de la Mora, mostrando las raíces organicistas comunes en tradicionalistas y socialistas, e incluso de liberales (al calor de la introducción del krausismo en España), “lo corporativo” sigue siendo es una realidad presente en el funcionamiento extraparlamentario (sindicatos y lobbys, colegios profesionales y grupos de presión, intereses económicos y poderes locales) de las democracias parlamentarias en Europa y en América a inicios del siglo XX. Y esta realidad, en su trayecto histórico, puede ser ejemplificada en el caso francés, paradigma del centralismo estatista y laicista, pero sede también de importantes debates y teorías de naturaleza corporativa. Así, y como otras modalidades de la Política social difundidas desde 1848 [1] , el corporativismo fue respuesta directa a la Cuestión social, presentada por historiadores sociales, sociólogos y juristas como consecuencia del impacto de la Revolución industrial, y como un mal que afectaba a la relación armónica entre clases. Pero lo corporativo no solo asumió la forma de una política social jurídica (política del trabajo) o asistencial; su especificidad radicaba en su propuesta grupal de regulación del conflicto surgido en las relaciones entre la propiedad y el trabajo. Los cuerpos sociales intermedios desempeñaban para Patrick de Laubier, un papel mediador clave para alcanzar la finalidad de la Política social, la “justice sociale” [2] . El poder político se convertía por ello en “l´intemédiaire de grupes organisés”, y el corporativismo aparecía como mediación entre el Estado y el Sindicalismo, los dos actores principales de la Política social. En este contexto, el notable desarrollo conceptual y doctrinal del corporativismo francés, desde su génesis en el siglo XIX, de tanta influencia en España [3] , no fue siempre paralelo al de su institucionalización jurídico-política. Bajo la herencia de la Ley Le Chapelier (1791), que marcó el camino en Europa a la destrucción legal de las “comunidades naturales” (en esencia las funciones sociales de municipios, gremios y familias), durante el siglo XIX tanto el liberalismo jacobino como el doctrinario hicieron caso omiso a las propuestas “socialistas” de Luis Blanc y Hénri de Saint Simon, y al legado “tradicionalista” de Luis de Bonald [1754-1840] y de Joseph de Maestre [1753-1821]. Incluso, las propuestas de reforma corporativa del modelo constitucional de la III República francesa, preconizadas por Émile Durkheim, Leon Duguit, M. Hariou, además de las tesis organicistas del liberal Bertrand de Jouvenel, no alcanzaron el sueño de una Cámara corporativa o gremial/profesional. Ni corporativismo ni solidarismo; sólo las presiones sindicales (con la CGT a la cabeza) y la influencia del Reichwirtschaftsrat de la Constitución de Weimar (1919), permitieron crear en Francia el Consejo Nacional de economía por el Decreto de 19 de enero de 1925, acuerdo corporativo reeditado en L´Accord de Matignon de junio de 1936 bajo la presidencia del frentepopulista León Blum [1872-1950] entre “les puissances économiques”: la CGPF empresarial y la CGT sindical [4] . Pero en este proceso de infructuosa institucionalización destacaron las elaboraciones de la sociología católica. A. de Mun, L. Harmel, F. Le Play o R. la Tour asumían ciertas tesis de los legitimistas de Bainville y los tradicionalistas de Bonald, especialmente la idealización de la pretérita sociedad de estamentos y gremios, de jerarquía patriarcal y núcleos familiares, de autonomías y solidaridades comunales. Frédéric Le Play [1886-1882] planteó una concepción “subsidiaria” del reformismo obrero y social, que situaba a la familia como “prototype de l´Etat” [5] . Esta propuesta fue sintetizada en la doctrina que denominaba como “patronalismo”, desarrollada en La réforme sociale en France (1864) y L´Organisation du travail (1870). Partiendo de la subordinación de lo político a lo ético, y de la interacción entre ciencia positiva y religión, Aunós leía en Le Play como “las intervenciones del Estado deben ser muy espaciadas, concretas y llenas de circunscripción, mostrándose igualmente pesimista en lo que se refiere al papel que han de desempeñar las asociaciones de clase”, y complementadas por el trabajo doméstico, la función social de la familia y la conciliación sociolaboral [6] . Igualmente, en el seno de la “L´Association Catholique” [1876-1890], junto al Manuel d´une corporation chrétienne (1890) de L.P. Harmel, destacó la obra del diputado católico Albert de Mun [1841-1914], dedicado no sólo a desarrollar los círculos católicos obreros en Francia, llegando hasta casi 30.000 miembros, o defender en el Parlamento de la III República los derechos de los fieles al magisterio vaticano; además generó una relevante teoría en sus discursos recogidos en La question ouvriére (1885) y L´Organisation professionelle (1901) [7] . Pero de todos los autores antes citados, destacó sobremanera el marqués René La Tour du Pin [1834-1942], de quién Aunós resaltaba su aportación de “los verdaderos cauces de las reformas sociales y de la organización corporativa” [8] . La Tour du Pin encabezó el modelo de Monarquía social católica desde la Francia finisecular. Frente al capitalismo burgués y el socialismo bolchevique, La Tour defendía la necesidad de un “Orden social católico” basado en la corporación profesional (de raigambre medieval): un orden que regulase corporativamente el mundo del trabajo (“organización corporativa de los talleres”), la economía y la política. “La constitución nacional” (o “leyes fundamentales del Reino”) era enemiga de las formas republicanas y monárquicas que sostenían el principio de la soberanía nacional. Las luchas sociales entre propietarios y obreros, la anarquía pública y el individualismo moral (visibles en 1848 y 1873) requerían con urgencia un nuevo modelo político social corporativo, de naturaleza cristiana y de modelo medieval-gremial. La doctrina sobre un “orden social cristiano” de La Tour se fundaba en el magisterio pontificio (religión católica), la mitología medieval (monarquía tradicional) y la fenomenología social (corporativismo de Durkheim). Bajo esta tras tradiciones, su orden resultaba así católico (“propiedad de Dios” bajo administración humana), monárquico (“un rey en la cúspide” que “cumple el más alto de los trabajos de la nación” y por ese “trabajo se hace verdaderamente rey”) traducido al lenguaje político-social), y orgánico (“por el cual los elementos que la componen se si ente unidos y solidarios, formando parte de un conjunto orgánico”). Un orden que se encontraba en condiciones, para La Tour, de adaptarse a las mutaciones contemporáneas mediante un “régimen corporativo” que “no debe implicar el retorno a las corporaciones medievales, sino la formación de otras más adecuadas al tiempo presente, a base de patrimonio corporativo, de la intervención en su constitución y gobierno de todos los elementos productores y el ascenso dentro de los oficios por obra de la capacidad profesional” [9] . Ahora bien, pese a décadas de notable fecundidad doctrinal, la escuela corporativa católica francesa se sometió, en gran parte, a las exigencias de realliment de la democracia cristiana con la III República francesa. Pese a ello, el fracaso del sistema político representativo de la III República, pese a la unidad nacional alcanzada por la movilización durante la I Guerra mundial, dio alas a nuevas fórmulas corporativas asentadas en regímenes fuertes y autoritarios, no directamente vinculadas al magisterio católico. En este proceso jugaron un papel determinante los doctrinarios participantes en el diario L`Action française (1905-1945), continuador de la Revue d'Action française fundada por Jacques Bainville [1879-1936]; intelectuales que definieron un moderno nacionalismo contrarrevolucionario, el cual fue modelo de renovación de los discursos, medios de difusión y aparatos organizativos de la creciente derecha antiliberal española [10] . En este movimiento jugó un papel decisivo su principal fundador e ideólogo, Charles Maurras [1868 1952], que convenció a cierto sector del nacionalismo galo de la necesidad de las tesis monárquicas y católicas. Influido por el nacionalismo de Maurice Barrès, Maurras retomó en esta revista el movimiento fundado en 1898< por el profesor de Filosofía Henri Vaugeois y el escritor Maurice Pujo. Trois idées politiques (1898) [11] fue el testimonio de su primera evolución ideológica [12] . De la mano de Maurras se generaba un nuevo tradicionalismo francés que integraba el bagaje intelectual del nacionalismo laico y positivista. Tras situarse radicalmente en contra del régimen parlamentario de la III República, Maurras encabezó la modernización de la doctrina tradicionalista combinando el positivismo sociológico y el legitimismo orleanista de Bainville [13] . En su obra Enquête sur la monarchie (1900-1909) fue delimitando doctrinalmente este nacionalismo integral y monárquico, que atrajo a numerosos republicanos y sindicalistas vinculados al ideal corporativo o a posiciones antiparlamentarias; su síntesis entre Nación y Tradición rompía la histórica posición antinacional del legitimismo, atrayendo a numerosos sectores de las clases medias deudoras espirituales de un catolicismo convertido en factor de legitimación cultural y de cohesión social, aunque nunca en dogma a seguir (visible en el público agnosticismo de Maurras) [14] . Maurras sintetizaba así las dispersas corrientes doctrinales de la derecha francesa, desde De Maistre hasta Bonald, pasando por Taine, Renan, Fustel de Coulanges, e incluso Proudhon- que había brotado a lo largo del siglo XIX como reacción al significado social y político de la Revolución de 1789 (tesis contenida en Romantisme et Révolution, 1922) [15] . Con todo ello, desde una visión positivista propia, que designó con el nombre de “empirismo organizador”, Maurras proclamó un nuevo orden en la sociedad, regido por una serie las leyes descubiertas por la historia y la sociología [16] . Siguiendo a Comte, Maurras asimilaba la sociedad a la naturaleza como “realidad objetiva”, independiente de la voluntad humana [17] . La sociedad suponía un “agregado natural” determinado por las leyes de jerarquía, selección, continuidad y herencia; así criticaba el romanticismo estético y literario de J.J. Rousseau, y vinculaba este método con la tradición católica y clasicista francesa (L'Action française et la religion catholique, 1914). Por ello cuestionaba tanto la Revolución de 1789, auténtica insurrección contra la genuina tradición francesa, representada por el orden monárquico, católico y clásico, inicio de la decadencia nacional que Francia padecía a lo largo del siglo XIX, y que llegaría a su cenit con la derrota ante Prusia en 1870; como la III República, culminación de estas “ideas destructivas” destructivas, especialmente una “democracia inorgánica” que sacralizaba el régimen electivo, la centralización administrativa, el monopolio burocrático, y con ello, la desintegración de la sociedad y el debilitamiento de la nación. Este nuevo orden propugnado por Maurras se materializaba, a través de una “encuesta histórica”, en la doctrina del nacionalismo integral y el ideal de la Monarquía como régimen de gobierno ideal y funcional [18] . La defensa de la nación francesa exigía la instauración de la monarquía tradicional y representativa, portadora de los valores característicos del catolicismo y del clasicismo [19] . Éste era el contenido de su “politique d'abord”, donde la monarquía hacía coincidir el interés personal del gobernante y el interés público, la herencia del poder político y la duración de la nación. Frente a la democracia republicana “desorganizada, discontinua y dividida, “el interés nacional” exigía la inmediata supresión del parlamentarismo y de los partidos políticos. Frente a ellos, la nueva Monarquía “representativa” reuniría el principio político monocrático en el monarca (que reunía en su persona la totalidad del poder) y el principio democrático en un conjunto de cámaras de carácter corporativo [20] . El Estado recuperaría, así, sus funciones tradicionales, respetando la libertad económica y social en mano de los individuos y las corporaciones. Este régimen garantizaría tanto la descentralización territorial (reconstruyendo las regiones), como la profesional restaurando los gremios, moral y religiosa (recuperando la influencia de la iglesia católica en la sociedad civil) [21] . Así llegó el momento de L'Action française [22] , empresa intelectual a la que se sumaron el economista Georges Valois [1878-1945], el polemista Leon Daudet, el historiador Jacques Bainville, el crítico Jules Lemaître, y unas juventudes proselitistas llamadas “ Camelots du Roi” [23] . Pero pronto se mostraron las veleidades políticas del grupo. En las elecciones de 1919 apoyaron a la Unión Nacional y lograron situar a Daudet en el Parlamento. Acusados de antisemitas y radicales, Pio XI condenó la obra de Maurras, situando sus libros en el Index Librorum Prohibitorum el 29 de diciembre de 1926 . Ahora bien, estas condenas no frenaron adhesiones como las de Georges Bernanos o Robert Brasillach, pero tampoco defecciones como la del mismo Valois, fundador del Faisceau, o de Louis Dimierm, nuevo dirigente de La Cagoule. Estas polémicas surgieron, en gran medida, de la posición ambivalente con respecto al fascismo italiano. Maurras alabó en numerosas ocasiones al nacionalismo fascista llegándolo a definir como “un socialismo libre de la democracia y de la lucha de clase”; pero también condenó tanto el totalitarismo de Mussolini como el estatismo exacerbado del nacionalsocialismo. En esta polémica medió el antiguo sindicalista Valois [24] , que propugnaba un entendimiento con estos regímenes, y con la “escuela” Georges Sorel. Así nació el Círculo Proudhon (1911), movimiento cultural contrario a la democracia liberal y a favor de la descentralización regional. Pero las posiciones esencialmente revolucionarias de los sorealianos, irreductibles en el ideal de la lucha de clases, se mostraron finalmente inadmisibles para la tradición organicista y gremialista del nacionalismo integral de Maurras. Georges Valois, pseudónimo de A.G. Greseent, vinculó tradicionalismo y fascismo en su obra L'économie nouvelle (1919). En ella planteaba un régimen sindical corporativizado, presidido por un gran Consejo económico y social nacional, articulado sobre la representación orgánica de oficios y regiones, y desarrollado a través de Consejos locales capaces de suministrar los representantes generales y de reflejar la voluntad de las pequeñas células de la vida social y económica [25] . Valois no hablaba del Parlamento del Trabajo socialista, sino de un esquema jerárquico divido en escalones de producción y en necesidades económica; por ello señalaba que “este esquema reposa no sobre una ideología, sino sobre principios deducidos de la observación de los hechos contemporáneos, y tiene en cuenta las necesidades de la producción y de las creaciones espontáneas de la vida económica” [26] . Esta preocupación por temas socioeconómicos le situó en la llamada “ala izquierda” de Accción francesa, ala que leia y debatía a G. Sorel y a P. Proudhon (Le Monarchie et la classe ouvriere, 1914, o La Revolution nacionale, 1922), y fue atraído finalmente por la experiencia del fascismo italiano (Le Fascisme, 1927) [27]. Años después, y a la sombra de Maurras, más de medio centenar de intelectuales buscaron en el “nacionalismo integral” el sistema político-social capaz de derrocar a la III República francesa. Esta generación tuvo su oportunidad en 1941, tras la división del país con la ocupación alemana. En febrero de 1941 Ch. Maurras denominó como “divina sorpresa” la decisión del mariscal Philippe Pétain [1856-1951] de expulsar a Pierre Laval del Gobierno; por ello apoyó de manera plena la política del Gobierno de Vichy, en el que vio el símbolo de la unidad nacional, como continuación de la "Unión sagrada ” de 1914. El mismo mariscal llamó a Maurras y sus discípulos para dotar al nuevo Estado francés de un armazón doctrinal corporativo y antiparlamentrio, amén de contar con “La legión de Combatientes y Voluntarios” del coronel La Roque como movimiento político, y de la integración de los miembros del PSF (Partido Social francés) y del PPF de Jaques Doriot (Partido popular francés). Así, en el París ocupado por las fuerza germanas, un sector declaradamente fascista se unió a las tesis de Drieu La Rochelle [1893-1945] sobre un Estado totalitario de extensión continental; mientras, en Vichy la “revolución nacional” desarrollada por Maurras tomó los valores conservadores de “trabajo, familia y patria”, alcanzando gran influencia los neotradicionalistas de Raphaël Alibert , convertido en ministro de Justicia, buscando establecer un régimen corporativo y agrarista. Los maurrasistas defendieron la retórica monárquica, los principios católicos, y la imagen idílica de la antigua sociedad gremialista y rural, gracias en gran medida a la labor de Philippe Henriot y Xaviert Vallat desde la Secretaria de propaganda. Pese a su rotundo “antigermanismo”, al final de la II Guerra mundial Ch. Maurras fue condenado a cadena perpetua y su revista fulminantemente prohibida. El nuevo régimen presidencialista y estatista marcado por el general Ch. De Gaulle [1890-1970], dejó al corporativismo limitado a la burocratización del poderoso sindicalismo obrero y funcionarial, y a las propuestas “populistas” de Pierre Poujade [1920-2003]. Poujade fue el responsable de la fundación en 1954 de la Union de défense des commerçants et artisans (UDCA), movimiento en defensa de los intereses de las clases profesionales y grupos artesanales de las provincias francesas, frente al sistema fiscal estatal y el monopolio burocrático propio de la IV República [28] . El poujadismo se convirtió durante varias décadas en el portavoz de los “trabajadores independientes", de los "artesanos y comerciantes" de la Francia “de abajo” contra las “200 familias privilegiadas” [29] . ·- ·-· -······-· Sergio Fernández Riquelme Notas
[1] Véase Jerónimo Molina, La política social en la historia. Murcia, Ediciones Isabor, 2004, págs. 160-189. [2] La aparición de la Política social respondía a una combinación de factores económicos políticos y psicológicos propios del siglo XIX, resultantes de la industrialización, el progreso de la democracia en el seno de los Estados centralizados y la creciente conciencia sobre los derechos políticos y sociales. Así definía a la Política social como “el conjunto de medidas para elevar el nivel de vida de una nación, o cambiar las condiciones de vida material y cultural de la mayoría conforme a una conciencia progresiva de derechos sociales, teniendo en cuenta las posibilidades económicas y políticas de un país en un momento dado”. Esta definición cubría, para De Laubier, “un dominio que se sitúa entre lo económico y lo político como medio de conservación o reforzamiento del poder el Estado”. Patrick de Laubier, La Polítique sociale dans les societés industrielles. 1800 à nos tours . París, Economica, 1984, págs. 8-9. [3] Las concepciones reformistas o autoritarias del corporativismo alumbradas al otro lado de los Pirineos, ejercieron una enorme influencia en nuestro país, bien por la cercanía geográfica, bien por el ascendiente de superioridad intelectual que gran parte de los académicos hispanos les otorgó. Del corporativismo católico, la modernización funcional del pasado romántico de La Tour du Pin fue el referente básico del Estado corporativo de Aunós y del Estado nuevo de Pradera, mientras Albert de Mun marcó en buena medida a Severino Aznar. De Durkheim tomaron nota algunos intelectuales, más cercanos al naciente debate sobre la ciencia sociológica que a las siempre lejanas tesis sobre el positivismo y el funcionalismo: el krausoinstitucionista Azcárate criticaba el “sociologismo” de Durkheim por abordar la materia religiosa desde el positivismo sociológico. Véase Gumersindo de Azcárate, La religión y las religiones, Conferencia en la Sociedad El Sitio. Bilbao, 16 de mayo de 1909, págs. 259-260), Adolfo G. Posada fue lector suyo de la mano de Duguit y Le Bon, mientras Severino Aznar hacía referencia al prefacio de la segunda edición de la División apuntado que “toda escuela sociológica y positivista científica que tiene admiradores en todo el mundo culto ha llegado a las mismas conclusiones que desde hace medio siglo están difundiendo los reformadores sociales católicos. Durkheim, que no tiene ninguna religión positivista, y que es hoy el mayor prestigio sociológico de Francia, llegó a las mismas conclusiones que Hitze, sacerdote, uno de los más ilustres campeones del régimen corporativo de Alemania” Cfr. Severino Aznar Estudios económicos y sociales. Madrid, Instituto de Estudios Políticos, 1946, pág. 214. Las primeras ediciones de las obras de Durkheim en España reflejan, por sus fechas, cierta tardanza en su publicación, y por sus traductores, cierta pluralidad de corrientes: el abogado Antonio Ferrer y Robert, el jurista Mariano Ruiz Funes, el sociólogo Carlos G. Posada, el politólogo Francisco Cañada y el líder sindical Ángel Pestaña. Posteriormente fue objeto de atención por la filosofía social de la Escuela de Madrid, y en especial por José Ortega y Gasset y su modelo burgués y meritocrático, profesional y laico de “orden moral” para la sociedad de su época. Mientras, del corporativismo sindical implantado por la CGT, tomaron nota socialistas como Fabra, De los Ríos y Besteiro; del “nacionalismo integral” de Charles Maurras y el “legitimismo” de Bainville quienes ayudarían decisivamente al punto de inflexión de la tradición corporativa española desde las páginas de Acción española o en el organicismo de la Lliga catalanista de F. Cambó y Ventosa.
[4] Al respecto véase Daniel Ligou, Histoire du socialisme en France, 1871-1971. París, Presses Universitaires de France, 1962, págs. 416-417. [5] F. Ponteil, Les classes bourgeoises et l´avenement de la democratie, 1815-1914. París, Albin Michel, 1968, págs. 438 sq. [6] Ídem , pág. 482. [7] G. Fernández de la Mora , Los teóricos izquierdistas de la democracia orgánica. Barcelona, Plaza y Janés, 1986. pág. 175. [8] Aunós lo llegaba a considerar como el verdadero “anti-Marx” en el prologará en la edición española René la Tour du Pin, Hacia un orden social cristiano. Madrid, Cultura español, 1936, pág. 34-35. [9] Ídem, pág. 484. [10] Su idea de “Monarquía neotradicional” afectó sobremanera a los alfonsinos de Renovación española, a los tradicionalistas de Pradera y a distintos intelectuales nacionalistas españoles (de Eugenio d´Ors a Ernesto Giménez Caballero). Con la lectura de Maurras, el neotradicionalismo hispano rescataba a Donoso y Balmes (entrelazados con Bonald y De Maistre), modernizaba la difusión de su doctrina y sus medios de movilización. Pese al agnosticismo declarado del doctrinario provenzal y la condena vaticana a través de la Encíclica Nous avons lu, varios elementos le hacían imprescindible: la restauración monárquica, el antidemocratismo corporativista, el nacionalismo tradicionalista, y la posibilidad de una “solución de fuerza”contrarrevolucionaria. [11] Recogido en Charles Maurras , “Trois idees politiques”, en Romantisme et Revoiution. París, Nouvelle Librairie Nationale, 1922, págs. 262 sq.
[12] Herni Massi , La vida intelectual en Francia en tiempo de Maurras . Madrid, Rialp, 1956, págs. 21 sq. [13] A quién prologó su obra Jacques Bainville , Lectures. París, Arthème Fayard, 1937. [14] Sobre los orígenes de este movimiento destacan las obras de Raoul Girardet , Le Nationalisme français, 1871-1914, Seuil, Paris, 1983 ; y François Huguenin, À l'école de l'Action française, Lattès, Paris, 1998
[15] Sobre su influencia en España véase P.C. González Cuevas , “Charles Maurras y España”, en Hispania, vol. 54, nº 188. Madrid, CSIC, 1994, págs. 993-1040; y “Charles Maurras en Cataluña”, Boletín de la real Academia de la Historia, tomo 195, Cuaderno 2. Madrid, 1998, págs. 309-362 [16] Charles Maurras , Romantisme et Revolution, Nouvelle Librairie Nationale, París, 1922, pág. 11.
[17] Ch. Maurras , “La politique religieuse”, en La democratie religieuse. París, Nouvelles Editons Latines, 1978, pág. 289.
[18] Pierre Hericourt, Charles Maurras , escritor político. Madrid, Ateneo, 1953, págs. 13 sq. [19] Dimensión de su pensamiento analizada por Alberto Caturelli, La política de Maurras y la filosofía cristiana. Madrid, Ed.Nuevo Orden, 1975. [20] Ch. Maurras, Encuesta sobre la Monarquía. Madrid , Sociedad General Española de Librería, 1935, págs. 65 y 705-706. [22] Movimiento estudiado por Eugene Weber , L'Action Frangaise. París, Fayard, 1985. [23] Junto al diario L'Action Française, otros órganos de difusión de las ideas maurrasianas fueron el Círculo Fustel de Coulanges o la Cátedra Syllabus. [24] Sobre su obra doctrinal podemos citar el estudio de Yves Guchet, Georges Valois .L’action Française - Le Faisceau - La république Syndicale. París, Albatros, 1975. [25] Georges Valois , L'économie nouvelle. París, Nouvelle Librairie Nationale, 1919, págs. 24 sq. [26] Publicado en España como G. Valois , “La representación de intereses”, en Acción española, nº 51, Madrid, 1934, págs. 80 y 81. [27] Eugene Weber , “Francia”, en H. Rogger y E. Weber, op.cit., págs. 63-108 . [28] Poujade protagonizó desde 1953 una revuelta contra el Estado francés, encabezando un notable grupo de pequeños comerciantes que protestaba contra la que consideraban como una elevada presión tributaria, tanto normativa como administrativa. Nacía el llamado “poujadismo”, que tras fundar el grupo político ”Unión de Defensa de los Comerciantes y Artesanos (UDCA)”, entró en la misma Asamblea Nacional de 1956 con 52 escaños, entre ellos el de un joven J. M. Le Pen. Aunque la llegada del general De Gaulle, a la presidencia de la República en 1958, comenzó a frenar la expansión de este experimento político, que años más tarde el Frente Nacional quiso capitalizar como antecedente. [29] Un testimonio directo lo encontramos en Pierre Poujade, J'ai choisi le combat Saint-Céré, Société générale des éditions et des publications, 1955. |
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La lezione di Karl Haushofer e la discreta presenza di Giuseppe Tucci nel dibattito geopolitico degli anni trenta
La lezione di Karl Haushofer e la discreta presenza di Giuseppe Tucci nel dibattito geopolitico degli anni trenta
Con la pubblicazione del testo di una conferenza del geopolitico tedesco Karl Haushofer[1], dedicata alle affinità culturali tra l’Italia, la Germania e il Giappone, viene inaugurata, a cura delle Edizioni all’insegna del Veltro, la collana “Quaderni di Geopolitica”.
La conferenza “Analogie di sviluppo politico e culturale in Italia, Germania e Giappone“ venne tenuta dal professore tedesco, su invito del grande orientalista e tibetologo italiano Giuseppe Tucci[2], il 12 marzo 1937, a Roma, presso l’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente (ISMEO)[3].
Essa si inserisce, storicamente, come peraltro puntualmente evidenziato dal curatore del Quaderno, Carlo Terracciano, nel contesto delle attività culturali volte a informare e sensibilizzare l’intellighenzia italiana sulle opportunità e necessità, nonché problematicità, sottese all’accordo politico-militare relativo all’asse Roma-Berlino, siglato tra Italia e Germania il 24 ottobre 1936, e a quello antikomintern firmato, nello stesso periodo, tra Germania e Giappone. Ma testimonia soprattutto un aspetto, ancora poco esplorato dagli storici della cultura e della politica estera italiana, quello delle attività dell’ISMEO, ed in particolare del suo fondatore e vicepresidente, Giuseppe Tucci - originale ed inascoltato assertore dell’unità geopolitica dell’Eurasia[4] - orientate alla promozione di una visione culturale, geopoliticamente fondante, dei rapporti tra l’Europa e il continente asiatico.
Un’impostazione, quella del Tucci, che si contraddistingue per essere non solo puramente culturale, accademica e, occasionalmente, di supporto alla nuova politica dell’appena nato impero italiano, ma per operare una sorta di svecchiamento, sia in ambito culturale che politico, dell’ancora persistente mentalità piccolo nazionalista sabauda che, nel solco della prassi colonialista italiana dei primi del Novecento, tentava di condizionare il nuovo corso impresso dal governo di Mussolini alla politica estera. A questo riguardo è utile riportare l’acuta osservazione di Alessandro Grossato che, sulla base di una lunga e profonda consuetudine con l’opera di G. Tucci, ritiene il fondatore dell’ISMEO un vero e proprio eurasiatista ed afferma che l’espressione “Eurasia, un continente” veniva intesa dall’orientalista marchigiano in un’accezione “soprattutto culturale, volendo [con essa] sottolineare le grandi identità di fondo fra civiltà solo in apparenza così distanti nello spazio e nella mentalità”[5].
Il convincimento di Tucci sulla culturale identità di fondo delle civiltà eurasiane suppone un’adesione, da parte dello studioso italiano, a quel sistema di pensiero che interpreta le singole culture quali autonome ed autoconsistenti manifestazioni storiche di un unico sapere primordiale e ad esso le riconduce al fine di coglierne gli aspetti autenticamente fondativi. Il ricondurre le varie espressioni culturali ad un’unica tradizione primordiale si traduce, sul piano della ricerca storica e dell’analisi geopolitica, in un procedimento comparativo, che Haushofer, (inconsapevolmente e) magistralmente, adotta e utilizza in questa breve conferenza dedicata a individuare le analogie tra l’Italia, la Germania e il Giappone. Haushofer, pur basandosi su criteri oggettivi e “scientifici”, quali sono quelli della geopolitica, sorprendentemente[6], perviene agli stessi risultati cui sembra essere giunto Tucci. Il geopolitico tedesco, infatti, nella sintetica e veloce conclusione di questa conferenza, si augura che “Possa questo modo di vedere i popoli [l’essersi cioè egli adoperato, nella sua prolusione, a porre in piena luce le armonie e le analogie che possono facilitare la comprensione reciproca dei grandi popoli tedesco, italiano e giapponese] superare qualunque tempesta d’odio di razza e di classe, soprattutto tra i sostegni del futuro.”
Certo, chi è abituato a sentir parlare di Haushofer come un rappresentante del cieco e rozzo pangermanesimo, o del cosiddetto imperialismo germanico, rimarrà stupito nel leggere questa frase appena citata.
Sarà proprio il fallimento della naturale alleanza eurasiatica, preconizzata negli anni Trenta dagli Haushofer, dai Tucci e dai Konoe[7], a far precipitare i popoli e le nazioni dell’intero globo in una tempesta di cui ancora, dopo oltre sessanta anni, non si intravede la fine e che, anzi, è continuamente alimentata dall’odierna politica neocolonialista dei governi di Washington e Londra e dai propagandisti dello scontro di civiltà.
Il procedimento comparativo adottato da Haushofer lungi dall’appiattire le differenze tra i popoli presi in considerazione e dallo svilirne le appartenenze etniche, in virtù della generica appartenenza al genere umano e secondo la triste e riduttiva visione individualista, valorizza armonicamente, al contrario, le affinità e le differenze, e le riconduce ad un’analoga condivisione, pur con sensibilità diverse, di valori che potremmo definire ad un tempo etici ed estetici, cioè “nobili”. Essi si esprimono, nella visione haushoferiana, sia per il Giappone, sia per la Germania, l’Italia, e la Russia in una loro precisa funzione geopolitica, quella di concorrere all’unificazione della massa continentale e di difenderne pertanto il limes, al fine di poter sviluppare armonicamente le potenzialità delle popolazioni che vi abitano. Si contrappongono dunque alle “invasioni” degli uomini del mare, del commercio, della morale individualistica, del lusso e del consumo, ai predatori delle risorse naturali.
Il testo di Haushofer si contraddistingue per la sua chiarezza e semplicità, ed in questo senso rappresenta un documento didattico di rilevante importanza per gli studiosi di geopolitica. Da scienziato della geopolitica, egli evidenzia gli elementi geografici che hanno influito sulla storia e sulla politica dei tre popoli in esame, soffermandosi brevemente sulla analoga formazione delle cellule regionali avvenuta in Germania e in Giappone, e sulla fondazione di Roma, Berlino e Tokyo, città fondate originariamente sul confine nordest delle loro regioni, e “debitrici di una parte del loro splendore alla circostanza che la loro posizione di margine, in origine coloniale, si rivelò più tardi favorevolissima agli scambi ed ebbe funzione di ponte. Il flavus Tiberis, l’originaria valle di congiunzione dell’Oder coll’Elba, e il Kwanto col ponte Nihon provvedono alle città rispettive una posizione similmente favorevole e sono loro debitrici di analoga protezione”. Ma accanto ai dettami del determinismo geopolitico, Haushofer sottolinea le affinità culturali tra Italia, Germania e Giappone, che nota soprattutto nel “ghibellin fuggiasco” Dante Alighieri, araldo dell’idea imperiale, in Chikafusa[8], un altro grande fuggiasco nonché impareggiabile autore del Jinnoshiki, e nei Minnesaenger tedeschi “fedeli all’Imperatore e al popolo”. Altre affinità colte da Haushofer sono quella tra lo spirito della Cavalleria occidentale e il Bushido giapponese e quella dei comportamenti tra coloro che egli chiama gli eroi fondatori del risorgimento nazionale: Ota Nobunaga, Sickingen-Wallestein, Cesare Borgia.
Haushofer sostiene che si possa parlare anche per il Giappone, come per l’Italia e la Germania, di un periodo romanico, gotico, rinascimentale, barocco, di un rococò, di un romanticismo e financo di uno stile impero.
Un termine che ricorre spesso negli scritti Haushofer è quello di “destino”. E’ forse nel sintagma “destino comune” che si esprimono più compiutamente le affinità di popoli (apparentemente) tanto diversi sul piano culturale e etnicamente differenti su quello fisico. La coscienza di un destino comune dei popoli e delle nazioni che vivono nel “paesaggio” eurasiatico è la sola arma che abbiamo per sconfiggere la civilizzazione occidentalistica e talassocratica dei predoni del XXI secolo.
Tiberio Graziani
Karl Haushofer, Italia, Germania, Giappone, a cura di Carlo Terracciano, Collana “Quaderni di Geopolitica”, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2004.
[1] Karl Haushofer (Monaco, 27 agosto 1869 – Berlino, 10 marzo 1946), fondatore della rivista Zeitschrift für Geopolitik ed autore di numerose opere di geopolitica, fu assertore dell’unità geopolitica della massa continentale eurasiatica. Demonizzato come ideologo del cosiddetto espansionismo hitleriano, fu invece autenticamente antimperialista. Secondo lo studioso belga Robert Steuckers, “la geopolitica di Haushofer era essenzialmente anti-imperialista, nel senso che essa si opponeva agli intrighi di dominio delle potenze talassocratiche anglosassoni. Queste ultime impedivano l’armonioso sviluppo dei popoli da loro sottomessi e dividevano inutilmente i continenti” Robert Steuckers, Karl Haushofer , in http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/documenti.htm. In traduzione italiana è disponibile l’opera di Haushofer Il Giappone costruisce il suo impero, a cura di Carlo Terracciano, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1999.
[2] Giuseppe Tucci (Macerata, 5 giugno 1894 - e San Polo dei Cavalieri (Tivoli), 5 aprile 1984) ritenuto il più grande orientalista italiano del Novecento, e fra i massimi tibetologi a livello internazionale, nel 1930 diviene docente di lingua e letteratura cinese all'Università di Napoli, e nel 1932 insegna religione e filosofia dell'Estremo Oriente all'Ateneo di Roma. Nel 1933 fonda l'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente. “L'attenzione rivolta anche agli aspetti politico-economici è documentata, oltre che dalle numerose pubblicazioni dell'Istituto come i periodici Bollettino dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (1935) e Asiatica (1936-1943), dallo specifico interesse di Tucci per la geopolitica dell'Asia in un periodo cruciale della sua storia, e dalla sua amicizia personale con Karl Haushofer, che invita a tenere importanti conferenze su questa materia. Tucci concentra i suoi viaggi di ricerca nella vasta regione himalayana, quale naturale crocevia storico fra tutte le diverse culture dell'Asia, raccogliendo sistematicamente materiale archeologico, artistico, letterario, di documentazione storica e altro. Risultati eccezionali vengono così ottenuti dalle sue lunghe spedizioni in Tibet fra il 1929 e il 1948, anno in cui l'Is.M.E.O. riprende in pieno la sua attività postbellica sotto la sua diretta presidenza, destinata a durare fino al 1978. Tra il 1950 e il 1955 egli organizza nuove spedizioni in Nepal, seguite dalle campagne archeologiche in Pakistan ('56), in Afghanistan nel ('57) ed in Iran ('59). Sempre nel 1950 avvia il prestigioso periodico in lingua inglese East and West, e nel 1957 fonda il Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma. Tra i suoi numerosi ed importanti scritti ricorderemo solamente, sia i sette volumi di Indo-tibetica (Accademia d'Italia, 1932-1942) che i due di Tibetan Painted Scrolls (Libreria dello Stato, 1949) per la loro ampiezza documentaria, e la Storia della filosofia indiana (Laterza, 1957) per la sua portata innovativa, specie per quanto riguarda la logica indiana. Ma Giuseppe Tucci ci ha soprattutto trasmesso la sua appassionata ed intelligente dimostrazione dell'unità culturale dell'Eurasia, e una lucida consapevolezza del fatto che, giunti come siamo ad un capolinea della storia, essa dovrà tradursi anche in un'effettiva unità geopolitica”. (Alessandro Grossato, Giuseppe Tucci , in http://www.ideazione.com/settimanale/78-20-12-2002/78tucc...).
[3] L’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente venne fondato nel 1933 su iniziativa del tibetologo Giuseppe Tucci e di Giovanni Gentile, che ne assunsero rispettivamente la vicepresidenza e la presidenza, con lo scopo di “promuovere e sviluppare i rapporti culturali fra l'Italia e i paesi dell'Asia Centrale, Meridionale ed Orientale ed altresì di attendere all'esame dei problemi economici interessanti i Paesi medesimi”.
Nel 1995 l’Ismeo è stato accorpato all’Istituto Italo Africano (IIA) dando origine all’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), che ne ha raccolto l’eredità e gli scopi culturali nonché la prestigiosa biblioteca.
[4] Confronta Alessandro Grossato, Il libro dei simboli. Metamorfosi dell’umano tra Oriente e Occidente , Mondadori, 1999.
[5] A. Grossato, op. cit. , p.10.
[6] Haushofer venne invitato dall’ISMEO per una seconda conferenza, che si tenne il 6 marzo 1941. Il testo della conferenza “Lo sviluppo dell’ideale imperiale nipponico” è, attualmente, in corso di stampa per le Edizioni all’insegna del Veltro.
[7] “Il leader degli Eurasiani giapponesi era il principe Konoe, uno dei politici più in vista del Giappone d’anteguerra, primo ministro dal 1937 al 1939 e dal 1940 al 1941; ministro di Stato nel 1939; membro di gabinetto nel 1945 del principe Hikasikuni (gabinetto che firmò la capitolazione e fu, pressoché interamente, arrestato dagli Americani). Konoe era sostenitore della maggiore integrazione possibile con la Cina, dell’unione con la Germania ed era un risoluto avversario della guerra contro l’Unione Sovietica (il patto di non aggressione fu firmato quando egli era primo ministro). Konoe odiava gli Americani e si suicidò nell’autunno del 1945 alla vigilia del suo arresto. Ancora oggi, egli gode di una grande notorietà in Giappone e la sua personalità suscita sempre rispetto”. (da una lettera del nippologo russo Vassili Molodiakov al geopolitico e filosofo Alexander Dughin, pubblicata in Elementy, n.3 - http://www.asslimes.com/documenti/mondialismo/giappone.htm).
[8] Kitabatake Chikafusa (1293-1354), nell’opera classica (Jinnoshiki) del pensiero politico giapponese, fissava, in coerenza con la tradizione shintoista, i principi di legittimità della discendenza imperiale.
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lundi, 02 novembre 2009
La fin du modèle français d'assimilation
La fin du modèle français d’assimilation
Depuis une trentaine d’années, les pays européens sont en proie à une immigration continue et massive, essentiellement extra-européenne, voulue et entretenue par un patronat en quête de main-d’œuvre bon marché.
Face à cet afflux inédit de populations étrangères, les pays européens ont dû à la fois organiser leur installation sur leurs territoires nationaux et tenter de leur trouver une place dans la société. Chaque pays ayant usé de solutions différentes héritées essentiellement de leur histoire et de leur culture.
Ainsi les nations nordiques, reposant essentiellement sur un socle ethniquement germanique, optèrent pour une société organisée en communautés ethno-raciales au sein desquelles les individus conservèrent leurs mœurs et leurs traditions. L’exemple le plus parfait de ce schéma se rencontre en Angleterre et tient au fait, comme l’explique E. Todt, que « la société britannique donne une définition raciale de la différence immigrée ; [alors que] la société française [en donne] une définition culturelle« . Autrement dit, plus un individu est racialement proche du « standard britannique », et plus les anglais auront tendance à le reconnaître comme l’un des leurs.
En totale opposition au schéma communautariste, la France a développé un système basé sur l’assimilation des « nouveaux venus », qui consistait en un dépouillement (acculturation) de la culture d’origine pour endosser ensuite la culture nationale à travers l’apprentissage de la langue française et de l’histoire nationale (« le roman national »). Pour parvenir à ce résultat, l’Etat s’appuyait sur différentes instances : l’école, l’armée (à travers le service militaire), les partis politiques, les syndicats qui constituaient autant d’espaces de socialisation et d’assimilation permettant de « fabriquer des français » dans des temps très courts, leur ouvrant ensuite la voie à une possible ascension sociale. Qui mieux que Napoléon symbolise ce « génie français » ? Quand ce fils de petit notable Corse vient au monde, l’île de Beauté n’est française que depuis un an, ce qui ne l’empêcha pas d’intégrer l’armée avant d’embrasser la carrière politique dont son couronnement sous le titre d’ « Empereur des Français » marqua l’apogée.
Cependant, depuis la fin de la Seconde Guerre Mondiale, le modèle français a été remis en cause sous la pression conjuguée de deux phénomènes, l’un exogène, l’autre endogène :
La construction européenne tout d’abord, qui, contraignant les Etats a se conformer aux directives de la Commission Européenne, dont l’unique objectif est la performance économique et l’intégration de l’espace européen dans la mondialisation libérale, a fait entrer en crise les Nations et par la même leurs systèmes sociaux et leurs institutions sur lesquels les Etats s’appuyaient.
Au niveau national ensuite, où les différentes associations anti-racistes des années 80 ont comparé l’assimilation au dernier avatar du « fascisme » Français en y substituant à la place « le mythe des racines et des origines ». C’est oublier un peu vite que toutes les générations durent s’y plier, à un moment ou à un autre, à commencer par les Bretons, les Basques, les Alsaciens et autres Auvergnats, qui, dans le droit prolongement du rapport de l’abbé Grégoire (Rapport sur la nécessité d’anéantir le patois, & d’universaliser l’usage de la langue française), furent contraints, sous la IIIème République, d’abandonner l’usage du patois dans la sphère publique au profit du Français.
Or, ce fut précisément au moment où notre pays dut faire face à une nouvelle vague migratoire composée d’individus culturellement et ethniquement plus éloignés de la population autochtone, que notre modèle d’assimilation a été mis à mal alors qu’au contraire son renforcement aurait été plus que jamais nécessaire : on conviendra sans peine que l’assimilation d’un Belge ou d’un Italien blanc catholique est plus aisée que celle d’un Maghrébin Musulman ou d’un sub-Saharien (fut-il Chrétien).
L’Etat ne jouant plus son rôle de créateur de lien social et l’école ne remplissant plus son rôle d’assimilation, ces populations récemment arrivées sur notre sol sont en proie à un vide identitaire découlant d’un rejet violent de la civilisation française (attitude que l’on retrouve également aujourd’hui chez beaucoup de « petites têtes blondes »).Elles compensent ce vide en endossant des identités alternatives, souvent inspirées ; pour les jeunes Noirs, des « gangs » américains et pour les jeunes Maghrébins, de la « mythification du bled » fièrement affichée et revendiquée, à en juger par le port de nombreux vêtements aux couleurs du Maroc ou de l’Algérie, dont le commerce tire par ailleurs profit. De plus, ce que l’on présente un peu hâtivement comme une « réislamisation » de ces populations ne trahit pas tant « un retour du religieux » que l’apparition d’un « Islam identitaire » destiné à palier cette crise identitaire. Si beaucoup pratiquent le Ramadhan, combien en revanche prient cinq fois par jour tout au long de l’année ? Combien ont lu le Coran en entier ? Combien ont fait ou feront leur voyage à la Mecque ? De plus, comment trouver sa place dans la société quand on ne possède qu’un bagage lexical d’une pauvreté inouïe, mêlant « verlan », français et mots nord-africains ou sub-sahariens ?
Pour tenter de remédier à l’échec des « quartiers » les gouvernements, depuis vingt-cinq ans, ont dépensé, sans grand résultat, trente cinq milliards d’euros dans des « plans-banlieue » afin de réorganiser l’urbanisme, de venir en aide à différentes associations. Tout ceci sans compter la mise en place de « la discrimination positive à la française », dernier « accessoire idéologique » importé des pays anglo-saxons qui sape la promotion sociale au mérite, rendue difficilement possible, tant l’enseignement en « Z.E.P. », aux dires de certains professeurs, s’est transformé en un chemin de croix quotidien. Les parents qui en ont les moyens financiers quittent alors ces zones afin d’inscrire leurs enfants soit dans des établissements publics plus « cotés » et plus calmes, soit dans des établissements privés, gage à leurs yeux d’une meilleure qualité de l’enseignement.
La bataille consistant à savoir lequel des deux modèles, communautariste ou assimilationniste, s’avère être le plus adéquat est vain dans la mesure où les flux migratoires, toujours plus massifs et continus, les ont voués à l’échec laissant le problème irrésolu. Cependant, le modèle Britannique a obtenu de toute évidence des résultats bien plus médiocres que le modèle français. Ce dernier semble pourtant bien malgré lui s’engager sur cette voie, à en juger par l’apparition de multiples « conseils représentatifs » communautaires (C.R.A.N. , évocation d’un C.R.I.F. Musulman, etc…) dont le Conseil représentatifs des institutions juives de France (C.R.I.F.) sert de matrice.
Source : Dies Irae [1]
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[1] Dies Irae: http://www.dies-irae.fr/actualites-n116-la-fin-du-modele-francais-assimilation.html
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Nada que celebrar y mucho que lamentar
Nada que celebrar y mucho que lamentar
Estos días se ha conmemorado el vigésimo aniversario de la caída del muro de Berlín. Fecha para celebrar, ciertamente. En cambio es para lamentar el mismo aniversario del ‘consenso de Washington’: la peor versión del capitalismo que los siglos han visto (el neoliberalismo) cuyo antecedente fue la atroz involución conservadora perpetrada por Ronald Reagan y Margaret Thatcher en los ochenta.
El cineasta Costa Gavras, comprometido siempre con la democracia y la justicia, formula así esa lamentación: “Cuando cayó el muro de Berlín pensamos que por fin el mundo sería diferente. Pero fue peor. Todo, medio ambiente, economía, paro. No se propuso una vida mejor, sólo ir hacia un mundo más oscuro”.
En la dogmática aplicación del neoliberal ‘consenso de Washington’ están las causas de la crisis que ha colocado el mundo al borde del desastre. Redactado por un oscuro economista del Institute for International Economics en noviembre de 1989, pretendía ser inicialmente un listado de directrices económicas para América Latina. Pero el Fondo Monetario Internacional, Banco Mundial y otras entidades internacionales rápidamente lo canonizaron como único programa económico posible para impulsar el crecimiento mundial. Demasiado tarde la crisis feroz les ha arrancado la venda de los ojos.
En esa dogmática lista de políticas económicas que es el ‘consenso de Washington’, se impone reordenar las prioridades del gasto público (entiéndase recortar el gasto público social). También es inaplazable la reforma fiscal (es decir, quienes tienen más, que paguen menos). Así como imprescindible liberalizar el comercio internacional (los países ricos hacen lo que quieren, pero los pobres y emergentes han de renunciar a sus aranceles). Por supuesto, hay que liberalizar la entrada de capitales extranjeros (descontrol y alfombra roja a la evasión de impuestos y ocultación de capitales). Y es indiscutible la desregulación de lo financiero (ahí está la crisis para demostrar cuan acertada fue tal directriz). Además de privatizar lo público (¿porque impedir que una minoría se enriquezca con lo que es de todos?).
Eso es el ‘consenso de Washington’. Quien pretenda que nada tiene que ver con la crisis demuestra que no hay peor ciego que quien no quiere ver. Hemos hablado y escrito sobre la crisis hasta la saciedad, pero hay que remachar que las causas de la crisis (reconocidas y confesadas con golpes de pecho y presunto arrepentimiento) no son más que la fiel aplicación de las políticas económicas del consenso de Washington. Como Chicago en los años 30, el de Capone, Moran y Frank Nitti; esto quiero, esto cojo.
En la lúcida versión del humorista español El Roto, el desorden neoliberal perpetrado hace veinte años se sintetiza en un humor agudo ilustrado con siniestras figuras de hombres poderosos, bien vestidos y gesto feroz o con abrumadas imágenes de pobres sorprendidos: “Si nada ganábamos cuando se forraban, porque hemos de perder cuando se la pegan. ¿El capitalismo? Una manita de pintura y como nuevo. Todo lo que dé dinero debe ser privado, y lo que arroje pérdidas, público. ¡Así que el desarrollo sólo era delincuencia! ¡La operación ha sido un éxito: hemos conseguido que parezca crisis lo que fue un saqueo!”
Recurrimos de nuevo a Costa Gavras cuando dice que “volvemos a los años anteriores a la Revolución Francesa, en los que una minoría, la nobleza, lo tenía todo. Hoy parece revivir aquello: una mayoría que hace todo el trabajo y consigue que la sociedad funcione, frente a la nueva aristocracia de los capitalistas. Necesitamos otra revolución, sin sangre, pero una revolución. Para cambiar esta situación”.
Hay que enfilar el hilo en la aguja y no estaría mal que fueran hechos y no palabras. Por ejemplo, volver a pelear por un impuesto a los movimientos especulativos de capital. Lo propuso en 1971 quien fue Nobel de Economía en 1982, James Tobin. La tasa Tobin es un 0,1% sobre el capital que se mueva para especular. Otro Nobel de Economía, Stiglitz, se ha sumado a quienes reclaman la implantación de dicha tasa. Para mostrar que es posible y no delirio de izquierdoso fumado, el gobierno de Lula impondrá un Impuesto de Operaciones Financieras (2%) al capital extranjero de operaciones especulativas con divisas en Brasil.
No es la revolución, pero todo es empezar.
Xavier Caño Tamayo
Extraído de Argenpress.
00:25 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : berlin, mur de berlin, allemagne, réflexions personnelles, politique internationale | |
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Frankfurter Buchmesse 2009 - Antaios-Rundbrief 24/2009

00:20 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : foire du livre, livre, allemagne | |
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