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samedi, 28 avril 2012

Inscrições abertas para o IIIº Encontro Nacional Evoliano Curitiba

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IIIº Encontro Nacional Evoliano  Curitiba

 

 

 

vendredi, 27 avril 2012

L'Italia secondo Oswald Spengler

L'Italia secondo Oswald Spengler

Andrea Virga

Ex: http://andreavirga.blogspot.com/

Questo articolo che porta avanti una breve analisi della storia italiana in un'ottica spengleriana, è uscito ad aprile 2012 sul numero 2 della rivista Antarés, edita da Bietti e gratuitamente diffusa su web e su carta.

spengleroswald.gifIl titolo dell’articolo potrebbe apparire fuorviante: cosa c’entra con l’Italia il profeta germanico del Tramonto dell’Occidente, il teorico del socialismo prussiano, bollato come precursore del nazionalsocialismo, ma letto avidamente anche da Kissinger e Malcolm X?
A dire il vero, negli scritti di Oswald Spengler, manca un vero e proprio pensiero unitario, riguardo all’Italia, dal momento che altre erano le sue priorità, e tuttavia è possibile ricavare dalla sua opera non solo un giudizio coerente sulla storia italiana, ma anche chiavi di lettura che ci permettono di integrare quanto Spengler dice, sempre alla luce della sua Weltanschauung. Chiaramente, il giudizio spengleriano è problematico e richiede di essere discusso, ma nondimeno si rivela essere per certi versi molto acuto.
Ci si potrebbe inoltre chiedere se non si tratti di un mero esercizio filologico, quello di ricostruire questo giudizio.  Sembrerebbe vano chiedere ad un autore tedesco morto 75 anni fa considerazioni interessanti per noi italiani di oggi. Non è così: Oswald Spengler, così come altri autori che militarono in quell’area di pensiero denominata “rivoluzione conservatrice” – basti citare menti del calibro di Martin Heidegger, Carl Schmitt, Ernst Jünger, Karl Haushofer –, ha ancora molto da dire alle generazioni successive, purché si sappia considerare il suo pensiero nella giusta cornice storico-filosofica.
Sarebbe ora fin troppo lungo citare i vari estimatori di Spengler nel corso del XX secolo, per cui mi limiterò a far risaltare la recente ondata di traduzioni in Russia, o lo pseudonimo di “Spengler”, assunto dall’economista ebreo David Goldman per la sua decennale (2000 – 2009) rubrica su Asia Times Online. Per l’Italia, cito il giudizio del medievista Franco Cardini, secondo il quale «una rimeditazione delle vecchie pagine di Spengler s’impone come insospettabilmen­te attuale e fruttuosa» (1).
I popoli faustiani
Il testo spengleriano più interessante ai nostri fini è sicuramente “Prussianità e socialismo” (1919), in cui riprende la storia della Kultur faustiana (cioè occidentale) e del suo decadere a Zivilisation – già esposta dettagliatamente nella sua opera più famosa e importante, “Il tramonto dell’Occidente” –, individuando al suo interno lo sviluppo storico di cinque popoli principali, che si sono susseguiti nell’egemonia culturale e politica, dunque anche spirituale, all’interno della Kultur occidentale. Si tratta, nell’ordine, di Italiani, Spagnoli, Francesi, Inglesi, Prussiani, ciascuno dei quali ha avuto una sua fase di predominio, prima di esaurirsi. A loro volta, ognuno di questi aderisce ad una o all’altra del contrasto interno alla Kultur faustiana, ovvero popoli anarchici e popoli socialistici, discordanti a livello d’istinto sociale e politico.
Per inciso, va sottolineato che Spengler non intende il termine “popolo” (Volk) in senso etnonazionalista, come molti suoi contemporanei, ma come unità culturale e spirituale, originata da un processo storico e divenuta essa stessa agente la Storia. Per questo, le popolazioni “marginali” (come possono essere Irlandesi, Olandesi, Portoghesi)  non hanno sufficiente rilievo da costituire un popolo, in senso spengleriano, mentre viceversa all’interno di una medesima etnia possono sussistere componenti diversi.
Infatti, ai tempi in cui scriveva, secondo Spengler, non rimanevano ormai che due soli popoli, irrimediabilmente contrapposti tra loro in senso politico, sociale ed economico: Prussiani e Inglesi. All’animo prussiano corrisponderebbe il “socialismo prussiano”, vale a dire un capitalismo gerarchico, produttivo, nazionale, con una comunità d’intenti tra lavoratori e imprenditori (in altre parole il cosiddetto modello “renano”), mentre all’animo inglese corrisponderebbe il “capitalismo” propriamente detto (che sarebbe poi per Spengler la forma inglese di “socialismo”), ovvero finanziario, internazionale, concorrenziale. Si tratterebbe non solo quindi d’interessi contrastanti ma di una vera e propria divergenza d’istinti.
Con l’avvenuto passaggio dell’Occidente alla fase di Zivilisation, i popoli vanno per così dire dissolvendosi, lasciando posto a masse sradicate, per cui anche le varie anime italiana, spagnola, francese perdono d’importanza e di vigore, davanti al contrasto ultimo tra spirito prussiano e spirito inglese, a loro volta incarnati in veri e propri partiti politici ed economici. Come afferma Spengler: «La questione non può essere decisa tra due popoli. Oggi è penetrata all’interno di qualsiasi popolo […]. Oggi in ogni Paese ci sono un partito economico inglese ed uno prussiano.» (2). Questo è il quadro in cui si troverebbero le nazioni occidentali, secondo il filosofo tedesco.
La nascita degli Italiani
Il popolo italiano, d’istinto anarchico, è il primo ad emergere tra i popoli faustiani. Il suo sviluppo avviene in un periodo di transizione tra due fasi della Kultur occidentale: ovvero quella giovanile (il tardo Medioevo) e quella matura (il primo evo moderno), tra XV e XVI secolo. In questa fase è ancora problematico parlare di nazioni e popoli, assenti nel periodo gotico, e più autenticamente faustiano. Il Rinascimento italiano e poi il Rococò francese, dopo l’interruzione del Barocco spagnolo, segnano invece la sconfitta dell’universalismo “socialista” gotico da parte del particolarismo anarchico delle nazioni mediterranee (Francia e Italia), le più vicine, per eredità e paesaggio, al mondo classico, interpretato da Spengler come essenzialmente atomistico, particolaristico, corporeo, compiuto.
La città fulcro e simbolo del popolo italiano è, perciò, non Roma, ma Firenze, laddove c’era già un forte sostrato etrusco. Nei suoi frammenti sulla preistoria (3), Spengler individua, infatti, già nella cultura etrusca, la base anarchica e particolaristica del popolo italiano. Questi istinti, questi caratteri sono fisiognomicamente legati al paesaggio. Nella geofilosofia spengleriana, le ampie distese marine o selvose del Nord Europa gotico e faustiano si contrappongono così alle conchiuse isole e valli del Mediterraneo classico e anarchico. L’umanesimo poi, come ripresa di stilemi e forme classiche, si spiega con l’affinità d’istinto tra l’antichità classica e la modernità italiana.
Le repubbliche e i comuni mercantili italiani, con la loro politica legata ad interessi limitati e particolari, costituiscono e rappresentano quindi una vera e propria rivolta particolaristica contro lo spirito gotico e faustiano incarnato dalle pretese universalistiche di dominio cavalleresco o sacerdotale dell’Impero e della Chiesa. Per dirla con Spengler: «Nel XV secolo l’anima di Firenze si rivoltava contro lo spirito gotico […] con la sua immane tendenza verso l’illimitato […]. Quello che noi chiamiamo Rinascimento, è la volontà antigotica di un’arte composta e di una formazione intellettuale raffinata; è assieme alla gran quantità di Stati predoni, alle repubbliche, ai condottieri, alla politica del “momento per momento” descritta nel classico libro di Machiavelli, al ristretto orizzonte di tutti i disegni di potenza – compresi quelli del Vaticano in quel periodo – una protesta contro la profondità e la vastità della coscienza cosmica faustiana. A Firenze è nato il tipo del popolo italiano.» (4).
Si potrebbe obiettare come già le Repubbliche Marinare di Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, Ragusa, oppure le casane astigiane o ancora le avventure delle dinastie italiane, come gli Aleramici o gli Altavilla, alle Crociate, avessero anticipato queste tendenze. Tuttavia, secondo Spengler, il momento decisivo per la nascita della nazione italiana e il passaggio alla fase matura della Kultur occidentale non giunge prima del Quattrocento, quando tutti gli elementi – il passaggio generale dal Comune alla Signoria, la riscoperta della classicità, la ricchezza mercantile, il tramonto dei progetti universali guelfi o ghibellini – si fondono nel Rinascimento fiorentino. Dante Alighieri, con la sua polemica contro le fazioni e gli intrighi fiorentini e italiani, ha ancora, per Spengler, un’anima profondamente gotica.
L’Italia moderna
Le osservazioni di Spengler su questo carattere anarchico e particolaristico del popolo italiano non riescono affatto nuove peraltro a chiunque conosca la storia italiana. Fino all’Ottocento, si trattò della storia di singoli Stati dinastici più o meno soggetti a potenze straniere o indipendenti, in lotta tra loro, ma senza tendenze unitarie. Con il Sacco di Roma del 1527, infatti, termina il periodo “italiano”, in favore di quello spagnolo, cui si deve attribuire il possente movimento religioso e politico della Controriforma – l’ultramontanismo clericale come “socialismo” spagnolo.  Ora possiamo andare avanti in questa analisi, lasciandoci alle spalle la lettera di Spengler, e applicando invece il suo metodo.
L’Italia è terreno di lotta tra Spagna e Francia – cui poi si aggiungeranno l’Austria asburgica (dunque spagnola) e l’Inghilterra (allo spirito inglese si deve attribuire, secondo Spengler, la stessa epopea napoleonica) –, condotta anche attraverso la preminenza dell’uno o dell’altro partito negli Stati italiani. Basti pensare all’esempio del Piemonte sabaudo, passato da una politica “francese” durante il regime madamista ad una politica “spagnola” influenzata dal feldmaresciallo imperiale Eugenio di Savoia, o ancora alla politica “inglese” rivelata a fine ‘700 dall’influenza dell’illuminismo giuridico nel Granducato di Toscana o dalla flotta britannica in appoggio ai Borbone di Napoli.
L’Unità d’Italia non ha però mutato questa situazione. La stessa unificazione nazionale è stata condotta, infatti, in nome d’interessi parziali e con resistenze interne piuttosto significative. Al particolarismo tutto italiano dei Savoia, intenzionati più ad espandere i propri domini che non a realizzare una vera integrazione nazionale, si sovrappongono gli interessi dei vari partiti stranieri, corrispondenti non più ad entità politiche, quanto a tendenze ideologiche: l’ultramontanismo “spagnolo” della Roma papale e della Vienna imperiale, il radicalismo democratico “francese” di Garibaldi e Mazzini, il liberalismo “inglese” di Napoleone III e Cavour.
Questo particolarismo e queste ristrettezze di vedute, sono restate una costante della politica estera dell’Italia unita e sovrana. Ancora, nella Prima Guerra Mondiale, emerge con chiarezza la differenza tra gli obiettivi di egemonia globale perseguiti da nazioni socialistiche come l’Inghilterra e la Germania prussiana, e invece gli interessi assai più limitati dell’Italia, frutto di uno spirito anarchico, concernenti sostanzialmente l’annessione di territori irredenti confinanti (Trento e Trieste, oppure Nizza e Savoia). Esattamente lo stesso vale per la Seconda: da una parte, il Lebensraum, dall’altra il «pugno di morti» per sedersi «al tavolo delle trattative».
L’Italia fascista
Tornando ora al giudizio espresso da Spengler, occorre vedere come egli vede invece l’Italia fascista, a sé contemporanea. A questo fine, dobbiamo rileggere un’altra importante opera del filosofo tedesco: “Anni della decisione” (5), e fare innanzitutto alcune precisazioni. Secondo Spengler, nell’epoca di Zivilisation in cui ormai ci troviamo, i partiti politici, rappresentanza ideologica e sociale d’interessi economici, tipica dell’epoca di transizione tra Kultur e Zivilisation, sono destinati ad essere superati e sostituiti da nuove figure di potere cesaristiche in lotta tra di loro per il potere su interi Stati. Il cesarismo riconduce così la politica a dominare l’economia, così come avvenuto già per l’Impero romano al termine della classicità.
Il fascismo italiano è però considerato da Spengler un fenomeno spurio, ancora legato a quest’epoca di transizione, lontano da quello che è il vero cesarismo: «Come nell’età dei Gracchi, anche nel fascismo si afferma il fenomeno dei due fronti – la sinistra della massa inorganica di città, e la destra della Nazione articolata in nessi organici, dai ceti rurali sino ai ceti dirigenti della società –, ma questa situazione risulta dominata dall’energia napoleonica di un individuo. Il contrasto non è né può essere risolto […]. Anche il fascismo rappresenta un momento di transizione. Si è sviluppato dalla massa di città come partito di massa, con chiassosa agitazione e discorsi di massa […]. E fino a quando nutre ambizioni di riconoscimenti “sociali”, e afferma di esistere per volontà del “lavoratore”, facendo proseliti in piazza e rendendosi “popolare”, una dittatura rimane una forma intermedia e provvisoria. Il Cesarismo dell’avvenire combatte solo per la potenza, per un Reich e contro qualsiasi genere del partito.» (6).
Inoltre, aggiunge (in nota) che «in un Paese meridionale, caratterizzato da un tipo di vita semitropicale e da una “razza” conforme – nonché da una industria debole, quindi da un proletariato non sviluppato –, il contrasto risulta privo di quell’asprezza che lo distingue invece nei Paesi settentrionali.» Vale a dire che la soluzione temporanea di questo contrasto tramite il fascismo è stata possibile per via delle circostanze culturali e sociali dell’Italia, e, in generale, (potremmo aggiungere) degli altri Paesi dell’Europa orientale e meridionale dove regimi parafascisti, o comunque autoritari, si sono affermati.
Oltre all’implicita polemica contro il nazionalsocialismo appena salito al potere, in questo passo si rivela una presa di posizione di Spengler, nei confronti del fascismo, decisamente reazionaria (al punto da accusare poco più avanti il fascismo di avere «la tendenza a rispettare poco la proprietà altrui»). Tuttavia, egli coglie subito, nel regime fascista, il contrasto tra frange di sinistra intellettuali, popolari e movimentistiche – che avversa – e frange di destra monarchiche, militari, clericali e borghesi, che esploderà nei momenti di crisi, come appunto hanno mostrato gli eventi del 25 luglio 1943, nonché la lunga storia del neofascismo dal 1945 ad oggi. Di fatto, il fascismo non ha saputo risolvere questo contrasto rilevato dal filosofo tedesco.
Viceversa, il punto di forza del fascismo italiano, ovvero quello che anticipa già il futuro, è la figura del suo capo. Contrariamente al disprezzo riservato ad Adolf Hitler e ai suoi seguaci, Spengler nutrì sempre una forte ammirazione per Benito Mussolini, tra l’altro ricambiata dall’interesse con cui il capo di governo fascista seguì e fece diffondere le proprie opere, contro il parere contrario di ampia parte del mondo intellettuale italiano, in primis Croce, al punto da fargli affermare che «Non si può pretendere che l’Italia di Farinacci possa apprezzare la cultura di Spengler» (7). Altrettanto lusinghiero è il giudizio del filosofo tedesco, che considera il Duce una figura cesaristica, al pari di Lenin e di Cecil Rhodes, dotata di un carattere prettamente italiano, ma al tempo stesso più affine al “partito” prussiano che a quello “inglese”:
«L’elemento che anticipa il futuro non è la realtà effettuale del fascismo in quanto partito, ma unicamente la figura del suo autore. Mussolini non è un leader di partito – anche se è stato leader di lavoratori –, ma il signore del proprio Paese […]. Mussolini è prima di tutto uno statista: freddo, scettico, realistico, diplomatico. In realtà, egli governa da solo. Vede tutto – la capacità più rara in un dominatore assoluto […]. Mussolini è uomo di carattere autoritario, come i condottieri del Rinascimento: in sé ha la scaltrezza meridionale della sua razza,  e perciò sa combinare nel modo più adeguato il teatro delle sue azioni  con il carattere dell’Italia – la patria dell’Opera – senza che ciò determini in lui da cui nemmeno Napoleone fu esente del tutto,  e che per esempio mandò in rovina Rienzi. Mussolini aveva ragione di richiamarsi al modello prussiano: egli è più vicino a Federico il Grande, e perfino al padre di questi, che non Napoleone, per tacere di esempi minori.» (8).
Ora, questo giudizio parrebbe ingeneroso nei confronti del fascismo italiano, la cui importanza e incisività egli riduce alla sola figura di Mussolini, tuttavia anche qui l’occhio di Spengler si rivela acuto. Non si può negare, infatti, che il fascismo abbia avuto un ruolo politico in Italia, soprattutto grazie al suo Duce, il quale si era imposto come figura carismatica sia nei confronti del suo partito, temperandone i contrasti, sia nei confronti della popolazione italiana, suscitandone gli entusiasmi. Anche presso altri osservatori esteri, poi, da Hitler a Churchill, è stato Mussolini a riscuotere la maggioranza dell’interesse e della stima nutrita verso il regime fascista. Infine, ancora oggi, tra la maggior parte dei nostalgici del fascismo, non sono tanto i programmi ideologici e politici, quanto la figura del Duce, elevata a livelli semi-mitici, a destare la maggior ammirazione. Basta pensare al gran numero di “pellegrini” che si reca tuttora a Predappio, caso del tutto unico tra i politici italiani contemporanei, oppure ai tanti italiani, non fascisti, pronti a sostenere che l’unico errore di Mussolini sia stata l’alleanza con Hitler e la guerra.
Si può quindi concordare in questo senso col giudizio spengleriano, vale a dire che il carattere “socialistico” del fascismo italiano – ovvero il suo costituire un partito “prussiano”, di contro al partito “inglese” degli ambienti antifascisti o della corte sabauda – sia stato tuttavia superficiale, e non sia riuscito a penetrare effettivamente la popolazione italiana, né in quelle che Spengler definisce “masse”, né in quelli che designa come “ceti organici”. Il consenso al regime, per quanto coinvolgente la stragrande maggioranza della popolazione, si è rivelato perciò meramente condizionale a uno stato di benessere ed efficienza, ma difficilmente sentito nell’intimo dagli italiani, come poi è stato mostrato dalla sua repentina caduta.
L’Italia contemporanea
La storia recente del nostro Paese, dalla caduta del fascismo ad oggi, parrebbe confermare ancora di più il giudizio di Spengler sull’istinto anarchico del popolo italiano, esemplificato dal celebre motto popolare “O Franza o Spagna, purché se magna”. A livello politico, il predominio di vari partiti, ciascuno espressione di precisi interessi e clientele, riflette chiaramente il particolarismo e l’egoismo degli italiani. Inoltre, terminata con Mussolini ogni tendenza “prussiana”, è rimasto padrone del campo, al di là della tendenza di fondo anarchica italiana, il partito “inglese”. Possiamo quindi sostenere che, in questa fase proto-cesaristica, ancora scossa dagli scontri tra fazioni e partiti politici, dell’Occidente, la storia italiana possa essere letta – stando alle chiavi di lettura spengleriane – come lo scontro tra queste due tendenze: la prima autoctona, anarchica e particolaristica (“italiana”), la seconda internazionale, socialistica e liberale (“inglese”), ma entrambe, a mio parere, negative.
La prima tendenza si è espressa non solo nel clientelismo democristiano e poi craxiano, con un gattopardesco conservatorismo in politica interna unito ad un minimo d’autonomia (ma forse sarebbe meglio dire: egoismo) in politica estera, ma anche nel populismo e nel sindacalismo della sinistra comunista e socialista, asserragliati in difesa di uno Stato sociale, spesso degenerato in assistenzialismo o parassitismo. Riemerge nei cortei della scuola e negli scioperi di categoria, tanto quanto nel localismo di sindaci e imprenditori leghisti; nelle proteste ecologiste delle comunità locali contro le “Grandi Opere”, così come nei favoritismi al proprio collegio elettorale da parte di deputati neoeletti o nell’evasione fiscale e nell’assistenzialismo alle imprese. In tutti questi casi, si palesa un’attenzione radicalmente volta al proprio interesse personale, e ai propri privilegi o comodità, prima ancora che al bene o all’interesse comune.
Dall’altra parte, la seconda tendenza si è espressa nell’ideologia liberalsocialista dell’azionismo, molto più influente a livello culturale che non a livello immediatamente politico, ma anche nel marxismo del PCI, specie a partire da Berlinguer – si ricordi che per Spengler, il marxismo altro non è che «il capitalismo della classe operaia» (9). È sempre questa tendenza che si manifesta in quei progetti politici e ideologici ad ampio respiro che guardano verso l’estero: l’europeismo, dal Manifesto di Ventotene fino all’imposizione parlamentare dei Trattati di Maastricht e Lisbona; il sovietismo di Togliatti e Longo e il maoismo dei giovani contestatori; fino all’atlantismo delle destre, divenuto patrimonio dopo il 1991 delle stesse sinistre. È sempre il partito “inglese”, infine, che è alla base degli sciagurati interventi militari in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, sulla base dell’ideologia universalista e liberale dei diritti umani.
In questi anni più recenti, risulta evidente come l'istinto anarchico italiano abbia trovato felicemente espressione nel nuovo pseudo-cesarismo berlusconiano. Silvio Berlusconi, a compenso della propria grave inferiorità politica e umana rispetto a Mussolini, può contare però su un istinto politico, del tutto in linea con il particolarismo italiano. Milioni d'italiani, di fatto, farebbero anch'essi le leggi ad personam e i festini privati. Questo spiega perché, nonostante la propria mediocrità individuale e una forte campagna mediatica nei suoi confronti da parte del mondo intellettuale e culturale, per tacere degli attacchi giudiziari, Berlusconi abbia goduto in questo ventennio di un consenso sconosciuto ai suoi colleghi e avversari politici.
D'altra parte, i suoi avversari, nella parabola PCI-PDS-DS-PD, agli occhi di Spengler, rappresentano indubbiamente l'istinto politico inglese, sia dal punto di vista ideologico, avendo fuso post-comunismo e liberalismo, sia dal punto di vista geopolitico, data la loro saldatura con le oligarchie finanziarie e politiche euroatlantiche ancora più stretta che non nel centrodestra. Ciò si era già visto, con la fine della Prima Repubblica, quando ai vecchi partiti, auspice un vero e proprio golpe giudiziario eterodiretto, erano subentrati nuovi governi tecnici, che avevano avviato un programma di privatizzazioni e liberalizzazioni, del tutto contrarie agli interessi nazionali. In questo stesso senso, l'attuale governo Monti, ispirato a logiche del tutto tecnocratiche e capitalistiche, realizzante un vero e proprio “socialismo delle banche”, costituisce il culmine del partito “inglese” in Italia.
Come si è visto, le chiavi di lettura e gli strumenti che ci suggerisce il filosofo della storia tedesco ci possono venire utili per capire, anche solo parzialmente, non solo la storia, ma anche l'attualità del nostro Paese. Se sarebbe superficiale prendere per oro colato questo tipo d'analisi, tuttavia non può essere neanche trascurata a cuor leggero, il che conferma ancora una volta la grandezza del pensiero di Spengler, e come rimanga anch'esso del tutto attuale.
NOTE
(1) F. Cardini, Spengler, Profeta del XXI secolo, in “Avvenire”, 1 settembre 2008.
(2) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova 1994, p. 41.
(3) O. Spengler, Albori della storia mondiale, a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova 1996–, 3 voll.
(4) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, op. cit., p. 68.
(5) O. Spengler, Anni della decisione, a cura di C. Sandrelli, trad. di F. Freda, Ar, Padova 1994.
(6) O. Spengler, Anni della decisione, op. cit., p. 158.
(7) Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, introduzione di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1990, p. 594.
(8) O. Spengler, Anni della decisione, op. cit., pp. 159-160.

(9) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, op. cit., p. 93.

mardi, 10 avril 2012

Julius Evola e o Tradicionalismo Russo

Julius Evola

e o Tradicionalismo Russo

 por Aleksandr Dugin

Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/

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1) A Descoberta de Evola na Rússia

Os trabalhos de Julius Evola foram descobertos nos anos 60 pelo grupo de intelectuais esotéricos e anti-comunistas conhecidos como “os dissidentes da direita”. Eles compunham um pequeno círculo de pessoas que conscientemente se negavam a participar da “vida cultural” da URSS e que, ao invés disso, tinham escolhido uma vida subterânea para si. A disparidade entre o cultura Soviética presente e a verdadeira realidade Soviética foi quase que totalmente o motivo que os levou a buscar os princípios fundamentais que poderiam explicar as origens daquela terrível idéia absolutista. Foi pela sua recusa do Comunismo que eles descobriram certos trabalhos de autores anti-modernos e tradicionalistas: acima de tudo, os livros de Rene Guenon e Julius Evola. Duas personalidades centrais animavam este grupo – o filósofo islâmico Geidar Djemal e o poeta não-conformista Eugene Golovine. Graças a eles, esses “dissidents da direita” souberam os nomes e as idéias do dois maiores tradicionalistas do século. Nos anos 70, uma das primeiras traduções de um trabalho de Evola (A Tradição Hermética) apareceu e foi distribuída dentro de um grupo, de acordo com os métodos do Samizdat [1]. No entanto, as traduções originais eram particularmente ruins em qualidade, porque elas foram feitas por amadores incompetentes muito distantes do grupo de verdadeiros intelectuais tradicionalistas.

Em 1981, uma tradução do Heidnische Imperialismus apareceu de maneira similar, como o único livro desse tipo disponível na Livraria Lenin em Moscow. Desta vez, a distribuição pelo Samizdathavia se tornado muito maior e a qualidade da tradução era muito melhor. Pouco a pouco eles distanciaram a verdadeira corrente tradicionalista do anti-comunismo, e a aproximaram do anti-modernismo, extendendo a sua negação da existência Soviética para a rejeição do mundo moderno, de maneira muito próxima à visão tradicionalista integral. Deve notar-se que as idéias tradicionalistas em questão, neste ponto particular, foram completamente removidas dos outros grupos de “dissidentes da direita”, que geralmente eram Cristãos ortodoxos, monarquistas e nacionalistas. Nesta época, Evola era mais popular entre aqueles interessados no espiritualismo em sentido amplo: praticantes de yoga, teosofistas [2], psiquistas [3], e daí em diante.

Durante a Perestroika, todos os tipos de dissidência anti-comunista se manifestaram e dos “dissidentes da direita” vieram as ideologias políticas e culturais da Direita atual: nacionalistas, nostálgicos, anti-liberais e anti-Ocidentais. Neste contexto e depois do desenvolvimente de idéias estritamente tradicionalistas, como resultado do Glasnost, os nomes de Guenon e Evola foram introduzidos no conjunto cultural russo. Os primeiros trabalhos de Evola apareceram nos anos 90, nas amplamente lidas partes da mídia conhecidamente “patriótica” ou “conservadora” e o assunto do tradicionalismo tornou-se tema de virulentas polêmicas e era um assunto importante para a Direita Russa como um todo. Periódicos como Elementy, Nach Sovremennik, Mily Anguel, Den, etc, começaram a publicar fragmentos dos escritos de Evolas, ou artigos inspirados nele, ou em que seu nome e citações apareciam.Pouco a pouco o campo “conservador” veio a ter uma estrutura ideológica que produziu cisões entre os velhos nostáligcos e monarquistas da Direita e os mais abertos não conformistas e participantes da Direita menos ortodoxa (algumas vezes chamados de “novye pravye”, em russo, pode-se estar inclinado a fazer um paralelo com a “nouvelle droite”, mas foi um fenômeno bem diferente como um todo em relação com a ND européia). Pode-se categorizar este segundo grupo de patriotas como sendo parte da “Terceira Via” ou “Nacional-Revolucionários” e por aí em diante. O ponto de separação se dá exatamente sobre a aceitação ou rejeição da idéias de Evola, ou talvez mais apropriadamente, da idéias de Evola que não poderiam ser consideradas naturalmente “conservadoras” ou “reacionárias”, como a idéia de “Revolução Conservadora” e de “Revolta Contra o Mundo Moderno”.

Recentemente, o primeiro livro “Heidnische Imperialismus” teve 50.000 cópias publicadas. Até mesmo um programa de televisão voltado a Evola foi feito por uma canal popular. Então, pode-se ver que a descoberta de Evola pela Rússia foi feita em uma escala bastante ampla. Ele, que uma vez constitui o núcleo intelectual hiper-marginal da Rússia, antes da Perestroika, se tornou agora um fenômeno político e ideológico considerável. Mas é bem claro que Evola escreveu seus livros e formulou suas idéias num contexto temporal, cultural, histórico e étnico bem diferente. Isso, então, torna-se um problema: quais partes da filosofia de Evola são relevantes para a Rússia moderna e quais partes precisam ser trabalhadas, melhoradas ou mesmo rejeitadas, nessas circunstâncias? Esta pergunta necessita de uma rápida análise comparando e contrastando o tradicionalismo sagrado de Evola e o fenômeno político estritamente russo.


2) Contra o Ocidente Moderno

Desde o começo, se torna óbvio que a rejeição do mundo mercenário profano moderno, manifestado na Civilização Ocidental durante os últimos séculos, é comum tanto para Evola quanto para a totalidade da tradição intelectual da Eslavofilia Russa. Autores russos como Homyakov, Kirievsky, Aksakov, Leontiev e Danilevsky (entre os filósofos), assim como Dostoevsky, Gogol e Merejkovsky (entre os romancistas), criticaram o mundo Ocidental quase na mesma linguagem em que o fez Evola. Pode-se observar que todos eles possuiam o mesmo ódio pelo governo dos mafiosos, ou seja, o sistema democrático moderno, e que eles consideravam este sistema como degradação espiritual e profanação total. Similarmente, pode-se observar o mesmo diagnóstico para essas doenças do mundo moderno - a Franco-Maçonaria Profana, o judaismo depravado, o avanço da plebe, a deificação da “razão” – em Evola e na cultura “conservadora” russa. Obviamente, a tendência reacionária aqui é comum a ambos, então a crítica de Evola do Ocidente está totalmente de acordo com, e é aceitável para a linha de pensamentos do conservadorismo russo.

Mais freqüentemente do que não [freqüentemente], pode-se ver que as críticas de Evola estão mais proximamente relacionadas com a mentalidade russa do que com uma mais amplamente européia – o mesmo tipo de generalização, a invocação freqüente de objetivos mitológicos e místicos, a noção distinta de que o mundo espiritual interno é organicamente separado das realidades imediatas modernas da perversão e do desvio. Em geral, a tradição conservadora russa de hodiernamente explicar eventos históricos num sentido mitológico, é de alguma forma, obrigatória. O apelo ao sobrenatural/irracional, aqui, está em perfeita congruência com o pensamento russo, que faz da explicação racional a exceção, e não a regra.

Pode-se notar a influência que os conservadores russos exeerceram em Evola: nos seus trabalhos ele freqüentemente cita Dostoevsky, Merejkovsky (quem ele conhecia pessoalmente) e muitos outros autores russos. Na outra mão, as frequëntes referências que ele faz à Malynsky e Leon de Poncins carregam parcialmente a tradição contra-revolucionária tão típica do Ser europeu. Pode-se citar também as referências que ele faz a Serge Nilus, o compilador do famoso “Protocolos dos Sábios de Sião”, que Evola reeditou na Itália.

Ao mesmo tempo, fica claro que Evola conhecia relativamente pouco sobre os meios conservadores russos, e, de fato, ele nem mesmo estava particularmente interessado neles, devido à sua idiossincrasia anti-cristã. A respeito da tradição Ortodoxa ele fez apenas alguns insignificantes comentários. Mesmo assim, a semelhança entre a sua posição sobre a crise do mundo moderno e o anti-modernismo do autores russos é dada, amplamente, pela comunidade de reações orgânicas – Grandes Homens e “indivíduos”, no caso de Evola e heróis, no caso dos russos. Mas graças à espontaneidade das convergências anti-modernas, a gravidade dos desacordos de Evola, se tornam muito mais interessantes e muito mais críticos.

Em qualquer nível, as interpretações de Evola se encaixam perfeitamente no quadro de ideologia moderna da “novye pravye”, [isso ocorre] tão amplamente, que ela [novye pravye] agrega mais à sua visão da degradação da modernidade, aplicando, algumas vezes, as suas idéias [de Evola] mais globalmente, mais radicalmente e mais profundamente. Deste modo, as teorias de Evola são muito bem aceitas na Rússia moderna, onde o anti-Ocidentalismo é um fator político-ideológico extremamente potente. 

3) Roma e a Terceira Roma

Um aspecto particular do pensamento de Evola é sentido pelos russos como de uma extrema e iminente importância: sua exaltação do Ideal Imperial. Roma representa o ponto principal da visão-de-mundo de Evola. Este poder sagrado vivente, que se manifestou por todo o Império era, para Evola, a própria essência da herança do Ocidente tradicional. Para Evola, as ruínas do Palácio de Nero e dos prédios romanos eram como um testamento direto de uma santidade orgânica e física, da qual a integridade e continuaidade fora aniquilada pelo “castelo” kafkiano [4] do Vaticano Católico Guelfo.

A sua linha de pensamento Guibelina era clara: Imperium contra a Igreja, Roma contra o vaticano, a sacralidade iminente e orgânica contra as abstrações sentimentais e devocionais da fé, implicitamente dualista e Farisaica[5].

Mas uma linha de pensamento similar, aparentemente, é naturalmente sentida pelos russos, de quem o destino histórico sempre esteve profundamente ligado ao [Ideal] do Imperium. Esta noção estava dogmaticamente enraizada na concepção Ortodoxa da filosofia staret[6] – “Moscow: A Terceira Roma” – Deve-se tomar nota que a “Primeira Roma” nesta interpretação cíclica Ortodoxa não era a Roma Cristã, mas a Roma Imperial, porque a “Segunda Roma” (ou “a Nova Roma”) era Constantinopla, a capital do Império Cristão. Então a mesma idéia de “Roma” mantida pelos Ortodoxos Russos, corresponde ao entendimento de sacralidade como a importância daquilo que é Sagrado e assim, a necessária e inseparável “sinfonía” entre autoridade espiritual e o reino temporal. Para a ortodoxia tradicional, a separação católica entre o Rei e o Papa é inimaginável e beira a blasfêmia, este conceito é até mesmo chamado de “heresia Latina”.

Mais uma vez, pode-se ver a perfeita convergência entre o dogma de Evola e o pensamento comum da mentalidade conservadora russa. E outra vez mais, a clara exaltação espiritual do Imperium nos livros de Evola, é de inestimável valor para os russos, pois isto é o que eles veem como a sua verdadeira identidade tradicional. O “imperialismo sinfônico”, ou melhor, “Imperialismo Guibelino”.

Existe um outro detalhe importante que merece ser mencionado aqui. É sabido que o “Autor do Terceiro Reich” Artur Müller van den Bruck, foi profundamente influenciado pelos escritos de Fiodor Dostoievsky, para quem o conceito de “Terceira Roma” era vitalmente significativo. Pode-se ver mesma visão escatológica de van den Bruck do “Último Império”, nascido da convergência metafórica entre as idéias dos montanistas paracléticos[7] e as profecias de Joachim de Flora[8].

Van den Bruck, de quem as idéias eram algumas vezes citadas por Evola, adaptou o seu conceito de “Terceira Roma” da tradição Ortodoxa russa, e aplicou na Alemanha, onde ele foi ulteriormente trabalhado espiritual e socialmente pelos Nacional-Socialistas. Um fato interessante é que Erich Müller, o protegé de Nikisch[9], que fora grandemente inspirado por van den Bruck, comentou certa vez que o Primeiro Reich havia sido Católico[10], o Segundo Reich, Protestante[11], o Terceiro Reich deveria ser, exatamente, Ortodoxo!

Mas o próprio Evola participou amplamente nos debates intelectuais dos círculos revoluionários-conservadores alemães (ele era membro do “Herrenklub” de von Gleichen, que era a continuação do “Juniklub” fundado por van den Bruck), onde assuntos similares eram discutidos de uma maneira muito vívida. Agora é fácil ver outra maneira em que a mentalidade conservadora russa está ligada às teorias de Evola. Obviamente, não é possível dizer que as suas idéias, nesses problemas particulares, eram idênticas, mas ao mesmo tempo, existem conexões extraordinárias entre os dois que podem ajudar a explicar a assimilação das idéias de Evola para a mentalidade russa, que possui visões muito menos “extravagantes” do que aquelas pertencentes à Europa Conservadora Tradicional, que é majoritariamente Católica e Nacionalista nos dias de hoje, e raramente Imperialista.

***

[1] Samizdat foi um sistema na antiga URSS em que os livros oficialmente “impermissíveis” circulavam pelo país; estes eram cópias de cópias e não tinham boa qualidade, mas eles tendiam a chegar ao seu objetivo.

[2] Um escola religiosa/filosófica fundada pela ocultista russa Helena Blavatsky.

[3] Um conceito teosófico relacionado à todos os fenômenos mentais; C.G. Jung também o discutiu ocasinalmente.

[4] Para aqueles que não estão familiarizados com o trabalho de Kafka, esta é uma referência para o seu livro chamado “O Castelo”, que é sobre um homem que contrai o que deveria ser uma trabalho relativamente fácil num lugar distante, fazendo o levantamento das terras de um nobre local, mas que não consegue começar ou muito menos completar o seu trabalho, devido à burocracia imposta pelo seu próprio empregador (que ele nunca conhece pessoalmente, apenas por um representante ou representante de um representante) e que se frustra muito pelo fato de que o imenso e opressivo castelo do Conde pode ser visto de qualquer parte da cidade, mas ele não consegue nunca ir até lá para começar a sua tarefa. Obviamente, esta é uma acusação metafórica contra a totalidade do sistema judaico-cristão e como ele se relaciona com uma aparentemente impossível salvação. Da mesma forma, “Guelfo” se refere à uma coalisão alemã/italiana da Idade Média que apoiava a casa real de Guelfo contra a Dinastia Imperial Alemã dos Guibelinos, que era hostil ao Papa e ao Catolicismo.

[5] Referete aos Fariseus, hipocrisia, duplicidade, falsidade, fingimento.

[6] Os starets eram conselheiros espirituais, mas não sacerdotes: Rasputin poderia ser considerado como um.

[7] Os montanistas foram os precursors das seitas pentecostais modernas, i.e., aqueles que acreditam em revelações divinas pessoais e falar em linguas diferentes.

[8] de Flora era o Abade de Corazzo que completou um ensaio bastante presciente sobre a “era da razão”, por volta de 1200, onde ele escreveu “no novo dia, homens não dependerão da fé, porque tudo será fundamentado no conhecimento e na razão.”

[9] Ernst Nikisch, um nacionalista alemão da mesma época.

[10] o Sacro Império Romano-Germânico

[11] a Prússia sob o governo de Frederico, o Grande

vendredi, 23 mars 2012

La svolta di De Ambris per la guerra del 1914 è la chiave per comprendere quella di Mussolini

La svolta di De Ambris per la guerra del 1914 è la chiave per comprendere quella di Mussolini

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Pigra è la storiografia italiana, malata di retorica e paralizzata dal conformismo; pigra e intollerabilmente cortigiana è, da sempre, la cultura italiana, nata all’ombra delle signorie del Rinascimento e che non ha mai smentito, neppure oggi, all’ombra dei poteri forti economici e finanziari, l’antico vizio della piaggeria e della servile adulazione.

 


Si continua a dire ed a ripetere che la svolta di Mussolini, direttore dell’«Avanti!», nell’ottobre del 1914, dal neutralismo all’interventismo, svolta che gli costò la direzione del giornale e l’espulsione dal Partito Socialista Italiano, fu un inqualificabile esempio di opportunismo, di camaleontismo, di doppiogiochismo; che nacque da spregevoli motivazioni di ambizione personale e che venne poi sostenuta, passato egli alla direzione del suo nuovo giornale «Il popolo d’Italia», da inconfessabili finanziamenti da parte di oscure forze interessate a trascinare l’Italia in guerra e di potenze straniere aventi il medesimo obiettivo.

Non solo: si continua a dire ed a ripetere che quella svolta, venendo da un uomo che, ancora nel 1911-12, in occasione della guerra di Libia, si era schierato per il più intransigente militarismo, e che ancora durante la Settimana rossa del 1914, in qualità di consigliere comunale a Milano, si era pronunciato per la rivoluzione e contro lo Stato borghese, era la dimostrazione della sua doppiezza, del suo cinismo, del suo disprezzo assoluto per gli ideali che aveva fino ad allora professato; con essa, finalmente, egli aveva gettato la maschera, mostrando il suo vero volto di traditore, di spergiuro, di aspirante dittatore e nemico del popolo.

Quante falsità, quante sciocchezze, quanta ipocrisia.

Tutte quelle cose sono state dette e ripetute da scrittori, giornalisti, professori e anche dalla maggioranza dei signori storici di professione, non per altra ragione che per un abietto conformismo verso il Pensiero Unico dominante dopo la cosiddetta Liberazione: debitamente progressista, “democratico” e antifascista; un Pensiero Unico che pretende di dividere il Bene e il Male, nella storia, con un taglio netto, ponendo, guarda caso, gli sconfitti della guerra civile del 1943-45 dalla parte del secondo ed i vincitori, guarda caso, dalla parte del primo: questi ultimi tutti onesti, intemerati, idealisti, laddove i loro avversari erano spregevoli mercenari di Hitler, senza dignità, senza onore, senza patria.

La verità è che, nei mesi cruciali fra il luglio del 1914 e il maggio del 1915, Mussolini non fu affatto il solo a compiere quella svolta; la compirono molti, moltissimi altri esponenti della sinistra democratica, molti socialisti, molti sindacalisti rivoluzionari, perfino un certo numero di anarchici; così come l’avevano compiuta, prima di loro - e anche questo viene passato sotto silenzio, o non viene ricordato a sufficienza - la grande maggioranza dei loro “compagni” francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi (ovviamente sui rispettivi fronti contrapposti degli Imperi Centrali e della Triplice Intesa).

Mussolini non fu affatto l’eccezione, la pecora nera, il traditore dell’ultima ora; le sue esitazioni, i suoi dubbi tormentosi, la sua sofferta decisione di abbandonare il neutralismo per l’interventismo furono, invece, il risultato di un percorso che fu condiviso da una schiera di uomini di specchiata fede socialista, o sindacalista-rivoluzionaria, o anarchica; uomini che non amavano la monarchia dei Savoia, che non amavano lo Stato liberale, che non amavano l’esercito, il militarismo, il colonialismo; che erano sempre stati dalla parte degli ultimi, dei contadini, degli operai, dei disoccupati; che si erano battuti da leoni sulle barricate durante gli scioperi e le sommosse, che avevano fatto la galera e il confino, che erano fuggiti all’estero, quando la reazione poliziesca infuriava contro le Camere del lavoro e contro le Leghe operaie; uomini dei quali tutto si può dire o pensare, tranne che fossero dei venduti, degli opportunisti o dei voltagabbana.

L’elenco sarebbe così lungo che potrebbe riempire pagine e pagine; ma chi ha una conoscenza anche superficiale della storia del movimento sindacale italiano, sa bene che le cose stanno così; e dunque gli storici di professione, che lo sanno per forza, allorché si ostinano a presentare il “caso” Mussolini come l’eccezione che conferma la regola (del neutralismo socialista), mentono sapendo di mentite: spudoratamente, senza ombra di vergogna.

Prendiamo il caso dell’esponente forse più famoso e certo, allora, il più popolare, del sindacalismo rivoluzionario - insieme a Filippo Corridoni, come lui divento interventista e andato volontario, fra i primissimi, a morire nelle trincee del Carso -: quello di Alceste De Ambris.

Prestigioso segretario della Camera del lavoro di Savona nel 1903; di quella della Lunigiana nel 1907; espatriato a Lugano nel 1908, dopo che cavalleria e carabinieri ebbero preso d‘assalto la roccaforte “rossa” dell’Oltretorrente parmigiano; poi esule in Brasile per due anni; di nuovo a Lugano, per battersi contro la guerra di Libia, era stato nel 1912 tra i fondatori dell’Unione Sindacale Italiana, nata dalla scissione con la componente socialista riformista; e solo nel 1913 aveva potuto rientrare in Italia, portato in trionfo dai lavoratori di Parma, essendo stato eletto deputato nelle liste del Partito Socialista: questo era l’uomo, limpido e trasparente nella sua fede rivoluzionaria, senza orpelli e senza maschere.

Ebbene, De Ambris fin dall’agosto del 1914 maturò la convinzione che la parola d’ordine dei neutralisti fosse ormai sterile e sorpassata dagli avvenimenti; ben prima di Mussolini, dunque, che attese l’ottobre, ebbe il coraggio di dire a voce alta, in articoli e pubbliche manifestazioni, quel che altri vecchi dirigente socialisti e sindacali sentivano e pensavano, ma non osavano: a costo di rendersi impopolare, a costo di essere accusato di voltafaccia, a costo di attirarsi l’ira e il disprezzo di quei lavoratori che lo avevamo osannato e che di lui si erano sempre fidati, per istinto, sentendolo sinceramente dalla loro parte, con assoluta chiarezza e coerenza.

Il suo ragionamento può apparire lineare o no, può essere condiviso o no, ma non nasceva da alcun torbido e inconfessabile tornaconto privato. Egli partiva dalla pura e semplice constatazione che l’Internazionale aveva clamorosamente fallito: che non solo non aveva saputo impedire la guerra mediante uno sciopero generale, ma che ogni partito socialista aveva sposato in pieno la causa della “guerra patriottica” sostenuta dalle rispettive borghesie nazionali. Inoltre, dopo l’invasione del Belgio e della Francia settentrionale da pare delle armate tedesche, alla metà di agosto del 1914 si andava delineando una rapida e schiacciante vittoria degli Imperi Centrali: non c’era ancora stata la battaglia della Marna e, giudicando la situazione da sinistra, la sconfitta della Triplice Intesa non poteva non apparire come un disastro per la causa della rivoluzione sociale, mentre la sua vittoria sarebbe stata vista come il male minore.

Ora, compiendo un errore di sopravvalutazione del “peso” militare che l’Italia allora possedeva (un errore, peraltro, condiviso dagli Alleati, che corteggiarono fino alla stipulazione del Patto di Londra questo futuro «alleato di prima classe», come lo definì un uomo politico inglese), De Ambris pensava che, intervenendo al fianco dell’Intesa, essa avrebbe potuto spostare i rapporti di forza a favore di quest’ultima e scongiurare, così, la temuta vittoria delle Potenze Centrali.

Questo, come obiettivo immediato di un intervento italiano nella guerra mondiale; come obiettivo a medio termine, invece, egli pensava che tale intervento avrebbe rimesso in movimento le forze sociali antiborghesi e avrebbe preparato il terreno a uno sviluppo della situazione in senso rivoluzionario, secondo la vecchia formula internazionalista di trasformare la guerra imperialista della borghesia in una guerra rivoluzionaria del proletariato per la propria emancipazione.

Il 18 agosto De Ambris avrebbe dovuto parlare ad un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana sul tema del sindacalismo rivoluzionario di fronte alla guerra; pienamente consapevole della gravità di quanto si accingeva a fare, e cioè ad abbattere la formula “sacra” dell’opposizione alla guerra imperialista, dirà poi di aver trascorso una vigilia travagliata, ma di aver sentito il dovere di dire quello che tutti gli altri ormai pensavano, compreso suo fratello Amilcare.

Così, dunque, si espresse Alceste De Ambris nel suo discorso, poi pubblicato in un articolo intitolato «I sindacalisti e la guerra», apparso su «L’Internazionale» del 22 Agosto 1914 (cit. in: Renzo de Felice, «Mussolini il rivoluzionario», Torino, Einaudi, 1965, 1995, pp. 235-36):

«Compagni, io non vi ripeterò… le ragioni di principio che ci rendono irriducibilmente contrari ad ogni guerra fra le nazioni…Ma se possiamo e dobbiamo insistere su questa base essenziale del sindacalismo, non è detto però che si possa e si debba di conseguenza chiudere gli occhi davanti alla realtà, contentandoci di una negazione dogmaticamente assoluta… Io credo del resto che il fatto prodigioso al quale abbiamo la sventura o la sfortuna  di assister avrà tali conseguenze da costringere tutti i partiti e tutte le filosofie ad una revisione, spezzando ogni abitudine mentale  a qualunque principio s’ispiri; come ha fatto - e forse in misura anche più larga - la rivoluzione francese dell’ottantanove… I fatti si sono incaricati di far giustizia di tutte queste illusioni e di tutti questi sofismi. Oggi la guerra è una tremenda realtà. Il pacifismo borghese e l’internazionalismo socialista hanno fatto contemporaneamente bancarotta… È tempo di finirla cl comodo sistema di addossare tutte le responsabilità dei fatti storici ai gruppi dirigenti. Il popolo ha pure la sua parte di responsabilità, almeno fino a che non abbia fatto sentire il suo dissenso in maniera evidente e vigorosa. Anche il tacere - di fronte a certi delitti - significa complicità… La vittoria ella Germania e dell’Austria ci porterebbe forse a ripetere le triste parole di Herzen il quale, dopo le giornate del giugno 1848, affermava che l’Europa occidentale era ormai morta e che per il rinnovamento e la continuazione della storia non restavano più che due  sorgenti: l’America da un lato e la barbarie orientale dall’altra… Se dovessero prevalere il kaiserismo e il pangermanismo degli imperi centrali, non vi sarebbe alcuna forza atta a controbilanciarli… La vittoria antitedesca, al contrario, ci lascia sperare una serie di benefizi di carattere economico, politico e morale che permetterebbero un rigoglioso sviluppo di tutte le forze di progresso dell’umanità…; forse la rivoluzione dei popoli tedeschi liberati… il socialismo sollevato dall’ossessione pan germanica e divenuto veramente internazionale; il sindacalismo autonomista e libertario al posto del centralismo autoritario… Certo, essa non è ancora la NOSTRA rivoluzione; ma è forse necessaria, per liberare il mondo dai detriti ingombranti del sopravvissuto medioevo. Ad ogni modo, poiché non è più nelle nostre forze di evitarla, bisogna prepararci a fare coraggiosamente il nostro dovere in suo confronto… Il fatto che l’Italia… si trova oggi fuori del conflitto, non deve bastare per indurci ad un’indifferenza ignava. Siamo e saremo sempre contro ogni calcolo di egoismo nazionale, dovremo perciò insorgere e negare il nostro sangue per qualsiasi mira di conquista territoriale o di allargamento del prestigio statale, poiché tutto ciò è per lo meno estraneo asl nostro interesse... Ma non è egualmente estraneo al nostro interessere il permettere che trionfi o sia soffocato un principio di libertà necessario alla preparazione del nostro avvenire… Se domani la grande lotta richiedesse il nostro intervento per impedire il trionfo della reazione feudale militarista, pan germanica, potremo noi rifiutarlo? O pure non sentiremo risuonare nei nostri cuori, come furiosi colpi di campane a martello l’epica invocazione lanciata da Blanqui nel 1870, quando i tedeschi valicarono le frontiere di Francia?... Compagni! Io pongo la domanda: Che faremo qualora la civiltà occidentale fosse minacciata d’esser soffocata dall’imperialismo tedesco e solo il nostro intervento potesse salvarla? A voi la risposta!»

Questo discorso ebbe un clamore fortissimo e suscitò un vero e proprio terremoto. Per un momento sembrò che tutti si sarebbero scagliati contro l’oratore; poi, invece, inattesa, ma decisiva, giunse l’approvazione di Filippo Corridoni, che in quel momento si trovava in carcere e che, dal carcere, aveva maturato la stessa evoluzione di pensiero vissuta da De Ambris.

Il tabù era stato infranto, il dado era tratto: il 3 novembre, a Parma, nel cuore del sindacalismo rosso, Alceste De Ambris presentò commosso alla folla un comizio di Cesare Battisti, che perorava, da socialista, la causa della liberazione della sua Trento (e di Trieste) dal dominio austriaco.

Fu un errore, un miraggio, una illusione? Può darsi: ma furono in molti a crederci, in quei giorni, all’estrema sinistra; Mussolini non fu il solo, e le sue ragioni non furono spregevoli, né meschine.


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mardi, 21 février 2012

Et ainsi l’Homme Sauvage entra dans le rituel du Carnaval

Massimo CENTINI:
Et ainsi l’Homme Sauvage entra dans le rituel du Carnaval

Un mythe antique déploie toute sa dimension dans les rites du début du printemps

selbvaggio.jpegLe rapport Homme Sauvage/Carnaval a des racines très anciennes et se pose comme conditio sine qua non de nombreuses manifestations célébrées dans les pays de l’arc alpin à l’occasion des pratiques folkloriques qui précèdent et annoncent le printemps. Disons, pour la clarté de notre exposé, que le modèle typique de l’Homme Sauvage, tel qu’il est décrit par l’iconographie récurrente en ces régions, n’est présent sans altération formelle aucune qu’en de rares occasions. En fait, son modèle typique n’a pas subi de modifications substantielles et s’est incarné en d’autres figures, hybrides celles-là, qui indiquent toutefois sa présence, sans altérer sa signification primitive. On constatera que, dans les carnavals traditionnels, l’Homme Sauvage représente une sorte de synthèse de toutes les autres figures que l’on appelle généralement lors  du Carnaval et que l’on représente alors par le truchement de masques, comme ceux de l’homme-arbre, de l’ours, de l’arlequin, du fou. Parmi toutes ces figures du Carnaval, l’Homme Sauvage exprime quelques particularités, qu’il symbolise par son image et par les aspects culturels qu’il a suscités. Dans la fête du Carnaval, l’Homme Sauvage est surtout présent dans les Alpes orientales, où il apparaît sous le masque de “Salvanèl”, amalgamé, depuis des temps plus récents, à d’autres figures, parmi lesquelles nous pouvons compter, à côté du personnage typique du Sauvage (Selvaggio): Arlequin, la “Capra Barbana” ou encore la “Dame Sauvage”. Preque toujours, nous avons affaire à des masques ombrés et ambigus, comme nous l’apprend dal Taschi, qui a étudié la fête piémontaise de la “Capra, dello stagnino e della barba” (“de la Chèvre, du ferblantier et de la barbe”).

L’Homme Sauvage, que l’on appelle aussi, dans les fêtes du Trentin, “Bilmo” (au féminin “Groastana”), prend toujours un rôle mi-comique mi-dramatique, celui d’une créature crainte mais vaincue, celui d’un être à chasser du noyau de la civilité voire à supprimer. Dans le Val di Fiemme, le Salvanèl finit par être occis après une représentation bien agencée à laquelle participe toute la population. Le rite/spectacle de la battue est calqué sur le modèle du “Meurtre de Carnaval” qui, en pratique, constitue la formule récurrente dans de nombreuses traditions analogues. Le sujet du genre est caractérisé par un déguisement dans lequel on retrouve les éléments symboliques comme les peaux et les feuilles, destinés à mettre en relief les prérogatives du sauvage et son appartenance à la nature.

Les connexions sont extrêmement nombreuses et peuvent s’insérer dans un vaste complexe de traditions qui vont du charivari à la danse de la corne d’Abbats Brohley (dans le Staffordshire), de même qui comprennent les innombrables coutumes relatives à la “Fête des fous”. Dans les vallées tyroliennes, les masques du “Wilder Mann” et, plus rarement, de la “Wilde Frau”, sont englobés dans les traditions carnavalesques. Leur typologie a évolué et, au fil du temps, a fini par acquérir des éléments formels très divers, à mettre en relation avec les autres traditions de la même aire géographique. Nous avons certes les traditions du Carnaval dans le Nord de l’Italie mais nous avons aussi les masques de la Commedia dell’Arte, lesquels, bien qu’autonomes, entretiennent néanmoins un rapport de filiation avec l’Homme Sauvage.

A l’occasion de la fête de Saint Grégoire (le 12 mars), ont lieu à Val Venosta les “Gregorispiele” (les “Jeux de Grégoire”), auxquels participe le “Wilder Mann”, affublé d’une longue barbe hirsute qui accentue son statut de “sauvage”. Il porte un chapeau à larges bords, couvert de mousse, est vêtu d’un large manteau et, dans une main, tient une grosse branche de pin. Il entre en scène accompagné d’un groupe de jeunes filles du lieu: elles sont allées à sa rencontre en lui proposant une dispute oratoire en vers, à laquelle le “Wilder Mann” ne répond que par des rimes fort plates. Après la joute en vers, les femmes cherchent à ligoter le “Sauvage” à l’aide de rubans rouges; dans ce rituel, certains érudits perçoivent l’écho d’un antique rite nordique et médiéval qui évoque la lutte des forces du bien contre celles du mal, notamment la lutte contre le démon Herlekin, démon malin, représenté, au départ, vêtu d’un costume fait de lambeaux de tissu colorés.

A Termeno, le jour du Mardi Gras, la figure masquée locale, l’Egetmann (l’homme de Mai aux allures d’épouvantail, symbolisant l’esprit de la Nature) est accompagné d’un ours, d’un chasseur et du “Wilder Mann”, couvert d’un costume fait de feuilles de lierre; au cours du rituel, une fuite est mise en scène, rapidement arrêtée par le chasseur qui, peu après, tente d’effrayer les spectateurs. Arrivé sur la place principale, le “sauvage” est tué par le chasseur qui, de cette façon, célèbre le rite antique de la fin de la mauvaise saison et du début de la renaissance de la nature, selon le schéma de l’”Eternel Retour”.

Dans les pays de langue et de culture ladines, l’“Om Salvarek” est présent dans de nombreuses traditions liées au rite du Carnaval et est flanqué de la Dame Sauvage et de ses fils. Une variante similaire s’observe dans le Carnaval de Moena dans le Val di Fassa où le personnage central est représenté par le “Manitù” masqué, créé localement dans les années 30, mais dont le modèle correspond au type classique de l’“Om Salvarek”. Sans aucun doute, il s’agit là d’une singulière élaboration moderne, en laquelle le stéréotype le plus archaïque du “Sauvage” s’amalgame à une figure extérieure, enveloppée de sacralité, qui, avec le mythe local, a en commun un lien direct avec le thème du “Seigneur de la Forêt”, figure présente dans de nombreuses cultures qui ont maintenu un lien solide avec la Nature.

Pour revenir à la figure démoniaque récurrente, rappellons encore que, toujours dans le Val di Fassa, le “Salvan” est associé au “Strion” (le “Sorcier”), à la “Stria” (la “Sorcière”) et au “Diaol” (le “Diable”). Les costumes rappellent également la typologie de l’être sylvestre mais avec l’ajout de cornes diaboliques qui ont pour rôle de souligner le lien qu’entretient toujours le “sauvage” avec l’univers infernal. Le cas du Krampus frioulan est lui aussi emblématique. Dans cette tradition, on voit apparaître des masques de “diables” qui, le long de l’itinéraire ludico-transgressif du Carnaval, ont pour rôle de modifier les équilibres, en exploitant leur aspect “démoniaque”, parfaitement adapté pour souligner l’irruption du mal dans l’espace du bien (dans le langage des anthropologues, on parle d’irruption de la nature dans la culture). On peut en dire tout autant quand on évoque le masque du “Malan” dans le Carnaval de Val Gardena, où le modèle typique du “Sauvage” est entièrement amalgamé à celui du diable.

Massimo CENTINI.
(article paru dans “La Padania”, Milan, 22 février 2000; trad. franç.: 2012).

Carnaval de Venise

Carnaval de Venise

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dimanche, 19 février 2012

Massoneria, Paganesimo, Pitagorismo

Massoneria, Paganesimo, Pitagorismo

Roberto Sestito con il suo ‘Figlio del Sole’ sulla scia di Reghini

steno@aryo.it

Roberto Sestito è nato 68 anni fa a Crotone. E’ autore del “Il figlio del Sole. Vita e opere di Arturo Reghini, filosofo e matematico” e della “Storia del Rito Filosofico Italiano e dell’Ordine O. A. e P. di Memphis e Mizraim”. Ha rifondato agli inizi degli anni ’90 la rivista “Ignis” già creata da Arturo Reghini nel 1925 e l’omonima casa editrice. Ha curato per conto della Casa Editrice Ignis l’opera di Arturo Reghini “Dei Numeri Pitagorici – Prologo” e le “Massime di Scienza Iniziatica” di Amedeo Armentano. Agli inizi del 2000, dopo la chiusura della Casa Editrice Ignis, ha dato vita all’Associazione Culturale Ignis (www.associazioneignis.it) , la quale si è occupata della pubblicazione di alcuni testi sulla tradizione italica e pitagorica in Italia. Ha dato vita al giornale pitagorico “Flauto di Pan” presente in rete con un blog.


Vive e lavora all’estero. Ha collaborato con Rinascita.

Pubblichiamo di seguito ampi stralci di un’intervista a Sestito curata da Steno Lamonica.
 
 
Arturo_Reghini.jpgLei è il massimo studioso mondiale del libero muratore Arturo Reghini (photo), Pagano e Pitagorico. Egli dimostrò l’origine italico-pitagorica della massoneria negando che la culla della medesima fosse cristiano-giudaica. Evidenziò anche la decadenza della Massoneria storpiata da innesti inaccettabili. Il Cristianesimo, tramite il peggior volto del Fascismo prostituitosi allo Stato pontificio, e la stessa massoneria hanno, a nostro parere, contrastato l’insigne maestro. Forse aveva ragione il massone Renè Guenon quando affermava che “Non è vero che la Massoneria è nata nel 1717: è morta.”?
 
R. Ho l’onore di aver scritto “Il figlio del Sole” una biografia di Arturo Reghini. Era necessario che la scrivessi, non solo perché un’opera come questa mancava nella bibliografia italiana, ma perché occorreva ristabilire alcune verità storiche e spirituali che erano state ignorate da altri scrittori dell’ area tradizionalista, in parte per la scarsità di documenti, in parte per gravi pregiudizi.
Non v’è alcun dubbio che la decadenza di un’istituzione iniziatica come la massoneria è dovuta in primo luogo alle pesanti infiltrazioni gesuitiche e giudaiche, certamente datate e aventi la finalità di impedire il risorgere in occidente della tradizione italica e pitagorica e con essa della romanità intesa nel senso lato di civiltà pagana e di civiltà italiana.
Se siamo d’accordo sul fatto che la massoneria era già ai tempi di Reghini un’istituzione infiltrata da nemici della via iniziatica e adulterata negli stessi rituali si spiegano gli attacchi di cui fu bersaglio Reghini dentro e fuori l’istituzione massonica.
Chiesa e massoneria hanno sempre agito in parallelo con la tacita intesa di non nuocersi. Quando la massoneria fu messa fuori legge a soffrirne non furono tanto i massoni che furono posti in sonno e si risvegliarono nel 1946, quanto le fratellanze iniziatiche che operavano dentro e fuori la massoneria e i cui capi furono quasi tutti costretti all’esilio o a subire un odioso ostracismo. La persecuzione, ingiustificata, che soffrì una società terapeutica sgradita alla chiesa è un esempio di quanto dico.
I tentativi fatti da Reghini di compiere la “grande opera” di decontaminazione furono quasi tutti sabotati non solo perché si era capito che a Reghini e ai membri della Scuola Italica l’operazione sarebbe stata possibile data la statura morale e spirituale di quegli uomini, ma che se avesse preso forma, i disegni che erano in corso di elaborazione nei sacri palazzi e nei grandi orienti (soprattutto all’estero) in funzione anti-italiana sarebbero andati in fumo.
Gli storici, fatti salvi alcuni rari ed isolati casi, tardano ad ammettere che l’Italia è stata sacrificata sull’altare del clerico-fascismo e che Mussolini in persona si è reso responsabile di questo autentico crimine.
Reghini, e insieme a lui altri personaggi, avendo dimostrato questa verità con prove inconfutabili, fu fortemente combattuto da tutte le parti e da tutte le direzioni e impedito di portare a compimento il lavoro che avrebbe permesso all’Italia e agli italiani di ritrovare l’antica gloria e grandezza.
Per avere una idea corretta di cosa sia la massoneria occorre studiarne i rituali e prendere con le pinze ciò che ne scrivono amici ed avversari in libri e giornali. Si scoprirà che non è stata mai un’associazione monolitica. Nel mondo moderno che soffre di protagonismo e di esibizionismo, il gusto della novità e del “far da se” ha preso un carattere morboso al quale non sfugge nessuno.
Nel consigliare il ritorno alle origini e quindi ai misteri mediterranei Reghini voleva anche dire che attraverso la comparazione tra ciò che era e ciò che è diventato oggi l’esoterismo si può avere un’idea abbastanza precisa della realtà e dello stato di corruzione dell’uomo moderno.
I comportamenti degli affiliati riflettono e nello stesso tempo determinano questa realtà. In poche parole l’essersi allontanati (per non dire di peggio) dalla pratica e dallo spirito “religioso” dei misteri ha portato l’uomo al disordine civile, morale, spirituale, politico, in conclusione all’egoismo e al caos.
 
A nostro parere, il Mondo intero ha subito un infarto con l’avanzare del Cristianesimo. Eppure, nonostante il turpe, scientifico massacro fisico degli ordini pagani, la demolizione dei templi –alcuni trasformati in stalle e case di tolleranza- i ributtanti roghi delle biblioteche, oltraggi e disintegrazione delle statue degli Dei accusati di nascondere, nel proprio interno, satana, la Sapienza Pagana tramite illustri maestri, si è trasmessa fino ai nostri tempi. Vi sono tracce di queste presenze?
 
Una traccia sensibile di queste presenze è riscontrabile in quasi tutti gli scritti di Arturo Reghini. Qualche anno prima che il maestro pitagorico si chiudesse nel suo dignitoso silenzio lasciò più di una traccia evidente del suo grande impegno pagano e pitagorico. Mi riferisco agli scritti sulla “Tradizione Occidentale” apparsi nella rivista UR nel 1928 nei quali un lettore non superficiale è in condizione di trovare perle di vera saggezza ed un sicuro orientamento di scuola.
reghLivre.jpgQuel che è avvenuto alla sapienza pagana negli anni della decadenza dell’impero romano è noto. Molti storici hanno documentato con ricchezza di informazioni gli orrori della religione asiatica. Recentemente è apparso anche un film molto bello su Ipazia che da solo dice molto. E’ inutile però rimpiangere il passato. La nostalgia serve a ben poco. Occorre confrontarsi con la realtà di oggi e definire uno stile di vita e di pensiero che renda possibile una rifioritura dell’albero piantato sulle nostre radici sepolte, un rinascimento vero.
A questo compito si erano votati i nostri maestri e i loro sodalizi. Non è un caso che i primi fuochi di questo secondo rinascimento furono accesi proprio a Firenze. Ma il loro vascello che aveva navigato bene risultando vittorioso negli anni della prima guerra mondiale si incagliò sugli scogli di agguerriti nemici subito dopo. Occorre ripartire e rimettersi in viaggio con nuovi strumenti di navigazione ma avendo sulla plancia la stessa bussola di allora.
 
Molti storici e studiosi tacciono o parlano superficialmente dell’Accademia Romana, splendido tentativo –soffocato coi i soliti metodi evangelici- di riproporre anche politicamente il Paganesimo Ellenico-Romano. Qual’è la Sua opinione? Perché tanto silenzio nelle scuole?...
 
Immagino che Lei si riferisca all’Accademia Romana di Pomponio Leto. “Pomponio Leto – si legge in un documento citato dall’archeologo G.B.De Rossi – era il pontefice massimo della romana accademia, Pantagato ne era il sacerdote; ed ognuno intende, che sotto un siffatto pontefice massimo non si dee pensare a sacerdozio cristiano, ma ad un sacerdozio classico, cioè pagano”.
Pomponio Leto fu accusato di idolatria e di cospirazione contro il prete che a Roma usurpava il sacro nome romano di Pontifex pur sapendo di rappresentare l’apostolo di un giudeo crocifisso.
Non le basta per capire il silenzio nelle scuole della repubblica italiana che espongono nelle aule in forza di legge il simbolo del patibolo asiatico?
 
L’Europa moderna è un arido mercato.. L’ “Imperialismo pagano” cui il maestro Arturo Reghini auspicava per il ritorno alla Romanitas come può essere proposto ad un Europeo imbalsamato nel più tetro aspetto del consumismo? Molti, in Italia, non sanno chi è Dante Alighieri!... Se poi pensiamo all’Europa colonia militare USA-autentico disonore per un popolo- c’è da rabbrividire. Lei cosa propone?
 
Io conosco una sola carta geografica dell’Europa: quella voluta da Cesare e disegnata da Augusto. Aveva per capitale Roma. Nel tempo molte cose sono cambiate. La chiesa ha cercato di sostituirsi all’Impero. La storia ci parla di numerosi imperi che vollero imitare l’impero romano: quello di Bisanzio, l’impero germanico, quello dei francesi, quello degli zar, infine degli Asburgo. Tutti avevano a modello Roma, ma imitavano e in alcuni casi in malo modo l’Impero di Roma.
La realtà ormai supera la più fervida immaginazione. E credo proprio che si sia giunti a un punto di non ritorno.
Se sono riusciti a portare l’Europa all’attuale stato di crisi, vuol dire che le maschere d’Europa non hanno più nulla da temere. L’ondata che avanza sotto la spinta della tecnologia e del denaro è di una tale potenza che travolgerà l’intero continente, da Berlino ad Atene, e spazzerà via quel benessere che gli italiani e gli altri popoli avevano conquistato con il lavoro e con l’ingegno nel secondo dopoguerra.
L’Europa degli europei potrà risorgere? Senza Roma Caput Mundi, senza i miti pagani, senza la romanitas non ci sarà mai una vera unione europea.
Ebbene, facciamo un ulteriore sforzo di fantasia. Immaginiamo l’Italia attraversata da una sorta di epidemia, causata da un unico virus che è sempre lo stesso chiamato di volta in volta con nomi diversi e che ha gli stessi effetti letali: usura, droga, alcool, sesso; colpisce tutti, senza distinzione, grandi, piccoli, intere famiglie. Gli infettati diventano improvvisamente poveri o impazziscono. Quelli che non si impiccano, sopravvivono inebetiti davanti al grande fratello o alle partite di calcio. Non ci sono vaccini. I più fortunati si rifugiano all’estero o si isolano in poche e irraggiungibili fortezze.
L’Europa ha avuto la peste, il colera, la spagnola, le guerre di 30 anni, di 20 anni, ha avuto l’inquisizione, ma alla fine si è liberata di tutti questi flagelli.
Come liberarsi di questo nuovo terribile virus diffuso dalle truppe di occupazione, rimasto in incubazione oltre 40 anni ed improvvisamente esploso sotto la falsa unità di una moneta unica?
Personalmente sono convinto che è una questione di tempo.
Dante non era un visionario. Quando ha parlato del Veltro sapeva quel che diceva. Nel celebre verso dell’Inferno il sommo poeta scrive: “infin che'l veltro verrà, /che la farà morir con doglia./ Questi non ciberà terra né peltro,/ma sapïenza, amore e virtute”. “Quel che verrà” “…è l’uomo divino che, data la costituzione del mondo, deve fatalmente manifestarsi presto o tardi” chiarisce Reghini nel suo scritto sul Veltro.
Nella certezza di questo ritorno si organizzino piccoli gruppi attivi di studio e di lavoro, che pratichino lo stile di vita pitagorico in modo da disintossicarsi del virus che sta uccidendo gli europei, o per chi non è stato infettato, di mantenersi incontaminato, si coordinino tra loro e si componga quella corte che deve servire ad accogliere l’uomo divino che, come i miti ci insegnano, inevitabilmente verrà.
 
C’è il classico assordante silenzio sugli Esoteristi Pagani Italiani in epoca moderna da parte della “cultura” –mi si consentano le virgolette!- attuale. Lei è uno dei pochissimi che ha stracciato questo silenzio, tipico delle “culture” da parrocchia!” Esoterismo uguale Massoneria” è la tesi di “Santa” Madre Chiesa… con gli immancabili “Achtung!” ecclesiastici.
 
L’ accostamento “massoneria=esoterismo” di per se non dice nulla. Prese singolarmente le due parole si prestano a molteplici spiegazioni e interpretazioni. Pronunciate assieme farebbero pensare ad un’istituzione (la massoneria) esoterica. Ebbene: diciamo le cose come stanno, la massoneria non è un’istituzione esoterica e sono per primi i massoni a pensarlo. Se c’è un’istituzione in Italia (e forse nel mondo) che è l’antitesi perfetta di un’organizzazione esoterica è proprio la massoneria. E non dico ciò a causa dei molteplici scandali di cui è stata oggetto la società dei liberi muratori. Senza voler fare paragoni, si potrebbe definire esoterica l’Opus Dei. Le azioni dei massoni sono eloquenti: basti osservare quel che è avvenuto e avviene nel Grande Oriente d’Italia per rendersi conto di non trovarsi in presenza di una società esoterica. Dubito comunque che in occidente esista una qualche società – sottolineo società e non personalità - che possa definirsi tale.
Chiarito ciò, vengo al tema della “cultura”.
Si, ha ragione, le virgolette sono di rigore. Il problema ovviamente non è la Chiesa che ha la sua cultura, la sua dottrina, il problema in Italia è chi avrebbe dovuto creare una “cultura” non dico di opposizione a quella clericale, ma come minimo di “alternativa”. Ma per far questo occorre studiare molto ed avere dei contenuti.
Le faccio un esempio tratto dalla mia esperienza personale. Mi scuso se parlo di me stesso, ma credo che le esperienze mostrino molto di più delle parole.
Quando scrissi i miei libri mi posi il problema della pubblicazione. Mi accorsi subito che avrei incontrato delle difficoltà proponendo testi che parlavano bene di Arturo Reghini e della Scuola Pitagorica.
A destra: Reghini era visto con sospetto perché era stato massone, oltre che pagano, ed era inviso ad Evola e agli evoliani (ovverosia alla maggioranza degli uomini di cultura che si collocano a destra).
A sinistra: peggio che andar di notte! Reghini? L’aristocratico e spiritualista Reghini? Ma scherziamo? Qui di questa gente non ne vogliamo!
La massoneria: non dovrei aver problemi, pensai! Mi diedero tante pacche sulle spalle, ma Atanor, la gloriosa casa editrice fondata proprio da Reghini ignorò i miei manoscritti e altri editori di area massonica fecero orecchie da mercante. Lo stesso gran maestro del GOI che avevo conosciuto da ragazzo quando pubblicava i suoi articoli sui giornali di estrema destra, tanto prodigo nell’elargire soldi a destra e a manca, non ebbe il coraggio di promuovere un’azione culturale basata sul nome e sugli scritti di un grande come Reghini.
Non mi restò che fare da solo, con i miei soldi e all’inizio con l’aiuto di pochissimi amici. Fu così che rifondai prima la Casa Editrice Ignis e successivamente l’Associazione Culturale Ignis.

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La “Schola Italica” di Crotone, presso cui insegnava Pitagora, fu la prima Università del mondo: si insegnavano il Culto degli Dei e l’Aristocrazia. Gloria eterna della Calabria. Pitagora fu assassinato dai Democratici, come Socrate. Un bel biglietto da visita storico per chi assicura che “il solo” sistema politico sia la Dymokrateia. La democrazia coincide con il pagano “Kali Yuga” dell’Hinduismo?
 
Nelle “Massime di Scienza Iniziatica” Amedeo Armentano ha scritto: “La democrazia è una parola che non ha significato reale; è un’idea ironica di governo”. Ed anche: “I governi democratici sono formalmente (come dire?) democratici, ma…sostanzialmente sono potenze anonime…” L’espressione “potenze anonime” non le fa venire in mente quella di “società anonime”? Ebbene, i capi dei governi democratici attuali cosa sono, se non un prodotto di “società anonime”?
Non v’è dubbio che siamo in pieno kaly-yuga. Ma i riscontri non vanno cercati solo nella “democrazia”. Per mezzo di un sistema politico che nega esplicitamente ai migliori e ai sapienti il governo degli stati osserviamo l’affermarsi e il dilagare delle peggiori tendenze umane che in un sistema di buon governo verrebbero tenute sotto controllo e disciplinate. Un tale sporco lavoro di “fine ciclo” sembrerebbe che sia stato affidato a certi paesi (quelli che impazziscono per la democrazia) e a certi popoli (quelli che meditano bibliche vendette) . Una ragione in più per organizzare una difesa intelligente ed essere pronti a qualunque evenienza.
 
Alcuni Filosofi e Letterati sostengono che i Libri Sacri degli Indoeuropei sono i Veda, l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, l’Edda e non il Vangelo e la Bibbia. Lei è della medesima opinione?
 
Immaginiamo di passeggiare in una piccola città all’interno del Lazio, della Toscana o anche della Calabria. Osserviamo attentamente le persone che incontriamo, quelle che sono nate in quel posto e che discendono da persone nate e vissute sempre in quel posto, la loro fisionomia soprattutto, il loro sguardo. Parliamo dello zoccolo duro del nostro popolo. Subito dopo, facciamo un salto al vicino museo etrusco o delle antichità italiche o magnogreche. Non è raro scoprire in quei profili di pietra o in quelle pitture vascolari fisionomie a noi familiari.
Per la stessa ragione credo di poter dire che il libro sacro degli italiani sia l’Eneide, Poema sacro che narra le vicende della nostra gente e non i libri che parlano dei profeti della Palestina, degli ebrei erranti e dei teutonici nella foresta nera. Come testi suppletivi aggiungerei l’Iliade e l’Odissea.
Il resto è letteratura altrui.
 
Lei è autore de “Il Figlio del Sole” ( www.associazioneignis.it ) e della “Dtoria del rito filosofico italiano e dell’ordine orientale antico e primitivo di Memphis e Mizraim”. Le tracce del Pitagorismo e della “Schola Italica” del Paganesimo Italico-Romano in quali Società Iniziatiche mostrano il volto del Maestro di Samo?
 
Nel Rito Filosofico Italiano rifondato da Arturo Reghini ed Amedeo Armentano nel 1912 e nell’Associazione Pitagorica fondata da Arturo Reghini nel 1923.
 
“Il segreto di Cagliostro” è un Suo libro. Quando si sente parlare di Cagliostro, si evoca la Magia. Qualcuno, con il Vangelo in mano, non lo gradisce…
 
Cagliostro è odiato dai cattolici, ma anche tra i massoni non gode di molte amicizie.
Vorrei ricordarlo con una breve citazione tratta dal libro di Arturo Reghini, Cagliostro, pubblicato dalla Ignis.
“Quando un inviato di Dio parla della sua patria, della vita, dell’amore, dello spirito che soffia, non appartiene più a un’epoca, e la sua voce, eco del verbo eterno, può a volte vibrare strane sonorità.
Cagliostro parlava e agiva superiormente, in nome del potere che gli fu dato da Dio – lo diceva lui stesso – e i suoi insegnamenti potevano essere più o meno compresi. Egli non si dirigeva all’immaginazione, ma allo spirito; non era la ragione che ripudiava, ma i ragionatori orgogliosi e ignoranti, le cui orecchie sono sistematicamente chiuse a tutto quel che non hanno mai sentito.
Infatti, soltanto questi ultimi dicevano di non capirlo; gli spiriti più aperti, imparziali, anche se non erano suoi discepoli, apprezzavano il suo sapere e si incantavano di fronte alla sua conversazione.”
Ecco chi era Cagliostro: chi non gradisce, sono affari che non mi riguardano.
 
Amedeo Armentano, Pitagorico e Pagano insigne. E’ semplicemente vergognoso che un musicista, esoterista Uomo di Sapienza di questo livello sia praticamente sconosciuto proprio in Italia. Il “Sodalizio pitagorico” con Arturo Reghini ed Amedeo Armentano, iniziato alla Loggia “Lucifero” del Rito Simbolico Italiano. Una apoteosi dell’Imperialismo Pagano. Può parlarcene?
 
Nel 2008 il Comune di Scalea ha ceduto la sala del Palazzo dei Principi per organizzare una mostra di documenti, lettere, oggetti facenti parte dell’Archivio di Amedeo Armentano curata da mia moglie Emirene Armentano. Un avvenimento importante per conoscere da vicino la figura e la vita di questo grande Maestro. Un’ occasione unica per il mondo della cultura, dell’arte e anche per la massoneria, visto il ruolo speciale avuto dal Maestro Armentano nella storia dell’istituzione fiorentina. Ebbene l’evento è stato totalmente ignorato dai cosiddetti “fratelli” nonostante ne fossero al corrente, sia a livello locale che nazionale.
Come interpretare un simile gesto? Menefreghismo, settarismo, paura, cattiva coscienza, dissoluzione dei più elementari valori di solidarietà?
In quell’occasione fu anche lanciato un appello per una Fondazione a nome del Maestro Armentano da stabilire nella Torre Talao che era stata oltre che la sua residenza personale la sede della Scuola Italica . La Fondazione avrebbe dovuto raccogliere e conservare in quel luogo tutti i documenti, le lettere, gli oggetti testimonianze e ricordi di quella straordinaria pagina storica e promuovere iniziative culturali. Era stata inoltre lanciata l’idea di tenere un concerto sulla Torre con le composizioni del Maestro.
L’appello che era rivolto in primo luogo al Comune di Scalea, attuale proprietario della Torre Talao, fu lasciato cadere nel vuoto.
E’ di questi giorni la notizia che il Comune intende costruire intorno alla Torre un porto turistico. Ecco la ragione per cui il Comune ha negato la concessione alla Fondazione. A muovere il comune è un intento commerciale. A loro non interessa se il porticciolo turistico sconvolgerà il territorio, sollevando l’ira e le proteste degli ambientalisti, a loro interessa solo far soldi, tanti soldi, con gli appalti e col resto, della cultura non gliene importa un accidente!
 
 
Ci parli di un fatto inquietante. Il Duce, quando ancora non si era compromesso con il Vaticano, ricevette da alcuni emissari pagani, un Fascio Littorio, dentro il quale vi era un messaggio. Per lui. Fu visto trasalire e divenne inquieto. Cosa accadde, chi erano questi Personaggi?
 
Mussolini era un uomo politico intelligente, colto, abilissimo negli affari di stato, un vero italiano, ma nel preferire il fascio littorio come simbolo del movimento politico da lui fondato nel 1919 non si rese conto che le forze della sacralità romana con quella scelta si sarebbero inevitabilmente risvegliate e manifestate.
Egli vide esclusivamente i vantaggi politici, ma, ingannato sicuramente dalla sua mentalità positivista che si portava dietro dall’esperienza giovanile marxista non si curò degli obblighi sacerdotali, importantissimi, che l’uso di un simbolo così vetusto avrebbe richiesto. A nulla valsero i moniti che da più parti gli vennero rivolti, di non sottomettere l’autorità spirituale dei fasces (simbolo dell’imperium, uno dei pochi veri simboli della tradizione nostra insieme al pentalfa, ha scritto Reghini) ad altri simboli religiosi, specialmente nemici, estranei, esotici e patibolari come quello della croce.
Gli emissari pagani di cui lei parla e dei quali non è necessario fare i nomi (anche perché chi sa leggere negli scritti del tempo non avrà difficoltà a riconoscerli da solo) mostrarono a Mussolini il futuro cui andava incontro se avesse insistito, come capo di un movimento simbolizzato dai fasci, nella politica compromissoria con gli antichi nemici dell’Italia e della romanità.
Quella politica da lui inaugurata subito dopo la promulgazione delle leggi speciali (c’è chi dice anche prima) e i cui effetti sono visibili soprattutto oggi, ben oltre il fascismo, dopo la catastrofe della guerra e la morte del Duce.
 
 Il Suo prossimo libro?
 
In questo periodo mi dedico solo alla lettura.


09 Febbraio 2012 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=13017

dimanche, 12 février 2012

In the House of Pound - An Interview with Gianluca Iannone

In the House of Pound

An Interview with Gianluca Iannone

 
By Colin Liddell
 
Ex: http://www.alternativeright.com/

iannone_monolayer_web.jpgCasaPound is an Italian political movement that takes its name from the American poet and Fascist sympathizer, Ezra Pound. Although it is inevitably referred to as "extremist," "racist," and "neo-fascist," the movement, which was founded in 2003, is in fact more complex and interesting, especially from an alternative right perspective. It takes a holistic and grass roots approach to politics, focusing on culture, community, and a variety of activities for its members, as much as on traditional street politics. This is an interview I did by email with Gianluca Iannone, the movement's leader, in early 2011 for an article I was writing.

 

CasaPound is still not so well known in the English-speaking countries, even by those active in right wing politics. Could you introduce your movement to our readers and describe it? How big is CasaPound? How many members and how much support do you have?

First of all, linking CasaPound to the right wing is a bit restrictive. CasaPound Italia is a political movement organized as an association for social promotion. It starts from the right and goes through the entire political panorama. Right or left are two old visions of politics, we need to give birth to a new synthesis. CPI has more than 4000 members all over Italy but the supports and sympathy we gain days after days is far larger… Just think that the Blocco Studentesco, our student organization, obtained 11,000 votes in Rome and the Province for the students’ elections.

Please tell us a little about yourself personally and your background.

I was born in August 1973 and started political activism at 14 in the Fronte della Gioventù (Youth Front) in Acca Larenzia, one of Rome's downtown neighborhood. Since then I have never stopped to be part of this world. Journalist since 1999, I worked for TV and radio stations and also wrote for national newspapers on international conflicts, literature, cinema and music.

Why did you become politically active? Was there some event, action, or person that triggered your political activism?

To tell the truth, there is not one thing in particular. I think it was just fate.

What are main policies and objectives of CasaPound, both short-term and long-term?

CPI works on everything that concerns the life of our nation: from sport to solidarity, culture and of course politics. For sports, we have a soccer teams and academy, we do hockey, rugby, skydiving, boxing, Brazilian jiu-jitsu, scuba diving, hiking groups, caving, climbing. For solidarity, we have first aid teams, we do fundraising activities for the Karen people, and we provide help to orphans and single-mums. A phone line called "Dillo to CasaPound" (tell it to CasaPound) is active 24/7 to give free advises on legal and tax issues. On the cultural ground, we host authors and organize book presentations; we have an artist club, a theater school, free guitar, bass guitar and drum lessons, we created an artistic trend called Turbodinamismo, we have a publishing company, dozens of bookshops and websites. Politically we propose various laws like the Mutuo sociale (social mortgage), Tempo di essere Madri (Time to be a mother) or against water privatization and so many more. Speaking about CPI is never easy because all these things are CASAPOUND. All of these represent our challenges and projects for now and the millennium.

Do you have any significant links with groups or parties outside Italy?

No.

The first thing that strikes people in the English-speaking countries is the name of your group, which, of course, refers to the famous American poet Ezra Pound. How important are Pound's ideas to your movement? Why have you chosen to include his name in your movement’s title?

Ezra Pound was a poet, an economist and an artist. Ezra Pound was a revolutionary and a fascist. Ezra Pound had to suffer for his ideas, he was sent to jail for ten years to make him stop speaking. We see in Ezra Pound a free man that paid for his ideas; he is a symbol of the "democratic views" of the winners.

Ezra Pound is also a name routinely associated with Anti-Semitism. Some will automatically see the invocation of his name as a rallying cry for Anti-Semitism. Could you clarify CasaPound's position with regard to the Jews and Israel?

To associate Ezra Pound and anti-Semitism is an absolute twist. It is the same for CasaPound, it has no sense. It is true that we are against Israel politics towards Palestinians, against the bombing of civilians, and the embargo on international help. To say so does not mean to be anti-Semitic, it means analyzing facts.

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You are also known for anti-usury rhetoric. Most sensible people oppose excessive usury, but are you opposed to all usury? If not, where does constructive credit end and destructive usury begin?

Usury is the worst thing. It is the head of the octopus. It is it that initiated the wars that are starting around the Mediterranean Sea, which generates illegal immigration and destruction. It is it which creates unemployment, debts. It is it that threatens the future of our children, which make them weak and ready for the massacre.

My impression of CasaPound is that it is very much a grass roots organization that operates successfully in the "arena of street politics," with marches, parades and events that build identity and community, rather than through conventional elections. In Anglo countries right-wing street politics backfired in the past, allowing the mainstream media to paint very negative images of the National Front in the 1970s and the BNP later. Because of this the BNP now avoids the street as a political arena. Your group's success suggests that the street is a much more acceptable political arena for the right in Italy. Why do you think this is? What are the differences that make this possible?

First of all, England was never a fascist state. This creates a big cultural difference. Also, as I said before CPI works on dozens of projects and with various methods: from conferences to demonstrations, distribution of information, posters. The important thing is to generate counter information and to occupy the territory. It is fundamental to create a web of supporters other than focusing on elections. For election, you are in competition with heavily financed groups and with only one or two persons elected, you can't change anything. Politics for us is a community. It is a challenge, it is an affirmation. For us, politics is to try to be better every day. That is why we say that if we don't see you, it is because you are not there. That is why we are in the streets, on computers, in bookshops, in schools, in universities, in gymnasium, at the top of mountains or in the newsstands. That is why we are in culture, social work and sport. That is a constant work.

Because of the differences between Britain and Italy do you think it is better for the right-wing in the UK to avoid street politics? In this context, what is your view of the English Defence League, a group that obviously sees the street as its arena or forum?

I think that the EDL is going on the ground of the clash of civilization. For me and Casa Pound, this provokes a kind of disgust. If the British right is reduced to this, then let's speak about soccer, it will be better.

mardi, 24 janvier 2012

Le Concordia : naufrage d’une société...

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Le Concordia : naufrage d’une société...

Par Claude Bourrinet

Vox NR cliquez ici

 

On se souvient du naufrage du Joola, au Sénégal, le 26 septembre 2002. Cette catastrophe fit 1953 morts, et, comme d'autres désastres maritimes, notamment en Asie du Sud-Est, fut considéré comme un symbole de la misère et de l'infortune des pays sous développés.

La navigation, le pilotage de bateaux, les hommes d'équipage et la figure du capitaine, furent de tout temps, en Occident, les ingrédients métaphoriques du politique, de l'Etat, du gouvernement des hommes. Dans notre âge des masses et des transports mondialisés, l’image a pris une valeur emblématique encore plus prégnante, débordant le domaine du pouvoir. La tragédie du Titanic, déjà, en 1912, anticipait les propos de Paul Valéry sur la caducité des civilisations. Réputé insubmersible, comme la Belle époque, si confiante dans le progrès scientifique et technique, le paquebot avait sombré rapidement, surprenant un monde si afféré à ses plaisirs. On n’avait pas, non plus, manqué de dénoncer l’inorganisation du sauvetage, l’incompétence de certains officiers, et surtout l’injustice qui prévalut à la sélection des personnes à sauver. La troisième classe, celle des émigrés pauvres qui lorgnaient vers l’utopie américaine, fut sacrifiée au profit des classes supérieures. Bien plus, l’orchestre jouant une dernière valse avant le dénouement fatal symbolisait une Europe brillante qui allait s’abîmer dans la grande tuerie de 14, la fleur au fusil.

Le destin du Concordia, à moitié coulé un vendredi 13, date de la dégradation du triple A de certains pays, au large de l’île de Giglio, en Toscane, n’est pas sans présenter non plus une image de ce qu’est la société contemporaine. Comme pour le Titanic, comme si l’Histoire se mettait à bégayer, l’état d’impréparation, le manque d’organisation, l’incompétence des hommes d’équipage, immigrés sous payés venant des quatre coins du monde, le temps fort long mis pour prendre des décisions, le mensonge qui consistait, comme pour le Titanic, à faire croire à un exercice, étaient des paramètres aggravants. Sans compter la fuite du capitaine, dédaigneux de l’honneur des marins, qui enjoint de couler avec son navire ! La prétention d’une époque qui envoie des hommes dans l’espace et s’attaque à l’infiniment petit empêchait d’imaginer qu’un tel monstre marin pût être si fragile. Bien sûr, le nombre de morts n’égale pas celui du Joola ou du Titanic : le navire a eu la chance de s’échouer à quelques mètres du rivage. Et pour cause ! Car les circonstances mêmes du drame sont emblématiques. Il semblerait que le désir de se plier à une tradition, somme toute récente, celle de la révérence, de l’ « inchino », qui consiste à passer au plus près du village de Grosseto toutes sirènes hurlantes et tout feux allumés, ait été pour beaucoup dans la catastrophe.

Car nous sommes dans un scénario que l’on pourrait appeler postmoderne. L’époque est à l’hyper démocratisation, à l’utopie bas de gamme, au rêve low cost, au paradis de masse. Le monstre peut contenir 5000 passagers, un village important, une petite ville. Comme la prolifération des charters, des parcs d’attraction, des spectacles énormes à Bercy ou ailleurs, il correspond à la demande d’une société où la grosse classe moyenne s’est presque universalisée. On veut du luxe, de l’amusement pour une somme relativement modique. La société du spectacle populaire a colonisé la terre et la mer.

Est-ce un hasard si un naufrage pareil, aussi grotesque (n’étaient les quelques morts) a lieu exactement au moment où le système mondialisé de la consommation de masse s’effondre et annonce la fin d’un univers de pacotille et de fausseté marchande ? Les dieux ne se montrent pas, mais font signe…

vendredi, 20 janvier 2012

LA LEGA NORD RESISTE AL GOLPE DE ESTADO MUNDIALISTA DE MARIO MONTI EN ITALIA

LA LEGA NORD RESISTE AL GOLPE DE ESTADO MUNDIALISTA DE MARIO MONTI EN ITALIA

 

 
Ex: http://enricravello.blogspot.com/

El pasado 13 de noviembre, Italia cambiaba de gobierno. Sin pasar por las urnas y sin someterse a la voluntad popular, Mario Monti sustituía a Silvio Berlusconi al frente del Ejecutivo transalpino, por decisión del presidente de la República, Giorgio Napolitano.  En Italia el presidente de la República es una figura poco más que simbólica, y la decisión de Napolitano no hubiera tenido consecuencias si éste no hubiera actuado como mero instrumento de los que en realidad decidieron tal cambio: los mercados financieros internacionales. La semana pasada la prensa española, en concreto el diario Público, daba detalles concretos de esta operación: Angela Merkel, en nombre del BCE, había presionado a Napolitano para que eliminase a Berlusconi y pusiese en su lugar a alguien dispuesto a aplicar de inmediato las medidas económicas que los mercados consideraban oportunas. 

Este cambio de gobierno, al margen y de espaldas a los cauces propios de una democracia occidental, constituye simplemente un Golpe de Estado de los mercados contra el poder político, dentro de una estrategia de acoso y derribo de los mercados a los países de la Europa mediterránea.

Urgido por los centros financieros internacionales, Mario Monti, ex director de la Comisión Trilateral para Europa, nombra un gobierno de tecnócratas –la mayoría de ellos ni siquiera diputados- y presenta sus primeras medidas económicas, en la línea esperada: complacencia a los mercados, liquidación del estado social, impuestos para las clases medias y trabajadores y privatización de las prestaciones públicas.

El pasado 16 de diciembre el mismo Monti, directivo de los famosos Bildelberg,  presentó su plan de ajuste ante el Parlamento italiano, que fue aprobado con el abierto apoyo de la izquierda, el discreto apoyo de la derecha berslusconiana, y que contó con el absoluto rechazo de los 60 diputados de la identitaria Lega Nord, la única defensora de los intereses de las clases medias y trabajadores del norte de Italia.

El rechazo parlamentario a las medidas de Monti, ex asesor de la banca Goldman Sach, ha sido el punto de arranque de una feroz oposición por parte de la Lega al golpe de estado mundialista de Monti, ex asesor de Coca-Cola, y su camarilla, a la que en el último gran acto celebrado por la Lega la semana pasada, Umberto Bossi se refirió como “banda  de profesores y banqueros que ejercen de ministros improvisados”.

Pero la acción de la Lega es aún más amplia. Al frente de muchos ayuntamientos y con un respaldo electoral en el norte de Italia, la Lega ha presentado recientemente tres proyectos de ley en Lombardía en virtud de los cuales un extranjero tendrá que tener 15 años acreditaros de residencia para obtener becas y disfrutar  de guarderías y prestaciones sanitarias, así como limitar a un máximo del 5% el porcentaje de extranjeros que podrán acceder a viviendas de protección oficial.  Por su parte el alcalde de Bérgamo, de la Lega Nord, ha prohibido la apertura de restaurante de comida no-europea en el centro de esa ciudad lombarda, en la vecina Alzano Lombardo, también con alcalde de la Lega Nord, las ayudas municipales para el alquiler serán sólo para familias italianas., y en Adro los chequés-bebés serán exclusivamente para familias italianas.
 
La Lega Nord, al igual que el resto de formaciones identitarias en diversos países europeos, es el único dique de contención contra el proyecto de ruina y liquidación social que proponen los gobiernos mundialistas, simples maniobras de los depredadores financieros y sus crematísticos intereses. La Lega  es también la resistencia popular y social  contra la mundialista del gobierno de Mario Monti, que  ya ha lanzado una campaña, apoyada por todos los lobbys “anti-racistas” del país, para abolir el derecho de sangre –vigente en Italia gracias al apoyo de la Lega Nord- y sustituir por le derecho de suelo como criterio de obtención de la nacionalidad.  Dicha campaña ha sido contestada por el diputado de la Lega, Roberto Calderoni con palabras contundentes “la Liga está dispuesta a levantar las barricadas en la calle y en el Parlamento”. Para el próximo 22 de enero hay convocada una gran manifestación identitaria contra el gobierno de Monti.

Los bandos están cada vez más claras: de un lado la finanza mundialista y sus coros de la derecha e izquierda “oficial”, de otro la resistencia popular identitaria. La Lega Nord ya ha elegido en qué lado de la trinchera se sitúa; nosotros estamos a su lado
 
Enric Ravello
Secretario Relaciones Nacionales e Internacionales de Plataforma per Catalunya

mercredi, 11 janvier 2012

Julius Evola e la metafisica del sesso. Alcune osservazioni per una lettura attualizzata del pensiero del filosofo romano

Julius Evola e la metafisica del sesso. Alcune osservazioni per una lettura attualizzata del pensiero del filosofo romano

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

La mia intenzione non è quella di scrivere una recensione della Metafisica del Sesso di Julius Evola (peraltro ampiamente commentato e recensito nel susseguirsi delle varie edizioni), quanto piuttosto di mettere a fuoco alcuni aspetti salienti del suo pensiero in tema di sessualità e confrontarli con le esigenze ed i problemi dell’uomo del XXI secolo. Tale approccio si inserisce in un disegno più ampio, volto a confrontare il pensiero evoliano con la contemporaneità, per verificarne l’attualità.

Un primo aspetto da analizzare riguarda quella che il pensatore chiama la “Pandemìa del sesso” nell’epoca moderna. Evola evidenzia come – anche attraverso la pubblicità, l’influenza dei media e della televisione – il sesso sia divenuto una vera manìa, un’ossessione pervasiva, nel mentre se ne è perduto il significato profondo, realizzativo nel senso dell’“uomo integrale” nel quadro di quello che egli chiama il “mondo della Tradizione”. Tale fenomeno può leggersi come una reazione smodata al clima moralistico di estrazione cattolico-borghese, alla sessuofobia tipica di una certa educazione di matrice cattolica ma anche in opposizione al puritanesimo tipico di una certa cultura protestante. Dallo squilibrio di una educazione sessuofoba si passa all’eccesso di una manìa, entrambi i fenomeni avendo però in comune lo smarrimento del senso profondo del sesso e dell’amore, come superamento del senso dell’ego, integrazione delle complementarietà e riaccostamento a quel senso dell’unità primordiale adombrata nel mito dell’androgine riportato da Platone nel Simposio ed ampiamente citato da Evola nella sua opera. Peraltro tale ossessione banalizza il sesso ed attenua l’attrazione, poiché la fisicità femminile ed il nudo femminile divengono qualcosa di così ordinario ed abituale da perdere quella carica sottile di magnetismo, di fascinazione che sono fondamentali nell’attrazione fra i sessi.

Orbene, se confrontiamo questa analisi evoliana con la realtà contemporanea (ricordiamo che Metafisica del Sesso fu pubblicato, per la prima volta, nel 1957), notiamo che il fenomeno dell’ossessione del sesso si sia accentuato, anche per effetto della diffusione della telematica, della estrema libertà di pubblicazione che esiste su Internet e quindi della possibilità agevole per gli utenti di accedervi.

Peraltro si osserva nei rapporti fra i sessi una superficialità diffusa, una incapacità di comunicare su temi di fondo, una banalizzazione dei rapporti che coinvolge lo stesso momento sessuale, visto come una pratica scissa da qualsiasi aspetto profondo, di autentica comunione animica fra i sessi.

In ciò può cogliersi una vera e propria paura di fondo, la paura dell’uomo di entrare in contatto reale con se stesso e con gli altri, di doversi guardare dentro, di doversi magari mettere in discussione. L’uomo contemporaneo – come tendenza prevalente – rifugge dall’autoosservazione ed ha sempre più bisogno di “droghe” in senso lato, di evasioni, dal caos della metropoli a certe forme di musica che abbiano un effetto di stordimento, dal “rito”degli esodi di massa nei periodi di vacanza e nei fine-settimana alla dimensione di massa che hanno anche le villeggiature balneari, in una trasposizione automatica della dimensione della metropoli che risponde ad un bisogno di stordirsi e di perdersi comunque.

L’analisi evoliana, sotto questo aspetto, è pienamente attuale, presentandosi dunque come lungimirante nel momento in cui, oltre 50 anni orsono, veniva elaborata. La crisi dei rapporti fra i sessi e del senso stesso del sesso si inquadra così nel contesto generale della crisi del mondo moderno, del suo essere, rispetto ai significati ed ai valori della Tradizione, un processo involutivo, una vera e propria anomalìa. E qui veniamo ad un ulteriore aspetto fondamentale da considerare.

La metafisica del sesso evoliana può essere adeguatamente compresa solo nel quadro della morfologia delle civiltà e della filosofia complessiva della storia che il pensatore romano elaborò e sistematizzò nella sua opera principale, Rivolta contro il mondo moderno, peraltro preceduta e preparata con vari saggi di morfologia delle civiltà pubblicati, in età giovanile, su varie riviste, come, ad esempio, il famoso saggio Americanismo e bolscevismo, pubblicato sulla rivista Nuova Antologia nel 1929. Senza questo riferimento generale e complessivo, senza questa visione d’insieme, non si comprende il punto di vista evoliano nell’approccio alla tematica della sessualità, approccio lontano sia da impostazioni di tipo moralistico-borghese, sia da forme esasperate di “pandemìa del sesso”.

Centrale è quindi il significato che Evola conferisce a quello che chiama “mondo della Tradizione”, intendendo con questo termine un insieme di civiltà orientate “dall’alto e verso l’alto”, per citare una tipica espressione evoliana; si tratta di tutte quelle civiltà che, pur nella varietà delle loro forme non solo religiose ma soprattutto misteriche (cioé iniziatiche), hanno in comune una orientazione sacrale, nel senso che esse sono ispirate dal sacro e tendono verso il sacro, inteso e vissuto come dimensione trascendente e, al tempo stesso, immanente, ossia una sacralità che entra nella storia e nell’umano, che permea di sé i vari aspetti della vita individuale e sociale di una determinata civiltà. Ogni aspetto della vita, dall’amore al sesso alle arti ed ai mestieri, diviene, in questo particolare “tono” una occasione, una possibilità di aprire la comunicazione con il Divino, quindi una opportunità di elevazione e miglioramento personale.

In questo senso il mondo moderno, come mondo desacralizzato e materialistico, rappresenta un’anomalìa, peraltro denunciata da René Guénon ancor prima di Evola (illuminanti sono, al riguardo, le pagine di apertura del libro Simboli della Scienza Sacra, ripubblicato da Adelphi) , come anche da altri Maestri della Tradizione, come Arturo Reghini in Italia e da Rudolf Steiner nella Mitteleuropa del primo Novecento.

Il concetto di un tipo di società orientata dal terreno e verso il terreno, relegante alla fede privata individuale tutto ciò che possa avere il vago sentore di un anelito spirituale, è qualcosa che appartiene esclusivamente all’epoca moderna più recente, pressappoco da Cartesio in poi e soprattutto dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese in avanti. Fino al Medio Evo l’orientazione sacrale della vita e della società era un dato centrale e normale, mentre ora prevale la secolarizzazione, l’essere immersi in modo esclusivo nel terreno e nella storia.

Sotto questo aspetto il conflitto fra mondo islamico e mondo occidentale, al di là di certe forme esasperate e terroristiche di antagonismo culminate con l’attacco dell’11 settembre 2001– che sono soltanto un aspetto del mondo islamico – è emblematico di un diverso modo di concepire la vita e il mondo e rappresenta la piena conferma del carattere anomalo del mondo moderno laico e secolarizzato.

In questo contesto “tradizionale” si colloca la concezione evoliana del sesso e dell’amore. Centrale è il riferimento al Simposio di Platone, quindi alla visione della polarità fra i sessi – maschile e femminile – come anelito, spesso inconsapevole, alla reintegrazione dell’unità primordiale dell’androgino, poi scissa nella dualità dei sessi. In origine, secondo il mito, esisteva una specie di essere che riassumeva in sé i due sessi, che poi si scinde nelle due sessualità che noi conosciamo come distinte e separate. L’amore e l’incontro sessuale è visto quindi come superamento dei limiti individuali, come completamento e superamento del senso dell’ego, come capacità di dono di sé, di apertura all’altro, di integrazione con l’altro e nell’altro.

Fondamentale è anche il riferimento all’archetipo di Afrodite, vista nei suoi vari aspetti e nei suoi vari gradi; L’Afrodite Celeste e l’Afrodite Pandémia simboleggiano due stati e gradi dell’amore, quello spirituale e quello sensuale, quest’ultimo essendo visto come un primo grado di approssimazione esperienziale all’amore in senso alto, come Amore per il divino, come slancio fervido e raccolto verso la nostra origine spirituale. E’ importante notare come, nella visione evoliana, non vi sia scissione fra i due piani, ma come essi rappresentino, in realtà, due fasi di un unico iter ascensionale, poiché il divino non è un quid lontano dal mondo, ma si manifesta nel mondo, pur non riducendosi ad esso. A tale riguardo, si può ricordare la concezione indiana della Shakti, ossia l’aspetto “potenza” e manifestazione del divino, cioé il suo aspetto femminile, dinamico che, non a caso, è definito nei test tantrici la “splendente veste di potenza del divino” su cui l’orientalista Filippani-Ronconi ha scritto pagine illuminanti nella sua opera Le Vie del Buddhismo. Non è marginale osservare che nello shivaismo del Kashmir, ossia nelle forme del culto di Shiva tipiche di quella regione dell’India nord-occidentale, la considerazione dell’aspetto shaktico del divino si riflette nella valorizzazione sociale della donna concepita come l’incarnazione terrena di quest’aspetto shaktico e, come tale, degna di rispetto e dotata di una sua dignità spirituale secondo le vedute delle scuole shivaite kashmire. Su questo punto si rinvia il lettore alle pagine molto illuminanti di Filippani Ronconi nel suo libro VAK. La parola primordiale dove l’Autore illustra un aspetto poco noto di alcune civiltà tradizionali, che Evola descrive sempre in chiave virile-solare e patriarcale.

Altro mito platonico cui il filosofo romano si richiama è quello di Poros e Penia, che spiega l’amore come perenne insufficienza, come continua privazione. E’ l’amore inteso come “sete inesausta”, come desiderio mai del tutto soddisfatto, come continuo anelito verso un completamento di sé mai del tutto realizzato e quindi fonte di perenne e nuovo desiderio. Qui si può cogliere il nesso fra lo stato esistenziale cui questo mito allude e l’amore sensuale, come tale sempre bramoso e sempre insoddisfatto.

L’insegnamento che la sacerdotessa Diotima (iniziata ai Misteri di Eleusi) tramanda a Socrate nel Simposio, in alcune pagine che sono fra le più belle del testo – l’essere cioé l’amore sensuale solo un primo grado per poi ascendere a forme più alte di amore secondo una scala ascensionale che ha una sua continuità di gradi di perfezionamento – ci offre la cognizione di un mondo che non demonizza il sesso ma lo valorizza nel quadro di una visione ascendente della vita umana in cui la sensualità ha una sua funzione ed un suo valore, perché è il primo momento di accostamento al bello, colto nelle sue manifestazioni fisiche più agevolmente percepibili per poi ascendere, gradualmente, al bello ideale e spirituale, all’idea del bello in sé secondo la filosofia platonica che, in realtà, riprende e sistematizza, sul piano speculativo, più antichi insegnamenti misterici, com’è dimostrato dalla connotazione sacerdotale e misterica di Diotima, non a caso introdotta ai Misteri di Demetra e Persefone-Kore, che sono i misteri della femminilità e della terra, della fecondità fisica e spirituale insieme.

Possono allora comprendersi certe forme cultuali del mondo antico inconcepibili secondo la visuale cristiana, quali, ad esempio, la prostituzione sacra, presente nel culto di Venus Erycina ed in quello di Venere Cupria. La sacerdotessa, quale incarnazione di una potenza sacra, si univa sessualmente con l’uomo devoto a quel culto, perché così il fedele entrava in contatto con la sacralità della dea Venus. L’atto sessuale era quindi un veicolo di comunicazione con il divino, un sentiero di contatto e di unione con la trascendenza. Si comprende allora anche la sacralizzazione del fallo, testimoniato dall’iconografia e dal culto del dio Priapo e dalle processioni in onore di Dioniso (le falloforie), dove si portavano in mostra le rappresentazioni falliche quali epifanie del dio, presenti del resto nella religione egizia, quali ierofanie di Osiride, nel quadro dei Misteri egizi isiaci ed osiridei. Ancora oggi, in Giappone, si celebra annualmente una ricorrenza religiosa in cui le rappresentazioni falliche come oggetti sacri sono portate in processione.

La sessualità era quindi vista come una manifestazione della potenza del divino, una irruzione della trascendenza nell’immanenza della vita terrena, un segno delle possibilità più alte presenti nell’uomo. Non è certo un caso che il neoplatonismo rinascimentale e, in particolare, Marsilio Ficino (nel suo Commento al Simposio di Platone), si sia richiamato a questa visione sacrale dell’amore, sebbene rimarcando un più netto iato fra materia e spirito, per effetto dell’influenza cristiana, ma comunque accogliendo l’idea generale di un accostamento per gradi al Bello, da quello fisico a quello spirituale.

Particolare attenzione è data dal pensatore romano alla sessualità nei Misteri antichi e, in particolare, in quelli di Eleusi, alle forme rituali di ierogamìa, di unione sessuale sacra fra un uomo e una donna nel quadro sacerdotale misterico così come molta attenzione è data alle forme ed alle procedure della magia sesssuale, soprattutto con riferimento alle scuole tantriche induiste e buddhiste, nelle quali la sessualità viene utilizzata, con diversità di metodiche fra una scuola e l’altra, per attivare una superiore integrazione della coscienza e quindi uno stato di illuminazione interiore che si desta nel momento in cui si ha il contatto reale con il Sacro. Evola avverte anche sui pericoli insiti in alcune metodiche tantriche e mette in guardia il lettore da certi atteggiamenti superficiali di imitazione di pratiche che si collocavano in un contesto ambientale e culturale molto diverso, anche sotto il profilo della carica energetica presente in certe confraternite antiche.

Il problema di fondo che si pone è se e come tale visione sacrale del sesso possa essere praticata e realizzata nel quadro del mondo moderno e post-moderno, nell’era della rivoluzione tecnologica, informatica e telematica, in un ambiente desacralizzato e laicizzato. Certe forme cultuali e rituali (ierogamie, procedure tantriche) presupponevano l’esistenza dei Misteri, dei collegi misterici, dei sacerdoti e dei maestri spirituali, che sono del tutto assenti nell’età oscura, nel kali-yuga dei testi indù.

Si ripropone quindi, in tema di sessualità, lo stesso problema che si presenta in linea generale per le possibilità di realizzazione spirituale che sono offerte nel mondo moderno ed in quello contemporaneo (distinguiamo i due termini perché il post-moderno si presenta come un’epoca con caratteri già diversi da quelli della modernità industriale dell’800 e del ’900), alla luce del processo di solidificazione materialistica che si è svolto , con ritmi sempre più accelerati, nell’uomo e nel mondo e di cui Guénon ci ha parlato nella sua opera Il regno della quantità ed i segni dei tempi.

Credo che occorra partire da un dato: venuti meno i supporti rituali e misterici delle civiltà antiche, con l’affermazione del cristianesimo in una chiave di esclusivismo fideistico, e con lo sviluppo scientifico e tecnico che parte da una visione materialistica del mondo, si sono avute tre conseguenze che così possiamo brevemente schematizzare:

  1. l’uomo è rimesso a sé stesso perché non ha più supporti per la sua realizzazione in senso esoterico;
  2. l’uomo percepisce se stesso come coscienza individuale e non più come parte di un tutto. L’uomo di una gens antica, per intenderci, o il giurista del diritto romano ancora in età imperiale, percepiva se stesso come parte integrante di una gens o di una tradizione religiosa e culturale; la sua percezione di sé era allargata ad un insieme sovraindividuale. Oggi prevale invece una autopercezione atomistica dell’uomo;
  3. il “mentale” dell’uomo moderno è molto più forte rispetto a quello dell’uomo delle civiltà tradizionali, in cui prevaleva uno stile di pensiero sintetico-intuitivo che si rifletteva anche nella maggiore concisione linguistica, come è il caso del latino, lingua celebre per la sua efficace capacità di sintesi. Ciò vuol dire che l’uomo tradizionale, col suo “astrale”, cioé col mondo delle emozioni, entrava in contatto col dominio spirituale senza la mediazione del mentale, o almeno tale mediazione era molto più attenuata, essendo la mente una mente immaginativa, cioé sintetico-intutiva.

In questo contesto e con tali condizioni, l’iniziazione, oggi, può essere solo una iniziazione moderna, ossia praticabile in forme adatte alle condizioni dell’epoca.

Una realizzazione spirituale può essere attualmente solo un percorso di consapevolezza, una via dell’anima cosciente, imperniata sulla disciplina e la semplificazione della mente e sull’armonia mente-cuore.

Un approccio di tipo ritualistico non sembra adatto alle condizioni del nostro tempo, o quantomeno quell’approccio può avere un senso solo se preceduto e seguito da un continuum di operatività interiore consapevole, di azione modificatrice su se stessi e in se stessi.

Il campo della sessualità si colloca nel medesimo ordine di idee. Al sesso banalizzato e brutalizzato o alla sessuofobia di certe tendenze religiose va posta come alternativa la sessualità vissuta come consapevolezza del suo senso pieno e profondo, quindi preparata, propiziata e integrata da determinate pratiche meditative di cui ci parla ampiamente l’esoterista Massimo Scaligero nella sua opera Manuale pratico di meditazione e che risentono chiaramente dell’influenza di certe forme meditative indiane e yogiche adattate alla mentalità occidentale, sulla base degli insegnamenti della “scienza dello spirito” tramandata e rielaborata da Rudolf Steiner.

La lezione evoliana apre orizzonti profondi sulla sessualità nel mondo della Tradizione e consente di prendere coscienza delle regressioni e dei limiti che, anche in questo campo, si sono verificati nel mondo moderno. Crediamo, però, che tale lezione vada affiancata e integrata dagli interventi di altri Maestri, per maturare in sé la prospettiva pragmatica e concreta di una via dell’anima cosciente.

* * *

Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal mensile Fenix, n°38, dicembre 2011, pagg. 86-90.


Stefano Arcella

lundi, 09 janvier 2012

When Fascism Was On the Left

When Fascism Was On the Left

by Keith Preston

Ex: http://www.alternativeright.com/

mussolini-bersagliere-2d8e07d.jpgThe conventional left/right model of the political spectrum holds Fascism and Marxism to be polar opposites of one another. Marxism is regarded as an ideology of the extreme Left while Fascism supposedly represents an outlook that is about as far to the Right as one can go. A title recently translated into English by Portugal’s Finis Mundi Press, Eric Norling’s Revolutionary Fascism, does much to call the perception of Fascism, conceived of as it was by Mussolini and his cohorts, as an ideology of the extreme Right into question.

This work was originally published in 2001 and author Norling, a historian and lawyer, is a native Swede who now resides in Spain. Norling observes that throughout the entirety of his early life, from childhood until World War One, Mussolini was every bit as much as man of the Left as contemporaries such as Eugene V. Debs. He was what would later come to be known as a “red diaper baby” (meaning the child of revolutionary socialist parents). As a young man, Mussolini himself was a Marxist, fervently anticlerical, went to Switzerland to evade compulsory military service, and was arrested and imprisoned for inciting militant strikes. Eventually, he became a leader in Italy’s Socialist Party and he was imprisoned once again in 1911 for his antiwar activities related to Italy’s invasion of Libya. Mussolini was so prominent a socialist at this point in his career that he won the praise of Lenin who considered him to be the rightful head of a future Italian socialist state.

When World War One began in 1914, Mussolini initially held to the Italian Socialist Party’s antiwar position, but in the ensuing months switched to a pro-war position which earned him an expulsion from the party. He then enlisted in the Italian army and was wounded in combat. The reasons for Mussolini’s shift to a pro-war position are essential to understanding the true origins and nature of fascism and its place within the context of twentieth century political and intellectual history. Mussolini came to see the war as an anti-imperialist struggle against the Hapsburg dynasty of Austria-Hungary. Further, he regarded the war as an anti-monarchist struggle against conservative forces such as the Hapsburgs, the Ottoman Turks, and the Hohenzollern’s of Germany and attacked these regimes as reactionary enemies who had repressed socialism. Mussolini also prophetically believed that Russia’s participation in the war would weaken that nation to the point where it was susceptible to socialist revolution (which is precisely what happened). In other words, Mussolini regarded the war as an opportunity to advance leftist revolutionary struggles in Italy and elsewhere.

When the Italian Fascist movement was founded in 1919, most of its leaders and theoreticians were, like Mussolini himself, former Marxists and other radical leftists such as proponents of the revolutionary syndicalist doctrines of Georges Sorel. The official programs issued by the Fascists, translations of which are included in Norling’s book, reflected a standard mixture of republican and socialist ideas that would have been common to any European leftist group of the era. If indeed the evidence is overwhelming that Fascism has its roots on the far Left, then from where does Fascism’s reputation as a rightist ideology originate?

The answer appears to be a combination of three primary factors: Marxist propaganda that has regrettably found its way into the mainstream historiography, the revision of leftist revolutionary doctrine itself by Fascist leaders, and the inevitable compromises and accommodations made by Fascism upon the achievement of actual state power. Regarding the first these, David Ramsay Steele described the standard Marxist interpretation of Fascism in an important article on Fascism’s history:

In the 1930s, the perception of "fascism"in the English-speaking world morphed from an exotic, even chic, Italian novelty into an all-purpose symbol of evil. Under the influence of leftist writers, a view of fascism was disseminated which has remained dominant among intellectuals until today. It goes as follows:

Fascism is capitalism with the mask off. It's a tool of Big Business, which rules through democracy until it feels mortally threatened, then unleashes fascism. Mussolini and Hitler were put into power by Big Business, because Big Business was challenged by the revolutionary working class. We naturally have to explain, then, how fascism can be a mass movement, and one that is neither led nor organized by Big Business. The explanation is that Fascism does it by fiendishly clever use of ritual and symbol. Fascism as an intellectual doctrine is empty of serious content, or alternatively, its content is an incoherent hodge-podge. Fascism's appeal is a matter of emotions rather than ideas. It relies on hymn-singing, flag-waving, and other mummery, which are nothing more than irrational devices employed by the Fascist leaders who have been paid by Big Business to manipulate the masses.

This perception continues to be the standard leftist “analysis” of Fascism even in present times, and goes a long way towards explaining why, for instance, American political movements or figures that have absolutely nothing to do with historic Fascism, such as the Tea Party or the neocon mouthpieces of FOX News or “conservative” talk radio, continue to be recipients of the “fascist” label by atavistic liberals and leftists.

The reality of Fascism’s origins was quite different. Its creators were an assortment of leftist intellectuals and political figures whose common reference point was their realization that Marxism was a failed ideology. As Steele observed:

Fascism began as a revision of Marxism by Marxists, a revision which developed in successive stages, so that these Marxists gradually stopped thinking of themselves as Marxists, and eventually stopped thinking of themselves as socialists. They never stopped thinking of themselves as anti-liberal revolutionaries.

The Crisis of Marxism occurred in the 1890s. Marxist intellectuals could claim to speak for mass socialist movements across continental Europe, yet it became clear in those years that Marxism had survived into a world which Marx had believed could not possibly exist. The workers were becoming richer, the working class was fragmented into sections with different interests, technological advance was accelerating rather than meeting a roadblock, the "rate of profit" was not falling, the number of wealthy investors ("magnates of capital") was not falling but increasing, industrial concentration was not increasing, and in all countries the workers were putting their country above their class.

The early Fascists were former Marxists who had come to doubt the revolutionary potential of class struggle, but had simultaneously come to regard revolutionary nationalism as showing considerable promise. As Mussolini remarked in a speech on December 5, 1914:

The nation has not disappeared. We used to believe that the concept was totally without substance. Instead we see the nation arise as a palpitating reality before us!...Class cannot destroy the nation. Class reveals itself as a collection of interests—but the nation is a history of sentiments, traditions, language, culture, and race. Class can become an integral part of the nation, but the one cannot eclipse the other. The class struggle is a vain formula, with effect and consequence wherever one finds a people that has not integrated itself into its proper linguistic and racial confines—where the national problem has not been definitely resolved. In such circumstances the class movement finds itself impaired by an inauspicious historic climate.

Fascism subsequently abandoned class struggle for a revolutionary nationalist outlook that stood for class collaboration under the leadership of a strong state that was capable of unifying the nation and accelerating industrial development. Indeed, Steele made an interesting observation concerning the similarities between Italian and Third World Marxist “national liberation” movements of the second half of the twentieth century:

The logic underlying their shifting position was that there was unfortunately going to be no working-class revolution, either in the advanced countries, or in less developed countries like Italy. Italy was on its own, and Italy's problem was low industrial output. Italy was an exploited proletarian nation, while the richer countries were bloated bourgeois nations. The nation was the myth which could unite the productive classes behind a drive to expand output. These ideas foreshadowed the Third World propaganda of the 1950s and 1960s, in which aspiring elites in economically backward countries represented their own less than scrupulously humane rule as "progressive" because it would accelerate Third World development. From Nkrumah to Castro, Third World dictators would walk in Mussolini's footsteps. Fascism was a full dress rehearsal for post-war Third Worldism.

During its twenty-three years in power, Mussolini’s regime certainly made considerable concessions to traditionally conservative interests such as the monarchy, big business, and the Catholic Church. These pragmatic accommodations borne of political necessity are among the evidences typically offered by leftists as indications of Fascism’s rightist nature. Yet there is abundant evidence that Mussolini essentially remained a socialist throughout the entirety of his political life. By 1935, thirteen years after Mussolini seized power in the March on Rome, seventy-five percent of Italian industry had either been nationalized outright or brought under intensive state control. Indeed, it was towards the end of both his life and the life of his regime that Mussolini’s economic policies were at their most leftist.

After briefly losing power for a couple of months during the summer of 1943, Mussolini returned as Italy’s head of state with German assistance and set up what came to be called the Italian Social Republic. The regime subsequently nationalized all companies employing more than a hundred workers, redistributed housing that was formerly privately owned to its worker occupants, engaged in land redistribution, and witnessed a number of prominent Marxists joining the Mussolini government, including Nicola Bombacci, the founder of the Italian Communist Party and a personal friend of Lenin. These events are described in considerable detail in Norling’s work.

It would appear that the historic bitter rivalry between Marxists and Fascists is less a conflict between the Left and the Right, and more of a conflict between erstwhile siblings on the Left. This should come as no particular surprise given the penchant of radical leftist groupings for sectarian blood feuds. Indeed, it might be plausibly argued that leftist ”anti-fascism” is rooted in jealously of a more successful relative as much as anything else. As Steele noted:

Mussolini believed that Fascism was an international movement. He expected that both decadent bourgeois democracy and dogmatic Marxism-Leninism would everywhere give way to Fascism, that the twentieth century would be a century of Fascism. Like his leftist contemporaries, he underestimated the resilience of both democracy and free-market liberalism. But in substance Mussolini's prediction was fulfilled: most of the world's people in the second half of the twentieth century were ruled by governments which were closer in practice to Fascism than they were either to liberalism or to Marxism-Leninism. The twentieth century was indeed the Fascist century.

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jeudi, 05 janvier 2012

Der sakrale Charakter des Königtums

Der sakrale Charakter des Königtums

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Jede große “traditionelle” Kulturform war durch das Vorhandensein von Wesen charakterisiert, die durch ihre “Göttlichkeit”, d.h. durch eine angeborene oder erworbene Überlegenheit über die menschlichen und natürlichen Bedingungen, fähig erschienen, die lebendige und wirksame Gegenwart des metaphysischen Prinzips im Schoße der zeitlichen Ordnung zu vertreten. Von solcher Art war, dem tieferen Sinn seiner Etymologie und dem ursprünglichen Wert seiner Funktion nach, der Pontifex, der “Brücken-” oder “Wege-Bauer” zwischen dem Natürlichen und dem Übernatürlichen. Weiter identifizierte sich der Pontifex überlieferungsgemäß mit dem Rex, entsprechend dem herrschenden Begriff einer königlichen Göttlichkeit und eines priesterlichen Königtums [Vgl. Servius, Ad Aened., III 268: "Majorum haec consuetudo at rex esset etiam sacerdos et pontifex". Dasselbe läßt sich – wie bekannt – für die urnordischen Stämme sagen.]. Die “göttlichen” Könige verkörperten also im Dauerzustand jenes Leben, welches “jenseits des Lebens” ist. Durch ihr Vorhandensein, vermöge ihrer “pontifikalen” Vermittlung, durch die Kraft der ihrer Macht anvertrauten Riten und der Institutionen, deren Urheber oder Stützen sie waren, strahlten geistige Einflüsse auf die Welt der Menschen aus, die deren Gedanken, Absichten und Handlungen durchdrangen, die einen Schutzwall bildeten gegen die dunklen Kräfte der inferioren Natur; die dem gesamten Leben eine Ordnung gaben, welche es geeignet machte, als fruchtbare Basis für die Verwirklichungen von Höherem zu dienen; die infolgedessen die allgemeinen Voraussetzungen schufen für “Gedeihen”, für “Wohlfahrt”, für “Glück”.

Die Grundlagen der Autorität von Königen und Herrschern, das, wofür sie verehrt, gefürchtet und verherrlicht wurden, war im antiken Weltbild im Wesentlichen diese ihre heilige und übermenschliche Eigenschaft, nicht als leere Redensart verstanden, sondern als Wirklichkeit. Wie man das Unsichtbare als vorausgehendes und höheres Prinzip gegenüber dem Sichtbaren und Zeitlichen empfand, dementsprechend erkannte man solchen Naturen unmittelbar den Vorrang über alle und das natürliche und absolute Herrscherrecht zu. Was allen traditionellen Kulturen fehlt und erst Sache eines darauffolgenden und schon absteigenden Zeitabschnittes wird, ist die laienhafte, weltliche, lediglich politische Idee des Königtums und deshalb auch die eines Vorrangs, der gegründet ist, sei es auf Gewalt und Ehrgeiz, sei es auf natürliche und weltliche Eigenschaften, wie Intelligenz, Stärke, Geschicklichkeit, Mut, Weisheit, Sorge für das materielle Allgemeinwohl und so weiter. Noch fremder ist der Überlieferung die Idee, daß die Macht dem König von denen übertragen werde, die er regiert; daß seine Gesetze und seine Autorität Ausdruck des Volksbewußtseins seien und dessen Billigung unterstellt. An der Wurzel jeder zeitlichen Macht fand sich vielmehr die geistige Autorität eines gleichsam “göttlichen Wesens in Menschengestalt” [Im Mânavadharmçastra (VII, 8) wird der König als "große Gottheit in Menschengestalt" bezeichnet. Der ägyptische König galt als Manifestation von Râ und von Horus. Die Könige von Alba und von Rom personifizierten Jupiter, die urnordischen Odin und Tiuz, die assyrischen Baal, die iranischen den Gott des Lichtes, und so fort. Die Idee einer göttlichen oder himmlischen – wie wir sehen werden, vor allem einer solaren – Abstammung ist allen vormodernen Königstraditionen gemein.]. Bâsileis ieroí: der König – mehr als ein Mensch, ein heiliges kosmisches Wesen – verfügt über die transzendente Kraft, die ihn von jedem Sterblichen distanziert, indem sie ihn befähigt, seinen Untertanen Gaben zu spenden, die außerhalb der menschlichen Reichweite liegen, und ihn imstande setzt, den überlieferungsgemäßen rituellen Handlungen zur Wirksamkeit zu verhelfen, auf die er, wie wir sagten, das Vorrecht besitzt und in denen man die Glieder des wahren “Regierens” und die übernatürlichen Stützen des gesamten traditionsgebundenen Lebens erkannte [Umgekehrt konnte der König in Griechenland und Rom nicht mehr König sein, wenn er sich des Priesteramtes als unwürdig erwies, um dessenwillen er rex sacrorum war. Erster und höchster Vollzieher der Riten für diejenige Wesenheit, deren gleichzeitiger Temporalfall er war.]. Deshalb herrschte das Königtum und wurde für natürlich gehalten. Materielle Macht hatte es nicht nötig. Es zwang sich zuerst und unwiderstehlich durch den Geist auf. “Herrlich ist die Würde eines Gottes auf Erden”, steht in einem arischen Text, “aber für die Unzulänglichen schwer zu erlangen: würdig, König zu sein, ist lediglich der, dessen Sinn sich zu solcher Höhe erhebt”.

In der Überlieferung entsprach der königlichen Göttlichkeit wesentlich das Sonnen-Symbol. Man erkannte dem König denselben “Ruhm” zu, der der Sonne und dem Lichte gehört – Symbolen der höheren Natur –, wenn sie allmorgendlich über die Finsternis triumphieren. “Als König steigt er des Horus (der Sonne) Thron der Lebenden empor, gleich seinem Vater Râ, jeglichen Tag”; “Ich habe bestimmt, daß du dich als König des Südens und des Nordens auf dem Throne des Horus erhebst, gleich der Sonne, ewiglich” – das sind Wendungen, die sich auf das altägyptische Königtum beziehen. Sie stimmen übrigens genau mit den iranischen überein, wo vom König gesagt wird, er sei “vom selben Geschlecht wie die Götter”, er “hat denselben Thron wie Mithra, er steigt mit der Sonne empor”, und wo er particeps siderum genannt wird, “Herr des Friedens, Heil der Menschen, ewiger Mensch, Sieger, der mit der Sonne emporsteigt”.

Dieser solare “Ruhm” oder “Sieg”, der also die Königsnatur und ihr Recht von oben bestimmte, beschränkte sich übrigens nicht auf ein bloßes Symbol, sondern identifizierte sich mit einer realen und schaffenden Kraft, als deren Träger der König als solcher angesehen wurde. Im alten Ägypten wurde der König auch “kämpfender Horus” – hor âhâ – genannt, um diesen Charakter des Siegs oder Ruhms des im König verkörperten solaren Prinzips zu bezeichnen: der König war in Ägypten nicht nur “göttlicher Herkunft”, sondern wurde auch als solcher “eingesetzt” und dann periodisch durch Riten beglaubigt, die eben den Sieg des Sonnengottes Horus über Typhon-Seth, den Dämon des inferioren Bereiches, darstellten. Solchen Riten schrieb man übrigens die Macht zu, eine “Kraft” und ein “Leben” an sich zu ziehen, die auf übernatürlichem Wege die Fähigkeiten des Königs “umschlangen”. Aber das Ideogramm uas, “Kraft”, ist das Zepter, das die Götter und die Könige tragen, ein Ideogramm, das in den älteren Texten für ein anderes Zepter in Zackenform steht, in welchem man den Zickzack des Blitzes erkennt. Die königliche “Kraft” erscheint so als eine Manifestation der himmlischen Blitzeskraft; und die Vereinigung der Zeichen “Leben-Kraft”, ânshûs, bildet ein Wort, das auch die “Flammenmilch” bezeichnet, von der sich die Unsterblichen nähren, seinerseits nicht ohne Beziehung zum uraeus, der göttlichen Flamme, die bald lebenserweckend, bald zerstörerisch wirkt und deren Symbol das Haupt des ägyptischen Königs umgibt. Die verschiedenen Elemente konvergieren also ausschließlich in der Idee einer “nicht irdischen” Macht (oder Fluidums) – sa – , die die sieghafte Sonnenatur des Königs weiht und beglaubigt und die von einem König zum anderen “schnellt” – sotpu – , die ununterbrochene “goldene” Kette des “Königsgeschlechts” bildend, das zum Regieren bestimmt ist [Einer der Namen der ägyptischen Könige ist "Horus aus Gold gemacht", wo das Gold das "solare" Fluidum bezeichnet, aus dem der "unverwesliche Leib" der Unsterblichen entsteht: gleichzusetzen der obengenannten "Flammenmilch" und der "Blitzeskraft", die beide sich ebenfalls an der Sonnenflamme stärken und sich auf den König beziehen. Nicht uninteressant ist der Hinweis, daß der Ruhm in der christlichen Überlieferung als Attribut Gottes figuriert – gloria in excelsis deo – und daß nach der mystischen Theologie in der "Glorie" sich die Vision der "Seligpreisung" erfüllt. Die christliche Ikonographie pflegt sie als Aureole um das Haupt der Heiligen zu breiten, die den Sinn den königlichen ägyptischen uraeus und der Strahlenkrone des iranisch-römischen Königtums wiedergibt.].

Nach der Überlieferung des Fernen Ostens hat der König, der “Sohn des Himmels” – t’ien – tze – , d.h., der nicht nach den Gesetzen der Sterblichen Geborene, den “himmlischen Auftrag” – t’ien – ming – , der gleichfalls die Idee einer übernatürlichen realen Kraft mit einbegreift. Die Art dieser Kraft “vom Himmel” ist nach der Bezeichnung des Lao-tze Tun – ohne – Tun (wei – wu – wei) oder immaterielle Tat durch Gegenwart. Sie ist unsichtbar wie der Wind und hat gleichwohl das Unwiderstehliche einer Naturgewalt: die Kräfte des gewöhnlichen Menschen – sagt Meng-tze – biegen sich darunter wie sich die Halme unter dem Wind biegen [Über die Art der "Tugend", deren Inhaber der König ist, vgl. Dschung-yung, XXXIII, 6, wo es heißt, daß die geheimen Aktionen des "Himmels" den äußersten Grad des Immateriellen erreichen – "sie haben weder Klang noch Geruch", sie sind zart "wie die leichteste Feder". Zum Tun – ohne – Tun vgl. ebd. XXVI, 5 – 6: "Es gleichen sich die im höchsten Grade vollkommenen Menschen durch die Weite und die Tiefe ihrer Tugend der Erde an; durch die Höhe und den Glanz derselben gleichen sie sich dem Himmel an; durch die Ausdehnung und die Dauer gleichen sie sich dem Raum und der Zeit an, die ohne Grenzen sind. Der, welcher in dieser herrlichen Vollkommenheit lebt, er zeigt sich nicht und dennoch offenbart er sich, wie die Erde, durch seine Wohltätigkeit; er bewegt sich nicht und dennoch bewirkt er, wie der Himmel, vielfachen Wandel; er handelt nicht und dennoch bringt er, wie Raum und Zeit, seine Werke zur letzten Vollendung". Weiter unten – XXXI, 1 – wird gesagt, daß nur ein solcher Mensch "würdig ist, die höchste Autorität zu besitzen und den Menschen zu befehlen."]. In dieser Kraft oder “Tugend” verankert, bildete der Herrscher im alten China tatsächlich das Zentrum einer jeden anderen Sache oder Energie. Man war überzeugt, daß von seinem Verhalten insgeheim nicht nur Glanz oder Elend seines Reiches abhing (es ist die “Tugend” – te’ – des Herrschers, weniger sein Beispiel, wodurch das Betragen seines Volkes gut oder böse wird), sondern auch der geregelte und günstige Verlauf der Naturereignisse selbst. Seine Funktion als Mittelpunkt implizierte sein Verharren in jener innerlichen, “sieghaften” Seinsart, von der die Rede war und der hier der Sinn des bekannten Ausdrucks “Unveränderlichkeit in der Mitte” entsprechen mag. Aber wenn dem so ist, kann keine Macht gegen seine “Tugend” aufkommen, um den überlieferungsgemäß geordneten Verlauf der menschlichen und selbst der natürlichen Dinge zu stören. Bei jedem normalen Ereignis mußte also der Herrscher die letzte Ursache und die geheime Verantwortung dafür in sich selbst suchen.

Allgemeiner gesagt, die Idee von heiligen Eingriffen, durch die der Mensch mit seinen verborgenen Kräften die natürliche Ordnung aufrecht erhält und sozusagen das Leben der Natur erneuert, gehört einer frühesten Überlieferung an und interferiert sehr häufig mit der Königsidee selbst. Daß die erste und wesentlichste Funktion des Königs im Vollzug jener rituellen und sakrifikalen Handlungen besteht, die den Schwerpunkt des Lebens in der traditionsgebundenen Welt darstellten, ist jedenfalls eine Idee, die in allen regulären Formen der Überlieferung fortdauert, bis zu den griechischen Städten und bis auf Rom [Aristoteles (Pol. VI, 5, 11; vgl. III, 9) sagt: "Die Könige haben diese ihre Würde dadurch, daß sie Priester eines gemeinschaftlichen Kultes sind." Die wichtigste Handlung, die dem König von Sparta zukam, war die Darbringung von Opfern; und dasselbe ließe sich von den ersten römischen Königen sagen und dann auch von den Herrschern der Kaiserzeit.], indem sie die schon erwähnte Untrennbarkeit der königlichen Würde von den sakrifikalen und pontifikalen erzeugt. Der König, mit nichtirdischen Kräften versehen, ein göttliches Wesen, erschien auf natürlichem Wege als der, welcher unmittelbar fähig ist, die Macht der Riten zur Entfaltung zu bringen und die Wege zur höheren Welt zu erschließen. In jenen Formen der Überlieferung, in denen eine besondere Priesterkaste erscheint, gehört deshalb der König, wenn er seiner ursprünglichen Würde und Funktion entspricht, ihr an, und zwar als ihr Oberhaupt, pontifex maximus. Wenn wir, umgekehrt, bei gewissen Völkern den Brauch vorfinden, beim Eintritt eines Versagens das Oberhaupt abzusetzen oder zu beseitigen – denn dieses Versagen galt ihnen als ein Verfallszeichen der mystischen Kraft des “Glücks”, derentwegen man das Recht hatte, Oberhaupt zu sein – , so haben wir hier den Widerhall von etwas, das, wenn auch in Formen materialistischer Entartung, uns auf dieselbe Ideenfolge zurückführt. Und bei den nordischen Völkern, bis zur Zeit der Goten, wo das Prinzip der königlichen Göttlichkeit zwar unangetastet blieb (der König wurde hier Ases genannt, der Eigenname einer bestimmten skandinavischen Götterkategorie), galt als ein unglückliches Ereignis, wie z.B. eine Hungersnot, eine Seuche oder eine Mißernte, wenn auch nicht gerade als das Fehlen der an den König gebundenen mystischen Macht des “Glücks”, so doch als der Effekt von etwas, das der König begangen haben mußte, und das die objektive Wirksamkeit seiner Macht unterband.

Man verlangte deshalb vom König, daß er die symbolische und solare Eigenschaft des invictussol invictus, élios aníketos – bewahre und damit den Zustand einer unerschütterlichen und übermenschlichen Zentralität aufrecht erhalte, die genau der Idee des Fernen Ostens von der “Unerschütterlichkeit in der Mitte” entspricht. Andernfalls ging die Kraft, und mit ihr die Funktion, auf denjenigen über, der bewies, daß er sie besser an sich zu ziehen verstand. Schon hier kann man auf einen der Fälle hinweisen, in denen die Vorstellung vom “Sieg” zum Knotenpunkt verschiedener Bedeutungen wird. Wer sie richtig versteht, für den ist in dieser Beziehung höchst bedeutungsvoll die Legende vom König der Wälder von Nemi, dessen Würde in einer Zeit des König – und Priestertums auf den überging, dem es gelungen wäre, ihn zu überraschen und zu “töten” – und bekannt ist auch Frazers Versuch, mannigfache Überlieferungen gleichen Typs, die es so ziemlich überall auf der Welt gibt, auf eben diese Legende zurückzuführen. Natürlich ist hier die “Probe” als körperlicher Kampf – sollte er auch in Wirklichkeit nie stattgefunden haben – nur die materialistische Reduktion von etwas, dem eine höhere Bedeutung innewohnt. Um den tieferen Sinn erfassen zu können, der sich in der Legende des Priester-Königs von Nemi verbirgt, muß man sich erinnern, daß nach der Überlieferung den Rex Nemorensis zu stellen nur ein “entflohener Sklave” berechtigt war (d.h. esoterisch verstanden, ein den Fesseln der inferioren Natur entflohenes Wesen), nachdem er zuvor in den Besitz eines Zweiges der heiligen Eiche gelangt ist. Aber die Eiche ist gleichwertig mit dem “Baum der Welt” vieler anderer Überlieferungen und ein ziemlich gebräuchliches Symbol, um die Urkraft des Lebens zu bezeichnen; womit ausgedrückt wird, daß nur ein Wesen, das an dieser Kraft teilhaben will, danach trachten kann, dem Rex Nemorensis die Würde zu entreißen. Was diese Würde anbelangt, ist daran zu erinnern, daß die Eiche und auch das Gehölz, dessen “rex” der Priester – König von Nemi war, in Beziehung zu Diana stand und daß Diana sogar die “Buhlerin” des Königs der Wälder war. Die großen asiatischen Göttinnen der Natur wurden in den alten Überlieferungen des orientalischen Mittelstandes oftmals durch heilige Bäume symbolisiert: worin wir, unter den Symbolen, die Idee von einem Königtum entdecken, das sich herleitet von der Vermählung oder Paarung mit dieser mystischen “Lebens”-Kraft – die auch die der transzendenten Weisheit und der Unsterblichkeit ist – , verkörpert sowohl in der Göttin als auch im Baum. So bekommt die Sage von Nemi die allgemeine Bedeutung, die wir in vielen anderen Mythen und Legenden der Überlieferung finden, nämlich die eines “Siegers” oder “Helden”, der als solcher an Stelle des rex in den Besitz einer Frau oder Göttin gelangt, die in anderen Überlieferungen in der indirekten Bedeutung einer Hüterin von Früchten der Unsterblichkeit auftritt (die Frauengestalten in Beziehung zum symbolischen Baum in den Mythen von Herakles, Jason, Gilgamesch usw.) oder in der direkten Bedeutung einer Personifikation der geheimen Kräfte der Welt und des Lebens oder des übermenschlichen Wissens [Vgl. J. Evola, La tradizione ermetica, Bari 1931, S. 13 – 25. Einige alte Überlieferungen, in Bezug auf einen "weiblichen" Ursprung der Königsmacht, lassen sich zuweilen nach dieser Maßgabe auslegen. Ihre Bedeutung ist dann genau die entgegengesetzte von jener, die der "gynäkokratischen" Anschauung eignet, auf die wir vielleicht bei anderer Gelegenheit zurückkommen werden. – Über den Zusammenhang zwischen göttlichem Weib, Baum und sakralem Königtum vgl. auch die Wendungen im Zohar (III, 50b., III, 51a – auch II, 144b, 145a, mit Bezugnahme auf Moses als Gemahl der "Matrone"), wo es heißt, daß "der Weg, der zum großen Lebensbaum führt, die große Matrone ist" und daß "alle Macht des Königs in der Matrone wohnt", da die "Matrone" die "weibliche" und der Gottheit immanente Form ist; jene, der später bei den Gnostikern, als "heiligem Geist", oftmals wieder ein weibliches Sinnbild entspricht (die Jungfrau Sophia). In der japanischen Überlieferung , die bis heute unverändert fortbesteht, wird der Ursprung der Kaisermacht auf eine Sonnengöttin zurückgeführt – Amaterasu Omikami –, und der Kernpunkt der Zeremonie für den Aufstieg zur Macht – dajo sai – ist durch die Beziehung gegeben, die der König mit ihr durch die "Darreichung der neuen Speise" anknüpft. – Was den "Baum" anbelangt, ist der Hinweis nicht uninteressant, daß er auch in den mittelalterlichen Sagen in Beziehung zur Kaiseridee bleibt: der letzte Kaiser wird vor seinem Tode Zepter, Krone und Schwert am "dürren Baume" aufhängen, der sich gewöhnlich in der symbolischen Region des Presbyters Johannes befindet, genau wie der sterbende Roland sein unzerbrechliches Schwert am "Baume" aufhängt. Weitere Übereinstimmung: Frazer hat auf die Beziehung hingewiesen zwischen dem Zweig, den der entflohene Sklave von der heiligen Eiche der Nemi brechen muß, um mit dem König der Wälder kämpfen zu können, und dem Goldenen Zweig, der Aeneas erlaubt, als Lebender in die Unterwelt hinunterzusteigen, d.h. als Lebender in das Unsichtbare eingeweiht zu werden zu können. Nun wird aber eines der Geschenke, die Kaiser Friedrich II. von dem Presbyter empfängt, gerade ein Ring sein, der "unsichtbar" macht (d.h. in der Unsterblichkeit und ins Unsichtbare versetzt: in den griechischen Überlieferungen ist die Unsterblichkeit des Helden oft ein Synonym für ihren Übergang zum unsterblichen Leben) und der den "Sieg" verschafft: genau wie Siegfried in den Nibelungen durch die symbolische Tugend des Sich-unsichtbar-machens die "göttliche" Brunhild bezwingt und zum königlichen Hochzeitslager führt. ].

Reste von Überlieferungen, in denen die in der archaischen Sage vom König der Wälder enthaltenen Themen wiederkehren, bleiben übrigens bis zum Ende des Mittelalters, wenn nicht noch länger, erhalten und sind stets mit dem antiken Gedanken verknüpft, daß das rechtmäßige Königtum die Neigung hat, auch in spezifischer und konkreter, wir möchten sagen “experimenteller” Weise untrügliche Zeichen seiner übernatürlichen Natur zu bekunden. Ein einziges Beispiel: vor Ausbruch des Dreißigjährigen Krieges verlangte Venedig von Philipp von Valois, daß er sein tatsächliches Recht, die Königskrone zu tragen, durch eines der folgenden Mittel beweise. Das erste, das der Sieg über seinen Widersacher ist, mit dem er auf dem Turnierplatz hätte kämpfen müssen, bringt uns in der Tat auf den Rex Nemorensis und auf die mystische Beglaubigung eines jeden “Sieges” zurück [Bei anderer Gelegenheit werden wir die Auffassung noch besser erhellen, die uns hier – wie, allgemeiner, in der "Waffenprobe" bestimmten mittelalterlichen Rittertums – eigentlich nur in grob materialistischer Form entgegentritt. Der Überlieferung nach war der Sieger nur insofern ein solcher, als sich in ihm eine übermenschliche Energie verkörperte; und eine übermenschliche Energie verkörperte sich in ihm, insofern er Sieger wurde: zwei Momente in einem einzigen Akte, das Zusammentreffen eines "Abstieges" mit einem "Aufstieg".]. Über die beiden anderen Mittel liest man in einem Texte der Zeit: “Wenn Philipp von Valois, wie er behauptet, wahrer König von Frankreich ist, soll er es dadurch zeigen, daß er sich hungrigen Löwen aussetzt, denn die Löwen verwunden nie einen wirklichen König; oder aber er vollbringe das Wunder der Heilung von Kranken, wie es die anderen wahren Könige zu vollbringen pflegen… Im Falle des Mißerfolges würde man ihn seiner Krone als unwürdig erachten.”

Die übernatürliche Macht, die sich im Sieg oder in der thaumaturgischen Tugend offenbart, läßt sich also auch in Zeiten, welche wie die Philipp von Valois schon in die “moderne” Ära fallen, nicht trennen von der Idee, die man traditionsgemäß vom wahren und rechtmäßigen Königtum hatte [Die thaumaturgische Tugend wird von der Überlieferung auch den römischen Kaisern Hadrian und Vespasian bestätigt (Tacitus, Hist., IV, 81; Sueton, Vespas., VII). Bei den Karolingern finden wir Spuren einer Idee, derzufolge sich die soterische Kraft gleichsam materiell bis in die Königsgewänder auswirkt. Angefangen von Robert dem Frommen, über die Könige von Frankreich, und von Eduard dem Bekenner über jene von England, bis zum Zeitalter der Revolutionen, überträgt sich sodann auf dynastischem Wege die thaumaturgische Macht, die sich zunächst auf die Heilung aller Krankheiten erstreckt, sich später auf einige von ihnen beschränkt und sich in tausenden von Fällen erprobt hat, so sehr, daß sie nach einem Wort von Pierre Mathieu "als einziges Wunder von Dauer in der Religion der Christen" erscheint. Zu den geistigen Einflüssen, die sich in den Helden auswirkten, deren Kult man in Griechenland feierte, zählte man außer den prophetischen oft auch die soterische Tugend.]. Und sieht man auch ab von der tatsächlichen Angleichung der einzelnen Personen an sie, so bleibt doch die Idee bestehen, daß “das, was die Könige in solche Verehrung gebracht hat, hauptsächlich die göttlichen Tugenden und Kräfte gewesen sind, die nur in ihnen vorhanden waren und nicht auch in anderen Menschen”. Joseph de Maistre schreibt: “Gott setzt die Könige buchstäblich ein. Er bereitet die Königsgeschlechter vor; er läßt sie in einer Wolke gedeihen, die ihren Ursprung verhüllt. Endlich treten sie hervor, mit Ruhm und Ehre gekrönt; sie setzen sich ein, und das ist das größte Zeichen ihrer Rechtmäßigkeit. Sie steigen von selbst empor, ohne Gewalt von der einen Seite und ohne ausdrückliche Verhandlung von der anderen. Hier herrscht eine gewisse großartige Ruhe, die nicht leicht zu beschreiben ist. Rechtmäßige Usurpation – das schiene mir der treffendste Ausdruck (wäre er nicht zu kühn), um diese Art von Ursprung zu bezeichnen, dem die Zeit dann bald ihre Weihe erteilt.” [Auch in der iranischen Überlieferung herrschte die Ansicht, daß die Natur eines königlichen Wesens sich früher oder später unweigerlich durchsetzen müsse. Der Stelle von De Maistre entnimmt man den Brauch des symbolischen Verhüllens mit einer Wolke, den man traditionsgemäß, in Griechenland vor allem, auf die geraubten und unsterblich gemachten "Helden" anwandte; außerdem wird hier die alte mystische Idee des Sieges ersichtlich, insofern das "Sich-Einsetzen" nach De Maistre das "größte Zeichen für die Rechtmäßigkeit" der Könige ist.]

(Veröffentlichung in: Deutsches Adelsblatt, 04.03.1933)

samedi, 03 décembre 2011

Evola frente al fatalismo

Evola frente al fatalismo

Eduard Alcántara

Ex: http://septentrionis.wordpress.com/

 

INTRODUCCIÓN

Retrato de Julius Evola.jpgUna rígida interpretación de la Doctrina de las 4 Edades podría comportar predeterminismo atentatorio contra el principio Tradicional de la Libertad inalienable del Hombre Reintegrado a su esencia metafísica. Julius Evola mostró esa especial y añadida dosis de ´sensibilidad´ y de poder de interpretación que le posibilitaron el no estancarse en una visión rígida de los diferentes textos Sapienciales y Sagrados del mundo de la Tradición cuando éstos nos hablan de la doctrina de Las Cuatro Edades, pues el proceso de decadencia que ésta nos expone no es irreversible ni está impregnado de un fatalismo contra el que nada pueda oponer el Hombre. El maestro italiano le dio una especial relevancia a la idea de que la involución podía ser frenada e incluso eliminada antes de que aconteciera el final de un ciclo cósmico; esto es, antes del ocaso del kali-yuga. Y sostuvo firme y ocurrentemente esta idea porque creía en la libertad absoluta del Hombre. Porque creía que el Hombre -así en mayúscula-, aparte de tener la clara potestad necesaria para conseguir su total Despertar interior, también tenía en sus manos la posibilidad de devolver a sus escindidas y desacralizadas comunidades los atributos y la esencia que siempre fueron propios del Mundo Tradicional. Porque Evola creía, en definitiva, en el Hombre Superior o Absoluto, Señor de sí mismo. Igualmente creía que la pasividad fatalista del hombre podría prolongar el fin de una etapa. Para los tiempos crepusculares Evola barajaba la posibilidad de acelerar el fin del kali-yuga cabalgando el tigre: acelerando los procesos disolventes que se dan en estos tiempos deletéreos.

DESARROLLO

A la pregunta de ¿qué tipo de hombre es el que puede aspirar a su Reintegración interior y a encauzar a su comunidad por el camino de la Tradición?, se debe responder que no es otro que aquél que es capaz de dominarse a sí mismo, de autogobernarse y (echando mano del taoísmo) de ´ser señor de sí mismo´. Sólo el autarca, del que nos había hablado Evola durante los años ´20 del pasado siglo -durante la que ha sido definida como su etapa filosófica (que ya apuntaba claramente hacia su definitiva etapa Tradicionalista)-, sólo, decíamos, el autarca que no depende del otro, de lo otro, del exterior ni del tú porque no hay circunstancia, ni condicionamiento externo a él, que lo pueda mediatizar y hacer dependiente, sólo él puede, tras haber conseguido gobernarse a sí mismo, ser apto para gobernar a su comunidad. Hablamos, en definitiva, del Iniciado: de aquél que se empezó sometiendo a rigurosos, metódicos y arduos ejercicios/prácticas de autocontrol y descondicionamiento frente a lo exterior (acabamos de hacer alusión a ello) e interno (con respecto a emociones, sentimientos exacerbados, pulsiones e instintos primarios) y que, tras lo cual, ha preparado su alma/mente, en primera instancia, para que sea apta para captar otras realidades (sutiles) que se hallan más allá de las que pueden aprehender los sentidos y para que, más tarde (y tras este último y difícil logro) pueda, asimismo, llegar al Conocimiento de Aquello que se halla más allá, incluso, del mundo sutil y, en definitiva, de cualquier modo de manifestación y que se encuentra, además, en el origen del cosmos. Hablamos, pues, del Conocimiento del Principio Primero o Supremo Eterno, Incondicionado e Indefinible y, hablamos, por otro lado, de la Identificación ontológica del Iniciado con dicho Principio.

El iniciado o (echando mano del léxico budista) Despertado plasmará en sí la Imperturbabilidad del Principio Primero que ha desarrollado en su interior y dicha Imperturbabilidad e Identificación con lo Permanente y Eterno le hará inmune a cualquier tentación hacia lo caduco y superfluo y le hará, por ende, idóneo para dirigir a su comunidad hacia las metas que enfocan hacia lo Alto, Sacro, Estable y Permanente y le alejarán de cualquier veleidad que tienda hacia lo bajo, lo materialista, lo transitorio, lo inestable y lo perecedero.

¿Es posible que se afirme este tipo de Hombre Superior en medio del marasmo vermicular y disoluto por el que discurre el hombre del mundo moderno? ¿Es posible esto en el cenagal de la etapa crepuscular de la Edad oscura –Kali-yuga o Edad de Hierro- por la que atravesamos? El Tradicionalismo, especialmente en boca de Julius Evola, nos responde afirmativamente, aun consciente de lo enormemente complicado que puede resultar. Pero complicado no equivale a imposible. No existe nada imposible para el hombre que se lo proponga. El hombre que opta transitar por las vías de la Tradición no encuentra fatalismos: no encuentra determinismos que no pueda superar.

Para la Tradición el Hombre Absoluto e Integrado no es una quimera, sino, al contrario, una posibilidad que alberga el hombre y que ha pasado de potencia a acto. Si es posible Despertar la semilla de la Eternidad que anida en nuestro fuero es porque la Tradición concibe que somos portadores de ella. Si es posible Espiritualizar nuestra alma, psyché o mens es porque el Espíritu, atman o nous (eso sí, en forma aletargada) también se halla en nosotros gracias a que procedemos, por emanación, del Principio Primero cuya manifestación dio lugar a la formación del cosmos. Somos, pues, portadores de dicho Principio Superior e Imperecedero del que emanamos y tenemos la posibilidad de emprender la tarea heroica de Despertarlo en nuestro interior.

Si el emanacionismo o emanatismo como certidumbre defendida por la Tradición abre las puertas a la consecución del Hombre Reintegrado no ocurre lo mismo con las creencias propias de religiosidades que han de ser enmarcadas en la cuesta abajo propia del mundo moderno. Religiosidades de corte lunar que no conciben el que el hombre comparta esencia ( ni aunque sea en estado quasi larvario que deba ser activada) con el Principio Supremo sino que, por el contrario, afirman que el hombre fue creado (creacionismo) ex nihilo (de la nada) por Dios y que, al no emanar de Él, no comparte nada de Su divinidad. No admiten, por tanto, la Iniciación y la consecuente posibilidad del hombre de transmutarse interiormente (metanoia) y aspirar a Ser Más que hombre: a ser Hombre Trascendente.

Las religiosidades de tipo lunar están por el creacionismo, pues de la misma manera que la luna carece de luz propia y la luminosidad que de ella nos llega no es más que un reflejo de la solar, de la misma manera, decíamos, en este tipo de religiosidad no nos arriba de lo Alto más que un reflejo o aproximación mental que no es otro que el aportado por la única herramienta de encaro del hecho Trascendente que la religiosidad lunar pone al alcance del hombre: la simple fe, la creencia y la devoción. Por lo cual niega la posibilidad de la Gnosis de lo Absoluto y la posibilidad del hombre de llegar a Ser uno con la dicha Trascendencia. Y la niega, repetimos, aduciendo que el hombre no comparte esencia con lo Trascendente y no puede, pues, actualizarlo en sí; aduciéndolo, recuérdese, por sostener que no emana de Él y que en la naturaleza de dicho hombre no se esconde el Espíritu en potencia.

La convicción Tradicional del hombre como portador de Atman o Espíritu hace concebir la esperanza de su Despertar y del heroico cometido de aspirar a culminar la Restauración del Orden Tradicional mediante lo que, etimológicamente, comporta la auténtica Revolución, en el sentido de Re-volvere; esto es, de volver a recuperar la cosmovisión, los principios y los valores que siempre han caracterizado al Mundo Tradicional y que se hallan en las antípodas de la desacralización, del materialismo, del positivismo, del hedonismo, del consumismo y del gregarismo despersonalizado propios de este mundo moderno.

Por el contrario, el hombre concebido por las religiones lunares-creacionistas (aparte de no ser apto para emprender intentos de Restauración de la Tradición) será la antesala de posteriores procesos de decadencia aun mayores, pues al habérsele amputado su dimensión sacro-espiritual se le ha rebajado de nivel ontológico. Ya no podrá entender más sobre lo Trascendente, tal como en la Tradición sí le era posible gracias a lo que él poseía de más que humano; de Sobrehumano, diríamos. Sin Espíritu únicamente le queda el alma, la psyqué o mens para vivir “en orden” con su/s dios/es. Es decir, que ya sólo cuenta con medios meramente humanos para mirar a lo divino y que no son otros que aquéllos que su mente pone a su disposición, a través de la fe y la creencia. Por esto habrá de contentarse con no ser más que un fiel devoto de su/s divinidad/es. E irremediablemente cuando el hombre ha sido obligado a descender a este plano –sin más- humano, cuando la mente ocupa la cúpula en su jerarquía constitutiva, nadie podrá extrañarse que la facultad racional que en ella (en la mente) se halla inmersa se atrofie y pueda dudar de la existencia de cualquier realidad no sensible; como lo es una Realidad Trascendente (más que humana) que no podrá aprehender con sus tan solo humanas herramientas (el método discursivo, el especulativo,…). Nos hallaremos, pues, en los albores del racionalismo, del posterior relativismo para el que no existen Verdades Absolutas y todo plano de la realidad (aun el Superior) puede ser cuestionado y nos hallaremos asimismo, como consecución lógica posterior, en la antesala del agnosticismo y del materialismo.

Las religiosidades de carácter lunar, propias del mundo moderno, fueron segregando un tipo de hombre inclinado, irremisiblemente, a posturas evasionistas con respecto a la posibilidad de búsqueda del Espíritu y con respecto a la posibilidad de actuar sobre el medio circundante con la intención de modificarlo y, más aun, rectificarlo. Frente a ellas se alza un tipo de Espiritualidad Solar y activa (la Tradicional) para la que el fatalismo no existe y para la que el hombre debe trazar su camino (recordando una adecuada imagen aportada por el mismo Evola) tal cual el río circula por el cauce que él mismo ha socavado.

Si el creacionismo excreta un hiato ontológico insalvable entre Creador y criaturas no debe extrañar que de religiones que a esta convicción se adhieren (como las conocidas como religiones del Libro) surgiera un maniqueísmo que dejó, de manera extrema, sin solución de continuidad a Dios y al hombre y que estimó como creaciones del Mal todo el contenido de la manifestación cósmica. Tal aconteció con excrecencias como el catarismo que despreciaban al cuerpo en particular y al mundo físico en general por considerarlos obras del ángel rebelde y caído (Lucifer) y no, como sí consideró siempre la Tradición, como emanaciones del Principio Primero Inmanifestado. El Mundo Tradicional observó y trató siempre al cuerpo humano como el templo del Espíritu, mientras que, p. ej., el judeocristianismo lo contempló como la mazmorra que impedía la liberación del alma (entiéndase, del Espíritu); asimismo la vida terrenal en la que este encarcelamiento tenía lugar la definió como un valle de lágrimas.

Las también conocidas como Religiones del Desierto no conciben la posibilidad del Retorno de la Tradición gracias al accionar del Hombre, pues para ellas el hombre no atesora semilla divina que poder despertar y poderle, así, hacerle apto para revertir los procesos disolventes por los que pueda atravesar el mundo que le circunda, sino que estas Religiones del Desierto provocan una espera pasiva ante el fin de los tiempos, ante la venida de un Salvador o Mesías o ante la Parusía (la vuelta de Cristo) para que la humanidad pueda ser salvada, suba a los cielos, reciba el premio del Paraíso Terrenal (la Tierra Prometida) o para que acontezca la resurrección de la carne.

En la misma línea –y como fiel reflejo de estas Religiones del Libro- el protestantismo representa una vuelta de tuerca más y un intento de corrección de un catolicismo que había adoptado muchas improntas y posturas de espiritualidades precristianas que se situaban muy en la órbita de la Tradición. El protestantismo afirma que es la fe y no las obras las que permiten la Salvación. De este modo cierra las puertas a cualquier aspiración a la Transustanciación de la persona mediante la acción interior (Iniciación), pues accionar no es más que obrar.

El catolicismo o helenocristianismo (opuesto al judeocristianismo) se hallaría en una situación de superioridad frente a otra de las Religiones del Libro como lo es el islamismo, ya que el concepto trinitario defendido por el primero reconoce la posibilidad de divinización del hombre (su palingénesis o segundo nacimiento: a la Realidad del Espíritu) al considerar a la divinidad también en su expresión humana de Hijo. Nada de esto ocurre con (en palabras de Marcos Ghio) el árido monoteísmo semita postulado por un Islam en el que la diferencia de esencia entre Dios (Allah) y el hombre es abisal e insalvable y en la que, por este motivo, a éste se le cierran las puertas de su entronización Espiritual y, en consecuencia, de la posibilidad de ser señor de sí mismo y de trazar su destino y el de sus comunidades.

Quizás, también, no estaría de más realizar algún distingo entre los libros vestotestamentarios y los del Nuevo Testamento, pues hay quien afirma que evangelios como el de San Juan contienen vetas de esoterismo; y no hay que olvidar que este último se afana en la búsqueda y Conocimiento de la Verdad (de la Realidad Suprasensible) y en la consecución de un tipo de Hombre Descondicionado y Diferenciado apto, entre otras cosas, para no dejarse arrastrar por las corrientes disolutorias dominantes en el mundo moderno.

En la misma línea acorde con la Tradición se hallarían todas aquellas manifestaciones que en el entorno de la Cristiandad se reflejaron ya en la Saga Artúrica alrededor de un Ciclo del Grial que se prolongó en el Medievo asociado a órdenes ascético-militares como la de unos templarios que practicaban la Iniciación y cuya veta esotérica también fue consustancial a organizaciones como la de los Fieles de Amor (a la que, p. ej., perteneció un Dante) o la de los Rosacruces. Y en la misma línea Tradicional, dentro también del contexto del mundo cristiano, se hallaría el Sacro Imperio Romano Germánico, cuya cúspide jerárquica, en la figura del Emperador, aunaba las funciones sacra y temporal (política) como es propio de cualquier ordenamiento Tradicional en el que, por este motivo, el gobernante también ejerce de Pontifex o ´hacedor de puentes´ entre lo terrestre y lo celestial; entre sus súbditos y la Trascendencia.

Pero no en esta línea Tradicional se hallaría el misticismo cristiano, pues si la Iniciación prepara al adepto para descondicionarlo mediante prácticas y ejercicios metódicos y convertirlo en Hombre Diferenciado que pueda acceder al Conocimiento de lo Absoluto el misticismo, por contra, no lo prepara para ello sino que se detiene en el cumplimiento de la fe, la devoción y la piedad, siendo por ello que con estos medios mentales (y por ello humanos) no podrá acceder nunca a la Gnosis de lo Superior, sino que, a mucho estirar, se tendrá que conformar con recibir de lo Alto (como si se tratase de una especie de dádiva en agradecimiento por la devoción mostrada) una especie de fogonazo cegador que tan sólo le dará una idea poco aproximativa y muy difusa de lo que se halla más allá de la realidad sensitiva. Esto acontecerá en el mejor de los casos, ya que en muchos de ellos dicho fogonazo no será, en realidad, más que una especie de alucinación provocada en el místico por sus ayunos extremos enajenantes, por la repetición hasta la saciedad -extenuante- de letanías y/o por su actitud mental obsesiva hacia lo divino.

El árido monoteísmo semita al que citábamos más arriba encuentra también fiel reflejo en el judaísmo. Ya hemos hecho alusión párrafos atrás, al mito inmovilizante y fatalista de la resurrección de la carne y del Paraíso Terrenal que sólo acontecerá con la venida del Mesías, pero podríamos reforzar esta ausencia de posibilidad de transustanciación del hombre y de posibilidad de hacer frente a los procesos deletéreos con los que se encuentra, recordando cómo hay muchos judíos ultraortodoxos (como los de la organización Naturei Karta) que consideran al Estado de Israel actual como una impostura que atenta contra sus convicciones religiosas, por cuanto ellos creen que la Tierra Prometida que -más que aproximadamente desde el punto de vista geográfico- se halla en el territorio de dicho Estado sólo les pertenecerá legítimamente tras la venida del Mesías libertador; la cual, obviamente, todavía está por acontecer. No cabe aquí, pues, lucha que llevar a cabo sino la espera pasiva y resignada más absoluta que pueda caber.

Este pasivo dejarse llevar por un movimiento de inercia hacia adelante, esta ausencia de posibilidad de modificar este rumbo no supone más que una especie de caída libre en el vacío que no puede ser cortocircuitada por la acción del hombre y que responde a una cosmovisión de naturaleza lineal, ante la cual se levanta una totalmente disímil que es la propia de la Tradición y que es de orden circular o, como en ocasiones se la ha preferido denominar, de orden esférico.

En su momento hablamos con profundidad de estos dos tipos contrapuestos de manera de concebir la vida y la existencia: la lineal propia del mundo moderno y la circular propia del Tradicional (1). No vamos, pues, a extendernos en este capítulo ya por nosotros trabajado. Tan sólo vamos a apuntar que la cosmovisión lineal no sólo atañe al hecho religioso (de carácter lunar y pasivo) sino también a las excrecencias que ha originado su secularización. Así pues el liberalismo apunta a un camino marcado por una suerte de fatalismo, irremisible como tal y “superior” a las potencialidades del hombre, que está marcado por el progreso continuo (progresismo) y conducirá a una suerte de paraíso terreno atestado de bienes de consumo inacabables, de abundancia ilimitada y, por tanto, de total “felicidad” (vacuna, añadimos nosotros). Y en la misma línea el marxismo trazó otra línea inalterable que conduciría al ideal del comunismo y de su sociedad sin clases sociales y sin superestructuras de ningún tipo: ni Estados, ni ejércitos,…

Ya en su momento hemos apuntado el porqué en lugar de hablarse de cosmovisión cíclica, como propia de la Tradición, en ocasiones se ha preferido hablar de cosmovisión esférica, ya que en una esfera se pueden trazar infinidad de circunferencias que corresponderían a las diversas concretizaciones que el hombre (haciendo uso de su libertad y poder de trazar su destino) puede hacer de las cuatro edades de las que, según diferentes textos Sapienciales Tradicionales, consta un ciclo cósmico humano.

Igualmente en otras ocasiones (2) hemos señalado la posibilidad que tiene el hombre de provocar una especie de cortocircuito en la dinámica propia de la sucesión de las cuatro edades (de Oro, de Plata, de Bronce y de Hierro), poniendo freno al proceso involutivo en lo que la Tradición ha denominado como Ciclos Heroicos, que suponen la Restauración de la Tradición Primordial (Edad de Oro perdida).

De hecho el hombre, haciendo buen uso de la libertad que posee en el sentido de poder marcar su propio camino superando determinismos y condicionantes que pueden parecer fatalmente insalvables, el hombre, decíamos, tiene en sus manos el que el final de la etapa crepuscular del Kali-yuga o Edad de Hierro, porque atraviesa, acontezca antes y, dé, en consecuencia, paso, a una nueva Edad de Oro o Satya-yuga dentro de un nuevo ciclo humano o manvântara o, por el contrario, el que (como consecuencia de posturas pasivas, conformistas, alienadas o marcadas por determinismos varios) dicho final pueda prolongarse más allá de lo que las dinámicas cósmicas podrían hacer indicar.

Pocos como Evola nos han hecho con más nitidez ver cuál es el camino más apropiado para que el hombre sea capaz de llegar a su Integralidad y emprender, después, la tarea de Reconstrucción Tradicional de su derrumbadas sociedades. Este camino, nos dice el maestro italiano, no es otro que el de la vía de la acción, ya sea ésta interna, buscando el desapego y transformación interiores, o ya sea externa, luchando por intentar demoler el deletéreo edificio en ruinas en el que vivimos, con el objetivo de construir, en su lugar, un Orden cimentado en valores imperecederos y en principios inmutables.

Es acción interior lo que se precisa a lo largo de todos estos procesos conocidos con el nombre de Iniciación. El ascesis no es otra cosa que ejercicio interno. La necesaria e imprescindible práctica interior es, en definitiva, acción. Y es por todo esto por lo que la vía más apropiada para completar el arduo y metódico proceso iniciático es, repetimos, aquella conocida como ´vía de la acción´ o ´vía del guerrero´ o shatriya.

Las sociedades Tradicionales estaban constituidas, en su organización jerarquizada, por una élite sacro-guerrero-dirigente, bajo la cual se hallaba la casta guerrera y por debajo de la cual se situaban los estamentos cuya actividad vocacional tenía su eje en las actividades económico-productivas (comerciantes y maestros de talleres, por un lado, y mano de obra por el otro). Con la degradación sufrida en los estertores del Mundo Tradicional las funciones regia o dirigente y sacra se escinden y ya no estarán representadas por aquella élite; dándose paso, por ello, ya en el seno del mundo moderno, a sociedades divididas en las siguientes castas –no representativas del Mundo Tradicional-: brahmanes o sacerdotes, shatriyas o guerreros, viashias o mercaderes y sudras o mano de obra.

En tal estado de cosas la casta a la cual le resulta consustancial la vía de la acción es la más capacitada para emprender la gesta heroica de Restauración de la Tradición. Y así ocurrió a lo largo de las edades que sucedieron al Mundo de la Tradición Primordial o Edad de oro (Satya o Krita-yuga): así ocurrió, pues, en diferentes períodos -Ciclos Heroicos- de la Edad de Plata o Treta-yuga, de la Edad de Bronce o Dvâpara-yuga y de la Edad de Hierro o kali-yuga. Ciclos Heroicos como los protagonizados por héroes como aquéllos que nos refiere la mitología griega al hablarnos de unos Heracles, Aquiles, Ulises o Perseo que se elevan desde su condición de guerreros a la de la Inmortalidad (o, para hablar con más propiedad, Eternidad) a la que les ha llevado, sin duda, un proceso de transustanciación interior. Las polis en que ellos reinen recibirán la impronta sagrada de estos reyes sacros y volverán -aunque sea por un tiempo- a la Edad de Oro perdida: así en la Ítaca de Ulises o en la Atenas de Perseo.

Igual Ciclo Heroico ocurre en buena parte del discurrir de la Antigua Roma, muestra de lo cual es la unión en una misma persona de aquellas dos funciones o atributos que en el Mundo de la Tradición siempre había estado aunados, no sólo en una única persona sino también en la aristocracia a la que aquélla pertenecía; así, la función sagrada (Pontifex) y la función dirigente (como Imperator o jefe de los ejércitos y como Princeps o principal rector político) se unifican en la figura de los emperadores romanos. Su carácter sacro se hace patente por la condición de Iniciados en diferentes ritos -como los de Eleusis o de Mitra- que tuvieron muchos de los emperadores de la Antigua Roma, tales como Octavio Augusto, Tiberio, Marco Aurelio o Juliano.

También, con anterioridad a estos párrafos, hemos mencionado otros Ciclos Heroicos que igualmente se suceden en los momentos menos propicios (Edad de Hierro o, acorde con la ciclología mítica nórdica, Edad del Lobo) para enfrentar una tarea de Revolución (recuérdese: de re-volvere) Tradicional. Ciclos Heroicos como los que rodean la Saga Artúrica y el misterio del Grial o como el que representa el Sacro Imperio Romano Germánico en buena parte de la Edad Media. En este último caso el Emperador es un Ser Iniciado y así lo explicarían, entre otras evidencias, los poderes taumatúrgicos que poseía y que representarían una consecuencia sutil de su condición Sobrenatural. Además se trata de una figura que aúna el poder sacro y el temporal como sucedía en la Edad de Oro. El poder religioso del Papado, en esta etapa, se halla por debajo del sacro ostentado por el Emperador y así quedaba reflejado en la ceremonia de coronación de los Emperadores oficiada por los Papas y que sellaba el reconocimiento, por parte de éstos, de la superior competencia Espiritual del Emperador. En ocasiones algunos emperadores retrasaron en años dicha ceremonia o murieron sin que ella se hubiera realizado y esto aconteció como síntoma de que el Emperador no necesitaba de la acción papal para que su legitimidad fuera reconocida.

Cuando el Papado se negó a reconocer la superioridad Espiritual del Emperador se iniciaron, a raíz de las Querellas de las Investiduras, las guerras entre gibelinos y güelfos. Los primeros reconocían dicha Superior legitimidad del Emperador y los segundos eran partidarios de desposeer al Emperador de su competencia sacra y otorgársela en exclusiva al Papa. El que en una época poco propicia (avanzando el Kali-yuga) estas querellas se fueran decantando del lado güelfo-papal no resulta extraño. La consecuencia de ello es doble: por un lado se desacraliza paulatinamente el poder temporal (representado por el Emperador) y, por ende, poco a poco se desacraliza la misma sociedad y por otro lado se empieza a atomizar Europa en repúblicas (como las italianas) y en reinos que irán dando al traste con cualquier tipo de aspiración unitaria Transnacional (el Imperium) basada en principios Superiores y que tiene la función de representar en la Tierra (el microcosmos) el Ordo reinante en el macrocosmos. (3)

Los Ciclos Heroicos relacionados son un ejemplo más que representativo de la posibilidad real que el hombre posee de trazar su rumbo al margen de las adversidades que pueda encontrar en su periplo vital, destruyéndose, así, cualquier visión del mundo y de la existencia marcada por el fatalismo.

El Héroe, pues, no puede surgir -contrariamente a la opinión de algunos autores tradicionalistas- a partir de la casta sacerdotal o brahmana sino de la guerrera o shatriya, pues con la simple fe (actitud pasiva) del sacerdote es imposible operar transmutaciones en el interior del hombre, pero, en cambio, a través de la vía activa consustancial al guerrero sí es más factible pensar en procesos internos (que deben ser activos) de Liberación Espiritual del hombre.

La primera tarea (la interior) que debe, pues, emprender el hombre es la que puede llevarle a Ser Hombre Diferenciado y Absoluto gracias al Despertar, en su fuero interno, de esa Trascendencia pura e Imperecedera de la que la esencia humana no es ajena. Y para ese fin hay que empezar por derrotar a aquellas fuerzas (tamas, echando mano del tantrismo) que, desplegadas en el mundo manifestado, arrastran hacia lo bajo, hacia lo primario, lo pulsional y lo pasional.

Recalquemos que el Héroe es un Iniciado y que, por tanto, si en el terreno del hecho Trascendente se destierra la Iniciación sólo queda la perspectiva religiosa. Sólo quedan, pues, la fe y las creencias en que todos los píos, creyentes, devotos y cumplidores de una serie de dogmas y preceptos religioso-morales (establecidos pensando en las posibilidades de cumplimiento de la mayoría de los mortales) alcanzarán la salvación, en una suerte de democratismo espiritual marcado por la accesibilidad de la masa a la vida celestial, cuando, por el contrario, el Despertar al que va asociada la Iniciación es un logro que sólo una minoría apta y voluntariosa puede alcanzar. Según la perspectiva religiosa no cabe acción transfiguradora interior y la consecuencia de esto es la promoción de un evasionismo en el plano de lo interno que, por lógica consecuencia, acabará afectando al plano externo del individuo conduciéndole a la inacción exterior y a su pasividad ante la posibilidad de cambiar los signos deletéreos de los tiempos.

Hemos ya indicado el porqué, con Evola, sostenemos que debe ser a través del guerrero -y de su arquetipo- mediante quien se pueden operar los actos heroicos Reintegradores. Y lo hemos sostenido negándole esta posibilidad a la figura sacerdotal. Un signo más de esta no aptitud del brahmana para la transustanciación interna vendría dado por un dato básico que ilegitimiza su misma existencia social y que, sencillamente, es el de que esta casta no existía en el Mundo Tradicional sino que su aparición viene directamente ligada con los procesos involutivos que desembocaron en el mundo moderno, al separarse las funciones espiritual y temporal que antes estaban encarnadas por la aristocracia sacro-guerrera-dirigente. Podemos comprobar cómo en civilizaciones como la de la China o el Japón Tradicionales no existía casta sacerdotal o cómo en la antigua Roma tampoco. En ésta los ritos sacros eran oficiados por la élite de un patriciado cuya función dirigente y guerrera también le eran propias; así lo vemos, p. ej., en un Julio César como flamen dialis u oficiante de los ritos sacros consagrados al dios Júpiter. También “en la antigua India aparecen, como proceso involutivo, los brahmanes (a partir de los purohitas, que eran sacerdotes que dependían del rey sacro y cuyo origen hay que buscarlo en cultos dravídicos anteriores a las invasiones de pueblos indoeuropeos) y se convierten en casta dominante. Casta, por tanto, inexistente en el mundo Tradicional, en cuya pirámide social encontramos en primer lugar, en su cúspide, la casta regioguerrera y aristocrática de atributos sagrados, en segundo lugar, por debajo de ella, la guerrera propiamente dicha y en tercer puesto, en su base, la de todos aquellos que se dedican a actividades de tipo económico: comerciantes, artesanos, agricultores, campesinos,…” (4)

En la misma línea señalábamos en su día que “…Sin duda las formas espirituales precristianas –el mal llamado paganismo- habían entrado, desde hacía ya tiempo, en un proceso de decadencia que, por ejemplo, en buena parte del mundo celta había dado pie a la aparición y hegemonía de la casta sacerdotal de los druidas. La irrupción de esta casta coincide con una cierta deriva matriarcal en el seno de muchos pueblos celtas. Antes de darse este declive, el patriarcado del mundo celta corría paralelo al hecho de que los ritos sagrados eran ejercidos por la aristocracia dirigente.” (5)

Por estas razones si nos colocásemos en la problemática que se vivió en el Medievo y que llevó a los enfrentamientos entre gibelinos y güelfos o a la eliminación de la Orden del Temple (que se selló, definitivamente, con la quema en la hoguera de su último Gran Maestre Jacques de Molay, en 1.314, en la îlle des juifs del río Sena, en París) por decisión de unas jerarquías eclesiásticas (personificadas en la figura de Clemente V) que abominaban de todo lo que fuera esoterismo e Iniciación y por decisión, asimismo, de un Estado francés (en la figura de Felipe el hermoso) que quería asentar su poder en forma omnímoda y opuesta a cualquier ideal Imperial como el del Sacro Imperio Romano Germánico al cual los templarios siempre habían apoyado, si nos colocásemos, decíamos, en tal problemática y la enfocáramos desde el punto de vista Tradicional, aplicado a la estructuración social que debe tener cualquier sociedad Tradicional que se precie de ser tal, deberíamos situar en la legítima cúspide de la pirámide social al Emperador y a la élite sacroguerrera que representarían órdenes ascético-militares como la de los templarios. Bajo este primer estamento se hallaría el meramente guerrero y por último el económico-productivo. Siendo de esta manera no cabe, pues, el Papado en un ordenamiento Tradicional ni caben los eclesiásticos (cardenales, arzobispos, obispos, monjes, sacerdotes,…) por representar, todos ellos, un tipo de religiosidad lunar y pasiva.

La adecuada interpretación de la Tradición es la que debería llevar a las certidumbres que estamos sosteniendo. Y las sostenemos por haber visto en Evola el más adecuado intérprete de los parámetros esenciales en que sustenta el Mundo Tradición. Así, p. ej., lo supo también ver un encriptado grupo de personas que allá por los años ´70 de la pasada centuria redactaron una serie de interesantes escritos que bebían del legado Tradicional transmitido por Julius Evola. Se dieron a conocer como los dioscuros (así eran conocidos los hermanos Cástor y Pólux de los que nos habla la mitología griega) y nos dejaron sentencias y reflexiones muy ilustrativas al respecto de las ideas que pretendemos transmitir con el presente trabajo. Algunas de estas sentencias y reflexiones las relacionamos a continuación:

“…ni se llegue a un compromiso consigo mismos fingiendo encerrarse en una torre de marfil en la cual se espera el último derrumbe, el dicho justo sea en vez ´si cae el mundo un Nuevo Orden ya está listo´”.

“´Existe quien no tiene armas, pero el que las tiene que combata. No hay un Dios que combata por aquellos que no están en armas´. Tal es la invitación a la lucha dirigida por el maestro pagano Plotino”.

“Sólo del hombre y exclusivamente de él dependerán las elecciones futuras”.

“No hay justificación o comprensión, sino inexorable condena hacia aquellos que, teniendo las posibilidades no combaten y que por inercia se dejan abandonar en forma masoquista a un perezoso fatalismo”.

“Preparar silenciosamente las escuadras de los combatientes del espíritu para que, si y cuando los tiempos se tornen favorables, este tipo de civilización pueda ser destruida en sus raíces y ser sustituida con una civilización normal. Recordando siempre al respecto que los tiempos pueden ser convertidos en favorables y que el hombre es el artífice del propio destino”.

“No existe una condición externa en la cual no se pueda sin embargo estar activos por sí y para los otros”.

“Ha habido una indulgencia en femeninas perezas permaneciendo en la espera de lo que debe acontecer, casi como si se tratara de un buen espectáculo televisivo en el cual el espectador no está directamente implicado”.

“La espera pasiva y mesiánica no pertenece al alma occidental”.

“Verdad tradicional que justamente en la edad oscura son preparadas las semillas de las cuales surgirá el Árbol del ciclo áureo futuro, por lo que nunca, ni siquiera en la época férrea, la acción tradicional se perderá”

“El prejuicio materialista remite las causas de los acontecimientos únicamente a fenómenos de carácter natural. A tal obtusa concepción nosotros oponemos resueltamente la enseñanza según la cual cada pensamiento viviente es un mundo en preparación y cada acto real es un pensamiento manifestado”.

“Nosotros encendemos tal llama, en conformidad con el precepto ariya de que sea hecho lo que debe ser hecho, con espíritu clásico que no se abandona ni a vana esperanza ni a tétrico descorazonamiento.” (6)

El hombre de alma pasiva y mesiánica (del que hablaban los dioscuros) aceptará con bíblica resignación el destino que le ha impuesto su dios y, a diferencia del Héroe Solar, nunca pensará en rebelarse contra sistemas políticos antitradicionales, injustos, alienantes y explotadores.

El Hombre de la Tradición, por contra, más que amilanarse por la tremenda dificultad de encontrar el Norte que supone el vivir en la etapa crepuscular de la Edad Sombría o Kali-yuga, más que amilanarse verá en ello una oportunidad de arribar más Alto que, tal vez, donde hubiera podido llegar en otras edades no tan abisales del discurrir del hombre por la existencia terrena, pues al encontrarse en las ciénagas más espesas necesita de un mayor impulso para salir de ellas y este mayor impulso le puede catapultar mucho más Arriba: a la actualización del Principio Eterno que aletarga en su fuero interno.

La Tradición concibe que el Hombre Diferenciado puede entrar en las moradas celestiales dando una patada en las puertas del Cielo, sin complejos de inferioridad, mirando cara a cara a la divinidad, de tú a tú. Y, más aun, puede aspirar a superar la esencia de los mismos dioses o numens (como parte de la manifestación que éstos son) para pasar a Ser uno con el Principio Primero que se halla por encima y más allá del mundo manifestado.

En contraste con el Héroe Olímpico que nunca supo ni sabe de complejos de inferioridad ni de ineptitudes cuando miraba y mira a la Trascendencia encontramos al hombrecillo producto del mundo moderno alicorto e incapaz de arribar al Despertar a la Realidad Metafísica. Hombrecillo al que, p. ej., ya vemos cómo en la antigua Roma los Libros Sibilinos (7) obligan a practicar la genuflexión dentro del contexto representado por el alejamiento del mundo romano con respecto al Ciclo Heroico que le fue propio.

Hemos tratado en otro lugar de la Doctrina de las Cuatro Edades (8) y de la posibilidad heroica de ponerle freno a la espiral desintegradora e involutiva que ella nos explica. Autores como René Guénon nos han hablado (9), a partir del estudio de los textos Sapienciales del hinduismo, de la duración de cada una de las cuatro edades de que consta un Manvântara o ´ciclo de humanidad´, diciéndonos que la Edad de Oro, Satya-yuga o Krita-yuga tiene una duración de 25.920 años, la Edad de Plata o Trêta-yuga 19.920, la Edad de Bronce o Dvâpara-yuga 12.960 y la Edad de Hierro, del Lobo o kali-yuga 6.480. Igualmente afirma el Tradicionalista francés que nos hallamos en una fase avanzada del kali-yuga. Nótese que la duración de cada edad sigue una proporción de 4, 3, 2, 1, lo cual nos hace comprender que cada edad dura menos que la anterior en cuanto comporta un mayor nivel de decadencia, tal cual acontece con la bola de nieve que a medida que va bajando por la pendiente de la montaña se va haciendo mayor al igual que la velocidad que va tomando: su aceleración acaba resultando ciertamente vertiginosa. Si la Edad de Oro equivale al Mundo de la Tradición Primordial y puede ser calificada como la Edad del Ser y de la Estabilidad (de ahí su mayor duración) las restantes edades comportan la irrupción de un mundo moderno que puede, a su vez, ser denominado como mundo del devenir y del cambio (de ahí la cada vez menor duración de sus sucesivas edades). En verdad, no en balde, se puede constatar que en los últimos 50 años la vida y las costumbres han cambiado mucho más de lo que habían cambiado en los 500 años anteriores. Los traumáticos conflictos generacionales que se sufren, hoy en día, entre padres e hijos no se habían dado nunca en épocas anteriores (al menos con esta intensidad) debido a que los cambios en gustos, aficiones, hábitos y costumbres se sucedían con más lentitud. Los cambios bruscos, frenéticos y continuos propios de nuestros tiempos han dado lugar a lo que Evola definió como el hombre fugaz. Hombre fugaz que es el propio de la fase crepuscular por la que atraviesa la presente Edad de Hierro, caracterizada (esta fase) no ya por la hegemonía del Tercer ni del Cuarto Estado o casta (léase burguesía y proletariado) sino por la del que, con sagacidad premonitaria, Evola había previsto, pese a no haber vivido, como preponderancia del Quinto Estado o del financiero o especulador propio del presente mundo globalizado, gregario y sin referentes de ningún tipo. Este sujeto hegemónico en el Quinto Estado equivaldría al paria de las sociedades hindúes que no es más que aquél que ha sido infiel, innoble y disgresor para con su casta y ha sido expulsado del Sistema de Castas para convertirse en alguien descastado y sin tradición ni referentes. El hombre fugaz no se siente jamás satisfecho, vive en continua inquietud y convulsión. Su vacío existencial es inmenso y nada le llena. Intenta distraer dicho vacío con superficialidades, por ello su principal objetivo es poseer, tener y consumir compulsivamente. Cuando consigue poseer algo enseguida se siente insatisfecho porque ansía poseer otra cosa diferente, de más valor económico o de mayor apariencia para así poder impresionar a los demás. Y es que el mundo moderno es el mundo del tener y aparentar, en oposición del Mundo Tradicional que lo es del Ser. Este hombre fugaz se mueve por el aquí y ahora, pues lo que desea lo desea inmediatamente, no puede esperar. Su agitación no le permite pensar en el mañana.

El politólogo Samuel Huntington habló del fin de las ideologías (la llamada postmodernidad), bien que pensando que con el fin del comunismo en el poder, escenificado con la Caída del Muro de Berlín, se rendía el orbe a las excelencias del capitalismo liberal. Aunque más bien el mundo caía en manos de los caprichos del capitalismo financiero, alma de la globalización. Las ideologías que surgieron como consecuencia de los efectos nefastos que acarreó la Revolución Francesa habían quedado relegadas a un muy segundo lugar. Un cierto altruismo que aún conservaban los adalides del liberalismo y del marxismo cuando más que pensar en sus satisfacciones personales pensaban en un futuro (al que más que probablemente ellos no llegarían a conocer) de paraíso liberal (con provisión ilimitada de bienes de consumo) o comunista (con el triunfo definitivo del proletariado y la desaparición de cualquier superestructura), ese cierto altruismo, decíamos, quedaba defenestrado con el fin de las ideologías y el advenimiento del Quinto Estado con la hegemonía del hombre fugaz egoísta e individualista por antonomasia. (10)

Ante este desolador panorama actual sin duda resulta más difícil derrotar a los fantasmas del fatalismo e insuflar la convicción de que se puede voltear semejante emponzoñado estado de cosas.

Un cierto determinismo expele el posicionamiento de quienes interpretando los datos aportados por Guénon se han aventurado a datar los inicios y finales de cada una de las Cuatro Edades de que consta un manvântara. Así tenemos que se ha escrito que la Edad de Oro habría empezado el año 62.800 a. C. para acabar el 36.880 a. C. La Edad de Plata habría, lógicamente, comenzado con el fin de la anterior y se habría alargado hasta el año 17.440 a. C. Tras acabar ésta se habría dado paso a una Edad de Bronce que habría concluido en el 4.480 a C. Finalmente este último año sería cuando se habría iniciado la actual Edad de Hierro; la cual concluiría el año 2.000 d. C…

En otros sitios se puede observar cierta variación en cuanto a la datación de las Cuatro Edades, situando el comienzo del Kali-yuga el año 3.012 a. C., su mitad el año 582 a. C., el inicio de su crepúsculo el año 1.939 d. C. y en el 2.442 d. C. el final de la Edad de kali (esa especie de demonio de piel oscura de la que nos habla el Bhagavad Purana) o de la que ya los textos Sacros de la Tradición hinduista denominaron era de la riña y de la hipocresía.

Contrariamente a Guénon, Evola nunca habló de la duración de cada yuga o edad, porque para el gran intérprete romano (aunque siciliano de nacimiento) de la Tradición ello suponía un cierto tic fatalista de no poca consideración. Datar el año exacto de inicio y fin de una Edad comporta no creer en que el hombre, si se lo propone, puede convertirse en protagonista de su andadura existencial y de la andadura de sus comunidades. Pues el hombre es libre para Despertar al igual que lo es para condenarse. Sin duda la duración de cada yuga que hemos visto, párrafos atrás, en Guénon anda en relación directa con las dinámicas propias de las fuerzas sutiles que forman el entramado del Cosmos y que pueden adoptar un cariz disolvente para el hombre o, por contra, reintegrador de su Unidad perdida. De estas dinámicas nos habla el I Ching o Libro de las Mutaciones y entiende, asimismo, una deriva del mismo cual es el Tao-tê-king de Lao-tsé. Según estas enseñanzas aportadas por ambas fuentes Tradicionales de Ciencia Sagrada llega un momento en el que la expansión de ciertas fuerzas catagógicas o alienantes llega a tal punto que deberá detenerse, para después retroceder y dejar que el espacio que habían ocupado pase a ser enseñoreado por fuerzas de índole anagógica o Elevadora. Se habría, de esta manera, puesto punto y final al kali-yuga para dar paso a otro nuevo ciclo humano o manvântara con el inicio de una nueva Edad de Oro o Satya-yuga (Edad de Sat -Ser, en sánscrito). Sin duda en la mentalidad de Evola datar con exactitud cuándo estos cambios cósmicos acontecen significaba anular el protagonismo y la libertad del hombre a la hora de trazar el cauce de su andadura. Para el maestro italiano se trataba de aprovechar los estertores del predominio de las fuerzas catagógicas para ponerle fin a su hegemonía cuanto antes mejor. Y se trataba, asimismo, de acabar con la pasividad fatalista del hombre moderno con el objeto de que dichos estertores no se alargaran más allá de lo que los textos Tradicionales habían calculado (sin duda, de modo aproximativo). Por otro lado, volvemos a reincidir en el tema clave de este ensayo en el sentido de que incluso en pleno auge hegemónico de fuerzas disolventes el hombre no debe renunciar a la gesta Heroica de Reconstituir en sí mismo la Unidad perdida y de Restaurar el Ordo Tradicional (sea, eso es otro cantar, de manera más o menos duradera).

En una de las dataciones que hemos aportado hemos indicado que la mitad de la Edad de Hierro tendría lugar el año 582 a. C. Vamos a aprovechar esta fecha por tratarse de un s. VI a. C. sobre el que Guénon vertió una serie de reflexiones dignas de comentar. Para éste, no obstante, la mitad del kali-yuga había acaecido antes. Se queja el Tradicionalista francés (12) de las conclusiones vertidas por la historiografía al uso por haber catalogado como de oscurantista todo lo acontecido antes de ese siglo y porque dicha historiografía oficial hace comenzar en el transcurso de dicha centuria la etapa de “civilización” del mundo clásico cuando, en cambio, según su parecer (el de Guénon) existe una continuidad con los siglos anteriores y más concretamente con las vetas de Tradición que aún existían. Así pues, para él la aparición del pitagorismo en aquel siglo, en Grecia, no supone ningún punto de inflexión en ningún sentido sino que representa una readaptación del orfismo. La irrupción del segundo Zaratrusta (este nombre equivaldría más a una función que a una persona) en Persia también supondría una adecuación del mazdeísmo. La elaboración del Confucionismo (siempre durante el mismo siglo) en China sería el aporte ideal de códigos sociales y éticos destinados a una mayoría no apta para aprehender las Verdades Metafísicas que ofrecía el taoísmo para una minoría metafísicamente apta. Sí, como primera excepción a lo dicho, contempla Guénon un punto de inflexión en la aparición de la filosofía en Grecia, pues a su loable motivo de aparición (inscrito etimológicamente en el mismo vocablo filosofía: amor a la sabiduría) le sucede la problemática de la adopción de herramientas humanas (los métodos especulativo y discursivo) para intentar comprender Realidades Suprahumanas como lo son las Realidades Metafísicas (11); sin obviar la deriva posterior que, en cuanto a los fines de sus elucubraciones, protagonizaron muchos filósofos y muchas escuelas filosóficas (cada vez en mayor número a medida que discurría el tiempo). Y como segunda excepción considera Guénon que la aparición del budismo en el s. VI a. C. supone una caída con respecto al hinduismo imperante en la India, pues opina que el budismo estaría atentando contra la jerarquía consustancial a cualquier sociedad Tradicional al abrírsele la posibilidad de acceso a la Realidad Absoluta a cualquier hombre, independientemente de la casta a la que pertenezca, que tenga la aptitud y la voluntad para intentarlo; además de sopesar como de antitradicional el que quien sigue la vía del budismo abandona su pertenencia social a la casta en la que nació. Para Guénon, con toda seguridad, sólo el brahman o sacerdote podría aspirar al acceso al Plano de la Trascendencia. Para Guénon, tengámoslo en cuenta, sólo el brahman puede Restaurar la Tradición perdida.

Contrariamente a lo expuesto por Guénon, Evola no considera la aparición del budismo como un punto de involución con respecto al hinduismo sino como un punto de superación con respecto a un hinduismo que había caído en un ritualismo vacío y le había dado la espalda al esoterismo. El budismo, además, es fundado por Gautama Siddharta: un shatriya miembro de uno de los linajes guerreros más tradicionalmente valerosos de la India (Shankya). Para Evola, la formulación del budismo constituye, pues, un acto Heroico protagonizado por alguien perteneciente a la única casta capaz de emprender gestas de Reconstitución de la Tradición. Para Evola el budismo no atenta contra la jerarquización social Tradicional y no lo hace por dos motivos: uno, porque la estratificación social de la India de entonces no se puede definir como de Tradicional, ya que las funciones sacra y guerrero-dirigente se hallan divididas entre brahmanes (que profesan, además, un tipo de religiosidad lunar) y shatriyas y no se encuentran, como correspondería a un Ordenamiento Tradicional, encarnadas en una misma élite. Y el otro motivo por el que el budismo, en opinión de Evola, no atenta contra la jerarquización social del Mundo Tradicional es que para el Hombre Superior -y tan solo para este tipo de Hombre- no deben existir normas, morales ni reglamentos (entre ellos los que exige cumplir una casta para con sus miembros) que puedan ejercer el papel de cortapisas y obstáculos para aquél que pretende elevarse más allá de su condición humana con el fin de acceder a una de tipo Suprahumano. Sí, en cambio -como no podía ser de otro modo- en el parecer de Evola el resto de personas (que no tienen la capacidad y/o la voluntad de encarar la praxis de las Realidades Suprasensibles) debe someterse al sistema Tradicional estamental que ayudará a gobernar sus vidas, ya que estas personas no son capaces de llegar a autogobernarse; a ser señores de sí mismos.

Si el Hombre de la Tradición es un Hombre que no conoce de fatalismos paralizantes huelga comentar que tampoco concibe de la existencia de determinismos inmovilizantes con respecto a la aspiración de emprender cualquier empresa Superior:

-Ni determinismos de casta, por más que los miembros de unas (guerreros) sean más propicios para emprender actos Heroicos que los de las restantes o resulten más aptos para llegar a estados de conciencia más sutiles de la Realidad Suprasensible; o para llegar, incluso, más allá de cualquier Realidad sutil.

-Ni determinismos históricos (el determinismo histórico que, de acuerdo a los postulados del materialismo dialéctico, postula que la historia se hace a sí misma: tesis más antítesis= nueva tesis; o igual a cambios y nueva etapa histórica). El historicismo considera al hombre como sujeto pasivo, sin posibilidad de escribir la historia por sí mismo; sin posibilidad de hacer historia. Ésta última sería algo así como una entidad con vida autónoma cuyas nuevas manifestaciones no serían más que la consecuencia de su misma dinámica interna y en las cuales el ser humano no tendría ningún papel activo. La dinámica económica, social, cultural y política de un período dado serían la lógica, fatal, e inevitable, consecuencia de la que aconteció en la etapa anterior.

-Ni determinismos religiosos concretados en un dios omnipotente que hace y deshace a su antojo y sin que, fatalmente, el hombre-criaturilla pueda hacer nada para marcar su propio rumbo.

-Ni determinismos ambiental-educativos que condicionen totalmente el camino a elegir y a seguir por el hombre.

-Ni determinismos cósmicos en la forma de un Destino que todo lo tiene irremisiblemente programado de antemano.

Y que para el Hombre Verdadero no existen determinismos cósmicos se cerciora si se tiene presente el que todas las doctrinas Sapienciales nos hablan de fuerzas (o numens) que interactúan armónicamente en el Cosmos. La dinámica de estas fuerzas cósmicas influye en la existencia de los hombres y en el devenir de los acontecimientos, pero no de manera fatalista e insoslayable. El Mundo Tradicional ofició, siempre, ritos sagrados que hacían posible el conocimiento de cuáles eran las dinámicas que, en un momento determinado, seguían o seguirían dichas fuerzas cósmicas, pero también ofició sacrificios (oficios o ritos sacros) que tenían como objetivo el poder influir –a favor propio- sobre estos numens para hacerlos propicios en momentos en que podían no serlos para los intereses personales o de la comunidad. Es por lo cual que con estos sacrificios el hombre podía labrarse su propio destino operando sobre determinadas dinámicas cósmicas que, en ciertos momentos, no les eran favorables.

Evola sabía que dichas dinámicas influían en el hombre (que comparte fuerzas sutiles con el Cosmos), pero también era consciente de que influir no significa fijar ni significa determinar irremisiblemente. Además, hay siempre que tener presente que el que ha elegido con éxito la vía de la transustanciación interior vence todas estas influencias porque se encuentra por encima de cualquier numen o fuerza cósmica: se halla por encima de cualquier atisbo (por muy sutil que éste sea) del mundo manifestado porque ha realizado en sí la Gran Liberación y el total descondicionamiento.

El Héroe se niega a ser arrastrado por la corriente porque está convencido de que nada puede a su voluntad y de que, por tanto, puede sobreponerse al accionar de las leyes cósmicas. Está convencido de que la libertad que ha conseguido en su interior (su descondicionamiento con respecto a cualquier atadura y determinismo) le ha hecho invulnerable a estas leyes cósmicas, a estos numens; en definitiva, al Destino.

El mundo nouménico constituido por todo un entramado de fuerzas sutiles explica la armonía y el dinamismo del cosmos. Y en consonancia y en armonía con ese mundo nouménico es como deben estar dinamizadas las fuerzas sutiles del ser humano, ya que si éstas no están armonizadas con sus análogas del resto del cosmos discurrirán a tal fuerte contracorriente que acabarán por desarmonizarse también entre ellas mismas (en nuestro interior). De aquí, pues, la importancia que en el Mundo de la Tradición se le dio siempre a la realización y correcta ejecución de los ritos sagrados. Ritos que tenían o bien la finalidad de hacer conocer a sus oficiantes cuál era la concreta dinámica cósmica de un momento dado, bien con tal de no actuar aquí abajo contrariamente a dicha dinámica (en batallas, empresas arriesgadas, en la elección del momento de la concepción de la propia descendencia o del momento más idóneo para contraer matrimonio o para coronar a un rey,…) o bien con tal de poder adoptar las medidas apropiadas para actuar a sabiendas de que se hará a contracorriente de ese mundo Superior. O bien estos ritos se efectuaban con la intención de que fuesen operativos, esto es, de que tuviesen el poder de actuar sobre ese mundo Superior para (en la medida en que fuera posible) modificar su dinámica y hacerla favorable –o menos antagónica- a las actuaciones que se quisieran llevar a cabo aquí abajo.

Hay quien se pregunta por las razones por las cuales hombres como el de origen indoeuropeo, que tan adecuadamente conoció de este tipo de ritos operativos y los ejecutó y que protagonizó siempre tantos Ciclos Heroicos, ha podido hundirse en simas tan profundas como en las que se halla a día de hoy. Seguramente ha sido el que más aceleración le ha impreso a su caída; cierto es que en el actual estado de globalización, por el que atraviesa todo el planeta, prácticamente todos los pueblos del orbe se han igualado en niveles de sometimiento a los dictados de la materia y de lo infrahumano.

Seguramente para encarar la respuesta a esa pregunta habría que empezar resaltando la evidencia de que el hombre indoeuropeo (antes de la postración en la que caído) siempre fue muy dado a la libertad, tanto en lo social, como en lo político y en lo Espiritual. Por ello siempre conformó sociedades de tipo comunal y orgánico unidas a entes políticos superiores (el Regnum y, mejor aun, el Imperium) por el mero principio de la Fides y no por la fuerza ejercida desde las altas jerarquías. Por ello, también, aspiró siempre a la suprema libertad: la libertad interior que se obtiene tras un duro, riguroso y metódico ascesis que no es otra cosa que la Iniciación y en cuyos estadios iniciales pugna por el descondicionamiento del Iniciado con respecto de todo aquello que lo mediatiza y esclaviza.

Siempre, repetimos, fueron muy propias del mundo indoeuropeo el tipo de sociedades orgánicas (como corresponde a cualquier sociedad que se precie de Tradicional) que no basan, por tanto, su cohesión a través de la fuerza material ejercida por los que detentan el poder sino que basan su unidad en la libre elección hecha (a través de la fides juramentada al Regnum o al Imperium) por los entes sociales o políticos que armónica y orgánicamente las componen.

Este hombre mostró muy a menudo su capacidad de ser señor de sí mismo (de autogobernarse y autodominar su mundo psíquico), sin que, por tanto, necesitase que le reglamentaran todos los aspectos de su vida cotidiana hasta el más ínfimo detalle; como, por el contrario, aconteció siempre –y acontece- con otros pueblos –pelásgicos, semitas,…- cuyas religiones ordenaron –y/u ordenan- hasta el extremo, mediante normas y dogmas, toda la existencia de sus miembros. Para la élite Espiritual de ese hombre indoeuropeo cualquier ligadura social y moral hubiera representado un obstáculo en medio de la vía de descondicionamiento que estaba recorriendo.

Pero, cuando dicho hombre se aleja de la Tradición y rompe, por tanto, con lo Alto no halla en su caída ni férreas morales ni dogmas ni reglamentaciones omnipresentes que atenúen dicha caída; morales y dogmas que, al modo de ataduras, si bien le hubieran impedido Ascender también le hubieran evitado el estrellarse, de forma tan estrepitosa y categórica, contra los abismos.

Aquí podemos encontrar las razones de esa caída libre que este hombre viene protagonizando. Caída libre no fatal ya que, no lo olvidemos, siempre puede ser frenada en acto heroico que, de realizarse, le puede volver a catapultar desde lo más bajo hacia lo más Elevado.

Hemos señalado, a lo largo de este escrito, ciertas discrepancias de enfoque habidas entre Julius Evola y René Guénon. Se trata de unas discrepancias que no afectan a las coincidencias básicas que ambos Tradicionalistas mostraron en sus disecciones del Mundo Tradicional y sus denuncias del mundo moderno, pero no está carente de relevancia el que sigamos mostrando alguna otra divergencia, por cuanto está íntimamente relacionado con el tema del presente trabajo. Se trata de una divergencia que ambos autores estuvieron, a finales de los años ´20 del s. XX, dirimiendo en forma epistolar y que ha sido agrupada bajo la cabecera de “Polémica sobre la metafísica hindú”. Evola denuncia algunos ciertos contenidos del libro de Guénon “El hombre y su devenir según el Vedânta” en el sentido de los peligros evasionistas a los que puede conducir el vedântismo (sobre todo el vedântismo advâita) que tuvo a bien exponer Guénon en dicha obra (13). Es así como Evola lo percibe cuando opina sobre esta interpretación de los Vedas que es el Vedânta. En tal línea el maestro italiano afirma que “el punto de vista del Vedânta es que el mundo, procedente de estados no manifestados, vuelve a sumergirse en ellos al final de cierto período, y ello recurrentemente. Al final de tal período, todos los seres, bon gré mal gré, serán por tanto liberados, ´restituidos´.” Evola nos advierte del fatalismo que envuelve a estas creencias y nos advierte de que si el hombre, junto a toda la manifestación, volverá a Reintegrarse en el Principio Supremo del que procede y será, así, restituido a lo Eterno e Inmutable no se hace necesaria ninguna acción: ni interna tendente a la Liberación ni externa que apunte a la Restauración del Orden Tradicional, ya que, tarde o temprano, toda la humanidad (así como todo el mundo manifestado) acabará Liberada cuando haya sido reabsorbida por el Principio Primero. Ni que decir tiene la pasividad a la que dichas creencias pueden llevar.

Igualmente nos advertía Evola de que considerar, tal como hace el Vedânta, al mundo manifestado como mera ensoñación (Mâya) puede abocar a posturas evasionistas con respecto al plano de la inmanencia. Puede llevar al refugio en el Mundo de la Trascendencia y a dar la espalda a una realidad sensible sobre la que el Hombre Tradicional debe tener muy claro que debe actuar para sacralizarla y convertirla en un reflejo de lo Alto (recuérdese el Imperium, en el microcosmos, como reflejo del Ordo macrocósmico). De no actuar en este sentido nos olvidaríamos -empleando terminología del hermetismo alquímico- del coagula que debe seguir al solve en todo proceso de metanoia o transformación interna; nos olvidaríamos, pues, de la materialización del Espíritu que debe seguir a la fase de Espiritualización de la materia propia de los procesos Iniciáticos.

No es nuestra intención la de resaltar desavenencias doctrinales entre Evola y Guénon sino la de hacerlo sólo si tienen una incidencia directa en el tema que estamos trabajando en este escrito. Pocos años después de haberse producido esta discrepancia epistolar, el mismo Evola reconocía, en un artículo intitulado “René Guénon, un maestro de los tiempos nuestros”, la alta competencia Tradicionalista de Guénon y lo imprescindible de su obra; opinión que no podemos por menos que compartir.

Pensamos que a lo largo de todas estas líneas ha quedado bien aclarada la postura existencial que defiende Evola como aquélla que debe adoptar cualquier persona que vea en la Tradición Perenne el faro y la luz que debe guiar su existencia. Esta postura ha quedado claro que es la de la vía de la acción (que puede convertirse en heroica) y la del rechazo a concepciones deterministas, fatalistas, evasionistas, pasivas e inmovilizantes. La lucha (interna y externa) debe ser el arma utilizada por el hombre que aspire a Restaurar lo Permanente y Estable frente a lo caduco y corrosivo del mundo moderno. La lucha externa le hará siempre concebir, a Evola, la esperanza de acabar con las manifestaciones políticas, económicas, sociales y culturales combatiéndolas en lid directa con el fin de abatirlas y hacer triunfar un nuevo Ciclo Heroico en plena Edad del Lobo. Esta esperanza y este objetivo son los que transmiten libros suyos que no son precisamente de los primeros que escribió en su definitiva etapa Tradicionalista: obras tales como “Orientaciones” (1.950) y “Los hombres y las ruinas” (1.953). Más adelante se apercibió de que pese a la inconsistencia interna de que hacía gala la modernidad los aparatos políticos que le eran propios a ésta se habían dotado de una fuerza represiva tan fuerte que resultaba casi ilusorio el aspirar a acabar con ella, por lo cual Evola creyó que antes que enfrentarse directamente con el Sistema que abanderaba los antivalores propios del mundo moderno se hacía más conveniente emplear otra táctica también extraída de las enseñanzas del Mundo Tradicional; concretamente de las enseñanzas extremoorientales. Y esta táctica no era otra que la de “Cabalgar el tigre” (14) y que nos transmitió en una obra homónima escrita por él el año 1.961. Para Evola ´cabalgar el tigre´ es adoptar tácticas como la de fomentar las contradicciones de nuestro degradante mundo moderno y del Establishment que lo sustenta y que a la vez es su consecuencia. Se trata de fomentar sus contradicciones y ponerlas de manifiesto y en evidencia. El desarrollo de sus contradicciones debe provocar tales tensiones, fricciones, desajustes y desequilibrios que acabe en el estallido de todo el entramado plutocrático materialista de este orbe globalizado (que Evola definió como el de la hegemonía del Quinto Estado) y que dé, en consecuencia, paso a una nueva Edad Áurea. Sin la acción heroica del hombre el final de esta etapa terminal de la Edad de Hierro podría prolongarse más de lo que las dinámicas cósmicas podrían indicar. ´Cabalgar el tigre´ que representa el mundo moderno hasta que éste se agote y llegue a su fin, en lugar de enfrentarlo directamente, pues, de este modo, el tigre nos destrozaría.

Evola contempla los procesos disolventes por los que se atraviesa y piensa que el principio de ´Cabalgar el tigre´ se puede, también, aplicar en el plano interno en el sentido de utilizar los venenos (como el sexo, el alcohol, las drogas, ciertos bailes/ritmos frenéticos,…) -que, por su naturaleza o por su omnipresencia, embriagan a la modernidad crepuscular- como medio de alterar el estado de conciencia ordinario y hacer más accesible el paso a otros estados de conciencia superiores. Sobra señalar lo peligroso de esta vía de la mano izquierda (como la definió el tantrismo), vía húmeda (en términos hermético-alquímicos) o vía dionisíaca por cuanto aquél que se aventura por el camino de la Iniciación y elija el tránsito por esta vía sin la preparación ardua de descondicionamiento previo seguramente se verá desgarrado y devorado por el tigre de estos venenos y convertido en adicto y en esclavo de ellos. Es por ello que sólo unos pocos hombres cualificados son aptos para aventurarse por semejante peligrosa vía de acceso a planos Superiores de la realidad.

Por otro lado se precisa no dejar de señalar que los tipos de más alta prestación Espiritual no necesitan de ayudas externas, en la forma de estos venenos, para que su conciencia pueda penetrar en la esencia de otro tipo de planos suprasensibles de la realidad, sino que será por su propia preparación metódica encarada al dominio y eliminación de su submundo emocional, pulsional e instintivo como habrá dado los primeros pasos para -tras aplicar otro tipo de rigurosas técnicas y de estrictos ejercicios de concentración, visualización,…- iniciar el acceso al conocimiento de otras realidades de orden metafísico y para hacer efectiva su progresiva transformación interior (la del Iniciado). Estaríamos hablando, ahora, de la vía de la mano derecha, vía seca o apolínea.

De aquel Hombre que es capaz de ´convertir el veneno en remedio´ también se pueden aplicar expresiones como aquélla que afirma que ´la espada que le puede matar, también le puede salvar´ o la que asevera que ´el suelo que le puede hacer caer, también le puede servir para apoyarse y levantarse´. Sin duda se trata de otra vía heroica adoptada por un Hombre para el que no existen situaciones -por muy irreversibles y fatales que puedan parecer- ante las que no se pueda actuar, ya sea luchando de frente o, como en este caso acabamos de explicar, cabalgando el tigre.

Ha quedado claro a lo largo de todo este escrito el que para el Hombre de la Tradición no existe fatalismo ninguno que le relegue a un vegetar pasivo y ovino a la espera de cambios predeterminados que le vendrán de fuera y cuyo cumplimiento le será totalmente ajeno a su voluntad. Ha quedado diáfana la idea de que las potencialidades Espirituales que anidan aletargadas en su seno interno pueden actualizarse y Liberarlo. Y no querríamos concluir este trabajo sin recurrir a una imagen sugerente que nos llega del hinduismo y que nos presenta a la diosa Shakti (símbolo de la fuerza sutil que se conoce con el mismo nombre: shakti) bailando alrededor del dios Siva (o Shiva: representación del Principio Supremo y Primero) y habiendo finalmente logrado, con su danza erótica, que el miembro viril de él se vigorice. Vigorización que no representa otra cosa que la de actualización del Espíritu dormido que, en potencia, albergamos en nuestro interior. No otra, sino ésta, es el gran reto heroico que debe acometer el hombre que aspire a convertirse en Hombre Diferenciado, para el que las adversidades son retos y no obstáculos impregnados de un fatalismo insalvable.

NOTAS:

(1) Consúltese nuestro escrito “Cosmovisiones cíclicas y cosmovisiones lineales”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/27/cosmovisiones-ciclicas-y-cosmovisiones-lineales/

(2) “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/los-ciclos-heroicos/

(3) Esta idea del Imperium fue desarrollada en nuestro ensayo “El Imperium a la luz de la Tradición”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/el-imperium-a-la-luz-de-la-tradicion/

(4) Aparecido en nuestro “Jerarquía y trifuncionalidad”: http://septentrionis.wordpress.com/2010/02/14/jerarquia-y-trifuncionalidad/

(5) Ídem.

(6) Pueden leerse estas reflexiones y sentencias, y otras más, en los volúmenes 1, 2 y 3 de “La magia como ciencia del Espíritu”, editados por Ediciones Heracles en 1.996.

(7) Para una profundización mayor en la problemática que la aparición de los Libros Sibilinos supuso en la antigua Roma se puede consultar el capítulo titulado “Los Libros Sibilinos” que forma parte de nuestro escrito “Evola y el judaísmo (Segunda parte)”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/28/evola-y-el-judaismo-2%c2%aa-parte/

(8) “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”. Op. cit.

(9) “Algunas observaciones sobre la doctrina de los ciclos cósmicos”, artículo de René Guénon editado por Ediciones Obelisco en 1.984, junto a otros textos, dentro del volumen “Formas tradicionales y ciclos cósmicos”.

(10) Para un mejor entendimiento de la Doctrina de la Regresión de las Castas volvemos a remitirnos a nuestro artículo “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”.

(11) Este tema fue estudiado en nuestro redactado “Ciencia sacra y conocimiento”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/05/ciencia-sacra-y-conocimiento/

(12) “La crisis del mundo moderno”. Capítulo I: “La Edad de sombra”. Editorial Obelisco. 1ª edición de 1.982 y 2ª edición de 1.988.

(13) Problemática tratada en nuestro “Críticas de Evola al Vedânta”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/09/criticas-de-evola-al-vedanta/

(14) Se puede consultar nuestro escrito “Cabalgar el tigre”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/28/cabalgar-el-tigre/

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mercredi, 30 novembre 2011

Giorgio Freda : The Unclassifiable Revolutionary

Giorgio Freda : The Unclassifiable Revolutionary

Edouard Rix

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

 

 

 

 

“I hate this book. I hate it with all my heart. It gave me the glory, that poor thing called fame, but it is also the source of all my miseries. For this book, I have known many months in prison, (…) police persecution as petty as cruel. For this book, I experienced the betrayal of friends, enemies, bad faith, selfishness and the wickedness of men. From this book has originated the stupid legend that made me out to be cynical and cruel, a sort of Machiavelli disguised as Cardinal de Retz that they like to see in me.” Though written by Curzio Malaparte in the introduction to his famous essay ‘Technique of the coup’, Giorgio Freda, the author of ‘The Disintegration of the System’, could have made these lines his own. Because, in writing this small booklet of about sixty very dense pages that undermined the basis the of the bourgeois system, the young publisher has suffered years of judicial and media persecution.

 

THE EDIZIONI DI AR

 

On October 26, 1963, Senator Umberto Terracini, an influential member of the Jewish community and the Italian Communist Party, reported publicly to the Ministers of Interior and Justice the dissemination in Padua of “a vile pamphlet bearing the title Gruppo di Ar (Ar Group), which, taking up the most vile racist theories of Italian Nazism, openly portrays the authors as publishers advocating anti-democratic ideology”, and asks “whether and which measures have been proposed and taken to cauterize the wound and stop the infection before it gets wider dissemination and enters the sphere of action.”

 

Originally publicly stigmatized, the group found a young Platonist and Evolan lawyer named Giorgio Freda. The term chosen by the group for its name, Ar, was highly symbolic, as it is in many Indo-European languages, being the semantic root connoting the idea of nobility and aristocracy.

 

In 1964, Freda had to face trial for a pamphlet denouncing Zionist policy in Palestine. This was just the first of many. The same year, Edizioni di Ar, which he had just founded, published their first book, ‘An Essay on the Inequality of the Races’ by Arthur de Gobineau. Following were the minor writings of Julius Evola and the works of Corneliu Codreanu. Each title had a circulation of 2000 copies.

 

There were two constants in Freda’s militant commitment: the fight against international Zionism, including Israel, which he believed was only the tip of the struggle and against the bourgeois liberal system, expressed by American imperialism in Europe since 1945. About anti-Zionism, Freda was the first editor in Italy who supported Palestinian fighters, even as the Right, embodied by the MSI (Movimento Sociale Italiano), extolled Israel as a “bulwark of the West against the Arabs enslaved by Moscow”. It was he who organized in Padua in March 1969- in conjunction with the Maoist group, Potere Operairo (Workers’ Power)- the first major meeting in Italy to support the Palestinian resistance in the presence of representatives of Yasser Arafat’s Fatah. The Zionist lobby never forgave him. Moreover, not content with simple verbal support, like so many distinguished intellectuals, he would secretly provide timers to a supposed representative of Fatah.

 

THE DISINTEGRATION OF THE SYSTEM

 

But Giorgio Freda is above all a man of the text. And what a text! ‘The Disintegration of the System’ was written in 1969 as student protests were in full force. Italy then underwent, not a sudden explosion and fallout as fast as in France, but a “creeping May”. Convinced of the urgent need for the radical subversion of the bourgeois world, Freda believed that everything must be tried and, when so many young people were seeking to give a truly revolutionary content to the student revolt, that it would be recovered from the proponents of orthodox Marxist or social democratic reformism. It was for these young people that ‘The Disintegration of the System’ was intended, and far from being Freda’s personal program it synthesized the common demands of the entire national-revolutionary milieu, from Giovane Europe (Young Europe) to Lotta di Popolo (People’s Struggle).

 

The tone of the text is decidedly offensive. A disciple of Evola, Freda is the first to not just comment learnedly on his writings, but to move from theory to practice, so much so that one can see in ‘The Disintegration of the System’ the political practice of the theory outlined in ‘Riding the Tiger’, the last of Evola‘s writings. With this book, the Baron gave the intellectual framework affirming Freda’s belief that there can be no compromise with the bourgeois system. “There is a solution, writes Evola, which must be firmly ruled out: that is to build on what survives of the bourgeois world, and to defend it as a basis to fight against the currents of dissolution and the most violent subversion, after possibly trying to facilitate or strengthen the remains with some higher values that are more traditional.” And the Baron added: “It might be good to help bring down the already faltering and what belongs to the world of yesterday, instead of seeking to support and to artificially prolong life. This possible tactic, such as to prevent the final crisis, is the work of the opposing forces which would then undertake the initiative. The risk of this is obvious: we do not know who has the last word.”

 

In ‘The Disintegration’, Freda was not tender with the idols and values of bourgeois society. Order for the sake of order, sacrosanct private property, capitalism, moral conformism, and visceral blind, pro-Zionism and philo-Americanism, but also God, priests, judges, bankers- nothing and no one escaped his criticism. To the dominant market model, he offered a real alternative, reaffirming the traditional doctrine of the state, fully opposed to pseudo-bourgeois values, and developed a coherent state project, the most spectacular aspect including the organization of a Communist economy-a Spartan and elitist communism which owes more to Plato than to Karl Marx.

 

A man of action, Freda was sickened by pseudo-intellectual Evolo-Guénonians locked away in their ivory towers. He had harsh words for some Evolans: “sterile apologists of the discourse on the state”, “worshippers of abstractions,” “champions of conceptual gestures” that, in his eyes, were riders of paper tigers . “For us, he writes, be true to our vision of the world – and therefore of the state – means to comply with it, leaving nothing undone to achieve it historically.” In this perspective, he clearly shows the intention to reach out to sectors involved in the objective negation of the bourgeois world, including the ultra-extra-parliamentary left to which he proposes a strategy that was loyal to a united struggle against the System. It was then that he contacted various Maoist groups, such as Potere Operaio and the Communist Party of Italy-Marxist Leninist.

 

“For a political soldier, purity justifies any hardness, indifference all guile, while the impersonal imprinted in the fight dissolves all moral concerns.” These strong words ends the manifesto.

 

VICTIM OF DEMOCRACY

 

On December 12, 1969, a bomb exploded in the National Bank of Agriculture, Piazza Fontana in Milan, killing 16 people and injuring 87. The Italian section of the Situationist International of the ultra-left issued a manifesto entitled ‘The Reichstag Burns’, denouncing the regime as the real organizer of the massacre. The Situationists will continue to repeat that the Piazza Fontana bomb was “neither anarchist nor fascist.”

 

Giorgio Freda, meanwhile, continued his intellectual struggle against the System. In 1970, in a preface to a text by Evola, he welcomed the possibility of urban warfare in Italy. In April 1971, Edizioni di Ar publish officially for the first time in the peninsula since 1945, ‘The Protocols of the Elders of Zion’. That same month, Freda was arrested and accused of “having distributed books, printed and written information containing propaganda or incitement to violent subversion.” The repressive machine gets under way. For the first time since the end of the fascist regime, a magistrate intended to apply Article 270 (law against subversive association) of the Code Rocco (named after Mussolini’s attorney general). Soon after, the Edizioni di Ar published ‘The Enemy of Man’, a collection of Palestinian fighting poetry, provoking the fury of the Zionists.

 

In July 1971, the judge modified the charges and accused Freda of making “propaganda for the violent subversion of the political, economic and social development of the state” through ‘The Disintegration of the System’, “where he alludes to the need of subversion, by violent means, of the bourgeois democratic state and its replacement by a state defined and characterized as a people’s state”.

 

Undaunted by repression, Edizioni di Ar published in November 1971 the Italian translation of the ‘International Jew’ by Henry Ford.

 

On December 5, 1971, Freda was arrested again. He is no longer prosecuted for crimes of opinion, but bluntly accused of having organized the massacre of Piazza Fontana. Since they failed to catch the “anarcho-fascists” they decided to pinch the “Nazi-Maoists”. The charges against Freda was based on two pieces of evidence: that he bought timers like those found in the bank as well as the travel bags in which the bombs were placed. But Freda had indeed bought timers but had given them to a captain of the Algerian secret services who requested them for the Palestinians. The weekly Candido, investigating the RFA from the manufacturer, collected evidence that timers sold in Italy were not 57, as claimed by the judge – Freda had bought 50 – but hundreds, and that the models purchased by the publisher differed from those used in the attack. In addition, the merchant from Bologna who had sold four travel bags similar to those used in the attack did not recognize Freda as the buyer, but two police officers … Of course, the judge wouldn’t take into account exculpatory evidence. Freda began his lonely tour of Italian prisons in 1972- Padua, Milan and Trieste. Then Rome, Bari, Brindisi, Catanzaro.

 

Called a “Maoist” traitor or “agent of Communist China” by the Right, especially by the neo-fascist MSI or a “racist fanatic” and “delusional anti-Semite” by the legalistic left and Zionist circles, and fearfully rejected by some ultra-left men with whom he had actively collaborated, Giorgio Freda was then tricked by the press into taking the supposedly infamous label of “Nazi-Maoist.” Thanks to the hype, this only turned out to be positive as the stock of 1500 copies of ‘The Disintegration of the System’ were quickly exhausted. A few years later, Freda admitted that the text was taken more into consideration by extremists on the left than those on the right.

 

TRIAL

 

The long River Piazza Fontana trial was opened on January 1975, before the Assize Court in Catanzaro. Accused were the anarchist Pietro Valpreda and eleven accomplices, neo-fascist Giorgio Freda and twelve co-defendants. Reaching the end of his preventive detention, Freda was released and placed under house arrest in August 1976. But his convictions remained intact. Thus in 1977, when he was facing a life sentence, he did not hesitate: in an interview he gave to his friend Claudio Mutti he talked about armed struggle as the best form of opposition to the System in Italy!

 

Convinced that the dice were loaded and that his conviction wasn’t in doubt, Freda went on the run in October 1978. He was captured in the summer of 1979 in Costa Rica, from which he was not extradited, but forcibly returned by the Italian political police.

 

The judicial farce continued. In December 1984, the fourth trial for the massacre of Piazza Fontana was opened in Bari. After sixteen years of investigation, Freda was ultimately acquitted of the bombing but incarcerated for crimes of opinion, “subversive association” according to the Italian legal language, which earned him a sentence of fifteen years in prison.

 

On his release, the media was still talking about Freda because of his launching of the Fronte Nazionale (National Front), for which he was again arrested and charged in July 1993. Surely, good blood cannot lie!

 

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2003, n°17.

lundi, 21 novembre 2011

La chute de Berlusconi annonce la liquidation de l’ENI

 

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Filippo GHIRA:

La chute de Berlusconi annonce la liquidation de l’ENI

Washington et Londres veulent que l’Italie n’ait plus ni politique énergétique propre ni souveraineté nationale

(...) Notre pays est un pays frontière, un pont entre l’Europe et l’Afrique du Nord: depuis 1945, il a cherché, sans vraiment réussir, à reprendre pied en Afrique et à se tailler un espace autonome dans toute l’aire méditerranéenne. Bettino Craxi, par exemple, avait réussi à renouer des contacts assez étroits avec les pays du Maghreb et avec la Palestine de Yasser Arafat. Même si l’Italie est restée fidèle à l’Alliance atlantique —elle ne pouvait pas faire autrement— elle a tout de même défié les Etats-Unis à l’occasion de la prise du navire Achille Lauro et lors de l’affaire Sigonella, revendiquant fièrement sa souveraineté nationale (...). Berlusconi a accueilli dans son parti bon nombre de cadres de l’ancien PSI de Craxi, ce qui avait fini par générer une approche similiaire des rapports italo-arabes. Berlusconi avait ainsi réussi à restabiliser les rapports entre l’Italie et la Libye de Khadafi, mais si on peut juger ridicule ou embarrassante la performance de l’an passé sur la Piazza di Siena. L’Italie avait récemment pris acte du fait que la Libye, qui fut une colonie italienne, est un pays voisin avec lequel il faut avoir —quasi physiologiquement— des rapports très amicaux, qui vont bien au-delà de simples fournitures de gaz ou de pétrole. Ce n’est donc pas un hasard si ce furent nos propres services militaires (le SID) qui aidèrent Khadafi à prendre le pouvoir en 1969; ce n’est pas un hasard non plus si ce sont d’autres services italiens (le SISMI) qui ont plusieurs fois sauvé le Colonel de plusieurs tentatives de coup d’Etat, successivement soutenus par l’Egypte, les Etats-Unis ou Israël.

La récente révolution libyenne a été, en réalité une révolte financée par Washington, Londres et Paris. La fin de Khadafi, qui en a été la conséquence, a certainement été pour Berlusconi une sorte d’avertissement. Depuis la chute du Tunisien Ben Ali, que le SISMI avait aidé à monter au pouvoir, à la suite d’une intrigue de palais, le message est donc bien clair: l’italie n’a plus aucun appui sur son flanc méridional; il ne lui reste plus que la seule Russie. Et ce n’est donc pas un hasard non plus si Poutine lui-même et Gazprom, à la remorque de l’ENI, sont entrés en force en Libye pour y développer la production de gaz et de pétrole. Les tandems italo-libyen et italo-russe, consolidés par Berlusconi, ont permis de forger des liens qui risquent d’être réduits à néant, avec le nouveau gouvernement technocratique de l’Italie qui sera plus orienté dans un sens “atlantiste” et “nord-européen”.

Les liens, y compris les liens personnels, que Berlusconi avait réussi à tisser avec Poutine, ne doivent pas être simplement banalisés sous prétexte qu’ils concernent la vie privée des deux hommes d’Etat. En réalité, Berlusconi favorisait la pénétration d’ENI et d’ENEL en Russie car il se rendait parfaitement compte qu’il fallait à tout prix renforcer des liens avec le premier pays au monde disposant encore de gisements jusqu’ici inexploités de gaz et de pétrole. Cette position économico-politique était partagée par Prodi qui avait accompagné à Moscou les dirigeants de l’ENI pour aller y signer des contrats de fourniture de gaz, valables jusqu’en 2040. On y avait également signé un contrat ENEL visant l’acquisition de l’OGK-5, une des premiers groupes énergétiques nationaux.

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Autre initiative de Berlusconi et de l’ENI, qui fut très peu appréciée par Londres et par Washington: celle de torpiller la réalisation du fameux gazoduc “atlantiste”, Nabucco, que cherchaient à nous imposer les Etats-Unis pour pouvoir encercler la Russie par le Sud. Ce gazoduc, incroyable mais vrai, recevait de solides financements de l’UE. Cette initiative, patronnée par les Américains, entendait faire transiter par la Turquie et la Géorgie le gaz de l’Azerbaïdjan, pour l’acheminer ensuite vers la bifurcation de Baumgarten en Autriche, où arrivent plusieurs gazoducs russes. Berlusconi et l’ENI, au contraire, soutenaient le gazoduc “South Stream” qui part de la Russie, traverse la Mer Noire pour arriver en Bulgarie et passer par la Grèce et se diriger ensuite vers l’Italie et l’Autriche. Cette entreprise peut franchement être qualifiée d’ “eurasiatique”, d’autant plus qu’elle bénéficie d’une forte participation allemande. Mais elle est peu appréciée par les Britanniques et les Américains. Ces deux pays ne peuvent accepter qu’une nation européenne, quelle qu’elle soit, puisse normaliser des rapports trop étroits avec la Russie sur le plan énergétique, alors qu’un rapport énergétique avec la Russie est assurément plus “physiologique” que tous ceux que veulent nous imposer les Etats-Unis avec les pays arabes producteurs de pétrole qui sont leurs satellites.

La Grande-Bretagne, elle, a toujours voulu se maintenir en Méditerranée. Elle profite aujourd’hui de l’attaque de l’OTAN contre la Libye pour y revenir en force. Pour s’y asseoir encore plus solidement, elle oeuvre contre Berlusconi et contre l’ENI via les gnomes de la City. Les spéculations financières auxquelles celle-ci s’adonne, en parfaite syntonie avec Wall Street, ont fait le siège de notre pays dans le but de jeter le doute sur sa solvabilité et obliger ainsi le gouvernement en place à revoir complètement ses programmes financiers futurs. Simultanément, ces spéculations ont pour objectif de faire passer l’idée que le gouvernement en place est trop faible, s’est disqualifié, et s’avère dès lors incapable d’assainir les comptes publics et de redonner confiance au monde de la finance. Tout cela n’est que la raison apparente de la crise italienne. En réalité, nous faisons face à la tentative  —qui réussira probablement vu que c’est Mario Monti qui remplacera sans doute Berlusconi— de parachever le processus commencé en 1992 avec la fameuse Croisière du Britannia.

Le 2 juin 1992, jour de la Fête de la République, alors que la campagne “Mani pulite” (= “Mains propres”) battait son plein et donnait d’ores et déjà l’impression que la Démocratie Chrétienne (DC) et le PSI, piliers du système politique en place à l’époque, seraient bientôt balayés, une impressionnante brochette de managers des entreprises à participation étatique accepte de s’embarquer sur le yacht royal britannique pour une croisière d’un seul jour. Au cours de cette croisière, organisée par “British Invisible”, une société qui promeut les produits “made in Britain”, on explique aux managers des entreprises d’Etat  italiennes qu’il est nécessaire de privatiser. A bord, nous trouvions Mario Draghi, à l’époque directeur général du Trésor: ce fut lui qui géra par la suite les privatisations; entretemps, il prononça un discours d’introduction et fut le premier à partir. La suite des événements prouva qu’il ne s’est pas agi d’une simple conférence sur les privatisations, qui n’avait d’autres but que d’être prononcée: en automne de la même année, la City spécule contre la lire italienne qui doit être dévaluée de 30%, ce qui permettait de vendre plus aisément diverses entreprises publiques. Par la suite, avec les gouvernements Prodi, D’Alema et Amato, 70% des parts de l’ENI et de l’ENEL sont jetés sur le marché, prévoyant du même coup que 30% de la masse restante, c’est-à-dire 21% du total, seraient offerts aux investisseurs internationaux, c’est-à-dire anglo-américains, ceux-là mêmes qui cherchent aujourd’hui à mettre la main sur les 30% restants de l’ENI. Le gouvernement Monti sera très probablement fort heureux de les vendre, en prétextant de pouvoir ainsi diminuer la dette publique. On peut aussi imaginer que le gouvernement Monti bénéficiera de l’appui de Fini, le postfasciste devenu philo-atlantiste, ainsi que de celui de Casini, qui représente l’héritage de la DC au sein du monde politique italien d’aujourd’hui. Cette démocratie chrétienne s’était toujours opposée à la politique autonome de l’ENI au temps d’Enrico Mattei qui, lui, voulait assurer l’indépendance énergétique et préserver la souveraineté nationale de l’Italie.

Filippo GHIRA.

( f.ghira@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 12 novembre 2011; http://rinascita.eu ).

jeudi, 17 novembre 2011

Italie et Grèce : Laboratoires de l’Europe de demain

Italie et Grèce : Laboratoires de l’Europe de demain

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La crise européenne nuit non seulement aux finances publiques, mais à la réflexion car à lire les commentateurs français ou même italiens, il est surprenant de voir comment les marches financiers sont érigés désormais en juge de paix.

« Le Monde » présente comme une bonne nouvelle l’éviction de Silvio Berlusconi, se réjouissant de l’austérité à venir comme si l’époque précédente avait été marquée par une générosité sans nom pour les citoyens de l’Europe. Alessandro Penati dans « La Repubblica » explique que le paquet de mesures du bon docteur Monti doit être appliqué sans plus tarder pour retrouver la confiance des investisseurs internationaux. Soudain les marchés sont érigés en acteurs rationnels, désireux d’une seule chose : la croissance et le plein emploi pour tous. Nous croyons rêver, ou plutôt cauchemarder.

Nous savons tous que les marchés obéissent à une logique d’opinion, et que les fondamentaux des entreprises ou des économies n’entrent rien dans leurs considérations. Comme croire que la 8ème puissance mondiale est une puissance au bord de la faillite et qui aurait perdu toute capacité industrielle. Les performances de l’Italie restent nombreuses. Nous ne pouvons qu’être stupéfaits par des affirmations qui se lamentent de la faible croissance des pays sans tenir compte d’un environnement dans lequel cette croissance se déroule.

Demain, tant que le chômage de masse, les inégalités, n’auront pas trouvé de réponse satisfaisante, tant que la concurrence fiscale et sociale se poursuivra , tant que l’Europe sera incapable d’apporter des réponses sérieuses à la désindustrialisation, tant que la politique de change sera aux abonnés absents, tant que les dépenses de recherche et développement resteront si faibles, tant que les stratégies non coopératives comme la désinflation à l’allemande seront à la mode, aucune cure d’austérité ne répondra aux défis précédemment cités. Alors la panique aujourd’hui l’emporte, des mea culpa s’empilent, des pénitences se préparent.

 

Les recettes de l’échec vont continuer avec son cocktail made in FMI : privatisations, réductions des dépenses sociales, et j’en passe. Quand nous pensons aux coupes dans l’éducation orchestrées par la ministre italienne sortante, madame Gelmini, demain après les plans d’austérité encore plus massifs qu’en restera t- il ? Alors Mario Monti dit vouloir combattre les privilèges, mais de quoi parle- t-il au juste ? Faut-il y voir de l’ironie, du cynisme ? Certes, il existe des anomalies, des abus, des corporatismes, mais les vrais problèmes sont ailleurs.

Alors nous disons que la Grèce et l’Italie dont les gouvernements sont les avant gardes du futur démocratique européen, c’est à dire des aéropages de techniciens adoubés par les marchés financiers, le FMI, et les puissances fragiles du moment comme l’Allemagne et la France qui tremble pour son triple AAA. Les marchés ont relâché la pression sur l’Italie car M. Monti est tout prêt à servir leur intérêt.

En Grèce, le gage de sérieux est la présence d’un ancien commissaire européen et d’un premier ministre prêt à administrer sans ciller une rigueur plus violente encore ; il fait entrer des ministres de l’extrême droite, cela n’offusque en rien la troïka Allemagne France, FMI et qu’il faudrait élargir aux agences de notation. Le remboursement de la dette n’a pas de couleurs politiques et puis le respect de principes démocratiques c’est pour les célébrations convenues du 9 mai, lorsque nous affirmons notre attachement au bel idéal européen de paix et de démocratie.

Semprun, grand européen, dans son dernier ouvrage nous disait bien que la paix est la fille de la démocratisation et rien d’autre. Il est à regretter qu’en Italie, une certaine gauche si heureuse de voir le berlusconisme disparaître ne mesure pas pleinement les risques économiques de ces plans d’austérité, mais aussi les risques politiques. En somme nous assistons à des formes de putschs tout à fait légaux – et nous mesurons nos mots.

Voilà deux chefs de gouvernements qui sont débarqués par la pression des marchés autorité non élue avec l’aval d’États étrangers. Leurs gouvernements sont modifiés en dehors de tout appel aux citoyens par la voie d’élection. Élections qui sont remises à plus tard. Je ne parle pas ici du référendum qui est un gros mot en Europe. Puisque ces derniers sont soit interdits, soit contournés.

Les Danois et les Irlandais ont voté à plusieurs reprises pour dire oui à l’Europe, et la France a découvert le traité qu’elle a refusé sous la forme du traité de Lisbonne. Des gouvernements techniques ou d’union nationale sont rapidement constitués ou en voie de l’être. Mais si demain, si les fameux marchés qu’il faut rassurer, puisqu’ils sont les seuls interlocuteurs valables, ne retrouvent pas leurs comptes, qu’eux même ignorent parfois, alors ces mêmes gouvernements improvisés seront destitués. L’Histoire à des moments sombres nous avait pourtant appris que Munich ne pouvait être une référence souhaitable.

Mais que veut dire profondément l’austérité ? Elle ne signifie rien d’autre que deux choses : l’appauvrissement d’une nation contrainte de se séparer de sa richesse, une partie du capital des géants italiens Enel ENI va passer entre les mains des Chinois par exemple, le Pirée a connu le même sort pour les Grecs ; et aussi l’aggravation des inégalités de revenus, de patrimoine, pour ne citer que celles-ci.

Les marchés financiers ne se sont pas trompés, le sauvetage des banques avant toute chose, la mise au pain sec des citoyens sont autant de modifications du partage de la richesse. Tremblez gouvernements européens devant les autorités invisibles que sont les marchés, célébrez les technocrates et autres experts attitrés, licenciez vos peuples encombrants, promettez les larmes et le sang et vous serez dits courageux et dotés d’un sens de l’État. Les pays du Sud ont été moqués, leurs nouveaux gouvernements sont les modèles de l’Europe post démocratique. Et ne croyons pas que demain nous serons mieux lotis, l’élection présidentielle que nous allons vivre nous donnera peut-être la dernière occasion de mettre en scène la pièce démocratique.

Notre isoloir ne contient plus notre avenir mais bientôt les souvenirs défraîchis de ce que nous avons appelé la démocratie et que nous avons un peu stupidement cru à jamais acquise. Alors amusons nous une dernier fois en avril prochain, fêtons à la concorde au Fouquet’s , ou rue Solférino l’un des vainqueurs et attendons avec lui notre destitution prochaine.

Les Échos

mardi, 15 novembre 2011

Gabriele Adinolfi au Parlement Européen (9 novembre 2011)

Gabriele Adinolfi au Parlement Européen

(9 novembre 2011)

lundi, 31 octobre 2011

Da Giovane Europa ai Campi Hobbit

Da Giovane Europa ai Campi Hobbit

 

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

La narrazione della storia più recente è affidata soprattutto alla memorialistica, il cui peccato veniale – e limite spesso insuperabile – è l’autocompiacimento. Nel libro di Giovanni Tarantino, giovane storico palermitano e giornalista freelance (già redattore di EPolis e collaboratore del Secolo d’Italia, di cui è firma apprezzata), che le edizioni Controcorrente di Napoli hanno appena dato alle stampe, Da Giovane Europa ai Campi Hobbit (pp. 201, € 10), non ce n’è traccia.

 

Per l’autore, classe 1983, nessuna militanza politica alle spalle, gli anni tra il 1966 e il 1986 – «vent’anni di esperienze movimentiste al di là della destra e della sinistra», recita il sottotitolo – sono stati essenzialmente materia di studio e, non a caso, il saggio prende vita dalla sua documentata tesi di laurea in storia contemporanea. Una ricerca arricchita da testimonianze inedite, tutt’altro che facile da realizzare e anche per questo particolarmente preziosa, come certifica nella postfazione Luigi G. de Anna. La ricostruzione, senza ammiccamenti né omissioni, del cammino di più generazioni di militanti, in un dopoguerra che sembrava non finire mai, verso sintesi nuove che avrebbero consentito loro di farla finita con i miti incapacitanti, le parole d’ordine, tanto perentorie quanto anacronistiche, l’anticomunismo di maniera, il reducismo fine a se stesso e tutto l’armamentario, estetico ed estetizzante, del neofascismo italiano. Uscire dal tunnel del neofascismo, per dirla con una felice espressione coniata proprio dalla Nuova Destra, il movimento d’idee su cui Tarantino si sofferma con dovizia di particolari, sottolineando il filo rosso che lo lega ai “fratelli maggiori” della Giovane Europa, l’organizzazione fondata dal belga Jean Thiriart nel 1962. Con la “scoperta” dell’europeismo – l’Europa dei popoli, non certo quella dei banchieri – e il superamento del nazionalismo patriottardo, avviene una vera e propria mutazione antropologica e culturale prima ancora che politica. Se fino a quel momento, infatti, i neofascisti si erano limitati alla testimonianza di un mondo che non c’era più, in cui quel che contava era – come suggeriva Julius Evola – rimanere in piedi tra le rovine, con Giovane Europa facevano finalmente irruzione nell’attualità, uscendo dai vecchi recinti di appartenenza, senza complessi, scoprendosi parte integrante del proprio tempo.

 

«Proprio facendo riferimento al mondo giovanile dal quale queste realtà nascevano – sottolinea Tarantino – emergeva un dato fondamentale: le pulsioni di chi le animava erano assolutamente contestualizzate nell’ambito dei grandi fenomeni generazionali di due determinati periodi, il ’68 e il ’77, di cui hanno rappresentato espressioni compiute e legittime».

 

Il conservatorismo del Msi, intento a coltivare la rendita di posizione del partito d’ordine, fece sì che quella del ’68 divenne «un’occasione mancata» – come la definì Marco Tarchi –per i giovani di destra. Collocazione, quest’ultima, su cui nel libro di Tarantino si registra l’affettuoso «contrasto» tra il prefatore, Franco Cardini, e lo stesso Luigi G. de Anna, entrambi ex militanti di Giovane Europa e successivamente interlocutori privilegiati della Nuova Destra. «Eravamo ragazzi che avevano sbagliato collocazione», scrive nelle prime pagine lo storico fiorentino. «Noi, però, non fummo mai di sinistra», puntualizza il secondo, malgrado la pluralità di riferimenti non confinati al solito pantheon di autori di destra e la condivisione, con i coetanei di sinistra, dello spirito libertario della contestazione e l’infatuazione per icone “rivoluzionarie” come Che Guevara. Sta di fatto che il racconto sui due movimenti, sia pure diversi per contesto storico e ambizioni, non può certo esaurirsi tout court con la convenzionale collocazione storiografica nel solco dei gruppi neofascisti, o postfascisti che dir si voglia. L’insofferenza per l’ambiente di provenienza, del resto, era talmente forte da necessitare di un radicale cambio di mentalità, nuove forme di comunicazione – fumetti (autoironici come La voce della fogna) e radio libere – ma anche di strappi politici e simbolici. A cominciare dalla croce celtica, introdotta proprio da Giovane Europa e poi sventolata nei Campi Hobbit che si tennero tra il 1977 e il 1981, malgrado i vertici del Msi l’avessero dichiarata “fuorilegge”.

 

Tarantino nel libro cita, al riguardo, la spiegazione offerta da Gianni Alemanno, militante e poi segretario nazionale del Fronte della Gioventù: «Era la rottura con la vecchia cultura simbolica del partito – dice il sindaco di Roma – e l’affermarsi di un gramscismo di destra che prevedeva l’uso della metapolitica per conquistarsi la società civile». Mentre sull’Italia scendeva la nube della lotta armata, i ragazzi dei Campi Hobbit affilavano le armi della vivacità culturale, scatenando un’offensiva a tutto campo su temi innovativi: dalla musica “alternativa” alla scoperta dell’ecologismo, dal regionalismo – ben prima che nascesse la Lega – alla critica radicale all’occidentalismo e alle cosiddette esportazioni di democrazia.

 

Su quell’esperienza si è detto e scritto molto, troppo spesso nel tentativo di appropriarsi di un patrimonio che appartiene prima di tutto alle migliaia di ragazzi e ragazze che vissero quelle giornate in barba a ogni direttiva di partito o di corrente coniugando militanza e libertà. Così com’era accaduto per i giovani di Giovane Europa, coloro che parteciparono a quell’epopea sono cresciuti e hanno scelto strade diverse, spesso contrastanti. Il tentativo di sviluppare nuove sintesi si è dimostrato velleitario e il progetto è naufragato, ripiegando su una dimensione meramente intellettuale e impolitica. Un dato innegabile, tuttavia, emerge, pagina dopo pagina, dal lavoro dello storico palermitano: le esperienze e le elaborazioni della Giovane Europa, prima, e della Nuova Destra, poi, hanno fatto sentire i loro effetti nei decenni successivi rinnovando e “sdoganando” l’area politico culturale della destra italiana, contribuendo a creare una classe dirigente (non soltanto “di” e “a” destra) in grado di affrontare con maggiore consapevolezza e lucidità le complesse sfide della modernità.

 

* * *

 

Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, da Area di ottobre 2011.

dimanche, 09 octobre 2011

La Europa arqueofuturista de Adriano Romualdi,

La Europa arqueofuturista de Adriano Romualdi,

Alfonso Piscitelli

http://www.idpress.org/

http://adrianoromualdi.blogia.com

El carro de batalla y el rayo láser


Los treinta años de la muerte de Adriano Romualdi caen en un momento de discusión –quizá también de confusión– con respecto a la identidad cultural de Europa. A la civilización del Viejo Continente, Adriano dedicó densas páginas llenas de entusiasmo y de rigor cultural; hoy su intelecto –alcanzada la edad de la plena maduración cultural– habría supuesto un aporte determinate y una enorme contribución a la definición de un concepto de Europa que fuera una sístesis de tradición y modernidad. Una contribución decididamente superior a la de los políticos que asumiendo, la función improvisada de “padres constituyentes”, durante semanas se han deleitado a añadir y quitar renglones al soneto del “Preámbulo” de la Constitución europera. Obviamente, no tiene sentido imaginar qué podría haber sucedido si la más valiosa promesa de la cultura de Destra (¿sólo de Destra?) de la postguerra italiana no se hubiera extinguido en una autopista en agosto. Mayor sentido tiene constatar cómo una parte de la obra de Adriano haya sido en el fondo olvidada con el paso de los años, y cuántas intuiciones expresadas con un lenguaje todavía juvenil puedan hoy reaparecer en nuestro contexto.

Para Romualdi la idea de Europa y el intento de elaborar un nuevo mito del nacionalismo-europeo representaron la vía de escape del callejón sin salida en que se habían metido los movimientos patriotas (también los más revolucionarios) a través de las peripecias de dos guerras mundiales. Como historiador partía del presupuesto de que el año 1945 había supuesto una derrota para todas las nacionalidades europeas. No sólo los húngaros, también los polacos restituidos al más brutal de sus tradicionales opresores. No sólo los alemanes, también los rusos, que veían consolidado un régimen que en el fondo estaba ya moribundo en 1939 y destinado a una natural implosión. No sólo los italianos, también los franceses y los ingleses privados de sus imperios, reducidos al rango de potencias medianas, sinó nada menos que a Dominio(1). Todos los pueblos europeos habían sido sustancialmente humillados y miraban por primera vez a la cara el abismo de su abnegación cultural. Al gran mal, Romualdi contrapuso el extremo remedio de un retorno a la fuente primordial: la vanguardia política y cultural de Europa habría debido reconocer que las patrias con sus especifidades procedían de un origen, claramente distinto en su fisonomía desde la alta Prehistoria. En este sentido, las raíces debían estudiarse bajo un visión más profunda que la del racionalismo moderno o la del cristianismo medieval. Tarea de la antropología, de la lingüística, de la arqueología, de la historia en un sentido amplio, debería ser la de reconstruir el rostro de la tradición europea, mediante los más abanzados instrumentos de investigación científica.

En este punto llegamos a un segundo aspecto fundamental de la obra romualdiana. Adriano intuyó la necesidad estratégica de apoderarse del lenguaje, de los instrumentos, incluso de las conclusiones de la ciencia moderna occidental. De su relación con Evola extrajo su amor por el elemento arcaico, por todo aquello que en un pasado remoto era testigo de la pureza de un modo de ser todavía incorrupto. Sin embargo reaccionó enérgicamente a la sombra “guenoniana” del pensamiento tradicionalista: un comportamiento anticuado e incluso un poco lunático que en nombre de dogmas inmutables inducía a despreciar todo aquello que había cambiado en la historia de los últimos diez siglos, a despreciar las grandes creaciones del genio europeo moderno. De esta manera, mientras los guenonianos se perdian tras “metafísicas arabizantes” (la simpática definición es de Massimo Scaligero) y alimentaban interminables polémicas sobre la “regularidad iniciática” o sobre la “supremacía de los brahmanes”, Adriano Romualdi quiso dar una nueva definición del concepto de Tradición. La Tradición europea, como la entendió Romualdi, era algo dimánico: en ésta encuentran su lugar el mos maiorum (el patrimonio de los valores eternos), pero también la innovaciones tecnológicas. En el fondo, los antiguos indoeuropeos irrumpieron en la escena del mundo en carros de batalla, una extraordinaria invención de la época. Desde el principio los indoeuropeos se caracterizaron por sus innovaciones técnicas; y su concepción espiritual del mundo es tal de atribuir un significado superior a las mismas creaciones materiales. En India las ruedas del carro de batalla (los chakras) devienen el símbolo de los centros de energía vertiginosa que el yogini activa en su interioridad. En Grecia, el herrero, que forja las armas y otros objetos de hierro, deviene imagen del dios-ordenador del cosmos según la concepción platónica del demiurgos. En las modernas hazañas espaciales, en la audacia investigativa de la ciencia moderna, en el límpido estilo de las creaciones tecnológicas, Romualdi vislumbraba por lo tanto los frutos más maduros del genio europeo. Digamos la verdad, cuando nuestros amigos franceses de la Nouvelle Droite han empezado a valorar los estudios de sociobiología, la etología de Konrad Lorenz y los más heterodoxos estudios de psicología, no han hecho otra cosa que desarrollar un impulso ya dado por Adriano Romualdi. Y todavía más, cuando Faye ha lanzado la brillante provocación del Arqueofuturismo proponiendo reconciliar Evola y Marinetti, o dicho de otra forma las raíces más profundas de Europa y sus modernas capacidades científico-tecnológicas, en el fondo ha retomado un conocido tema de Romualdi. Quien haya leído El fascismo como fenómeno europeo recordará que Romualdi en el mismo caso de los fascismos distinguía el tentativo de defender los aspectos más elevados de la tradición con los instrumentos mas audaces de la modernidad. Mirando al futuro venidero que se anunciaba en los ambiguos años de la contestación, Romualdi advertía del riesgo que los europeos sucumbieran en la debilidad del bienestar, callendo como frutos demasiado maduros en el saco de los pueblos menos civilizados y más vitales ( leer el prefacio a Corrientes políticas y culturales de la Destra alemana). Sin embargo no despreció nunca los aspectos positivos de la modernidad europea y de la misma sociedad de bienestar construida en Occidente. Hoy probablemente se habría burlado de los intelectuales que dentro de la Destra han tentado de abrazar toscas utopias talibanas. Romualdi quería una Europa ancorada a su arké, y al mismo tiempo moderna, innovadora, a la vanguardia de la tecnología. Una Europa cuyos hombres sepan dialogar idealmente con Séneca y Marco Aurelio mientras conducen automóviles veloces, utilizan instrumentos de comunicación satelital, y hacen operaciones quirúrjicas con el láser. Esta imagen de Europa – esbozada en pocos años por Romualdi – queda hoy como el mejor “preámbulo” para un continente viejísimo y sin embargo todavía con orgullo.



Publicado en la revista italiana Area nº 82, julio-agosto 2003

jeudi, 29 septembre 2011

Der Staat in interiore homine: Die Staatskonzeption Giovanni Gentiles

Der Staat in interiore homine: Die Staatskonzeption Giovanni Gentiles

Giovanni B. Krähe

http://geviert.wordpress.com

Giovanni Gentile war bereits in den Jahren um den Ersten Weltkrieg eine Leitfigur des italienischen Geisteslebens. Als der Faschismus zum Regime wurde, wurde er im ersten Kabinett Mussolinis Erziehungsminister (Oktober 1922 – Juni 1924) und führte eine tiefgreifende Reform der Schulen und Universitäten durch (Canistraro 1982; Fossati 1998; Ragazzini 1998). Als persönlicher Vertreter Mussolinis verfasste Gentile die faschistische Staatslehre (Dottrina del Fascismo, 1928-1929) und leitete L’istituto fascista di cultura (1925), so dass er lange Zeit die führende Persönlichkeit der Intellektuellen blieb, die sich für den Faschismus entschieden hatten. Als die militärische Niederlage des Faschismus bereits offensichtlich war, hielt Gentile dem Regime Treue und nahm an der von Mussolini gegründeten Repubblica di Salò (1943-1945) teil, bis er am 15. April 1944 von kommunistischen Partisanen erschossen wurde. Nach Campi (2001) war der gewaltsame Tod von Gentile für die Kommunistische Partei Italiens notwendig, wenn sie eine neue politische Hegemonie nach dem Sturz des Faschismus durchführen wollte. Dieses hegemonische Projekt „era finalizzato ad imprimere al Partito comunista Italiano una base ideologica nazionale ed a sostituire l’egemonia crociano-gentiliana con quella marx-gramsciana …” (Campi 2001: 152). Die theoretische Grundlage der Staats-philosophie Gentiles und damit die Ideen über die Rolle des Staats als politische Institution wurden aber von Gentile formuliert, bevor der Faschismus als solcher existierte. Tatsächlich schrieb Gentile seine ersten politischen Schriften während des Ersten Weltkriegs. Seine Überlegungen über den Zusammenhang zwischen Philosophie und Politik hatten damals einen besonderen Stellenwert in Gentiles politischem Denken:

La realtà nota alla filosofia moderna è lo spirito inteso come quella realtà appunto che il filosofo attua filosofando … E però filosofare è precisamente conoscere (e quindi costruire) non una generica personalità politica e il sistema al quale essa può appartenere, ma la propria personalità attuale nel sistema della politica del proprio paese. E soltanto attraverso la determinatezza di questa individualità storica si fa strada l’universalità del concetto, a cui la filosofia oggi aspira (Gentile 1918d: 153-154).

Der Krieg, an dem Italien seit 1915 auf Seiten der Entente teilnahm, wurde von Gentile nicht als der Sieg oder die Niederwerfung konkurrierender Nationen, sondern als symbolisches Ereignis sowie moralische Pflicht aufgefasst, der sich niemand entziehen durfte. Der politische und geistige Zusammenschluss der Italiener, der in Friedenszeiten nicht möglich wäre, wurde nach Gentile durch die außergewöhnliche Anstrengung der Kriegszeit erreicht: „Politisches Endziel bleibt die Verpflichtung aller auf das nationale Interesse und insoweit die Schaffung einer einheitliche Gemeinschaft im Gegensatz zu einer zersplitterten Gesellschaft“ (Schattenfroh 1999: 101). Diese totalisierende Konzeption des Kriegsereignisses, die den Anstoß, so Gentile, zu einer politisch-moralischen Erneuerung des Lebens in Italien gibt, übernimmt eine integrative Funktion, indem das Schicksal jedes Einzelnen mit dem Schicksal der Nation verflochten wurde: Der Bürger wird mit seinem Staat durch den starken Charakter des Kriegserlebnisses politisch identifiziert und der Staat wird gleichzeitig durch Ontologisierung zum Garanten dieses Identitätsprinzips. Darin, dass Gentile dieses  Identitätsprinzip mit dem Kriegserlebnis als moralischer Pflicht gleichsetzt, liegt die erste Grundlage des Staatsbewusstseins als Garanten der Einheit zwischen Gesellschaft und Staat, d.h. als Stato etico (ethischer Staat) (vgl. Gentile 1918b: 13). Sowohl die Nationsidee als transzendente Einheit aller politischen Fraktionen (Gentile 1919a, 1919b), als auch die Tendenzen zum aktiven Veränderungswillen als  Handlungsmodell setzen sich in den ersten philosophischen Überlegungen Gentiles fort (vgl. Gentile 1918b: 17; 1918c).

 

In Gegensatz zur klassischen liberalen Staatskonzeption, die in der modernen gesellschaftlichen Entwicklung eine unterscheidbare sowie autonome Zivilgesellschaft sieht, integriert Gentile die Staatlichkeit als organische Leitidee in das Bewusstsein des Individuums. Daraus aber resultiert, dass der faktische Staat als politische Institution und damit sein Machtapparat den Einzelwillen nicht auflöst, insofern als der Staat als verinnerlichte soziale Institution ein Lebenszweck des Individuums wird:

Lo Stato non è inter homines, come pare, ma in interiore homine: non è niente di materiale, ma una realtà spirituale, che è in quanto vale; e vale nella coscienza del cittadino. Il quale non riconosce fuori di sé la società, di cui è parte, se non in quanto la instaura dentro di se medesimo, come parte essa stessa, della sua vita morale (Gentile 1919c: 113 Hervorhebung von mir).

Die These der Identität von Staat und Bürger leitet sich  aus den philosophischen Grundlagen der aktualistischen Ethik Gentiles ab. Die „Philosophie des Akts“ bzw. „der aktualistischen Idealismus“, kurz „Aktualismus“, fokussiert das Interesse auf die Struktur des menschlichen Geistes, der als Denkprozess betrachtet wird (Gentile 1987).

Auf einer erkenntnistheoretischen Ebene folgert Gentile tatsächlich alle Wirklichkeit aus der Tätigkeit des Denkens, indem die Außenwelt dem menschlichen Geist in Form des „absoluten Ichs“ zugesprochen wird (Gentile 1987: 18 ff.). Die Außenwelt als Produkt des menschlichen Geists wird aber in einem Subjektivismus nicht aufgelöst, insofern als das Verhältnis zwischen absolutem Ich und Individuum nicht unmittelbar ist. In Gegensatz zu den philosophischen Voraussetzungen des klassischen Idealismus, erweist sich der Aktualismus „als eine totalisierende Philosophie des menschlichen Tuns an sich“ (Schattenfroh 1999: 64), insofern als sich die Tätigkeit des denkenden Ichs nicht auf das Objekt, sondern auf den praktischen Akt des Willens, auf den „pensiero pensante“, stützt (Gentile 1987: 44).

Durch die zentrale Stellung des „reinen“ Akts als philosophisches Prinzip entsteht aber ein spezifisches Verhältnis zwischen dem „absoluten Ich“ Gentiles und dem Individuum: Das  „absolute“ Ich kann sich als Tätigkeit des Denkens eines partikulären Individuums nicht erweisen – wenn ja, würde daraus resultieren, dass die Erkenntnis der Außenwelt nicht total durch den Akt, sondern partial durch das relativistische Verhältnis Objekt-Subjekt, wie beim klassischen Idealismus geschehen würde. Im Vordergrund der Begriffsbildung Gentiles steht also der Mensch als solcher, nicht die konkreten Individuen. Gentile nennt individualistische Konzeptionen sowie ihre politischen Erscheinungsformen – Liberalismus und Sozialismus – unterschiedslos „Materialismus“, da sowohl eine abstrakt-theoretische Einheit (die Pluralität von Individuen), als auch ein Telos (der Kommunismus) von beiden Denkströmungen monistisch  vorausgesetzt werden:

L’idealismo assoluto e il materialismo storico sono tutti due monismi e per la forma e per la sostanza. Tutto è continuo divenire: monismo della forma. Tutto è essenzialmente idea … o materia, monismo della sostanza (Gentile 1957: 148).

Auf einer sozialphilosophischen Ebene sieht also Gentile nicht im dialektischen Prozess der verschiedenen individuellen Akte, sondern im Moment des menschlichen Willens als Akt des absoluten Subjekts die Entstehung der Gesellschaft. Am Ausgangspunkt der Staatskonzeption Gentiles wird die Pluralität von Personen ausgeklammert, da die Gesellschaftlichkeit mit der Universalität des aktualistischen Willens als überindividueller Wille gleichgesetzt wird. Die Individuen werden durch diesen überindividuellen Willen als Staat in interiore homine aufgelöst, der Spiegelbild des faktischen Staates ist.

Der faktische Staat ist aber für Gentile ständiger Prozess eines nie ganz vollendeten idealen Staates. Auf der Tendenz zur Einheit von Einzel- und Gemeinschaftswillen durch ein normatives Staatsmodell – den ethischen Staat -  beruht  der politische Charakter der Pädagogik Gentiles und dadurch die Rolle der kulturellen Sphäre in der Gesellschaft (Gentile 1925a, 1927). Der Zusammenhang zwischen Politik und Kultur, zwischen politischen Institutionen und gesellschaftlichen Zeichenpraktiken beruht auf der Möglichkeit, dass ein vollendeter ethischer Staat zu einem Erzieherstaat werden kann. Nach Gentile kann der Staat Bestand haben, wenn er ein kollektiv-einheitliches politisches Bewusstsein durch ein politisch-edukatives Programm ermöglicht (vgl.Gentile 1925b). In Gegensatz zum klassischen Liberalismus, der die freie individuellen Entfaltungsmöglichkeiten betont, hebt Gentile die Überwindung der Trennung von subjektivistisch-individueller sowie entpolitisierter „Kultivierung des Geistes“ und überindividuellem Willen als idealer Kulturstaat in interiore homine hervor:

E noi, in mezzo al popolo italiano e tra le scuole in cui esso ha incominciato a rinnovarsi e temprarsi al nuovo ideale della vita nazionale, vogliamo levare una bandiera che possa richiamare e raccogliere intorno a sé uomini di pensiero e uomini di azione in una società che faccia sentire al pensiero la sua immanente responsabilità pratica e all’azione la sua segreta scaturigine nei sentimenti che il pensiero educa e alimenta  (Gentile 1925a: 65; vgl. dazu 1918a).

Im Erzieherstaat als Schöpfer jeder Semantik in der Gesellschaft erschienen klar die hegemonischen Elemente von Gentiles Staatsideen. Durch die Überwindung der Trennung von Kultur und Politik/Staat wurde so das politisch-edukative Programm Gentiles zur Hegemoniekonzeption des italienischen Faschismus.


 

Fossati, Roberta (1998): Giovanni Gentile. In: Alberto di Bernardi/ Scipione Guarracino (Hrsg.): Il Fascismo. Dizionario di storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico. Milano: Mondadori.

Ragazzini, Dario (1998): Riforma Gentile. In: Alberto di Bernardi/ Scipione Guarracino (Hrsg.): Il Fascismo. Dizionario di storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico. Milano: Mondadori.

Schattenfroh, Sebastian (1999): Die Staatsphilosophie Giovanni Gentiles und die Versuche ihrer Verwirklichung im faschistischen Italien. Frankfurt a.M.: Peter Lang Verlag.

Gentile, Giovanni/Mussolini, Benito/ Volpe, Gioacchino (1932): Dottrina del Fascismo. In: Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti. Bd. XIV. Roma: Treccani. S. 847-884.

Gentile, Giovanni (1918a): L’unità della cultura. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 1-15.

-  (1918b): Il significato della vittoria. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd.  XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 5-18.

-  (1918c): Lo spettro bolscevico. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 27-30.

-  (1918d): Politica e filosofia. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 138-158.

-  (1919a): Stato e categorie. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 69-72.

-  (1919b): Ordine. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 31-34.

-  (1919c): L’idea monarchica. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 108-118.

-  (1919d): Liberalismo e liberali. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV.   2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 120-131.

-  (1925a): Discorso inaugurale dell’istituto nazionale fascista di cultura. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 17-37.

-  (1925b): Contro l’agnosticismo della scuola. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 39-43.

-  (1927): I propositi dell’istituto. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 77-81.

 -  (1957): La filosofia di Marx. Studi critici [zuerst 1899]. In: Giovanni Gentile. Opere. Bd. XVIII. Firenze: Sansoni.   

 -  (1987): Teoria generale dello spirito come atto puro [zuerst 1916]. 7., bearb. Aufl. In: Giovanni Gentile. Opere. Bd. III. Firenze: Le Lettere. S. 1-86.

Canistraro, Philip. V. (1982): Giovanni Gentile. In: Ders. (Hrsg.): Historical dictionary of Fascist Italy. Connecticut: Greenwood Press.Campi, Alesandro (2001): Giovanni Gentile e la RSI. Morte “necessaria” di un filosofo. Milano: Asefi.

jeudi, 18 août 2011

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

samedi, 13 août 2011

Julius Evola: Um pessimismo justificado?

Julius Evola: Um Pessimismo Justificado?

 
por Franco Rosados
Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/
MenAmongTheRuins.jpgFR: Você acredita que existe uma relação entre a filosofia e a política? Pode influenciar uma filosofia em uma iniciativa de reconstrução política nacional ou européia?
JE: Eu não creio que uma filosofia entendida em sentido estreitamente teórico possa influenciar na política. Para influenciar, necessita que encarne-se em uma ideologia ou em uma concepção do mundo. O que ocorreu, por exemplo, com a Ilustração, com o materialismo dialético marxista e com algumas concepções filosóficas que foram incorporadas à concepção de mundo do nacional-socialismo alemão. Em geral, a época dos grandes sistemas filosóficos conluiu-se; hoje não existem mais que filosofias bastardas e medíocres. Em uma de minhas obras passadas, de meu período filosófico, eu coloquei na dedicatória estas palavras de Jules Lachelier: "A filosofia, moderna, é uma reflexão que acabou por reconhecer a mesma impotência e a necessidade de uma ação que parta do interior." O domínio próprio de uma ação deste tipo tem um caráter metafilosófico. Daí, a transição que observa-se em meus livros, que não falam de "filosofia", senão de "metafísica", de visão do mundo e doutrinas tradicionais.
FR: Você pensa que moral e ética são sinonímicas e que tenham que possuir um fundamento filosófico?
JE: É possível estabelecer uma distinção, se por "moral" entende-se especificamente o costume e por "ética" uma disciplina filosófica (a chamada "filosofia moral"). Em minha opinião, qualquer ética ou qualquer moral que queira ter um fundamento filosófico de caráter absoluto, é ilusória. Sem referência a algo transcendente, a moral não pode ter mais que um alcance relativo, contingente, "social", e não pode resistir a uma crítica do individualismo, do existencialismo ou do niilismo. Eu demonstrei em meu livro Cavalgar o Tigre, no capítulo entitulado No mundo em que Deus morreu. Neste capítulo também abordei a problemática apresentada por Nietzsche e pelo existencialismo.
FR: Você crê que a influência do Cristianismo foi positiva para a civilização européia? Não pensa que ao ter adotado uma religião de origem semítica tenha desnaturalizado alguns valores europeus tradicionais?
JE: Falando de Cristianismo, muitas vezes usei a expressão "a religião que prevaleceu no Ocidente". Em efeito o maior milagre do Cristianismo é ter conseguido afirmar-se entre os povos europeus, inclusive tendo em conta a decadência em que caíram numerosas tradições destes povos. Não obstante, não faz falta esquecer os casos nos quais a cristianização do Ocidente foi exclusivamente exterior. Ademais, se o Cristianismo alterou, sem dúvida alguma, alguns valores europeus, também há casos nos quais estes valores ressurgiram do Cristianismo, retificando-o e modificando-o. De outro modo o catolicismo seria inconcebível em seus diferentes aspectos "romanos"; do mesmo modo seria inconcebível uma parte da civilização medieval com fenômenos como a aparição das grandes ordens cavalheirescas, do tomismo, certa mística de alto nível, por exemplo Mestre Eckhart, o espírito das Cruzadas, etcétera.
FR: Você considera que o conflito entre güelfos e guibelinos no curso da história européia seja algo mais que um simples episódio político e constituía um conflito entre duas formas de espiritualidade? Crê possível um recrudescimento do "guibelinismo"?
JE: A idéia de que as origens da luta entre o Império e a Igreja não foi somente uma rivalidade política, senão que esta luta traduziu a antinomia de dois tipos de espiritualidade, constitui o tema central de meu livro O Mistério do Graal e a tradição guibelina do Império. Este livro foi publicado em alemão e editar-se-á de pronto também em francês. No fundo, o "guibelinismo" atribuiu à autoridade imperial um fundamento de caráter sobrenatural e transcendente, algo que somente a Igreja pretendia possuir, o próprio Dante defende em parte a mesma tese. Assim, alguns teólogos guibelinos puderam falar de "religião real" e, em particular, atribuir um caráter sagrado aos descendentes dos Hohenstaufen. Naturalmente, com o império cristalizou um tipo de espiritualidade que não pode ser identificado com a espiritualidade cristã. Porém se estes são os dados do conflito güelfo-guibelino, está claro, então, que uma ressurreição do "guibelinismo" em nossa época é muito problemático. Onde encontrar, em efeito, as "referências superiores" para opor-se à Igreja, se isso não ocorre em nome de um Estado laico, secularizado, "democrático", ou "social", desprovido da concepção da autoridade procedente de cima? Já o "los von Rom" e o "Kulturkampf" do tempo de Bismarck tiveram somente um caráter político, para não falar das aberrações e da ficção de certo neopaganismo.
Evola-RAtMw.jpgFR: Em seu livro O Caminho do Cinabro, onde expõe a gênese de suas obras, admite que o principal defensor contemporâneo da concepção tradicional, René Guénon, exerceu certa influência sobre ela, ao ponto que definiram-te "o Guénon italiano". Existe uma correspondência perfeita entre seu pensamento e o de Guénon? E não crê, a propósito de Guénon, que certos entornos superestimam a filosofia oriental?
JE: Minha orientação não difere da de Guénon no que concerne ao valor atribuído ao Mundo da Tradição. Por Mundo da Tradição entende-se uma civilização orgânica e hierárquica na qual todas as atividades estão orientados pelo alto e para o alto e estão ligadas a valores que não são simplesmente valores humanos. Como Guénon, escrevi muitas obras sobre a sabedoria tradicional, estudando diretamente seus mananciais. A primeira parte de minha obra principal Revolta Contra o Mundo Moderno é precisamente uma "Morfologia do Mundo da Tradição". Também há correspondência entre Guénon e eu no que refere-se à crítica radical do mundo moderno. Sobre este ponto há não obstante divergências menores entre ele e eu. Dada sua "equação pessoal", na espiritualidade tradicional, Guénon assignou ao "conhecimento" e à "contemplação" a primazia sobre a "ação"; subordinou a majestade ao sacerdócio. Eu, ao contrário, esforcei-me em apresentar e valorizar a herança tradicional desde o ponto de vista de uma espiritualidade da "casta guerreira" e de ensinar as possibilidades igualmente oferecidas pela "via" da ação. Uma consequência destes pontos de vista diferentes é que, se Guénon assume como base para uma eventual reconstrução tradicional da Europa uma elite intelectual, eu, de minha parte, sou bastante propenso a falar de Ordem. Também divergem os juízos que Guénon e eu damos sobre o Catolicismo e a Maçonaria. Creio não obstante que a fórmula de Guénon não situa-se na linha do homem ocidental, que apesar de tudo, por sua natureza, está orientado especialmente para a ação.
Não pode-se falar aqui de "filosofia oriental", trata-se, em realidade, de uma modalidade de pensamento oriental que forma parte de um saber tradicional que, também no Oriente, manteve-se mais íntegro e mais puro que tomou o lugar da religião, porém que esteve difundido igualmente no Ocidente pré-moderno. Se estas modalidades de pensamento valorizam o que tem um conteúdo universal metafísico, não pode-se dizer que sejam superestimadas. Quando trata-se de concepção do mundo, faz falta guardar-se das simplificações superficiais. Oriente não compreende somente a Índia do Vedante, da doutrina do Maya, e da contemplação separada pelo mundo; também compreende à Índia que, com o Bhagavad Gita, deu uma justificativa sagrada para a guerra e para o dever do guerreiro; também inclui a concepção dualista e combativa da Pérsia antiga, a concepção imperial cosmocrática da antiga China, a civilização japonesa, tão distante por ser únicamente contemplativa e introvertida, onde uma fração esotérica do budismo deu nascimento à "filosofia" dos Samurais, etcétera.
Desgraçadamente, o que caracteriza o mundo europeu moderno não é a ação senão sua falsificação, quer dizer um ativismo sem fundamento, que limita-se ao domínio das realizações puramente materiais. "Está separada do céu com o pretexto de conquistar a terra", até não saber já o que é realmente a ação.
FR: Seu juízo sobre a ciência e sobre a técnica parece, em sua obra, negativo. Quais são as razões de sua posição? Não acredita que as conquistas materiais e a eliminação da fome e da miséria permitirão afrontar com mais energia os problemas espirituais?
JE: No que concerne o segundo tema que apresenta, dir-lhe-ei que, assim como existe um estado de embrutecimento devido à miséria, assim também existe um estado de embrutecimento devido ao bem-estar e à prosperidade. As "sociedades" do bem-estar, nas quais não pode-se falar de existência de fome e de miséria, estão longe de engendrar um aumento da verdadeira espiritualidade; mais bem, ali consta uma forma violenta e destrutiva de revolta das novas gerações contra o sistema em seu conjunto e contra uma existência desprovida de sentido, Estados Unidos-Inglaterra-Escandinávia. O problema consiste em fixar um limite justo, freando o frenesi de uma economia capitalista criadora de necessidades artificiais e liberando o indivíduo de sua crescente dependência da engrenagem social e produtiva. Faria falta estabelecer um equilíbrio. Até pouco tempo, o Japão deu o exemplo de um equilíbrio deste tipo; modernizou-se e não deixou-se distanciar do Ocidente nos domínios científicos e técnicos, inclusive salvaguardando suas tradições específicas. Porém hoje a situação é bem diferente.
yoga-power-julius-evola-paperback-cover-art.jpgHá um outro ponto fundamental a sublinhar: é difícil adotar a ciência e a técnica circunscrevendo-as dentro dos limites materiais e como instrumentos de uma civilização; ao revés, é praticamente inevitável que empapem-se da concepção do mundo sobre que baseia-se a moderna ciência profana, concepção praticamente inculcada em nossos espíritos pelos métodos de instrução habitual que tem, sobre o plano espiritual, um efeito destrutivo. O conceito mesmo do verdadeiro conhecimento vem assim a ser falseado totalmente.
FR: Você também falou de seu "racismo espiritual". Qual é o sentido exato dessa expressão?
JE: Em minha fase anterior, acredito necessário formular uma doutrina racial que teriam impedido que o racismo alemão e italiano concluíssem como uma forma de "materialismo biológico". Meu ponto de partida foi a concepção do homem como ser constituído de corpo, de alma e de espírito, com a primazia da parte espiritual sobre a parte corpórea. O problema da raça devia pois considerar cada um destes três elementos. Daí a possibilidade de falar de uma raça do espírito e da alma, ademais de uma raça biológica. A oportunidade desta formulação reside no fato de que uma raça pode degenerar, ainda permanecendo biologicamente pura, se a parte interior e espiritual morreu, minguou ou obscureceu,  se perdeu a própria força, como ocorre com alguns tipos nórdicos atuais. Ademais os cruzamentos, dos quais hoje poucas estirpes ficam fora podem ter como resultado que a um corpo de determinada raça estejam ligados em um indivíduo dado, o caráter e a orientação espiritual própria de outra raça, de onde deriva-se uma concepção mais complexa de mestiçagem. A "raça interior" manifesta-se pelo modo de ser, por um comportamento específico, pelo caráter, sem falar da maneira de conceber a realidade espiritual, os muitos tipos de religiões, de ética, de visões do mundo etcétera, podem expressar "raças interiores" bem ajustadas. Este ponto de vista permite superar muitas concepções unilaterais e ampliar o campo das investigações. Por exemplo, o judaísmo define-se acima de tudo nos termos de uma "raça" da alma, de uma conduta, única, observável em individuos que, desde o ponto de vista da raça do corpo, são muito diferentes. De outra parte, para dizer-se "ários", no sentido completo da palavra, não é necessário não possuir a mínima gota de sangue hebreu ou de uma raça de cor; faz falta acima de tudo examinar qual é a verdadeira "raça interior" ou seja o conjunto de qualidade que na origem corresponderam ao ideal do homem ariano. Tive ocasião de declarar que, hoje em dia, não deveria insistir-se demasiadamente no problema hebreu; em efeito, as qualidades que dominaram e dominam hoje em muitos tipos de judeus são, assim mesmo, evidentes em tipos "arianos", sem que nestes últimos possa-se invocar como atenuante a mínima circunstância hereditária.
FR: Na história da Europa, tem sido muitas as tentativas de formar um "Império Europeu": Carlos Magno, Frederico I e Frederico II, Carlos V, Napoleão, Hitler, porém ninguém logrou refazer, de maneira estável, o Império de Roma. Quais tem sido, segundo você, as causas destes fracassos? Pensa que hoje a reconstrução de um Império europeu seja possível? Se não, quais são as razões de seu pessimismo?
JE: Para responder, inclusive de maneira sumária, a esta pergunta, faria falta poder contar com um espaço maior que o de uma entrevista. Limitar-me-ei a dizer que os obstáculos principais, no caso do Sacro Império Romano, foi a oposição da Igreja, o início da revolta do Terceiro Estado, como no caso das Comunas italianas, o nacimento de Estados nacionais centralizados que não admitiam nenhuma autoridade superior e, por fim, a política, não imperial, senão imperialista da dinastia francesa. Eu não atribuiria, à  tentativa de Napoleão, um verdadeiro caráter imperial. Apesar de tudo, Napoleão foi o exportador das idéias da Revolução francesa, idéias que foram utilizadas contra a Europa dinástica e tradicional.
No que refere-se a Hitler, teria que fazer algumas reservar na medida em que sua concepção de Império baseou-se no mito do Povo, Volk = Povo-Raça, concepção que revestiu um aspecto de coletivização e exclusivismo nacionalista, etnocentrismo. Somente no último período do Terceiro Reich os pontos de vista estenderam-se, de uma parte graças à idéia de uma Ordem, defendida por alguns entornos da SS, de outra graças à unidade internacional das divisões européias de voluntários que combateram na frente oriental.
Pelo contrário, convém recordar o princípio de uma Ordem européia que existiu com a Santa Aliança, cuja decadência fiu imputável em grande parte à Inglaterra e também com o projeto chamado Drei Kaiserbund, nos tempos de Bismarck: a linha defensiva dos três imperadores que teria tido que englobar também à Itália, com a Tríplice Aliança e o Vaticano e opor-se às manobtas antieuropéias da Inglaterra e da própria América.
EvolaQSJ.jpgUm "Reich Europeu", não uma "Nação Européia", seria a única fórmula aceitável desde o ponto de vista tradicional para a realização de uma unificação autêntica e orgânica da Europa. Quanto à possibilidade de realizar a unidade européia desse modo, não posso não ser pessimista pelas mesmas razões que induziram-me a dizer que hoje, há pouco espaço para um renascimento do "guibelinismo": não há um ponto de referência superior, não existe um fundamento para dar solidez e legitimidade a um princípio de autoridade supranacional. Não pode-se em efeito descuidar deste ponto fundamental e conformar-se em recorrer à "solidariedade ativa" dos europeus contra as potências antieuropéias, passando por cima das divergências ideológicas. Inclusive quando chegara-se, com este método pragmático, a fazer da Europa uma unidade, sempre existiria o perigo de ver nascer, nesta Europa, novas contradições desagregadoras, em particular no que concerne às divergências ideológicas e e as causadas pela falta de um princípio de autoridade superior. Hoje é difícil falar de uma "cultura comum européia": a cultura moderna não conhece fronteiras; a Europa importa e exporta "bens culturais"; não somente no domínio da cultura, senão também no domínio do modo de vida, manifesta cada vez mais uma nivelação geral que, conjugada com a nivelação produzida pela ciência e pela técnica, providencia argumentos não aos que querem uma Europa unitária, senão aos que desejariam edificar um Estado mundial. Novamente, nos deparamos com o obstáculo constituído pela inexistência de uma verdadeira idéia superior diferenciadora, que deveria ser o núcleo do império europeu. Mais além de tudo isto, o clima geral é desfavorável: o estado espiritual de devoção, de heroísmo, de fidelidade, de honra na unidade, que deveria servir de cimento ao sistema orgânico de uma Ordem européia imperial é hoje, por assim dizer, inexistente. O primeiro a fazer deveria ser uma purificação sistemática dos espíritos, antidemocráta e antimarxista, nas nações européias. Sucessivamente, far-se-ia necessário poder sacudir as grandes massas de nossos povos com meios diferentes, seja recorrendo aos interesses materiais, seja com uma ação de caráter demagógico e fanático, que necessariamente, influiria na capa subpessoal e irracional do homem. Estes meios implicariam fatalmente certos riscos. Porém todos estes problemas são extremadamente difíceis de solucionar na prática; por outra parte, já tive ocasião de falar disso em um de meus livros, Homens Entre as Ruínas.

mardi, 26 juillet 2011

Hugo Pratt: gli occhi blu ferro dell'avventura

Hugo Pratt: gli occhi blu ferro dell'avventura

di Roberto Alfatti Appetiti

Fonte: Roberto Alfatti Appetiti (Blog) [scheda fonte]

 

Adulatori in vita e millantatori dopo la morte. Ogni grande attira su di sé questo esercito invisibile e minaccioso. Pronti a giurare: io c’ero. Amici (presunti tali), testimoni (per sentito dire), figure marginali che si reinventano protagonisti. Ombre in cerca di luce riflessa. Biografi di professione. Così, quando vieni a sapere che è in arrivo un libro su Hugo Pratt, pensi: un altro? C’è ancora qualcosa da sapere sul creatore di Corto Maltese – ti domandi - che non sia stato già ampiamente riferito, scandagliato nei programmi cosiddetti di approfondimento e soprattutto che non abbia raccontato egli stesso con quella sua straordinaria capacità affabulatoria?
La risposta, dopo aver letto Con Hugo (Marsilio, pp. 247 € 16,00), da pochi giorni nelle librerie italiane, è sì. Perché a scriverlo è Silvina Pratt, figlia del maestro. Perché sin da quando aveva diciotto anni ne ha tradotto le opere. Non per un favoritismo paterno. Certe espressioni dialettali veneziane per chiunque altro sarebbero risultate incomprensibili. Perché è la testimonianza autentica di chi ha conosciuto (bene) e amato (molto) l’altro Pratt, l’uomo.
Hugo? «Uno che parte, uno che appartiene agli altri» – letteralmente, visto che ai figli sono stati strappati i diritti d’autore – ma che rimane pur sempre un genitore. Affettuoso, certamente, ma anche inquieto. Scostante, di un’allegria che sa essere contagiosa quanto la tristezza. Di una vitalità dirompente, alternata a cupezze improvvise. «Con lui sembra di essere sulle montagne russe. Con i suoi occhi blu di ferro, acuti come scalpelli, riesce a far abbassare lo sguardo altrui. È consapevole del suo ascendente sugli altri – scrive Silvina – e non se ne rallegra, anzi a volte ne è furioso e triste». Meno longilineo ed elegante del suo alter ego “spirituale, di quel suo figliuolo di carta spedito in giro per il mondo all’alba del Novecento, ma – se possibile – persino più carismatico. «Sul palmo sinistro della mano – ha scritto Alberto Ongaro, curatore della prefazione del libro, parlando di Corto – ha ancora la cicatrice che indica una falsa linea della fortuna. In realtà, di fortuna ne ha avuto poca. Le cose che conquista gli sfuggono dalle mani così regolarmente che si ha il sospetto che sia proprio lui a lasciarsele sfuggire apposta. In realtà, l’unica cosa che gli importi è di recitare una parte nel mondo dell’avventura».
Quale migliore definizione anche per Pratt? Sempre con la valigia pronta e in fuga da se stesso, allergico ai legami e nient’affatto venale, innamorato, in fondo, soprattutto dell’avventura. «Mio padre era sempre pronto ad abbellire la verità. Voleva trasformare e correggere ogni cosa, il suo nome, il suo passato, la sua famiglia. La realtà doveva apparirgli troppo scialba». Troppo spesso distante: quando è lontano e quando c’è, immerso nei suoi sogni. Persino nella casa di famiglia a Malamocco, villaggio di pescatori all’estremità del Lido di Venezia, seduto per ore in silenzio a osservare il gioco delle onde che si infrangono sugli scogli. Tanto da far scrivere a Silvina: «Il più doloroso dei ricordi è la sua assenza».
Eppure non c’è traccia di amarezza nei confronti di Hugo, come lo ha sempre chiamato. Mai papà. «Nessuno dei suoi figli l’ha chiamato “papà”. Ci ho provato verso i quattro o cinque anni. Lui non dice niente, ma si volta di scatto, come se avesse preso la scossa. Per un “figlio della lupa”, nipote del fondatore del movimento fascista a Venezia, probabilmente è meglio diventare un “duro” il più presto possibile. Figlio unico, Hugo nutriva una grandissima ammirazione per gli uomini di famiglia. Soldato adolescente, partito per la guerra in Africa, ha visto suo padre Rolando, fascista, imprigionato e poi, malato, morire in un campo di prigionia sotto il sole d’Africa».
Silvina racconta anche di sua nonna Lina, la mamma di Hugo: «Conservava tanti ricordi della “sua” Africa, della “sua” Italia. Sopra il letto era possibile ammirare la foto in bianco e nero di suo marito in uniforme...». Del resto, anche il piccolo Hugo, arruolato dal padre nella polizia coloniale a soli quattordici anni, subirà il fascino di quelle divise. «Sono stati i soldati – spiega Silvina – a conferirgli la sua forma mentis. Gli anni trascorsi in un accampamento miserabile e sporco. Verso le sette di pomeriggio squillavano le trombe africane, mentre i colori della bandiera francese calavano dall’asta. Hugo aveva voglia di piangere. Al posto del blu, avrebbe voluto vedere il verde».
Per la guerra, comunque, nessuna nostalgia: «Ha distrutto la mia famiglia – ha raccontato lo stesso Pratt – come potrei amarla? Ho visto il dolore di mia madre, ho perso amici, come Sandro Gerardi, che si erano messi con i fascisti e sono stati uccisi dai partigiani. La guerra mi ha fatto maturare, comprendere cosa c’è dietro la politica e le ideologie, l’assurdità dei nazionalismi e dell’imperialismo». Con la fine delle ostilità, «finalmente arrivò la pace – ha ricordato in seguito Pratt con feroce ironia – e con la nuova generazione arrivò l’obbligatorio impegno per l’impegno. La parola avventura fu messa al bando. Non è mai stata ben vista, né dalla cultura cattolica, né da quella socialista. È un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro, porta scompiglio e disordine. L’uomo di avventure, come Corto, è apolide e individualista, non ha il senso del collettivo. Bisognava rispolverare Marx ed Engels, autori che mi annoiarono immediatamente. Venni subito accusato di infantilismo, di fascismo e di edonismo, ma soprattutto di essere evasivo, inutile come quegli scrittori che mi piacevano e che avrei dovuto dimenticare. Non ci riuscii e mi accorsi che c’erano parecchi altri che leggevano i narratori contestati. Alla fine ci riconoscemmo come una elite desiderosa di essere inutile».
Eppure quell’etichetta di fascista gli era rimasta appiccicata. Non che se ne facesse un cruccio. «Hugo mi diceva – riferisce Silvina – che i fascisti a quell’epoca, prima di Hitler, erano diversi». Rientrato in Italia, aveva aderito alla Rsi. E, ragazzetto, aveva assistito all'epopea della Decima Mas - dove pure aveva pensato di andare per “avventura” nel battaglione Lupo - e all'arrivo degli anglo-americani come alla resistenza antitedesca vicina agli alleati. Per poi seguire la sua vera e grande vocazione: il fumetto. A soli diciotto anni è tra i fondatori de l’Asso di Picche. A ventidue è già in Argentina, dove rimarrà per tredici anni, collaborando tra gli altri con Hector G. Oesterheld, futuro sceneggiatore dell’opera di fantascienza L’eternauta. Qui conosce la giovanissima Anne Frognier, di origine belga, che sposerà e diventerà madre di Silvina (e gli ispirerà “Anna della giungla”, la protagonista dell’omonima serie). Seconde nozze dopo quelle con Gucky Wogerer, la mamma di Lucas e Marina. E poi il Brasile, San Paolo. Londra. Il ritorno in Italia. La collaborazione con il Corriere dei piccoli. E alla fine degli anni Sessanta, dopo la chiusura di Sgt. Kirk – la rivista aperta nel 1967 con il genovese Florenzo Ivaldi, su cui pubblicherà i lavori argentini, la serie de Gli scorpioni del deserto, ambientata in Africa durante la seconda guerra mondiale, e la prima avventura di Corto Maltese, Una ballata del mare salato – il trasferimento a Parigi.
Su Pif, popolare settimanale francese di fumetti, pubblica ventuno storie brevi di Corto Maltese ma la collaborazione si interrompe bruscamente nel 1973, perché – lo racconta anche Silvina – «le tendenze libertarie di Corto non collimano con le direttive che orientano la rivista verso un’obbedienza di stampo comunista». Hugo preferisce lasciare e accettare le proposte della concorrenza: Casterman, l’editore di Hergé e del settimanale Tintin. Finalmente arriva il successo. Dalla Francia e ovunque cresce il mito di Corto Maltese e lo stesso Pratt diventa personaggio. Milo Manara – che del veneziano è stato amico e allievo – lo trasforma nel protagonista della serie H.P. e Giuseppe Bergman. Di lui dirà: «La sua capacità evocativa è talmente coinvolgente che il suo continuo avvicinarsi all’essenzialità grafica riesce addirittura ad aggiungere nuove suggestioni al disegno, invece di toglierne. In un disegno di Pratt si può stabilire l’ora in cui si svolge l’azione, l’intensità della luce, la violenza del sole, se c’è fresco, se c’è caldo».
L’ultima storia di Corto, Mu, è del 1988. «Non morirà – aveva dichiarato Hugo Pratt – se ne andrà perché in un mondo dove tutto è elettronica, è calcolato, tutto è industrializzato, non c’è posto per un tipo come Corto Maltese». Un po’ come ha fatto Pratt, quando – a metà anni Ottanta – si è ritirato a Grandvaux, presso Losanna, in una casa abbastanza grande da ospitare la sua infinita libreria e con una vista sul lago Lemano. Poco prima di morire – nell’agosto del 1995 a 68 anni – ha fondato insieme alla colorista Patrizia Zanotti la casa editrice Lizard, che edita l’intera opera del maestro, oltre a libri e saggi su Hugo Pratt, su Corto e i luoghi cari alla sua letteratura. E sempre la Zanotti, l’anno scorso, ha annunciato il possibile ritorno di Corto Maltese – in Francia – con storie nuove, forse già dal Natale 2009.
La realizzazione delle nuove avventure sarà affidata a autori “di grande personalità”. Sapranno restituire le stesse atmosfere di Pratt? Sarebbero piaciuti al maestro? Chissà. Per fortuna, sinora, ci è stata risparmiata una trasposizione cinematografica. Tempo fa la proposero a Gabriele Salvatores, l'autore di Mediterraneo, che declinò l’invito: «Ho rifiutato – ha spiegato il regista napoletano – perché il produttore voleva farlo diventare una specie di Indiana Jones. Preferisco lasciarlo navigare su quella sottile linea d’inchiostro e sognare un film su Corto Maltese scritto da Hugo Pratt e diretto da Sergio Leone. E forse, da qualche parte, quei due ci stanno lavorando».

 


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lundi, 25 juillet 2011

Storia della cultura fascista

Storia della cultura fascista

di Luca Leonello Rimbotti


Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

image.jpgÈ appena uscito un libro eccellente sul Fascismo e la sua importanza come moderno movimento rivoluzionario: non esitiamo a considerarlo un vero e proprio manuale di base, in grado di rompere gli steccati del conformismo vetero-ideologico e di porsi come strumento di contro-cultura di qualità: su di esso può essere ricostruita pezzo a pezzo tutta la storiografia del nuovo Millennio sul Fascismo. E con esso si può finalmente buttarsi alle spalle la lunga e avvilente stagione in cui a dominare la scena erano gli intellettuali codardi e opportunisti, i gestori della menzogna storica, i grandi camaleonti allevati in gioventù dal Regime, da questo messi in pista e poi, alla prova dei fatti, rivoltatiglisi contro come un groviglio di serpi rancorose, subito asservite ai nuovi padroni del dopoguerra. L’eccezionale uscita editoriale si chiama Storia della cultura fascista (il Mulino) di Alessandra Tarquini, una giovane ricercatrice di scuola defeliciana che già conoscevamo come ottima storica di Gentile e del gentilianesimo. Di questo libro bisogna parlare alto e forte. Deve essere da tutti conosciuto, studiato, divulgato. Non foss’altro per quella compostezza ed equanimità che, a distanza di quasi settant’anni dalla fine del Fascismo, è il minimo che si possa richiedere ad uno studioso di oggi.

Fatti i conti con i vecchi rottami della faida ideologica, appartenenti a una stagione ingloriosamente trapassata, la Tarquini passa in rassegna tutte le componenti che hanno costituito l’anima del movimento e del Regime fascisti: l’uno e l’altro sono da lei giudicati essenzialmente come soggetti politici rivoluzionari portatori di modernità e di cultura innovatrice. Viene così rovesciato l’assunto propagandistico di quanti avevano per decenni irriso il Fascismo, dicendolo privo di una sua originale ideologia, di una sua peculiare cultura, di una sua spinta modernizzatrice. La studiosa – in questa che è propriamente una storia della storiografia sul Fascismo – precisa che, per la verità, negli ultimi decenni già si erano avuti i sintomi di un generale ripensamento degli storici in materia. I tempi dei Quazza, dei Bobbio, dei Santarelli, dei Tranfaglia e compagni, una volta crollato il comunismo sovietico e prontamente liquidata la sbornia marxista che aveva dettato legge soprattutto negli anni Settanta, ha lasciato campo a posizionamenti più seri. Le boutade sul Fascismo reazionario e sul Mussolini pagato dai padroni capitalisti, le pedestri generalizzazioni sugli incolti picchiatori, tutte cose che comunque rimangono a testimonianza di un’atmosfera italiana popolata da studiosi sovente di rara bassezza qualitativa, vengono sostituite con l’analisi che oggi «gli storici hanno capovolto i loro giudizi e sono passati dal negare l’esistenza della cultura fascista al ricostruire i suoi diversi e molteplici aspetti considerandoli non solo importanti, ma addirittura decisivi per capire il fascismo».

Quando, negli anni Sessanta, uscirono gli studi capitali di Mosse e De Felice, la canèa antifascista fece di tutto per spingerli ai margini. Poi, mano a mano, si aprivano spiragli, si notavano marce indietro. Poterono così aversi i libri, per dire, di Isnenghi, Turi, Zunino, che, pur non rinunciando alla polemica ideologica anche fuori posto, tuttavia dimostravano che la repubblica delle lettere si stava rendendo conto che il Fascismo era stato un fenomeno ben più complesso che non “l’orda degli Hyksos” immaginata da Croce e sulla cui traccia si era gettata la muta degli storici marxisti o di scuola azionista. Poi, soprattutto dall’estero, arrivarono in successione un Gregor, uno Sternhell, un Cannistraro, ma specialmente poi un Griffin, e su questa scia si è potuta avere in Italia la densa produzione soprattutto di Emilio Gentile, ma anche di tutta una serie di nuovi storici, che nell’insieme hanno prodotto con risultati notevoli indagini anche minute sul Fascismo come combinazione di mito e organizzazione, di totalitarismo e modernità.

Intendiamoci, il rigurgito passatista è sempre dietro l’angolo: e ogni tanto ancora escono libri che sembrano scritti, e male, quarant’anni fa, e pur sempre i vecchi Tasca o Salvatorelli continuano qua e là a far pessima scuola. Ma, in generale, le nebbie si stanno diradando e il Fascismo comincia a vedersi riconosciuti alcuni tratti fondamentali. Che, come la Tarquini ben precisa, furono essenzialmente la modernità, la centralità del popolo e la cultura. Il tutto, incardinato sul principio del primato della politica, dette vita ad una autentica rivoluzione. Anzi, come la storica puntualizza, si trattò proprio di una sorta di rivoluzione conservatrice, che se da un lato proteggeva quanto di buono vi era nel tessuto sociale tradizionale, dall’altro si presentava con un massimo di proiezione sul futuro. Ciò che la Tarquini, riferendosi ad esempio a Sternhell, ha sottolineato nel senso che il Fascismo fu un fenomeno politico «dotato di una propria ideologia rivoluzionaria non meno coerente del liberalismo e del marxismo, che aveva espresso la volontà di creare una nuova civiltà e un uomo nuovo». Fu infatti anche una rivoluzione antropologica, un tentativo di rifare l’uomo accentuandone le disposizioni alla socialità e al solidarismo, infrangendo così sia l’individualismo liberale che la massificazione collettivista marxista.

La Tarquini riassume gli ambienti che erano alla base della concezione politica fascista: i “revisionisti” (guidati da Bottai, con elementi di spicco come Pellizzi);  gli “intransigenti” (con Soffici, Maccari, Ricci come punte di lancia); e i “gentiliani” (Cantimori, Spirito, Carlini, Volpicelli, Saitta fra gli altri). Tra queste posizioni si muovevano uomini ai limiti dell’una o dell’altra cerchia e talvolta si avevano passaggi non contraddittori, trasversali, come ad es. un Malaparte o un Longanesi, vicini sia a “Strapaese” che a “900″ di Bontempelli.

Grazie a questi gruppi venne assicurata la centralità del popolo nella visione del mondo fascista, il popolo come “pura forza”, cioè «un soggetto depositario di valori positivi», per il quale, come scrive la Tarquini, gli scrittori politici «si impegnavano nella società del loro tempo sostenendo la costruzione di un nuovo Stato nazionale e popolare». Qualcosa che accendeva la modernità. Le veloci pagine della studiosa ricordano che il Fascismo fu cultura, e anzi alta cultura, sin dagli inizi del Regime vero e proprio, con il “Manifesto degli intellettuali fascisti” voluto da Gentile nel 1925 e che vedeva schierati alcuni pesi massimi della cultura italiana del Novecento, fra i quali Pirandello, Volpe, Codignola, Ungaretti, Soffici, che si andavano ad affiancare ai D’Annunzio, il “primo Duce del Fascismo”, ai Marinetti, ai Cardarelli, ai Papini, etc. E siamo in attesa di qualcuno che ci dica quale altro regime si sia mai avvalso di una così potente schiera di aperti sostenitori.

Ma la Tarquini è anche originale, laddove traccia percorsi nuovi: ricordando l’influenza che il filosofo Giuseppe Rensi (in anni recenti al centro di un processo di rivalutazione, dopo un lungo oblìo) ebbe sul Fascismo e sulla sua idea di autorità; oppure sulla figura di Emilio Bodrero, storico della filosofia e docente alla Scuola di Mistica Fascista, secondo il quale, sin dal 1921, il Fascismo doveva «mobilitarsi come forza rivoluzionaria, per conquistare il potere e dare vita a un nuovo ordine politico».

La Tarquini ricorda anche l’avanguardismo giovanile, fulcro incandescente di elaborazione ideologica e di spinta rivoluzionaria il cui programma, sin dagli esordi del 1920, esprimeva un massimo di moderna socialità, dato che proponeva di «adeguare i programmi scolastici alle esigenze professionali dei ragazzi» e di «abolire il voto in condotta, di sostenere gli studenti più poveri e di rendere obbligatorio l’insegnamento dell’educazione fisica». E poi c’erano le donne. E che donne…da Ada Negri (prima donna nominata all’Accademia d’Italia, nel 1940), alla Deledda (che partecipò alla stesura del testo unico per le scuole medie), fino alla Sarfatti, regina incontrastata del modernismo fascista in politica, in letteratura e nelle arti.

E, a proposito dell’arte e della sostanza del Fascismo come «politicizzazione dell’estetica» e volontà di «socializzazione degli intellettuali» (e in campo artistico basti ricordare la passione fascista di un Sironi, di un Severini, di un Primo Conti, di un Piacentini, di un Terragni, etc.), l’autrice rammenta la presenza massiccia di artisti e letterati di primo piano nello squadrismo (Rosai, Maccari, Malaparte-Suckert, ma potremmo aggiungere lo stesso Marinetti, oppure Lorenzo Viani, Gallian, etc.), così come non manca di scrivere che l’enorme fermento ideologico e culturale messo in moto e catalizzato dal Fascismo si presentò, come avevano già indicato i vari Nolte, Mosse e Del Noce, come «un fenomeno politico figlio della modernità», così da «esprimere una forte spinta alla modernizzazione dell’economia, della società e della cultura». Il senso della missione dei giovani, il progetto di un destino comune, l’esaltante prospettiva di un popolo unito e socialmente avanzato furono il cuore dello sforzo culturale messo in campo dal Fascismo, che poté usufruire di un vero e proprio esercito di intellettuali d’alto e non di rado altissimo livello: ad un impietoso confronto, l’odierna incolta e rozza liberaldemocrazia mondiale – priva di intellettuali che superino il quarto d’ora di celebrità mediatica – ne esce distrutta.



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