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jeudi, 23 avril 2009

Giano Accame : pensiero scomodo

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Giano Accame, pensiero scomodo

 

14 maggio 2001

Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Classico "Umberto I" di Napoli"

STUDENTESSA: Ringraziamo Giano Accame per essere qui con noi. Prima di dare avvio alla discussione guardiamo la scheda filmata.

Pensieri scomodi, pensieri inquietanti, pensieri di difficile collocazione, attraversano, come ombre, il corso del secolo che è appena trascorso. Un secolo dove la massa si è fatta protagonista e il conformismo, l'automatismo mentale, l'inerzia, il torpore, sono diventati condotta comune, norma di comportamento. Il secolo dei grandi totalitarismi sicuramente è anche il secolo dell'indottrinamento di massa, ma, paradossalmente, è anche il secolo degli antagonismi, delle ribellioni, è il secolo in cui scrittori e pensatori, spesso solitari, emarginati, talvolta sconfitti dalla storia, conducono "esperimenti temerari" o semplicemente portano il peso di una "intelligenza scomoda", refrattaria a ogni conformismo. È il caso, ad esempio, dello scrittore tedesco Ernst Junger, una delle grandi figure della letteratura del Novecento. In età più che matura, all'inizio degli anni Cinquanta, Junger teorizza il comportamento del ribelle, al quale, "per sapere che cosa sia giusto, non servono teorie o leggi escogitate da qualche giurista di partito". Il ribelle "attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni". Il ribelle rifugge da ogni ordine costituito, non appartiene più a niente, ha varcato una volta per tutte il meridiano delle opinioni comuni. Pensatore scomodo è dunque Junger, come d'altra parte scrittore scomodo è stato Louis-Ferdinand Céline, definito "veggente del tramonto dell'Occidente". Poeta scomodo è Ezra Pound, una delle voci più alte della poesia del Novecento e uno dei critici più feroci della vita degradata, misurata dal denaro e dalla prestazione. E scrittore scomodo Yukio Mishima, la cui "intelligenza scomoda" si esprime nella ricerca della bellezza e nella fedeltà alla propria tradizione. Ma ogni ricerca ha il suo prezzo: Mishima muore suicida nel 1970.

STUDENTESSA: Possiamo arrivare a definire una "intelligenza scomoda"? Cioè quali sono i suoi tratti distintivi?

ACCAME: Questa espressione, "intelligenze scomode", viene da una trasmissione di Rai Educational dedicata a scrittori, intellettuali e artisti di destra, ma più che di destra, o fascisti, o accusati di fascismo, persone che sono state una parte ineliminabile, importante, del pensiero del Novecento; e che appartengono ormai non solo a una parte, ma al genere umano. Non si potrebbe fare a meno, nella letteratura italiana, di Gabriele D'Annunzio, anche se a Fiume ha creato la ritualità del fascismo, i saluti, il discorso dal balcone. La filosofia italiana non potrebbe fare a meno del più grande filosofo accademico del Novecento, Giovanni Gentile. L'arte italiana non potrebbe fare a meno del futurismo, anche se Marinetti è stato fascista. Il futurismo è stato, dopo il Barocco, la prima volta che l'arte italiana ha avuto di nuovo una dimensione universale. E così la cultura del mondo non potrebbe più rinunciare a Ezra Pound, che è stato il grande innovatore del modo di fare poesia in lingua inglese, o di Céline, che ha cambiato completamente, rinnovato, il modo di fare prosa narrativa, o di Carl Schmitt, che è stato il più grande politologo del secolo scorso.

STUDENTESSA: Secondo Lei, quali sono i rischi, i pericoli, che una "intelligenza scomoda" corre al giorno d'oggi, e quali sono stati quelli dell'anticonformismo nel secolo appena passato?

ACCAME: Ad esempio, tra i rischi dell'anticonformismo, è esemplare la vita tormentata di Ezra Pound, che per essere stato vicino al fascismo e soprattutto alla repubblica sociale italiana, fu poi chiuso dai suoi concittadini americani in una gabbia, come una bestia, in un campo di concentramento a Pisa e poi confinato per tredici anni in un manicomio criminale negli Stati Uniti. Questa idea di curare le dissidenze come una forma di disturbo mentale non è stata adottata prima nell'Unione Sovietica, ma per prima in America. Non accettandosi l'idea che il più grande poeta americano fosse simpatizzante del fascismo, lo si è fatto passare per matto.

STUDENTE: Al di là del nostro secolo, come può manifestarsi oggi una "intelligenza scomoda"? E cosa vuol dire, nella nostra società, andare contro l'opinione comune?

ACCAME: È sempre una posizione rischiosa e naturalmente scomoda. Non lo è stata nella prima metà del secolo, dove il pensiero fascista è stato dominante in quasi tutta l'Europa, ma nella seconda metà del secolo queste forme di cultura sono state emarginate e quindi, tra l'altro, si sono rarefatti gli intellettuali che vi hanno aderito. Il massimo della scomodità oggi è nel ribellarsi alla pretesa del denaro, dei poteri finanziari, e di porsi come elemento principale della scelta politica. Oggi viene teorizzato dalla migliore cultura economica, quella che viene dalla Banca d'Italia in Italia, la compresenza di due elettorati: uno siamo noi, sarete Voi, quando ci arrivate, a diciotto anni, il popolo sovrano, quello che vota per dei deputati e dei senatori, che contano sempre di meno. E l'altro invece è il grande elettorato del mercato finanziario, che, si dice, ormai vota tutti i giorni in casa nostra, facendo salire o scendere le quotazioni della lira e della borsa, a seconda che il Parlamento e i governi si comportino bene, cioè secondo le indicazioni del mercato finanziario, oppure si comportino male. Se spendono troppo per i pensionati o gli ammalati, la lira cade. Ecco, ribellarsi a questo grande potere internazionale è certamente scomodo, perché la maggior parte degli organi di informazione importanti sono nelle mai del potere finanziario, e quindi liberissimi nel criticare i poteri politici, molto meno nel criticare i poteri economici. I grandi giornali, le televisioni, sono un po' delle pistole puntate alla tempia dei poteri politici, che devono adeguarvisi.

STUDENTE: Non pensa che sia il pericolo ad impedire l'esercizio dell'anticonformismo? E ancora: è forse per paura che ci si adegua all'opinione comune?

ACCAME: Per la verità l'anticonformismo oggi non viene impedito. Viviamo in un periodo di piena libertà, soltanto che nessuno gli dà poi retta. Diceva Ezra Pound che la libertà di parola, senza la libertà di esprimersi via radio, non vale nulla. Questo lo diceva quando non esisteva ancora la televisione. Se uno scrive, ma non arriva a esprimersi attraverso il nuovo grande mezzo di comunicazione, parla a vuoto, o parla a delle piccole minoranze. Non credo che oggi vi siano motivi di paura. Il grande vantaggio di essere usciti dai due secoli di cultura delle rivoluzioni, con la caduta del Muro di Berlino, che nessuno ha più legittimo motivo di avere paura per la vita, per la libertà, per i beni, di fronte a qualunque scelta politica. Il potere non fa paura. Il potere però può emarginare, è naturale insomma. Quindi esiste, è legittimo, anche per gli intellettuali, il timore, la paura di essere isolati, di essere emarginati, di non contare niente, quindi di non guadagnare. Ecco, questo è. Ridimensionando il timore, è lì oggi il vero nemico dell'anticonformismo, quello che spesso vengono reclamizzate sono forme di anticonformismo banale, ma quello più serio viene ancora ghettizzato.

STUDENTESSA: Recentemente ho visto un film, L'ultimo bacio, di Gabriele Muccino, e uno dei personaggi dice: "La normalità è la vera rivoluzione". Lei cosa ne pensa?

ACCAME: La rivoluzione è cambiamento, mentre la normalità è stabilizzazione. La grossa difficoltà nel rapporto tra gli intellettuali e la politica è che, soprattutto in periodo democratico di elezioni, la politica si muove appunto sulla normalità. La politica deve usare argomenti accessibili al grande pubblico, quindi argomenti ormai banalizzati. Mentre il compito dell'intellettuale è quello di spingersi oltre, di dire delle novità; il compito più difficile, insomma. Ma la normalità non è la vera rivoluzione. La vera rivoluzione è il cambiamento. La vera rivoluzione è stata - adesso ormai questo periodo di due secoli è finito -  l'ambizione delle filosofie a inverarsi nella storia. Un tempo ci si accontentava che le filosofie spiegassero il mondo. Da Marx a Gentile, che ha ripreso questa filosofia della prassi di Marx, invece si aggiunge o si era aggiunta una nuova pretesa, che la filosofia non solo spiegasse il mondo, ma che lo cambiasse. Ecco, la normalità non ha questa pretesa di cambiamento. La normalità di solito si adegua e non penso che possa essere rivoluzionaria.

STUDENTESSA: Nella scheda filmata abbiamo visto che gli scrittori e i pensatori citati sono tutti critici della democrazia occidentale. Ora l'atteggiamento antidemocratico può identificarsi con l'anticonformismo?

ACCAME: Certamente! Perché quelli anticonformisti sono atteggiamenti di minoranza, che quindi spesso si rivoltano, o si sono rivoltati in passato contro la democrazia. In realtà né Pound né Junger si sono particolarmente rivoltati contro la democrazia. Se mai solo Mishima, che è un curioso esempio di fascismo di ritorno, o di tradizionalismo di ritorno. Durante la guerra  Mishima fu scartato alla leva e ne fu contentissimo perché si risparmiava la vita. Diventò lo scrittore giapponese più noto in Occidente, e di solito in Italia tutti i suoi primi libri sono stati pubblicati da Feltrinelli, quindi anche molto gradito alla sinistra. Omosessuale, o almeno bisessuale, quindi trasgressivo, su un piano che il pensiero conservatore è meno orientato a accettare. E tuttavia, dopo aver riscosso successo internazionale e in Giappone naturalmente, a un certo punto ha sentito la vanità di questo successo e ha avuto un ritorno di pensiero conservatore, tradizionale ed è ritornato all'antica etica dei Samurai, sino a compiere il sacrificio rituale in una caserma giapponese, per protestare contro l'occidentalizzazione del Giappone e soprattutto contro l'asservimento dell'attuale classe politica giapponese agli americani. Ecco, quindi è l'unico, se mai, che si è ribellato a quel tipo di democrazia asservita. In realtà tutti poi dopo hanno fatto riferimento al popolo. In particolare Ezra Pound era fortemente critico del sistema politico americano, ma non perché fosse antidemocratico. Lui seguiva le idee di Jefferson, che è tra i creatori della democrazia americana, ma accusava la classe dirigente democratica americana di essersi asservita ai banchieri, di essersi asservita al grande capitale finanziario e di aver quindi tradito la stessa Costituzione degli Stati Uniti, che riservava al Congresso la sovranità monetaria e invece questa sovranità era stata trasferita ai banchieri. Questo era più legato alla vera idea dei pionieri americani. Si considerava infatti un vero patriota americano, in rivolta contro il tradimento della democrazia fatta delegando troppi problemi e troppi poteri alla finanza.

STUDENTE: Non crede che l'anticonformismo sia possibile solo in democrazia, e che invece il totalitarismo non sopporti le intelligenze scomode?

ACCAME: Certamente è più facile in democrazia che nei totalitarismi.  E tuttavia anche nei sistemi totalitari ci sono stati esempi di rivolta, di ribellione, che naturalmente sono costati di più. Io, come scrittore di destra, la libertà in questo mezzo secolo ho dovuto più faticosamente conquistarmela, giorno per giorno. A me non l'hanno regalata gli americani, insomma, non mi è stata importata. L'ho dovuta conquistare vincendo pregiudizi, difficoltà, tentativi di discriminazione. E quindi qualche difficoltà la si incontra anche in un sistema di piena libertà.

STUDENTE: Si può, paradossalmente, seguire la legge ed essere comunque scomodi? Pensavo, ad esempio, al Giudice Falcone.

ACCAME: Certamente! Ma il Giudice Falcone era scomodo per la delinquenza, per la grande criminalità organizzata. Non direi che sia un esempio di anticonformismo. È un esempio di eroismo, come quello del Giudice Borsellino, come quello delle forze dell'ordine quotidianamente impegnate nella difesa delle persone per bene, degli onesti, contro la grande criminalità. Ma non direi che questo sia un esempio di anticonformismo. Per quanto, lì dove la società è addormentata, dove esistono complicità tra poteri politici e grandi organizzazioni mafiose, anche questo, il coraggio di rivoltarsi, rischiando la pelle, può, a suo modo, essere interpretato come un anticonformismo. L'egoismo, il rischiare la vita, è sempre impresa di pochi. L'eroe è di per sé uno che si stacca dalla media, dalla normalità, e in questo si può considerare non perfettamente conformista. Non è uno che si fa i fatti suoi e pensa solo alla famiglia. Pensa alla Patria, alla generalità dei cittadini.

STUDENTESSA: Secondo Lei l'intelligenza scomoda è capace solo di demolire e criticare, o è in grado anche di costruire e affermare?

ACCAME: L'intelligenza scomoda vorrebbe anche costruire e affermare. In realtà, dalla lezione dei fascismi è venuto qualcosa che oggi, a livello debole, è estremamente diffuso. Cosa ha fatto il successo politico di Mussolini, ad esempio? È stato il ribellarsi a quella spaccatura, che è nel cuore dell'uomo e della società europea, che aveva provocato la presunzione illuministica, contrapponendo alla tradizione il progresso, contrapponendo alla fede la ragione e la scienza, e, poi il socialismo, contrapponendo alla aspirazione e alla giustizia sociale l'idea di Dio e della Patria. Il successo di Mussolini è stato quello di risaldare queste spaccature e legando e rendendo compatibile, con un'aspirazione alla giustizia sociale, l'idea di Dio e della Patria. Naturalmente poi gli errori hanno compromesso questo tentativo, che aveva suscitato tanti entusiasmi, aprendo nuovi conflitti: conflitto razziale, la discriminazione degli ebrei, e aprendo un conflitto sui temi della libertà. Ma questa idea di risaldare, di non spaccare le masse, sui temi di Dio e della Patria, e spingere il progresso delle masse, unificando questi sentimenti forti, oggi è condivisa da tutti. Nel socialismo italiano è stato Bettino Craxi che ha cercato di sanare queste imprudenti e stupide spaccature, queste fratture. Ha fatto un nuovo Concordato con la Chiesa, ha riscoperto il socialismo tricolore. Ma non c'è forza politica importante, sono solo marginali quelle che non abbiano il pieno rispetto del sentimento religioso e che rinneghino l'aspirazione, oggi più debole, all'identità nazionale. Questo è ormai da destra a sinistra. Tutte le volte che un'idea si affaccia, si affaccia di solito con violenza e con forza, mentre adesso, anche a livello di pensiero debole, tutti condividono questa aspirazione unificante di quelle che sono le grandi tendenze dell'uomo.

STUDENTESSA: Noi finora abbiamo parlato solo di anticonformismo. Ma cosa si intende e come si esprime il conformismo oggi?

ACCAME: Il conformismo, secondo me, si esprime soprattutto nell'economicismo, nell'assegnare, come obiettivo esistenziale e principale, l'idea dell'arricchimento. E questo porta a delle gare che possono essere addirittura distruttive per il genere umano, perché è probabile che l'assetto ecologico della terra non possa resistere a ulteriori progressi, a ulteriori escalation in questa ricerca del benessere e dello spreco. Un tempo ci si accontentava più facilmente della propria condizione economica e si cercava la gratificazione nel far bene certe cose. Il medico condotto non voleva arricchirsi, ma curare, il professore era completamente dedito al proprio lavoro di educatore e non era scontento, i servitori dello Stato e gli ufficiali peroravano la grandezza della nazione. E, comunque, chiunque faceva la propria professione, o il proprio lavoro, o il proprio mestiere di artigiano, di operaio, tendeva a trovare la gratificazione nell'esistenza e in altri valori oltre che quelli monetari. Oggi la ricerca dell'arricchimento, l'economicismo, spegnendo altre aspirazioni dell'uomo, altre tendenze, esprime una forma di conformismo che considero pericolosa. 

STUDENTE: Non pensa che il prezzo da pagare all'anticonformismo sia l'individualismo?

ACCAME: No, se mai proprio il conformismo di oggi è l'individualismo. Ci si lamenta, dopo la caduta del Muro di Berlino, della affermazione planetaria della formazione di un pensiero unico, che è il pensiero liberale individualista. E c'è addirittura una forma quasi di intolleranza liberal-liberista. Se mai, l'anticonformismo oggi si dovrebbe manifestare in un ritorno al pensiero comunitario, all'idea di sentirsi insieme, all'idea della società a cui aderire e da servire.

STUDENTESSA: Secondo Lei, si può essere anticonformisti nel rispetto dell'opinione comune?

ACCAME: L'anticonformismo e l'opinione comune di solito sono in conflitto. L'anticonformista è proprio contro l'opinione comune. Però ci può essere una forma di anticonformismo del conformismo, nel senso che spesso gli intellettuali ostentano forme di disprezzo del senso comune. E allora aderire al senso comune rappresenta in qualche modo una forma di anticonformismo. Il coraggio di pensarla un po' come tutti, perché questo tipo di pensiero viene snobbato.

Puntata registrata il 21 febbraio 2001

De totalitaire democratie

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De totalitaire democratie

Geplaatst door yvespernet op 17 april 2009

Vandaag de dagen leven we in een liberale representatieve parlementaire democratie. Iedereen heeft een stem die via een evenredige verdeling zorgt voor een gelijke vertegenwoordiging van de politieke strekkingen in Vlaanderen. Iedereen heeft het recht op vrije meningsuiting, vrijheid van vergaderen, etc… We mogen dus zeggen en denken wat we willen, censuur is er niet meer. Althans, dat is toch de theorie.

Nieuw en oud totalitarisme

Wanneer men over totalitaire regimes spreekt, heeft men direct een beeld voor van regimes met soldaten in de straten, een zichtbare geheime dienst en met regelmatige verdwijningen van politieke tegenstanders. We kunnen echter ook stellen dat wij vandaag de dag in een totalitaire samenleving wonen. Alleen is het regime veel beter geworden in de schijn te bewaren van de vrije mens en worden er ook allerlei misleidende vormen van totalitarisme gebruikt om politieke oppositie tegen het systeem de kop in te drukken. Waar vroeger werd gewerkt met fysiek geweld om de oppositie aan te vallen, werkt men nu veel slimmer. In vroegere tijden werden opposanten nogal zichtbaar en fysiek uitgeschakeld. Ze verdwenen (waardoor iedereen wel kon raden wat ermee gebeurde) of werden gewoon vermoord. Betogingen en opstanden werden met de wapenstok, de bajonet of het geweer neergeslagen of uiteengeschoten.

Het ontstaan van de consumptiemaatschappij heeft het regime echter een machtig wapen gegeven. Door het voeden van het individualisme worden oude sociale verbanden en wordt het sociale middenveld ondermijnd. Mensen worden aangemoedigd om hun eigen belang na te streven, ook als dit ten koste gaat van anderen. En al juich ik uiteraard de materiële vooruitgang tegenover het begin van de 20ste eeuw toe, het materialisme heeft er ook voor gezorgd dat mensen een disproportioneel groot belang hechten aan hun bezittingen. De arbeiders hadden vroeger amper iets te verliezen bij het ondernemen van politieke actie, vandaar ook de term proletariërs.

Totalitarisme in de maatschappij

Een andere eigenschap van de totalitaire staat, althans toch volgens Hanna Arendt (die we niet echt van sympathie kunnen verdenken van radikaal-rechts gedachtegoed), is het ineenstorten van de klassen in de maatschappij. Iets dat we ook vertaald zien in de opbouw van totalitaire bewegingen. Daarin is iedereen gelijk buiten de leider die als een soort nieuwe absolute vorst boven zijn volgelingen zweeft. Ook deze afbraak van de klassen kunnen we herkennen in de huidige maatschappij. Om een totalitaire samenleving te creëeren, is de afbraak van overkoepelende structuren en groepsgevoel immers vitaal. Enkel het individu mag nog bestaan. Duizend individuen zijn immers makkelijker te controleren dan honderd georganiseerde militanten.

Bovenop de afbraak van de groepen en overkoepelende verbanden is er ook nog een andere belangrijke factor; sociale uitsluiting. Opstandelingen tegen het systeem moet men immers niet proberen neer te knuppelen wanneer men een machtig media-apparaat heeft dat het voor het regime doet. Ook fenomenen als “anti-fascisme” dienen enkel voor het overleven van de staat te waarborgen. De grootste successen tegen de oppositie zijn altijd geboekt geweest wanneer de controle van het regime het minst zichbare bleef. Zodra de bevolking zichzelf bespioneert en verdacht maakt, betekentdit voor de staat een enorme verlichting van hun taken.

Door de controle van de media en door de zelfspionage van de bevolking heeft de staat van na WOII ook voor de eerste keer, in een mate dat een dictatuur nooit heeft kunnen doen, zo een grote controle over de mensen. In alle lagen van de maatschappij; media, cultuur, samenleving, etc… wordt er nu gepleit voor een zo “pluralistisch” mogelijke samenstellingen. Buiten uiteraard de regimebedreigende krachten, die zijn naar het schijnt vanuit hun wezen vijandig naar de mens toe. Althans, dat wenst het regime ons wel wijs te maken.

Een nieuw volksfront

Wanneer de politieke klasse zich eensgezind, wat de verschillen onderling zijn wel zeer minimaal te noemen, tegen alle oppositie kant, is het nodig om een nieuwe weg in te slaan. De oppositie moet zich verenigen in een nieuw soort volksfront. Een identitair, anti-globalistisch, anti-kapitalistisch eenheidsfront tegen het cultuurvernietigende, globalistische en kapitalistische volksvijandige kamp. Eenheid tussen radikaal-links en radikaal-rechts. Maar dan moet radikaal-links ook eens gaan beseffen dat ze niet moeten streven naar dingen als meer migratie, aangezien dat net een wapen is van de neoliberale klasse. Die dienen immers om de lonen hier te drukken en het volk op te zetten tegen het grootkapitaal(1).

Maar totdat de radikaal-linkse kant (al zijn er uitzonderingen godzijdank) heeft geleerd dat het belangrijker is om te strijden tegen de volksvernielers en mensenhandelaars (want daar komt de huidige (economische) massamigratie op neer) dan te ijveren voor de emancipatie van zowat alles, zal het regime rustig verder doen met de demonisering van hun grootste bedreiging; de volksnationalisten en solidaristen.

(1) Het grootkapitaal is een kleine groep mensen die geen belang hecht aan het bestaan van naties, voelen zich met niemand buiten hun eigen sociale groep verbonden (en dan nog) en zullen enkel streven naar het eigen geldgewin. Zij zijn niet de burgerij die zich tenminste nog met een cultuur en volk verbond en zijn kapitaal ten minste ook nog gedeeltelijk ten dienste stelde van kunstenaars en musici. Dit grootkapitaal, dat zich steeds verder en verder op een globale schaal organiseert, wilt helemaal niet beperkt worden in hun doen en laten. Zij zullen dan ook altijd streven naar een verdere liberalisering van de economie. Het grootkapitaal produceert op geen enkele manier een meerwaarde aan de samenleving.

Als een parasiet teert het op de rijkdommen van de maatschappij. Rente en de handel in niet-bestaand geld op de beurzen maakt hen stinkend rijk. Wanneer we spreken over een “klassenstrijd” in solidaristische ogen is het beter om te spreken over de strijd tussen productieven en niet-productieven. Productieven zijn iedereen die bijdraagt door arbeid of investeringen aan de maatschappij in zijn geheel, ik heb het dan over veel meer dan pure economische factoren. Niet-productieven zoals het grootkapitaal teren op de maatschappij en haar verwezenlijkingen als een parasiet die zich volzuigt.

jeudi, 16 avril 2009

Manuel d'insurrection magique

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Manuel d'insurrection magique

 

Les éditions Hriliu publient sous le titre de Lettre du Commandant Marcos à son disciple sur les barricades  un manuel d'insurrection magique qui se présente ainsi: «L'image médiatique, cette condensation matérielle des phantasmes de l'idéologie du capital, engendre désormais le monde. L'ère du Verseau n'est pas la paix; c'est la fin du monde objectif, et sa dévoration subjective par le capital. L'homme vit aujourd'hui dans les songes qui font les mondes, mais ces songes sont ceux des putains mercantiles, pas des dieux qui rêvent. Ce ne sont plus nos corps qui risquent la mort dans la minière comme du temps du prolétariat; ce sont nos âmes qui s'étiolent et s'éteignent dans les luisances de l'imaginaire planétaire marchand. La lutte des castes doit donc s'engager autour des moyens métaphysiques de production du réel. Or la Tradition a toujours affirmé qu'elle détenait ces moyens sous la forme de la Magie. Voici enfin les temps où la Magie doit imposer ses rêves et façonner les mondes». (Pierre MONTHÉLIE).

 

Hriliu c/o P. Pissier, Carrière Maïté, 17 rue Pellegri, F-46.000 Cahors,1996, 40 FF.

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samedi, 11 avril 2009

Capital et zombie

Capital et Zombie

Editorial du numéro 35 de Rébellion ( disponible au début de la semaine prochaine) : http://rebellion.hautetfort.com

Si le développement du monde moderne et sa mobilisation totale sous l’égide de la puissance scientifico-technique ont réalisé le « désenchantement du monde », la danse méphistophélesque du cycle de valorisation du capital s’étendant à tout le globe terrestre n’a parallèlement guère laissé d’espace vierge où le fétichisme de la marchandise n’aurait pas cours. Ainsi toutes les pratiques et croyances humaines se trouvent être ensorcelées par le processus de mondialisation contemporain. Les dernières semaines de rébellion aux Antilles viennent nous rappeler, via le vocabulaire vaudou, et l’articulation dialectique contradiction principale/contradiction secondaire recouvrant le binôme lutte de classe /lutte de race, qu’il est toujours possible de se « dézombifier ». Le soi disant contrat social cher aux théoriciens du droit naturel de l’époque ascensionnelle du mode de production capitaliste n’était en réalité qu’un pacte inégal et trompeur avec le royaume des ténèbres et son maléfique souverain, le capital qui est la valeur ayant le diable au corps. Contre quelques rares et insuffisantes espèces sonnantes et trébuchantes, le prolétaire, libre contracteur sur un marché de dupes, ne pouvait qu’aliéner son âme, sa volonté et donc son corps à un maître collectif ivre de consommation de sa force de travail. Le prolétaire était transformé en zombie auquel étaient magnanimement accordées les miettes plus ou moins importantes issues du productivisme le plus abject.

Dans sa phase d’expansion coloniale, le capital n’avait guère d’autre ressource pour satisfaire sa soif de profit et de trafic que d’instaurer dans certains pays le mode de production esclavagiste excluant le salariat et son illusoire liberté, mais dont la finalité - à la différence de l’esclavage antique ou perdurant dans des pays non européens au marché plus ou moins restreint dans son intensité - était essentiellement tournée vers l’exportation en direction des métropoles européennes. C’est ainsi que la France a hérité dans ses départements antillais d’une société à structure coloniale puis néocoloniale en ce sens que la domination de classe s’articule à une domination de race. L’inertie propre aux représentations idéologiques, couplée aux archaïsmes économiques hérités de phases économiques antérieures a largement laissé perduré une situation sociale et politique jugée à juste titre comme insupportable par la majorité des antillais. Et comme la crise capitaliste s’approfondissant ne laisse aucun lieu de la planète à l’abri d’une paupérisation croissante, les prolétaires antillais poussés dans leurs derniers retranchements ne purent que se lancer dans la lutte de classe. Nous disons bien de classe ; car si l’esclave-marchandise fut bien importé pour sa corporéité visible de race, son usage effectif dans le procès de consommation de sa force de travail fut effectivement réalisé au sein du rapport social capitaliste engendré au sein du commerce mondial (et l’épanouissant en retour) et du rapport entre les nations dominantes se partageant celui-ci et son espace géographique. L’identité antillaise visible dans sa corporéité raciale et ses pratiques culturelles put ainsi apparaître au premier plan de la lutte récente, dirigée très souvent et immédiatement contre la minorité béké, tout aussi visible en sa position dominante. Mais ce qui est visible, l’apparence, fait retour à son intelligibilité essentielle : la contradiction principale - l’activité humaine devenant marchandise - celle entre le travail mort (le capital accumulé) et le travail vivant (la force de travail). Quand le capital ne peut plus consommer de force vive de travail (crise) il la laisse dépérir, elle est surnuméraire. Quand il ne peut l’entretenir un tant soit peu en attendant de nouvelles opportunités d’extension de marché (chômage, allocations diverses) sa condition s’aggrave : le prolétaire vit de plus en plus comme un zombie. Lorsque le descendant d’esclaves n’a pu accéder, du moins pas la majorité d’entre eux, à la condition des couches moyennes à cause de la pérennité de structures économico-sociales remontant à une phase antérieure du mode de production capitaliste, la contradiction secondaire raciale (secondaire parce que dérivée de la situation du commerce de l’esclave-marchandise comme nous l’avons expliqué ci-dessus) se manifeste au premier plan, se réactualise car engendrée par la dynamique propre à la contradiction principale qui, elle, s’approfondit parce qu’universelle (crise actuelle du capitalisme).

En conséquence de quoi nous considérons que la lutte des travailleurs antillais ces dernières semaines, signifie une tentative de reprise en main de leur propre destin dans leurs conditions particulières d’existence ainsi qu’une réponse adéquate à la paupérisation dont ont actuellement à pâtir tous les travailleurs confrontés à la crise capitaliste. C’est là toute la portée de ce que nous appelons, faisant référence à la culture des caraïbes, leur dézombification. Désormais celle-ci a gagné la métropole où la journée de grève du 19 mars a été un succès alors que pleuvent quotidiennement les licenciements sur la tête des prolétaires. Alors qu’aux Antilles accouraient quelques quimboiseurs aux visages pâles venus offrir leurs services afin de récupérer le mouvement de révolte, on pourra compter ici également sur la gauche et l’extrême gauche du capital pour faire tourner en rond les travailleurs, désamorcer la puissance de leur combat qui devra s’actualiser pour résister à l’ampleur de la crise économique et sociale du capital. Néanmoins la ficelle est usée et de plus en plus de monde comprend le rôle alloué à ces soit disants anticapitalistes promus par les médias de la bourgeoisie. Ainsi chacun a pu voir sur Internet les images de l’agression conduite contre le cortège du centre Zahra venu apporter son soutien au combat de la résistance palestinienne lors d’une manifestation parisienne, par les bandes policières anarcho-trotskistes. Les travailleurs comprendront à l’occasion de leurs luttes ce que représente le gauchisme depuis des décennies : quelques rouages secrets du pouvoir du capital.

Les enjeux actuels sont gigantesques ; le système n’a d’autre solution à proposer à sa crise structurelle qu’un discours lénifiant sur son illusoire refondation et moralisation et la pratique d’une planétarisation de son économisme délirant le conduisant à une course aux abîmes dans des conflits impérialistes guerriers de grande ampleur. Obama sera l’exécuteur de cette tension extrême dirigée vers les puissances à abattre pour les Etats-Unis, que sont principalement la Russie et la Chine, et cela selon les vœux de son mentor et stratège, et des intérêts de la Trilatérale qu’il représente, Brzezinski. L’Europe comme toujours fait montre de son néant politique et du vide sidéral de ses intentions. Elle est zombifiée par la volonté impériale étasunienne et Sarkozy vient d’annoncer, ce que nous qualifiions dans notre précédent éditorial de ce qui restera le « fait marquant de la présidence sarkozyenne », l’intégration totale de la France au sein de l’OTAN, trahissant de fait la grande vision géopolitique gaullienne d’indépendance de notre Nation et de l’Europe à l’égard de l’impérialisme étasunien. Le Général de Gaulle avait clairement analysé ce qui se tramait au moyen de cette structure militaire impérialiste déployée sur notre continent : « le protectorat américain sous le couvert de l’OTAN ». Charles de Gaulle en 1966. Le représentant politique de la bourgeoisie française vient de céder le glaive de notre souveraineté à l’empire unipolaire porteur du projet du choc des civilisations et de la stratégie d’occupation et de démantèlement de l’espace eurasien.

Tout comme aux Antilles, ti baron samedi veille la nuit à l’entrée des cimetières, ti baron Sarkozy veille désormais à l’entrée du cimetière de l’indépendance nationale et du destin de l’Europe.   

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mercredi, 08 avril 2009

Eléments pour une "pensée-monde" européeenne

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

Université d'été de la F.A.C.E. - 1995

Résumé des interventions

Eléments pour une «pensée-monde» européenne

(Intervention de Louis Sorel)

 

I. Dans quel monde vivons-nous?

Notre monde prétend refléter un «Nouvel Ordre Mondial» (NOM); pour les uns, il doit être américain, pour les autres “onusiens”. Le NOM américano-centré risque de devenir très vite une pure fiction, puisque les Américains font passer leurs problèmes domestiques avant les affaires internationales. L'internationa­lis­me américain actuel est sélectif, dans le sens où il évite les “bourbiers”. En cas d'intervention, les USA frappent et se retirent, abandonnant ainsi le statut de puissance hégémonique pour prendre celui de puis­sance “prédatrice”. Quand au NOM onusien, il se recentre sur un discours “humanitaire” et se réserve le traitement des “bourbiers”.

 

Le monde ne vit donc pas sous un “ordre” mais dans un “désordre”: on parle de “Nouveau Désordre Mon­dial” (NDM). Ce NDM est une phase d'ajustement que les théoriciens du NOM prévoient pour une pé­riode de 20 à 25 ans.

 

Le monde actuel est caractérisé par l'interdépendance et l'interaction. Le Général Poirier utilise la notion de système-monde multipolaire et polycentrique, se déployant au sein d'un mouvement gé­néral de territorialisation. Ce monde comporte des “acteurs-Etats” et des “acteurs non étatiques”: il est donc chaotique et imprévisible. Ce monde est privé de sens, les grandes idéologies universalistes s'y es­soufflent, alors que la “guerre froide” a été un affrontement idéologique pour l'appropriation du sens. Chacune des deux grandes puissances avait leur télos. La fin de la guerre froide (entre 1989 et 1991) a d'abord été interprétée comme la fin du communisme; en fait, c'est une déconstruction idéologique géné­rale. De l'euphorie, on est passé au désenchantement.

 

II. Un monde oligo-polaire.

Une tendance prévaut: l'émergence de macro-régions sur la planète, de régions planétaires.

Exemples:

1. L'Union Européenne:

C'est le projet le plus ambitieux; ce n'est pas seulement une zone de libre-échange depuis 1957 mais, c'est un espace évoluant depuis 1992 vers une union monétaire et politique. C'est un ensemble spatial qui a vocation à s'élargir.

2. L'ALENA (depuis 1992):

C'est un projet modeste de libre-échange avec une monnaie commune: le dollar. Il a vocation à s'étendre à l'Amérique du Sud.

3. L'Aire de Co-Prospérité (Japon, Indonésie,...)

La Chine en est exclue. Il se construit sur un mode informel.

 

Ces trois pôles forment la “Triade”. Cette représentation laisse de côté l'ensemble Russie-CEI, la Chine et le Brésil. Le mouvement de “régionalisation” s'accompagne d'affrontements économiques. D'où la vogue du concept de “géo-économie”. La mondialisation n'a pas aboli la géographie. L'espace économique n'est pas un bloc. On vit dans ce qu'on appelle un archipel-monde, mais il n'est pas exclu que l'on aille pro­gressivement vers un monde de blocs politico-économiques.

 

La théorie des “grands espaces” (Großräume)  de Carl Schmitt, élaborée à partir de 1939, lors d'une con­férence d'universitaires à Berlin, était, au départ, une critique du wilsonisme, de l'universalisme améri­cain. Schmitt prônait un nouvel ordonnancement du monde et un équilibre entre grands espaces. Ces uni­tés de puissance devaient, selon lui, être politiquement autocentrées et régulées.

 

III. Eléments pour un Grand Espace Européen (GEE):

1. Délimitation du GEE:

Ces limites ont fluctué au cours de l'histoire (Charlemagne, Napoléon, De Gaulle,...). Voir aussi les confi­gurations institutionnelles de l'Europe (CEE, CSCE/OSCE, Conseil de l'Europe, COCONA, OTAN, UEO,...). Le Sommet d'Essen a ouvert des perspectives d'ouverture pour l'Union Européenne, qui a bien entendu vocation à s'élargir. Maastricht a réduit l'identité européenne aux quatre “D” (démocratie, dia­logue, développement, droits de l'homme), vus dans une optique universaliste et non pas particulière et adaptée à l'Europe et à son histoire.

 

Sur le terrain, il y a deux cas qui posent problème pour déterminer les limites de l'Europe: la Russie et la Turquie.

 

2. L'Organisation politique du GEE:

Deux conceptions sont en lice:

a) L'Europe confédérale ou l'Europe des patries;

b) L'Europe fédérale ou l'Europe supranationale. Cette Europe fédérale n'a pas vu le jour quand a été reje­tée la CED (défense) en 1954. Aujourd'hui on reste toujours dans l'optique confédérale. Il ne s'agit pas de faire de l'Europe un Super-Etat, le seul modèle qui lui convient, c'est le concept d'Empire au sens traditionnel du terme, c'est-à-dire une association hétérogène d'ethnies, de cultures que l'on n'a pas la prétention de niveler et d'homogénéiser. L'Empire est fondé sur l'allégeance.

 

3. Un modèle de sécurité pan-européen:

Il faut se référer au réseau des systèmes de sécurité existants en Europe (des schémas clairs et didac­tiques sont parus dans Le Monde  du 23 juin 1992): CSCE/OSCE, OTAN, COCONA, CEI. Il y a concur­rence entre la CSCE et l'OTAN (avec ses émanations); de même, entre l'OTAN et l'UEO sur le plan de la défense. François Mitterand a dit un jour: «On a besoin d'une nouvelle théorie des ensembles». Ce qui est exact. Les Etats-Unis essayent par tous les moyens de pousser l'OTAN, qui est leur instrument majeur au niveau de l'Europe.

 

Dans cet imbroglio, quel est notre choix, minimal dans un premier temps? Développer l'OSCE où l'emprise des Etats-Unis est moindre et qui accorde toute sa place à la Russie, sans la marginaliser. Exiger le re­tour à une Alliance Atlantique rénovée, dégagée de la trop forte tutelle des Etats-Unis. Promouvoir l'Union de l'Europe Occidentale. Comme la Russie refuse l'élargissement de l'OTAN, élargir l'UEO aux pays d'Europe centrale et orientale. Clarifier les rapports entre l'Union Européenne et l'UEO.

 

Conclusion:

- La mondialisation n'implique pas obligatoirement le mondialisme.

- La mondialisation est plutôt une macro-régionalisation.

- On peut considérer que le climat international est beaucoup plus porteur qu'auparavant.

- L'enjeu: faire de l'Europe un ensemble légitime en recouplant sens et puissance.

- Faire prévaloir la logique politique sur la logique économique.

 

Notre travail intellectuel de projectualisation de l'Europe est entré dans une phase beaucoup plus cons­tructive.

(Résumé d'Etienne LOUWERIJK).

lundi, 30 mars 2009

Twee handen op een buik

Twee handen op een buik

Kapitalisme en CommunismeDe ultraliberale extremist Dedecker die - zoals algemeen bekend - een hevig tegenstander is van het communisme en het socialisme, heeft in het tv-programma Phara, waar hij in een panel zat met Peter Mertens (de voorzitter van de PVDA), onthuld dat zijn partij LDD de lijstvoordracht van de PVDA met twee handtekeningen van parlementsleden steunt. Dit betekent dat de PVDA (Partij van de Arbeid) zich geen zorgen of moeite moet getroosten om op straat duizenden handtekeningen op te halen om te kunnen deelnemen aan de verkiezingen van juni. Velen zullen verrast zijn door de houding van Dedecker, maar voor ons van het N-SA is het helemaal niet verwonderlijk dat zoiets gebeurt.

Het kapitalisme spreekt altijd in tongen. Soms met een links geluid en andere keren weer met een meer rechts. Maar die tong zit altijd in dezelfde mond, die van de politieke en de kapitaalselites. Als er een boost is in de winstmaximalisatie en de markt boomt, dan roept ze uit het rechterkeelgat dat er nu geen obstructie van de markt mag zijn. De markt is van heilig karakter: de geldgoden beschikken, de gelovigen schikken zich ernaar. En wie niet in de geldgod gelooft, moet zwijgen of verketterd worden. In tijden van economische boom rochelt de linkse tong dat er toch voorzichtigheid aan de dag moet worden gelegd, want dat er anders misschien ongelukjes van komen. Maar de rechtse tong sust het geweten van zijn linkerhelft door met een paar fooien te smijten.

Als dan de onvermijdelijke crash volgt, neemt de linkse tong het deuntje over. Alleen gorgelt die tong nu ineens dat de staat met oplossingen moet komen. Dat kreeg die rechtse tong eerst jaren niet over de lippen. Maar kijk, nu is er symbiose: de linkse tong van het kapitaal heeft zich verzoend met de rechtse tong van het kapitaal om zo hun gezamenlijke slokdarm te redden. Ze maken deel uit van hetzelfde orgaan. Het ene stuk is ervoor te vinden dat de staat alles beheerst (staatskapitalisme zoals in China) en het andere stuk wil de kosten van de crisis liefst rechtstreeks door de gemeenschap laten betalen. De droom van elke maoïst én elke kapitalist! De staat beheert het kapitalisme en zorgt er zo voor dat het onaangetast blijft.

Dedecker zei tijdens een debat  dat hij veel bewondering had voor China en we geloven hem op zijn woord (voor deze ene keer dan). Dat systeem is dan ook het systeem bij uitstek waar elke monopoliekapitalist van droomt. Volk onderdrukt, organisaties en instellingen onder rechtstreekse controle van de staat, afdankingen met behulp van staat en politie, onderdrukking voor iedereen die zijn mening durft te spreken en het belangrijkste: er is een ongecontroleerde en ongehoorde winstmaximalisatie van het kapitaal. De monopolies worden gevormd en beschermd door de maoïstische elite die zelf een deel is geworden van dat kapitalisme. De droom voor elke kapitalist: of het nu een rooie van de PVDA of een blauwe van LDD is. Daarom dat de beide woordvoerders van zowel LDD als PVDA hun partij 'de partij van de kleine man' noemen. Maar eigenlijk bedoelen zij daarmee dat hun beide partijen het perfecte onderdrukkingsapparaat van de kleine man zouden zijn. Dat is waarschijnlijk bedoeld als advertentie naar de grote kapitaalgroepen toe. "Kijk hoe wij de kleine man klein houden, steun ons alstublieft, heren kapitalisten!"

Ook op het vlak van migratie zijn beide partijen zo liberaal als de multiculturele pest. Beiden verdedigen dat iedereen hier mag komen als ze maar willen werken. De PVDA heeft dat deuntje geleerd bij de Nederlandse SP van Marijnissen. Dedecker zingt dat liedje al lang, net zoals Wilders in Nederland. Ze moeten zich wel aanpassen, die vreemdelingen, zeggen de beide tongen van het kapitalisme. Met aanpassen bedoelen ze alleen maar dat de vreemdelingen zich moeten aanpassen aan de kapitalistische maatschappij en niks anders. Zo hebben PVDA en LDD alweer een gezamenlijk doel. Nog meer invoeren van vreemdelingen dus, want die vreemdelingen worden gekoesterd als waren ze pareltjes.

Natuurlijk moet de rechtertong van het kapitaal soms eens stoer doen. Dan roept het met een krakerig geluid dat er moet worden optreden tegen die vreemde mannen die niet braaf naar de fabriek gaan en die hun vrouwen niet laten werken uit religieus principe. Ze mogen dan ook die islam op hun buik schrijven wat betreft mensen als Dedecker, Wilders en copycat Dewinter. Moslimvrouwen aan de slag, dat bedoelen ze bijvoorbeeld met hun Europese vorm van islam. Veel is dat toch niet gevraagd, wel? Maar de linkerhelft sust dan de boel: de immigrant moet tijd krijgen en - wat belangrijker is - de immigrant moet een groot deel van de jobs krijgen van de autochtone kleine man. Eigen volk discrimineren als wapen tegen discriminatie. Ja, zot zijn doet geen pijn, zeggen ze. Alhoewel, als je die beide heren hun tronie bekijkt, zou je soms gaan twijfelen. Arbeidsverdeling noemen ze dat. Niet van hun arbeid en inkomen natuurlijk, maar van het uwe en het mijne.

De conclusie is dus duidelijk: het kapitaal schrikt in deze crisisperiode werkelijk voor niks terug. De meest fanatieke vrije-marktaanhanger steunt de communistische partij van België. Zo hebben ze de taken reeds verdeeld: rechts houdt de poen op zijn plaats, links misleidt het volk zodat er geen protest van komt. De linkse liberalen van de PVDA zijn het schaamlapje (of beter: de schotelvod) van het kapitaal. Om die taak naar behoren te kunnen vervullen krijgt ze steun bij de verkiezingen en mag ze op TV haar gekwijl komen verkondigen. Ze hebben voor deze gelegenheid dan ook een gezamenlijk deuntje ingestudeerd. Elke vorm van nationalisme is uit den boze, laat staan protectionisme, zingen ze in koor. Maar nationalisme betekent zorgen voor het eigen volk en protectionisme betekent werk voor het eigen volk. Wij van het N-SA zijn dan ook de echte beweging van de kleine man: we zijn een beweging van en voor de kleine man.

De LDD en de PVDA zijn alleen maar de parasieten die de kleine man kapotmaken.


Eddy Hermy
Hoofdcoördinator N-SA

"The Independent dresse un portrait à charge de Sarkozy

The Independant dresse un portrait à charge de Sarkozy

Ex: http://ettuttiquanti.blogspot.com/
Dans une tribune, le quotidien britannique The Independent du 23 mars dresse un portrait à charge de Nicolas Sarkozy et de son comportement.

"Quand il a rendu visite au Président italien, en une demi-heure, le téléphone de Sarkozy a sonné quatre fois. A chaque fois Sarkozy a répondu. (...) Le Président autrichien s'est senti honoré. Durant leur rencontre, il n'y a eu que deux appels. (...)Lors des préparations de sa visite d'Etat en Grande Bretagne, les services diplomatiques de deux pays partageaient la même anxiété. Pouvait-on faire confiance au Président pour éteindre son portable ? S'il sonnait pendant le banquet officiel et qu'il réponde, que ferait le Prince Philip ?

"Le français est la langue des diplomates. (...) Quand les éminences diplomatiques ont su comment leur Président s'était comporté, elles ont eu honte."

"Il est faux de dire que le Président consacre tous ses soins à Carla Bruni. En plus de sa frivolité et de son manque de tact, le Président épuise son équipe par son hyper-activité. Cela pourrait être une qualité à une condition : que cela corresponde à une stratégie. Mais il n'y a pas de stratégie."

"Un diplomate français désespéré résume le régime Sarkozy : "Il n'y a plus de Cinquième République. C'est Louis XV et Madame du Barry."

Het Antifa-complex

Het Antifa-complex

Geïnduceerde politiek-correcte psychopathologie

Ex: http://onsverbond.wordpress.com/

De antideutsche (2) is een organisatie die illustreert hoe extreem zelfhaat wel kan zijn. Tijdens een recente betoging in Dresden bedankte zij de oorlogsmisdadiger Harris middels een spandoek voor zijn prestaties. Men droeg ook spandoeken mee waarop stond te lezen “Bomber Harris: do it again”. Deze zelfhaat spruit voort uit een zogenaamd ‘antifascistisch complex’.(3) Dit houdt in dat alles wat verband houdt met de nationale identiteit Pavloviaans geassocieerd wordt met een traumatische ervaring uit een ver nationaal-socialistisch verleden. Dit antifa-complex maakt deel uit van het cultureel marxisme, of in bekender woorden, de politieke correctheid.

CULTURELE HEGEMONIE

De Italiaanse communist Antonio Gramsci (4) ontwikkelde de theorie van de culturele hegemonie. Deze stelt dat de politieke bovenbouw gevormd wordt door de culturele onderbouw. Wie dus  een hegemonie vestigt in het sociaal- culturele veld, bepaalt hoe de samenleving er politiek uit ziet.

Hierop is het begrip politieke correctheid gebaseerd. Dit betekent rudimentair dat men met een semantisch en ideologisch eenheidskader bepaalt welke menselijke sociale interactie (taal, beleid, gedachten, handelingen, politieke uitingen enzovoort) wenselijk is en welke dat niet is, met andere woorden: welke politiek-correct en welke niet-politiek correct is.

In de praxis is de opzet van politieke correctheid drieledig. Primo, het verabsoluteren van politiek-correcte thesen betreffende democratie tot ‘de’ democratie. Wie niet politiek-correct is, is bijgevolg niet democratisch. Secundo, het middels het antifa-complex discrediteren van andersdenkenden wanneer hun boodschap, of delen daarvan, niet in het politiek-correcte discours passen. Tertio, aangezien etnisch-culturele identiteit een hinderpaal vormt voor het vormen van een internationaal proletariaat (vanuit marxistisch oogpunt) of van een internationale consument (vanuit liberaal-kapitalistisch oogpunt), het onderdrukken der dagelijkse praxis van een gezond identiteitsbesef .

NIEUWE SOCIALE BEWEGINGEN

Een culturele hegemonie heeft socialisatiefactoren nodig. Deze werden gevonden in de nieuwe sociale bewegingen vanaf de jaren 1970: vredesbeweging, groene beweging, holebi-beweging, anti-racistische beweging, feministische beweging, multiculturele beweging enzovoort. Elk van deze bewegingen bewerkstelligde zeer uitdrukkelijk niet het respect voor andere culturen, de gelijkwaardigheid en gelijke ontplooiingskansen tussen man en vrouw, het evenwicht tussen mens en natuur, maar wel het afbreken van de sociale, culturele, geslachtelijke en etnische onderscheiden tussen mensen en groepen mensen. Door het afbreken van die verschillen hoopte men de (haast) geslachtsloze, cultuurloze, geatomiseerde en tegelijk universele mens te creëren. Gelijk in het Zijn, dus gelijk in zijn belangen, dus gelijk in zijn bestuur en maatschappijordening, met andere woorden: de globale, gelijke en materialistische eenheidsmaatschappij, de (neo)communistische consumptiemaatschappij.

NEO-COMMUNISME

Francis Fukuyama besloot bij het ineenstorten van het Oostblok tot “the end of history”: de allocatie via de vrije markt had het tot het einde der tijden gewonnen van allocatie door de collectiviteit, i.c. de planeconomie van de staat. Marxisten die sindsdien nog steeds de (staatsgeleide) planeconomie verdedigen voeren inderdaad een achterhaald gevecht sinds hun allocatiesysteem gefalsifieerd is. Er zijn ook andere marxisten die zich geheroriënteerd hebben, zoals de neoconservatieve beweging in de VS. De belangrijkste ideologen hiervan zijn oud-marxisten, zoals de Amerikaanse Joden Leo Strauss of Irving Kristol. We spreken in dit kader dan ook beter van neocoms (neocommunisten) dan van neocons (neoconservatieven).

De termen zijn veranderd, maar de doelstellingen zijn dezelfde, net zoals de methode van politieke correctheid. De liberale thesen ondersteunen evenzeer het fundamentele waardenstelsel van de politieke correctheid dat bestaat uit universalisme, materialisme, de maakbaarheidsgedachte, precies omdat zowel marxisme als liberalisme zich op een identiek filosofisch kader beroepen.

HET VALSE DISCOURS

Een goed voorbeeld hiervan is het multiculturalisme. Gelijkheid, maakbaarheid en universaliteit zijn kernelementen uit de marxistische leer. Vertaald in politiek-correcte termen wordt dit: verrijking door diversiteit en multiculturaliteit. Dit impliceert massamigratie. Culturen hebben een verschillend normen-, waarden- en wettelijk kader. Om sociale interactie mogelijk te maken is dus een gemene deler nodig die altijd afbreuk zal doen aan de specificiteit van onderscheiden culturen. De finale doelstelling is dus niet diversiteit en multiculturaliteit, maar monoculturaliteit: de uniforme eenheidsmens. Wie van oordeel is dat mensen en groepen mensen cultuurspecifiek zijn en hun eigen socio-culturele ‘habitat’ behoeven, pleit fundamenteel voor diversiteit (= onderscheid) en multiculturaliteit (= veelheid aan culturen), maar worden in politiek-correcte termen bestempeld als racisten en dus anti-democraten. Het betreft dus een vals discours.

Met de val van de Berlijnse Muur is het totalitarisme niet overwonnen; het is integendeel uit zijn kooi gelaten, heeft een andere gedaante aangenomen en heeft nu ook het vrije Westen in zijn totalitaire greep. Vrije burgers, de strijd is nog maar pas begonnen!  

Vbr. OS lic. rer. pol. Tom Vandendriessche

Intervencion de R. Steuckers - Primer Encuentro de la America Romanica de Politica y Cultura Alternativas (1996)

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

 

Intervención de Robert Steuckers

Primer Encuentro de la América Románica de Política y Cultura Alternativas

(Viña del Mar, Agosto -Septiembre de 1996).


Señoras, señoritas, señores, queridos amigos:

Voy a comenzar por agradecer a los organizadores de este coloquio iberoamericano el haberme permitido tomar la palabra hoy, por desgracia sin estar presente físicamente, lo que lamento mucho. Enseguida, os deseo sacar un gran provecho de este Encuentro; deseo también larga vida a todas vuestras iniciativas y sobre todo a vuestras revistas, por que ellas son las que nos permiten comunicarnos, traducirnos mutuamente, hacernos conocer a, nuestros respectivos públicos, pese a las decenas de miles de kilómetros que nos separan. Nosotros los animadores de la asociación Synergies Européennes, hemos tenido este verano (boreal, ndlR.) una semana de trabajos ideológicos particularmente fecunda, que nos ha permitido esclarecer nuevas facetas de nuestra Weltanschaung, rozarnos con nuevas disciplinas y salir de nuestros propios senderos trillados sin alejarnos de nuestros objetivos fundamentales. Todos los textos disponibles de esta universidad de verano os serán comunicados, por supuesto, a fin de acentuar y profundizar nuestra fraternidad de espíritu. Todos los participantes en la IV Universidad de Verano de Synergies Européennes os desean, por lo tanto, un franco éxito en vuestras empresas.

Señoras, señoritas, señores, queridos amigos: Yo desearía hoy introducir nuestra comunidad de combate cultural a nuevas temáticas globales. En efecto, verificamos que la ideología dominante, salida del discurso de las Luces, salida de todas la etapas del gran desencantamiento occidental comprobado por Max Weber, no está más en el caso de enfrentar los problemas que ha generado ni de resolver los disfuncionamientos calamitosos o catastróficos que ha provocado. Las ideologías dominantes o prácticas políticas que derivan de ellas , comprendidos los partidos que se dan la etiqueta "cristiana" o "conservadora", han prometido el"progreso", es decir una planetarización del desencantamiento moderno e ilustrado; pero, vista la resistencia ontológica de los hechos de vida, vistos los límites de los recursos vitales, vista la finitud humana, estas prácticas ideológicas dominantes no pueden realizar más ningún progreso sin poner en peligro el fundamento mismo de la Vida, sin inferir heridas siniestras al mundo real y orgánico: por esto, ya no se puede hablar razonablemente de "legitimidad progresista".

Esta verificación nos obliga a proponer una alternativa a esta ideología dominante, porque ésta pierde completamente su función de "puesta en forma" del dato humano y natural, lo que se percibe de inmediato en la desvalorización generalizada de las instituciones políticas derivadas de esa ideología dominante, en sus disfunciones, en los efectos perversos que se multiplican, en la podredumbre general que se observa en Europa occidental, y en los países del antiguo Pacto de Varsovia. En Bélgica, por ejemplo, este verano, luego del desmantelamiento muy parcial de una red de pedofilia que asesinaba a sus víctimas -nada más que la punta emergida del iceberg- la población ha podido comprobar el laxismo aterrador de los aparatos judicial y policial, los silencios cómplices, los velos púdicos lanzados sobre una realidad sórdida, y ha perdido totalmente la confianza en las instituciones llamadas "democráticas"; una lámina de fondo general atraviesa el psiquismo popular e instala en nuestros países una oposición hosca entre el pueblo y los aparatos institucionales, que el gobierno, la magistratura y los servicios de policía difícilmente podrán controlar en el futuro próximo. Por lo demás, la acumulación de los problemas ecológicos, el no-dominio por los gobiernos de los flujos comunicacionales, demográficos y económicos, constriñen incluso a los más apacibles de los ciudadanos a poner en duda los esquemas políticos convencionales, a fin de salir de la crisis moral que atraviesa hoy Europa occidental.

Esta crisis nos interpela en todos los dominios de la actividad humana y política. Para ser concisos, me referiré exclusivamente a las cuestiones que plantea un hombre de izquierda alemán, un ingeniero especializado en las energías alternativas. Hermann Scheer, en una obra significativamente titulada Zurück zur Politik (¡Retomo a la política!). Scheer, como los discípulos de Schmitt, verifica el "adormecimiento" de la función de lo político, la declinación de la res pública* la cesura problemática que existe ahora entre los proyectos y las promesas de los gobiernos. Próximo de los ecologistas, Scheer comprueba también, como los discípulos de Roberto Michels, que las actitudes rígidas de los partidos en plaza, hostiles a las ideas nuevas, a los métodos ergonómicos nuevos, que los obligarían a modificar de cabo a rabo sus estructuras internas, bloquean toda evolución. Scheer señala con el dedo el proceso de oligarquización, primer responsable de la declinación de la res pública. Las nuevas categorías de ciudadanos, los ciudadanos que para ejercer su profesión deben apelar a nuevos métodos ergonómicos, basados sobre relaciones diferentes de las previstas por las legislaciones y los reglamentos, chocan con los hábitos establecidos que protegen los partidos del poder occidental. Este poder se defiende decretando "poujadistas", "fascistas", "irracionales" o "neocomunistas" los desiderata de esas nuevas categorías de ciudadanos, bloquea el acceso de los innovadores a la función pública, corta los subsidios a ciertas investigaciones, defiende sus posiciones obsoletas, tanto que se obtiene a fin de cuentas una oposición muy tajante entre ciudadanos activos y partidos esclerotizados, mostrándose éstos incapaces -si no se ponen ellos mismos fundamentalmente en discusión- de integrarlos nuevos hechos del mundo y los nuevos ajustes sociales.

En Italia, en Alemania, en Bélgica, en los Países Bajos, se comprueba una aversión más y más generalizada de los votantes respecto de los partidos políticos establecidos: los no-votantes y los votos protestataríos se multiplican desde hace más de diez años, la no-renovación de las adhesiones militantes es crónica, por la simple y buena razón de que los programas, más y más vagos y flojos, no corresponden mas a los hechos de la vida. Y si no hay más concordancia entre los hechos de la vida (sean los que sean) y el discurso de legitimación política -que decae en puro discurso "legalitario"-, es justamente que el discurso no puede de ningún modo estar en concordancia con los flujos vitales, que no es más que frases y enchapado; mejor: que finalmente no ha sido jamás otra cosa. Aleksander Zinoviev destaca la existencia de "adiposidades" y de estructuras parasitarias en las instituciones generadas por el occidentalismo: el Estado anhelado por los liberales es efectivamente débil porque es gordo y pesado, sobrecargado de "adiposidades"; como lo había reclamado antaño Guillaume Faye en las filas de la "nueva derecha" -antes de ser expulsado de ella por toda clase de intrigas escandalosas-, nuestra visión del estado debe ser la de un Estado flexible, esbelto y fuerte.

La inadecuación fundamental entre flujos vitales y discursos solemnes es lo propio del más tenaz de los fundamentalismos : el fundamentalismo occidental, denunciado como tal por Scheer , o denunciado como "occidentalismo" por Zinoviev, con una extrema frialdad de análisis, sin sucumbir a la menor ilusión ideológica o política. El occidentalismo reprocha a los fundamentalismos religiosos o a los nacionalismos el negar la pluralidad de los valores -y el relativismo que de ella emana- y, sobre todo, no contemplar la eventualidad de su propio fracaso. Scheer, sin embargo, comprueba que las catástrofes ecológicas, la anomia y el individualismo, que destruyen los resortes de las comunidades y de la solidaridad, son a corto plazo otros tantos peligros mortales portados por la ideología occidental de las Luces, ¡que por consiguiente, no reconoce tampoco la eventualidad de su fracaso! Esta ideología, en sus aplicaciones prácticas, se estrella hoy contra límites o de obstáculos que hubieran podido frenar su ".progreso", su desarrollo y su despliegue planetarios. Justamente éste no se deja transponer al planeta entero, visto los límites de los recursos energéticos y, más simplemente aún, del espacio habitable. En el dominio de las ideologías irrealizables y por tanto peligrosas, el neoliberalismo de los años 80 toma el relevo de un "liberalismo" sesentayochista, tan falso como ilusorio, que se presenta como el cantor de una libertad ilimitada de comerciar, producir, vender o pensar, mas usa de los nuevos medios de telecomunicaciones informáticas para centralizar a ultranza la información y eliminar a los productores y a los vectores de información más pequeños, más originales y más independientes. A pesar de sus discursos, el neoliberalismo no es libertario, sino extremadamente monopolista: no es derregulacionista. como lo afirma en voz alta, sino que apunta al reemplazo planetario de las regulaciones estatales por regulaciones privadas, menos controlables, no sometidas a la aprobación de asambleas y que no persiguen sino objetivos económicos y financieros. En un contexto tal, el hombre no es más percibido y valorizado sino como productor y consumidor : si intenta escapar a esta lógica hipermovilizante e hipercinética (Sloterdijk), si busca conservar espacios de creatividad, si se interesa en valores o actividades no mercantiles se aisla automáticamente en estatutos sociales considerados como "inferiores"; tal es la suerte del pequeño productor, de los artesanos o de los industriales locales (en empresas de anclaje regional), tal es la suerte del docente, del personal médico, del artista, de las profesiones "liberales", de los investigadores, etc. No siendo su "rentabilidad" una rentabilidad maximalizante a corto término, su grado de integración en la sociedad neoliberal disminuye día a día el personal subalterno que les está ligado arriesga permanentemente la exclusión social. Las sociedades llegan a ser "duales", oponiendo categorías siempre más reducidas de "integrados" a masas más y más considerables de "excluidos".

Es forzoso comprobar que en todas las "periferias", en todas las zonas juzgadas no rentables o menos rentables, entre todos los productores modestos rechazados a la "periferia" de su sector profesional, la necesidad de "proteccionismo" crece, en primer lugar para evitar una extrema dualización de la sociedad, una ruina catastrófica de sus sectores no mercantiles y una marginalización definitiva de los países más débiles. La lucha planetaria contra la cesantía pasa por un recentramiento de las energías sobre territorios restringidos, Es la razón por la cual hemos reivindicado en nuestra última universidad de verano, conjuntamente con el equipo de la revista italiana Tellus (de Luisa Bonesio y Catarina Resta), el anclaje (o el re-anclaje) de todo pensamiento, incluyendo todo pensamiento político, en la "Tierra", sobre suelos particulares, restringuidos, limitados. Catarina Resta habla de la "autoctonía del pensamiento" y explora las obras de Fichte, Hegel, Hölderlin y Heidegger en buscar todas las formas de conceptualización de los arraigos y de los anclajes, siempre disipando preventivamente, al pasar, todos los trucos ideológicos que apuntan a poner la ecuación "arraigo = preludio al exterminismo nacional-socialista" -el rechazo del otro en el nazismo es simultáneamente rechazo de autoconstrucción dialógica; la identidad, sin confrontación con el Otro, se seca y termina por morir-. El retorno a la autoctonía de todo pensar, preconizado por Catarina Resta, es una respuesta al llamado que nos lanzaba Cari Schmitt a la lucha contra todas las formas de des-localización, de Ent- Ortung.

Entre los sociólogos del MAUSS se habla de una "necesaria recontextualización de las economías", porque, en el contexto de la intelligentsia parisina, siempre se es reticente en aceptar el contexto de "autotocnía de todo pensar" o a citar a Cari Schmitt, a causa de residuos tenaces de germanofobia. No obstante, las iniciativas del MAUSS - y más precisamente la del sociólogo Serge Latouche - merecen ser citadas al margen de dos más vastos movimientos norteamericanos: el comunitarismo y el biorregionalismo. Como todos sabéis, el comunitarismo es la respuesta de los intelectuales norteamericanos a la anomia que encuentran en su propia sociedad y que es el resultado de la desagregación de todos los anclajes sociales y de todos los lazos no económicos que unen a los hombres entre sí: la reflexión comunitaria parte del libro de John Rawls, A Theory of Justice, que discutía el monopolio del utilitarismo en las ciencias sociales y sugería una alternativa, una concepción comunitaria de la justicia, tendiente al bien común, implicando una generalización de esa virtud de fairness, que debería adquirir en todos el mismo estatuto de evidencia que la teoría de los derechos naturales en las tradiciones contractualistas dominantes en las diversas formas de liberalismo occidental, sobre todo en los países anglosajones.

El biorregionalismo es la forma norteamericana, parcialmente indigenista - en el sentido en que la herencia amerindia desempeña un papel primordial en la elaboración teórica de este biorregionalismo-, de la práctica del re-anclaje local, telúrico, de todo pensamiento político. El biorregionalismo busca la adecuación del hombre con el sitio en el que vive.

Los problemas ecológicos que se acumulan son el resultado de un pensamiento que no ha retenido el criterio de autoctonía. La respuesta, la sola respuesta posible hoy, es oponer un programa coherente uniendo los cuerpos separados de la geofilosofía, de la noción de "contextualización" de la economía (MAUSS), del biorregionalismo norteamericano, del comunitarismo norteamericano (con miras a crear un "bloque de ideas indiscutibles" que reemplace y complete a la vez la teoría de los
derechos naturales), y las tradiciones europeas de la "subsidariedad", heredadas de Althusius y de Otto von Gierke, dos autores que preconizan una tríada que resume muy bien nuestra opción en materias sociales: comunidad, solidaridad, subsidariedad.

Este trabajo de investigación en profundidad de todas esas herencias y tradiciones, este trabajo de defensa y de ilustración significa también que se deberá salir definitivamente de los encierros que nos ha impuesto la lógica binaria del maniqueísmo político convencional; es decir salir del encierro en una izquerda fija o esclerotizada o en una derecha también fija y esclerotizada, en las repeticiones hasta la saciedad de los mismos esquemas y las mismas formulas. La ideología del "occidentismo" (Zinoviev) es la resultante de innumerables arroyos ideológicos que han terminado por formar un poderoso torrente. La alternativa se formará también de muy numerosos arroyos que formarán a su vez un formidable torrente.

Las temáticas nuevas, todas críticas con respecto a la herencia de la Aufklürung, abren a nuestras comunidades de trabajo y de combate nuevos campos de investigación. Sería irresponsabilidad histórica no emprender muy pronto ese trabajo y confrontarlo sistemáticamente a nuestras adquisiciones. Yo habría querido ser mucho más preciso en mi exposición, pero creo haber señalado -brevedad obliga- las principales pistas en las que habrá que comprometerse desde mañana; ¡ Me resta expresaros mis sentimientos de camaradería y de solidaridad, desearos un feliz éxito y transmitos una vez más los saludos de vuestros amigos europeos !

Gracias

[Ciudad de los Cesares (Santiago de Chile), 1996]

dimanche, 29 mars 2009

Idee chiare e giovani speranze per la nazione russa

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Ampio risalto in questi giorni è stato dato sul primo canale televisivo nazionale russo alla visita che il presidente Putin ha effettuato in Siberia nella città di Kemererovsk, presso alcune grosse industrie della lavorazione dei metalli pesanti, Putin ha parlato di un piano di sostentamento economico a favore delle grandi industrie, con forti sgravi fiscali per favorire uno sviluppo più dinamico nel settore. Ma anche altri temi di grossa rilevanza sociale sono stati affrontati: la Russia ha dedicato quest’anno per il sostegno dei giovani, dagli studenti alle giovane coppie, aiuti concreti con borse di studio per chi si distinguerà nell’impegno per lo studio, un modo questo per assicurare al paese delle nuove energie altamente specializzate e motivate; poi ingenti somme di denaro sono state stanziati anche in favore delle giovani coppie e non. E ancora, per quanto riguarda il problema degli alloggi, un piano di aiuti statali   per chi ristruttura vecchi alloggi o ne compra di nuovi.
 I Giovani russi come Masha Sergeyeva leader della “Giovani Guardie” (un movimento di sostegno a Putin) hanno le idee chiare e tanta voglia di far rinascere l’orgoglio nazionale russo di fronte all’ assalto della globalizzazione  liberista e delle lobby filo-israeliane. In tema di immigrazione Masha parla chiaro, la Russia ai Russi! Gli immigrati non possono ledere il principio in tema di occupazione “della preferenza nazionale” ovvero gli immigrati possono svolgere solo lavori per cui non sono impiegati i Russi, in caso contrario possono tornare nei loro paesi di origine. Idee chiare anche nell’ analizzare gli oppositori di Putin e più in generale i nemici del popolo russo. Il giudizio  che Masha ad esempio da su  Eduard Limonov, scrittore fondatore del Partito Nazional Bolscevico Russo è lapidario: “uno psicopatico”; e in effetti…pur essendo un personaggio a tratti interessante, stupisce per alcune situazioni a cui dice orgogliosamente di aver partecipato. Leggendo per esempio il suo libro autobiografico “Eddy Baby ti amo” lo si trova partecipare  da ragazzino ad uno stupro di gruppo su una giovane donna…Un ideologo dalle tesi  in parte interessanti  ma che per motivi, incompresibilmente, personali si è schierato contro Putin nonostante per un certo periodo di tempo lo abbia anche sostenuto. Ma oggi la Russia sembra avere nelle nuove  generazioni giovani concreti, che hanno individuato nel presidente Russo uno strumento reale di speranza e resistenza della nazione Russa, una nazione che ritrova milioni di uomini e donne non più deviati dalla demagogia pseudo-umanitaria ed individualista della retorica eversiva “occidentale” dove si esalta spesso una presunta “libertà individuale” per distruggere   una libertà di livello più alto che supera i miseri egoismi umani, ovvero quella della”NAZIONE”.
Nazione come comunità di uomini che lavorano, agiscono per un bene comune superiore, che è l’espressione delle loro radici, della loro identità, come è appunto il caso della Nazione Russa. Alla bella Masha(24 anni) e alle migliaia di giovani patrioti russi auguriamo dunque una lotta coronata di successi in nome del popolo russo figlio della grande stirpe della civiltà europea.

Piero Sciacca
http://www.fiammasicilia.it/Palermo_mondo.htm

samedi, 28 mars 2009

P. Scholl-Latour: l'homme qui nous explique la marche du monde

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Peter Scholl-Latour: l’homme qui nous explique la marche du monde

Hommage à l’occasion de ses 85 ans

 

Pour son vaste public, Peter Scholl-Latour est le dernier auteur capable de nous expliquer la marche du monde. Depuis son voyage dans l’île de Timor-Est l’an passé, Peter Scholl-Latour a désormais visité les 193 pays que compte la Terre et est devenu, au fil des années, l’essayiste le plus publié et le plus lu dans l’espace linguistique allemand. Pour les téléspectateurs et pour ses lecteurs, il est l’incarnation du véritable journalisme. Il n’y en a pas deux comme lui qui soient capables de fusionner expérience personnelle, savoir historique et culturel et puissance narrative percutante. Dans les films qu’il a produits pour la télévision et dans ses “best-sellers” politiques, il jette toujours un regard pertinent sur les points chauds de l’actualité internationale, explique les tenants et aboutissants des vicissitudes politiques, montre les liens entre les événements. Ceux qui l’appellent aujourd’hui, vingt ans après qu’il ait pris sa retraite, s’entendent parfois dire: “Téléphonez-moi dans deux semaines parce que je suis à la bourre”. Comme s’il était en permanence sur un tapis volant, il est en voyage s’il n’a pas une émission de télévision à finir ou un ouvrage à terminer, qui le forcent à la sédentarité.

 

Le 9 mars 2009, cet esprit bouillonnant, toujours en alerte, a eu 85 ans [...]. Il est né dans la famille d’un médecin aux ascendances lorraines et sarroises, à Bochum en 1924. Il a grandi sur les rives de la Ruhr et de la Sarre ainsi qu’à Metz. Ses années d’écolier, il les a passées dans un collège de jésuites en Suisse et a ainsi bénéficié d’une éducation catholique solide, pétrie d’une culture européenne, hissée bien au-dessus des nations vernaculaires. Bien que son père fut membre du Stahlhelm national-allemand, Scholl-Latour est parvenu à échapper à l’incorporation dans la Wehrmacht, ce qui ne l’a pas empêché, après 1945, de s’enrôler, par esprit d’aventure et goût du voyage, dans le corps expéditionnaire français en partance pour l’Indochine, et non pas dans la Légion Etrangère, comme on le colporte souvent en Allemagne.

 

Il revient désillusionné de cette guerre lointaine, entreprend des études en Allemagne, à Paris et à Beyrouth, où il décroche un diplôme de philologie orientale. Après un bref intermède en 1954-55, où il fut porte-paroles du gouvernement de la Sarre, il devient le correspondant de l’ARD en Afrique et en Asie du Sud-Est, puis directeur de studio à Paris, ensuite, pendant quelques années, le directeur de la chaîne WDR et l’éditeur de l’hebdomadaire “Stern”.

 

Bien que ce ne fut pas son premier livre, son “best-seller” sur le Vietnam, intitulé “Der Tod im Reisfeld” (= “Mort dans la rizière”), publié en 1979, amorça sa carrière d’écrivain à succès et tissa sa légende. Depuis longtemps, Scholl-Latour est un mythe mais aussi un esprit rare, capable de comprendre le destin de l’Allemagne, de la France et de l’Europe. Il voit que, désormais, l’homme blanc est fatigué, que les identités héritées sont en voie de dissolution, que la substance ethnique et culturelle des peuples européens part en quenouille: et ce sont là des phénomènes qui le préoccupent davantage que les petites mesquineries du journalisme. Plus il avance en âge, plus il ajoute à son style journalistique qui confine à la perfection, ce cachet unique, cette marque qui est la sienne et qui consiste en ce mélange de spiritualité et de sens de l’histoire. Cet élixir commence à donner des fruits, à influencer la politque. Quelle aubaine ce serait, pour nous tous, si ce sacré Peter Scholl-Latour parvenait encore, pendant de nombreuses années, à le distiller dans les esprits.

 

Günther DESCHNER.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°11/2009; traduction française: Robert Steuckers).

vendredi, 27 mars 2009

Tiberio Graziani: "Les Etats-Unis utilisent l'Europe comme tête de pont pour attaquer l'Eurasie"

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Tiberio Graziani:

 

“Les Etats-Unis utilisent l’Europe comme tête de pont pour attaquer l’Eurasie”

 

Entretien accordé à http://russiatoday.ru/

 

La crise financière mondiale ne concerne pas uniquement l’argent, même si elle a commencé à Wall Street”, nous explique Tiberio Graziani, éditeur du magazine italien “Eurasia”, qui se spécialise dans les études géopolitiques. Tiberio Graziani est également l’auteur de plusieurs ouvrages de géopolitique.

 

Q.: Dans le monde entier, les gouvernements ont adopté des mesures protectionnistes. Celles-ci  touchent tous les niveaux de la société. En Italie, nous voyons que la population apporte son soutien aux politiques anti-immigrationnistes, qualifiées d’extrême-droite. Comment l’Italie peut-elle, comment pouvons-nous, tous autant que nous sommes, survivre à cette  crise financière mondiale?

 

TG: D’abord, nous devrions réflechir aux raisons de cette crise financière qui a aussi touché la production au niveau industriel, aux Etats-Unis dans un premier temps, et ensuite dans tout le monde occidental, lequel se compose de tris piliers, les Etats-Unis, l’Europe et le Japon. La crise a touché l’ensemble du marché mondial. Pour l’Italie, les effets de la crise se sont manifestés un peu plus tard et, à mes yeux, ne s’afficheront dans toute leur netteté qu’en 2009 et en 2010.

 

Parce que l’économie italienne repose essentiellement sur des petites et moyennes entreprises, nous n’avons pas affaire, chez nous, à de fortes concentrations industrielles, raison pour laquelle l’Italie fait montre de davantage de flexibilité pour affronter et contenir la crise. Quoi qu’il en soit, la crise sera fort profonde.

 

Nous serons en mesure de surmonter la crise financière si nous parvenons à oeuvrer dans un contexte géo-économique continental. Cela signifie que nous devrons concevoir des modes de fonctionnement économique où les économies de pays émergents comme la Russie, la Chine et l’Inde joueront un rôle. La crise ne pourra se résoudre seulement à l’aide de recettes étroitement nationales ou par les effets de recettes concoctées uniquement à Bruxelles par la seule Union Européenne.

 

Q.: Parlons un peu de la récente crise gazière, où l’Italie a été bien moins touchée que les Balkans ou l’Europe orientale, mais a néanmoins été prise, elle aussi, en otage. La vérité sur cette crise a été occultée. Quelle est l’origine de la querelle?

 

TG: L’origine de la querelle gazière entre Kiev et Moscou? Elle est en réalité un effet de l’élargissement de l’OTAN en direction de l’Europe de l’Est et de l’extension de l’UE dans la même région. Ces deux élargissements parallèles ont été perçus à Moscou comme une agression occidentale contre son “voisinage proche”.

 

Ce type d’élargissement a commencé dès 1989, immédiatement après la chute du Mur de Berlin. A partir de ce moment-là, les Etats-Unis ont décidé de gérer à eux seuls l’ensemble de la planète. Dans cette optique, ils ont choisi l’Europe occidentale comme base de départ pour avancer leurs pions en direction de la Russie et de l’Asie centrale, car, comme chacun sait, l’Asie centrale possède d’immenses ressources en gaz naturel et en pétrole. Les Etats-Unis ont commencé par étendre leur influence sur les pays de l’ancien Pacte de Varsovie et sur quelques pays ayant auparavant fait partie de l’Union Soviétique, comme l’Ukraine.

 

A partir de 1990, l’Ukraine a entamé un processus de séparation, a cherché à détacher son avenir géopolitique de son environnement naturel et donc à s’éloigner de Moscou et de la Russie. Si nous analysons bien la “révolution orange”, nous constatons tout de suite que derrière les réalisations de cette soi-disant “société civile” ukrainienne, se profilaient des intérêts venus en droite ligne d’au-delà de l’Atlantique, téléguidés depuis Washington. Dans ce contexte, nous ne devons pas oublier l’influence de quelques “philanthropes” auto-proclamés tels George Sörös qui ont contribué à déstabiliser l’Ukraine et aussi les républiques de l’ex-Yougoslavie.

 

Lorsque l’Ukraine a abandonné, ou tenté d’abandonner, son environnement géopolitique naturel, qui lui assignait la mission d’être le partenaire privilégié de Moscou, il devenait évident que, pour les livraisons de gaz, Moscou allait imposer à l’Ukraine les prix du marché, puisque Kiev ne pouvait plus être considéré comme un client à privilégier mais comme un client pareil à n’importe quel autre. Les prix du gaz ont donc augmenté, une augmentation qui a également touché l’Europe, parce que les dirigeants ukrainiens se sont privés d’une souveraineté propre et ne sont mus que par des intérêts occidentaux. Au lieu d’envisager un accord économique, comme on le fait généralement entre pays souverains, l’Ukraine a aggravé la situation en siphonnant le gaz destiné aux nations européennes.

 

Cette véritable raison de la crise a été délibérément ignorée par la presse des pays de l’Europe de l’Est, mais aussi par la presse italienne. Dans la querelle du gaz, la plupart des journalistes italiens n’ont pas focalisé leur attention sur les causes réelles du conflit mais se sont complus à diaboliser le gouvernement russe, en l’accusant d’utiliser les ressorts de la géopolitique comme une arme dans le conflit gazier; or le Président Medvedev et le Premier Ministre Poutine n’ont fait que facturer au prix du marché les transactions gazières, selon les règles de la normalité économique.

 

Q.: Mais l’Ukraine est sur le point de défaillir. Les Russes ne doivent pas escompter que l’Ukraine paiera le prix du marché l’an prochain...

 

TG: Je crois qu’il est toujours possible de trouver un accord économique. Moscou et Kiev peuvent négocier un moratoire. J’aimerais bien rappeler qu’il ne s’agit pas seulement d’un problème économique, d’un problème d’import-export, mais d’un enjeu géopolitique majeur. A l’évidence, si l’Ukraine choisit de rejoindre le camp occidental sous le “leadership” de Washington, cette option atlantiste affectera dans l’avenir non seulement les transactions gazières, mais toutes les autres relations économiques. De ce fait, je crois qu’il sera possible, à terme, de trouver une solution économique mais l’obstacle  vient de Kiev, parce que Kiev est inféodé aux intérêts de Washington.

 

Q.: Tournons nos regards vers Washington et évoquons les bases américaines sur le sol italien: qu’en dit l’opinion publique dans votre pays?

 

TG: La plupart des gens sont conscients que la présence effective de bases militaires américaines en Italie mais n’en tirent aucune conclusion politique. Ainsi, quand nous avons eu le cas de l’agrandissement de la base de Vicenza dans le nord de l’Italie, les arguments des adversaires de ces travaux étaient essentiellement d’ordre écologique. L’argument principal, qu’il aurait fallu développer, est demeuré occulté; en effet, l’agrandissement de cette base sert les forces armées américaines dans la mesure où elles auront l’occasion, dans l’avenir, d’entrer plus facilement en contact avec une base proche, située en Serbie, qui dépend aussi directement de Washington. Dans l’avenir, à partir de ces bases, les Américains pourront intervenir dans la périphérie de l’Europe et au Proche et au Moyen-Orient, contre des Etats comme la Syrie ou l’Iran et aussi, dans une certaine mesure, contre la Russie. La nation yougoslave, en l’occurrence la Serbie, n’a pas été choisie par hasard, mais parce qu’elle a des accointances culturelles et ethniques avec la Russie.

 

Q.: La crise gazière a tendu les rapports entre la Russie et l’UE car bon nombre de pays de l’UE sont en train de chercher des fournisseurs alternatifs. La Russie doit-elle s’en inquiéter?

 

TG: Non, je ne pense pas que la Russie doit s’en inquiéter. Je pense que chaque pays doit chercher les meilleures opportunités qu’offre le marché des ressources et viser l’autonomie énergétique. Dans un contexte géopolitique plus vaste, celui de l’Eurasie, je pense que les relations entre la Russie et l’Europe, entre la Russie et l’Italie, devrait reposer sur les intérêts économiques. Nous devons échanger de la haute technologie, des technologies militaires, des ressources énergétiques et, bien entendu, procéder à des échanges culturels. Je pense que les échanges culturels entre, d’une part, l’UE et l’Italie, et, d’autre part, la Fédération de Russie devraient être renforcés.

 

Après la seconde guerre mondiale, il y a plus de soixante ans, les relations culturelles entre l’Europe occidentale et la Russie se sont considérablement amenuisées parce qu’elles ont été sabotées par la classe intellectuelle dominante en Europe, qui soutenait le processus d’occidentalisation ou plutôt d’américanisation de la culture européenne. Si nous comparons les littératures européenne et italienne de ces récentes années avec celles des années 30, par exemple, nous constatons que beaucoup d’écrivains italiens utilisent désormais une langue viciée, incorrecte, avec trop d’emprunts à l’anglais. C’est l’un des résultats de la colonisation culturelle que nous a imposée Washington depuis la fin de la seconde guerre mondiale. Mais il serait tout aussi pertinent de remarquer que cette tendance au déclin se perçoit également dans les pays de l’ex-bloc soviétique.

 

Q.: Quelle est l’attitude globale de l’Italie à l’égard de la Russie? Les Russes peuvent-ils compter sur l’Italie pour qu’elle joue un rôle important dans l’amélioration des relations entre l’UE et la Russie?

 

TG: L’Italie est certainement, avec d’autres pays de l’UE, un partenaire potentiel de la Russie mais, pour devenir un partenaire réel et non plus seulement potentiel, l’Italie doit acquérir davantage de liberté et obtenir une souveraineté politique totale, qu’elle ne possède pas actuellement. J’aime répéter qu’il existe en Italie aujourd’hui plus de cent sites militaires dépendant directement des Américains, des sites qui sont partie prenante du projet américain d’étendre l’influence de Washington sur l’ensemble de la péninsule européenne. Dans de telles conditions, l’Italie et les autres pays européens se heurtent à des limites et ne peuvent exprimer sans filtre leurs intérêts propres sur les plans politique et économique. Il faut cependant reconnaître qu’au cours de ces dernières années, la politique économique des présidents russes successifs, Poutine et Medvedev, a jeté les bases qu’il faut pour que l’Italie devienne un véritable partenaire de la Russie, non seulement sur le plan économique mais aussi sur le plan politique et même, à mon avis, sur le plan militaire. L’Italie est au centre de la Méditerranée et occupe de ce fait une position stratégique importante. En outre, la position centrale de l’Italie est vitale au niveau géopolitique. Et ce serait une bonne chose si elle jouait de cet atout dans l’optique d’une intégration eurasienne.

 

Je crois que les relations entre l’Italie et la Russie s’améliorent; j’en veux pour preuve les initiatives d’entrepreneurs italiens, qui vont dans le bon sens, parce qu’ils contournent les limites imposées par un pouvoir politique qui réside, in fine, à Washington ou à Londres.

 

Q.: Vos critiques à l’endroit de Washington sont particulièrement sévères; vous décrivez les Etats-Unis comme une nation impériale alors que notre monde actuel n’est plus du tout unipolaire...

 

TG: Mes critiques à l’endroit de Washington sont sévères parce que les Etats-Unis ont inclu l’Europe dans leur propre espace géopolitique et la considèrent comme une tête de pont pour attaquer l’ensemble du territoire eurasien. C’est là la raison majeure de mes positions critiques. Mais, vous avez raison, il faut tenir compte de la situation réelle des Etats-Unis dans le monde actuel. Ceux-ci devraient se rendre compte que l’époque, où ils étaient la seule superpuissance, est révolue. Aujourd’hui, dans la première décennie du 21ème siècle, nous avons affaire, du point de vue géopolitique, à un système multipolaire avec la Russie, la Chine, l’Inde, les Etats-Unis et certains Etats d’Amérique du Sud, qui sont en train de créer une entité géopolitique propre; je pense au Brésil, à l’Argentine, au Chili, au Venezuela et, bien sûr, à la Bolivie. En effet, au vu des libertés que se permettent ces pays sud-américains, en constatant leurs audaces, l’UE devrait s’en inspirer pour quitter le camp occidental dominé par les Etats-Unis et la Grande-Bretagne.

 

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Q.: Vous voyagez beaucoup dans toute l’Europe et surtout dans les régions agitées et dans les points chauds. Vous avez participé à l’organisation des élections en Transnistrie. Il y a une île au large de la Sardaigne, qui faisait partie du territoire italien, et qui vient de déclarer son indépendance, en se disant inspirée par l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud. Existe-t-il une formule universelle pour affronter le problème des séparatismes?

 

TG: Chacun de ces problèmes est foncièrement différent de l’autre. En Sardaigne, il y a un mouvement politique séparatiste depuis quelques années mais les gens qui le formaient font partie du gouvernement italien aujourd’hui. Pour la Transnistrie, il faut voir la situation sous l’angle géostratégique. Des pays comme la Moldavie et la Roumanie subissent le poids des Etats-Unis et de l’OTAN. La Transnistrie représente ce que l’on appelle un “conflit gelé”. Je pense que l’indépendance de la Transnistrie serait intéressante car nous aurions, dans ce cas, un territoire auquel les Etats-Unis n’auraient pas accès. Ce serait un territoire de liberté du point de vue eurasien parce que cette Transnistrie serait souveraine. Je n’analyse pas le fait que constitue cette république au départ des attitudes ou de l’idéologie du gouvernement qu’elle possède. J’analyse son existence dans le contexte géopolitique et géostratégique général. De ce fait, je prends acte que la Transnistrie est une république souveraine et que sur son territoire réduit il n’y a aucune base de l’OTAN.

 

(entretien paru sur http://russiatoday.ru/ ; 16 mars 2009; traduction française: Robert Steuckers).

Machiavelli's Stellingen over Staat en Politiek

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Machiavelli's Stellingen over Staat en Politiek

mercredi, 25 mars 2009

Operatie Camille Gutt II

Ex: http://www.n-sa.be/ 

Operatie Camille Gutt II

 
IMFDe politieke en financiële gangsters van de machtskaste hebben weer een origineel plan bedacht om het geld van het eigen volk door te kunnen sluizen naar het buitenland. Of beter gezegd, hoe ze geld weg kunnen pikken uit de zakken van de gewone mensen om het daarna in de casino-jackpots (eenarmige dieven) van het wereldkapitalisme te stoppen. De  verantwoordelijke voor deze diefstal is Minister van Financiën Reynders. Hij heeft deze kostelijke grap bedacht. Mijnheer is dan ook een ware marionet  en vertegenwoordiger van een vazalstaat, een vazalstaat van de kapitaallobby die men in de Brusselse salons billenkletsend België noemt. Want inderdaad, deze Belgische rampstaat is eigenlijk geen echte in zijn hoedanigheid, maar een omhulsel, dat gebruikt wordt door machtselites voor eigen gewin en als melkkoe voor globalistische projecten van de op het wereldkapitaal en op de wereldmarkt gerichte financiële dievenbendes. Wat heeft deze mijnheer Reynders ditmaal gepresteerd (naast liegen, bedriegen en banken verkopen)? Op een bijeenkomst van de 20 belangrijkste industrie- en groeilanden, de G20 (waar België niet eens toe behoort) heeft deze parvenu zich als een dronken lor die niet goed bij zinnen is ons volk verplicht om aan het IMF (Internationaal Monetair Fonds) 4 miljard euro over te maken. "We hebben 2% van het totaalbedrag beloofd", zegt Reynders, "zo plaatsen we ons bij de eerste 20 financiers van het IMF". Voor een land dat straks weer meer dan 140% van zijn BNP tekort heeft mag deze daad zonder schroom als het werk van een gek worden gezien. Maar alleen zo kunnen de internationale bankiers aan de roulettetafels van de beurzen blijven hangen en zichzelf met vals spel verrijken.
 
In totaal wil het IMF zo een slordige 500 miljard dollar bijeenscharrelen om zo de carrousel van het lenen en ontlenen verder te doen draaien. Dat deze geldmiddelen uit louter lucht bestaan kan verder niemand een barst schelen, zolang de volkeren die daarvoor moeten opdraaien maar interest op die luchtbellen blijven betalen is alles dik in orde, daar leeft (en feest) het internationaal kapitaal tenslotte van. De beloofde 4 miljard Belgische euro's komen volgens Reynders eigen verklaringen uit de reserves van de nationale bank. Die nationale bank is het bijhuis van de Europese centrale bank, het geldmachientje van de €urocratie en de €urokapitalisten. Daar drukt men in navolging van de Federal Reserve Bank uit de VSA geld met hopen. Het is dan ook niet verwonderlijk dat de €urobank graag de wereldwijde redding van de USD en het accepteren van deze in feite waardeloze munt verder wil ondersteunen. De ECB en de Federal Reserve Bank van de VSA hebben het niet voor niks op een akkoordje gegooid in 2007. Onder de dekmantel van de Term Auction Facilite hebben de €urokapitalisten zich toen verplicht om ervoor te zorgen dat de VSA in de €urozone een constante liquiditeit bezit. Ze kunnen die waardeloze rommeldollars hier dus altijd kwijt. Je kan het vergelijken met wat de Chinezen doen, die nemen ook waardeloze Amerikaanse dollars aan in ruil voor nog waardelozere staatsobligaties.
 
Sinds Bretton Woods is alleen de dollar aan de goudstandaard gekoppeld en is meer dan 3/4 van de wereldvoorraad goud in Amerika. Alleen is er een klein probleem, dat goud is niet het eigendom van Amerika, maar van alle staten die zich bij het IMF hebben aangesloten. Ook het Belgische goud zit daar onder een wapperende Stars & Stripes, het zal nog een leuk spektakel opleveren als onze Vlaams-nationalisten (die anders zo verzot zijn op de VSA) ooit bij een mogelijke zelfstandigheid dat goud terug willen halen. Kunnen ze Beliën erop afsturen, die is nu toch al Amerikaanse ambassadeur bij de Republiek Madou-rodam. "We love Amerika", weet je wel. In ieder geval Sarkozy en Gordon Brown hebben zich al neergelegd bij de dollarhegemonie om nog maar te zwijgen van de dienstdoende Amerikaanse slippendraagster in Duitsland, DDR-Genosse Merkel. Deze drie onderbazen van €uropa (waarvan er een is die niet meedoet met het €uromonopoliegeldspel) hebben aan de Amerikanen voorgesteld om een nieuw Bretton Woods verdrag te sluiten om de huidige crisis te keren. Volgens medewerkers van deze club moet een dergelijk nieuw akkoord leiden tot één enkele wereldbank en uiteindelijk tot een wereldregering. We weten al waar die wereldregering zal gevestigd worden. Ja, juist kameraden, in Obamaland. Daar doen ze dat goed, grote stukken van dat land lijkt al op Kenia, uitgedroogd, dor en geen wegen. Obama moet zich daar als een visje in het riool voelen.
 
De vraag bij dit alles is of wij in ons land gediend zijn met het weggeven van geld waar wij uiteindelijk als gemeenschap de rentelasten van zullen mogen ophoesten. Er wordt verwacht dat het tekort op de begroting dit jaar zal oplopen tot 3,3% van het BBP wat betekent dat er ongeveer 11 miljard euro tekort zal zijn om de boel draaiende te houden, het Belgische circus incluis. De 4 miljard die wij nu aan het door Amerikaans kapitalisme gedomineerde IMF geven, betekent dat we een derde van dat tekort makkelijk hadden kunnen opvangen (het geld ligt volgens Reynders toch maar te beschimmelen in de NBB). Als we al het geld dat we dit jaar weggegeven hebben aan buitenlandse- in plaats van onze eigen sukkelaars bij elkaar tellen, zal dat nog wel enkele miljarden 'transfers' opleveren. Ook het Kriegsspiel van General Oberst Von Crem kost ons het eten uit onze bejaarden hun mond. Niet uit de mond van Von Crem en de rest van de kliek politieke gieren natuurlijk. Neen, die feesten lekker door, ze houden zelfs verkiezingsbals, waar ze zichzelf laten verkiezen. Hiep, hiep, hoera voor de democratie! De monetaire verdwijnkunsten zijn net als al de fratsen van de politieke goochelaars niet eens origineel te noemen.
 
In 1945 hadden we reeds tovenaars die geld konden wegtoveren. Dat gebeurde door inbeslagnamens, blokkering van tegoeden. Kortom, het openlijk wegpikken van andermans spaargeld. Deze gangsterstreek stond op naam van een zekere Camille Gutt en werd naar zijn naam dan ook Operatie Gutt genoemd. Al het geld lekte weg en werd voor 90% waardeloos. Enkel de kloosters werden vrijgesteld van deze maatregelen die zogenaamd tegen het 'zwartgeld' verdiend onder den Duits waren bedoeld. Maar in realiteit moest ons land zijn geldvoorraad saneren en kijken hoeveel ze met deze methode konden stelen van de burgers om zo de gedane kosten van onze bevrijders (den Amerikaan) mee te betalen. De Amerikanen waren dankbaar voor zo veel dienstbaarheid en lieten Camille Gutt benoemen tot eerste voorzitter van het IMF.
 
Een groot deel van onze politieke elite wil maar al te graag de broek afsteken om toch maar in de gunst te staan bij de Amerikanen. Altijd goed voor de carrière. Voor het volk blijft de schuldenopbouw en de last om die af te betalen. De elite vegeteert, het volk wordt economisch en sociaal gesaneerd. Er is maar één manier om die gangsters te stoppen.
 
SOLIDARISEREN !

Eddy Hermy
Hoofdcoördinator N-SA

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lundi, 23 mars 2009

Baldur Springmann, pionnier de l'écologie allemande

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

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Baldur Springmann, pionnier de l'écologie allemande

 

Baldur Springmann, né en 1912 à Hagen en Westphalie, est le fils d'un grand industriel. Après 1945, il est expulsé de sa propriété de l'Est, achète une ferme dans le Holstein et l'exploite. En 1954, il la transforme en entreprise pionnière de l'agriculture biologique/dynamique. Il participe au vaste mouvement qui s'oppose aux centrales nucléaires. Conjointement à Herbert Gruhl, ancien porte-paroles de la CDU en matières écologiques, il contribue au lancement du mouvement vert. Il le quitte quand les groupes marxistes commencent à noyauter le mouvement et placent leurs hommes aux postes-clef. En 1982, il publie un livre, Partner Erde (= Notre partenaire, la Terre). Depuis 1991, il appartient au mouvement des écologistes indépendants en Allemagne.

 

Q.: Y a-t-il eu dans votre vie un événements crucial, qui a fait de vous un écologiste?

 

BS: Oui. Par exemple, dès l'âge de quinze ans, j'ai ressenti, dans mon fors intérieur, qu'existait bel et bien ce que C.G. Jung appelait l'“archétypal”; j'ai donc ressenti que mon vécu se branchait immédiatement sur l'essence même de la nature. Par ce contact direct, j'ai pris conscience des forces mortelles que dé­ployait l'industrialisation, avec laquelle je ne voulais ni ne pouvais vivre. Voilà pourquoi je suis devenu paysan. Mais j'ai dû constater par la suite qu'il y avait agriculture et agriculture...

 

Q.: Vous avez été l'un des co-fondateurs du parti des “Verts”. Peut-on encore considérer que ce parti est aujourd'hui encore une plate-forme pour un véritable mouvement écologique?

 

BS: Dans l'ensemble, non. Ce qui s'est passé dans les années 70 pour le mouvement anti-nucléaire, s'est passé chez les Verts. Les idéologues marxistes qui cherchaient un tremplin et qui ne se souciaient pas le moins du monde de l'écologie, se sont introduits dans le mouvement, l'ont transformé et déformé, l'ont forcé à prendre une direction qui n'a plus grand'chose à voir avec les positions véritablement écologiques du début. Quoi qu'il en soit, les Verts sont encore le seul parti qui a défendu des positions écologiques, avec des hauts et des bas.

 

Q.: Quel est le reproche principal que vous adressez aux Verts?

 

BS: Leur anti-germanisme. L'anti-germanisme est aujourd'hui une forme de racisme beaucoup plus viru­lente que l'anti-sémitisme. Pourquoi l'anti-germanisme serait-il moins raciste, moins hostile à la vie, moins dangereux que l'anti-sémitisme? C'est la présence de ce racisme qui me dégoute chez les Verts. C'est aussi la raison pour laquelle ils ont eu des difficultés avec le mouvement Bündnis 90, où ce racisme n'est pas présent. Ces hommes et ces femmes ont encore le sentiment d'appartenir à un peuple, tout naturel­lement, sans aucune crispation. Ceux qui veulent se faire valoir en répétant à satiété des slogans comme «germanité = criminalité», développent au fond une idéologie qui n'a rien à voir avec l'écologie. Les ob­sessions racistes et discriminantes sont une preuve d'incompétence en matières écologiques.

 

Q.: Cette équation entre germanité et criminalité que l'on trouve chez les Verts, qu'a-t-elle à voir avec les questions écologiques?

 

BS: On peut tout bonnement se débarrasser de l'écologie comme d'un vulgaire déchet si, d'une part, on revendique la guérison de la nature, et, d'autre part, on nie les liens qui unissent le peuple, le terroir et l'homme. L'écologie, c'est davantage que l'installation d'un biotope protégé pour les grenouilles et les crapauds, et le terroir, c'est beaucoup plus que le parking du supermarché du coin. Pour l'homme, le ter­roir c'est le fait de se sentir protégé, de se sentir à l'abri, dans une Geborgenheit dirait le philosophe Heidegger; mais à l'abri de quoi? D'une culture protectrice, englobante, maternante et poliçante. Le sen­timent du terroir touche directement ce que j'appelle l'“écologie proprement humaine”. L'écologie, en effet, est la tentative de reconnaitre scientifiquement les liens qui unissent tous les domaines de la nature. L'homme n'est pas en dehors de la nature. Il est lié à elle. Et à tout l'univers. Peut-on, sans sombrer dans l'irréalisme et la sottise, nier ces liens qui unissent l'homme à la nature et à l'univers?

 

Q.: Prochainement, vous allez faire paraître un nouveau livre. De quoi s'agit-il?

 

BS: Mon livre paraîtra bientôt aux éditions dirigées par Siegfried Bublies [l'éditeur de la revue Wir Selbst, ndlr]. L'essentiel de cet ouvrage autobriographique, c'est de contribuer à une éthique de libération écolo­gique. Faire passer dans les esprits une mutation de conscience radicalement écologique, voilà bien l'une des questions essentielles de notre époque, qui décidera de la survie des peuples. Il s'agira de susciter un véritable partenariat entre l'homme et la Terre, de proposer des alternatives réalisables, des formes actuelles, non passéistes, de vie écologique.

 

Q.: Beaucoup de militants de droite estime que l'écologie sert de cache-sexe à l'utopisme habituel des gauches. C'est ce qui explique leurs réticences.

 

BS: Ces militants-là ont encore l'esprit encombré de scories du 19ième siècle. Celui qui pense véritable­ment en termes d'écologie n'appartient ni à la gauche ni à la droite, mais est un homme en avance sur son temps. Nous sommes sur le point d'entrer dans une nouvelle ère culturelle et nous n'avons plus à nous orienter sur des boussoles idéologiques du passé, nous devons aller de l'avant! Le clivage passera très vite entre une minorité prête à respecter la vie et à comprendre les forces de la Nature comme révélations du divin, et une majorité relative, plus puissante, composée de technocrates arrogants qui croiront tou­jours pouvoir dominer la nature selon le slogan: “Soumettez-vous la Terre”.

 

Q.: L'écologie n'est-elle pas une thématique fondamentalement conservatrice?

 

BS: Oui. Mais il ne faut pas oublier qu'il existe aussi un conservatisme négatif, qui ne songe qu'à préser­ver les vieilles formes mortes. En fait, il faut que forme, contenu et temporalité puissent être en harmonie. Aujourd'hui plus personne ne se laisse enthousiasmer par le vocable “patrie” (Vaterland), mais vu les succès des Verts et d'un certain féminisme, on pourra susciter l'intérêt en parlant de “matrie” (Mutterland). Nous n'aurons plus affaire à des “patriotes” mais à des “matriotes”, c'est-à-dire des hommes et des femmes qui aiment toujours leur peuple, la matrice de ce qu'ils sont, leur “matrie”. C'est un amour tranquille, doux, qu'on ne saurait comparer au patriotisme des tambours et des trompettes. Le “matriotisme” pourrait parfaitement être accepté par les jeunes d'aujourd'hui.

 

Q.: La CSU vient de faire quelques déclarations claires contre l'hostilité à la technique qui se répandrait dans la population. Elle a également réclamé davantage de “progrès” dans quelques secteurs-clef de l'économie. Elle a traité les socialistes et les verts de “bloqueurs du progrès”. A votre avis, la CSU est-elle la forge idéologique où l'on crée des arguments contre ceux qui veulent préserver les fondements de notre existence biologique?

 

BS: La tendance de tous les partis actuels est d'être ennemis de la vie. Les partis se perçoivent comme les protecteurs de l'économie capitaliste et non pas comme les protecteurs de la Terre. Herbert Gruhl, quand il était encore parmi nous, a dit clairement ce qu'il fallait dire à propos de la folie de ce système, qui ne peut survivre sans “croissance”.

 

Q.: Mais tous le monde parle pourtant de protection de l'environnement...

 

BS: La préservation de la nature n'est pas, en premier lieu, un problème technique. Il s'agit d'une néces­sité beaucoup plus profonde, c'est-à-dire d'une rénovation totale sur les plans spirituel et culturel. L'homme est un être de culture qui, bien entendu, influence directement ou indirectement la Nature par tout ce qu'il fait. Au départ, la relation d'échange entre l'homme et la Nature n'a pas remis en question les systèmes et les circuits écologiques existants. Mais les efforts des hommes en Occident d'échapper à l'emprise des formes socio-culturelles d'ancien régime a dégénéré, pris le mors aux dents, pour devenir une volonté d'échapper aux liens qui nous unissent biologiquement à la Nature. Les hommes en sont arri­vés à vouloir s'émanciper de notre Mère la Nature, mais cela n'a pas fonctionné.

 

Q.: Vous voulez promouvoir une volonté d'émancipation hors de la superstition techniciste...

 

BS: Nous n'avons nullement l'intention de promouvoir une hostilité généralisée à la technique, mais nous voulons installer dans les esprits une attitude critique à l'endroit de la technique. Nous disons que telle ou telle situation doit être changée. Nous raisonnons dans un cadre global écologique en matières agricoles, économiques, dans les domaines des communications, de l'urbanisme, de l'habitat, bref, dans tous les domaines de la vie. Nous souhaitons que les décisions politiques soient prises en tenant compte de notre cadre écologique global, en tenant compte des impératifs de la Nature et non le contraire.

 

Q.: Il y a une question typique que posent les partis: pendant combien de temps encore serons-nous en mesure de financer la protection de l'environnement?

 

BS: C'est une question qu'il ne faudrait pas poser. En revanche, il faudrait en poser une autre: que signi­fient les progrès que nous avons faits sur la voie techniciste et mécaniciste par rapport à l'ensemble des paramètres de la Vie sur notre Terre? Et quels sont les effets de ces “progrès” sur l'environnement, la cul­ture, les faits ethniques, qui structurent l'homme? Le question du financement de la protection de l'environnement est une question d'irresponsable, une question d'esprit libéral.

 

Q.: La question écologique est-elle simultanément une question profondément religieuse?

 

BS: Pour que nous puissions vivre un bouleversement réel, définitif, de notre pensée, marqué par la conscience écologique, il faut qu'une religiosité nouvelle se déploie. Aujourd'hui, la religion a pour ainsi dire disparu. Il ne reste plus que des structures confessionnelles. Le christianisation de l'Europe a été la première étape dans le houspillement du divin hors de la nature, hors de notre vivifiante proximité, hors du tellurique. Cette christianisation a préparé le terrain au désenchantement, puis au désenchantement technicisto-mécaniciste, qui nous a conduit à la situation désastreuse que nous connaissons aujourd'hui. Quand je parle de déployer une nouvelle religiosité, je n'évoque pas le New Age ou une autre superficialité du même acabit, mais je veux retourner aux sources mêmes de toute religiosité, c'est-à-dire au regard plein d'émerveillement que jetaient nos plus lointains ancêtres sur l'harmonie cosmique, sur les astres. Pour eux, la Nature, dans sa plus grande perfection, c'était ces étoiles qui brillaient au firmament. Il faut restaurer cette dimension cosmique et astronomique de la religion. Et se rappeler de l'année cosmique dont parlait Platon, année cosmique qui durait 2150 ans. Un cycle de cet ordre de grandeur est en train de s'achever: nous nous trouvons dans une sorte d'interrègne, dans une phase de transition, nous allons rentrer dans une nouvelle année cosmique selon Platon. Les religions révélées dualistes, qui ont dominé au cours des siècles précédents, vont s'effillocher et céder le terrain à des religiosités de l'immédiateté, des religiosités holistes. Notre tâche: trouver des formes socio-politiques adéquates, qui correspondent à cette transition, à cette nouvelle année cosmique.

 

Q.: Y a-t-il une recette patentée pour nous débarrasser de la dictature du matérialisme et des paradigmes du mécanicisme?

 

BS: Je suis opposé à toutes les “recettes patentées”. Elles ont plutôt l'art d'exciter mes critiques. Mais l'humanité doit prendre des décisions fondamentales. Le retournement des valeurs va s'opérer, en dépit de l'hostilité que lui porte le capitalisme dominant. Je ne crois pas que ce retournement va s'opérer bruta­lement, en un tourne-main, par une sorte de révolution-parousie. La lutte sera longue. Nous, les écolo­gistes, nous devons élaborer des propositions réalistes.

 

Q.: Ce sont des propositions réalistes de ce type que vous suggérez dans votre livre, notamment en for­mulant «Dix thèses pour une agriculture vraiment paysanne». En même temps, vous formulez une critique acérée contre les politiques agricoles conventionnelles...

 

BS: Pour la plupart des politiciens de l'établissement, les quelques misérables pourcents de l'agriculture dans le PNB sont une quantité négligeable. C'est pour cette raison que tout le discours sur la “promotion des entreprises agricoles familiales” n'a jamais été suivi d'effets, que ce discours n'a été que propagande et poudre aux yeux. En réalité, on a, par décrets administratifs, systématiquement exterminé le paysan­nat européen. Cette politique a commencé avec Mansholt; elle a continué avec Bochert; leur intention était claire: évacuer le fossile paysannat, le jeter définitivement au dépotoir de l'histoire. Je m'oppose avec vigueur à ce génocide, je refuse de considérer le paysannat comme une quantité négligeable. Je pose une question qui vous donne d'emblée le clivage qui s'installe: Agriculture véritablement paysanne ou industrie agro-alimentaire? Si nous luttons pour revenir à une agriculture naturelle, nous luttons pour l'avenir de tous les hommes sur la planète. Ce retour à l'agriculture s'effectuera sans doute à la fin de la période de transition que nous vivons aujourd'hui. Mais si nous ratons cette transition, nous mettrons en jeu la survie de l'humanité, nous préparerons le dépérissement misérable de nos descendants.

 

Je veux promouvoir une renaissance du mode de production originel. Seuls les produits issus d'un tel mode de production peuvent générer la vraie Vie. Une véritable agriculture, c'est le pilotage et l'accroissement naturel des processus agraires dans le cadre d'un environnement naturel, sans que ce­lui-ci ne soit artificiellement transformé. Les bio-paysans, nombreux en Allemagne aujourd'hui, pratiquent cette agriculture avec succès. Leurs produits sont meilleurs, sont demandés. Leurs méthodes scienti­fiques, écologiques au sens scientifique du terme, sont performantes. Ils pratiquent ainsi une immédia­teté avec la nature, le sol, la géologie, ils s'abstiennent d'utiliser des méthodes transformatrices dange­reuses sur le long terme; ils reviennent au mode de production originel, tout en restant concurrentiels. Voilà des exemples concrets à suivre. Dans tous les domaines de l'économie.

 

(propos recueillis par Hanno Borchert et Ulrich Behrenz, parus dans Junge Freiheit, n°16/95).

samedi, 21 mars 2009

The Social Vision of Valentin Rasputin

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The Social Vision of Valentin Rasputin

by Matthew Raphael Johnson

The Social Vision of Valentin Rasputin

by Matthew Raphael Johnson

In his own mind Rasputin may well be answering some such summons to be his own people’s medicine man for the purposes of understanding and cleansing that part of the world he calls home. –Harry Walsh

Soviet Marxism and Western Capitalism are nearly identical systems of rule. Where they differ is in the means of policy implementation. The USSR based its existence, clumsily, on a state apparatus. The west is far more sophisticated. It rules by a complex Regime: a matrix of private, state and semi-private capital, meshing together in advocating specific policies, appearing to be separate sources of power, but, in reality, offering a closed oligarchy of power, wealth and arrogance.

Nowhere is this identity of policy more obvious than in the realm of agriculture. Both capitalism and Soviet Marxism claim to be the bearers of Enlightenment values to mankind: modern Promethiuses, bringing the “transvaluation of all values” to a benighted herd. Both ideologies believe in progress and technology, which provides both with a distorted view of country and agrarian life. Both ideologies demand absolute conformity to its ideological dictates, even to the point of building global empires to impose such ideas. But insofar as the agrarian life is concerned, these ideologies are identical, considering this life “backward” and “inferior” to the technological paradise of urban living. Both ideologies demand, in short, either the eradication of country life (as in Lenin’s case), or its radical transformation (as in Khrushchev’s case). In Soviet Russia, modernization meant the state’s invasion of the agricultural sphere, demanding strict oversight and control of all agricultural programs, and encouraging migration to the cities. Urbanites were told to “enlighten” their “backward brethren” in rural areas into the socialist idea and the technological paradise that awaited them. Entire regions of arable land were annihilated through dam projects which flooded them, or nuclear fallout from tests, or environmental disasters responsible for the deaths of thousands.

In the west, as always, the policy is identical, the means very different. In 1999, the U.S. Department of Agriculture met with the two oligolopolists of the agrarian life–Archer Daniels Midland of Kansas City, and ConAgra of Omaha. Their purpose was the final destruction of the family farm and the parceling out of the abandoned arable to their corporate interests. In the meantime, major media was spewing the typical stereotype of rustics as hicks and morons, with pickup trucks and southern accents, “spittin’ tobacca’” and killing non-whites. It was and is an acceptable stereotype, according to the apostles of diversity, and one encouraged by everything from sitcoms to stand up comics. If one wants to sound stupid, merely speak in a southern accent. Media and corporate finance worked hand and hand to destroy agrarianism, small towns and the family farm.

The reality, of course, is that, from a political and moral point of view, the agrarian life is a threat. It is a threat to the Regime and its obsession with social control and Pavlovian manipulation. In Russia, it was not the Soviets who depopulated the countryside, by rather the “democratic reformers,” so beloved of Beltway lawyers. And it is within this context that the prose of Valentin Rasputin (b. 1937) needs to be understood, and cannot be understood without it.

The defenders of agrarianism are few and far between: Jefferson, Emerson, de Bonald and Rasputin largely exhaust the names. The Green movement in America, though occasionally assisting this cause, is funded almost exclusively by the Rockefeller and Ford Foundations, and contain, equally exclusively, Volvo-driving urbanites and suburbanites who might want to defend the “family farm” in theory, but despise actual rural people in reality. What the SUV-environmentalist crowd is actually doing in the name of “saving the family farm” is attacking rural hunters and ranchers (occasionally with state-sanctioned violence). The environmentalists have made their central policy ideas the attacks on hunting, ranching and logging, three major occupations of rural America. Whether the soccer moms see the absurdity is a matter of speculation, but the board of the Rockefeller Brother’s Fund fully is aware of it. The attack on rural life is both an ideological, as well as a class, battle. In the early 1990s, a common sight was turtle-neck clad suburbanites attacking poor, rural hunters in the name of “animal rights.” While only a few specialized outlets would touch stories like that, the clear class lines of the confrontations were obvious.

In the prose of Valentin Rasputin, many of these struggles make their appearance. Rasputin is largely loathed and ignored by the denizens of American literary criticism, and the published literature in English on his work numbers a whopping four articles. These range from the simplistic but informative “Conflicts in the Soviet Countryside in the Novellas of Valentin Rasputin” (by Julian Laychuk, published in the Rocky Mountain Review), to the very well done “‘Live and Love’: The Spiritual Path of Valentin Rasputin” (by Margaret Winchell, published in Slavic and East European Journal). The nature of Rasputin’s social vision is at the root of this obvious hostility.

For Rasputin, the dividing line of the 20th century is clear: it is between civilization and country; urban and rural; artificial and natural. Such a dividing line is common enough. His major works proceed in a basic and predictable style, more aimed at approaching an audience than explicating a genre. But this dividing line is always present, and it is what provides this writer with his strength and consistency.

The artificial world is that of civilization: regimented and fake. It is the world of ideology and power. The world of civilization is that of geometry, it is the Tower of Babel, where the worship of dead matter is the official religion. It recognizes only materiality, for materiality can be easily manipulated and controlled. It is elite by definition, for only an elite can even begin to understand the feats of engineering and mathematics that must be understood before the “marvels” civilization are manifest to the world. Reason is reserved to the elites, while the herd is controlled through their passions. The herd is accepting of technology because their “needs” are easily met by it, but at the price of their freedom and independence. But even more significantly, at the price of their identity.

But as the urban/civilizational life is based upon matter, the rural/rustic life is based on spirit. This is a rather complex notion in Rasputin, but is a notion that has a rather long history behind it. Spirit is not the opposite of matter, but is something hidden behind it, in the literal meaning of “metaphysics,” as something “behind” appearance. What science/urbanism can understand is solely what is can quantify , whether it be heat or velocity; votes or roubles. Matter is by its constitution quantifiable, and therefore controllable. Spirit is another matter, and is that aspect of material life that is non-quantifiable. Orthodox Christians can in no manner posit a radical opposition between spirit and matter, for it is precisely this confrontation that made up the “practical” backbone of the Synod of Chalcedon in 431. It is this distinction, that, at least at the time, made up the confrontation between Christian and Monophysite heresy. Matter and Spirit are two very different sides of the same thing. As vulgar Orthodox scholars like to reduce Chalcedon to a “quibble over language,” the reality is rather different, and goes to the heart of a Christian metaphysics.

In 18th century Ukraine, a now largely unread philosopher and metaphysician was active, Gregory Skovoroda. His mind was set to develop a Christian metaphysics, one that would do justice to the powerful insights of Chalcedon. Skovoroda is significant in understanding the nature of Spirit as manifest in the writings of Rasputin, and is able to distinguish Christian spirit from both the vulgar spiritualism of western “religion” and the materialism of the western economic world. One sentence might make sense of this: “This one is the outer frame, that one the body, this–the shadow, that–the tree, this–matter and that–the essence; that is the foundation sustaining the material mud just as the picture sustains its paint.” Though Skovoroda is distinct from Aristotle as he writes: “The universe consists of two essences: one visible, the other invisible. The invisible is called God. This invisible nature or God penetrates and sustains all creation and is and will be present everywhere and at all times.” While far from “materializing God,” such ideas (and they are difficult to being out in English) speaks of God as the Law of Law, or the Essence of Essence. Regularity and Law exist in the universe, and the ground of this regularity is God. Regularity and Law cannot exist without a Lawgiver by definition. While the Essence exists, the appearance, or the “material” side of this, is regularly changing. However, God is not purely imminent, but is so insofar as human beings can approach him. Objects the way out fallen and vulgar understanding picture them, are merely “shadows” cast by the Primal essence, or the Law of Law.

Objects partake of Law and Regularity, and that is the “divine” in them, object sub specie aeternis. Only the advanced ascetic can see objects in this manner. An object as it is, rather than as it appears. In the fallen world, objects/material are things for manipulation. They become objects, as Locke will argue, only to the extent that they are expropriated from their natural state. Humans too, can exist in either a natural or “expropriated” state. Objects exist to the extent to which man has rejected his empirical state of fallenness, and though the Orthodox life, through fasting and silence, can the Reality of being make an appearance. Objects do not them excite lusts, bur rather joy and contemplation.

Natural objects are “paths” to God, here. For they hide the reality of the Creator under their “accidents,” qualities that primarily strike the observer for only the fallen mind can appropriate these things. From this falseness, objects appear in a distorted way, as mere means for the domination of the gnostic elite over all nature through geometry. Ultimately, this is the genesis of empiricism and later capitalist democracy. Objects appear thus through the jaundiced lens of sin and fear of death. While Hegel argued that objects appear differently to different historical epochs, conditioned by specific ideas relative to such ears, Orthodoxy views the material world as changing through the specific “rung on the ladder” the ascetic finds himself on.

Skovoroda does not really require a “space” that is “beyond” the appearance of objects. Vulgar western religion has posited God “up, above” our material existence, existing in “heaven” that is “out,” somewhere “in space.” God then is a purely transcendent being, someone radically separate from his creation, and thus needs to be petitioned like a feudal lord. Of course, the patristic reality is different. God’s person is found as the eternal “idea” in creation, a part of it but far from identical with it. He is imminent in this sense, and is manifest to only the Orthodox ascetic through a life of self-denial, the slow emergence of the sprit struggle through the prison of false images cast by sin and fear. After the various western schisms, these religious bodies quickly lose this specifically imminent aspect of God. The papacy, then, in Protestantism, the individual will, was to take its place, until God became a mere philosopher’s phantom, without real being, without presence.

Once men begin the Christian struggle and receive “adopted sonship” through baptism, they become a living, empirical aspect of the Spirit’s activity on earth. Men do not pray in the sense they renew their driver’s licence (the Protestant view), but the Spirit communicates with Christ through their/our material agency. In other words, this metaphysics posits man/creation not radically separated from God, but simply unable to see His presence under the layers of filth caused by sin, the world and the Regime’s science. The Regime posits a globe of dead matter (including the cowans, i.e. non-initiated people, the herd) ripe for manipulation. Orthodoxy posits a material world that is bi-composite: one, comprising the qualities that Locke is convinced exhaust the matter of matter, and, two, the spirit, the Law of Law, or that aspect that permits matter to partake of Law and Regularity (without which there could be no science, good or bad). The life of asceticism permits the ascetic to begin to see and focus on the Law, rather than its quality, though Law through quality, rather than opposed to it.

Whether or not Rasputin regularly reads this great Ukrainian writer is another story, but in reading these novels, one can easily see the influence of the Chalcedonian metaphysic. For Rasputin, the urbanite cannot see the spirit underlying matter (so to speak). Everything in urban life, as all is conditioned by will, appears artificial, to be merely a bundle of qualities (i.e. substance-less). Men are no different, for to reduce them to a bundle of qualities is the only means of controlling them. Freedom, properly understood, derives solely through Orthodox asceticism; urbanism, therefore, must be based on indulgence, for indulgence, by building up the passions and their demands for satisfaction, permits for those who control access to such fulfillment full control over “human” or semi-human faculties. Urbanism destroys humanity; it destroy’s freedom by its very constitution and organization.

For Rasputin, particularly in his more recent labors, the purpose of life is to struggle to see, at least in outline, the basic spirit structures of the world. This can only be done in nature, outside of the distorted elite lense of urbanism. His characters experience mystical visions when in the outlands of Siberia, suggesting a knowledge that is beyond logic; a strange form of communication between Law and the psyche, one completely bypassed by modern geometry/logic. Such experience radically change these characters, bringing them to a knowledge of their identity and therefore, purpose. Rasputin’s epistemology is mystical, in that the mind is illumined through participation, a participation in Law, or a Reality that is only in a small way explicable through logic. The argument looks like this:

  • P1: Modernity is based on quantification
  • P2: Quantification is a quality adhering to extended matter
  • P3: Extended matter, by definition, is not free, but is subject to manipulation
  • C1: Therefore, Modernity is based on the manipulation of extended matter
  • C2: Therefore, Modernity is based on unfreedom
  • P4: Logic exists to assist in the manipulation of extended matter
  • P5: Logic has no purpose other than being applied to matter and its behavior
  • C3: Spiritual experience is therefore non-logical (super-logical).
  • C4: Modern life can only see things that logic can manipulate

While this is incomplete, this argument makes a great deal of sense out of Rasputin’s writings, and the agrarian life specifically. Because of the nature of “participation,” (in the Platonic sense) Rasputin’s heroes/heroines, often are not specifically educated formally. They are people who have, so to speak, absorbed, through participation, the Reality of life. These are often older women, our babas or yayas, who, simply through experience outside of the logical/mathematical world of urban life, receive a great deal of wisdom, a wisdom outside of the experience of the urban life, a life that cannot absorb anything that is not based on the behavior of matter.

In modern life, the Slavic and Greek immigrant community that first built Orthodox life in North America is dying. Our babas/yayas are either dead or extremely elderly. In many parishes in America, the elderly are the only ones left, preserving some vague memory of the old country and a way of life radically alien to the American. They remain the last holdouts largely because of a specific form of cruelty and abuse, one specific to modernity, that is abandonment. But not a simple form of leaving home, but a sort of abandonment very different from that; it is a mental leaving of home.

My babas are still to be found among the Ukrainians of Lincoln, NE, holding down the parish of St. George with no more than 7 or 8 elderly members as of this writing (April 2007). These are the original Slavic immigrants to this part of the world. They came with nothing and built a small but extremely prosperous community. Needing no help from the Regime, the Ukrainian community in Lincoln and Omaha built a life based on the agrarian ideal of the small community, ethnic unity, religious devotion and limited wants. Media knew no role in their life. There were no TVs, and the music was either religious or folk. Coming to America not speaking English, being of an alien religion, and knowing nothing but persecution and suffering, these Ukrainins built prosperity and togetherness. In fact, to such an extent that they were able to finance several shipments of goods to Ukraine after the 1986 nuclear disaster, and were even involved with settling new immigrants and smuggling Christian literature into Ukraine. They burned their mortgage on that parish years early. They rarely contracted debts, and are now in retirement, enjoying a great deal of security.

Their children? A different story; a story of objective evil, failure and stupidity that can be summed up in two words: modernity and Americanization. These children have left the church and the community. They speak to their parents in the most smug of condescending tones, without a clue as to their virtues. The children have sought entry into corporate America, and, at best, have become groveling middle management bureaucrats, without identity, spirit or purpose. They watch the parish(es) that their parents built die of neglect, but have no difficulty in buying the SUV or spending $40 per tank of gas. They spout rehearsed slogans about democracy, as they vote for Clinton or McCain, while assisting in the destruction of real democracy, the autonomous ethnic community, financially and socially independent. They have abandoned the Ukrainian community and its church, while vegetating in front of the television, the chatroom or the ball game. These are survivors of both Soviet and Nazi Holocausts (some were married in the camps by secret clergy), but, oddly, no one cares; no one asks them how. No one asks about their experience, and they die in obscurity. Just down the street at my Alma Mater, the University of Nebraska, there are several scholars pretending to be Russia experts, and has one asked these survivors about their experience? Not one.

This is the vision of Rasputin. The elderly country woman as the ignored, spat upon bearer or wisdom. The spitter? The urbanite who abandoned the ancestral life for urbanism, the chance for power and money. The urbanite believes that formal education is the “magic elixir” that will transmogrify him or her from an ignorant bumpkin to a civilized member of the New Soviet Experiment, the 21st Century, or whatever. Returning to the village, smug and arrogant, the baba is simply considered an “old, pious fool,” but, as always, a fool who is far wiser than any urban bureaucrat, crammed into his minuscule apartment in the name of “success” and “progress.”

The baba is people centered; she is concerned with personality and simple yet profound moral lessons. The urbanite is institution centered. He is concerned with “progress” and “utility,” even “competitiveness.” Folklore is the center of the “people centered” baba, while ideology is the center of the “progress centered” urbanite. For the baba, decentralization is the key to freedom (though it is never articulated as such); while for the urbanite, it is centralization; oversight; control; coordination. These are the modern buzzwords. As always, the baba is the simple and unassuming (but strong) advocate of freedom and personality; the urbanite is the advocate of the machine and the institution; weak and dependent. Baba is strong and independent. Rasputin paints these colors in a strong but realistic contrast that is simply too much for the modern American literary critic to stomach. Many of us can see some of our own experience in Rasputin’s pages. My babas in Lincoln are powerhouses of knowledge, articulated in simple yet compelling forms. Their children have absorbed the latest fads from the major media, and thus appear as dependent, weak and childish (rather than child-like) shadows of their parents. For the babas, community and its values, codified in folklore, is the guide to life, for the urbanite, it is ultimately the ego, but an ego flattered by modern ideology and fashion.

Another writer has done an excellent job in getting to the heart of Rasputin’s work. In his article, “Shamanism and Animistic Personification in the Writings of Valentin Rasputin” (South Central Review, 1993), Harry Walsh brings out a few new insights into the agrarian vision through the prisim of ancient Shamanism. While Rasputin is Orthodox, his view of the ancient pagan “religion” of Russia is typical of my own: harmless customs that serve largely to humanize nature. These kinds of simple religion take natural reason and feeling as far as it can go in dealing with natural phenomenon without revelation. There are no “gods” in the Christian sense, but rather poetic fetishizations of either natural or social forces. It is precisely these customs and poetic “humanizations” that St. Innocent of Alaska strictly forbade his missionaries to interfere with as they were being evangelized into Orthodoxy. So long as these ideas did not interfere with the Christian faith, they were to be left alone.

Once of these sort of “personalizations” that comes out in Rasputin’s work is important to agrarianism and anti-modernism, and that is the “personification” of objects; that is, the personification of the land itself, and its common markers: rovers, mountains, leaves, colors and sounds. Here, as is commonly seen in Johann Herder, language is merged poetically with nature, with one’s surroundings. In herder’s case, thought is inconceivable without language (and thus historical experience), thought itself is merged within the natural world. The natural world is then a home. Contrary to the ravings of the gnostics and technophiles, nature is not an arbitrary creature, the creation of a semi-wicked demiurge that needs to be dethroned and “corrected,” but is a home, a life, it is not “other,” but an extension of one’s self. In Russian the noun “drug” means both “friend” and “other,” showing the slow merger of the two concepts. Of course, there is no “other” in friendship: the one is swallowed in the other. Friendship is precisely the swallowing of otherness, and a pleasant and voluntary absorption of otherness.

For the agrarian, the land is a person, in a sense. It is a loving mother that, all other things being equal, yield her bounty when she is treated with respect, no different than a loving wife. Is there a connection between modernity, abortion and the destruction of agrarian lifestyles? Of course. They are all really the same notion: the female, nature is desecrated and abused in the name of progress. As Francis Bacon wrote, “knowledge of nature” is “power.” Knowledge of nature is designed to keep her in submission, chained to the libidinous whims of the Lunar Society. Rape and industry have the same Baconian/Atlantean root. Therefore, agrarianism is seen as backward, as the male whoremonger is seen as macho and virile.

Nature in Rasputin is not merely to be preserved and loved as a mother/wife because she is pretty, or because she yields fruit. Both are important, but it goes deeper: nature is a mediator, of sorts, between man and God. The Orthodox vision of relics partakes in a limited way from this insight. Nature, to the sensitive, aesthetic and ascetic soul, contains the “fingerprints” of God in that it is regular, law governed, and sensitive to affection. It is not a difficult road from nature as law bearing, to nature as designed, to nature as the subject of a creator. The sensitive soul sees in nature tremendous beauty, order, proportion and the source of bodily life. How difficult is it to go from here to God as Beauty, Love and Provider? Even in the more disagreeable aspects of nature, such as snake’s venom, or cow dung, one can see the hand of the creator. Human beings, like it or not, eat that cow dong when we eat the products of the earth, that have been fertilized by it. Back in Nebraska, the farmers would tell the suburbanites holding their noses in the rural areas: “It smells like s**t to you; money and food to us.” They never quite had the heart to tell these benighted souls that they eat this fertilizer in every bite of a tomato or carrot.

For the agrarian, nature, the village, the trees and mountains are friends. They create a home. They are part of a larger community all bound together in love, a love at least partially manifested in the “law bearing” aspect of natural events. Science has never been able to understand that nature of regularity as such. Newton can understand it as a quality of matter, but as to its source, that’s another issue. Regularity is not something that adheres to objects, but itself must have a source. Regularity and law are the basis of science, and yet its source is purely in the realm of metaphysics and theology. Regularity and law are not the products of random events, but themselves are objects of scientific inquiry, and only a Law of Law, or the ground of law, can be responsible for order in a universe that tends to disorder and dissolution.

Yet, contrary to the myopia of modern positivism, poetry is the source of making a home out of natural objects. A home for the modern suburbanites is the McMansion thrown up in a few weeks by a builder making a quick buck, only soon itself to be sold in order to see a profit. Rasputin and the agrarian tradition see a home as a complex matrix, a matrix of sights and sounds, smells, people, colors and structures. Only a sensitive mind can “see” memories in an old barn, a careworn field, or an old tractor. The modern suburbanite cannot.

But taking this one step further, Dr. Walsh makes it clear that in Rasputin’s writings, these connections among objects, God, law, sense, memory (in the affective sense), loyalty, home, family, community, local institutions, etc., called by the ever misinterpreted Slavophiles “integral knowledge” automatically mean that man is a mediator, he is a mediator between the senses themselves (what philosophers sometimes call “intersubjectivity”); between logic and poetry; between sense and love; and most of all, between the living and the dead. Edmund Burke once famously called “tradition” the “democracy of the dead.” The traditions that hold rural communities together is not the creation of the present generation, but can only be the product of generations past, generations who suffered and struggled to make it possible for the present generation to be alive at all. The fact that the founders are now dead should have no bearing on their influence over the present. If one exists through the accident of birth, than why should the accident of death be a problem? Why should mere death be a barrier to influence? What is the moral ground for such an opinion? Should the dead vote? Yes, and it’s called tradition.

There are some modern philosophers who are slowly rejecting the concept of “I” in moral theory. Such a revolutionary opinion is almost inconceivable in modern post-revolutionary times. The “I” according to Oxford’s Derrick Parfit, should be reduced to “streams of experience” that do not admit of an ontological fundament. Such a notion is common enough for agrarianism and is found in Rasputin: the idea that the “I” is not a fundament, but is part of a larger reality. The ego is sunk into the integral basis of reality, but such a basis must be rather small (physically) and be based on a determinate community of people, region and language. The separation of the “I” from its surroundings is primarily an invention of the Roman empire and Stoicism, and is so well lampooned in Chekov’s Ward No. 6 The “I” is not a fundament, the community is, the integrity of one’s surroundings is. And it is on this basis that the personification of reality makes sense. Reality is absorbed by the community and transformed its social experience. And, further, it is this that makes capitalism and democracy so vile: for they see a forest as only so much wood, or as a potential field for development. The community, however, sees it as an ontological reservoir or feelings and memories; it is an aspect of personhood. The extreme emotions that sometimes are drawn out when old, rural settlements are bulldozed over for some trivial purpose is derived from precisely this ontological reality.

There is little doubt that Rasputin is a threat, and will remain so. As a fairly young man, he has several good years ahead of him. His work is accessible, and his message is clear. His characters are powerful and his personality uncompromising. Rasputin should have the role of the Solzhenitsyn of the 21st century, only it is not the Soviet GULAG that is the target, but the modern world and its sickness; the merger of corporate capital and Soviet repression.

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vendredi, 20 mars 2009

Sarkozy battles General De Gaulle's NATO retreat

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Sarkozy battles General de Gaulle's NATO retreat

16 March, 2009, http://russiatoday.ru/

French President Nicolas Sarkozy has gone against the late General Charles de Gaulle’s decision in 1966 to remove France from NATO, but that move promises to be something of a public relations disaster.

Intensive security measures are planned as tens of thousands of anti-NATO demonstrators plan to block the summit during the military organization’s 60th Anniversary conference in Strasbourg in April.

Sarkozy is pulled in different directions over reintegrating with the NATO military machine. He believes France needs US friendship to do business worldwide and wants to benefit from the US military umbrella. He has worked hard to overcome the violent hostility to France that dates back to the quarrel over the war in Iraq, which saw Americans pouring French wine into the Potomac River, but he also wants a European defence policy for Europe and does not want to follow the US into Vietnam style quagmire in Afghanistan.

Above all, the French want to keep their independence and have no intention of seeming to become the next British style US poodle. Yet much of the world sees NATO as the military arm of US foreign policy. Sarkozy thinks that he can achieve these contradictory aims from within the alliance but the result is that different levels of the French government are giving off conflicting messages.

The administration is playing up two opinion polls that show a small majority of French people in favour of reintegration. Much of the press have dutifully echoed the result. Little attention has been paid to the high figure of 21% of ‘don’t knows’. Equally the French press has ignored completely the Angus Reid poll that shows that only a tiny 12% of French people think that the engagement in Afghanistan boosted by Sarkozy, ‘has been mostly a success’ – the lowest figure for six comparable western European nations.

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Faced with this President Sarkozy has appointed a personal envoy to Afghanistan and Pakistan, Pierre Lellouche. In so doing he reinforces France’s diplomatic presence in the region at a time when policy is under review by the United States and its NATO allies. The move follows similar appointments by Britain and Germany, which in turn were triggered by the appointment of the veteran diplomat Richard Holbrooke to head up a similar US diplomatic mission. For the moment, despite US pressure, there is no question of sending more troops.

It is likely that the appointment of Lellouche has been made after consultation with the Americans. His career path confirms this. He has close links with America and achieved a doctorate in law at Harvard University. In his political career he has specialised in foreign relations and in particular NATO. He is President of the French parliamentary delegation to NATO and was President of the NATO Parliamentary Assembly from 2004 -2006. Last year he conducted a cross-party parliamentary enquiry into conditions in Afghanistan. He worked with Holbrooke in Bosnia in the 1990s.

The importance of the appointment of Holbrooke, linked to that of his French, German and British counterparts, to a hard pressed President Obama is clear from the fact that it came only two days into his presidency. Any support for him by France is welcome. President Sarkozy has appointed an envoy very much to the taste of his allies and has talked of staying in Afghanistan ‘as long as is necessary’. However, in Washington, recently his Minister of Defence Hervé Morin put it differently:

“We will have to stay as long as is needed… Our aim is not to stay there for ever. That is what the President of the Republic has reminded us several times.”

And he went so far as to pose the question: “Why not set, quite rapidly, a date for the beginning of the withdrawal of the alliances forces?”

Lellouche himself was more blunt:

“It is right that we operate as co-pilots in the international strategy in Afghanistan. There must not be a repetition of unilateral excesses of the Bush era, which provoked a deep gulf between the United States and its NATO allies”.

He said that the French government would ‘test’ the dialogue proposed by President Obama. “Let us hope that it works. We will not stay in Afghanistan indefinitely”. He stressed that the conflict there “was a war and not an international police operation. The proof is that France spends nearly €200 million a year on its army in Afghanistan whilst spending only €11 billion on civilian aid”. He pin pointed the withdrawal of all but 7,000 US troops at the time of the invasion of Iraq in 2003, as the main cause of the deterioration of the allied position in Afghanistan. But he said “The game is not lost. Studies show that if there is a lack of support for the Karzai government, the people do not want a return to the rule by the Taliban.”

By fully rejoining NATO, France removes a thorn from the US diplomatic flesh and adds the full support of the world’s second biggest diplomatic service backed up by Western Europe’s only genuinely independent nuclear deterrent plus experienced and respected military forces. Even so, quite how much influence France will really have over policy in Afghanistan, with a total of only 3,300 troops deployed, remains to be seen. The United States now has 38,000 present with a further 15-30 thousand to arrive shortly.

The point is underlined by the announcement that French troops there are now to come directly under US command whereas before they operated as an independent unit. This will be grist to the mill of those in France who claim NATO reintegration means loss of national control. It will not help Prime Minister François Fillon, who after some hesitation, decided to call for a vote of confidence on the question in the French National Assembly. By putting the survival of the government on the line he will win easily and it gives him a chance to counter the arguments of those within his own party and in the opposition who oppose the move.

Despite this neat political manoeuvre, the reality is that the French President is confronted by real opposition from many in the French political class over NATO reintegration and in particular involvement in Afghanistan. They argue, often privately, that this is more a colonial war to control pipeline routes from central Asia to the sea coast of Pakistan than about democracy. Worse they suggest it may be an excuse to establish a long term presence in the region with no other real military aim.

They point to the coincidence that the US led invasion followed one month after the award by the Taliban government of a key energy contract to an Argentinean company rather than American Unocal and that before becoming President, Hamid Karzai was an oil consultant to Chevron in Kazakhstan. The same Afghan President requires a twenty four hour a day American body guard of over 100 men to stay alive, unlike his much criticised Communist predecessor.

They question why after seven years, the US security services that employ 100,000 people and spend an astounding $50 billion a year, cannot find Osama Bin Laden. They note that Afghanistan has become the world’s biggest producer of heroin under Western occupation.

Finally they do not think the war can be “won” in any meaningful sense. They echo the view of Canadian Prime Minister Stephen Harper, who told CNN:

“Quite frankly, we are not going to ever defeat the insurgency. Afghanistan has probably had – my reading of Afghanistan history is – it’s probably had an insurgency forever of some kind.” The Canadian parliament has voted to withdraw all troops by 2011.

Despite all this there are indications that President Sarkozy will eventually take the risk of sending more troops. Under the French constitution it is his decision alone, but this will not happen before the controversial NATO summit in Strasbourg in April and the vote in parliament. In any event he will do what he can to prevent the alliance from failing in Afghanistan because he believes that such an outcome would damage NATO credibility perhaps fatally. This is especially the case in the light of the recent humiliation of Western financial institutions.

All this leaves the United States and its NATO allies confronting the classic military dilemma well summarized by Winston Churchill over a hundred years ago:

“It is one thing to take the decision not to occupy a position. It is quite another to decide to abandon it once occupied.”

More troops may just make it possible in one form or another to ‘declare a victory and go home’ to the great relief of the French electorate and government. This process is likely to be accelerated by the bankrupt finances of the NATO governments.

Robert Harneis for RT

jeudi, 19 mars 2009

Une "nouvelle gauche" contre la vulgate des Lumières

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Une “nouvelle gauche” contre la vulgate des Lumières

 

Nous assistons à l'avènement d'une gauche inattendue. Elle s'oppose à la vulgate des Lumières, base de la “political correctness”, elle s'insurge contre l'emprise étouffante de l'économisme, elle est “contextualiste” dans le sens où elle ne rejette pas nécessairement tous les nationalismes, elle est résolument “communautaire”, elle fait recours aux traditions, même, parfois, sous leurs aspects ésotériques.

 

Il y a déjà quelque temps qu'une certaine gauche (spécialement en France), que certains intellectuels déçus de leur parcours politico-philosophique marxiste et social-démocrate sont partis en quête d'arguments nouveaux, vers d'autres horizons spirituels. Ils ont toutefois gardé le meilleur de leur ancienne vision-du-monde: une aversion à l'égard de la culture libérale, fondée sur l'individualisme. Mais ils ont abandonné les recettes collectivistes et préfèrent le “communautaire” qu'ils avaient pourtant abjuré comme un “irrationalisme”. Aujourd'hui, ils affirment et démontrent que toute intégration sociale est déterminée par des valeurs spirituelles. C'est-à-dire que toute intégration est “holiste” et nullement “contractualiste”. On préfère désormais Ferdinand Tönnies à Jean-Jacques Rousseau.

 

Vu ces glissements et ces évolutions, le dialogue est donc possible avec ces intellectuels de gauche qui ont désormais des références fécondes. Ces cénacles et ces hommes courageux ne poussent toutefois pas l'audace trop loin: ils restent sur des positions égalitaristes, nivelleuses, qui ne permettent pas aux communautés, qu'ils rêvent de rétablir dans leur plénitude conviviale, de retrouver une véritable articulation organique. Des communautés non hiérarchisées, sans épine dorsale hiérarchique, risquent d'être des communautés figées, répétitives, sans vie intérieure. Lugubre perspective! Qui ne distinguera pas ce “communautarisme” de la massification actuelle, où les individus ne sont plus que de petits rouages. Autre obstacle que ces nouvelles gauches ne peuvent franchir: elles sont incapables, semble-t-il, de formuler une critique définitive des racines de la modernité mercantiliste.

 

Mais voici le catalogue des “nouveaux hérétiques”.

 

Les néo-tribalistes

 

“Le temps des tribus” est le titre d'un essai de 1989, qui n'est pas passé inaperçu. L'auteur en est le sociologue de gauche Michel Maffesoli, un des plus ardents théoriciens du nouveau communautarisme, des petites agrégations, comme les bandes de jeunes par exemple. Au contractualisme qui est un lien très faible, trop faible, Maffesoli oppose une sorte d'“élan vital” bergsonien, force irrationnelle d'intégration sociale: c'est ce qu'il appelle aussi le solidarisme orgiaque, où corps et âmes s'attirent et fusionnent. Maffesoli semble s'inspirer davantage d'une catégorie de Pareto, celle des “résidus”, voire celle des “actions non-logiques” que du concept de “Gemeinschaft” chez Tönnies.

 

Autre théoricien “communautariste”: Pietro Barcellona, ex-député du PCI. Dans ses écrits, l'anti-individualisme sort carrément des canons de l'idéologie des Lumières. La modernité et ses dérivés sociaux d'inspiration économiciste (le communisme par exemple) n'ont pas ressenti de culpabilité pour avoir fait disparaître les valeurs cimentant la solidarité. Ç'aurait été, explique le juriste Barcellona, une position “trop nostalgique et réductrice”. Barcellona n'épargne cependant pas le mercantilisme et le consumérisme. Et cet ancien député du PCI écrit, dans L'individualismo proprietario: «Le travailleur évolue désormais dans un monde de consommation à la recherche du succès personnel qui lui permettra de se présenter comme acquéreur dans des super-marchés fantasmagoriques, où le pur décor se substitue à la dignité et à l'orgueil de classe».

 

Les anti-occidentaux

 

Serge Latouche défend les positions les plus radicales en ce qui concerne la contestation du modèle occidental de vie et de développement. Dans L'occidentalisation du monde, il démasque purement et simplement le projet impérialiste et libéral-capitaliste qui éradique à coup de télévision les valeurs spirituelles résiduaires dans les pays du tiers-monde. Ainsi disparaissent chez ces peuples leur raison de vivre. L'Occident pour Latouche est une anti-culture: «Il donne des droits aux citoyens les plus efficaces. Il est tout le contraire d'une culture impliquant une dimension holiste qui procure une solution au défi de l'existence à tous ses membres». Que faire, dès lors, pour sortir de l'homogénéisation? Repartir, affirme l'ancien gauchiste, des micro-communautés, y compris les micro-communautés ethniques, qui ont été expulsées du marché.

 

Anti-occidentaliste encore plus farouche que Latouche: le linguiste américain Noam Chomsky, philosophe favori des gauches dures aux Etats-Unis. «Qui connaît les décisions les plus importantes prises lors des négociations du GATT ou du FMI, et qui ont pourtant un impact certain au niveau du monde entier? Et qui connaît les décisions des grandes multinationales, ou des banques internationales, ou des sociétés d'investissement qui régulent la production, le commerce et la vie de tant de pays?». Chomsky estime que cette opacité est la tare majeure du libéral-capitalisme, avec la globalisation de l'économie et l'impérialisme militaire sous la bannière Stars and Stripes. C'est contre cet expansionisme militaire américain que Chomsky a consacré son dernier livre 501: la conquête continue.

 

Les anti-scientistes

 

Il a rompu avec le communisme dans les années 50. Mais cette rupture ne l'a pas empêché de rêver à un “nouveau départ”, au-delà des “thérapies” du libéral-capitalisme. Nous voulons parler d'Edgar Morin, qui, dans un de ses derniers essais, nous met en garde contre le péril du scientisme, derrière lequel se profile une ombre totalitaire. En 1992, Morin déclarait: «Je crains un système qui puisse contrôler la population. Je pense aux manipulations génétiques et aux manipulations cérébrales. Une certaine fanta-science pourrait se transformer en science appliquée». Edgar Morin va bien au-delà d'une simple démolition du dogme scientiste: il en arrive à augurer une véritable révolution conservatrice: «Aujourd'hui, il nous faut associer deux notions opposées, celles de conservation et de révolution. Nous devons également nous abreuver aux sources du passé: Homère, Platon et Bouddha sont encore radiactifs».

 

Les “archaïsants” de la gauche

 

Il y a tout juste un an, à l'âge de 61 ans, mourrait l'historien américain Christopher Lasch. Il avait été un mythe pour la gauche italienne jusqu'il y a peu d'années. Lui aussi, comme Caillé, Morin, Maffesoli et Latouche, avait abandonné les canons de l'idéologie des Lumières et les idéologèmes économicistes, pour partir à la recherche des fondements de la solidarité, de ses principes spirituels. Aucun “pacte social” n'a jamais pu pallier aux réalités d'ordre communautaire telles la famille, la nation, le sens du devoir, toutes rejetées par les gauches sous prétexte qu'elles étaient “réactionnaires” ou “petites-bourgeoises”. La position de Lasch pourrait se définir comme étant une sorte de “radicalisme populiste”. Face à ce “communautarisme” prémoderne, le sociologue français Alain Caillé cultive un nostalgisme à peine voilé, tout en restant bien campé sur des positions égalitaires, typiques de la gauche. Il est un théoricien de l'anti-utilitarisme, le chef de file du MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales). Depuis quelques années, il a ouvert un dialogue avec Alain de Benoist et la “Nuova Destra” italienne [tandis que le secrétaire d'Alain de Benoist, Charles Champetier, déploie mille et une astuces pour l'imiter et le paraphraser]. Dans l'orbite du MAUSS, on trouve également, outre Caillé, Latouche et Morin. Dans son essai le plus important, ce sociologue français condamne la logique du “donner-pour-avoir” et exalte, en contrepartie, la logique archaïque du don, ce qui lui permet, ou l'oblige, à réévaluer le rôle des cultures traditionnelles où «l'on se préoccupe davantage de la cohésion que du profit».

 

Les solidaristes du travail

 

Le capitalisme contre le capitalisme. Le modèle anglo-saxon des Etats-Unis contre le modèle rhénan nord-européen. L'individualisme du boursicotier contre le communautarisme des entreprises. Le sociologue Michel Albert, au départ de ses positions sociales-démocrates, explique dans son best-seller Capitalisme contre capitalisme  les raisons de la supériorité sociale et économique du modèle “communautaire” allemand face au modèle ultra-libériste qui ne considère l'entreprise que comme une simple “commodité”, comme un bien vendable et interchangeable. La supériorité sociale du “modèle rhénan” réside dans sa capacité d'opérer une médiation entre biens spirituels (fidélité, amitié, communauté, honneur, générosité) et biens de marché, exclusivement commercialisables. Michel Albert donne un exemple: «Les religions en Allemagne sont des institutions non commerciales. Aux Etats-Unis, elles font recours à des formes de plus en plus sophistiquées de publicité et de marketing».

 

«Le travail à temps plein est terminé»: cette phrase programmatique figure dans l'introduction de Lavorare meno per lavorare tutti (Travailler moins pour que tous puissent travailler) de Guy Aznar, beaucoup lu à gauche aujourd'hui. Aznar est heureux de saluer la restitution à l'individu d'une portion de sa vie où il peut appartenir à ses amis, pratiquer la coopération libre et gratuite, s'adonner à des activités échappant à la logique de l'argent et du marché. Aznar suggère une sortie hors de l'emprise totale du travail à temps plein avec ses dégénérescences (utilitarisme, mercantilisme, efficacité à tout prix, massification, déracinement total). Dans cette optique, suggérer la réduction des horaires de travail n'est pas seulement une mesure pour lutter contre le chômage.

 

Les “nationaux-communautaires” scandaleux

 

Hans Magnus Enzensberger est l'un des intellectuels historiques de la gauche allemande. Il est aujourd'hui en rupture de ban avec ses anciens camarades, parce qu'il ne cesse plus de lancer des affirmations en faveur de l'identité nationale. Ses théories ont fini, en Allemagne, par être mises directement en accusation sous prétexte qu'elles cautionnaient des “filons philosophico-idéologiques” marginalisés par les bien-pensant: idéologues de na “nouvelle droite”, positions politiques d'un Ernst Nolte. Mais un interview accordé au Spiegel a fait un scandale encore plus retentissant. Dans cet interview, Botho Strauss, dramaturge de l'école fondée jadis par Adorno, souligne la nécessité de forger en Allemagne une “nouvelle droite” non libérale et conservatrice, attentive aux thèmes “communautaires”.

 

Les “ésotériques”

 

Dans l'archipel de la culture de gauche, on a vu émerger une petite île et on tente déjà d'en interdire l'accès. Tant elle recèle de l'hérésie. Mais elle est pourtant bien inaccessible à la majorité des post-communistes et néo-communistes qui demeurent tous de formation étroitement laïque, fidèles à l'idéologie des Lumières et au scientisme. Dans cette “île”, on peut professer des idées issues des traditions ésotériques, alchimiques, gnostiques. Inouï! Deux auteurs sont particulièrement sensibles à ces thématiques. Le premier, c'est Attilio Mangano, un ancien communiste ultra, attiré désormais par le mythe, les religions et la spiritualité des cultures centre-européennes (Mitteleuropa). Mangano est un partisan fermement convaincu du retour aux valeurs communautaires pré-modernes: ou, plus exactement, aux aspects ludiques de la fête, aux liens magiques qui lient les personnes à la nature, à l'orgiaque. L'autre auteur sensible aux thèmes ésotériques est Luciano Parinetto. Il a étudié l'alchimie (ses principaux écrits sont: Alchimia e utopia et Solilunio)  et s'est réfugié dans cette discipline traditionnelle pour sortir de l'aliénation née de la modernité. Mais cette démarche nous semble tout de même un peu “forcée”, dans la mesure où il nous semble bien difficile de concilier l'utopisme marxiste anti-spirituel et anti-initiatique avec l'ars regia.

 

Les théologiens

 

Les théologiens de la nouvelle gauche hérétiques sont deux, et ils sont très différents l'un de l'autre. Le philosophe Massimo Cacciari, communiste et bourgmestre de Venise, a courageusement dépassé les clivages culturels. Au-delà du marxisme, au-delà des dogmes de l'idéologie des Lumières, Cacciari propose un itinéraire post-nihiliste nous permettant de sortir à la fois de la pensée négative et de nous ouvrir à la théologie et à la mystique.

 

C'est une façon de pousser la philosophie plus en avant, de la faire aller au-delà de l'orbite qui lui est généralement assignée. Dans ce cas, on pourrait effectivement hasarder des parallèles originaux. En sortant la mystique de son isolement, on retourne au néo-platonisme. En voulant dépasser le seuil de la philosophie, on revient en quelque sorte à l'idéalisme magique de Julius Evola.

 

Un autre intellectuel de la gauche italienne, Carlo Formenti, veut replacer les fondements de la philosophie dans leur dimension théologique.

 

Les anti-racistes différentialistes

 

Intellectuel français manifestant des sympathies pour le PS, Pierre-André Taguieff mène depuis longtemps déjà une bataille contre les insuffisances révélatrices du discours anti-raciste. Outre le racisme “mixophobe”, Taguieff dénonce le racisme “universaliste”, qui procède à l'arasement de toutes les différences. L'universalisme est raciste, en somme, parce qu'il projette d'imposer par voie d'impérialisme, un modèle unique. Il est en ce sens l'anti-chambre culturelle du colonialisme.

 

Francesco COLOTTA.

(texte tiré de Linea, II, 4, mai 1995; adresse: Via Federico Confalonieri 7, I-00.195 Roma; abonnement annuel: 30.000 Lire; trad. franç.: Robert Steuckers).

mercredi, 18 mars 2009

Nicht viel mehr als vage Hoffnungen...

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Nicht viel mehr als vage Hoffnungen

ex: http://www.zuzeit.at

Universitätsprofessor Erich Streissler zu den Bankenkrisen in Osteuropa, den staatlichen Konjunkturpaketen und anderen wirtschaftlichen Aussichten

Herr Professor, die österreichische Bundesregierung ist äußert bemüht, eine europäische Hilfsaktion für Osteuropa zustandezubringen. Warum ist gerade Österreichs Interesse so groß, daß es den osteuropäischen Staaten gut geht?

Erich Streissler: Das Interesse ergibt sich daraus, daß gerade die österreichischen Banken – und man muß sagen in Konkurrenz zu den deutschen – die Bankbeziehungen zu den osteuropäischen Ländern in besonderem Maße übernommen haben und dort – kann man sagen – mit langjährigem Erfolg für Österreich wirtschaftlich tätig sind. Nun gibt es, wie bei vielen Ländern auf der Welt, dort finanzielle Schwierigkeiten, und da wird natürlich dann händeringend versucht, Hilfsaktionen zu finden.

Jetzt sind es von den österreichischen Banken in erster Linie die Erste Bank und Raiffeisen, aber auch die Bank Austria, jetzt Unicredit, die hier die Hauptlast eventueller Kreditausfälle zu tragen haben?

Streissler: So ist es auch. Man muß aber festhalten – und das wird vielfach von amerikanischen Begutachtern nicht gesehen –, daß ein großer Unterschied zwischen der Finanzkraft der mittel- und osteuropäischen Staaten besteht. Die Finanzkraft dieser Staaten ist vielmehr zu hinterfragen als die Finanzkraft der privaten Kreditgläubiger. Insbesondere wurden hier der Hausbau und -kauf finanziell unterstützt, und diese Kunden sind wesentlich besser als die Staatsreputation. Das muß man hier unterscheiden, freilich ist hier ein Bedenken hinzuzufügen: Alle diese Ostwirtschaften – und da ist dann schon ein riesiger Unterschied etwa zur Slowakei oder zu Slowenien – haben nicht den Euro als Währung, und daher gibt es, wie auch in Rußland, eine starke Abwertungstendenz dieser Währungen. Die Kredite sind aber vielfach in Euro vergeben worden, wodurch natürlich dann die Kreditverpflichtung für den Kreditnehmer stark steigt, und da herrscht natürlich dann die Angst, daß der aine oder andere das dann nicht zurückzahlen kann.

Wobei aber davon auszugehen sein wird, daß, ähnlich wie bei uns, bei Kreditvergaben ausreichende Sicherheiten genommen werden seitens der Kreditgeber?

Streissler: Natürlich!

Das heißt, Grund und Boden?

Streissler: Ja, so ist das. Grund und Boden, das ist klar, aber das Problem ist – ein Problem das in jeder Weltwirtschaftskrise auftritt, das auch bei den Japanern ab 1990 aufgetreten ist – daß diese Sicherstellungen im Wert sehr stark gefallen sind, so daß der Kredit nicht mehr voll gesichert ist.

Wenn wir davon ausgehen, daß das eine sehr breit gestreute Klientel an Kreditnehmern ist, kann man ja auch sagen, daß das Risiko der einzelnen Banken ziemlich breit gestreut ist.

Streissler: Das individuelle Ausfallsrisiko ist natürlich breit gestreut, aber nicht das systemische Risiko, d. h., daß alle Leute natürlich Rückzahlungsschwierigkeiten bekommen, wenn in ihrer eigenen Währung der zurückzuzahlende Kredit um ein Drittel oder noch höher steigt.

In den Vorhersagen über das Wirtschaftswachstum in diesen osteuropäischen Staaten gibt es ja nur drei Länder, wo es wirklich kritisch ist. Das sind die Ukraine, Ungarn und eventuell auch noch Rumänien.

Streissler: Ja, und die Erste Bank ist am stärksten in Rumänien engagiert, die Raiffeisenbanken am stärksten in der Ukraine.

Jetzt gibt es seitens der einzelnen Regierungen eine Reihe von Konjunkturpaketen, die aber scheinbar nicht zu greifen scheinen. Woran liegt das?

Streissler: Erstens sind die staatlichen Initiativen meistens vage Hoffnungen, zweitens hat noch niemand von den vorhandenen Verantwortungsträgern eine Weltwirtschaftskrise selbst erlebt. Da gehen rasch die Verschuldungen hoch und das Wirtschaftswachstum geht überall herunter. Denken Sie daran, daß für die Vereinigten Staaten noch vor wenigen Monaten sehr optimistische Prognosen im Raum standen. Nehmen wir nur die Vereinigten Staaten. Ich glaube, es war Anfang Dezember, da haben wir erfahren, daß die Vereinigten Staaten bereits seit dem Dezember davor in Rezession in dem Definitionssinne Amerikas, d. h. in einer Senkung des Sozialproduktes sind. Und es ist soeben erst durch die Zeitungen gegangen, daß im vierten Quartal 2008 ganz entgegen dem, was vorher erwartet war, die Vereinigten Staaten einen Abschwung im Ausmaß von, auf das Jahr gerechnet, 6 % des Sozialproduktes hatten, das ist sehr hoch. Auch in Deutschland gehen die Erwartungen rapide zurück. Diese Zahlen, die da von Politikern genannt werden, sind Hausnummern mit besonderer Problematik, weil es politische Hausnummern sind.

Ist es nicht so, daß man zwangsläufig mit Hausnummern arbeiten muß? Denn so wirklich genau weiß wahrscheinlich niemand, wie sich das weiterentwickelt.

Streissler: Selbstverständlich, die Zukunft ist für jeden von uns im genauen Ausmaße undurchschaubar.

Die Britische Nationalbank hat den Zinssatz auf den historischen Tiefstand von 0,5 % abgesenkt, auch die Europäische Zentralbank hat ihren Leitzinssatz gesenkt. Sind das geeignete Maßnahmen, um wieder einen Aufschwung im Ansatz hervorzurufen?

Streissler: Das wird gehofft, bislang gibt es keinerlei Beweis, daß das irgendwie wirkt. Vergessen Sie nicht, wessen Zinsen das sind. Das sind die Zinsen, die eventuell bis zu einem gewissen Ausmaß Banken von der Notenbank bekommen können, das hat für individuelle Personen als solches nichts zu bedeuten.

Das schlägt sich dann aber auch auf die Kreditzinsen durch, oder?

Streissler: Das ist keineswegs klar. Wahrscheinlich hat es Effekte auf die Zinsen der Sparbucheinleger bei den Banken, die dieses Argument gebrauchen um Sparzinsen zu senken. Es bezieht sich aber überhaupt nicht auf die Zinssätze, die die Kreditnehmer zahlen müßten.

Jetzt sind die Banken an sich in einer sehr positiven Konstellation, ihre Refinanzierungskosten sinken …

Streissler: Nur ein kleiner Teil der Refinanzierungskosten.

Aber dieser Teil, den sie über die Nationalbanken refinanzieren, den kriegen sie jetzt billiger, sie bekommen vom Staat Haftungen und auch Eigenkapitalzuschüsse. Müßten jetzt nicht die Banken ihrerseits aktiv werden und versuchen, in der Wirtschaft einen positiven Effekt durch günstige Kreditvergabe hervorzurufen?

Streissler: Naivlinge, genannt Politiker, glauben das, aber das ist nicht der Fall. Die Kredite, die vom Staat gewährt werden, haben einen Zinssatz, von 8 %. Da muß ein längerfristiger Schuldner bei den Banken wohl an die 12 % zahlen, und ich kann mir nicht vorstellen, daß man das in Anspruch nimmt.

Es wird immer wieder davon gesprochen, daß die Ukraine vor einem Staatskonkurs stünde. Halten Sie das für möglich, und kann es sich die westeuropäische Welt überhaupt leisten, dieses Land in Konkurs gehen zu lassen?

Streissler: Die Frage ist, ob sie es sich leisten kann, sie nicht in Konkurs gehen zu lassen, so würde ich die Frage stellen. Staatskonkurse gibt es typischerweise, und es wird in dieser Zeit zu etlichen kommen.

Ich meine, Island ist ja bereits praktisch im Staatskonkurs. Bei Argentinien ist zu befürchten, daß der nächste Staatskonkurs bevorsteht. Pakistan hat größte Schwierigkeiten, und ich würde nicht mich wetten trauen, daß die Ukraine nicht in Staatskonkurs geht.

Das Gespräch führte Walter Tributsch.

Qu'est-ce que l'OTAN?

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Qu'est-ce que l'OTAN ?
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A l’heure où le gouvernement de nos voisins français vient (une fois de plus) de renier son héritage gaulliste en réintégrant l’OTAN, il n’est pas inutile de se demander ce qu’est, en dernière analyse, cette sulfureuse Organisation du Traité de l’Atlantique Nord…

« L’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN) n’est qu’un reliquat de la guerre froide ayant été créé le 4 avril 1949 afin de consacrer l’alliance défensive des pays de l’Ouest européen, des Etats-Unis et du Canada face à l’URSS et à ses satellites européens. Depuis 1991 et la dislocation de l’Empire soviétique, la Russie entretient des relations économiques assez intensifiées avec cette même Europe de l’Ouest en lui fournissant gaz, pétrole et autres matières premières. Cette coopération économique a créé un nouvel espace européen car elle a rapproché – au moins au niveau des échanges commerciaux et des flux financiers – ces divers partenaires européens (Russie d’une part, Europe de l’Ouest d’autre part) qui sont à présent devenus interdépendants. En dépit de cette intensification des relations ne justifiant plus un tel "club" comme l’OTAN associant une puissance non européenne (les Etats-Unis) dont la vocation est d’opposer un front commun à un autre Etat européen (la Russie), l’OTAN est de fait instrumentalisée par une administration américaine dont l’objectif est de maintenir le "protectorat" européen sous influence afin de conserver un des derniers attributs de son hyper puissance.

De fait, l’OTAN semble être un outil idéal à la disposition de la politique étrangère américaine. Effectivement, à présent que l’ONU accumule les échecs retentissants dans ce qui devrait être son rôle de maintien de la paix dans le monde, l’OTAN leur offre ainsi opportunément une plate-forme "légale" à même de justifier tous types d’opérations militaires à travers le globe. De surcroît, l’OTAN est un instrument nettement plus flexible que l’ONU, ce "grand machin" où il faut en permanence passer des compromis même si l’on dispose comme les Etats-Unis du droit de veto... La logique est donc simple et compréhensible : réorienter la mission de l’OTAN tout en l’élargissant afin que cet instrument flexible serve au mieux les intérêts de la politique étrangère américaine. […]

McCain, mais également Obama se révèlent être d’ardents défenseurs d’un interventionnisme militaire américain hors de leurs frontières. Ne sont-ils pas en matière de politique étrangère tous deux conseillés par des spécialistes étiquetés "néo-cons"... ? Ainsi, John McCain prône-t-il une "Ligue des démocraties", concept "néo-con" pur jus visant à amoindrir encore plus et de facto l’ONU afin de placer les Etats-Unis au centre d’une nouvelle alliance où ils règneraient quasiment sans partage. Quant au démocrate, ne soutient-il pas des actions militaires multilatérales hors de son pays et intervenant dans des conflits régionaux, pour "raisons humanitaires", même s’il faudra pour cela se passer de l’aval des Nations unies ? […] Lord Ismay, premier secrétaire général de l’OTAN avait déclaré, il y a près de soixante ans, que l’objectif de son organisation était de "maintenir les Russes à l’extérieur et les Américains à l’intérieur". Il semble qu’en dépit des bouleversements majeurs survenus depuis cette période, certains n’aient rien appris. »

 Michel Santi (Genève), "L’OTAN, Instrument des Etats-Unis", Agoravox, 2 septembre 2008 

mardi, 17 mars 2009

Benjamin Barber : La crise: une opportunité pour le changement?

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La crise : une opportunité pour le changement ?

Ex: http://unitepopulaire.org/

« Le marché pourrait-il enfin servir nos intérêts ? Ou continuerons-nous d’être à son service ? Quel type de capitalisme voulons-nous, avec quel rapport à la culture, à la démocratie et à la vie ? L’équipe économique “très Rubin” (Robert Rubin était ministre des Finances de l’administration Clinton) d’Obama semble avoir été choisie pour rassurer plutôt qu’innover, et ses membres pour réparer les dégâts qu’ils ont eux-mêmes provoqués. Même s’ils y parviennent, feront-ils beaucoup plus que restaurer le statu quo ante du capitalisme, en répétant les erreurs qui ont provoqué la débâcle actuelle ?

Même les esprits progressistes qui émettent des critiques – qu’on ne trouve pas dans l’équipe d’Obama – continuent de penser selon le prisme de l’économie. Oui, les banquiers et les hommes politiques s’accordent à dire qu’il faudrait plus de surveillance réglementaire, une plus grande prise de participation de l’Etat dans le capital des banques qu’il renfloue et une réouverture du robinet du crédit, fermé pour le moment. Un important plan de relance, accordant une place appréciable à l’environnement, aux énergies alternatives, aux infrastructures et à la création d’emplois, est dans les tuyaux – et c’est une bonne chose. Mais il est difficile d’y voir le début d’une véritable réflexion sur le rôle dominant du marché dans notre société. Personne ne remet en question le rôle dévolu à la consommation comme force motrice du commerce. Ou celui des échanges commerciaux comme fondement de la vie publique et privée, au point de les placer au-dessus d’autres valeurs telles que le pluralisme, la vie spirituelle et la poursuite du bonheur (immatériel). Les économistes et les hommes politiques de toutes allégeances persistent à dire que le défi consiste à ranimer une demande moribonde. […]

 

La crise du capitalisme mondial appelle une révolution des mentalités – des changements fondamentaux dans les attitudes et les comportements. Les réformes ne doivent pas simplement pousser les parents et les enfants à fréquenter à nouveau les centres commerciaux ; elles doivent surtout les inciter à moins acheter, à épargner plutôt qu’à dépenser. Il faut encourager des transports publics efficaces et la disparition des véhicules gourmands en carburant. Et pourquoi ne pas mettre en œuvre des politiques qui amènent les producteurs à cibler les véritables besoins des consommateurs, même si ces derniers ont peu de moyens, plutôt que de créer de faux besoins pour les riches parce que ce sont eux qui ont l’argent ?

 

Il faut repenser l’ethos culturel en prenant la culture au sérieux. Les arts jouent un rôle majeur dans le développement des aspects non commerciaux de la société. Il est temps que des subventions encouragent une véritable éducation artistique destinée à enseigner aux jeunes les joies et le pouvoir de l’imagination, de la créativité et de la culture pour qu’ils deviennent acteurs et spectateurs, et non plus consommateurs. L’activité physique et les loisirs sont également des biens publics qui ne doivent pas dépendre de l’argent qu’un individu est capable de débourser. Ils appellent la construction de parcs et de pistes cyclables plutôt que celle de complexes multisalles et de centres commerciaux.

 

Et pourquoi les nouvelles technologies de la communication sont-elles utilisées presque uniquement à des fins commerciales ? Leur architecture est démocratique, et leur capacité à créer des réseaux est profondément sociale. Pourtant, elles ont été en grande partie réservées à des usages privés et commerciaux plutôt qu’à des fins pédagogiques ou culturelles. Leurs possibilités démocratiques et artistiques doivent être explorées, et même subventionnées. Une telle transformation sera sans aucun doute très coûteuse, car elle risque de prolonger la récession. Les capitalistes devront peut-être assumer des risques qu’ils préfèrent socialiser (en faisant payer les contribuables). On leur demandera de créer de nouveaux marchés plutôt que de profiter des anciens. D’investir et d’innover, afin de créer des emplois et de participer à l’émergence d’un nouveau type de consommation, répondant enfin aux véritables besoins de la population.

 

La bonne nouvelle, c’est que les gens commencent déjà à dépenser moins, à attendre de recevoir leur salaire avant d’acheter et à se sentir soulagés par ce moratoire sur le shopping. Ils préfèrent subitement les cartes de débit aux cartes de crédit. Certains parents se rebellent contre les publicitaires, qui traitent leurs enfants de 4 ans comme de futurs consommateurs. Plutôt que de chercher à sortir à reculons de cette pagaille, pourquoi ne pas essayer de trouver une solution en allant de l’avant ? Trop idéaliste ? Si nous devons survivre à l’effondrement du capitalisme de consommation qui a pris possession du corps politique au cours des trente dernières années, l’idéalisme doit devenir notre nouveau réalisme. Car si le combat se déroule entre le corps matériel, défini par l’instinct de possession individualiste, et l’esprit humain, défini par l’imagination et la compassion, une réponse économique purement technique ne sera pas suffisante. Elle restaurera simplement l’enfer de la société de l’hyperconsommation qui a conduit au désastre actuel.

 

Il y a dans l’Histoire des moments épiques, souvent provoqués par des catastrophes, qui permettent des changements culturels fondamentaux. Nous sommes à l’un de ces tournants. Grâce à l’effondrement du crédit mondial, des changements radicaux deviennent possibles. »

 

 

Benjamin Barber, professeur de sciences politiques à l’Université du Maryland, The Nation, février 2009

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Visite chez Gianfranco Miglio (mai 1995)

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Visite chez Gianfranco Miglio (mai 1995)

Rapport rédigé par Robert Steuckers

 

- Le Prof. Miglio commence par un constat pessimiste: l'Europe, dit-il, semble avoir raté son rendez-vous avec l'histoire, avoir épuisé ses potentialités historiques. Les esprits politiques européens semblent dé­sormais incapables de créer des formes nouvelles. Au temps de la révolution française, on assistait en Europe à une véritable effervescence créatrice: les projets de constitution, les visions originales du poli­tique fusaient de toutes parts, en France comme en Allemagne. Puis, de la Restauration à nos jours, il n'y a plus eu que répétition des vieilles formules. Au temps où il donnait encore des cours, le Prof. Miglio rap­pelait toujours à ses étudiants que l'agencement des choses politiques se calquait sur l'organisation na­turelle de la famille. Idem pour les entreprises. Aujourd'hui, nous avons en face de nous le résultat de multiples transformations, qui nous ont sans cesse éloignés du “patron” familial. Tout bouge et virevolte à une vitesse de plus en plus accrue, sauf les modèles politiques qui restent immuables, bizarrement figés dans un monde extraordinairement kaléidoscopique.

 

- L'URSS, avant son effondrement, a représenté l'Etat moderne dans sa perfection conceptuelle. Mais ce modèle d'Etat a éclaté parce qu'il ne correspondait plus aux impératifs du monde actuel (cf. François Furet). L'Etat moderne n'est plus possible parce qu'il est anachronique: voilà la grande leçon de l'effondrement soviétique. Le problème que nous devons résoudre? Dépasser les legs de cet Etat mo­derne, dépasser les pulsions idéologiques qui ont conduit à l'étatisme soviétique, pour construire une forme d'Etat reposant sur des concepts diamétralement opposés. Au lieu de l'Etat central et homologuant de mouture jacobine ou soviétique, nous devons penser et mettre sur pied l'Etat fédéral qui n'annule pas les forces à l'œuvre spontanément et naturellement dans les sociétés mais les fédère et les réconcilie, pour en extraire toutes les dynamiques positives.

 

- Parallèlement à l'effondrement soviétique, nous assistons à l'enlisement du parlementarisme, dans sa forme la plus conventionnelle. En Italie, cette forme politique est désormais dépassée. Les débordements de la partitocratie italienne sont une illustration éclatante de cet état de choses. Mafias et circuits paral­lèles se sont emparés de la machine politique et ont détaché l'Italie de la tradition européenne. La partito­cratie, telle que l'Italie la connait, est l'état final, l'état décadent, du parlementarisme. Comment court-cir­cuiter ce processus involutif? En ancrant territorialement les partis. En Italie, le Nord est fédéraliste, le Centre est résolument à gauche (PDS), le Sud est à droite (AN). Ces trois régions doivent former des “cantons”, organisés selon les idéologies dominantes au sein de leur population respective.

 

- La “cantonalisation” de l'Italie ne sera pas une chose facile. Certes, il faut obliger les partis à s'ancrer sur un territoire et à abandonner la prétention de vouloir gérer l'ensemble de la péninsule italique, y com­pris les régions où ils demeurent minoritaires. Selon mon projet, nous aurions des majorités confortables, bien profilées, dans chaque canton, sans que nous n'ayions à recourir à des coalitions fragiles et boî­teuses. Or, dans l'Italie centralisée actuelle, on ne peut dégager aucune majorité claire: il faut des coali­tions, qui sont négociées et renégociées à l'infini, qui reposent sur des compromis qui ne résolvent rien. Au dessus des cantons, je prévois un exécutif sous la forme d'un Directoire de cinq ou six membres, avec un gouverneur du Sud animé par une idéologie de droite, un gouverneur du Centre dont le cœur est à gauche et un gouverneur du Nord fédéraliste. C'est dans le cadre du Directoire que les partis devront né­gocier la politique fédérale de l'Italie toute entière, sans que les habitants des régions n'aient à subir les effets pervers des coalitions et des compromis.

 

- Prenons l'exemple de la France de De Gaulle. Ce dernier n'est pas tombé après 68 parce que les Français ont refusé le fédéralisme dans la mouture qu'il avait imaginé. De Gaulle est tombé parce que le personnel politique craignait qu'il ne jugule définitivement le poids excessif du Parlement des politiciens (De Gaulle voulait un Parlement des partis, des régions et des professions, du moins au niveau du Sénat). Son projet constitutionnel visait à réduire l'importance des partis dans la vie politique, car, tout en se ré­clamant d'une idéologie “moderne”, ils finissent par tuer l'Etat moderne, l'enserrent et l'étouffent dans des réseaux idéologico-financiers qui constituent, tous ensemble, une sorte de totalitarisme mou et bien ca­mouflé.

 

- Je préfère parler de fédéralisme que de subsidiarité. En effet, même si l'on a tendance à confondre de bonne foi ces deux notions dans l'Europe d'aujourd'hui, elles sont sémantiquement différentes: le fédéra­lisme cherche à maintenir les autonomies et à fédérer leurs forces; le principe de subsidiarité recèle un risque: il délègue à des échelons supérieurs ce que les échelons inférieurs sont incapables de réaliser par leurs propres forces. Dans la pratique de la délégation, on peut, inconsciemment, reconstruire un Etat central qui garde plus ou moins un aspect décentralisé, une façade pseudo-fédéraliste. La subsidiarité implique une hiérarchie des compétences qui peut rapidement redevenir contraignante: les Etats-Unis, l'Australie, etc. présentent des fédéralismes subsidiaires qui mettent en fin de compte au pas les multi­ples dif­férences qui sont à l'œuvre dans la société. Les traditions historiques et les spécificités régio­na­les ou ethniques ne survivent nullement dans un fédéralisme de ce type. Et cela, c'est un appauvris­se­ment. Ce fédéralisme subsidiaire reconstruit donc un Etat unitaire, consolide un pouvoir qui converge vers le haut et réclame une allégence très forte. La subsidiarité risque de reconstituer une pyramide des pou­voirs. Le fédéralisme pur, lui, recherche le consensus. Pour lui, la majorité doit résulter du consensus à la base. Les fédéralismes américain et ouest-allemand (= fédéralisme coopératif) permettent une pré­pon­dérance du niveau fédéral (c'est-à-dire le sommet de la hiérarchie générée par la subsidiarité) sur les ni­veaux in­termédiaires (états, Länder), voire une intervention du fédéral contre l'Etat ou le Land, au profit du local. Le fédéralisme de Gianfranco Miglio est plus soucieux de l'autonomie administrative.

 

- L'Etat moderne prétend être souverain: en réalité, il négocie sans arrêt et multiplie les compromis. La constitution fédérale, que le Prof. Miglio appelle de ses vœux, devra formaliser les rapports de forces qui existent dans la réalité. Le personnage-clef dans le système fédéral de Gianfranco Miglio est le Président fédéral. En Suisse, le vrai Président est en fait le premier conseiller (du Bundesrat), car il en a les capaci­tés et parfois le charisme. En Italie, les constitutionnalistes doivent imaginer un Président de la fédération qui soit élu directement mais où le pouvoir appartient de fait au Conseil (ou “Directoire”).

 

- Quand une région a l'impression de payer plus que sa part, elle demande automatiquement une constitu­tion fédérale. C'est un enseignement de l'histoire qui se vérifie très souvent. Les peuples tolèrent mal les formes de parasitisme. Karl Marx a eu raison de démontrer que certaines classes sociales vivaient aux crochets des autres: les capitalistes de l'imaginaire communiste parasitent les classes populaires. Ce constat, dont on ne peut nier la validité, a fait la force du marxisme. La leçon générale à tirer de ce constat marxien, c'est que tout système politique doit veiller à installer des signaux d'alarme pour prévenir toute consolidation des tendances au parasitisme. La quintessence du fédéralisme, qui attribue à chacun son dû et rien que son dû, c'est l'hostilité au parasitisme. La grande tâche de la science politique de demain, ce sera d'énoncer une théorie générale des rapports parasitaires.

 

- Les grands Etats modernes unifiés n'ont pas connu de processus d'unification paritaire. L'Italie, qui est un pays composite et pluriel, existe en tant qu'Etat unitaire parce que l'armée piémontaise a forgé cette unité manu militari au 19ième siècle. L'Allemagne est le produit de la Prusse et de son armée. C'est aussi le Nord qui a fait l'unité germanique, avec ses généraux et ses économistes, qui ont organisé d'abord une Zollunion. L'avenir de l'Europe est germanique. L'économie allemande est le moteur de notre continent. L'habilité des diplo­mates et des politiciens français et britanniques a essayé, tout au long de ce siècle, d'isoler et d'étouffer l'Allemagne, de la couper en deux. Tous ces efforts se sont soldés par un échec. La puissance allemande est invincible, en dépit des défaites militaires. Français et Britanniques ont eu la consolation de la vic­toire. Dans les faits, c'est l'Allemagne qui n'a cessé de s'imposer. Mais les Allemands ont appris à modé­rer leurs enthousiasmes, à réduire une certaine arrogance qui les avait tant desservis. L'Allemagne ne cherche plus à profiter vite de ses atouts. Elle a acquis les vertus de la patience. Elle écoute. Elle attend. Face à l'Italie, elle ne cherche pas à profiter de la volonté d'autonomie et de la germanophilie du Nord. Les Allemands souhaitent, dans le fond, que l'Italie reste unie et faible. Ils préfèrent malgré tout maintenir les classes politiciennes parasitaires du Sud, car le potentiel de l'Italie du Nord est énorme et risque de leur porter ombrage. Un Nord détaché du reste de l'Italie serait comme un Japon accroché au Sud de l'Europe. L'Allemagne n'est pas encore capable de gérer une telle situation. Avec les Anglais, les Etats-Unis sont les pires ennemis de l'unification européenne. Ils feront tout pour la freiner. Un jour, dans un cours que le Prof. Miglio donnait à l'Institut Hopkins à Florence, il a dit que le monde aurait été bien différent si les Sudistes (les Confédérés) avaient gagné la Guerre de Sécession. Ils n'auraient pas eu la force d'unir le continent nord-américain et nous aurions eu aujourd'hui, là-bas, une mosaïque d'Etats sans danger pour l'Europe: une Union (le Nord), une Confédération, un Texas et une Californie indépendants, un Alaska russe, un Canada britannique et peut-être un Québec indépendant fortement lié à la France. Ces Etats n'auraient pas pu intervenir aux côtés des Anglais et des Français en 1917, ce qui aurait éliminé définitivement l'ingérence de ces deux puissances anti-européennes à l'Ouest du Continent. Guillaume II aurait réalisé son plan d'unification européenne, suggéré au début du siècle, y compris à la France et nous n'aurions pas dû subir le bolchévisme, le fascisme et le nazisme. L'Europe n'aurait connu qu'une variante centre-européenne de démocratie, n'aurait pas subi les parenthèses tota­li­taires ni l'effroyable saignée de 39-45.

 

- Sur le plan macro-économique, les pôles importants de l'Europe contemporaine sont l'Allemagne, la France (surtout ses régions de l'Est), la Catalogne et l'Italie du Nord. Une articulation économique entreces pôles actifs et dynamiques existe d'ores et déjà. Il faut lui adjoindre une articulation militaire. L'expansion économique et pacifique allemande repren­dra son cours naturel le long de l'axe fluvial danu­bien.

lundi, 16 mars 2009

Cosmopolitan Democracy and Its Failure in Provinding a Political Identity

Cosmopolitan Democracy

and

Its Failure in Providing a Political Identity

by faustus

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The political theory in the 1980s was marked by the ’struggle’ between communitarians and liberals. This debate was waged in the name of local social embededdness in the first case and in the name of certain universal moral standards applicable to all human beings equally in the case of the latter (1). Cosmopolitanism, as one of the strands of liberal thought, also possibly falls under the communitarian attack. However, this essay does not focus on the evaluation of normative claims made by these two opposing sides, but rather questions cosmopolitan democracy in its capability to create a viable political system. The nationality will be considered here as one of the possible political identities that a political community can take, not as the one which is somehow required for a properly functioning society. The argument which we will try to defend here will be that cosmopolitan democracy is not able to provide a political identity to its citizens because of its aspiration towards the universal political membership. The greatest problem with cosmopolitanism comes precisely from this failure to realize that the practice of politics is necessarily contradictory to political all-inclusiveness. Or in other words, we will argue that the political membership encompassing all ‘humanity’ cannot provide the political identity for a political community of any form, whether the community is democratic or not. This criticism will be based on the definition of politics which we will try to promote here and which claims that one of the fundamental dimensions of the political is having an enemy. Since the cosmopolitan democrats claim to provide the political membership to everyone, they deny the possibility of having a political enemy and hence also rhetorically deny their political nature. We will try to show that what is the result of cosmopolitans’ effort is not the universal political inclusion, but merely the inability to admit that some persons are again in fact excluded.

This substantial claim obviously requires of us to take several steps. Thus, we will first outline the main features and aspirations of cosmopolitanism and cosmopolitan democracy and also mention the key authors in the debate. Second, we will try to grapple with the definition of politics outlined above and suggest how the friend-enemy dichotomy is essential to any political community. This will be done with the help of the work of the German jurist Carl Schmitt. Lastly, we will use this definition of politics in trying to show how the cosmopolitan democracy fails in its effort of providing one political identity for all human beings.

Cosmopolitanism and Cosmopolitan Democracy

Essentially, cosmopolitanism is a claim that there is some essential moral connection that binds together all human beings. The word itself is derived from the Greek Κόσμος (universe) and Πόλις (city). Kosmopolités is thus someone who claims to be a ‘universal’ citizen. Historically one of the first cosmopolitans was perhaps Socrates. He was accused by his contemporaries of ‘corrupting the youth’ because of his questioning of the established Athenian norms in the name of universal reason (2). Most historical accounts however trace back the first cosmopolitanism to the Cynic Diogenes, who when questioned about his origins replied that he is the ‘citizen of the world’ (3). Also the Greek and Roman Stoics of the third century AD are famous for their specific version of cosmopolitanism. The Stoic moral ideal was to treat the humanity as a moral whole, although they also recognized that ’serving all human beings equally well is impossible’ (4), and hence the best one could do was to serve well one’s own polis first (5).

Most of the contemporary cosmopolitan theorists however trace back their argument to the Prussian philosopher Immanuel Kant and especially to his essay on ‘Perpetual Peace’ (6). Already in his work Grounding for the Metaphysics of Morals, Kant claimed that human beings become autonomous moral agents only if they act according to the universal moral precepts (7). In other words, Kant argued that ‘we can only express our true nature [qua moral beings] when we act out of a sense of justice’ (8). Or also, according to Kant we are only ‘rational’ if our moral norms on the basis of which we act could be universalised. This is perfectly expressed when Kant formulates his third maxim:

‘… every rational being must so act as if he were through his maxim always a legislating member in the universal kingdom of ends’ (9).

A neo-Kantian restatement of the principles of universal justice that tries to avoid such metaphysics was recently provided for instance by John Rawls (10), and in return strongly criticised by communitarians (11). In practical terms, a cosmopolitanism of this kind is also present in the Universal Declaration of Human Rights (its concepts of universal human ‘dignity’ and ‘inalienable worth’ of human beings) or in the contemporary principles of the doctrine of humanitarian intervention (12).

These theories form the basis for the universalism of cosmopolitans. In one way or another, cosmopolitans argue that if human beings are somehow bound together by their capacity to reason, we could derive from that reason alone certain norms applicable indiscriminately to all of them. And hence, establish the universal (cosmopolitan) law based on such principles derived from reason.

Cosmopolitan democracy therefore denotes the effort to politically institutionalise cosmopolitan moral beliefs. More specifically, cosmopolitan democracy promotes a blueprint for the democratic cosmopolitan order at the global level. It is important to note that this does not necessarily suggest the creation of a world state. There are different versions of institutional cosmopolitanism and only a small number of them promote the idea of world state itself (13). Thus for instance David Held and Danielle Archibugi are the proponents of global cosmopolitan governance, arguing for the large-scale reform of the United Nations and entrenchment of the cosmopolitan rule of law within regional parliaments (14). Garrett W. Brown and Fernando Tesón follow Kant and support the federation of cosmopolitan republics (15), Seyla Benhabib proposes to establish cosmopolitanism through ‘democratic iterations’ (16), while others like Jürgen Habermas, Jeremy Waldron, or Allen Buchanan suggest that constitutional cosmopolitanism would be just enough (17).

For the purpose of our analysis it is not necessary to distinguish the differences between these diverging accounts. The important fact to realize is that in their own particular way, all these approaches claim that their form of cosmopolitan democracy is suited to efficiently institutionalize the moral norms of cosmopolitanism. Hence although all cosmopolitans are not trying to establish one set of political institutions for everyone, they are trying to ensure that the international principles of justice will be based on equal legal recognition of human beings. When we say that cosmopolitans promote the ‘universal political inclusion’ we thus mean only this – that in their own particular way, cosmopolitan democrats require that all political institutions in the world recognize the universal principles of cosmopolitan law and incorporate them into their policy making. We will now focus on the definition of politics to show that any of these approaches ultimately fails in providing such universal political inclusion.

Politics and the political

Although the answers to what politics amounts to are ‘essentially contested’ as Colin Hay suggests (18), most of the authors seem to follow one common strand of thinking. And that is the assumption that politics is somehow specific only to the nature of man - that politics as an activity fundamentally arises out of plurality of opinion of how we should organise the society around us. Aristotle thus notably mentioned that man is zoon politikón, a social animal whose nature is completed only through his interaction with the ’significant others’ within the society. The Ancient Greeks therefore associated, contrary to modern day liberal thinkers, politics with the realm of freedom, since it was the only realm where the individual was given the opportunity to influence the development of the community as a whole (20).

In this regard, politics is in the first place an activity of making a choice between contesting claims for the social good. By definition, it arises only in a collective of people (be it family, association, trade union or state), which is put up before a problem of making a decision between competing courses of action. By this definition, politics is thus not bound to a particular arena – that of government for instance – but it is a process of solving such conflicts that can arise anywhere within society. Anthony Giddens thus argues that politics is essentially the ‘transformatory capacity’ of making a particular decision between competing courses of action authoritative for the community as a whole (21). Colin Hay similarly notes a close relationship between power and politics and postulates that politics is about:

‘ … context-shaping, about the capacity of actors to redefine the parameters of what is socially … possible for others. [It is] the ability of actors (whether individual or collective) to “have an effect” upon the context which defines the range of possibilities of others’ (22).

Another important factor is thus that politics always differentiates between the internal and external – the members and non-members. Whereas the members of a political community accept the decisions made by the decision-making body (be it a parliament, an assembly of citizens, or a monarch) as authoritative and therefore legally binding, the non-members do not. Some sort of allegiance of a person towards that particular political community is therefore necessary for him to voluntarily regard himself as subject to its laws and obligations. This is precisely the point of dispute between communitarians and liberals-cosmopolitans, since the first group would question the capability of an allegiance towards a universal cosmopolitan set of legal norms, due to their abstract nature (23). What concerns us here however is solely that distinction between the internal and external politics. Cosmopolitans are obviously trying to abolish that distinction and make every politics internal politics (24). But is that possible?

Internally, the law in most of the contemporary liberal democratic regimes ensures that some rights of its citizens are always protected, partly even in case of criminals. Or in the direst cases, in case of terrorist attacks or when one citizen threatens the life of the other, the liberal democratic official authorities are allowed to violate the most essential freedom of all – the right to life.

Is Cosmopolitan Democracy a political regime?

What we need to notice is that the person who transgressed the law in such a way always needs to be exempt from that legal norm which assures the protection of lives of the others. In the cases of immediate danger, we cannot protect the terrorists’ lives themselves since that would simply entail our annihilation. In other words – the legal status of a ‘terrorist’ is defined as someone to whom the laws of the political community no longer apply. Simply, if to be a citizen today means to be endowed also with a certain set of rights (25), the terrorist is not a citizen in the proper sense of the word, since his behaviour can no longer be regulated within the bounds of the law of that particular community. To be a ‘domestic’ terrorist means to forfeit the rights of citizenship and become a non-member – an outside enemy of the political body, which threatens its established order. In practical terms, there is no distinction between such terrorist and a person who was not a member of that particular political community in the first place.

What comes from this is that all-inclusive political membership is not possible. A political community, whether local or global, always needs to presuppose a threat to its own existence. In case of the current Westphalian state system, the threat might come from inside our outside. For cosmopolitans, there is only inside but that does not mean that cosmopolitanism eliminates the possibility of having an enemy.

This is the line of reasoning first put forward by the German jurist Carl Schmitt, who has famously argued that at the heart of politics is the distinction between friend and enemy, that it is actually the reason for the existence of politics (26). Schmitt thus argued:

‘The political entity presupposes the real existence of an enemy and therefore coexistence with another political entity. As long as a state exists there will thus always be in the world more than just one state. A world state which embraces the entire globe and all of humanity cannot exist’ (27).

In other words, although cosmopolitans legally establish a universal legal order, they are not able to include everyone within it (although their claim is that they do so). They always need to count with at least one other political entity – and that is those who disagree with the cosmopolitan legal norms and threaten them. The argument that in a cosmopolitan democracy the rule of the ‘universal human rights’ is established is nothing but an intellectual sleight of hand. As we have shown, humanity as a political unit cannot exist, since politics presupposes the exclusion of those who threaten the norms of the political community from its protection. As Carl Schmitt notes, the hard fact is

‘that wars are waged in the name of humanity is not a contradiction of this simple truth; quite the contrary, it has an especially intensive political meaning. When a state fights its political enemy in the name of humanity, it is not a war for the sake of humanity, but a war wherein a particular state seeks to usurp a universal concept against its military opponent. At the expense of its opponent, it tries to identify itself with humanity in the same way as one can misuse peace, justice, progress, and civilization in order to claim these as one’s own and to deny the same to the enemy’ (28).

The logical conclusion to which cosmopolitanism leads is that those who threaten the cosmopolitan law cannot be humans (because for cosmopolitans ‘every’ human is the claimant to the cosmopolitan human rights). For cosmopolitan democracy to be properly ‘cosmopolitan’, that is all-inclusive, it would have to give up its own unacknowledged political nature – which would mean giving the same rights also to its own enemies. But that would be a political hara-kiri in the proper sense of the world, because a political community which does not protect anyone is a contradiction in terms and has no reason for existence.

The similar problem comes across when we consider the case of ‘pacifism’. A pacifist, someone who wants war to disappear, can also take two different approaches. He can either deny that pacifism has any enemies and wait for a pacifist world order to simply unfold by itself, or he can start to wage the ‘war to end all wars’ to eliminate those who threaten the world peace. But that only betrays the fully political nature of pacifism and amounts to the conceptual contradiction in what it means to be a pacifist (prevent wars to happen). Even in the case of a potential victory of a pacifist over his enemies, he will need to ensure that resurgent enemies will be again dealt with or that a civil war will be suppressed.

We thus have to return to what was mentioned in the introduction. Cosmopolitanism might well function as a certain moral aspiration. We might well conceive of it as a certain worthy standard of moral behavior how humans should ideally behave. Nevertheless its prescriptions can never be realized in the actual political practice, neither in the form of a world state, and neither as a universal legal order. Hence, one thing is to give the support to a certain cosmopolitan idea of universal hospitality (29), the idea that every stranger in need needs our help by the virtue of our being able to sympathise with him, and the other is the argument that we can give equal rights to all human beings in a universal polity. Which is precisely what cosmopolitanism requires of us to do. This alone already goes against the established law practice in many Western countries, since it is acknowledged that in a case of road accident for instance, the person has the obligation to give help only if the life of his own or his family is not threatened. Which obviously amounts to the tacit acknowledgement that particular attachments are naturally stronger as those to universal, abstract constructs. To demand the people to act otherwise is not just impossibility, but it also swings the door open for all kinds of political ‘reformers’ who could claim to have solely the cosmopolitan precepts on mind, in establishing their enlightened despotisms based on the concept of ‘universal reason’.

Conclusion

It was argued that no political organization can be ‘universal’ or cosmopolitan in the sense of equal treatment of all human beings according to some moral norms. So long as the political opposition will entail the political opposition between human beings any pretention to cosmopolitanism or universal political membership is false or worse, consciously hypocritical. We therefore did not question cosmopolitanism on its normative grounds but merely on the basis of its own internal aspiration in providing the universal political membership for all human beings. The answer is therefore not that politics require a national or ethnic identity for its function (although perhaps some communitarians would claim otherwise), but that it always requires a political one. As a political identity always means the adoption of a certain set of norms and things we consider worthy in our political community to be – of the political - a political identity in turn always entails the willingness to protect that political community against those who might threaten it. Cosmopolitan democracy, as based on the argument that it provides the political identity of a human being, equally to everyone just because of their humanity, must therefore necessarily fail in its effort.

Notes

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  1. For an overview of the debate see Stephen Mulhall and Adam Swift, Liberals and communitarians (Oxford, Blackwell, 1996).
  2. Moses I. Finley, Democracy Ancient and Modern (New Brunswick and London, Rutgers University Press, 1988), pp. 110-141.
  3. Eric Brown, ‘Hellenistic Cosmopolitanism’ in M. L. Gill and P. Pellegrin (eds), A Companion to Ancient Philosophy (Oxford, Blackwell, 2006), pp. 549-558.
  4. Cosmopolitanism, http://plato.stanford.edu/entries/cosmopolitanism/ (2006, accessed 1 December 2008).
  5. Ibid.
  6. Immanuel Kant, ‘Perpetual Peace’ in H. Reiss (ed), Kant’s Political Writings (Cambridge, Cambridge University Press, 1970). Kant is directly referred to for instance by David Held, Democracy and the Global Order: From the Modern State to Cosmopolitan Governance (Cambridge, Polity Press, 1995), Danielle Archibugi, ‘Cosmopolitical Democracy’, New Left Review, 4, pp. 137-150, or Garrett W. Brown, ‘State Sovereignty, Federation and Kantian Cosmopolitanism’, European Journal of International Relations, 11 (2005), pp. 495-522. For an overview for instance W. E. Scheuerman, ‘Cosmopolitan Democracy and the Rule of Law’, Ratio Juris, 15 (2002), pp. 439-457.
  7. Immanuel Kant, Grounding for the Metaphysics of Morals (Indianapolist, Hackett Publishing, 1993).
  8. Michael Sandel, Liberalism and the Limits of Justice (Cambridge, Cambridge University Press, 1982), p. 22.
  9. Immanuel Kant, Grounding for the Metaphysics of Morals (Indianapolist, Hackett Publishing, 1993), p. 43.
  10. John Rawls, A Theory of Justice (London, Oxford University Press, 1973).
  11. Michael Sandel, Liberalism and the Limits of Justice.
  12. John Williams, ‘The Ethical Basis of Humanitarian Intervention, the Security Council and Yugoslavia’, International Peacekeeping, 6 (1999), pp. 1-23.
  13. Among them are for instance Rafaelle Marchetti, Global Democracy: For and Against (London and New York, Routledge, 2008); or Luis Cabrera, Political Theory of Global Justice: A Cosmopolitan Case for the World State (New York, Routledge, 2004).
  14. Danielle Archibugi, ‘Cosmopolitical Democracy’, pp. 137-150; David Held, Democracy and the Global Order, David Held, ‘The Transformation of Political Community: Rethinking Democracy in the Context of Globalization’ in I. Shapiro and C. Hacker-Cordón (eds), Democracy’s Edges (Cambridge, Cambridge University Press, 1999), pp. 84-111; or David Held, ‘Cosmopolitanism: Globalisation tamed?’, Review of International Studies, 29 (2003), pp. 465-480.
  15. Garrett W. Brown, ‘State Sovereignty, Federation and Kantian Cosmopolitanism’, pp. 495-522; Fernando Tesón, Humanitarian Intervention: An Inquiry into Law and Morality (Dobbs Ferry, N.Y., Transnational Publishers, 2005).
  16. Seyla Benhabib, Another Cosmopolitanism: Hospitality, Sovereignty, and Democratic Iterations (Oxford, Oxford University Press, 2006), pp. 13-81.
  17. Jürgen Habermas, The Postnational Constellation (Cambridge, Polity Press, 2001); Jeremy Waldron, ‘Minority Cultures and the Cosmopolitan Alternative,’ University of Michigan Journal of Law Reform 25 (1992), pp. 751-93; Allen Buchanan and Robert E. Keohane, ‘The Preventive Use of Force: A Cosmopolitan Institutional Proposal’, Ethics & International Affairs, 18 (2004), pp. 1-22.
  18. Colin Hay, Political Analysis (2002), pp. 69-75.
  19. See Moses I. Finley, Democracy Ancient and Modern (New Brunswick and London, Rutgers University Press, 1988).
  20. Kurt Raaflaub, The Discovery of Freedom in Ancient Greece (Chicago and London, The University of Chicago Press, 2004), pp. 166-202.
  21. Anthony Giddens, A Contemporary Critique of Historical Materialism (London, Macmillan Press, 1981).
  22. Colin Hay, Political Analysis, p. 74.
  23. This is the argument put forward for instance by Anthony D. Smith, Nations and Nationalism in a Global Era (Cambridge, Polity Press, 1995).
  24. Which is put forward as the idea of ‘universal citizenship’, see Gerard Delanty, Citizenship in a Global Age: Society, Culture, Politics (Buckingham and Philadelphia, Open University Press, 2000), pp. 51-67.
  25. On such modern conception of citizenship see Gerard Delanty, Citizenship in a Global Age: Society, Culture, Politics (Buckingham and Philadelphia, Open University Press, 2000), pp. 9-22.
  26. Carl Schmitt, The Concept of the Political (Chicago and London, The University of Chicago Press, 1996).
  27. Carl Schmitt, The Concept of the Political, p. 53.
  28. Ibid., p. 54.
  29. <!--[if !supportFootnotes]-->The moral argument put forward by Kant in ‘Perpetual Peace’.

Bibliography

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This essay was written by the author as a part of his undergraduate course at the University of Sheffield.

W. Sombart: Perché negli Stati Uniti non c'è il socialismo

Werner Sombart

Il libro della settimana: Werner Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo

di Carlo Gambescia

Leggere un libro di Werner Sombart è come degustare quei vini, che più invecchiano più si fanno apprezzare. E’ perciò sicuramente meritoria l’idea di ripubblicare Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? ( Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. XXXVIII-153, euro 15,00, con prefazione di Guido Martinotti e traduzione dal tedesco di Giuliano Geri, entrambe nuove di zecca).

Quando uscì per la prima volta in Italia nel 1975 (Edizioni Etas), con una prefazione di Alessandro Cavalli, ci si interrogava ancora positivamente sulle potenzialità del socialismo nel mondo, e in particolare, sulla “anomalia americana”. Un questione che aveva così incuriosito Sombart, reduce nel 1905 da un viaggio negli Stati Uniti, fino al punto di scrivervi sopra un libro, uscito nel 1906.

Se le date, e soprattutto le accelerazioni della storia, hanno un senso, si può dire, che quello che è accaduto tra il 1905 (anno della prima rivoluzione russa) e il 1975 (anno in cui gli Stati Uniti escono, e con le ossa rotte, dalla guerra vietnamita), non è ancora niente rispetto a quel che accadrà tra 1976 e il 2006: dalla caduta del comunismo all’ascesa degli Stati Uniti a unica potenza mondiale.

Perciò se oggi Sombart miracolosamente tornasse in vita non potrebbe più considerare il socialismo, come una specie di orizzonte obbligato: come il naturale prolungamento del capitalismo. Perciò la sua domanda non potrebbe più essere la stessa: perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti, dal momento che non c’è più socialismo nel resto del mondo…
In tal senso, mentre trent’anni fa, il testo sombartiano doveva essere letto avidamente dal socialista “inquieto” per tracciare il rapido identikit, di un capitalismo pericoloso, ma comunque battibile, oggi lo stesso libro deve essere divorato dal capitalista “quieto”, sicuro di sé, perché vittorioso. E che come Narciso, gode immensamente, nel guardarsi allo specchio, fornitogli un secolo fa da Sombart.

Insomma, il grande sociologo tedesco - di qui la classicità del suo studio - ci spiega, in modo indiretto, perché il capitalismo ha vinto… Anche se, si può aggiungere, per il famoso principio delle accelerazioni storiche di cui sopra, solo per il momento…
Ma veniamo al libro.

Per Sombart il capitalismo americano è una specie di spugna, capace di assorbire le menti di uomini e donne di ogni razza e cultura. In che modo? Dando a tutti la possibilità di arricchirsi. Detta così l’affermazione sombartiana può sembrare banale. Ma si deve prestare attenzione all’idea di “possibilità” : nel senso dell’essere possibile che una cosa avvenga. Ma anche, proprio perché si tratta di una possibilità, che un certa cosa non avvenga. Di più: il continuare a credervi, anche dopo un certo numero di fallimenti personali, implica una fede nel successo quasi religiosa.

Ma ascoltiamo Sombart: “Se il successo è il dio davanti al quale l’americano recita le sue preghiere, allora la sua massima aspirazione sarà quella di condurre una vita gradita al suo dio. Così, in ogni americano - a cominciare dallo strillone che vende i giornali per strada - cogliamo un’irrequietezza, una brama e una smaniosa proiezione verso l’alto e al di sopra degli altri. Non è il piacere di godere appieno della vita, non è la bella armonia di una personalità equilibrata possono dunque essere l’ideale di vita dell’americano, piuttosto questo continuo ‘andare avanti’. E di conseguenza la foga, l’incessante aspirazione, la sfrenata concorrenza in ogni campo. Infatti, quando un individuo insegue il successo deve costantemente tendere al superamento degli altri; inizia così una steeple chase, una corsa a ostacoli (…). Questa psicologia agonistica genera al suo interno il bisogno di totale libertà di movimento. Non si può individuare nella gara il proprio ideale di vita e desiderare di avere mani e piedi legati: L’esigenza del laissez faire fa parte perciò di quei dogmi o massime che (…) si incontrano inevitabilmente ‘quando si scava in profondità nello spirito del popolo americano’ ” (p. 17).

Ovviamente, Sombart colloca queste costanti psicologiche e culturali nell’alveo di una società ricca di risorse naturali lontana anni luce dal feudalesimo europeo, e le cui élite sono almeno formalmente aperte a tutti. Una società, ricca e libera, dove ogni rapporto economico e politico è affrontato in termini di interessi individuali e mai di classe. Da questo punto di vista sono molto interessanti e attuali le pagine dedicate alla posizione politica, sociale ed economica dell’operaio americano, il cui tenore di vita, già a quei tempi, nota Sombart, “lo rend[e] più simile al nostro ceto medio borghese, anziché al nostro ceto operaio” (p. 125).

Come del resto è significativo quel che viene osservato a proposito dell’appartenenza politica ai due grandi partiti “tradizionali”, il repubblicano e il democratico. Scrive Sombart: “ La natura e le caratteristiche dei grandi partiti (…), tanto la loro organizzazione esterna, quanto la loro assenza di principi, quanto ancora la loro panmixie sociale (…) influenzano nettamente le relazioni tra i partiti tradizionali e il proletariato. Innanzitutto nel senso che agevolano oltremodo l’appartenenza del proletariato a quei partiti tradizionali. Perché in essi non va vista un’organizzazione classista, un organismo che antepone specifici interessi di classe, ma un’associazione sostanzialmente indifferente che persegue fini condivisibili anche, come abbiamo potuto vedere, dai rappresentanti del proletariato (la caccia alle cariche pubbliche!)” (p. 69).

E lo stesso discorso, può essere esteso ai sindacati e alle associazioni professionali, dal momento, nota Sombart, che “ mentre da noi [in Germania] gli individui migliori e più dinamici finiscono in politica, in America, i migliori e più dinamici si dedicano alla sfera economica e nella stessa massa prevale, per la medesima ragione, una “supervalutazione dell’elemento economico: perché è seguendo questo principio che si pensa di poter raggiungere in forma piena l’obiettivo al quale si aspira”: il successo sociale. Non c’è alcun Paese, conclude Sombart, “nel quale il godimento del frutto capitalistico da parte della popolazione sia così diffuso” (p. 18).

Perciò, una volta chiuso il libro, non possono non essere chiare le ragioni della vittoria del capitalismo made in Usa su quasi tutti i fronti: ideologia del successo e individualismo concorrenziale, ma anche “fame” di consumi sociali. Curioso, su quest’ultimo punto, il vezzoso ritratto sombartiano delle operaie americane dell’epoca: “Qui l’abbigliamento, in particolare tra le ragazze, diventa semplicemente elegante: in più di una fabbrica ho visto operaie in camicette chiare, addirittura di seta bianca; quasi mai si recano in fabbrica senza il cappello” (p.126).

Siamo davanti all’ idealizzazione del capitalismo americano? Un Sombart che come Gozzano sembra rinascere non nel 1850 ma nel 1905… Non tanto, se pensiamo alle segrete cure che oggi hanno nel vestire, le impiegate e le operaie. Il modello non è più solo americano.

Allora, tutto bene quel che finisce bene? Sombart, nonostante tutto, pensava che il socialismo (magari in veste socialdemocratica) si sarebbe comunque imposto anche negli Stati Uniti. Soprattutto una volta spariti “gli spazi aperti”, come disponibilità di terre libere (il Grande Ovest), sui quali far sciamare, come liberi agricoltori, i “soldati-operai” dell’ “esercito industriale di riserva”. Infatti, secondo il sociologo tedesco, la “consapevolezza di poter diventare in qualsiasi momento un libero agricoltore” riusciva a trasformare “da attiva in passiva ogni opposizione emergente a questo sistema economico”, troncando “sul nascere ogni agitazione anticapitalistica” (p.151).

Tuttavia le terre libere sono state occupate, e il capitalismo Usa è ancora lì, più forte che mai. A meno che l’attuale frontiera americana in realtà non racchiuda ben più vasti territori. E che perciò la crescente espansione economica degli Stati Uniti (gli alti tassi di sviluppo e l’elevato tenore di vita dei suoi ceti medi) sia attualmente pagata in dollari sonanti dai paesi più deboli politicamente, ma ricchi di risorse naturali. Si pensi all’America Latina, e alle cosiddette economie “dollarodipendenti”.
Se così fosse, l’ ottimo vino sombartiano avrebbe un retrogusto amarognolo.

Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/


Article printed from Altermedia Italia: http://it.altermedia.info

URL to article: http://it.altermedia.info/storia/il-libro-della-settimana-werner-sombart-perche-negli-stati-uniti-non-ce-il-socialismo_3346.html

Neue Bücher über Werner Sombart

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Werner Sombart

Jürgen Backhaus (Hg.)

Werner Sombart (1863-1941) - Klassiker der Sozialwissenschaften

271 Seiten · 26,80 EUR
ISBN 3-89518-275-3 (Juli 2000)

 
 

Beschreibung

Ein halbes Jahrhundert nach seinem Tod erwacht ein neues und reges Interesse am wissenschaftlichen Werk des Nationalökonomen und Soziologen, ganz allgemein aber umfassend und integrierend arbeitenden Sozialwissenschaftlers Werner Sombart (1863-1943). Sogar ein regelrechter Historikerstreit hat sich kürzlich an seiner Person entzündet. Dieser Band wendet sich ausdrücklich an das deutsche Publikum, weil Sombarts Werk vor allem im deutschen Sprachraum immer wieder aufgelegt wird - daneben ist sein Werk auch in Japan in aktuellen Ausgaben präsent. Sombart ist nicht nur Volks- und Sozialwirt, sondern auch Stillist, und sein Werk hat insofern nicht nur literarische Qualität, sondern entfaltet seine Bedeutung auch insbesondere in modernen Entwicklungen in den Wirtschafts- und Sozialwissenschaften, insbesondere seit dem Zusammenbruch der staatssozialistischen Systeme und nachdem die Suche nach neuen Formen der Wirtschaftsgestaltung Sombarts Fragen wieder hat aktuell werden lassen.

Inhalt

Jürgen Backhaus
Vorwort
Helge Peukert
Werner Sombart
Wolfgang Drechsler
Zu Werner Sombarts Theorie der Soziologie und zur Betrachtung seiner Biographie
Manfred Prisching
Unternehmer und kapitalistischer Geist. Sombart psychohistorische Studie
Oskar Kurer
Die Rolle des Staates für die wirtschaftliche Entwicklung
Friedrich Lenger
Marx, das Handwerk und die erste Auflage des Modernen Kapitalismus
Karl-Heinz Schmidt
Sombarts Bevölkerungstheorie
Horst K. Betz
Sombarts Theorie der Stadt
Fritz Reheis
Zurück zum Gottesgnadentum. Werner Sombarts Kompromiß mit dem Nationalsozialismus
Shigenari Kanamori
Die Ähnlichkeiten der Ansichten von Werner Sombart und Ekiken Kaibara auf dem Gebiet der Gesundheitswirtschaft

Michael Appel

Werner Sombart

Historiker und Theoretiker des modernen Kapitalismus

339 Seiten · 24,80 EUR
ISBN 3-926570-49-0 (August 1992)

Beschreibung

Sein Werk werde Generationen überdauern, so prophezeiten die Zeitgenossen die Wirkung des großen deutschen Wirtschaftshistorikers Werner Sombart. Tatsächlich beschäftigen sich noch heute Historiker und Wirtschaftswissenschaftler mit Sombarts epocheübergreifendem Werk zur Geschichte des modernen Kapitalismus. Liebe, Luxus, Krieg, Religionen, Bevölkerungsexplosion und Unternehmenseliten - sie alle haben Platz in Sombarts umfassender Enzyklopädie von den Entstehungsursachen des Kapitalismus seit dem Mittelalter.

Die Deutungen von Werner Sombart sind aktuell und heute noch eine Quelle der Inspiration. Zu Lebzeiten war er der bekannteste und meistgelesenste Wirtschafts- und Sozialwissenschaftler und noch heute erleben viele seiner Werke Neuausgaben in hoher Auflage. Dennoch gab es bislang keine werkgeschichtliche Interpretation von Sombarts sechsbändigem Hauptwerk Der moderne Kapitalismus. Erst die Arbeit von Michael Appel bietet die Geschichte der Auseinandersetzungen und wissenschaftlichen Durchbrüche, die mit der Diskussion um Sombarts Deutung des Kapitalismus einhergingen.

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."

(Günther Chaloupek in Wirtschaft und Gesellschaft, Heft 2, 1994)

dem Verlag bekannte Rezensionen (Auszüge)

Soziologische Revue, 1995, S. 573-574 (Markus C. Pohlmann)  [ nach oben ]

"Es ist ein gelungenes Stück Arbeit, mit dem uns der Autor zu einer Rückbesinnung auf grundlegende Diskussionen bei der Herausbildung der Soziologie, insbesondere der Wirtschaftssoziologie, einlädt. Er entführt uns nochmals in die für die Soziologie so wichtigen ersten Jahrzehnte nach der Jahrhundertwende, stetig einen Denker umkreisend, den diese nur schwer in den Kanon der Fachausbildung integriert hat. Werner Sombart hat eine der prominentesten Fragestellungen der Soziologie zusammen mit Karl Marx und Max Weber aus der Taufe gehoben. Eine Fragestellung, die auch heute noch von höchster Aktualität und Brisanz ist: Wie und warum welche Paradigmen des Wirtschaftens in bestimmten Gesellschaftsformationen entstehen und wie, mit welchen Geschwindigkeiten und Modifikationen sie sich in welchen Wirtschaftsräumen verbreiten und helfen, die 'mächtigen Kosmen' der Wirtschaftsordnungen zu erbauen, die den Lebensstil aller Einzelnen mit 'überwältigendem Zwange' bestimmen (Weber). Auch wenn das Webersche Pathos an dieser Stelle berühmt ist: Werner Sombart begründete diese Fragestellung in entscheidender Weise und vergessen ist häufig, wie stark Weber von Sombart beeinflußt wurde. Sombart etablierte den Begriff des 'Kapitalismus' und half mit, die genuine Leistung der Soziologie gegenüber den Geschichts- und Staatswissenschaften sichtbar zu machen. Dies herausgearbeitet und die weit verzweigten Diskussionen um Sombarts zentrale Werke, insbesondere der ersten und zweiten Fassung von 'Der moderne Kapitalismus' ausführlich dargestellt zu haben, ist das große Verdienst des Buches von Michael Appel. Appel fängt diese Diskussionen bis in die 40er Jahre hinein in hervorragender Weise ein und gibt einen schmalen Ausblick auf die Diskussionen nach dem zweiten Weltkrieg.

Nach dem sehr kurz gehaltenen Versuch einer 'intellektuellen Biographie' widmet sich Appel unter unterschiedlichen thematischen Schwerpunkten der Entstehungs- aber vor allem der Wirkungsgeschichte von Sombarts Werk. ...Er arbeitet den in Abgrenzung von Marx wichtigen Sombartschen Bezugspunkt auf die Motive der wirtschaftlich handelnden Menschen als Entscheidungszentren heraus (31), aber auch seine Anlehnung an Marx in der historischen Beurteilung des Verwertungsstrebens des Kapitals als 'letzte Ursache' der wirtschaftlichen Entwicklung (34). Er stellt Sombarts Geworfenheit in die Zeit dar, deren unterschiedlichen Strömungen der historischen Schule, des Marxismus, des Sozialismus, des Kulturpessimismus seine Positionen durch Einbezug und Abgrenzung mitbestimmten. Er zeigt seine Begegnungen und Auseinandersetzungen, seine Rezeption und seine Wirkungen bei so bekannten 'Zeitgeistern' wie Georg von Below, Lujo Brentano, Karl Bücher, Alphons Dopsch, Otto Hintze, John Maynard Keynes, Karl Korsch, Rosa Luxemburg, Friedrich Naumann, Max Scheler, Gustav Schmoller, Joseph Alois Schumpeter, Ferdinand Tönnies, Thorstein Veblen, Max Weber - um nur einige zu nennen - auf. Hier läßt Appels Buch nur noch wenig zu wünschen übrig. Spannend und neue Perspektiven aufzeigend ist vor allem das Kapitel über den Sonderweg der Kapitalismustheorie nach 1919 (217ff.), in dem gezeigt wird, wie sich Sombarts Position einer 'antimodernen, idealistischen Grundeinstellung' herausbildet und Anklang findet, wie dem 'Spätkapitalismus' sein letztes Glöcklein geläutet wird (228ff.), Sombarts Perspektive der 'autarkistischen Planwirtschaft' aufscheint und seine 'nationale, antiliberale Gesinnung' von den Nationalsozialisten dann doch nicht vorbehaltlos goutiert wird.

In diesem und in anderen Kapiteln demonstriert Appel seine Stärken und Schwächen zugleich: Er schreibt in fruchtbarer und spannender Weise Literaturgeschichte, aber weniger Soziologiegeschichte und noch weniger betreibt er Soziologie." ...



Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 4/1993, S. 539-540 (Karl Heinrich Kaufhold)  [ nach oben ]

"Wemer Sombart, lange Zeit wenig beachtet und von der Forschung allenfalls selektiv wahrgenommen, erfreut sich seit einigen Jahren wieder zunehmender Aufmerksamkeit. Doch fehlte der Diskussion bisher eine Grundlage in Form eines Überblicks über sein ausgedehntes Werk, dessen Rezeption und über die wissenschafts- wie zeithistorischen Zusammenhänge, in denen es sich bewegte und diskutiert wurde. Das Buch von Michael Appel schließt diese Lücke in einer knappen, doch eindrucksvollen und überzeugenden Form.

A. stellt in den Mittelpunkt seiner 'intellektuellen Biographie' mit Recht Sombarts Hauptwerk 'Der modeme Kapitalismus' in den beiden Fassungen von 1902 und 1916/27; er übersieht aber darüber die frühen Arbeiten der 1890er Jahre sowie die späten Studien nicht. Die beiden Hauptprobleme einer Beschäftigung mit Sombart, nämlich den Wandel seiner Grundposition von einem revisionistischen Marxismus hin zu einer antikapitalistischen 'Metaphysik des Seins" und die überaus widersprüchliche Rezeption seiner Arbeiten durch Nationalökonomen, Soziologen und Historiker, treten dabei deutlich hervor und werden in ihren verschiedenen Aspekten diskutiert. A. macht deutlich, wie konsequent Sombarts geistige Entwicklung in Auseinandersetzung mit jeweils bestimmenden Strömungen seiner Zeit verlaufen ist, doch auch, daß er ungeachtet solcher Wandlungen in bestimmten Grundauffassungen sich treu blieb.

Ein knappes Resümee zu ziehen, verbietet sich von Sombarts Werk, doch auch von der diesem gerecht werdenden Weise her, in der es hier geschildert wird: Jede Vereinfachung vergröbert, ja verfälscht. Hervorzuheben sind aber die im ganzen treffende Würdigung der jüngeren historischen Schule und die feinfühlige Art, mit der Sombart in diese eingeordnet wird (hinsichtlich Schmoller finden sich allerdings einige kleinere Mißverständnisse). Das Buch kann jedem empfohlen werden, der sich über das Werk Sombarts und dessen Wirkungen bis an die Schwelle der Gegenwart in Zuspruch und Widerspruch zum wechselnden 'Zeitgeist' informieren will."



Wirtschaft und Gesellschaft, 2/1994, S. 314-319 (Günther Chaloupek)  [ nach oben ]

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."