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mercredi, 01 février 2012

Miti e simboli del paganesimo e del cristianesimo

Miti e simboli del paganesimo e del cristianesimo

Il cristianesimo come negazione dell’ethos, la proiezione dell’ideale morale nella sfera ultraterrena

Fabio Calabrese

Ex: http://www.rinascita.eu/

dearoma.jpgNella storia dell’Europa e della cultura europea, paganesimo e cristianesimo si sono, oltre che combattuti senza pietà (soprattutto da parte cristiana, le cui persecuzioni contro i pagani furono assai più violente, spietate e prolungate nel tempo di quelle pagane contro i cristiani) variamente sovrapposti, intrecciati, mescolati.
In particolare, l’affermazione del cristianesimo non fu dovuta a predicatori ingenui, appassionati e idealisti, ma a scaltri e pragmatici politicanti. Costoro non ebbero mai nessuno scrupolo a impadronirsi non solo di luoghi di culto, di divinità locali da trasformare disinvoltamente in santi e madonne, ma anche di complessi ideologici-mitologici-simbologici molto vasti, creando delle situazioni ambigue, difficili da districare se non si hanno le idee chiare e non si dispone di una base culturale robusta. Peggio ancora, possono generare l’impressione che l’abisso che separa il paganesimo dal cristianesimo sia un semplice fossato che si può scavalcare senza troppi problemi. E’ questo un motivo che, forse, non ho evidenziato a sufficienza nell’articolo Il cioccolatino e l’incarto (http://www.ereticamente.net/2011/12/il-cioccolatino-e-lincarto.html) per spiegare come mai molti tradizionalisti sedicenti evoliani siano saltati sulla sponda cattolica considerando un semplice approfondimento quella che a tutti gli effetti è una vera e propria abiura. Lo storico Antonio Brancati ha fatto un’interessante analisi di quella che è stata chiamata l’opera di inculturazione cristiana, che è altra cosa e più sottile della prevalenza del cristianesimo in epoca tardo antica a livello di istituzioni, richiese almeno un millennio e ancora oggi è difficile dire se abbia davvero trionfato completamente sulla spiritualità nativa dell’Europa.


In pratica tutto ciò che era troppo radicato nella coscienza europea per essere proibito o estirpato, venne “battezzato”, dalle divinità trasformate in santi, al samain celtico convertito nella festività di ognissanti, alla celebrazione del solstizio d’inverno trasformata nel cosiddetto natale di Gesù Cristo (che nessuno sa quando sia effettivamente nato), e via dicendo:


“Un tipico esempio di questa contaminazione è il cosiddetto “magico cristiano”, ossia un complesso insieme di veri e propri riti magici di derivazione chiaramente pagana ma debitamente “ribattezzati” mediante l’uso di preghiere ampiamente accettate dalla Chiesa e l’abuso di ampi gesti di croce: riti frequentemente praticati per ottenere la fertilità dei campi o per riacquistare in qualche modo la perduta salute del corpo” (1).


Un complesso mitico-simbolico particolarmente importante che si è prestato a questa operazione che gli storici hanno chiamato di inculturazione, ma che noi potremmo anche chiamare di appropriazione indebita, è rappresentato dal Santo Graal, uno di quei miti-simboli potenti che ci fanno capire che il processo di trasformazione, per usare la terminologia di Oswald Spengler, della Kultur europea in una Zivilization mondialista, anodina, senza volto, non si è ancora del tutto (e forse non sarà mai) completato.
Per capire il reale significato del Graal, occorre fare riferimento al contesto storico nel quale il mito è nato: la Britannia del V secolo alla vigilia dell’invasione sassone, un ambiente sostanzialmente pagano, anche se già oggetto di una prima superficiale cristianizzazione. Re Artù ha perso la regalità a causa dell’inconsapevole incesto con Morgana e deve essere riconsacrato con quella che verosimilmente era stata la coppa della sua incoronazione primitiva. Cosa c’è di più ovvio in un ambiente nel quale un radicato paganesimo nativo inizia a mescolarsi ai riti e ai simboli della religione importata, che la coppa, il calderone usato per la consacrazione dei re celtici (il termine Graal viene dal latino gradalis che indica un recipiente piuttosto ampio, come il celebre calderone di Gundsrupp, d’altra parte, sempre da qui viene l’italiano grolla) fosse confuso con il calice dell’eucaristia?


E’ tuttavia una concezione pagana del tutto incompatibile con il cristianesimo quella che emerge dalla narrazione del mito arturiano. Merlino (come la sua copia moderna, Gandalf) è evidentemente un druido e non un prete, ma soprattutto il re celtico è portatore di una legittimità e di una sacralità propria in quanto “figlio di Lugh” che il druido può riconoscere e certificare ma non creare con la consacrazione, egli è - come nell’antica religione romana - “pontifex”, chiamato a fare da ponte fra la terra e il cielo, ed è per questo che la decadenza di Artù provoca l’isterilimento della terra. Il cristianesimo non ammette altro pontefice (titolo, come ben sappiamo, usurpato dalla romanità) che il vescovo di Roma, sedicente vicario di Cristo.


L’idea della regalità sacrale è una concezione pagana totalmente opposta al cristianesimo; un punto che il filosofo (cattolico) Massimo Cacciari aveva colto molto bene in un’intervista rilasciata al giornalista Maurizio Blondet e da questi riportata nel libro Gli “adelphi” della dissoluzione (2):


“Il cristianesimo è necessariamente sovversivo di ogni potere politico che si pretende autonomo”.


Tanto più allora di una sacralità che non passi attraverso la Chiesa, unica autorizzata interprete “di Dio” su questa terra.


In quell’intervista davvero memorabile, il filosofo-sindaco di Venezia espresse concetti tali da far pensare che solo un opportunismo politico in contrasto con le sue convinzioni profonde l’abbia spinto a militare non solo nel gregge cattolico, ma nell’area politico-culturale di sinistra. Ecco quel che disse allora a Blondet riguardo ai fascismi e alla seconda guerra mondiale:


“Per sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, non ci volle nulla di meno che l’olocausto nucleare. Migliaia di tonnellate di bombe furono necessarie per stroncare Fascismo e Nazismo, “forme di che cercavano di ricollegare la società a un Ethos”.

Poco più sopra, aveva precisato che:
“Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per “etico” o “morale”. Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la “dimora”, l’abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno “etico” per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere (…).


Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è l’immagine di Dike [la dea della Giustizia]. Un ethos impone all’uomo valori che non è a scegliere, a decidere, ma a cui appartiene”.


Un rapporto profondo fra uomo e“polis”, “civitas”, che non solo il cristianesimo ha negato, e infatti Cacciari ci spiega ancora che il cristianesimo: “E’ stato dirompente rispetto a ogni ethos”, ma potremmo addirittura definire il cristianesimo puramente e semplicemente come la negazione dell’ethos, la proiezione dell’ideale morale nella sfera ultraterrena e contemporaneamente nella dimensione soggettiva. In altre parole, come aveva chiaramente intuito Jean Jacques Rousseau: “Il cristianesimo separa l’uomo dal cittadino”.
Quello che dovremmo dunque aspettarci dai fascismi sarebbe un recupero consapevole della simbologia pagana e il rifiuto di qualsiasi tendenza cristianeggiante; purtroppo però spesso le cose non sono affatto andate in questo modo.


In particolare, per quanto riguarda il mito del Graal, a dare forma alla versione cristiana (o cristiano-esoterica) di esso è stato un occultista tedesco vissuto fra le due guerre mondiali, Otto Rahn.


Il Graal sarebbe stato un oggetto connesso alle origini del cristianesimo, anche se non è ben dato di capire cosa, se il calice dell’Ultima Cena, un recipiente in cui qualcuno – pare Giuseppe d’Arimatea – avrebbe raccolto il sangue uscito dal costato di Cristo quando fu trafitto dalla lancia di Longino, o ancora secondo una terza e più fantasiosa versione, il Sang Real, nientemeno che la stirpe dei discendenti di Cristo e Maria Maddalena.


Nessuna di queste tre versioni regge a un’analisi minimamente seria. Se andiamo a rileggere il racconto evangelico vediamo che viene data importanza all’atto della consacrazione, non al contenitore che – ammesso che l’episodio sia realmente avvenuto – sarà stato una comune stoviglia finita dopo la cena nell’acquaio assieme alle altre. Sempre il racconto evangelico demolisce la seconda versione: ci racconta che il costato di Cristo sarebbe stato trafitto post mortem. Da un cadavere in cui la circolazione sanguigna si è interrotta, non possono uscire che poche gocce. Immaginiamoci Giuseppe di Arimatea – che aveva già il contenitore pronto – schizzare a tutta velocità fra le gambe dei soldati romani per raccoglierle, ma stiamo parlando del vangelo o di Asterix? Quanto alla terza versione; noi non abbiamo nessuna notizia storica sulla vita di Cristo risalente a fonti diverse dai vangeli che a loro volta non sono in alcun modo un documento storico attendibile, non possiamo escludere che Gesù Cristo, sempre che sia realmente vissuto, abbia avuto dei discendenti, ma il collegamento che è stato ipotizzato fra ciò e la stirpe reale merovingia è fantasioso e ridicolo.


Accanto a ciò Rahn nel suo libro Crociata contro il Graal (3) presenta una serie di ipotesi una più fantasiosa dell’altra secondo la quale esso sarebbe stato portato nella Francia meridionale, passato in custodia prima degli Albigesi poi dei cavalieri Templari, e la Chiesa avrebbe organizzato la crociata contro gli Albigesi e il processo all’ordine templare precisamente allo scopo di impadronirsene. Tutta la paccottiglia pseudo-esoterica che in tempi più vicini a noi Baigent, Leigh e Lincoln, i tre inglesi autori de Il santo Graal (4) hanno scopiazzato alla grande, e che poi a sua volta Dan Brown ha scopiazzato ne Il codice Da Vinci(5).


Disgrazia vuole che Otto Rahn riuscisse a infinocchiare (scusatemi, ma non riesco a trovare un’altra espressione) nientemeno che il ReichsfuhrerSS Heinrich Himmler che lo nominò ufficiale delle SS ad honorem. Addirittura nel 1944, quando era in corso l’attacco angloamericano alla Francia, Himmler arrivò a distogliere dal fronte una delle migliori divisioni di Waffen SS, la Das Reich spedirla a cercare il santo Graal nei luoghi indicati da Rahn, senza che – ovviamente –venisse trovato nulla.


I “pallini” occultistici di Himmler erano ben lungi dall’essere condivisi dagli altri dirigenti nazionalsocialisti che ne facevano spesso oggetto di ilarità; nonostante ciò, sono serviti dopo la guerra a una caterva di sedicenti storici cialtroni e senza scrupoli i cui capostipiti sono stati nei primi anni ‘60 Louis Pauwels e Jacques Bergier nel libraccio Il mattino dei maghi (6), per costruire l’immagine di un nazismo esoterico e satanista.


Sarebbe forse invece il caso di indagare l’aspetto superstizioso e stregonesco dell’antifascismo, come io ho cercato di fare nel testo Il fascismo secondo Indiana Jones, (http://www.centrostudilaruna.it/il-fascismo-secondo-indiana-jones.html), pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa al quale vi rimando.


In tempi recenti soprattutto il successo planetario mediaticamente ben pompato del Codice Da Vinci Dan Brown e della sua versione cinematografica (una delle pellicole più brutte in assoluto della storia del cinema) ha rilanciato l’idea di un cristianesimo esoterico, idea che è una totale contraddizione, in quanto fino all’avvento dell’islam non è esistita una religione meno esoterica e più plebea del cristianesimo. Gli elementi di questo cristianesimo esoterico sono quelli indicati dal quinto al nono evangelista, ossia Rahn-Baigent-Leigh-Lincoln-Dan Brown: santo Graal, Catari (Albigesi) e cavalieri Templari.


Cosa si debba pensare della versione cristiana del mito del Graal ve l’ho appena spiegato. Quanto ai Catari o Albigesi, essi non furono tanto un movimento ereticale, quanto piuttosto una vera e propria rinascita pagana, l’ho ampiamente spiegato nell’articolo Risorgimento, rinascimento, rinascita pagana (http://www.ereticamente.net/2011/11/risorgimento-

rinascimento-rinascita.html), presente sul sito di “Ereticamente” al quale di nuovo vi rimando.
Riguardo ai cavalieri Templari, c’è un discorso che merita di essere approfondito.

Certamente, al di là delle accuse palesemente infondate che furono loro mosse, al di là del fatto che l’Ordine cavalleresco fu sciolto e i suoi membri incarcerati, torturati e mandati al rogo perché il re di Francia Filippo il Bello e papa Clemente V erano desiderosi di mettere le mani sulle ricchezze che esso aveva accumulato, su di un altro piano c’è verosimilmente una ragione più profonda per tutto ciò.


Gli Ordini cavallereschi, Templari in primis, hanno incarnato una figura di monaco-guerriero, un tipo di spiritualità che la Chiesa ha dovuto evocare in un momento critico della sua storia, ma che rimaneva profondamente estranea al cristianesimo, e di cui si è sbarazzata appena possibile.


Questa figura che non trova corrispondenze di sorta nel cristianesimo né tanto meno giustificazioni“scritturali”, le trova invece molto fuori da esso, nella tradizione indiana ed estremo-orientale. Si pensi per la tradizione indiana alla Bhagavad Gita, il testo sacro incentrato sulla figura del divino guerriero Arjuna, e per quella estremo-orientale, nipponica, al bushido, la via del guerriero, vera e propria via ascetica attuata attraverso l’arte della guerra, che era praticata dai samurai, e che poi durante l’ultimo conflitto mondiale ha animato lo spirito dei kamikaze. Forme di spiritualità, lo si vede bene, assolutamente non rapportabili al cristianesimo.


Anni fa, mi è capitato di trovarmi coinvolto in una discussione piuttosto accesa con una signora che si dichiara “evoliana” e che mi ha rimproverato piuttosto aspramente l’antipatia che non ho mai cercato di nascondere per la religione del Discorso della Montagna. A suo dire infatti, nel corso dei due millenni della sua storia, il cristianesimo si sarebbe incrostato di simbolismi di origine pagana che l’esperto di tradizioni può comunque riconoscere e fruire (?).


Sarà anche, ma perché abbassarsi a un simile compromesso? Perché ricorrere a una copia deformata e mutila quando si può risalire all’originale?


Nel corso della discussione, questa signora si vantò di non leggere altri autori tranne Julius Evola e John R. R. Tolkien (e mi sembrò un’ottima candidata a ritrovarsi in compagnia di Adolfo Morganti a scadenza più o meno breve), e in quel momento mi parve proprio di cogliere l’essenza del tradizionalismo, cioè una mentalità che si crede forte perché è chiusa. A mio parere, la forza non può nascere dalla paura di confrontarsi con altre forme di pensiero. La forza nasce dal coraggio, non dalla paura.


Tuttavia, a questo riguardo, cosa possiamo dire di John Tolkien, autore, come sappiamo, svisceratamente amato dai tradizionalisti sia cattolici sia sedicenti evoliani?
Penso che quello che ho da dire non sarà gradito ai tolkieniani, ma io credo che sia difficile trovare uno scrittore o un uomo qualsiasi in più profonda contraddizione con se stesso di quanto non lo fosse John R. R. Tolkien. Egli dichiarava avversione per il mondo celtico, eppure elementi celtici emergono in quantità dalla sua narrativa; si professava cristiano, eppure il tipo di visione del mondo e di etica che è possibile desumere dai suoi romanzi, è tutto meno che cristiano.


Del celtismo che interpretava solamente come separatismo scozzese, gallese, nord-irlandese, Tolkien aveva un’idea ristretta, e da leale suddito britannico, lo detestava, eppure tutta la sua narrazione rigurgita di elementi celtici: non sono solo le figure di elfi, nani, orchi e troll direttamente provenienti dalla mitologia celtica attraverso il folclore popolare; c’è anche la figura di Gandalf, straordinariamente simile a quella di un druido, e si pensi all’anello di Sauron, un Graal di segno capovolto, non da trovare ma da perdere o distruggere.


Noi sappiamo che qualcuno – come August Derleth – ha cercato di interpretare perfino un autore come H. P. Lovecraft in senso cristiano; era impossibile che John R. R. Tolkien sfuggisse a interpretazioni di questo genere quando egli è stato il primo a fraintendersi.
Noi sappiamo che nel mondo occidentale siamo più o meno tutti “cristiani” sulla carta, perché siamo stati battezzati molto prima che avessimo la capacità di decidere in merito o di dire la nostra opinione, e di solito tendiamo a non dare alla cosa molta importanza, Tolkien però apparteneva alla minoranza cattolica inglese, una minoranza – è risaputo – veramente esigua.


Isociologi ci insegnano che, quanto più una minoranza è ristretta, tanto più è forte il senso di appartenenza ad essa dei suoi membri; un’adesione che può essere anche emotivamente molto forte, come quando si tifa per una squadra di calcio, ma poi bisogna vedere come questo si rapporti a quella che chiameremmo la visione del mondo profonda di una persona, e in qualche caso, come appunto quello di John R. R. Tolkien, può essere che non vi si rapporti per nulla.


L’etica di Tolkien non è cristiana, è di tipo eroico, tradizionale, guerriero, indoeuropeo, che non comanda di porgere l’altra guancia ai nemici, ma di combatterli con le armi in pugno.
Se esaminiamo nel Signore degli anelli (7) la figura di Gandalf, vediamo facilmente che è modellata su quella di Merlino, e assomiglia molto di più a un druido che non a un sacerdote cristiano.


Consideriamo un attimo il rapporto fra Gandalf e Aragorn, è una relazione che implica la pari dignità dell’autorità sacrale “druidica” di Gandalf con quella regale e guerriera incarnata da Aragorn. Questa concezione va contro il cristianesimo che non ammette che le altre funzioni, diverse da quella sacerdotale, possano avere una dignità e tanto meno una sacralità autonoma, ed è invece consonante con la tradizione indoeuropea e celtica. Questo diverso segno si vede bene nella parole del Merlino di Excalibur di John Boorman (sappiamo che Merlino è l’erede della tradizione druidica e che Boorman ha reso bene quanto meno lo spirito del personaggio) che incoraggia Artù dicendogli: “Eppure hai estratto la spada dalla roccia, io non avrei potuto farlo”.


Il potere magico-druidico ha dei limiti che la regalità sacrale può oltrepassare. Artù e Aragorn sono, come il re celtici “figli di Lugh”, portatori di una regalità sacrale che Merlino e Gandalf possono riconoscere e garantire, ma non creare attraverso una consacrazione.
In altre sedi, mi è capitato di definire Tolkien un “celta suo malgrado”, un giudizio che non vedo alcun motivo di modificare. Per quanto ciò possa dispiacere ai moderni esegeti di Tolkien di impostazione cattolica, considerando i tratti druidici della figura di Gandalf e la concezione della regalità sacrale incarnata dalla figura di Aragorn, potremmo dire che l’autore del Signore degli anelli è stato anche un pagano suo malgrado.


In ogni caso, io ritengo sia pericoloso ritenere “un maestro” un uomo in così profonda contraddizione con se stesso, perlomeno bisognerebbe avere le idee ben chiare prima di accostarsi alla sua opera letteraria.


Arrivata in Italia negli anni ‘70, l’opera letteraria di John R. R. Tolkien, per motivi che sono ovvi, subì da parte della cultura di sinistra un pesante ostracismo e boicottaggio, e questo ha fatto sì che “a destra” ricevesse un’accoglienza entusiastica e acritica, al punto che, ad esempio, i raduni di giovani della“destra radicale” furono chiamati “campi hobbit” con riferimento ai personaggi del Signore degli anelli.


Tuttavia negli stessi anni negli Stati Uniti il Signore degli anelli, oggetto di letture di ben altro tipo, era diventato “la bibbia” degli hippy californiani. Perché? Perché, letta in chiave anarchica o almeno anarcoide, la lotta contro Sauron, l’Oscuro Signore, veniva vista come metafora del rifiuto e della lotta contro qualsiasi tipo di potere e di autorità.


Si trattava, come è facile comprendere, di una lettura profondamente falsata e scorretta, perché – bisogna ammetterlo – in Tolkien non c’è per nulla l’esaltazione dell’anarchismo; al potere tirannico di Sauron, infatti, si contrappone l’autorità legittima; l’autorità civile-guerriera di Aragorn e quella magico-sacerdotale di Gandalf.


Tuttavia anche questa è una storia che abbiamo già visto innumerevoli volte: alla menzogna cristiana segue come ulteriore falsificazione la menzogna marxista, c’è tutta la nostra storia degli ultimi due secoli in questo.


Il cristianesimo, spostando il sacro nella sola dimensione del soprannaturale, ha totalmente desacralizzato l’esistenza, è ancora Massimo Cacciari a dircelo:


“Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra (...). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell’Antichità e dei suoi valori; esso spezza definitivamente i legami fra gli Dei e la società. L’ethos antico era una religione civile (...). Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l’uomo (…). Uno stato doloroso: il Cristianesimo getta l’uomo nella libertà come un è gettato in [un] mare in tempesta”.


Le rare volte in cui sono in vena di sincerità, questi cristiani merita proprio di stare a sentirli. Esprimendo una linea di pensiero molto simile a quella esposta da Cacciari, nel libro Ipotesi su Gesù, Vittorio Messori ammette che “Quando i pagani accusavano i cristiani di essere atei, avevano perfettamente ragione” (8).


Per noi, che ci siamo assunti il compito di “ricollegare la società a un ethos”, miti e simboli pagani ancora presenti nella nostra cultura rappresentano un deposito prezioso da trasmettere e rivitalizzare, ma proprio questo impone di stare attenti alle contaminazioni cristiane.
 
Note
 
Antonio Brancati: Popoli e civiltà, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze 1990, pag. 49-51.
Maurizio Blondet: Gli “adelphi” della dissoluzione, Ares, Milano 2000.
Otto Rahn: Crociata contro il Graal (Kreuzzug gegen den Graal), Barbarossa, Saluzzo 1979.
Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln: Il santo Graal (The Holy Blood and the Holy Grail), Rizzoli, Milano 2005.
Dan Brown: Il codice Da Vinci (The Da Vinci Code), Mondadori, Milano 2003.
Louis Pauwels, Jacques Bergier: Il mattino dei maghi (Le matin des magiciens), Mondadori, Milano 1997.
John R. R. Tolkien: Il signore degli anelli (The lord of the Rings), Bompiani, Milano 2003.
Vittorio Messori: Ipotesi su Gesù, SEI, Torino 1976.
 
Fabio Calabrese
www.ereticamente.net
 

Alain Soral sur Russian TV

 

Alain Soral sur Russian TV

Krieg ums Öl

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Krieg ums Öl

Ex: http://www.zuerst.de/

Der Ring der Sanktionen schließt sich enger um den Iran. Doch nicht nur Teheran ist das Ziel, es sind auch dessen Handelspartner in Kontinental­europa und Fernost

Mit beängstigender Zwangsläufigkeit scheint ein Krieg gegen Iran näher zu kommen. Immer aggressivere Sprüche aus Israel, immer mehr US-Kriegsschiffe im Persischen Golf, immer mehr Abschnürung durch Sanktionen.

Vor allem trügt der Eindruck, der uns in den westlichen Medien vermittelt wird, wonach der Iran zunehmend isoliert sei. Bei der Berichterstattung über immer neue Sanktionen muß man nämlich auch das Kleingedruckte beachten: Es handelt sich hierbei keineswegs um UN-Sanktionen, die von allen UN-Mitgliedstaaten beachtet werden müssen. Vielmehr sind es exklusive Sanktionen der USA und der EU, die andere völkerrechtlich nicht binden. Die letzte Sanktionsrunde des UN-Sicherheitsrates datiert vom Juni 2010. Damals wurden alle Zulieferungen zum iranischen Atomprogramm verboten (plus einige Reisebeschränkungen). Seither konnte man sich in diesem höchsten Gremium der Vereinten Nationen auf keine weiteren Strafmaßnahmen einigen – und seit die Libyen-Resolution von den NATO-Mächten zu einem blutigen „Regime-Change“ mißbraucht wurde, ist eine Zustimmung von China und Rußland zu irgendetwas Ähnlichem, was Iran oder Syrien angeht, gleich null.

Die Sanktionen des Jahres 2011, beschlossen ausschließlich von Nordamerikanern und Europäern, betreffen anders als die der UN nicht das iranische Atomprogramm, sondern den gesamten Energiesektor, insbesondere Benzinlieferungen. Der Iran, obwohl über reiche Vorkommen an Schwarzem Gold verfügend, hat nämlich Engpässe bei der Raffinierung des Rohöls, weswegen der Treibstoff für Nutzfahrzeuge und PKWs übers Ausland eingeführt werden muß. Das Erpresserische an diesen exklusiv-westlichen Sanktionen ist: Sie bedrohen auch Firmen von Drittstaaten, die sich nicht daran halten, mit Strafen. Ein chinesisches Unternehmen, das weiter mit dem Energiesektor Irans Geschäfte macht, muß damit rechnen, in den USA auf hohe Summen verklagt zu werden und im Fälligkeitsfall dafür mit seinen Vermögenswerten in den USA zu haften. Allerdings: Gegenüber chinesischen (oder indischen oder russischen) Firmen, die keine Niederlassungen in den NATO-Staaten haben, bleiben diese Sanktionen zahnlos. Am härtesten gehen die Briten vor, die mittlerweile jede Form von Finanztransaktion mit Iran verboten haben. Damit ist jeder bilaterale Handel unmöglich geworden, weil es kein Finanzinstitut mehr gibt, über das Exporte fakturiert oder versichert werden können. In den USA wird im Zweifelsfall mehr gebellt als gebissen: Das neue, vom Kongreß verabschiedete Sanktionsgesetz hat Präsident Barack Obama mit einer Zusatzklausel versehen, die ihm das Recht gibt, Sanktionen auch auszusetzen oder nicht anzuwenden. So will er verhindern, daß im Falle einer Krise die Öl-zufuhr aus dem Persischen Golf nicht aufgrund iranischer, sondern amerikanischer Maßnahmen gebremst wird, in der Folge der Ölpreis explodiert – und dann seine Chancen bei den Präsidentschaftswahlen im November 2012 in den Keller sinken. Dies ist ein gutes Beispiel, wie persönliche oder parteipolitische Interessen manchmal auch kriegsverhindernd wirken können – zumindest bis zum Urnengang.

Die Merkel-Regierung hat sich, in deutlichem Kontrast zu ihren Vorgängern, den Sanktionsvorstößen Wa-shingtons und Londons in der Regel schnell gebeugt. So haben fast alle Banken ihre Geschäftsbeziehungen mit dem Iran eingestellt; im Frühjahr 2011 wurde mit Sanktionen gegen die Europäisch-Iranische Handelsbank (EIHB) mit Sitz in Hamburg eines der letzten Schlupflöcher im Sanktionenwall geschlossen – nach massivem Druck aus Israel und Großbritannien. Im September 2011 berichtete Die Zeit: „Viele deutsche Konzerne ziehen sich aus Iran zurück – obwohl das Geschäft lukrativ ist.“ So stoppte der Vorstand von Thyssen-Krupp alle Beziehungen zu iranischen Kunden – ohne den Aufsichtsrat zu informieren und obwohl Iran immer noch mit 4,5 Prozent Mit-eigentümer des Stahl-Konzerns ist! Zuvor hatten bereits die Münchener Rück, Linde und die Allianz ihren Rückzug aus Persien erklärt. Siemens kündigte im Frühjahr 2011 an, keine Neuaufträge aus dem Iran mehr anzunehmen, Daimler wollte stark reduzieren. Die Zeit schreibt über die Motive der deutschen Bosse: „Sie wollen nicht ihr Amerika-Geschäft aufs Spiel setzen, nur um weiterhin Geschäfte mit den Mullahs und Präsident Mahmud Ahmadinedschad zu machen. Zu groß ist der politische Druck, vor allem aus den USA. Thyssen-Krupp setzt in Amerika jährlich 4,9 Milliarden Euro um – und künftig wird es noch mehr sein. Der Konzern baut in Alabama ein neues Stahlwerk. In Iran beläuft sich der Jahresumsatz auf weniger als 200 Millionen Euro.“ Man möge beachten: Keines dieser Geschäfte betraf das von der UN sanktionierte Atomprogramm, alles spielte sich im Bereich der zivilen Wirtschaft ab! Trotzdem führt das Powerplay der Amerikaner dazu, daß Deutschland ein Exportmarkt mit (bis 2005) fünf Milliarden Euro Umsatz wegbricht.

Da der Iran die deutschen Einfuhren und Dienstleistungen – allerdings mehr schlecht als recht – durch russische, indische oder chinesische Partner ersetzen kann, bleibt der Verdacht, daß die Sanktionen weniger auf die Mullahs als auf die Krauts (und andere US-Konkurrenten) zielen. Im Hintergrund steht die unterschiedliche Energie-Abhängigkeit vom Golf. Die USA beziehen etwa ein Viertel ihrer Ölimporte vom Golf, ein weiteres Viertel aus Venezuela, der Rest verteilt sich auf Afrika (zunehmend) und Kanada, Mexiko und die EU-Nordsee (abnehmend). Noch stärker abhängig vom Golföl sind die asiatischen Staaten wie Japan und China. Die Bundesrepublik hingegen bezieht mehr als ein Drittel ihres Öl- und Gasbedarfs aus Rußland und den GUS-Staaten (Tendenz stark steigend) und ein knappes weiteres Drittel aus der Nordsee (Tendenz stark fallend), die Golfstaaten und Iran rangieren nur unter ferner liefen. Betrachtet man die Importe und insbesondere die Energieimporte, bilden sich also grob zwei geopolitische Achsen heraus: einerseits zwischen Nordamerika (plus Südasien) und dem Golf, andererseits die „Verkoppelung des europäischen Wirtschaftsraums mit dem russischen Rohstoffraum“ (Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik).

Bei den Exporten ergibt sich ein anderes Bild. Die deutschen Exporte in die Golfregion bestehen vor allem aus Industrieanlagen(technik), Fahrzeugen und Maschinen. Die US-Exporte werden hingegen von der Rüstungs­industrie dominiert. Der jährlich zehn Mil-liarden Dollar schwere Rüstungsmarkt in Saudi-Arabien ist überwiegend in US-Hand, außerdem zahlt Riad an die US-Amerikaner beträcht­liche Stationierungskosten für die GIs. Kurz gesagt: Im deutschen Export ­dominiert das zivile Element, im US-­Export ist es umgekehrt. Die USA würden von einem Krieg profitieren und ihn wegen ihrer Ölabhängigkeit vom Golf gegebenenfalls auch benötigen; bei Deutschland ist beides nicht der Fall.

Deutsche und amerikanische Interessen in der Region sind also gegensätzlich: Für die US-Industrie ist sie wegen des Imports billigen Öls unersetzlich, während sie für die deutsche Industrie als Absatzmarkt teurer Maschinen interessant ist. Je billiger das Öl, umso geringer die Öleinnahmen der Golf-Staaten, umso geringer ihr Budget zum Kauf deutscher Maschinen. Je verhaßter die herrschenden Eliten, umso mehr sind sie zur Sicherung ihrer Pfründe auf US-amerikanische Militärhilfe angewiesen, umso besser laufen die Geschäfte für die US-Rüstungsindustrie. Für die USA sind korrupte Bereicherungsdynastien vom Typ Saudi-Arabien ideal, die das Öl verschleudern und von US-Bajonetten geschützt werden müssen.

Katerina Stavrapoulos

Recuperare l’unità della coscienza contro la deriva del soggettivismo e delle “scienze umane"

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Recuperare l’unità della coscienza contro la deriva del soggettivismo e delle “scienze umane"

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

La coscienza dell’uomo moderno si trova presa in trappola tra due forze apparentemente opposte: da un lato quella del soggettivismo, dell’individualismo e del nominalismo, che nega la possibilità di conoscere alcunché, e dunque - a maggior ragione - la coscienza, se non come semplice nome; e quella delle sedicenti “scienze umane”, e specialmente dello strutturalismo, le quali, in nome di una visione oggettivistica dei fatti interiori, ridotti a semplici prodotti di norme e divieti imposti dall’esterno, vorrebbe azzerare la coscienza individuale in quanto tale e farne un semplice prodotto di risulta.

Diciamo che si tratta di “forze” perché, penetrando nella cultura del cittadino medio e venendo continuamente enfatizzate dalla grande maggioranza degli intellettuali, specialmente filosofi e psicologi, esse sono entrate a far parte del nostro modo di pensare e di sentire e non si delineano più semplicemente come l’orizzonte culturale entro il quale pensiamo, agiamo e viviamo, ma come parte del nostro immaginario e del nostro stesso sentire, cioè come parte del nostro essere.

Presa in una simile tenaglia, la coscienza dell’uomo moderno si è notevolmente modificata rispetto a quella dell’uomo pre-moderno; e, se la prima di queste due forze ha avuto l’effetto di relativizzare al massimo i suoi legami con il mondo, la seconda ha prodotto quello di opprimerla sotto il peso di un destino ineluttabile, o all’opposto (ma sono le due facce di una stessa medaglia) di consegnarla, per reazione, al più disordinato relativismo e al più egoistico indifferentismo.

Il soggettivismo moderno incomincia con Kant e si afferma con l’idealismo di Fichte ed Hegel: inizia con la negazione della cosa in sé e della metafisica e culmina con la delirante dottrina secondo cui non è la realtà a creare il pensiero, ma il pensiero a creare la realtà. A partire da quel momento, la strada era aperta per ogni fumisteria solipsistica: le cose non sono quelle che sono perché possiedono una propria natura, ma perché attraverso di esse si manifesta l’Idea: Idea che, a dispetto della lettera maiuscola, non è affatto un dato metafisico, ma una sorta di manifestazione superomistica (ante-litteram) del pensiero medesimo.

E così via di questo passo: deducendo, l’una dall’altra, tutta una serie di conseguenze sempre più improbabili, l’idealismo se ne va dritto per la sua strada, costruendo un castello di affermazioni gratuite, che si arrampicano l’una sopra l’altra, per niente preoccupato che il primo soffio di vento possa far crollare un edificio così pericolosamente sbilanciato e del tutto privo di solide fondamenta.

Le scienze umane - le quali, già nella definizione, tradiscono la matrice positivista -, da parte loro, hanno largamente avvalorato l’idea che il comportamento dell’uomo non sia che il frutto di un condizionamento da parte della società o che sia il risultato di istinti sui quali egli ha uno scarso controllo, oppure l’una e l’altra cosa insieme: in ogni caso, quel che emerge è una realtà umana impoverita, compressa, alienata da se stessa, condannata o ad un conformismo avvilente o ad una rivolta velleitaria, in nome di una autenticità che, di fatto, non è mai esistita.

Nessuna meraviglia che, in una simile prospettiva, l’io dell’uomo moderno appaia frammentato, disgregato, dissolto: che cosa resta dell’uomo, una volta che gli siano state strappate via le varie maschere, se non il nulla?

E che cosa può giustificare da parte sua, una determinata scelta etica, se in nessun caso il soggetto sceglie liberamente, ma agisce sempre sotto la duplice, inesorabile tirannia delle istituzioni sociali e dei propri stessi, inconfessabili istinti?

Ci sembra meritevole di riflessione quanto scrive a questo proposito Giannino Piana nell’articolo «La coscienza nell’attuale contesto culturale» (in: «Credere», Edizioni Messaggero, Padova, n. 128, vol. 2 del 2002, pp. 7-10):

 

«La cultura moderna è contrassegnata, fin dall’inizio e in tutte le sue fasi, dalla riduzione del soggetto a individuo, alla mancanza di una visione “personalista” del soggetto, la sola in gradi di fare immediatamente spazio (interpretandola non come dato accidentale ma come fattore costitutivo) alla dimensione della relazione e sociale. Vi è chi - non a torto - tende a far risalire tale riduzione all’influsso del Nominalismo, cioè alla negazione che esso fa dell’esistenza di ogni dato oggettivo (a causa della impossibilità di pervenire all’elaborazione di concetti che abbiano una consistenza reale, che non siano meri nomi o semplici “flatus vocis”), perciò a una lettura radicalmente “singolare” della realtà e alla riconduzione dell’ordine esistente a una realtà onnipotente, cin significative ricadute tanto su piano etico che politico.

La definitiva soppressione del concetto di “natura” (e conseguentemente di diritto naturale”) coincide con la nascita del “diritto soggettivo” come unico referente della vita sociale:l’antropologia individualista non consente di fondare la società a partire dal’essenza del soggetto, ma ne impone l’accettazione unicamente come condizione per lo sviluppo delle istanze individuali; la mediazione dei diritti soggettivi, cioè la imitazione della loro area di estensione diviene pertanto la via che rende possibile a tutti l’accesso a una loro (sia pire parziale) fruizione. La visione pessimistica dell’uomo propria della Riforma accentua tale tendenza, identificando il diritto soggettivo con il luogo di concentrazione degli istinti individuali e dei desideri egocentrici. Le teorie contrattualiste - a partire da Hobbes - fanno proprio questo assunto, impegnandosi, mediante il “patto sociale”, nella costruzione di un ordine, che consenta il superamento del “bellum omnium contra omnes”, che renda in altri termini possibile l’articolarsi di una forma di convivenza ordinata e pacifica

Il presupposto individualistico trova poi ulteriore conferma (e grande consolidamento) con l’avvento dell’industrializzazione e con l‘affermarsi del sistema capitalista. L’egoismo intellettuale sembra costituire la molla da cui l’attività economica prende avvio, e la stessa scienza economica, che si sviluppa in tale contesto fa dei princìpi della proprietà privata e della massimizzazione della produttività e del profitto le leggi “naturali” che devono governare la vita economica. L’interesse generale non rientra direttamente negli obiettivi dell’economia, ma viene piuttosto concepito o come l’esito automatico del ibero mercato si pensi al teorema della “mano invisibile” che ridistribuisce quanto viene prodotto (A. Smith) - o con una variabile con cui fare i conti per ragioni puramente economiche, considerando cioè i riflessi negativi prodotti dall’eccesso di sperequazione in termini di disagio e di conflittualità sociale.

Questo insieme di fattori si riflette in una lettura radicalmente soggettivistica della coscienza: : essa, lungi dall’essere vista come fonte originaria di una identità - quella del soggetto - che prende senso e si costruisce in un tessuto di relazioni, risulta espressione di una individualità chiusa e autosufficiente; la necessità di fare i conti con istanze derivanti dalla presenza  dell’altro (e degli altri) ha infatti carattere  del tutto esteriore ed è motivata da ragioni meramente utilitariste. La coscienza non è soltanto l’ultimo criterio della verità, è il criterio unico (ed esclusivo) del suo esercizio. L’affermazione “decido secondo coscienza” rispecchia questa convinzione: il riferimento a un ordine oggettivo è ritenuto superfluo (e persino deviante), l’agire ha nell’individuo la sua sorgente e si esaurisce in esso; tutto il resto è legato esclusivamente a ragioni di convenzione sociale, ragioni che non intaccano  la soggettività delle scelte.

Questa spinta soggettivista si scontra peraltro - sta qui ilo carattere paradossale della situazione attuale - con l’opposta tendenza alla radicale oggettivazione della coscienza, provocata soprattutto dall’interpretazione (o dalle interpretazioni) che di essa ci forniscono le scienze umane. La psicologia, quella del profondo in particolare, pone l’accento sull’importanza che riveste il processo di formazione della personalità : la coscienza morale altro non è che l’introiezione del super-io sociale, l’assimilazione cioè di comandi e di divieti, che non hanno origine nell’interiorità del soggetto, ma sono il prodotto del condizionamento esercitato dal mondo esterno di cui il soggetto si appropria in nome del “principio di realtà”. A loro volta, le scienze sociali e culturali – basti qui ricordare l’antropologia d’ispirazione funzionalista - sottolineano la pesantezza degli influssi esercitati dalle strutture e dalle istituzioni della vita associata e, più in generale, dal costume dominante, cioè dagli stili di vita e dai modelli di comportamento, sulla condotta dei singoli; mentre gli stessi sviluppi elle scienze biologiche - si pensi alla fisiologia dei vari apparati e allo studio delle interazioni che tra essi si istituiscono - svelano la dipendenza dell’agire dell’uomo da dinamismi istintuali che producono forme di reazione immediata, difficilmente controllabili a livello razionale. La coscienza risulta così essere più il riflesso dell’insieme delle pressioni esercitate da un insieme di fattori - endogeni o esogeni - guidati, in ogni caso, da logiche deterministiche che una realtà dotata di consistenza originaria e autonoma, da cui prende forma il giudizio e la decisione morale. È come dire - ed è questa la posizione più radiale (e tuttavia, in tale ottica, coerente) espressa dallo strutturalismo - - che essa si riduce a eventi del tutto sovrastrutturale, a epifenomeno, la cui genesi e i cui caratteri distintivi vanno ricercati altrove; nel’influenza di un complesso intreccio di elementi, il peso di ciascuno dei quali è inoltre difficilmente valutabile. Al di là della convergenza attorno a questa visione, che svuota la coscienza della sua identità soggettiva, e pertanto la reifica, diverse sono le modalità descrittive che si danno di essa a seconda che si privilegi l’una o l’latra tecnica di approccio;  la tendenza elle scienze umane, guidate nella ricerca e nella elaborazione dei dati da inevitabili precomprensioni metascientifiche, è infatti quella di trasformarsi in ideologie totalizzanti, dando vita a un “conflitto delle interpretazioni” che ha come sbocco  la riduzione della coscienza alla realtà dell’inconscio op al riflesso condizionato dei modelli sociali  e culturali egemoni.

L’oggettivazione della coscienza comporta per ciò stesso la negazione della moralità: sottraendo all’uomo  quel principio interiore che dà senso autenticamente  umano all’agire e riducendolo alla risultante di condizionamenti indotti dalla pressione di fattori diversi (e in ogni caso decisivi), si perviene allo svuotamento  totale della soggettività umana, perciò all’ammissione dell’impossibilità  di attribuire contenuto etico alle scelte…»

 

Giannino Piana, dunque, dopo aver fatto una analisi a nostro avviso largamente condivisibile della situazione attuale, considera tuttavia “paradossale” la confluenza di soggettivismo e scienze umane  nell’espropriazione del senso di unità e di interiorità della coscienza che caratterizza la cultura moderna.

Ma è proprio vero che si tratta di un dato paradossale, ossia di un dato che scaturisce in maniera imprevista dall’azione reciproca delle forze in gioco? Vediamo.

Il nominalismo, che parte dalla negazione di una realtà conoscibile in se stessa, si sposa, come egli ben mette in evidenza, con l’utilitarismo sul piano etico  e con il liberalismo sul piano politico-sociale. Ora, tanto l’utilitarismo quanto il liberalismo sono ideologie dell’egoismo individuale: per esse l’individuo è tutto, la società non è altro che lo sfondo in cui egli si muove e che deve assicurargli il massimo della sicurezza e del soddisfacimento dei suoi “diritti”.

In particolare, il liberalismo è parente stretto di una ideologia politica che, a torto, si considera come radicalmente antitetica ad esso, l’anarchismo: in realtà, esse hanno in comune l’interesse esclusivo per i diritti del singolo, la diffidenza verso l’altro, il fatto di ritenere lo Stato come un male inevitabile, ma da ridurre al minimo (liberalismo) o da eliminare del tutto (anarchismo). Adam Smith e Max Stirner sono molto più simili di quanto non si creda e hanno più cose in comune di quante ve ne siano a dividerli.

Entrambe le ideologie negano un’etica che si basi sulla relazionalità dei soggetti e che rappresenti l’autentico compimento della coscienza individuale, ciò che fa dell’uomo una “persona” e non un atomo isolato o, come voleva Leibniz (ma anche Freud), una monade senza porte e senza finestre; ed entrambe tentano poi, goffamente, di reintrodurre in qualche modo, dalla finestra, ciò che avevano cacciato dalla porta: il liberalismo, tirando in ballo la stravagante teoria per cui il massimo dell’egoismo individuale produrrebbe anche, chissà come, il massimo del bene comune; l’anarchismo, sposandosi - ma solo a parole - con il suo esatto contrario, il comunismo, e dando vita al comunismo anarchico di Kropotkin e Malatesta.

In ogni caso, il nominalismo porta al soggettivismo e quest’ultimo porta all’accentuazione ipertrofica delle ragioni dell’ego, nello stesso tempo in cui tende a svalutare la presenza dell’altro o, addirittura, a vederla come un impedimento e un ostacolo: c’è un filo rosso che lega, con assoluta coerenza, l’affermazione di Freud, secondo cui il comandamento di amare il prossimo come se stessi è assurdo, perché irrealizzabile, e quella di Sartre, che vede negli altri la manifestazione del nostro particolare inferno.

Le scienze umane, poi, per il modo stesso in cui sono sorte e si sono affermate e per il contesto culturale che le ha prodotte, dominato dall’ideologia del Positivismo, hanno esasperato la componente esterna nella formazione della coscienza, fino a suggerire che, senza tale azione proveniente dalla società, gli uomini sarebbero più o meno privi di una coscienza originaria e, con essa, di un senso profondo ed autentico del bene e del male, riducendoli a oggetti passivi ed inermi davanti a delle forze molto più grandi di loro.

Preso fra un inconscio oscuro e minaccioso, che lo domina con i suoi impulsi tanto più potenti, quanto più ci si sforza di reprimerli, ed una pressione sociale continua, sistematica, soffocante, l’uomo finisce per ridursi alla condizione di un grottesco burattino, agitato da ogni vento e sbattuto di qua e di là, senza una volontà propria, senza una capacità di distinguere, e tanto meno di scegliere, fra il bene e il male: per cui egli agisce come capita, «non si sa come» (parafrasando Pirandello), in maniera bizzarra, capricciosa, imprevedibile.

Ed è logico che così avvenga: se la coscienza non esiste come dato originario, o se essa è per noi inattingibile, e - dunque - si riduce a una mera ipotesi indimostrabile, allora non bisogna aspettarsi alcuna coerenza, alcuna progettualità, alcuna logica nelle azioni umane: esse avvengono a capriccio, incomprensibilmente, sul filo dell’istinto o della nevrosi cui il conflitto permanente e insolubile tra Es e Super-Io ci tiene costantemente impegnati e lacerati.

Oppure si prenda il caso delle terapie psicologiche moderne (per distinguerle da quelle che sono sempre esistite, sia presso i popoli tribali, ad esempio con i riti d’iniziazione, sia presso il mondo classico, ad esempio con la catarsi provocata nel pubblico dalla tragedia greca): come è possibile che possano essere realmente d’aiuto all’uomo, se esse partono dall’assunto pregiudiziale che non vi sia alcuna anima da guarire, alcuna coscienza da ricostituire, ma soltanto delle funzioni psichiche da ripristinare, in base ad una valutazione arbitraria ed egoistica di ciò che è utile, e non di ciò che è vero, buono e giusto?

Ebbene, non ci sembra che la convergenza di soggettivismo e oggettivazione esasperata si possa definire un fatto paradossale, perché in essa vi è una logica piuttosto chiara e lineare: se il nominalismo sostiene che non possiamo conoscere nulla di reale e il suo naturale erede, il soggettivismo, afferma che dobbiamo agire in base al nostro interesse e non in base alla scelta tra il bene e il male, allora il soggettivismo estremo viene a completarsi naturalmente nelle dottrine dell’oggettivazione, secondo le quali possiamo misurare i fattori che agiscono su di noi, sia dall’interno che dall’esterno, ma non rispondere ad essi con una decisione della coscienza, poiché quest’ultima non è che una vuota parola che diamo, sostanzializzandola, alla rete di influssi che operano su noi sia dall’esterno, sia dall’interno.

Il punto estremo del nominalismo, la filosofia del linguaggio che riduce le cose a frasi logicamente consequenziali, si tocca con il punto estremo dell’oggettivismo, ossia quello strutturalismo che fa sparire il soggetto come sorgente di coscienza e volontà e lo riduce a passiva appendice di forze molto più grandi, che agiscono su di lui a senso unico.

Che sia andata smarrita l’unità della coscienza è un male, perché, con buona pace di certo agnosticismo e di certo relativismo etico, tale smarrimento ha accentuato il senso di solitudine, di impotenza e di frustrazione dell’uomo moderno e ha trasformato la sua vita sociale in un deserto popolato di incubi, di nemici da abbattere o di schiavi da sottomettere.

Quando capiremo che la rifondazione della coscienza, il recupero della sua unità e della sua originaria autonomia, sono i compiti più urgenti che ci dobbiamo dare per il prossimo futuro?

Quando capiremo che ogni altra preoccupazione, che ogni altra indagine, al confronto, sono qualcosa di simile alle dispute sul sesso degli angeli, mentre Costantinopoli stava per cadere?

00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, individualisme, solipsisme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Romney ou Obama: c’est du pareil au même!

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Romney ou Obama: c’est du pareil au même!

Entretien avec l’analyste canadien Eric Walberg

Q.: Monsieur Walberg, Barack Obama et Mitt Romney sont-ils les meilleurs hommes que l’élite américaine est capable de mettre en avant aujourd’hui?

EW: Tous les deux sont intelligents, possèdent l’art de la rhétorique et ont été bien formés. Le problème est le suivant: le projet impérial américain a échoué, tant et si bien que même un génie politique ne pourrait rien faire. Lorsque je converse avec des Américains moyens, je suis de plus en plus choqué par les vues pré-programmées qu’ils me débitent. Le mot pour désigner cette situation, qui me vient en tête, c’est: “lavage de cerveau”.

Q.: Ron Paul, candidat républicain à la présidence, serait-il dès lors le meilleur choix possible?

EW: Lui aussi est un homme politique intelligent, bon rhéteur, talentueux et bien formé. Mais il n’est pas un véritable candidat parce qu’il veut littéralement miner deux piliers essentiels du projet impérial: les banques et l’armée. Aucun président ne peut toucher à ces piliers. Quant à l’idéalisme libertaire de Ron Paul, il est aussi incongru que la foi des établis dans la rectitude du projet impérial.

Q.: Pourquoi n’y a-t-il pas de candidat, qui ait la chance de réussir, et qui représenterait un tiers parti (ou une “troisième voie”), ou un canddidat indépendant, qui pourrait obtenir un score significatif?

EW: La prétention qu’ont les Etats-Unis d’être une démocratie relève de la foutaise. Les Etats-Unis sont aujourd’hui dominés par quelques personnes, qui appartiennent à l’élite dirigeante et qui ne tolèrent qu’une certaine marge de manoeuvre, réduite, soit seulement des ajustements très fins et aucun bouleversement d’envergure. Le carnaval des élections est entièrement dominé par le facteur argent.

Q.: A votre avis, que devra faire l’électeur américain le jour des élections, le mardi 6 novembre 2012?

EW: Il devra voter comme il l’entend, sauf pour les deux principaux “républicrates”. Car que ce soit Romney ou Obama, c’est du pareil au même.

(entretien paru dans “DNZ”, Munich, n°4/2012, 20 janvier 2012).

mardi, 31 janvier 2012

Halte à l'immigration des Renault marocaines

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Halte à l'immigration des Renault marocaines

Que font Eric Besson et Claude Guéant pour nous protéger?

Marc Rousset
Ex: http://www.metamag.fr/

Alors que la production automobile de Renault recule dans l’hexagone, l’usine géante de Melloussa, au Maroc, dans la zone franche du port de Tanger, commence à produire des voitures  "low-cost" sous la marque Dacia avec une capacité de 340 000 véhicules par an. Le site a pour vocation d’exporter 85% de la production vers le vieux continent. Cette usine marocaine vient s’ajouter au site roumain de Pitesti, qui produit 813 000 voitures par an. Renault et les équipementiers de la région de Tanger pourraient créer 40 000 emplois !

Le salaire net mensuel d’un ouvrier marocain est de 250€/mois, contre 446€ en Roumanie. Le coût salarial horaire d’un ouvrier dans les usines Renault est de 30€/heure en France, 8 €/heure en Turquie, 6 €/heure en Roumanie et, surprise, 4,5 €/heure au Maroc, à deux jours de bateau des côtes françaises!

C’est la raison pour laquelle le monospace « Lodgy 5 ou 7 places » (10 000€), fabriqué à Melloussa, sera deux fois moins cher que le Renault Grand Scenic (24 300€), assemblé à Douai. Il ne fait donc aucun doute qu’à terme , suite au rapport qualité/prix et en faisant abstraction de quelques gadgets marketing et des dénégations du Groupe Renault,  les consommateurs français, s’ils ne sont pas trop bêtes, achèteront des  Lodgy fabriquées au Maroc. En lieu et place des Grand Scenic fabriquées à Douai ! Bref, une délocalisation élégante supplémentaire, avec  les miracles et les mensonges de la pub et du marketing comme paravent.


Usine Renault à Tanger

Que faire ? Qui incriminer ? Certainement pas Carlos Ghosn et les dirigeants de Renault, qui font parfaitement leur travail ,avec les règles du jeu actuel. Ils doivent rendre compte à leurs actionnaires et affronter une concurrence terrible, la survie du Groupe  Renault étant même en jeu s’ils ne délocalisent pas.

Non, les responsables sont les citoyens, nous qui acceptons cette règle économique du jeu. Les principaux coupables sont nos hommes politiques incapables, gestionnaires à la petite semaine avec un mandat de 5 ans, subissant les pressions du MEDEF et des médias, à la solde des entreprises multinationales, et les clubs de réflexion, tout comme le lobby des affaires à Washington et à Bruxelles.

Mise en place d'une préférence communautaire

Les hommes politiques des démocraties occidentales ne sont pas des hommes d’Etat, mais des gagneurs d’élection. Ils ne s’intéressent en aucune façon aux intérêts  économiques à long terme de la France et de l’Europe. Ils attendent tout simplement la catastrophe du chômage structurel inacceptable et la révolte des citoyens pour réagir, comme cela a été le cas en Argentine et avec la crise des dettes souveraines.

Voilà ceux qui sont à l’origine du mal et nous injectent délibérément  car conforme à leurs intérêts  financiers, le virus, le venin destructeur malfaisant du libre-échange mondial! Celui-ci doit laisser sa place, d’une façon urgente, à un libre-échange strictement européen ! Il faut changer le modèle, sans attendre la disparition totale de notre industrie, mais en mettant en place des droits de douane au niveau européen, selon le principe de la préférence communautaire formulé par notre prix Nobel d'économie, Maurice Allais.

Même l’Allemagne ne réussira pas, à terme, à s’en sortir avec le libre-échange mondial. Elle résiste encore, car elle  n’a pas fait les mêmes bêtises que les autres pays européens mais, à terme, elle sera également  laminée par la montée en puissance de l’éducation et le trop bas coût de la main d’œuvre dans les  pays émergents. Aux Européens de savoir préserver les débouchés de leur marché domestique suffisamment grand pour assurer un minimum d’économies d’échelle! La « théorie des débouchés »  va très vite revenir à l’ordre du jour.

La théorie des avantages comparatifs est morte

La vieille théorie des «avantages comparatifs», de Ricardo, n’a plus grand-chose à voir avec la réalité. Pour la première fois dans l’histoire du monde, des Etats (la Chine, l’Inde et le Brésil) vont en effet posséder une population immense ainsi qu’une recherche et une technologie excellentes. L’égalisation par le haut des salaires, selon la théorie de Ricardo, n’ira nullement de soi, du fait de « l’armée de réserve » -rien qu’en Chine de 750 millions de ruraux, soit 58% de l’ensemble de la population- capable de mettre toute l’Europe et les Etats-Unis au chômage. 300 millions d’exclus vivent, selon la Banque asiatique du développement, dans l’Empire du milieu, avec moins d’un 1€ par jour. La Chine ne se classe qu’au 110e rang mondial du PIB par habitant.

Ce ne sont pas quelques succès épars européens mis en avant par les médias, dans la mode ou le luxe, qui doivent nous faire oublier le tsunami du déclin des industries traditionnelles en Europe: quasi disparition des groupes Boussac, DMC et de l’industrie textile dans le Nord de la France, de l’industrie de la chaussure à Romans, de l’industrie navale, des espadrilles basques... Les pays émergents produiront inéluctablement, de plus en plus et à bas coût, des biens et des services aussi performants qu’en Europe ou aux Etats-Unis. Les délocalisations deviennent donc structurelles et non plus marginales !

Le problème de fond du déficit commercial de la France n’est pas lié au taux de change de l’euro, mais au coût du travail. Le coût horaire moyen de la main d’œuvre dans l’industrie manufacturière est de l’ordre de vingt dollars en Occident contre 1 dollar en Chine ! Un ouvrier en Chine travaille quatorze heures par jour, sept jours sur sept. 

Les mensonges du MEDEF et de Bruxelles

La mise en garde contre le protectionnisme avancée par les lobbys du MEDEF et des multinationales -25% des Français travailleraient pour l’exportation- est un mensonge d’Etat parfaitement réfuté par Gilles Ardinat dans le Monde Diplomatique de ce mois . Il y a une confusion délibérée entre valeur ajoutée et chiffre d’affaires des produits exportés. En vérité, 1 salarié français sur 14 vit pour l’exportation en France !

Dans un système de préférence communautaire, l’Europe produirait davantage de biens industriels et ce que perdraient les consommateurs européens dans un premier temps, en achetant plus cher les produits  anciennement « made in China », serait plus que compensé par les valeurs ajoutées industrielles supplémentaires créées en Europe. Ces dernières augmenteraient le PIB et le pouvoir d’achat, tout en créant des emplois stables et moins précaires, système que la CEE a connu et qui fonctionnait très bien. Alors, au lieu de s’en tenir au diktat idéologique de Bruxelles et au terrorisme intellectuel anglo-saxon, remettons en place le système de la préférence communautaire.


Il importe de faire la distinction entre marché domestique européen intérieur et marché d’exportation. Il faut, par une politique douanière de préférence communautaire, se fermer aux pays émergents qui détruisent les emplois européens avec des produits consommés sur le marché intérieur européen. Et refuser le dogme simpliste d'une délocalisation de la production physique de biens, même quand elle ne représente qu’une infime partie de la valeur. Les seuls investissements justifiés géopolitiquement le sont pour capter des parts du marché domestique chinois, des autres pays d’Asie et de tous les pays émergents.

Comment la réindustrialisation 

Les Européens ne peuvent se contenter d’une économie composée essentiellement de services. Seule façon de réagir: réduire d’une façon drastique fonctionnaires et dépenses publiques, diminuer la pression fiscale sur les entreprises et les particuliers, mettre en place une politique industrielle inexistante à l’échelle de l’Europe, développer la recherche et l’innovation, encourager les jeunes pousses, favoriser les entreprises moyennes et restaurer la préférence communautaire, avec des droits de douane plus élevés ou des quotas compensant les bas salaires des pays émergents !


 Selon Algérie-Focus.com l'usine Renault de Tanger
sera inaugurée en février 2012 en présence du patron
de Renault Carlos Ghosn et du Président français Nicolas Sarkozy


Il ne faut pas "acheter français", ce qui ne veut plus rien dire, mais acheter « fabriqué en France »,  en se méfiant des noms francisés et des usines tournevis ou d’assemblage, dont la valeur ajoutée industrielle viendrait, en fait, des pays émergents. Seule une politique de droits de douane défendra l’emploi du travailleur européen et combattra efficacement  d’une façon implacable le recours excessif aux sous-traitants  étrangers.

Tout cela est simple. Il ne manque que le courage. De changer le système. Mais sans tomber, pour autant, dans le Sylla du refus de l’effort, de l’innovation, du dépassement de soi, de l'ouverture au monde et d'une exportation équilibrée. L’introduction de la TVA sociale est une excellente décision, mais elle est totalement incapable de compenser les bas salaires de l’usine marocaine Renault de Mélissa et ne vaut que pour améliorer la compétitivité de la Maison France par rapport aux autres pays européens.

The Problem with France

The Problem with France

 

Ex: http://xtremerightcorporate.blogspot.com/

Here is the problem; France is not very French any more. We have all seen the violence carried out by Muslim immigrants, we have seen the riots and protests by people who don’t want to actually work for a living and there is a contempt shown for any sort of French pride in the history and achievements of the country. All of this is the total antithesis of what the short-lived, World War II, State of France stood for, which was French nationalism, the value of honest work and pride in France and French culture, the defense of French interests and the defense of the French colonial empire; the second largest empire in the world. This makes the time that the government of France was based out of Vichy the critical, pivotal moment in the modern history of France. Everything that happened before that time led to the opportunity that came into play at Vichy and everything that has happened since has been a result of it, really, that is to say that the rapid plummet down France has endured is because of the rejection of the principles of the State of France and the (illegal by the way) overthrow of the government of Marshal Petain.

That is something no one really talks about because no one can really dispute it. It is a FACT. The State of France was the legal, valid and only legitimate government for the French people. It was not a puppet state, it was not imposed on France from the outside and it was not illegally established. It was the LEGAL government and everyone knew it. It was internationally recognized and not just by the Axis powers but even Allied powers. The United States was at war with Germany and Italy and planning the invasion of France while at the same time still recognizing and even maintaining diplomatic relations with the State of France government in Vichy. Charles DeGaulle was a dynamic figure for sure but there was absolutely no legal basis for him just assuming control of France or his whole attitude since he was in London that he somehow represented the legitimate authority for France or even over only those who opposed the government in Vichy and resisted the German occupation of the north. He had never been in government and he was not even a very important or high-ranking general in the army. Before going to London and getting on the radio no one had ever heard of him. Even in France most people had no idea who he really was because he had never been very important.

Marshal Petain, really, was known by everybody. He was one of the great war heroes of World War I. He was the guy who saved Verdun, who restored the fighting spirit of the French army, the general who didn’t waste lives and who won battles. He was the steady, reliable, solid patriot that everyone knew and everyone could trust. Petain became the chief of government legally through the proper channels and the politicians turned to him because it was a crisis, no one else wanted to take responsibility and assume leadership at the apex of such a disaster and so they turned to Petain just like they had done in World War I at Verdun and it was Marshal Petain who stepped forward in a bad situation, took responsibility for the welfare of his country and displayed leadership in picking up the pieces of a defeated country to build a new, stronger, more united French state than there had been before.

This is the point that is lost on like so many people, even patriotic Frenchmen who cringe at the German occupation. You need to consider the fact that Germany was able to very easily co-opt, subvert and reinvent the institutions of the French Third Republic. The fact that it was so damn easy really ought to tell people that the institutions and foundations of the Third Republic were not so great to begin with. The fact that France was conquered (pretty quickly and easily) and then taken over by the Germans should, all by itself, prove that something different, stronger and more nationalistic was needed for France. Of course, as soon as World War II was over way too many French immediately ran back to the mediocrity that was the leftist French republican model. There is a reason, for instance, that the European powers shipped Napoleon off to some flyspeck island in the south Atlantic and tore down the First Empire. They did it because it was a threat to them. It was, overall, really an authoritarian and nationalist regime that could mobilize the public and which had just before that conquered almost everyone in Europe. They could not co-opt it, they could not sanitize it, they had to get rid of it because it had worked so well. Add to that the fact that it took the combined forces of England, Prussia, Austria, Russia, Spain and a bunch of other countries to do it.

It seems to be a pathological drive amongst many European countries to forever turn their back on whatever regime took them to their greatest peak of power and success. So, in France, the empires, the colonial empire, the State of France, really all of that were just tossed aside and France was taken over by a bunch of elites who could not have screwed up what was once the greatest power in Europe any more if they deliberately tried. Socialism became the order of the day, making generations of French people over-dependent whiners who riot at the thought of having to put off retirement for a couple more years and it has put the country into massive debt at the same time because no one wants to show any discipline. The military has been gutted, a Hungarian elected President, North Africans allowed to come in and take over whole sections of the country in huge numbers, destabilizing society and limiting what France can or will do in the world. They’ve also put France into the EU straightjacket so that if any other country gives them the shaft they just have to bend over and take it because no one can make their own decisions anymore, everyone must get along and nationalism is just really bad, bad, bad.

The State of France was the last opportunity the country had to turn things around, strengthen and recover. No joke! For the most part the colonial empire was maintained, the French navy was not impounded or sunk (by the Germans anyway), territorial losses were minimal but most importantly the principles of the state were strong and they had some of the best French thinkers in the political field working for them -all of which would be lost when the Allies eventually came in and conquered the place in their turn. "Work, Family, Fatherland" may not have the same romance as "Liberty, Equality, Fraternity" but, really, they are much more practical, realistic and obtainable goals that would strengthen the country. Liberty; what's that mean? Equality? That doesn't exist. Fraternity may be okay but that's been perverted nowadays to apply to any and everyone when originally it pretty much meant the French. Work -necessary, family -building block of society, fatherland -what everyone should unite in defending, promoting and glorifying. France has long had a revolutionary history and really it will probably come back around again and something better will be tried again. I just hope there will be enough of the genuine France left to pick up the pieces and rebuild. So get busy France!

Erdogan règle ses comptes avec l’armée turque

Günther DESCHNER:

Erdogan règle ses comptes avec l’armée turque

Certaines pratiques douteuses du gouvernement d’Erdogan approfondissent les césures qui existent déjà dans le monde politique et la société en Turquie

ilker-basbug.jpgL’arrestation spectaculaire de l’ancien chef de l’état-major de l’armée turque, Ilker Basbug (photo), et la plainte déposée contre l’ancien chef de la direction militaire du coup d’Etat de 1980 et ex-président de la République, Kenan Evren, a crée l’événement et éveillé toutes les attentions, bien au-delà des frontières turques. Cette arrestation et cette mise en examen ont montré clairement combien profondes sont les césures qui déchirent la société et le monde politique dans ce pays, qui est une pierre angulaire de l’OTAN. Le motif qui se profile derrière ces manoeuvres politico-judiciaires est à rechercher dans le fameux procès, qui est en cours depuis 2007, contre le réseau secret “Ergenekon”, auquel les organes du gouvernement d’Erdogan et le procureur général reprochent d’entretenir, par le biais de la terreur, des peurs et des émotions dans la population pour justifier un nouveau putsch militaire.

Avec l’arrestation de Basbug, le cercle des hommes soupçonnés d’intentions putschistes s’accroît. Il faut savoir que l’ancien chef de l’armée du deuxième pays le plus militarisé de l’OTAN, du moins sur le plan quantitatif, est considéré comme un “réaliste” (dans un commentaire publié dans le journal “Hürriyet”), “qui savait que le climat politique en Turquie avait atteint un point où plus aucun putsch militaire n’aurait été accepté, ni en Turquie même ni dans la communauté internationale”. On reproche aujourd’hui à ce général retraité depuis 2010 d’avoir été, en tant que “membre d’une association terroriste”, impliqué “dans un plan visant à renverser le gouvernement islamo-conservateur de l’AKP”.

Basbug se retrouve ainsi dans un aréopage illustre: plus de trois cents personnes —des militaires de haut rang, des professeurs, des recteurs d’université, des avocats et des journalistes— sont désormais considérées comme membres ou comme soutiens d’une ligue soi-disant secrète et incarcérées, pour partie, depuis de nombreuses années. L’opinion publique turque attend en vain, et depuis longtemps, qu’un premier jugement soit rendu ou que des preuves tangibles soient présentées. Plus le cas est trainé en longueur, plus le cercle des “putschistes” supposés va s’accroître et plus les arrestations se succéderont au sommet de la hiérarchie sociale et politique; quant à la crédibilité de l’opération, elle se réduira quasi à néant.

Certains commentateurs remarquent que le système juridique turc est responsable de cette lenteur: les procès durent longtemps parce que le système ne prévoit pas de libération conditionnelle sous caution. D’autres, plus critiques, reprochent au gouvernement d’Erdogan, de se contenter de simples suspicions et d’en profiter pour baillonner définitivement d’éventuels opposants kémalistes. Le procès, pris dans son ensemble, ne servirait en réalité qu’à consolider les positions de l’AKP dans les appareils de la justice et de l’Etat.

Certes, il s’avère exact que la Turquie est un pays où, par trois fois depuis 1960, des putsch militaires ont renversé le gouvernement. On ne peut donc pas dire que tout soupçon, quant à l’éventuelle planification d’un coup d’Etat, soit le fruit de purs fantasmes conspirationnistes. Néanmoins bon nombre d’observateurs pensent que le procès intenté sert surtout à réduire au silence ceux qui critiquent le régime.

Depuis la fondation de la république par le Général Mustafa Kemal, surnommé plus tard “Atatürk”, l’armée turque se pose comme la gardienne des principes séculiers, porteurs du “kémalisme” en tant qu’idéologie d’Etat. A ce titre, l’armée a pu acquérir une influence qui aurait été impensable dans d’autres démocraties. Jusqu’à nos jours, elle a gardé ses positions privilégiées. Au cours des années écoulées, le premier ministre Erdogan a pu réduire quelque peu cette influence, sans que les dirigeants de l’armée cessent vraiment de constituer un facteur de puissance. Ce n’était un secret pour personne: les généraux toisaient avec un grand mépris les politiciens de la “contre-élite” islamique, qui gouvernent aujourd’hui le pays.

Atatürk, fondateur de l’Etat, avait, expressis verbis, donné à l’armée la mission, après sa mort, de maintenir intact le système politique qu’il avait mis en place. Les militaires sont demeurés fidèles à cette mission et, par trois fois, en 1960, en 1971 et en 1980, ils ont renversé des gouvernements élus. Le coup d’Etat du 12 septembre 1980 fut de loin le plus sanglant: la Turquie avait été au bord de la guerre civile; 230.000 personnes furent inculpées; 50 condamnés ont été exécutés; des centainesd’autres sont morts en prison. Des dizaines de milliers de Turcs quittèrent le pays. Les généraux ont alors imposé une nouvelle constitution, dont les dispositions autoritaires ont marqué la Turquie.

Plus de trente ans après ces faits, l’ancien chef des militaires, Kenan Evren, aujourd’hui âgé de 94 ans, et l’ex-général Tahsin Sahinkaya, 86 ans, devront subir un procès. Pendant longtemps, Evren a été protégé contre toute poursuite judiciaire mais, après une modification de la constitution en septembre 2010, il a perdu son immunité. Depuis, plusieurs victimes de la junte militaire ont insisté pour que les officiers putschistes de 1980 soient poursuivis.

Une chose est sûre aujourd’hui: le moral, déjà sérieusement entamé, des dirigeants de l’armée turque, vient de prendre un nouveau coup dur avec l’arrestation de Basbug et l’inculpation d’Evren. Une fois de plus, l’AKP islamique vient de remporter un évident succès dans la lutte qui l’oppose à l’ancienne élite séculière, à laquelle appartient le sommet de la hiérarchie militaire. Le fossé se creuse de plus en plus entre le gouvernement islamisant et l’établissement séculier en Turquie.

Günther DESCHNER.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°4/2012; http://www.jungefreiheit.de ).

Francis Puyalte, le journalisme et Céline

Francis Puyalte, le journalisme et Céline

par Marc Laudelout

 
Francis Puyalte et Saphia Azzedine ont un point commun : leur livre comporte une épigraphe extraite de Bagatelles pour un massacre. Thème identique de surcroît : « C’est toujours le toc, le factice, la camelote ignoble et creuse qui en impose aux foules, le mensonge toujours ! jamais l’authentique... » (Puyalte) et « Les peuples toujours idolâtrent la merde, que ce soit en musique, en peinture, en phrases, à la guerre ou sur les tréteaux. L’imposture est la déesse des foules. » (Azzedine). La comparaison s’arrête là. Car, pour le reste, l’univers décrit par la beurette (« Guerre des boutons version al-Qaida », dixit un critique) ¹ et celui de Puyalte sont bien différents. Journaliste à Paris-Jour, puis à L’Aurore et au Figaro, Francis Puyalte est aujourd’hui à la retraite. Cela lui confère la liberté de dénoncer sans fard ce qu’il nomme l’inquisition médiatique, et ce à travers des exemples concrets. De l’affaire de Bruay-en-Artois au procès d’Omar Raddad, Puyalte montre comment la presse d’aujourd’hui fabrique des innocents ou des coupables et surtout comment elle parvient à imposer ce qu’il convient de penser. Jamais auparavant un journaliste n’avait aussi franchement révélé ce qui se passe dans les coulisses du quatrième pouvoir. Dans ce livre, il ne traite donc pas d’une autre de ses passions – Céline – qui lui a notamment permis de rencontrer Lucette dont il a recueilli les propos dans deux articles mémorables ². Dans Bagatelles, le mot « imposture » est l’un de ceux qui revient le plus souvent. C’est précisément ce que dénonce Puyalte dans cet ouvrage salué par un (autre) esprit libre : « Une incroyable liberté de ton, de pensée, de critique et de démolition. Un pamphlet vif, argumenté, salubre et dévastateur sur le journalisme, ses dérives, ses conforts intellectuels, ses paresses et ses préjugés. (…) Ces dysfonctionnements et vices du journalisme ont parfois été dénoncés mais jamais avec cette verve... » ³. Savoureux aussi, le premier chapitre consacré à ses débuts dans le journalisme. Il rappelle – ce n’est pas un mince compliment – les pages analogues de François Brigneau dans Mon après-guerre. Voyez plutôt : « Le lecteur ? J’apprendrai vite que ce n’est pas le principal souci de la rédaction en chef, qui planche, dès la fin de la matinée, sur la manchette de la Une. Ce qui importe, c’est un titre accrocheur, vendeur, selon le terme si souvent entendu. Il est vrai qu’un journal est fait pour être vendu, même lorsque l’actualité est pauvre. Alors, faute d’un événement d’intérêt, on va en gonfler un autre qui n’en a aucun. Au départ, il faisait hausser les épaules. À l’arrivée, il fait la manchette. Drôle de situation pour le reporter. À lui la débrouille et non la bredouille. ». On aura compris que c’est un livre décapant, très célinien dans la démarche (« Tout dire ou bien se taire »). Raison pour laquelle, on s’en doute, Francis Puyalte ne sera pas invité dans les médias. Peu importe, son livre existe et fera date.

Marc LAUDELOUT
Le Bulletin célinien n°337, janvier 2012

• Francis Puyalte. L’Inquisition médiatique (préface de Christian Millau), Éd. Dualpha, coll. « Vérités pour l’Histoire », 2011, 338 p., 38 € frais de port inclus aux Éd. Dualpha, Bte 30, 16 bis rue d’Odessa, 75014 Paris.


1. Saphia Azzedine, Héros anonymes, Éditions Léo Scheer, 2011.
2. Francis Puyalte, « Les confidences de la femme de Céline », Le Figaro, 20 mai 1992 & « Les souvenirs de la femme de Céline », Le Figaro, 30 décembre 1992. Articles repris dans Le Bulletin célinien, n° 123 et n° 127.
3. Philippe Bilger, « Au journalisme inconnu », Justice au singulier. Le blog de Philippe Bilger [http://www.philippebilger.com], 10 décembre 2011. Repris sur le site http://www.marianne2.fr

La visione del mondo atomista e oggettivista getta l’uomo moderno in una disperata solitudine

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La visione del mondo atomista e oggettivista getta l’uomo moderno in una disperata solitudine

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

L’uomo moderno è in preda a una crisi di valori senza precedenti; e, a monte di essa, di una crisi di senso complessiva, che investe ogni singolo aspetto della sua esistenza e lo rende perplesso, confuso, incapace di discriminare e di decidere, vittima di una sconfortante sensazione della vanità e dell’inutilità di qualsiasi cosa, di qualunque eventuale scelta.

Tale situazione è dovuta all’azione concomitante di due forze apparentemente diverse e perfino opposte, ma in realtà originatesi dalla stessa temperie culturale e spirituale: il meccanicismo scientifico, sviluppatosi dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo in poi, che tende ad imporre una visione atomistica della realtà e, quindi, anche dell’uomo; e l’oggettivismo, anch’esso di matrice scientifica, secondo il quale l’uomo, o meglio lo scienziato, può e deve porsi in maniera distaccata davanti al mondo, osservarlo, misurarlo, catalogarlo.

L’atomismo fa sì che gli esseri umani tendano a sentirsi  isolati e separati gli uni dagli altri e, quindi, terribilmente soli e incapaci di comunicare, sia sul piano del pensiero, sia su quello delle emozioni e dei sentimenti; l’oggettivismo tende a recidere il legame necessario fra essi e il mondo, a proiettarli in una dimensione diversa da quella degli altri enti e della natura tutta, in una atmosfera rarefatta e artificiale, ove smarriscono il senso dell’unità con il tutto.

Entrambe queste forze provocano, o accentuano, il senso di estraneità, di alienazione, di disperata solitudine dell’uomo: egli non si ritiene più capace né di gettare dei ponti verso i suoi simili, né di sentirsi parte di una unità organica; e l’effetto di questi due orientamenti è, da un lato, l’accentuarsi della durezza dei rapporti umani, dall’altro l’abuso nei confronti della natura, senza che all’uomo appaiano chiare le terribili conseguenze, anche per lui stesso, di un tale abuso.

Partiamo dal primo aspetto. Le cosiddette scienze umane sono state le prime a teorizzare, sul modello delle scienze naturali, il grossolano meccanicismo di derivazione illuminista e positivista: l’anima è stata ridotta alla psiche e la vita spirituale degli esseri umani è stata ridotta all’insieme delle loro manifestazioni mentali: nessun mistero, nessun senso di riverenza per la dimensione interiore dell’uomo; tutto è spiegabile ed, eventualmente, curabile, partendo da una analisi rigorosa delle quantità in gioco (anche se poi, specialmente nella psicanalisi, questa pretesa “scienza” non esita a ricorrere a dei metodi che ricordano, in tutto e per tutto, un basso cerimoniale di magia nera).

Ma una volta negato il mistero della condizione umana, il suo insopprimibile bisogno di trascendenza, attestato dalla originarietà e dalla universalità del fatto religioso; una volta negata la vita dell’anima, anzi, la stessa esistenza di quest’ultima; una volta ridotto l’essere umano alle sue componenti chimiche, neurologiche, comportamentali, un po’ come nello schema del cane di Pavlov, che cosa ci resta fra le mani, se non un manichino svuotato della sua reale sostanza umana, della sua specifica dimensione ontologica?

Anche nel secondo aspetto si nota l’influsso devastante di una concezione scientista e neopositivista: se, infatti, l’uomo è un osservatore distaccato della realtà (e si noti che le ultime acquisizioni della fisica subatomica, come il principio di indeterminazione di Heisenberg, negano recisamente un tale modello scientifico: ma i divulgatori dello scientismo a un tanto il chilo non lo sanno, e continuano a diffondere i più vieti luoghi comuni del positivismo), allora viene a  cadere la cosa più importante di cui lo scienziato dovrebbe essere dotato: la compassione.

Così come, ne «Il Saggiatore», Galilei descrive la vivisezione di una cicala senza tradire il benché minimo rammarico, la benché minima pietà verso la bestiola sacrificata in nome della ricerca scientifica, allo stesso modo il moderno psicologo e il moderno psichiatra si guardano bene dal provare la minima empatia per l’essere umano sofferente che si è rivolta a loro per ricevere aiuto: si limitano a formulare la loro diagnosi, a somministrare farmaci, a prospettare percorsi terapeutici in nome di un sapere che essi credono asettico e imparziale, mentre è, nove volte su dieci, la prona sottomissione ad una nuova fede religiosa, anzi ad una nuova setta, che non prevede la possibilità di sbagliare e che, cosa più grave ancora, non ha nulla da dire all’uomo quanto al bene ed al male, ma solo quanto alle tecniche di adattamento e di sopravvivenza in un mondo assurdo, allucinato, dominato da forze incomprensibili.

Ma il mondo è davvero così assurdo e allucinato, così incomprensibile, come afferma questa pretesa scienza moderna, oppure è essa che lo vede così e che formula le sue leggi e i suoi princìpi a partire da una percezione del reale che nasce dalla sua incapacità di porsi in maniera armoniosa, costruttiva e fiduciosa nei confronti del mondo?

Siamo sicuri che i vari Newton e i vari Freud non abbiano descritto il mondo a partire dai loro pregiudizi, dalle loro ossessioni, dal loro disperato pessimismo, e che la loro scienza altro non sia che il delirio di una intelligenza arida, fredda, disumana, incapace di cogliere la bellezza e del tutto priva di compassione per la sofferenza altrui?

Così Danah Zohar e Ian Marshall in «La coscienza intelligente» (titolo originale: «SQ, Spiritual Intelligence. The Ultimate Intelligence», 2000; traduzione italiana di Valeria Galassi, Sperling & Kupfer, Milano, 2001, pp. 27-30):

«In Occidente, la cultura tradizionale e tutti i significati e i valori da essa preservati cominciarono a disgregarsi in seguito alla rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo e alla relativa ascesa dell’individualismo e del razionalismo. Il pensiero di Isaac Newton e di suoi colleghi diede impulso non solo alla tecnologia, che poi portò alla Rivoluzione Industriale, ma anche a una più profonda erosione delle convinzioni religiose e della visione filosofica che avevano fino ad allora caratterizzato la società. La nuova tecnologia apportò molti vantaggi ma spinse anche le popolazioni ad abbandonare le campagne per le città, smembrò comunità e famiglie, soppiantò tradizioni e artigianato e rese quasi impossibile una vita basata su usi e costumi. I valori sociali vennero sradicati dalla terra in cui si erano formati, così come la rivoluzione che ne seguì sradicò l’animo umano.

I princìpi fondamentali della filosofia newtoniana possono essere riassunti con le parole “atomismo”, “determinismo” e “oggettività”. Pur apparendo astratti e remoti, i concetti insiti in questi termini hanno toccato fino in fondo il nostro essere.

L’atomismo è l’idea che il mondo consista, in ultima analisi, di frammenti: particelle isolate nello spazio e nel tempo. Gli atomi sono compatti, impenetrabili: non potendo entrare l’uno nell’altro, interagiscono mediante azione e reazione. Si urtano o si evitano. John Locke, fondatore nel diciottesimo secolo della democrazia liberale, usò gli atomi come modelli per gli individui, considerandoli le unità di base della società. La società come un tutto unico, affermava, era un’illusione:; i diritti e le esigenze degli individui erano la priorità. L’atomismo è altresì il fondamento della visione psicologica adottata da Sigmund Freud, nella sua “Teoria delle relazioni fra gli oggetti”.

Secondo questa teoria, ciascuno di noi è isolato all’interno degli impenetrabili confini dell’ego. Voi siete un oggetto per me e io sono un oggetto per voi. Non potremo mai conoscerci a vicenda in nessun modo fondamentale. L’amore e l’intimità sono impossibili. “Il comandamento di amare il prossimo come se stessi”, disse Freud, “è il più impossibile che sia mai stato scritto”. L’intero mondo dei valori, egli riteneva, era una mera proiezione del Super Io e consisteva nelle aspettative di genitori e società. Simili valori sovraccaricavano l’Io di un impossibile fardello e lo rendevano malato, o “nevrotico”, come diceva Freud. Un uomo veramente moderno, secondo lui si sarebbe liberato da aspettative tanto irragionevoli e avrebbe seguito principi del tipo: ognuno badi a se stesso, la sopravvivenza del più forte, e via dicendo.

Il determinismo newtoniano insegnava che il mondo fisico era governato da leggi ferree: le tre leggi del movimento e della gravità. Tutto, nel mondo fisico, è prevedibile e quindi in ultima analisi controllabile. A uguali condizioni seguirà sempre B. Non possono esserci sorprese. Freud inserì anche il determinismo nella sua “psicologia scientifica”, affermando che L’Io indifeso è manovrato dal basso dagli impulsi delle oscure forze dell’istinto e dell’aggressività situate nell’Es, mentre dall’alto riceve le pressioni delle impossibili aspettative del Super Io. I nostri comportamenti, nel corso di tutta la vita, sono totalmente determinati da queste forze in conflitto e dall’esperienza vissuta nei primi cinque ani di vita. Siamo vittime delle nostre esperienze,  come miserabili comparse di un copione scritto da altri. La sociologia e il moderno sistema giuridico hanno rafforzato questa sensazione.

Benché la maggior parte della popolazione sappia ben poco del determinismo newtoniano, dell’Es e del Super Io di Freud, l’idea che siamo vittime isolate e passive di forze più grandi di noi, che sia impossibile cambiare la nostra vita, figuriamoci poi il mondo, è endemica. Siamo preoccupati, ma non sappiamo come assumerci le responsabilità. Un ragazzo di circa vent’anni mi ha detto: “Mi sentivo confuso di fronte a questo mondo frammentario, e siccome ero incapace di ricavarne un senso o di farci qualcosa, sono scivolato nell’apatia e nella depressione”.

L’oggettività newtoniana, o “oggettivismo”, come io preferisco chiamarlo, ha rafforzato questo senso di isolamento e di impotenza. Nel fondare il suo nuovo metodo scientifico, Newton tracciò una profonda spaccatura tra l’osservatore(lo scienziato) e ciò che egli osserva. Il mondo è diviso tra soggetti e oggetti: il soggetto è “qui dentro”, il mondo ”là fuori”. Lo scienziato newtoniano è un osservatore distaccato che guarda semplicemente il mondo, lo soppesa, lo misura e  conduce esperimenti su di esso. Quello che fa è manipolare e controllare la natura.

L’uomo medio moderno vede se stesso semplicemente nel mondo, non come pare del mondo. In questo contesto “il mondo” include gli altri, comprese le eventuali persone intime, nonché le istituzioni, la società, gli oggetti, la natura e l’ambiente. La spaccatura di Newton tra osservatore/osservato ci ha lasciato la sensazione di essere semplicemente qui per vedercela meglio che possiamo. Anche in questo caso non sappiamo assumerci le responsabilità e abbiamo solo una vaga idea di chi o di che cosa potremmo essere responsabili. Non c’è senso di appartenenza verso i nostri rapporti, né sappiamo come riappropriarci della nostra possibile efficienza.

Infine, il cosmo ritratto dalla scienza newtoniana è freddo, morto e meccanico. Non c’è posto, nella fisica di Newton, per la mente o la coscienza, né per nessun aspetto della lotta umana. Paradossalmente le scienze biologiche e sociali sviluppatesi nel diciannovesimo secolo si sono molto ispirate a questo schema, inserendo gli esseri umani, mente e corpo, nello stesso paradigma meccanico. Siamo macchine mentali o macchine genetiche, il corpo è una collezione di parti, il comportamento è condizionato o prevedibile l’anima un’illusione del linguaggio religioso arcaico il pensiero una mera attività delle cellule cerebrali. Come è possibile trovare il significato dell’esperienza umana in un quadro del genere?»

 

Il soggettivismo estremo, che nasce dallo scetticismo e conduce al senso di isolamento, e l’oggettivismo estremo, che nasce da una ipervalutazione della scienza meccanicista, materialista e riduzionista, che conduce al senso di impotenza e di sconforto, sono, dunque, manifestazioni di una stessa incapacità di porsi in maniera serena, accogliente, armoniosa, davanti alla bellezza del mondo; sono il portato di una maniera arrogante, utilitarista e aggressiva di rapportarsi con gli altri enti, e, in ultima analisi, anche di rapportarsi con se stessi.

Lungi dal poter guidare il cammino dell’uomo moderno, la cultura ereditata dalla visione del mondo atomista e oggettivista è il frutto di una distorsione, di uno squilibrio, di una vera e propria malattia dell’anima: malattia che colora a fosche tinte le lenti con le quali guardiamo il mondo, senza renderci conto che quelle fosche tinte non appartengono alla realtà.

I ciechi non possono condurre altri ciechi, senza che tutti cadano, prima o poi, nel fossato; solo dei vedenti possono condurre i ciechi: ma, perché ciò avvenga, bisogna che i ciechi riconoscano di non essere in grado di vedere e bisogna che si affidino alla guida di coloro che vedono, posto che ve ne siano e posto che siano disposti a sobbarcarsi un tale onere. E coloro che vedono, son divenuti tali perché sanno vedere il Tutto e non solo le singole parti: la loro coscienza, infatti, si è risvegliata…

lundi, 30 janvier 2012

Inquisition et autocensure médiatique

Inquisition et autocensure médiatique

Ce lundi revient au Sénat la boîte de Pandore des crimes non-niables

Michel Lhomme
Ex: http://www.metamag.fr/

burning-17.jpgChesterton disait que le sens commun ne consistait pas à répéter ce que tout le monde piaille, de ci de là, sans ton ni accent, dans l’ignorance béate de ce qui nous entoure. Mais qu’il consistait à retrouver ce que tous savent (ou ce que tous, nous savons entre nous), mais que personne ne se risque à déclarer, la plupart du temps, par autocensure individuelle et auto-répression personnelle.

Le problème du manque de liberté d’expression, dans la société moderne, ne se trouve pas dans la censure qui, pratiquement, n’existe plus; on peut blasphémer sans scrupules sur la Sainte Famille ! Le problème réside dans une mise sous le boisseau volontaire, une intériorisation de l’inquisition médiatique. Or, dans ce tribunal, ce dont on ne parle pas, n’existe tout simplement pas.

Le plus grand succès de l’inquisition médiatique, de la "nouvelle inquisition", demeure l’intériorisation de Torquemada chez tous les journalistes. Il y a bien, officiellement, la liberté d’expression, mais personne n’en use vraiment, ou si peu et, disons-le brutalement, par autocastration.

La liberté d'expression soumise à une loi anticonstitutionnelle

Cependant, en France, il nous faut rappeler une situation d’exception. Depuis la loi Gayssot, l’expression, comme telle, est verrouillée. Cette loi considère comme un délit la négation de la Shoah ou, plus exactement, qualifie de délit toute contestation des crimes définis par le tribunal international de Nuremberg. La loi Gayssot a, ainsi, créé abusivement une « vérité » obligatoire en matière de recherches historiques. Une loi anti constitutionnelle est légale .

Mais, les politiques français sont pris à leur propre piège. En dénonçant l’inopportunité de la loi sur la négation du génocide arménien, Dominique de Villepin a qualifié d’« erreur » le fait de légiférer sur la mémoire. Pourtant, alors qu’il est en campagne électorale, il s’est bien gardé, hypocritement, de dénoncer la loi Gayssot proprement dite. Pire, comptant sans doute sur quelques voix de la communauté juive pour augmenter un score qui, de toutes façons, ne sera guère brillant, il a tenu à défendre le principe même de la loi, en soulignant qu’elle avait cherché, selon lui, à « agir sur le terrain de l’antisémitisme et du racisme à un moment où il y avait le risque d’une montée de l’antisémitisme et du racisme en France ».

On a les fantasmes sur le Front National que l’on peut. Mais Jack Lang, en service commandé, a immédiatement emboîté le pas, pour défendre la loi Gayssot. Seul, Robert Badinter a reconnu que ce texte n’était pas conforme à la Constitution puisqu’il entravait, dit-il, la liberté d’expression. Nonobstant, la loi Gayssot restera en vigueur. On préférera sans doute parler, à l’Assemblée, du mariage homosexuel ou de la libéralisation du cannabis.

Quant on commence à censurer, on ne peut plus s’arrêter

En ce qui concerne la question polémique du génocide arménien, on aurait presque envie de dire qu’« il ne fallait pas commencer » ! Sinon, il faudrait, en effet, nous expliquer pourquoi, on ne pourrait pas nier le génocide nazi, sous peine de sanctions, mais on pourrait occulter le génocide arménien. La France s’est donc retrouvée prise au piège des lois mémorielles. Une fois validé, le terme de "génocide", pour les massacres de 1915,  ce qui a été le cas en France depuis la loi du 29 janvier 2001, la suite était logique et même inéluctable. La "boîte de Pandore" des crimes "non-niables" a été ouverte et la Turquie a eu beau jeu de répliquer en dénonçant les tortures et les exécutions françaises sommaires en Algérie.


Les arméniens en France : un enjeu politique

Quant on commence à censurer, on ne peut plus s’arrêter. Erdogan a accusé la France d’«avoir exterminé 15 % de la population algérienne« à partir de 1945 » et, il a même ajouté que « les Algériens ont été brûlés objectivement dans les fours ». La manœuvre est habile et facile à entendre. Mais ne voudrait-elle pas dire aussi qu’à un mensonge grossier, on opposerait un autre mensonge plus subtil ? Israël n’a, curieusement, pas réagi et a, presque, laissé faire ce sous-entendu embarrassant. Quant à la France, elle a été renvoyée à la défensive, mais s’est refusé de contre-attaquer.

Pourtant, en Turquie, ce ne sont pas les motifs d’attaque qui manquent ! La France aurait très bien pu dénoncer, par exemple, l’interpellation récente de nombreux journalistes kurdes. En effet, dans le cadre d’une enquête sur des liens présumés entre militants kurdes et éléments séparatistes armés, la Turquie a arrêté au moins 38 personnes, pour la plupart des journalistes.

La France plus silencieuse sur les Kurdes que sur les Syriens

Quelques 70 journalistes sont déjà emprisonnés en Turquie. Mais les autorités assurent qu’ils ne sont en détention que pour des délits ou des crimes sans rapport avec leur profession ! Vingt-cinq autres personnes, encore et surtout des journalistes, ont été arrêtées récemment à Istanbul. Plus de dix journalistes de l’agence pro-kurde, Dide, ont aussi été interpellés. Une avocate représentant Dide a dit qu’il ne restait, au bureau stambouliote de l’agence, que des policiers occupés à copier des documents et des disques durs d’ordinateurs. Elle a dit ne pas connaître le nombre exact de journalistes en état d’arrestation. Dans le cadre de la même enquête, lancée il y a deux ans, des centaines de personnes sont en procès pour leurs liens avec le Parti des Travailleurs du Kurdistan.

La Turquie a toujours soutenu que les chiffres des morts arméniennes ont été multipliés par trois et souligné –ce qui est vrai– que ces massacres sont survenus dans un contexte de guerre mondiale, où la Turquie se défendait contre un ennemi de l’intérieur. La reconnaissance du génocide arménien, défendu en particulier par le clan Devedjian qui avait joué un rôle non négligeable dans l’ascension politique, à ses débuts, de Nicolas Sarkozy aujourd’hui aux abois, n’a pas que froissé les Turcs, elle a sérieusement agacé les Juifs.

Le fait n’est pas sans intérêt  puisque, pendant longtemps, il était entendu que le seul génocide officiellement reconnu, officiellement susceptible de sanctions vis-à-vis de ses négateurs, était le génocide juif. En fait, la loi Gayssot en France avait voulu verrouillé la mémoire, en réservant toutes ses foudres à la négation de l’Holocauste. Aujourd’hui, une commission parlementaire israélienne serait à la veille de mettre le massacre d’un million et demi d’Arméniens sur un pied d’égalité comparable.

La réaction n’a pas tardé : dés le lundi 26 décembre, le Ministre des Affaires étrangères israélien mettait en garde ses parlementaires, en soulignant le différent franco-turc, face à une initiative qui aurait pourtant, cette fois, à la Knesset des chances d’aboutir, après un premier raté en 2007.

Le génocide vendéen aurait-il sa conférence de Wannsee?

La Turquie n’ignorait pas, soit dit en passant, ce calendrier parlementaire israélien. Et la surenchère turque contre la France n’était, sans doute, qu’une bonne occasion de gêner le processus israélien qui, d’ailleurs, gêne les deux pays. Le Premier ministre turc Erdogan ne peut pas sous-estimer le poids des nationalistes laïcs qui tiennent l’armée à laquelle il lui faut, sans cesse, apporter des gages. Notons, au passage, que les Turcs nationalistes ont répondu à l’aplomb français par des attaques informatiques ciblées. C’est une belle leçon d’un nationalisme vivant et branché. Il est cybernétique, cyberguerrier.


Génocide vendéen

En France, lors du débat sur la loi, personne n’a vraiment relevé la proposition d’amendement de Dominique Souchet. Le député de la Vendée a demandé, en toute logique et sans succès, que le génocide vendéen soit inscrit dans la loi votée sur le génocide arménien. Cela n'empêche pas la vérité sur ce drame de faire son chemin.

En fin s'année, Reynald Secher,  le grand spécialiste de la Vendée, hier censuré et licencié de l’Education nationale, a publié un livre incontournable, "Du génocide au mémoricide". Sans doute un événement historique. Il y montre le caractère légal, systématique et organisé du génocide vendéen, dénoncé à l’aide d’archives du Comité de Salut Public et de la Convention jusqu’alors inexploitées et découvertes, par hasard.

A cet égard, la volonté française de reconnaître et de protéger la mémoire du génocide arménien est à la fois hypocrite et aberrante. Il faut, en effet, d’abord nettoyer devant sa porte : la Vendée, la guérilla napoléonienne contre l’Espagne, la Guerre d’Algérie, le Rwanda (responsabilité partielle de la France), sans oublier l'esclavage. Au lieu de se gargariser de lois mémorielles, dont le seul but, inavoué, est, en fait, de limiter la liberté d’expression sur la question juive. L’affirmation du génocide vendéen est, aujourd’hui, non punie par la loi, en en plus, officiellement rejetée, ignorée ou ridiculisée. 

A New Call of the Wild: The American Third Position Party

A New Call of the Wild: The American Third Position Party

Tom Sunic

 

Merlin Miller, A3P candidate for President of the United States

The following is an English translation of an article published in the French magazine RIVAROL (published by  Jérôme Bourbon) on the A3P and it’s presidential candidates.

In the hustle and bustle of the various right wing currents inAmericait is fascinating to observe the recent birth of the American Third Position Party (A3P), a new political party dedicated to the preservation of European cultural, racial and ethnic heritage. The A3P has recently launched a political and cultural program that could make lots of waves at the upcoming presidential elections in America. The silent majority of American citizens is fed up; it is tired of the two-party system of East Coast ‘banksters’ and West Coast culture destroyers, both ruining the country with their destructive ideology of multiculturalism and causing dangerous mutual racial mistrust amidst the American body politic. Everybody wants something new.

The A3P offers a patriotic alternative to the two parties which, similar to subprime shams, have also mortgaged the future of America. Over the last forty years, American politics has been shaped by the plutocratic system and by the two identical political machines, under the guise of the Republican Party and the Democrat party respectively. It is always the Same and its Double poorly mimicked — if we were to   borrow some words from the French philosopher of postmodernity, Jean Baudrillard. Both parties seem to be united in the ruthless dogma of the “third excluded”, as well as in the defamation of those who reject the media swamp of “political correctness.”


The A3P has chosen for its presidential candidate, Mr. Merlin Miller, a graduate of West Point, a U.S. Army veteran and an accomplished filmmaker. His vice presidential candidate is Dr. Virginia Deane Abernethy, a renowned anthropologist, and a professor emeritus at Vanderbilt University. The A3P stands resolutely for the Republic: it is the only political party that represents Americans of European descent and that is strongly opposed to any notion of the American- Empire. On the Board of A3P directors one comes across some heavyweights, such as Mr. Don Wassall, editor in chief of The Nationalist Times, Mr. William Johnson, a well knownLos Angeles lawyer, Professor Kevin MacDonald, a renown American sociobiologist, Mr. James Kelso, an activist well known in nationalist circles in the USA and Europe, and Dr. Adrian Krieg, a writer and scientist. No other party in the American political landscape can boast such an impressive number of scholars of the highest order.

The A3P rejects  the current discourse of the American political class whose double talk resembles the Soviet-inspired locutions, such as  “ethnic awareness training,” “politically correct”, “hate speech”, “positive discrimination “,” diversity, ” etc. This boring palaver of the Establishment can be observed daily on all wavelengths when one listens to its “newspeak”, which, during the last half a century, has transformed the institutional and educational process in Americainto high commissions of political correctness, and whose aim is the criminalization of the legacy of the White man. Americans are being duped and deceived by the power and by the media in the same way of the old Sovietized and communized masses in the former Eastern Europe. At least the old communist nomenklatura knew it lived the historical lie. By contrast, the current American elites seriously think that they live the historical truth, which needs now to be exported by force to all corners of the world.

America today resembles theThird World, with 30 percent of its citizens being of non-European origin. White Americans are in the process of becoming a suspicious minority, ridiculed and increasingly discriminated against by the political-media apparatus. Without some firm political action, as put forward by the A3P, White Americans will soon become a vanishing species, isolated in their tiny ‘camps of the saints,’ which in turn are also bound to perish in the endless process of White Man’s  self-flagellation and self-hatred.

The A3P positions itself against the current U.S.policy, which through a fancy communist -inspired euphemism “affirmative action,” excludes bright white intellectuals, students and professionals. As a new political party, the A3P is well aware that it speaks on behalf of the American heartland and the vast majority of white American citizens.

Through the manipulation of the masses and by means of media decerebration the “Republocrats” have managed to keep themselves forever in power. They have managed to “divide and conquer” the ranks and files of the traditionalist Right,  while spreading in the media and motion pictures the image of some weird, phantasmagorical White racialists and by ceaselessly projecting a right-wing caricature of  toothless mountain hicks in the company of violent, tattooed, swastika-carrying skinheads. Over the past fifty years this false media- inspired imagery of ridicule and defamation of all patriotic parties has successfully suppressed the awakening of national, racial and patriotic sentiments, particularly among young and white Americans. Hence, the only “Right” acceptable today in the mainstream media of America (with a free passage to the glitz, glamour and glitter of inside-the-beltway DC) is embodied by the so-called neoconservatives, whose founding myths revolve around the profane notion of the Sacred–called Israel.

The current presidential system, compared to all previous regimes, has ruined the ideals and institutions of the founding fathers of America. If such policies continue Americans of European descent are slated to become a minority in their own country — within a few decades.

The spirit of the people depends on those who compose it. In the same vein a state is the product of the people who compose it. If the European population inAmericais to be replaced by a non-European population, the character of the country will change. The A3P believes that the times have come for a political party that must vigorously defend the interests of white European Americans. Every nation has the right to maintain and safeguard the identity of its forefathers.  The advantage of the A3P is the right choice of the right presidential candidates who are morally, ethically and intellectually above the candidates chosen by the Democrats and the Republicans.

The A3P proposes a moratorium on immigration and the immediate expulsion of illegal immigrants. Of course, similar plans were once promulgated by President Roosevelt during the Great Depression (1930) and by President Eisenhower in the 1950s — but they were short-lived. They failed — due to the pressure from special interest groups and especially as the result of the propaganda which in turn brought about the tsunami of Freudo-Marxian egalitarian scholasticism. In addition, the A3P emphasizes “fair trade” as opposed to vague notion of “free trade”; yes to private enterprise, but always serving the common good. The A3P also wishes to promote good environmental policies and be a faithful custodian to US energy resources, while always promoting the “America First” in foreign policy, which means, of course, the cessation of military interventions and economic aid to foreign countries.

Today’s America has become a highly balkanized system that functions more and more like the old Soviet system in which primeval, egotistic and narcissist forms of ‘survivalism ‘ of each ethnic and racial group will likely trigger latent interracial wars. The A3P is well aware that stormy weather is lurking on the horizon and that it therefore needs to distinguish between the true enemy and the true friend. Where there is a will there is always a way!

Le rêve d’une Libye “libérée” s’évanouit comme neige au soleil...

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Billy SIX:

Le rêve d’une Libye “libérée” s’évanouit comme neige au soleil...

Des milices s’affrontent et menacent la paix précaire et le pouvoir du gouvernement de transition

Le Général Youssef Mangouche ne doit certainement pas être envié, vu le boulot qu’il doit prester. Ce chef d’état-major, fraîchement promu, de la nouvelle armée libyenne a pour tâche de désarmer les milices qui sévissent dans le pays. Cette mission est désespérée comme le prouvent les féroces combats qui ont eu lieu ce mois-ci à proximité de la capitale. Depuis des mois, ces troupes irrégulières mais puissamment armées s’affrontent pour obtenir pouvoir et influence. La seule chose qui unit encore les révolutionnaires vainqueurs, c’est leur haine inassouvie contre Mouammar el-Kadhafi.

Il n’est guère étonnant, dès lors, que les nouveaux dirigeants s’efforcent en permanence de maintenir en vie l’image de cet ennemi pourtant terrassé. Toutes les explosions de violence, que l’on ne parvient pas à expliquer de manière satisfaisante, sont attribuées au “Tabhour Hams”, que l’on définit comme une “cinquième colonne” composée de nostalgiques du régime de Kadhafi. Plusieurs anciens dignitaires du gouvernement seraient ainsi empêchés de participer aux élections qui devront se tenir cet été. La banque centrale du gouvernement de transition, elle aussi, poursuit la lutte contre l’ancien dictateur disparu: progressivement, tous les billets de banque à l’effigie de Kadhafi devront être mis hors circulation.

Tout ce qui ressemble à une poursuite logique de la révolution a sa “face sombre” car la figure de Kadhafi unit amis et ennemis. L’alliance des rebelles d’hier est bel et bien en train de se fissurer. Les armes des arsenaux pillés sont depuis longtemps réparties sur l’ensemble du territoire. Le 3 janvier 2012 des milices antagonistes se sont mutuellement canardées dans une rue commerçante de la capitale. Six combattants ont été tués. Le président du gouvernement de transition, l’ancien ministre de la justice Moustafa Abdoul Djalil (59 ans), a prononcé de sombres paroles: “Ou bien nous nous montrons sévères à l’endroit de tout dérapage et nous amenons ainsi les Libyens au beau milieu d’une confrontation militaire ou nous nous séparons et cela conduira à la guerre civile”. Au début de l’insurrection, on disait encore, avec jubilation, à Benghazi: “Nous sommes un seul pays”. On laissait l’Occident penser que les conflits qui avaient opposé jadis les 140 clans familiaux que compte le pays étaient des “reliques du passé”. L’engagement gratis et pro deo de petites gens avait généré une ambiance extrêmement positive. On se donnait l’illusion qu’arrivaient enfin dans les sables de Libye la tolérance entre factions religieuses et l’amitié pour l’Occident. L’avènement de la liberté était dans l’air. Entretemps, la magnifique promenade le long de la Méditerranée à Benghazi, citadelle du mouvement protestataire, est désertée. La nuit, on n’y voit plus que des drogués et des hommes armés. La masse des gens s’affaire à la gestion du quotidien, à chercher une place dans la nouvelle Libye.

Quoi qu’il en soit: tout l’Est du pays est effectivement demeuré à l’abri des violences. Surtout parce que la structure de la société y est plus mûre, parce que les tribus claniques de tempérament conservateur y ont imposé un consensus, avec l’aide des dignitaires musulmans. C’est surtout la majorité des citoyens dans l’Ouest de la Libye qui a beaucoup à perdre: cette région occidentale du pays avait bénéficié d’aides sous Kadhafi, grâce aux milliards du pétrole. L’élimination du régime du colonel, par l’intermédiaire de l’engagement de l’OTAN, a laissé un grand vide, rapidement comblé par des rebelles venus d’autres régions du pays. Dans ces bandes, on trouve beaucoup de têtes brûlées totalement indisciplinées et de toxicomanes patentés. Les pères de familles locaux, qui ont combattu dans les rangs rebelles, préfèrent généralement sécuriser leur région natale.

Ce que l’on remarquera surtout dans les affrontements entre factions rivales, représentant l’“ordre nouveau”, c’est que de nouvelles milices arrivent sans cesse de la ville de Misrata, en bordure de la Méditerranée. Dans cette ancienne métropole de marchands d’esclaves se concentrent aujourd’hui industrie et argent. Plus de cent bandes armées viennent de Misrata, ce qui est frappant. Bon nombre de ces bandes sont financées par des parrains très riches, qui, déjà, sous Kadhafi avaient fait fortune. Sans doute faudra-t-il trouver un compromis politique. Que ce soit ouvertement ou clandestinement, personne ne paie ici en pure perte 3000 dollars américains pour une seule Kalachnikov.

Billy SIX.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°4/2012; http://www.jungefreiheit.de/ ).

Syrie, Egypte: les guerres civiles menacent

Syrie, Egypte: les guerres civiles menacent

Entretien avec Peter Scholl-Latour

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz

Q.: Lors des élections législatives égyptiennes, la parti radical islamiste “Nour” sera le deuxième parti du pays, immédiatement derrière les Frères Musulmans. En êtes-vous surpris?

PSLarabien.jpgPSL: Que les Frères Musulmans allaient constituer le premier parti d’Egypte, ça, nous le savions dès le départ. Ce qui m’a surpris, c’est la force des mouvements salafistes; elle s’explique partiellement par deux faits: d’abord, les petites gens, surtout dans les campagnes, adhèrent à une forme rigoriste de l’islam; ensuite, les salafistes reçoivent appui et financement de l’Arabie Saoudite.

Q.: Les Frères Musulmans ont annoncé qu’ils organiseront un référendum populaire sur le traité de paix avec Israël; cette consultation amènera une majorité d’Egyptiens à rejeter ce traité de paix. Quelles vont en être les conséquences?

PSL: Pour israël, cela créera une situation entièrement nouvelle, où l’état de guerre sera restauré en pratique. Cela signifie que l’armée israélienne devra à nouveau se renforcer le long de la frontière du Sinai: c’est une charge supplémentaire et considérable. Et surtout l’Egypte ira soutenir le Hamas dans la Bande de Gaza, ce qui créera une situation très lourde à gérer pour Israël, surtout si, en Syrie, le régime d’El-Assad tombe et que, au Nord aussi, la frontière cessera d’être plus ou moins sûre.

Q.: Récemment, vous étiez à Damas et vous y avez rencontré El-Assad: quelle est le situation que vous avez observée en Syrie?

PSL: Lorsque j’étais à Damas, tout était absolument calme. Je suis allé me promener et j’ai pu voir quelques manifestations organisées pour soutenir El-Assad. Dans une autre partie de la ville, se déroulait, paraît-il, une manifestation contre El-Assad, où il y aurait eu trois morts. Mais ce genre d’incident est à peine perceptible dans une ville qui compte six millions d’habitants: les magasins étaient ouverts et les Syriens sirotaient comme d’habitude leur café aux terrasses. L’impression que donnait la ville était absolument pacifique; surtout, on ne voyait pas d’uniformes, sans doute parce la police secrète patrouillait en civil.

Q.: La guerre civile menace-t-elle en Syrie, comme le pense la Ligue Arabe?

PSL: Pour partie, on peut dire que la guerre civile sévit déjà, mais elle se limite aux régions frontalières du Nord, le long de la frontière turque. A Homs, la frontière libanaise est toute proche et, au-delà de celle-ci, un mouvement radical islamiste est très actif et offre un appui aux rebelles syriens. La guerre civile, qui éclatera probablement à l’échelle du pays entier, est indubitablement téléguidée depuis l’étranger.

Q.: Et qui incite à la guerre civile en Syrie, et pour quels motifs?

PSL: Dans le fond, l’enjeu n’est pas tant la Syrie. Ce pays est certes géré par une dictature qui n’hésite jamais à faire usage de la violence, mais ni plus ni moins que d’autres dictatures de la région; cependant, il faut savoir que la Syrie a amorcé une certaine coopération avec l’Iran et l’objectif de la manoeuvre en cours est d’empêcher les Iraniens de bénéficier d’un lien territorial, via l’Irak et la Syrie, avec le Hizbollah libanais et de créer ainsi de facto une zone chiite entre l’Afghanistan et la Méditerranée.

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°3/2012 – http://www.zurzeit.at ).

Krantenkoppen Januari 2012 (4)

Krantenkoppen
Januari 2012 (4)

RUSLAND: DE GEOPOLITIEKE INZET:
"Onze denkrichting had al (...) resoluut gebroken met de dominante visie in het westen, van de ultraconservatieven tot de ultraliberalen en trotskisten, die de Sovjetunie voorstelde als vraatzuchtige wolf die likkebaardend klaarstond om zich op die arme liberale en democratische schaapjes te storten. Deze lasterlijke houding ten opzichte van de USSR had te maken met het feit dat zij (...) de erfgename van het eeuwige Rusland was, dat van de tsaren die de Mongolen en de Tataren uit Europa hadden verdreven. Tegenwoordig moeten we vaststellen dat diezelfde krachten zich opnieuw verenigen om de hernieuwingspolitiek van president Poetin aan de kaak te stellen. Ze geven zich daarbij in het media-universum zonder enige gêne over aan (...) een 'metapolitieke oorlog' (...), teneinde een meerderheid van de burgers in alle landen van de wereld en bij alle mogelijke politieke strekkingen braafjes één of andere variant van het door de Amerikaanse desinformatie-industrie gepopulariseerde discours te doen aannemen. Het is de wil van deze cenakels om de wereld te laten zien en vatten volgens (...) de hegemoniale politiek van Washington. Met andere woorden, het op de hele planeet doen aanvaarden van een politiek die 1) erop gericht is om alle 'gevaarlijke' machten aan de kusten van Azië of Europa (...) uit te schakelen en 2) [Rusland] in te dammen en te verstikken":
http://euro-synergies.hautetfort.com/archive/2012/01/24/rusland-de-geopolitieke-inzet.html
 
 
EEN HETE WINTER IN SICILIË:
"In Sicilië kwamen sinds half januari 2012 meer dan een half miljoen manifestanten op straat. Havens en spoorwegen zijn versperd, autostrades geblokkeerd door misnoegde vrachtwagenchauffeurs, de rekken van nagenoeg elke supermarkt zijn leeg en tankstations hebben geen druppel benzine meer. In de hoop nog brandstof te kunnen bemachtigen slapen mensen op straat. Zo ver het oog reikt zit het verkeer... vast, zelfs wie niet mee staakt, geraakt vaak niet op het werk.
De brandstofprijzen klommen op korte tijd naar een historisch hoogtepunt door torenhoge taxaties, een stijging van 50 eurocent zorgde ervoor dat de Siciliaan momenteel zo’n 1,72 euro per liter betaalt, een onmogelijke uitgave voor het merendeel van de arme bevolking. Samen met de draconische maatregelen die Mario Monti, de kersverse eerste minister van Italië, doorvoert, was dat de druppel die de emmer deed overlopen voor een groot deel van de bevolking":
http://www.apache.be/2012/01/25/een-hete-winter-in-sicilie/?utm_source=De+Werktitel+Nieuwsbrief&utm_medium=email&utm_campaign=dbe5c27a07-RSS_EMAIL_CAMPAIGN
 
 
LA SARDAIGNE, POUBELLE DE L'OTAN ET DU COMPLEX MILITARO-INDUSTRIEL:
"En Sardaigne, un territoire d'une superficie de 35.000 hectares est loué aux installations militaires. Sur l'île, on trouve des polygones de tir (Perdasdefogu), des exercices de feu (capo Teulada), des polygones pour exercices aériens (capo Frasca), des aéroports militaires (Decimomannu) et des dépôts de carburant (dans le cœur de Cagliari, alimentés par une conduite qui traverse la ville, sans compter de nombreuses casernes et sièges de commandement militaire (Aéronautique, marine) Il s'agit d'infrastructures des forces armées italiennes et de l'Otan. (...) 
Que découvre-t-on ? La vallée de Quirra, l'une des zones les plus belles et encore sauvages de la Sardaigne, a été transformée en coffre-fort de poisons à ciel ouvert. Pendant des années on a mis le couvercle sur la marmite des 'poudres de guerre' qui a décimé nombre d'habitants et militaires qui vivaient et travaillaient dans le polygone et les villages des environs. Mais maintenant, grâce à un Procureur, Domenico Fiordalisi, déterminé à suivre les plaintes des nombreuses victimes, la vérité commence à percer. Les 'secrets' sont enfin en train de se dévoiler à la lumière de la justice. (...)
Tout a commencé en 1956, lorsque le gouvernement italien décida d'installer, au beau milieu d'une zone d'incomparable beauté, où poussent les vignes, le myrte, les orangers et qui se termine sur une plage encore épargnée par les constructions, un polygone de tir, centre d'expérimentation de missiles, théâtre de 'war games' grandeur nature et de destruction à ciel ouvert d'armes obsolètes des dernières guerres. Le polygone est aussi loué à des firmes d'armement privées, à l'Otan, et à des armées diverses du monde entier, notamment Israël. Pendant des années, les habitants affirment avoir vu de mystérieux camions, venant de «l'étranger», entrer dans le polygone, et y déverser de l'armement obsolète qu'on fait ensuite exploser à ciel ouvert. Pendant des années, des gardes forestiers, ont constaté les maladies des bergers et du bétail, les brebis qui sautaient sur des armes, encore en état de fonctionnement, éparpillées partout dans les champs et sur la plage. (...)
Toutes ces constatations devraient être replacées dans le cadre réflexif plus vaste, comme celui de la militarisation de la Méditerrané par l'Otan à des fins stratégiques, l'intérêt financier du complexe-militaro industriel, le déficit démocratique (secret d'état, mépris des populations locales etc.), le contrôle de la population civile et plus précisément des migrants, la corruption, le mépris de l'environnement, le manque de vision politique à long terme, la loi du profit, les préparatifs actuels des guerres futures et le maintien des guerres actuelles (Afghanistan)."
 
 
PETROLE, DOLLAR, OR, IRAN: QUI ISOLE QUI?
By trading in gold, New Delhi and Beijing enable Tehran to bypass the upcoming freeze on its central bank’s assets and the oil embargo which the European Union’s foreign ministers agreed to impose Monday, Jan. 23. The EU currently buys around 20% of Iran’s oil exports. The vast sums involved in these transactions are expected, furthermore, to boost the price of gold and depress the value of the dollar on world markets":
http://www.dedefensa.org/article-petrole_dollar_or_iran_qui_isole_qui__25_01_2012.html
 
 
GADAFFI'S GREEN FLAG RAISED IN LIBYAN TOWN AFTER BLOODY UPRISING:
"The collapse of NTC authority in [Bani Walid], one of the most die-hard bastions of pro-Gaddafi sentiment (...), could not come at a worse time. Growing discontent about the NTC has spread across the country - with the biggest demonstrati...on taking place in Benghazi, the birthplace of last year's uprising. Abdel Hafiz Ghoga, vice-president of the NTC, resigned on Monday after a series of violent protests in the eastern port city. (...)
The [NTC] is also under increasing pressure (...) over Gaddafi’s influential son Saif. (...) The case has become an unlikely rallying point for global human rights advocates. The NTC have been criticised for failing to tell him what he is charged with or give him access to a lawyer.
Saif, who lost his right thumb and forefinger during the civil war, is also denied visitors, television, radio and the internet at his compound in Zintan, 100 miles from Tripoli. Libyan leaders insist the country will hold a trial. But Donatella Rovera, an Amnesty International official, said the NTC had failed to put in place a trial system with independent judges and skilled prosecutors."
 
 
LIBYANS STORM NTC HEADQUARTERS:
"Two weeks of protests in the city of Benghazi (...) came to a head when protestors used grenades to blow the gates off the National Transitional Council (NTC) compound housing the interim government. (...) Tensions mounted when the NTC passed a series of laws determining how parliamentary elections would be conducted this June – making no mention of how seats in the new legislature would be divv...ied out between different cities and regions. Seeing that the allocation of legislative seats will ultimately shape the distribution of the country’s vast oil wealth, many demonstrators contend the NTC is not seeking to fulfill (...) democratic aspirations. (...)
However, calls for greater freedoms belie the actual situation on the ground in post-Gaddafi Libya. According to a November report by the UN Secretary General, at least 7,000 men, women and children were illegally detained by rebel militi...as in Libya. Many of them (...) have been subjected to torture and other systematic forms of mistreatment. Clashes between rival militia factions have also become an increasingly common sight in the streets of Tripoli. 
­Radio host and author Stephen Lendman believes the crowds are unhappy with the new, Western-backed government: 'A couple of 100 former rebel fighters stormed the Parliament in Benghazi. (...) The new election was drawn up and the people were promised they would have a say, but the people have had no say whatsoever – everything has been secretive. And the NTC government – let’s face it – is the puppet of Western governments serving Western interests, having absolutely no interest in ordinary Libyans.'
It's Iraq all over again, says international consultant Adrian Salbuchi, with the flag of democracy brought in to guard Western geopolitical interests and pump oil while the 'invaded' nation’s needs are ignored."
 
 
NATO VS. SYRIA:
"NATO is already clandestinely engaged in the Syrian conflict, with Turkey taking the lead as US proxy. Ankara’s foreign minister, Ahmet Davitoglu, has openly admitted that his country is prepared to invade as soon as there is agreement among the Western allies to do so. The intervention would be based on humanitarian principles, to defend the civilian population based on the 'responsibility to protect' doctrine that was invoked to justify Libya. Turkish sources suggest that intervention would start with creation of a buffer zone along the Turkish-Syrian border and then be expanded. (...)
Unmarked NATO warplanes are arriving at Turkish military bases close to Iskenderun near the Syrian border, delivering weapons from the late Muammar Gaddafi’s arsenals as well as volunteers from the Libyan Transitional National Council who are experienced in pitting local volunteers against trained soldiers, a skill they acquired confronting Gaddafi’s army. Iskenderum is also the seat of the Free Syrian Army, the armed wing of the Syrian National Council. French and British special forces trainers are on the ground, assisting the Syrian rebels while the CIA and US Spec Ops are providing communications equipment and intelligence to assist the rebel cause, enabling the fighters to avoid concentrations of Syrian soldiers."
 
 
PRESIDENCY OF ARAB LEAGUE SEEKS TO BURY OWN EXPERTS' REPORT:
"Since the outbreak of the events that have cast a dark shadow over Syria, 2 interpretations stand in opposition to each other: for the West and their Gulf allies, the regime crushed the popular revolution in blood, while for Syria and its BRICS allies, the country is assailed by armed groups coming from abroad.
To shed light on these events, the Arab League created an Observer Mission composed of persons appointed by each Member State (...). This diversity of experts constituted a guarantee against the possible manipulation of the outcome (...). 
The problem is that the report confirms the version of the Syrian government and demolished that of the West and the Gulf monarchies. In particular, it demonstrates that there were no lethal crackdowns on peaceful demonstrators and that all the commitments made by Damascus have been scrupulously honored. It also validates the important fact that the country is in the grips of armed groups, who are responsible for the death of hundreds of Syrian civilians and thousands among the military, as well as for hundreds of acts of terrorism and sabotage.
For this reason, Qatar now seeks to prevent the dissemination of the report by any means. Indeed, it is a real bomb that could explode in Qatar’s face and against its communication device. (...) The presidency of the League has decided not to circulate the report of the Observer Mission, nor to translate, and not even to post the original in Arabic on its website.
The Wahhabi emirate is up against a huge risk. If by chance the Western public were to gain access to the report, it is Qatar and its proxies that could be held accountable in terms of democratic deficiencies and involvement in the killing of people."
 
 
HOMS (SYRIA): EVIDENCE OF ASSAD SUPPORT IN DIVIDED CITY:
 
 
VLADIMIR POUTINE DENONCE LES IDENTITAIRES RUSSES:
"Vladimir Poutine, a dénoncé lundi 23 janvier la mouvance identitaire russe qui cherche à détruire la base multiethnique du pays, faisant un parallèle avec les nationalismes qui ont abouti en 1991 à l'implosion de l'URSS: 
'Je suis profondément convaincu que les tentatives de professer un 'nationalisme russe' dans un Etat multiethnique sont en contradiction avec notre histoire millénaire. (...) Des provocateurs de toutes sortes et nos adversaires cherchent à arracher à la Russie cette base (multiethnique) avançant des arguments entièrement faux comme le droit des Russes à l'autodétermination, la 'pureté de la race'."
 
 
AFSCHEID VAN DE VLAAMSE BEWEGING. WE HEBBEN NOOD AAN FRISSE LUCHT:
 ‎"De Vlaamse beweging zoals die vandaag de dag bestaat is een pijnlijke karikatuur van ‘het grote streven’ dat er 175 jaar geleden aan ten grondslag lag. Net als de rest van de samenleving ligt ze plat op de buik voor de geldmoloch. Dat maakt dat de staat die de Vlaamse beweging nastreeft er in wezen niet anders zal uitzien dan het huidige België. Wie niet aan het primaat van de economie wil raken, stemt ermee in dezelfde machthebbers, dezelfde machtsverhoudingen te handhaven.
De taak van een emancipatorische beweging, zoals de Vlaamse beweging er één was, is de ontvoogdingsstrijd. Dat betekent in de huidige context dat men zich niet alleen moet bevrijden van de Belgische omknelling, maar ook van een politieke klasse die elke voeling met het volk verloren heeft. Van een systeem waarin de noden van mens en gemeenschap volledig ondergeschikt worden aan het belang van a- en dus anti-sociale economische machten. Of is het misschien zo vanzelfsprekend dat de Antwerpse haven gedomineerd wordt door een rederij in Singapore; dat het rioleringsnetwerk in handen komt van een Amerikaans bedrijf; dat onze bedrijven worden uitverkocht aan anonieme kapitaalgroepen? Maar de Vlaamse Beweging zwijgt. De welvaart weet u wel. En de Vlaamse eenheid mag niet gebroken worden door levensbeschouwelijke twistpunten nietwaar?
Het enige wat deze Vlaamse beweging nog aan vijanden weet te ontwaren, zijn Walen en/of islamieten. Elke regio heeft natuurlijk recht op de vruchten van zijn arbeid en opgelegde solidariteit is zonder twijfel een kwalijke zaak. Maar of dat afdoende is om stelselmatig te spreken van ‘Waalse dieven’... Arm, arm Vlaanderen.
In het Vlaamse bewegingsverhaal staat het afscheid van Wallonië centraal. Maar wat er verder met deze regio aan de voordeur van Vlaanderen moet gebeuren, is een open vraag. Het lijkt wel alsof voor Vlaamsgezinden Wallonië niet bestaat. (...) Een onafhankelijk Wallonië is gezien de grote heterogeniteit van deze regio - Luxemburg vormt bijvoorbeeld een entiteit op zich - allicht een illusie. Maar wat moet er dan mee gebeuren? Willen de Vlaamsnationalisten mischien een Frankrijk dat zich uitstrekt tot aan de voordeur van Vlaams-Brabant?
Een Vlaamse beweging die zich blindstaart op de onafhankelijkheid zonder het staatsdenken, het machtsdenken of het primaat van de economie in vraag te durven stellen, voert een schijnvertoning op. Een Vlaamse overwinning op België, zal zo altijd een Pyrrusoverwinning zijn. (...)
We zijn het beu om in de Vlaamse beweging steeds tot dovemansoren te spreken. We zijn het beu om steeds weer die meewarige blik te krijgen, wanneer we het over Doel, het milieu of Bomspotting hebben. We zijn de ééndimensionaliteit beu waarbij élk probleem steevast herleid wordt tot een Vlaams-Waalse tegenstelling. (...) 
Misschien moeten we er (...) maar ‘ns over nadenken of ons streven zich niet beter laat samenvatten in een term als ‘regionalisme’. (...) Al te vaak moeten we vaststellen dat in onze discussies, met andersdenkenden maar ook intern, het woord nationalisme tot misverstanden aanleiding geeft. (...) Misschien moeten we toch eens even stilstaan bij de eigenlijke betekenis [van het begrip 'regionalisme'] (...) zoals deze in Van Dale staat:
1. Het cultiveren van de aparte tradities (...) van een bep. gewest, tegenover de nivellering die van de moderne staat uitgaat
2. Het streven naar verkrijging of behoud van gewestelijke autonomie
(...) De clubjes, groeperingen en partijen die voortkomen uit die Vlaamse beweging zouden mogen beseffen dat we nu op nieuwe kruispunten staan, nieuwe wegen moeten inslaan. Je kan niet meer louter ‘Vlaamse Beweging’ zijn. Bondgenootschappen zullen onherroepelijk veranderen, misschien dat vroegere ‘vijanden’ nu ‘compagnons de route’ zullen worden, vroegere medestanders zullen tegenstanders worden. Daar is niks mis mee, dat is goed zo: het is de dynamiek van de ideeën. Niks zo erg als verkeerd begrepen loyaliteit: het is niét omdat je met iemand een stuk weg hebt afgelegd, dat je ten eeuwigen dage aan elkaar hoeft gekluisterd te zijn. Alle oude ideologieën smeken om een herformulering, gaan op zoek naar nieuwe verbanden. Alleen de Vlaamse beweging blijft met gesloten ogen verder fietsen op een niet bestaand élan, zonder te zien dat het aantal renners in het peloton steeds verder slinkt."

http://www.vvb.org/doorbraak/152/194
 
RUSSIA IN COLOR, A CENTURY AGO:
"An extraordinary collection of color photographs taken between 1909 and 1912. (...) The high quality of the images, combined with the bright colors, make it difficult for viewers to believe that they are looking 100 years back in time - when these photographs were taken, neither the Russian Revolution nor World War I had yet begun":
http://www.boston.com/bigpicture/2010/08/russia_in_color_a_century_ago.html
 
 
PRO-REGERINGSMANIFESTATIE TREKT IN BOEDAPEST BIJNA 100.000 DEMONSTRANTEN:
"De Orban-manifestanten van vandaag kwamen uit alle hoeken van het land. Er waren zelfs bussen ingelegd vanuit de buurlanden Slovakije en Roemenië, waar een omvangrijke Hongaarse minderheid leeft. De betogers droegen Hongaarse vlaggen en spandoeken met 'We houden van ons land, we houden van Viktor' en 'Handen af van Hongarije. We willen geen kolonie zijn'.":
http://www.demorgen.be/dm/nl/990/Buitenland/article/detail/1383236/2012/01/21/Pro-regeringsmanifestatie-trekt-in-Boedapest-bijna-100-000-demonstranten.dhtml
 
 
LE PEN ZIT SARKOZY OP DE HIELEN IN PEILING:
"Marine Le Pen (...), de leidster van de partij Front National profiteert van een golf van ongenoegen over de economie. (...) Le Pen zou 21% van de stemmen krijgen in de eerste ronde eind april, nog slechts 2 procentpunt achter Sarkozy. De socialistische leider François Hollande leidt de peiling met 27%":
http://www.rtl.nl/(/actueel/rtlnieuws/buitenland/)/components/actueel/rtlnieuws/2012/01_januari/20/buitenland/le-pen-zit-sarkozy-op-de-hielen-in-peiling.xml
 
 
 
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Céline au bout de la nuit - Entretien avec Dominique de Roux – 1966

Céline au bout de la nuit

Entretien avec Dominique de Roux – 1966

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 

Il y a cinq ans, mourait d’une rupture d’anévrisme, à 57 ans, « l’écrivain maudit » Louis-Ferdinand Céline. Le 1er juillet 1961, on le portait en terre. Au cimetière, douze personnes, parmi lesquelles : Roger Nimier, Claude Gallimard, Arletty, Gen Paul (le compagnon de la Butte), Lucette Almanzor (sa femme, qui l’avait protégé jusqu’au bout). Une poignée de fidèles, pour celui dont Henri Miller disait : « J’ai adoré les œuvres de Céline, et je lui dois beaucoup. Céline vit en moi. Il y vivra toujours. Voilà l’important. » Tandis que Jouhandeau proclamait : « En lui, je vénérais la Pauvreté et le prestige du Martyre. » Le prophète de la décadence occidentale exerce-t-il, par-delà la tombe, une influence sur les moins de trente ans ? L’un d’eux, Dominique de Roux, trente ans justement, vient de lui consacrer un témoignage véhément, stèle en forme de poème, sous le titre : La mort de L.-F. Céline (éditions Christian Bourgeois).
 
Il vivait quand je me suis intéressé à lui, mais je ne suis jamais allé le voir. A travers lui, je retrouve la passion et l’idée que je me fais de la Littérature, en y retranchant un anti-sémitisme que je ne puis justifier.
 
En 1963, Dominique de Roux lui consacrait le n°3 des Cahiers de l’Herne, qui groupait des inédits, des extraits de la correspondance de Céline, des essais, études, témoignages, photographies, et une bibliographie très complète des livres et articles du disparu, complété en 1965 par le n°5 des mêmes Cahiers de l’Herne, encore consacré à Céline.
 
Si des écrivains de trente ans vouent un culte au prophète maudit, il n’est donc pas complètement enfoui sous la terre ?
J’ai choisi Céline, parce que je considère qu’il est, avec Marcel Proust, le second pilier des prosateurs français, à une époque où les jeunes écrivains sont obsédés par la linguistique et la théorie. Céline a créé son propre langage : il voulait la beauté, un ordre et des assonances nouvelles.
Il hésite un instant.
On ne peut enseigner Céline. La perspective où il entraîne est d’ordre poétique. En vingt ans, la littérature s’est soustraite à la vie, l’Europe s’est engourdie, avec une société sans littérature, des gens de lettres qui s’avilissent. C’est son lyrisme qui permet à Céline d’assumer, dans son intégrité, la génération qui disparaît.
Dominique de Roux rejette une mèche en arrière.
Il refusait de jouer le jeu : dédaignait l’intendance des lettres, les préfaces, les petits fours chez la duchesse, les regards obliques, dès quarante ans, versl’Académie. C’était un homme de l’Ancien Testament : Jérémie, son carcan autour du cou, lançant l’anathème.
 
En 1932, Céline (ce Dr Destouches qui soignait gratuitement dans la banlieue parisienne) remet un manuscrit à Denoël : Voyage au bout de la nuit. Le monde est condamné à mort : Bardamu, le héros, doté d’une sensibilité aiguë, prend à sa charge une souffrance que nous sommes incapables de ressentir. Ses semblables s’acharnent sur lui. Il ne lui reste qu’à les fuir. Au rendez-vous de Samarcande, la souffrance l’attend. Elle rôde des champs de bataille à l’asile d’aliénés. La seule fuite n’est-elle pas celle qui permet d’échapper à la lucidité, celle qui bascule vers le rêve et la folie ?
Les Goncourt récusent le brûlot, en lui préférant un roman de Guy Mazeline. Leur refus rend le vaincu célèbre. Il reçoit le Renaudot, et le Voyage atteint 500 000 exemplaires, dans un tourbillon d’injures littéraires.
Les journalistes le harcelaient, dit Dominique de Roux, les salonnards le traquaient. Il fuit à Bruxelles, Varsovie, Prague, Cambridge ; en Suède, en Finlande, en Europe Centrale. Il fait le tour de la terre, sûr de l’Histoire fatale, bien avant ses contemporains.
Dominique de Roux cite une lettre de Céline : « N’avertissez personne de mon passage à Anvers ! Tout ce qui ressemble à un accueil spécial fige la vie tout autour de soi… Un livre est déjà de la mort, et souvent de la mort ratée. » Le 24 mai 1933, Céline écrit : « Toute la vie que nous menons est fausse et viciée, et abominablement contraire à nos instincts dès l’origine. »
 
Essayait-il d’anesthésier son angoisse par ces errances ? Il semble qu’il ait été hanté par la prémonition de la catastrophe.
Il était de ceux qui annoncent la fin du monde, et il la croyait, il la voyait prochaine. Pour faire entendre sa protestation, il écrit des pamphlets inouïs, il abandonne la vie pour la littérature.
 
Durant cette période d’entre les deux guerres, Jérémie-Céline annonce des calamités que ses contemporains effacent d’une pirouette et d’une pichenette :
« Nous allons vers la violence. Elle est tout près. Il faut parler de l’ensemble de ce que nous ferons quand nous serons bien fixés : dans quelque temps. » Dans une autre lettre, écrite aux Baléares, l’écrivain avoue son impuissance à s’opposer au cours des événements. La Seconde Guerre mondiale, si proche, les camps de concentration, la campagne de Russie, les bombardements, les nappes de phosphore, Hiroshima…
Il commence à souhaiter une apocalypse de destruction.
 
Jacques Deval le voit, une nuit, surgir dans son bungalow d’Hollywood et, nu, continuer d’écrire dans l’été californien. Il croise au large de Cuba, traînant le formidable manuscrit de Mort à crédit : 800 pages de mort et de négation, une puissance d’invective sans égale. Comment écrivait-il ?
A la main, d’une écriture angulaire, sur de grandes feuilles retenues par des pinces à linge. Comme Flaubert, comme tout grand écrivain, il composait des milliers depages, dont il retirait ensuite la quintessence.
 
Marie Canavaggia, sa secrétaire, raconte qu’il exigeait d’elle ce que Molière attendait de sa servante. Chargée de surveiller la frappe de la dactylo, elle devait « repérer les petites bêtes ». Fallait-il remplacer un « que je fis » par « que je fisse » ? « La faute est à maintenir, pour la cadence », répondait l’auteur. Et s’il décidait de changer un mot, il recomposait entièrement sa phrase, comme les phrases voisines.
Parfois, il revenait à la charge, des heures, une nuit, quelques jours après. Il téléphonait : « Relisez-moi cette phrase… », et opérait une nouvelle métamorphose. Un mot dans le même livre changeait d’orthographe, et aussi bien un mot du petit Larousse ou du Chautard qu’un mot de son invention.
- « mais, quelques pages plus haut, vous l’écrivez autrement ?
- Et alors ? Si on a plusieurs femmes, pourquoi coucherait-on toujours avec la même ? »
- Que ce soucie de créer fond et forme entraînerait de tortures !
Il revenait trente fois à l’œuvre, recopiant, corrigeant, angoissé, lisant sa copie à voix haute, pour dépister les retouches à effectuer.
 
Un an avant de mourir, il a confié à Jean Guénot, au magnétophone, que Proust était un grand écrivain, le dernier, le plus grand de notre génération : « Proust était maniaque, c’est à dire que, au fond, il était pas bien dans la vie… C’est l’histoire de tous les gens qui écrivent. Quand vous jouissez de la vie, pourquoi la transformeriez-vous, hein ? C’est ça qu’on se demande. Faut déjà être détraqué, hein ! Quand vous vous amusez à raconter des histoires, c’est que vous fuyez la vie, n’est-ce pas, que vous la transposez… »
 
En 1960, malade, abandonné dans une maison délabrée, sur la colline de Meudon, entouré de sa compagne et ses chiens, Céline fait penser à Léautaud. Toléré en France, après s’être réfugié à Sigmaringen puis au Danemark, il paie les positions qu’il a prises durant l’Occupation.
Il attribuait au poète le pouvoir de changer le monde. Avant la guerre, il était parti pour l’URSS en croyant à la Révolution d’Octobre, et il en revint désabusé. A Moscou, il avait rédigé 50 pages de son Mea Culpa. Quelque chose allait arriver. La destruction de l’Europe la rendrait inutilisable pour un plus grand destin.
Il avait annoncé, à Médan, en prononçant l’éloge de Zola : « Notre civilisation semble bien coincée dans une incurable psychose guerrière. Nous ne vivons plus que pour ce genre de redites destructrices. »
 
En dix jours, Céline, au comble de la rage, termine Mea Culpa.
Pour lui, dit mon interlocuteur, le marxiste est devenu un despote, le nazisme une inquisition. Rien n’est plus rien. La stratégie n’est plus la stratégie, l’amour l’amour, l’Amérique l’Amérique. L’Histoire elle-même n’est plus. La littérature n’a plus d’importance quand elle n’est que pure théorie. Les écrivains devraient tenter d’expliquer Hitler, Staline, Mao-Tsé-Toung, l’actualité-mère : ces ombres mortelles sur le dormeur occidental…
 
Je veux bien que ce visionnaire ait dépassé sa pensée, mais s’agit-il d’un délire verbal ? Son antisémitisme…
C’était un homme engagé, répond Dominique de Roux. Il reproduit assez parfaitement le déchirement de son époque, dont il représente à la fois la grandeur et l’égarement. Pour lui, le mot juif n’a pas le sens habituel. Il ne désigne pas un groupe ethnique ou religieux particulier. Le mot à ses yeux tient du magique. Il y loge toute sapeur. Le juif, pour lui, c’est le marchand de canons, les deux cents familles. Il n’aurait jamais toléré la moindre persécution raciale, puisqu’il ne pouvait supporter la douleur chez les autres.
 
Céline a-t-il joué les apprentis-sorciers, ou était-il conscient de la charge de dynamite qu’il déposait ?
Il avait le dessein de conjurer le mal présent et à venir. En prononçant le mot Juif, il croyait fixer toute une charge maléfique. Himmler traquera des innocents, tandis que Céline, hanté par ses visions, proclamait : « Nous sommes dans un monde de génération et de mort et il faut nous en débarrasser. »
 
Il souhaitait faire exploser la planète. Nul ne sait ce qu’il a pensé du soleil mortel d’Hiroshima. Dominique de Roux redresse la tête.
Il a vécu la fin des Temps Modernes, de l’ère « clausewitzienne », qui s’arrête en 1945, au moment où nous sommes entrés dans l’ère de l’atome et de la stratégie. Plus que ses hantises, ses personnages, l’humanité déchue dont il capte les cris, ont exercé une influence profonde.
 
Certains écrivains font vieillir d’un seul coup les livres qui les ont précédés. Après eux, il n’est plus possible d’écrire comme autrefois. Céline est de ceux-là. Ses clochards ont chassé les bourgeois préoccupés par leurs aventures sentimentales, dans les romans de l’entre-deux-guerres. Ils ont sonné le glas d’une esthétique périmée.
Il a surtout bouleversé le style, murmure Dominique de Roux, en introduisant les cadences du langage parlé dans l’écriture. L’ortographe phonétique, la multiplication des néologismes, l’emploi de l’argot, d’un vocabulaire technique, de locutions étrangères ramassées au cours de ses voyages. Un monde vivant, grouillant, qui a révolutionné le microcosme des salons littéraires, un gros pavé dans la mare, comme Joyce, comme Borgès…
 
Quels sont les écrivains influencés par Céline ?
Ceux qui explorent la fosse aux serpents, qui trouve « autant d’art dans la laideur que dans la beauté » : Queneau, Audiberti, Beckett, Boris Vian, Jean Genêt, et, sur un autre plan, Roger Nimier.
Il se met à rire.
Nous sommes dans une époque où les écrivains de trente ans sont des gens de lettres désuets. Une certaine maffia constitue à Paris un club d’admiration mutuelle, un cénacle privilégié. La plupart des regards des jeunes écrivains sont vides. « Le poncif d’avant-garde ennuie autant que le poncif académique », écrivait Aragon à Ezra Pound. Or, écrire, ce n’est ni faire carrière, ni prolonger ses humanités. Il faut avoir la force, ne servir que sa vision.
 
Et si Céline était mort avant d’avoir écrit ses pamphlets ?
Dominique de Roux a un geste éloquent.
Il n’aurait été question que de son génie. La guerre l’a pris de court, au moment même de son outrance. La Sorbonne l’aurait reconnu, il figurerait dans les anthologies…
 
Propos recueillis par Thérèse de SAINT PHALLE.
Le Spectacle du Monde, décembre 1966
 


A lire :

Dominique de Roux, La mort de L.-F. Céline, La Table Ronde, 2007.
Jean-Luc Barré, Dominique de Roux : Le provocateur (1935-1977), Fayard, 2005.
Dominique de Roux, Il faut partir : Correspondances inédites (1953-1977), Fayard, 2007.
Philippe Barthelet, Dominique de Roux, Coll. Qui suis-je, Pardès, 2007.

A voir :
Dominique de Roux (1935-1977)

dimanche, 29 janvier 2012

Céline et le thème du Roi Krogold

Céline et le thème du Roi Krogold

par Erika Ostrovsky

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 
Céline lui aussi est d'abord, avant tout : rêveur. Au centre de cette nuit qui l'entoure et qui inonde ses oeuvres, au bout de tous les chemins de l'existence qu'il explore si implacablement, se trouve un immense réservoir de poésie et de rêve. Caché, protégé du regard vulgaire ou indifférent par un mur de silence, de défi ou de dureté, Céline préserve un sens profond, une faim inépuisable de ce domaine ancien et lointain qui appartient aux vrais poètes de tous les temps : celui du conte, de la légende, du mythe. Ce domaine est la retraite secrète à l'abri du monde d'ici-bas.
La plus frappante de ces irruptions de l'élan poétique, légendaire, mythique chez Céline, se trouve dans le thème du roi Krogold qui court comme un fil conducteur à travers les pages de Mort à crédit. Thème d'abord étrange et presque enfantin, proche du conte de fée, de l'évasion pure et de l'imagination primitive, défense contre les misères du monde, il évolue, fait irruption à plusieurs endroits capitaux du roman, indique à chaque reprise l'opposition foncière entre les deux pôles de l'existence. (A la fois symbole et synthèse du monde de l'imagination, de la poésie, du rêve); le thème du roi Krogold semble hanter Céline pendant toute sa vie (1), et continue à paraître sous une forme transfigurée, élargie jusque dans les tout derniers romans.
Si nous voulons regarder de près le thème de Krogold, nous devons nous baser sur les fragments que nous trouvons dans Mort à crédit. Bien que Céline parle à plusieurs reprises de tout un manuscrit perdu, d'un « roman épique (2) », d'une « légende celte (3) », intitulée La Volonté du roi Krogold, nous n'en avons retrouvé aucune trace. Heureusement, la légende, telle qu'elle paraît dans Mort à crédit, est suffisante pour révéler des aspects très intéressants de la vision fondamentale de Céline et nous fournit donc une clef précieuse pour la compréhension de son oeuvre.
La légende elle-même fait irruption assez abruptement dans Mort à crédit, à chaque fois qu'elle apparaît. Le récit ne se fait nullement de manière suivie : il saute, s'arrête, reprend ; ce n'est pas dans l'intrigue que réside son importance. L'histoire elle-même n'a rien d'extraordinaire : elle ressemble superficiellement à maintes oeuvres médiévales qui décrivent une lutte entre deux adversaires, et pourrait presque passer pour un pastiche des romans épiques. Céline, en parlant de Krogold, le classe parmi ses oeuvres lyriques, ironiques (4), indiquant peut-être que son penchant pour l'humour se fait sentir dans la forme donnée à la légende. Cet humour révèle peut-être un souci de dissimuler l'importance fondamentale du thème de Krogold.
Le fragment le plus important est aussi le premier qui paraît dans Mort à crédit. Introduit dans un chapitre qui débute sur un plan terre à terre, il étonne par son ton élevé, son style lyrique, la profondeur de ses jugements. La lutte entre la réalité et la légende, décrite de manière frappante, font de ce chapitre l'un des plus importants du livre.
Celui qui est élu pour écouter la légende est Gustin Sabayot, homme désabusé, fatigué, un peu charlatan, connard, abruti par les circonstances, le métier, la soif, les soumissions les plus funestes. Ferdinand lui demande : Peux-tu encore, en ce moment, te rétablir en poésie ?... faire un petit bond de cœur et de bide au récit d'une épopée, tragique certes, mais noble, étincelante !... Te crois-tu capables ?... (5) Mais Gustin reste assoupi sur son escabeau, passif, indiquant dès le début qu'il sera incapable du bond qu'on réclame de lui : ce qui fait de la légende un récit prononcé dans le vide, mais qui doit être prononcé quand même.
Le récit commence après une courte introduction, en langage parlé, comme une dernière tentative pour atteindre Gustin, pour l'entraîner vers la légende. Puis, il s'élève soudainement, prenant l'allure d'un conte ; la langue devient littéraire, noble ; le rythme ralentit. Nous sommes en pleine légende. La scène est un champ de bataille : Dans l'ombre montent les râles de l'immense agonie d'une armée. Parmi eux, Gwendor le Magnifique expire, mis à mort par le roi Krogold pour l'avoir trahi. A l'aube, la mort paraît devant Gwendor. Suit le dialogue entre Gwendor et la Mort, qui est d'une importance capitale :

« As-tu compris, Gwendor ?
— J'ai compris, ô Mort ! J'ai compris dès le début de cette journée... J'ai senti dans mon coeur, dans mon bras aussi, dans les yeux de mes amis, dans le pas même de mon cheval, un charme triste qui tenait du sommeil... Mon étoile s'éteignait entre tes mains glacées... Tout se mit à fuir ! Ô Mort ! Grands remords ! Ma honte est immense !... Regarde ce pauvre corps !... Une éternité de silence ne peut l'adoucir !...
— Il n'est point de douceur en ce monde, Gwendor ! rien que de légende ! Tous les royaumes finissent dans un rêve !... »

Le chapitre se termine sur la réaction de Gustin : sa méfiance face à la beauté, son refus de « rajeunir », sa défense contre la légende, ses demandes d'explications. Mais il n'est pas facile de mettre le monde de la poésie sur la table de dissection, sous la lumière crue de tous les jours : C'est fragile comme papillon. Pour un rien ça s'éparpille, ça vous salit. Il vaut mieux ne pas
insister, s'éloigner de ceux qui ne peuvent pas comprendre.
Et cependant, quelque chose pousse l'auteur à continuer son récit. Il se tourne vers nous dans le chapitre suivant, sans grand espoir d'être compris et avec un sourire amer, semble-t-il, pour nous décrire le château du roi Krogold : ... Un formidable monstre au cœur de la forêt, masse tapie, écrasante, taillée dans la roche... pétrie de sentines, crédences bourrelées de frises et de redans... d'autres donjons... Du lointain, de la mer là-bas... les cimes de la forêt ondulent et viennent battre jusqu'aux premières murailles...
Et Gustin a, encore une fois, une réaction négative : Gustin il n'en pouvait plus. Il somnolait... Il roupillait même. Je retourne fermer sa boutique.

Dans ces deux pages de Mort à crédit, Céline réussit à nous donner une synthèse de sa vision fondamentale. Nous reconnaissons d'abord l'opposition foncière entre le domaine de la poésie, de la légende ou du mythe, et celui de la vie quotidienne. Le bond qui projette l'homme, au-dessus, en dehors de cette vie, le moment où il se « rétablit en poésie », est le seul qui puisse le sauver d'un avilissement quasi total. Ici, cette conviction fondamentale nous est présentée de façon pessimiste, car Gustin n'est nullement capable de se rétablir en poésie. Dans son métier de médecin (et, en ceci, il est en quelque sorte le double de Ferdinand, comme Robinson l'était pour Bardamu dans le Voyage), il a été inondé par toute la misère du quartier où il exerçait : Eczémateux, albumineux, sucrés, fétides, trembloteurs, vagineuses, inutiles, les « trop », les « pas assez », les constipés, les enfoirés du repentir, tout le bourbier, le monde en transferts d'assassins, était venu refluer sur sa bouille, cascader devant ses binocles depuis trente ans, soir et matin.
C'est Gwendor le Magnifique qui paraît le premier. Le décor est important. C'est sur un énorme lit de mort, sur un champ de bataille que nous le voyons, agonisant, entouré de blessés qui râlent dans l'ombre. Lentement, le silence se fait, étouffant tour à tour cris et râles, de plus en plus faibles, de plus en plus rares... A l'aube, la Mort paraît. Le dialogue de Gwendor avec elle résume sa propre vie, la vie humaine.
La Mort devient la voix de la lucidité, de l'amère réalité. Elle fait contraste avec la douce mélancolie de Gwendor, avec ses idées romanesques et presque naïves, ses efforts pour trouver des solutions à la misère de la vie et de la mort.
Le roi Krogold, qui paraîtra plus tard dans la légende, impose déjà sa présence dans les premières remarques et dans la description de son château. Nous savons qu'il est brutal, qu'il rend sa terrible justice sans pitié. Son château, comme lui, est un formidable monstre, une masse taillée dans la roche, pleine d'oubliettes, une vraie demeure de bourreau. N'avons-nous pas là déjà l'évocation de tous les domaines monstrueux que Céline va décrire dans ses romans ultérieurs, la fondation de ces châteaux cauchemardesques qui vont s'élever dans ses dernières œuvres ? Et les armes royales, le serpent tranché au cou saignant qui proclame Malheur aux traîtres ! ne flotteront-elles pas à la cime de toutes les forteresses bourrées de cachots qui hantent les dernières œuvres de Céline ? Ici, cependant, Krogold et son château symbolisent, sans plus, tout ce qui est opposé à Gwendor : la cruauté, la victoire, l'autorité établie, la vie impitoyable.
Le côté bourreau du roi Krogold ressort plus clairement dans les autres parties de la légende que nous trouvons à divers endroits de Mort à crédit.
Grâce à lui, les forces bestiales, barbares, l'emportent ; la défaite totale, la subjugaison des victimes, de tous ceux qui ont osé s'opposer à son règne, s'accomplit. Et même dans la légende, l'amère vérité s'impose : le monstre n'est pas vaincu par le héros; la justice ne triomphe pas. C'est là le fond de la pensée de Céline qui se révèle. Il revient toujours à la surface dans ses œuvres.
Et la légende elle-même, domaine de l'imagination et du rêve qui s'incarne en Gwendor, n'est-elle pas aussi menacée que lui ? Pour triompher, les forces de la brutalité doivent rejeter ou détruire celles de la poésie. En effet dans Mort à crédit, la légende devient un danger pour son auteur, car on l'accuse d'avoir débauché le petit André par ce moyen, d'être un révolté dangereux qui sème l'indiscipline à travers les rayons de Monsieur Lavelongue. Il doit donc être châtié comme traître à l'ordre établi. Pour ses proches, il devient le maudit qui, c'est évident, finira sur l'échafaud. Il faut l'éloigner comme un pestiféré.
Ferdinand lui-même, ahuri par les conséquences de ses incursions dans le monde défendu de la poésie, devient peureux et commence à se défendre contre les tentations du rêve, de la légende. Mais il y a toujours danger qu'elles reviennent. Nora, au « Meanwell College », le menace par sa féerie, son sortilège, par des ondes, des magies, et il se défend de toutes ses forces. Le monde poétique agit avec puissance. C'est lui qu'incarne Nora à côté de l'érotique : elle émanait toute l'harmonie, tous ses mouvements étaient exquis... C'était un charme, un mirage... Quand elle passait d'une pièce à l'autre, ça faisait comme un vide dans l'âme.
En fait, Nora ressemble à Wanda la Blonbe, évoquée dans la légende du roi Krogold. Le plus grand danger, cependant, se présente quand l'enchantement de Nora est renforcé par celui des légendes, par l'éblouissement d'un livre de contes anciens. Mais celui qui a été châtié pour avoir autrefois dévoilé son dévouement au monde de la poésie, n'en veut plus souffrir ; et Ferdinand rejette celui-ci de manière féroce, brutale : Je me suis cramponné au gazon... J'en voulais plus, moi, merde ! des histoires J'étais vacciné !...
Je m'en rappelais pas moi des légendes ?... Et de ma connerie? A propos ? Non ? Une fois embarqué dans les habitudes où ça vous promène ?... Alors, qu'on me casse plus les couilles ! Cependant, il est impossible de renoncer à ce monde si puissant (6) ; Ferdinand, adulte, n'est nullement guéri de son penchant d'enfant et raconte toujours sa légende à Gustin. Il nous dit à la deuxième page du roman (qui, chronologiquement, en est la dernière) : J'aime mieux raconter des histoires. J'en raconterai de telles qu'ils reviendront exprès, pour me tuer, des quatre coins du monde. Phrase étrangement prophétique : ce sera, en effet, le destin de Céline poète.
Si la légende du roi Krogold raconte la défaite de Gwendor (le Poétique), si le roman lui-même semble décrire les attaques du monde brutal qui menace, ou les marchés dégradants qu'il faut quelquefois conclure, les dénonciations mêmes qui sont parfois nécessaires (7), Mort à crédit dans sa totalité affirme le rêve, la poésie, la légende. Non que Céline partage, avec Marcel Proust, la conviction que le domaine de l'imagination est tout-puissant. Il est vrai que la légende de Krogold, comme celle de Golo, est une projection magique, mais elle ne peut pas transfigurer la réalité. Elle reste opposée à celle-ci, île de rêve ou de poésie — fragile, facilement salie ou détruite. L'image de Krogold ne peut pas, comme celle de Golo, effectuer la métamorphose du bouton de porte de la réalité. C'est plutôt l'image qui est déchirée, anéantie, si le bouton de la porte est brusquement secoué par une main brutale ou indifférente. En dépit de cela, cependant, le côté légendaire, féerique, poétique revient continuellement dans l'oeuvre de Céline, par des moyens obliques, dans des phrases isolées, des apartés presque...
Et la légende du roi Krogold, même si Céline déplore sa disparition, n'est pas vraiment perdue. Elle ne nous donne pas seulement une clef importante pour Mort à crédit, mais elle se réanime de maintes manières dans toute son oeuvre. Ses thèmes ont des racines tellement profondes dans l'esprit de l'auteur qu'elles ne peuvent que se frayer un chemin dans ses écrits. Nous n'avons qu'à regarder les derniers romans pour voir combien les lignes du roi Krogold, esquissées d'abord de manière assez sommaire, se sont élargies et approfondies : le château de Krogold, dont nous ne voyons que la silhouette dans Mort à crédit, se concrétise pour atteindre toutes ses proportions ahurissantes dans l'immense domaine habité de monstres qu'est Kräntzlin, ou le château cauchemardesque de Siegmaringen où les démons sont des familiers. C'est là aussi que nous retrouvons un Krogold d'autant plus terrible qu'il est devenu femme : Nicha qui règne avec ses dogues et règle l'ouverture des portes de l'enfer. Mais l'autre face de la légende se réaffirme aussi. La beauté, la douceur, l'harmonie, la pitié, la poésie essentielle que nous trouvions chez Gwendor, s'étendent sur des êtres divers: des jeunes filles gracieuses qui passent un instant dans une vie(8) ; de vieilles dames fragiles qui habitent le monde de la poésie, chez lesquelles on ressent une « musique de fond », comme Mme Bonnard (9) ; des animaux qui ont une justesse, une beauté, même dans leur agonie (10), les danseuses finalement, qui s'acheminent vers toute la poésie, l'harmonie possible à l'homme, et à leur tête celle qui en est l'incarnation : Lili, Arlette, Lucette.

Erika OSTROVSKY
Céline et le thème du Roi Krogold, Herne, 1972.

La voie écossaise vers l’indépendance

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Amelie WINTHER:

La voie écossaise vers l’indépendance

Un référendum devrait avoir lieu en 2014

L’hymne national de l’Ecosse est, comme pour toutes les autres composantes du Royaume-Uni, le “God Save the Queen”. Mais lorsque les équipes écossaises de football ou de rugby se préparent à un match, c’est le chant “Flower of Scotland” que le public entonne. Déjà la première strophe évoque la lutte des Ecossais pour l’indépendance sous la conduite de leurs héros nationaux William Wallace (“Braveheart”) et Robert the Bruce: “Quand reverrons-nous des pareils à vous qui avez combattu et êtes morts pour votre petite portion de colline et de vallée, et qui avez défié l’orgueilleuse armée d’Edouard et l’avez renvoyée chez elle, pour qu’elle y réfléchisse à deux fois...”.

Le Roi Edouard I était l’adversaire des combattants écossais de la liberté au 13ème siècle. Il avait au préalable soumis le Pays de Galles, jusqu’alors indépendant. Le temps des héros courageux est certes passé, dit l’hymne, “mais nous pouvons quand même nous soulever et redevenir cette nation qui a défié l’orgueilleuse armée d’Edouard”. Outre le chant “Flower of Scotland”, il y en a d’autres, tout aussi célèbres comme “Scotland the Brave” (“Pays de mes peines, Pays de la rivière enchanteresse, Pays de mon coeur pour toujours, toi, ô brave Ecosse”) et “Scots Wha Hae”; les Ecossais d’aujourd’hui considèrent ces magnifiques chants comme les hymnes non officiels de leur pays. “Scots Wha Hae” est dû à la plume du poète national Robert Burns, dont le plus célèbre poème est “Auld Lang Syne”. Dans ce poème, Burns interprète l’allocution que Robert the Bruce fit devant son armée juste avant la bataille de Bannockburn.

Les césures de l’histoire dans les Iles Britanniques

Il existe donc en Ecosse trois hymnes non officiels, dont les paroles évoquent le refus de la tutelle anglaise et expriment sans le moindre détour une volonté de demeurer libre: c’est très significatif pour les césures que l’histoire a installées entre l’Ecosse et l’Angleterre. Avant l’union des deux royaumes en 1707, il y a eu des siècles de conquêtes et de résistances. Depuis l’union de 1707, les deux pays sont liés au sein du Royaume-Uni de Grande-Bretagne et d’Irlande (puis “Royaume-Uni de Grande-Bretagne et d’Irlande du Nord”). Pourtant, au cours de ces dernières années, la question se pose de plus en plus souvent: combien de temps cette union durera-t-elle encore?

 

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Ce qui est est en train de se passer aujourd’hui en Ecosse peut être considéré comme les signes avant-coureurs des derniers soubresauts d’un Empire qui a cru sortir grand vainqueur des guerres mondiales du 20ème siècle mais qui appartenait en fait au camp des vaincus (qui s’ignorent ou veulent s’ignorer). L’insistance actuelle des Ecossais pour obtenir l’indépendance vis-à-vis de Londres peut se lire comme le dernier acte d’une pièce de théâtre qui jouerait le déclin d’un ancien empire mondial, qui, malgré ses victoires militaires et l’engagement de forces humaines et matérielles considérables, a finalement tout perdu.

Un premier ministre écossais accusé de “populisme”

D’après Alex Salmond, premier ministre d’Ecosse, et donc le plus puissant des hommes politiques du pays, et son parti, le SNP (“Scottish National Party”), les Ecossais devraient se prononcer en 2014, lors d’un référendum, pour ou contre un avenir détaché de la tutelle londonienne. Le 24 juin 2014, les Ecossais célèbreront pour la 700ème fois leur victoire sur les Anglais lors de la fameuse bataille de Bannockburn. La date est donc symbolique.

Le SNP domine au Parlement d’Edimbourg depuis 2007 et, depuis 2011, il y domine seul, sans alliance ni cartel. Lors des dernières élections, il a obtenu la majorité absolue.

Quand un homme politique réclame l’auto-détermination nationale, on lui colle tout de suite sur le dos l’étiquette péjorative de “populiste”. Ainsi, pour donner quelques exemples, le “Rheinische Post” allemand, en janvier 2012, a écrit, dans son édition en ligne: “Le populiste Alex Salmond, 57 ans, ne disposait jadis d’aucune force réelle, en tant que chef d’un gouvernement minoritaire, pour pouvoir réaliser cette promesse”. Par ailleurs, le “Spiegel” de Hambourg, a commenté la situation actuelle en Ecosse comme suit: “Le Führer du SNP, Salmond, est considéré par tous les partis établis comme un pénible populiste et ils aspirent tous à ce que sa rhétorique en faveur de l’indépendance de l’Ecosse soit enfin démasquée. ‘Plus le référendum arrivera tôt, mieux cela vaudra’, écrit le député travailliste écossais Douglas Alexander dans le ‘Telegraph’”.

Quant à l’Université de Münster, elle formule la remarque suivante, dans un travail sur le “populisme” aux Pays-Bas et en Allemagne: “Le concept de ‘populisme’ est un concept mouvant. Les politiciens aiment l’employer et l’emploient souvent dans les querelles où ils confrontent leurs opinions. Le ‘populisme’ est une étiquette utilisée de manière inflationnaire; elle s’utilise d’autant plus souvent qu’elle ne reflète aucune clarté quant à son contenu”.

Etymologiquement parlant, “populisme” désigne en fait une politique qui s’efforce de créer une proximité particulière avec le peuple. Le dictionnaire allemand “Duden” donne pourtant la définition suivante: ce concept désigne, pour lui, une politique d’opportunisme, visant à “gagner les faveurs des masses”. Savoir si Alex Salmond a réellement les masses derrière lui, on ne le saura qu’après le référendum. Douglas Alexander, que nous venons de citer, n’est pas le seul à croire que Salmond postposera ce référendum le plus longtemps possible parce qu’il ne peut pas encore gagner une majorité d’Ecossais à son projet indépendantiste. “Le SNP joue sur le temps, parce qu’il n’a pas de réponses à toute une série de questions fondamentales”, estime David McLethie. Ce dernier siège pour le compte du parti conservateur écossais au Parlement. Ses “Tories” militent pour l’union avec l’Angleterre. Une Ecosse indépendante? En tout cas, sans eux...

Londres tente de freiner le processus

Le premier ministre britannique David Cameron a fait un pari: il ne faut pas laisser de temps au SNP pour diffuser parmi les électeurs ses vues et propositions. Plus le référendum arrivera vite, plus on aura de chances de maintenir les Ecossais dans le Royaume-Uni: tel est le calcul de Cameron. Voilà pourquoi il a proposé, à la mi-janvier 2012, que le référendum se tienne le plus rapidement possible.

Au sein du cabinet, on venait, une fois de plus, de discuter d’une loi accordant une large autonomie financière à l’Ecosse. Au cours de ces discussions, on a exigé, très nettement, que les conditions du référendum ne soient pas élaborées à Edimbourg mais à Londres. Endéans les dix-huit prochains mois, a-t-on suggéré, le référendum devra avoir lieu. Il ne devrait y avoir qu’une seule question à poser aux Ecossais, rapporte le “Neue Zürcher Zeitung”, en nous parlant de la “lutte tactique pour l’avenir de l’Ecosse”, et à cette question, il ne faudra répondre que par “oui” ou par “non”. En simplifiant le référendum de cette façon, on veut éviter que Salmond ne propose une alternative, une sorte de variante intermédiaire, qui offrirait un maximum d’autonomie à l’Ecosse, afin de parer à une défaite cuisante lors du référendum.

Le vice-président du parti de Salmond, Nicola Sturgeon, a expliqué, à ce propos, que les conservateurs anglais veulent influencer des décisions qui ne concernent que le seul peuple écossais. Mais en procédant de la sorte, le gouvernement de Londres n’obtient que le contraire  de ce qu’il souhaite en réalité. Le soutien populaire à l’indépendance ne ferait alors que croître. “Dans leur coeur, les Ecossais ne veulent pas d’une séparation totale”, pense Cameron, envers et contre tout. L’Union de 1707 a finalement été “l’un des partenariats les plus efficaces à l’échelle mondiale”. Salmond perçoit les choses différemment. “Plus il parle, mieux cela vaut pour la cause de l’indépendance”. C’est, de fait, ce que prouvent les sondages.

La BBC commente à son tour: entre les gouvernements britannique et écossais, une “guerre des mots” fait rage.

AlexSalmond-Edit-1024x1006.pngAngus Robertson est chef de la fraction SNP. Sur le site internet de son parti, il commente les assertions intrusives de Cameron: “Il est clair que la balourdise de David Cameron, à vouloir sauver la vieille union, s’est avérée contre-productive dès que les Ecossais ont entendu parler des possibilités que leur offrirait l’indépendance. Toutes les démarches qu’ont entreprises les partis anti-indépendantistes depuis l’immixtion désordonnée de Cameron n’ont suscité qu’un désir général d’indépendance et l’ampleur de ce désir montre que nous pouvons être confiants d’obtenir un ‘oui’ lors du référendum prévu pour l’automne de l’année 2014”. Le soutien à l’indépendantisme se perçoit également dans l’augmentation du nombre des membres du SNP: “Personne ne se soucie autant du développement de l’Ecosse que ceux qui y vivent. C’est pourquoi ce ceux eux, et non d’autres, qui doivent recevoir le pouvoir de décision”.

Aux questions du journal allemand “Die Welt”, Robertson avait exprimé sa conviction: “Nous avons maintenant les meilleures chances de faire passer l’indépendance. Les autres partis sont dépourvus de direction et d’orientation”. Robertson dirige la campagne en faveur du référendum sur l’indépendance. En 2007 et en 2011, où il détenait aussi cette fonction de chef  de la campagne électorale, il avait conduit son parti au succès lors des législatives.

Le pétrole écossais

Avec le slogan “It”s Scotland’s oil” (“C’est le pétrole écossais”), le SNP avait déjà séduit les électeurs dans les années 70. Pour la prochaine échéance importante, c’est-à-dire le référendum sur l’indépendance, les riches gisements de pétrole de la Mer du Nord, face aux côtes de l’Ecosse, joueront un rôle non négligeable. En octobre dernier, quatre entreprises énergétiques, parmi lesquelles des géants du marché tels BP et Shell, annonçaient qu’elles voulaient investir dix milliards de dollars pour prospecter les nouveaux gisements à l’Ouest des Iles Shetland. L’Ecosse veut profiter de cette manne plus qu’auparavant. Le ministère britannique des finances a glané près de 360 milliards d’euro au cours de ces quarante dernières années grâce au pétrole de la Mer du Nord. “Londres a suffisamment gagné grâce au pétrole écossais. Au cours des quarante prochaines années, ce seront les citoyens d’Ecosse qui en profiteront”; ces paroles sont extraites du discours de Salmond lors de la diète du SNP.

90% du pétrole qu’exploite la Grande-Bretagne se situe, géographiquement parlant, sur le territoire écossais. Raison pour laquelle, selon les partisans de Salmond, il est injuste que les dividendes de ce pétrole, fournis par les taxes payées par l’industrie et par les impôts directs, aillent dans l’escarcelle du ministère londonien. Les nationalistes écossais veulent réaliser d’autres projets avec cette manne pétrolière. Salmond veut l’investir dans un fonds d’Etat et suivre ainsi l’exemple de la Norvège, également devenue riche grâce à son pétrole. Ce système à la norvégienne permettrait d’obtenir sur le long terme une rente stable.

Londres accepte de rencontrer Alex Salmond

Comme on l’a appris courant janvier, le premier ministre britannique David Cameron veut rencontrer Alex Salmond pour discuter des projets relatifs au référendum. Les préparatifs pour cette rencontre se réaliseraient “dans les prochains jours”. Michael Moore, secrétaire d’Etat britannique pour les affaires écossaises, a également annoncé qu’il voulait rencontrer Salmond. Celui-ci, une fois de plus, a fait savoir par un intermédiaire: “Voilà une évolution des choses qui est la bienvenue; cela constitue un véritable progrès”.

Le vice-président du SNP, Sturgeon, commente cet événement survenu au 10 Downing Street: “Il faut rappeler que c’est d’abord Alex Salmond qui a proposé une rencontre avec le premier ministre et le vice-premier ministre, mais que cette proposition, dans un premier temps, a été rejetée. C’est un fait: ils ont réfléchi et ils ont changé d’avis”. D’après Salmond, Cameron aurait déjà refusé six propositions de rencontre. Le porte-paroles de Salmond a aussi rappelé que les Britanniques proposeront en date du 25 janvier 2014 une ébauche détaillée sur le référendum. “Après cela, on l’espère, les rencontres pourront avoir lieu”.

Un résultat positif lors du référendum n’aurait aucun caractère “obligatoire”, serait simplement consultatif et constituerait la première étape dans des négociatios très dures avec Londres. Mais si la volonté du peuple écossais se manifeste pour dire qu’elle ne veut plus de l’union, la voie vers l’indépendance sera tracée.

Amelie WINTHER;

(article paru dans “DNZ”, Munich, n°4/2012 – 20 janvier 2012).

CONFRONTATION BETWEEN MILITARY BLOCS: The Eurasian "Triple Alliance." The Strategic Importance of Iran for Russia and China

CONFRONTATION BETWEEN MILITARY BLOCS: The Eurasian "Triple Alliance." The Strategic Importance of Iran for Russia and China

 

Despite areas of difference and rivalries between Moscow and Tehran, ties between the two countries, based on common interests, have developed significantly.

Both Russia and Iran are both major energy exporters, they have deeply seated interests in the South Caucasus. They are both firmly opposed to NATO's missile shield, with a view to preventing the U.S. and E.U. from controlling the energy corridors around the Caspian Sea Basin.

Moscow and Tehran's bilateral ties are also part of a broader and overlapping alliance involving Armenia, Tajikistan, Belarus, Syria, and Venezuela. Yet, above all things, both republics are also two of Washington’s main geo-strategic targets.

The Eurasian Triple Alliance: The Strategic Importance of Iran for Russia and China 

China, the Russian Federation, and Iran are widely considered to be allies and partners. Together the Russian Federation, the People's Republic of China, and the Islamic Republic of Iran form a strategic barrier directed against U.S. expansionism. The three countries form a "triple alliance," which constitutes the core of a Eurasian coalition directed against U.S. encroachment into Eurasia and its quest for global hegemony.

While China confronts U.S. encroachment in East Asia and the Pacific, Iran and Russia respectively confront the U.S. led coalition in Southwest Asia and Eastern Europe. All three countries are threatened in Central Asia and are wary of the U.S. and NATO military presence in Afghanistan.

Iran can be characterized as a geo-strategic pivot. The geo-political equation in Eurasia very much hinges on the structure of Iran's political alliances. Were Iran to become an ally of the United States, this would seriously hamper or even destabilize Russia and China. This also pertains to Iran's ethno-cultural, linguistic, economic, religious, and geo-political links to the Caucasus and Central Asia.

Moreover, were the structure of political alliances to shift in favour of the U.S., Iran could also become the greatest conduit for U.S. influence and expansion in the Caucasus and Central Asia. This has to do with the fact that Iran is the gateway to Russia's soft southern underbelly (or "Near Abroad") in the Caucasus and Central Asia.

In such a scenario, Russia as an energy corridor would be weakened as Washington would "unlock" Iran's potential as a primary energy corridor for the Caspian Sea Basin, implying de facto U.S. geopolitical control over Iranian pipeline routes. In this regard, part of Russia's success as an energy transit route has been due to U.S. efforts to weaken Iran by preventing energy from transiting through Iranian territory.

If Iran were to "change camps" and enter the U.S. sphere of influence, China's economy and national security would also be held hostage on two counts. Chinese energy security would be threatened directly because Iranian energy reserves would no longer be secure and would be subject to U.S. geo-political interests. Additionally, Central Asia could also re-orient its orbit should Washington open a direct and enforced conduit from the open seas via Iran. 

Thus, both Russia and China want a strategic alliance with Iran as a means of screening them from the geo-political encroachment of the United States. “Fortress Eurasia” would be left exposed without Iran. This is why neither Russia nor China could ever accept a war against Iran. Should Washington transform Iran into a client then Russia and China would be under threat.

Misreading the Support of China and Russia for U.N. Security Council Sanctions

There is a major misreading of past Russian and Chinese support of U.N. sanctions against Iran. Even though Beijing and Moscow allowed U.N. Security Council sanctions to be passed against their Iranian ally, they did it for strategic reasons, namely with a view to keeping Iran out of Washington's orbit.

In reality, the United States would much rather co-opt Tehran as a satellite or junior partner than take the unnecessary risk and gamble of an all-out war with the Iranians. What Russian and Chinese support for past sanctions did was to allow for the development of a wider rift between Tehran and Washington. In this regard, realpolitik is at work. As American-Iranian tensions broaden, Iranian relations with Russia and China become closer and Iran becomes more and more entrenched in its relationship with Moscow and Beijing.

Russia and China, however, would never support crippling sanctions or any form of economic embargo that would threaten Iranian national security. This is why both China and Russia have refused to be coerced by Washington into joining its new 2012 unilateral sanctions. The Russians have also warned the European Union to stop being Washington's pawns, because they are hurting themselves by playing along with the schemes of the United States. In this regard Russia commented on the impractical and virtually unworkable E.U. plans for an oil embargo against Iran. Tehran has also made similar warnings and has dismissed the E.U. oil embargo as a psychological tactic that is bound to fail.

 
Left photo: President Mahmoud Ahmadinejad of Iran and President Dmitry A. Medvedev of Russia during a bilateral meeting in Dushabe, Tajikistan.
The bilateral Iranian-Russian meeting was held on the sidelines of a Shanghai Cooperation Organization summit on August 28, 2008.
Right photo: Iranian Foreign Minister Ali Akbar Salehi and Russian Foreign Minister Sergey V. Lavrov together in Moscow discussing Russia’s step-by-step nuclear proposal.


Russo-Iranian Security Cooperation and Strategic Coordination

In August 2011, the head of the Supreme National Security Council of Iran, Secretary-General Saaed (Said) Jalili, and the head of the National Security Council of the Russian Federation, Secretary Nikolai Platonovich Patrushev met in Tehran to discuss the Iranian nuclear energy program as well as bilateral cooperation. Russia wanted to help Iran rebuff the new wave of accusations by Washington directed against Iran. Soon after Patrushev and his Russian team arrived in Tehran, the Iranian Foreign Minister, Ali Akbar Salehi, flew to Moscow. 

Both Jalili and Patrushev met again in September 2011, but this time in Russia. Jalili went to Moscow first and then crossed the Urals to the Russian city of Yekaterinburg.

The Iran-Russia Yekaterinburg meeting took place on the sidelines of an international security summit. Moreover, at this venue, it was announced that the highest bodies of national security in Moscow and Tehran would henceforth coordinate by holding regular meetings. A protocol between the two countries was was signed at Yekaterinburg. 

During this important gathering, both Jalili and Patrushev held meetings with their Chinese counterpart, Meng Jianzhu. As a result of these meetings, a similar process of bilateral consultation between the national security councils of Iran and China was established. Moreover, the parties also discussed the formation of a supranational security council within the Shanghai Cooperation Council to confront threats directed against Beijing, Tehran, Moscow and their Eurasian allies. 

Also in September 2011, Dmitry Rogozin, the Russian envoy to NATO, announced that he would be visiting Tehran in the near future to discuss the NATO missile shield project, which both the Moscow and Tehran oppose.

Reports claiming that Russia, Iran, and China were planning on creating a joint missile shield started to surface. Rogozin, who had warned in August 2011 that Syria and Yemen would be attacked as "stepping stones" in the broader confrontation directed against Tehran, responded by publicly refuting the reports pertaining to the establishment of a joint Sino-Russo-Iranian missile shield project.

The following month, in October 2011, Russia and Iran announced that they would be expanding ties in all fields. Soon after, in November 2011, Iran and Russia signed a strategic cooperation and partnership agreement between their highest security bodies covering economics, politics, security, and intelligence. This was a long anticipated document on which both Russia and Iran had been working on. The agreement was signed in Moscow by the Deputy Secretary-General of the Supreme Security Council of Iran, Ali Bagheri (Baqeri), and the Under-Secretary of the National Security Council of Russia, Yevgeny Lukyanov.

In November 2011, the head of the Committee for International Affairs in the Russian Duma, Konstantin Kosachev, also announced that Russia must do everything it can to prevent an attack on neighbouring Iran. At the end of November 2011 it was announced that Dmitry Rogozin would definitely visit both Tehran and Beijing in 2012, together with a team of Russian officials to hold strategic discussions on collective strategies against common threats.

   
Left and right photos: Secretary-General Jalili and Secretary Patrushev in Tehran, Iran holding Iranian-Russian national security talks during August 2011.

 
Left photo: Deputy Secretary-General Ali Bagheri at a press conference in Moscow, Russia after signing a security pact with Russian officials.
Right photo: Konstantin Kosachev, the Chairperson of the Committee for International Affairs in the Russian Duma.
 

Russian National Security and Iranian National Security are Attached

On January 12, 2012, Nikolai Patrushev told Interfax he feared that a major war was imminent and that Tel Aviv was pushing the U.S. to attack Iran. He dismissed the claims that Iran was secretly manufacturing nuclear weapons and said that for years the world had continuously heard that Iran would have an atomic bomb by next week ad nauseum. His comments were followed by a dire warning from Dmitry Rogozin.

On January 13, 2012, Rogozin, who had been appointed deputy prime minister, declared that any attempted military intervention against Iran would be a threat to Russia's national security. In other words, an attack on Tehran is an attack on Moscow. In 2007, Vladimir Putin essentially mentioned the same thing when he was in Tehran for a Caspian Sea summit, which resulted in George W. Bush Jr. warning that World War III could erupt over Iran. Rogozin's statement is merely a declaration of what has been the position of Russia all along: should Iran fall, Russia would be in danger.

Iran is a target of U.S. hostility not just for its vast energy reserves and natural resources, but because of major geo-strategic considerations that make it a strategic springboard against Russia and China. The roads to Moscow and Beijing also go through Tehran, just as the road to Tehran goes through Damascus, Baghdad, and Beirut. Nor does the U.S. want to merely control Iranian oil and natural gas for consumption or economic reasons. Washington wants to put a muzzle around China by controlling Chinese energy security and wants Iranian energy exports to be traded in U.S. dollars to insure the continued use of the U.S. dollar in international transactions.

Moreover, Iran has been making agreements with several trade partners, including China and India, whereby business transactions will not be conducted in euros or U.S. dollars. In January 2012, both Russia and Iran replaced the U.S. dollar with their national currencies, respectively the Russian rouble and the Iranian rial, in their bilateral trade. This was an economic and financial blow to the United States.

 
Left photo: Vladimir V. Putin and Mahmoud Ahmadinejad holding talks in Tehran, Iran on the sidelines of a summit of Caspian Sea nations in October 2007.
Right photo: Dmitry O. Rogozin, the departing representative of Russia at NATO Headquarters in Brussels, Belgium.


Syria and the National Security Concerns of Iran and Russia

Russia and China with Iran are all staunchly supporting Syria. The diplomatic and economic siege against Syria is tied to the geo-political stakes to control Eurasia. The instability in Syria is tied to the objective of combating Iran and ultimately turning it into a U.S. partner against Russia and China. 

The cancelled or delayed deployment of thousands of U.S. troops to Israel for "Austere Challenge 2012" was tied to ratcheting up the pressure against Syria. On the basis of a Voice of Russia report, segments of the Russian media erroneously reported that "Austere Challenge 2012" was going to be held in the Persian Gulf, which was mistakenly picked up by news outlets in other parts of the world. This helped highlight the Iranian link at the expense of the Syrian and Lebanese links. The deployment of U.S. troops was aimed predominately at Syria as a means of isolating and combating Iran. The "cancelled" or "delayed" Israeli-U.S. missile exercises most probably envisaged preparations for missile and rocket attacks not only from Iran, but also from Syria, Lebanon, and the Palestinian Territories.

Aside from its naval ports in Syria, Russia does not want to see Syria used to re-route the energy corridors in the Caspian Basin and the Mediterranean Basin. If Syria were to fall, these routes would be re-synchronized to reflect a new geo-political reality. At the expense of Iran, energy from the Persian Gulf could also be re-routed to the Mediterranean through both Lebanon and Syria.

 
Left photo: Syrian Defence Minister Dawoud (David) Rajha visiting the docked Russian aircraft carrier Admiral Kuznetsov in the Syrian port of Tartus on January 8, 2012.
Right photo: Syrian allies, Secretary-General Hassan Nasrallah of Hezbollah and Mahmoud Ahmadinejad of Iran, join President Bashar Al-Assad for a summit in Damascus, Syria on February 25, 2010.
 


 
Left photo: The Alvand, one of the two Iranian warships that visited the Syrian port of Lattakia during February 2011.
Right photo: Rear-Admirial Habibollah Sayyari holding a press conference on February 28, 2001 at the Iranian Embassy in Syria about the Iranian naval presence off Syria’s Mediterranean coast.
 


Mahdi Darius Nazemroaya is a Sociologist and award-winning author. He is a Research Associate at the Centre for Research on Globalization (CRG), Montreal. He specializes on the Middle East and Central Asia. He has been a contributor and guest discussing the broader Middle East on numerous international programs and networks such as Al Jazeera, Press TV and Russia Today. His writings have been published in more than ten languages​​. He also writes for the Strategic Culture Foundation (SCF), Moscow.

 Global Research Articles by Mahdi Darius Nazemroaya

Il percorso ideologico di Otto Strasser

Il percorso ideologico di Otto Strasser

otto.jpgOtto Strasser nasce il 10 settembre 1897 in una famiglia di funzionari bavaresi. Suo fratello Gregor (che sarà uno dei capi del partito nazista ed un serio concorrente di Hitler) è maggiore di cinque anni. L’uno e l’altro beneficiano di solidi antecedenti familiari: il padre Peter, che si interessa di economia politica e di storia, pubblica sotto lo pseudonimo di Paaul Weger un opuscolo intitolato Das neue Wesen, nel quale si pronuncia per un socialismo cristiano e sociale. Secondo Paul Strasser, fratello di Gregor e Otto, “in questo opuscolo si trova già abbozzato l’insieme del programma culturale e politico di Gregor e Otto, cioè un socialismo cristiano sociale, che è indicato come la soluzione alle contraddizioni e alle mancanze nate dalla malattia liberale, capitalista e internazionale dei nostri tempi.” Quando scoppia la Grande Guerra, Otto Strasser interrompe i suoi studi di diritto e di economia per arruolarsi il 2 agosto 1914 (è il più giovane volontario di Baviera). Il suo brillante comportamento al fronte gli varrà la Croce di Ferro di prima classe e la proposta per l’ Ordine Militare di Max-Joseph. Prima della smobilitazione nell’aprile/maggio 1919, partecipa con il fratello Gregor, nel Corpo Franco von Epp, all’assalto contro la Repubblica sovietica di Baviera. Ritornato alla vita civile Otto riprende i suoi studi a Berlino nel 1919 e fonda la “Associazione universitaria dei veterani socialdemocratici”.

Nel 1920, alla testa di tre “centurie proletarie” resiste nel quartiere operaio berlinese di Steglitz al putsch Kapp (putsch d’estrema destra). Lascia poco dopo la SPD (Partito social-democratico) quando questa rifiuta di rispettare l’accordo di Bielefeld concluso con gli operai della Ruhr (questo accordo prevedeva il non-intervento dell’esercito nella Ruhr, la repressione degli elementi contro-rivoluzionari e l’allontanamento di questi dall’apparato dello Stato, nonché la nazionalizzazione delle grandi imprese), spostandosi dunque a sinistra dell’SPD. Tornato in Baviera, Otto Strasser incontra Hitler e il generale Ludendorff presso il fratello, che lo invita a legarsi al nazionalsocialismo, ma Otto rifiuta. Corrispondente della stampa svizzera e olandese, Otto si occupa, il 12 ottobre 1920, del congresso dell’USPD (Partito social-democratico indipendente) ad Halle, dove incontra Zinovev. Scrive su “Das Gewissen”, la rivista di Moeller van den Bruck e Heinrich von Gleichen, un lungo articolo sul suo incontro con Zinovev. E’ così che fa la conoscenza di Moeller van den Bruck che lo farà avvicinare alle proprie idee. Otto Strasser entrerà poco dopo nel ministero per gli approvvigionamenti, prima di lavorare, a partire dalla primavera del 1923, in un consorzio di alcolici. Tra il 1920 e il 1925 si attua nello spirito di Strasser una lenta maturazione ideologica data da esperienze personali (esperienza del fronte e della guerra civile, incontro con Zinovev e Moeller, esperienza della burocrazia e del capitalismo privato) e di diverse influenze ideologiche. Dopo il mancato putsch del 1923, l’imprigionamento di Hitler e l’interdizione del NSDAP che l’hanno seguito, Gregor Strasser si è ritrovato nel 1924 con il generale Ludendorff e il politico völkisch von Graefe alla testa del ricostituito partito nazista. Appena uscito di prigione Hitler riorganizza il NSDAP (febbraio 1925) e incarica Gregor Strasser della direzione del partito nel Nord della Germania. Otto allora raggiunge il fratello che l’ha chiamato. Otto sarà l’ideologo, Gregor l’organizzatore del nazismo in Germania settentrionale. Nel 1925 è fondato un “Comitato di lavoro dei distretti settentrionali e occidentali tedeschi del NSDAP” sotto la direzione di Gregor Strasser; questi distretti manifestano così la loro volontà d’autonomia (e di democrazia interna) nei confronti di Monaco. Inoltre il NSDAP settentrionale prende un orientamento nettamente gauchiste sotto l’influenza di Otto Strasser e di Jospeh Goebbels che espongono le loro idee in un quindicinale destinato ai quadri del partito, il “National-sozialistische Briefe”. Dall’ottobre 1925 Otto dà al NSDAP del Nord un programma radicale. Hitler reagisce dichiarando inalterabili i venticinque punti del programma nazista del 1920 e concentrando nelle sue mani tutti i poteri decisionali del Partito. Richiama Goebbels nel 1926, convince Gregor Strasser proponendogli il posto di capo della propaganda, poi quello di capo dell’organizzazione del Partito, espelle infine un certo numero di gauchistes (segnatamente i Gauleiter della Slesia, Pomerania e Sassonia). Otto Strasser, isolato e in totale opposizione con la politica sempre più apertamente conservatrice e capitalista di Hitler, si decide finalmente a lasciare il NSDAP il 4 luglio 1930. Fonda subito la KGRNS, “Comunità di lotta nazional-socialista rivoluzionaria”. Ma poco dopo la scissione strasseriana, due avvenimenti portarono alla marginalizzazione della KGRNS: anzitutto la “dichiarazione-programma per la liberazione nazionale e sociale del popolo tedesco” adottata dal Partito Comunista tedesco. Questo programma esercita sugli elementi nazionalisti anti-hitleriani una considerevole attrazione che li distoglierà dallo strasserismo ( peraltro già nell’autunno 1930 una prima crisi “nazional-bolscevica” aveva provocato l’uscita dalla KGRNS verso il Partito Comunista di tre responsabili: Korn, Rehm e Lorf); in seguito, anche il successo elettorale del Partito Nazista alle elezioni legislative del 14 settembre convinse molti naziona-socialisti della fondata validità della strategia hitleriana. La KGRNS è inoltre minata da dissensi interni che oppongono gli elementi più radicali (nazional-bolscevichi) alla direzione più moderata (Otto Strasser, Herbert Blank e il maggiore Buchrucker). Otto Strasser cerca di far uscire la KGRNS dall’isolamento avvicinando nel 1931 le SA del Nord della Germania che, sotto la guida di Walter Stennes, sono entrate in aperta ribellione contro Hitler (ma questo riavvicinamento, condotto sotto gli auspici del capitano Ehrhardt, le cui inclinazioni reazionarie sono conosciute, provoca l’uscita dei nazional-bolscevichi dalla KGRNS). Nell’ottobre 1931 Otto Strasser fonda il “Fronte Nero”, destinato a raggruppare attorno alla KGRNS un certo numero di organizzazioni vicine, quali il gruppo paramilitare “Wehrwolf”, i “Gruppi Oberland”, le ex-SA di Stennes, una parte del Movimento Contadino, il circolo costituito attorno alla rivista “Die Tat” etc. Nel 1933, decimata dalla repressione hitleriana, la KGRNS si sposta in Austria poi, nel 1934, in Cecoslovacchia. In Germania, gruppi strasseriani clandestini sopravvivono fino al 1937, data in cui vengono smantellati e i loro membri imprigionati o deportati (uno di questi, Karl-Ernst Naske, dirige oggi gli “Strasser-Archiv”). Le idee di Otto Strasser traspaiono dai programmi che ha elaborato, gli articoli, i libri e gli opuscoli che i suoi amici e lui stesso hanno scritto. Tra questi testi, i più importanti sono il programma del 1925, destinato a completare il programma del 1920 del Partito Nazista, la proclamazione del 4 luglio 1930 (“I socialisti lasciano il NSDAP”), le “Quattordici tesi della Rivoluzione tedesca”, adottate al primo congresso della KGRNS nell’ottobre 1930, il manifesto del “Fronte Nero” adottato al secondo congresso della KGRNS nell’ottobre 1931, e il libro Costruzione del socialismo tedesco, la cui prima edizione è del 1932. Da questi testi si trae un’ideologia coerente, composta di tre elementi strettamente legati tra loro: il nazionalismo, l’”idealismo völkisch” e il “socialismo tedesco”. 1) Il nazionalismo. Otto Strasser propone la costituzione di uno Stato pan-tedesco (federale e democratico) “da Memel a Strasburgo, da Eupen a Vienna” e la liberazione della nazione tedesca dal Trattato di Versailles e dal Piano Young. Auspica una guerra di liberazione contro l’Occidente (“Salutiamo la Nuova Guerra”), l’alleanza con l’Unione Sovietica ed una solidarietà internazionale anti-imperialista tra tutte le Nazioni oppresse. Otto Strasser se la prende vigorosamente anche con gli ebrei, la Massoneria e L’Ultramontanismo (questa denuncia delle “potenze internazionali” sembra ispirarsi ai violenti pamphlets del gruppo Ludendorff). Ma le posizioni di Otto Strasser si evolvono. Durante il suo esilio in Cecoslovacchia appaiono due nuovi punti: un certo filosemitismo (Otto Strasser propone che sia conferito al popolo ebraico uno statuto protettore delle minoranze nazionali in Europa e sostiene il progetto sionista – Patrick Moreau pensa che questo filosemitismo sia puramente tattico: Strasser cerca l’appoggio delle potenti organizzazioni anti-naziste americane) e un progetto di federalismo europeo che permetterebbe di evitare una nuova guerra. L’anti-occidentalismo e il filo-sovietismo di Strasser sfumano. 2) Al materialismo borghese e marxista Otto Strasser oppone un “idealismo völkisch” a fondamento religioso. Alla base di questo “idealismo völkisch” si trova il Volk concepito come un organismo di origine divina dalle caratteristiche fisiche (razziali), spirituali e mentali. La “Rivoluzione tedesca” deve, secondo Strasser, ri-creare le “forme” appropriate alla natura del popolo nel campo politico o economico così come in quello culturale. Queste forme sarebbero, in campo economico, il feudo (Erblehen); nel campo politico, l’auto-amministrazione del popolo tramite gli “Stande”, cioè degli stati – stato operaio, stato contadino etc – e nel campo “culturale, una religiosità tedesca. Principale espressione dell’ “idealismo völkisch”, un principio d’amore in seno al Volk – riconoscendo ognuno negli altri le proprie caratteristiche razziali e culturali – che deve marcare ogni atto dell’individuo e dello Stato. Questo idealismo völkisch comporta il rifiuto da parte di Otto Strasser dell’idea di lotta di classe in seno al Volk a profitto d’una “rivoluzione popolare” degli operai-contadini senza classi medie (solo una piccola minoranza di oppressori saranno eliminati), la condanna dello scontro politico tra tedeschi: Otto Strasser propone un Fronte unito della base dei partiti estremisti e dei sindacati contro le loro gerarchie e contro il sistema. Questo idealismo völkisch sottintende lo spirito di “socialismo tedesco” decantato da Strasser e ispira il programma socialista strasseriano. Questo programma comporta i seguenti punti: parziale nazionalizzazione delle terre e dei mezzi di produzione, partecipazione operaia, il piano, l’autarchia e il monopolio dello Stato sul commercio esterno. Il “socialismo tedesco” pretende di opporsi al liberalismo come al marxismo. L’opinione di strasser sul marxismo è pertanto sfumata: “Il marxismo non aveva per Strasser alcun carattere “ebraico” specifico come per Hitler, non era l’ “invenzione dell’ebreo Marx”, ma l’elaborazione di un metodo d’analisi delle contraddizioni sociali ed economiche della sua epoca (il periodo del capitalismo selvaggio) messo a punto da un filosofo dotato. Strasser riconosceva al pensiero marxista come all’analisi dell’imperialismo di Lenin, una verità oggettiva certa. Si allontanava dalla Weltanschauung marxista a livello di implicazioni filosofiche ed utopiche. Il marxismo era il prodotto dell’era del liberalismo e testimoniava nel suo metodo analitico e nelle sue stesse strutture una mentalità la cui tradizione liberale risaliva al contratto sociale di Rousseau. L’errore di Marx e dei marxisti-leninisti stava, secondo Strasser, nel fatto che questi credevano di poter spiegare lo sviluppo storico tramite i concetti di rapporto di produzione e di lotta di classe allorquando questi apparivano validi limitatamente al periodo del capitalismo. La dittatura del proletariato, l’internazionalismo, il comunismo utopico non erano più conformi ad una Germania nella quale era cominciato un processo di totale trasformazione delle strutture spirituali, sociali ed economiche, che portava alla sostituzione del capitalismo con il socialismo, della lotta di classe con le comunità di popolo e dell’internazionalismo con il nazionalismo. La teoria economica marxista rimaneva uno strumento necessario alla comprensione della storia. Il marxismo filosofico e il bolscevismo di partito, perdono significato nello stesso momento in cui il liberalismo entra in agonia”. 3) Il “socialismo tedesco” rifiuta il modello proletario così come il modello borghese e propone di conciliare le responsabilità, l’indipendenza e la creatività personali con il sentimento dell’appartenenza comunitaria ad una società di lavoratori di classi medie e, più particolarmente, di contadini. “Strasser, come Junger, sogna un nuovo “Lavoratore”, ma di un tipo particolare, il tipo “contadino”, che sia operaio-contadino, intellettuale-contadino, soldato-contadino, altrettante facce di uno sconvolgimento sociale realizzato con la dislocazione della società industriale, lo smantellamento delle fabbriche, la riduzione delle popolazioni urbane e il trasferimento forzato dei cittadini verso il lavoro rigeneratore della terra. Per rendere in immagini contemporanee la volontà di rottura sociale della tendenza Strasser, si può pensare oggi alla Rivoluzione Culturale cinese o all’azione dei Khmer rossi in Cambogia”. Otto Strasser vuole riorganizzare la società tedesca attorno al tipo contadino. Per fare questo, preconizza la spartizione delle terre, la colonizzazione delle regioni agricole dell’Est poco popolato e la dispersione dei grandi complessi industriali in piccole unità in tutto il paese – nascerebbe così un tipo misto operaio-contadino. Patrick Moreau non esita a qualificare Otto Strasser come “conservatore agrario estremista”. Le conseguenze di questa riorganizzazione della Germania (e della socializzazione dell’economia che deve accompagnarla) sarebbero: una considerevole riduzione della produzione dei beni di consumo per il fatto dell’ “adozione di un modo di vita spartano, in cui il consumo è ridotto alla soddisfazione quasi autarchica, a livello locale, dei bisogni primi”, e “l’istituzione nazionale, poi internazionale, di una sorta di economia di baratto”. Il socialismo tedesco rifiuta infine la burocrazia e il e il capitalismo privato (Strasser conosce i misfatti dei due sistemi) e propone la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e della terra che saranno in seguito ri-distribuite a degli imprenditori sotto forma di feudi. Questa soluzione unirebbe, secondo Strasser, i vantaggi del possesso individuale e della proprietà collettiva.

Thierry Mudry

asslimes.com

samedi, 28 janvier 2012

Une nouvelle opposition "Made in Russia"

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Une nouvelle opposition "Made in Russia"

Alexandre LATSA

Ex: http://fr.rian.ru/

Les élections présidentielles approchent, et la politique intérieure russe est un thème qui est revenu de façon assez récurrente au sein des analyses et tribunes récentes de RIA-Novosti. C’est aussi l’un des thèmes les plus discutés sur l’internet russe, surtout depuis décembre 2011. Récemment Maria Selina se demandait si une nouvelle vague d’émigration aurait lieu et elle en déduisait très adroitement que les manifestations de décembre 2011 pourraient théoriquement rassembler le cortège de ceux qui, rejetant le système politique russe, pourraient choisir de faire leurs bagages. Mes lecteurs le savent, j’ai couvert les manifestations de décembre et publié des photos et des textes qui ont donné lieu à des débats enflammés sur le sujet. Bien sur la position d’étranger qui commente la scène politique russe n’est pas très confortable, mais néanmoins un regard extérieur et comparatif a parfois son intérêt.

Lors de discussions sur Facebook, Marina (une jeune franco-russe d’une 30aine d’années, trilingue, étudiante en MBA) a résumé les raisons pour lesquelles elle était descendue dans la rue pour protester contre le régime. Elle m’a écrit: " la scène politique en Russie est bloquée car le parti de Poutine ne laisse pas de possibilités de développement à d’autres partis ". Marina souhaite "l’apparition de nouveaux partis, forts et jeunes et ne plus vivre avec un seul parti dominant comme Russie-Unie". Elle dénonce aussi le "multipartisme de façade" qui règne en Russie car pour elle "les partis d’opposition sont des vieux partis dirigés par des esprits soviétiques, pour lesquels les gens votent sans conviction, seulement afin de ne pas voter pour Russie-Unie".

Cette revendication m’a entrainé dans une foule de réflexions et je ne peux m’empêcher en tant qu’étranger de tenter une comparaison avec la France. Que constatons-nous en France ? Certes une alternance existe depuis quelques décennies entre deux courants, représentés par les deux partis dominants. Mais ces deux vieux partis de centre droit (UMP) et de centre gauche (PS) présentent ils réellement des différences idéologiques fondamentales face aux contraignantes exigences supranationales de Bruxelles? Est-ce qu’on peut rêver en France, comme Marina en Russie, de "l’apparition de nouveaux partis, forts et jeunes" ? Est-ce cela "une scène politique non bloquée"? Pouvoir voter non pour un mais pour deux partis qui ne savent pas gérer l’économie française, qui ont presque le même programme et les mains totalement liées par 30 ans de mauvaise gestion préalable, qui est de leur fait? Ont-ils la moindre marge de manœuvre face aux déficits abyssaux qu’ils ont créés ? En France, des partis considérés comme plus ou moins anti système comme le Front national ou le Parti de Gauche sont tenus à l’écart de la gouvernance par de subtils mécanismes politiques. Par conséquent les représentations à l’assemblée ne sont pas non plus totalement proportionnelles, ni justes. En France aussi on choisit au premier tour et on élimine au second, cela veut dire qu’au final on ne vote pas forcement pour un parti mais contre un parti. C’est ce qu’a écrit Marina pour la Russie : "Le vote pour certains partis est principalement un vote contre Russie-Unie". Ce rêve d’une opposition digne de ce nom est intéressant. Le but d’une opposition est de porter une politique alternative à celle en vigueur.

Une opposition nouvelle et crédible en Russie devrait d’abord être identifiable, surtout quand à la teneur de son projet pour le pays, démontrer une aptitude à exercer le pouvoir, s’imposer par des élections,  et pas seulement s’opposer au pouvoir via des déclarations et des manifestations de rues.  La difficulté de s’opposer constructivement à Vladimir Poutine, d’après Viktor Loupan, est que "ce dernier est à la fois de gauche, de droite, patriote, libéral, nationaliste et mondialiste. Pour s’opposer ne serait-ce qu’à une position centriste, il faut une solide culture politique et une plateforme idéologique inébranlable. Pour devenir une véritable force politique, il faut du temps et de la patience. (…) Regardez : Mitterrand commença à s’opposer à de Gaulle en 1958 et ne parvint au pouvoir qu’en 1981".

Je ne suis pas seul à penser que les hommes et femmes politiques doivent avant tout défendre les intérêts nationaux et les citoyens de leurs pays. Je n’ai pas non plus de partis qui me satisfassent dans mon pays, la France, mais pour autant je ne sais pas ce que je penserais (et ce que penseraient mes concitoyens) si des immixtions étrangères palpables étaient constatées dans le processus politique et électoral du pays comme c’est le cas en Russie. Comme le rappelait la journaliste du courrier de Russie Clémence Laroque, le nouveau visage de la diplomatie américaine en Russie s’appelle Mike MacFaul . Ce nouvel Ambassadeur a toujours affiché ses positions en faveur d’un rétablissement des relations russo-américaines après l’ère Bush, mais il est également "considéré comme un spécialiste des révolutions de couleur". Doit-on voir un lien avec les manifestations de décembre dernier et celle de février prochain? Ou avec les accusations de financement d’opposants actifs (Nemtsov ou Navalny) par des ONGs  américaines? Ou plutôt un lien avec cette bien curieuse invitation des représentants de l’opposition russe à l’ambassade américaine de Moscou le 17 janvier dernier, soit seulement 3 jours après la nomination de cet ambassadeur en Russie?

Peut-on imaginer par exemple en France le Front National être reçu par l’ambassadeur de Russie pour se plaindre de ne pas avoir de députés? Ou Jean-Luc Mélenchon (Parti de Gauche) être reçu par l’ambassadeur  de Chine après avoir organisé des manifestations à Paris? Que penseraient les citoyens et électeurs français? J’ai publié récemment une tribune à propos de ce projet "national-démocrate" qui cherche à rassembler les deux courants que sont le courant libéral et le courant nationaliste modéré, et qui pourrait avoir émergé des manifestations de décembre dernier. Pour l’analyste russe Dimitri Olchansky les manifestations ont en effet traduit l’opposition d’un pan minoritaire de la société (qualifié de "population européenne") avec le pan majoritaire de la société (qualifié de "population archaïque"). Pour lui, cette opposition devrait entraîner l’émergence d’une idéologie nationaliste dominante, avec tous les risques que cela comprend. Pour lui Russie-Unie serait donc aujourd’hui une sorte de valve de sécurité, dont la tache principale serait de garder le pouvoir et de déverrouiller progressivement certains blocages psychologiques de la société russe, en accompagnant une subtile libéralisation du système. Ainsi, Dimitri Olchansky conclut:" plus longtemps Poutine conservera le pouvoir, plus on aura de chances de voir la société russe évoluer de façon paisible et harmonieuse. Les nationalistes finiront de toute façon par prendre le pouvoir, c’est inévitable. Mais plus tard ce jour arrivera, plus ils seront civilisés".

Pour ceux qui rêvent de la disparition du pouvoir de Russie-Unie, la seule solution crédible serait sans doute l’apparition d’une opposition non déstabilisante pour le pays, bien sur compétente, mais et surtout "Made in Russia". Certainement pas une opposition issue du passé ni une opposition financée par l’étranger. Mais une telle opposition peut elle éclore à quelques semaines des élections présidentielles?  La scène politique russe est plus passionnante que jamais.

L’opinion de l’auteur ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction.

* Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie". Il collabore également avec l'Institut de Relations Internationales et Stratégique (IRIS), l'institut Eurasia-Riviesta, et participe à diverses autres publications.

La nouvelle stratégie du Pentagone

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Andrea Perrone:

La nouvelle stratégie du Pentagone

Le secrétaire américain à la Défense, Léon Panetta, retire deux des quatre brigades américaines d’Europe et se prépare à les transférer vers la zone du Pacifique

Le gouvernement d’Obama va retirer deux des quatre brigades de l’armée américaine déployées en Europe. Le but de ce retrait est évident: épargner quelque 487 milliards de dollars sur le budget de la défense au cours des dix prochaines années, en demandant aux Européens de payer la différence, comme dans le cas du bouclier anti-missiles que Washington a imposé au Vieux Continent, tout en déplaçant les troupes américaines vers la région d’Asie-Pacifique.

La nouvelle a été annoncée par le secrétaire à la Défense, Léon Panetta, qui a également fait connaître la décision américaine de retirer environ 7000 militaires sur les 81.000 hommes que comptent les forces d’occupation en Europe, tout cela dans le cadre de la nouvelle stratégie de la défense et dans celui des mesures d’austérité qui frappent aussi le budget du Pentagone.

“Lors des colloques que nous avons eus avec les Européens, nous avons expliqué qu’il s’agira dorénavant d’une présence américaine selon un principe de rotation, par lequel on mènera les futures manoeuvres”, a précisé le chef du Pentagone, qui se faisait interviewer à Fort Bliss au Texas. “En réalité —a-t-il ajouté— nous ne verrons plus beaucoup de soldats américains en Europe, vu les dispositions prises dans le cadre de la nouvelle stratégie, parce que les brigades qui y sont en principe casernées combattent en réalité en Afghanistan et ne sont donc pas présentes. Nous aurons donc deux brigades complètes en Europe, plus une présence plus importante mais selon le principe de la rotation”. D’après ce que nous rapporte le “New York Times”, les Etats-Unis retireront encore une autre brigade d’Allemagne, au fur et à mesure que se concrétisera la nouvelle stratégie et que les opérations se focaliseront sur la zone de l’Asie-Pacifique. Déjà en 2004, le gouvernement de Bush avait demandé à ce que le nombre de brigades de combat en Europe soit réduit à deux mais, l’an dernier, le gouvernement d’Obama avait décidé tout de même d’en maintenir trois.

Obama est donc revenu en quelque sorte sur ses pas et a décidé de ne plus laisser qu’une seule brigade en Allemagne et une autre en Italie, notamment la 173ème Brigade aéroportée, basée à Vicenza.

Le redimensionnement des brigades américaines installées en Europe s’inscrit bel et bien dans le plan du Pentagone de réduire l’armée: des 560.000 militaires qu’elle compte actuellement, elle devra n’en conserver que 490.000, selon les dispositions prises par la nouvelle stratégie de la défense qui requiert des forces plus réduites, plus rapides et plus agiles; en outre, on sait déjà que les forces armées américaines, dans un futur imminent, focaliseront leurs efforts sur les régions asiatiques pour contrebalancer une Chine en croissance rapide et constante, une Chine qui est en train d’investir dans les sous-marins, les avions de chasse et les missiles de précision. Le redimensionnement des deux brigades conduira à une réduction d’environ dix à quinze mille hommes sur les 80.000 présents actuellement, tous services compris, sur le théâtre européen. Le gouvernement d’Obama, souligne le “Washington Post”, a choisi cette option parce qu’elle est susceptible de générer moins de protestations au Congrès que si l’on avait opté pour une réduction des bases militaires aux Etats-Unis mêmes, car cela aurait eu des répercussions sur les économies locales qui se sont développées autour des bases.

Panetta n’a toutefois pas mentionné lesquelles des quatre brigades, actuellement déployées en Europe, le Pentagone allait réellement retirer mais, dans le passé, les autorités militaires américaines avaient élaboré des plans pour que soient retirées les 170ème et 172ème brigades d’infanterie, casernées en Allemagne à Baumholder et Grafenwöhr. Le responsable de la Défense n’a pas davantage parlé du calendrier de ce redéploiement ni expliqué si les unités rappelées d’Europe rentreraient dans les bases américaines ou seraient complètement rendues inactives.

Le Général Mike Hertling, commandant l’armée américaine en Europe, a précisé “qu’il y aura davantage de possibilités pour ces forces de recevoir leur instruction et de participer à des manoeuvres communes avec nos alliés européens”. Le général a ensuite déclaré être “optimiste”, et qu’il croyait que “la nouvelle approche contribuera à renforcer les alliances et les forces”. Mais il n’a pas spécifié quelles unités de l’armée seront impliquées dans le changement.

La nouvelle stratégie de Washington paraît fort semblable à celle décidée en 2001 par le Président républicain de l’époque, George W. Bush, pour pouvoir mener à bien les invasions de l’Afghanistan et de l’Irak. Mais avec une différence: à l’époque, Bush avait augmenté le budget de la Défense tandis qu’Obama a l’intention de le réduire. Toutefois le retrait des troupes américaines annoncé par Obama s’inscrit dans le plan qu’avait exposé Hillary Rodham Clinton au courant du mois d’octobre dernier dans les pages de la revue “Foreign Policy”. Il s’agissait de renforcer le contrôle de la région d’Asie-Pacifique dans le but de faire pièce à la croissance économique et militaire du Dragon chinois. Les présidents américains se succèdent au fil du temps mais les finalités de l’Empire “Stars and Stripes” demeurent invariablement les mêmes.

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu )

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 14 janvier 2012; http://www.rinascita.eu ).

L’Arabie Saoudite, faire-valoir idéal pour les ingérences américaines en Iran

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Alessia LAI:

 

L’Arabie Saoudite, faire-valoir idéal pour les ingérences américaines en Iran

L’Iran avertit: “Si les Saoudiens veulent se substituer à nous, ils seront responsables de tous les incidents qui se produiront”

La question nucléaire iranienne et les sanctions internationales qui en découlent sont en train d’attiser les tensions dans le Golfe Persique et d’exaspérer la rivalité historique entre l’Iran et l’Arabie Saoudite. Dimanche 15 janvier 2012, l’Iran a lancé un avertissement clair à ses voisins du Golfe: ils ne doivent pas s’aligner sur les sanctions de l’Occident en fournissant leur propre pétrole pour compenser le manque de fournitures qui seraient dues à l’embargo contre Téhéran. “Ces signaux, que nous lançons, ne sont nullement amicaux et nous invitons les responsables de l’Arabie Saoudite à réfléchir avant d’agir”: telle fut la réponse du ministre iranien des affaires étrangères Ali Akbar Salehi.

Le lendemain, lundi 16 janvier, le ministre saoudien du pétrole, Ali al-Nuaimi, a assuré que son pays pourrait rapidement compenser les exportations de brut iranien en cas de nécessité; il ajoutait que si l’Iran devait bloquer le Détroit d’Ormuz, passage stratégique à l’entrée du Golfe, en guise de représailles à tout éventuel embargo, ce détroit ne resterait pas fermé très longtemps. “Actuellement, nous produisons entre 9,4 et 9,8 millions de barils par jour”, a précisé al-Nuaimi, alors que “nous avons une capacité dep roduction de 12,5 millions de barils par jour. En peu de jours, nous pourrions facilement atteindre une production allant jusqu’à 11,4 barils par jour”.

Ces paroles ont évidemment déplu à Téhéran: “Si telle est la position officielle de l’Arabie Saoudite, nous invitons les autorités de ce pays à réagir plus calmement, avec un bon sens de la responsabilité et avec sagesse”. Telle fut la réplique de Salehi, qui a ajouté que les Iraniens ont bien l’intention de “rester tolérants à l’égard des pays du Golfe Persique, et à l’égard de l’Arabie Saoudite en particulier”. Il a rappelé que des affirmations du genre ont déjà été proférées dans le passé. Pourtant la situation est particulièrement tendue, vu la décision de l’UE d’imposer des sanctions à partir du 23 janvier et vu les pressions qu’exercent les Etats-Unis sur les pays asiatiques pour qu’ils réduisent leurs importations de brut iranien. Le Japon, sollicité par le ministre américain du trésor, craint de devoir réduire de 10% ses importations de brut iranien. Toutefois, un jour plus tard, le premier ministre japonais a redimensionné les déclarations du ministre des finances Azumi.

L’offensive américaine s’est alors concentrée sur la Corée du Sud, dont les importations de pétrole iranien sont plus importantes: 9,6% de toutes ses nécessités en brut viennent d’Iran. Séoul devra opter pour une exemption temporaire des restrictions en matière d’importation de pétrole, à condition de réduire significativement tous les autres échanges avec Téhéran. Les Coréens motivent comme suit la demande temporaire d’exemption: ils doivent d’abord trouver d’autres sources d’approvisionnement. La proposition saoudienne va évidemment dans ce sens: fournir les clients de l’Iran quand celui-ci sera soumis à l’embargo promis et appuyer à sa façon les mesures vexatoires que les Etats-Unis prennent à l’égard de l’Iran.

La situation est rendue encore plus compliquée, notamment vu la tournée (la première depuis vingt ans dans la région) du premier ministre chinois Wen Jiabao dans la péninsule arabique. Wen Jiabao a commencé ce voyage à Ryad, où il a signé un accord pour la construction d’une raffinerie à Yanbou, ville portuaire sur les rives de la Mer Rouge. La Chine, qui a approuvé les sanctions de l’ONU mais critique celles prises unilatéralement par les Etats-Unis et l’UE, est le premier pays importateur de brut iranien, pour un volume correspondant à 5% de sa demande interne. En revanche, les Chinois couvrent 25% de leurs besoins en se fournissant auprès des monarchies du Golfe. La position de la Chine sur la question du nucléaire iranien est donc d’une importance cruciale.

Malgré les pressions américaines, l’Inde a déclaré qu’elle continuerait à se fournir en Iran: “Nous continuerons à acquérir notre pétrole en Iran”, a dit le ministre indien des affaires étrangères, Ranjan Mathai, au cours d’une conférence de presse. Demeure le fait que les offres saoudiennes constituent non seulement un affront à l’Iran mais sont contraires aux principes mêmes de l’OPEP, l’organisation qui équilibre la production de pétrole dans le monde. Pour cette raison, le représentant de l’Iran auprès de l’OPEP, Mohammed Ali Khatibi, dans un entretien accordé au quotidien “Sharq”, a affirmé que “si nos voisins du Sud utilisent leur capacité de production pour se substituer à notre pétrole et s’ils décident de coopérer avec des pays aventuriers (c’est-à-dire dans sa terminologie: “occidentaux”), ils seront responsables de tous les incidents qui se produiront et leur attitude ne sera pas considérée comme amicale”’.

Ensuite, Téhéran a invité les pays européens, qui, prochainement, décideront d’un embargo sur le pétrole iranien, à tenir compte de leurs “intérêts nationaux”. Quelque 18% des exportations iraniennes s’acheminent vers l’Europe et, en particulier, vers l’Italie (180.000 barils/j.), l’Espagne (160.000 barils/j.) et la Grèce (100.000 barils/j.). On sait déjà que Rome s’est immolée sur l’autel des intérêts américains, est restée sourde aux bons conseils venus de Téhéran: “Si l’Union Européenne se veut sérieuse quand elle affirme son indépendance, alors elle devrait se concentrer sur ses intérêts nationaux et non céder aux pressions politiques américaines”, comme l’a dit le porte-paroles du ministère iranien des affaires étrangères, Ramin Mahmanparast.

Alessia LAI.

( a.lai@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 18 janvier 2012; http://www.rinascita.eu ).

Armin Mohler: discípulo de Sorel e teórico da vida concreta

Armin Mohler: discípulo de Sorel e teórico da vida concreta

amb715fd1078.jpgO “mito”, como a “representação de uma batalha”, surge espontaneamente e exerce um efeito mobilizador sobre as massas, incute-lhes uma “fé” e torna-as capazes de actos heróicos, funda uma nova ética: essas são as pedras angulares do pensamento de Georges Sorel (1847-1922). Este teórico político, pelos seus artigos e pelos seus livros, publicados antes da primeira guerra mundial, exerceu uma influência perturbante tanto sobre os socialistas como sobre os nacionalistas.

Contudo, o seu interesse pelo mito e a sua fé numa moral ascética foram sempre – e continuam a sê-lo apesar do tempo que passa – um embaraço para a esquerda, da qual ele se declarava. Podemos ainda observar esta reticência nas obras publicadas sobre Sorel no fim dos anos 60. Enquanto algumas correntes da nova esquerda assumiram expressamente Sorel e consideravam que a sua apologia da acção directa e as suas concepções anarquizantes, que reclamavam o surgimento de pequenas comunidades de “produtores livres”, eram antecipações das suas próprias visões, a maioria dos grupos de esquerda não via em Sorel mais que um louco que se afirmava influenciado por Marx inconscientemente e que trazia à esquerda, no seu conjunto, mais dissabores que vantagens. Jean-Paul Sartre contava-se assim, evidentemente, entre os adversários de Sorel, trazendo-lhes a caução da sua notoriedade e dando, ipso facto, peso aos seus argumentos.

Quando Armin Mohler, inteiramente fora dos debates que agitavam as esquerdas, afirmou o seu grande interesse pela obra de Sorel, não foi porque via nele o “profeta dos bombistas” (Ernst Wilhelm Eschmann) nem porque acreditava, como Sorel esperara no contexto da sua época, que o proletariado detivesse uma força de regeneração, nem porque estimava que esta visão messiânica do proletariado tivesse ainda qualquer função. Para Mohler, Sorel era um exemplo sobre o qual meditar na luta contra os efeitos e os vectores da decadência. Mohler queria utilizar o “pessimismo potente” de Sorel contra um “pessimismo debilitante” disseminado nas fileiras da burguesia.

Rapidamente Mohler criticou a “concepção idílica do conservantismo”. Ao reler Sorel percebeu que é perfeitamente absurdo querer tudo “conservar” quando as situações mudaram por todo o lado. A direita intelectual não deve contentar-se em pregar simplesmente o bom-senso contra os excessos de uma certa esquerda, nem em pregar a luz aos partidários da ideologia das Luzes; não, ela deve mostrar-se capaz de forjar a sua própria ideologia, de compreender os processos de decadência que se desenvolvem no seu seio e de se desembaraçar deles, antes de abrir verdadeiramente a via a uma tradução concreta das suas posições.

Uma aversão comum aos excessos da ética da convicção

Quando Mohler esboça o seu primeiro retrato de Sorel, nas colunas da revista Criticón, em 1973, escreve sem ambiguidades que os conservadores alemães deveriam tomar esse francês fora do comum como modelo para organizar a resistência contra a “desorganização pelo idealismo”. Mohler partilhava a aversão de Sorel contra os excessos da ética da convicção. Vimo-la exercer a sua devastação na França de 1890 a 1910, com o triunfo dos dreyfusards e a incompreensão dos Radicais pelos verdadeiros fundamentos da Cidade e do Bem Comum, vimo-la também no final dos anos 60 na República Federal, depois da grande febre “emancipadora”, combinada com a vontade de jogar abaixo todo o continuum histórico, criminalizando sistematicamente o passado alemão, tudo taras que tocaram igualmente o “centro” do tabuleiro político.

Para além destas necessidades do momento, Mohler tinha outras razões, mais essenciais, para redescobrir Sorel. O anti-liberalismo e o decisionismo de Sorel haviam impressionado Mohler, mais ainda do que a ausência de clareza que recriminamos no pensamento soreliano. Mohler pensava, ao contrário, que esta ausência de clareza era o reflexo exacto das próprias coisas, reflexo que nunca é conseguido quando usamos uma linguagem demasiado descritiva e demasiado analítica. Sobretudo “quando se trata de entender elementos ou acontecimentos muito divergentes uns dos outros ou de captar correntes contrárias, subterrâneas e depositárias”. Sorel formulou pela primeira vez uma ideia que muito dificilmente se deixa conceptualizar: as pulsões do homem, sobretudo as mais nobres, dificilmente se explicam, porque as soluções conceptuais, todas feitas e todas apropriadas, que propomos geralmente, falham na sua aplicação, os modelos explicativos do mundo, que têm a pretensão de ser absolutamente completos, não impulsionam os homens em frente mas, pelo contrário, têm um efeito paralisante.

Ernst Jünger, discípulo alemão de Georges Sorel

Mohler sentiu-se igualmente atraído pelo estilo do pensamento de Sorel devido à potencialidade associativa das suas explicações. Também estava convencido que este estilo era inseparável da “coisa” mencionada. Tentou definir este pensamento soreliano com mais precisão com a ajuda de conceitos como “construção orgânica” ou “realismo heróico”. Estes dois novos conceitos revelam a influência de Ernst Jünger, que Mohler conta entre os discípulos alemães de Sorel. Em Sorel, Mohler reencontra o que havia anteriormente descoberto no Jünger dos manifestos nacionalistas e da primeira versão do Coração Aventureiro (1929): a determinação em superar as perdas sofridas e, ao mesmo tempo, a ousar qualquer coisa de novo, a confiar na força da decisão criadora e da vontade de dar forma ao informal, contrariamente às utopias das esquerdas. Num tal estado de espírito, apesar do entusiasmo transbordante dos actores, estes permanecem conscientes das condições espacio-temporais concretas e opõem ao informal aquilo que a sua criatividade formou.

O “afecto nominalista”

O que actuava em filigrana, tanto em Sorel como em Jünger, Mohler denominou “afecto nominalista”, isto é, a hostilidade a todas as “generalidades”, a todo esse universalismo bacoco que quer sempre ser recompensado pelas suas boas intenções, a hostilidade a todas as retóricas enfáticas e burlescas que nada têm a ver com a realidade concreta. É portanto o “afecto nominalista” que despertou o interesse de Mohler por Sorel. Mohler não mais parou de se interessar pelas teorias e ideias de Sorel.

Em 1975 Mohler faz aparecer uma pequena obra sucinta, considerada como uma “bio-bibliografia” de Sorel, mas contendo também um curto ensaio sobre o teórico socialista francês. Mohler utilizou a edição de um fino volume numa colecção privada da Fundação Siemens, consagrado a Sorel e devida à pluma de Julien Freund, para fazer aparecer essas trinta páginas (imprimidas de maneira tão cerrada que são difíceis de ler!) apresentando pela primeira vez ao público alemão uma lista quase completa dos escritos de Sorel e da literatura secundária que lhe é consagrada. A esta lista juntava-se um esboço da sua vida e do seu pensamento.

Nesse texto, Mohler quis em primeiro lugar apresentar uma sinopse das fases sucessivas da evolução intelectual e política de Sorel, para poder destacar bem a posição ideológica diversificada deste autor. Esse texto havia sido concebido originalmente para uma monografia de Sorel, onde Mohler poria em ordem a enorme documentação que havia reunido e trabalhado. Infelizmente nunca a pôde terminar. Finalmente, Mohler decidiu formalizar o resultado das suas investigações num trabalho bastante completo que apareceu em três partes nas colunas da Criticón em 1997. Os resultados da análise mohleriana podem resumir-se em 5 pontos:

Uma nova cultura que não é nem de direita nem de esquerda

1. Quando falamos de Sorel como um dos pais fundadores da Revolução Conservadora reconhecemos o seu papel de primeiro plano na génese deste movimento intelectual que, como indica claramente o seu nome, não é “nem de direita nem de esquerda” mas tenta forjar uma “nova cultura” que tomará o lugar das ideologias usadas e estragadas do século XIX. Pelas suas origens este movimento revolucionário-conservador é essencialmente intelectual: não pode ser compreendido como simples rejeição do liberalismo e da ideologia das Luzes.

2. Em princípio, consideramos que os fascismos românicos ou o nacional-socialismo alemão tentaram realizar este conceito, mas estas ideologias são heresias que se esquecem de levar em consideração um dos aspectos mais fundamentais da Revolução Conservadora: a desconfiança em relação às ideias que evocam a bondade natural do homem ou crêem na “viabilidade” do mundo. Esta desconfiança da RC é uma herança proveniente do velho fundo da direita clássica.

3. A função de Sorel era em primeiro lugar uma função catalítica, mas no seu pensamento encontramos tudo o que foi trabalhado posteriormente nas distintas famílias da Revolução Conservadora: o desprezo pela “pequena ciência” e a extrema valorização das pulsões irracionais do homem, o cepticismo em relação a todas as abstracções e o entusiasmo pelo concreto, a consciência de que não existe nada de idílico, o gosto pela decisão, a concepção de que a vida tranquila nada vale e a necessidade de “monumentalidade”.

Não há “sentido” que exista por si mesmo.

4. Nesta mesma ordem de ideias encontramos também esta convicção de que a existência é desprovida de sentido (sinnlos), ou melhor: a convicção de que é impossível reconhecer com certeza o sentido da existência. Desta convicção deriva a ideia de que nunca fazemos mais que “encontrar” o sentido da existência forjando-o gradualmente nós próprios, sob a pressão das circunstâncias e dos acasos da vida ou da História, e que não o “descobrimos” como se ele sempre tivesse estado ali, escondido por detrás do ecrã dos fenómenos ou epifenómenos. Depois, o sentido não existe por si mesmo porque só algumas raras e fortes personalidades são capazes de o fundar, e somente em raras épocas de transição da História. O “mito”, esse, constitui sempre o núcleo central de uma cultura e compenetra-a inteiramente.

5. Tudo depende, por fim, da concepção que Sorel faz da decadência – e todas as correntes da direita, por diferentes que sejam umas das outras, têm disso unanimemente consciência – concepção que difere dos modelos habituais; nele é a ideia de entropia ou a do tempo cíclico, a doutrina clássica da sucessão constitucional ou a afirmação do declínio orgânico de toda a cultura. Em «Les Illusions du progrès» Sorel afirma: “É charlatanice ou ingenuidade falar de um determinismo histórico”. A decadência equivale sempre à perda da estruturação interior, ao abandono de toda a vontade de regeneração. Sem qualquer dúvida, a apresentação de Sorel que nos deu Mohler foi tornada mais mordaz pelo seu espírito crítico.

Uma teoria da vida concreta imediata

Contudo, algumas partes do pensamento soreliano nunca interessaram Mohler. Nomeadamente as lacunas do pensamento soreliano, todavia patentes, sobretudo quando se tratou de definir os processos que deveriam ter animado a nova sociedade proletária trazida pelo “mito”. Mohler absteve-se igualmente de investigar a ambiguidade de bom número de conceitos utilizados por Sorel. Mas Mohler descobriu em Sorel ideias que o haviam preocupado a ele também: não se pode, pois, negar o paralelo entre os dois autores. As afinidades intelectuais existem entre os dois homens, porque Mohler como Sorel, buscaram uma “teoria da vida concreta imediata” (recuperando as palavras de Carl Schmitt).

Karlheinz Weissmann

traduzido por Rodrigo Nunes

causanacional.net

vendredi, 27 janvier 2012

Plaidoyer pour un protectionnisme européen

Plaidoyer pour un protectionnisme européen

« L’UE, avec ses 495 millions d’habitants, reste à ce jour le plus vaste et le plus riche marché du monde. Face à la menace de rétorsions commerciales, elle a des arguments à faire valoir pour négocier les conditions auxquelles elle consent à acheter les produits et services du monde. » affirme Gaël Giraud, chercheur au CNRS.

Sans attendre que les circonstances nous l’imposent, il nous serait possible de développer un « protectionnisme européen raisonné ». De quoi s’agirait-il ? D’imposer des barrières douanières autour de l’Union européenne (UE), qui pénalisent les biens, services et capitaux importés des pays : qui ne respectent pas les conditions de travail « décentes » préconisées par l’Organisation internationale du travail ; qui ne respectent pas les accords internationaux de Kyoto ; qui tolèrent les sociétés écrans et permettent de contourner l’impôt dû ailleurs (non pas les paradis fiscaux au sens de la liste « grise » de l’OCDE, vidée de toute substance, mais au sens, par exemple, de l’indice d’opacité financière établi par le Tax Justice Network.

Ces conditions peuvent paraître insuffisantes : elles laissent de côté, notamment, les accords multilatéraux sur l’environnement, ainsi que tout ce qui pourrait concerner la lutte contre le dumping salarial. Elles n’en constitueraient pas moins une première étape. Quant à établir une taxe sur les biens produits dans des conditions salariales « déloyales », elle suppose une révision intellectuelle en profondeur du concept même de concurrence, qui n’est guère à la portée, aujourd’hui, de la Commission européenne ou encore de l’Organisation mondiale du commerce (OMC).

Quoi qu’il en soit, cette étape devrait s’accompagner d’un plan de transition verte de la zone euro (si cette dernière survit). La protection de notre industrie et de notre agriculture pour leur « mue » est une condition sine qua non de succès : le climat et l’énergie exigent des investissements de long terme pharaoniques (600 milliards d’euros selon la Fondation Nicolas Hulot), dans les infrastructures ferroviaires, la capture du CO2, l’isolation de l’habitat… La pression de la concurrence internationale rend difficilement envisageables de tels investissements. Il nous faut une nouvelle révolution industrielle, non moins phénoménale que celles des XVIIIe et XIXe siècles. Ni l’Angleterre, ni l’Allemagne, ni la France, les États-Unis ou le Japon n’ont eu recours aux débouchés extérieurs pour leur décollage économique.

En un sens, la taxe écologique, abandonnée par le président Sarkozy, eût été un premier pas dans cette direction. Et le Système monétaire européen, de 1979 à 1993, constituait une version tout à fait réussie, dans son principe, d’une forme de protectionnisme régional tempéré. Sans doute conviendrait-il d’édifier de telles barrières par étapes, en ménageant, au moins dans un premier temps, les relations de l’UE avec l’Amérique du Nord, la Norvège ou la Suisse, par exemple. Nous devrons également faire des exceptions pour ce qui concerne les matières premières importées, certains produits agricoles et les biens d’équipement sans lesquels les entreprises européennes ne peuvent plus tourner. Mais ces exceptions devraient être débattues à l’échelon politique européen. Quel usage, surtout, faudra-t-il faire des recettes induites par ces nouveaux droits de douane ? Elles pourraient abonder un fonds d’aide au développement des pays du Sud (destiné à les aider à améliorer les conditions de travail de leurs salariés et à diminuer, chez eux, la facture écologique) ou encore un fonds souverain européen pour accélérer la transition vers une industrie verte.

Loin de constituer un renoncement à toute forme de concurrence sur le territoire européen, un cordon sanitaire permettrait, au contraire, l’organisation d’une concurrence loyale, les entreprises qui s’installeraient en Europe ayant à travailler dans les mêmes conditions que les nôtres. Bien sûr, nous devrions nous appliquer les critères imposés au reste du monde : en particulier une harmonisation fiscale européenne (l’UE compte de nombreux paradis fiscaux, à commencer par le Royaume-Uni, le Luxembourg, l’Autriche, l’Irlande ou Malte)

À qui ce protectionnisme ferait-il mal ?

Ce protectionnisme provoquerait-il une hausse du coût de la vie (en renchérissant les produits importés) ? Rien n’est moins sûr. Il rendrait enfin possible le rattrapage salarial qui nous fait cruellement défaut, en Allemagne comme dans le reste de l’Europe – condition nécessaire pour rendre une transition verte économiquement rentable. Car aujourd’hui, ce que nous gagnons comme consommateurs en achetant des biens bon marché produits hors d’Europe, nous le perdons, comme salariés, du fait de la compression des salaires.

Bien sûr, des mesures de protection commerciale n’inciteront pas seulement certains de nos partenaires à produire davantage pour leurs marchés internes (à l’instar de la Chine) : elles induiront aussi des rétorsions de leur part. Les PME françaises qui exportent à l’étranger en souffriraient-elles ? Avec raison, les médias relayent volontiers la réussite de certaines d’entre elles. Ainsi, les 600 producteurs de la coopérative d’Isigny-Sainte-Mère, dans le Calvados, exportent leur lait depuis trente ans. Mais c’est une exception. En 2008, environ 100 000 entreprises françaises exportaient des biens, d’après les Douanes, soit une entreprise sur 20. L’essentiel des exportations est assuré par un très petit nombre d’entreprises : mille assurent 70 % du chiffre d’affaires à l’export. Ce sont les grands groupes français et les entreprises de groupes étrangers implantés en France. La part des PME indépendantes reste limitée. Les années 2000, très « libre-échangistes » dans le discours, ont connu une baisse du nombre d’entreprises exportatrices françaises.

Et la moitié des PME qui exportent ont pour débouché un pays d’Europe de l’Ouest et ne seraient pas concernées par un cordon commercial européen. Un quart seulement exportent vers un pays émergent. On peut imaginer que les recettes des droits de douane servent aussi à soutenir le petit nombre de PME qui auraient à souffrir d’une telle politique. Enfin, la baisse de productivité qu’exigera notre transition verte, tout comme le transfert de nombreuses activités à la campagne, le réaménagement du territoire, etc., pourront être source de créations d’emplois et compenser le manque à gagner des PME concernées par d’éventuelles pertes de marchés extérieurs.

Qui, en Europe, serait donc pénalisé ? Le secteur financier. La déflation salariale et le maintien d’un chômage de masse en Europe (qui ne sont pas étrangers aux politiques de libre-échange exigent, pour être socialement supportables, une inflation faible. Celle-ci favorise l’explosion du rendement des placements financiers malgré une croissance molle depuis vingt ans. Mais l’insuffisance du pouvoir d’achat des ménages occidentaux a conduit à un recours massif au crédit à la consommation, à l’origine de la crise initiée en 2007. Le relâchement de la contrainte salariale des pays du Sud lèverait un obstacle majeur à une revalorisation des salaires et des prestations sociales au Nord pour répondre à l’inflation (due au pic du pétrole). Les revenus financiers s’en trouveraient mécaniquement rognés. Est-ce un mal ?

Si l’Europe voulait…

Lorsqu’en février 2009, la commissaire européenne en charge de la concurrence, Neelie Kroes, fait des remontrances à la France parce qu’elle conditionne son aide publique au secteur automobile à des engagements de non-délocalisation et de protection des emplois nationaux, deux remarques s’imposent. Tout d’abord, la conditionnalité d’une telle aide devrait porter en priorité sur l’accélération de la transition vers la production d’automobiles électriques. Subventionner l’automobile à essence, compte-tenu de la contrainte environnementale et énergétique, est un non-sens. Bruxelles a eu raison de tancer Paris… mais pour de mauvais motifs ! C’est au niveau européen qu’une aide publique à l’industrie européenne (verte), conditionnée à des clauses de non-délocalisation, devrait être organisée. Car la délocalisation (celle des usines que l’on ferme, mais aussi celle, invisible, de toutes les décisions d’investissement qui ne sont pas prises sur le sol européen n’est rendue intéressante que grâce au dumping salarial des pays émergents et au coût relatif très faible jusque-là, du pétrole.

La seconde étape de cette politique commerciale, destinée à contrebalancer le dumping salarial des pays émergents (mais aussi du Japon et de l’Allemagne), ferait-elle tort aux pays exportateurs ? Elle contrarierait une dynamique au terme de laquelle les pays émergents, la Russie et l’Opep (Organisation des pays exportateurs de pétrole) réalisent à eux seuls 50 % de la valeur des exportations mondiales en 2010 (contre 27 % en 1998). Mais elle les inviterait à revaloriser leur demande interne. La consommation des ménages représente moins de 35 % du volume du Pib chinois en 2010, contre 50 % en 1998. Et la part de la masse salariale, 48 % du Pib chinois en 2010, contre 52 % en 2001. Les bénéfices que la Chine retire de la mondialisation ne sont donc pas distribués au profit des salariés. C’est cette logique qu’un protectionnisme européen viendrait entraver. La Chine centralisée d’avant « l’ouverture » connaissait une assurance maladie, supprimée depuis lors pour augmenter son avantage compétitif.

L’UE, avec ses 495 millions d’habitants, reste à ce jour le plus vaste et le plus riche marché du monde. Face à la menace de rétorsions commerciales, elle a des arguments à faire valoir pour négocier les conditions auxquelles elle consent à acheter les produits et services du monde. D’ailleurs, les représailles existent déjà : les contrats chinois passés avec Airbus ou Boeing prévoient que les futurs avions soient sous-traités en Chine, dans le cadre de co-investissements avec des entreprises chinoises. Pékin a choisi, au début des années 2000, d’instituer une taxe de 23 % sur les importations d’avions régionaux, en vue de protéger sa production. Et nous devrions nous refuser à adopter ce type de politique commerciale bien comprise par crainte de rétorsions que nous subissons déjà ?

Des mesures protectionnistes vont-elles à contre-sens de ce que préconisent Bruxelles et l’OMC ? Les articles du Traité de Lisbonne ont été allègrement bafoués lors des grandes opérations de consolidation du secteur bancaire menées à la faveur de la crise. Serait-ce que l’extraordinaire concentration du secteur, qui accroît le risque systémique lié aux banques « too big to fail », ne contrevient pas aux règles de la saine concurrence ? La Commission sait faire des exceptions à ses principes. C’est donc qu’ils ne sont pas inviolables et doivent pouvoir faire l’objet d’un véritable débat démocratique. Sans cela, les deux revirements stratégiques évoqués supra auxquels nous serons sans doute contraints à plus ou moins brève échéance – le renoncement, pour cause de « dé-globalisation », au pari allemand des exportations extra-européennes comme principal moteur de la croissance ; la fermeture du capital des entreprises européennes aux investisseurs orientaux – seront pratiqués dans une forme de déni schizophrène.

À l’aube d’une âpre négociation ?

Pour mettre des barrières douanières, il faut l’accord unanime des Vingt-Sept. La Pologne, l’Espagne, l’Estonie ont des secteurs industriels très différents de ceux de la France et de l’Allemagne. Les négociations promettent d’être complexes ! L’Angleterre y sera hostile par tradition et par souci de conserver ses relations transatlantiques. L’Allemagne, grisée par le succès de ses exportations de biens d’équipement, se pense comme une grande bénéficiaire du libre-échange (alors que le pouvoir d’achat de ses classes moyennes a diminué depuis quinze ans). Elle ne consentira à une déchirante révision que lorsqu’il deviendra clair que sa stratégie d’exportation sur les marchés émergents est vouée à l’échec par le pétrole très cher et la réorientation de l’industrie chinoise vers son propre marché domestique. La percée que le Parti vert allemand est en train de réaliser outre-Rhin, aux dépens de la très libérale FDP (Parti libéral-démocrate) et de la CDU (Union chrétienne démocrate), pourrait augurer un changement d’attitude à l’égard d’un possible protectionnisme écologique. En France, une telle volonté politique emporterait l’assentiment de 55 % des Français. Mais c’est à l’échelle européenne qu’une telle politique devrait être menée.

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