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vendredi, 06 septembre 2013

Festa dei Cinghiali - Torino

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mercredi, 04 septembre 2013

Verso l’Eurasia da Dostoevskij a Limonov passando per i Cccp

Verso l’Eurasia da Dostoevskij a Limonov passando per i Cccp

di Luca Negri - Alfonso Piscitelli

Fonte: Barbadillo

limonov.jpgNell’ambito del progetto Eu-Rus vogliamo incontrare intellettuali italiani che si pongono il problema di un nuovo modello di civiltà europea, al di là del vecchio steccato tra Est ed Ovest. Il primo dialogo è con Luca Negri, firma della pagina culturale de Il Giornale, che nel suo ultimo libro (“Il ritorno del Guerin Meschino. Appunti per comprendere il nuovo Medio Evo”, Lindau) si impegna nella ricerca di quel modello. Come se fosse una post-moderna e cosciente “ricerca del Graal”.

Luca, in passato  hai scritto un libro sulla curiosa vicenda di un gruppo musicale filo-sovietico. Cosa ti ha portato a interessarti alla band CCCP?

Ho scritto un libro su Giovanni Lindo Ferretti, cantante, scrittore, leader del  gruppo punk chiamato  CCCP – Fedeli alla linea.

Anche comico “comunista” della banda di Arbore …

No quello era Ferrini.

Ah!

Sono cresciuto con le canzoni di Ferretti ed ho affrontato un percorso simile al suo: dall’estrema sinistra al cristianesimo. La sua parabola ben illustra le interazioni tra le due grandi chiese italiane: quella cattolica e quella comunista.

In effetti anche i Brigatisti Rossi nascevano come chierichetti.

I CCCP erano interessanti perché nei primi anni ’80, quando  tutti si ispiravano agli anglosassoni,  preferirono guardare ad Est: un gruppo di “punk filosovietico”  anche al di là del riferimento alla ideologia. Sentivano molto il fascino dell’Islam, della Cina, della Mongolia.

Cioè erano eurasiatisti  ante litteram?

 Sì. Il retro copertina del loro secondo album mostrava una carta geografica con al centro la Russia, a destra l’Asia e a sinistra l’appendice europea. Aggiungerei che erano affascinati dal mondo sovietico perché vedevano nella monumentalità del realismo socialista una residua traccia del Sacro ormai perso in Occidente.

Di lì a poco il sistema sovietico sarebbe crollato e sarebbe rinata la Russia delle sacre icone ortodosse.

 Quella Russia non era mai morta, perché  i semi gettati dai grandi pensatori russi come Dostoevskij continuavano a mettere radici  sotto la terra e a influenzare la grande cultura europea.

Tu approfondisci questi autori nel tuo libro “Il ritorno del Guerin Meschino. Appunti per comprendere il nuovo medio evo”.  Proprio Dostoevsky è un pensatore che affronta il problema tipicamente europeo del nichilismo. Quali le analogie e le differenze con Nietzsche?

Della questione si  occupò ampiamente Julius Evola.

Certo, in Cavalcare la Tigre.

In effetti, alcuni eroi “negativi” del romanziere russo sembrano anticipare il nichilismo di Nietzsche. I “demoni” o gli  “ossessi” di Dostoevskij  sono, in fondo, individualità con una grossa tensione spirituale, che però si muovono in un mondo in cui Dio è morto, in un’epoca in cui l’antica concezione del Dio posto al di fuori degli uomini e non nell’interiorità, sta tramontando. Ecco perché cercano disperatamente risposte che non arrivano  né dalla storia,  né dalla politica. Sono martiri inconsapevoli di un nuovo cristianesimo a venire. Finiscono tragicamente, come lo stesso pensatore tedesco, perché la loro carica spirituale non riesce a risolvere le contraddizioni. Uniche soluzioni sembrano il suicidio, l’idiozia,il terrorismo, la follia.

Le tendenze più tragiche della modernità sarebbero dunque episodi di un “interregno” tra la vecchia concezione religiosa e una nuova manifestazione del Sacro?

Il nichilismo è appunto come una notte oscura dell’anima, o come un’opera al nero alchemica. Bisogna guardarlo in faccia. Non può essere eluso, come pretendono le anime belle con appelli  sentimentali. Ma appunto, deve essere una, un passaggio, una verifica.

L’altro grande russo Tolstoj sembra più appartenere al mondo  delle ideologie sociali ed è stato considerato per certi aspetti un precursore del comunismo.

Tolstoj ha delle responsabilità nella riduzione del cristianesimo  a mera  etica umanitaria. Tolstoj comprese che il Vangelo di Cristo non può essere  ingabbiato dentro l’istituzione ecclesiastica (nel suo caso ortodossa) e deve diventare qualcosa di ancor più universale. Però non riuscì ad immaginare altro che una declinazione umanitaria, una vocazione  sociale a stare dalla parte degli ultimi. Cosa giusta di per sé, ma c’è tutto l’aspetto mistico, oserei dire magico, che rischia di perdersi in questo discorso . Quello che servirebbe è un punto d’equilibrio fra la tensione metafisica di Dostoevskij e quella  terrestre, di Tolstoj.

Un equilibrio tra vocazione celeste e terrestre. Mi viene in mente Florensky, che fu un grande mistico russo e uno dei principali scienziati del Novecento.

Pavel Florensky … anche detto il “Leonardo da Vinci” russo!  La  sua opera fu una sintesi di  teologia, filosofia, critica d’arte, matematica, scienza applicata. È come se fosse riuscito  a vedere tutto da una prospettiva superiore e unitaria. Fu sacerdote ortodosso e  martire del comunismo. Avrebbe potuto scappare in Francia, come molti altri, ma preferì sopportare le stesse sofferenze del suo popolo. I comunisti si servirono di lui e gli concessero un poco di libertà proprio perché non potevano fare a meno delle sue conoscenze ed abilità tecniche. Ma alla fine lo spedirono in un Gulag e lo fucilarono.

Un pensatore europeo che intravede un grande compito per lo Spirito Russo è Rudolf Steiner, il fondatore dell’antroposofia.

Steiner vedeva ad Est, in Russia il futuro della civiltà europea  e del cristianesimo. Dopo il cristianesimo romano nato con Pietro, quello luterano ispirato da Paolo, secondo Steiner arriverà il turno di quello slavo: il Cristianesimo di Giovanni …

 … di Giovanni che vede in Cristo il Logos che illumina il Cosmo.

Un cristianesimo  non troppo legato alle chiese, neppure a  quelle ortodosse, ma vivo nelle individualità. Ecco che i nomi fatti precedentemente, Dostoevskij, Tolstoj, Florenskij  ed altri come Soloviev Berdjaev, Merezkovski  ci appaiono veramente come precursori di questo cristianesimo futuro.

Nel tuo libro parli anche di Drieu La Rochelle, che alla fine della seconda guerra mondiale guardava alla Russia come il  polo di aggregazione di tutta l’Europa.

 Drieu La Rochelle, come Berdjaev e Florenskij, auspicava un nuovo Medioevo in alternativa all’individualismo dell’Occidente illuminista. Affidò prima le sue speranze all’ideologia fascista, poi assistendo alla disfatta militare, guardò, nei suoi ultimi giorni di vita, alla Russia di Stalin.

Vi è  però una grande differenza con i pensatori russi, che peraltro avevano sperimentato sulla loro pelle il bolscevismo: per loro la rinascita spirituale si sarebbe realizzata con il risveglio delle facoltà mistiche nell’umanità, a partire dai popoli slavi; Drieu invece era affascinato da  un potere autoritario  che imponesse dall’alto una nuova società. In questo senso, Berdjaev e Florenskij appaiono molto più moderni, maggiormente proiettati verso il futuro rispetto a Drieu  che rimane legate alle soluzioni di tipo giacobino. E fa riflettere il fatto che il francese abbia alla fine scelto la strada del suicidio, come un disperato personaggio di Dostoevskij …

Per finire, mi dai un parere su Limonov?

 Personaggio interessante con un trascorso a suo modo “punk” (e qui chiudiamo il cerchio aperto con Ferretti)  e con una  tensione metafisica che si sviluppa col passare degli anni. Può sembrare l’altra faccia di Putin: opposto e complementare. Se Putin incarna l’orgoglio nazionale, la  realpolitik e il sentimento di rispetto per la tradizione religiosa, Limonov mi sembra un uomo nuovo. O quantomeno un buon punto di partenza!

 


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vendredi, 30 août 2013

Rassegna Stampa: articoli in primo piano (agosto 2013)

italie,journaux,presse,médias,actualité,europe,affaires européennes

Rassegna Stampa:
articoli in primo piano (agosto 2013)

 

 



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jeudi, 29 août 2013

Emilio Gentile: Pour ou contre César?

Emilio Gentile: Pour ou contre César?


Pierre Le Vigan
Ex: http://metamag.fr

Pour-ou-contre-Cesar882.jpgEn 1938, le chanoine de Winchester écrivait que le totalitarisme, de droite ou de gauche, « c’est l’Antéchrist. C’est une révolution et une religion. » L’opposition entre le christianisme et le totalitarisme s’inscrit en fait à la suite d’une longue histoire. C’est le conflit entre religion et modernité. 

Première étape : la condamnation de l’esprit de libre examen au temps de Luther. Deuxième étape : la condamnation de la Révolution française comme volonté de déifier l’homme. Etape suivante : la condamnation de la volonté de déifier la nation, ou la race, ou la classe des prolétaires. Mais entretemps, il y a eu l’apocalypse de la modernité : la guerre de 1914. Elle a amené pour les églises un défi de type nouveau. Le nihilisme risquait de tout submerger. Et des religions de substitution apparaissent. 

Nicolas Berdiaev avait observé que le bolchévisme mobilisait des « énergies religieuses résiduelles ». Reinhold Niebhur parlait de son côté d’un « idéalisme politique aux implications religieuses ». Un constat parfaitement compatible avec la persécution des chrétiens affirmés par le bolchévisme. De ce point de vue, les choses étaient claires : en Russie, Lénine avait engagé une guerre sans merci contre la religion. Le plan quinquennal de 1927 se donnait 5 ans pour éradiquer ce qui restait de la religion. Explication : le communisme était une religion de la liquidation de toutes les religions, d’où l’anticommunisme réactionnel des églises chrétiennes dans les années 20 et 30.
 
Face aux autres totalitarismes, la situation était plus nuancée. « La confrontation entre le christianisme d’une part, et le fascisme et le national-socialisme d’autre part, fut d’un ordre différent et bien plus complexe. » note Emilio Gentile. D’un côté, fascisme et nazisme se voulaient un rempart contre le communisme, ennemi mortel des Eglises. D’un autre côté, ces totalitarismes anticommunistes tendaient à devenir des religions de substitution. En Italie, cette tendance s’affirma surtout à partir de 1937. A partir du moment où le Duce était présenté comme « la Providence vivante », les Catholiques ne pouvaient que constater l’impossibilité de « catholiser » le fascisme. « A considérer le principe totalitaire en lui-même en tant qu’énergie historique ayant sa loi propre, il apparait ainsi que ce principe enveloppe une aversion foncière des ordinations chrétiennes, aversion qui n’est rendue inefficace que dans la mesure où le totalitarisme est efficacement contrarié par l’opposition de la religion. » écrivait Jacques Maritain en 1936. Cet aspect n’a pas échappé à l’Eglise. Un rapport du Vatican de 1931 définissait et condamnait le nationalisme outrancier du régime de Mussolini comme une « religion civile ». Le fascisme est un « absolutisme païen » déclarait Francisco Luigi Ferrari. De son côté, don Sturzo résumait : « Communisme, fascisme et nazisme sont devenus une religion. » Une religion de l’anti-religion dans le cas du communisme, une contre-religion dans le cas du fascisme et du national-socialisme. « Il n’y a de différence vraiment marquante, écrivait don Sturzo, à savoir que le bolchévisme ou dictature communiste est le fascisme de gauche, tandis que le fascisme ou dictature conservatrice est le bolchévisme de droite. »
  
Le cas le plus manifeste de contre-religion fut le national-socialisme. Hitler exécrait l’universalisme du catholicisme mais admirait sa hiérarchie. D’un autre côté, il appréciait le caractère national du protestantisme allemand mais voulait l’unifier à son service. Quant à Jésus, il le définissait comme « notre grand chef aryen ». « En me défendant contre le Juif, je combats pour défendre l’œuvre du Seigneur. » disait-il encore. C’est dire qu’Hitler voulait plus nazifier le christianisme que l’éradiquer. Ainsi, il ne goûtait pas les rêves d’une religion antichrétienne d’Erich et Mathilde Ludendorff, de même qu’il ne soutint pas les idées d’Alfred Rosenberg, l’auteur du Mythe du XXe siècle et ne fut jamais convaincu que le mouvement dit de la « Foi Germanique » puisse avoir un grand avenir.
  
Face au totalitarisme nazi, les églises catholiques s’opposèrent tôt, avec la déclaration du curé de Kirschhausen (Hesse) en septembre 1930, déclarant qu’aucun catholique ne pouvait être membre du parti nazi. Il fut soutenu par sa hiérarchie et cette incompatibilité fut réaffirmée en première page de l’Osservatore romano le 11 octobre 1930. Le Concordat allemand de 1933 intervint avant tout comme une stratégie du gouvernement allemand pour liquider les restes de l’influence politique de l’Eglise. Le philosophe catholique Anton Hilckman dénonça radicalement le national-socialisme comme une « sacralisation du politique ». « Aucun doute ne peut subsister quant au caractère non seulement fondamentalement antichrétien, mais aussi fondamentalement antireligieux, au sens le plus large du terme, du mouvement hitlérien. » écrivait-il. 
 
Les relations entre le national-socialisme et le protestantisme furent plus complexes. Une partie des dirigeants des églises protestantes considéraient que préserver la « pureté de la race » faisait partie des devoirs envers Dieu. Les Chrétiens Allemands constituaient le fer de lance de cette tendance. Ils prônaient un « christianisme positif » purgé du judaïsme : un nouveau marcionisme, mais non pour opposer l’Amour à la Loi mais pour opposer la race au judaïsme.  A la pointe extrême de ces idées, on trouvait les thèses  du philosophe Ernst Bergmann sur « L’Eglise nationale germanique ». Mais pour le pasteur Richard Karwehl, le racisme est une divination de la race aryenne. Il est ainsi incompatible avec le christianisme. Un point de vue que l’on trouve aussi chez Paul Tillich et Karl Barth. Gerhard Leibholz parlait pour sa part de « confessionnalisation de la politique » à propos du nazisme. C’est qui donna lieu à la création de l’Eglise confessante, suite à la déclaration de Barmen, rassemblant les protestants rebelles à la mise au pas au sein de la nouvelle Eglise protestante du Reich. C’est George N. Shuster qui avait raison en voyant dans l’hitlérisme « la première expérience moderne de mahométisme appliqué ».L’hitlérisme se voulait une nouvelle religion, une « foi politique ». Une foi est toujours exclusive. Le conflit avec les religions instituées était alors inévitable. C’est ce que montre l’histoire des totalitarismes. Mais le missionnaire anglais Joseph H. Oldham n’avait pas tort de souligner qu’une certaine forme de totalitarisme pouvait aussi concerner les Etats démocratiques. La confrontation entre christianisme et modernité n’est donc pas terminée.

Emilio Gentile, Pour ou contre César ? Les religions chrétiennes face aux totalitarismes, Flammarion / Histoire, 482 pages, 28 Euros.

mercredi, 03 juillet 2013

LIBYE : L’Italie revient sur la « quatrième rive »

LIBYE : L’Italie revient sur la « quatrième rive »

L’art de la guerre

Dans sa rencontre avec le premier ministre Letta pendant le G8, le président Obama « a demandé un coup de main à l’Italie pour résoudre les tensions en Libye ». Et Letta, en élève modèle, a sorti de son cartable le devoir déjà fait : « un plan pour la Libye ». La ministre Bonino, fière de tant d’honneur, jure : « nous ferons le maximum, la Libye est un pays que nous connaissons bien historiquement ».Aucun doute à ce sujet. L’Italie occupa la Libye en 1911, en étouffant dans sang la révolte populaire, en utilisant dans les années 30 des armes chimiques contre les populations qui résistaient, en internant 100mille personnes dans des camps de concentration. Et, quand trente années plus tard elle perdit sa colonie, elle soutint le roi Idriss pour conserver les privilèges coloniaux. Idriss tombé, elle passa un accord avec Kadhafi pour avoir accès aux réserves énergétiques de la République libyenne mais, quand la machine de guerre USA/Otan s’est mise en marche en 2011 pour démolir l’Etat libyen, le gouvernement a déchiré, avec un consensus bipartisan du parlement, le Traité d’amitié signé trois années plus tôt avec Tripoli, en fournissant des bases et des forces militaires pour la guerre. Une histoire dont on peut être fiers. Qui continue avec le plan italien pour la « transition démocratique » de la Libye, où – comme même le Conseil de sécurité de l’Onu a été obligé de le reconnaître- se produisent « de continuelles détentions arbitraires, tortures et exécutions extra-judiciaires ». Se trouvent en jeu, explique Bonino, « non seulement l’intérêt des Libyens mais notre intérêt national » : d’où « le ferme engagement du gouvernement italien pour la stabilité du pays nord-africain ». Stabilité nécessaire à l’Eni et aux autres compagnies  occidentales pour exploiter, à des conditions beaucoup plus avantageuses qu’avant, les réserves pétrolifères libyennes (les plus grandes d’Afrique) et celles de gaz naturel (au quatrième rang en Afrique). Mais ce sont justement les champs pétrolifères qui sont  au centre des affrontements armés entre factions et groupes, dont la rivalité a explosé une fois l’Etat libyen démoli.

Le chef d’état-major libyen, Salem al-Gnaidy, a invité les groupes armés à se mettre sous le commandement de l’armée, disposée à accueillir « n’importe quelle force ». Mais ceci risque de faire exploser les affrontements à l’intérieur de l’armée, en grande partie encore à construire. L’Otan a convoqué à Bruxelles le premier ministre libyen Ali Zeidan pour établir les modalités d’entraînement de l’armée libyenne, qui -a précisé le secrétaire général Rasmussen- sera effectué « hors de la Libye ». En Libye, ceux qui tireront les marrons du feu, seront des envoyés militaires et des fonctionnaires italiens, accompagnés d’ « opérateurs humanitaires » militarisés. Personne ne sait combien coûtera cette opération, qui provoquera une nouvelle saignée d’argent public. Peu importe si augmente ainsi la dépense publique de l’Italie, qui se monte déjà à 70 millions d’euros par jour. L’essentiel est de « faire le maximum » pour que la coalition USA/Otan puisse contrôler la Libye, dont l’importance ne réside pas que dans sa richesse énergétique, mais dans sa position géostratégique dans l’aire nord-africaine et moyen-orientale. Confirmé par le fait –d’après une enquête du New York Times- que des armes des anciens arsenaux gouvernementaux sont transportées par des avions cargos qatari de la Libye à la base d’Al Udeid au Qatar, où sont déployées les forces aériennes du Commandement central étasunien, et de là envoyées en Turquie pour être fournies aux « rebelles » en Syrie. Une photo prise dans un dépôt des « rebelles » montre des caisses de munitions de 106mm pour canons sans recul M-40 et M-40 A1, avec une marque  attestant la provenance libyenne. Avec son plan pour la Libye, l’Italie contribue ainsi à la « transition démocratique » de la Syrie.

Manlio Dinucci

Edition de mardi 25 juin 2013 de il manifesto

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

 « Quatrième rive » était une expression de la période fasciste pour désigner la colonie italienne de l’époque, la Libye, qui venait s’ajouter aux trois autres rives -adriatique, tyrrhénienne et ionique- du territoire italien.

Manlio Dinucci est géographe et journaliste

mercredi, 19 juin 2013

Rassegna Stampa (06/2013-1)

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Rassegna Stampa:
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mardi, 18 juin 2013

La spiritualità di Marinetti

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La spiritualità di Marinetti: fra anticlericalismo, spiritismo e cristianesimo

Giovanni Balducci

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

È noto come il Programma sansepolcrista del 1919 fosse fortemente anticlericale e presentasse addirittura un piano di “svaticanizzazione” dell’Italia mediante il sequestro di beni e l’abolizione dei privilegi ecclesiastici. All’adunata di piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919 a Milano partecipa anche Filippo Tommaso Marinetti in qualità di leader del Partito Politico Futurista.

L’anticlericalismo di Marinetti ben si sposa con quello del movimento fascista, anzi è ancor più radicale di quest’ultimo, come si evince dal manifesto “Contro il Papato e la mentalità cattolica, serbatoi di ogni passatismo”, sempre del 1919, in cui il poeta propone di: «Sostituire all’attuale anticlericalismo retorico e quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso, per sgomberare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico che potrà scegliere una terra adatta ove morire lentamente».

aeroplano-del-papaTali dichiarazioni non fanno altro che confermare quanto già espresso da Marinetti ne L’aeroplano del Papa, pubblicato nel 1912, in cui il padre del Futurismo predicava la necessità di «svaticanare l’Italia» e – in tempi non sospetti – di muovere guerra alla bigotta Austria.

Ma il violento anticlericalismo marinettiano è ben visibile in nuce già nel celebre Manifesto futurista del 1909, così pregno di quel dinamismo anarchico ed antitradizionale che sarà la cifra essenziale del movimento futurista, dal quale prenderà il via una nuova e rivoluzionaria stagione culturale, e che rappresentò, ça va sans dire, l’antecedente storico non solo di tutta l’arte a venire, ma anche di un nuovo modo di intendere la vita veloce e disinvolto.

Coevo al Manifesto del Futurismo è il “Manifesto politico per le elezioni del 1909” in cui Marinetti faceva professione di nazionalismo, anti-pacifismo, anti-socialismo ed anti-clericalismo. Dello stesso anno è anche l’incendiario romanzo Mafarka, il futurista, che gli valse un processo per oltraggio al pudore. Pervaso da suggestioni nietzscheane ed anti-romantiche, il romanzo culmina con la generazione da parte del protagonista di un essere dalle fattezze di uccello meccanico, stante a simboleggiare la volontà di potenza ed il genio creativo dell’artista, temi cari al filosofo della “morte di Dio”.

mafarkaA proposito delle concezioni antimetafisiche di Marinetti, Julius Evola – che di metafisica, invece, campava – ricorderà nella sua autobiografia di quando il poeta, dopo aver letto un suo scritto, gli disse chiaro e tondo che le proprie idee erano lontane dalle sue più di quelle di un esquimese. Ma si sa, quando non si crede più nella trascendenza, si finisce spesso col credere a tutto: così fu anche per Marinetti, che come molti altri positivisti della sua epoca – pensiamo a Cesare Lombroso, e alla sua passione per i tavolini traballanti – prese a frequentare medium e spiritisti, stringendo amicizia, tra l’altro, con la sensitiva e poetessa triestina Nella Doria Cambon, confidente, per altro, anche di Svevo e di D’Annunzio.

Ma il vitalismo di cui è pervasa l’intera opera marinettiana non è esente da influenze misticheggianti: quella di Marinetti è però una “mistica della materia”, infatti, il movimento, l’azione, il dinamismo, per Marinetti, non sono che espressioni di quell’energia bergsonianamente intesa come frutto di uno slancio vitale che spinge la materia ad evolversi. Egli stesso affermava che ogni sera era solito inginocchiarsi e pregare di fronte alla lampadina del proprio comodino, perché in essa circolava la “divina velocità”.

venezianellaCon l’avanzar degli anni, nondimeno, farà ritorno alla fede cattolica. Negli anni ’30 promuove addirittura il movimento dell’“arte sacra futurista”, sostenendo che: «Solo gli artisti futuristi, che da vent’anni impongono nell’arte l’arduo problema della simultaneità, possono esprimere simultaneamente i dogmi simultanei del culto cattolico, come la Santa Trinità, l’Immacolata Concezione e il Calvario di Dio».

I suoi ultimi scritti, del 1944, sono “L’aeropoema di Gesù”, dove canta con enfasi palinodica «l’illusione di essere di metallo, mentre si è solo povera carne piangente», ed il “Quarto d’ora di poesia per la X Mas” – scritto poche ore prima di morire – in cui pare destreggiarsi tra il ritrovato amore per Dio e la passione per l’azione che l’accompagnò per tutta la vita: «Non vi grido arrivederci in Paradiso – dirà ai combattenti della X – ché lassù vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti dunque autocarri avanti».

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mardi, 11 juin 2013

Centro Studi La Runa

Centro Studi La Runa

Ultimi articoli pubblicati

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Giovanni Balducci, Le Dictionnaire infernal: una curiosa operetta del XIX secolo

 
 

Emilio Michele Fairendelli, Resteranno sul tuo cuore

 
 

Alfonso Piscitelli, Dal Tradizionalismo del Novecento alla Geopolitica del XXI Secolo. Parte IV

 
 

Julius Evola, Le baron von Ungern vénéré dans les temples mongols

 
  Alfonso Piscitelli, Dal Tradizionalismo del Novecento alla Geopolitica del XXI Secolo. Parte III  
  Michele Fabbri, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del Settecento  
  Giovanni Balducci, La spiritualità di Marinetti: fra anticlericalismo, spiritismo e cristianesimo  
  Aleister Crowley, Liber Librae  
  Alfonso Piscitelli, Dal Tradizionalismo del Novecento alla Geopolitica del XXI Secolo. Parte II.  
  Robert Steuckers, I temi della geopolitica e dello spazio russo nella vita culturale berlinese dal 1918 al 1945  
  Alfonso Piscitelli, Dal Tradizionalismo del Novecento alla Geopolitica del XXI Secolo. Parte I.  
  René Guénon, Il simbolismo del Graal  
  Jean Haudry, Les Indo-Européens et leur tradition  
  Francesco Lamendola, Viaggi della speranza o viaggi dell’improntitudine?  
  Adriano Romualdi, Actualidad de Evola  
  Mario Enzo Migliori, I grandi testi della Lingua Etrusca – tradotti e commentati  
  Alberto Lombardo, I medaglioni della necropoli di Chiavari  
  Francesco Lamendola, Malinconia e platonismo nel ‘Sogno di una notte di mezza estate’ di Shakespeare  
  Giovanni Balducci, Sul domandare metafisico  
  Robert Steuckers, La voie celtique

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L'architettura razionalista

dimanche, 02 juin 2013

Calabria Fest 2013

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vendredi, 10 mai 2013

Italia sotto attacco

Italia sotto attacco

Marco della Luna: quinte colonne della finanza internazionale presenti nel governo

Federico Dal Cortivo

Federico Dal Cortivo ha intervistato Marco Della Luna, autore del libro “Traditori al governo? Artefici, complici e strategie della nostra rovina”. L’Italia è oramai da anni sotto attacco, non militare, non ve ne è bisogno essendo la penisola dalla fine della Seconda Guerra Mondiale occupata militarmente dagli Stati Uniti, ma economicamente.Gli obiettivi fin troppo chiari: distruggere completamente il sistema Italia che era fatto anche d’imprese anche a partecipazione statale, lo Stato sociale, le regole del mondo del lavoro, la previdenza pubblica e la sanità, la scuola e l’università dello Stato e infine mettere le mani sul nostro patrimonio economico, colonizzando definitivamente la penisola.
 
Avv. Della Luna lei ha recentemente pubblicato un saggio da titolo eloquente, “Traditori al governo”, nel quale analizza in modo esauriente le dinamiche e i personaggi che hanno portato la nostra nazione al punto in cui si trova oggi dopo l’ultimo governo tecnico di Mario Monti . Quali sono stati a suo avviso i passaggi fondamentali che ci hanno portato alla situazione attuale di grave crisi economica?
Le principali tappe della rovina voluta, e finalizzata a dissolvere il tessuto produttivo del Paese, desertificandolo industrialmente e assoggettandolo alla gestione via centrali bancarie fuori dai suoi confini, onde farne territorio di conquista per capitali stranieri, sono i seguenti:
- la progressiva e totale privatizzazione-divorzio dal Ministero del Tesoro della proprietà e della gestione della Banca d’Italia, con l’affidamento ai mercati speculativi del nostro debito pubblico e del finanziamento dello Stato (operazione avviata con Ciampi e Andreatta negli anni Ottanta);
- l’immediato, conseguente raddoppio del debito pubblico (da 60 a 120% del pil) a causa della moltiplicazione dei tassi, e la creazione di una ricattabilità politica strutturale del Paese da parte della finanza privata;
- la svendita agli amici/complici e ai più ricchi e potenti, stranieri e italiani, delle industrie che facevano capo allo Stato e che erano le più temibili concorrenti per le grandi industrie straniere;
- la privatizzazione, con modalità molto “riservate”, ma col favore di quasi tutto l’arco politico, della Banca d’Italia per mezzo della privatizzazione delle banche di credito pubblico (Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Banca Nazionale del Lavoro, Credito Italiano, con le loro quote di proprietà della Banca d’Italia);
- la riforma Draghi-Prodi che nel 1999 ha autorizzato le banche di credito e risparmio alle scommesse speculative in derivati usando i soldi dei risparmiatori e alle cartolarizzazioni di mutui anche fasulli, come i subprime loans americani;
- l’apertura delle frontiere alla concorrenza sleale dei Paesi che producono schiavizzando i lavoratori e bruciando l’ambiente;
- l’adesione a tre successivi sistemi monetari – negli anni Settanta, Ottanta e Novanta – che impedivano gli aggiustamenti fisiologici dei cambi tra le valute dei paesi partecipanti – anche l’Euro non è una moneta, ma il cambio fisso tra le preesistenti monete – con l’effetto di far perdere competitività, industrie e capitali ai paesi meno competitivi in favore di quelli più competitivi, che quindi accumulano crediti verso i primi, fino a dominarli e commissariarli.
Da ultimo, le misure fiscali del governo Monti-Napolitano-ABC, che, tra le altre cose, hanno depresso i consumi,hanno messo in fuga verso l’estero centinaia di miliardi, svuotando il Paese di liquidità; hanno distrutto il 25% del valore del patrimonio immobiliare italiano, paralizzato il mercato immobiliare così che imprese e famiglie non possono più usare gli immobili per ottenere credito, e l’economia è rimasta senza liquidità, con insolvenze che schizzano al 30% e oltre..
 
Nel suo libro lei parla senza mezzi termini di “tradimento”, di quinte colonne che, neppure camuffate, operano all’interno dei governi per agevolare l’opera di conquista economica, che si traduce anche in politica, dell’Italia. Personaggi che devono avere dei requisiti ben precisi a suo avviso, ce ne può parlare?
Ma io nego che siano definibili “traditori”. Sono piuttosto definibili “nemici”, perché fanno gli interessi stranieri contro quelli nazionali, in modo scoperto. Definisco traditori, invece, i dirigenti dell’ex PCI che sono passati al servizio del capitalismo finanziario sregolato e collaborano con esso alla costruzione di una società e di un nuovo ordinamento nazionale e mondiale al servizio di esso, tradendo il loro elettorato. A dirla tutta, però, non ci sono nemici né traditori: l’Italia è un Paese tanto radicalmente mal assortito e tanto irrimediabilmente entropizzato, che l’unica cosa che razionalmente se ne può fare è ciò che quei signori ne stanno facendo, lasciando ai giovani, ai ricercatori, agli imprenditori la possibilità di emigrare verso paesi più funzionanti. Quindi sono assolti, anche moralmente.
 
Ci dica di Mario Monti e dell’altro Mario, quel Draghi che regge la BCE. Ambedue hanno prestato i loro servizi… alla stessa banca d’affari, la Goldman Sachs. A quali poteri, economici e non, rispondono realmente questi figuri? Per il primo si può ipotizzare oggi il reato di Alto Tradimento?
Per quali interessi lavorino è nella loro storia obiettiva… non è un mistero. Ciò vale anche per Romano Prodi, altra carriera con Goldman Sachs: quando non era suo advisor, era al governo e la nominava advisor del governo per le privatizzazioni… pensiamo specialmente a quella della Banca d’Italia… sono tutte storie di vita e lavoro convergenti… dirlo ieri poteva suonare ardito e fantasioso, dirlo oggi suona per contro ovvio. Il reato di alto tradimento, previsto dall’art. 77 del Codice Penale Militare di Pace, presuppone che l’autore del fatto sia un militare; altra ipotesi di questo reato è quella enunciata dall’art. 90 della costituzione, in relazione al solo capo dello Stato. Quindi un civile in generale, e in particolare un premier, può commettere il reato di alto tradimento solo in concorso o con un militare o col capo dello Stato. Altrimenti, a un civile diverso dal capo dello Stato si possono ipotizzare altri reati, di attentato alla Costituzione e all’indipendenza della Repubblica, commessi con la violenza consistita nel sottoporre il Paese e il popolo a gravi sofferenze e minacce economiche per indurlo a modificare il suo ordinamento costituzionale e a cedere la sua sovranità sancita dall’art. 1 della Costituzione.
 
E veniamo al Presidente Giorgio Napolitano, ha favorito la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, posto sotto ricatto dalla famosa lettera della BCE ,con la quali si ordinava all’Italia di prendere tutta una serie di misure antisociali per favorire i “mercati”. Che ruolo ha avuto e ha tutt’ora colui che fin dai tempi del PCI aveva ottimi rapporti con gli Stati Uniti e quali sono i suoi legami con i poteri finanziari e massonici?
Dico che non so se e che legami abbia coi poteri finanziari forti e con le massonerie. E direi così anche se li conoscessi. Quando si parla di un presidente della Repubblica, bisogna stare attenti. A meno che si parli da un Paese estero, sotto la protezione di un’altra bandiera. Da dove sono, posso dire che egli si intende di macroeconomia, quindi capiva e capisce ciò che stava e sta avvenendo, e che effetti hanno certe manovre.
 
Per un attimo un passo indietro, certe cose non sono solo di oggi come lei ben saprà. Come giudica i precedenti governi, sia di centrosinistra sia di centrodestra, che nulla hanno fatto per tutelare gli interessi nazionali negli ultimi decenni? Si potrebbe, a suo avviso, far partire la loro “negligenza” (ma meglio starebbe il termine “tradimento” degli interessi nazionali) da quella famosa riunione a bordo del panfilo reale Britannia al largo di Civitavecchia nel giugno 1992?
 
Facendo seguito alla mia prima risposta direi che la partitocrazia italiana, complessivamente, dalla fine degli anni ‘70, lavora per rendere il Paese territorio di conquista per i capitali stranieri, come ho già detto. Ciò ha fatto e sta facendo soprattutto la sinistra sotto la copertura di due concetti, quelli del riformismo e dell’europeismo.
 
E veniamo alla cura proposta dalle teste d’uovo di Bruxelles, del FMI e dalla BCE: pareggio di bilancio, privatizzazioni, tagli alla sanità, alla scuola, alle pensioni, riforma del lavoro ecc. Queste cose dove sono state messe in pratica non hanno certo portato prosperità per i popoli, bensì solo per i cosiddetti mercati, che non sono di certo un entità aliena. Ce ne può parlare?
La parola “riformismo”, di cui tutti si riempiono oggi la bocca, ha avuto, dopo la metà degli anni ‘70, un’inversione di significato: dapprima, dalla seconda rivoluzione industriale, e anche nella Carta Costituzionale del 1948, e ancora nello Statuto dei Lavoratori, “riformismo” significava riforma della proprietà agraria per porre fine allo sfruttamento dei contadini da parte dei latifondisti; significava diritti sindacali, previdenziali e di sciopero per por fine allo sfruttamento degli operai da parte dei grandi imprenditori; significava contrastare le sperequazioni di reddito, diritti e opportunità tra lavoratori e capitale finanziario; significava consapevolezza del crescente strapotere delle corporations e del capitalismo rispetto ai cittadini, ai lavoratori, agli elettori, ai risparmiatori, ai piccoli proprietari, degli invalidi (uno strapotere che oggi è moltiplicato dalla globalizzazione e dal carattere apolide della grande finanza). Era un riformismo per la solidarietà, l’equa distribuzione delle opportunità e del reddito, l’accessibilità al lavoro e alla proprietà privata. Da tutto ciò l’art. 1 con la Repubblica fondata sul lavoro; l’art. 3 con la parità dei cittadini e l’obbligo di rimuovere gli ostacoli anche economici che, di fatto, limitano questa parità; gli artt. 35-40 con la tutela del lavoro; l’art. 41, che vieta l’iniziativa economica che sia contro l’interesse sociale o la sicurezza e dignità umane, stabilendo che la legge possa indirizzarla ai fini collettivi; l’art. 42 che assicura le funzioni sociali della proprietà; l’art. 43 che prevede l’esproprio nel pubblico interesse; etc.; fino all’art. 47, che tutela il risparmio, e non le maxifrodi ai danni dei risparmiatori, e i bonus e le cariche pubbliche in favore di chi le ordisce.
Dalla fine degli anni ‘70, “riformismo” ha preso a significare esattamente l’inverso, ossia la demolizione di tutto quanto sopra al fine, dichiarato, di togliere ogni limitazione alla possibilità di azione e profitto del capitale finanziario, della proprietà privata, della privatizzazione di beni e compiti pubblici, sul presupposto che ciò genererà più ricchezza, più equità, più produzione, più occupazione, più libertà, più stabilità, più razionale allocazione delle risorse. Con i risultati che vediamo: crescente estrazione della ricchezza prodotta dalla società da parte di cartelli e oligopoli multinazionali, anzi soprannazionali. È la linea, come dicevo, della scuola economica di Chicago, del Washington Consensus, della CIA, di Thatcher, Reagan, etc. E dell’europeismo. Ma nonostante questi risultati, i vari Monti, Draghi, Rehn, Merkel e compagnia bella non fanno che ripetere che bisogna continuare sulla via delle riforme, altrimenti non c’è speranza, e se qualcosa non funziona, è appunto perché le riforme non sono state abbastanza risolute e complete. In realtà personaggi come la Merkel non sono tanto ottusi da non capire che il modello è radicalmente sbagliato e devastatore, ma alcuni paesi, Germania in testa, traggono vantaggio da esso in quanto la sua applicazione colpisce in modi diversi quei medesimi Paesi e altri, come l’Italia; e l’effetto di tale diversità è che esso, come già detto, spinge capitali, imprese e lavoratori qualificati a trasferirsi nei Paesi più forti, depauperando i più deboli ed eliminandoli come concorrenti. Se vi prendete qualche minuto e leggete attentamente i suddetti articoli della Costituzione, che regolano la sovranità e i rapporti e valori socio-economici, noterete, forse con stupore, che tutto il percorso di riforme in materia di moneta, finanza, lavoro, Banca d’Italia, sistema monetario europeo (Maastricht), globalizzazioni, privatizzazioni, liberalizzazioni, cartolarizzazioni, finanziarizzazione dell’economia – tutto, dico, è costituzionalmente illegittimo perché va esattamente, intenzionalmente e organicamente contro quelle norme costituzionali e contro lo stesso impianto sociale e valoriale e teleologico della Costituzione, che è appunto teso all’esclusione dell’attività imprenditoriale contraria all’interesse della società e alla realizzazione di una parità anche sostanziale dei cittadini in un quadro di solidarietà e di sicurezza in fatto di lavoro, reddito, servizi, pensioni. E non di “casinò” speculativo che comanda il Paese da piattaforme finanziarie estere attraverso il potere del rating e della manipolazione dei mercati, decidendo irresponsabilmente e insindacabilmente come si debba vivere e morire e governare.

È un disegno eversivo della Costituzione. Illecito. A esso hanno collaborato attivamente quasi tutti i “rappresentanti” del popolo, soprattutto la sinistra parlamentare. Senza farlo capire al popolo, ovviamente. Qui sta il conflitto di interessi vero. L’incompatibilità assoluta con le cariche pubbliche. Quindi i veri e primi incandidabili, ineleggibili, portatori di conflitto di interessi sono proprio i leaders della sinistra, assieme a Monti e Draghi: tra i vivi, Prodi, Bersani, Amato…
 
Lei parla di “ sacrifici senza prospettive e di “ sogno che la crisi finisca”, ma non vede la luce in fondo al tunnel? Eppure Monti e i suoi sodali ci hanno ripetuto fino alla nausea che siamo in ripresa… e che bisogna avere fiducia nei “mercati”. Lei contesta le linee economiche e fiscali imposte all’Italia dai paladini del “libero mercato”. Ci spieghi perché.
L’Italia è vicina alla fine, lo ha detto anche Squinzi il 24 marzo parlando al premier incaricato Bersani. Gli indici sono tutti al peggio, e vengono frequentemente corretti al peggioramento. Non vi è outlook di ripresa. Le migliori risorse del Paese – capitali, imprenditori, cervelli – se ne sono andate o se ne stanno andando. Chi dice che l’Italia stia riprendendosi, o è pazzo o mente. Secondo la tesi adottata dalle istituzioni monetarie, dalla Ue, da quasi tutta la politica che vuole governare, il libero mercato spontaneamente realizzerebbe l’ottimale impiego delle risorse e l’ottimale distribuzione dei redditi, inoltre automaticamente preverrebbe o riassorbirebbe le crisi. I fatti hanno clamorosamente smentito questa tesi. Del resto quella tesi valeva per i mercati dell’economia reale, non per i mercati della speculazione e dell’azzardo della finanza, che sono un’altra cosa.
O meglio, il libero mercato non esiste, perché per essere libero un mercato dovrebbe essere trasparente (cioè con operatori visibili, eleggibili dentro), non dominato da cartelli, non influenzato da asimmetrie informative, etc. etc. I mercati reali sono dominati, cioè manipolati, da cartelli di soggetti che approfittano di enormi asimmetrie informative (anche in fatto di tecnologie), che si mantengono opachi (anche FMI, BCE, Ue, Tesoro Usa, hedge funds, grandi banche…).
E che influenzano, pagandole o ricattandole, le funzioni politiche
 
Nel suo libro non disdegna di toccare la vicenda MPS,l a famosa banca senese da sempre nell’orbita della sinistra, fatti che al momento sembrano essere stati messi a tacere, con una Magistratura tutta impegnata nell’attacco a tutto campo contro Berlusconi. Chi sono i protagonisti principali e perché si è arrivati a questo, e il ruolo del duo Draghi-Monti e del PD di Bersani? Un Bersani che oramai interpreta da tempo, così come tutta la sinistra italiana, il ruolo di “mosca cocchiera dei poteri finanziari antinazionali”.
Volete i protagonisti principali? È una cerchia di nomi che potete individuare ricercando gli amministratori e i beneficiari effettivi di società derivate, di controllo, di gestione, cessionarie di rami di aziende, sicav, siv, stichtingen,… società che ricevono strani e grandi prestiti da banche in condizioni sospette… andate a consultare il Cerved, farete molte interessanti scoperte. E, per i bilanci, guardate in Cebi…Draghi ha prestato in segreto 2 miliardi a MPS già in crisi di liquidità a seguito non solo dell’acquisto di Antonveneta per un multiplo del suo dubbio valore, ma anche per una storia precedente di molti mutui concessi a soggetti che si sapeva non avrebbero pagato, e per le storie Myway e 4you, e per l’acquisizione della Banca del Salento (121)… e Monti presta 4 miliardi pubblici a MPS che in banca ne capitalizza 2,7.
Bisogna salvare MPS, l’ho detto dal mio primo articolo su di esso, del 29.06.11, ma salviamola per farne una banca nazionale di finanziamento all’economia produttiva, non solo per proteggere interessi privati o di uomini politici.
 
Avv. Della Luna i rimedi esistono per uscire da questa situazione, il mercato non è il destino dell’uomo, come non lo sono le banche, le vie alternative al capitalismo esistono, mancano oggi probabilmente gli uomini in grado d’applicarle in Italia e in Europa. Altrove i popoli hanno intrapreso una marcia diversa, e buona parte dell’America Latina ne è un esempio, questo a pochi giorni dalla morte del Presidente della repubblica Bolivariana del Venezuela Chávez, che certamente ha tracciato una via chiara di socialismo del XXI Secolo. Lei che misure adotterebbe per uscire da questo giro infernale usuraio in cui siamo precipitati?
Dalle situazioni non si esce per applicazione razionale e intenzionale di rimedi condivisi, ma perché una situazione si rompe e si cade in un’altra situazione. Non è questione di uomini. Anche il capitalismo finanziario assoluto si romperà, e io mi aspetto che ciò avvenga sia perché il tipo di mondo che esso costruisce per massimizzare la propria efficienza è incompatibile con la vita umana (troppa incertezza, violenza, mutevolezza), sia per effetto della incontrollabile accelerazione e autonomizzazione dei processi informatizzati attraverso cui si realizza lo high frequency computerized algotrading – una rete cibernetica capace di imparare e, in prospettiva, di sfuggire di mano.
 
www.europeanphoenix.com


30 Marzo 2013 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=20032

jeudi, 09 mai 2013

Rassegna Stampa - Maggio 2013/2

Rassegna Stampa: articoli in primo piano (Maggio 2013/2)
 

mardi, 07 mai 2013

Machiavelli & the Conservative Revolution

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Machiavelli & the Conservative Revolution

By Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

Borne along by the French Spring, the Conservative Revolution is in fashion. One of its most brilliant theorists deserves to be remembered, even if his name has long been maligned. Indeed it is scarcely flattering to be described as “Machiavellesque” if not “Machiavellian.” It can be seen as an aspersion of cynicism and deceit. 

And yet what led Niccolò Machiavelli to write the most famous and the most outrageous of his works, The Prince, was love and concern for his fatherland, Italy. It was published in 1513, exactly 500 years ago, just like Albrecht Dürer’s “The Knight, Death, and the Devil [2].” A fertile time! In the early years of the 16th century, Machiavelli was nevertheless the only one to worry about Italy, the “geographical entity,” as Metternich later said. Then, one cared about Naples, Genoa, Rome, Florence, Milan, and Venice, but nobody cared about Italy. This had to wait a good three centuries. This proves that we should never despair. The prophets always preach in the wilderness before their dreams reach the unpredictable waiting crowds. We and some others believe in a Europe that exists only in our creative memory.

Born in Florence in 1469, died in 1527, Niccolò Machiavelli was a high official and diplomat. His missions introduced him to the grand politics of his time. What he learned, and what he suffered for his patriotism, prompted him to reflect on the art of conducting public affairs. Life had enrolled him in the school of great upheavals. He was 23 years old when Lorenzo the Magnificent died in 1492. The same year, the ambitious and voluptuous Alexander VI Borgia became Pope. He swiftly made one of his sons, Cesare (at that time, the popes cared little for chastity), a very young cardinal and then the Duke of Valentinois thanks to the king of France. This Cesare, gripped by a terrible ambition, cared nothing about means. Despite his failures, his ardor fascinated Machiavelli.

But I anticipate. In 1494 came a huge event that would change Italy for a long time. Charles VIII, the ambitious young king of France, made ​​his famous “descent,” i.e., an attempt at conquest that upset the balance of the peninsula. After being well-received in Florence, Rome, and Naples, Charles VIII then met with resistance and was forced to retreat, leaving a terrible chaos. It was not finished. His cousin and successor, Charles XII, came back in 1500, this time for longer, until Francis I became king. Meanwhile, Florence was plunged into civil war, and Italy was devastated by condottieri greedy for loot.

Appalled, Machiavelli observed the damage. He was indignant at the impotence of the Italians. From his reflections arose The Prince in 1513, the famous political treatise written thanks to its author’s disgrace. The argument, with a compelling logic, seeks to convert the reader. The method is historical. It is based on the confrontation between the past and the present. Machiavelli stated his belief that men and things do not change. This is why the Florentine councilor continues to speak to us Europeans.

Following the Ancients–his models–he believes Fortune (chance), represented by a woman balancing on an unstable wheel, rules half of human actions. But she leaves, he says, the other half ruled by the virtues (qualities of manly boldness and energy). Machiavelli calls for men of action and teaches them how to govern well. Symbolized by the lion, force is the primary means to conquer or maintain a state. But one must also have the cunning of the fox. In reality, one must be both lion and fox. “We must be a fox to avoid traps and a lion to frighten wolves” (The Prince, ch. 18). Hence his praise, devoid of any moral prejudice, of Alexander VI Borgia, who “never did anything, and never thought of doing anything, other than deceiving people and always found a way to do so” (The Prince, ch. 18). However, it is in the son of this curious pope, Cesare Borgia, that Machiavelli saw the incarnation of the Prince according to his wishes, able “to win by force or fraud” (The Prince. ch. 7).

Placed on the Index by the Church, accused of impiety and atheism, Machiavelli actually had a complex attitude vis-à-vis religion. Certainly not devout, he nevertheless went along with its practices but without abdicating he critical freedom. In his Discourses on the First Ten Books of Titus Livy, drawing lessons from ancient history, he questioned which religion best suits the health of the state: “Our religion has placed the highest good in humility and contempt for human affairs. The other [Roman religion] placed it in the greatness of soul, bodily strength, and all other things that make men strong. If our religion requires that we have strength, it is only to be more capable of suffering heavy things. This way of life seems to have weakened the world, making it easy prey for evil men” (Discourses, Book II, ch. 2). Machiavelli does not risk religious reflection, but only a political reflection on religion, concluding: “I prefer my fatherland to my soul.”

Source: http://www.dominiquevenner.fr/2013/04/machiavel-et-la-revolution-conservatrice/ [3]


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/05/machiavelli-and-the-conservative-revolution/

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/05/machiavellistatue.jpg

[2] The Knight, Death, and the Devil: http://en.wikipedia.org/wiki/The_Knight,_Death_and_the_Devil

[3] http://www.dominiquevenner.fr/2013/04/machiavel-et-la-revolution-conservatrice/: http://www.dominiquevenner.fr/2013/04/machiavel-et-la-revolution-conservatrice/

samedi, 04 mai 2013

Rassegna Stampa - Maggio 2013/1

politique internationale,actualité,affaires européennes,europe,italie,presse,journaux,médias

Rassegna Stampa: articoli in primo piano (Maggio 2013/1)

jeudi, 02 mai 2013

Dresda

vendredi, 26 avril 2013

Rassegna Stampa (26-04-2013)

Rassegna Stampa:
articoli in primo piano


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mardi, 23 avril 2013

Nessuno tocchi la Siria

lundi, 22 avril 2013

Antonio Pennacchi und der Canale Mussolini

Antonio Pennacchi und der Canale Mussolini

Götz Kubitschek 

Ex: http://www.sezession.de/

canmuss710305025.jpgCanale Mussolini ist ein Epochen- und Familienroman, der – autobiographisch angereichert – davon erzählt, wie aus den Männern und Frauen einer norditalienischen, mittellosen Bauernsippe handfeste Faschisten werden: un-ideologische zwar, aber ist das nicht immer so, wenn es um die Masse unterhalb der weltanschaulich gefestigten Revolutionäre geht?

Grandios schildert Pennacchi den Kippunkt in diesem hervorragend erzählten Buch: wie die Männer und Frauen der Sippe Peruzzi auf ihren Felder schuften und trotzdem auf keinen grünen Zweig kommen; wie sie schon mit einem Fuß bei den Sozialisten stehen, aber auch bei den Faschisten auf einer Versammlung vorbeischauen; wie sie dann unter dem gewaltsamen Druck der Linken (die das nicht dulden mögen) halb im Zorn, halb aus Rache zu den Schwarzhemden überlaufen und erst einmal alles niederbrennen, was an sozialistischen Parteilokalen in ihrer Reichweite ist.

Hier findet schlicht die persönliche Lage das geeignete politische Gefährt, und die Widerborstigkeit der Sippe paßt einfach nicht zur Bräsigkeit der linken Gewerkschaftsbonzen. Der Dank der Bewegung bleibt nicht aus: Mitte der dreißiger Jahre bekommen die Peruzzis Land in den trockengelegten Pontinischen Sümpfen und bauen mit an diesem faschistischen Großprojekt, das 30000 umgesiedelten Neubauern Land und Brot gibt.

Ein Rezensent, der Canale Mussolini im Original las, berichtete von hinreißenden Dialogen in Mundart. Zum Glück versucht die Übersetzung erst gar nicht, irgendein Kauderwelsch an die Stelle der italienischen Dialekte zu setzen, der Ton des Romans ist auch so »mündlich« genug. Es wird richtig erzählt, episch, abschweifend.

Die ganze faschistische Epoche Italiens wird plastisch, immer aus Sicht der kleinen Leute, der unterschiedlichen Charaktere der Peruzzis. Da tauchen die faschistischen Suppenküchen auf, die Solidaritätsvereine, die Versammlungshäuser, die Paraden, Uniformen und modernen Errungenschaften. Der Duce hämmert – noch nicht an der Macht – den Pflug der Peruzzis wieder gerade und starrt dabei dem Sippen-Zentrum, der stolzen »Mama« Armida, auf den Hintern, was ihr nicht schlecht gefällt. Immer wieder schildert der Erzähler die völlig harmlose Szene, und vielleicht erinnert sich Mussolini nur deshalb nach Jahren noch an diese Familie.

Wenn überhaupt von ideologischem Überbau die Rede ist, dann treuherzig, ein bißchen wie auswendig gelernt (»diese fixe Idee vom Römischen Reich und von der imperialen Größe, die uns Italienern von Natur aus und von Rechts wegen zustanden, aber auch diese etwas heidnische Vorstellung, daß die Menschen nicht irgendwie alle gleich sind«). Die Weltgeschichte ist mit eingewoben, denn irgendein Peruzzi ist immer dabei: ob im Abessinienkrieg und seinen elenden Gemetzeln, ob in Nordafrika oder beim griechischen Intermezzo (das nur mit deutscher Waffenhilfe nicht in einem Desaster endete), aber auch dort, wo – erzählt wie vom Hörensagen – Mussolini sich mit Italo Balbo oder einem anderen faschistischen Granden anlegt oder auf Hitler trifft.

Es gibt dieses seltsame Wort von der »befreienden Lektüre«: Ein Text rauscht durch die Köpfe wie das Wasser durch den Augiasstall – der ganze Mist, der sich angesammelt hat, wird fortgespült. Canale Mussolini könnte für Italien eine solche Wirkung haben, die Voraussetzungen für einen hysteriefreien Blick auf die eigene Geschichte sind dort besser als bei uns.

Für deutsche Leser könnte die Wirkung nur dann befreiend sein, wenn sie verstünden, daß man die Massen im faschistischen Italien durchaus mit jenen im Dritten Reich vergleichen kann. Aber dieses Vorverständnis einzufordern, ist für sie etwa so, als vergliche man eine Mausefalle mit einer Tretmine.

Antonio Pennacchi: Canale Mussolini. Roman, München: Hanser 2012. 446 S., 24.90 €

mercredi, 17 avril 2013

A. Lombardi: Viaggio al termine dell'Apocalisse

vendredi, 12 avril 2013

Fiume

mercredi, 10 avril 2013

Esiste un altro Sudafrica...

mardi, 09 avril 2013

An Introduction to Guido de Giorgio

An Introduction to Guido de Giorgio

Guido de Giorgio

Guido Lupo Maria De Giorgio, pseudonym “Havismat” (San Lupo, October 3 1890 – Mondovi, December 27, 1957) was an esoterist and Italian writer.

After graduating with a degree in philosophy, he went to Tunisia where he worked as a teacher of Italian. There, he came into contact with Islamic esoterism through a local brotherhood. He then moved to Paris after WW I, where he got to know Rene Guenon. He back his friend, collaborated with him by writing articles for the two major French esoteric journals of the time: Le Voile d’Isis and L’initiation.

He returned to Italy in the 1920’s and participated in the Gruppo di Ur, writing under the name Havismat. In 1930, he joined with Julius Evola in promoting the journal La Torre, in which he came up with a theory of a type of Sacred Fascism with the effort to universalize the Fascist movement in an esoteric way.

In “La Tradizione romana” (The Roman Tradition), de Giorgio accused Europe in the aftermath of WW II of have become scientistic and of stifling the spiritual research of man. The solution, according to de Giorgio, lay in returning to an ancient conception of spiritual and temporal authority. A typescript version of this work, whose original title was “The dead badge of power. Introduction to the doctrine of Roman Sacred Fascism”, was given to Benito Mussolini for Christmas in 1939.

In Dio e il Poeta (God and the Poet), de Giorgio poured out his mystical experience arising from his ascetical practices.

None of his works was published during his lifetime, some posthumously and others still unpublished.

Julius Evola

In Cammino del Cinabro, Julius Evola describes Guido de Giorgio.

He was a type of initiate in the wild and chaotic state, he had lived among the Arabs and personally knew Guenon, who held him in high esteem. He was a man of exceptional culture, he knew several languages, but he had a rather unstable temperament and strong passionate positions, emotive and lyrical almost like Nietzsche.

Evola goes on to describe de Giorgio’s erratic personal and love life, his strong personality, then describes their collaborations and even trips together to the Alps. (They both loved the mountains.) Evola conceded that towards the end, they grew apart somewhat due to de Giorgio’s “indulgence in a sort of Vedanta-ized Christianity”. (Apparently, Evola was unaware of “La Tradizione romana”, which was never published during his lifetime.

From La Tradizione romana

The restoration that we propose, taking up again the thought, aspiration and ideal of Dante, is a return to the spirit of Rome, not the pure and simple repetition of the past that would unrealizable, because nothing of the contingencies of the world ever repeats itself, but the adhesion to those eternal principles of truth that are contained in the Sacred Books and expressed by ancient symbols.
[To save Europe and the West from catastrophe,] it would depend not as much on the external material things that are of scant value in themselves, but on those deep, internal, spiritual values … the catastrophe of the life of the spirit, the collapse of the truth.


References:

 

lundi, 08 avril 2013

La Tradition dans la pensée de Martin Heidegger et de Julius Evola

Le primordial et l’éternel :
La Tradition dans la pensée de Martin Heidegger et de Julius Evola

par Michael O'Meara 

Ex: http://www.counter-currents.com/

heidegger.jpgL’opposé de la tradition, dit l’historien Dominique Venner, n’est pas la modernité, une notion illusoire, mais le nihilisme [1]. D’après Nietzsche, qui développa le concept, le nihilisme vient avec la mort des dieux et « la répudiation radicale de [toute] valeur, sens et désirabilité » [2]. Un monde nihiliste – comme le nôtre, dans lequel les valeurs les plus élevées ont été dévaluées – est un monde incapable de canaliser les courants entropiques de la vie dans un flux sensé, et c’est pourquoi les traditionalistes associés à l’éternalisme guénonien, au traditionalisme radical, au néo-paganisme, au conservatisme révolutionnaire, à l’anti-modernisme et à l’ethno-nationalisme se rassemblent contre lui.

La tradition dont les vérités signifiantes et créatives sont affirmées par ces traditionalistes contre l’assaut nihiliste de la modernité n’est pas le concept anthropologique et sociologique dominant, défini comme « un ensemble de pratiques sociales inculquant certaines normes comportementales impliquant une continuité avec un passé réel ou imaginaire ». Ce n’est pas non plus la « démocratie des morts » de G. K. Chesterton, ni la « banque générale et le capital des nations et des âges » d’Edmund Burke. Pour eux la tradition n’avait pas grand-chose à voir avec le passé comme tel, des pratiques culturelles formalisées, ou même le traditionalisme. Venner, par exemple, la compare à un motif musical, un thème guidant, qui fournit une cohérence et une direction aux divers mouvements de la vie.

Si la plupart des traditionalistes s’accordent à voir la tradition comme orientant et transcendant à la fois l’existence collective d’un peuple, représentant quelque chose d’immuable qui renaît perpétuellement dans son expérience du temps, sur d’autres questions ils tendent à être en désaccord. Comme cas d’école, les traditionalistes radicaux associés à TYR s’opposent aux « principes abstraits mais absolus » que l’école guénonienne associe à la « Tradition » et préfèrent privilégier l’héritage européen [3]. Ici l’implication (en-dehors de ce qu’elle implique pour la biopolitique) est qu’il n’existe pas de Tradition Eternelle ou de Vérité Universelle, dont les vérités éternelles s’appliqueraient partout et à tous les peuples – seulement des traditions différentes, liées à des peuples différents dans des époques et des régions culturelles différentes. Les traditions spécifiques de ces histoires et cultures incarnent, comme telles, les significations collectives qui définissent, situent et orientent un peuple, lui permettant de triompher des défis incessant qui lui sont spécifiques. Comme l’écrit M. Raphael Johnson, la tradition est « quelque chose de similaire au concept d’ethnicité, c’est-à-dire un ensemble de normes et de significations tacites qui se sont développées à partir de la lutte pour la survie d’un peuple ». En-dehors du contexte spécifique de cette lutte, il n’y a pas de tradition [4].

Mais si puissante qu’elle soit, cette position « culturaliste » prive cependant les traditionalistes radicaux des élégants postulats philosophiques et principes monistes étayant l’école guénonienne. Non seulement leur projet de culture intégrale enracinée dans l’héritage européen perd ainsi la cohésion intellectuelle des guénoniens, mais il risque aussi de devenir un pot-pourri d’éléments disparates, manquant de ces « vues » philosophiques éclairées qui pourraient ordonner et éclairer la tradition dont ils se réclament. Cela ne veut pas dire que la révolte de la tradition contre le monde moderne doive être menée d’une manière philosophique, ou que la renaissance de la tradition dépende d’une formulation philosophique spécifique. Rien d’aussi utilitaire ou utopique n’est impliqué, car la philosophie ne crée jamais – du moins jamais directement – « les mécanismes et les opportunités qui amènent un état de choses historique » [5]. De telles « vues » fournissent plutôt une ouverture au monde – dans ce cas, le monde perdu de la tradition – montrant la voie vers ces perspectives que les traditionalistes radicaux espèrent retrouver.

Je crois que la pensée de Martin Heidegger offre une telle vision. Dans les pages qui suivent, nous défendrons une appropriation traditionaliste de la pensée heideggérienne. Les guénoniens sont ici pris comme un repoussoir vis-à-vis de Heidegger non seulement parce que leur approche métaphysique s’oppose à l’approche historique européenne associée à TYR, mais aussi parce que leur discours possède en partie la rigueur et la profondeur de Heidegger. René Guénon représente cependant un problème, car il fut un apostat musulman de la tradition européenne, désirant « orientaliser » l’Occident. Cela fait de lui un interlocuteur inapproprié pour les traditionalistes radicaux, particulièrement en comparaison avec son compagnon traditionaliste Julius Evola, qui fut l’un des grands champions contemporains de l’héritage « aryen ». Parmi les éternalistes, c’est alors Evola plutôt que Guénon qui offre le repoussoir le plus approprié à Heidegger [6].

Le Naturel et le Surnaturel

Etant donné les fondations métaphysiques des guénoniens, le Traditionalisme d’Evola se concentrait non sur « l’alternance éphémère des choses données aux sens », mais sur « l’ordre éternel des choses » situé « au-dessus » d’elles. Pour lui Tradition signifie la « sagesse éternelle, la philosophia perennis, la Vérité Primordiale » inscrite dans ce domaine supra-humain, dont les principes éternels, immuables et universels étaient connus, dit-on, des premiers hommes et dont le patrimoine (bien que négligé) est aujourd’hui celui de toute l’humanité [7].

La « méthode traditionaliste » d’Evola vise ainsi à recouvrer l’unité perdue dans la multiplicité des choses du monde. De ce fait il se préoccupe moins de la réalité empirique, historique ou existentielle (comprise comme un reflet déformé de quelque chose de supérieur) que de l’esprit – tel qu’on le trouve, par exemple, dans le symbole, le mythe et le rituel. Le monde humain, par contre, ne possède qu’un ordre d’importance secondaire pour lui. Comme Platon, il voit son domaine visible comme un reflet imparfait d’un domaine invisible supérieur. « Rien n’existe ici-bas », écrit-il, « …qui ne s’enracine pas dans une réalité plus profonde, numineuse. Toute cause visible n’est qu’apparente » [8]. Il refuse ainsi toutes les explications historiques ou naturalistes concernant le monde contingent de l’homme.

Voyant la Tradition comme une « présence » transmettant les vérités transcendantes obscurcies par le tourbillon éphémère des apparences terrestres, Evola identifie l’Etre à ses vérités immuables. Dans cette conception, l’Etre est à la fois en-dehors et au-delà du cours de l’histoire (c’est-à-dire qu’il est supra-historique), alors que le monde humain du Devenir est associé à un flux toujours changeant et finalement insensé de vie terrestre de sensations. La « valeur suprême et les principes fondateurs de toute institution saine et normale sont par conséquent invariables, étant basés sur l’Etre » [9]. C’est de ce principe que vient la doctrine évolienne des « deux natures » (la naturelle et la surnaturelle), qui désigne un ordre physique associé au monde du Devenir connu de l’homme et un autre ordre qui décrit le royaume métaphysique inconditionné de l’Etre connu des dieux.

Les civilisations traditionnelles, affirme Evola, reflétaient les principes transcendants transmis dans la Tradition, alors que le royaume « anormal et régressif » de l’homme moderne n’est qu’un vestige décadent de son ordre céleste. Le monde temporel et historique du Devenir, pour cette raison, est relégué à un ordre d’importance inférieur, alors que l’unité éternelle de l’Etre est privilégiée. Comme son « autre maître » Joseph de Maistre, Evola voit la Tradition comme antérieure à l’histoire, non conditionnée par le temps ou les circonstances, et donc sans lien avec les origines humaines » [10]. La primauté qu’il attribue au domaine métaphysique est en effet ce qui le conduit à affirmer que sans la loi éternelle de l’Etre transmise dans la Tradition, « toute autorité est frauduleuse, toute loi est injuste et barbare, toute institution est vaine et éphémère » [11].

La Tradition comme Überlieferung

Heidegger suit la voie opposée. Eduqué pour une vocation dans l’Eglise catholique et fidèle aux coutumes enracinées et provinciales de sa Souabe natale, lui aussi s’orienta vers « l’ancienne transcendance et non la mondanité moderne ». Mais son anti-modernisme s’opposait à la tradition de la pensée métaphysique occidentale et, par implication, à la philosophie guénonienne de la Tradition (qu’il ne connaissait apparemment pas).

La métaphysique est cette branche de la philosophie qui traite des questions ontologiques majeures, la plus fondamentale étant la question : Qu’est-ce que l’Etre ? Commençant avec Aristote, la métaphysique tendit néanmoins à s’orienter vers la facette non-physique et non-terrestre de l’Etre, tentant de saisir la transcendance de différents êtres comme l’esprit, la force, ou l’essence [12]. En recourant à des catégories aussi généralisées, cette tendance postule un royaume transcendant de formes permanentes et de vérités inconditionnées qui comprennent l’Etre d’une manière qui, d’après Heidegger, limite la compréhension humaine de sa vérité, empêchant la manifestation d’une présence à la fois cachée, ouverte et fuyante. Dans une formulation opaque mais cependant révélatrice, Heidegger écrit : « Quand la vérité [devient une incontestable] certitude, alors tout ce qui est vraiment réel doit se présenter comme réel pour l’être réel qu’il est [supposément] » – c’est-à-dire que quand la métaphysique postule ses vérités, pour elle la vérité doit se présenter non seulement d’une manière autoréférentielle, mais aussi d’une manière qui se conforme à une idée préconçue d’elle-même » [13]. Ici la différence entre la vérité métaphysique, comme proposition, et l’idée heideggérienne d’une manifestation en cours est quelque peu analogue à celle différenciant les prétentions de vérité du Dieu chrétien de celles des dieux grecs, les premières présupposant l’objectivité totale d’une vérité universelle éternelle et inconditionnée préconçue dans l’esprit de Dieu, et les secondes acceptant que la « dissimulation » est aussi inhérente à la nature polymorphe de la vérité que l’est la manifestation [14].

Etant donné son affirmation a-historique de vérités immuables installées dans la raison pure, Heidegger affirme que l’élan préfigurant et décontextualisant de la métaphysique aliène les êtres de l’Etre, les figeant dans leurs représentations momentanées et les empêchant donc de se déployer en accord avec les possibilités offertes par leur monde spécifique. L’oubli de l’être culmine dans la civilisation technologique moderne, où l’être est défini simplement comme une chose disponible pour l’investigation scientifique, la manipulation technologique et la consommation humaine. La tradition métaphysique a obscurci l’Etre en le définissant en termes essentiellement anthropocentriques et même subjectivistes.

Mais en plus de rejeter les postulats inconditionnés de la métaphysique [15], Heidegger associe le mot « tradition » – ou du moins sa forme latinisée (die Tradition) – à l’héritage philosophique occidental et son oubli croissant de l’être. De même, il utilise l’adjectif « traditionell » péjorativement, l’associant à l’élan généralisant de la métaphysique et aux conventions quotidiennes insouciantes contribuant à l’oubli de l’Etre.

Mais après avoir noté cette particularité sémantique et son intention antimétaphysique, nous devons souligner que Heidegger n’était pas un ennemi de la tradition, car sa philosophie privilégie ces « manifestations de l’être » originelles dans lesquelles naissent les grandes vérités traditionnelles. Comme telle, la tradition pour lui n’est pas un ensemble de postulats désincarnés, pas quelque chose d’hérité passivement, mais une facette de l’Etre qui ouvre l’homme à un futur lui appartenant en propre. Dans cet esprit, il associe l’Überlieferung (signifiant aussi tradition) à la transmission de ces principes transcendants inspirant tout « grand commencement ».

La Tradition dans ce sens primordial permet à l’homme, pense-t-il, « de revenir à lui-même », de découvrir ses possibilités historiquement situées et uniques, et de se réaliser dans la plénitude de son essence et de sa vérité. En tant qu’héritage de destination, l’Überlieferung de Heidegger est le contraire de l’idéal décontextualisé des Traditionalistes. Dans Etre et Temps, il dit que die Tradition « prend ce qui est descendu vers nous et en fait une évidence en soi ; elle bloque notre accès à ces ‘sources’ primordiales dont les catégories et les concepts transmis à nous ont été en partie authentiquement tirés. En fait, elle nous fait oublier qu’elles ont eu une telle origine, et nous fait supposer que la nécessité de revenir à ces sources est quelque chose que nous n’avons même pas besoin de comprendre » [17]. Dans ce sens, Die Tradition oublie les possibilités formatives léguées par son origine de destination, alors que l’Überlieferung, en tant que transmission, les revendique. La pensée de Heidegger se préoccupe de retrouver l’héritage de ces sources anciennes.

Sa critique de la modernité (et, contrairement à ce qu’écrit Evola, il est l’un de ses grands critiques) repose sur l’idée que la perte ou la corruption de la tradition de l’Europe explique « la fuite des dieux, la destruction de la terre, la réduction des êtres humains à une masse, la prépondérance du médiocre » [18]. A présent vidé de ses vérités primordiales, le cadre de vie européen, dit-il, risque de mourir : c’est seulement en « saisissant ses traditions d’une manière créative », et en se réappropriant leur élan originel, que l’Occident évitera le « chemin de l’annihilation » que la civilisation rationaliste, bourgeoise et nihiliste de la modernité semble avoir pris » [19].

La tradition (Überlieferung) que défend l’antimétaphysique Heidegger n’est alors pas le royaume universel et supra-sensuel auquel se réfèrent les guénoniens lorsqu’ils parlent de la Tradition. Il s’agit plutôt de ces vérités primordiales que l’Etre rend présentes « au commencement » –, des vérités dont les sources historiques profondes et les certitudes constantes tendent à être oubliées dans les soucis quotidiens ou dénigrées dans le discours moderniste, mais dont les possibilités restent néanmoins les seules à nous être vraiment accessibles. Contre ces métaphysiciens, Heidegger affirme qu’aucune prima philosophia n’existe pour fournir un fondement à la vie ou à l’Etre, seulement des vérités enracinées dans des origines historiques spécifiques et dans les conventions herméneutiques situant un peuple dans ses grands récits.

Il refuse ainsi de réduire la tradition à une analyse réfléchie indépendante du temps et du lieu. Son approche phénoménologique du monde humain la voit plutôt comme venant d’un passé où l’Etre et la vérité se reflètent l’un l’autre et, bien qu’imparfaitement, affectent le présent et la manière dont le futur est approché. En tant que tels, Etre, vérité et tradition ne peuvent pas être saisis en-dehors de la temporalité (c’est-à-dire la manière dont les humains connaissent le temps). Cela donne à l’Etre, à la vérité et à la tradition une nature avant tout historique (bien que pas dans le sens progressiste, évolutionnaire et développemental favorisé par les modernistes). C’est seulement en posant la question de l’Etre, la Seinsfrage, que l’Etre de l’humain s’ouvre à « la condition de la possibilité de [sa] vérité ».

C’est alors à travers la temporalité que l’homme découvre la présence durable qui est l’Etre [20]. En effet, si l’Etre de l’homme n’était pas situé temporellement, sa transcendance, la préoccupation principale de la métaphysique guénonienne, serait inconcevable. De même, il n’y a pas de vérité (sur le monde ou les cieux au-dessus de lui) qui ne soit pas ancrée dans notre Etre-dans-le-monde – pas de vérité absolue ou de Tradition Universelle, seulement des vérités et des traditions nées de ce que nous avons été… et pouvons encore être. Cela ne veut pas dire que l’Etre de l’humain manque de transcendance, seulement que sa possibilité vient de son immanence – que l’Etre et les êtres, le monde et ses objets, sont un phénomène unitaire et ne peuvent pas être saisis l’un sans l’autre.

Parce que la conception heideggérienne de la tradition est liée à la question de l’Etre et parce que l’Etre est inséparable du Devenir, l’Etre et la tradition fidèle à sa vérité ne peuvent être dissociés de leur émergence et de leur réalisation dans le temps. Sein und Zeit, Etre immuable et changement historique, sont inséparables dans sa pensée. L’Etre, écrit-il, « est Devenir et le Devenir est Etre » [21]. C’est seulement par le processus du devenir dans le temps, dit-il, que les êtres peuvent se déployer dans l’essence de leur Etre. La présence constante que la métaphysique prend comme l’essence de l’Etre est elle-même un aspect du temps et ne peut être saisie que dans le temps – car le temps et l’Etre partagent une coappartenance primordiale.

Le monde platonique guénonien des formes impérissables et des idéaux éternels est ici rejeté pour un monde héraclitien de flux et d’apparition, où l’homme, fidèle à lui-même, cherche à se réaliser dans le temps – en termes qui parlent à son époque et à son lieu, faisant cela en relation avec son héritage de destination. Etant donné que le temps implique l’espace, la relation de l’être avec l’Etre n’est pas simplement un aspect individualisé de l’Etre, mais un « être-là » (Dasein) spécifique – situé, projeté, et donc temporellement enraciné dans ce lieu où l’Etre n’est pas seulement « manifesté » mais « approprié ». Sans « être-là », il n’y a pas d’Etre, pas d’existence. Pour lui, l’engagement humain dans le monde n’est pas simplement une facette située de l’Etre, c’est son fondement.

Ecarter la relation d’un être avec son temps et son espace (comme le fait la métaphysique atemporelle des guénoniens) est « tout aussi insensé que si quelqu’un voulait expliquer la cause et le fondement d’un feu [en déclarant] qu’il n’y a pas besoin de se soucier du cours du feu ou de l’exploration de sa scène » [22]. C’est seulement dans la « facticité » (le lien des pratiques, des suppositions, des traditions et des histoires situant son Devenir), et non dans une supra-réalité putative, que tout le poids de l’Etre – et la « condition fondamentale pour… tout ce qui est grand » – se fait sentir.

Quand les éternalistes interprètent « les êtres sans s’interroger sur [la manière dont] l’essence de l’homme appartient à la vérité de l’Etre », ils ne pourraient pas être plus opposés à Heidegger. En effet, pour eux l’Etre est manifesté comme Ame Cosmique (le maître plan de l’univers, l’Unité indéfinissable, l’Etre éternel), qui est détachée de la présence originaire et terrestre, distincte de l’Etre-dans-le-monde de Heidegger [23]. Contre l’idée décontextualisée et détachée du monde des métaphysiciens, Heidegger souligne que la présence de l’Etre est manifestée seulement dans ses états terrestres, temporels, et jamais pleinement révélés. Des mondes différents nous donnent des possibilités différentes, des manières différentes d’être ou de vivre. Ces mondes historiquement situés dictent les possibilités spécifiques de l’être humain, lui imposant un ordre et un sens. Ici Heidegger ne nie pas la possibilité de la transcendance humaine, mais la recherche au seul endroit où elle est accessible à l’homme – c’est-à-dire dans son da (« là »), sa situation spécifique. Cela fait du Devenir à la fois la toile de fond existentielle et l’« horizon transcendantal » de l’Etre, car même lorsqu’elle transcende sa situation, l’existence humaine est forcément limitée dans le temps et dans l’espace.

En posant la Seinsfrage de cette manière, il s’ensuit qu’on ne peut pas partir de zéro, en isolant un être abstrait et atomisé de tout ce qui le situe dans un temps et un espace spécifiques, car on ignorerait ainsi que l’être de l’homme est quelque chose de fini, enraciné dans un contexte historiquement conditionné et culturellement défini – on ignorerait, en fait, que c’est un Etre-là (Dasein). Car si l’existence humaine est prisonnière du flux du Devenir – si elle est quelque chose de situé culturellement, linguistiquement, racialement, et, avant tout, historiquement –, elle ne peut pas être comprise comme un Etre purement inconditionné.

Le caractère ouvert de la temporalité humaine signifie, de plus, que l’homme est responsable de son être. Il est l’être dont « l’être est lui-même une question », car, bien que située, son existence n’est jamais fixée ou complète, jamais déterminée à l’avance, qu’elle soit vécue d’une manière authentique ou non [24]. Elle est vécue comme une possibilité en développement qui se projette vers un futur « pas encore réel », puisque l’homme cherche à « faire quelque chose de lui-même » à partir des possibilités léguées par son origine spécifique. Cela pousse l’homme à se « soucier » de son Dasein, individualisant ses possibilités en accord avec le monde où il habite.

Ici le temps ne sert pas seulement d’horizon contre lequel l’homme est projeté, il sert de fondement (la facticité prédéterminée) sur lequel sa possibilité est réalisée. La possibilité que l’homme cherche dans le futur (son projet) est inévitablement affectée par le présent qui le situe et le passé modelant son sens de la possibilité. La projection du Dasein vient ainsi « vers lui-même d’une manière telle qu’il revient », anticipant sa possibilité comme quelque chose qui « a été » et qui est encore à portée de main [25]. Car c’est seulement en accord avec son Etre-là, sa « projection », qu’il peut être pleinement approprié – et transcendé [26].

En rejetant les concepts abstraits, inconditionnés et éternels de la métaphysique, Heidegger considère la vérité, en particulier les vérités primordiales que la tradition transmet, comme étant d’une nature historique et temporelle, liée à des manifestations distinctes (bien que souvent obscures) de l’Etre, et imprégnée d’un passé dont l’origine créatrice de destin inspire le sens humain de la possibilité. En effet, c’est la configuration distincte formée par la situation temporelle, l’ouverture de l’Etre, et la facticité situant cette rencontre qui forme les grandes questions se posant à l’homme, puisqu’il cherche à réaliser (ou à éviter) sa possibilité sur un fondement qu’il n’a pas choisi. « L’histoire de l’Etre », écrit Heidegger, « n’est jamais le passé mais se tient toujours devant nous ; elle soutient et définit toute condition et situation humaine » [27].

L’homme n’affronte donc pas les choix définissant son Dasein au sens existentialiste d’être « condamné » à prendre des décisions innombrables et arbitraires le concernant. L’ouverture à laquelle il fait face est plutôt guidée par les possibilités spécifiques à son existence historiquement située, alors que les « décisions » qu’il prend concernent son authenticité (c’est-à-dire sa fidélité à ses possibilités historiquement destinées, son destin). Puisqu’il n’y a pas de vérités métaphysiques éternelles inscrites dans la tradition, seulement des vérités posées par un monde « toujours déjà », vivre à la lumière des vérités de l’Etre requiert que l’homme connaisse sa place dans l’histoire, qu’il connaisse le lieu et la manière de son origine, et affronte son histoire comme le déploiement (ou, négativement, la déformation) des promesses posées par une prédestination originelle [28]. Une existence humaine authentique, affirme Heidegger, est « un processus de conquête de ce que nous avons été au service de ce que nous sommes » [29].

Le Primordial

Le « premier commencement » de l’homme – le commencement (Anfangen) « sans précédent et monumental » dans lequel ses ancêtres furent « piégés » (gefangen) comme une forme spécifique de l’Etre – met en jeu d’autres commencements, devenant le fondement de toutes ses fondations ultérieures [30]. En orientant l’histoire dans une certaine direction, le commencement – le primordial – « ne réside pas dans le passé mais se trouve en avant, dans ce qui doit venir » [31]. Il est « le décret lointain qui nous ordonne de ressaisir sa grandeur » [32]. Sans cette « reconquête », il ne peut y avoir d’autre commencement : car c’est en se réappropriant un héritage, dont le commencement est déjà un achèvement, que l’homme revient à lui-même, s’inscrivant dans le monde de son propre temps. « C’est en se saisissant du premier commencement que l’héritage… devient l’héritage ; et seuls ceux qui appartiennent au futur… deviennent [ses] héritiers » [33]. L’élève de Heidegger, Hans-Georg Gadamer dit que toutes les questions concernant les commencements « sont toujours [des questions] sur nous-mêmes et notre futur » [34].

Pour Heidegger, en transmettant la vérité de l’origine de l’homme, la tradition défie l’homme à se réaliser face à tout ce qui conspire pour déformer son être. De même qu’Evola pensait que l’histoire était une involution à partir d’un Age d’Or ancien, d’où un processus de décadence, Heidegger voit l’origine – l’inexplicable manifestation de l’Etre qui fait naître ce qui est « le plus particulier » au Dasein, et non universel – comme posant non seulement les trajectoires possibles de la vie humaine, mais les obstacles inhérents à sa réalisation. Se déployant sur la base de sa fondation primordiale, l’histoire tend ainsi à être une diminution, un déclin, un oubli ou une dissimulation des possibilités léguées par son « commencement », le bavardage oisif, l’exaltation de l’ordinaire et du quotidien, ou le règne du triomphe médiocre sur le destin, l’esprit de décision et l’authenticité des premières époques, dont la proximité avec l’Etre était immédiate, non dissimulée, et pleine de possibilités évidentes.

Là où Evola voit l’histoire en termes cycliques, chaque cycle restant essentiellement homogène, représentant un segment de la succession récurrente gouvernée par certains principes immuables, Heidegger voit l’histoire en termes des possibilités posées par leur appropriation. C’est seulement à partir des possibilités intrinsèques à la genèse originaire de sa « sphère de sens » – et non à partir du domaine supra-historique des guénoniens – que l’homme, dit-il, peut découvrir les tâches historiquement situées qui sont « exigées » de lui et s’ouvrir à leur possibilité [35]. En accord avec cela, les mots « plus ancien », « commencement » et « primordial » sont associés dans la pensée de Heidegger à l’essence ou la vérité de l’Etre, de même que le souvenir de l’origine devient une « pensée à l’avance de ce qui vient » [36].

Parce que le primordial se trouve devant l’homme, pas derrière lui, la révélation initiale de l’Etre vient dans chaque nouveau commencement, puisque chaque nouveau commencement s’inspire de sa source pour sa postérité. Comme Mnémosyne, la déesse de la mémoire qui était la muse principale des poètes grecs, ce qui est antérieur préfigure ce qui est postérieur, car la « vérité de l’Etre » trouvée dans les origines pousse le projet du Dasein à « revenir à lui-même ». C’est alors en tant qu’« appropriation la plus intérieure de l’Etre » que les origines sont si importantes. Il n’y a pas d’antécédent ou de causa prima, comme le prétend la logique inorganique de la modernité, mais « ce dont et ce par quoi une chose est ce qu’elle est et telle qu’elle est… [Ils sont] la source de son essence » et la manière dont la vérité « vient à être… [et] devient historique » [37]. Comme le dit le penseur français de la Nouvelle Droite, Alain de Benoist, l’« originel » (à la différence du novum de la modernité) n’est pas ce qui vient une fois pour toutes, mais ce qui vient et se répète chaque fois qu’un être se déploie dans l’authenticité de son origine » [38]. Dans ce sens, l’origine représente l’unité primordiale de l’existence et de l’essence exprimées dans la tradition. Et parce que l’« appropriation » à la fois originelle et ultérieure de l’Etre révèle la possibilité, et non l’environnement purement « factuel » ou « momentané » qui l’affecte, le Dasein n’accomplit sa constance propre que lorsqu’il est projeté sur le fondement de son héritage authentique [39].

La pensée heideggérienne n’est pas un existentialisme

Evola consacre plusieurs chapitres de Chevaucher le tigre (Calvacare la Tigre) à une critique de l’« existentialisme » d’après-guerre popularisé par Jean-Paul Sartre et dérivé, à ce qu’on dit, de la pensée de Heidegger » [40]. Bien que reconnaissant certaines différences entre Sartre et Heidegger, Evola les traitait comme des esprits fondamentalement apparentés. Son Sartre est ainsi décrit comme un non-conformiste petit-bourgeois et son Heidegger comme un intellectuel chicanier, tous deux voyant l’homme comme échoué dans un monde insensé, condamné à faire des choix incessants sans aucun recours transcendant. Le triste concept de liberté des existentialistes, affirme Evola, voit l’univers comme un vide, face auquel l’homme doit se forger son propre sens (l’« essence » de Sartre). Leur notion de liberté (et par implication, celle de Heidegger) est ainsi jugée nihiliste, entièrement individualiste et arbitraire.

En réunissant l’existentialisme sartrien et la pensée heideggérienne, Evola ne connaissait  apparemment pas la « Lettre sur l’Humanisme » (1946-47) de Heidegger, dans laquelle ce dernier – d’une manière éloquente et sans ambiguïté – répudiait l’appropriation existentialiste de son œuvre. Il semble aussi qu’Evola n’ait connu que le monumental Sein und Zeit de Heidegger, qu’il lit, comme Sartre, comme une anthropologie philosophique sur les problèmes de l’existence humaine (c’est-à-dire comme un humanisme) plutôt que comme une partie préliminaire d’une première tentative de développer une « ontologie fondamentale » recherchant le sens de l’Etre. Il mettait donc Sartre et Heidegger dans le même sac, les décrivant comme des « hommes modernes », coupés du monde de la Tradition et imprégnés des « catégories profanes, abstraites et déracinées » de la pensée. Parlant de l’affirmation nihiliste de Sartre selon laquelle « l’existence précède l’essence » (qu’il attribuait erronément à Heidegger, qui identifiait l’une à l’autre au lieu de les opposer), le disciple italien de Guénon concluait qu’en situant l’homme dans un monde où l’essence est auto-engendrée, Heidegger rendait le présent concret ontologiquement primaire, avec une nécessité situationnelle, plutôt que le contexte de l’Etre [41]. L’Etre heideggérien est alors vu comme se trouvant au-delà de l’homme, poursuivi comme une possibilité irréalisable [42]. Cela est sensé lier l’Etre au présent, le détachant de la Tradition – et donc de la transcendance qui seule illumine les grandes tâches existentielles.

La critique évolienne de Heidegger, comme que nous l’avons suggéré, n’est pas fondée, ciblant une caricature de sa pensée. Il se peut que l’histoire et la temporalité soient essentielles dans le projet philosophique de Heidegger et qu’il accepte l’affirmation sartrienne qu’il n’existe pas de manières absolues et inchangées pour être humain, mais ce n’est pas parce qu’il croit nécessaire d’« abandonner le plan de l’Etre » pour le plan situationnel. Pour lui, le plan situationnel est simplement le contexte où les êtres rencontrent leur Etre.

Heidegger insiste sur la « structure événementielle temporelle » du Dasein parce qu’il voit les êtres comme enracinés dans le temps et empêtrés dans un monde qui n’est pas de leur propre création (même si l’Etre de ces êtres pourrait transcender le « maintenant » ou la série de « maintenant » qui les situent). En même temps, il souligne que le Dasein est connu d’une manière « extatique », car les pensées du passé, du présent et du futur sont des facettes étroitement liées de la conscience humaine. En effet, c’est seulement en reconnaissant sa dimension extatique (que les existentialistes et les métaphysiciens ignorent) que le Dasein peut « se soucier de l’ouverture de l’Etre », vivre dans sa lumière, et transcender son da éphémère (sa condition situationnelle). Heidegger écrit ainsi que le Dasein est « l’être qui émerge de lui-même » – c’est le dévoilement d’une essence historique-culturelle-existentielle dont le déploiement est étranger à l’élan objectifiant des formes platoniques [43].

En repensant l’Etre en termes de temporalité humaine, en le restaurant dans le Devenir historique, et en établissant le temps comme son horizon transcendant, Heidegger cherche à libérer l’existentiel des propriétés inorganiques de l’espace et de la matière, de l’agitation insensée de la vie moderne, avec son évasion instrumentaliste de l’Etre et sa « pseudo-culture épuisée » – et aussi de le libérer des idéaux éternels privilégiés par les guénoniens. Car si l’Etre est inséparable du Devenir et survient dans un monde-avec-les-autres, alors les êtres, souligne-t-il, sont inhérents à un « contexte de signification » saturé d’histoire et de culture. Poursuivant son projet dans ces termes, les divers modes existentiels de l’homme, ainsi que son monde, ne sont pas formés par des interprétations venant d’une histoire d’interprétations précédentes. L’interprétation elle-même (c’est-à-dire « l’élaboration de possibilités projetées dans la compréhension ») met le présent en question, affectant le déploiement de l’essence. En fait, la matrice chargée de sens mise à jour par l’interprétation constitue une grande part de ce qui forme le « là » (da) dans le Dasein [44].

Etant donné qu’il n’y a pas de Sein sans un da, aucune existence sans un fondement, l’homme, dans sa nature la plus intérieure, est inséparable de la matrice qui « rend possible ce qui a été projeté » [45]. A l’intérieur de cette matrice, l’Etre est inhérent à « l’appropriation du fondement du là » [46]. Contrairement à l’argumentation de Chevaucher le tigre, cette herméneutique historiquement consciente ne prive pas l’homme de l’Etre, ni ne nie la primauté de l’Etre, ni ne laisse l’homme à la merci de sa condition situationnelle. Elle n’a rien à voir non plus avec l’« indéterminisme » radical de Sartre – qui rend le sens contextuellement contingent et l’essence effervescente.

Pour Heidegger l’homme n’existe pas dans un seul de ses moments donnés, mais dans tous, car son être situé (le projet qu’il réalise dans le temps) ne se trouve dans aucun cas unique de son déploiement (ou dans ce que Guénon appelait « la nature indéfinie des possibilités de chaque état »). En fait, il existe dans toute la structure temporelle s’étendant entre la naissance et la mort de l’homme, puisqu’il réalise son projet dans le monde. Sans un passé et un futur pas-encore-réalisé, l’existence humaine ne serait pas Dasein, avec un futur légué par un passé qui est en même temps une incitation à un futur. A la différence de l’individu sartrien (dont l’être est une possibilité incertaine et illimitée) et à la différence de l’éternaliste (qui voit son âme en termes dépourvus de références terrestres), l’homme heideggérien se trouve seulement dans un retour (une « écoute ») à l’essence postulée par son origine.

Cette écoute de l’essence, la nécessité de la découverte de soi pour une existence authentique, n’est pas une pure possibilité, soumise aux « planifications, conceptions, machinations et complots » individuels, mais l’héritier d’une origine spécifique qui détermine son destin. En effet, l’être vient seulement de l’Etre [47]. La notion heideggérienne de la tradition privilégie donc l’Andenken (le souvenir qui retrouve et renouvelle la tradition) et la Verwindung (qui est un aller au-delà, un surmonter) – une idée de la tradition qui implique l’inséparabilité de l’Etre et du Devenir, ainsi que le rôle du Devenir dans le déploiement de l’Etre, plutôt que la négation du Devenir [48].

« Le repos originel de l’Etre » qui a le pouvoir de sauver l’homme du « vacarme de la vie inauthentique, anodine et extérieure » n’est cependant pas aisément gagné. « Retrouver le commencement de l’existence historico-spirituelle afin de la transformer en un nouveau commencement » (qui, à mon avis, définit le projet traditionaliste radical) requiert « une résolution anticipatoire » qui résiste aux routines stupides oublieuses de la temporalité humaine [49]. Inévitablement, une telle résolution anticipatoire ne vient que lorsqu’on met en question les « libertés déracinées et égoïstes » qui nous coupent des vérités en cours déploiement de l’Etre et nous empêchent ainsi de comprendre ce que nous sommes – un questionnement dont la nécessité vient des plus lointaines extrémités de l’histoire de l’homme et dont les réponses sont intégrales pour la tradition qu’elles forment » [50].

L’histoire pour Heidegger est donc un « choix pour héros », exigeant la plus ferme résolution et le plus grand risque, puisque l’homme, dans une confrontation angoissante avec son origine, réalise une possibilité permanente face à une conventionalité amnésique, auto-satisfaite ou effrayante [51]. Les choix historiques qu’il fait n’ont bien sûr rien à voir avec l’individualisme ou le subjectivisme (avec ce qui est arbitraire ou volontaire), mais surgissent de ce qui est vrai et « originel » dans la tradition. Le destin d’un homme (Geschick), comme le destin d’un peuple (Schicksal), ne concerne pas un « choix », mais quelque chose qui est « envoyée » (geschickt) depuis un passé lointain qui a le pouvoir de déterminer une possibilité future. L’Etre, écrit Heidegger, « proclame le destin, et donc le contrôle de la tradition » [52].

En tant qu’appropriation complète de l’héritage dont l’homme hérite à sa naissance, son destin n’est jamais forcé ou imposé. Il s’empare des circonstances non-choisies de sa communauté et de sa génération, puisqu’il recherche la possibilité léguée par son héritage, fondant son existence dans sa « facticité historique la plus particulière » – même si cette appropriation implique l’opposition à « la dictature particulière du domaine public » [53]. Cela rend l’identité individuelle inséparable de son identité collective, puisque l’Etre-dans-le-monde reconnaît son Etre-avec-les-autres (Mitsein). L’homme heideggérien ne réalise ce qu’il est qu’à travers son implication dans le temps et l’espace de sa propre existence destinée, puisqu’il se met à « la disposition des dieux », dont l’actuel « retrait demeure très proche » [54].

La communauté de notre propre peuple, le Mitsein, est le contexte nécessaire de notre Dasein. Comme telle, elle est « ce en quoi, ce dont et ce pour quoi l’histoire arrive » [55]. Comme l’écrit Gadamer, le Mitsein « est un mode primordial d’‘Etre-nous’ – un mode dans lequel le Je n’est pas supplanté par un vous [mais] …englobe une communauté primordiale » [56]. Car même lorsqu’elle s’oppose aux conventions dominantes par besoin d’authenticité individuelle, la recherche de possibilité par le Dasein est une « co-historisation » avec une communauté – une co-historisation dans laquelle un héritage passé devient la base d’un futur plein de sens [57]. Le destin qu’il partage avec son peuple est en effet ce qui fonde le Dasein dans l’historicité, le liant à l’héritage (la tradition) qui détermine et est déterminé par lui [58].

En tant qu’horizon de la transcendance heideggérienne, l’histoire et la tradition ne sont donc jamais universelles, mais plurielles et multiples, produit et producteur d’histoires et de traditions différentes, chacune ayant son origine et sa qualité d’être spécifiques. Il peut y avoir certaines vérités abstraites appartenant aux peuples et aux civilisations partout, mais pour Heidegger il n’y a pas d’histoire ou de tradition abstraites pour les inspirer, seulement la pure transcendance de l’Etre. Chaque grand peuple, en tant qu’expression distincte de l’Etre, possède sa propre histoire, sa propre tradition, sa propre transcendance, qui sont sui generis. Cette spécificité même est ce qui donne une forme, un but et un sens à son expérience d’un monde perpétuellement changeant. Il se peut que l’Etre de l’histoire et de la tradition du Dasein soit universel, mais l’Etre ne se manifeste que dans les êtres, l’ontologie ne se manifeste que dans l’ontique. Selon les termes de Heidegger, « c’est seulement tant que le Dasein existe… qu’il y a l’Etre » [59].

Quand la métaphysique guénonienne décrit la Vérité Eternelle comme l’unité transcendante qui englobe toutes les « religions archaïques » et la plupart des « religions terrestres », elle offre à l’homme moderne une hauteur surplombante d’où il peut évaluer les échecs de son époque. Mais la vaste portée de cette vision a pour inconvénient de réduire l’histoire et la tradition de peuples et de civilisations différents (dont elle rejette en fait les trajectoires singulières) à des variantes sur un unique thème universel (« La pensée moderne, les Lumières, maçonnique », pourrait-on ajouter, nie également l’importance des histoires et des traditions spécifiques).

Par contre, un traditionaliste radical au sens heideggérien se définit en référence non à l’Eternel mais au Primordial dans son histoire et sa tradition, même lorsqu’il trouve des choses à admirer dans l’histoire et la tradition des non-Européens. Car c’est l’Europe qui l’appelle à sa possibilité future. Comme la vérité, la tradition dans la pensée de Heidegger n’est jamais une abstraction, jamais une formulation supra-humaine de principes éternels pertinents pour tous les peuples (bien que ses effets formatifs et sa possibilité futurale puissent assumer une certaine éternité pour ceux à qui elle parle). Il s’agit plutôt d’une force dont la présence illumine les extrémités éloignées de l’âme ancestrale d’un peuple, mettant son être en accord avec l’héritage, l’ordre et le destin qui lui sont singuliers.

Héraclite et Parménide

Quiconque prend l’histoire au sérieux, refusant de rejeter des millénaires de temporalité européenne, ne suivra probablement pas les éternalistes dans leur quête métaphysique. En particulier dans notre monde contemporain, où les forces régressives de mondialisation, du multiculturalisme et de la techno-science cherchent à détruire tout ce qui distingue les peuples et la civilisation de l’Europe des peuples et des civilisations non-européens. Le traditionaliste radical fidèle à l’incomparable tradition de la Magna Europa (et fidèle non pas au sens égoïste du nationalisme étroit, mais dans l’esprit de l’« appartenance au destin de l’Occident ») ne peut donc qu’avoir une certaine réserve envers les guénoniens – mais pas envers Evola lui-même, et c’est ici le tournant de mon argumentation. Car après avoir rejeté la Philosophie Eternelle et sa distillation évolienne, il est important, en conclusion, de « réconcilier » Evola avec les impératifs traditionalistes radicaux de la pensée heideggérienne – car l’alpiniste Evola ne fut pas seulement un grand Européen, un défenseur infatigable de l’héritage de son peuple, mais aussi un extraordinaire Kshatriya, dont l’héroïque Voie de l’Action inspire tous ceux qui s’identifient à sa « Révolte contre le monde moderne ».

Julius-Evola_7444.jpgBien qu’il faudrait un autre article pour développer ce point, Evola, même lorsqu’il se trompe métaphysiquement, offre au traditionaliste radical une œuvre dont les motifs boréens demandent une étude et une discussion approfondies. Mais étant donné l’argument ci-dessus, comment les incompatibilités radicales entre Heidegger et Evola peuvent-elles être réconciliées ?

La réponse se trouve, peut-être, dans cette « étrange » unité reliant les deux premiers penseurs de la tradition européenne, Héraclite et Parménide, dont les philosophies étaient aussi antipodiques que celles de Heidegger et Evola. Héraclite voyait le monde comme un « grand feu », dans lequel tout était toujours en cours de consumation, de même que l’Etre fait perpétuellement place au Devenir. Parménide, d’autre part, soulignait l’unité du monde, le voyant comme une seule entité homogène, dans laquelle tous ses mouvements apparents (le Devenir) faisaient partie d’une seule universalité (l’Etre), les rides et les vagues sur le grand corps de la mer. Mais si l’un voyait le monde en termes de flux et l’autre en termes de stase, ils reconnaissaient néanmoins tous deux un logos unifiant commun, une structure sous-jacente, une « harmonie rassemblée », qui donnait unité et forme à l’ensemble – que l’ensemble se trouvât dans le tourbillon apparemment insensé des événements terrestres ou dans l’interrelation de ses parties innombrables. Cette unité est l’Etre, dont la domination ordonnatrice du monde sous-tend la sensibilité parente animant les distillations originelles de la pensée européenne.

Les projets rivaux de Heidegger et Evola peuvent être vus sous un éclairage similaire. Dans une métaphysique soulignant l’universel et l’éternel, l’opposition de l’Etre et du Devenir, et la primauté de l’inconditionné, Evola s’oppose à la position de Heidegger, qui met l’accent sur le caractère projeté et temporel du Dasein. Evola parvient cependant à quelque chose qui s’apparente aux vues les plus élevées de la pensée heideggérienne. Car quand Heidegger explore le fondement primordial des différents êtres, recherchant le transcendant (l’Etre) dans l’immanence du temps (le Devenir), lui aussi saisit l’Etre dans sa présence impérissable, car à cet instant le primordial devient éternel – pas pour tous les peuples (étant donné que l’origine et le destin d’un peuple sont inévitablement singuliers), mais encore pour ces formes collectives de Dasein dont les différences sont de la même essence (dans la mesure où elles sont issues du même héritage indo-européen).

L’accent mis par Heidegger sur le primordialisme est, je crois, plus convainquant que l’éternalisme d’Evola, mais il n’est pas nécessaire de rejeter ce dernier en totalité (en effet, on peut se demander si dans Etre et Temps Heidegger lui-même n’a pas échoué à réconcilier ces deux facettes fondamentales de l’ontologie). Il se peut donc que Heidegger et Evola approchent l’Etre depuis des points de départ opposés et arrivent à des conclusions différentes (souvent radicalement différentes), mais leur pensée, comme celle d’Héraclite et de Parménide, convergent non seulement dans la primauté qu’ils attribuent à l’Etre, mais aussi dans la manière dont leur compréhension de l’Etre, particulièrement en relation avec la tradition, devient un antidote à la crise du nihilisme européen.

Notes

[1] Dominique Venner, Histoire et tradition des Européens : 30.000 ans d’identité (Paris : Rocher, 2002), p. 18. Cf. Michael O’Meara, « From Nihilism to Tradition », The Occidental Quarterly 3: 2 (été 2004).

[2] Friedrich Nietzsche, The Will to Power, trad. par W. Kaufmann et R. J. Hollingdale (New York: Vintage, 1967), pp. 9-39 ; Friedrich Nietzsche, The Gay Science, trad. par W. Kaufmann (New York: Vintage, 1975), § 125. Cf. Martin Heidegger, Nietzsche : 4. Nihilism, trad. par F.A. Capuzzi (San Francisco: Harper, 1982).

[3] « Editorial Prefaces », TYR : Myth – Culture – Tradition 1 et 2 (2002 et 2004).

[4] M. Raphael Johnson, « The State as the Enemy of the Ethnos », at http://es.geocities.com/sucellus23/807.htm. Dans Humain, trop humain (§ 96), Nietzsche écrit : La tradition émerge « sans égard pour le bien ou le mal ou autre impératif catégorique, mais… avant tout dans le but de maintenir une communauté, un peuple ».

[5] Martin Heidegger, Introduction to Metaphysics, trad. par G. Fried et R. Polt (New Haven: Yale University Press, 2000), p. 11.

[6] Bien que Guénon eut un effet formatif sur Evola, qui le considérait comme son « maître », l’Italien était non seulement suffisamment indépendant pour se séparer de Guénon sur plusieurs questions importantes, particulièrement en soulignant les origines « boréennes » ou indo-européennes de la Tradition, mais aussi en donnant au projet traditionaliste une tendance nettement militante et européaniste (je soupçonne que c’est cette tendance dans la pensée d’Evola, combinée à ce qu’il prend à Bachofen, Nietzsche et De Giorgio, qui le met – du moins sourdement – en opposition avec sa propre appropriation de la métaphysique guénonienne). En conséquence, certains guénoniens refusent de le reconnaître comme l’un des leurs. Par exemple, le livre de Kenneth Oldmeadow, Traditionalism : Religion in Light of the Perennial Philosophy (Colombo : The Sri Lanka Institute of Traditional Studies, 2000), à présent le principal ouvrage en anglais sur les traditionalistes, ne fait aucune référence à lui. Mon avis est que l’œuvre d’Evola n’est pas aussi importante que celle de Guénon pour l’Eternalisme, mais que pour le « radical » européen, c’est sa distillation la plus intéressante et la plus pertinente. Cf. Mark Sedgwick, Against the Modern World: Traditionalism and the Secret History of the Twentieth Century (New York: Oxford University Press, 2004) ; Piero Di Vona, Evola y Guénon: Tradition e civiltà (Naples: S.E.N., 1985) ; Roger Parisot, « L’ours et le sanglier ou le conflit Evola-Guénon », L’âge d’or 11 (automne 1995).

[7] L’attrait tout comme la mystification du concept évolien sont peut-être le mieux exprimés dans l’extrait suivant de la fameuse recension de Révolte contre le monde moderne par Gottfried Benn : « Quel est donc ce Monde de la Tradition ? Tout d’abord, son évocation romancée ne représente pas un concept naturaliste ou historique, mais une vision, une incantation, une intuition magique. Elle évoque le monde comme un universel, quelque chose d’à la fois céleste et supra-humain, quelque chose qui survient et qui a un effet seulement là où l’universel existe encore, là où il est sensé, et où il est déjà exception, rang, aristocratie. A travers une telle évocation, la culture est libérée de ses éléments humains, historiques, libérée pour prendre cette dimension métaphysique dans laquelle l’homme se réapproprie les grands traits primordiaux et transcendants de l’Homme Traditionnel, porteur d’un héritage ». « Julius Evola, Erhebung wider die moderne Welt » (1935), http://www.regin-verlag.de.

[8] Julius Evola, « La vision romaine du sacré » (1934), dans Symboles et mythes de la Tradition occidentale, trad. par H.J. Maxwell (Milan : Arché, 1980).

[9] Julius Evola, Men Among the Ruins, trad. par G. Stucco (Rochester, Vermont: Inner Traditions, 2002), p. 116 ; Julius Evola, « Che cosa è la tradizione » dans L’arco e la clava (Milan: V. Scheiwiller, 1968).

[10] Luc Saint-Etienne, « Julius Evola et la Contre-Révolution », dans A. Guyot-Jeannin, ed., Julius Evola (Lausanne : L’Age d’Homme, 1997).

[11] Julius Evola, Revolt against the Modern World, trad. par G. Stucco (Rochester, Vermont: Inner Traditions International, 1995), p. 6.

[12] En accord avec une ancienne convention des études heideggériennes de langue anglaise, « Etre » est utilisé ici pour désigner das Sein et « être » das Seiende, ce dernier se référant à une entité ou à une présence, physique ou spirituelle, réelle ou imaginaire, qui participe à l’« existence » de l’Etre (das Sein). Bien que différant en intention et en ramification, les éternalistes conservent quelque chose de cette distinction. Cf. René Guénon, The Multiple States of Being, trad. par J. Godwin (Burkett, N.Y.: Larson, 1984).

[13] Martin Heidegger, The End of Philosophy, trad. par J. Stambaugh (Chicago: University of Chicago Press, 1973), p. 32.

[14] Cf. Alain de Benoist, On Being a Pagan, trad. par J. Graham (Atlanta: Ultra, 2004).

[15] On dit que la métaphysique guénonienne est plus proche de l’identification de la vérité et de l’Etre par Platon que de la tradition post-aristotélicienne, dont la distinction entre idée et réalité (Etre et être, essence et apparence) met l’accent sur la seconde, aux dépens de la première. Heidegger, The End of Philosophy, pp. 9-19.

[16] Martin Heidegger, Being and Time, trad. par J. Macquarrie et E. Robinson (New York: Harper & Row, 1962), § 6 ; aussi Martin Heidegger, “The Age of the World Picture”, dans The Question Concerning Technology and Others Essays, trad. par W. Lovitt (New York: Harper & Row, 1977).

[17] Heidegger, Being and Time, § 6.

[18] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 47.

[19] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 41.

[20] Heidegger, Being and Time, § 69b.

[21] Martin Heidegger, Nietzsche: 1. The Will to Power as Art, trad. par D. F. Krell (San Francisco: Harper, 1979), p. 22.

[22] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 35.

[23] Martin Heidegger, “Letter on Humanism”, dans Pathmarks, prep. par W. McNeil (Cambridge: Cambridge University Press, 1998).

[24] Heidegger, Being and Time, § 79.

[25] Heidegger, Being and Time, § 65.

[26] Certaines parties de ce paragraphe et plusieurs autres plus loin sont tirées de mon livre New Culture, New Right: Anti-Liberalism in Postmodern Europe (Bloomington: 1stBooks, 2004), pp. 123ff.

[27] Heidegger, “Letter on Humanism”.

[28] Martin Heidegger, Plato’s Sophist, trad. par R. Rojcewicz et A. Schuwer (Bloomington: Indiana University Press, 1976), p. 158.

[29] Heidegger, Being and Time, § 76.

[30] Martin Heidegger, Contributions to Philosophy (From Enowning), trad. par P. Emad et K. Mahy (Bloomington: Indiana University Press, 1999), § 3 et § 20.

[31] Martin Heidegger, Parmenides, trad. par A. Schuwer et R. Rojcewicz (Bloomington: Indiana University Press, 1992), p. 1.

[32] Martin Heidegger, “The Self-Assertion of the German University”, dans The Heidegger Controversy, prep. par Richard Wolin (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1993). Aussi : « Seul ce qui est unique est recouvrable et répétable… Le commencement ne peut jamais être compris comme le même, parce qu’il s’étend en avant et ainsi va chaque fois au-delà de ce qui est commencé à travers lui et détermine de même son propre recouvrement ». Heidegger, Contributions to Philosophy, § 20.

[33] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 101.

[34] Hans-Georg Gadamer, Heidegger’s Ways, trad. par J. W. Stanley (Albany: State University of New York Press, 1994), p. 64.

[35] Gadamer, Heidegger’s Ways, p. 33.

[36] Martin Heidegger, Hölderlin’s Hymn “The Ister”, trad. par W. McNeil et J. Davis (Bloomington: Indiana University Press, 1996), p. 151.

[37] Martin Heidegger, “The Origin of the Work of Art”, dans Basic Writings, prep. par D. F. Krell (New York: Harper & Row, 1977).

[38] Alain de Benoist, L’empire intérieur (Paris: Fata Morgana, 1995), p. 18.

[39] Heidegger, Being and Time, § 65.

[40] Julius Evola, Ride the Tiger, trad. par J. Godwin et C. Fontana (Rochester, Vermont: Inner Traditions, 2003), pp. 78-103.

[41] Cf. Martin Heidegger, The Basic Problems of Phenomenology, trad. par A. Hofstader (Bloomington: Indiana University Press, 1982), pt. 1, ch. 2.

[42] Quand Evola écrit dans Ride the Tiger que Heidegger voit l’homme « comme une entité qui ne contient pas l’être… mais [se trouve] plutôt devant lui, comme si l’être était quelque chose à poursuivre ou à capturer » (p. 95), il interprète très mal Heidegger, suggérant que ce dernier dresse un mur entre l’Etre et l’être, alors qu’en fait Heidegger voit le Dasein humain comme une expression de l’Etre – mais, du fait de la nature humaine, une expression qui peut ne pas être reconnue comme telle ou authentiquement réalisée.

[43] Heidegger, Parmenides, p. 68.

[44] Heidegger, Being and Time, § 29 ; Contributions to Philosophy, § 120 et § 255.

[45] Heidegger, Being and Time, § 65.

[46] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 92.

[47] Heidegger, Being and Time, § 37.

[48] Gianni Vattimo, The End of Modernity, trad. par J. R. Synder (Baltimore: The John Hopkins University Press, 1985), pp. 51-64.

[49] Heidegger, Introduction to Metaphysics, pp. 6-7.

[50] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 117 et § 184 ; cf. Carl Schmitt, Political Theology, trad. par G. Schwab (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1985).

[51] Heidegger, Being and Time, § 74.

[52] Martin Heidegger, “The Onto-theo-logical Nature of Metaphysics”, dans Essays in Metaphysics, trad. par K. F. Leidecker (New York: Philosophical Library, 1960).

[53] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 5.

[54] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 5.

[55] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 162.

[56] Gadamer, Heidegger’s Ways, p. 12.

[57] Heidegger, Being and Time, § 74.

[58] Heidegger, Being and Time, § 74.

[59] Heidegger, Being and Time, § 43c.

Source: TYR: Myth — Culture — Tradition, vol. 3, ed. Joshua Buckley and Michael Moynihan (Atlanta: Ultra, 2007), pp. 67-88.


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