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dimanche, 13 octobre 2013

Concert du gouverneur militaire de Paris

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Siria: chi vuole questa guerra?

20:59 Publié dans Evénement | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : syrie, événement, rome, italie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

La crisi finanziaria e il nuovo ordine economico mondiale

La crisi finanziaria e il nuovo ordine economico mondiale

Ex: http://www.geopolitica-rivista.org
La crisi finanziaria e il nuovo ordine economico mondiale

In distribuzione

Geopolitica, vol. II, no. 1 (Primavera 2013)

 
Nel 2008 una grave crisi finanziaria sistemica, legata soprattutto al fenomeno dei “derivati”, ha colpito il mondo intero, facendo ancora oggi sentire i suoi effetti sull’economia globale. Da allora, diverse ricette sono state presentate e applicate per risolvere il rallentamento della crescita, che in alcuni paesi è stagnazione e in altri, tra cui l’Italia, vera e propria recessione. I cinque anni successivi all’esplodere della crisi hanno visto fronteggiarsi le rivendicazioni dei paesi emergenti rispetto alle tradizionali potenze economiche legate al sistema di Bretton Woos, ma anche i fautori dell’austerità fiscale a quelli di un risveglio di politiche di stampo keynesiano. Cosa provoca il perdurare della crisi? Come è possibile risolverla?
274 pp, cartografie b/n, ISBN

Indice:

EDITORIALE

La globalizzazione della crisi e lo shift geopolitico (Tiberio Graziani)

FOCUS

Economia reale vs. speculazione. Una disputa irrisolta nel mezzo di rischi sistemici (Paolo Raimondi)
La crisi finanziaria e la guerra per il governo globale (Kees van der Pijl)
Lo stallo del mondo contemporaneo (Andrej Volodin)
L’inevitabile declino? L’ordine occidentocentrico alla prova dell’understretching (Davide Borsani) Peer reviewed
La crisi finanziaria e l’ordine economico mondiale (Angela De Martiis) Peer reviewed
L’oro come asset strategico in un contesto di guerre valutarie (Enrico Ferrini) Peer reviewed
Tramonto dell’egemonia americana? Implicazioni economiche e geopolitiche dei nuovi scenari energetici e tecnologici (Enrico Mariutti) Peer reviewed
Le ragioni della crisi europea. Una visione dalla periferia (Marcelo Gullo)
Europa, vantaggio posizionale ed Euro (Peter Holland)
L’Unione Europea in recessione sceglie l’austerità (Nancy De Leo) Peer reviewed
Capire la crisi europea contro l’ortodossia vigente: la Modern Money Theory e la comprensione dei sistemi monetari (Diego Del Priore) Peer reviewed
L’India e la crisi dell’eurozona (Jayshree Sengupta)
I Brics e la crisi della governance globale (Zorawar Daulet Singh)
Il Corridoio Trans-Euroasiatico Razvitie (Sviluppo): un nuovo polo di generazione di ricchezza sociale (Michail Bajdakov, Jurij Gromyko, Viktor Zjukov)
Lo sviluppo industriale innovativo e la politica dell’istruzione del Kazakhstan di oggi (Nazhen Sarsembekov)
Lotta alla corruzione e difesa degli interessi nazionali in Kazakhstan (Luca Bionda)
Le misure politico-economiche adottate dal Giappone per contrastare la crisi (Massimiliano Porto)
Il modello della knowledge-based economy: il caso di Israele (Cinzia Bianco) Peer reviewed

ORIZZONTI

La situazione degli studi geopolitici in Iran (Mohammad Reza Dehshiri)
Contro l’unità mondiale. Carl Schmitt e l’ordine liberale (Fabio Petito)

RECENSIONI

Edward Luttwak, Il risveglio del drago (Daniele Scalea)

Autori:

MICHAIL BAJDAKOV Presidente di Millennium Bank, Mosca
CINZIA BIANCO M.A. in Middle East and Mediterranea Studies (King’s College, Londra)
LUCA BIONDA Direttore di Programma nell’IsAG
DAVIDE BORSANI Dottorando di ricerca in Istituzioni e politiche (Università Cattolica di Milano)
ZORAWAR DAULET SINGH Dottorando al King’s College di Londra
NANCY DE LEO Cultore di Scienza e storia delle Relazioni Internazionali (Università Kore di Enna)
ANGELA DE MARTIIS Ricercatrice associata dell’IsAG
MOHAMMAD REZA DEHSHIRI Professore di Scienze Politiche (Facoltà di Relazioni internazionali, Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Islamica dell’Iran)
DIEGO DEL PRIORE Ricercatore associato dell’IsAG
ENRICO FERRINI Dottore in Economia aziendale (Università di Firenze), lavora presso una società di trading e raffinazione metalli
TIBERIO GRAZIANI Presidente dell’IsAG, direttore di “Geopolitica”
JURIJ GROMYKO Direttore dell’Istituto di Ricerche Avanzate “E.L. Shiffers”, Mosca
MARCELO GULLO Professore alla Scuola Superiore di Guerra e all’Accademia Diplomatica dell’Argentina
PETER HOLLAND School of Economic Science
ENRICO MARIUTTI Laureando in Storia moderna e contemporanea (Università di Roma Sapienza)
FABIO PETITO Docente di relazioni internazionali presso la University of Sussex
MASSIMILIANO PORTO Direttore del programma “Asia Orientale” dell’IsAG
PAOLO RAIMONDI Editorialista di “Italia Oggi” e “La Finanza”
NAZHEN SARSEMBEKOV Vice-Presidente del Comitato Innovazione del partito kazako “Nur Otan”
JAYSHREE SENGUPTA Senior Fellow della Observer Research Foundation di Nuova Delhi
KEES VAN DER PIJL Professore emerito di Relazioni internazionali (University of Sussex)
ANDREJ VOLODIN Professore presso l’Accademia Diplomatica del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa
VIKTOR ZJUKOV Produttore della piattaforma intellettuale RAZVITIE, Mosca

Sommari:

Il Corridoio Trans-Euroasiatico Razvitie (Sviluppo): un nuovo polo di generazione di ricchezza sociale
MICHAIL BAJDAKOV, JURIJ GROMYKO, VIKTOR ZJUKOV

L’articolo esamina le possibili trasformazioni del quadro economico-finanziario mondiale sulla base dell’idea del Corridoio Trans-Euroasiatico “Razvitie”: uno spazio di investimenti a lungo termine di tipo nuovo. Scopo di tale progetto è la creazione di un nuovo polo in grado di generare ricchezza sociale nel territorio euroasiatico, lungo cioè tutta la massa continentale. Il Corridoio Trans-Euroasiatico “Razvitie” va inteso come una complessa e dinamica rete infrastrutturale basata sull’uso di alta tecnologia e su una nuova concezione socio-culturale dello sviluppo. Una rete da realizzarsi non solo tenendo conto del sistema dei mercati esistenti ma soprattutto in considerazione della possibilità che sorgano nel futuro nuovi mercati che ancora non esistono.

Il modello della knowledge-based economy: il caso di Israele
CINZIA BIANCO

Questa analisi sostiene che il modello economico conosciuto come “knowledge economy” (economia della conoscenza, ndt.) rappresenti una valida alternativa per Stati di minore entità, soprattutto in vista degli sviluppi che hanno seguito al crisi finanziaria mondiale del 2009. Per convalidare questa tesi, sarà esposto da un punto di vista teorico e poi pragmatico il modello israeliano, una delle economie che meglio ha resistito alla recessione, e si tratterà degli Stati che già hanno applicato questo modello. L’analisi si chiuderà con delle riflessioni sulle ripercussioni a livello strategico che potrebbero verificarsi con l’acquisizione da parte di Stati minori di un nuovo ruolo sullo scacchiere geoeconomico internazionale.

Lotta alla corruzione e difesa degli interessi nazionali in Kazakhstan
LUCA BIONDA

Il governo kazako pare impegnarsi sempre più nella lotta ai suoi “cattivi ragazzi”, politici e uomini d’affari saliti coinvolti in scandali finanziari e altri reati commessi soprattutto all’estero. Ciò si inserisce nel più vasto programma nazionale di accreditamento del paese presso gli organismi internazionali e le strutture chiave dell’economia mondiale. La lotta alla corruzione costituisce una premessa indispensabile per uniformare lo sviluppo delle regioni economicamente periferiche e migliorare l’immagine del paese all’estero. Non c’è dunque da stupirsi se il governo di Astana ha deciso di correre ai ripari agendo su diversi fronti. In tale contesto si inseriscono le vicende che hanno coinvolto gli oligarchi Rakhat Aliyev (Shoraz), Mukhtar Ablyazov e diversi loro collaboratori.

L’inevitabile declino? L’ordine occidentocentrico alla prova dell’understretching
DAVIDE BORSANI

In Europa e negli Stati Uniti, la crisi finanziaria ha causato importanti ricadute sull’organizzazione delle finanze statali e sulla politica di potenza. Con il sostegno delle opinioni pubbliche, il welfare State è stata privilegiato rispetto al warfare State. Gli Stati Uniti hanno così avviato un processo di understretching, mentre l’Europa non sembra avere le risorse e la volontà di assumersi nuove responsabilità geopolitiche. Pur non crollando, il ponte che collega le due sponde dell’Atlantico poggia su due piloni traballanti. Il flusso di potenza in uscita dall’Occidente, se non invertito, potrebbe quindi cambiare l’equazione globale del potere con radicali conseguenze per l’attuale ordine mondiale.

I Brics e la crisi della governance globale
ZORAWAR DAULET SINGH

I BRICS hanno oggi l’opportunità di promuovere, all’interno della comunità internazionale, un dialogo che possa svincolarsi dal discorso dominante sulla governance globale, ampiamente screditato nell’ultimo decennio. Il primo vertice dei BRIC(S) si è tenuto nel 2009 sullo sfondo di una crisi finanziaria occidentale. I BRICS sono apparsi sulla scena mondiale in una fase in cui le potenze tradizionali stavano perdendo il loro storico dominio sull’economia mondiale. Per quale motivo l’ordine economico liberale post-1945 costruito dagli USA sta attraversando ora una profonda crisi strutturale? La globalizzazione sopravviverà alla fine dell’unipolarismo? I BRICS possono costituire un ordine mondiale alternativo? Tali sono i temi su cui riflette quest’articolo.

L’Unione Europea in recessione sceglie l’austerità
NANCY DE LEO

Le misure economiche, imposte dall’Unione Europea agli Stati vittime della crisi economico-finanziaria, non frenano la recessione economica in corso, generando danni sul piano sociale. Partendo da questa considerazione, il paper intende rivedere alcuni fondamenti economici adottati sino ad oggi dall’UE, principalmente tramite le recenti critiche dei Premi Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e Paul Krugman. Ritorna in auge la politica economica keynesiana e si ripropongono le grandi riforme statunitensi del New Deal, all’epoca della Grande Crisi del 1929. Altresì l’inefficienza dei mercati finanziari richiede l’intervento dello Stato nei processi economici, al fine di regolarli. Il caso europeo, nella sua fattispecie, non consente ai singoli Stati membri di effettuare in autonomia delle scelte di natura economica, perché vincolati dagli altri Stati membri. Ciò che maggiormente emerge dalla crisi economica europea è la mancanza di solidarietà tra gli Stati membri. Non tenendo conto dell’importanza dell’esternalità, la Germania bloccando gli investimenti produce un effetto negativo anche per sé stessa. L’esternalità ci insegna che in un mondo integrato come il nostro, avere dei vicini con una economia in crescita produce effetti positivi anche su noi stessi.

La crisi finanziaria e l’ordine economico mondiale
ANGELA DE MARTIIS

Nell’attuale assetto globale, che vede Stati Uniti e Cina come principali partner e competitor della scena internazionale, si vanno delineando nuovi assetti politico-economici che inducono all’analisi di un nuovo ordine economico. La globalizzazione ha determinato lo sviluppo di nuovi mercati strategici, primo fra tutti la Cina, seguita da Brasile, Russia, India e Sud Africa, un arcipelago di paesi che rappresenta la futura geografia economica mondiale. All’interno di un difficile scenario economico-politico si assiste quindi ad una riconfigurazione geoeconomica, incoraggiata da una severa crisi finanziaria, che oltre ad aver messo a dura prova il circolo virtuoso Stati Uniti-Cina ha ridefinito la traiettoria di sviluppo dei futuri leader mondiali.

La situazione degli studi geopolitici in Iran
MOHAMMAD REZA DEHSHIRI

Lo studio della geopolitica e della geografia politica in Iran ha avuto una grande crescita negli ultimi trent’anni. La guerra con l’Iraq ha dato un primo impulso, con tendenza verso la geografia militare, alla diffusione di corsi universitari. Successivamente a catalizzare l’attenzione su questi rami di studio sono stati la dissoluzione dell’URSS (con la nascita di nuovi Stati indipendenti nell’Asia Centrale e nel Caucaso confinanti con l’Iran) e, in tempi più recenti, le rivolte arabe. Questo articolo mira a fare il punto sugli studi di geografia politica e geopolitica in Iran, individuando le cause della loro fortuna, presentandone i temi principali e analizzandone i cambiamenti nel corso degli anni.

Capire la crisi europea contro l’ortodossia vigente: la Modern Money Theory e la comprensione dei sistemi monetari
DIEGO DEL PRIORE

In tempi di crisi un graduale deteriorarsi dello status quo favorisce un’attenzione ed un ascolto più sensibile nei confronti del non ortodosso, del fino ad allora inascoltato. La presente analisi si prefigge di offrire una visione alternativa dell’economia, rovesciando totalmente i dogmi correnti. Comprendere come funzionano i sistemi monetari, che cos’è la moneta e le sue implicazioni politiche e sociali, è l’asse portante della Modern Money Theory (MMT), una scuola di pensiero economico che, sull’eredità di John Maynard Keynes, solo per citare uno dei suoi più autorevoli ispiratori, ci aiuta a capire l’Eurozona, la sua crisi e le potenzialità di uno Stato che possegga una sovranità monetaria.

L’oro come asset strategico in un contesto di guerre valutarie
ENRICO FERRINI

A cinque anni dallo scoppio della crisi, gli squilibri economici e finanziari che ne sancirono l’inizio nel 2008 sembrano ancora oggi irrisolti se non ingigantiti. In mancanza di un sufficiente grado di cooperazione internazionale che potesse attenuare questi squilibri, le svalutazioni monetarie sono diventate con la crisi lo strumento attraverso cui i paesi perseguono le proprie finalità economiche, aggiungendo instabilità al sistema monetario internazionale. In questo contesto l’ oro si sta riaffermando con sempre maggior forza nel suo storico ruolo monetario, arrivando a rappresentare oggi un asset di grande valore strategico e politico da utilizzare per dare credibilità ai sistemi valutari se non per lanciarne altri in alternativa a quello vigente.

La globalizzazione della crisi e lo shift geopolitico
TIBERIO GRAZIANI

A distanza di circa un lustro dall’esplosione della crisi economico-finanziaria e nonostante le numerose analisi prodotte, gli studi ad essa dedicati e i suggerimenti proposti, le leadership dei paesi coinvolti ancora non sono riusciti a trovare e a mettere in campo soluzioni soddisfacenti, né per un suo contenimento, né per un suo superamento. Giacché la particolarità di questa crisi epocale – che mette a nudo le contraddizioni del sistema neoliberista – è da ricercarsi anche nella sua relazione con il cambio geopolitico globale in atto, lo stallo in cui si dibattono i decisori politici, economici e finanziari costituisce una particolare espressione della tensione che sussiste tra i sostenitori del vecchio assetto unipolare e le spinte verso l’evoluzione multipolarista dello scenario internazionale.

Le ragioni della crisi europea. Una visione dalla periferia
MARCELO GULLO

La crisi economico-finanziaria europea discende tanto da quella globale originatasi negli USA, quanto da sviluppi propri e peculiari dell’Europa. Negli anni ’70 il capitalismo finanziario-speculativo ha preso il sopravvento su quello industriale-produttivo, e in Europa si è rotta l’alleanza tra borghesia e lavoratori mediata dalla classe politica. La classe politica si è schierata col capitalismo finanziario dando avvio a una stagione di delocalizzazione industriale e politiche neoliberali. La crisi attuale ha portato al culmine di questo processo: il personale degl’istituti del capitalismo finanziario stanno sostituendosi ai funzionari politici alla guida degli Stati, ed anche agli Stati al centro del sistema mondiale vengono imposte le politiche neoliberali prima riservate al Terzo Mondo. La dinamica interna è invece l’affermarsi dell’egemonia (involontaria) della Germania sugli altri paesi dell’Unione Europea a seguito dell’introduzione della moneta unica, che l’ha resa una grande potenza esportatrice a discapito delle periferie europee e anche della Francia.

Europa, vantaggio posizionale ed Euro
PETER HOLLAND

La prima integrazione pacifica degli Stati nazionali europei è cominciata nel 1957 con la Comunità Economica Europea (CEE). L’enfasi era sull’economia, ma alcuni dei padri fondatori – come Jean Monnet – ambivano a un’integrazione più complessiva. È questa ambizione ad aver guidato il continuo progresso dell’integrazione europea, malgrado i dubbi di molti cittadini. Sfortunatamente le disposizioni della CEE hanno fin dall’inizio ignorato un principio fondamentale, la Teoria della localizzazione, i cui effetti causeranno gravi tensioni internazionali e probabilmente la disintegrazione dell’UE se si dovesse continuare a ignorarla. Questo saggio spiega la Teoria della localizzazione e i suoi effetti, con un esempio numerico tratto dalle prime fasi della CEE, e suggerisce possibili correzioni all’errore di modo da garantire a tutte le nazioni europee eguali opportunità di prosperare.

Tramonto dell’egemonia americana? Implicazioni economiche e geopolitiche dei nuovi scenari energetici e tecnologici
ENRICO MARIUTTI

Grazie al fenomeno shale gas e shale e tight oil, gli USA potranno contare, nei prossimi 10/15 anni, su una netta riduzione del costo dell’energia. Confrontando il costo attuale del Kw/h tra UE, USA e Cina e le oscillazioni previste nei prossimi 10/15 anni si può valutare il riassetto del mercato globale dei combustibili fossili e dell’energia, le possibili evoluzioni delle dinamiche industriali di alcune regioni (concentrazione di produzioni ad alto costo energetico, spinta a una maggiore automazione dei cicli industriali, riallocazione di parte dell’industria manifatturiera) e i nuovi equilibri di alcune aree del pianeta particolarmente interessate dall’evoluzione del fenomeno (Medio Oriente, Sud-Est Asiatico).

Contro l’unità mondiale. Carl Schmitt e l’ordine liberale
FABIO PETITO

Il presente articolo è tratto da un capitolo di The International Political Thought of Carl Schmitt: Terror, liberal war and the crisis of global order, libro collettaneo edito da Routledge (Londra-New York 2007) e curato da Fabio Petito e Louiza Odysseos. Si prende in considerazione la critica di Carl Schmitt all’idea della necessità politica e/o morale di unificazione planetaria, la sua analisi dell’ordine post-bellico e la ricerca d’un nuovo Nomos della Terra. Infine da una prospettiva schmittiana si critica una tesi di Alexander Wendt.

Le misure politico-economiche adottate dal Giappone per contrastare la crisi
MASSIMILIANO PORTO

L’articolo tratta delle misure politico-economiche adottate dal Giappone all’indomani della crisi finanziaria globale del 2007-2008. Nella prima parte dell’articolo ci si sofferma brevemente sull’andamento della crisi e sulla sua trasformazione da crisi finanziaria a crisi reale. Successivamente si fanno dei richiami alla precedente crisi finanziaria che ha colpito il Giappone negli anni Novanta del secolo scorso che ha avuto pesanti conseguenze sull’economia nipponica ma ha anche costituito una lezione per i policy-makers giapponesi. Infine si conclude l’articolo con le misure di politica economica adottate dal governo e dalla Banca centrale del Giappone per contrastare gli effetti della crisi.

Economia reale vs speculazione. Una disputa irrisolta nel mezzo di rischi sistemici
PAOLO RAIMONDI

La crisi del 2008 non ha cancellato certi comportamenti irresponsabili da parte delle banche e della grande finanza. All’orizzonte si profilano nuovi colossali disastri sistemici se i governi non sapranno reagire come F.D. Roosevelt negli anni ’30, costruendo una nuova Bretton Woods i cui pilastri siano la responsabilizzazione delle banche, il controllo del mercato tramite un nuovo Glass-Steagall Act e la Tobin Tax, politiche d’investimento che vadano a favore dell’economia reale. Il denaro che con tanta celerità e prodigalità è stato trovato per aiutare gli speculatori finanziari, dovrebbe essere destinato a investimenti infrastrutturali di lungo periodo.

Lo sviluppo industriale innovativo e la politica dell’istruzione del Kazakhstan di oggi
NAZHEN SARSEMBEKOV

In quest’articolo viene discussa la politica industriale innovativa realizzata in Kazakhstan riguardo all’innalzamento della qualità del capitale umano attraverso lo sviluppo della scienza e della formazione. L’Autore evidenzia l’importanza e il tempismo della realizzazione del programma statale “SIII 2010-2014″, il quale avrà un’influenza positiva sulla crescita dell’economia del Paese. L’Autore arriva alla conclusione che per rispettare i parametri di crescita prestabiliti dell’economia è indispensabile aumentare la qualità del capitale umano attravero la formazione.

L’India e la crisi dell’eurozona
JAYSHREE SENGUPTA

L’India, al pari di gran parte dell’Asia Meridionale, sta attraversando una fase di brusco rallentamento della crescita indotta principalmente dalla crisi dell’eurozona. Il governo indiano, malgrado alcuni interventi sociali populisti, ha adottato una risposta per lo più neoliberale, con l’apertura del mercato interno agl’investimenti esteri e politiche monetarie deflattive. Tali politiche, molto simili a quelle dell’Unione Europea, hanno però costi sociali ancora più gravi in India, dove già una grossa fetta della popolazione vive in condizioni di povertà, anche estrema, e dove gl’investimenti in campo sanitario o educativo sono molto bassi. Tutto ciò sta allargando la sperequazione sociale e gettando nell’indigenza milioni di persone, con effetti non solo sul futuro dell’economia ma anche sull’ordine interno, come dimostra la crescente insorgenza maoista.

La crisi finanziaria e la guerra per il governo globale
KEES VAN DER PIJL

Il militarismo di Reagan e la rivolta dei mercati finanziari contro il keynesismo hanno segnato la transizione dal liberismo corporativo al neoliberismo e la proiezione del controllo globale da parte dell’Occidente. Nei primi anni ’90 il complesso militare-industriale statunitense è stato riorganizzato in modo da renderlo dipendente dagli investimenti bancari, accrescendo l’interconnessione tra la finanza internazionale e l’attivismo militare nel processo di globalizzazione neoliberista. Nell’espansione della NATO e nell’intervento in Jugoslavia, e nella serie di guerre in Medio Oriente in risposta agli attacchi del 11 settembre, il dilatato complesso finanziario-industriale-militare ha creato una condizione di guerra e tensione permanenti. Ciò si è verificato soprattutto dopo che l’asse finanziario si è disintegrato nella crisi del 2007-08 e gli Stati Uniti, trascinando con loro l’Europa attraverso la NATO, hanno fatto sempre più affidamento sul “vantaggio competitivo” della loro macchina militare.

Lo stallo del mondo contemporaneo
ANDREJ VOLODIN

L’attuale fase del sistema di relazioni internazionali può essere descritta come uno stallo, un’incapacità collettiva di assumere decisioni importanti e lavorare congiuntamente sugli scenari di lungo periodo. Nell’articolo ne viene proposta una ricostruzione che coinvolge aspetti economici, storici e geopolitici. Alla crisi economica del capitalismo anti-statalista e liberista figlio della rivoluzione thatcheriano-reaganiana si è aggiunta quella dell’unipolarismo geopolitico che ha le sua radici nella dissoluzione dell’URSS. Soltanto l’inclusione dei Paesi emergenti in organizzazioni internazionali dal profilo istituzionale rinnovato può mettere fine a questa fase di stallo ed aprire un nuovo orizzonte nella storia politica internazionale.

Living in Accordance with Our Tradition

Living in Accordance with Our Tradition

By Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com

vennerstudy

Translated by Giuliano Adriano Malvicini

Every great people own a primordial tradition that is different from all the others. It is the past and the future, the world of the depths, the bedrock that supports, the source from which one may draw as one sees fit. It is the stable axis at the center of the turning wheel of change. As Hannah Arendt put it, it is the “authority that chooses and names, transmits and conserves, indicates where the treasures are to be found and what their value is.” 

This dynamic conception of tradition is different from the Guénonian notion of a single, universal and hermetic tradition, which is supposedly common to all peoples and all times, and which originates in a revelation from an unidentified “beyond.” That such an idea is decidedly a-historical has not bothered its theoreticians. In their view, the world and history, for three or for thousand years, is no more than a regression, a fatal involution, the negation of of the world of what they call “tradition,” that of a golden age inspired by the Vedic and Hesiodic cosmologies. One must admit that the anti-materialism of this school is stimulating. On the other hand, its syncretism is ambiguous, to the point of leading some of its adepts, and not the least of them, to convert to Islam. Moreover, its critique of modernity has only lead to an admission of impotence. Unable to go beyond an often legitimate critique and propose an alternative way of life, the traditionalist school has taken refuge in an eschatological waiting for catastrophe.[1]

That which is thinking of a high standard in Guénon or Evola, sometimes turns into sterile rhetoric among their disciples.[2] Whatever reservations we may have with regard to the Evola’s claims, we will always be indebted to him for having forcefully shown, in his work, that beyond all specific religious references, there is a spiritual path of tradition that is opposed to the materialism of which the Enlightenment was an expression. Evola was not only a creative thinker, he also proved, in his own life, the heroic values that he had developed in his work.

In order to avoid all confusion with the ordinary meaning of the old traditionalisms, however respectable they might be, we suggest a neologism, that of “traditionism.”

For Europeans, as for other peoples, the authentic tradition can only be their own. That is the tradition that opposes nihilism through the return to the sources specific to the European ancestral soul. Contrary to materialism, tradition does not explain the higher through the lower, ethics through heredity, politics through interests, love through sexuality. However, heredity has its part in ethics and culture, interest has its part in politics, and sexuality has its part in love. However, tradition orders them in a hierarchy. It constructs personal and collective existence from above to below. As in the allegory in Plato’s Timaeus, the sovereign spirit, relying on the courage of the heart, commands the appetites. But that does not mean that the spirit and the body can be separated. In the same way, authentic love is at once a communion of souls and a carnal harmony.

Tradition is not an idea. It is a way of being and of living, in accordance with the Timaeus’ precept that “the goal of human life is to establish order and harmony in one’s body and one’s soul, in the image of the order of the cosmos.” Which means that life is a path towards this goal.

In the future, the desire to live in accordance with our tradition will be felt more and more strongly, as the chaos of nihilism is exacerbated. In order to find itself again, the European soul, so often straining towards conquests and the infinite, is destined to return to itself through an effort of introspection and knowledge. Its Greek and Apollonian side, which are so rich, offers a model of wisdom in finitude, the lack of which will become more and more painful. But this pain is necessary. One must pass through the night to reach the dawn.

For Europeans, living according to their tradition first of all presupposes an awakening of consciousness, a thirst for true spirituality, practiced through personal reflection while in contact with a superior thought. One’s level of education does not constitute a barrier. “The learning of many things,” said Heraclitus, “does not teach understanding”. And he added: “To all men is granted the ability to know themselves and to think rightly.” One must also practice meditation, but austerity is not necessary. Xenophanes of Colophon even provided the following pleasant instructions: “One should hold such converse by the fire-side in the winter season, lying on a soft couch, well-fed, drinking sweet wine, nibbling peas: “‘Who are you among men, and where from?” Epicurius, who was more demanding, recommended two exercises: keeping a journal and imposing upon oneself a daily examination of conscience. That was what the stoics practiced. With the Meditations of Marcus Aurelius, they handed down to us the model for all spirtual exercises.

Taking notes, reading, re-reading, learning, repeating daily a few aphorisms from an author associated with the tradition, that is what provides one with a point of support. Homer or Aristotle, Marcus Aurelius or Epictetus, Montaigne or Nietzsche, Evola or Jünger, poets who elevate and memorialists who incite to distance. The only rule is to choose that which elevates, while enjoying one’s reading.

To live in accordance with tradition is to conform to the ideal that it embodies, to cultivate excellence in relation to one’s nature, to find one’s roots again, to transmit the heritage, to stand united with one’s own kind. It also means driving out nihilism from oneself, even if one must pretend to pay tribute to a society that remains subjugated by nihilism through the bonds of desire. This implies a certain frugality, imposing limits upon oneself in order to liberate oneself from the chains of consumerism. It also means finding one’s way back to the poetic perception of the sacred in nature, in love, in family, in pleasure and in action. To live in accordance with tradition also means giving a form to one’s existence, by being one’s own demanding judge, one’s gaze turned towards the awakened beauty of one’s heart, rather than towards the ugliness of a decomposing world.

Notes

1. Generally speaking, the pessimism intrinsic to counter-revolutionary thought – from which Evola distinguishes himself – comes from a fixation with form (political and social institutions), to the detriment of the essence of things (which persist behind change).

2. The academic Marco Tarchi, who has for a long time been interested in Evola, has criticized in him a sterile discourse peopled by dreams of “warriors” and “aristocrats” (cf. the journal Vouloir, Bruxelles, january-february 1991. This journal is edited by the philologist Robert Steuckers).

Excerpt from the book Histoire et traditions des Européens: 30,000 ans d’identité (Paris: Éditions du Rocher, 2002). (Read Michael O’Meara’s review here [2].)

Online source: http://eurocontinentalism.wordpress.com/2013/10/05/living-in-accordance-with-our-tradition-dominique-venner/ [3]

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/10/living-in-accordance-with-our-tradition/

La Serbie a servi de laboratoire

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La Serbie a servi de laboratoire

 
Alexandre Latsa Texte français original de mon interview pour la revue serbe Geopolitica :

1)      Alexandre Latsa bonjour! Pourriez-vous vous présenter aux lecteurs de Geopolitika et expliquer vos liens avec la Serbie ?

 
Bien sûr, je suis un citoyen français de 36 ans. Après avoir grandi en Afrique noire, j’ai fait mes études en France, à Bordeaux. Depuis 2008 je réside et travaille en Russie, à Moscou. J’y dirige une petite société de conseil en ressources humaines et suis aussi un blogueur et un analyste politique et géopolitique pour les agences russes RIA-Novosti et Voix de la Russie. Je tiens aussi un site d’information (www.alexandrelatsa.ru) et écris principalement sur la politique en Russie, la géopolitique et les rapports Est-Ouest, la désinformation médiatique ainsi que sur la démographie.

 
J’ai en outré publié cette année un premier ouvrage intitulé « La Russie de Poutine telle qu’elle est », disponible en anglais et russe, et un second ouvrage intitulé « Mythes sur la Russie » disponible lui uniquement en russe. Un ouvrage en français devrait prochainement sortir (sans doute en 2014) et j’espère aussi pouvoir publier un roman (entre 2014 et 2015) qui d’ailleurs concerne la Serbie.

 
En 1999 lors de la guerre en Serbie, j’ai assez activement soutenu la petite Serbie et milité assez activement pour l’arrêt de la campagne de bombardements de l’Alliance Atlantique. A la fin de la guerre, j’ai appris le serbe à l’université de Bordeaux et co-créé deux associations, l’une, humanitaire qui a travaillé principalement avec des orphelinats et des pharmacies à Novi-Sad et en Voïvodine, et la seconde visant à opérer des jumelages culturels entre la Voïvodine et l’Aquitaine, la région de France dans laquelle j’habitais.
 
 
2)      Qu’est ce qui vous a poussé à soutenir la Serbie ?

 
Dur à dire !

 
En 1997, soit deux ans après mon départ du Congo, une guerre civile y a éclaté avec l’appui de puissances étrangères et notamment la France. Connaissant bien le pays après y avoir vécu 18 ans j’ai pu constater a quel point le gap entre la réalité et ce que le mainstream médiatique a pu présenter aux français était important. Je me suis mis à m’intéresser aux événements internationaux et à me méfier des versions officielles et médiatiques.

 
Lorsque la guerre en Serbie a eu lieu en 1999 je me suis penché de façon « journalistique » (j’étais alors étudiant en droit) sur la réalité de l’histoire et de la situation en Serbie via notamment les ouvrages de l’âge d’homme, dirigé par feu Vladimir Dimitrijevic. Le Gap qui m’est apparu entre la réalité et ce que l’on nous disait via les médias français m’a simplement révolté. Les premières images des bombardements de Belgrade au JT m’ont bouleversé et cela m’est apparu comme une lourde injustice. Je suis sorti à Bordeaux et toute la nuit ai recouvert les murs d’inscriptions proserbes à la bombe de peinture! Certains de ces tags sont restés des années et je prenais plaisir à les montrer à mes amis qui venaient visiter la ville.

 
Plus sérieusement j’ai ensuite décidé de faire quelque chose et ai donc rejoint le « collectif non à la guerre » qui militait assez activement contre les bombardements de l’OTAN, que nous percevions comme une agression américaine contre l’Europe. La désinformation sans précédent qui a frappé le peuple serbe et la Serbie m’ont convaincu de me pencher de façon générale sur les processus d’information/désinformation et de propagande moderne.

 
3)      Vous revenez justement de Serbie et de la République Serbe de Bosnie, quelles sont vos impressions ?

 
Plutôt bonnes, la République Serbe bénéficie toujours d’une énorme économie souterraine du fait de sa diaspora a l’étranger j’imagine et globalement le moral des serbes de Bosnie semble assez bon. Le salaire moyen y dépasse officiellement celui de la Serbie ce qui est une surprise pour un étranger. D’Europe de l’Ouest on imagine toujours la Bosnie comme un gigantesque trou noir. J’étais invité à un mariage et les quelques invités français qui découvraient la région et la culture ont été assez sidérés par le patriotisme ambiant, la musique, l’énergie, la culture affichée… Toutes ces magnifiques traditions qui n’existent plus vraiment à l’Ouest.

 
Belgrade a aussi beaucoup changé, la ville est vraiment devenue agréable malgré la terrible crise que connaît le pays et ce qui est surprenant est la relative propreté, ainsi que la présence de main d’œuvre serbe partout même et surtout, pour les petits boulots. On se sent toujours bien à Belgrade, je ne peux pas l’expliquer, la ville est apaisante, je crois que c’est lié à ce caractère propre aux serbes d’être si calmes et sereins, Опуштено je crois? 

4)      La France a eu un comportement pour le moins inamical en 1999, comment l’expliquez-vous ? Les choses ont-elles changées au sein de la classe politique française actuelle?

 
La politique française n’est pas ce qu’elle devrait être. Notre pays est aux mains de Lobbies, de groupes de pressions et de réseaux qui agissent dans leurs intérêts et non pas dans l’intérêt du pays. L’Europe est aujourd’hui totalement sous tutelle morale et politique des États-Unis et la France en premier lieu. La souveraineté nationale n’existe plus depuis la fin de cette période Gaullienne et malheureusement les élites politiques qui se succèdent sont différentes sur la forme mais pas sur le fond. Les Serbes ont souffert de la politique Chirac, les Libyens de la politique Sarkozy et les Syriens sont sur le point de souffrir de la politique Hollande.

 
Je crois aussi  que fondamentalement nos élites n’ont surtout ni courage ni idées, il est sans doute plus confortable et moins dangereux d’obéir à Washington. D’ailleurs de cette période dans l’avenir il est probable que les manuels d’histoire parleront de l’énorme incompétence des élites qui nous aurons gouverné.

 
5)      Cette guerre de 1999 a mis en lumière l’absence d’une ossature continentale de sécurité. Prés de quinze ans plus tard, pensez-vous que les pays du continent paneuropéen soient sur la bonne voie à ce sujet ?

 
Oui c’est exact, en fait l’ossature de la sécurité européenne est l’Otan, dont les deux premières puissances ne sont pas Européennes: les États-Unis et la Turquie! Je crois que la situation s’est en fait aggravée. Fondamentalement la mainmise américaine est plus forte que jamais. Les pays européens sont en crise profonde, politique bien sur, mais aussi économique et on imagine mal l’Europe exsangue financièrement se lancer maintenant dans une telle aventure surtout avec les élites qui sont les siennes.

 
La Russie avait proposé en 2008, au moment de la crise en Géorgie, d’entamer une réflexion commune avec les pays européens sur la création d’une architecture européenne et continentale de sécurité. On voit bien aujourd’hui a quel point on s’est également éloigné d’une telle opportunité et d’une telle direction. La Russie voit avec inquiétude le bouclier anti-missile s’approcher de ses frontières et constitue son entité militaire de défense en Eurasie avec d’un côté l’Union Eurasiatique et de l’autre la Chine via l’Organisation de Shanghai. L’Europe elle se demande si elle passera la crise pour pouvoir rester couverte par l’Otan.
 
C’est pour cela que je crois que la Serbie ne pourra pas continuer à rester dans sa position actuelle, il va bien falloir qu’elle rejoigne un de ces blocs pour ne pas être totalement isolée.

 
6)      On parle souvent des amitiés Franco-serbe et Russo-serbe, ou en est-on a votre avis en 2013 ?

 
La France trahit il me semble tous ces alliés, sauf certains états africains et encore… Je crois que l’amitié franco-serbe sera toujours une amitié historique, une amitié de patriotes sincères et d’honnêtes gens, éduqués, cultivés ou simplement initiés. Mais pour la masse des gens la Serbie et les serbes, c’est le peuple des charniers, le peuple qui a élu Milosevic et qu’on a puni militairement. Le bourrage de crâne médiatique sur la Serbie a entrainé la naissance d’une Serbophobie 2.0 essentiellement politique et basée sur des mensonges médiatiques. C’est un cas historique unique, qui a fait jurisprudence et qu’on peut rapprocher de la guerre médiatique qui est en cours aujourd’hui contre la Russie.

 
En Russie les serbes sont clairement vues comme des alliés traditionnels et les serbes comme un peuple frère. Bien sûr en 1999 la Russie de Eltsine était un état trop faible pour pouvoir réagir et protéger la Serbie. En 2004, la Russie faisait face à une guerre sur son territoire, avec de nombreux attentats terroristes. Aujourd’hui la Russie devrait sans doute plus s’impliquer dans les affaires serbes et pousser les serbes il me semble a rejoindre l’Alliance eurasiatique. Des intellectuels russes pensent même que Belgrade devrait être l’une des quatre capitales, la plus occidentale, de cette Eurasie.

 
7)      Comment jugez-vous les différentes étapes politiques qu’a connu la Serbie depuis la guerre de 1999 ? Que pensez-vous de l’élite politique serbe actuelle ?

 
La Serbie est, il me semble, victime d’un long processus que la plupart des pays européens ont connu, et qui est un préalable à leur asservissement total: la destruction de toute opposition patriotique. La prise de pouvoir des libéraux a été voulue afin de faire main basse sur ce pays stratégique, le sortir du giron russe et l’intégrer par la force à la communauté euro-atlantique.

 
Dans le même temps l’opposition patriotique a été démantelée. La destruction et la manipulation du SRS a été un modèle du genre. Le DSS n’a pas su saisir il me semble l’incroyable fenêtre historique qui se présentait à lui, on peut se demander pourquoi. Aujourd’hui le gouvernement d’union nationale, composé de membres du SPS, du SNS et de consultants technocrates achève donc placidement le processus de décomposition nationale (Kosovo) tout en maintenant discrètement une intégration a l’Ouest, en gros ce que les libéraux n’auraient pu eux se permettre de faire. On voit bien qu’il n’y a presque plus d’opposition réelle et concrète, un peu comme en Europe ou les clivages politiques se résument à une opposition droite/gauche, soit à une opposition factice entre des partis au fond tous d’accord sur le principal à savoir: le modèle économique, la politique internationale et financière ou encore le modèle de société.

 
En France par exemple, on sait désormais que droite et gauche votent 95% des mêmes lois dans les parlements régionaux, nationaux ou européens. Il n’y a plus d’opposition du tout. Le candidat de gauche contre le candidat de droite lors du second tour de la présidentielle c’est une mascarade et une opposition entre deux candidats de Goldman Sachs, autant dire entre deux clones. Je pense que la Serbie se dirige doucement vers cette situation ou en gros il n’y aura bientôt que des candidats pro UE et pro Gaypride.

 
8)      Dans votre dernier ouvrage, vous parlez de la Serbie comme du pays qui a éveillé votre foi orthodoxe pouvez-vous nous en dire plus ?

 
Oui la Serbie est le pays qui a fait de moi un orthodoxe. Je n’ai jamais été baptisé et jamais souhaité être catholique, je ne peux l’expliquer. Quelque chose qui ne s’insérait pas correctement sur le plan spirituel. Lorsque pour la première fois de ma vie je suis allé à l’Est (de l’Europe) et en terre orthodoxe j’ai senti un attachement fondamental à la terre orthodoxe serbe justement. Le Danube m’a fasciné tout autant que la grande culture orthodoxe serbe. En visitant des monastères en Voïvodine durant l’été 99, dans cette Serbie d’après guerre ou le temps semblait s’être arrêté, j’ai totalement et profondément souhaité devenir orthodoxe, ce qui est chose faite aujourd’hui. Paradoxalement, c’est aussi durant cet été 1999 que j’ai pour la première fois concrètement entendu parler de la Russie. La Serbie m’a donc ouvert à l’orthodoxie et à la Russie.

 
9)      Vous résidez et travaillez à Moscou, quel regard portez vous, en tant que Français de Russie, sur la Russie d’aujourd’hui ? 

 
La Russie sort du coma et se reconstruit. C’est un pays qui a la chance de bénéficier d’un territoire gigantesque, de ressources et d’une élite politique assez exceptionnelle, à commencer par l’actuel président. Le pays fait cependant face à des difficultés gigantesques et on peut dire que les 12 dernières années de gouvernement Poutine ont été consacrées à la réaffirmation de l’autorité de l’état et au retour de l’ordre constitutionnel au sein des frontières russes.

 
Le pays est clairement un laboratoire a ciel ouvert et tente de développer un modèle de société conservateur tout en ayant les moyens d’être totalement souverain, de par sa taille, sa richesse et aussi le potentiel militaire dont il dispose. Le potentiel y est énorme, il faut qu’il ne soit pas gâché et pour cela il faut espérer que la politique menée actuellement se poursuivre dans l’après Poutine et il me semble que sur ce front, la guerre a commencé en Russie.

 
C’est donc clairement de Russie et de Russie seule que le salut peut venir, mais pour autant, le challenge pour la Russie me semble justement d’arriver à se constituer en pôle souverain et quasi autonome, pôle que d’autres pays rallieront par nécessité ou par choix politique et stratégique. Je crois qu’il faut souhaiter que la Russie soit le pays qui propose un autre modèle de société et de développement car fondamentalement on peut aujourd’hui en 2013 affirmer que le système d’exploitation occidental pour la planète, qui a émergé en 1991, ne fonctionne plus.

 
10)  Vous écrivez et travaillez énormément sur la désinformation et la guerre médiatique contre la Russie. Cette guerre continue t-elle d’après vous et la Serbie est elle encore autant visée qu’elle ne l’a été durant les années 90 ?

 
Je pense que la guerre médiatique contre la Serbie a été menée, imposée et gagnée par l’Ouest, contre la Serbie. Cette guerre médiatique a justifié la guerre totale contre la Serbie, sa diabolisation, son démantèlement, l’agression militaire et enfin sa mise au ban de la communauté internationale. Plus sournoisement cette guerre médiatique a aussi fait sans doute douter les serbes d’eux-mêmes.

 
La Serbie a en outre servi de laboratoire à un nouveau type de révolution: pacifique et dite de couleur. On peut donc imaginer que la Serbie a été un pays test pour la mise au point de ces dispositifs de renversement sans violences de gouvernements non-alignés. On a du reste vu que ce dispositif a été déployé avec plus ou moins de succès dans d’autres pays d’Europe de l’Est et d’Eurasie. Cette pression médiatique semble s’atténuer alors que la Serbie rentre dans le ban, rejoint l’axe euro-atlantique, s’éloigne du Kosovo, que ses dirigeants s’excusent a genoux pour Srebrenitsa …

 
Paradoxalement, le front médiatique s’est aujourd’hui déplacé plus à l’est, contre la Russie. La bataille médiatique en cours contre la Russie est de basse intensité, mais extrêmement sophistiquée, bien plus que ne l’était celle contre la Serbie. Elle a lieu autant à l’intérieur qu’à l’extérieur du pays mais les élites russes actuelles semblent avoir pleinement conscience du danger.

 
Il reste donc à espérer que pour la première fois depuis 1991, l’extension vers l’est du dispositif américano-centré puisse enfin être arrêté et même qu’un reflux s’établisse, permettant à Belgrade d’équilibrer ses positions et de recouvrir sa souveraineté et la liberté.

 
C’est bien tout le mal qu’on peut souhaiter à cet héroïque petit pays qui n’a pas été épargné par l’histoire.

Jünger und Mohler

Jünger und Mohler

Karlheinz Weißmann 

Ex: http://www.sezession.de

mohlereinband.jpgDie Beziehung zwischen Ernst Jünger und Armin Mohler hat sich über mehr als fünf Jahrzehnte erstreckt. Sie wird – wenn in der Literatur erwähnt – als Teil der Biographie Jüngers behandelt. Man hebt auf Mohlers Arbeit als Jüngers Sekretär ab und gelegentlich auf das Zerwürfnis zwischen beiden. Mit den Wilflinger Jahren hatte dieser Streit nichts zu tun. Seine Ursache waren Meinungsverschiedenheiten über die erste Ausgabe der Werke Jüngers. Der Konflikt beendete für lange das Gespräch der beiden, das mit einer Korrespondenz begonnen hatte, im direkten Austausch und dann wieder im – manchmal täglichen – Briefwechsel zwischen der Oberförsterei und dem neuen französischen Domizil Mohlers in Bourg-la-Reine fortgesetzt wurde. Von 1949, als Mohler seinen Posten in Ravensburg antrat, bis 1955, als Jünger seinen 60. Geburtstag feierte, war ihre Verbindung am intensivsten, aber es gab auch eine Vor- und eine Nachgeschichte von Bedeutung.

Die Vorgeschichte hängt zusammen mit Mohlers abenteuerlichem Grenzübertritt vom Februar 1942. Er selbst hat für den Entschluß, aus der Schweizer Heimat ins Reich zu gehen und sich freiwillig zur Waffen-SS zu melden, zwei Motive angegeben: die Nachrichten von der Ostfront, damit verknüpft das Empfinden, hier gehe es um das Schicksal Deutschlands, und die Lektüre von Jüngers Arbeiter. Die Verknüpfung mag heute irritieren, der Eindruck würde sich aber bei genauerer Untersuchung der Wirkungsgeschichte Jüngers verlieren. Denn, was er im Schlußkapitel des Arbeiters über den „Eintritt in den imperialen Raum“ gesagt hatte, war mit einem Imperativ verknüpft gewesen: „Nicht anders als mit Ergriffenheit kann man den Menschen betrachten, wie er inmitten chaotischer Zonen an der Stählung der Waffen und Herzen beschäftigt ist, und wie er auf den Ausweg des Glückes zu verzichten weiß. Hier Anteil und Dienst zu nehmen: das ist die Aufgabe, die von uns erwartet wird.“


Mohlers Absicht war eben: „Anteil und Dienst zu nehmen“. Es ging ihm nicht um „deutsche Spiele“, nicht um eine Wiederholung von Jüngers Abenteuer in der Fremdenlegion, sondern darum, in einer für ihn bezeichnenden Weise, Ernst zu machen. Daß daraus nichts wurde, hatte dann – auch in einer für ihn bezeichnenden Weise – mit romantischen Impulsen zu tun: der Sehnsucht nach intensiver Erfahrung, nach großen Gefühlen, dem „Bedürfnis nach Monumentalität“, ein Diktum des Architekturtheoretikers Sigfried Giedion, das Mohler häufig zitierte. Daß der nationalsozialistische „Kommissarstaat“ kein Interesse hatte, solches Bedürfnis abzusättigen, mußte Mohler rasch erkennen. Er zog sein Gesuch zurück und ging bis Dezember 1942 zum Studium nach Berlin. Dort saß er im Seminar von Wilhelm Pinder und hörte Kunstgeschichte. Vor allem aber verbrachte er Stunde um Stunde in der Staatsbibliothek, wo er seltene Schriften der „Konservativen Revolution“ exzerpierte oder abschrieb, darunter die von ihm als „Manifeste“ bezeichneten Aufsätze Jüngers aus den nationalrevolutionären Blättern. Dieser Textkorpus bildete neben dem Arbeiter, der ersten Fassung des Abenteuerlichen Herzens sowie Blätter und Steine die Grundlage für Mohlers Faszination an Jünger.

Zehn Jahre später schrieb er über die Wirkung des Autors Jünger auf den Leser Mohler: „Sein Stil könnte mit seiner Oberfläche auf mathematische Genauigkeit schließen lassen. Aber diese Gestanztheit ist Notwehr. Durch sie hindurch spiegelt sich im Ineinander von Begriff und Bild eine Vieldeutigkeit, welche den verwirrt, der nur die Eingleisigkeit einer universalistisch verankerten Welt kennt. In Jüngers Werk … ist die Welt nominalistisch wieder zum Wunder geworden.“ Wer das Denken Mohlers etwas genauer kennt, weiß, welche Bedeutung das Stichwort „Nominalismus“ für ihn hatte, wie er sich bis zum Schluß auf immer neuen Wegen eine eigenartige, den Phänomenen zugewandte Weltsicht, zu erschließen suchte. Er hatte dafür als „Augenmensch“ bei dem „Augenmenschen“ Jünger eine Anregung gefunden, wie sonst nur in der Kunst.


Es wäre deshalb ein Mißverständnis, anzunehmen, daß Mohler Jünger auf Grund der besonderen Bedeutung, die er den Arbeiten zwischen den Kriegsbüchern und der zweiten Fassung des Abenteuerlichen Herzens beimaß, keine Weiterentwicklung zugestanden hätte. Ihm war durchaus bewußt, daß Gärten und Straßen das Alterswerk einleitete und zu einer deutlichen – und aus seiner Sicht legitimen – Veränderung des Stils geführt hatte. Es ging ihm auch nicht darum, Jünger auf die Weltanschauung der zwanziger Jahre festzulegen, wenngleich das Politische für seine Zuwendung eine entscheidende Rolle gespielt und zum Bruch mit der Linken geführte hatte. Sein Freund Werner Schmalenbach schilderte die Verblüffung des Basler Milieus aus Intellektuellen und Emigranten, in dem sich Mohler bis dahin bewegte, als dessen Begeisterung für Deutschland und für Jünger klarer erkennbar wurde. Nach seiner Rückkehr in die Schweiz und dem Bekanntwerden seines Abenteuers wurde er in diesen Kreisen selbstverständlich als „Nazi“ gemieden. Beirrt hat Mohler das aber nicht, weder in seinem Interesse an der Konservativen Revolution, noch in seiner Verehrung für Jünger.
Die persönliche Begegnung zwischen beiden wurde dadurch angebahnt, daß Mohler 1946 in der Zeitung Weltwoche einen Aufsatz über Jünger veröffentlichte, der weit von den üblichen Verurteilungen entfernt war. Es folgte ein Briefwechsel und dann die Aufforderung Jüngers, Mohler solle nach Abschluß seiner Dissertation eine Stelle als Sekretär bei ihm antreten. Als Mohler dann nach Ravensburg kam, wo Jünger vorläufig Quartier genommen hatte, war die Atmosphäre noch ganz vom Nachkrieg geprägt. Man bewegte sich wie in der Waffenstillstandszeit von 1918/19 in einer Art Traumland – zwischen Zusammenbruch und Währungsreform –, und alle möglichen politischen Kombinationen schienen denkbar. Der Korrespondenz zwischen Mohler und seinem engsten Freund Hans Fleig kann man entnehmen, daß damals beide die Wiederbelebung der „Konservativen Revolution“ erwarteten: die „antikapitalistische Sehnsucht“ des deutschen Volkes, von der Gregor Strasser 1932 gesprochen hatte, war in der neuen Not ungestillt, ein „heroischer Realismus“ konnte angesichts der verzweifelten Lage als Forderung des Tages erscheinen, auch die intellektuelle Linke glaubte, daß die „Frontgeneration“ ein besonderes Recht auf Mitsprache besitze, und das Ausreizen der geopolitischen Situation mochte als Chance gelten, die Teilung Deutschlands zwischen den Blöcken zu verhindern. Wie man Mohlers Ravensburger Tagebuch, aber auch anderen Dokumenten entnehmen kann, waren Jünger solche Gedanken nicht fremd, wenngleich die Erwägungen – bis hin zu nationalbolschewistischen Projekten – eher spielerischen Charakter hatten.

Differenzen zwischen beiden ergaben sich auf literarischem Feld. Mohler hatte Schwierigkeiten mit den letzten Veröffentlichungen Jüngers. Ihn irritierten die Friedensschrift (1945) und der große Essay Über die Linie (1951), und den Roman Heliopolis (1949) hielt er für mißlungen. Die Sorge, daß Jünger sich untreu werden könnte, schwand erst nach dem Erscheinen von Der Waldgang (1951). Mohler begrüßte das Buch enthusiastisch und als Bestätigung seiner Auffassung, daß man angesichts der Lage den Einzelgänger stärken müsse. Was sonst zu sagen sei, sollte getarnt werden, wegen der „ausgesprochenen Bürgerkriegssituation“, in der man schreibe. Er erwartete zwar, daß der „Antifa-Komplex“ bald erledigt sei, aber noch wirkte die Gefährdung erheblich und der „Waldgänger“ war eine geeignetere Leitfigur als „Soldat“ oder „Arbeiter“.


71043472.jpgMohler betrachtete den Waldgang vor allem als erste politische Stellungnahme Jüngers nach dem Zusammenbruch, eine notwendige Stellungnahme auch deshalb, weil die Strahlungen und die darin enthaltene Auseinandersetzung mit den Verbrechen der NS-Zeit viele Leser Jüngers befremdet hatte. In der aufgeheizten Atmosphäre der Schulddebatten fürchteten sie, Jünger habe die Seiten gewechselt und wolle sich den Siegern andienen; Mohler vermerkte, daß in Wilflingen kartonweise Briefe standen, deren Absender Unverständnis und Ablehnung zum Ausdruck brachten.


Mohler schloß sich dieser Kritik ausdrücklich nicht an und hielt ihr entgegen, daß sie am Kern der Sache vorbeigehe. „Der deutsche ‚Nationalismus‘ oder das ‚nationale Lager‘ oder die ‚Rechte‘ … wirkt heute oft erschreckend verstaubt und antiquiert – und dies gerade in einem Augenblick, wo [ein] bestes nationales Lager nötiger denn je wäre. Die Verstaubtheit scheint mir daher zu kommen, daß man glaubt, man könne einfach wieder da anknüpfen, wo 1933 oder 1945 der Faden abgerissen war.“ Einige arbeiteten an einer neuen „Dolchstoß-Legende“, andere suchten die Schlachten des Krieges noch einmal zu führen und nun zu gewinnen, wieder andere setzten auf einen „positiven Nationalsozialismus“ oder auf eine Wiederbelebung sonstiger Formen, die längst überholt und abgestorben waren. In der Überzeugung, daß eine Restauration nicht möglich und auch nicht wünschenswert sei, trafen sich Mohler und Jünger.


Die Stellung Mohlers als „Zerberus“ des „Chefs“ war nie auf Dauer gedacht. Mohler plante eine akademische Karriere und betrachtete seine Tätigkeit als Zeitungskorrespondent, die er 1953 aufnahm, auch nur als Vorbereitung. Der Kontakt zu Jünger riß trotz der Entfernung nie ab. interessanterweise bemühten sich in dieser Phase beide um eine Neufassung des Begriffs „konservativ“, die ausdrücklich dem Ziel dienen sollte, einen weltanschaulichen Bezugspunkt zu schaffen.


Wie optimistisch Jünger diesbezüglich war, ist einer Bemerkung in einem Brief an Carl Schmitt zu entnehmen, dem er am 8. Januar 1954 schrieb, er beobachte „an der gesamten Elite“ eine „entschiedene Wendung zu konservativen Gedanken“, und im Vorwort zu seinem Rivarol – ein Text, der in der neueren Jünger-Literatur regelmäßig übergangen wird – geht es an zentraler Stelle um die „Schwierigkeit, ein neues, glaubwürdiges Wort für ‚konservativ‘ zu finden“. Jünger hatte ursprünglich vor, gegen ältere Versuche eines Ersatzes zu polemisieren, verzichtete aber darauf, weil er dann auch den Terminus „Konservative Revolution“ hätte einbeziehen müssen, was er aus Rücksicht auf Mohler nicht tat. Daß ihn seine intensive Beschäftigung mit den Maximen des französischen Gegenrevolutionärs „stark in die politische Materie“ führte, war Jünger klar. Wenn dagegen so wenig Vorbehalte zu erkennen sind, dann hing das auch mit dem Erfolg und der wachsenden Anerkennung zusammen, die er in der ersten Hälfte der fünfziger Jahre erfuhr. Zeitgenössische Beobachter glaubten, daß er zum wichtigsten Autor der deutschen Nachkriegszeit werde.

Dieser „Boom“ erreichte einen Höhepunkt mit Jüngers sechzigstem Geburtstag. Es gab zwar auch heftige Kritik am „Militaristen“ und „Antidemokraten“, aber die positiven Stimmen überwogen. Mohler hatte für diesen Anlaß nicht nur eine Festschrift vorbereitet, sondern auch eine Anthologie zusammengestellt, die unter dem Titel Die Schleife erschien. Der notwendige Aufwand an Zeit und Energie war sehr groß gewesen, die prominentesten Beiträger für die Festschrift, Martin Heidegger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, bei Laune zu halten, ein schwieriges Unterfangen – Heidegger zog seinen Beitrag aus nichtigen Gründen zweimal zurück. Ganz zufrieden war der Jubilar aber nicht; Jünger mißfiel die geringe Zahl ausländischer Autoren, und bei der Schleife hatte er den Verdacht, daß hier suggeriert werde, es handele sich um ein Buch aus seiner Feder. Die Ursache dieser Verstimmung war eine kleine Manipulation des schweizerischen Arche-Verlags, in dem Die Schleife erschienen war, und der auf den Umschlag eine Titelei gesetzt hatte, die einen solchen Irrtum möglich machte.
Im Hintergrund spielte außerdem der Wettbewerb verschiedener Häuser um das Werk Jüngers mit, dessen Bücher in der Nachkriegszeit zuerst im Furche-, den man ihm zu Ehren in Heliopolis-Verlag umbenannt hatte, dann bei Neske und bei Klostermann erschienen waren. Außerdem versuchte ihn Ernst Klett für sich zu gewinnen. Wenn Klostermann die Festschrift herausbrachte, obwohl er davon kaum finanziellen Gewinn erwarten durfte, hatte das mit der Absicht zu tun, die Bindung Jüngers zu festigen. Deshalb korrespondierte der Verleger mit Mohler nicht nur wegen der Ehrengabe, sondern gleichzeitig auch wegen einer Edition des Gesamtwerks, die Jünger dringend wünschte.


Klostermann und Mohler waren einig, daß eine solche Sammlung nach „Wachstumsringen“ geordnet werden müsse, jedenfalls der Chronologie zu folgen und die ursprünglichen Fassungen zu bringen beziehungsweise Änderungen kenntlich zu machen habe. Bekanntermaßen ist dieser Plan nicht in die Tat umgesetzt worden. Rivarol war das letzte Buch, das Jünger bei Klostermann veröffentlichte, danach wechselte er zu Klett, dem er gleichzeitig die Verantwortung für die „Werke“ übertrug. In einem Brief vom 15. Dezember 1960 schrieb Klostermann voller Bitterkeit an Mohler, daß er die Ausgabe im Grunde für unbenutzbar halte und mit Bedauern feststelle, daß Jünger gegen Kritik immer unduldsamer werde. Zwei Wochen später veröffentlichte Mohler einen Artikel über die Werkausgabe in der Züricher Tat. Jüngers „Übergang in das Lager der ‚Universalisten‘“ wurde nur konstatiert, aber die Eingriffe in die früheren Texte scharf getadelt.


Noch grundsätzlicher faßte Mohler seine Kritik für einen großen Aufsatz zusammen, der im Dezember 1961 in der konservativen Wochenzeitung Christ und Welt erschien und von vielen als Absage an Jünger gelesen wurde. Mohler verurteilte hier nicht nur die Änderung der Texte, er mutmaßte auch, sie folgten dem Prinzip der Anbiederung, man habe „ad usum democratorum frisiert“, es gebe außerdem ein immer deutlicher werdendes „Gefälle“ im Hinblick auf die Qualität der Diagnostik, was bei den letzten Veröffentlichungen Jüngers wie An der Zeitmauer (1959) und Der Weltstaat (1960) zu einer Beliebigkeit geführt habe, die wieder zusammenpasse mit anderen Konzessionen Jüngers, um „sich mit der bis dahin gemiedenen Öffentlichkeit auszugleichen“. Mohler deutete diese Tendenz nicht einfach als Schwäche oder Verrat, sondern als negativen Aspekt jener„osmotischen“ Verfassung, die Jünger früher so sensibel für kommende Veränderungen gemacht habe.

Jünger brach nach Erscheinen des Textes den Kontakt ab. Daß Mohler das beabsichtigte, ist unwahrscheinlich. Noch im Juni 1960 hatte Jünger ihn in Paris besucht, kurz bevor Mohler nach Deutschland zurückkehrte, und im Gästebuch stand der Eintrag: „Wenige sind wert, daß man ihnen widerspricht. Bei Armin Mohler mache ich eine Ausnahme. Ihm widerspreche ich gerne.“ Jetzt warf Jünger Mohler vor, ihn ideologisch mißzuverstehen und äußerte in einem Brief an Curt Hohoff: „Das Politische hat mich nur an den Säumen beschäftigt und mir nicht gerade die beste Klientel zugeführt. Würden Mohlers Bemühungen dazu beitragen, daß ich diese Gesellschaft gründlich loswürde, so wäre immerhin ein Gutes dabei. Aber solche Geister haben ein starkes Beharrungsvermögen; sie verwandeln sich von lästigen Anhängern in unverschämte Gläubiger.“


Sollte Jünger Mohlers Text tatsächlich nicht gelesen haben, wie er hier behauptete, wäre ihm auch der Schlußpassus entgangen, in dem Mohler zwar nicht zurücknahm, was er gesagt hatte, aber festhielt, daß ein einziges der großen Bücher Jüngers genügt hätte, um diesen „für immer in den Himmel der Schriftsteller“ eingehen zu lassen: „An dessen Scheiben wir Kritiker uns die Nase plattdrücken.“ Die Ursache für Mohlers Schärfe war Enttäuschung, eine Enttäuschung trotz bleibender Bewunderung. Mohler warf Jünger mit gutem Grund vor, daß dieser in der zweiten Hälfte der fünfziger Jahre ohne Erklärung den Kurs geändert hatte und sich in einer Weise stilisierte, die ihn nicht mehr als „großen Beunruhiger“ erkennen ließ. Man konnte das wahlweise auf Jüngers „Platonismus“ oder sein Bemühen um Klassizität zurückführen. Tendenzen, mit denen Mohler schon aus Temperamentsgründen wenig anzufangen wußte.


Die Wiederannäherung kam deshalb erst nach langer Zeit und angesichts der Wahrnehmung zustande, daß Jünger eine weitere Kehre vollzog. Das Interview, das der Schriftsteller am 22. Februar 1973 Le Monde gab, wirkte auf Mohler elektrisierend, was vor allem mit jenen Schlüsselzitaten zusammenhing, die von der deutschen Presse regelmäßig unterschlagen wurden: Zwar hatte man mit einer gewissen Irritation Jüngers Äußerung gemeldet, er könne weder Wilhelm II. noch Hitler verzeihen, „ein so wundervolles Instrument wie unsere Armee vergeudet zu haben“, aber niemand wagte sein Diktum hinzuzufügen: „Wie hat der deutsche Soldat zweimal hintereinander unter einer unfähigen politischen Führung gegen die ganze wider ihn verbündete Welt sich halten können? Das ist die einzige Frage, die man meiner Ansicht nach in 100 Jahren stellen wird.“ Und nirgends zu finden war die Prophetie über das Schicksal, das den Deutschen im Geistigen bevorstand: „Alles, was sie heute von sich weisen, wird eines schönen Tages zur Hintertüre wieder hereinkommen.“


Mohler stellte die Rückkehr zum Konkret-Politischen mit der Wirkung von Jüngers Roman Die Zwille zusammen, ein „erzreaktionäres Buch“, so sein Urteil, das in seinen besten Passagen jene Fähigkeit zum „stereoskopischen“ Blick zeigte, die von Mohler bewunderte Fähigkeit, das Besondere und das Typische – nicht das Allgemeine! – gleichzeitig zu erkennen. Obwohl Mohler an seiner Auffassung vom „Bruch“ im Werk festhielt, hat der Aufsatz Ernst Jüngers Wiederkehr wesentlich dazu beigetragen, den alten Streit zu beenden. Die Verbindung gewann allmählich ihre alte Herzlichkeit zurück, und seinen Beitrag in der Festschrift zu Mohlers 75. Geburtstag versah Jünger mit der Zeile „Für Armin Mohler in alter Freundschaft“; beide telefonierten häufig und ausführlich miteinander, und wenige Monate vor dem Tod Jüngers, im Herbst 1997, kam es zu einer letzten persönlichen Begegnung in Wilflingen.


Nachdem Jünger gestorben war, gab ihm Mohler, obwohl selbst betagt und krank, das letzte Geleit. Er empfand das mit besonderer Genugtuung, weil es ihm nicht möglich gewesen war, Carl Schmitt diese letzte Ehre zu erweisen. Jünger und Schmitt hatten nach Mohlers Meinung den größten Einfluß auf sein Denken, mit beiden war er enge Verbindungen eingegangen, die von Schwankungen, Mißverständnissen und intellektuellen Eitelkeiten nicht frei waren, zuletzt aber Bestand hatten. Den Unterschied zwischen ihnen hat Mohler auf die Begriffe „Idol“ und „Lehrer“ gebracht: Schmitt war der „Lehrer“, Jünger das „Idol“. Wenn man „Idol“ zum Nennwert nimmt, dann war Mohlers Verehrung eine besondere – von manchen Heiden sagt man, daß sie ihre Götter züchtigen, wenn sie nicht tun, was erwartet wird.


Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

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[2] Image: http://www.sezession.de/heftseiten/heft-22-februar-2008

samedi, 12 octobre 2013

Entretien avec Aymeric Chauprade

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Aymeric Chauprade : « Si les États-Unis n’acceptent pas le monde multipolaire, alors il y aura une guerre mondiale encore plus terrible que les deux précédentes »

Alors que la 3e édition de la Chronique du choc des civilisations, le fameux « Chauprade », comme on dit désormais, vient de sortir en librairie, Nouvelles de France a interrogé son auteur. Entretien sans langue de bois !

Aymeric Chauprade, vous publiez dans votre Chronique du choc des civilisations une très instructive carte du grand Moyen-Orient voulu par les États-Unis d’Amérique. Sur quoi est-elle fondée ?

Il s’agit d’une représentation d’un possible redécoupage des frontières moyen-orientales sur une base communautaire (religieuse ou ethnique). Cette idée n’est pas nouvelle. Elle a été imaginée plusieurs fois depuis les années 1980 dans certains cercles stratégiques israéliens et américains. Elle n’a jamais été adoptée comme politique des États-Unis, puisque officiellement, c’est l’intangibilité des frontières qui prévaut, mais l’on voit bien qu’avec la création du Kosovo dans les Balkans, les États-Unis ne sont en rien fixés sur l’intangibilité des frontières existantes.


Plusieurs auteurs issus de think tanks américains ont publié de telles cartes. Je pense que rien n’est tranché sur cette question. La vérité en la matière n’est ni noire, ni blanche, elle est grise. Ces intentions existent, et peut-être certains milieux stratégiques américains et israéliens pensent-ils que leur suprématie au Moyen-Orient sera mieux assurée si une telle recomposition se produit et qu’Israël voit naître de petits États alliés (druze, kurde…) face aux Arabes sunnites.


Mais les forces qui remuent un État ne sont en réalité jamais unifiées, et peuvent même être contradictoires. La politique est la résultante de toutes ces forces. Mon intention est donc de permettre au lecteur d’imaginer ce qui est possible, sans pour autant l’enfermer dans une vérité systématique.


« J’ai été l’un des premiers, en France, à éclairer le basculement de la géopolitique américaine après l’effondrement soviétique dans une stratégie de refus d’ascension de la Chine et plus généralement de refus d’un monde multipolaire. »


L’une des grandes thèses de votre Chronique, c’est la fin progressive d’un monde unipolaire organisé autour des États-Unis d’Amérique au profit d’un monde multipolaire (Chine, etc.), le Moyen-Orient comme condition à cette évolution et l’islamisme comme barrage. En quoi cette thèse est-elle novatrice ? Est-elle opposée ou complémentaire à la thèse du choc des civilisations actualisée par Samuel P. Huntington ou à celle du choc traditionalisme/progressisme (Caroline Fourest) ?


Je ne sais pas si ma thèse est novatrice. Ce que je sais c’est que j’ai été l’un des premiers, en France, à éclairer le basculement de la géopolitique américaine après l’effondrement soviétique dans une stratégie de refus d’ascension de la Chine et plus généralement de refus d’un monde multipolaire.


Je pense que le Moyen-Orient est le lieu principal, mais non unique, de cet affrontement entre forces de l’unipolarité, tendues vers le projet d’une hégémonie américaine, et forces (diverses) de la multipolarité. Cette idée n’est opposée ni à la thèse de Huntington ni à celle de Fourest. Huntington a eu le mérite de rappeler que les civilisations existent et que le monde ne se réduit pas à un affrontement idéologique entre les démocraties et les tyrannies, un conte pour enfants qui est pourtant « vendu » par les politiques occidentaux à leurs électeurs.


Moi je dis que l’Histoire ne se réduit pas au choc des civilisations, car les nations et les figures historiques jouent aussi un rôle central, mais que le choc des civilisations est une réalité du temps long de l’Histoire.


Quant à la thèse de Caroline Fourest, cela va vous paraître curieux mais je la partage, à la différence près (essentielle) que je me situe dans le camp opposé au sien ! On peut être marxien sans être marxiste. Fourest est à la pointe du combat LGBT ; il est normal qu’elle ait compris très tôt la guerre qu’elle faisait au monde de la tradition !


« Les États-Unis et l’Union européenne sont devenus les promoteurs de la destruction de la famille par la THÉORIE DU GENRE, par le MARIAGE HOMOSEXUEL, par la MARCHANDISATION DU CORPS ; en face, la Russie va s’affirmer comme l’État qui défend les valeurs traditionnelles et la véritable liberté de l’homme. »


Donc en effet, en plus des permanences et des ruptures géopolitiques, il existe un affrontement idéologique. Celui d’un monde qui pense que la liberté et la dignité de l’homme reposent sur les valeurs naturelles (et ces valeurs dépassent le christianisme, elles ne découlent pas de la religion, elles sont en chacun d’entre nous, quelques soient nos croyances) comme la famille ; et celui d’un autre monde (Fourest en est l’avant-garde) fondé sur le grand marché de « ce que nous pourrions être à la place de ce que la nature a voulu que nous soyons ».


Ces deux systèmes de valeur vont s’affronter en effet de plus en plus dans les années à venir. Les États-Unis et l’Union européenne sont devenus les promoteurs de la destruction de la famille par la théorie du genre, par le mariage homosexuel, par la marchandisation du corps ; en face, la Russie va s’affirmer comme l’État qui défend les valeurs traditionnelles et la véritable liberté de l’homme. Je ne suis pas allé parler à la Douma par hasard !


Quant à l’islamisme, il y a longtemps que je dis qu’il est le meilleur allié du projet américain dans la guerre contre le monde multipolaire. Il est l’idiot utile de l’Occident américain.


Cette évolution de l’unipolarité à la multipolarité est-elle inéluctable ? Quelles conséquences la fin d’un monde unipolaire aura-t-elle pour Israël ?


Il n’y a d’inéluctable que ce que l’on accepte. Je ne crois pas au sens de l’Histoire. La seule flèche de l’Histoire est celle du progrès des sciences et des techniques dont découle l’essentiel des révolutions mentales. Pour le reste, certaines valeurs immuables, comme la famille, traversent le temps. Le Bien et le Mal sont immuables. Ils ont traversé les siècles et malheureusement le Mal n’est pas moins fort aujourd’hui qu’il ne l’était hier.

Ce que je pense, c’est que si les États-Unis n’acceptent pas le monde multipolaire, alors il y aura une guerre mondiale encore plus terrible que les deux précédentes. De mon point de vue, Israël ne devrait pas souhaiter cela car, alors, une nouvelle catastrophe surviendrait pour le peuple juif. Je pense pour ma part qu’Israël peut survivre et même trouver toute sa place dans un monde multipolaire.


Je ne vois pas au nom de quoi j’empêcherai à un peuple d’exister et d’avoir la sécurité. Cela nécessite un progrès dans les mentalités tant du côté israélien, que du côté arabe. En tout cas je ne crois pas du tout que le destin d’Israël soit lié à l’hyperpuissance américaine. Israël joue de l’hyperpuissance, mais une autre stratégie viable est possible pour ce pays.


« Sous prétexte de s’opposer à la géopolitique américaine, il ne faudrait pas non plus tomber dans l’idéalisme béat qui voudrait que les Chinois ou les Russes soient des bisounours… »


En dévorant votre Chronique, un lecteur non-initié pourrait penser que la géopolitique est décidément bien immorale et cynique. Est-ce par principe vrai ou la cause de ce constat se trouve-t-elle dans le fait que la plupart des pays développés sont aux mains de l’oligarchie mondialiste ?


L’oligarchie mondialiste (et les États occidentaux qu’elle contrôle) n’est pas la seule à défendre des intérêts cyniques. Ne caricaturons pas les choses. Tous les États du monde, y compris ceux qui s’opposent à l’oligarchie, obéissent au principe de la realpolitik et des intérêts.


Ce que je dis, c’est que le réaliste accepte et prend en compte le droit des États à défendre leurs intérêts et qu’il essaie ensuite de voir comment faire en sorte que la compétition des intérêts ne se transforme pas en bain de sang. Sous prétexte de s’opposer à la géopolitique américaine, il ne faudrait pas non plus tomber dans l’idéalisme béat qui voudrait que les Chinois ou les Russes soient des bisounours…


Je me méfie de toute façon de tous les manichéismes, aussi bien quand il s’agit de faire endosser la peau du méchant au Russe, au Serbe, à l’Israélien ou à l’Arabe. Regardons les intérêts de chacun, essayons de comprendre leur point de vue, et méfions-nous de ne pas appliquer les modes de pensée de nos adversaires, ceux de la diabolisation de l’ennemi.


En quoi le mondialisme (idéologie) est-il distinct de la mondialisation (un fait déjà ancien, certains disent qu’elle a commencé sous l’Empire romain) ?


La mondialisation est le résultat de l’action d’une hyperpuissance, hier Rome, aujourd’hui les États-Unis, qui décloisonne le monde dans le sens de ses intérêts propres. Le mondialisme est l’idéologie qui donne une légitimité philosophique et politique à cette action. Il existe un lien entre les deux, mais les deux phénomènes sont néanmoins à distinguer.


Par exemple, certains aspects du progrès scientifique et technique poussent dans le sens de l’émancipation des territoires et des frontières. D’autres aspects, comme la biométrie, permettent au contraire de mieux réguler les flux et de revenir aux signatures biologiques de l’homme, au moment où son état-civil est souvent falsifié.


Le fait que vous travailliez désormais avec Marine Le Pen et que vous l’assumiez publiquement ne risque-t-il pas de rendre moins crédible vos travaux aux yeux du grand public ?


Vous connaissez l’adage : « à vaincre sans péril, on triomphe sans gloire ». Évidemment, ce serait plus confortable de profiter de mon statut de consultant international, de rester sur les sphères tranquilles de la « métapolitique » sans mettre les mains dans le cambouis.


Le problème c’est que je ne supporte plus d’assister à la destruction lente de mon pays, en restant les bras croisés, dans la posture d’un Cicéron assistant au déclin de Rome. Je ne sais absolument pas si mon action sera utile, mais j’ai l’envie de me rendre utile au pays. Et je me dis que ma position en géopolitique, laquelle est, me semble-t-il, respectée, peut apporter quelque chose à la dynamique engagée par Marine Le Pen.


Après tout, la quasi-totalité des experts de mon domaine assument une appartenance politique, souvent socialiste, parfois UMP. Autrement dit, ils se sentent proches de partis qui, depuis plus de 30 ans, ont trompé les Français et affaibli la France. Pourquoi devrais-je avoir honte de dire que je me sens proche d’une femme de caractère, dont l’amour de la France n’est pas à mettre en doute et auxquels les Français ont de plus en plus envie de donner sa chance ?


Vous ne pensez pas que cette femme, qui a grandi dans l’hostilité violente, injuste, que le système opposait au talent de son père, a justement la cuirasse qu’il faut pour affronter les défis de la France et faire les choix courageux qui s’imposent en matière d’immigration et de réforme de l’État-providence ? Je crois que le problème de la France, c’est avant tout le manque de courage de ses élites : les gens qui nous gouvernent sont conformistes et sans caractère, et ne font que suivre  les idées dominantes.


Je connais ma valeur, mes forces et mes limites et n’ai jamais cherché la reconnaissance d’une caste d’universitaires sectaires. Il est connu et reconnu que j’ai réveillé la tradition géopolitique réaliste en France. Si cela échappe à certains ici, cela n’a pas échappé aux nombreux pays avec lesquels je travaille. Je m’honore à ne pas être honoré par un système que je combats de toutes mes forces et depuis toujours.

Combien d’exemplaires des deux premières éditions de votre Chronique du choc des civilisations avez-vous déjà vendu ? À combien d’exemplaires a été tirée la nouvelle ?

Pour les deux premières éditions de Chronique du choc des civilisations, nous en sommes à près de 30 000 exemplaires vendus. J’ignore à combien mon éditeur a tiré cette troisième édition. Je lui fais confiance car c’est un grand professionnel et comme je suis, par ailleurs, éditeur depuis 20 ans je n’ai pas pour habitude de harceler mes éditeurs!

Nouvelles de France


http://fortune.fdesouche.com/327299-aymeric-chauprade-si-les-etats-unis-nacceptent-pas-le-monde-multipolaire-alors-il-y-aura-une-guerre-mondiale-encore-plus-terrible-que-les-deux-precedentes#more-327299

Il Tibet e il problema idrico cinese

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Il Tibet e il problema idrico cinese nel contesto dell’Asia Meridionale

Francesco Bellomia 
 
Ex: http://www.geopolitica-rivista.org

Si discute spesso del crescente fabbisogno energetico cinese e dunque delle problematiche relative al reperimento di materie prime come petrolio, gas naturale e carbone, ma, nell’ambito delle risorse naturali, ciò non rappresenta l’unica esigenza a cui la classe dirigente a Pechino deve far fronte. La mancanza di acqua, unita all’inquinamento di una parte delle risorse idriche disponibili, sta divenendo infatti una questione sempre più pressante, un problema che finisce per ripercuotersi sulla stessa crescita economica del paese, oltreché sulla stabilità sociale e sui rapporti della Cina con gli stati limitrofi nell’area dell’Asia Meridionale.

plateaumap_lgLa Cina detiene il 7% delle risorse mondiali di acqua, stante però una popolazione equivalente al 20% del totale, Pechino si classifica al centesimo posto su centosettantacinque paesi nel ranking relativo alle risorse idriche mondiali pro capite (con un ammontare di 2.093 m3 di acqua a persona)1.Essendo quella cinese un’economia ancora in espansione, il fabbisogno idrico ne risulterà certamente crescente in maniera esponenziale, soprattutto dal punto di vista industriale e abitativo. Sei regioni nel paese registrano già consumi di acqua superiori alle risorse disponibili, mentre altre cinque vengono considerate al di sotto della soglia di criticità (fissata a 1000 m3 di acqua pro capite)2.

Vi è poi un problema di distribuzione tra nord e sud. Il 77% delle risorse idriche è infatti concentrato nel sud del paese, mentre si trovano invece al nord il 64% delle terre arabili e il 40% della produzione industriale. Una parte delle risorse di acqua inoltre, non può essere utilizzata a causa degli elevati livelli di inquinamento. Il 34% dell’acqua dei sette maggiori fiumi cinesi è classificata come inquinata, di questa il 14% come altamente inquinata, il che la rende inservibile anche per gli usi industriali o agricoli. Secondo la FAO, intorno alle aree urbane, soprattutto quelle industrializzate del nord, il 90% dei fiumi può essere considerato come altamente inquinato3. Come è noto, alla base di tali dati vi è la priorità data da Pechino allo sviluppo industriale rispetto alle problematiche relative alla tutela ambientale, che però stanno finendo per ripercuotersi in maniera indiretta sullo stesso sviluppo economico del paese.

Per tentare di attenuare le carenze idriche e favorire un riequilibrio delle risorse tra nord e sud, il governo centrale cinese ha posto in essere alcuni imponenti progetti, sia in termini ingegneristici che economici, tra i quali spicca il South-North Water Diversion Project. Dai costi stimati di 62 miliardi di dollari, il progetto prevede la costruzione di tre sezioni di canali e dighe che, in diversi punti lungo il fiume Yangtze, dovrebbero convogliare l’acqua verso la parte nord del paese. L’obiettivo è di deviare annualmente, verso le pianure settentrionali, 45 miliardi di metri cubi di acqua.

I progetti di costruzione di dighe e di deviazione dei corsi d’acqua, oltreché rappresentare ulteriori minacce dal punto di vista ambientale, rischiano di esacerbare le relazioni di Pechino con i paesi confinanti. Centrale da questo punto di vista è la regione tibetana. Le abbondanti risorse idriche del Tibet sono un’ulteriore ragione per cui l’area ha un un’importanza fondamentale per la Cina, non solo dal punto di vista economico, ma anche strategico.

Nascono infatti in Tibet o nell’area dell’Altopiano tibetano, fiumi di importanza vitale non solo per la parte nord-orientale della Cina, come lo Yangtze o il Fiume Giallo, ma anche per gli altri paesi dell’Asia sud-orientale. È il caso dello Yarlung Tsangpo, che dal Tibet scorre verso l’India (dove prende il nome di Brahmaputra) e il Bangladesh; del fiume Saluen che raggiunge invece Myanmar e Thailandia; del fiume Mekong, che, partendo dalla regione tibetana, attraversa Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam; e del fiume Indo che dal Tibet confluisce poi in India e Pakistan, rappresentando per quest’ultimo la più importante fonte idrica del paese. Si tratta di corsi d’acqua che sono già stati oggetto della costruzione di dighe o altre infrastrutture di deviazione dei flussi, o che sono al centro di progetti in tal senso, pianificati dalle autorità cinesi.

In particolare, i piani riguardanti lo Yarlung Tsangpo, come la costruzione della diga di Zangmu o la sezione occidentale del South-North Water Diversion Project, diffondono una certa apprensione in India. Quest’ultima risulta dipendente dalla Cina non soltanto per la parte settentrionale del fiume Brahmaputra, ma anche per altri corsi d’acqua, come il già citato Indo e un suo importante affluente il Sutej, entrambi i quali sorgono all’interno della regione tibetana. L’India, come la Cina, deve essa stessa fare i conti con i problemi derivanti dalla cronica mancanza d’acqua, per cui la salute e la reperibilità delle proprie risorse idriche diventa vitale per Nuova Delhi. Per questi motivi, in più di un’occasione, gli indiani hanno chiesto alla Cina di essere trasparente, riguardo alla condivisione dei dati idrogeologici relativi al proprio tratto dei fiumi transfrontalieri. Le questioni riguardanti il Tibet restano dunque ancora una volta centrali nell’ambito dei rapporti sino-indiani. Relazioni segnate in larga parte da diffidenza, e che in passato hanno conosciuto significative tensioni collegate proprio allo status della regione tibetana.

Nei conflitti che possono derivare dal possesso delle risorse idriche di un fiume, è evidente il vantaggio di essere paesi “a monte” rispetto che “a valle”. In questo senso, rinunciare al Tibet significherebbe per la Cina perdere il controllo, non solo delle risorse idriche presenti nella regione, ma anche delle sorgenti di fiumi d’importanza fondamentale per il fabbisogno di molti paesi in tutta l’Asia Meridionale, corsi d’acqua che assicurano dunque a Pechino un potere strategico vitale.

Ultimamente, l’economia cinese sta subendo significativi rallentamenti e, secondo diversi analisti, la fase delle crescite a due cifre si è ormai ampiamente conclusa. Tutto ciò può avere significative conseguenza sulla tenuta del sistema. Al momento, i rischi maggiori per Pechino, più che dalle tensioni indipendentiste in Tibet o nello Xinjiang (seppur ancora ampiamente presenti), sembrerebbero nascere soprattutto dalle tensioni sociali che possono derivare dai problemi economici, oltreché dalla richiesta di maggiori diritti. Per anni, la solidità del sistema è stata garantita non solo dalla repressione, ma anche dalle opportunità che una crescita economica impetuosa sembrava offrire.

Da questo punto di vista, il Tibet, visti gli ulteriori margini di crescita economica, la ricchezza di minerali e altre risorse naturali, le possibilità di trasferimenti aggiuntivi di popolazione da aree sovrappopolate, continuerà a giocare un ruolo fondamentale. La regione è cambiata molto negli ultimi anni, la classe dirigente a Pechino infatti, non vi ha portato solo repressione e censura (o popolazioni di etnia Han), ma anche un certo sviluppo economico, particolarmente visibile soprattutto a Lhasa. Uno sviluppo percepito però da una buona parte dei tibetani come “colonialismo”, e dunque come una minaccia alla propria identità. Per decenni, a farla da padrone in Tibet sono stati la geografia e la natura, oggi lo sviluppo tecnologico ha reso la regione un po’ meno inospitale. Chi ha avuto la possibilità di visitarla testimonia di come appaia per certi versi come un “cantiere a cielo aperto”.

Tornando al problema idrico, secondo il 2030 Water Resources Group la domanda cinese di acqua nel 2030 supererà l’offerta di 201 miliardi di metri cubi4. Seppur le previsioni in questi ambiti sono sempre azzardate, la questione non può certo essere negata. Diventa fondamentale per Pechino un utilizzo più efficiente delle proprie risorse e una maggiore sensibilità riguardo ai problemi ambientali. Ulteriori progetti di deviazione e sfruttamento dei fiumi presenti nell’area sud-occidentale sembrerebbero inevitabili. L’acqua ha un’importanza vitale non solo dal punto di vista industriale o agricolo, ma anche da quelli della produzione di cibo, della salute, degli usi abitativi. Non bisogna dimenticare poi, che i vari corsi d’acqua fungono anche da fonti di produzione di energia idroelettrica, consentendo alla Cina di diversificare le sue fonti, attenuando la dipendenza dai combustibili fossili. La tenuta del sistema è quindi in buona parte legata alla disponibilità futura di una risorsa vitale e insostituibile.

L’acqua del Tibet dunque, sembrerebbe destinata a divenire sempre più un ulteriore terreno di attrito tra la Cina e i paesi limitrofi, i quali già accusano Pechino di scarsa trasparenza sui piani di gestione dei propri tratti dei corsi d’acqua transfrontalieri. In definitiva, nel contesto dell’Asia Meridionale, il rischio maggiore è che l’enorme fabbisogno cinese di acqua lasci a bocca asciutta tutti gli altri.

NOTE:
Francesco Bellomia, dottore magistrale in Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Roma "La Sapienza"), è ricercatore associato del programma "Asia Meridionale" dell'IsAG.

1. Dato relativo al 2011. The World Bank.
2. Le suddivisioni amministrative in deficit idrico sono: Ningxia, Shanghai, Jiangsu, Tianjin, Pechino e Hebei. Le aree invece considerate in condizione di “carenza idrica” sono: Henan, Shandong, Shanxi, Liaoning e Gansu. Si tratta di 11 regioni che da sole forniscono il 45% del totale del PIL cinese, Chinawaterrisk.org.
3. Aquastat - FAO's global water information system.
4. Charting Our Water Future, "2030 Water Resources Group", 2009.

Multipolarism as an Open Project

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Multipolarism as an Open Project

 Professor of the Moscow State University, Doctor of political sciences, founder of the contemporary Russian school of Geopolitics, leader of the International Social Movement “Eurasian Movement”, Moscow, Russian Federation.

 

I. Multipolarism and “Land Power”

Geopolitics of the Land in the Global World

In the previous part we discussed the subject of globalism, globalization, and mondialism in a view considered to be generally accepted and “conventional”. Geopolitical analysis of the phenomenon of the subject of globalism, globalization, and mondialism has showed that in the modern globalism we only deal with one of the two geopolitical powers, namely, with a thalassocracy, a “Sea Power” that from now on claims for uniqueness, totality, and normativeness and strives to pretend to be the only possible civilization, sociological and geopolitical condition of the world.

Therewith, the philosophy of globalism is based upon the internal surety with universalism of exactly the Western-European value system thought to be the summary of all the diverse experience of the human cultures on all stages of their history.

And finally, in its roots, globalization has an active ideology (mondialism) and power structures that spread and bring this ideology into use. If taking into account that the latter are the most authoritative intellectual US centers (such as CFR and neoconservatives), structures of the US Supreme Military Command and their analysts (Owens, Sibrowsky, Barnett, Garstka), international oligarchs (such as George Soros), a number of international organizations (The Bilderberg Club, Trilateral Commission, etc.), and innumerous amount of analysts, politicians, journalists, scientists, economists, people of culture and art, and IT sector employees spread all over the world, we can understand the reason why this ideology seems to be something that goes without saying for us. That we sometimes take globalization as an “objective process” is the result of a huge manipulation with public opinion and the fruit of a total information war.

Therefore, the picture of global processes we described is an affirmation of the real state of affairs just in part. In such a description, there is a significant share of a normative and imperative volitional (ideological) wish that everything should be quite so, which means, it is based upon wrenches and, to some extent, striving to represent our wishful thinking as reality.

In this part, we will describe an absolutely different point of view on globalization and globalism that is impossible from inside the “Sea Power”, i.e. out of the environment of the nominal “Global World”. Such a view is not taken into account either in antiglobalism or in alterglobalism because it refuses from the most fundamental philosophical and ideological grounds of Eurocentrism.  Such a view rejects the faith in:

  •  universalism of the Western values, that Western societies, in their history, have passed the only possible way all the other countries are expected to pass;
  • progress as an indisputable forwardness of historical and social development;
  • that it is limitless technical, economical, and material development, which is the answer for the most vital needs of all humankind;
  • that people of all cultures, religions, civilizations, and ethnoses are principally the same as the people of the West and they are governed by the same anthropological motives;
  • absolute superiority of capitalism over other sociopolitical formations;
  • absence of any alternative for market economy;
  • that liberal democracy is the only acceptable form of political organization of the society;
  • individual freedom and individual identity as the superior value of human being;
  • liberalism as a historically inevitable, higher-priority, and optimal ideology.

In other words, we proceed to the position of the “Land Power” and consider the present moment of the world history from the point of view of Geopolitics-2, or the thalassocratic geopolitics as an episode of the “Great Continent War”, not as its conclusion.

Of course, it is difficult to refuse that the present moment of historical development demonstrates a number of unique features that, if desired, can be interpreted as the ultimate victory of the Sea over the Land, Carthage over Rome and Leviathan over Behemoth. Indeed, never in history the “Sea Power” was such a serious success and stretched might and influence of its paradigm in such a scale. Of course, Geopolitics-2 acknowledges this fact and the consequences included. But it clearly realizes that globalization can be also interpreted otherwise, namely, as a series of victories in combats and battles, not as the ultimate win in the war.

Here, a historical analogy suggests itself: when German troops were approaching to Moscow in 1941, one could think that everything was lost and the end of the USSR was foredoomed. The Nazi propaganda commented the course of the war quiet so: the “New Order” is created in the occupied territory, the authorities work, economical and political hierarchy is created, and the social life is organized. But the Soviet people kept on violently resisting – at all the fronts as well as in the rear of the enemy, while systematically moving to their goal and their victory.

Now, there is precisely this moment in the geopolitical stand of the Sea and the Land. Information policy inside the “Sea Power” is built so as no-one has any doubt that globalism is an accomplished fact and the global society has come about in its essential features, that all the obstacles from now on are of a technical character. But from certain conceptual, philosophical, sociological, and geopolitical positions, all of it can be challenged by suggesting an absolutely different vision of the situation. All the point is in interpretation. Historical facts make no sense without interpretation. Likewise in geopolitics: any state of affairs in the field of geopolitics only makes sense in one or another interpretation. Globalism is interpreted today almost exclusively in the Atlantist meaning and, thus, the “sea” sense is put into it. A view from the Land’s position doesn’t change the state of affairs but it does change its sense. And this, in many cases, is of fundamental importance.

Further, we will represent the view on globalization and globalism from the Land’s position – geopolitical, sociological, philosophical, and strategical.

Grounds for Existence of Geopolitics-2 in the Global World

How can we substantiate the very possibility of a view on globalization on the part of the Land, assuming that the structure of the global world, as we have shown, presupposes marginalization and fragmentation of the Land?

There are several grounds for this.

  1. The human spirit (conscience, will, faith) is always capable to formulate its attitude to any ambient phenomenon and even if this phenomenon is presented as invincible, integral, and “objective”, it is possible to take it in a different way – accept or reject, justify or condemn. This is the superior dignity of man and his difference from animal species. And if man rejects and condemns something, he has the right to build strategies to overcome it in any, most difficult and insuperable, situations and conditions. The advance of the global society can be accepted and approved but it can be rejected and condemned as well. In the former case, we float adrift the history, in the latter one – we seek a “fulcrum” to stop this process. History is made by people and the spirit plays the central part here. Hence, there is a theoretical possibility to create a theory radically opposite to the views that are built on the base of the “Sea Power” and accept basic paradigms of the Western view on the things, course of history, and logic of changing sociopolitical structures.
  2. The geopolitical method allows to identify globalization as a subjective process connected with a success of one of the two global powers. Be the Land ever so “marginal and fragmentized», it has serious historical grounds behind itself, traditions, experience, sociological and civilization background. The Land’s geopolitics is not built on a void place; this is a tradition that generalizes some fundamental historical, geographical, and strategical trends. Therefore, even on the theoretical level, estimation of globalization from the position of Geopolitics-2 is absolutely relevant. Just as well as there is the “subject” of globalization in its center (mondialism and its structures), the Land Power can and does have its own subjective embodiment. In spite of a huge scale and massive forms of the historical polemics of civilizations, we, first of all, deal with a stand of minds, ideas, concepts, theories, and only then – with that of material things, devices, technologies, finances, weapons, etc.
  3. The process of desovereignization of national states has not yet become nonreversible, and the elements of the Westphalian system are still being partly preserved. That means that a whole range of national states, by virtue of certain consideration, can still bank on realization of the land strategy, i.e. they can completely or partially reject globalization and the “Sea Power’s” paradigm. China is an example of it; it balances between globalization and its own land identity, strictly observing that the general balance is kept and that only what consolidates China as a sovereign geopolitical formation is borrowed from the global strategies. The same can be also said about the states the US have equaled to the “Axis of Evil” — Iran, Cuba, North Korea, Venezuela, Syria, etc. Of course, the threat of a direct intrusion of US troops hangs over these countries like the sword of Damocles (on the model of Iraq or Afghanistan), and they are continuously subject to more politic network attacks from inside. However, at the moment their sovereignty is preserved what makes them privileged areas for development of the Land Power. It is also possible to refer here a number of hesitant countries, such as India, Turkey and others, which, being significantly involved into the globalization orbit, preserve their original sociological features, getting out of accord with the official precepts of their governing regimes. Such situation is characteristic of many Asian. Latin-American and African societies. 
  4. And, finally, the most general. — The present state of Heartland. The world dominance, as we know, and thus, reality or evanescence of monopolar globalization depends on it. In 1980-90-s, Heartland fundamentally reduced its influence area. Two geopolitical belts – Eastern Europe (whose countries were within the “Socialist Block”, “Warsaw Pact», Comecon, etc.) and the Federative Republics of the USSR consistently withdrew from it. By the mid 1990-s, a bloody testing for a possibility of further breakdown of Russia into “national republics” had started in Chechnya. This fragmentation of Heartland, down to a mosaic of marionette dependent states in place of Russia, had to become the final accord of construction of the global world and the “end of history”, after which it would be much more difficult to speak about the Land and Geopolitics-2. Heartland is of central importance in the possibility of strategical consolidation of all Eurasia and, thus, the “Land Power”. If the processes that took place in Russia in 1990-s had moved in a groove and its disintegration kept on, it would be much more difficult to challenge globalization. But since late 1990-s — early 2000-s, a turning-point has taken place in Russia, disintegration was stopped; moreover, the federal authorities have restored control over the rebellious Chechnya. Then V. Putin implemented a legal reform of the Federation subjects (excision of the article about “sovereignty”, governors’ appointment, etc.) that has consolidated the power vertical all over Russia. The CCI integration processes have started gathering pace. In August 2008, in the course of the five-day conflict of Russia with Georgia, Russia took its direct control over territories beyond the borders of the Russian Federation (Southern Ossetia, Abkhazia), and acknowledged their independence, in spite of a huge support of Georgia on the part of the US and the NATO countries and pressure of the international public opinion. Generally, since early 2000-s Russia as Heartland has ceased the processes of its self-disintegration, has reinforced its energetics, has normalized the issues of energy supply abroad, has refused from the practice of unilateral reduction of armaments, having preserved its nuclear potential. Whereby, influence of the network of geopolitical agents of Atlantism and Mondialism on the political authority and strategical decision making has qualitatively diminished, consolidation of the sovereignty has been understood as the top-priority issue, and integration of Russia into a number of globalist structures menacing its independence has been ceased. In a word, Heartland keeps on remaining the foundation of Eurasia, its “Core” — weakened, suffered very serious losses, but still existing, independent, sovereign, and capable to pursue a policy, if not on a global scale, then on a regional one. In its history, Russia has several times fallen yet lower: the Domain Fragmentation on the turn of the 13th century, The Time of Troubles, and the events of 1917-1918 show us Heartland in a yet more deplorable and weakened condition. But every time, in some period, Russia revived and returned to the orbit of its geopolitical history again. The present state of Russia is difficult to recognize brilliant or even satisfactory from the geopolitical (Eurasian) point of view. Yet in general — Heartland does exist, it is relatively independent, and therefore, we have both a theoretical and practical base to consolidate and bring to life all the pre-conditions for development of a response to the phenomenon of monopolar globalization on the part of the Land.

Such an answer of the Land to the challenge of globalization (as a triumph of the “Sea Power”) is Multipolarism, as a theory, philosophy, strategy, policy, and practice.

Multipolarism as a Project of the World Order from the Land’s Position

Multipolarism represents a summary of Geopolitics-2 in actual conditions of the global process evolution. This is an extraordinarily capacious concept that demands a through consideration.

Multipolarism is a real antithesis for monopolarity in all its aspects: hard (imperialism, neocons, direct US domination), soft (multilateralism) and critical (alterglobalism, postmodernism, and neo-Marxism) ones.

The hard monopolarity version (radical American imperialism) is based upon the idea that the US represents the last citadel of the world order, prosperity, comfort, safety, and development surrounded by a chaos of underdeveloped societies. Multipolarism states the directly opposite: the US is a national state that exists among many others, its values are doubtful (or, at least, relative), its claims are disproportional, its appetites are excessive, methods of conducting its foreign policy are inacceptable, and its technological messianism is disastrous for the culture and ecology of the whole world.  In this regard, the multipolar project is a hard antithesis to the US as an instance that methodically builds a unipolar world, and it is aimed to strongly disallow, break up, and prevent this construction.

The soft monopolarity version does not only act on behalf of the US, but on behalf of “humanity”, exclusively understanding it as the West and the societies that agree with universalism of Western values. Soft monopolarity does not claim to press by force, but persuade, not to compel, but explain profits peoples and countries will obtain from entering into globalization. Here the pole is not a single national state (the US), but Western civilization as a whole, as a quintessence of all the humanity.

Such, as it is sometimes called, “multilateral” monopolarity (multilateralism, multilateralization) is rejected by Multipolarism that considers Western culture and Western values to represent merely one axiological composition among many others, one culture among different other cultures, and cultures and value systems based on some absolutely different principles to have the full right for existence. Consequently, the West in a whole and those sharing its values, have no grounds to insist on universalism of democracy, human rights, market, individualism, individual freedom, secularity, etc. and build a global society on the base of these guidelines.

Against alterglobalism and postmodern antiglobalism, Multipolarism advances a thesis that a capitalist phase of development and construction of worldwide global capitalism is not a necessary phase of society development, that it is despotism and an ambition to dictate different societies some kind of single history scenario. In the meantime, confusion of mankind into the single global proletariat is not a way to a better future, but an incidental and absolutely negative aspect of the global capitalism, which does not open any new prospects and only leads to degradation of cultures, societies, and traditions. If peoples do have a chance to organize effective resistance to the global capitalism, it is only where Socialist ideas are combined with elements of a traditional society (archaic, agricultural, ethnical, etc.), as it was in the history of the USSR, China, North Korea, Vietnam and takes place today in some Latin-American countries (e. g., in Bolivia, Venezuela, Cuba, etc.).

Further, Multipolarism is an absolutely different view on the space of land than bipolarity, a bipolar world.

map1

map2

Multipolarism represents a normative and imperative view on the present situation in the world on the part of the Land and it qualitatively differs from the model predominated in the Yalta World in the period of the “Cold War”.

The Bipolar World was constructed under the ideological principle, where two ideologies – Capitalism and Socialism – acted as poles. Socialism as an ideology did not challenge universalism of the West-European culture and represented a sociocultural and political tradition that threw back to the European Enlightenment. In a certain sense, Capitalism and Socialism competed with each other as two versions of Enlightenment, two versions of progress, two versions of universalism, two versions of the West-European sociopolitical idea.

Socialism and Marxism entered into a resonance with certain parameters of the “Land Power”, and therefore they did not win where Marx had supposed, but where he excluded this possibility – in an agricultural country with the predominant way of life of a traditional society and imperial organization of the political field. Another case of an (independent) victory of Socialism – China – also represented an agricultural, traditional society.

Multipolarism does not oppose monopolarity from the position of a single ideology that could claim for the second pole, but it does from the position of many ideologies, a plenty of cultures, world-views and religions that (each for its own reasons) have nothing in common with the Western liberal capitalism.  In a situation, when the Sea has a unified ideological aspect (however, ever more going to the sphere of subauditions, not explicit declarations), and the Land itself doesn’t, representing itself as several different world-view and civilization ensembles, Multipolarism suggests creating a united front of the Land against the Sea.

Multipolarism is different from both the conservative project of conservation and reinforcement of national states. On the one hand, national states in both colonial and post-colonial period reflect the West-European understanding of a normative political organization (that ignores any religious, social, ethnical, and cultural features of specific societies) in their structures, i.e. the nations themselves are partially products of globalization. And on the other hand, it is only a minor part of the two hundred fifty-six countries officially itemized in the UN list today that are, if necessary, capable to defend their sovereignty by themselves, without entering into a block or alliance with other countries. It means that not each nominal sovereign state can be considered a pole, as the degree of strategical freedom of the vast majority of the countries acknowledged is negligible. Therefore, reinforcement of the Westphalian system that still mechanically exists today is not an issue of Multipolarism.

Being the opposition of monopolarity, Multipolarism does not call to either return to the bipolar world on the base of ideology or to fasten the order of national states, or to merely preserve the status quo. All these strategies will only play in hands of globalization and monopolarity centers, as they have a project, a plan, a goal, and a rational route of movement to future; and all the scenarios enumerated are at best an appeal to a delay of the globalization process, and at worst (restoration of bipolarity on the base of ideology) look like irresponsible fantasy and nostalgia.

Multipolarism is a vector of the Land’s geopolitics directed to the future. It is based upon a sociological paradigm whose consistency is historically proven in the past and which realistically takes into account the state of affairs existing in the modern world and basic trends and force lines of its probable transformations. But Multipolarism is constructed on this basis as a project, as a plan of the world order we yet only expect to create.

2 Multipolarism and its Theoretical Foundation

The absence of the Multipolarism Theory

In spite of the fact that the term “Multipolarism” is quite often used in political and international discussions recently, its meaning is rather diffuse and inconcrete. Different circles and separate analysts and politicians insert their own sense in it. Well-founded researches and solid scientific monographs devoted to Multipolarism can be counted on fingers[1]. Even serious articles on this topic are quite rare[2]. The reason for this is well understood: as the US and Western countries set the parameters of the normative political and ideological discourse in a global scale today, according to these rules, whatever you want can be discussed but the sharpest and most painful questions. Even those considering unipolarity to have been just a “moment[3]” in the 1990-s and a transfer to some new indefinite model to be taking place now are ready to discuss any versions but the “multipolar” one. Thus, for example, the modern head of CFR Richard Haass tells about “Non-Polarity” meaning such stage of globalization where necessity in presence of a rigid center falls off by itself[4]. Such wiles are explained by the fact that one of the aims of globalization is, as we have seen, marginalization of the “Land Power”. And as far as Multipolarism can only be a form of an active strategy of the “Land Power” in the new conditions, any reference to it is not welcome by the West that sets the trend in the structure of political analysis in the general global context. Still less one should expect that conventional ideologies of the West take up development of the Multipolarism Theory.

It would be logical to assume that the Multipolarism Theory will be developed in the countries that explicitly declare orientation upon a multipolar world as the general vector of their foreign policy. The number of such countries includes Russia, China, India, and some others. Besides, the address to Multipolarism can be encountered in texts and documents of some European political actors (e.g., former French minister of Foreign Affairs Hubert Vidrine[5]). But at the moment, we can as well hardly find something more than materials of several symposiums and conferences with rather vague phrases in this field. One has to state that the topic of Multipolarism is not properly conceptualized also in the countries that proclaim it as their strategical goal, not to mention the absence a distinct and integral theory of Multipolarism.

Nevertheless, on the base of the geopolitical method from the position of the “Land Power” and with due account for the analysis of a phenomenon called globalism, it is quite possible to formulate some absolute principles that must underlie the Multipolarism Theory when the matter comes to its more systemized and expanded development.

Multipolarism: Geopolitics and Meta-Ideology

Let’s blueprint some theoretical sources, on whose base a valuable theory of Multipolarism must be built.

It is only geopolitics that can be the base for this theory in the actual conditions. At the moment, no religious, economical, political, social, cultural or economical ideology is capable to pull together the critical mass of the countries and societies that refer to the “Land Power” in a single planetary front necessary to make a serious and effective antithesis to globalism and the unipolar world. This is the specificity of the historical moment (“The Unipolar Moment”[6]): the dominating ideology (the global liberalism/post-liberalism) has no symmetrical opposition on its own level. Hence, it is necessary to directly appeal to geopolitics by taking the principle of the Land, the Land Power, instead of the opposing ideology. It is only possible in the case if the sociological, philosophical, and civilization dimensions of geopolitics are realized to the full extent.

AD4pt-greece.jpgThe “Sea Power” will serve us as a proof for this statement. We have seen that the very matrix of this civilization does not only occur in the Modem Period, but also in thalassocratic empires of the Antiquity (e.g., in Carthage), in the ancient Athens or in the Republic of Venice. And within the Modern World itself atlantism and liberalism do not as well find complete predominance over the other trends at once. And nevertheless, we can trace the conceptual sequence through a series of social formations: the “Sea Power” (as a geopolitical category) moves through history taking various forms till it finds its most complete and absolute aspect in the global world where its internal precepts become predominant in a planetary scale. In other words, ideology of the modern mondialism is only a historical form of a more common geopolitical paradigm. But there is a direct relation between this (probably, most absolute) form and the geopolitical matrix.

There is no such direct symmetry in case of the “Land Power”. The Communism ideology just partly (heroism, collectivism, antiliberalism) resonated with geopolitical percepts of the “ground” society (and this just in the concrete form of the Eurasian USSR and, to a lesser degree, of China), as the other aspects of this ideology (progressism, technology, materialism) fitted badly in the axiological structure of the “Land Power”. And today, even in theory, Communism cannot perform the mobilizing ideological function it used to perform in the 20th century in a planetary scale. From the ideological point of view the Land is really split into fragments and, in the nearest future, we can hardly expect some new ideology capable to symmetrically withstand the liberal globalism to appear. But the very geopolitical principle of the Land does not lose anything in its paradigmatic structure. It is this principle that must be taken as a foundation for construction of the Multipolarism Theory. This theory must address directly to geopolitics, draw principles, ideas, methods and terms out of it. This will allow to otherwise take both the wide range of existing non-globalist and counter-globalist ideologies, religions, cultures, and social trends. It is absolutely unnecessary to shape them to transform into something unified and systematized. They can well remain local or regional but be integrated into a front of common stand against globalization and “Western Civilization’s” domination on the meta-ideological level, on the paradigmatic level of Geopolitics-2 and this moment – plurality of ideologies – is already laid in the very term “Multi-polarism” (not only within the strategical space, but also in the field of the ideological, cultural, religious, social, and economical one).

Multipolarism is nothing but extension of Geopolitics-2 (geopolitics of the Land) into a new environment characterized with the advance of globalism (as atlantism) on a qualitatively new level and in qualitatively new proportions. Multipolarism has no other sense.

Geopolitics of the Land and its general vectors projected upon the modern conditions are the axis of the Multipolarism Theory, on which all the other aspects of this theory are threaded. These aspects constitute philosophical, sociological, axiological, economical, and ethical parts of this theory. But all of them are anyway conjugated with the acknowledged – in an extendedly sociological way – structure of the “Land Power” and with the direct sense of the very concept of “Multipolarism” that refers us to the principles of plurality, diversity, non-universalism, and variety.

3 Multipolarism and Neo-Eurasianism

Neo-Eurasianism as Weltanschauung

Neo-Eurasianism is positioned nearest to the theory of Multipolarism. This concept roots in geopolitics and operates par excellence with the formula of “Russia-Eurasia” (as Heartland) but at the same time develops a wide range of ideological, philosophical, sociological and politological fields, instead of being only limited with geostrategy and application analysis.

What is in the term of “Neo-Eurasianism” can be illustrated with fragments of the Manifesto of the International “Eurasian Movement” “Eurasian Mission»[7]. Its authors point out five levels in Neo-Eurasianism allowing to interpret it in a different way depending on a concrete context.

The first level: Eurasianism is a Weltanschauung.

According to the authors of the Manifesto, the term “Eurasianism” “is applied to a certain Weltanschauung, a certain political philosophy that combines in itself tradition, modernity and even elements of postmodern in an original manner. The philosophy of Eurasianism proceeds from priority of values of the traditional society, acknowledges the imperative of technical and social modernization (but without breaking off cultural roots), and strives to adapt its ideal program to the situation of a post-industrial, information society called “postmodern”.

The formal opposition between tradition and modernity is removed in postmodern. However, postmodernism in the atlantist aspect levels them from the position of indifference and exhaustiveness of contents. The Eurasian postmodern, on the contrary, considers the possibility for an alliance of tradition with modernity to be a creative, optimistic energetic impulse that induces imagination and development.

In the Eurasianism philosophy, the realities superseded by the period of Enlightenment obtain a legitimate place – these are religion, ethnos, empire, cult, legend, etc. In the same time, a technological breakthrough, economical development, social fairness, labour liberation, etc. are taken from the Modern. The oppositions are overcome by merging into a single harmonious and original theory that arouses fresh ideas and new decisions for eternal problems of humankind. (…)

The philosophy of Eurasianism is an open philosophy, it is free from any forms of dogmatism. It can be appended by diversified areas – history, religion, sociological and ethnological discoveries, geopolitics, economics, regional geography, culturology, various types of strategical and politological researches, etc. Moreover, Eurasianism as a philosophy assumes an original development in each concrete cultural and linguistic context: Eurasianism of the Russians will inevitably differ from Eurasianism of the French or Germans, Eurasianism of the Turks from Eurasianism of the Iranians; Eurasianism of the Arabs from Eurasianism of the Chinese, etc. Whereby, the main force lines of this philosophy will, in a whole, be preserved unalterable.(…)

The following items can be called general reference points of the Eurasianism philosophy:

  • differentialism, pluralism of value systems against obligatory domination of a single ideology (in our case and first of all, of the American liberal democracy);
  • traditionalism against destruction of cultures, beliefs and rites of the traditional society;
  • a world-state, continent-state against both bourgeois national states and “the world government”;
  • rights of nations against omnipotence of “the Golden Billion” and neo-colonial hegemony of “the Rich North”;
  • an ethnos as a value and subject of history against depersonalization of nations and their alienation in artificial sociopolitical constructions;
  • social fairness and solidarity of labour people against exploitation, logic of coarse gain, and humiliation of man by man.»[8]

Neo-Eurasianism as a Planetary Trend

On the second level: Neo-Eurasianism is a planetary trend. The authors of the Manifesto explain:

«Eurasianism on the level of a planetary trend is a global, revolutionary, civilization concept that is, by gradually improving, addressed to become a new ideological platform of mutual understanding and cooperation for a vast conglomerate of different forces, states, nations, cultures, and confessions that refuse from the Atlantic globalization.

It is worth carefully reading the statements of the most diverse powers all over the world: politicians, philosophers, and intellectuals and we will make sure that Eurasianists constitute the vast majority. Mentality of many nations, societies, confession, and states is, though they may not suspect about it themselves, Eurasianist.

If thinking about this multitude of different cultures, religions, confessions, and countries discordant with “the end of history” we are imposed by atlantism, our courage will grow up and the seriousness of risks of realization of the American 21st century strategical security concept related with a unipolar world establishment will sharply increase.

Eurasianism is an aggregate of all natural and artificial, objective and subjective obstacles on the way of unipolar globalization, whereby it is elevated from a mere negation to a positive project, a creative alternative. While these obstacles exist discretely and chaotically, the globalists deal with them separately. But it is worth just integrating, pulling them together in a single, consistent Weltanschauung of a planetary character and the chances for victory of Eurasianism all over the world will be very serious.»[9]

Neo-Eurasianism as an Integration Project

On the next level, Neo-Eurasianism is treated as a project of strategical integration of the Eurasian Continent:

“The concept “the Old World” usually defining Europe can be considered much wider. This huge multicivilization space populated with nations, states, cultures, ethnoses and confessions connected between each other historically and spatially by the community of dialectical destiny. The Old World is a product of organic development of human history.

The Old World is usually set against the New World, i.e. the American continent that was discovered by the Europeans and has become a platform for construction of an artificial civilization where the European projects of the Modern, the period of Enlightenment have taken shape. (…)

In the 20th century Europe realized its original essence and had gradually been moving to integration of all the European states into a single Union capable to provide all this space with sovereignty, independence, security, and freedom.

Creation of the European Union was the greatest milestone in the mission of Europe’s return in history. This was the response of “the Old World” to the exorbitant demands of the “New” one. If considering the alliance between the US and Western Europe – with US domination – to be the Atlantist vector of European development, then the integration of European nations themselves with predomination of the continental countries (France-Germany) can be considered Eurasianism in relation to Europe.

It becomes especially illustrative, if taking into account the theories that Europe geopolitically stretches from the Atlantic to the Urals (Ch. de Gaulle) or to Vladivostok. In other words, the interminable spaces of Russia are also valuably included in the field of the Old World subject to integration.

(…) Eurasianism in this context can be defined as a project of strategical, geopolitical, economical integration of the North of the Eurasian Continent realized as the cradle of European history, matrix of nations and cultures closely interlaced between each other.

And since Russia itself (like, by the way, the ancestors of many Europeans as well) is related in a large measure with the Turkish, Mongolian world, with Caucasian nations, through Russia – and in a parallel way through Turkey – does the integrating Europe as the Old World already acquire the Eurasianism dimension to full extent; and in this case, not only in symbolic sense, but also in geographical one. Here Eurasianism can be synonimically identified with Continentalism.[10]»

These three most general definitions of Neo-Eurasianism demonstrate that here we deal with a preparatory basis for construction of the Multipolarism Theory. This is the ground view on the sharpest challenges of modernity and attempt to give an adjust response to them taking into account geopolitical, civilization, sociological, historical and philosophical regularities.


[1]  Murray D.,  Brown D. (eds.) Multipolarity in the 21st Century. A New World Order. Abingdon, UK: Routledge, 2010; Ambrosio Th. Challenging America global Preeminence: Russian Quest for Multipolarity. Chippenheim, Wiltshire: Anthony Rose, 2005; Peral L. (ed.) Global Security in a Multi-polar World. Chaillot

Paper. Paris: European Institute for Security Studies, 2009; Hiro D. After Empire: The Birth of a Multipolar World. Yale: Nation Books , 2009.

[2] Turner Susan. Russia, Chine and the Multipolar World Order: the danger in the undefined// Asian Perspective. 2009. Vol. 33, No. 1. C. 159-184; Higgott Richard Multi-Polarity and Trans-Atlantic Relations: Normative Aspirations and Practical Limits of EU Foreign Policy. – www.garnet-eu.org. 2010. [Electronic resource] URL: http://www.garnet-eu.org/fileadmin/documents/working_papers/7610.pdf (дата обращения 28.08.2010); Katz M. Primakov Redux. Putin’s Pursuit of «Multipolarism» in Asia//Demokratizatsya. 2006. vol.14 № 4. C.144-152.

[3] Krauthammer Ch. The Unipolar Moment// Foreign Affairs. 1990 / 1991 Winter. Vol. 70, No 1. С. 23-33.

[4] Haass R. The Age of Non-polarity: What will follow US Dominance?’//Foreign Affairs.2008. 87 (3). С. 44-56.

[5] Déclaration de M. Hubert Védrine, ministre des affaires étrangères sur la reprise d’une dialogue approfondie entre la France et l’Hinde: les enjeux de la resistance a l’uniformisation culturelle et aux exces du monde unipolaire. New Delhi — 1 lesdiscours.vie-publique.fr. 7.02.2000.  [Electronic resource] URL: http://lesdiscours.vie-publique.fr/pdf/003000733.pdf

[6] Krauthammer Ch. The Unipolar Moment. Op.cit.

[7] Евразийская миссия. Манифест Международного «Евразийского Движения». М.: Международное Евразийское Движение, 2005.

[8] Ibid

[9] Ibid.

[10] Ibid.

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Romano Guardini

Romano Guardini

(Text aus dem Band Vordenker [2] des Staatspolitischen Handbuchs, Schnellroda 2012.)

Ex: http://www.sezession.de

von Harald Seubert

older-guardini.jpgGuardini wurde als Sohn einer aus Südtirol stammenden Mutter und eines italienischen Geflügelgroßhändlers geboren. 1886 übersiedelte die Familie nach Mainz, wo Guardini das humanistische Gymnasium absolviert.

Nach Studien der Chemie und Nationalökonomie entschied er sich, zusammen mit dem Jugendfreund Karl Neundörfer, Theologie zu studieren. Romano Guardinis lebenslanger Freund, Josef Weiger, gehörte mit in den Tübinger Freundschaftskreis, der gleichermaßen von einer Neuaneignung des großen katholischen Erbes und den geistigen und ästhetischen Gärungen und Bewegungen der Zeit vor dem Ersten Weltkrieg bestimmt war.

1915 promovierte Guardini über Bonaventura, 1922 habilitierte er sich über denselben Kirchenlehrer. In den nächsten Jahren war Guardini an maßgeblicher Stelle in der katholischen Jugendbewegung tätig, vor allem im Quickborn mit dem Zentrum der Burg Rothfels. Neben einer Neugestaltung der gesamten Lebensführung bildete die Reform der Liturgie, wobei dem Logos ein verstärktes Gewicht gewidmet sein sollte, einen Schwerpunkt der Neuorientierung. Bis 1939 suchte Guardini die Burg Rothfels als eine Gegenwelt zu bewahren, auch wenn er seit 1934 bespitzelt wurde. Er wollte sie zu einer christlichen Akademie formen, was bis zu der erzwungenen Schließung auch weitgehend gelingen sollte.

Bereits 1923 erhielt Guardini den neuerrichteten Lehrstuhl für Christliche Weltanschauung an der Berliner Friedrich-Wilhelms-Universität. Die Titulatur, die auch seinen späteren Münchener Lehrstuhl prägen sollte, war Programm: Inmitten des protestantisch geprägten Berlin solltendie Grundphänomene und Kräfte der eigenen Zeit aus christlicher Perspektive gedeutet werden, im Sinn einer freien, auch ästhetisch hochgebildeten Katholizität, die die großen Traditionen neu aneignete. Der Weltanschauungsbegriff folgte dabei den geistigen und methodischen Vorgaben der hermeneutischen Schule von Dilthey bis Troeltsch. Die Einlösung zeigte sich in den morphologisch souveränen Deutungen Guardinis, die von der Patristik, von Augustinus zu Platon zurückreichen, wobei er aber die thomistische Tradition nicht verleugnete. Ein polyphones Wahrheitsverständnis, das zugleich auf den absoluten Grund gerichtet ist, bildet gleichsam die Mittelachse aller Arbeiten.

Schon in den frühen dreißiger Jahren kritisierte Guardini den innerweltlichen Messianismus des NS-Regimes; er verwies auf den unlösbaren Nexus zwischen jüdischer Religion und christlichem Glauben, der sich schon aus der Existenz Jesu ergebe. In den beiden letzten Kriegsjahren lebte Guardini zurückgezogen in Mooshausen, dem Pfarrort seines Freundes Weiger. Erst nach 1945 konnte er seine öffentliche Wirksamkeit wieder aufnehmen, zunächst in Tübingen und drei Jahre später mit der Berufung auf das persönliche Ordinariat in München. Von hier aus entfaltete Guardini in den nächsten Jahren eine große Wirksamkeit. Sein virtuoser und zugleich zurückgenommener Vortragsstil wirkte weit in das Bürgertum hinein. In großen Zyklen, die sich stets der existentiellen Dimension des Denkens aussetzten, interpretierte er Platon, Augustinus, Dante, Pascal, Kierkegaard, Dostojewski und Hölderlin. Im Zentrum eines langjährigen Vorlesungszyklus stand aber die Ethik, bei Guardini verstanden als umfassende Lehre von der Kunst der Lebensgestaltung. Ergänzend dazu wirkte er als überzeugender, auf die Stunde hörender Prediger und Liturg in der St.-Ludwigs-Kirche bei den Münchener Universitätsgottesdiensten.

1950 erschien die gleichermaßen essayistisch prägnante und wegweisende Studie [3] Das Ende der Neuzeit. Guardini sieht die antike und mittelalterliche Weltsicht durch eine grundsätzliche Geschlossenheit und Ordnung, nicht zuletzt durch eine Harmonie gekennzeichnet, von der sich die Neuzeit ablöst. Diese Trennung vom Göttlichen und Hypostase des Endlichen berge immense Gefahren. Man hat dies als Ablehnung der Neuzeit mißverstanden. Deren Ressourcen sieht Guardini in der Tat an ihr Ende gelangt. Er eröffnet aber zugleich eine künftige Perspektive: auf den Glauben, der in der Moderne seine Selbstverständlichkeit verloren hat und damit ein neues eschatologisches Bewußtsein ermöglicht.

Insgesamt ist Guardini nur zu verstehen, wenn man seinen janusköpfigen Blick, zurück in die Vergangenheit und in die offene nach-neuzeitliche Zukunft voraus, würdigt. Grundlegend für Guardinis philosophische Morphologien und Phänomenologien ist seine Gegensatzlehre (u. a. 1925 und 1955 in verschiedenen Fassungen vorgelegt). Der Gegensatz verweist auf das unverfügbare Gesetz der Polarität und unterscheidet sich damit ebenso von der spekulativen Dialektik Hegels wie auch von der Dialektik der Paradoxalität bei Kierkegaard und in der Existenzphilosophie. Vom einzelnen Phänomen sucht Guardini in einem gleitenden Übergang auf das umgreifende Ganze zu gelangen und umgekehrt. Gegensätzlichkeit ist ihm zufolge »unableitbar«, weil ihre Pole nicht auseinander zu deduzieren und auch nicht aufeinander zurückzuführen sind. Überdies bedarf der Begriff der Anschauung und umgekehrt. Guardini sah sich selbst bewußt eher am Rande der akademischen Welt (es wird berichtet, daß er das Hörsaalgebäude, als Ausdruck von Distanz und Respekt gleichermaßen, vor jeder Vorlesung umrundete). So übte er eine legendäre Strahlkraft auf unterschiedliche Geister, von Hannah Arendt bis Viktor von Weizsäcker, aus, hatte aber im engeren akademischen Sinn kaum Schüler.

220px-Romano_Guardini_stamp.jpgGuardinis Denkstil war wesentlich künstlerisch bestimmt, weshalb er in den späten Jahren auch in der Münchener Akademie der Schönen Künste eine herausgehobene Wirkungsstätte finden sollte. In seiner Münchener Zeit wandte sich Guardinis Deutungskunst auch Phänomenen wie dem Film zu. Wenn er schon mit der Schrift Der Heiland 1935 eine profunde christliche Kritik der NS-Ideologie vorgelegt hatte, so konnte er daran 1950 mit der Untersuchung Der Heilsbringer anknüpfen, einer bahnbrechenden Studie für das Verständnis von totalitären Ideologien als Politische Religionen. Wenig bekannt ist Guardinis Bemühung um ein hegendes »Ethos der Macht«, das gegenüber den anonymen Mächten zur Geltung zu bringen sei, die seiner Diagnose gemäß immer deutlicher zutage treten, das aber auch die charismatische Macht und Herrschaft zu domestizieren weiß.

Schriften: Von heiligen Zeichen, Würzburg 1922; Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Mainz 1925; Christliches Bewußtsein. Versuche über Pascal, Leipzig 1935; Der Herr. Betrachtungen über die Person und das Leben Jesu Christi, Würzburg 1937 (16. Aufl. 1997); Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Würzburg 1939; Der Tod des Sokrates, Bern 1945; Das Ende der Neuzeit. Ein Versuch zur Orientierung, München 1950; Die Macht. Versuch einer Wegweisung, München 1951; Ethik. Vorlesungen an der Universität München, hrsg. v. Hans Mercker, 2 Bde., Ostfildern 1993.

Literatur: Berthold Gerner: Romano Guardini in München. Beiträge zu einer Sozialbiographie, 3 Bde., München 1998–2005; Franz Henrich: Romano Guardini, Regensburg 1999; Markus Zimmermann: Die Nachfolge Jesu Christi. Eine Studie zu Romano Guardini, Paderborn 2004.

 


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[2] Vordenker: http://antaios.de/gesamtverzeichnis-antaios/staatspolitisches-handbuch/33/staatspolitisches-handbuch-band-3-vordenker

[3] wegweisende Studie: http://www.sezession.de/3323/neues-mittelalter.html/3

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vendredi, 11 octobre 2013

L’ipotesi dell’Unione Transatlantica: breve analisi

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L’ipotesi dell’Unione Transatlantica: breve analisi

Alessandro Di Liberto

Ex: http://www.geopolitica-rivista.org

 

Nel 2007, l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, s’incontrò a Washington con la cancelliera Angela Merkel e il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso. Non fu un caso se l’allora presidente di turno dell’Unione Europea fosse proprio la cancelliera tedesca, motivo dell’incontro fu infatti l’avvio di una trattativa per la creazione di un’area di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa. Formalmente l’Unione dovrebbe riguardare l’ambito economico, ma la mole degli attori e degli interessi in gioco, rende dubbia la creazione di un partenariato puramente commerciale, ancor più dinanzi ai mutamenti internazionali che vedono il sorgere di nuovi agglomerati geoeconomici e geopolitici.

L’ascesa dei BRICS sulla scena internazionale, non più solo economica, ma anche politica, porterà insieme al mercato asiatico, baricentro dell’economia globale in questo secolo1, a un cambiamento sostanziale degli equilibri. Questi mutamenti stanno portando alla riforma di diverse organizzazioni internazionali, tendenza questa che s’intensificherà nei prossimi anni. La crisi economica sta promuovendo questa tendenza, i BRICS hanno già esposto il loro progetto di una banca per lo sviluppo, presentata come alternativa alla banca mondiale, bollata come tutelante degli interessi occidentali insieme al Fondo Monetario Internazionale (FMI) che attualmente vive una prima fase di riforme2.

Se il progetto andrà a buon fine, la futura banca, che avrà un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari3, sarà la prima vera istituzione dei BRICS. Essa oltre a supportare la futura agenda politico-economica dei paesi di appartenenza, racchiuderà in se il valore simbolico di un futuro multipolare. Ennesimo fattore di coesione è il progetto per la creazione di un nuovo cavo sottomarino per le telecomunicazioni che collegherà direttamente in maniera esclusiva i membri BRICS per diramarsi in Africa e infine negli Stati Uniti4.

Ulteriore forza al cambiamento dell’ordine economico internazionale sta nel fatto che la Cina, secondo importatore di petrolio al mondo dopo gli Stati Uniti e primo consumatore di energia al mondo, ha siglato il più grande accordo petrolifero della storia con la Russia, secondo produttore dopo l’Arabia Saudita. Fatto nuovo e indicativo è l’accordo tra Mosca e Pechino di svolgere le transazioni in valuta cinese e non più in dollari. Al termine dell’ultima riunione dei BRICS a Durban in Sud Africa, è stata annunciata un’altra intesa tra la Cina e il Brasile con la firma di un accordo di currency swap che vincolerà le due parti all’uso delle proprie valute per i futuri scambi commerciali. Si va così a incrementare il flusso delle transazioni fuori dall’area del dollaro, ma si vanno anche “familiarizzando” gli scambi tra i paesi membri che commerciano con le proprie valute; oltre tutto la Cina, proprio nel 2007 ha superato gli USA, diventando il primo paese esportatore al mondo. Da notare che anche l’Iran, vende petrolio in yuan alla Cina a causa dell’embargo statunitense.

Sono dunque le materie prime a stimolare ed essere vettore del cambiamento che potrebbe portare al declassamento del dollaro come moneta di riferimento internazionale. Quasi sicuramente ciò accadrà già nel prossimo decennio, sostituito da una nuova moneta o dallo stesso yuan che si va ormai internazionalizzando5. La Cina nel 2009 ha proposto d’incrementare l’uso dei diritti speciali di prelievo (DSP), la moneta del FMI, con l’obiettivo di decentrare il dollaro dal sistema monetario internazionale cautelandolo dalle turbolenze a esso legate. L’appartenenza all’Eurasia di tre membri BRICS, ma anche di future economie come alcuni dei “prossimi undici”, la rendono inevitabilmente protagonista del cambiamento in atto. Il presidente cinese Xi Jinping, nella sua recente visita ad Astana, ha espresso l’intenzione di realizzare una cintura economica ricalcando l’antica via della seta6, un progetto ambizioso e che difficilmente potrà realizzarsi senza l’aiuto di Mosca. Il messaggio è comunque chiaro, la Cina reputa sempre più importante il consolidamento dell’Asia Centrale, non solo come corridoio energetico.

I mutamenti e le tendenze descritti hanno dato impulso al progetto di Unione Transatlantica con l’esplicito intento di mantenere lo status quo internazionale dell’Occidente che andrebbe altrimenti ridimensionandosi. Dopo il colloquio avvenuto nel 2007, è stato istituito il Transatlantic Economic Council (TEC), organismo bilaterale incaricato di dirigere e supervisionare i lavori preparatori, copresieduto da un funzionario di livello dell’Ufficio esecutivo del presidente degli Stati Uniti e da un membro della Commissione Europea. Primo obiettivo, creare un mercato comune che dia nuovo impulso alle due sponde dell’Atlantico; sembra però che le stime più ottimiste fornite dall’Eurostat, indichino per l’Europa un aumento del PIL solamente dello 0.5% mentre per gli Stati Uniti 0,4%.

Le stime risultano modeste per un progetto così ambizioso e ciò è dovuto al fatto che i rapporti commerciali tra UE e USA sono già in uno stato avanzato. Gli incrementi previsti deriverebbero solamente dalla riduzione o eliminazione dei dazi, cooperazione doganale e creazione di standard comuni attinenti alla conformità di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente. Un ulteriore incremento deriverebbe dalla liberalizzazione dei servizi e dall’apertura del mercato americano degli appalti pubblici, attualmente tutelato da leggi protezionistiche. Il Consiglio Transatlantico ha elencato i settori nei quali l’Unione dovrebbe collaborare, realizzando il secondo obiettivo, cioè creare un blocco atlantico che competa a livello globale, avendo dunque finalità di tipo politico.

Gli ambiti nei quali si stringerà la collaborazione saranno:

  1. Cooperazione normativa (Valutazioni d’impatto, consumo)
  2. Diritti di proprietà intellettuale (Copyright Enforcement, brevetti, contraffazione e pirateria)
  3. Sicurezza del commercio (Dogane e sicurezza del commercio, agevolazione degli scambi)
  4. Mercati finanziari (Regolamentazione normativa del mercato dei capitali, dialogo normativo dei mercati finanziari UE-USA, Accounting Standards, Auditing)
  5. Innovazione e Tecnologia (Dialogo sull’innovazione, salute, Radio Frequency Identification “RFID”, ricerca biotecnologia e prodotti biotecnologici)
  6. Investimenti (Libertà di movimento per i capitali).

Nel 2009 il Consiglio ha creato un gruppo di lavoro con l’obiettivo di trovare la formula migliore per dare inizio alla realizzazione concreta dell’Unione. I lavori dell’High Level Working Group on Jobs and Growth (HLWG) si sono focalizzati prettamente sul commercio, l’occupazione e la crescita, incentrando i lavori alla ricerca delle politiche e delle misure adeguate alla creazione di un partenariato vantaggioso per ambo le parti. Il rapporto finale, pubblicato nel febbraio 2013, propone che i negoziati tra i rispettivi parlamenti sì indirizzino nell’immediato futuro sulle seguenti misure e politiche:

  1. Eliminazione o riduzione delle barriere al commercio come i dazi o quote di essi
  2. Migliorare la compatibilità dei regolamenti e delle norme
  3. Eliminazione, riduzione o prevenzione di ostacoli al commercio di merci, servizi e investimenti
  4. Cooperazione rafforzata per lo sviluppo di norme e principi su questioni globali di interesse comune per il raggiungimento di obiettivi economici globali condivisi.

L’Unione Transatlantica ricalca nei modi e nelle forme, quello che fu il progetto fondante la CEE. Il trattato europeo istituiva un mercato comune che si basava su quattro libertà fondamentali: libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.

Il trattato aboliva poi i dazi doganali e i contingenti nei riguardi delle merci scambiate, si andava così istituendo l’unione doganale, primo passo necessario per avere una base su cui operare una politica commerciale comune. Ciò distingue una semplice area di libero scambio da una vera e propria unione, queste sono le linee guida che pur con alcune iniziali riserve, intende seguire l’Unione Transatlantica.

L’Europa e gli Stati Uniti sono però sostanzialmente differenti. Anche se negli ultimi decenni l’Europa ha passivamente subìto le politiche statunitensi, sussistono interessi e visioni differenti. In ambito economico possiamo trovare un’interessante prospettiva di quali sarebbero le tendenze da seguire, in un rapporto della banca americana J.P. Morgan, espressione di quella finanza deregolamentata che ha generato la crisi7. In esso si evidenzia la necessità di riformare il sistema sociale in alcuni paesi europei, considerato un ostacolo al sistema neoliberista al quale l’Europa non è ancora pienamente allineata; si auspicano riforme costituzionali di stampo liberista, potrebbero quindi arrivare pressioni per la privatizzazione della sanità e della previdenza sociale e per la totale cessione delle partecipazioni statali. In ambito militare, possiamo poi considerare il progetto del caccia F35, come prodromo di un nuovo modello di ulteriori e future cooperazioni per integrare le forze armate? È possibile.

Nei rapporti in ambito decisionale, bisogna poi rilevare un dato di non poco conto, gli USA a differenza dell’Unione Europea, sono uno Stato, di conseguenza agiscono e trattano come tale. Questo fattore potrebbe generare rapporti sbilanciati, di fatto, già accade all’interno della stessa UE tra gli stati membri, difficile che non accada nell’ipotetica Unione. Valutando ulteriormente le possibili evoluzioni, nello specifico, la stipulazione di futuri trattati che andrebbero a intensificare i rapporti in diversi ambiti, l’Europa in nome dei vincoli che ne deriverebbero, potrebbe essere trascinata in politiche a essa sfavorevoli, perdendo vantaggi acquisiti nel corso degli anni o mancando opportunità prossime all’orizzonte.

Dopo mezzo secolo di stallo originato dalla guerra fredda, vi è adesso la concreta opportunità per regionalizzare il commercio con la Russia, paese che oltre al suo mercato in forte espansione, detiene vastissime quantità di molteplici risorse, fattore che la rende fortemente complementare all’Europa bisognosa di esse.

Politiche estere statunitensi, come lo scudo spaziale, incrinerebbero nuovamente i rapporti, minimizzando il potenziale derivante da un fecondo partenariato che sarebbe così ridimensionato, spingendo ulteriormente la Russia a oriente, fattore che rischia seriamente di portare l’Europa a una marginalizzazione che la renderebbe una doppia periferia, l’una atlantica, l’altra eurasiatica. I tempi sembrano invece maturi, il Vecchio Continente vive oggi la concreta possibilità di ridisegnare il suo ruolo in una cornice d’indipendenza che le permetta di uscire dalla crisi arrivata da oltre oceano, svincolandosi da schemi totalmente desueti e alimentati da puro calcolo politico.

L’obiettivo è di rinnovare il blocco atlantico, formatosi da equilibri novecenteschi, con una rinnovata struttura in chiave multipolare, poggiandosi ancora una volta sul cardine europeo. Il pericolo odierno è dettato da una realistica inclusione europea nel grande spazio eurasiatico, ciò sarebbe un precedente storico che, di fatto, farebbe perdere agli Stati Uniti molto più del dominio monetario ed economico, forze centrifughe potrebbero portare alla disgregazione della stessa alleanza atlantica.

L’Unione Transatlantica si muove ulteriormente verso il consolidamento di posizioni acquisite tramite diverse istituzioni internazionali che si tenta di mantenere in vita ridisegnandone gli equilibri interni ed esterni. Vincolare l’Europa è fondamentale a tale scopo. Solo inglobandone nuovamente il mercato e le istituzioni, gli Stati Uniti potranno evitare la perdita definitiva dello status di potenza ottenuto dopo la seconda guerra mondiale. L’Unione concederebbe comunque agli USA un potere decisionale, anche nell’ipotesi che diverse organizzazioni internazionali fossero sostituite da altre più in linea con i tempi, quando la fase multipolare sarà giunta a un livello da poterle mettere seriamente in discussione. Questo ipotetico blocco geoeconomico potrebbe dunque essere uno degli attori internazionali nei prossimi decenni; quelle elencate sono comunque una minima parte delle dinamiche sia interne sia esterne che questo nuovo agglomerato potrebbe generare.

NOTE:
Alessandro Di Liberto è ricercatore associato dell'IsAG

1. L’OCSE prevede che la Cina diventerà la prima economia mondiale sorpassando gli Stati Uniti già nel 2016.
2. L’attuale riforma del FMI non modifica in maniera sostanziale gli equilibri interni: quote e governance dell’FMI – Il G20 ha contribuito in modo decisivo alla riforma delle quote di partecipazione al capitale e dei meccanismi di governo del FMI. In particolare, si è deciso di raddoppiare il capitale complessivo allocandolo in modo tale da accrescere di oltre il 6 per cento il peso relativo dei paesi emergenti più dinamici. Quando il nuovo assetto diverrà operativo, presumibilmente entro il 2013, i primi dieci azionisti del Fondo, che detengono da soli oltre la metà del potere di voto complessivo, saranno: Stati Uniti (16,5 per cento), Giappone (6,1), Cina (6,1), Germania (5,3), Francia (4,0), Regno Unito (4,0), Italia (3,0), India (2,6), Russia (2,6) e Brasile (2,2). Il peso dei principali paesi emergenti è destinato ad aumentare ulteriormente con la prossima revisione delle quote di capitale del FMI, che il G20 ha deciso di anticipare di due anni e concludere entro il gennaio del 2014. Per quanto riguarda la governance del Fondo, è stato deciso di modificare l’assetto del Consiglio di amministrazione, revocando il diritto dei cinque paesi più grandi a nominare direttamente i propri rappresentanti, che in futuro dovranno essere scelti tramite elezione, come già previsto per gli altri. I paesi europei hanno altresì deciso di rinunciare a due seggi, mettendoli a disposizione dei paesi emergenti.
3. BRICS agree to capitalize development bank at $100bn, "Russia Today", September 5, 2013.
4. bricscable.com.
5. Stime europee parlano di un accaparramento del 15% delle obbligazioni di valuta di riserva globale entro il 2020 che determinerebbe una caduta del dollaro dal suo livello attuale del 60% al 50%.
6. Il progetto prevede la realizzazione di un’area di libero scambio, cooperazione in campo commerciale e normativo, rimozione delle barriere che scoraggiano gli investimenti e consolidamento di una via energetica strategica per Pechino.
7. The Euro Area Adjustment: About Halfway There, "J.P. Morgan - Europe Economic Research", May 28, 2013.

Challenges and Opportunities for Russia

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Restructuring the World by Normative Means: Challenges and Opportunities for Russia

 
Ex: http://www.geopolitica.ru

In the light of global crisis lasting for almost five years the traditional advantages of the West in world politics have turned obviously relative. Its military power is ever more costly and ever less effective for imposing stable order in strategically important regions. Its economy is creeping and prospects of its growth are still obscure. And with resurfacing deep societal imbalances Western ideational leadership is also fading away. In many respects the West finds itself excessively dependent upon foreign markets including those of rising powers which strive to retain and expand their political autonomy.

This means that the gap between the West and the Rest cannot be sustained by usual power instruments and in several years it can be narrowed to a dangerous and irreversible extent. Such perspective prompts the United States as well as the European countries to exert urgent efforts in order to prevent imminent assault on Western leadership in the global system.

The strategy to be deployed for this purpose has crystallized in the last two years and consists in promoting major realignments of global and regional powers around the newly consolidated Western community. This strategy has as its main vehicle the normative influence wielded through redefining economic and political rules within and outside that community. And its practical implementation proceeds along two initiatives presented as a centrepiece of Barack Obama second presidency – Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP or ‘Economic NATO’) and Trans-Pacific Partnership (TPP).

These projects are intended to form an exclusive circle of countries with close political proximity and high-level normative convergence. Within these frameworks new basic socioeconomic rules could be agreed that would further be extrapolated outwards to the markets of alien regions. Economically this circle would benefit from revitalized capital flows leading to essential reindustrialization of its economies, while normative expansion to third countries, spurred by their aspirations to have an access to the core zone, would enable the renewed West to shape external markets according to the own needs. Rising powers remaining outside the core, first of all China and Russia, would have to adapt to the new rules and make strategic concessions. Thus the centre-periphery structure of world economy and hence of world politics would be secured and Western leadership reasserted.

This strategy of economic and normative consolidation may be quite logical outcome of the tendencies unfolded in recent years where consensus on global rules is hardly attainable, and the economic weight of rising powers makes the increase of their formal representation and political influence in the global institutions inescapable. Perhaps normative impact is actually the only potentially efficient and not so costly leverage at the West’s disposal now. But in political sense it is quite risky and may bring destabilizing outcomes in no less scope than military force. In addition, its implementation is far from unproblematic given the trends dominating the transatlantic relations as well as in US interaction with Asian states over the past years.

Problems with implementation

Despite widely spread idea that crisis may generate radical renovation of domestic and foreign policies, the key global players demonstrate the opposite inclination towards sticking to decades-old reliable methods and ties. In this vein, after several not very convincing attempts at opening to the ‘new horizons’ Washington again returned to traditional alliances and partnerships that underpinned its international posture after the Second World War. Though shattered by centrifugal forces due to inevitable differentiation of interests, these alliances seem more promising in the sense of resource sharing and political solidarity in times when going-it-alone is not a viable option any more. Leaving aside an even more intricate constellation in the Trans-Pacific dimension of US policy let’s focus upon its transatlantic component.

The European states still remain the closest allies for the US since, as Simon Serfaty argues, no other two poles in the world may form a more complete partnership than the US and the EU[1]. But the situation looks not so unequivocal from the vantage point of the EU interests and priorities.

On the one hand, since the beginning of 2000s the EU has persistently aspired to forge a new quality of transatlantic partnership in order to maintain American security engagement in the European continent and retain own position and influence in transatlantic compact. But at the same time, European capitals exhibited little enthusiasm to the prospect of being drawn into American strategy of military interventions outside Europe. Ensuing indifference on the part of Washington generated anxiety over possible ‘transatlantic divorce’. Election of Barack Obama raised far-reaching hopes in this regard and led to amelioration of political atmosphere between the two shores of the Atlantic. But the actual shifts in relationship turned rather ambiguous, and the clear common vision of the future global order as well as of major international issues has not emerged[2], due to reasons not dissimilar to those of George W. Bush era. The kind of conceptual stalemate was aggravated by disagreements over anti-crisis measures and US announced ‘pivot to Asia’ threatening to further reduce American engagement in Europe.

On the other hand, in the post-bipolar era the European Union managed to accumulate important assets which however modest as they may seem provide it with a capability to pursue own strategy in the international scene. In the economic dimension the EU has long turned into US competitor allowing the analyst to speak about ‘transatlantic bipolarity’ in trade matters[3]. It also elaborated a full-fledged normative basis and consistently employs it as a power leverage in interactions with third countries precisely in the way the US envisage for TTIP. At last, in the past decade the EU built up its own web of relationships with neighbouring and remote regions which although not extremely influential lays the ground for its political autonomy, and renouncing it for the sake of supporting US global strategy looks fairly unreasonable.

Certainly, Washington put forward potent arguments behind its ambitious proposal. It portrays it as a last resort means that can avert EU economic stagnation and political downscaling and, in general, keep alive the euro zone and the European integration as a whole. Its appeal may be even greater if combined with substantial political benefits for particular member states, first of all Germany and Great Britain or for communitarian institutions like the European Commission.

But the real implications of this project should be assessed more carefully. The economic benefits of a suggested free trade area for both sides seem disputable and much depending upon its concrete parameters. Even in the best case the foreseen growth rate does not exceed 0,5 % of the EU’s GDP provided the complete opening of markets, which is far from guaranteed.

No more clarity is there in political and institutional side of the matter. Here the main challenge stem from the prospect that streamlined transatlantic integration may really absorb the European project and thus put a brake upon its movement towards a kind of federal model. The recent history already witnessed such a shift when EU-NATO cooperation forestalled essential deepening of European defence integration as was predicted by Hanna Ojanen[4].

An even more significant problem emanates from the process of converging of regulatory rules and eliminating non-tariff barriers. Up to now the EU rejected to make its normative basis subject to negotiations with a third state and it is hard to imagine how it may compromise it this time especially when several major agreements with solid normative components are underway with neighbouring countries.

The matter is complicated by the fact that the conceptual ground for such convergence is also out of sight. it is an open secret that the US and European practices of economic regulation and state-society relations differ to a serious degree. In essence, consolidation inside the supposed core circle may prove no easier to carry out than potentially projecting it outwards after that.

Apparently, all the above mentioned problems may find more or less satisfying solution provided sufficient political will. Initially there was abundant voluntarism on the part of the EU institutions to strike a lucrative trade deal but as far as the issue is discussed by foreign ministries in the course of setting the mandate for negotiations, numerous reservations arise which can postpone reaching agreement within the EU. And the calendar of the project is rather pressing – American side urges to sign the deal in 2015 and the European Commission dared to set the deadline even earlier in 2014 before the elections to the European Parliament. But these terms are hardly realistic.

Another serious nuance must be mentioned in this context. The post-bipolar era unleashed a process of rediscovering mental, societal and cultural divergences between US and the EU. Together with generational shifts in the United States away from Cold War mass affinity with Europe it produces a context where transatlantic proximity is not taken as granted by European and American public. Such considerations stipulate a necessity in blurring distinctions and reinforcing societal solidarity between the two shores of the Atlantic while accentuating the divergences and gaps with non-Western societies. Ostensibly, a recent wave of same-sex marriage campaign is an integral part of such tactics and it actually contributed to further cultural fence-mending with the outer word.

In sum, the key transatlantic question today is whether the US manages to impose China threat on the EU to an extent justifying economic and normative subordination like it managed to impose Soviet threat to subordinate it strategically sixty years ago. But the EU should realize that agreeing to the US proposal amounts to agreeing to the global strategy it promulgates, a strategy where there would be scarcely an autonomous role for the EU.

Global and regional risks

Normative strategies as such – and the EU has amply experienced it elsewhere – are accompanied by a range of problems starting from the problem of indirect political effect due to which normative influence in each concrete case depends on the reaction of the recipients. But the US ‘two-rings’[5] strategy contains even more serious risks for global governance that cannot be voluntarily dispelled.

As many observers pointed out, it threatens to subvert current multilateral order where general political compromise by all stakeholders is the imperative conditions for progress. In the first turn it will challenge global trade and development institutions, notably the WTO. For the EU that has ever been a protagonist of effective multilateralism inscribed even in its security strategy assuming its failure and contributing to it is a rather confusing political step[6]. It has ever constructed its foreign policy identity in terms of ‘the other West’ acting in contrast to US exceptionalism and arrogance to smooth the disproportions of world development. In fact, its ‘normative power Europe’ pretence is founded upon contrasting its international posture with that of US[7].

But the weakening of global institutions is only part of the problem. Their functionality is already fading and the time when their reforming alone could be sufficient for adjusting world power balance is over. But substituting them with bilateral deals is by no means an optimal solution. Preferring bilateral bargaining over multilateral compromise in order to sustain the power asymmetries may engender new round of balancing unchecked by any universal claims. It should be born in mind that asymmetry even on cooperative terms may endure only when recognised and accepted by both sides, otherwise it produces only exacerbation and desire to vindicate own status. In present day multipolar world it is not the case. Artificial fixing of global hierarchy through arbitrary limiting the range of countries participating in elaboration of economic rules will lead to antagonizing rising powers, entrenching polarization of the global system and setting a new overwhelming conflicting structure.

Perhaps for somebody conflicting structure may seem quite pertinent and even attractive owing to its disciplining effects but there are no reasons to deem that in such structure the West will be able to retain its pre-eminence indefinitely. Unilateral escalating tension and rising stakes would create significant pressure for the West itself which not all of its participators would be willing to withhold. Burden sharing has always been a delicate issue for transatlantic community ever containing an essential element of free-riding. Can Washington this time throw behind its design sufficient weight to bind its partners and simultaneously to impose necessary concessions on its rivals? The answer is far from obvious.

Moving global competition into normative realm is hardly a stabilizing development. Norms and values are deeply interlinked with societal worldviews and the rifts they promote elicit highly emotional reactions in the public-at-large. Instead of intended delaying the shaping of already crystallized multipolar landscape, normative differentiation may catalyze its emergence in an explosive balance-of-power mode deprived of meaningful multilateral restraints.

Russia: how to win the game without participating in it

The role of Russia in the US normative strategy is clearly defined as an outsider that at a certain stage will be compelled to accept the Western terms due to economic or strategic reasons. But even if the task of ‘coercion into cooperation’ of Russia is somehow secondary for this policy in comparison to containing China, Russian front nevertheless is important for elaborating and sophisticating the Western normative toolbox. Russia and East European states are primary objects of the EU normative strategy developed under Eastern Partnership programme which is wholly supported by Washington. And recent trends demonstrate a new round of intentional bringing of normative differences to the fore of the US and EU’s Russia policy.

Russia’s response to those trends is two-fold. On the one hand, Moscow adopted the tactics of overt rejecting Western allegations against its normative pitfalls and voices public criticism at the Western values and their practices that sometimes bring about the ever more visible societal distortions and imbalances. On the other hand, Russia embarked on creating an own normative platform within the framework of Customs / Eurasian Union. Such steps are useful though their implementation as for now looks clumsy and hardly improving Russian international and domestic profile.

But the game that is unfolding in world politics does not allow for purely defensive strategies. Normative fence-mending by the West cannot be matched by symmetrical fence-mending by Russia not least because Russian capabilities for that are below the necessary scope. What is more telling, for Russia trying to build own fences means playing the US game and pouring water at the mill of American projects. Russia is gradually getting entangled in normative competition over values, standards and worldviews before producing an alternative she can come up with.

That competition in itself is highly unfavourable for Russia forcing upon it a choice of either norm-contender role that she is yet not apt for, or norm-taker status that she cannot and should not reconcile itself with. Russia needs an own normative strategy which can be projected outwards and its shaping is currently underway but lacks two essential elements that constitute the principal underpinning of Western normative power – firstly, a pretended universal legitimacy of its norms and, secondly, high living standards of its society.

Russia will not gain much from simply criticizing Western norms or creating a set of technical rules relevant for restricted Eurasian space. No more will it benefit from adopting a staunch anti-Western posture. Delimiting mental and cultural distinctions from the West makes sense only with subsequent formulation of an own universal message and worldview upheld with perceptible improvement of socioeconomic situation in own society. Russian potential ability to offer such a message for its direct environment as well as for the world as a whole emerges its key political advantage in comparison to other rising powers. But proceeding from a defensive stance Russia will hardy be able to formulate it. To that end much can be drawn from its XIX century strategy of promoting universal value of Russian culture[8].

Of course, such normative strategy should proceed along adequate political and economic efforts aimed at preventing the disruption of the existing multilateral world order and emphasising the risks of such disruption together with the progress that can be achieved through multilateral consensus-building process. But under present circumstances relevant normative positioning is indispensable for successful pursuing of the likewise policy line.

Published in Journal of Eurasian Affairs


[1] Serfaty S. The West in a World Recast // Survival. – 2012. – Vol. 54, No. 6. – P. 33

[2] Alessandri E. Transatlantic Relations Four Years Later: The Elusive Quest for a Strategic Vision // The International Spectator: Italian Journal of International Affairs. – 2012. – Vol. 47, No. 3. – P. 20-36.

[3] van Oudenaren J. Transatlantic Bipolarity and the End of Multilateralism // Political Science Quarterly. – 2005. – Vol. 120, No. 1. – P. 1-32.

[4] Ojanen H. The EU and NATO: Two Competing Models for a Common Defence Policy // Journal of Common Market Studies. – 2006. – Vol. 44, No 1. – P. 57-76.

[5] Доктрина Обамы. Властелин двух колец / Авторский коллектив: С.М. Рогов, П.А. Шариков, С.Н. Бабич, И.А. Петрова, Н.В. Степанова http://russiancouncil.ru/inner/?id_4=1783#top

[7] Duke, Simon 'Misplaced 'other' and normative pretence in transatlantic relations' // Journal of Transatlantic Studies. – 2010. – Vol. 8, No. 4. – P. 315-336.

[8] Почепцов Г.Г. Cмислові війни в сучасному світі http://osvita.mediasapiens.ua/material/17967

Le Monde, grandeur et décadence d’un journal au-dessus de tout soupçon

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Le Monde, grandeur et décadence d’un journal au-dessus de tout soupçon

par Ahmed Bensaada

Ex: http://www.michelcollon.info

Les différents conflits sanglants qui ont éclos lors de cet interminable « printemps » arabe ont été accompagnés de propagande et de mensonges éhontés [1]. Comme pour toutes les guerres, bien sûr. Mais aussi étrange que cela puisse paraître, plus un pays se targue d’être démocratique, plus la propagande est flagrante et les ficelles un peu trop grosses. Il n’y a qu’à se remémorer les « dangereuses » fioles de Colin Powell ou les « chaudes » larmes de la fille de l'ambassadeur koweïtien à Washington. Il y a cependant une autre forme de propagande, bien plus pernicieuse, qui prolifère en démocratie et qui s’administre à petites doses sous un enrobage facile à avaler. C’est celle distillée par certains propagandistes « embedded » dans des journaux de renom d’où ils tirent une visibilité, une respectabilité, voire la reconnaissance d’une certaine expertise. Une sorte de « commensalisme » journalistique, pourrait-on dire, pour autant que l’hébergé ne nuit pas à l’hôte.

A regarder (vidéos) : Les « dangereuses » fioles de Colin Powell 

et Les « chaudes » larmes de la fille de l'ambassadeur koweïtien à Washington 

Un exemple patent de cette situation est l’hébergement par le grand quotidien Le Monde du blog « Un œil sur la Syrie » d’un certain Ignace Leverrier, présenté comme ancien diplomate français et « spécialiste » de la Syrie [2].

Banderole du blog "Un œil sur la Syrie"

Un rapide survol de la toile et des médias sociaux montre que la majorité des lecteurs avertis se sont rapidement aperçu du manque de crédibilité de ce blog, tant les idées avancées par son auteur sont exclusivement orientées vers la défense du camp des anti-Bachar et ce, quelles que soient leurs mouvances. Un « spécialiste » de la Syrie ne devrait-il pas nuancer ses propos et proposer des analyses qui tiennent compte de tous les paramètres du conflit ?

Apparemment, ce n’est pas le cas de ce blogueur qui se fait appeler Ignace Leverrier alors que son vrai nom est Wladimir Glasman (Glas : verre en allemand). Il est vrai que de nombreux auteurs et journalistes écrivent sous des pseudonymes, mais ils sont connus et reconnus comme tels. Cependant, dans le cas d’un analyste politique qui disserte abondamment dans un journal qui a pignon sur rue, pourquoi aurait-il besoin de changer de nom ? C’est comme si Einstein avait publié ses fameux articles en physique sous le nom de Lapierre (Stein : pierre en allemand) et la comparaison avec ce savant s’arrête là.

Wladimir Glasman alias Ignace Leverrier

D’après les renseignements qu’il a lui-même publiés sur un média social, Glasman déclare qu’il a été bibliothécaire à l’Institut français des études arabes de Damas (1984-1988) puis conseiller au Ministère des affaires étrangères français (1988-2008) [3].

Par contre, à chaque fois que son nom est cité sur la toile, les épithètes fleurissent : ancien diplomate, universitaire, spécialiste du Moyen-Orient, diplomate arabisant, chercheur, spécialiste du monde arabe, etc. Et comme s’il voulait prouver à tout le monde (et probablement à lui-même) qu’il était réellement un « expert », Glasman publie une étrange et interminable liste de courriels provenant de personnes qui de le solliciter pour une entrevue et qui de lui demander de l’éclairer de sa science infuse [4].

Le parti pris de Glasman pour la rébellion syrienne peut se comprendre par ses relations pré-« printanières » avec les membres de l’opposition syrienne vivant à l’étranger. Ainsi, on retrouve son nom et celui de Radwan Ziadeh, membre du Conseil national syrien (CNS) et activiste financé par l’administration américaine [5], dans les mêmes conférences de dénonciation du « régime syrien » [6] ou dans la liste des signataires d’une lettre adressée à Nicolas Sarkozy pour la libération d’un dissident syrien emprisonné à Damas [7].

Mohammed al-Abdallah, Hillary Clinton, Radwan Ziyadeh, Marah al-Biqa'i

Le 24 juillet 2013, Glasman a été l’un des initiateurs d’une lettre demandant à François Hollande de prendre des mesures contre « le régime despotique et mafieux de Bachar El-Assad » en mettant en place une zone d’exclusion aérienne et en aidant militairement les « brigades de l’Armée libre indépendantes des groupes islamistes radicaux » [8]. Parmi les premiers signataires de cette lettre, on pouvait lire les noms de Bourhan Ghalioun et de Basma Kodmani respectivement premier président et ancienne porte-parole du CNS.

Basma Kodmani, Alain Juppé et Bourhan Ghalioun (10 octobre 2011)

Pour compléter le portrait, citons René Naba : « Le dispositif politico-médiatique français pour la bataille de Syrie présentait la configuration suivante : trois franco syriens, -drôle de direction constituée par trois binationaux-, Bourhan Ghalioun, premier président de l’opposition offshore, sa porte-parole Basma Kodmani, la sœur de cette dernière, Hala, chargée dans un premier temps de la rubrique Syrie au Journal Libération. Deux français émargeant sur le budget de l’état français, Ignace Leverrier de son vrai nom Wladimir Glasman, ancien diplomate français en poste à Damas dans la décennie 1980, et Jean Pierre Filiu, ancien diplomate recyclé dans l’enseignement, blogueur attitré du journal en ligne Rue 89, membre du groupe du Nouvel observateur. Cinq faux nez de l’administration française.

En tandem avec Nabil Ennasri, Ignace Leverrier a effectué une tournée de sensibilisation sur la Syrie dans la zone périurbaine de Paris, en décembre 2011. Les deux compères tiennent des blogs propagatoires au sein du journal Le Monde, chargés d’amplifier les thèses de la doxa officielle française, couvrant de gloire et d’éloges les « combattants de la liberté » jusqu’au désastre du cannibalisme djihadiste, de la prédation sexuelle des dignitaires du golfe à l’assaut des pubères syriennes et des déboires de l’opposition offshore pétromonarchique » [9].

Il n’y a pas que les articles qui attirent l’attention dans le blog de Glasman. La banderole l’ornant présente, elle aussi, un indéniable intérêt. En effet, elle montre un logo très connu par les activistes du monde entier : le poing fermé. Ce poing a été popularisé par les dissidents serbes d’Otpor, puis est devenu le symbole des révolutions colorées. Plus récemment, ce logo a été repris par tous les activistes du « printemps » arabe [10].

Ce logo a été décoré avec le drapeau de la rébellion syrienne, prouvant par ce fait que le blog n’est autre qu’une tribune de l’opposition anti-Bachar. Et tout cela, sous le toit douillet et réconfortant du fameux journal Le Monde.

       

Logo du blog "Un œil sur la Syrie"    Logo d'Otpor

D’ailleurs, les titres des derniers articles de « l’ancien diplomate » sont éloquents à ce sujet :

« Syrie. Le Président de la Coalition nationale demande à l’ONU de soutenir une solution politique » (26 septembre 2013),

« Syrie. La Coalition Nationale dénonce les agissements de l’État Islamique d’Irak et du Levant » (24 septembre 2013),

« Syrie. Mise au point du président de la Coalition Nationale » (23 septembre 2013),

« Syrie. La Coalition Nationale demande de « mettre fin à la catastrophe humanitaire dans la Ghouta et les quartiers sud de Damas » (23 septembre 2013),

etc.

À se demander si Glasman n’est pas le porte-parole de la Coalition nationale et Le Monde son organe de presse [11] !

Même dans les articles aux titres non explicites, Glasman arrive à placer, dans leur intégralité, des communiqués de la Coalition nationale [12].

Glasman n’aime pas trop qu’on le contredise. Il s’attaque à tous ceux qui ne partagent pas ses opinions et ne s’en prend pas uniquement à leurs idées, mais émet aussi des jugements de valeur sur leurs personnes [13].

Dans un récent article sur le « djihad ennikah » (le djihad du sexe) en Syrie, il a balayé du revers de la main toutes les informations qui tendent à prouver que cette pratique existe dans les rangs rebelles. Pour Glasman, « vous allez être déçus : le "djihad du sexe" en Syrie n’a jamais existé ! » [14].

À ses yeux, tout n’est qu’un vaste complot pour discréditer les « valeureux » guerriers qu’il est censé protéger. Et, pour cela, il fait fi des déclarations du ministre tunisien de l’intérieur [15], des journalistes d’Echourouk [16], de ceux de CounterPunch [17], de la télévision tunisienne [18], du syndicat des imams tunisiens [19], etc. 

Non, pour lui, tous ceux qui ne sont pas dans son camp allaient être déçus, comme si ces derniers pouvaient trouver un quelconque plaisir dans le malheur d’autrui.

Une tunisienne raconte son expérience du "djihad ennikah" en Syrie (Télévision tunisienne)

M. Glasman doit comprendre, une fois pour toute, que dans le journalisme et l’analyse politique, l’important n’est pas de savoir si les rebelles sont des « gentils » et les pro-Bachar des « méchants » (ou l’inverse). Le plus important consiste à chercher la vérité avec des arguments valables et pertinents afin de pouvoir offrir aux lecteurs une information juste, honnête et non partisane. Le chercheur qu’il se vante d’être doit savoir que dans ce genre de conflit, il n’y a ni noir, ni blanc, mais juste des nuances de gris.

Évidemment, comme le blog « Un œil sur la Syrie » est « cautionné » par Le Monde, la conclusion de cet article a été reprise par plusieurs médias « mainstream » comme s’il s’agissait de la démonstration d’un théorème mathématique.

Il y a quelques semaines, le journaliste Hervé Kempf démissionna du journal Le Monde (après quinze années de bons et loyaux services) tout en dénonçant la censure qui y règne. Le Monde, dit-il « est devenu un média comme les autres qui, comme les autres, est aux mains des capitalistes […]. Et si ces gens investissent dans les médias, ce n’est pas pour le plaisir et la liberté de la presse, même s’ils peuvent avoir un sincère intérêt intellectuel pour les médias, mais aussi pour influencer » [20].

En laissant partir des « Kempf » et en gardant des « Glasman », Le Monde confirme qu’il n’est plus ce qu’il était sur le plan du professionnalisme et de l’éthique journalistiques. Car laisser partir des « Kempf » et garder des « Glasman », c’est un peu comme remplacer les abeilles ouvrières d’une ruche par de vulgaires guêpes.

Et ce, au grand détriment des lecteurs assidus du journal Le Monde.

Sur Kempf, lire : "Le Monde est devenu un média comme les autres : aux mains des capitalistes." (Benjmin Sire, Investig'Action)

Sur Leverrier/Glasman, lire : "Agit-prop occidentale, un art où rien n'est laissé au hasard" (Bahar Kimyongur, Investig'Action)

Source : ahmedbensaada.com

Références :

1 Ahmed Bensaada, « Le « printemps arabe » et les médias : maljournalisme, mensonges et mauvaise foi », Le Quotidien d’Oran, 22 septembre 2011,

2 Ignace Leverrier, « Un œil sur la Syrie »

3 LinkedIn, « Wladimir Glasman »

4 Un œil sur la Syrie, « À propos »

5 Ahmed Bensaada, « Syrie : le dandy et les faucons », Reporters, 15 septembre 2013, 

6 Voir, par exemple, Science Po Monde Arabe, « La Syrie et les droits de l’homme : bilan des dix ans de pouvoir de Bachar Al-Assad », 10 juin 2010,

7 FIDH, « Syrie : une prison pour les militants ; Appel à Monsieur Nicolas Sarkozy, Président de la République française », 26 octobre 2010,

8 Le Nouvel Obs, « SYRIE. Une lettre ouverte au Président de la République », 24 juillet 2013, 

9 René Naba, « Le Qatar, une métaphore de la France en phase de collapsus », 5 juin 2013, 

10 Ahmed Bensaada, « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe », Éditions Michel Brûlé, Montréal (2011), Éditions Synergie, Alger (2012), chap.1.

11 Un œil sur la Syrie, « Archives de l’auteur »

12 Ignace Leverrier, « Vous allez être déçus : le « djihad du sexe » en Syrie n’a jamais existé ! », Un œil sur la Syrie, 29 septembre 2013,

13 Voir la première note qui suit l’article suivant : Ignace Leverrier, « Un nouveau rapport sur la Syrie… partiel, partial et « fabriqué » », Un œil sur la Syrie, 16 février 2013,

14 Voir référence 12

15 AFP, « Des Tunisiennes partiraient en Syrie pour le "djihad du sexe" », Le Monde, 20 septembre 2013, 

16 El Habib El Missaoui, « Le retour des victimes du « djihad ennikah » », Alchourouk, 22 septembre 2013,

17 Reem Haddad, « Sex and the Syrian Revolution », CounterPunch, 17 juillet 2013,

18 Youtube, « Une tunisienne raconte son expérience du djihad ennikah en Syrie », vidéo publiée le 25 mai 2013, 

19 Zohra Abid, « Tunisie : Le « jihad nikah » oppose les imams au gouvernement », Kapitalis, 25 septembre 2013, 

20 Benjamin Sire, « Hervé Kempf : « il faut être malade pour être obsédé par l’idée de gagner des millions d'euros » », RageMag, 19 septembre 2013.

 

Le communautarisme selon Costanzo Preve

Le communautarisme selon Costanzo Preve

par Georges FELTIN-TRACOL

 

costanzo-preve_mr.jpgNé en Italie en 1943 de parents italo-arméniens, Costanzo Preve est très tôt attiré par la philosophie et l’histoire. Étudiant à Paris, il suit les cours de Louis Althusser et fréquente Gilbert Mury et Roger Garaudy. Le jeune Preve ne cache pas sa sensibilité marxiste. Enseignant la philosophie au lycée de 1967 à 2002, il prend sa carte au P.C.I. en 1973 avant de rejoindre en 1975 la mouvance gauchiste (Lotta Continua, Democrazia Proletaria), puis, ensuite, le Parti de la Refondation communiste. il abandonne tout militantisme à partir de 1991. Les prises de position de certains de ses « camarades » révolutionnaires en faveur de l’intervention occidentale contre l’Irak l’invitent à réfléchir si bien qu’en 2004, il adhère le Camp anti-impérialiste et collabore à des revues d’opinions très variées, de Comunismo e Comunità à Italicum en passant par Krisis, Eurasia, Comunità e Resistenza ou Bandiera rossa

 

Auteur prolifique, Costanzo Preve n’a pour l’heure que deux ouvrages traduits en français dont l’un, effectué par son ami Yves Branca qui en assume aussi la présentation, est un Éloge du communautarisme. Bien que préfacé par Michel Maffesoli, l’observateur attentif des nouvelles tribus, des communautés spontanées du temps de la Toile numérique et de la « post-modernité » exubérante, il ne faut pas se méprendre sur son sens. Homme de « gauche » (les guillemets ont leur importance), Costanzo Preve n’est pas un théoricien communautarien, ni un communautariste comme l’entendent les vierges effarouchées décaties de la République hexagonale outragée (qui le mérite bien d’ailleurs)… Son point de vue ne se confond pas « avec les partisans de ces quatre formes pathologiques de communautarisme, qui sont à rejeter résolument et sans remords (p. 27) », à savoir les communautés locales et provinciales, le « communautarisme organiciste », le nationalisme et le fascisme, et le communautarisme ethnique fossoyeur des États-nations. Cet Éloge se veut principalement une réflexion philosophique et historique sur la notion de communauté à l’heure du triomphe du libéralisme. Sa démarche s’appuie sur de solides références intellectuelles : Aristote, Hegel et Marx. D’après ce dernier, « son affirmation de la “ lutte des classes ” est indéniable, mais à ses yeux, la lutte des classes n’était qu’un moyen pour arriver à une fin : la communauté précisément (p. 28) ».

 

Avec la modernité et la fin de la société holiste, comment l’individu peut-il s’insérer dans des communautés sans que celles-ci ne deviennent pour lui des cadres d’aliénation ? Telle est la problématique que pose l’auteur avec une évidente sincérité. « Tout éloge véritable qui n’est pas une adulation hypocrite ne doit pas dissimuler les défauts de son propre objet; c’est, au contraire, s’il les met en évidence qu’il mérite le titre d’ “ éloge ” (p. 29). »

 

Communautés natales contre communautarisme artificiel

 

Après bien d’autres, Costanzo Preve affirme que « l’homme est par nature un être social et communautaire, ou plus précisément un être naturel générique (p. 212) ». Or, « dans la tradition occidentale, l’idée de communauté (ou plus exactement de communauté politique démocratique) naît avec l’élément potentiellement dissolvant qui lui est conjoint, c’est-à-dire l’individu libre et pensant, lequel pense souvent à l’encontre des membres de sa communauté même (p. 30) ». Il précise même : « Si nous entendons sortir d’un enfermement provincial et voulons adhérer à un processus historique d’universalisation humaine qui soit autre chose que son actuelle parodie, laquelle universalise uniquement la forme-marchandise qui uniformise tous les êtres humains selon le seul modèle du producteur et du consommateur manipulé, nous ne pouvons éviter la question cruciale de ce qui peut être le meilleur point de départ d’un dialogue entre les communautés et les civilisations du monde. Ce ne saurait être l’individu isolé, l’individu – atome, qualifié quelquefois tout simplement de “ multiculturel ”, comme si un atome multiculturel pouvait cesser d’être un atome; mais seulement un individu social, ce qui signifie : un individu dans une communauté. Dès lors, je ne vois pas pourquoi l’on ne pourrait appeler “ communautarisme ” le point de vue de l’individu situé dans une communauté, fût-ce, cela va de soi, d’une manière critique et anticonformiste (p. 29). » En dépit de ses défauts, « la communauté est le seul lieu où l’homme contemporain puisse réaliser conjointement sa double nature rationnelle et sociale (p. 239) », d’où son souhait d’un communautarisme universaliste et progressif, car « la solidarité et la liberté sont l’une et l’autre nécessaires (p. 240) ». L’auteur relève toutefois que le processus de modernité n’arrive pas à éliminer la forme communautaire en tant que donnée permanente. Il peut l’écarter, l’exclure, la contenir, mais pas l’effacer. C’est la raison pour laquelle « le capitalisme tend à détruire et à dissoudre les communautés souveraines, pour créer à la place des communautés factices (p. 225) ». Le Système vomit l’enracinement tout en encensant simultanément une soi-disant culture gay élaborée par d’une nouvelle communauté dont la consistance historique serait tout aussi probante que celles des Bretons, des Basques ou des Corses.

 

Si le Système valorise des communautés nouvelles à l’appartenance subjective incertaine (à quand des quotas légaux aux élections pour les philatélistes, les ramasseurs de champignons ou les porteurs de lunettes ?), il n’hésite pas, le cas échéant, à fomenter « l’ethnicisation et la régionalisation des conflits [qui] forment par conséquent des terrains d’intervention et d’intrusion contre les peuples et les nations (p. 50) ». Contre ce dévoiement pernicieux, Costanzo Preve qui juge vaines les recherches en faveur d’une troisième voie sérieuse, lie son « communautarisme » à l’idéal communiste. « On peut définir le communisme, brièvement, comme une forme radicale et extrême de communautarisme (p. 73). » Mieux, ce communisme s’épanouit au sein d’un ensemble collectif d’ordre civique. « La politique est une propriété indivise de la communauté toute entière (p. 68). » Un marxisme bien compris devient de la sorte un facteur d’épanouissement. Par conséquent, « oubliez tout ce que vous avez cru savoir sur Marx et le marxisme ! (p. 154) », car « Marx s’est trouvé incorporé dans un appareil idéologique qui ne fut d’abord que politique et syndical, mais qui devint ensuite véritablement étatique et géopolitique (p. 154) ». L’auteur réhabilite la conception marxiste de la nation et mentionne Otto Bauer, les austro-marxistes ainsi que Staline. « L’idée de nation faisait partie intégrante de la tradition marxiste et socialiste (p. 198). »

 

Costanzo Preve témoigne son attachement à la nation qui lui paraît la communauté la plus appropriée pour le partage d’un destin commun. Le Système agresse sans cesse l’idée nationale. L’auteur note que « le nouveau cycle de guerres qui s’est ouvert par la honteuse dissolution du communisme historique réel du XXe siècle (qu’il faut appeler ainsi pour le distinguer du communisme utopico-scientifique de Marx – cet oxymore étant évidemment volontaire) a pour logique la formation d’un Nouvel Ordre Mondial (pp. 38 – 39) ». Pis, « le monde actuel, qui se présente sous le mensonge d’une démocratie libérale fondée sur la religion universaliste des droits de l’homme, est en réalité un totalitarisme de l’économie, géré par une oligarchie politique qui se légitime moyennant des référendums périodiques, lesquels supposent la totale impuissance des opposants en fait de projet. La dictature de l’économie ne se présente plus sous la forme de celle, ridiculement faible et instable, de personnages politiques solitaires et charismatiques comme Mussolini, Hitler, Franco, Peron, Staline ou Tito, mais désormais sous la forme infiniment plus puissante de la dictature de forces et de grandeurs rigoureusement anonymes et impersonnelles, et partant invincibles : les “ marchés ”, la “ productivité ”, la “ concurrence internationale ”, le “ vieillissement de la population ”, l’« impossibilité de sauvegarder le système de la sécurité sociale et des retraites », etc. Si la forme personnelle et dilettante des vieilles dictatures politiques charismatiques s’est révélée une espèce fragile d’un point de vue darwiniste, la nouvelle forme “ professionnelle ” de la dictature systémique et impersonnelle de quantités économiques affranchies de tout “ anthropomorphisme ” paraît plus stable (p. 55) ».

 

La démocratie subvertie par le mondialisme

 

copr191462500.jpgL’auteur souligne enfin que « la démocratie ne garantit pas la justesse de la décision; bien au contraire, avalisant de son autorité des choix criminels, elle est pire encore que la tyrannie, parce que celle-ci, en tant qu’origine constante de décisions arbitraires et criminelles, est au moins facile à démasquer, tandis qu’en démocratie, le style “ vertueux ” et légal des décisions prises à la majorité réussit le plus souvent à cacher la nature homicide de certains choix sous le rideau de fumée des formes institutionnellement corrects (p. 67) ». La célébration irréfléchie de la démocratie moderne individuelle, voire individualiste, bouleverse l’agencement géopolitique planétaire. « Le monde précédent, qu’il s’agit de détruire, est celui du droit international des relations entre États souverains, celui de la négociation entre sphères d’intérêts et d’influence, le monde du droit de chaque nation, peuple et civilisation à choisir souverainement ses propres formes de développement économique et civil (p. 39). » Le Nouvel Ordre Mondial prépare désormais « l’inclusion subalterne de tous les peuples et nations du monde dans un unique modèle de capitalisme libéral, où ce qui sera le plus défendu, même et surtout par les armes, sera moins l’entrée que, justement, la sortie (p. 39) ». Il favorise l’éclatement des États en privilégiant les communautarismes subjectifs, volontaires ou par affinité. « Cent ou cent cinquante États souverains dans le monde sont à la fois trop, et trop peu, pour la construction d’un Nouvel Ordre Mondial. Trop, parce qu’il y en a au moins une trentaine qui sont pourvus d’une certaine consistance et autonomie économique et militaire, ce qui complique les manèges pour arriver au contrôle géostratégique de la planète. Mais en même temps peu, parce que si l’on vise un contrôle géopolitique et militaire plus commode, l’idéal n’est pas le nombre actuel des États; ce serait un panorama de mille ou deux mille États plus petits, et donc plus faibles militairement, plus vulnérables au chantage économique, formés par la désagrégation programmée et militairement accélérée des anciens États nationaux divisés comme une mosaïque selon l’autonomie de toutes les prétendues “ ethnies ” qui sont présentes sur leur territoire (pp. 49 – 50). »

 

Dans cette nouvelle configuration pré-totalitaire apparaît la figure utilitaire du terroriste qui « représente un ennemi idéal, parce qu’étant par nature sans territoire propre, il semble avoir été fait exprès pour les forces qui veulent précisément “ déterritorialiser ” le monde entier, en ruinant l’indépendance des peuples et des nations et la souveraineté des États. Pour ces forces, le monde doit être transformé en une sorte d’« espace lisse », sans frontières, adéquat à la rapide fluidité des investissements des capitaux et de la spéculation financière, il faut donc qu’il n’y ait plus de “ territoires ” pourvus d’une souveraineté nationale et économique indépendante (p. 47) ».

 

Il existe bien entendu d’autres formes de pression totalitaires. Par exemple, « l’agitation permanente de la bannière de l’antifascisme en l’absence complète de fascisme, ou de celle de l’anticommunisme sans plus de communisme, doit être interprété comme le symptôme d’un déficit de légitimation idéale de la société contemporaine (p. 91) ». Attention quand même aux contresens éventuels. Costanzo Preve ne se rallie pas à l’« extrême droite ». Il affirme plutôt que « l’antifascisme ne fut pas seulement un phénomène historiquement légitime, ce qui est évidente, mais un moment lumineux de l’histoire européenne et internationale (p. 190) ». Il souligne que « Auschwitz est injustifiable, mais l’extermination technologique de la population d’Hiroshima et de Nagasaki l’est tout autant, tout comme l’anéantissement de Dresde, à quelques semaines de la fin de la guerre, dont les auteurs furent récompensés par des médailles, au lieu d’être enfermés dans des prisons spéciales. Treize millions d’Allemands furent déportés par des décisions prises à froid et sans aucune raison stratégique, la guerre étant terminée, à partir de terres allemandes comme la Prusse et la Silésie. Au cours de leur transfert, il y eut plus de deux millions de morts, auxquels s’ajoutèrent un million sept cent mille Allemands qu’après la fin de la guerre, en pleine reprise de la surproduction alimentaire, on laissera mourir de faim dans les camps de concentration français et américains (pp. 192 – 193) ».

 

Un communautarisme des Lumières ?

 

cop22.jpgSous les coups violents du Nouvel Ordre Mondial, la société européenne se transforme, contrainte et forcée. Dénigrées, contestées, méprisées, les vieilles communautés traditionnelles sont remplacées par des communautés artificielles de production et de consommation marchande. Costanzo Preve décrit avec minutie les ravages planétaires de l’hybris capitaliste. Si « le capitalisme aime habiller les jeunes gens et à leur imposer par là, au travers de nouvelles modes factices, des profils d’identification pseudo-communautaire. Cela se fait surtout par le phénomène du branding, c’est-à-dire du lancement de marques. […] Il est de règle que le capitalisme, non content d’habiller le corps des jeunes déshabille celui des femmes. D’où sa frénésie contre l’islam, dont l’hostilité s’étend jusqu’au foulard le plus discret, mais aussi son irrésistible pulsion vers les minijupes et les showgirls très dévêtues des jeux télévisés (pp. 216 – 217) ». Il perçoit en outre que « le capitalisme ne vise […] pas à faire de vieillards une communauté séparée, mais cherche plutôt à réaliser leur complète ségrégation (p. 219) » parce que « dans l’imaginaire capitaliste, la mort elle-même paraît obscène, parce qu’elle interrompt définitivement la consommation (p. 218) ». Le Système fait assimiler implicitement le vieillissement, la vieillesse avec la disparition physique… Quant à une métastase de ce capitalisme mortifère, le féminisme, ses revendications font que « pour la première fois dans l’histoire de l’humanité, la figure asexuée de l’entrepreneur réalise le rêve (ou plutôt le cauchemar) du pur androgyne (p. 224) ». Le capitalisme illimité dévalue tout, y compris et surtout les valeurs. Favorise-t-il donc un état complet d’anarchie globale ? Nullement ! Le champ de ruines spirituel, moral et sociologique assure le renforcement de la caste dirigeante parmi laquelle le « peuple juif qui de fait est aujourd’hui investi du sacerdoce lévitique globalisé du monde impérial américain, dans lequel la Shoah devra remplacer (ce n’est qu’une question de temps) la Croix comme le Croissant, l’une et l’autre peu adaptés à l’intégrale libéralisation des mœurs que comporte l’absolue souveraineté de la marchandise (p. 194) ».

 

Preve n’est pas négationniste. Il observe cependant que dans le Nouvel Ordre Mondial, « la sacralisation de ce droit absolu à la possession de tous est obtenue par une nouvelle religion, qui se substitue à la Croix comme au Croissant, la religion de la Shoah, dans laquelle Auschwitz, détaché de son contexte historique, est érigé en principe universel abstrait exigeant d’abolir le droit international “ de sorte que cela ne puisse plus jamais arriver dans l’avenir ” – tandis que Hiroshima, et ce n’est pas un hasard, a seulement été “ déploré ”, et non pas criminalisé comme Auschwitz, et continue d’être brandi comme une menace toujours possible contre les “ nouveaux Hitler ”… (pp. 116 – 117) ».

 

Suite à ses propos qu’on peut sciemment mal interpréter, Costanzo Preve pourrait faire l’objet d’attaques perfides alors qu’il se réclame de l’héritage des Lumières. Pour lui, « l’État est en fait l’organe qui réalise le programme de la modernité des Lumières, mais selon une interprétation communautaire et non point individualiste (p. 145) ». L’« idéologie des Lumières » ne forme pas un bloc monolithique. Si, en France, elle est progressiste, on ignore souvent qu’en Allemagne ou en Angleterre, elle présente un important versant conservateur. Preve cherche-t-il soit une nouvelle synthèse post-moderne, soit une réactivation d’un « conservatisme lumineux » ? Il se déclare ainsi « favorable au mariage des prêtes catholiques (dont le mariage des popes orthodoxes et des pasteurs protestants constitueraient des précédents historiques), à l’ordination sacerdotale des femmes dans la confession catholique et à de pleins droits civils pour les gays et lesbiennes (mais dans les formes du P.A.C.S., non dans celle du “ mariage ”, qui est inutilement provocatrice) (p. 124) ». Il approuve dans le même temps la place historique de l’Église catholique même s’il ignore le rôle majeur joué par le christianisme celtique dans la réévangélisation de l’Europe de l’Ouest au Haut – Moyen Âge. Mutatis mutandis, le christianisme celtique, s’il s’était maintenu, fortifié et développé, aurait été probablement le pendant occidental de l’Orthodoxie et permis la constitution à terme d’Églises catholiques européennes autocéphales aptes à résister aux assauts de la modernité. Au contraire, du fait d’une centralisation romaine continue, l’Église catholique a accepté sa sécularisation.

 

Pour preuve irréfragable, Costanzo Preve rappelle que « le théologien Joseph Ratzinger, qui est devenu pape, a du reste posé lui-même d’une manière extrêmement intelligente la question du bilan de la pensée des Lumières dans son débat avec Jürgen Habermas, où il a soutenu que les Lumières n’avaient pas été seulement bonnes, mais providentielles, parce que leur intervention historique avait “ corrigé ” les erreurs et même, dans certains cas, les crimes de l’Église. […] Il […] semble [à Preve] qu’il serait encore plus sot d’être plus traditionaliste et catholique que Joseph Ratzinger (p. 131) ». De pareils propos confirment l’argumentaire sédévacantiste.

 

Son appréciation sur Ratzinger est-elle vraiment sérieuse et fondée ? Catholique, Benoît XVI peut l’être dans l’acception d’« universel ». L’Église romaine a toujours cherché à au moins superviser les pouvoirs temporels. Au XXe siècle, un penseur catholique de renom, Jacques Maritain, défend une supranationalité papiste de dimension européenne, occidentale, voire atlantiste. On retrouve cette influence dans l’encyclique Caritas in veritate du 7 juillet 2009. Se référant à une conception dévoyée de la subsidiarité, le souverain pontife énonce que « le développement intégral des peuples et la collaboration internationale exigent que soit institué un degré supérieur d’organisation à l’échelle internationale de type subsidiaire pour la gouvernance de la mondialisation (paragraphe 67) ». Il ajoute qu’« il est urgent que soit mise en place une véritable Autorité politique mondiale […]. Cette Autorité devra […] être reconnue par tous, jouir d’un pouvoir effectif pour assurer à chacun la sécurité, le respect de la justice et des droits. Elle devra évidemment posséder la faculté de faire respecter ses décisions par les différentes parties, ainsi que les mesures coordonnées adoptées par les divers forums internationaux (paragraphe 67) ». Il apparaît clairement que le Vatican est dorénavant un relais sûr du Nouvel Ordre Mondial. À la décharge de Costanzo Preve, son Éloge a été publié en 2007 et il ne pouvait pas deviner la portée mondialiste de ce texte. Benoît XVI n’est pas traditionaliste. N’oublions jamais que le véritable catholicisme traditionnel, communautaire et sacral qui rayonnait à l’époque médiévale fut assassiné par l’incurie pontificale, la Réforme protestante et sa consœur honteuse, la Contre-Réforme catholique !

 

Nonobstant ces quelques critiques, cet Éloge du communautarisme demeure une belle réflexion sur une question déterminante pour les prochaines décennies : les communautés humaines natives résisteront-elles au XXIe siècle ?

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Costanzo Preve, Éloge du communautarisme. Aristote – Hegel – Marx, préface de Michel Maffesoli, Krisis, 2012, 267 p., 23 €.


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Face à la décadence des valeurs...

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Face à la décadence des valeurs...

par Yvan Blot

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous une intervention d'Yvan Blot au colloque de l'Institut de la démocratie et de la coopération, qui s'est tenu le 10 juin 2013, à l'assemblée nationale, sur le thème "La Grande Europe des Nations : une réalité pour demain ?". Un point de vue qui peut faire débat quant à la place qu'il accorde au christianisme, notamment...

Fondateur du Club de l'Horloge, Yvan Blot, qui préside actuellement l'institut néo-socratique, est notamment l'auteur de L'héritage d'Athéna ou Les racines grecques de l'Occident (Presses bretonnes, 1996) ainsi que d'un essai intitulé L'oligarchie au pouvoir (Economica, 2011).

La Russie et l'Europe face à la décadence des valeurs

Le problème des valeurs

Les valeurs ne sont pas une connaissance. Le vrai, le bien et le beau sont des objectifs pour l’action. Leur origine n’est pas la création par un petit père des peuples, ou par une commission interministérielle mais elle est immémoriale.   L’Europe et la Russie partagent des valeurs communes parce qu’elles sont issues de la même civilisation, issue de la Grèce et de Rome, transfigurées par le christianisme. Refuser que l’Europe soit « un club chrétien » comme l’ont dit plusieurs politiciens comme Jacques Delors ou le premier ministre turc Erdogan revient à nier l’identité historique de l’Europe.

Les valeurs montrent leur importance sociale à travers leurs fruits. Le meurtre ou la malhonnêteté ne sont pas généralisables. La société s’effondrerait. L’honnêteté ou le respect de la vie sont généralisable. Le fait d’avoir des enfants aussi. C’est le signe qu’on est en présence de valeurs authentiques.

Le problème des valeurs est qu’elles ne sont pas issues de la raison comme l’ont montré des philosophes comme Hume ou le prix Nobel Hayek. Elles se situent entre l’instinct et la raison. Le 18ème siècle européen avec son culte de la raison et son éloge de la libération de la nature, donc des instincts a été une catastrophe pour les valeurs. La raison, cette « crapule » comme disait Dostoïevski, a servi à justifier les instincts. Or les hommes ont une vie instinctive chaotique à la différence des animaux. L’homme a par nature besoin des disciplines de la culture, de la civilisation, comme l’a écrit l’anthropologue Arnold Gehlen. Du 18ème siècle a nos jours, on a assisté en Occident à la destruction des valeurs traditionnelles issues du christianisme et du monde gréco romain. Quatre faux prophètes ont joué un rôle majeur : Voltaire, Rousseau, Marx et Freud. Au 20ème siècle, les idéologies scientistes totalitaires ont provoqué des meurtres de masse au nom de la raison.

Plus récemment, la révolution culturelle des années soixante, partie des universités américaines, a affaibli nos valeurs de façon décisive avec des slogans tels que « il est interdit d’interdire » ou « il n’existe pas d’hommes et de femmes mais des choix subjectifs d’orientation sexuelle ».

Le fait est que le nombre de crimes et de délits en France resté stable autour de 1, 5 millions d’actes entre 1946 et 1968  a monté depuis lors au chiffre de 4,5 millions. Le record des prisonniers est détenu de loin par les Etats-Unis d’Amérique où le nombre de meurtre par habitant est quatre fois celui de la France. Face à cette situation, les gouvernements n’ont guère réagi sauf celui de la Russie.

Si l’on reprend les quatre causes d’Aristote matérielle, formelle, motrice et finale, on a quatre groupes de valeurs culturelles qui sont le socle de la civilisation et de la société, on a les valeurs comme normes obligatoires incarnées par l’Etat et le droit, on a les valeurs familiales qui s’étendent aussi à l’économie et enfin les valeurs spirituelles incarnées par les religions. Dans quelle situation sommes-nous par rapport à ces quatre groupes de valeurs ? L’utilitarisme américain qui réduit l’homme à une matière première de l’économie remet en cause beaucoup de nos valeurs traditionnelles.

Les valeurs culturelles et morales

L’Europe et la Russie ont dans ce domaine un héritage majeur, celui de l’Empire romain et des anciens Grecs. Il s’agissait de la « paidéia », l’éducation de l’homme afin qu’il devienne « beau et compétent » de corps et d’âme (kaloskagathos). D’où la recherche de l’excellence morale par l’exemple des grands hommes de l’histoire. Cette éducation humaniste, qui était aussi bien catholique que laïque en France, a été reniée. On cherche à former des techniciens et des commerciaux sans culture générale et non des citoyens autonomes. L’homme doit devenir un simple rouage de la machine économique comme l’a montré le philosophe Heidegger. On assiste à un effondrement de la culture générale et de la lecture. En même temps, le sens moral s’affaiblit, à commencer chez les élites car « c’est toujours par la tête que commence à pourrir le poisson ». 

 

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Au nom des droits de l’homme, on sape la morale traditionnelle car on ignore la nature véritable de l’homme. Celui-ci a trois cerveaux, reptilien pour commander les instincts, mammifères pour l’affectivité (mesocortex) et intellectuel et calculateur (neocortex). En Occident, le cerveau affectif qui commande le sens moral n’est pas favorisé : il est considéré comme réactionnaire ! La morale est réactionnaire ! Seuls sont promus le cerveau reptilien (les instincts) et le cerveau calculateur (intelligence) mis au service du reptilien. Cela donne des personnalités au comportement déréglé comme un ancien directeur du FMI. Plus gravement, cette dégénérescence a produit aussi les criminels comme Hitler ou Pol Pot ! La raison au service de l’agression reptilienne, c’est la barbarie !

Il faut réaffirmer l’importance de la morale, notamment civique, laquelle n’est pas fondée sur la raison mais sur des traditions que l’on acquiert avec l’éducation du cœur, comme l’a toujours affirmé le christianisme. C’est essentiel pour l’Europe comme pour la Russie. Nous partageons l’idéal de la personne qui recherche l’excellence, idéal issu des anciens Grecs, de l’empire romain et du christianisme.

L’offensive contre les valeurs familiales

A partir de mai 1968  pour la France, les valeurs familiales se sont effondrées. Le mot d’ordre de mai 68  était « jouir sans entraves » comme disait l’actuel député européen Daniel Cohn Bendit accusé aujourd’hui de pédophilie. Depuis les années soixante dix, un courant venu des Etats-Unis, la théorie du genre, affirme que le sexe est une orientation choisie. Le but est de casser le monopole du mariage normal, hétérosexuel. Depuis les mêmes années, la natalité s’effondre dramatiquement en Europe. L’Europe ne se reproduit plus et sa démographie ne se maintient en quantité que par l’immigration du tiers monde. Le tissu social se déchire par les échecs familiaux et par l’immigration de masses déracinées. La France favorise la gay pride, autorise le mariage gay et réduit les allocations familiales. Par contre, la Russie créé pendant ce temps une prime de 7700 euros à la naissance à partir du deuxième enfant, et crée une fête officielle de l’amour de la fidélité et du mariage avec remises de décoration.

Une idéologie venue des Etats-Unis affirme le choix de vie « childfree » (libre d’enfants) opposé à « childless » sans enfants par fatalité. Avec une telle idéologie, l’Europe contaminée est en danger de mort démographiquement. Ce  fut le cas de la Russie après la chute de l’URSS  mais le redressement s’affirme depuis trois ans environ.

Il faut aussi lier les valeurs familiales et celles de la propriété et de l’entreprise. Dans le passé, la famille était la base de l’économie. Le système fiscal français démantèle la propriété et empêche les travailleurs d’accéder à la fortune par le travail. On sait grâce aux exemples allemand et suisse que les entreprises familiales sont souvent les plus efficaces et les plus rentables.  Or on est dans une économie de « managers » de gérants qui cherchent le profit à court terme pour des actionnaires dispersés. L’Etat est aussi court termiste dans sa gestion et s’endette de façon irresponsable, droite et gauche confondues. Une société sans valeurs familiales est aussi une société tournée vers le court terme, qui se moque de ce qu’elle laissera aux générations futures. Là encore, l’Europe pourrait s’inspirer de la récente politique familiale russe et la Russie avec son faible endettement est un bon contre-exemple par ailleurs.

La crise des valeurs nationales

Le socialiste Jaurès disait : « les pauvres n’ont que la patrie comme richesse » : on cherche aujourd’hui à leur enlever cette valeur. La patrie repose sur un certain désintéressement des hommes : mourir pour la patrie fut un idéal de la Rome antique à nos jours. La marginalisation des vocations de sacrifice, celle du soldat et celle du prêtre n’arrange rien. La classe politique est gangrenée par l’obsession de l’enrichissement personnel. La patrie est vue comme un obstacle à la création de l’homme nouveau utilitariste et sans racines. 

En outre en France surtout, on a cherché à dissocier le patriotisme de l’héritage chrétien, ce qui est contraire à tout ce que nous apprend l’histoire. L’Eglise dans beaucoup de pays d’Europe a contribué à sauver la patrie lorsque celle-ci notamment était occupée par l’étranger.

La patrie, du point de vue des institutions politiques, est inséparable de la démocratie. Or en Europe à la notable exception de la Suisse, on vit plus en oligarchie qu’en démocratie. Ce n’est pas nouveau. De Gaulle dénonçait déjà cette dérive. Il faut rétablir une vraie démocratie,  au niveau national comme de l’Union européenne, organisation oligarchique caricaturale, et ré enseigner le patriotisme aux jeunes pour retisser un lien social qui se défait. 

La marginalisation des valeurs spirituelles

L’Europe comme la Russie sont issues d’une même civilisation issue de l’Empire romain et du christianisme. Le christianisme est unique en ce qu’il est une religion de l’incarnation, du Dieu fait homme pour que l’homme puisse être divinisé comme l’ont dit Saint Athanase en Orient et saint Irénée en Occident. Le christianisme met donc l’accent sur le respect de la personne humaine que l’on ne peut séparer des devoirs moraux.

Cet équilibre est rompu avec l’idéologie des droits de l’homme où les devoirs sont absents. Dostoïevski, cité par le patriarche russe Cyrillel II  a montré que la liberté sans sens des devoirs moraux peut aboutir à des catastrophes humaines. De même l’égalité sans charité débouche sur l’envie, la jalousie et le meurtre comme les révolutions l’ont montré. Quant à la fraternité, sans justice, elle débouche sur la constitution de mafias, qui sont des fraternelles mais réservées aux mafieux  au détriment des autres.

 

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L’égalité en droit des différentes religions n’est pas en cause. Mais il n’y a rien de choquant à reconnaître le rôle du christianisme dans notre histoire commune et à en tirer des conséquences pratiques. Comme l’a dit l’ancien président Sarkozy, un prêtre peut être plus efficace pour redonner du sens moral et retisser le tissu social que la police ou l’assistance sociale. Il en appelait à une laïcité positive, non anti-religieuse.

Là encore, la Russie tente une expérience intéressante qu’il ne faut pas ignorer de collaboration entre l’Etat et l’Eglise. La destruction du rôle public des Eglises a mené au totalitarisme, à un Etat sans contrepoids moral ; il ne faut pas l’oublier.

Redressement culturel et démocratie authentique

Qui pousse en Occident à l’effondrement des valeurs traditionnelles ? Ce n’est certes pas le peuple mais plutôt les élites profitant de leur pouvoir oligarchique, médiatique, financier, juridique et en définitive politique sur la société. Si on faisait un référendum sur le mariage gay, on aurait sans doute des résultats différents du vote de l’Assemblée Nationale.

Ce qui caractérise l’Europe d’aujourd’hui est une coupure croissante entre les élites acquises à la nouvelle idéologie pseudo religieuse des droits de l’homme et le peuple attaché aux valeurs traditionnelles de la famille, de la morale classique et de la patrie.

Ce fossé, par contre, existe moins, semble-t-il en Russie où le président et le gouvernement reflètent bien la volonté populaire, quitte à être critiqués par quelques oligarchies occidentalisées. C’est pourquoi je pense, contrairement à une idée reçue, que la Russie d’aujourd’hui est sans doute plus démocratique que la plupart des Etats européens car la démocratie, c’est d’abord le fait de gouverner selon les souhaits du peuple. En Occident, les pouvoirs sont manipulés par des groupes de pression minoritaires. Ils négligent la volonté du peuple et la preuve en est qu’ils ont peur des référendums.

La démocratie russe est jeune mais est-ce un défaut ? Une démocratie trop vieille peut être devenue vicieuse et décadente, et perdre ses vertus démocratiques d’origine pour sombrer dans l’oligarchie. La Russie est donc peut-être plus démocratique car plus proches des valeurs du peuple que nos oligarchies occidentales dont de puissants réseaux d’influence souhaitent changer notre civilisation, la déraciner, créer de toutes pièces une morale nouvelle et un homme nouveau sans le soutien du peuple. Démocrates d’Europe et de Russie ont en tous cas un même héritage culturel à défendre et à fructifier face à ces réseaux.

Face au déclin des valeurs, déclin surtout importé d’Amérique depuis les années soixante, il appartient donc à l’Europe et à la Russie de faire front commun pour défendre les valeurs de la nation, de la démocratie, de la culture classique avec son héritage chrétien. Comme disait De Gaulle, il faut s’appuyer sur les peuples d’Europe de ‘Atlantique à l’Oural, ou plutôt à Vladivostok. Il a écrit dans les Mémoires de guerre : «  Les régimes, nous savons ce que c’est, sont des choses qui passent. Mais les peuples ne passent pas ». J’ajouterai qu’il en est de même de leurs valeurs éternelles car elles sont inscrites dans la nature humaine et dans la transcendance ».

Yvan Blot (Institut de la démocratie et de la coopération, 10 juin 2013)

Too Much Putin?

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Too Much Putin?

By Michael O'Meara 

Ex: http://www.counter-currents.com

US hegemony may be approaching its end. Once the world refuses to acknowledge the imperial authority of its humanitarian missiles, and thus stops paying tribute to its predatory model of the universe (as momentarily occurred in Syria), then American power inevitably starts to decline – and not simply on the world stage, but also domestically, among the empire’s subjects, who in the course of the long descent will be forced to discover new ways to assert themselves.

***

Historically, America’s counter-civilizational system was an offshoot of the Second World War, specifically the US conquest of Europe — which made America, Inc. (Organized Jewry/Wall Street/the military-industrial complex) the key-holder not solely to the New Deal/War Deal’s Washingtonian Leviathan, but to its new world order: an updated successor to Disraeli’s money-making empire, upon which the sun never set.[1]

The prevailing race-mixing, nation-destroying globalization of the last two and a half decades, with its cosmopolitan fixation on money and commerce and its non-stop miscegenating brainwashing, is, as such, preeminently a product of this postwar system that emerged from the destruction of Central Europe and from America’s Jewish/capitalist-inspired extirpation of its European Christian roots.[2]

The fate of white America, it follows, is closely linked to the “order” the United States imposed on the “Free World” after 1945 and on the rest of the world after 1989. This was especially evident in the recent resistance of the American “people” to Obama’s flirtation with World War III – a resistance obviously emboldened by the mounting international resistance to Washington’s imperial arrogance, as it (this resistance) momentarily converged with the worldwide Aurora Movements resisting the scorch-earth campaigns associated with US power.[3]

***

Everyone on our side recognizes the ethnocidal implications of America’s world order, but few, I suspect, understand its civilizational implications as well as Russia’s Vladimir Putin.

On September 19, barely a week after our brush with the Apocalypse, the Russian president delivered an address to the Valdai International Discussion Club (an international forum on Russia’s role in the world), which highlighted the extreme degree to which Putin’s vision of world order differs from that of Obama and the American establishment.[4] Indeed, Putin’s entire line of thought, in its grasp of the fundamental challenges of our age, is unlike anything to be found in the discourse of the Western political classes (though from the misleading reports in the MSM on his Valdai address this would never be known).[5]

Putin, to be sure, is no White Nationalist and thus no proponent of a racially-homogenous ethnostate. This makes him like everyone else. Except Putin is not like everyone else, as we’ll see.

Certain East Europeans, instinctively anti-Russian, like our Cold War “conservatives,” refuse to appreciate Russia’s new international role because of historical grievances related to an earlier legacy of Tsarist or Soviet imperialism (though their grievances, they should know, bare little comparison to those “We Irish” hold against the English ruling class). In any case, such tribal grievances are not our concern, nor should they prevent the recognition that East Europeans and Russians, like Irish and English – and like all the national tribes belonging to that community of destiny distinct to the white man – share a common interest (a life-and-death interest) in being all prospective allies in the war against the globalist forces currently assaulting them in their native lands.

It’s not simply because Russia is anti-American that she is increasingly attractive to the conscious remnants of the European race in North America (though that might be reason enough). Rather it’s that Russia, in defying the globalist forces and reaffirming the primacy of her heritage and identity, stands today for principles that lend international legitimacy – and hence a modicum of power – to patriots everywhere resisting the enemies of their blood.

***

Qualitative differences of world-shaping consequence now clearly separate Russians and Americans on virtually every key issue of our age (more so than during the Cold War) – differences in my view that mark the divide between the forces of white preservation and those of white replacement, and, more generally, between the spirit of European man and the materialist, miscegenating depravity of the US system, which approaches the whole world as if it were a flawed and irredeemable version of itself.

In this sense, the decline of American global power and the rising credibility of Russia’s alternative model can only enhance the power of European Americans, increasing their capacity to remain true to their self-identity. US imperial decline might even eventually give them a chance to take back some of the power that decides who they are.

Putin’s discourse at the Valdai Club addressed issues (to paraphrase) related to the values underpinning Russia’s development, the global processes affecting Russian national identity, the kind of 21st-century world Russians want to see, and what they can contribute to this future.

His responses to these issues were historically momentous in being unlike anything in the West today. Cynics, of course, will dismiss his address as mere PR, though the Russian leader has a documented history of saying what he thinks – and thus ought not be judged like American politicians, who say only what’s on the teleprompter and then simply for the sake of spin and simulacra.

Foremost of Russia’s concerns, as Putin defined it in his address to the club’s plenary session, is “the problem of remaining Russian in a globalizing world hostile to national identity.” “For us (and I am talking about Russians and Russia), questions about who we are and who we want to be are increasingly prominent in our society.” In a word, Putin sees identitarianism as the central concern of Russia’s “state-civilization,” (something quite staggering when you consider that the very term [“identitarianism”] was hardly known outside France when I started translating it a decade ago). Identitarianism in the 21st century may even, as Putin implies, prove to be what nationalism and socialism were to the 20th century: the great alternative to liberal nihilism.

Like Bush, Clinton, or other US flim-flam artists, Obama could conceivably mouth a similar defense of national identity if the occasion demanded it, but never, not in a thousand years, could he share the sentiment motivating it, namely the sense that: “It is impossible to move forward without spiritual, cultural, and national self-determination. Without this we will not be able to withstand internal and external challenges, nor will we succeed in global competitions.”[6]

The operative term here is “spiritual, cultural and national self-determination” – not diversity, universalism, or some putative human right; not even money and missiles – for in Putin’s vision, Russia’s historical national, cultural, and spiritual identities are the alpha and omega of Russian policy. Without these identities and the spirit animating them, Russia would cease to be Russia; she would be nothing – except another clone of America’s supermarket culture. With her identity affirmed, as recent events suggest, Russia again becomes a great power in the world.

The question of self-determination is necessarily central to the anti-identitarianism of our global, boundary-destroying age. According to Putin, Russia’s national identity

is experiencing not only objective pressures stemming from globalisation, but also the consequences of the national catastrophes of the twentieth century, when we experienced the collapse of our state two different times [1917 and 1991]. The result was a devastating blow to our nation’s cultural and spiritual codes; we were faced with the disruption of traditions and the consonance of history, with the demoralisation of society, with a deficit of trust and responsibility. These are the root causes of many pressing problems we face.

Then, following the Soviet collapse of 1991, Putin says:

There was the illusion that a new national ideology, a development ideology [promoted by Wall Street and certain free-market economists with Jewish names], would simply appear by itself. The state, authorities, intellectual and political classes virtually rejected engaging in this work, all the more so since previous, semi-official ideology was hard to swallow. And in fact they were all simply afraid to even broach the subject. In addition, the lack of a national idea stemming from a national identity profited the quasi-colonial element of the elite – those determined to steal and remove capital, and who did not link their future to that of the country, the place where they earned their money.

Putin here has obviously drawn certain traditionalist conclusions from the failings of the former Communist experiment, as well as from capitalism’s present globalizing course.

A new national idea does not simply appear, nor does it develop according to market rules. A spontaneously constructed state and society does not work, and neither does mechanically copying other countries’ experiences. Such primitive borrowing and attempts to civilize Russia from abroad were not accepted by an absolute majority of our people. This is because the desire for independence and sovereignty in spiritual, ideological and foreign policy spheres is an integral part of our national character . . . [It’s an integral part of every true nation.]

The former Communist KGB officer (historical irony of historical ironies) stands here on the stump of that political/cultural resistance born in reaction to the French Revolution and its destruction of historical organisms.

In developing new strategies to preserve Russian identity in a rapidly changing world, Putin similarly rejects the tabula rasa contentions of the reigning liberalism, which holds that you can “flip or even kick the country’s future like a football, plunging into unbridled nihilism, consumerism, criticism of anything and everything . . .” [Like Burke, he in effect condemns the “junto of robbers” seeking to rip the traditional social fabric for the sake of short term profit, as these money-grubbers prepare the very revolution they dred.]

Programmatically, this means:

Russia’s sovereignty, independence and territorial integrity [against which America’s counter-civilizational system relentlessly schemes] are unconditional. These are red lines no one is allowed to cross. For all the differences in our views, debates about identity and about our national future are impossible unless their participants are patriotic.” [That is, only Russians, not Washington or New York, ought to have a say in determining who or what a Russian is.]

Self-criticism is necessary, but without a sense of self-worth, or love for our Fatherland, such criticism becomes humiliating and counterproductive. [These sorts of havoc-wreaking critiques are evident today in every Western land. Without loyalty to a heritage based on blood and spirit, Russians would be cast adrift in a historyless stream, like Americans and Europeans.] We must be proud of our history, and we have things to be proud of. Our entire, uncensored history must be a part of Russian identity. Without recognising this it is impossible to establish mutual trust and allow society to move forward. . .

The challenges to Russia’s identity, he specifies, are

linked to events taking place in the world [especially economic globalization and its accompanying destruction of traditional life]. Here there are both foreign policy and moral aspects. We can see how many of the Euro-Atlantic countries are actually rejecting their roots, including the Christian values that constitute the basis of Western civilisation. They are denying moral principles and all traditional identities: national, cultural, religious, and even sexual. They are implementing policies that equate large families with same-sex partnerships, belief in God with the belief in Satan.

The excesses of political correctness have reached the point where people are seriously talking about registering political parties whose aim is to promote paedophilia. People in many European countries are embarrassed or afraid to talk about their religious affiliations. Holidays are abolished or even called something different; their essence is hidden away, as is their moral foundation. And people [i.e., the Americans and their vassals] are aggressively trying to export this model all over the world. I am convinced that this opens a direct path to degradation and primitivism, resulting in a profound demographic and moral crisis. [Hence, the US-sponsored desecrations of Pussy Riot.]

What else but the loss of the ability to self-reproduce could act as the greatest testimony of the moral crisis facing a human society? Today almost all developed nations [infected with the system’s counter-civilizational ethos] are no longer able to reproduce themselves, even with the help of migration. Without the values embedded in Christianity and other world religions, without the standards of morality that have taken shape over millennia, people will inevitably lose their human dignity. We consider it natural and right to defend these values. One must respect every minority’s right to be different, but the rights of the majority must not be put into question.

Tolerant and pluralist though he is here, Putin nevertheless affirms the primacy of Russia herself. Our politicians get this 100 percent wrong, Putin only 50 percent – which puts him at the head of the class.

At the same time we see attempts to somehow revive a standardized [i.e., Americanized] model of a unipolar world and to blur the institutions of international law and national sovereignty. Such a unipolar, standardised world does not require sovereign states; it requires vassals. In a historical sense this amounts to a rejection of one’s own identity, of the God-given diversity of the world.

Russia agrees with those who believe that key decisions should be worked out on a collective basis, rather than at the discretion of and in the interests of certain countries or groups of countries. Russia believes that international law, not the right of the strong, must apply. And we believe that every country, every nation is not exceptional [as the Americans think they are], but unique, original, and benefits from equal rights, including the right to independently choose their own development path . . .

This is our conceptual outlook, and it follows from our own historical destiny and Russia’s role in global politics. [Instead, then, of succumbing to America’s suburban consumer culture and its larger dictates, Russia seeks to preserve her own identity and independence.]

Our present position has deep historical roots. Russia itself has evolved on the basis of diversity, harmony and balance, and brings such a balance to the international stage.

The grandeur of Putin’s assertion here has to be savored: against the latest marketing or policy scheme the US tries to impose on Russia, he advances his queen, pointing to a thousand years of Russian history, as he disperses America’s corrupting ploys with a dismissive smirk.

Though seeing Russia as a multiethnic/multi-confessional state that has historically recognized the rights of minorities, he insists she must remain Russian:

Russia – as philosopher Konstantin Leontyev vividly put it – has always evolved in ‘blossoming complexity’ as a state-civilisation, reinforced by the Russian people, Russian language, Russian culture, Russian Orthodox Church and the country’s other traditional religions. It is precisely the state-civilisation model that has shaped our state polity….

Thus it is that Russians, among other things, “must restore the role of great Russian culture and literature. . . to serve as the foundation for people’s personal identity, the source of their uniqueness, and their basis for understanding the national idea. . .” Following Yeats, he might have added that the arts dream of “what is to come,” providing Russians new ways of realizing or re-inventing themselves.

I want to stress again that without focusing our efforts on people’s education and health, creating mutual responsibility between the authorities and each individual, and establishing trust within society, we will be losers in the competition of history. Russia’s citizens must feel that they are the responsible owners of their country, region, hometown, property, belongings and their lives. A citizen is someone who is capable of independently managing his or her own affairs . . .

Think of how the “democratic” powers of the Americanosphere now hound and persecute whoever insists on managing his own affairs: e.g., Greece’s Golden Dawn.

The years after 1991 are often referred to as the post-Soviet era. We have lived through and overcome that turbulent, dramatic period. Russia has passed through these trials and tribulations and is returning to herself, to her own history, just as she did at other points in its history. [This forward-looking orientation rooted in a filial loyalty to the Russian past makes Putin something of an archeofuturist.] After consolidating our national identity, strengthening our roots, and remaining open and receptive to the best ideas and practices of the East and the West, we must and will move forward.

***

As an ethnonationalist concerned with the preservation and renaissance of my own people, I hope Russia succeeds not only in defending her national identity (and ideally that of others), but in breaking America’s anti-identitarian grip on Europe, so as to insure the possibility of a future Euro-Russian imperium federating the closely related white, Christian peoples, whose lands stretch from the Atlantic to the Urals.

But even barring this, Russia’s resistance to the ethnocidal forces of the US global system, will continue to play a major role in enabling European Americans trapped in the belly of the beast to better defend their own blood and spirit.

And even if Europeans should persist in their servility and the United States continues to lead its “mother soil and father culture” into the abyss, Russians under Putin will at least retain some chance of remaining themselves – which is something no mainstream American or European politician seeks for his people.

If only for this reason, I think there can never be “too much Putin,” as our Russophobes fear.

Notes

1. Desmond Fennell, Uncertain Dawn: Hiroshima and the Beginning of Post-Western Civilization (Dublin: Sanas, 1996); Julius Evola, “Disraeli the Jew and the Empire of the Shopkeepers” (1940), http://thompkins_cariou.tripod.com/id34.html [2].

2. “Boreas Rising: White Nationalism and the Geopolitics of the Paris-Berlin-Moscow Axis [3]” (2005).

3. “Against the Armies of the Night: The Aurora Movements [4]” (2010).

4. President of Russia, “Address to the Valdai International Discussion Club” September 19, 2013. http://eng.news.kremlin.ru/transcripts/6007/print [5]. (I have made several grammatical and stylistic changes to the translation.)

5. Much of my understanding of this comes from Dedefensa, “Poutine, la Russie et le sens de la crise” (September 23, 2013) at http://www.dedefensa.org/article-poutine_la_russie_et_le_sens_de_la_crise_23_09_2013.html [6].

6. Samuel P. Huntington was the last major representative of the US elite to uphold a view even vaguely affirmative of the nation’s historical culture – and he caught hell for see. Who Are We?: The Challenges to America’s National Identity (New York: Simon & Schuster, 2005).


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[3] Boreas Rising: White Nationalism and the Geopolitics of the Paris-Berlin-Moscow Axis: http://www.counter-currents.com/2011/08/boreas-risingwhite-nationalism-the-geopolitics-of-the-paris-berlin-moscow-axis-part-1/

[4] Against the Armies of the Night: The Aurora Movements: http://www.counter-currents.com/2010/07/against-the-armies-of-the-night/

[5] http://eng.news.kremlin.ru/transcripts/6007/print: http://eng.news.kremlin.ru/transcripts/6007/print

[6] http://www.dedefensa.org/article-poutine_la_russie_et_le_sens_de_la_crise_23_09_2013.html: http://www.dedefensa.org/article-poutine_la_russie_et_le_sens_de_la_crise_23_09_2013.html

jeudi, 10 octobre 2013

LE ELEZIONI TEDESCHE E LA POLITICA ESTERA

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LE ELEZIONI TEDESCHE E LA POLITICA ESTERA

Marco Zenoni

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Il 22 settembre scorso si sono tenute in Germania le elezioni per il rinnovo del 18° Bundestag. Le elezioni, seguite in tutto il mondo con una certa attenzione vista l’importanza crescente della Federazione tedesca nell’equilibrio economico e politico globale, hanno portato dei risultati da un lato inattesi, dall’altro prevedibili. Inattesa, ad esempio, è stata l’esclusione del Partito Liberal Democratico (Freie Demokratische Partei), un partito storico nel paese, che per anni ha avuto un importante ruolo di sostegno ai governi succedutesi al parlamento tedesco. Dagli anni ’90 era inoltre divenuto un importante alleato della CDU (Cristilich Demokratische Union Deutschland). L’esclusione del FDP dal parlamento tedesco implica dei cambiamenti nel nuovo esecutivo; il ministero degli esteri del passato governo Merkel era infatti tenuto da Guido Westerwelle, membro del partito liberal democratico. Altra esclusione, meno sorprendente, è quella dell’Alternative Fur Deutschland, il partito degli “euroscettici” che si pensava avrebbe potuto rosicchiare qualche voto alla CDU, costringendo quest’ultima a rivedere in parte le proprie politiche europeiste. Di fatto, pare invece che l’AFD abbia tolto voti decisivi proprio al partito liberal democratico.

Il risultato è dunque una vittoria della politica europeista “del rigore” promossa da Angela Merkel. La maggioranza ottenuta dalla coalizione CDU/CSU non si è rivelata tuttavia sufficiente ad un governo solitario, ed anche questa volta, per la formazione del governo, sarà necessaria la collaborazione di altri partiti. Secondo i maggiori analisti è certa la formazione della cosiddetta “Großer Koalition [1]” (la grande coalizione), ovvero una coalizione tra Socialdemocratici (SPD) e CDU. L’SPD, nonostante il netto ridimensionamento (25,7% il risultato, contro il 42,5% della CDU), avrà dunque con alta probabilità un ruolo importante nel prossimo governo, il cui insediamento si prevede andrà per le lunghe. L’alternativa resta un governo sostenuto dai Verdi, un’opportunità non del tutto rigettata ma sicuramente secondaria. Il ripiego su quest’ultimi potrebbe esclusivamente essere dovuto ad un eccessivo irrigidimento da parte della SPD, a cui l’ultima “Großer Koalition [1]” è costata l’attuale sostanzioso ridimensionamento. I dirigenti del partito Socialdemocratico hanno infatti dichiarato che questa volta una coalizione si potrà fare solo attraverso una decisa convergenza di obiettivi, e non rinunciando a fondamentali prerogative.
Il risultato dunque, è la stabilità. E’ molto probabile che non si vedranno cambiamenti sostanziosi nella politica tedesca, né nei confronti dell’Unione Europea, né rispetto alle questioni economiche e politiche globali. Vale la pena dunque di analizzare quali sono le proposte in materia di politica estera da parte dei due principali schieramenti, e quale è stata la politica estera effettiva dell’ultimo governo, politica che probabilmente non muterà. Nonostante la politica estera non abbia avuto un peso centrale nella campagna elettorale, se si esclude la questione europea, entrambi i partiti hanno delle proposte chiare in merito.

In sostanza, non sono molte le differenze fra i due programmi. In entrambi il punto centrale sembra essere la “sicurezza”, intesa come stabilità e cooperazione a vantaggio reciproco. Il programma della politica estera della CDU esordisce con un “il mondo bipolare è finito” e da qui muove alcune importanti considerazioni, economiche prima di tutto[1]. “Senza sicurezza non c’è sviluppo, e senza sviluppo non c’è sicurezza”, si potrebbe riassumere così la proposta politica del partito della Merkel, attento a cogliere ogni cambiamento in atto, e interessato a coglierne i frutti. Si muove dunque sempre da concezioni meramente economiche, sulla linea della stabilità e della cooperazione. Se quindi viene dato un peso centrale ai BRICS, a Russia e Cina in particolare, allo stesso tempo viene ribadita l’indiscutibilità dei rapporti con gli Stati Uniti e in particolare del ruolo della NATO. Per quanto riguarda la regione mediterranea e i mutamenti in atto, anche qui viene promossa la stabilità, la collaborazione con l’Unione Africana, la promozione dell’Islam moderato e l’intransigenza nei confronti dell’estremismo islamico. Se c’è una differenza, pur lieve, tra i programmi dei due partiti, questa è la centralità data agli Stati Uniti. Nel programma della CDU si legge un elogio degli Stati Uniti come “liberatori” dell’Europa dal giogo comunista e nazista, si ribadisce l’amicizia con Washington e l’intenzione di intensificare l’integrazione economica e l’interscambio commerciale. L’SPD, pur ribadendo a sua volta l’importanza dell’asse atlantico, sottolinea l’importanza dell’Asia, promuove l’intensificazione dei rapporti fra questa e l’Unione Europea. Allo stesso modo viene espressa la consapevolezza del ruolo positivo svolto dalla Cina nel continente africano, attraverso un efficiente dinamismo economico. Nel programma della SPD  inoltre vi è un chiaro riferimento alla questione siriana. La soluzione, viene scritto, può essere solo diplomatica, e non militare. L’uso della forza non viene ritenuta una soluzione adeguata. E’ inoltre necessario sostenere gli Stati arabi “in transizione”[2]. Un’ultima differenza, non di meno conto, è la posizione riguardo all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, una questione centrale se si considera il numero di immigrati turchi in Germania. Mentre infatti la CDU si oppone all’ingresso, promuovendo comunque la cooperazione economica, l’SPD si dice favorevole anche all’effettivo ingresso, affiancata in questo anche da Verdi e Die Linke[3].
Queste dunque le linee su cui si muoverà la Germania del futuro. In perfetta coerenza con quella politica cauta e quel paziente e intenso lavoro diplomatico svolto negli ultimi anni. Nessun sensibile cambiamento di rotta dunque.

Detto di quella che sarà la politica estera tedesca, vale la pena di muovere qualche passo indietro e analizzare quella che è stata la proiezione esterna della Germania negli ultimi anni di governo Merkel.

Unione Europea

La politica nei confronti dell’Unione Europea negli ultimi anni non è assolutamente mutata. La posizione resta quella dell’intransigenza e del rigore economico, nonostante l’ambiguità cui questa politica conduce. La Germania ha infatti bisogno di un’Unione Europea globalmente stabile e economicamente competitiva, seppur il rigore promosso dalla CDU non faccia che aggravare le condizioni economico-finanziarie dei paesi periferici (i cosiddetti PIIGS). Se infatti il rapporto economico con i paesi emergenti va rafforzandosi, l’export nella regione europea rimane fondamentale. Il che suggerirebbe una politica più morbida nei confronti dei vicini europei, oltre ad una cooperazione al fine di stabilizzare le economie e promuoverne lo sviluppo. Politiche finora accantonate dalla CDU. In questo senso un ingresso in parlamento dell’AFD avrebbe probabilmente potuto portare se non altro ad un leggero cambiamento, ammesso che il partito degli economisti, guidato da Bernard Lucke, avrebbe potuto avere un seppur minimo ruolo all’interno di un ipotetico governo. A queste ambiguità si aggiunga il totale disaccordo sulla proiezione esterna dell’Unione Europea, affrontata in modo diverso, se non opposto, dalle principali potenze europee. Basta vedere la netta opposizione tra la Francia e la Germania (rapporto che fra l’altro va indebolendosi anche a causa del rallentamento economico dei primi) sulle questioni della regione mediterranea, quella siriana su tutte. Francois Hollande è infatti stato sin da subito tra i più grandi sostenitori dell’intervento armato in Siria, mentre Angela Merkel si è sempre detta contraria a questa opzione, nonostante le recenti aperture al G20, dove comunque non è stato menzionato l’uso della forza.

ONU e missioni internazionali

L’ONU è il meccanismo diplomatico in cui la Germania si confronta ed impegna maggiormente, in piena coerenza con la ricerca di stabilità e cooperazione promossa negli ultimi anni. Da anni ormai la Germania chiede un seggio permanente in seno al consiglio di sicurezza, in virtù anche dell’apporto dato dal paese alle Nazioni Unite: con l’8% circa del contributo al budget dell’organismo, la Germania è infatti il terzo contribuente in assoluto, oltre a coprire finanziariamente per l’8% delle missioni di peacekeeping [4]. A ciò si aggiunga che tutt’ora la Germania è impegnata in Kosovo attraverso la missione internazionale KFOR, in Afghanistan con l’ISAF (missione questa per conto della NATO) e con l’UNIFIL, missione di peacekeeping in Libano.
La Germania partecipa esclusivamente a missioni a basso rischio e solo per missioni di pace. Un “pacifismo” spesso criticato all’interno della NATO, nonostante in Afghanistan la Germania abbia in impiego 4.100 soldati, 35 i morti totali nel corso degli anni[5].
D’altronde il ministro degli esteri in uscita, Guido Westerwelle, si disse a suo tempo contrario sia all’UNIFIL che all’intervento in Libia, cui infatti la Germania non ha partecipato. Stesso discorso vale per la Siria, altro paese in cui l’intervento viene fermamente condannato dal governo tedesco, nonostante Westerwelle stesso abbia dichiarato di non aver apprezzato alcuni atteggiamenti di Cina e Russia nel consiglio di sicurezza[6].

Stati Uniti

Seppur i rapporti con l’alleato d’oltreoceano non siano mai stati messi in discussione, le questioni recentemente emerse hanno senz’altro portato a qualche ripensamento. Prima di tutto, la Germania considera evidenti gli errori commessi dagli Stati Uniti negli ultimi anni (intervento in Iraq, in Libia, ad esempio). Ma il punto cruciale, non di rottura ma senz’altro uno scossone, è stata la questione dello spionaggio. Dopo lo scandalo della NSA infatti, la Germania ha cancellato il patto ormai cinquantennale di sorveglianza (patto firmato da Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti). La Germania d’altronde si è scoperta come il paese europeo più spiato dall’alleato, e questo non è certamente un caso. E’ infatti risaputo il timore che si prova a Washington nei confronti della crescita economica tedesca, una crescita che finora rimane nei ranghi designati, ma che presto si troverà a doversi confrontare con delle scelte, inevitabilmente. Anche la recente amicizia fra Germania e Cina non è certo vista di buon occhio dagli Stati Uniti. Nonostante ciò Westerwelle stesso ha ribadito che con gli Stati Uniti gli interessi condivisi sono fin troppi per poter solo considerare una pur tiepida rottura. L’irrisolta questione siriana, l’espansione economica tedesca e la sempre maggior cooperazione con Russia e Cina avranno sicuramente come conseguenza qualche riflessione da parte di entrambi gli schieramenti.

Cina

Se per gli Stati Uniti la Germania come alleato, pur vacillando, rimane una sicurezza indipendentemente dal cancelliere insediato, la Cina ha guardato con apprensione alle recenti elezioni[7]. Secondo alcuni politologi cinesi infatti, il Partito Comunista Cinese temeva che una (seppur improbabile) vittoria da parte del centro-sinistra, con la formazione di un governo sostenuto potenzialmente da Verdi e Linke, avrebbe potuto portare alla ribalta alcune delle tematiche tradizionalmente portate avanti dall’occidente nel tentativo di penetrare negli affari interni cinesi, una su tutte la questione dell’indipendenza tibetana, un tasto su cui la Cina non ha intenzione trattare. Anche con il governo Merkel non sono tuttavia mancate le frizioni, ad esempio nel 2007, quando la cancelliera ricevette a Berlino il Dalai Lama, una provocazione agli occhi del governo cinese. Nonostante queste frizioni, il lavoro, considerato pragmatico, del governo tedesco viene visto positivamente dalla Cina e il rapporto fra i due paesi, già decisamente migliorato, sembra andare in direzione di un’ulteriore cooperazione, non solo in campo economico, seppur sia questo il settore preponderante.

Tenuta dunque considerazione di quella che finora è stata la politica tedesca e di quello che è il programma dei due principali partiti è senz’altro difficile prevedere drastici cambiamenti di rotta. Nonostante ciò, il nuovo governo si troverà comunque ad affrontare un equilibrio geopolitico in mutamento, un mutamento sostanziale che non potrà essere trascurato dal governo tedesco. Sarà dunque interessante vedere come risponderà la Germania alle problematiche che presto si presenteranno.

*Marco Zenoni è laureando in Relazioni Internazionali all’Università di Perugia


[1] Programma politico della CDU, consultabile online.
[2] Programma politico dell’SPD, consultabile online.
[3] http://temi.repubblica.it/limes/la-germania-al-voto-si-interroga-sul-suo-ruolo-nel-mondo/51996 [2]
[4] http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/europa/la-politica-estera-della-germania-9018 [3]
[5] Ibidem
[6] http://www.spiegel.de/international/world/interview-with-german-foreign-minister-guido-westerwelle-a-900611.html [4]
[7] http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/europa/la-politica-estera-della-germania-9018 [3]

 


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[2] http://temi.repubblica.it/limes/la-germania-al-voto-si-interroga-sul-suo-ruolo-nel-mondo/51996: http://temi.repubblica.it/limes/la-germania-al-voto-si-interroga-sul-suo-ruolo-nel-mondo/51996

[3] http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/europa/la-politica-estera-della-germania-9018: http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/europa/la-politica-estera-della-germania-9018

[4] http://www.spiegel.de/international/world/interview-with-german-foreign-minister-guido-westerwelle-a-900611.html: http://www.spiegel.de/international/world/interview-with-german-foreign-minister-guido-westerwelle-a-900611.html

[5]

La finance-Système réduite au Saudi Arabia Dream

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La finance-Système réduite au Saudi Arabia Dream

Ex: http://www.dedefensa.org

L’explication technique et savante des arcanes extraordinaires de la situation du monde de la finance-Système, dont le centre est évidemment américaniste, a régulièrement échoué à nous en donner une perception à la fois simple et claire. Cela vaut essentiellement depuis l’événement de l’automne 2008 qui était en lui-même extraordinaire, et qui a entraîné des développements eux-mêmes extraordinaires, faisant évoluer la crise de ce qui paraissait un accident très grave (selon la perception rassurante que le Système voulait en donner) en un phénomène inscrit dans l’infrastructure crisique, c’est-à-dire une situation de crise permanente où ce que la raison perçoit comme extraordinaire dans le sens de monstrueux est devenu la norme de l’évolution.

On comprend qu’aujourd’hui cette question de la perception et de la “compréhension” plutôt symbolique de cette situation crisique infrastructurelle est plus insistante que jamais, alors que Washington est en crise de government shutdown et s’approche du moment où, paraît-il, se posera l’autre question institutionnelle du relèvement du plafond de la dette. (En principe le 17 octobre, mais rien n’est plus incertain que la prévision datée, aujourd’hui, d’une semaione à l’autre.) Le département US du trésor fait son travail, qui est technique mais a aussi dimension politicienne en ajoutant un élément de pression sur les protagonistes de la crise government shutdown, essentiellement les républicains adversaires d’Obama, pour qu’ils cèdent devant la perspective ; la dite perspective, par rapport à la dette, étant décrite évidemment comme apocalyptique, – ce qui n’est, après tout, qu’un risque prévisionnel mineur dans le cadre crisique où nous vivotons.

«The federal government is expected to exhaust its cash reserves by October 17 and if US lawmakers do not reach an agreement to raise the nation’s debt ceiling, the government will not be able to pay its bills and will default on its legal obligations. “In the event that a debt limit impasse were to lead to a default, it could have a catastrophic effect on not just financial markets but also on job creation, consumer spending and economic growth,” said the Treasury in a report on Thursday. “Credit markets could freeze, the value of the dollar could plummet, US interest rates could skyrocket, the negative spillovers could reverberate around the world, and there might be a financial crisis and recession that could echo the events of 2008 or worse,” warned the Treasury.» (PressTV.ir, le 3 octobre 2013.)

Les analyses financières et économistes abondent, la plupart étant sur fond prospectif d’effondrement et selon des mécanismes viciés, pervers, etc., pour pouvoir donner une explication satisfaisante d’une situation marquées par des déséquilibres colossaux, jusqu’au plus basique d’entre tous qui est l’inégalité engendrant un déséquilibre phénoménal entre l’extrême minorité des riches et l’extrême majorité des pauvres, – le fameux symbole des 1% versus les 99%. Ce “déséquilibre colossal”-là n’a jamais été aussi grand selon l’histoire statistique du domaine. (On vient de dépasser les pires situations statistiques de l’inégalité riches-pauvres, datant des années 1920 aux USA.) Finalement, ces diverses et très nombreuses supputations et analyses, chacune avec leur allant et leur apparente rationalité, toutes avec leur langage assuré du jugement à qui on ne la fait pas, ne donnent pas une image satisfaisante de la situation. Il leur manque l’ampleur, la représentation concrète acceptable, c’est-à-dire ce qui nourrit le jugement d’une manifestation assez claire de l’écho d’une certaine vérité de la situation. Cette faiblesse est aujourd’hui mise en lumière par la pression des événements, c’est-à-dire de la crise washingtonienne qui comprend évidemment des éléments techniques du domaine financier et des facteurs économiques fondamentaux, mais qui renvoie également à d’autres domaines, politiques, sociaux et psychologiques, essentiellement dans le domaine du système de la communication pour leur exposition.

Ainsi nous semble-t-il qu’une description imagée, hyperbolique et symbolique à la fois, avec des références et des analogies nourries de concepts généraux non-financiers qui nous sont familiers, permet de mieux saisir l’ampleur des déséquilibres et des déformations monstrueuses de la situation. Un document qui va dans ce sens, du fait de la verve imagée de la personne concernée, est une interview de Max Keyser, spécialiste boursier et spécialiste des aspects absolument virtualistes de la situation financière ; et aussi, essentiellement présentateur de l’émission Keyser Report de la station Russia Today, qui lui fait obligation de s’exprimer en langage imagé et effectivement hyperbolique et symbolique. Cette interview a été diffusée sur Russia Today le 3 octobre 2013 et nous en reproduisons les passages justement non-techniques, où la description de l’ensemble-Système économico-financier fait appel à des notions hors de la technique financière. On a ainsi, à notre sens une meilleure appréciation de la situation.

Russia Today : «There’s a lot of hype and some would say overreaction around all of this but the tell-tale sign is the markets. They haven’t reacted negatively. Is there really a crisis here?»

Max Keyser : «I think we should take the words of Warren Buffet to heart. He basically described the Federal Reserve Bank and the American economy as one giant hedge fund. And he is absolutely correct. [...] Remember America is run by what I call financial jihadists who are basically suicide bankers. Warren Buffett, of course, is one of these suicide bankers and America, from the outside of course, looks like they’re trying to commit financial suicide. But that’s what a financial jihadist does, or a suicide banker. They blow themselves up for their cause and in this case it’s market fundamentalism, a belief in the profit – not the prophet.»

Russia Today : « But other tell-tale signs of the economy improving are there, Max. Are we to believe the economic indicators which suggest the US economy is on the up?»

Max Keyser : « [...] ... What will happen here – this is the outcome, there’s two outcomes – either the Federal Reserve Bank will increase their monthly buyback of bonds from $85 billion a month to $120 or $130 billion a month, or America defaults on its sovereign debt like it did in 1971 when it closed the gold window. Those are the two outcomes. So what we see here is jockeying between these two powerful sources in Washington, Congress, and the Senate. By the way - they all own stocks. Insider trading is legal. They’re all trading this information, they’re on their little phones and they’re trading stocks up and down and making money at the expense of the American people because they are financial terrorists as well. Financial terrorists have captured the American economy. I mean that’s plain and simple. Warren Buffet hit the nail on the head – America is just one giant hedge fund.»

Russia Today : «But they will raise the debt ceiling won’t they? Or will they not, because Obama is clearly worried about that? They’re arguing about Obama’s health care. What’s going to happen with that crisis?»

Max Keyser : «[...] ... That’s the insider’s scoop; I’m telling you how to make money on this façade, this Kabuki theater that has become America. America is the most watched soap opera in the world right now; it’s a huge hedge fund. You’ve got CNBC covering it like it’s an episode from “Breaking Bad,” the popular show about methamphetamine on cable TV. Ben Bernake and Barack Obama, you can almost picture them in the back room cooking up some meth and selling it on the street to finance their habit, which is defense spending, torture, extraordinary rendition, bombing people overseas, droning people that costs a lot of money. The only way they can finance that is by treating the entire economy like it’s a hedge fund where they just extract wealth second by second, manipulating markets, trading inside information. JP Morgan, Lloyd Blankfein, HSBC, Barclays, inside trading, market manipulation; they’ve been caught at it time and time again. Laundering money from drug cartels in the face of HSBC over and over again. It’s just drugs, insider trading, market manipulation, and Warren Buffett. That’s all that’s left in America.»

Russia Today : «You’re great with the plot lines so how is this particular episode going to end? The episode of the federal government shutdown. Is it going to end soon? Could it drag on for three weeks like we’ve seen in the past?»

Max Keyser : « A lot of people get hurt but the people in Washington consider the American public to be expendable. They don’t need the American public. They don’t need their taxes, they don’t need them working – because when they need money they just print it. It’s like Saudi Arabia in America. In Saudi Arabia when they need more money they just pump more oil. They don’t need the population, that’s why they live in destitute and why there’s so much poverty in Saudi Arabia. It’s the same thing in America – there’s a huge amount of poverty because... when they need some cash, they just get Ben Bernake to print it. It’s Saudi Arabia, it’s called the new American dream. The Saudi Arabian dream is alive in America.»

Ayant lu cette interview, vous ne savez absolument pas ce qui va se passer ; ou plutôt, nuance de taille et de bonne santé mentale, vous ne pouvez croire une seconde que vous savez absolument ce qui va se passer. Cela vous mettra temporairement dans une position d’infériorité lors de la conversation de salon ou de la discussion de café du jour, quand chacun affirme sa conviction et sa propre perspective pêchée chez son analyste préféré pour annoncer le futur catastrophique et immédiat. Ce n’est pas plus mal car personne, à notre sens, n’est évidemment capable d’une telle prévision, disons sur les quinze jours (passé le 17 octobre), ou même sur les trois prochains jours, sur la situation à Washington et le bouleversement mondial annoncé. Cela n’a aucune importance car nous n’avons pas à annoncer le bouleversement mondial, puisque nous sommes en son cœur, que nous l’expérimentons chaque jour, chaque minute, sans trop nous préoccuper de le savoir.

La description de Keyser est beaucoup plus intéressante parce qu’elle nous instruit sur l’essentiel en laissant l’accessoire (la prévision, dito la divination) à la salvatrice inconnaissance. Elle nous instruit sur la vérité du Système, qui singe les situations les plus abracadabrantesques nées du développement délirant de lui-même (le Système se singe lui-même), depuis 9/11 et surtout depuis l’automne 2008. Vous ne savez pas ce qui va se passer, – et, en cela, bien installé dans la lucidité, – mais vous avez une idée assez sympathique de la façon dont cette farce grotesque et eschatologique est en train de se dérouler. Vous savez au moins, ce qui est un sommet de l’art du grotesque eschatologique dont il importe d'être instruit, que l’American Dream s’est transmuté en Saudi Arabia Dream... Cela permet de continuer à rêver, occupation semble-t-il importante pour leurs psychologies endolories.

Arabische landen en Israël proberen samen toenadering VS tot Iran te stoppen

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Arabische landen en Israël proberen samen toenadering VS tot Iran te stoppen

Iraanse generaal: Obama heeft zich overgegeven

Na 5 jaar dreigen met militair ingrijpen kampt de Israëlische premier Netanyahu (hier tijdens zijn VN-toespraak eerder deze week) met een geloofwaardigheidsprobleem. Inzet: in Iran wordt Obama als krijgsgevangene van generaal Soleimani afgebeeld.

Het op het laatste moment annuleren van een ogenschijnlijk zekere Amerikaanse aanval op Syrië was een forse streep door de rekening van Saudi Arabië, de Arabische Golfstaten en Israël. De Arabieren en Israëliërs hebben dan ook de bijna onwaarschijnlijke stap gezet hun diplomatieke krachten te bundelen, om te voorkomen dat president Obama zijn toenadering tot Iran doorzet en definitief het omstreden Iraanse nucleaire programma accepteert.

Briljante Putin voorkomt oorlog

De landen op het Arabische schiereiland zijn aartsvijanden van Iran. Hetzelfde geldt voor de Joodse staat Israël. Omdat Syrië de krachtigste bondgenoot van de islamitische Republiek is, en beide landen samen de shi'itische terreurbeweging Hezbollah in Libanon steunen, lobbyden zowel de (soennitische, salafistische en wahabistische) Arabieren als de Israëliërs in Washington voor een militaire aanval op het regime van de Syrische president Assad.

De Russische president Vladimir Putin gooide echter roet in het eten met een voorstel dat best briljant mag worden genoemd. Mede door zijn eigen 'rode lijn', het gebruik van chemische wapens, zat Obama behoorlijk in de knel en kon hij, ondanks het massale verzet van het Congres en de Amerikaanse bevolking, weinig anders dan marineschepen en vliegtuigen bevelen zich gereed te maken voor de aanval op Syrië. Plotseling bood Putin hem echter een uitweg door Syrië over te halen akkoord te gaan met het vernietigen van het chemische wapenarsenaal. (3)

Wereld opgelucht, Israël en Arabieren niet blij

De wereld haalde opgelucht adem, zeker omdat veel analisten en Midden Oosten experts hadden voorspeld dat een aanval op Syrië wel eens een nieuwe grote regionale oorlog zou kunnen veroorzaken, en mogelijk zelfs de Derde Wereldoorlog. Zo'n omvangrijk militair conflict zou de genadeklap betekenen voor de toch al zeer wankele wereldeconomie.

De Arabieren en Israëliërs laten het er echter niet bij zitten, zeker niet nu president Obama tot hun afgrijzen openlijk toenadering zoekt tot Iran, en bereid lijkt om het omstreden nucleaire programma van het land te accepteren. Voor de duidelijkheid: het gaat niet om Irans recht op kernenergie, zoals de mullahs in Teheran voortdurend beweren. Zoals we onlangs opnieuw uitlegden is de uraniumverrijking tot 20%, wat bevestigd wordt door zowel het IAEA als Iraanse officials, totaal onnodig voor kernenergie, en dient -na verdere verrijking- enkel voor de productie van kernwapens.

Iran ontkende jarenlang uraniumverrijking

Wat de rest van de wereld gemakshalve ook vergeet is dat Iran jarenlang heeft ontkend dat het uranium verrijkte. Pas toen Westerse satellieten en inlichtingendiensten harde, onontkenbare bewijzen leverden, erkenden de leiders in Teheran plotseling dat ze in het geheim toch verrijkingsfabrieken hadden gebouwd, al haastten ze zich te verklaren dat deze enkel voor vreedzame doeleinden zouden worden gebruikt.

De huidige president Hassan Rouhani was 6 jaar geleden, toen nog hoofdonderhandelaar namens de islamitische Republiek, openlijk trots op het misleiden van het Westen, dat hij jarenlang aan het lijntje had weten te houden met de bewering dat Iran geen uranium verrijkte, terwijl er ondertussen op geheime locaties duizenden verrijkingscentrifuges werden geïnstalleerd.

Tellen we hier de regelmatige oorlogszuchtige taal van Iraanse militaire en geestelijke officials aan het adres van de Arabische Golfstaten en Israël bij op, dan wekt het geen verbazing dat de meeste landen in het Midden Oosten nauwelijks vertrouwen hebben in de plotselinge, zogenaamd goede bedoelingen van Iran.

Unieke samenwerking Arabische landen en Israël

Medewerkers van de Israëlische premier Netanyahu maakten gisteren bekend dat hoge officials uit Saudi Arabië en andere Arabische Golfstaten in Israël hebben overlegd over een gezamenlijke strategie, waarmee voorkomen moet worden dat Obama zijn softe benadering van Iran doorzet.

Nog nooit eerder vond er in de Joodse staat op zo'n hoog niveau overleg over samenwerking plaats tussen de Arabieren en Israëliërs, normaal gesproken vijanden van elkaar. Het is des te meer een overduidelijk signaal dat de Arabische oliestaten en Israël zeer ontevreden zijn over het wispelturige en onberekenbare beleid van president Obama.

Zorgen in Europa over nieuwe koers VS

Zelfs in het doorgaans zo passieve en timide Europa groeien de zorgen over Amerika's toenadering tot Iran. Duitse en Franse diplomaten drongen bij Israël zelfs op een harde opstelling aan, hopende dat Obama hiermee zou kunnen worden afgeremd. In sommige Europese landen dringt langzaam het besef door dat Obama hen slechts heeft gebruikt voor de jarenlange onderhandelingen met Iran, en hen nu laat vallen voor directe overeenkomsten met de theocratische leiders in Teheran.

Premier Netanyahu hield tijdens zijn recente VN-toespraak dan ook vast aan zijn eis dat Iran zijn nucleaire programma moet ontmantelen, en onderstreepte bovendien dat Israël nog steeds bereid is desnoods alleen in te grijpen. Ondanks het feit dat Iran hier de spot mee dreef -tenslotte dreigt Netanyahu hier al jaren mee, en heeft hij nog altijd niets gedaan-, zijn de shi'itische leiders wel degelijk bevreesd voor Israëls militaire macht.

Netanyahu's invloed in Washington tanende

Netanyahu's ferme taal was mogelijk nog meer aan het adres van het Witte Huis gericht. De Amerikaanse ambassadeur voor Israël, Dan Shapiro, was zichtbaar niet blij met de openlijke poging van de Israëlische premier om Obama's nieuwe Iranstrategie te dwarsbomen. De premier van de Joodse staat beseft echter dat hij Obama hoogstwaarschijnlijk niet van zijn nieuwe koers zal kunnen doen afzien, en verwacht dan ook dat de sancties tegen Iran -die het land op de rand van de afgrond hebben gebracht- binnenkort zullen worden verlicht.

De Israëlische leider ziet zich nu gesteld voor de lastige taak zijn tanende geloofwaardigheid, het gevolg van vijf jaar lang dreigen maar in werkelijkheid niets doen, te repareren. Of dat hem gaat lukken is maar de vraag, want nu het islamitische regime in Teheran tot de conclusie is gekomen dat een Amerikaanse aanval definitief van de baan is, vermoedt men dat ook Israël feitelijk heeft afgezien van militair ingrijpen. De komende tijd zal Iran dus proberen om de kloof tussen Israël en de VS verder te vergroten. (1)

Obama afgebeeld als krijgsgevangene van Iraanse generaal

De verzoenende taal van Obama tijdens zijn VN-toespraak vorige week wordt in Iran als een Amerikaanse nederlaag opgevat. De Iraanse Quds strijdkrachten publiceerden een foto van Obama in uniform, met zijn handen boven zijn hoofd als een krijgsgevangene. Boven hem het gezicht van de commandant van de Quds strijdkrachten, generaal Qasem Soleimani. De tekst op de afbeelding: 'In de niet al te verre toekomst - Eén Qasem Soleimani is genoeg voor al de vijanden van dit land.'

Bovendien voegde Seyed Hosseini, lid van de parlementaire commissie voor Nationale Veiligheid en Buitenlands Beleid, daar aan toe dat Iran weliswaar instemt met het Non-Proliferatieverdrag, maar nooit het aanvullende protocol zal ondertekenen. Dat betekent dat het IAEA geen toestemming krijgt om ter plekke te verifiëren of Iran zich inderdaad aan de regels houdt. Hosseini onderstreepte tevens dat Teheran geen enkele opschorting van het nucleaire programma zal accepteren.

Iran toont nieuwe raketten

Generaal Yahya Safavi, voormalig hoofdcommandant van de Revolutionaire Garde en thans speciaal adviseur van opperleider Ayatollah Khamenei, zei dat Amerika eindelijk begrijpt dat het 'niet op kan tegen het machtige Iran. Natuurlijk zal Iran agressief zijn eisen aan Amerika blijven stellen.'

Enkele weken geleden toonde het islamitische regime tijdens een militaire parade vol trots 30 nieuwe ballistische raketten met een bereik van 2000 kilometer. Deze raketten kunnen -behalve natuurlijk Israël- heel het Midden Oosten bereiken, en ook de Europese hoofdsteden Athene, Boekarest en Moskou. De Iraanse leiders verklaarden vol bravoure dat de Iraanse militaire kracht de machtsbalans in het Midden Oosten en zelfs de wereld zal veranderen. (2)

Hoog explosief kruitvat

De hele regio is hoe dan ook één groot hoogexplosief kruitvat, waar verschillende (wereld)machten een complex geopolitiek schaakspel tegen elkaar spelen, waarvan de uitkomst ongewis is - behalve dat eigenlijk alle analisten verwachten dat vroeg of laat de vlam in de pan zal slaan. Eén van de belangrijkste, in de media vrijwel onbelichte beweegreden is de controle over olie en gas, en daarmee over energie en miljardeninkomsten (zie linken onderaan voor meer uitleg). Voorlopig lijkt het blok Rusland-Iran-Irak-Syrië-Hezbollah de eerste slag te hebben gewonnen van het blok VS-Europa-Saudi Arabië-Golfstaten-Turkije-Israël.


Xander

(1) DEBKA
(2) World Net Daily
(3) KOPP

Zie ook o.a.:

01-10: Iran heeft nog voor drie maanden geld en staat op instorten
29-09: 'Israël wordt uitgelokt tot nieuwe preventieve aanval in Syrië'
26-09: CIA-klokkenluider: VS levert rechtstreeks wapens aan Al-Qaeda
25-09: Iraanse president Rohani openlijk trots op misleiden Westen
20-09: Turkije erkent leveren wapens aan Al-Qaeda en wil oorlog tegen Syrië
20-09: Deal Amerika-Rusland over Syrische chemische wapens wankelt (/ Obama schrapt wet die leveren wapens aan Al-Qaeda verbiedt)
15-09: Syrische rebellen passen Nazi-methoden toe bij afdwingen Sharia (/ Rebellen woedend dat VS geen oorlog tegen Assad begint)
14-09: Inlichtingen-insider: Mogelijk alsnog oorlog tegen Syrië door enorme false-flag aanslag
08-09: (/ Uitvoerig bewijs dat chemische aanval een provocatie van door Turkije en Saudi Arabië gesteunde oppositie was
06-09: VS, Rusland en China bereid tot oorlog over Syrië om controle over gas en olie (/ 'Rusland valt Saudi Arabië aan als Amerika ingrijpt in Syrië')
02-09: (/ Saudi Arabië en Golfstaten eisen massale aanval op Syrië)
02-08: Nieuwe president Iran: Israël is wond die verwijderd moet worden
31-08: 'Binnenkort mega false-flag om publiek van oorlog te overtuigen'
27-08: Inlichtingen insider: Derde Wereldoorlog begint in Syrië
30-07: 9e Mahdi Conferentie: Iran waarschuwt dat Armageddon nabij is
05-06: Gatestone Instituut: VS helpt herstel Turks-Ottomaans Rijk

2012:
27-11: IAEA ontdekt schema's voor krachtige Iraanse kernbom
09-10: Overgelopen topofficial Iran bevestigt vergevorderd kernwapenprogramma
09-07: Ayatollah Khamenei: Iran moet zich voorbereiden op 'het einde der tijden'
22-05: Stafchef Iraanse strijdkrachten herhaalt hoofddoel: Totale vernietiging Israël
16-05: Ayatollah Khamenei tegen oud premier Spanje: Iran wil oorlog met Israël en VS
25-04: Iran bereidt zich voor op 'laatste 6 maanden': kernoorlog en komst Mahdi

Geopolitics and Islam

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Geopolitics and Islam

by Venyamin Popov & Yuri Mikhailov

Ex: http://orientalreview.org

The geopolitical changes that have taken place at the beginning of the 21st century within the nations of the Islamic world, and which would appear to be the culmination of many spontaneous factors, are, in fact, a manifestation of a very complex qualitative shift in the global balance of power.  For some political analysts, all of this can be attributed to merely the shortsighted games of politicians from the most powerful nation in the world, the United States, a legacy of their apparent intellectual shortcomings and strategic myopia.

Of course the Americans manage to have a hand in almost everything that occurs in the world today.  And to their credit, they are adept at defending their own national interests.  But in order to identify the true origins of the current disturbances, one must look atmore than just the events of recent years, taking a wider view of the historical perspective.

The United States is fully aware that in the Middle East, the entire twentieth century marched under the banner of the Islamic intellectual revival.  But that was brought home to the Americans all the more acutely during the Islamic revolution in Iran in 1979, and later – at the dawn of the new millennium, during the upheavals caused by the tragic events of September 11, 2001.

After centuries of stagnation, Islamic intellectuals of the late 19th – early 20th centuries, including Islamic reformers, educators, and fierce opponents of colonialism, such as Jamal ad-Din al-Afghani, Abd al-Rahman al-Kawakibi, Syed Ahmad Khan, Muhammad Abduh, and Rashid Rida, as well as representatives of the Tatar Revival Movement (Jadidism), signaled the beginning of this intellectual renaissance.  They set out to try to make sense of the role Muslims would play in the new world that was to come, and, above all, to come to grips with the social essence of Islamic doctrine and designate the place of the state in the development and modernization of contemporary society.  Among the ideas of these reformers, the common thread was the notion that Islam should be at the forefront of human development, and that the Muslim world was obliged to ensure the well-being of not only its own faithful subjects, but also those of other faiths, a provision that had been the hallmark of the Caliphate since its golden age.

 

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Dr. Ali Shariati

In the mid-20th century these ideas were most clearly manifested in the teachings of Ali Shariati, who made a significant contribution to the development of the social doctrine of Islam.  The strict system of Shiite hierarchy helped spread Shariati’s views among Iranian clerics.

The fruits of these teachings were the Islamic revolution of 1979, under the direction of its charismatic leader, Ayatollah Khomeini.  In the past,the primary focus was on the backwardness of that semi-colonial state, but now the Islamic Republic of Iran is over thirty years old and has become a leading regional power that has made great intellectual strides. (For example, by 2013 Iran had risen to 17th place in the global academic rankings, and the pace of its scientific advances has outstripped almost all major countries, including China.  The state plans to increase public spending on research from the current 1% of GDP to 4% in 2029, and by 2019 the Iranians intend to send a man into space aboard their own rocket.) All this demonstrates the real potential of true political Islam.

The example of Iran, as well as the prospect that the residents of the Middle East might suddenly decide to channel their combined wealth and potential to serve the goals of their own development, has put the Americans more than a bit on edge.

The aging and weakening West has sensed a rival in the resurgent Islamic East.  In the real world, Shiite Islam has demonstrated a powerful capacity to mobilize, plus the ability to defend its own interests (although in fact, Shiites make up only 15% of the 1.6 billion Muslims worldwide). If Sunni Islam were likewise able to show evidence of such success, American analysts predict that the consequences could pose a serious challenge to the United States.  It is no coincidence that many US politicians have been open about the fact that the more the Islamic nations are rocked by internal wars and strife, the easier it will be for the US to ensure its hegemony.  Thus, the primary goal of the United States at this stage is to split the Islamic and Arab world as much as possible and to take advantage of any means necessary to promote the emergence of new hotbeds of ongoing tension, including the use of provocation in regard to weapons of mass destruction.  This leads to the desire to create docile regimes, regardless of whether they are religious or secular, republics or monarchies.  The Americans’ reasoning is simple: if the Middle East is left undisturbed even for a decade, a dangerous and virtually uncontrollable global player would emerge that could choose how to avail itself of its available energy resources, in addition to potentially withdrawing all of its assets from foreign banks and repositories, leading to unprecedented disruptions and crises for the West’s economy.  To prevent this, regional interstate and intrastate conflicts are regularly triggered, and time bombs are systematically planted under the region.  The initiators of these actions do not shy away from any method of inciting inter-ethnic, inter-national, or inter-religious crises, or direct military interventions.  All in all, Americans are very well aware of what they are doing and why.

An analysis of reports in the Western press from recent weeks shows the prevalence of the idea of the futility of the political aspirations of Sunni Islam, as evidenced by the failed attempt of the Muslim Brotherhood to govern the state.  There is a pervasive notion that Sunnis and Shiites will always exist in a state of eternal conflict, a viewpoint that could only have one realistic outcome – a period of growing tension culminating in a phase of mutual annihilation.  From time to time, there seems to be an accidental eruption in the global media of the voices of those who feel that the Shiites are not only not Muslims, but the outright heretics, amoral sectarians and consummate fanatics who do not deserve to live.

A deliberate campaign is being waged to marginalize Islam, spreading assertions that Islam is not capable of developing its own positive agenda and that Islam always preaches violence, blood, vandalism, and the destruction of traditional society.  This propaganda is being quite skillfully disseminated at both the level of academic research as well as through the mass media.

The current geopolitical reality is such that the decline of Western civilization forces its elite to seek ever-newer sources of “rejuvenation.”  The United States is not as concerned with rescuing its allies amidst the unfolding global economic and civilizational crisis, as with ensuring its own survival and preserving its hegemony, even at Europe’s expense.  Hence its desire to draw Europeans into the conflicts in the Middle East, while at the same time safeguarding its own homeland security.

Despite statements by officials in Washington, the actions of the US suggest that it is essentially contributing to the growth of Islamic radicalism, which it uses as a tried-and-true mechanism to undermine the position of any potential competitor.  They are literally contriving to generate hotbeds of extremist, terrorist activities in Syria, Iraq, Libya, and many other countries, and the flames of all kinds of animosity are being kindled.  They are calculating that the internal struggle will become extremely drawn out, exhausting the region and bleeding it dry, which will utterly debilitate any potential rivals or competitors.

It seems that Washington believes that the military and economic power of the US, as well as its geographical position,will enable it to keep itself above the fray, thus retaining its pivotal role in international politics.

But in fact, dreaming up all these schemes is not without its dangers, because, as the episode with the Tsarnaev brothers and the trial of Maj.Nidal Hasan has shown, such a policy, despite the careful calculations that would seem to be behind it, will eventually backfire onto the US itself.  In addition, “challengers to the regime” can emerge within the system, and we are already witnessing the first seeds of that phenomenon in the actions of Pfc.Bradley Manning and the former NSA employee Edward Snowden.

Many Islamic medieval norms are not only in clear conflict with twenty-first-century realities, but give stir up tensions within society.  And the problem here is not found in religion, but in the lack of a creative, constructive approach to understanding how the teachings of the Prophet should be viewed from a modern perspective.

The lack of any real progress in the creative development of the social teachings of Islam, and in some cases those processes have been deliberately handicapped – even amid the claim that it is being done for society’s benefit – is, in fact, clearing the path for new, radical groups.  A vicious circle is formed.  The situation is reaching the point in which Muslim youth look for guidance to the ideas expressed by the conservative ulamas, who claim that this conflict between a medieval system of values and the challenges of the modern age can only be eradicated by force, which includes violence and terror against intractable “unbelievers.”

These are the circumstances under which Russia is increasingly engaging with the Islamic world, discrediting the West’s projects (which are detrimental for all mankind) to manipulate countries and peoples, information and public opinion.  Unlike the West, Russia is not only uninterested in splintering or reshaping the Islamic world, it demonstrates a consistent, firm commitment to upholding that region’s unity and integrity.

Russia is not interested in any type of bias – either toward West or the East.  We want stability and prosperity – in both the West and the East, but not at the expense of the welfare of one over the other.  We do not need a neighbor whose “house is on fire.”

In the current uneasy atmosphere, Russia calls upon the West to: “Stop trying to split the Islamic world,” while urging the Islamic world, in the name of the Qur’an and teachings of the Prophet Muhammad: “Do not be enemies of one other!”

Veniamin Popov – director of the Center for the Partnership of Civilizations at MGIMO (the school of the Russian Ministry of Foreign Affairs)

Yuri Mikhailov – editor-in-chief at Ladomir,Academic Publishers

Source in Russian: REGNUM

L'Affaire Snowden et le « Réseau Echelon »

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LE PANOPTICON ELECTRONIQUE
L'Affaire Snowden et le « Réseau Echelon »


Rémy VALAT
Ex: http://metamag.fr
 
L’affaire Snowden, du nom d’un ancien agent de la CIA et de la NSA qui a dévoilé des informations ultra secrètes sur les procédés de captation des métadonnées d’appels téléphoniques, les systèmes d’écoute et de surveillance sur Internet (notamment les programmes PRISM  et XKeyscore ), relance la question de la surveillance électronique et de la menace que celle-ci fait peser sur les libertés individuelles. Au rang des pays cibles figure la France (le réseau informatique ministère des Affaires étrangères et les représentations françaises aux Etats-Unis auraient été visité).
Le danger d’intrusion dans la vie privée (voire de l’inconscient ) des utilisateurs est bien réel. La théorie du panoptique des frères Samuel et Jérémy Bentham ne vise plus seulement les détenus des prisons : il est devenu l’affaire de tous les citoyens et internautes... Pour comprendre l’information d’aujourd’hui, une plongée dans le passé s’impose. C’est l’objet de la première partie de cet article, qui en comportera trois et sera progressivement mis en ligne sur ce site.

Les origines du réseau Echelon

À la fin de la Seconde Guerre mondiale, les Etats-Unis et la Grande Bretagne ont acquis une avance considérable en matière de cryptographie et de décryptage, grâce au traitement automatisé de ces informations. Le contexte international (la Guerre Froide) et les innovations technologiques dans le domaine des télécommunications et de l’électronique ont favorisé l’émergence sous l’égide des Etats-Unis d’un vaste dispositif d’écoutes illégales des communications hertziennes et filaires, aussi bien écrites que vocales. Ces interceptions de communications visent des « renseignements fermés », c’est-à-dire des informations confidentielles ou secrètes qui n’ont pas à être connues du public pour des raisons de sécurité, commerciales ou de protection de la vie privée. 

Le système Echelon n’est pas un objet technique en soi, puisqu’il rassemble un ensemble hétérogène de moyens matériels, technologiques et humains : sa singularité vient de la transmission et du traitement en réseau des informations capturées. Ces importants moyens étatiques soulèvent de légitimes questions sur les risques d’atteinte à la vie privée sous-couvert de mesures préventives prises dans le cadre de la lutte contre le crime organisé ou le terrorisme. 

En 1988, un journaliste d’investigation écossais, Duncan Campbell, a dévoilé à l’opinion publique l’existence de ce réseau, et surtout sa mutation en un outil de surveillance potentiellement totalitaire. En effet, alors que les stations d’écoutes de l’immédiat après guerre étaient destinées à la surveillance des communications militaires et diplomatiques du bloc soviétique, la nouvelle donne géostratégique internationale, a élargi le spectre de ces interceptions aux acteurs économiques et privés à l’échelle internationale. Cette évolution s’explique par les nouveaux visages de la guerre : celle-ci est devenue multiforme, économique et mondialisée, en un mot « hors limite  ». 

Désormais, les contours entre l’espionnage militaire, policier et économique se confondent. Cette dérive pose la question du respect des libertés individuelles face à ces moyens d’investigation clandestins pour des motifs sécuritaires ? Dérive qu’accroît encore la multiplication des acteurs du contrôle réagissant aux moyens officiellement déployés par les Etats-Unis et leurs alliés. Pour ancrer et illustrer notre article, nous nous appuierons essentiellement sur les cas anglo-saxons et français. Nous précisons que les sources exploitées, souvent d’origine militante, pourraient être sujette à caution (difficulté d’accès à des informations secrètes par nature ou manque d’objectivité), mais la plupart d’entre-elles paraissent se recouper. Ce texte, loin d’être exhaustif, vise à dégager les grandes lignes sous-jacentes au débat actuel généré par l’affaire Snowden.


De la « guerre froide » à la « guerre hors limite » : la métamorphose d’un réseau de surveillance automatisé de la fin de la Seconde Guerre mondiale à la « guerre mondialisée »

Au début de la Guerre Froide, les Etats-Unis instaurent un système d’alliance militaro-économique pour contrer l’extension du pacte de Varsovie en portant assistance aux pays européens dévastés par la guerre (plan Marshall, 1947) et en associant l’Europe et les pays anglo-saxons dans une alliance militaire défensive contre les agressions soviétiques (OTAN, 1949). 

Dans ce contexte, un pacte secret, appelé UKUSA (United Kingdom-United States of America), est signé entre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne pour intercepter les communications politiques et militaires du bloc adverse. Cet accord proroge une première entente scellée au cours de la Seconde Guerre mondiale pour contrer le renseignement nazi (accords BR-USA, signés en 1943). Cette communauté du renseignement s’est ensuite élargie au Canada (accord bilatéral américano-canadien, CANUSA Agreement) et à deux Etats du Commonwealth, la Nouvelle-Zélande et l’Australie, dans la perspective de contrôler par cette couverture géographique la quasi-totalité des informations échangées à l’échelle mondiale . Des accords supplémentaires ont été signés avec la Norvège, le Danemark, l’Allemagne et la Turquie : mais, ces nouveaux signataires sont considérés comme des « participants tiers » . Le niveau d’intégration des services, hérité de la Seconde Guerre mondiale,  est élevé : les contractants mettent en commun les moyens matériels et humains  de leurs service du renseignement . Les informations sont interceptées, collectées et préalablement décryptées et analysées, avant leur mutualisation sous la forme d’un rapport de synthèse par tout ou partie des services spécialisés des pays signataires. 

Toutefois, ce partenariat n’est pas égalitaire. L’architecture du réseau a été entièrement conçue par l’agence de renseignement américaine,  National Security Agency (NSA) , qui dispose de l’intégralité de ses codes et de ses combinaisons, situation qui place en état de sujétion les autres pays associés. Dans la pratique, la NSA centralise tous les messages captés par le réseau, garde discrétionnairement la main sur la redistribution des informations aux Etats associés et s’en sert également comme moyen de pression sur ces derniers. Ce monopole s’explique par les ambitions politiques internationales de Washington et par la supériorité quantitative et qualitative des moyens d’interception américains. C’est cette alliance qui distingue fondamentalement le Réseau Echelon, de ceux développés individuellement par des pays tiers. 


Les accords UK-USA s’expliquent également par l’avancée technologique des pays signataires en matière de décryptage et d’électronique au sortir de la Seconde Guerre mondiale : les alliés ayant remporté la victoire sur le chiffrement mécanisé, sur la machine Enigma d’Arthur Scherbius et le chiffre de Lorentz (procédé de cryptographie adopté pour les transmissions d’Adolf Hitler) . Les processus mis en œuvre sont nommés, selon la terminologie des services spécialisés nord-américains, le SIGINT (Signals Interceptions) . Le développement des technologies de la télécommunication dans les années 1960  a contraint les services de renseignement à amplifier leurs possibilités d’observations et d’écoutes clandestines (satellites, paraboles, radômes), de décryptage et de traitement automatisé de l’information (informatique). Le développement des communications extra-atmosphériques, à partir de 1967 , explique l’extension du nombre des satellites espions  et des stations officielles ou clandestines  d’écoutes au sol. Les procédés d’interception reposent sur la vulnérabilité des matériels, des logiciels et des supports de communication, le vaste rayonnement des ondes satellites, voire l’intrusion d’un « cheval de Troie » ou d’une « porte dérobée » dans les matériels ou les logiciels. Spécifiquement, les informations transmises par les ondes radios sont interceptées par les services spéciaux britanniques  et nord-américains depuis 1945, notamment à partir de stations, portant le nom de code « Echelon », basées en Ecosse, en Angleterre, en Italie, à Chypre, etc. , voire pour les ondes ultra-courtes, par des satellites-espions. Pour ce qui concerne, les communications filaires sous-marines reliant les anciens pays soviétiques, l’Europe ou l’Afrique de l’Ouest , celles-ci peuvent être captées, depuis 1971, dans les eaux internationales. Des sous-marins, ou plus récemment, des bathyscaphes dans le cas français, apposent des manchons (appelés pods) sur ces câbles ou leurs relais de transmission. 
 
Au milieu des années 1980, la NSA décide de relier par un réseau les ordinateurs des différentes bases d’interception (réseau Global Wide Area Network ), les liens ont été renforcés en 1994 par la mise en relation de tous les services de renseignement américains (réseau intranet Intelink). Ainsi, les informations collectées par les différents récepteurs (du satellite à la base d’interception) sont ensuite centralisées par des stations nord-américaines sises aux Etats-Unis ou à l’étranger,  en Grande-Bretagne (Menwith Hill ), en Australie (Pine Grap), au Canada (Letrin), en Allemagne (Bad Abling) et au Japon (Misawa), avant d’être triées. Face à l’abondance des messages recueillis (plus de trois millions dans le monde en l’an 2000), les informations sont filtrées en fonction de l’expéditeur et du destinataire, mais aussi et surtout à l’aide de mots-clés  (traduits en langue anglaise si nécessaire) préalablement répertoriés dans des dictionnaires (ou « listes de surveillance  »). Les stations réceptrices procèdent à des mises à jour des combinaisons des mots-clés indexés dans leurs dictionnaires et répartissent les messages sur ces critères aux agences nationales concernées. C’est ce procédé, fondé sur des « dictionnaires informatisés » et la mise en réseau des moyens de communications de chacune de ces bases que l’on appelle le « système Echelon ». Ces procédés passifs, sont complétés depuis une dizaine d’années, par l’emploi de virus servant à obtenir les clés saisies sur les claviers (Magic Lantern) ou par le filtrage des mails en provenance des fournisseurs d’accès Internet (logiciel DCS 1000, dit Carnivore ). 


En dépit d’une couverture mondiale des systèmes d’interception d’Echelon, le réseau est-il entravé par l’abondance des flux d’informations visé? Selon Duncan Campbell, le dispositif Echelon serait en mesure de le faire, et ceci depuis les débuts de l’installation du système. Néanmoins, les faits laissent à penser, et les événements du 11 septembre 2001 en sont la tragique illustration, que ces moyens ont peut-être trouvé leurs limites. D’une part, des renseignements confidentiels peuvent échapper aux canaux contrôlés par le dispositif (déplacement d’un individu, courrier postal, etc.). D’autre part, et selon toute vraisemblance, le point faible d’Echelon serait le traitement et l’analyse de l’information. En dépit d’un choix sélectif des cibles, l’abondance d’informations traitées réduisent les performances du dispositif, surtout depuis que l’existence du réseau a été portée à la connaissance des services de renseignements étrangers, des grandes entreprises et des citoyens. Ces derniers prennent désormais leurs dispositions en protégeant leurs messages en les cryptant. La cryptographie, la stéganographie et le codage rendent inutiles l’exploitation du renseignement, car le temps consacré au décryptage périme l’information. 

À l’heure actuelle, les Etats, les grands industriels producteurs de logiciels informatiques, les acteurs économiques et les citoyens sont placés au centre d’une bataille livrée autour de la résistance des clés de chiffrement des messages électroniques. Une situation qui expliquerait le « double langage » des pouvoirs publics sur ces questions…

Corporativismo del III millenio

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mercredi, 09 octobre 2013

Café politique, Nantes

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Les noyés de Lampedusa : quand on culpabilise les Européens

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Les noyés de Lampedusa : quand on culpabilise les Européens

Le 3 septembre, un navire de ”réfugiés” africains (Somaliens), en provenance de Libye (1) a fait naufrage au large de l’île italienne de Lampedusa qui est devenue une porte d’entrée admise des clandestins en Europe. 130 noyés, 200 disparus. Ils ont mis le feu à des couvertures pour qu’on vienne les aider et le navire a coulé à cause de l’incendie. Les garde-côtes italiens, ainsi que des pêcheurs, ont sauvé les survivants. 

Immédiatement, le chœur des pleureuses a donné de la voix. Le maire de l’île, en larmes (réellement) a déclaré à l’agence de presse AFSA : « une horreur ! une horreur ! ». Le chef du gouvernement italien, M. Enrico Letta a parlé d’une « immense tragédie » et a carrément décrété un deuil national. Et, pour faire bonne mesure, le Pape François, qui était déjà allé accueillir des ”réfugiés” africains à Lampedusa, a déclaré : « je ne peux pas évoquer les nombreuses victimes de ce énième naufrage. La parole qui me vient en tête est la honte.[...] Demandons pardon pour tant d’indifférence. Il y a une anesthésie au cœur de l’Occident ». On croit rêver.

Sauf le respect dû au Saint-Père, il se trompe et il trompe. Et, en jésuite, pratique une inversion de la vérité. Car tout a été fait pour sauver ces Somaliens. Tout est fait pour les accueillir et ils ne seront jamais expulsés. Ils se répandront, comme tous leurs prédécesseurs, en Europe. (2) Comment interpréter cet épisode ?

Tout d’abord que le Pape François cherche à culpabiliser les Européens (la ”honte”, l’ ”anesthésie du cœur”, “indifférence”) d’une manière parfaitement injuste et par des propos mensongers. Cela semble tout à fait en accord avec la position suicidaire d’une partie des prélats qui sont objectivement partisans (souvenons-nous de l‘Abbé Pierre) d’une immigration invasive sans contrôle (l’accueil de l’Autre) sous prétexte de charité. Avec, en prime, l’islamisation galopante. On pourrait rétorquer à ces prélats catholiques hypocrites qu’ils ne font pas grand chose pour venir en aide aux chrétiens d’Orient (Égypte, Irak, Syrie…) persécutés, chassés ou tués par les musulmans. N’ont-ils pas ”honte“ ?

Deuxièmement, toutes ces manifestations humanitaristes déplacées des autorités européennes, tous ces larmoiements sont un signe de faiblesse, de démission. Ils constituent un puissant encouragement aux masses de migrants clandestins potentiels qui fuient leurs propres sociétés incapables pour venir en Europe, en parasites. Certains d’être recueillis, protégés et inexpulsables.

Troisièmement – et là, c’est plus gênant pour les belles âmes donneuses de leçons de morale – si  l’Europe faisait savoir qu’elle ne tolérera plus ces boat people, le flux se tarirait immédiatement et les noyades cesseraient. Les responsables des noyades des boat people sont donc d’une part les autorités européennes laxistes et immigrationnistes et d’autre part les passeurs. Et, évidemment, les clandestins eux-mêmes que l’on déresponsabilise et victimise et qui n’avaient qu’à rester chez eux pour y vivre entre eux et améliorer leur sort (3).

 Quatrièmement, et là gît le plus grave : les professeurs d’hyper morale qui favorisent au nom de l’humanisme l’immigration de peuplement incontrôlée favorisent objectivement la naissance d’une société éclatée de chaos et de violence. La bêtise de l’idéologie humanitaro-gauchiste et l’angélisme de la morale christianomorphe se mélangent comme le salpêtre et le souffre. Très Saint-Père, un peu de bon sens : relisez Aristote et Saint Thomas.

Notes:

(1) Avant le renversement de Khadafi par l’OTAN, et avant donc que la Libye ne devienne un territoire d’anarchie tribalo-islamique, il existait des accords pour stopper ces transits par mer.

(2) Depuis le début de 2013, 22.000 pseudo-réfugiés en provenance d’Afrique ont débarqué sur les côtes italiennes, soit trois fois plus qu’en 2012 . C’est le Camp des Saints…

(3) En terme de philosophie politique, je rejette l’individualisme. Un peuple est responsable de lui-même. Le fait de légitimer la fuite de ces masses d’individus hors de leur aire ethnique du fait de la ”pauvreté”, de la ”misère” ou de n’importe quoi d’autre, revient à reconnaître l’incapacité globale de ces populations à prendre en main leur sort et à vivre entre elles harmonieusement. C’est peut-être vrai, mais alors qu’elles n’exportent pas en Europe  leurs insolubles problèmes.

The Western Challenge to Eurasian Integration

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The Western Challenge to Eurasian Integration

by Nikolai Malishevski

Ex: http://www.strategic-culture.org

Recently, official Warsaw and not-so-official Stockholm have taken a number of steps to reinforce their successes in the East in order to gain new bargaining chips for the upcoming Eastern Partnership summit in Vilnius in November 2013, which will be devoted to developing a unified policy on the East for European countries. According to a statement by EU High Representative for Foreign Affairs and Security Policy Catherine Ashton, this summit will be «an opportunity to deepen the relations» between the EU and the member countries of the Eastern Partnership. The fact that the heads of all the EU member states plan to attend also speaks to that.

The Eastern Partnership, initiated by Washington and Brussels, was formed at the suggestion of Warsaw and Stockholm after the failure of the Georgian aggression in Ossetia. Essentially it has become a kind of continuation of GUAM, which demonstrated its military and political inadequacy in August 2008. The participation of Belarus and Armenia (which are not members of GUAM) is an attempt at a kind of «revenge» for the military and political defeat of Georgia. You could call the Eastern Partnership a tool for energy colonialism, turning Russia into a mere supplier of raw materials to the West, «pushing» it into the northeast of the Eurasian continent and creating a «sanitary» energy collection zone along its borders from the Black Sea to the Baltic. It's not for nothing that many in Russia consider the Eastern Partnership a kind of 'calque' from Adolf Hitler's concept of gaining Lebensraum in the East.

The main players in the project are Sweden in the north, Poland in the west, and NATO member Turkey in the south… Ukraine, Belarus and Moldova have been assigned to Poland, with its neosarmatism and the sympathies of Catholics. To Turkey with its neoturanism, Azerbaijan, Georgia and Armenia have been assigned (and to some extent the Central Asian republics - unofficially, through the personal business interests of their leaders in Ankara, as in Kyrgyzstan, for example). The Scandinavians, with the support of international structures like the Soros Foundation, are taking an avid interest in Karelia, the Kola Peninsula, the islands of the Gulf of Finland and their mineral and forest resource, as well as opposing Russia’s plans in the Arctic.

North. Overseen by Sweden, acting through Finland, which is conveniently located close to the «northern capital»« St. Petersburg. Operations are conducted using the following tools: 

a) Swedish-speaking citizens of Finland who have close ties with the Finnish political elite, the public servants, and who openly express anti-Russian revanchist views, such as Mikael Storsjo, the publisher of the terrorist site Caucasus Center and chairman of the Pro-Caucasus Association, who was convicted of illegally dispatching dozens of terrorists, including relatives of Basayev; 

b) media structures such as the Sweden-based Web center of the site Caucasus Center (the site itself, which has been declared a terrorist resource by the UN, was operating there as well until it was moved to Finland in 2004) and anti-Russian Finnish media activists (Kerkko Paananen, Ville Ropponen, Esa Makinen, Jukka Malonen, etc.) who support the «white ribbon opposition» in Russia; 

c) public structures such as the Pro-Caucasus Association, which is registered in Sweden, the Finnish-Russian Civil Forum (Finrosforum, Suomalais-venalainen kansalaisfoorumi), and U.S-oriented human rights organizations like the Helsinki Group, Amnesty International, etc..

Financing comes from the north, which borders directly on Russia via Finland (from which, in a similar calque, the «export of revolution» and money for it from American and European bankers came even before 1917), and there is an attempt to unite all anti-Russian forces in Europe and Russia itself - from Chechen terrorists, for whom «Turkish transit» is organized to the motley «white ribbon» opposition (supporters of Nemtsov, Navalny, Limonov, Kasparov, etc.).

West. Poland, which does not share a border with Russia (except for the Kaliningrad enclave), operates along the perimeter of a broad geopolitical «arc». From Kaliningrad in the north (already called «Królewiec» by Warsaw diplomats on the official site of the Consulate General of Poland), through Belarus and Ukraine, which are being considered as potential «friendly» territories in the east, to the Crimea in the south. 

With regard to Ukraine and Moldova, the ambitions of Warsaw, which has taken a course toward the creation of a fourth Rzeczpospolita and has its own vision of the future of the lands on Ukraine's right bank, to a great extent coincide with those of Romania and Hungary. Catholic Poland is essentially coordinating its policy with coreligionist Hungary, as their points of view on a number of issues coincide and complement one another, allowing them to develop a common strategy. With regard to Belarus, something similar (with some reservations) is happening with the Latvians and Lithuania, including support via Scandinavia for the pro-Western opposition in Minsk, which has found understanding from the «white ribbonists» and public servants who sympathize with them in Russia.

In the first half of 2013 the European Council on Foreign Relations (ECFR), the «thought factory for the European Union» which conducts analyses on foreign policy and security, distinguished Poland in five areas of foreign policy. Poland was recognized as a leader in implementing joint projects in the framework of NATO and the Common Foreign and Security Policy and was praised for its (visa) policy with regard to Russia, Ukraine and Moldova and for its foreign policy for «the most activity for the democratization» of Belarus. Polish Foreign Minister Radosław Sikorski, after a discussion of the implementation of «Eastern Partnership» programs at a meeting of EU foreign ministers in Brussels, reported (18.02.2013) that his country's eastern policy has met with numerous successes, saying, «Note that we are talking with our Eastern partners about association agreements and not about war. At present, the East is a place where Europe is conducting successful policy. In only remains to formalize these successes in the form of bilateral agreements».

South. In the south Warsaw operates in unison with Ankara, since the sympathy of the Tatar population of the Crimea toward NATO member Turkey facilitates the mutual understanding of local Turks and NATO member Poland. In 2013 several events took place, such as a press conference for the protection of the rights of Crimean Tatars, in which not only the chairman of the Union of Polish Tatars, Selim Chazbiewicz; the head of the communications department of the Crimean Tatar Majlis, Ali Khamzin; and others took part, but also influential Polish politicians such as Lech Wałęsa and former Minister of Internal Affairs Jadwiga Chmielowska. Previously in Simferopol a visa application center and a Consulate General of the Republic of Poland were opened which today demonstrate noticeable activity in the public and cultural life of the autonomous region and Sevastopol, especially in the area of collaborating with the Crimean Tatar Majlis and discrediting the Russian movement. And Poland became the second country after Russia whose consulate in the Crimea received the status of a consulate general. 

From Turkey, via Finland and its citizens of Swedish origin, transit has been organized for extremists who kindle the flame of separatist jihad in the «southern underbelly» of Russia (including the terrorists of Shamil Basayev's battalion of Chechen suicide attackers «Riyad-us Saliheen»).  The Scandinavians coordinate activities with the Turks in the media sphere as well. For example, the Web administrator of the terrorist site Caucasus Center, Islam Matsiev, came to Finland from Turkey. On the Turkish side, Basayev's IHH foundation is collecting funds in Turkey, Dubai, the U.S., England and France to finance the international terrorist network called the «Caucasus Emirate», whose mouthpiece is Caucasus Center (the official representative in Turkey is Musa Itayev, and in Finland it is Islam Makhauri, the brother of Rustam Makhauri - the «Minister of Defense of the Caucasus Emirate», Doku Umarov's personal bodyguard and the representative of terrorist Ali Taziev («Magas».). 

The level of an event held in Washington in late June 2013 at one of the oldest and most authoritative «think tanks» in the U.S., the Heritage Foundation, dedicated to the future of the Eurasian Union and «protecting vitally important interests of the U.S. and its allies in this sphere» with the participation of diplomats, scholars and analysts, goes to show that Western strategists are no longer hiding the fact that they are wary of and closely observing events in the former Soviet Union. And they are not idle in doing so, but are actively building their own toolkit for resisting the rebirth and integration of Eurasia.