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samedi, 21 février 2009

Ossendowski, l'ultimo avventuriero

Ossendowski, l’ultimo avventuriero

Francesco Boco

Ferdynand Ossendowski (1876-1945)

L’avventura non è cosa da minimalismo postmodernista. Il fatto che la maggioranza della produzione letteraria e cinematografica contemporanea, nonché l’educazione scolastica, eviti di addentrarsi negli inquietanti reami dell’autentica avventura, ha un che di significativo. Il grande avventuriero dei fumetti, Mister No, non viene più pubblicato, se non raramente, e in libreria le cose non vanno meglio. Solo qua e là emerge qualche perla di vita vissuta, qualche libro in cui si respirano il profumo del muschio e del vino forte, del tabacco trinciato e dei fiori al mattino, ma per il resto tutto tace. Certo, c’è chi prova ad affrontare l’argomento, chi s’impegna, ma nei libri come nei film, la vera avventura viene dal profondo, perché è una questione di sapienti, e non di dotti. Di quei folli, per dirla con Kerouac, che preferiscono bruciarsi che spegnersi lentamente.

Il viaggio avventuroso rappresenta un mito per i giovani inquieti, per coloro i quali sentano il bisogno di una ricerca fuori dagli schemi. La cultura di un Pasolini, tanto per dire, non potrebbe mai concepire il viaggio in sé come un’esperienza di vita, un’occasione di crescita e riflessione, perché il viaggio, in questa mentalità, è semplice tragitto, una questione burocratica da espletare che deve condurre ad una meta precisa.

Ma i grandi viaggiatori non sono coloro che raggiungono molte mete, sono quelli che invece visitano molti luoghi, conoscono genti e storie, si perdono, volutamente, durante il percorso, come dei viandanti in cerca della saggezza. Nietzsche fu un grande viaggiatore e un avventuriero del pensiero, altri, specie dopo di lui, furono solo principianti della vita, impauriti dall’esistenza preferirono ritirarsi nel buio del loro studiolo. Per dirla con il provocatorio Deleuze, il pensiero nietzscheano, il vero pensiero non-conformista, è il riflesso della vita, è frutto dell’esperienza, cresce e si sviluppa nella terra e nel tempo. Perciò la biografia del filosofo tedesco è così importante.

«La terra e il cielo cessavano di respirare. Il vento non soffiava più, il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco di antilopi spaventate si ferma di botto [...]; al pastore che sgozza un montone cade il coltello di mano [...] Tutti gli esseri viventi impauriti sono tratti involontariamente alla preghiera e attendono il fato. Così è accaduto un momento fa. Così accade sempre quando il Re del Mondo nel suo palazzo sotterra prega e scruta i destini di tutti i popoli e di tutte le razze». Così, con la straordinaria capacità evocativa che gli è propria, narra della sua ricerca della mitica Agartha sotterranea, centro spirituale che alcuni sembrano collocare a Lhasa, il celebre avventuriero Ferdinand Ossendowski (1878-1945). Il racconto si svolge in Mongolia nel 1921; il palazzo dove prega il Re del Mondo si trova nel regno di sotterra, un territorio immenso nascosto alla vista degli uomini e popolato da esseri semidivini, vero e proprio centro spirituale del pianeta. Quel regno esiste fin dalla notte dei tempi: per tutto il remoto periodo denominato dai miti “Età dell’Oro” aveva prosperato alla luce del sole con il nome di “Paradesha” (in sanscrito Paese supremo, da cui Paradiso ); poi, nel 3102 a.C, all’inizio del Kali Yuga della tradizione indù (il termine significa Età Nera e designa il periodo in cui viviamo), i suoi abitanti si erano trasferiti nel sottosuolo per evitare di essere contaminati dal male, e il nome della loro terra era stato trasformato in Agharti, “l’inaccessibile”. La sua opera più conosciuta Bestie, uomini e dèi, tuttora ristampata, viene citata da Guénon nell’introduzione al libretto dedicato precisamente alla figura esoterica del Re del mondo.

Corto Maltese. Corte Sconta detta Arcana

Corto Maltese. Corte Sconta detta Arcana

In quelle stesse pagine, Ossendowki, descrive la figura leggendaria del barone Roman Fiodorovic von Ungern Sternberg, a cui negli anni diversi hanno rivolto il loro interesse, fino alla recente pubblicazione del testo La cosacca del barone von Ungern da parte de Le librette di controra. Terrore dei bolscevichi, questo condottiero dei “bianchi” controrivoluzionari, oppose una strenua resistenza ai sovietici, guadagnandosi sul campo la fama di “sanguinario”. Il suo mito si diffuse a tal punto, che in una delle sue storie più belle, Corte Sconta detta arcana, Hugo Pratt lo rappresenterà in modo assai evocativo, e alla sua figura, negli anni immediatamente successivi alla sua morte, si ispirò ad esempio il film russo Tempeste sull’Asia.

Naturalmente le avventure dello studioso Ossendowski non si limitarono a quanto narrato nel famoso libro edito dalle Mediterranee, ma già nel 1899 viaggiò nelle steppe siberiane, tra i monti Abakani e la città di Biisk, in un percorso che ebbe sempre come sfondo il Lago Nero e la selvaggia natura siberiana. Una recente pubblicazione per Le librette di controra, Il lupo del Lago Nero, raccoglie tre racconti avventurosi dell’autore polacco, che si collocano negli anni precedenti a quanto descritto in Bestie, uomini e dèi.

Immagini vivide di tradizioni primordiali, questo riesce a trasmettere con grande efficacia l’autore. Una steppa selvaggia e battuta dal vento, in cui si incrociano i destini di piccole comunità. Con il gusto del vero avventuriero Ossendowski ci prende per mano e ci conduce in mondo di misteri e di grandi profondità. In cui a usanze precristiane si uniscono talvolta le superstizioni di fanatici santoni e in cui l’amore e la passione sono vissuti come devozione nei confronti di un signore.

La scrittura è vigorosa e asciutta, elegante nella sua efficacia, capace di tenere desto l’interesse lungo tutta la lettura, che scorre rapida e piacevole. Non mancano i colpi di scena, a completare un quadro in cui a farla da padrone è la natura selvaggia della steppa siberiana, un paesaggio che sembra vivere con i suoi abitanti, come se l’ordine degli uomini e quello della natura, in condizioni particolari, possano entrare in contatto. Ecco allora il cielo turbinare e ribellarsi alla pazzia del santo apocalittico, o ancora fare da sfondo vivido alle discussioni erotiche tra l’autore e la sua devota prima moglie. Un contatto con la natura che d’altronde si respira anche nei romanzi avventurosi di un altro grande, Knut Hamsun, autore di Pan e Fame, che scrisse: «Era in uno strano stato d’animo, invaso dalla soddisfazione, con ogni nervo teso e una musica nel sangue. Si sentiva parte della natura, del sole, delle montagne e di tutto il resto; alberi, erba e paglia gli infondevano col loro fruscio il senso del proprio Essere. L’anima gli divenne grande e sonora come un organo, non dimenticò mai più come quella dolce musica gli si infondesse nel sangue».

Jon Krakauer, Nelle terre estreme

Jon Krakauer, Nelle terre estreme

Il sublime non ha bisogno di orpelli per manifestarsi, e l’Ossendowski riesce alla perfezione a raffigurare un mondo di tradizioni e riti perduti. Ma ciò che più colpisce, è che è tutto vero.

La fortuna, per chi non voglia accontentarsi della letteratura per animi tiepidi, è che periodicamente in libreria compaiono libri davvero capaci di emozionare e sollecitare la voglia di andare scoprire il mondo. È stato così con lo straordinario Nelle terre estreme di Krakauer, da cui è stato tratto anche un film. La storia di un giovane americano che decide di lasciarsi la vecchia vita di comodità alle spalle, per vivere una vita selvaggia e rischiosa nella natura del Nord America. Anche questa è una storia vera, che non ebbe un “lieto” fine. E ancora più recente è l’uscita del libro di Ernst Jünger Visita a Godenholm che, come altre dello stesso autore, è un’avventura in gran parte immaginaria, scritta da un grande avventuriero e viaggiatore del secolo scorso, all’inquieta ricerca della vera libertà..

In occasione di un’intervista televisiva il grande Andrea G. Pinketts ha detto di preferire agli scrittori come Leopardi, chiusi nella loro torre d’avorio, quelli che scendono nelle strade, che vivono la vita autentica e vivono pericolosamente, perché lì si trovano quelle emozioni genuine capaci di strapparci all’abitudine. La vita sottocasa ci sta aspettando.


Francesco Boco

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J. Marlaud et le renouveau païen en France

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - Mai 1986

Robert Steuckers:

Jacques Marlaud et le renouveau païen en France

Le néo-paganisme européen est une jungle de concepts; pour le comprendre sous tous ses angles, il faut une connaissance approfondie des mythologies européennes, des théologies qui, sous une couverture chrétienne, renouent avec le non-dualisme anté-chrétien (Sigrid HUNKE), des littératures populaires et romantiques qui traduisent de manière romanesque ou poétique des fragments de cette vision inépuisable de l'immanence du divin. La tâche n'est pas mince et l'on n'est pas prêt de découvrir, à l'étal des libraires, une encyclopédie définitive de ce monde foisonnant de diversité.

Heureusement, Jacques MARLAUD vient de combler cette lacune, partiellement seulement (mais c'est une première étape),  avec son livre, Le Renouveau païen dans la pensée française (réf. infra). La démarche de MARLAUD débroussaille la partie française contemporaine de ce continent oublié qu'est le paganisme. Sa démarche est ainsi limitée dans le temps ("la pensée contemporaine") et dans l'espace (la France). Son point de départ est la mise en évidence d'une antithèse philosophique: celle de l'idée païenne contre la pensée rationalisante. Aux schémas des rationalismes, MARLAUD oppose le retour du mythe, donc d'un polythéisme, plus apte à saisir la multiplicité du réel. Pour lui, l'utopisme et la désacralisation du monde sont les produits de l'individualisme, avatar idéologique du principe religieux judéo-chrétien du "salut individuel". A l'ère post-rationnelle, le substrat païen resurgit, à travers la croûte, le superstrat judéo-chrétiens. Les modes de vie imprégnés de christianisme, le moralisme rigide, les normes sociales sont désormais battus en brèche et ne créent plus de consensus. Et si le consensus de demain en venait à se référer au "substrat" plutôt qu'au "superstrat"?

Le résultat de ce grouillement néo-païen, c'est l'émergence progressive d'une "philosophie de l'affirmation inconditionnelle du monde", dit Jacques MARLAUD. Elle se repère chez Clément ROSSET, mais seule- ment dans le chef de l'individu et non à l'échelle collective, non chez ceux qui ont volonté de bâtir une autre Cité, imperméable aux absolus étrangers au substrat, aux absolus moribonds du superstrat d'hier.

Après avoir esquissé les grandes lignes de ce néo-paganisme, MARLAUD passe en revue les écrivains contemporains qui se situent dans cette mouvance: MONTHERLANT, GRIPARI (père d'un nihilisme déculpabilisateur qui se gausse avec espièglerie des rationalisations moralisatrices), PAUWELS le Faustien qui a "vacillé" à cause de la reaganite affligeant les médias parisiens et, enfin, Jean CAU l'anti-bourgeois qui a donné un visage enchanteur à cet existentialisme que CAMUS et SARTRE avaient rendu si lugubre.

MARLAUD survole alors la littérature française et y repère les germes de paganisme. Dans ce survol, il n'omet pas le divin RABELAIS. Et pour terminer, il passe en revue le travail de la "Nouvelle Droite" qui a popularisé, en France, les thématiques du paganisme et des racines indo-européennes. Un livre à lire pour fonder le consensus de demain...

R.S.

Jacques MARLAUD, Le Renouveau païen dans la pensée française (Préface de Jean CAU), Le Labyrinthe, Paris, 1986, 271 pages, 145 FF.

vendredi, 20 février 2009

Freiheitskonservativismus is overleden

Freiheit Konservatismus is overleden
Uit: Nieuwsbrief Deltastichting nr. 22 - Februari 2009

De publicist Caspar von Schrenck-Notzing is overleden. Meer dan wie ook blijft zijn naam verbonden met hét Europese conservatieve tijdschrift bij uitstek Criticon. Het niveau was jarenlang toonaangevend voor zovele andere Europese tijdschriften.
 
Caspar Freiherr von Schrenck-Notzing werd geboren op 23 juni 1927 in een van de oudste patriciërsfamilies van München – een familie mét wapenschild trouwens. Zijn overgrootvader was industrieel en nationaal-liberaal lid van de Rijksdag, Gustav von Siegle. Zijn grootvader, Albert von Schrenck-Notzing, was een parapsycholoog. Een familie met naam en faam. Freiherr Caspar studeerde geschiedenis en sociologie, hij was aandeelhouder van WMF en BASF, en zou de eenmanszaak, die Criticon was, leiden van 1970 tot 1998.
 
Hij slaagde erin om een conservatieve politieke – en vooral meta-politieke – strekking opnieuw wortel te laten schieten in Duitsland. Geen evidentie, waar elke rechtse of conservatieve filosoof, politicoloog of politicus sowieso ad infinitum gecompromitteerd leek met het regime van de nationaal-socialisten. Von Schrenck-Notzing slaagde erin de conservatieve beweging opnieuw te intellectualiseren, terug van een intellectuele bagage te voorzien. Hij stond hierin niet alleen: Armin Mohler, Winfried Martini en Mohammed Rassem stonden hem gedurende vele jaren bij. Conservatief-revolutionair gedachtengoed sloeg zelfs opnieuw aan bij heel wat non conformistische jongeren. Junge Freiheit, Sezession en het Institut für Staatspolitik zijn wel bijzonder schatplichtig aan dit herlevend conservatisme dat in zijn talrijke uiteenlopende facetten zijn neerslag vond in het tijdschrift van von Schrenck-Notzing.
 
De taak van een rechtse, conservatieve beweging was in die jaren (jaren 50 en 60 van de vorige eeuw) niet gemakkelijk en totaal anders dan 30 jaar geleden. Kon ze in een vroeger tijdsgewricht de staat, het leger, het gerecht en de kerk als traditiegebonden instellingen verdedigen, schragen en uitdragen, dan bleken ze in de jaren 60 en 70 van de vorige eeuw steeds meer aangetast door het liberalisme en het egalitarisme. Zo schreef Caspar von Schrenck-Notzing: “We leven in een tijdperk van een wereldwijd ineenstorten van alle Europese posities”.
 
Vanuit zijn opleiding had von Schrenck-Notzing vooral interesse voor en was hij verontrust door de steeds grotere manipuleerbaarheid van de burgers. Hij publiceerde over dit onderwerp verschillende populaire werken zoals Charakterwäsche (1965 – over het door Amerika ingevoerde en gestuurde Reeducation), Zukunfsmacher (1968 – over nieuw links) en Demokratisierung (1972 – over het democratiebegrip van nieuw links).
 
Criticon droeg de naam van een boek van de jezuïet Baltasar Gracian, El Criticon. Vooral het liberalisme, waarmee de auteur aansluiting vond bij bepaalde tussenoorlogse moderne conservatieve bewegingen, werd door de uitgever als het grote, fundamentele gevaar voor Europa beschreven. Niet evident op een moment dat rechts in Europa zich vooral anticommunistisch opstelde. In Criticon kon men ook in die jaren ook bijdragen lezen die het liberalisme eigenlijk in hetzelfde kamp plaatsten als het communisme. Voorwaar visionair.
 
In 1998 gaf de Freiherr zijn tijdschrift uit handen, in de overtuiging dat twee jonge auteurs voldoende talent in huis hadden om zijn Criticon verder op het goede spoor te houden. Helaas, het blad ontwikkelde zich tot een (puur economisch) tijdschrift voor zelfstandigen, dat het zelfs nodig vond regelmatig vrij platte pro-Amerikaanse bijdragen te publiceren, zonder enige ruimte voor nuancering. Even later verdween het tijdschrift zelfs helemaal. De mythe Criticon leeft echter verder. Zo schreef de uitgever van Junge Freiheit, Dieter Stein, zelf een jonge publicist die gevormd werd door Criticon: “Tijdschriften zijn kristallisatiepunten van het geestelijk leven van een natie. Aan Criticon konden de edelste kristallen van het naoorlogse conservatisme groeien”.
 
Criticon in handen nemen en lezen was puur intellectueel genot. Von Schrenck-Notzing was, in tegenstelling tot wat men bij zijn naam zou kunnen denken, geen warme voorstander van de oude geld- en grondadel. Aristocraat zijn was voor hem een levenshouding. “Afstand nemen, ook tegenover zichzelf” was het motto dat hij zijn vrienden en zijn gezin steeds voorhield. Zijn ironische commentaren, ondertekend met zijn pseudoniem Critilo, zullen we ook in de komende jaren met veel genoegen herlezen.
 
Von Schrenck-Notzing was een echte Britse gentleman, hoe Duits en Europees zijn wortels ook waren. Dankzij Caspar von Schrenck-Notzing werden ook heel wat Vlamingen en Nederlanders ertoe aangezet hun blik onbevooroordeeld in de richting van Groot-Brittannië en de Angel-Saksische traditie te wenden en er kennis te maken met een rijke conservatieve, literaire en politieke, oogst. Freiherr von Schrenck-Notzing heeft zijn sporen getrokken, zoveel is duidelijk.

(Peter Logghe)

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In Memoriam: Caspar von Schrenck-Notzing und "Criticon"

Caspar von Schrenck-Notzing und Criticón

von Karlheinz Weißmann am 4. Februar 2009 - http://www.sezession.de/

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 [1]Heute wird Caspar von Schrenck-Notzing in München zu Grabe getragen. Damit geht auch ein Abschnitt in der Geschichte des deutschen Nachkriegskonservatismus zu Ende. In allen Würdigungen und Nachrufen wurde darauf hingewiesen, daß Schrenck-Notzing mit der Gründung der Zeitschrift Criticón die Tribüne für die rechte Intelligenz der siebziger und achtziger Jahre geschaffen hatte: von den katholischen Traditionalisten über die Adenauer-Fraktion und die Klassisch-Liberalen bis zu den Nominalisten und Nationalrevolutionären.

Geplant war das ursprünglich nicht. Datiert auf „Ammerland, im Mai 1970″ ging ein hektographierter Rundbrief ins Land, der das Erscheinen der ersten Ausgabe von Criticón ankündigte. Einleitend hieß es: „Bei dem Schwimmen gegen den Strom fällt es immer schwerer, aus der Sturzflut des Gedruckten jene Publikationen herauszufinden, die für die grundlegende und laufende Orientierung über Zeitfragen wesentlich sind.“ Deshalb sei es nötig, eine „Sammelstelle“ zu schaffen, die das Material sichte und den Leser auch auf das hinweise, was eventuell am Rande stehe. Die Nummer 1 war denn auch ein gerade zwölf Seiten umfassendes Heft ohne Umschlag im Format DIN A 4, dessen Schwerpunktthema das Denken Arnold Gehlens bildete (einleitender Text über Moral und Hypermoral von Armin Mohler, Autorenportrait von Gehlens Schüler Hanno Kesting), während man ansonsten nur Rezensionen und kurze Hinweise auf Organisationen, Veranstaltungen oder andere Zeitschriften fand.

Seine spätere Gestalt mit den auffallend farbigen Umschlägen, auf denen eben kein deutscher Adler, sondern ein Hahn in gallischer Manier prangte, nahm Criticón allerdings schon im Laufe des zweiten Erscheinungsjahrs an. Auch die Gliederung der einzelnen Nummer ergab sich frühzeitig. Die Autorenportraits bildeten über die Zeit hinweg eine Art Enzyklopädie der konservativen Meisterdenker, wobei Schrenck-Notzing großzügig jede Fraktion der geistigen Rechten zur Geltung kommen ließ, außerdem gab es theoretische wie aktuelle Aufsätze deutscher und ausländischer Autoren, sowie ein politisch-metapolitisches Editorial, das Schrenck-Notzing unter dem Pseudonym „Critilo“ – der „Kritische“ verfaßte.

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[2]Critilo gehörte zu den Figuren des allegorischen Romans El Criticón des spanischen Jesuiten Baltasar Gracián, nach dem Schrenck-Notzing seine Zeitschrift benannt hatte. Gracián war einer jener „Machiavellisten“, die die Freiheit liebten und deshalb die Macht der Gegen-Aufklärung einsetzten, um sich Einsicht in die tatsächlichen Weltzusammenhänge zu verschaffen. Das erklärt etwas von dem hohen analytischen und prognostischen Wert, den viele der in Criticón veröffentlichten Texte hatten. Zusammenfassend schrieb Schrenck-Notzing dazu: „Schwerpunkte von Criticón waren das russische Dissidententum (vor dem Nobelpreis für Solschenizyn), der amerikanische Konservatismus (vor der Wahl Reagans), der britische Konservatismus (vor der Wahl von Mrs. Thatcher), die Emigrationen der Ostblockstaaten (vor deren Zusammenbruch), die deutsche Identität (vor der Wiedervereinigung), Parteien und Medien (vor dem Ausufern des Parteien- und Medienstaates).“

Man muß sich dabei vergegenwärtigen, daß Criticón trotz oder gerade wegen dieser Qualität isoliert in der deutschen Zeitschriftenlandschaft stand. Selbst die Springer-Presse hatte kaum mehr als Häme für die „konservativen Standartenträger“ (Die Welt) übrig. Ein Sachverhalt, der auch durch vermehrte Anstrengungen nicht zu ändern war. Das ließ sich vor allem an den Überlegungen Schrenck-Notzings in den achtziger Jahren ablesen, mit Criticón aktuell einen eigenen, alle drei Wochen erscheinenden Nachrichtendienst herauszubringen. Ein Versuch, der bereits im Ansatz scheiterte. Kurze Zeit später mußte auch die Erscheinungsweise Criticóns von zweimonatlich auf vierteljährlich umgestellt werden.

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[3]Der Einsatzbereitschaft von Schrenck-Notzing ist es zu verdanken, daß Criticón trotzdem die damalige Krise des konservativen Zeitschriftensegments überstand, dessen Publikationen nach und nach verschwanden, weil die Verlegerpersönlichkeit, die sie getragen hatte, nicht mehr da war (Herderbücherei Initiative), aufgab (Mut), sich von der CSU umarmen ließ (Zeitbühne, Epoche) oder ihr Milieu verlor (Konservativ heute). Es war deshalb tragisch, daß die Auswahl eines Nachfolgers zu einem immer drängenderen Problem wurde und Schrenck-Notzings Wahl – Gunnar Sohn, ein langjähriger Mitarbeiter von Criticón – sich als Fehlentscheidung erwies. Die gewisse Häme, mit der die Neue Zürcher Zeitung im Frühjahr 2000 einen Artikel über das „neue Criticón“ betitelte mit „Kapitulation vor dem bösen alten Feind“ war ein Signal dafür, daß Sohn nach kurzem Lavieren, das Erbe, das er angetreten hatte, verriet. Das hatte auch mit objektiven Schwierigkeiten zu tun, die Zeitschrift wie bisher fortzuführen, hing aber vor allem mit der Inkompetenz Sohns zusammen.

Und das ist das erstaunliche: Criticón ist eine konservative Zweimonatsschrift, ein Blatt der rechten Intelligenz, sowohl nach seinem Selbstverständnis wie im Urteil der Kritiker. – Claus Leggewie 1987

Schrenck-Notzing wird diese Entwicklung mit Bitterkeit verfolgt haben, wenngleich er sich das niemals anmerken ließ. Durch die Zeitschrift Agenda, die seine Förderstiftung Konservative Bildung und Forschung (FKBF) mit einigen Nummern erscheinen ließ, versuchte er noch einmal zu den Anfängen von Criticón zurückzukehren und ein konservatives Rezensionsorgan zu schaffen. Geglückt ist das nur im Ansatz. Es war offenbar Zeit für etwas Anderes, und das Erscheinen der Sezession ist von Freund wie Feind als Versuch betrachtet worden, die Linie Schrenck-Notzings unter den gegebenen Umständen fortzusetzen.


Artikel ausgedruckt von Sezession im Netz: http://www.sezession.de

Adresse zum Artikel: http://www.sezession.de/caspar-von-schrenck-notzing-und-criticon.html

Adressen in diesem Beitrag:

[1] Bild: http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2009/02/schrenck.jpg

[2] Bild: http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2009/02/img4881.jpg

[3] Bild: http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2009/02/img4891.jpg

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Les nouvelles censures

LES NOUVELLES CENSURES


censure « Procès, pétitions, concerts d’indignation, appels à la vigilance : difficile aujourd’hui d’exprimer une pensée forte sans s’exposer à ces formes subtiles de censure qui jouent sur l’intimidation et la peur. L’actualité en fournit des exemples à un rythme incessant. (...) La liberté de parole semble se rétrécir comme une peau de chagrin, soit en raison d’une pénalisation du débat, soit parce que les clercs de l’idéologie dominante, manient avec un talent consommé l’art de l’intimidation morale. Du coup, soit on pense comme tout le monde parce qu’on a oublié qu’il est possible de penser autrement, soit on se cache, par crainte du ridicule ou par peur. (...)


Il n’est pas jusqu’aux bouffons du roi qui en perdent leur insolence. Certains sketches de Pierre Desproges, à les réécouter vingt ans après, semblent avoir été prononcés sur une autre planète, où l’on ne vivrait pas en permanence, comme sur la nôtre, dans la hantise de franchir une invisible ligne jaune, d’autant plus redoutable qu’on ne sait pas trop qui l’a fixée, ni où elle se trouve. (...) Si les humoristes ont du mal à plaisanter, intellectuels, penseurs, journalistes et hommes politiques sont évidemment soumis à des contraintes bien plus pressantes. L’actualité des dernières années ne manque pas d’exemples de ce rétrécissement de la liberté de parole, toujours sous couvert d’humanisme, de respect et de tolérance. (...)


Inoubliable pour son rôle de postier en chef dans Bienvenue chez les Ch’tis, Kad Merad est amateur de cigares. Dans une interview à un magazine spécialisé, il a ainsi raconté qu’il appréciait "le cigare à l’apéro". Grave erreur : la cour d’appel de Paris vient de condamner la publication à payer 5 000 euros de dommages et intérêts à l’association Droits des non-fumeurs pour “publicité directe ou indirecte en faveur du tabac”. Le journal avait eu le tort, selon la cour, d’associer le tabac "à une image positive, celle d’un acteur connu de cinéma". Connaissant l’activisme judiciaire des modernes ligues de vertu, on voit mal comment ce type de jugement ne s’élargirait pas désormais au vin et à l’alcool. Il risque d’être bientôt impossible, sous peine de poursuites, d’avouer dans la presse qu’on aime le gevrey-chambertin ou les armagnacs hors d’âge. Et pourquoi ne pas traquer aussi les amateurs de religieuses au chocolat, dés lors qu’on exhorte sans cesse les gens à ne pas manger gras, salé, sucré ? (...)


Finis les balayeurs, les mendiants, les handicapés, les voyous : bienvenue aux techniciens de surface, aux SDF, aux personnes à mobilité réduite, aux “jeunes”. Adieu les Noirs, les Jaunes et les Arabes, tous fondus dans ce grand melting-pot des “personnes issues de la diversité” – comme si le fait de nommer l’origine de quelqu’un revenait à lui manquer de respect. Le syndicat des bouchers n’a pas manqué de se ¬plain¬dre, à l’occasion d’on ne sait plus quel fait divers sanglant, que les médias parlent d’une “boucherie”. Le respect des personnes et des communautés se marie mal avec celui du vocabulaire – et l’on sait bien que la censure du vocabulaire débouche toujours sur une cen¬sure de la pensée. À force de ne plus donner aux choses leur vrai nom, on finit par ne plus les voir comme elles sont. Et c’est parce que nous ne sommes plus ca¬pables de regarder la mort, comme le soleil, en face, que plus personne n’est, jamais, en danger de mort : c’est seulement le “pronostic vital” qui, lui, est “engagé”. (...)


En 2007, des plaintes déposées contre le “racisme” de Tintin au Congo décidaient un éditeur américain à renoncer à publier le livre. La même chose arrivera-t-elle bientôt à Ronsard ? Un rapport de la Halde, daté du 6 novembre 2008, se penchait sur les “stéréotypes et discriminations dans les manuels scolaires”. Après nous y avoir appris que le simple fait de représenter un jeune homme qui "aspire au ¬mariage avec une femme et à une famille hétéroparentale" constitue un odieux stéréotype "hétérosexiste" et déploré qu’on n’évoque pas les comportements homosexuels dans l’étude de la reproduction du rat, les auteurs, avec leur imperturbable sérieux, attirent l’attention sur les manuels de français : "Le poème de Ronsard Mignonne allons voir si la rose est étudié par tous les élèves. Toutefois, ce texte véhicule une image somme toute très négative des seniors. Il serait intéressant de pouvoir mesurer combien de textes proposés aux élèves présentent ce type de stéréotypes, et chercher d’autres textes présentant une image plus positive des seniors pour contrebalancer ces stéréotypes." Sans doute faut-il se dépêcher d’en rire, car il se pourrait que nous ne tardions pas à devoir en pleurer. »



Valeurs Actuelles, "On ne peut plus rien dire", 2 janvier 2009

Lev Nikolaevic Gumilëv

Martino Conserva / Vadim Levant, Lev Nikolaevic Gumilëv, pp. 83.

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Quarto titolo della collana “Quaderni di Geopolitica”, quest’opera differisce dalle precedenti perché non è la pubblicazione commentata d’un testo inedito, bensì una biografia. Anche la scelta del soggetto, a prima vista, potrebbe apparire insolita per l’argomento della collana; ma ciò, appunto, solo a prima vista, a quanti volessero ridurre la geopolitica ad una pura analisi contingente dei rapporti internazionali. Tale, evidentemente, non è l’opinione degli Autori: Vadim Levant e Martino Conserva. Quest’ultimo è un economista milanese, già specialista d’analisi di rischio paese e dei mercati finanziari internazionali presso una delle maggiori banche italiane, ancora oggi collaboratore di riviste finanziarie, ma appassionato di arte, filosofia e storia.

Egli risiede, con la famiglia, a San Pietroburgo, dove, quando ancora si chiamava Leningrado, Vadim Ridovic Levant ha condotto i suoi studi storici. Per una curiosa inversione di tendenze, se l’economista Conserva ha finito con lo scrivere di storia e filosofia, lo storico Levant è oggi dirigente d’una società russo-cinese! Dicevamo, dunque, che i due Autori non hanno questa visione riduttiva della geopolitica, ma la estendono anche all’indagine storica della vicenda umana relazionata all’ambiente. Tale è senz’altro il caso di Lev Nikolaevic Gumilëv, celeberrimo storico, filosofo e geografo russo. Una piccola parte della propria notorietà, egli la dovette all’uomo e alla donna che lo generarono nel 1912, i poeti Nikolaj Stepanovic Gumilëv e Anna Andreevna Achmatova. Purtroppo per lui, in vita questi nobili natali finirono col perseguitarlo: dalla fucilazione del padre nel 1921, il nuovo corso bolscevico fu per il giovane Gumilëv un vero e proprio incubo. Dal 1935 iniziò a fare avanti e indietro dalle carceri ai lavori forzati (in totale, tra prigionia, campi di lavoro e confino, 13 anni di segregazione), sempre per delazioni che il più delle volte la stessa giustizia sovietica avrebbe poi riconosciute come infondate. Ma, riabilitazione o no, resta il fatto che il pur geniale Gumilëv riuscì a laurearsi solo a 36 anni, non ottenne mai la carica di professore universitario e poté tenere i propri corsi di “studio dei popoli” solo in maniera informale, semiclandestina. Fondatore della scuola etnologica russa, elaboratore di teorie originalissime, Lev Nikolaevic rimase sempre un intellettuale isolato perché troppo indipendente, spesso e volentieri attaccato dalla intelligencija ufficiale. Basti per tutti l’aneddoto, nello stesso tempo divertente e tragico, riportato da Levant e Conserva. Nel 1974 Gumilëv, che già s’era imposto all’attenzione per diverse pubblicazioni, decise di conseguire il dottorato in geografia, siccome, essendo nell’organico di quella facoltà ma laureato in storia, rischiava d’esserne espulso col pretesto che non era “specialista”. La sua dissertazione di dottorato, L’etnogenesi e la biosfera della terra (fulcro dell’omonimo capolavoro che avrebbe pubblicato in seguito), fu riconosciuta dagli stessi esaminatori come un’opera d’altissimo profilo, ma, proprio per questo, ritenuta «superiore al livello di una elaborazione di dottorato e, pertanto, non una tesi di dottorato»; come dire: bocciato perché troppo bravo! Eppure lo studioso, che nel frattempo cominciava già a mietere riconoscimenti all’estero, rifiutò sempre di fuggire e di lasciare il paese che, nonostante tutti i torti e i soprusi arbitrariamente inflittigli, amava intensamente. Tanto più dolorosa dovette apparirgli, allora, la campagna denigratoria condotta negli anni ‘80 contro di lui da sedicenti “patrioti”, in realtà vetero-nazionalisti con sfumature xenofobe, che l’accusavano d’essere un nemico della Russia. Nel frattempo, proseguiva contro di lui l’ostracismo degli accademici, e nel 1981 gli fu anzi vietato di pubblicare alcunché. Gumilëv accolse con scetticismo anche la perestrojka, e fu proprio Juri Afanas’ev, uno dei suoi teorici, a condurre l’ultimo grande attacco contro il pensiero dello storico e geografo. Lev Nikolaevic giunse vecchio e malato alla caduta della “cortina di ferro”: innumerevoli inviti gli giungevano dall’estero, ma le sue condizioni di salute, e non più il regime, gl’impedivano ora di muoversi. Per lo meno, dal 1992 la Russia cominciò a tributare a Gumilëv i sacrosanti onori che meritava: successi editoriali per i suoi libri, inviti a dibattiti televisivi e radiofonici, lezioni pubbliche delle sue teorie. Ma l’anziano studioso, amareggiato dal tragico crollo di quella patria che, come Socrate, aveva amata benché gli fosse stata carnefice, riuscì solo ad assaggiare la tanto sospirata popolarità, perché proprio nel 1992 terminò la sua esistenza terrena. I concittadini pietroburghesi parteciparono commossi e in massa ai funerali, accompagnando la bara fino alla tumulazione nel Monastero Aleksandr Nevskij, dove riposa anche il celebre eroe eponimo. In Italia una sola opera di Gumilëv è stata finora pubblicata: Gli Unni, dalla Einaudi nel 1972. L’aspetto del suo pensiero che interessa più gli Autori, e che viene analizzato nella seconda parte dell’opera, è invece la teoria dell’etnogenesi. In estrema sintesi (chi leggerà l’opera potrà avere maggiori e più esatti particolari), Gumilëv vedeva i popoli come organismi collettivi viventi, i quali attraversano diverse fasi di crescita e caduta, regolate dall’elemento della passionarietà (ch’è sentimento sia individuale sia collettivo), ossia «l‘aspirazione ad agire, senza alcuno scopo evidente, o in base a scopi illusori», incontrollabile e inevitabile. Non poteva mancare, inoltre, un capitolo su Gumilëv e la geopolitica. A differenza degli studiosi già presi in esame dai “Quaderni di Geopolitica” (Haushofer e Von Leers), Gumilëv si guardò sempre bene dall’elaborare tesi propriamente geopolitiche (un po’ perché non gli interessava, un po’ perché aveva già problemi a sufficienza con le autorità sovietiche). Tuttavia, i suoi studi sono stati fondamentali per la nascita della contemporanea scuola geopolitica russa. Innanzitutto, Gumilëv con le sue opere ha rivalutato senza mezzi termini i popoli orientali e il loro apporto alla nascita della Russia: non a caso l’Università Nazionale Eurasiatica di Astana (capitale del Kazakistan) è stata intitolata proprio a lui. Ne consegue, inoltre, ch’egli ha svuotato il patriottismo russo delle possibilità d’una deriva xenofoba e piccolo-nazionalistica, riconoscendo il carattere multietnico e le molteplici radici culturali della Russia - o, per altri versi, l’unità indissolubile dell’Eurasia, quell’Eurasia che era già da decenni al centro dell’elaborazione geopolitica anglosassone e che ora, finalmente, veniva riconosciuta nella sua unità d’insieme anche a Mosca. Notano gli Autori come la concezione gumilëviana dell’Eurasia quale unione tra “Foresta” (gli Slavi) e “Steppa” (i nomadi turanici) ricalchi esattamente il tema di Halford Mackinder della Russia quale grande nemica degli Anglosassoni, in quanto riunificatrice delle forze del “Cuore della Terra” (Heartland). Lev Nikolaevic fu anche definito “l’ultimo eurasiatista”, ed egli accettò di buon grado questo titolo. Ci piace allora concludere con una frase dello stesso Gumilëv (non prima di segnalare che l’opera comprende anche un Glossario dei concetti e dei termini e una Bibliografia scientifica, un esplicito invito all‘approfondimento rivolto al lettore): «Tesi eurasiatista: occorre cercare non tanto nemici - ce ne sono tanti! - quanto amici, questo è il supremo valore nella vita». Un insegnamento di Gumilëv che meriterebbe davvero d’essere appreso e fatto proprio da tutti. Daniele Scalea ("Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici", 1/2006)

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/



Ci sono termini ed espressioni che hanno uno strano destino, soprattutto se si tratta di traduzioni. Una di queste è l’espressione latina “mos maiorum”. Purtroppo in ambito accademico i traduttori di opere greche e latine ci offrono spesso versioni letterali, orribili e – va detto! – “sbagliate”. Sbagliate non già sotto un aspetto prettamente semantico (la traduzione è, in fin dei conti, accettabile), ma perché non tengono conto di una più libera ma esatta equivalenza tra termini di lingue diverse e, soprattutto, eludono – per stanca e incolore prassi scientifico-accademica – il fattore estetico. Per rendere mos maiorum troverete, infatti, “usanze dei padri”, “costume degli antenati” e altre formulacce del genere. Al contrario, per tradurre esattamente il termine, esiste una e una precisa parola: Tradizione (in greco èthos). Che altro sono “i costumi dei padri” se non princìpi e valori verso i quali i membri di una comunità devono osservare venerazione ed emulazione? “Tradizione”. Punto.

Il mos maiorum è inoltre assolutamente necessario per comprendere veramente la Romanità: esso, infatti, era alla base e si manifestava in ogni aspetto (diritto, famiglia, politica, cultura, religione…) della vita comunitaria e privata dei cittadini romani.

Il diritto romano, anzitutto, fu da principio regolato unicamente dalla tradizione non scritta che gli avi trasmisero ai posteri: prima della codificazione delle leggi delle XII tavole non esisteva, infatti, legge (lex da lego, cioè che deve esser letta in quanto scritta). «La concezione romana rifiuta in linea di massima la codificazione e mostra una forte riluttanza nella emanazione di singole leggi. Il popolo del diritto non è il popolo della legge»: questa la celebre formula coniata da F. Schulz nei Prinzipien des römischen Rechts (Princìpi del Diritto romano). Da qui nasce, in ambito giuridico, la dicotomia/antitesi tra mos e lex, tra costume che viene dalla veneranda tradizione e la legge. Così Cicerone, nelle Catilinarie, invoca il mos maiorum contro la legge scritta per poter mettere a morte Catilina: secondo la Tradizione era possibile condannare a morte i nemici della Patria, non per le leges Valeriae-Semproniae che proibivano la pena capitale per un cittadino romano. Questo esempio mette in evidenza l’enorme potere che la Tradizione esercitava nel diritto romano, molto spesso superiore alla stessa legge.

La Tradizione era altresì fondamentale nella vita politica e, in particolar modo, per il Senato. I membri di quest’ultimo, infatti, erano i discendenti degli eroi che fecero grande Roma e, giacché secondo i Romani la virtus maiorum si trasmetteva di padre in figlio, la auctoritas e la legittimazione del potere dei senatori venivano direttamente dalla gloria dei loro antenati. Tale principio si manifestava al massimo grado nei funerali pubblici delle famiglie patrizie, in cui tutte le imagines degli antenati della gens (maschere di cera che riproducevano le fattezze degli avi) sfilavano in lunghi cortei che si concludevano con l’orazione celebrativa, nella quale si lodavano, oltre alle virtù del defunto, le gloriose gesta dei suoi progenitori. Era quindi obbligatorio per gli eredi delle grandi famiglie di Roma conoscere le imprese dei propri antenati, e l’educazione dei giovani nobili verteva eminentemente sulla trasmissione dei mores maiorum. È emblematica al riguardo l’immagine, lasciataci dalla letteratura antica, di Scipione Emiliano che ritrova vigore e propensione a grandiose gesta osservando le immagini dei suoi avi.

Ma tale culto della Tradizione non esisteva esclusivamente nelle autorevoli famiglie patrizie, ma era altresì venerata la gloria populi Romani, ossia la Tradizione comune a tutto il popolo di Roma.
Ogni cittadino romano ha dunque il dovere di mantenere e, possibilmente, di accrescere la gloria dei padri, praticando la via della virtus.

Parimenti in ambito militare e religioso il mos maiorum è un elemento inscindibile dall’essenza stessa della Romanità. Le virtù dei maiores, come ce le tramandano gli scrittori greci e romani, sono le seguenti:

- Fortitudo: capacità, coraggio;
- Fides: fedeltà (verso gli altri);
- Pietas: fedeltà (verso gli dèi, la Patria, la famiglia);
- Iustitia: senso della giustizia;
- Audacia: coraggio;
- Constantia: costanza;
- Magnitudo animi: nobiltà d’animo;
- Aequitas: equità;
- Probitas: probità;
- Auctoritas: autorità;
- Honestas: onestà;
- Temperantia: misura;
- Clementia: moderazione.

La tradizione romana si fondava, in ultima analisi, sugli exempla maiorum, ossia le eroiche gesta compiute dagli avi, le quali spingevano i giovani a rendere sempre più grande Roma: e questo proprio perché gli esempi di virtù degli antenati erano tali in quanto volti all’accrescimento della gloria dell’Urbe. Si capirà meglio, quindi, il motivo per il quale l’educazione dei fanciulli romani si basasse sugli exempla maiorum: non precetti ma esempi, giacché il precetto istruisce, ma è l’esempio che trascina e muove gli animi.

In conclusione, vediamo che sia gli antichi che i moderni ravvisarono nel culto della Tradizione (il mos maiorum) il segreto della grandezza di Roma; e tanto più i romani se ne discostavano, tanto più era lecito parlare di decadenza e degenerazione dei costumi.
Non a caso lo storico greco Polibio canta la gloria di Roma spiegando ai propri compatrioti che Roma ha conquistato il mondo grazie alle sue istituzioni e alla forza che le viene dall’osservanza della sua nobile Tradizione.

Ora, dunque, potremo comprendere più a fondo il celeberrimo verso del poeta Ennio che, scolpendo il suo esametro come solido marmo, cantò: Moribus antiquis res stat romana virisque, «Roma si fonda sulla Tradizione e sui suoi eroi»!

Introduction to the Portuguese National-Syndicalist Movement

Flavio Goncalves

Introduction to the Portuguese National-Syndicalist Movement

Lecture delivered at the VI Young Eurasian Intellectuals Congress in the Moscow State University, 27th of November, 2008, Russia - http://evrazia.info/

Rolao Preto When we mention National-Syndicalism people always remember the Spanish version and ignore the Portuguese version of the phenomenon, pushed by Rolao Preto and many other Portuguese activists.

National-Syndicalism was hated by both the New State dictatorship in Portugal and by the Communist opposition; the Communists like to forget that they were not the only political movement prosecuted by the government.

I will not give you the History of this movement, but solely it’s political leanings that caused it’s members to be considered as “Fascists” by the Left and as “Communists” by the Right.

It was a workers oriented movement that also had many intellectuals, they wore blue jean shirts because those were the shirts the Portuguese proletariat used at the time.

They defended the implementation of a family wage to the housewife’s, considering that taking care of one’s home and family was a very hard and important work that should be paid as such.

They had workers unions that included both farmers and factory workers along with white collar and blue collar workers, they were not Right-wingers nor Left-wingers given that they believed that those labels were just another way of dividing the Nation’s population.

They preached that wealth should only be produced by work, not by speculation and usury as it was then, and still is now: only hard work should be rewarded with the creation of wealth.

All families should have the right to a house, without mortgage, that is: you and your family should have a house without having to pay for it to the banks for the rest of your life to own it!!

Local power should be very strong as opposed to central power that corrupts, as all powers do.

They also opposed the accumulation of political, private and governmental positions, something still very fashionable in today’s Portugal, where politicians also work for private companies and even state owned companies gathering several wages instead of solely one.

They were also the first ones preaching anti-colonialism, Portugal should create something off the likes of the British Commonwealth instead of keeping it’s imperial rule, they were very much ahead of their time.

For preaching a creed that was beyond Capitalism, Liberalism and Communism they were forced into exile, prosecuted and sent to jail by the far-Right government and attacked on the streets by the far-Left and the Communists that hated their popularity among the working classes.

They were even referred to as “National-Communists” for defending a strong sense of national community at the same time that they supported class war (of the oppressed against the oppressors) and workers emancipation.

There is much to discover still about this movement given that the New State dictatorship did it’s best to erase it from memory and after the Portuguese revolution the Democrats did the exact same thing, we have still much to research about this movement that gathered under a single banner thousands willing to fight both a far-Right government and a far-Left empty opposition.

El viento divino o la muerte voluntaria

 

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EL VIENTO DIVINO O LA MUERTE VOLUNTARIA

ISIDRO JUAN PALACIOS

Nuestra sombría discusión fue interrumpida por la llegada de un automóvil negro que venía por la carretera, rodeado de las primeras sombras del crepúsculo".

Rikihei Inoguchi, oficial del estado mayor y asesor del grupo Aéreo 201 japonés, charlaba con el comandante Tamai sobre el giro adverso que había tomado la guerra. Aquel día, 19 de octubre de 1944, había brillado el Sol en Malacabat, un pequeño pueblo de la isla de Luzón, en unas Filipinas todavía ocupadas por los ejércitos de Su Majestad Imperial, Hiro-Hito. "Pronto -recuerda Inoguchi- reconocimos en el interior del coche al almirante Takijiro Ohnishi..." Era el nuevo comandante de la fuerzas aeronavales japonesas en aquel archipiélago. "He venido aquí -dijo Ohnishi- para discutir con ustedes algo de suma importancia. ¿Podemos ir al Cuartel General?"

El almirante, antes de comenzar a hablar, miró en silencio al rostro de los seis oficiales que se habían sentado alrededor de la mesa. "Como ustedes saben, la situación de la guerra es muy grave. La aparición de la escuadra americana en el Golfo de Leyte ha sido confirmada (...) Para frenarla -continuó Ohnishi- debemos alcanzar a los portaviones enemigos y mantenerlos neutralizados durante al menos una semana". Sin una mueca, sentados con la espalda recta, los militares de las fuerzas combinandas seguían el curso de las palabras del almirante. Y entones vino la sorpresa.

"En mi opinión, sólo hay una manera de asegurar la máxima eficiencia de nuestras escasas fuerzas: organizar unidades de ataque suicidas compuestas por cazas Zero armados con bombas de 250 kilogramos. Cada avión tendría que lanzarse en picado contra un portaviones enemigo... Espero su opinión al respecto".

Tamai tuvo que tomar la decisión. Fue así como el Grupo Aéreo 201 de las Filipinas se puso al frente de todo un contingente de pilotos que enseguida le seguirían, extendiéndose el gesto de Manila a las Marianas, de Borneo a Formosa, de Okinawa al resto de las islas del Imperio del Sol Naciente, el Dai Nippon, sin detenerse hasta el día de la rendición.

Tras celebrar una reunión con todos los jefes de escuadrilla, Tamai habló al resto de los hombres del Grupo Aéreo 201; veintitrés brazos jóvenes, adolescentes, "se alzaron al unísono anunciando un total acuerdo en un frenesí de emoción y de alegría". Eran los primeros de la muerte voluntaria. Pero, ¿quién les mandaría e iría con ellos a la cabeza, por el cielo, y caer sobre los objetivos en el mar? El teniente Yukio Seki, el más destacado, se ofreció al comandante Tamai para reclamar el honor. Aquel grupo inicial se dividiría en cuatro secciones bautizadas con nombres evocadores: "Shikishima" (apelación poética del Japón), "Yamato" (antigua designación del país), "Asahi" (Sol naciente) y "Yamazukura" (cerezo en flor de las montañas).

Configurado de este modo el Cuerpo de Ataque Especial, sólo restaba buscarle una identidad también muy especial, como indicó oportunamente Inoguchi; y fue así como se bautizó a la "Unidad Shimpu". Shimpu, una palabra repleta de la filosofía del Zen. En realidad no tiene ningún sentido, es una mera onomatopeya, pero es otra de las formas de leer los ideogramas que forman la palabra KAMIKAZE, "Viento de los Dioses".

"Está bien -asintió Tamai-. Después de todo, tenemos que poner en acción un Kamikaze". El comandante Tamai dio el nombre a las unidades suicidas japonesas, llamando a sus componentes los "pilotos del Viento Divino".

La escuadrilla Shikishima, al frente de la cual se hallaba el teniente Seki, salió, para ya no regresar, el 25 de octubre de 1944, desde Malacabat, a las siete y veinticinco de la mañana. Sobre las once del día, los cinco aparatos destinados divisaron al enemigo en las aguas de las Filipinas. El primero en entrar en picado y romperse súbitamente, como un cristal, fue el teniente Seki, seguido de otro kamikaze a corta distancia, hundiendo el portaviones "St.Lo", de la armada norteamericana. Ante los ojos incrédulos de los yanquis, los restantes tres pilotos se lanzaron a toda velocidad en su último vuelo, a 325 kilómetros por hora en un ángulo de 65 grados, hundiendo el portaviones "Kalinin Bay" y dejando fuera de combate los destructores "Kitkun" y "White Plains". Siguiendo su ejemplo, la unidad Yamato emprendió vuelo un día después, el 26 de octubre, al encuentro certero con la muerte, después de brindar con sake y entonar una canción guerrera por aquel entonces muy popular entre los soldados:

"Si voy al mar, volveré cadáver sobre las olas.

Si mi deber me llama a las montañas,

la hierba verde será mi mortaja .

Por mi emperador no quiero morir en la paz del hogar".

Tras el primer asombro, un soplo gélido de terror sacudió las almas del enemigo, los soldados de la Tierra del Dólar.

Lo asombroso del Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial no fue su novedad, ni siquiera durante la Segunda Guerra Mundial. Fue su especial espíritu y sus numerosísimos voluntarios lo que les distinguió de otras actitudes heroicas semejantes, de igual o superior valor. La invocación del nombre del Kamikaze despertaba en los japoneses la vieja alma del Shinto, los milenarios mitos inmortales anclados en la suprahistoria, y recordaba que cada hombre podía convertirse en un "Kami", un dios viviente, por la asunción enérgica de la muerte voluntaria como sacrificio, y alcanzar así la "vida que es más que la vida".

De hecho, la táctica del bombardeo suicida ("tai-atari") ya había sido utilizada por las escuadrillas navales en sus combates de impacto aéreo contra los grandes bombarderos norteamericanos. Pero aisladamente. Asímismo, otros casos singulares de enorme heroísmo encarando una muerte segura tuvieron lugar durante esa guerra. Yukio Mishima, en sus "Lecciones espirituales para los jóvenes samurai", nos narra una anécdota entre un millón que, por su particular belleza, merece ser aquí recordada. Y dice de este modo: "Se ha contado que durante la guerra uno de nuestros submarinos emergió frente a la costa australiana y se arrojó contra una nave enemiga desafiando el fuego de sus cañones. Mientras la Luna brillaba en la noche serena, se abrió la escotilla y apareció un oficial blandiendo su espada catana y que murió acribillado a balazos mientras se enfrentaba de este modo al poderoso enemigo".

Más lejos y mucho antes, también entre nosotros, tan acostumbrados a la tragedia de antaño, de siempre, en la España medieval, se produjo un caso parecido a este del Kamikaze, salvando, claro está, las distancias. Con los musulmanes dominando el sur de la Península, surgieron entre los cristianos mozárabes, sometidos al poder del Islam, unos que comenzaron a llamarse a sí mismos los "Iactatio Martirii", los "lanzados", los "arrojados al martirio", es decir, a la muerte. Los guiaba e inspiraba el santo Eulogio de Córdoba, y actuaron durante ocho años bajo el mandato de los califas, entre el año 851 y el 859. Su modo de proceder era el siguiente: penetraban en la mezquita de manera insolente, siempre de uno en uno, y entonces, a sabiendas de que con ello se granjeaban una muerte sin paliativos, abominaban del Islam e insultaban a Mahoma. No tardaban en morir por degollamiento. Hubo por este camino cuarenta y nueve muertes voluntarias. El sello lo puso Eulogio con la suya propia el último año.

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Tampoco se encuentra exenta la Naturaleza de brindarnos algún que otro ejemplo claro de lo que es un kamikaze. De ello, el símbolo concluyente es el de la abeja, ese insecto solar y regio que vive en y por las flores, las únicas que saben caer gloriosas y radiantes, jóvenes, en el esplendor de su belleza, apenas han comenzado a vivir por primavera. Igual que la abeja, que liba el néctar más dulce y está siempre dispuesta para morir, así actúa también el kamikaze, cayendo en a una muerte segura frente al intruso que pretende hollar las tierras del Dai Nippon. El marco tiene todos los ingredientes para encarnar el misterio litúrgico o el acto del sacrificio, del oficio sacro.

En "El pabellón de oro", Yukio Mishima describe una misión simbólica. Una abeja vela en torno a la rueda amarilla de un crisantemo de verano (el crisantemo, la flor simbólica del Imperio Japonés); en un determinado instante -escribe Mishima- "la abeja se arrojó a lo más profundo del corazón de la flor y se embadurnó de su polen, ahogándose en la embriaguez, y el crisantemo, que en su seno había acogido al insecto, se transformó, asimismo, en una abeja amarilla de suntuosa armadura, en la que pude contemplar frenéticos sobresaltos, como si ella intentase echarse a volar, lejos de su tallo". ¿Hay una imagen más perfecta para adivinar la creencia shintoísta de la transformación del guerrero, del artesano, del príncipe, del que se ofrenda en el seno del Emperador, a su vez fortalecido por el sacrificio de sus servidores? Desde hace más de dos mil seiscientos años, el Trono del Crisantemo (una línea jamás ininterrumpida) es de naturaleza divina: ellos son descendientes directos de la diosa del Sol, Amaterasu-omi-Kami; los "Tennos", los emperadores japoneses, son las primeras manifestaciones vivientes de los dioses invisibles creadores, en los orígenes, de las islas del Japón. No son los representantes de Dios, son dioses... por ello, Mishima, en su obra "Caballos desbocados", define así, con absoluta fidelidad a la moral shintoísta, el principio de la lealtad a la Vía Imperial (el "Kodo"): "Lealtad es abandono brusco de la vida en un acto de reverencia ante la Voluntad Imperial. Es el precipitarse en pleno núcleo de la Voluntad Imperial".

Corría el siglo XIII, segunda mitad. El budismo no había conseguido todavía apaciguar a los mongoles, cosa de lo que más tarde se ha ufanado. Kublai-Khan, el nieto de Temujin, conocido entre los suyos como Gengis-Khan, acababa de sumar el reino de Corea al Imperio del Medio. Sus planes incluían el Japón como próxima conquista. Por dos veces, una en 1274 y otra en 1281, Kublai-Khan intentó llegar a las tierras del Dai Nippon con poderosos navíos y extraordinarios efectos psíquicos y materiales; y por dos veces fue rechazado por fuerzas misteriosas sobrehumanas. Primero, una tempestad y después un tifón desencadenados por los kami deshicieron los planes del Emperador de los mongoles. Ningún japonés olvidaría en adelante aquel portentoso milagro, que fue recordado en la memoria colectiva con su propio nombre: "Kamikaze", viento de los kami, Viento Divino.

El descubrimiento del país de Yamato, al que Cristobal Colón llamaba Cipango, y que fue conocido así también por los portugueses y después por los jesuitas españoles, por los holandeses e ingleses que les siguieron en el siglo XVI, no fue del todo mal recibido por los shogunes del Japón. Sin embargo, un poco antes de mediados de la siguiente centuria, el shogunado de Tokugawa Ieyashu había empezado a desconfiar de los "bárbaros" occidentales, por lo que decide la expulsión de los extranjeros, impide las nuevas entradas y prohibe la salida de las islas a todos los súbditos del Japón. En 1647 se promulga el "Decreto de Reclusión", por el cual el Dai Nippon se convertiría de nuevo en un mundo interiorizado, en un país anacoreta. Japón se cerró al comercio exterior y a las influencias ideológicas de Occidente, ya tocado irreversiblemente por el espíritu de la modernidad. De esta forma es como se vivió en aquellas tierras hasta bien entrado el siglo XIX, de espaldas a los llamados "progresos". Japón ignorará también el nacimiento de una nueva nación que para su desgracia no tardará en ser, con el tiempo, la expresión más cabal de su destino fatídico, como le sucedería igualmente a otros pueblos de formación tradicional. La nueva nación se autodenominará "América", pretendiendo asumir para sí el destino de todo un continente. Intolerable le resultará al Congreso y al presidente Filemore la existencia de un pueblo insolente, fiel a sí mismo, obstinado en seguir cerrado por propia voluntad al comercio y a las "buenas relaciones". Japón debía ser abierto, y, si fuera preciso, a fuerza de cañonazos. Todo muy democráticamente. Todavía hoy, en el Japón moderno y americanizado, los barcos negros del almirante Perry son de infausta memoria.

Los estruendos de la pólvora y el hierro hicieron despertar bruscamente a muchos japoneses, para quienes la presencia norteamericana indicaba con claridad que la Tierra del Sol Naciente había descendido a los mismos niveles que las naciones decadentes, de los que antes estuvieron preservados. Muchos pensaron que la causa de tal desgracia le venía al Dai Nippon por haberse olvidado de los descendientes de Amaterasu, del Emperador, recluido desde hacía centurias en su palacio de Kioto. Por ello se alzó enseguida una revuelta a los gritos de "¡Joy, joy!" (¡fuera, fuera!, referido a los extranjeros) y de "¡Sonno Tenno!" (¡venerad al Emperador!). La restauración Meiji de 1868 se apuntaló bajo el lema del "fukko", el retorno al pasado. Pero la tierra de Yamato tuvo que aceptar por la fuerza la nueva situación y ponerse a rivalizar con el mundo moderno, pero sin perder de vista su espíritu invisible, al que siguió siendo fiel. Cuando Yukio Mishima escribe sobre esa época, piensa lo que otros también pensaron como él. Y, así, anota: "Si los hombres fuesen puros, reverenciarían al Emperador por encima de todo. El Viento Divino (el Kamikaze) se levantaría de inmediato, como ocurrió durante la invasión mongola, y los bárbaros serían expulsados".

Año de 1944. Mes de octubre. El Japón se encuentra en guerra frente a las potencias anglonorteamericanas. La escuadra yanqui está cercando las islas Filipinas, y en sus aguas orientales se aproxima, golpe tras golpe, hacia el mismo corazón del Imperio... El almirante Onhisi concibe la idea de lanzar a los pilotos kamikaze...

El mismo día en que el Emperador Hiro-Hito decide anunciar la rendición incondicional de las armas japonesas y se lo comunica al pueblo entero por radio (¡era la primera vez que un Tenno hablaba directamente!), el comandante supremo de la flota, vicealmirante Matome Ugaki, había ordenado preparar los aviones bombarderos de Oita con el fin de lanzarse en vuelo kamikaze sobre el enemigo anclado en Okinawa. Era el 15 de agosto de 1945. En su último informe, incluyó sus reflexiones finales...: "Sólo yo, Majestad, soy responsable de nuestro fracaso en defender la Patria y destruir al ensoberbecido enemigo. He decidido lanzarme en ataque sobre Okinawa, donde mis valerosos muchachos han caído como cerezos en flor. Allí embestiré y destruiré al engreído enemigo. Soy un bushi, mi alma es el reflejo del Bushido. Me lanzaré portando el kamikaze con firme convicción y fe en la eternidad del Japón Imperial. ¡Banzai!". Veintidós aviadores voluntarios salieron con él, sólo por seguirle en el ejemplo de su última ofrenda. No estaban obligados. La guerra había concluido. Pero... no obstante, tampoco podían desobedecer las órdenes del Emperador, que mandaba no golpear más al adversario. Se estrellaron en las mismas narices de los norteamericanos, que contemplaron atónitos un espectáculo que no podían comprender... Ugaki hablaba del Bushido -el código de honor de los guerreros japoneses-. ¿Acaso no es el kamikaze, por esencia y por sentencia, un samurai?

En los botones de sus uniformes, los aviadores suicidas llevaban impresas flores de cerezo de tres pétalos, conforme al sentido del viejo haiku (poema japonés de dieciséis sílabas) del poeta Karumatu:

"La flor por excelencia es la del cerezo,

el hombre perfecto es el caballero"

El cerezo es una flor simbólica en las tierras japonesas, nace antes que ninguna otra, antes de iniciarse la primavera, para, en la plenitud de su gloria, caer radiante; es la flor de más corta juventud, que muere en el frescor de su belleza. Siempre fue el distintivo de los samurai.

Al encenderse los motores, los pilotos kamikaze se ajustaban el "hashimaki", la banda de tela blanca que rodea la cabeza con el disco rojo del Sol Naciente impreso junto a algunas palabras caligrafiadas con pincel y tinta negra, al modo como antaño lo usaron los samurai antes de entrar en batalla, al modo como cayeron los últimos guerreros japoneses del siglo XIX con sus espadas catana siguiendo al caudillo Saigo Takamori frente a los "marines" del almirante Perry. En la mente fresca y clara, iluminada por el Sol, no había sitio para las turbulencias. Sobre todos, unos ideogramas se repetían hasta la saciedad: "Shichisei Hokoku" ("Siete vidas quisiera tener para darlas a la Patria"). Eran los mismos ideogramas que por primera vez puso sobre su frente Masashige Kusonoki cuando se lanzó a morir a caballo, en un combate sin esperanzas, allá por el siglo XIV; los mismos ideogramas que se colocó alrededor de la cabeza Yukio Mishima en el día de su muerte ritual.

Yukio Mishima, obsesionado por la muerte ya desde su niñez y adolescencia, estuvo a punto de ser enrolado en el Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial. Se deleitaba pensando románticamente que si un día se le diera la oportunidad se ser un soldado, pronto tendría una ocasión segura para morir. Sin embargo, cuando fue llamado a filas y se vio libre de ser incorporado al tomársele erróneamente por un enfermo de tuberculosis, el mejor escritor japonés de los tiempos modernos no hizo nada por deshacer el engaño del oficial médico, saliendo a la carrera de la oficina de reclutamiento. Aquello, pese a todo, le pareció a Mishima un acto de infamante cobardía, como lo confesará más tarde en repetidas ocasiones. El desprecio de su propia actitud fue uno de los factores de menor importancia en el día de su "seppuku" (el "hara-kiri", el suicidio ritual), pero que le llevó a meditar durante años sobre la condición interior del kamikaze. Para Mishima no cabía la menor duda: aquellos pilotos que hicieron ofrenda de sus vidas, con sus aparatos, eran verdaderos samurai. En "El loco morir", afirma que el kamikaze se encuentra religado al Hagakure, un texto escrito entre los siglos XVII y XVIII por Yocho Yamamoto, legendario samurai que tras la muerte de su señor se hizo ermitaño. El Hagakure llegó a ser el libro de cabecera de los samurai, el texto que sintetizó la esencia del Bushido. En cinco puntos finales, venía a decir:

- El Bushido es la muerte.

- Entre dos caminos, el samurai debe siempre elegir aquél en el que se

muere más deprisa.

- Desde el momento en que se ha elegido morir, no importa si la muerte

se produce o no en vano. La muerte nunca se produce en vano.

- La muerte sin causa y sin objeto llega a ser la más pura y segura,

porque si para morir necesitamos una causa poderosa, al lado

encontraremos otra tan fuerte y atractiva como ésta que nos impulse a vivir.

- La profesión del samurai es el misterio del morir.

Para el hombre que guarda la semilla de lo sagrado, la muerte es siempre el rito de paso hacia la trascendencia, hacia lo absoluto, hacia la Divinidad; por esa razón suenan, incluso hoy, sin extrañezas, las primeras palabras del almirante Ohnisi en su discurso de despedida al primer grupo de pilotos kamikaze constituido por el teniente Seki:

"Vosotros ya sois kami (dioses), sin deseos terrenales..."

Ya eran dioses vivientes, y como tales se les veneraba, aunque todavía "no hubieran muerto"; porque, sencillamente, "ya estaban muertos". Los resultados de sus acciones pasaban al último plano de las consideraciones a evaluar. No importaban demasiado... Aunque realmente los hubo: durante el año y medio que duraron los ataques kamikaze, fueron hundidos un total de 322 barcos aliados, entre portaviones, acorazados, destructores, cruceros, cargueros, torpederos, remolcadores, e, incluso, barcazas de desembarco; ¡la mitad de todos los barcos hundidos en la guerra!

Para Mishima, el caza Zero era semejante a una espada catana que descendía como un rayo desde el cielo azul, desde lo alto de las nubes blancas, desde el mismo corazón del Sol, todos ellos símbolos inequívocos de la muerte donde el hombre terreno, que respira, no puede vivir, y por los que paradójicamente todos esos hombres suspiran en ansias de vida inmortal, eterna. "Hi-Ri-Ho-Ken-Ten" fue la insignia de una unidad kamikaze de la base de Konoya. Era la forma abreviada de cuatro lemas engarzados: "La Injusticia no puede vencer al Principio. El Principio no puede vencer a la Ley. La Ley no puede vencer al Poder. El Poder no puede vencer al Cielo".

Aquel 15 de agosto de 1945, cuando el Japón se rendía al invasor, el almirante Takijiro Ohnishi se reunió por última vez con varios oficiales del Estado mayor, a quienes había invitado a su residencia oficial. ¿Una despedida? Los oficiales se retiraron hacia la medianoche. Ya a solas, en silencio, el inspirador principal del Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial se dirigió a su despacho, situado en el segundo piso de la casa. Allí se abrió el vientre conforme al ritual sagrado del seppuku. No tuvo a su lado un kaishakunin, el asistente encargado de dar el corte de gracia separándole la cabeza del cuerpo cuando el dolor se hace ya extremadamente insoportable... Al amanecer fue descubierto por su secretario, quien le encontró todavía con vida, sentado en la postura tradicional de la meditación Zen. Una sola mirada bastó para que el oficial permaneciera quieto y no hiciera nada para aliviar o aligerar su sufrimiento. Ohnishi permaneció, por propia voluntad, muriendo durante dieciocho horas de atroz agonía. Igonaki, Inoguchi y otros militares que le conocían que el almirante, desde el mismo instante en que concibiera la idea de los ataques kamikaze, había decidido darse la muerte voluntaria por sacrificio al estilo de los antiguos samurai, incluso aunque las fuerzas del Japón hubieses alcanzado finalmente la victoria. En la pared, colgaba un viejo haiku anónimo:

"La vida se asemeja a una flor de cerezo.

Su fragancia no puede perdurar en la eternidad".

Poco antes de la partida, los jóvenes kamikaze componían sus tradicionales poemas de abandono del mundo, emulando con ello a los antiguos guerreros samurai de las epopeyas tradicionales. La inmensa mayoría de ellos también enviaron cartas a sus padres, novias, familiares o amigos, despidiéndose pocas horas antes de la partida sin retorno. Ichiro Omi se dedicó, después de la guerra, a peregrinar de casa en casa, pidiendo leer aquellas cartas. su intención era publicar un libro que recogiese todo aquel material atesorado por las familias y los camaradas, y fue así como muchas de aquellas cartas salieron a la luz. Bastantes de éstas y otras fueron a parar a la base naval japonesa de Etaji. Allí también peregrinó Yukio Mishima, poco antes de practicarse el seppuku, releyéndolas y meditándolas. Una, sobre las otras, le conmovió, actuando en su interior como un verdadero koan (el "koan" es, en la práctica del budismo Zen, la meditación sobre una frase que logra desatar el "satori", la iluminación espiritual). Mishima tuvo la tentación de escribir una obra sobre los pilotos del Viento Divino, y así apareció su obra "Sol y Acero". Un breve párrafo de estas cartas y algunos otros de las tomadas por Omi son las fuentes de esta antología:

"En este momento estoy lleno de vida. Todo mi cuerpo desborda juventud y fuerza. Parece imposible que dentro de unas horas deba morir (...) La forma de vivir japonesa es realmente bella y de ello me siento orgullo, como también de la historia y de la mitología japonesas, que reflejan la pureza de nuestros antepasados y su creencia en el pasado, sea o no cierta esa creencia (...) Es un honor indescriptible el poder dar mi vida en defensa de todo en lo creo, de todas estas cosas tan bellas y eminentes. Padre, elevo mis plegarias para que tenga usted una larga y feliz vida. Estoy seguro que el Japón surgirá de nuevo".

Teruo Yamaguchi.

"Queridos padres: Les escribo desde Manila. Este es el último día de mi vida. Deben felicitarme. Seré un escudo para Su Majestad el Emperador y moriré limpiamente, junto con mis camaradas de escuadrilla. Volveré en espíritu. Espero con ansias sus visitas al santuario de Kishenai, donde coloquen una estela en mi memoria ".

Isao Matsuo.

"Elevándonos hacia los cielos de los Mares del Sur, nuestra gloriosa misión es morir como escudos de Su Majestad. Las flores del cerezo se abren, resplandecen y caen (...) Uno de los cadetes fue eliminado de la lista de los asignados para la salida del no-retorno. Siento mucha lástima por él. Esta es una situación donde se encuentran distintas emociones. El hombre es sólo mortal; la muerte, como la vida, es cuestión de probabilidad. Pero el destino también juega su papel. Estoy seguro de mi valor para la acción que debo realizar mañana, donde haré todo lo posible por estrellarme contra un barco de guerra enemigo, para así cumplir mi destino en defensa de la Patria. Ikao, querida mía, mi querida amante, recuérdame, tal como estoy ahora, en tus oraciones".

Yuso Nakanishi

"Ha llegado la hora de que mi amigo Nakanishi y yo partamos. No hay remordimiento. Cada hombre debe seguir su camino individualmente (...) En sus últimas instrucciones, el oficial de comando nos advirtió de no ser imprudentes a la hora de morir. Todo depende del Cielo. Estoy resuelto a perseguir la meta que el destino me ha trazado. Ustedes siempre han sido muy buenos conmigo y les estoy muy agradecido. Quince años de escuela y adiestramiento están a punto de rendir frutos. Siento una gran alegría por haber nacido en el Japón. No hay nada especial digno de mención, pero quiero que sepan que disfruto de buena salud en estos momentos. Los primeros aviones de mi grupo ya están en el aire. Espero que este último gesto de descargar un golpe sobre el enemigo sirva para compensar, en muy reducida medida, todo lo que ustedes han hecho por mí. La primavera ha llegado adelantada al sur de Kyushu. Aquí los capullos de las flores son muy bellos. Hay paz y tranquilidad en la base, en pleno campo de batalla incluso. Les suplico que se acuerden de mí cuando vayan al templo de Kyoto, donde reposan nuestros antepasados".

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La Nymphe de Maillol

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jeudi, 19 février 2009

Marc-Edouard nabe résiste à l'Obamania

MARC-EDOUARD NABE RESISTE A L’OBAMANIA


Tout le monde adore Obama, alors forcément je suis contre... Quel rabat-joie ! Je suis bien bête de ne pas profiter de cette joie mondiale. C’est peut-être à cause de tout ce que j’entends comme conneries...Vincent Cassel dit que "tout à coup, on a envie de vivre aux États-Unis". Rama Yade minaude : "Nous sommes tous Américains, cette fois, on peut le dire dans le sens positif." Le roi du storytelling, Christian Salmon, se pâme : "Avec lui, l’Amérique qu’on aime est de retour ! ". Quant à Dorothée Werner, laide éditorialiste de Elle, elle danse carrément la samba dans sa cuisine : "Comment résister à l’euphorie qui gonfle le monde ? " D’ailleurs, pour toutes les mouilleuses du Elle, Obama c’est Cassius Clay + Robert Redford + Steve McQueen. Pourquoi ne pas ajouter James Dean et Gérard Philippe ? De plus en plus blanc à force d’additions ! Ce qu’elles veulent dire, ces blanchâtres, c’est que, dans leur idéal de Noir, Obama est une somme de soustractions : c’est Malcolm X – George Jackson – Frantz Fanon – Bobby Seale – Angela Davis... Le pompon a été décroché par Philippe Val affirmant sans rire qu’avec Obama élu, c’est enfin le XXIe siècle qui commence ; Ben Laden et son 11-Septembre, c’était encore du XXe ! D’accord, mais que des sans-couilles l’adorent ne suffit pas à expliquer que je ne bande pas. (...)


En France, le racisme est à peine caché sous l’antiracisme consensuel et les tollés des faux-derches franchouillards qui se cabrent au moindre mot de travers. En France, les racistes sont avant tout ceux qui se réjouissent qu’un Noir soit élu du moment qu’il est noir, parce que pour eux tous les Noirs se ressemblent. (...) Fin du racisme, tu parles ! Comme si les Noirs n’allaient plus être persécutés grâce à l’élection d’Obama ! On a vu comment les Arabes vivent sous le règne de Rachida Dati ! Dès qu’un métèque a un petit pouvoir, il ne pense qu’à une chose : faire du zèle contre sa race, pour montrer aux Blancs qu’il n’est pas un métèque justement, et qui paie les pots cassés ? Les autres métèques, ceux sans pouvoir ! Classique. Au pays des antiracistes auto-éblouis, le seul qui reste mesuré dans son obamania, c’est le président... Vexé comme un pou. Obama démode Sarko, Michelle écrase Carla . Premier président juif français, c’est bien. Premier président noir américain, c’est mieux. Sarkozy, qui pensait en 2007 innover dans le genre jeune loup vulgos libéralo-people s’est fait doubler un an et demi après. Comment rattraper le retard soudain pris ? En foutant des Noirs partout ! "Ne me cachez plus ces minorités visibles qu’en temps normal je n’aurais su voir..." (...)


"Obama a réalisé enfin le rêve de Martin Luther King ! " Le hic, c’est que dans son I have a dream, King disait textuellement qu’il ne voulait pas que "les gens soient jugés pour la couleur de leur peau, mais pour le contenu de leur personne". Pour quoi d’autre est jugé Barack Obama aujourd’hui ? Ce sont ses deux grands-mères qui le définissent le mieux. La première est une grosse mama qu’on a vu danser de joie en boubou dans son bidonville de Kogelo... le drapeau yankee flottant sur le Kenya. Le Kenya, terre de safaris pour beaufs, est un des rares pays d’Afrique qui ne présente aucune espèce d’intérêt. Seule la Centrafrique est plus nulle encore. Rien ne peut sortir de bon du Kenya, à part quelques Massaï qui d’ailleurs n’en sortent pas. La seconde grand-mère d’Obama, une Blanche, a toute sa vie tremblé de peur en croisant des Noirs dans les rues de Kansas City. Elle est morte la veille de son élection. Quand elle a senti que c’était inéluctable, mémé a préféré mourir... Elle ne voulait pas voir ça : un négro à la Maison Blanche, fût-ce son petit-fils !


C’est son programme peut-être qui me débecquette... Sa gestion de la crise financière ne laisse aucun doute : monsieur ne pense qu’à subventionner les banques, il veut réparer le capitalisme lui aussi, mais à l’avantage des riches. Sa priorité : rassurer les gros portefeuilles provisoirement à sec. Comme tout pratiquant du capitalisme, il est à genoux devant les banques avec l’excuse que la Banque n’est pas plus démocrate que républicaine, elle est la Banque. C’est comme Dieu, il n’est ni de gauche ni de droite, il est Dieu. Et aujourd’hui, Dieu, ce sont les trusts. Sur le dollar, il y aura bientôt écrit : In Trust we trust. C’est le pantin de l’Usure. Obama veut "sauver l’économie", c’est-à-dire les firmes et entreprises, avec la même rengaine fredonnée partout depuis le krach de septembre 2008 : "Sauvons les patrons et ils vous trouveront du boulot !" sauf que une fois que les pauvres auront aidé les riches à se renflouer, Obama et les autres chefs leur diront : "Sorry ! Il ne reste plus rien pour vous, chers pauvres... Next time ! " Pauvres pauvres !


Sur le plan international, Obama va être pire que Bush. Il suffit de voir son équipe. Tout ce qu’il a trouvé, c’est Hillary Clinton et Mme Albright, toutes les deux hyper contre Saddam, faiseuses d’anges irakiens, archi pour les guerres de 1991 et de 2003... Obama a même poussé le vice jusqu’à vouloir engager Colin Powell ! Oui la salope de l’anthrax ! Juste parce qu’il est noir, soi-disant... Pourquoi pas Condoleezza Rice ? Elle aussi est bronzata, comme dirait Berlusconi. Quel raciste, cet Obama ! Sans arrêter de sourire, il enverra plus de Noirs sur la chaise électrique, histoire qu’on ne l’accuse pas de chouchoutage... Obama va aussi travailler avec les mecs de McCain et prendre comme conseiller Joseph Biden, le stratège de John Kerry... James Jones à la Sécurité, Robert Gates à la Défense, Timothy Geithner au Trésor... Jolis messieurs ! Ce n’est plus de l’ouverture, c’est de la béance... Et ça prouve bien que dans son esprit de collabo, la politique c’est bonnet noir, noir bonnet. Tout l’espoir d’une "nouvelle Amérique" a été absorbé par sa stupéfaction d’avoir élu un Noir. Il n’y aura plus de place pour un autre "changement". Ça m’étonnerait beaucoup que le nouveau président annule le Patriot Act. À la limite, il fermera Guantanamo, qu’est-ce que ça peut lui foutre puisque d’autres pénitenciers arbitraires s’ouvriront ailleurs, directement dans les pays ennemis. Il parle déjà de rayer l’Iran de la carte. (...)


L’Irak. Obama annonce un retrait définitif des troupes pour 2011. Évidemment, ce sera reculé à 2012 où il sera remplacé par un autre salaud qui, lui, les maintiendra ! Pour le reste, son objectif est avoué dès le début : capturer Ben Laden ! Oui, cet abruti d’Hawaïen en est resté là. L’Afghanistan. Obama va y envoyer bien plus de soldats encore que Bush et ceux-là seront prélevés en Irak. Vases communicants ! Et s’il n’y en a pas assez, il en tapera à ses chers alliés qui ne pourront rien refuser à un Noir président de l’Amérique, ce pays exemplaire ! Pour finir, son directeur de cabinet est déjà nommé : Rahm Emmanuel, un engagé volontaire dans l’armée israélienne en 1991... Soyons clair : une rampouille sioniste à se damner. Pendant toute sa campagne, Obama a réitéré son soutien indéfectible à Israël. Il veut une Jérusalem israélienne, et des renforts de troupes sur le saint terrain occupé par ces sales Palestiniens... Tout pour Israël ! 78 % de Juifs Amerloques ont voté pour lui. On peut leur faire confiance: ils n’auraient pas élu un nègre s’ils n’avaient pas été sûrs qu’il soit leur man ... Non, tout ça, c’est encore du procès d’intention...


Ça y est. J’ai trouvé. Ce qui me gêne chez Obama, c’est que grâce à lui l’Amérique va redorer son blason de merde ! Yes he can, ce con. J’ai compris à quoi il va servir, ce faux Noir. L’Amérique reprend du poil de la bête, autant dire qu’elle va bientôt s’arracher les cheveux puisque la bête, c’est elle. "L’Amérique se réconcilie avec elle même et avec le monde ! " Ah, bon ? Je connais des milliards d’individus qui n’ont pas du tout envie de se réconcilier avec ce pays d’ordures... Pour en arriver à élire un Noir, c’est que les Yankees étaient à bout... Obama n’a pas été élu parce qu’il était Noir, mais parce que les Blancs au pouvoir ont compris qu’en mettant un Noir devant, l’Amérique allait pouvoir revenir au 1er rang en effaçant ses saloperies. Son image était tellement noircie par ses crimes qu’il fallait bien un Noir pour la nettoyer. Obama blanchit l’Amérique. Obama ne s’en cache pas : il veut redonner "la stature morale" de l’Amérique. En a-t-elle déjà eu une depuis le premier jour où les Espagnols débarquant ont tiré à l’arquebuse sur les Indiens venus leur apporter des fleurs sur la plage ? L’Amérique sera toujours porteuse de guerre et de mort. Kafka avait tout compris: au début de son roman L’Amérique (1911), ce n’est pas un flambeau que le héros voit dans la main de la statue de la Liberté, mais un glaive...


L’Amérique se fout d’Obama, ce qu’elle voulait, c’est faire semblant aux yeux des autres de se laver de Bush alors qu’elle l’a plébiscité deux impardonnables fois. Ne pas oublier que les pires bushistes sont ceux-là mêmes qui ont voté Obama. Logiquement, il ne devrait pas y avoir assez d’oreilles pour mettre toutes les puces dedans. Personne ne semble trouver anormal que les néoconservateurs pro-Bush se soient métamorphosés en obamiens de la vingt-cinquième heure. Il y a pourtant une raison à cela : pour mieux ré-enculer le monde, il fallait à l’Amérique un nouveau gode. Une rédemption de l’Amérique par un Noir ? Je n’y crois pas une seconde. C’est le plus mauvais cadeau fait aux vrais Afro-Américains. (...)


Il va déculpabiliser l’Amérique à peu de prix, car on s’extasie qu’il ait pu devenir président, mais qu’est-ce que c’est qu’être président des États-Unis ? C’est rien comme honneur dans le monde, c’est minable comme fonction, c’est la grosse honte ! Le plus beau jour de la vie d’un Noir, c’est d’entrer à la Maison Blanche, c’est ça le summum de la gloire ? C’est encore se soumettre en esclave, se faire reconnaître par le maître blanc, lui prouver qu’on est respectable comme lui, qu’on est son égal. Il n’était pas esclave, il vient de le devenir. Il a l’air ravi d’être enfin devenu l’esclave de l’Amérique. Le métis avait un complexe de n’être pas un bon nègre au service du maître. "Oncle Tom cherche Oncle Sam ! " Le Destin a répondu à sa petite annonce. Je sais maintenant pourquoi ce Noir me laisse froid. »



Marc-Edouard Nabe, 20 janvier 2009 (ce texte a été placardé sur les murs de Paris sous forme d’une grande affiche, selon la grande tradition révolutionnaire du pamphlet)


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A Geopolitica russa

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A Geopolítica Russa: De Pedro “O Grande” a Putin, a “Guerra‑Fria”, o Eurasianismo e os Recursos Energéticos

Tenente‑General PilAv Eduardo Eugénio Silvestre dos Santos

“A política de um Estado está na sua geografia”.
Napoleão1

“A Rússia é uma charada, embrulhada num mistério, dentro de um enigma”
Winston Church

 

Introdução

Apesar do termo “Geopolítica” ter sido utilizado pela primeira vez pelo cientista político sueco Johan Rudolph Kjellen, apenas no final do século XIX, vários intelectuais importantes tinham já escrito sobre a influência da geografia na conduta da estratégia global das nações, e os confrontos pelo domínio de territórios e populações perdem‑se na neblina dos tempos. O termo surgiu na era da rivalidade imperialista entre 1870 e 1945, quando os impérios em competição travavam inúmeras guerras, gerando, alterando e revendo as linhas de poder que eram as fronteiras do mapa político mundial.2
Existem inúmeras definições de “Geopolítica”. Aqui se deixam algumas que, na opinião do autor, melhor reflectem e abrangem o pleno âmbito do termo:
Kjellen definiu‑a como o “estudo da influência determinante do ambiente na política de um Estado”. Para a Escola de Munique de Haushofer é “a ciência da vinculação geográfica dos fenómenos políticos”. Para N. Spykman, era “o planeamento da política de segurança de um país em termos dos seus factores geográficos”.3 Mais modernamente, G. O’Tuathail afirma que é “o modo de relacionar dinâmicas locais e regionais com o sistema global como um todo”4 e, em conjunto com J. Agnew, o mesmo autor escreve que “estuda a geografia da política internacional, particularmente a relação entre o ambiente físico (localização, recursos, território, etc.) e a conduta da política externa”.5
Na história do mundo, existem, em competição constante, duas aproxi mações às noções de espaço e terreno – a terrestre e a marítima. Na História antiga, as potências que se tornaram em símbolos da “civilização marítima” foram a Fenícia e Cartago. O império terrestre que se lhes opunha era Roma. As Guerras Púnicas foram a imagem mais clara da oposição “terra‑mar”. Mais modernamente, a Grã‑Bretanha tornou‑se o “pólo” marítimo, sendo poste riormente substituído pelos EUA. Tal como a Fenícia, a Grã‑Bretanha utilizou o comércio marítimo e a colonização das regiões costeiras como o seu instrumento básico de domínio. Criaram um padrão especial de civilização, mercantil e capitalista, baseada acima de tudo nos interesses materiais e nos princípios do liberalismo económico. Portanto, apesar de todas as variações históricas possíveis, pode dizer‑se que a generalidade das civilizações marítimas tem estado sempre ligada ao primado da economia sobre a política.
Por seu lado, Roma representava uma amostra de uma estrutura de tempo de guerra, autoritária, baseada no controlo civil e administrativo, no primado da política sobre a economia. É um exemplo de um tipo de colonização puramente continental, com a sua penetração profunda no continente e assimi lação dos povos conquistados, automaticamente romanizados após a conquista. Para os Eurasianistas, na História moderna, os seus sucessores são os Impérios Russo, Austro‑Húngaro e Alemão.

2. Retrospectiva Histórica da Ásia Central

A história da Ásia Central foi condicionada pelas migrações de pastores nómadas das estepes desde muito cedo, provavelmente 4000 AC. Segundo Mehdi Amineh, podem considerar‑se cinco períodos históricos: o pré‑islâmico (Ciro, Alexandre e a dinastia Sassanida; remonta ao século II AC a “rota da seda”, que tornou possível o comércio entre o Ocidente e o Oriente, o Norte e o Sul da Ásia), o islâmico (dinastias Ummayad e Abbasid), o mongol (Genghis Khan e sucessores), o dos séculos XVI ao XIX, e o russo‑soviético.6 No âmbito deste trabalho interessam particularmente os dois últimos.
Para entender mais completamente o que se pretende expor neste trabalho, temos de recuar na história russa até ao início do século XIII, pois nessa época teve lugar um acontecimento catastrófico que deixou marcas indeléveis no carácter nacional russo. Em 1206, um génio militar analfabeto de nome Teumjin, conhecido para a posteridade como Genghis Khan, teve o sonho de conquistar o mundo, tarefa que ele cria lhe ter sido confiada por Deus para executar. Nos 30 anos seguintes, ele e os seus sucessores quase o conseguiam. Nessa época, a Rússia consistia apenas em cerca de uma dúzia de principados, frequentemente em guerra uns com os outros. Entre 1223 e 1240, não tendo conseguido unir‑se para combater o inimigo comum, caíram um a um perante a implacável máquina de guerra mongol. O sistema político que o domínio mongol criou era muito descentralizado (sistema de “khanatos” – semelhantes a principados – onde o “khan” era uma espécie de senhor feudal, sujeitos a tributos obrigatórios pesadíssimos pelos mongóis), e o resultado inevitável foi um jugo tirânico dos príncipes vassalos sobre os seus súbditos, cuja sombra ainda hoje se faz sentir na Rússia.
Durante cerca de 250 anos, os russos estagnaram e sofreram a opressão da “Horda Dourada”, termo pelo qual os mongóis ficaram conhecidos. Entre tanto, aproveitando as circunstâncias e a fraqueza militar, os vizinhos europeus da Rússia (principados alemães, Lituânia, Polónia e Suécia) foram ocupando partes do seu território.
Raramente uma experiência deixou cicatrizes tão profundas e perenes na psicologia de uma nação, explicando grande parte da sua xenofobia, a sua política externa muitas vezes agressiva, e a histórica aceitação da tirania interna.7 Para George Kennan, encarregado de negócios dos EUA em Moscovo no início da “guerra‑fria” e estudioso da política externa soviética, as fontes principais da conduta soviética eram determinadas pela história e geografia russas. “A cautela e a flexibilidade soviéticas são atitudes solidificadas nas lições da história russa: séculos de batalhas entre forças nómadas na vastidão de planícies desprotegidas”.8
O homem a quem os russos devem a sua liberdade face à opressão mongol foi Ivan III, “o Grande”, príncipe de Moscovo, no final do século XV. A máquina de guerra mongol, tão temida no início, tinha entretanto perdido a vontade e o gosto de lutar, acomodando‑se e não sendo já invencível. O poderoso império de Genghis Khan colapsou no Ocidente, ficando reduzido apenas a três “khanatos” dispersos: Kazan (2, Fig. 1), Astrakhan (1, Fig. 1) e Crimeia. Ivan IV, “o Terrível”, um dos sucessores de “o Grande”, reconquistou os dois primeiros (1553 e 1555), anexando‑os a Moscovo, que se expandia rapidamente, com a finalidade de evitar invasões, recolher as produções e capturar populações para vender como escravos. Apenas restou a Crimeia como último reduto tártaro, em virtude de ter a protecção do Império Otomano, que via nele um importante baluarte contra os russos. Foi a partir do Principado de Moscovo que, a partir de meados do século XIV, com a derrota dos tártaros na batalha do rio Ugra (5, Fig. 1), se foi cimentando e alargando o Império Russo. A ameaça mongol tinha assim sido eliminada, deixando o caminho aberto para uma das maiores empresas coloniais da história: a expansão da Rússia para Oriente, na Ásia. A partir de 1580, o comércio de peles começou a atrair os russos para a Sibéria, bem para além dos Urais. A expansão russa só terminou quando o Oceano Pacífico foi atingido, sendo comparável em muitos aspectos à conquista americana do Oeste.9 No seu apogeu o Império Russo incluía, além do território russo actual, os estados bálticos (Lituânia, Letónia e Estónia), a Finlândia, Cáucaso, Ucrânia, Bielorússia, boa parte da Polónia (antigo reino da Polónia), Moldávia (Bessarábia) e quase toda a Ásia Central. (Fig. 2) “A História prova que o espaço e a posição têm influído no destino político de cada território (...) O espaço, quando existe, cria a grande potência.”10
Durante o século XVI, o Império Persa tentou impedir o Império Otomano de ter acesso à “Rota da Seda” e ganhar o monopólio desta fonte de riqueza. A guerra entre estes dois impérios fez com que os “khanatos” asiáticos perdessem o seu poder e ressurgissem as forças tribais, causando o declínio económico da Ásia Central no século XVII. No fim do século XVIII, devido ao crescente comércio entre as tribos da Ásia Central e a Rússia, deu‑se uma nova dinâmica à vida económica e política. É também nesta altura que se dá a progressiva sedentarização das tribos nómadas, o que contribuiu bastante para a centralização política da região.

3. A Expansão Russa

Pode recuar‑se na “geopolítica” russa até finais do século XVII, e afirmar que, pelo menos desde essa época, a Rússia perseguiu dois objectivos estratégicos:
– um, Constantinopla, levada por um lado pelo sonho da libertação dos cristãos ortodoxos, mas que lhe daria também o controlo do Bósforo e dos Dardanelos e, logo, o acesso ao Mediterrâneo;
– o outro, tentar chegar à Índia; alguns políticos britânicos continuavam contudo a pensar que “o objectivo real da Rússia era, não a Índia, mas Constantinopla: para manter a Grã‑Bretanha sossegada na Europa, devia mantê‑la ocupada na Ásia”.11
O primeiro dos Czares a tentar modernizar a Rússia foi Pedro “o Grande”, já da dinastia Romanov, na transição do século XVII para o XVIII. Para tal, enviou uma embaixada diplomática à Europa Ocidental e construiu S. Petersburgo, que imaginou como uma porta de ligação comercial e cultural com a Europa. Porém, tendo esgotado o tesouro combatendo simultaneamente a Suécia e o Império Otomano, chegaram‑lhe notícias, no início do século XVIII, da descoberta de ricos jazigos de ouro na Ásia Central, nas margens do Amu‑Darya, o que o fez virar a atenção para aí e para a Índia. Cerca de 50 anos mais tarde, Catarina “a Grande” voltou a dar sinais de interesse pela Índia. Catarina era uma expansionista e não era segredo que sonhava em expulsar os turcos de Constantinopla e controlá‑la. Não conseguiu conquistar nem Constantinopla nem a Índia, mas apoderou‑se do “khanato” da Crimeia nos finais do século XVIII, e o seu sucessor Alexandre I recuperou à Pérsia os territórios do Cáucaso. Em 1801, anexou o antigo e independente reino da Geórgia, que a Pérsia considerava estar na sua esfera de influência. Em 1804, avançou ainda mais para Sul, cercando Yerevan, capital da Arménia (Fig. 3), uma possessão cristã do Xá, ameaçando Constantinopla.
O Mar Negro tinha deixado de ser um “lago turco” e os russos começaram a construir uma gigantesca base naval em Sebastopol (4, Fig. 1), ficando os seus vasos de guerra a dois dias de Constantinopla. A presença da Rússia no Próximo Oriente e no Cáucaso começava a preocupar ao Império Britânico. Porém, entretanto, surgiu Napoleão! Este ofereceu ajuda ao Xá para rechaçar os russos, em troca da utilização da Pérsia como caminho de passagem para invadir a Índia, o que fez parar o avanço russo. Em 1807, após subjugar a Áustria e a Prússia, derrotou os russos em Friedland, forçando‑os a aderir ao “bloqueio continental”, destinado a isolar e a derrotar a Grã‑Bretanha.12
Após a derrota de Napoleão em 1812, o Czar Alexandre solicitou, no Congresso de Viena, a modificação do mapa político da Europa, exigindo o controlo da Polónia. Perante a forte oposição britânica, Alexandre I concordou em dividi‑la com a Áustria e a Prússia, ficando contudo com a parte de leão. No século XIX, as guerras na Europa para fomentar revoluções ou conquistar território, eram vistas como ameaças ao “equilíbrio de poder” entre os Estados dominantes, as grandes potências. Mas a dicotomia entre a Europa e os outros continentes era reforçada pela combinação frequente entre uma “terra‑mãe” e uma periferia trazendo uma experiência colonial para perto de “casa”. Nos EUA e na Rússia, por exemplo, não existia uma separação clara nem fronteiras físicas óbvias.13
A trégua entre a Rússia e a Pérsia no Cáucaso (a Pérsia acabou por aceitar a soberania russa entre o Cáucaso e o Mar Cáspio e em grande parte do Azerbaijão), fez virar as atenções de S. Petersburgo para a Ásia Central. O “Grande Jogo”, a luta subtil mas persistente pelo controlo das vastas terras situadas entre o Mar Cáspio, a Pérsia e a Índia, “a jóia da coroa” do Império Britânico, a Sul, tinha começado.
O “Grande Jogo” é um termo atribuído a Arthur Connolly, utilizado para descrever a rivalidade e o conflito estratégicos entre os Impérios Britânico e Russo, pela supremacia na Ásia Central. O termo foi popularizado posteriormente por Rudyard Kipling, na sua obra “Kim”. O período clássico do “Grande Jogo” decorre desde aproximadamente 1815 até à Convenção Anglo‑Russa de 1907. Após a revolução bolchevique de 1917, existiu uma segunda fase.14
Existiam apenas duas rotas possíveis para um exército russo, suficientemente grande para ter sucesso, atingir a Índia:
– uma seria partindo de Orenburg (3, Fig. 1 e 3), capturar Khiva (2, Fig. 3) e Balkh (6, Fig. 3), atravessar o Hindu Kush, como tinha feito Alexandre “o Grande”, e dirigir‑se a Kabul; daí marcharia para Jalalabad, atravessaria o Desfiladeiro Khyber (K, Fig. 4) para Peshawar e chegaria ao rio Indo; esta rota, embora mais longa, tinha mais água que a rota alternativa, através do Karakorum, e evitava os confrontos com os perigosos Turcomenos;
– a outra rota possível implicava a captura de Herat (7, Fig. 3), que seria utilizada como ponto de apoio logístico. Daí marchariam por Kandahar (Z, Fig. 4) e Quetta (Q, Fig. 4) para o Desfiladeiro Bolan (B, Fig. 4). Herat poderia ser atingida através de um acordo com a Pérsia, ou atravessando o Cáspio para Astrabad.
Em qualquer dos casos, um invasor teria de passar pelo Afeganistão! No século IV DC, Alexandre, o Grande, conquistou todo o império persa, à excepção da província Bactro‑Sogdiana, o Afeganistão de hoje. No século XIII, Genghis Khan abandonou a campanha no Afeganistão, em virtude da resistência tenaz e das pesadas baixas sofridas.15 Desde o colapso do grande império Durrani, fundado em meados do século XVIII, que o Afeganistão estava no centro de uma intensa e incessante luta pelo poder. Não existia unidade real entre os afegãos, meramente alianças temporárias, quando e onde era vantajoso para os respectivos líderes tribais. O Império Britânico sentiu isso bem na pele. “Se os afegãos, como nação, estiverem determinados a resistir aos invasores, as dificuldades tornar‑se‑iam intransponíveis”, afirmou um oficial britânico em serviço na Índia. Esta frase explica o interesse britânico em manter o Afeganistão forte e unido por um líder central em Kabul.16 Explica ainda uma grande parte da história mais moderna deste país.
Em 1833, uma enorme frota de navios de guerra russos posicionou‑se perto de Constantinopla, encerrando uma cadeia de acontecimentos iniciada dois anos antes, com uma revolta do governador do Egipto, então nominalmente parte do Império Otomano. Cercou Damasco e avançou pela Anatólia na direcção de Constantinopla com um poderoso exército, querendo destronar o sultão. Este apelou ao auxílio britânico, cujos governantes hesitaram. Mais lesto foi o Czar Nicolau I, que lhe ofereceu prontamente auxílio. Perante a situação, o sultão teve de aceitar reconhecido esse auxílio, que veio por termo à rebelião. A armada russa retirou, mas os turcos passaram a ser pouco mais do que um protectorado do Czar e, nos termos do tratado de paz, poderiam fechar os Dardanelos a todos os navios de guerra estrangeiros, se S. Petersburgo assim o desejasse. Estes desenvolvimentos colocaram de sobreaviso o Império Britânico, que via no alargamento da armada russa e nas suas posições no Cáucaso uma cabeça‑de‑ponte para lançar investidas posteriores contra a Turquia e contra a Pérsia.
Até então, os estrategistas consideravam que o poder da Rússia era apenas defensivo, a coberto da fortaleza inexpugnável com que a natureza a tinha contemplado – o seu clima e os seus desertos – conforme Napoleão tinha descoberto à sua própria custa. Mas, na realidade, desde o reinado de Pedro “o Grande”, os súbditos do Czar tinham aumentado quatro vezes, de 15 para quase 60 milhões. Ao mesmo tempo, as fronteiras da Rússia tinham avançado cerca de 800 km em direcção a Constantinopla e cerca de 1 500 em direcção a Teerão, a uma razão de mais de 50 000 km2 por ano. Na Europa, as conquistas russas sobre a Suécia montavam a metade da área original daquele reino, e sobre a Polónia eram quase iguais à área de todo o Império Austríaco. Todo este território tinha sido conseguido furtivamente, através de astúcia e pequenas invasões sucessivas, nenhuma delas suficientemente importante para causar fricções importantes com os outros poderes europeus.17
No início do século XIX, a maior parte das paragens da Ásia Central não estava cartografada. As cidades de Bukhara (10, Fig. 3), Khiva, Merv e Tashkent (12, Fig. 3) eram praticamente desconhecidas dos estrangeiros. No final do referido século, a expansão imperial czarista ameaçava colidir com o domínio e a ocupação crescentes do sub‑continente indiano, e os dois impérios jogaram um jogo subtil de exploração, espionagem e diplomacia imperialista, o já referido “Grande Jogo”, em toda a Ásia Central. O conflito ameaçou sempre uma eventual guerra entre as partes, sem contudo nunca ter chegado a um confronto directo. O ponto nevrálgico da actividade foi, como já foi dito, o Afeganistão.
Da perspectiva britânica, a expansão czarista ameaçava a Índia. À medida que as tropas russas começaram a conquistar “khanato” após “khanato”, os britânicos temeram que o Afeganistão se tornasse numa área de preparação para uma invasão russa da Índia. Mas, em vez de tentar estabelecer uma liderança forte e amistosa que pudesse proteger a Índia contra invasões russas, levou mesmo a um dos piores desastres da história militar britânica. Em 1838, a Grã‑Bretanha lançou um ataque ao Afeganistão (1.ª Guerra Anglo‑Afegã), e impôs um regime “fantoche”. O regime durou pouco tempo, insustentável sem apoio militar britânico significativo. Em 1842, a multidão atacou as tropas inglesas nas ruas de Kabul e a guarnição acordou uma retirada protegida. Infelizmente para os britânicos, os afegãos não cumpriram o acordado e cerca de 4 500 militares e 12 000 apoiantes pereceram durante a retirada. A 1.ª Guerra Anglo‑Afegã foi um golpe devastador no seu orgulho e prestígio. O desastre russo em Khiva (1839) não se pode comparar a este. No seguimento desta humilhante derrota, os britânicos refrearam as suas ambições sobre o Afeganistão.18
Entre meados de 1857 e meados de 1858, os britânicos viram‑se a braços com a “Revolta da Índia”, amotinação dos cipaios indianos. Após essa rebelião, os sucessivos governos britânicos passaram a ver o Afeganistão como um estado‑tampão. Porém, os russos continuaram a avançar para Sul, em direcção àquele estado e, em 1865, anexaram formalmente Tashkent e, três anos depois, Samarcanda (11, Fig. 3) e Bukhara. Em 1870, foi a vez de Khiva. O controlo russo estendia‑se então até à margem Norte do rio Amu‑Darya.19
O Czar Nicolau I visitou a Rainha Vitória, então com 25 anos, em Londres em 1844. A sua principal preocupação era o futuro do Império Otomano, “o homem doente da Europa”, como lhe chamava. Confessou estar muito preocupado com o que poderia acontecer quando ele se desfizesse, algo que temia estar eminente. As duas partes concordaram que o sultão deveria ser mantido no trono enquanto tal fosse possível. Concordaram também em consolidar as suas fronteiras, subjugando vizinhos problemáticos. No período de “détente” que se seguiu, os russos avançaram as suas praças‑fortes através das estepes cazaques até às margens do Syr‑Darya, cerca de 400 km a leste do Mar de Aral. Os britânicos, por seu turno, conseguiram anexar o Sind e colocar líderes favoráveis a governar o Punjab e a Caxemira.
Porém, em 1853, as boas relações cessaram. Em 1848, tinham estalado revoluções nacionalistas em várias capitais europeias (Paris, Berlim, Viena, Roma, Praga, Budapeste, etc.) entre governantes e governados, entre lei e desordem, entre aqueles que tinham e aqueles que queriam ter.
Considerando‑se o guardião dos locais santos do Cristianismo na Terra Santa, então parte integrante do Império Otomano, o Czar Nicolau invadiu as províncias setentrionais dos Balcãs, alegadamente para proteger os cristãos eslavos daquela região, ignorando um ultimato dos turcos para retirar, pondo uma vez mais os dois países em guerra. Os britânicos e os franceses, determinados a manter os russos afastados do Próximo Oriente, aliaram‑se ao sultão. A Guerra da Crimeia, que ninguém queria e que poderia facilmente ser evitada, tinha começado.
No Outono de 1854, franceses e britânicos sitiaram Sebastopol, a grande base naval russa no Mar Negro, considerando que a sua captura e destruição asseguraria a independência da Turquia. O cerco durou quase um ano e a rendição russa tornou‑se inevitável, ao mesmo tempo que o Czar Nicolau I adoecia e morria em Março de 1855. Após a rendição de Sebastopol, a Áustria ameaçou juntar‑se à coligação e o novo Czar, Alexandre III, acedeu a assinar um acordo preliminar de paz. Os russos foram fortemente penalizados na região do Mar Negro, banidas que foram todas as bases e navios de guerra daquele mar, cederam a foz do Danúbio e várias cidades capturadas aos turcos. O Mar Negro ficou desmilitarizado e a independência e integridade da Turquia garantidas. As ambições da Rússia na Europa e no Próximo Oriente tinham sido bloqueadas. Passaram 15 anos até que a Rússia denunciasse o acordo de paz e reiniciasse a construção de uma frota do Mar Negro. Ao derrotar os russos na Crimeia, a Grã‑Bretanha esperava não só afastá‑la do Próximo Oriente, mas também fazer parar a sua expansão na Ásia Central. O efeito foi, todavia, o oposto. A seguir à derrota na Guerra da Crimeia, a Rússia olhou para a Ásia Central como uma região onde a rivalidade com a Grã‑Bretanha lhe poderia ser mais favorável.20
Entretanto, o Afeganistão voltou a ser notícia. O Xá da Pérsia, aproveitando a Guerra da Crimeia, reclamou a cidade de Herat e ocupou‑a no final de 1856. Em 1863, o líder afegão reconquistou‑a.
Na década de 1850’s, os russos continuaram a expandir‑se para Leste, ao longo do rio Amur, e para Sul, em direcção à costa do Pacífico, onde hoje é Vladivostok (Fig. 5). O imperador chinês, a contas com a rebelião Taiping no Sul e, ao mesmo tempo, com as exigências francesas e britânicas para concessões de terras e outros privilégios, que degeneraram em 1856 na Segunda Guerra do Ópio, entre a China e a Grã‑Bretanha, não estava em posição de os impedir. Os russos acrescentaram assim uma enorme porção de territórios, do tamanho da França e da Alemanha juntas, ao seu já gigantesco império asiático. Em 1859, conseguiram também submeter finalmente a quase totalidade da Circassia, no Cáucaso. Em 1860 chegaram ao Pacífico, fundando Vladivostok.
Faltavam contudo os três “khanatos” independentes da Ásia Central. Aquilo que finalmente decidiu o Czar a agir, foi a Guerra da Secessão nos EUA, cujos estados sulistas tinham sido a principal fonte de abastecimento de algodão. Como resultado da guerra, o abastecimento foi cortado, afectando seriamente toda a Europa. A Rússia sabia, no entanto, que a região de Khokand (4, Fig. 3) na Ásia Central, especialmente o fértil vale de Fergana, era particularmente favorável à cultura do algodão, com potencial para produzir quanti dades substanciais desse têxtil. O Czar Alexandre III estava decidido a conquistar esses campos de algodão o mais rapidamente possível. Em 1863, a Rússia estava preparada para penetrar na Ásia Central, se bem que gradualmente. O Ministro dos Negócios Estrangeiros do Czar declarou no final de 1864, num memorando para os seus embaixadores na Europa: “A posição da Rússia na Ásia Central é idêntica à de todos os estados civilizados que entram em contacto com populações nómadas e semi‑selvagens, que não possuem uma organização social estável. Nesses casos, acontece sempre que o estado mais civilizado é forçado, no interesse da segurança das suas fronteiras e das suas relações comerciais, a exercer uma certa ascendência sobre os vizinhos com um carácter mais turbulento e agressivo, que os torna indese jáveis”. É interessante verificar a semelhança entre esta posição e a expressa no final do século XIX por Theodore Roosevelt, presidente dos EUA e conhecido pelo “corolário Roosevelt”.
Os “khanatos” de Khiva, Bokhara e Khokand dominavam, entre eles, uma vasta região de desertos, oásis e montanhas, com o tamanho de metade dos EUA, que se estendia da margem oriental do Mar Cáspio até ao Pamir. Mas, para além destas três cidades‑estado, existiam outras cidades importantes: uma era Samarcanda, capital do extinto império de Tamerlane, agora parte dos domínios de Bokhara; outra era Kashgar (5, Fig. 3), sob o domínio chinês, separada das outras por altas montanhas; finalmente, Tashkent, anteriormente independente, com os seus pomares, vinhas, pastagens e uma população de 100 000 pessoas, a cidade mais rica da Ásia Central, possessão de Khokand.21 Em 1862, Samarcanda foi absorvida pelo Império Russo, deixando apenas o “khanato” de Khiva a fazer frente ao Czar. Em 1865 ocuparam Tashkent, declarando que a ocupação era temporária, o que se sabia não ser verdade pois, algum tempo depois, foi constituído o novo “Governo Geral” do Turquestão, o que significava que os “khanatos” tinham os dias contados. Existiam três razões principais para isso:
– antes de tudo, o receio que os britânicos chegassem ali primeiro, vindos do Sul, e monopolizassem o comércio;
– depois vinha a razão do orgulho imperial; bloqueados na Europa e no Próximo Oriente, pretendiam a frustração demonstrando o seu valor militar na conquista militar da Ásia;
– finalmente, o factor estratégico; tal como o Báltico era o “calcanhar de Aquiles” da Rússia, no caso de disputa com a Grã‑Bretanha, há muito que se sabia que o ponto mais vulnerável do Império Britânico era a Índia; Tashkent era considerada a chave para a conquista e o domínio da Ásia Central.
Começaram também a melhorar significativamente as suas comunicações na Ásia Central: uma nova linha férrea vinha de S. Petersburgo até Gorki (antiga Nijni Novgorod), no Volga, onde circulavam cerca de 300 barcos a vapor até ao Mar Cáspio. O modo mais óbvio de ligar a Ásia Central à Rússia europeia era construir um porto na margem oriental do Cáspio. Eventual mente, quando Khiva fosse conquistada e os perigosos Turcomenos pacificados, uma linha férrea podia ser construída através do deserto ligando Bokhara, Samarcanda, Tashkent e Khokand.22
Em 1867, a Rússia vendeu o Alasca aos EUA por sete milhões de dólares, em virtude de, segundo eles, não ser facilmente defensável nem economicamente viável!...23
Em 1870, renunciou unilateralmente às cláusulas do acordo de paz sobre o Mar Negro, após a Guerra da Crimeia, o primeiro de uma série de movimentos que iriam fortalecer grandemente a sua posição política e estratégica na região.
No verão de 1871, ocupou o território muçulmano de Ili (8, Fig. 3), que dominava importantes passagens para a Sibéria meridional, e que se tinha recentemente rebelado contra a soberania chinesa. Tinha sido através destes desfiladeiros que as hordas de Genghis Khan tinham, séculos antes, invadido a Rússia. Este território era também rico em minérios e servia como celeiro daquela desolada região.
Em 1873, o Czar Alexandre II decidiu efectuar um ataque demolidor a Khiva. Após os revezes anteriores, em 1717 e 1839, a Rússia não queria falhar, e lançou um ataque de três direcções diferentes: de Tashkent, de Orenburg e de Kransnovodsk (13, Fig. 3) (hoje Turkmenbashi). Khiva finalmente capitulou.
Com esta acção, a Rússia adquiriu o controlo da navegação no baixo Amu‑Darya, com os correspondentes benefícios comerciais e estratégicos, bem como o domínio total da margem oriental do Cáspio. Conseguiu também uma base a partir da qual poderia ameaçar a independência da Pérsia e do Afeganistão e, à distância, a Índia. Num período de 10 anos, a Rússia tinha anexado um território com a área de metade dos EUA e conseguido uma barreira defensiva em toda a Ásia Central, do Cáucaso a Khokand, ocupada em 1875.24
Entretanto, na Europa, a Rússia voltou a envolver‑se com as outras potências, devido a divergências sobre as possessões do Império otomano nos Balcãs. O problema iniciou‑se em 1875 na Bósnia‑Herzegovina, de onde se espalhou rapidamente à Sérvia, ao Montenegro e à Bulgária. Tropas turcas mataram e massacraram alguns milhares de cristãos búlgaros. Este massacre levou o Czar, que se proclamava protector dos cristãos sob soberania turca, a um conflito latente com o Sultão. Em 1877 os russos declararam guerra à Turquia e iniciaram o avanço para Constantinopla, através dos Balcãs e, simultaneamente, da Anatólia Oriental. A resistência turca fracassou e, em 1878, os exércitos russos estavam às portas de Constantinopla, prestes a realizar o seu sonho de séculos. Porém, encontraram também a esquadra britânica fundeada nos Dardanelos, o que fez o Czar Alexandre II recuar e aceitar uma trégua com os turcos. A Bulgária adquiriu a sua independência do Império Otomano, contra a opinião britânica, e a Rússia conseguiu territórios na Anatólia Oriental. A Áustria‑Hungria aliou‑se à Grã‑Bretanha sobre o problema da Bulgária, ocupando a Bósnia‑Herzegovina, e os britânicos colocaram tropas em Malta e ocuparam Chipre, numa tentativa de fazer recuar as tropas russas de Constantinopla. No final, a crise resolveu‑se sem recurso à guerra, tendo o Sultão conseguido recuperar dois terços do território perdido.25
A tensão voltou a crescer em 1878, quando a Rússia enviou uma missão diplomática a Kabul, sem convite prévio. A Grã‑Bretanha exigiu que o homem forte do Afeganistão, Sher Ali, aceitasse também uma missão britânica. Esta foi recusada e, em retaliação, uma força de 40 000 homens atravessou a fronteira, iniciando a 2.ª Guerra Anglo‑Afegã. Esta incursão foi quase tão desastrosa como a primeira e em 1881 os ingleses voltaram a retirar de Kabul. O trono foi oferecido a Abdur Rahman, que aceitou que a Grã‑Bretanha orientasse a sua política externa enquanto ele consolidava a sua posição interna. Conseguiu dominar as rebeliões internas com eficácia brutal e reunir a maior parte do país sob o governo central.26 Os britânicos tinham conseguido assim estabelecer um estado‑tampão razoavelmente estável e com um líder amis toso, ao mesmo tempo que tinham erradicado a influência russa em Kabul.
Em 1879, quatro anos após ter anexado Khokand, a Rússia tentou atacar a cidade turcomena de Geok‑Tepe (9, Fig. 3), no limite Sul do deserto Karakum, a meio caminho entre o Cáspio e Merv, mas foi rechaçada. Foi a sua pior derrota na Ásia Central desde o ataque de má memória a Khiva, em 1717.27
Em 1881, os russos cercaram Geok‑Tepe de novo, desta vez com êxito. Em 1884 tomaram Merv, formalmente pertencente à Pérsia, levando finalmente as tribos turcomenas à capitulação e à submissão à soberania de S. Petersburgo. A rendição de Merv, conseguida de modo considerado militarmente pouco ortodoxo, foi considerada pelas autoridades britânicas, na Índia e em Londres, como sendo “de longe o passo mais importante dado pela Rússia para ameaçar a Índia”. Estas preocupações britânicas baseavam‑se na linha férrea que os russos tinham começado a construir na direcção de Merv, que quando completada, podia facilmente fazer a ligação entre as cidades e guarnições da Ásia Central e transportar tropas até à fronteira afegã. Após uma longa correspondência diplomática, representantes das duas potências (Comissão Conjunta da Fronteira Afegã) reuniram‑se perto de Merv, com a finalidade de delinear cientificamente a fronteira entre a Transcáspia russa, a Pérsia e o Afeganistão.28
Em 1884, a expansão russa despoletou nova crise quando ocupou o oásis de Pandjeh, a meio caminho entre Merv e Herat, no Afeganistão. O Xá da Pérsia, profundamente alarmado pela agressividade russa, pediu à Grã‑Bretanha para ocupar Herat antes dos russos. À beira da guerra, a Comissão Conjunta acordou que a Rússia devia abandonar Merv, mas podia reter Pandjeh. O acordo estabelecia a fronteira Norte do Afeganistão no Amu‑Darya, com perdas substanciais de território.29 A Rússia tinha conseguido mais uma vez aquilo que queria, demonstrando ser mestre na arte do “facto consumado”.
Em 1895, Londres e S. Petersburgo chegaram finalmente a acordo sobre a fronteira entre a Ásia Central russa e o Afeganistão oriental. A “falha” do Pamir estava finalmente fechada.
Em 1907, a Convenção Anglo‑Russa finalizou o período clássico do “Grande Jogo”, com a aceitação russa de que a política do Afeganistão ficava sob controlo britânico, e que conduziria todas as suas relações com aquele país através da Grã‑Bretanha, desde que esta garantisse a permanência do regime. As fronteiras manter‑se‑iam.
O Caminho‑de‑Ferro Transcaspiano foi iniciado em 1880. Em 1888 atingiu Bokhara e Samarcanda e encontrava‑se a caminho de Tashkent. A linha férrea corria paralela à fronteira com a Pérsia durante cerca de 500 km, represen tando, com a sua capacidade de transportar tropas e artilharia, uma “espada de Damócles” sobre a cabeça do Xá. Alterava drasticamente o equilíbrio estratégico na região.30
Mas a Rússia continuava a sonhar abrir para si todo o Extremo Oriente, com os seus recursos e mercados, antes dos outros “predadores” o conse guirem. O plano envolvia a construção do maior caminho‑de‑ferro jamais visto, o Trans‑Siberiano (Fig. 6). Teria mais de 7 200 km de Moscovo a Vladivostok e seria capaz de transportar mercadorias e matérias‑primas em ambos os sentidos em menos de metade do tempo que demorariam por via marítima, causando assim sérios embaraços à hegemonia da Grã‑Bretanha sobre as rotas marítimas.
Por esta altura, as maiores potências europeias estavam já empenhadas numa corrida desenfreada para conseguirem a sua parte do moribundo Império Manchu e do que lhe estava associado. Os alemães, apesar de terem partido tarde na corrida colonial, foram os primeiros a solicitar uma base naval e uma estação de carvão, algures na costa Norte da China para a sua frota do Extremo Oriente. Nas escaramuças que se seguiram, a França e a Grã‑Bretanha obtiveram outras concessões, enquanto a Rússia, fazendo o papel de protectora da China, obteve o porto de águas quentes de Port Arthur (hoje Dalian) (1, Fig. 5) e as terras em redor. Os EUA juntaram‑se também ao “leilão”, e adquiriram em 1898 o Hawai, Guam, Wake e as Filipinas, cobiçadas também por outras potências.
Em 1900, as potências europeias foram apanhadas de surpresa pela “Revolta dos Boxers”, um sentimento de forte ressentimento contra os “diabos estrangeiros” que, tirando partido da fraqueza da China, estavam a conseguir portos e outros privilégios comerciais e diplomáticos. Foram massacrados missionários cristãos, o Cônsul francês foi linchado, tendo a revolta sido dominada por uma força de intervenção de seis países que ocupou Pequim. Porém, a revolta, apesar de dominada, viria a ter consequências importantes na Manchúria, onde os russos temiam pelo seu novo caminho‑de‑ferro e onde, devido a isso, colocaram 170 000 homens.
S. Petersburgo foi fortemente pressionada para retirar esta força após a revolta ter sido dominada, mas apenas retirou cerca de um terço dela, e com grande relutância. Ficou claro que, uma vez mais, os russos jogaram no “facto consumado”.
O Japão tomou consciência, em meados do século XIX, de que se não quisesse ser colonizado como a Índia ou despedaçado como a China, devia ter um exército europeu e construir um império pela guerra.31 Tinha observado com grande apreensão o crescimento militar e naval da Rússia no Extremo Oriente, que ameaçava directamente os seus próprios interesses na região. Tinha notado particularmente a infiltração russa na Coreia, o que a colocava perigosamente perto do seu território. O Japão tinha ainda consciência que o tempo jogava contra si, pois quando o caminho ‑de‑ferro Trans‑Siberiano estivesse concluído, os russos poderiam trazer tropas em grande número, artilharia pesada e outro material de guerra. Por estas razões, os responsáveis japoneses decidiram enfrentar a ameaça russa e, em 1904, atacaram sem aviso a base naval russa de Port Arthur. A Guerra Russo‑Japonesa tinha começado.
Brilhantemente liderada pelo Almirante Togo, a frota japonesa, apesar de inferior em número e do fogo cerrado das baterias de artilharia de terra russa, conseguiu infligir baixas importantes à frota russa e minar‑lhe o moral. Tudo correu mal aos russos. Encontraram‑se sitiados e prisioneiros na base naval fortemente defendida, à medida que os japoneses, tacticamente superiores e melhor comandados, dominavam o mar. O Czar Nicolau II decidiu então enviar a frota do Báltico para o Extremo Oriente, à volta de três continentes, numa tentativa desesperada de terminar o bloqueio a Port Arthur. O conflito durou 18 meses e, no início de 1905, Port Arthur capitulou. Um mês depois, caiu o fortemente defendido centro ferroviário de Mukden (hoje Shenyang) (2, Fig. 5), 400 km a Norte de Port Arthur, que os peritos russos consideravam praticamente inexpugnável. A perda das suas praças‑fortes no Oriente para os “macacos amarelos” abalou profundamente o prestígio russo no mundo, especialmente na Ásia. As más notícias chegaram à esquadra do Báltico quando esta se encontrava ainda em Madagáscar. Apesar disso, foi determinado que esta prosseguisse com a finalidade de reconquistar os mares do Oriente aos japoneses. Estes, contudo, estavam à sua espera nos Estreitos de Tsushima, entre a Coreia e o Japão, e infligiram‑lhe uma derrota catastrófica. A humilhação russa foi total e o sonho do Czar Nicolau II de construir um novo império no Oriente pereceu para sempre. A paz foi mediada pelos EUA e assinado um acordo de paz. Ambos os países acordaram em abandonar a Manchúria, que foi devolvida à soberania chinesa. Port Arthur e o controlo de partes do Trans‑Siberiano foram transferidos para o Japão. A Coreia foi declarada independente, apesar de ficar na esfera de influência japonesa. Indirectamente, a Guerra Russo‑Japonesa levou à queda, 13 anos depois, da monarquia russa.
Em Outubro de 1917, a revolução russa levou ao colapso de toda a frente oriental da 1.ª Guerra Mundial, do Cáucaso ao Báltico. Os bolcheviques rasgaram todos os tratados assinados pelos seus predecessores. Longe de estar terminado, o “Grande Jogo” recomeçaria com renovado vigor e uma nova face, pois Lenine pretendia “pegar fogo ao Oriente” com o “evangelho” do Marxismo.32
Os Czares tinham permitido e apoiado as religiões e as instituições sociais existentes, bem como jornais e escritos em línguas turcas e persa. Esta descentralização foi destruída pela revolução bolchevista em 1917, que introduziu novas noções de nacionalidade e dividiu os territórios etnicamente heterogé neos em regiões administrativas que não respeitaram as etnias existentes. Em 1936, foram criadas as “Repúblicas Socialistas Soviéticas” da Arménia, Azerbaijão, Cazaquistão, Geórgia, Quirguizistão, Tadjiquistão, Turcomenistão e Uzbequistão.33
A revolução bolchevique de 1917 anulou os tratados existentes e deu início a uma segunda fase do “Grande Jogo”. A 3.ª Guerra Anglo‑Afegã (1919) foi precipitada pelo assassinato do líder de então, Habibullah Khan. O seu sucessor, Amanullah, declarou independência total e atacou a fronteira Norte da Índia britânica, embora com pouquíssimos resultados. O Acordo de Rawalpindi concedeu autodeterminação completa ao Afeganistão em política externa. Em Maio de 1921, o Afeganistão e a URSS assinaram um tratado de amizade. A URSS fornecia a Amanullah ajuda monetária, tecnológica e militar, fazendo desvanecer a influência britânica. Apesar disto, as relações soviético‑afegãs continuaram equívocas, tendo Amanullah oferecido abrigo aos muçulmanos fugidos da URSS, bem como aos nacionalistas indianos exilados.
O Reino Unido impôs sanções económicas e diplomáticas insignificantes, temendo que Amanullah escapasse à sua esfera de influência e percebendo que a política do governo afegão era controlar todas as tribos de língua pashtu, de ambos os lados da fronteira.
Com o advento da 2.ª Guerra Mundial, em 1940, os interesses da URSS e do Reino Unido convergiram na expulsão de um grande contingente não diplomático alemão, tido como envolvido em actividades de espionagem.
Com o fim da 2.ª Guerra Mundial e o início da “guerra‑fria”, os EUA substituíram o Reino Unido como poder global, afirmando a sua influência no Médio Oriente na extracção de petróleo, contenção da URSS e acesso a outros recursos. Este período foi baptizado por vários analistas no início dos anos 1990’s, como uma luta mais abrangente, o “Novo Grande Jogo”, face à analogia dos acontecimentos envolvendo a Índia, o Paquistão, o Afeganistão e, mais recentemente, as novas repúblicas da Ásia Central. Segundo Lutz Kleveman, a campanha russa no Afeganistão foi apenas mais um mero episódio desse “Novo Grande Jogo”.34
Hoje, os actores são diferentes e as regras do jogo neocolonial são muito mais complexas do que as de há um século atrás. Centraliza‑se nas reservas energéticas do Mar Cáspio (petróleo e gás natural). Nas suas margens e nos seus fundos, estão as maiores reservas inexploradas de combustíveis fósseis.

4. O Eurasianismo

Na geopolítica russa do final do século XIX, o Eurasianismo lutava por se sobrepor às tendências reformistas pró‑ocidentais e ao movimento eslavófilo. O papel ímpar da Rússia era juntar a rica diversidade da Eurásia numa “terceira via”, consistente com a cultura e as tradições da Ortodoxia e da Rússia.35
Baseado nas ideias de Mackinder, o Eurasianismo procurava estabelecer a identidade ímpar da Rússia, distinta da Ocidental e focava a sua atenção para Sul e Leste, sonhando numa fusão entre as populações ortodoxas e muçul manas.36 Rejeitava categoricamente o projecto do Czar Pedro para “europeizar” a Rússia, mas os termos em que se idealizava o país eram idênticos aos de um império europeu, pela simples circunstância que englobava territórios, a maioria dos quais se localizavam na Ásia, em que um grupo nacional dominava outras nacionalidades subordinadas. Defendia que a Rússia era claramente não europeia porque a vasta região ocupada, apesar de situada entre os dois continentes – Europa e Ásia – era geográfica e, logo, objectivamente separada de ambos. Era um continente em si mesmo, denominado Eurásia; além disso, a cultura russa tinha sido maioritariamente moldada por influências vindas da Ásia.37
Durante a 1.ª Guerra Mundial, surgiram os primeiros dilemas e ambiguidades, quando a Rússia se aliou à Grã‑Bretanha, à França e aos EUA, lutando contra os seus aliados geopolíticos naturais – Alemanha e Áustria – com o intuito de libertar os seus “irmãos eslavos” do domínio turco, mas também mergulhando numa revolução e numa guerra civil catastróficas.38
Estas ideias acerca da geopolítica da Eurásia e do destino do Império Russo, foram retomadas no período a seguir à 1.ª Guerra Mundial pelo etnólogo e filólogo Nikolai S. Trubetskoy, nobre russo branco, pelo historiador Peter Savitsky, pelo teólogo ortodoxo G.V. Florovsky e, posteriormente, pelo geógrafo, historiador e filósofo Lev Gumilev, defendendo a luta cultural e política entre o Ocidente e o distinto sub‑continente da Eurásia, liderado pela Rússia. Aqueles teóricos da geopolítica eurasiana analisaram com profundi dade e atenção os impérios de Genghis Khan e Otomano, entre outros, tendo‑se encontrado várias vezes em Praga com Karl Haushofer.39 Gumilev foi o criador da “teoria da etnogénese”, pela qual as nações são originárias da regularidade do desenvolvimento da sociedade, e da “teoria da paixão”, a capacidade humana para se sacrificar em prol de objectivos ideológicos. Esteve 16 anos presos no tempo de Estaline, combateu na 2.ª Guerra Mundial, esteve num campo de concentração nazi e voltou a cumprir uma sentença de 10 anos no Gulag, por actividades contra a ideologia marxista‑leninista.40
A revolução de 1917 tinha terminado com a existência formal do Império Russo, e Trubetskoy adaptou o seu pensamento ao novo estado de coisas. Os russos, antes considerados como os “donos e proprietários” de todo o território, passaram a ser “um povo entre outros” que partilhavam a autoridade. O conceito de separatismo não era aceitável para Trubetskoy, que insistia na indivisibilidade da grande região que correspondia à Eurásia, uma ideia de integralidade geográfica, económica e étnica, distinta quer da Europa, quer da Ásia. Segundo Savitsky, a Eurásia tinha sido modelada pela Natureza, que tinha condicionado e determinado os movimentos históricos e a interpenetração dos seus povos, cujo resultado tinha sido a criação de um único Estado. Devido à unidade da região derivar da Natureza, possuía a qualidade transcendente dessa mesma Natureza.41
Trubetskoy afirmava que “o substrato nacional do antigo Império Russo e actual URSS, só pode ser a totalidade dos povos que habitam este Estado, tido como uma nação multiétnica peculiar e que, como tal, possuía o seu próprio nacionalismo. Chamamos a essa nação Eurasiana, o seu território Eurásia e o seu nacionalismo Eurasianismo.”42
Para Alexander Dugin, o principal ideólogo eurasianista da actualidade, as civilizações marítimas estiveram sempre ligadas ao “primado da economia sobre a política”. Segundo ele, Mackinder demonstrou claramente que, nos últimos séculos, a cultura marítima foi sinónimo de “Atlantismo”, personifi cado no Reino Unido e nos EUA, defendendo a prioridade do individualismo, do liberalismo e da “democracia protestante”. Ao contrário, o Eurasianismo pressupunha autoritarismo, hierarquia e comunitarismo, colocando o Estado nacional acima dos interesses individuais e económicos. Dugin afirmou que a liderança de Lenine tinha um substrato eurasiano pois, contrariamente à doutrina marxista, preservou a grande unidade do espaço eurasiano do Império Russo. Por seu lado, Trotsky insistia na exportação da revolução, na sua mundialização, e considerava a URSS como algo efémero e transitório, algo que desapareceria perante a vitória planetária do comunismo; as suas ideias traziam, por isso, a marca do “Atlantismo”! Para o mesmo autor, “a grande catástrofe eurasiana foi a agressão de Hitler contra a URSS. Após a guerra fratricida e terrível entre dois países geopolítica, espiritual e metafisicamente chegados, a vitória da URSS foi de facto equivalente a uma derrota”.43

5. A “Guerra‑Fria”

Apesar da “guerra‑fria” ter sido primária e fundamentalmente um confronto entre ideologias e não sobre geopolítica – alguns autores chamam‑lhe “geopolítica ideológica” – a Geopolítica desenvolvida pelos pensadores europeus do final do século XIX foi uma matéria importante para Estaline. O Pacto de Varsóvia, integrando os países da Europa de Leste na esfera soviética, insere‑se nesse projecto geopolítico como oposição à OTAN, criando uma “zona tampão” (“buffer zone”) de estados‑satélite que impedissem a repetição dos traumas causados pelas invasões de Napoleão e de Hitler. A “guerra‑fria” fez com que a URSS utilizasse meios militares na sua zona geopolítica para fazer face a levantamentos populares na Polónia, na Hungria, na Checoslováquia e no Afeganistão, com justificações equivalentes à teoria americana do “dominó”44.
A justificação para esta atitude ficou conhecida como a “doutrina Brezhnev” (1968), onde se articulavam os limites dentro dos quais os Estados‑satélite comunistas da Europa Oriental podiam operar. Qualquer decisão desses Estados que pudesse por em causa o socialismo nesse país, os interesses fundamentais do socialismo noutros países, ou o movimento comunista a nível mundial, justificavam a intervenção militar soviética, estando o exército vermelho apenas a ajudar o povo a exercer a sua autodeterminação num sentido ideológica e geopoliticamente correcto.45 “Cada Partido Comunista é responsável não só perante o seu povo, mas também perante todos os países socialistas e o inteiro movimento comunista. (...) A soberania individual de países socialistas não se pode sobrepor aos interesses do socialismo e do movimento revolucionário mundiais. (...) Cada Partido Comunista é livre de aplicar os princípios do Marxismo‑Leninismo e do socialismo no seu país, mas não se pode desviar desses princípios”46
O “encarregado de negócios” americano em Moscovo em 1946, George Kennan, expôs o seu conceito sobre a URSS como sendo uma potência com uma determinação e uma necessidade, históricas e geográficas, de se expandir. Esta era a essência da URSS e nada podia ser feito contra tal; não se podiam estabelecer acordos com a URSS.47
A partir de 1937, como em muitos outros domínios, a reflexão estratégica deixou de existir na URSS. A URSS devia ser uma fortaleza, simultaneamente esquadrinhada, fechada no seu interior (Gulag), e hermeticamente fechada sobre o exterior. O ensino da Geopolítica foi interdito na URSS, por ser a disciplina maldita de uma Alemanha malévola.48 Toda a ciência se tornou marxista‑leninista, sendo Estaline o grande mestre. Durante os últimos anos do estalinismo, apesar do aparecimento do átomo e dos foguetões, a reflexão continuou bloqueada. De facto, o que poderiam pesar tais evoluções nos armamentos face às teorias enunciadas pelo “genial” Estaline? Apenas após a sua morte se retomou, timidamente, a reflexão sobre uma eventual guerra futura.
A ideia da não‑inevitabilidade das guerras entre os dois sistemas políticos foi aflorada por Estaline apenas na sua última intervenção pública, em Outubro de 1952, provavelmente influenciado pelas ideias de Malenkov, o seu delfim. Foi a partir dessa altura que os soviéticos aceitaram o dogma da coexistência pacífica, que iria ser retomado mais tarde, face à evolução da relação de forças entre os dois sistemas, na qual a arma atómica tinha um lugar de destaque. Contudo, durante a primeira metade da década de 50, antes de conseguir capacidade nuclear intercontinental, a URSS viveu aterrorizada pela eventualidade de uma ofensiva ocidental.49
Desde o final da 2.ª Guerra Mundial, uma figura chave na geopolítica soviética foi o General Sergey M. Shtemenko, que chegou a ser, durante os anos 60’s, comandante das forças armadas do Pacto de Varsóvia e Chefe do Estado‑Maior General da URSS. Nos seus planos estratégicos, estava, desde 1948, a penetração económico‑cultural no Afeganistão, afirmando que aquele país tinha um papel geopolítico especial, permitindo o acesso soviético ao Índico. Khrutschev tinha conceitos geoestratégicos exclusivamente baseados no emprego de mísseis intercontinentais, em detrimento das outras armas. Estava preocupado com a América Latina e insistia no conceito de “guerra nuclear intercontinental relâmpago”. Ao contrário, Shtemenko já tinha alertado que não seria sensato basear a segurança da URSS apenas em mísseis balísticos intercontinentais.50
Entre o fim dos anos 60’s e a metade dos anos 80’s, a marinha soviética conheceu uma ascensão considerável, resultado da conjugação de um projecto político, de uma visão estratégica para fazer da URSS uma potência mundial e de uma conjuntura internacional favorável a esse projecto. “Khrutschev teve bastante pena de não ter porta‑aviões durante a crise de Cuba”, dizia‑se em Moscovo. Exigiu por isso uma modernização das forças navais e o desenvolvimento de uma frota de alto mar. Por essa altura, a descolonização criou, principalmente em África, uma série de vazios políticos que interessava preencher. Este programa de construção naval reforçou o empenhamento da URSS numa política realmente mundial.
Porém, a própria configuração do território soviético não permitia o acesso permanente a mares abertos, quer por razões climatéricas (Murmansk e Vladivostok), quer por estarem “fechados” por estreitos controlados pela OTAN (estreitos turcos e dinamarqueses). Além disso, a qualidade dos navios não podia rivalizar com a dos EUA. Por isso, apesar do esforço enorme de aumento da capacidade naval, a URSS nunca conseguiu apresentar‑se como uma potência marítima capaz de conseguir obter o controlo dos mares.51
Um dos herdeiros das ideias geopolíticas e geoestratégicas de Shtemenko foi o Marechal N. V. Ogarkov, Chefe do Estado‑Maior General das forças armadas soviéticas entre 1977 e meados dos anos 80’s. Foi ele o responsável pela operação contra a Checoslováquia, em que os serviços de informações da OTAN foram confundidos por uma desinformação excelentemente conduzida, e também pela adopção de uma opção doutrinária de guerra convencional limitada na Europa, como objectivo de planeamento e modernização dos armamentos convencionais.52 Ele afirmava que a função dissuasora das armas nucleares estratégicas era um assunto arrumado e que era conveniente modernizar os armamentos clássicos. “Uma guerra mundial pode começar a ser travada, por um tempo determinado, apenas com armamentos convencionais”. Vislumbra‑se aqui uma nova concepção estratégica, um conflito desenrolado exclusivamente na Europa com armas convencionais, justificação para o acréscimo do poder militar convencional no teatro europeu. Esta dissociação entre guerra total e guerra limitada, fez com que os soviéticos aceitassem sentar‑se à mesa das negociações SALT a partir de 1968. As negociações sobre a limitação de armas estratégicas contribuíram para o aparecimento de uma nova geração de pensadores estratégicos militares na URSS.
Mas, para levar a cabo tais operações em profundidade, os soviéticos tinham de contar com o desenvolvimento muito rápido da tecnologia ocidental de armamentos de nova geração, nos anos 70’s e 80’s. Ora, a indústria soviética de armamento não parecia estar à altura dessa “revolução industrial”, face à obsolescência do seu aparelho de produção e dos seus métodos de gestão. Daí, o grito de alarme de Ogarkov em 1984.
O debate foi pois geopolítico e geoestratégico mas, ao mesmo tempo, orçamental e estrutural, e surgiu bem antes da SDI.
O discurso de Brezhnev de 18 de Janeiro de 1977 marcou a adopção formal do conceito de dissuasão na doutrina estratégica soviética. A partir de 1979, multiplicaram‑se as referências, não só à dissuasão, mas também à ideia do absurdo de uma guerra nuclear e à impossibilidade de obter uma vitória numa tal guerra. Em 1981, Brezhnev afirmou que “o equilíbrio estratégico‑militar entre a URSS e os EUA, entre a OTAN e o Pacto de Varsóvia, servia objectivamente a manutenção da paz no planeta”.
O reconhecimento da dissuasão pelo poder soviético teve como resultado a inércia de nada fazer em matéria de modernização dos armamentos convencionais e, portanto, indirectamente, em reformar o conjunto da economia soviética. Mas os dados estratégicos modificaram‑se consideravelmente a partir de 1983, após o lançamento da SDI.53 Na década de 80’s, tinha surgido uma nova geração de burocratas soviéticos, ansiosos por salvar o sistema comunista da estagnação, da corrupção e da hiper‑extensão imperial (por demais evidente na campanha militar desastrosa no Afeganistão). O nome mais sonante dessa geração foi Mikhail Gorbachev. Ao declarar que “nenhum país detém o monopólio da verdade”, assinalou o fim da “doutrina Brezhnev” como o princípio geopolítico orientador das relações entre a URSS e os regimes comunistas da Europa Oriental.54
A sua chegada ao poder, em 1985, apressou a mudança das atitudes. Para os líderes ocidentais, a vontade soviética de renunciar à “Doutrina Brezhnev” e de desistir da “luta anti‑imperialista” no Terceiro Mundo, eram sinais evidentes de que a “perestroika” era um facto real.
Quando o comunismo soviético entrou em colapso, Gorbatchev e os seus sucessores lideravam um Estado suficientemente poderoso para controlar um povo ainda amedrontado, mas demasiado fraco para administrar uma economia aberta. A evolução que se tem verificado na Rússia, sobre os escombros do regime comunista, é um processo em que as transformações políticas e económicas têm acontecido simultaneamente, mas com primazia para as políticas, tornando‑o assim ainda mais difícil. A realidade é que não existe cultura democrática na Rússia. Há muitos séculos que é um Estado imperial, muito antes de ser comunista. Este facto é fundamental para se poder analisar com rigor a sua possível evolução.

6. O “Novo” Eurasianismo

O que irá ser a Rússia? Um Estado‑Nação ou um império multinacional? Zbigniew Brzezinski afirma que “a Rússia será um império ou um estado democrático, mas nunca ambos ao mesmo tempo”.55
A evolução da orientação geopolítica da Rússia liga‑se à busca de uma identidade pós‑soviética e ao seu lugar no mundo após o colapso do comunismo.
Em grandes linhas, existem duas aproximações quanto às opções geopolíticas da Rússia: os internacionalistas liberais ou “ocidentalizadores” e os eurasianistas. Os primeiros (Gorbatchev, Kozyrev, Yeltsin, Trenin, etc.) crêem que os valores ocidentais do pluralismo e da democracia são universais e aplicáveis à Rússia. Os segundos (Dugin, Zhirinovsky, Zyuganov, Solzhenitsyn, etc.) têm linhas ideológicas nacionalistas e patrióticas que acreditam que, devido às particularidades geográficas, históricas, culturais e mesmo psicológicas, a Rússia não pode ser classificada como Ocidental ou Oriental, sendo um Estado forte e dominante na Eurásia. O Eurasianismo conseguiu reconciliar filosofias muitas vezes contraditórias como o comunismo, a religião ortodoxa e o fundamentalismo nacionalista, conquistando adeptos ao longo de todo o espectro político.
Contra o “Atlantismo”, personificando o primado do individualismo, liberalismo económico e democracia protestante – representado primariamente pelo bloco anglo‑saxónico – ergue‑se o “Eurasianismo”, personificando princípios de autoritarismo, hierarquia e o estabelecimento de um comunitarismo, sobrepondo‑se às preocupações de índole individualista e económica.56
O Partido Eurasianista foi fundado por Alexander Dugin em Maio de 2002, supostamente com apoio organizacional e financeiro do Presidente Putin que, desde que assumiu a presidência da Rússia, em Dezembro de 1999, alterou o rumo da política externa de Moscovo. De facto, o Eurasianismo, essa obscura e velha moldura geopolítica e ideológica, ganhou rapidamente impor tância, emergiu como uma força maioritária nos meios da política externa russa e, mais significativo ainda, é cada vez mais evidente na conduta daquela política pelo Presidente. Grande parte deste novo alento do Eurasianismo deve‑se a Dugin, seu principal ideólogo. Apesar do seu passado obscuro (antigo membro duma organização radical anti‑semita e, posteriormente, da Revolução Conservadora racista, Dugin é hoje considerado o principal geopolítico russo e é conselheiro de assuntos internacionais de várias figuras proeminentes da Duma. As suas ideias têm influenciado o líder do Partido Comunista, Gennady Zyuganov, o ex‑ministro da defesa Yevgeny Primakov, Vladimir Zhirinovsky e outros altos dignatários.
Dugin analisou com profundidade e atenção os trabalhos de Trubetskoy, Savitsky e Florovsky, adaptou as teorias tradicionais de Mahan e Mackinder e postulou uma luta pelo domínio internacional entre as potências terrestres – personificadas na Rússia – e as potências marítimas – principalmente os EUA e o Reino Unido. Como resultado, Dugin crê que os interesses estratégicos da Rússia devem ser orientados de um modo anti‑ocidental e para a criação de um espaço Eurasiático de domínio russo. Por outras palavras, a Rússia não poderá subsistir fora da sua essência imperial, pela sua localização geográfica e caminho histórico.57 A Rússia é uma civilização distinta, diferente do Ocidente nos seus valores culturais, bem como nos interesses e preocupações de segurança.
A ideia de Mackinder sobre a oposição geopolítica entre potências marítimas e terrestres, foi levada ao extremo por Dugin, que postulou que os dois mundos não são apenas regidos por imperativos geoestratégicos antagónicos, mas também são opostos culturalmente. As sociedades terrestres, teoriza ele, tendem normalmente a ter sistemas de valores e tradições absolutas e centralizadoras, enquanto que as sociedades marítimas são inerentemente liberais.
Muitos intelectuais russos que um dia pensaram que a vitória da sua pátria seria um resultado inevitável da história, colocam agora a sua esperança em ver regressar a Rússia à grandeza numa teoria que é, em muitos aspectos, o oposto do materialismo dialéctico. A vitória será encontrada na geografia, não na história; no espaço, não no tempo.58
“O novo império eurasiano será construído no princípio fundamental do inimigo comum: a rejeição do ‘Atlantismo”, controlo estratégico dos EUA e na recusa em aceitar valores liberais para nos dominar. Este impulso civilizacional comum será a base de uma união política e estratégica”. Dada a presente situação internacional pouco influente da Rússia, Dugin reforça a necessidade de construir alianças que sirvam para aumentar o domínio político e económico. Assim, põe ênfase num eixo Moscovo‑Teerão e na criação de uma zona de influência iraniana no Médio Oriente. Na Europa, advoga um eixo Moscovo‑Berlim, que vê como essencial para a criação de um “cordão sanitário” contra a influência ocidental no antigo bloco soviético.59
Por outro lado, o Eurasianismo opõe‑se também ao “wahabismo satânico”, que ameaça e põe em risco a sua fronteira Sul, aquilo a que W. Churchill chamou “o baixo‑ventre da Rússia”, para onde se dirigem as suas actuais aspirações de hegemonia.60 No respeitante à política externa, o Eurasianismo defende que o caminho que o Ocidente tomou é destrutivo; a sua civilização é espiritualmente vazia, falsa e monstruosa; por detrás da prosperidade económica, está uma degradação espiritual total. Os EUA exploraram a mágoa pelos ataques terroristas de 11 de Setembro, e sob a capa da luta contra o terrorismo, para fortalecer as suas posições na Ásia Central, zona de influência russa. A Europa, apesar de ser cultural, social e politicamente chegada aos EUA, tem preocupações geopolíticas, geoestratégicas e económicas semelhantes à Rússia e à Eurásia.
Quanto à política interna, pretende reforçar a unidade estratégica da Rússia, a sua homogeneidade geopolítica e a linha vertical de autoridade, reduzir a influência dos clãs oligárquicos, combater o separatismo e o extremismo, e apoiar a economia nacional.61
O que torna Dugin notório e preocupante é que o seu pensamento faz lembrar, em certos aspectos, Hitler: fala sobre capitalismo, baseado numa combinação de nacionalismo e socialismo. As suas teorias foram banidas durante a época soviética pelas suas ligações ao Nazismo, mas são hoje aceites sem relutância pelo Partido Comunista.62
O colapso da URSS e o fim da Guerra fria levou a uma alteração dramática na configuração da geopolítica da Eurásia. Uma das consequências mais importantes dessa alteração foi a aparição de novas repúblicas independentes na Ásia Central, ao longo da fronteira Sul da Rússia: Cazaquistão, Quirguizistão, Tadjiquistão, Turcomenistão e Uzbequistão na Ásia Central; Arménia, Azerbaijão e Geórgia no Cáucaso.
Dada a posição geoestratégica da região, uma área de ligação natural e de trânsito entre a Europa, o Médio Oriente e a Ásia, ela constitui um elo importante de comércio. Ao mesmo tempo, os enormes recursos petrolíferos e de gás natural da região, transformaram‑na num local de enorme competição/cooperação.
As determinantes fundamentais da postura russa presentemente, tão evidentes na governação do Presidente Putin, são o declínio acentuado do seu poder nacional na primeira metade da década de 90’s, a enorme prioridade dos problemas económicos e sociais internos, especialmente durante a presidência de Yeltsin, o conflito na Tchetchénia, o alargamento da OTAN, e o grande retraimento das suas aspirações externas, juntamente com o fim da “missão de grande potência”, e a prudente avaliação dos “objectivos/capacidades” e dos “custos/benefícios”.63
Estas considerações são fundamentais na posição da Rússia face à Ásia Central. A Rússia sempre considerou a região como o seu “quintal” estratégico, mas não teve os recursos políticos, económicos e militares para manter a sua influência na década que se seguiu ao colapso da URSS. De qualquer modo, a Rússia espera manter a sua influência na Ásia Central. A limitada definição dos seus requisitos de segurança leva a Rússia a ver aquela região como uma “zona tampão” (“buffer zone”), em especial das forças do revivalismo islâmico.64
A doutrina consensual da “vizinhança próxima” define que a Rússia quer manter um papel político, económico e estratégico preponderante naquelas ex‑repúblicas da URSS, legitimando uma intervenção militar, se necessário. Contudo, a incapacidade da Rússia implementar as necessárias reformas nas suas Forças Armadas e na sua economia, em conjunto com a hostilidade com que a sua presença é vista, limita as suas possibilidades de cooperação e faz diminuir a sua influência, em especial no Cáucaso, em detrimento dos EUA. A Rússia vê assim a sua posição na região ameaçada pela expansão militar americana e da OTAN, bem como pelos seus próprios problemas internos (a guerra na Tchechénia fez com que as relações com a Geórgia, a quem acusa abertamente de abrigar terroristas tchetchenos, se deteriorasse muito). Para contrabalançar esta situação, propôs uma cooperação triangular com a China e com a Índia através da Organização de Cooperação de Xangai (com Cazaquistão, Quirguizistão e Tadjiquistão) e estabeleceu uma relação privilegiada com o Irão.
Feng Shaolei afirma que durante a primeira fase do período pós‑guerra‑fria (1991‑1993), o vácuo geopolítico criado deveu‑se à política russa para a região. Fazendo um esforço enorme para ter relações mais estreitas com os EUA e o Ocidente, a Rússia desperdiçou muitas oportunidades de preservar a sua influência na Ásia Central, e alcançar a integração económica, política e militar, pois a maioria dos líderes da região eram antigos colegas de Boris Yeltsin no Comité Central do Partido Comunista ou tinham obtido as suas posições com a sua ajuda. Mesmo assim, apesar desta política oficial, a Rússia manteve grande influência.
Na fase seguinte, de 1994 a 1996, a Rússia perdeu o controlo sobre os acontecimentos. As ex‑repúblicas da Ásia Central evoluíram de proto‑estados para estados plenos, com os respectivos atributos.
Uma terceira fase da política russa para a Ásia Central começou na segunda metade de 1996, quando a orientação pró‑ocidental do Ministro dos Negócios Estrangeiros Andrei Kozyrev deu lugar à orientação eurasianista de Yevgenyi Primakov. A Rússia fez então esforços titânicos para restaurar a sua influência e teve um papel importante no problema dos oleodutos e gasodutos da região.
A política russa para esta região não se alterou radicalmente até 1999/2000, quando as relações com o Ocidente caíram para o nível mais baixo, em virtude da crise do Kosovo, dos ataques extremistas no Quirguizistão e no Uzbequistão e, especialmente, da ascensão de Vladimir Putin à presidência.
Entretanto, reforçava o seu controlo sobre os oleodutos e gasodutos, utilizando por vezes esse controlo como um mecanismo para controlar os Estados da região.65
A resposta dos EUA aos ataques terroristas de 11 de Setembro de 2001, fez alterar a geopolítica global. Segundo D. Trenin, a política externa seguida por Putin a partir dessa data caracterizou‑se por uma inflexão nas suas escolhas estratégicas, dando a sua concordância à colocação de forças americanas em antigas bases soviéticas na Ásia Central, e apoiando o Ocidente na sua “guerra contra o terrorismo internacional”.66 No pensamento de Putin, a versão extremista do Islão é uma das maiores ameaças para a Rússia.
Apesar disto, nos seus esforços para manter os EUA longe da região do Cáspio, o Irão encontrou um aliado inesperado na Rússia. Ambos puseram temporariamente as suas divergências de lado, para fazer frente às actividades americanas na área. A aliança russo‑iraniana pode aliás considerar‑se um dos mais importantes factos geopolíticos do pós‑guerra‑fria. Para a Rússia, uma relação estreita com o Irão pode considerar‑se como uma reacção à expansão da OTAN para a Europa Oriental. O fornecimento de material militar convencional e de tecnologia nuclear russa ao Irão é um dos aspectos fulcrais desta aliança, já que muito poucos países estão interessados em fornecer armas ao regime dos “ayatollahs”. O Irão confia na Rússia como fornecedor de armamento, dado não existirem muitos países que o queiram fazer; a Rússia também vê vantagens e lucros no fornecimento de armamento, nuclear inclusive, ao Irão.
A possível influência iraniana no fundamentalismo islâmico, na opinião pública russa, é bastante limitada e claramente exagerada pelos políticos ocidentais. Em primeiro lugar, os iranianos são etnicamente Indo‑Arianos e, portanto, bastante diferentes de outras etnias da região Sul da ex‑URSS, que são de origem turca ou caucasiana, à excepção dos Tadjiques. Em segundo lugar, o Irão pertence à facção Shiita do Islão, ao passo que a maioria da população muçulmana da Ásia Central (à excepção do Azerbaijão) é Sunita. Em terceiro lugar, as elites locais não pretendem adoptar a forma de governo teocrática imposta no Irão. Em quarto lugar, o Irão não está economicamente em posição de iniciar uma modernização estrutural na Ásia Central e no Cáucaso, apesar de possuir divisas dos petro‑dólares.
Muitos políticos e peritos russos estão bastante mais alarmados com a Turquia, devido à sua proximidade geográfica, cultural, étnica e religiosa à maioria das ex‑repúblicas soviéticas, bem como o seu potencial económico e apoio político ocidental. Além disso, o modelo secular de desenvolvimento turco pode atrair os regimes da Ásia Central que procuram exemplos para seguir.67

7. O Petróleo

Sabia‑se da existência de petróleo no Cáucaso e na Ásia Central desde o século XIII e foi factor importante no “Grande Jogo” do século XIX. No final deste século, com as capacidades tecnológicas aumentadas, a exploração das reservas petrolíferas emergiram como um factor primordial na competição, e o Jogo intensificou‑se.
Até ao início do século XX, a principal actividade económica da Ásia Central estava ligada ao algodão, ao curtimento de couro, ao processamento da lã e à fiação da seda. Durante a 1.ª Guerra Mundial, os alemães tentaram conquistar a região petrolífera de Baku, na margem ocidental do Mar Cáspio, para continuar a alimentar o esforço de guerra, o que não conseguiram. Na 2.ª Guerra Mundial, Hitler parece ter tido a mesma determinação, estando consciente em 1942 que, se falhasse o controlo do petróleo do Cáucaso, perderia a guerra.68
A data crítica para o petróleo deu‑se em 1912, quando a Marinha Inglesa decidiu converter a propulsão dos navios de combate do carvão para o petróleo. Esta transição deu aos navios britânicos uma vantagem significativa em velocidade e autonomia sobre os seus adversários, em especial a Alemanha. Mas, por outro lado, colocou a Londres um outro dilema: se bem que bastante rica em carvão, a Grã‑Bretanha tinha poucos recursos petrolíferos domésticos e ficava dependente de importações.
Expandiu os seus interesses petrolíferos ao Golfo Pérsico e fortaleceu a sua posição na Pérsia (hoje Irão). A França, por seu turno, conseguiu concessões importantes em Mosul, no Noroeste do Iraque, enquanto a Alemanha e o Japão planeavam abastecer‑se na Roménia e nas Índias Orientais Holandesas (hoje Indonésia). A tentativa japonesa de se abastecer nas Índias Orientais Holandesas levou à imposição de um embargo de exportações para o Japão o que, por seu turno, persuadiu os japoneses que uma guerra com os EUA era inevitável, levando‑os ao ataque de surpresa a Pearl Harbor. No teatro europeu, a desesperada necessidade da Alemanha em obter petróleo, levou à invasão da Rússia em 1941, para alcançar Baku.
A riqueza mineral da Ásia Central só foi, na realidade, apenas descoberta a partir de meados do século XX pois, até aí, estava restrita à margem ocidental do Mar Cáspio, junto ao Cáucaso.69
As reservas de petróleo e de gás natural da região do Mar Cáspio são sem dúvida significativas. Nos cinco países que circundam aquele mar (Azerbaijão, Cazaquistão, Irão, Rússia e Turcomenistão) estão comprovados cerca de 154x109 de barris de petróleo70 e cerca de 76,5x1012 de metros cúbicos de gás natural. Em termos de percentagem, aqueles cinco países possuem cerca de 15% das reservas mundiais comprovadas de petróleo, e cerca de 50% das de gás natural.71
Estes vastos recursos energéticos transformaram a região numa área de grande competição e de cooperação, entre actores estatais e não‑estatais, pelo controlo daqueles recursos. O fim da “guerra‑fria”, o processo de globalização e a internacionalização das actividades do Estado como consequência principal daquela, transformaram o modo como o mundo pode ser compreendido, levando a uma reformulação do conceito de geopolítica. Este contexto “pós‑guerra‑fria” é pertinente para compreender a actual geopolítica da Ásia Central.72 Novos Estados, sem experiência anterior de independência, numa região onde a dissolução da URSS criou um vazio de poder.73 De facto, a conquista da soberania alcançada pelas ex‑repúblicas soviéticas não foi apoiada e baseada em regras, normas e mecanismos políticos apropriados que assegurem uma coabitação civilizada entre a Rússia e os novos estados.

8. O Futuro

As orientações políticas russas emergentes ligam‑se à busca de uma identidade nacional renovada e do seu lugar no mundo e nos assuntos internacionais, após o colapso soviético. Daí o ressurgimento de um discurso Eurasianista na política externa, após a chegada de Putin à presidência. Esta alteração foi posteriormente acentuada com as alterações geopolíticas introduzidas pela administração Bush como resposta aos ataques terroristas de 11 de Setembro de 2001. Parece óbvio que a Rússia fez uma “escolha estratégica” ao emparceirar com o Ocidente na “guerra contra o terrorismo internacional”.
As maiores preocupações da Rússia dizem respeito ao controlo das rotas de exportação dos recursos energéticos. O maior objectivo de Moscovo é assegurar que uma parte significativa dos recursos energéticos do Cáspio seja transportada pelo sistema russo de oleodutos para o Mar Negro e, daí, para a Europa. Porém, o sistema existente de oleodutos e gasodutos da era soviética é considerado como obsoleto, feitos com materiais de qualidade duvidosa e com manutenção de má qualidade técnica, que se estão a deteriorar com o tempo. As novas repúblicas procuraram por isso outras opções para se distanciar e não depender da Rússia, e serem capazes de alcançar mercados diversificados.
Para tentar manter a sua influência nas exportações dos produtos energéticos, a Rússia apoia apenas oleodutos que passem através do seu território.74 Todavia, as tentativas russas para retardar os projectos de desenvolvimento liderados por outras potências, levaram ao estudo de rotas alternativas para levar os recursos até aos mercados, prejudicando a posição da Rússia como potência dominante na região e fazendo‑a perder o controlo sobre os recursos energéticos da região e do seu transporte.75
Para a Rússia, os alvos geopolíticos primários para a subordinação política parecem ser o Cazaquistão e o Azerbaijão. A subordinação deste último ajudaria a “selar” a Ásia Central do Ocidente, especialmente da Turquia. O Azerbaijão, encorajado pela Turquia e pelos EUA, rejeitou os pedidos russos para a manutenção de bases militares no seu território e desafiou também as exigências daquele país para um único oleoduto com terminal no porto russo de Novorossiysk, no Mar Negro. A acrescentar ao oleoduto de Baku para Supsa, na Geórgia, a Turquia, o Azerbaijão e a Geórgia assinaram em 1999 um acordo para a construção de um oleoduto ligando Baku ao porto turco de Ceyhan, no Mediterrâneo, evitando assim definitivamente o território russo. Moscovo sentiu isso como uma humilhação geopolítica que prenunciava uma grave perda de influência no Cáucaso.76 É neste contexto que se encontra a explicação mais plausível para os recentes problemas de fornecimento de gás natural à Geórgia e para o diferendo com a Ucrânia sobre o mesmo combustível.
A vulnerabilidade étnica do Cazaquistão (cerca de 40% da população é russa) torna quase impossível uma confrontação aberta com Moscovo, que pode também explorar o receio do Cazaquistão sobre o crescente dinamismo da China. Para tentar diminuir as iniciativas unilaterais de desenvolvimento das novas repúblicas, nomeadamente as duas referidas atrás, tem utilizado também a incerteza quanto ao regime legal do Mar Cáspio, ainda por acordar.
Ao bloquear ou atrasar novos projectos de oleodutos, a Rússia conseguiu vencer praticamente todos os negócios energéticos, com investimentos pequenos. Porém, o actual sistema de oleodutos não possui a capacidade para o aumento de produção que se prevê para o Cazaquistão e para o Azerbaijão e, se tiverem de construir mais, a Rússia gostaria que passassem por território seu.77
A Tchetchénia era uma região autónoma gozando já de uma larga autonomia, quando declarou unilateralmente a sua independência em 1994. A Rússia decidiu resolver o assunto pela força por duas razões principais: em primeiro lugar porque, se a Tchetchénia fosse autorizada a sair da Federação Russa, seria um perigoso precedente que outras repúblicas predominante mente islâmicas do Norte do Cáucaso (Tcherkessia, Dagestão, Kabardin‑Balkar, etc.) poderiam querer seguir; em segundo lugar, a Tchetchénia é um ponto nevrálgico na rede de oleodutos vindos do Cáspio.
Se a materialização dos planos do oleoduto para Oeste falhar, todo o petróleo do Azerbaijão irá continuar a ser transportado pelo único oleoduto existente para o mar Negro, e esse atravessa a Tchetchénia. Se a Rússia quiser lucrar com o aumento de produção no Azerbaijão, tem de manter o controlo da república a todo o custo. Grozny, capital da Tchetchénia, é o centro de uma importante rede de oleodutos que liga a Sibéria, o Cazaquistão, o Cáspio e Novorossiysk.78
Outra ameaça séria à Rússia é o trânsito, importação e consumo de droga. De acordo com estimativas da ONU, dois ou três toneladas de heroína pura são transportadas anualmente da Ásia Central. Apenas há seis ou sete anos, a Rússia era principalmente um país de passagem no fornecimento de droga à Europa. Actualmente, é já um consumidor importante.79
Neste contexto, as prioridades de Putin parecem ser: a recuperação da economia russa; a restauração da Rússia enquanto grande potência; combater o fundamentalismo islâmico; controlar e eliminar as rotas do tráfico de estupefacientes; estabelecer um novo relacionamento de segurança com a Europa e com a OTAN; e resolver a questão nuclear estratégica com os EUA.
No plano político, a Rússia tentou avançar primeiro e rapidamente para a reforma política e chegou a um presidencialismo “inflacionado”, reduzindo os poderes das outras instituições governativas.
No plano económico, a Rússia não aprendeu as duas lições fundamentais que se podem extrair da experiência histórica da evolução da democracia: promover um desenvolvimento económico autêntico e sustentado e construir instituições políticas transparentes e equilibradas. A Rússia falhou em ambos os aspectos. Está a fazer o contrário da China, que está a reformar a sua economia antes do sistema político.80
No âmbito da política de segurança, o fundamentalismo islâmico constitui a maior preocupação da Rússia. Os líderes russos consideram os “talibans” do Afeganistão e movimentos similares como ameaças ao Cáucaso e às recém‑independentes repúblicas da Ásia Central, antigas repúblicas soviéticas e ainda regiões de grande relevância para a segurança da Rússia.
Estas preocupações levaram Putin a tratar os ataques terroristas de 11 de Setembro de 2001 como uma oportunidade para cooperar com o Ocidente relativamente ao desafio fundamentalista que, de qualquer modo, sentia já estar no seu caminho.81 Após aquele evento, a Rússia começou a ajudar os EUA no problema afegão, passando toda a informação que possuía sobre terroristas islâmicos e a sua experiência no montanhoso país. Pela primeira vez desde o início da 2.ª Guerra Mundial, ambos os países tinham um inimigo comum! A Rússia concordou mesmo com a presença de tropas americanas no Uzbequistão e no Quirguizistão, porque Washington não conseguiu arranjar uma infra‑estrutura militar no Paquistão.82
Por outro lado, todavia, não hesitou em entrar em conflito com a Ucrânia, ameaçando cortar o fornecimento de gás natural, facto que não deixa de conter dois alertas: a afirmação de que não prescinde de continuar a manter a Ucrânia na sua esfera de influência, e um sério aviso à UE, face à profunda dependência energética desta.
Porém, para a Rússia, a política internacional ainda é um “jogo de soma zero”: se houver vencedores, tem de haver vencidos.
As elites ocidentais têm ultimamente empreendido uma intensa campanha na opinião pública contra Putin, desde que ele nacionalizou a Yukos Oil – após a declaração de falência desta em 2006 – e a colocou sob o controlo da Gazprom (empresa controlada pelo Estado, que detém 51% das acções), que se está a tornar numa das maiores empresas petrolíferas do mundo.
Esta medida deu‑lhe grande popularidade interna (mais de 70% de concordância com a decisão) e teve um efeito benéfico na estabilização do rublo e no aumento do nível de vida. Muitos russos recordam ainda as experiências falhadas de “mercado livre” de Yeltsin, que desbarataram a riqueza nacional e que contribuíram bastante para o declínio económico e para a perda de prestígio internacional da Rússia.
Putin está a abrir os mercados russos e a procurar satisfazer as grandes empresas petrolíferas, fazendo, ao mesmo tempo, crescer a economia russa. Crê que “a dependência mútua fortalece a segurança energética do continente europeu, criando boas perspectivas para a aproximação noutras áreas”.
O Ocidente tem criticado Putin por ter utilizado o petróleo e o gás natural para enviar “mensagens” à Geórgia e à Ucrânia. O vice‑presidente americano, Dick Cheney, chamou‑lhe mesmo “chantagem”. De qualquer modo, não é sensato irritar o homem que aquece as nossas casas e que abastece os nossos carros.
Tem razão, mas não estará a ser um pouco ingénuo? Várias civilizações têm sido trituradas para satisfazer a gula e a cobiça mundiais pelo petróleo. Poderá a Rússia ser poupada?83
Por seu lado, a Rússia tem‑se oposto tenazmente à política externa dos EUA, em assuntos que vão do Irão ao Sudão, ao Kosovo e à Coreia do Norte. Putin tem declarado que pretende um número multipolar, em vez de um unipolar. Contudo, nem a Coreia do Norte, nem o Sudão, nem o Irão têm importância estratégica fundamental para a Rússia; servem apenas para que possa ter uma voz de oposição oficial à política externa intervencionista americana. O objectivo de longo prazo é reestabelecer a influência internacional da Rússia.
A Cimeira UE‑Rússia, realizada em Outubro de 2007 em Lisboa, veio desbloquear alguns problemas existentes, tais como garantias quanto ao abastecimento energético à Europa e o levantamento do embargo da Rússia sobre carne e frescos da UE, nomeadamente da Polónia.

 

Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

Fig. 4

Fig. 5

Fig. 6

 

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* Mestre em Estratégia pelo ISCSP.

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1 TOSTE, Octávio – “Teorias Geopolíticas”, Biblioteca do Exército, Rio de Janeiro, 1993, p. 1.

2 O’TUATHAIL, Gearóid – “Thinking critically about geopolitics”, em “The geopolitics reader”, Routledge, London, 1998, pp. 9, 15.

3 TOSTE, Octávio – obra citada, p. 31.

4 O’TUATHAIL, Gearóid – obra citada, p. 1.

5 O’TUATHAIL, Gearóid & AGNEW, John – “Geopolitics and discourse: Pratical geopolitical reasoning in american foreign policy”, em “The geopolitics reader”, p. 79.

6 AMINEH, Mehdi Parvizi – “Globalization, geopolitics and energy security in Central Asia and the Caspian region”, CEP, The Hague, 2003, p. 29.

7 HOPKINS, Peter – “The great game – The struggle for empire in Central Asia”, Kodansha International, New York, 1990, pp. 8‑13.

8 KENNAN, George – “The sources of soviet conduct”, em “Foreign Affairs” n. º 25, 1947, p. 576.

9 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 14‑15.

10 TOSTE, Octávio – obra citada, p. 9.

11 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 446.

12 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 19‑33.

13 AGNEW, John – “Geopolitics – Re‑visioning world politics”, Routledge, London, 1997, pp. 87‑93.

14 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 118.

15 CANAS, Vitalino – “Segurança e droga no Afeganistão: Chegou a altura de novas alternativas”, em “Segurança e Defesa”, n.º 1, Diário de Bordo, Novembro de 2006, p. 41.

16 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 131.

17 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 149‑164.

18 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 168, 253, 270. 19 http://en.wikipedia.org/wiki/The_Great_Game, 2006‑08‑05.

20 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 281‑292.

21 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 301‑306.

22 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 312‑317.

23 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 409.

24 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 351‑353.

25 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 377‑381.

26 http://en.wikipedia.org/wiki/The_Great_Game, 2006‑08‑05.

27 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 388‑389.

28 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 401‑416.

29 http://en.wikipedia.org/wiki/The_Great_Game, 2006‑08‑05.

30 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 438‑445.

31 MOREAU‑DEFARGES, Philippe, “Introdução à Geopolítica”, Gradiva, Lisboa, 2003, p. 107.

32 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 502‑522.

33 FORSYTHE, Rosemarie – obra citada, pp. 9‑10.

34 KLEVEMAN, “The new great game: Blood and oil in Central Asia”, Atlantic Monthly Press, New York, 2003, p. 2.

35 HAHN, Gordon M. – “The rebirth of Eurasianism”, 12Jul2002, em www.therussiajournal.com/index.htm?obj=6041, 2005‑01‑10. 36 HAHN, Gordon M. – obra citada.

37 BASSIN, Mark – “Classical Eurasianism and the geopolitics of russian identity”, em www.dartmouth.edu/~crn/crn_papers/Bassin.pdf, 2005‑01‑10.

38 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20I.htm, p. 7, 2005‑01‑10.

39 DUGIN, Alexander, obra citada, p. 4, 2005‑01‑10.

40 www.vor.ru/culture/cultarch235_eng.html, 2005‑01‑10.

41 BASSIN, Mark‑ obra citada, 2005‑01‑10.

42 Ibidem.

43 DUGIN, Alexander – obra citada, pp. 2‑8, 2005‑01‑10.

44 A teoria do “dominó” (William Bullit, 1947) postulava o medo do comunismo monolítico avançar no mundo através da China e da Ásia de Sudeste. Eisenhower defendeu‑a, afirmando que a perda da Indochina causaria a queda da Ásia de Sudeste como as pedras de um jogo de dominó. Serviu como base teórica para a intervenção americana no Vietname.

45 O’TUATHAIL, Gearóid – “Cold War geopolitics – Introduction”, em “The geopolitics reader”, Routledge, Londres, 1998, pp. 52‑53.

46 BREZHNEV, Leonid – “Soberania e a obrigação internacionalista dos países socialistas”, Pravda, 1968, citado em “The geopolitics reader”, pp. 74‑75.

47 O’TUATHAIL, Gearóid – “Cold War geopolitics – Introduction”, em “The geopolitics reader”, Routledge, Londres, 1998, p. 47.

48 MOREAU‑DEFARGES, Philippe – obra citada, pp.109‑110.

49 ROMER, Jean‑Christophe – “La pensée strategique russe au Xxe siècle”, em www.stratisc.org/pub/pub_ROMER_STRU_tdm, 2005‑01‑10.

50 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20II.htm, pp. 2‑4, 2005‑01‑10.

51 ROMER, Jean‑Christophe – obra citada, 2005‑01‑10.

52 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20II.htm, pp. 7, 2005‑01‑10.

53 ROMER, Jean‑Christophe – obra citada, 2005‑01‑17.

54 WALKER, M. – “The cold war: A history”, Holt, New York, 1993, p. 290.

55 BRZEZINSKI, Zbigniew – “The premature partnership”, em “Foreign Affairs”, Vol. 73, n.º 2, JAN/FEV 1994, p. 72.

56 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20I.htm, 2005‑01‑10.

57 BERMAN, Ilan – “Slouching toward Eurasia?”, em www.bu.edu/iscip/vol12/berman.html, 2005‑01‑25. 58 CLOVER, Charles – “Dreams of the Eurasian heartland”, em www.geocities.com/eurasia_uk/heartland.html, 2005‑01‑25.

59 BERMAN, Ilan – obra citada, 2005‑01‑25.

60 MARKETOS, Thrassy – “Eurasianist theory: Consequences to the strategic security of the russian muslim South”, em www.cacianalyst.org/view_article.php?articleId=3281, 2007‑01‑26.

61 http://en.wikipedia.org/wiki/Eurasia_Party, 2007‑01‑27.

62 HAHN, Gordon M. – obra citada, 2005‑01‑25.

63 SHI Yinhong – “Great power politics in Central Asia today: A chinese assessment”, em “Islam, oil and geopolitics”, Rowman & Littlefield, Plymouth, 2007, p. 165.

64 DAVIS, Elizabeth Van Wie & AZIZIAN, Rouben – “Islam, oil and geopolitics in Central Asia after September 11”, em “Islam, oil and geopolitics”, p. 7.

65 FENG Shaolei – “Chinese‑Russian relations: The Central Asia angle”, em “Islam, oil and geopolitics”, pp. 203‑206.

66 TRENIN, Dimitri – “From pragmatism to strategic choice: Is Russia’s security policy finally becoming realistic?”, citado por O’LOUGHLIN, John, O’TUATHAIL, Gearóig & KOLOSSOV, Vladimir – “Russian geopolitical culture and public opinion: The masks of Proteus revisited”, em www.colorado.edu/ibs/PEC/johno/pub/Proteus.pdf

67 LOUNEV, Sergey – “Russian‑Indian relations in Central Asia”, em “Islam, oil and geopolitics”, p. 77.

68 FORSYTHE, Rosemarie – “The geopolitics of oil in the Caucasus and Central Asia: Prospects for oil exploitation and export in the Caspian basin”, Adelphi Paper 300, IISS, Oxford University Press, 1996, pp. 9‑10.

69 FORSYTHE, obra citada, p. 9.

70 Um barril de petróleo é equivalente a 159 litros, 42 galões americanos, ou 35 galões imperiais.

71 AMINEH, Mehdi Parvizi – obra citada, p. 1.

72 Ibidem

73 HANSEN, Sander – «Pipeline politics – The struggle for control of the Eurasian energy resources», Clingendael Institute, The Hague, 2003, p. 1.

74 AMINEH, Mehdi Parvizi – obra citada, pp. 74‑81.

75 CUTLER. Robert – “Cooperative energy security in the Caspian region: A new paradigm for sustainable development?”, em www.robertcutler.org/ar99gg3b.htm – 2005‑01‑25.

76 RAMONET, Ignacio – “Guerras do século XXI – Novos medos, novas ameaças”, Campo das Letras, Porto, 2002, p. 127.

77 FORSYTHE, Rosemarie – obra citada pp. 13‑17.

78 KLEVEMAN, Lutz – obra citada, pp. 53‑57.

79 LOUNEV, Sergey – obra citada, p. 181.

80 ZAKARIA, Fareed – “O futuro da liberdade – A democracia iliberal nos Estados Unidos e no mundo”, Gradiva, Lisboa, 2003, pp. 87‑90.

81 KISSINGER, Henry – obra citada, p. 296.

82 LOUNEV, Sergey – obra citada, p. 183.

83 WHITNEY, Mike – “Energy geopolitics: Putin gets mugged in Finland”, em “Global Research”, October 22, 2006.

Bibliografia

Comment utiliser à bon escient l'expression "postmodernité"?

 

GiorgioDeChiricoPizaaDItali.jpg

ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

Comment utiliser à bon escient l'expression «postmodernité»? Pourquoi cette nébuleuse intellectuelle est-elle proche de notre courant de pensée?


par Robert STEUCKERS

Explication: ce texte a servi d'introduction et d'annonce à une conférence de Robert Steuckers devant le public sélectionné du "Cercle Héraclite" à Paris, qui constituait le noyau du G.R.E.C.E., émanation principale de la "Nouvelle droite" en France. A la demande de Charles Champetier, promu directeur du département "Etudes et Recherches" de cette association à vocation métapolitique, Robert Steuckers revenait travailler au sein de ce groupement, après l'avoir quitté, dégoûté, suite aux évictions scandaleuses de Guillaume Faye et Jean-Claude Cariou. Son objectif était de soutenir la volonté de rénovation du jeune Charles Champetier, qui, d'étudiant plein de bonne volonté et de bonnes intentions, allait lentement "pourrir" au sein de cette secte pour se voir contaminé par tous les travers du gourou que Pierre-André Taguieff a justement défini comme "polygraphe et doxographe". Le texte qui suit est paru dans le bulletin interne du G.R.E.C.E., peu avant la conférence de Steuckers, qui eut lieu en juin 1989. A ce titre, il revêt une certaine valeur historique pour qui voudra encore se pencher sur l'historique de la secte métapolitique que fut le G.R.E.C.E. avant de périr sous les contradictions, atermoiements, pusillanimités et trahisons de son faux-derche emblématique de gourou. Plus généralement, il montre que la dite secte n'a pas embrayé sur les interrogations philosophiques de l'époque, n'a pas travaillé correctement sur le plan métapolitique et n'a pas arraché les éléments valables du discours et du questionnement post-modernes à la nouvelle gauche néo-libérale. On voit le résultat: le gourou a été totalement marginalisé et le néo-libéralisme n'a plus d'adversaire si ce n'est une gauche confite dans ses archaïsmes. Le gourou, par narcissisme, par égomanie, a loupé le coche. C'est un vrai doxographe. Taguieff avait raison!


La finalité de la conférence itinérante que je donnerai au cours de ce printemps dans diverses villes d'Europe, c'est de re­plonger notre courant de pensée dans le débat philosophique actuel et de montrer que nos intuitions les plus anciennes ca­drent avec les innovations les plus récentes du microcosme des philosophes.

Dans un numéro récent de la revue Criticón, Armin MOHLER, dont les conseils et les directives nous ont toujours été si utiles, nous exhorte à lire et à potasser un ouvrage de 1987, dû à la plume de Wolfgang WELSCH et consacré aux multiples débats tournant autour de la postmodernité (Unsere postmoderne Moderne, Acta Humaniora, Weinheim, 1987). Le mérite de WELSCH, c'est d'avoir enfin clarifié le con­cept de «postmodernité» et d'avoir classé les linéaments de ce phé­nomène sur un mode pédagogique.

In nuce, voici ce que WELSCH nous démontre dans son ouvrage:


1) La postmodernité, ce n'est pas la posthistoire, ni l'«hypertélie» de Baudrillard, où l'on pose un diag­nostic pessimiste, en disant que l'histoire s'est arrêtée, que nous sommes encroûtés dans l'obésité trans­historique. La postmodernité n'admet pas ce pessimisme outrancier.


2) La postmodernité, ce n'est pas non plus la société postindustrielle. Cette dernière conserve le grand projet de faire le bonheur des masses en produisant et en commercialisant des biens de consommation en quantités énormes. Telle que l'a théorisée le sociologue américain Daniel BELL (cf. Guillaume FAYE, «Les néo-conservateurs américains» in Orienta­tions n°6), cette société postindustrielle est marquée par une mutation technologique: le passage des technologies hard (industrialisme sidérurgique, extraction du charbon, etc.) aux technologies soft (informatique), couplé à une «révolution culturelle» escapiste, qui se perd dans un esthétisme irréalitaire et «distrait» nos contemporains, tout en alimentant leurs fantasmes de tous ordres. Ancien libéral (au sens américain du terme) devenu néo-conservateur, BELL constate la fail­lite du grand projet bonheurisant des libéraux et des marxistes, mais il en a la nostalgie; il ne veut pas renoncer à ses promesses et à ses acquis et craint que la sphère culturelle, perçue comme anarchisante, ne précipite le monde dans un chaos néo-mé­diéval. Les postmodernes, eux, ne s'encombrent pas de telles peurs parce qu'ils pensent et agissent selon des logiques mul­tiples et non plus, comme BELL, sur un mode unitaire, monologique (même si BELL, en opposant la logique indus­trielle à la logique culturelle con­statait de facto qu'il y avait au moins deux logiques).


Ensuite, WELSCH a le mérite de nous suggérer une chronologie cohérente de l'évolution intellectuelle de l'Europe. Pour lui, la modernité, c'est la vision-du-monde qui démarre avec le grand projet de «mathesis universalis» de Descartes, relayé par les mythes de l'âge des Lumières, de l'Aufklärung. C'est effectivement à cette époque que l'individualisme bourgeois fait irruption dans le droit, avec les révolutions américaine et française (cf. Louis DUMONT), que la sphère du politique se «moralise» en paroles et s'ensauvage dans le concret (exterminations des «pas moraux»: Vendéens, Indiens d'Amérique, Fédéralistes lyonnais et autres récalcitrants), que naissent les grands programmes idéologiques dont nous souffrons encore (libéralisme économique de la «main invisible» et de la «concurrence parfaite», «équilibres» des pensées économiques de RICARDO et MARX). Cet espoir de voir se réaliser, en des jours meilleurs, dans un futur utopique, un «équilibre idéal», c'est ce que défendent aujourd'hui les principaux adversaires de notre courant de pensée: HABERMAS, les néo-libéraux qui ont colonisé étroitement les droites françaises, les adeptes du «réarmement théologique» (pour qui la main invisible d'Adam SMITH est une instance régulatrice, dé­tachée du concret comme le Yahvé biblique tonne au-dessus des hommes), les néo-individualistes anti-holistes (Alain LAURENT), etc.


Devant la modernité en marche au XVIIIième et au XIXième siècles, les romantiques se révoltent sans toutefois pouvoir opposer une épistémologie scientifique suffisamment étayée pour réfuter les assises de la physique newtonienne et, par­tant, le projet philosophique cartésien qui en découle. Comme seule pré­vaut la physique déterministe, physique des choses inanimées, le romantisme, malgré son épistémologie botaniciste/organique, ne parvient pas à secréter un contre-monde, basé sur une vision radicalement alter­native. Nietzsche, lui non plus, ne parviendra pas à ébranler les certitudes de la mo­dernité, malgré son style et ses aphorismes visionnaires. La rupture, selon Welsch, est consommée quand apparaît, à l'aube de notre siècle, la physique relativiste d'un Heisenberg ou d'un Gödel. La structure intime des faits physiques ne cor­respond plus, désormais, à un schéma figé, stable, équilibré: derrière l'apparente stabilité des choses, se profile un chaos synergétique, où évolutions et involutions se côtoient. Les explorations les plus récentes des physiciens contemporains (Prigogine, Haken, Mandelbrot, etc.) ont confirmé cette vi­sion d'un chaos synergétique sous-jacent. Dès lors, les idéolo­gies politiques, les «grands récits» (Lyotard) de la modernité politique, sont basés sur des postulats infirmés par la science. Du coup, notre sphère poli­tique, marquée soit par le libéralisme soit par le marxisme, s'avère désuète, obsolète, inadéquate.


Pour Welsch, la seule postmodernité qui soit acceptable sur le plan intellectuel, c'est celle qui prend le re­lais de l'épistémologie des sciences physiques et cherche à en transposer les découvertes dans la philoso­phie et dans la vie quoti­dienne. Face à cette postmodernité précise, nous trouvons, explique Welsch, une postmodernité anonyme et une postmo­dernité diffuse. La PM anonyme, ce sont tous les courants de pen­sée, toutes les philosophies qui enregistrent et acceptent la structure chaotique/synergétique du monde, sans toutefois revendiquer l'appellation «postmoderne». La PM diffuse, c'est l'ensemble considérable des opinions hétéroclites qui se baptisent «postmodernes» pour être dans le vent et pour justifier des fan­tasmes de toutes natures.


En Allemagne, aujourd'hui, la pensée officielle, la seule qui soit tolérée, c'est celle qui répète les postulats de la modernité en les napant d'une sauce nouvelle. Pour sortir de cette impasse, de jeunes philosophes font soit appel à l'irrationnel pur et brut, soit opèrent un détour par les philosophes français contempo­rains, inspirés par Nietzsche et Heidegger. En effet, dans la philosophie française contemporaine, nous trouvons, souvent derrière un vocabulaire à première vue abscons, des linéaments nietzschéens ou des linéaments calqués sur le chaotique/synergétique de la physique nouvelle. C'est le cas chez Deleuze, Guattari, Foucault et Derrida. Notre courant de pensée doit s'approprier impérativement les éléments de nietz­schéisme présents dans les thèses de ces philosophes car nous assistons au phénomène suivant: les tenants du néo-uni­versalisme actuel sont en train de les larguer, de les démoniser, de les assimiler pure­ment et simplement à notre vision-du-monde, laquelle, bien sûr, ils condamnent sans appel. Dans deux ouvrages récents, deux vulgarisateurs du néo-universa­lisme, Luc Ferry et Alain Renaut signalaient que Deleuze, Foucault et Derrida avaient, ô scandale, proclamé la «mort de l'homme», la «fin du sujet» (lisez: l'individualisme occidental), et avaient hissé «le vitalisme au-dessus du droit».


Devant tous ces faits d'histoire de la pensée, la tâche d'un mouvement métapolitique comme le nôtre, c'est de transposer les acquis de la physique contemporaine dans le domaine de la philosophie, de les greffer sur les corpus des sociologies organiques et vitalistes, puis de propulser cette audacieuse synthèse dans la vie quotidienne, c'est-à-dire dans le politique, l'organisation de la Cité, le droit, l'économie, etc. Rien ne sert de sombrer dans le pessimisme; au contraire: le travail qui nous attend, dès cet instant même, est énorme et fascinant. Au bout de nos efforts, il y aura incontestablement la victoire.


Robert STEUCKERS,

janvier 1989.

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Julius Evola on Ernst Jünger

Julius Evola on Ernst Jünger

East and West – The Gordian Knot

Ex: http://eisernekrone.blogspot.com/

The name of Ernst Jünger has achieved an almost European notoriety. However the importance of this writer as a philosopher concerns above all the early period of his activities. An ex-service man in the first World War, he appeared as a spokesman of what in his day was already known as the “burnt out generation.” His ideas were drawn not from abstract writing-desk speculations, but from a heroic experience which he had lived through, whence they gradually extended to the problem of the meaning of the human person in an epoch of nihilism and of the all-powerful machine. His watchwords were those of “heroic realism” and of the ethics of the “absolute person.” Unfortunately Jünger’s later production, while it registered an apparent progress from the point of view of pure literature and style, showed a visible decline of level and of tension from the point of view of world outlook. The tendency of somewhat suspect humanism, associated with myths which by reaction have become fashionable in certain circles even of Central Europe after the late break-down, has somehow influenced his later writing.


We have had occasion to peruse a recently-published book of Jünger’s entitled “The Gordian Knot” (Der gordische Knoten. Frankfurt a.M., 1953). It professes to deal with relations between East and West, regarded as a basic historical theme, with the encounters which have taken place between Europe and Asia from the days of the Persian wars to the present time. It is not easy to circumscribe the domain considered by Jünger. It hovers essentially between politics and ethics, while the religious and purely intellectual element is almost overlooked, a fact which proves prejudicial to the whole work, because, if we do not consider this element as the fundamental background of traditional Oriental civilizations, the whole problem appears badly presented. In this book we find a number of interesting observations, but they are scattered about here and there as if in a conservation and there is a lack of systematic unity. But the fundamental defect of the book is that it presents in terms of historical antitheses and of antithetical civilizations what are instead antitheses of universal spiritual categories, having no compulsory relations with particular peoples, civilizations or continents. Jünger often finds himself forced to admit it, as when he speaks of East and West, of Europe and Asia, not as of two historical and geographical concepts, but as of two possibilities which every man in every age carries within himself. Every people would indeed possess them, because, for instance, the typical features of Asiatic incursions into Europe and of the “Oriental” manner of warfare would reappear in civil wars in their opposition to regular wars. But how can we then fail to notice that the greater part of the author’s considerations, which resort to historical and geographical references, whereas they should limit themselves to the domain of a morphology or a typology of civilizations and of world outlooks, and which claim actually to conclude with a diagnosis of the present situation, are compromised by a fundamental one-sidedness and ambiguity?
That this is the case can be easily proved if we examine some of the main motifs of the book, in the first place, that whence its very title, i.e. the Gordian knot, is drawn. The Gordian knot should represent the problem which always arises with every encounter between Asia and Europe when domination over the world is in question. The Gordian knot should represent Asia, the sword of Alexander Europe. The former should be the symbol of destiny of an existence bound by elementary or divine forces, of a world characterized by a lack of limits, of a political society essentially despotic and arbitrary. The sword of Alexander should instead represent the luminous element, spiritual power, and be the symbol of a world acknowledging freedom, law, human respect, a greatness which cannot be reduced to mere power. At one point of the book the antithesis is even made equivalent to that between the Titanic powers, vast and shapeless, and the Olympic powers eternally fighting against them, because the former also represent the substratum of elementary forces ever re-emerging from the depths and offering possibilities for new triumphs and further progress.


We need only bear this formulation in mind to realize the absurdity of talking about East and West. In fact that antagonistic myth is invested with an universal character, it is found in the mythologies and sagas of all civilizations, and in the East it has been formulated not less distinctly than in Hellenic civilization (we need only remember the dualism of Mazdaism, the Hindu themes about the struggle between deva and asûra, or the exploits of Indra, etc.); it reflects therefore a vision of life by no means specifically European. Moreover, if we refer to a metaphysical plan, it is quite absurd to associate the East with an existence subject to the powers of destiny and of the earth. If there is a civilization which has not only formulated the notion of an absolute freedom, of a freedom so high that even the realm of the heaven and the realm of the pure Being appear as a form of bondage, but which has furthermore known a definite technical tradition to realize that ideal, such a civilization is definitely that of the East.


But Jünger seems to wish to keep to a more conditioned plan, closer also to that of political forces. But here too the argument does not hold water. The antithesis of the Western ideal of political freedom as against Asian despotism is an old story, which may have been a “myth” dear to certain Hellenic historians, but which is devoid of all serious foundation. To justify it we should limit ourselves to considering certain inferior by-products of a degenerating and barbarous East, with local sartraps and despots, with hordes of Tartars, Huns and Mongols, and some aspects of the latest Arabo-Iranian and Arabo-Persian cycles. At the same time we should overlook the recurrent phenomena of the same kind in the West, including the methods of those tyrants and princes who were devoid all human respect in the age of the Italian Renaissance. Indeed Jünger himself goes counter to his own thesis when he points out that in the evolution of Roman history, especially during the Imperial period, both forms were present. He fully realizes that it is not possible here to bring forward an eventual Asiatic racial contribution as the only capable of giving an explanation, so that he has to resort, as we have pointed out, not to a historic Asia, but rather to an Asia as a permanent possibility latent in everyone. In any case, coming down to modern times, the impossibility of sensibly utilizing that antithesis in any way, appears ever more obvious to Jünger himself. Here then his antithesis on the one hand almost identifies itself with that proper to the political terminology of today, in which the “West” is identified with the Euro-American democratic world and the “East” with Bolshevik Russia; in addition with regard to certain features drawn by him from the “Asiatic” style, concerning the manner of waging war, of estimating the individual, of despotism, of exploiting vanquished peoples and prisoners of war, of wholesale slaughter, etc. he tends to perceive them, in a rather one-sided manner, actually in Hitler’s Germany. What can all this mean?


In any case even in this connexion things are not quite right and it is odd that Jünger has not noticed it. Leaving Asia and Europe aside, and considering instead these conceptions in themselves, the true synthesis does not lie between freedom and tyranny, but rather between individualism and the principle of authority. Of a system based on the principle of authority everything like tyranny, despotism, Bonapartism, the dictatorship of tribunes of the people, is nothing more than a degeneration or an inverted falsification. By reverting to the domain of historical civilizations it would be easy indeed to show to what extent the traditional East, as far as concerns the doctrine of the Regnum, admitted ideals very different from individual despotism. We need only refer to the Far Eastern Imperial conception, with its theory of the “mandate from Heaven” and the strict political ethic of Kong-tse. In the Nitisara we are asked to explain how he who cannot dominate himself (his own manas) can dominate other men, and in the Arthaçâstra the exercise of royal functions is conceived as tapas, i.e. ascetism, ascetism of power. We might easily multiply references of this kind.


There is no doubt that the East has had a characteristic tendency toward the Unconditional, which has been the case only merely sporadically with the West, by no means to its advantage. This might shed a different light even on what Jünger calls the Willkürakt, and which in him seems almost to play the part of an anguish complex. As a matter of fact a world outlook, wherein the extreme point of reference is the Unconditional, law in actual practice or in the abstract, can never constitute the extreme instance on any plane, neither on the human nor on the divine plane. We do not wish to dwell here on an evident contradiction into which Jünger falls: how can he conciliate the idea of the East as a world subject to the bonds of destiny and of necessity with that other idea, according to which the absolute act, the Willkürakt, is alleged to be an Eastern category? Furthermore, although it is a case of horizons already different, by such implications we had to recognize Asia in its purity, well, in Nietzsche and in Stirner.


But it is more important to consider another aspect of the question. Jünger tells of a visit by the Count of Champagne to the head of the Order of the Ishmaelites at the time of the Crusades. At a sign from his host some knights threw themselves down from the top of a wall. Asked if his own knights were capable of similar obedience and fealty, the Count replied in the negative. We have here, Jünger declares – something which a European mind cannot grasp, because it borders on the absurd, on folly, because it offends all human values. We have the sentiments before the Japanese airmen devoting themselves to death. In the late war, he adds, in Italy and Germany exploits were conceived and actually carried out which involved extreme risks, but not a previous acceptance of irrevocable sacrifices by the individual.


Now these considerations are in part one-sided, in part due to misunderstanding. With regard to the first point we shall mention a single instance. Ancient Rome, which certainly did not belong to “Asia,” knew the ritual of the so-called devotio: a military commander volunteered to die as a victim of the infernal powers in order to promote an outbreak of them, and thus to bring about the defeat of the enemy.


The second point, however, is more important. Jünger should have known that the Ishmaelites were not merely a military Order, but also an Order of initiates. Within the orbit of initiation all ethics of a merely human nature, however elevated, cease to have any validity. Even on the level of mere religion we find the sacrifice of Isaac as a trial and a disciple of absolute “corpse-like” obedience – perinde ac cadaver according to the formula of the Jesuits¬ – in the domain of monastic ascetism. Calvin went so far as to consider the possibility of renouncing eternal salvation for the sake of love of God. As for the Order of the Ishmaelites, there is a specific point which should be born in mind: absolute obedience to the extreme limit, as illustrated in the above-mentioned episode, had also the value of discipline and was limited to the lower ranks of the initiatic hierarchy; once the individual will is eliminated, above the fourth degree an absolutely contrary principle reigns, that of absolute freedom, so much so that some one referred to the Order of the Ishmaelites the principle that “Nothing exists, everything is permitted.” A mere Crusading knight could hardly attain such horizons: a Knight Templar might perhaps done so, for the Order of the Templars also had an initiatic background. Were Jünger to realize all this he might begin to understand what was the right place even for what he calls the Willkürakt and the limitations of the validity for ethics of personality and for an ideal of purely human civic greatness.


Here indeed higher existential dimensions come into play, and not only in the case of an organization of initiates. For instance, when it comes to those “absolute sacrifices” of a heroic nature, we should not forget that it is, in a general way, a question of civilizations, in which the human earthly existence is not considered, as it is with us, unique and incapable of repetition. Even on the level of popular religion and of the normal outlook of life in those civilizations the individual has the feeling or foreboding that his existence does not begin with birth nor end with death on earth; thus we find potentially present that consciousness and that higher dimension, to which only in exceptional case the religious views which have to come to prevail in the West offers a suitable atmosphere.


The most important result of these latter considerations is probably the following. Putting aside East and West, Asia and Europe as civilizations and as historic realities, we may place our consideration on the plane to which Jünger has in his book been more than once forced to shift himself, i.e. on the plane of a morphological determination of the various layers and possibilities of the human beings. We should then have three levels. On the lowest we should place all those possibilities which Jünger has associated with the “Gordian knot,” with elementary and savage forces, with everything that is limitless, with the daemonism of destruction, with that which is ruthless, with an absence of all human respect, with affirmation devoid of all law. In an intermediate zone we should place the sum total of possibilities contained within the framework of a civilization which recognizes the value of humanitas, of law, of individual and civil freedom, of culture in the ordinary meaning of the word. The higher level is here represented by that spirituality which Jünger associates with the symbols of Alexander’s sword, while the lower level is made up of the values which have provided the foundations of the latest bourgeois and liberal civilization. But we must recognize as the highest zone that of possibilities which through the formal analogies which two opposite poles ever present reflect certain features of the first zone, because here it is a domain wherein the human tie is surpassed, where neither the mere human individual nor the current criterion of human greatness any longer represents the limit, because within it the Unconditional and the absolutely transcendental asserts itself. Some of the culminating points of Oriental spirituality refer in fact to this zone. If only a limit as slender as a razor’s edge at times separates this domain from the former, yet the difference between the two is abysmal, whereas opposition to what is merely human is common to both.


Now it is important to point out that wherever forces belonging to the first of the three domains emerge and break forth, only the possibilities of the third domain can really face them. Any attempt to stem on the basis of forces and values of the intermediate zone can only be precarious, provisional and relative.


To conclude, we may associate with this a remark concerning that diagnosis of the present situation, to which Jünger’s book claims to have contributed. In the first phase of his activities, and above all in his books “Feuer und Blut” (1926) and “Der Arbeiter” (1932), he had rightly perceived that the age beginning in the West with the advent of mechanical civilization and of the first “total” wars is characterized by the emergence of “elementary” forces operating in a destructive manner, not only materially, but also spiritually, not only in the vicissitude of warfare, but also in cosmopolitan mechanized life. The merit of Jünger in that first phase of his thought is that he had recognized the fatal error of those who think that everything may be brought back to order, that this new menacing world, ever advancing, may be subdued or held on the basis of the vision of life of the values of the proceeding age, that is to say of bourgeois civilization. If a spiritual catastrophe is to be averted modern man must make himself capable of developing his own being in a higher dimension – and it is in this connexion that Jünger had announced the above-mentioned watchword of “heroic realism” and pointed out the ideal of the “absolute person,” capable of measuring himself with elementary forces, capable of seizing the highest meaning of existence in the most destructive experiences, in those actions wherein the human individual no longer counts: of a man acclimatized to the most extreme temperatures and having behind the “zero point of every value.” It is obvious that in all this Jünger had a presentiment of the metaphysical level of life in the third of the domains which we have mentioned. But in this new book we see that he confuses this domain with the first, and that the chief points of reference for everything which Jünger associates with the symbol of the West are drawn to a great extent from the intermediate zone – still far enough from the “zero point of every value” and not wholly incompatible with the ideas beloved in the preceding bourgeois period, even if raised to a dignified form and integrated with some of the values of the good European tradition.


This leads to a dangerous confusion of horizons, and at all events marks a retrogression from the positions already achieved by Jünger in his first period. His more recent works, including the one which we have been discussing, while they are rich in interesting suggestions, offer us nothing which has a real basic value. We have moreover seen that in this book on the Gordian knot the East is an one-sided and partly arbitrary notion which has nothing to do with the actual reality of the higher traditional Oriental civilizations, while throughout the whole work we perceive with sufficient clarity the reactions of those who, without having any adequate sense of distance, draw conclusions from the most recent political vicissitudes and who would reduce the conflict between East and West merely to that between the world of the democratic Euro-American nations, with their own outworn ideals which are trying to present themselves in terms of a new European humanism, and the world of Soviet Communism.

Julius Evola

(East and West, V, 2, July 1954)

mercredi, 18 février 2009

Europe eurasiste contre Europe atlantiste: à nous de choisir!

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EUROPE EURASISTE CONTRE EUROPE ATLANTISTE : A NOUS DE CHOISIR !


Moins de 20 ans après l'effondrement de l'URSS, force est pourtant de constater que le titre du Financial Times est plus que d'actualité alors que le pays se prépare a choisir ses nouveaux dirigeants. Une guerre défensive de cinq jours, habilement gagnée par la Russie dans le sud Caucase suffit a totalement enrayer le processus d'extension de l'OTAN. Pour la première fois, une puissance contrecarrait militairement les Etats-Unis d’Amérique. En ce mois d'août 2008, les tanks russes qui défendirent Tsinvali venaient de faire chanceler le vieux monde, unilatéral et néo-libéral. (...)


Depuis la chute de l'URSS et du mur de Berlin, l'OTAN n'a plus lieu d'être. Incapable de venir a bout des "terroristes" et du trafic d'opium afghan, l'OTAN est devenue une organisation désuète, frappée du sceau de l'échec et qui ne reflète plus les intérêts européens. En effet la menace soviétique et le pacte de Varsovie ayant disparus et la nouvelle menace terroriste (due a un Ben Laden formé par la CIA) considérablement moins élevée (voir inexistante) sans une participation récurrentes aux actions de l'OTAN a travers le monde. Les Européens doivent aujourd'hui se rendre compte que leurs soldats font office de supplétifs de l'armée américaine, se faisant tuer pour des guerres qui ne sont pas les leurs ! Pire, en collaborant avec l'OTAN, l'Europe se met en position conflictuelle avec des acteurs essentiels a la stabilité et la paix que cela soit dans le monde musulman (où l'OTAN est perçue comme une alliance de croisés modernes) mais également dans le monde eurasiatique, ou l'OTAN est vue comme un outil Américain, facteur de trouble, par les grandes puissances de demain comme la Russie, la Chine, l'Inde ou l'Iran, toutes ces puissance étant liées entre elles au sein de l'Organisation de Coopération de Shanghai (OCS).


Ce nouvel ordre multipolaire semble se configurer via l'émergence de grands ensembles civilisationnels et identitaires (UE, Chine, Russie, Inde). Ce phénomene de regroupement sur-régional est a l'opposé du mouvement de morcellement auquel œuvre l'Amérique en Europe, morcellement destiné a la constitution de petits ensembles facilement contrôlables économiquement et dépendants militairement (Yougoslavie, Tchécoslovaquie, projet de morcellement en trois de la Russie..). Morcellements au passage fomentés par l'OTAN et dogmatiquement attribués à l'effondrement post-soviétique. Ces nouveaux regroupements auto-centrés n'ont pas lieu qu'en Eurasie mais bel et bien sur tous les continents, que ce soit en Amérique du Sud (Argentine, Brésil, Venezuela et Bolivie), sur le continent africain, ou dans le monde musulman, arabe ou pan-turc. Ces regroupements s'opèrent via des cœurs historiques, civilisationnels et économiques. Ces cœurs impériaux sont de facon très génerale les grandes capitales ethno-culturelles des zones concernées, à savoir Pékin pour la Chine, Tokyo pour les Japonais, Caracas ou Rio pour l'Amérique du sud, les musulmans hésitants depuis longtemps entre La Mecque, Téhéran et Istanbul, avec une montée en puissance des musulmans d'Asie. Il est à noter la place absolument unique de la Russie, au carrefour de tous les mondes, islamique via sa position a l'OCI, occidental via le COR, européen par essence ou encore asiatique de par sa géographie et sa participation a l'OCS.


De ces ensembles qui représentent de potentiels concurrents économiques voir militaires, l'Amérique en craint un bien plus que les autres : la grande Europe, ce front continental, colosse économique et militaire, gigantesque empire de Reykavik a Vladivostok, étalé sur onze fuseaux horaires et potentiel leader économique et militaire planétaire. La division voulue et souhaitée par les stratèges américains date et va dans ce sens : tout faire pour empêcher tout unité pan-européene ! De John O'Sullivan qui en 1845, dans "Our Manifest Destiny" écrivait : "Avec l'anéantissement de l'Europe, l'Amérique deviendra la maîtresse du monde" ou l'ouvrage de 1890, "Our Country" qui précise que "l'Europe vieillissante n'a plus les moyens de sauvegarder les valeurs civilisatrices de l'Occident, reprises par une Amérique dynamique émergente" et conclut par la fameuse formule "Europe must perish ! " soit l'Europe doit périr. (...)


La Russie endormie sous Eltsine s'est réveillée, devenant aujourd'hui l'hyper-centre de résistance à l'américanisation forcée et à l'extension agressive et criminelle de l'OTAN. La Russie nous a prouvé récemment qu'elle était prête à défendre ses intérêts mais également à collaborer avec l'Europe et à participer activement à un projet de société pacifique, multilatéral et fondé sur la concertation. Comme les Russes de 1999, les Européens de 2008 doivent sortir de leur sommeil et se libérer, tout d'abord des chaines de l'OTAN, qui s'étendent jusqu'aux frontières ukrainiennes et biélorusses et pourrait les mener a un conflit avec leurs frères Russes.


L'Europe se situe sur le continent eurasien, dont elle occupe la façade atlantique, tandis que la Russie elle occupe la majorité des terres, et la façade pacifique. L'Europe et la Russie sont intrinsèquement liés et appartiennent au même continent, l'Eurasie ! L'Eurasie est la maison commune des Européens et des Russes, de Reykavik à Vladivostok. Grâce à la Russie, une autre Europe, eurasiatique se dresse face à la Petite-Europe atlantiste de Bruxelles. Apres Athènes, Byzance, Aix la Chapelle et Constantinople, Moscou est la nouvelle capitale de l'Europe. »



Alexandre Latsa, Dissonance, 29 novembre 2008


QU’EST-CE QUE L’EURASISME ?

A. Dugin: Imperium antwortet!


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Imperium antwortet

Das Interview Dugins in der Zeitung "Westi", Riga

"Westi": Zum ersten Mal forderte man, dass Amerikaner ihre Stűtzpunkte aus Mittelasien wegschaffen. Bedeuten die Deklarationen der Schanghaier Organisation fűr Zusammenarbeit ein Ende der einpolaren Welt?

Alexander Dugin: Die Schanghaier Organisation ist noch ein Entwurf multipolarer Welt. Aber das ist ein ernster Schritt zur Begrenzung der amerikanischen Hegemonie. Zu diesem Schritt treiben Russland die Handlungen der USA in “Orangen-Revolutionen” an den Grenzen Russlands. Dafűr wirkte auch ein die Position der baltischen Republiken. Alle diese Handlungen richteten Russland in Umarmung Asiens.

Und die jetztige Zusammenarbeit in Astana der Fűhrer der Schanghaier Organisation – das ist ganz neue geschichtliche Erscheinung. Das ist der Anfang neuer Ordnung des planetarischen Raumes auf multipolaren Grundlage. Die Hauptrolle hier spielt China. Die Zusammenarbeit Irans, Pakistan, Indien – das ist auch sehr folgenreich.

"Westi": Sie sind Eurasier, aber mit gewisser Besorgtheit sagen: “Russland geht in Umarmung Asiens”. Ist das nicht das Ziel der eurasischen Bewegung? Oder meinen Sie die Zusammenarbeit Russlands mit islamischen Osten? Oder mit Indien und China?

 



Alexander Dugin: Ich meinte Indien auch. Aber mit China ist die Situation schwer. China ist schwer vereinbar mit Russland. Die eurasische Integration bedeutet die speziale Beziehungen Russlands mit Europa, mit Islam und mit Indien auch. China bedeutet in Schanghaier Organisation das Zweite Pol gegnűber kranken Russland. Die enge Zusammenarbeit mit China ist heute eine ausserordentliche Massnahme. Eurasientum gäbe China ein Rechtsstatus der neutralen Macht. Eher wurde vorausgesetzt die Annäherung an Pakistan und Tűrkei. Plus – mit Teil Europas, mit der Achse Frankreich-Deutschland. Nicht mit atlantischen Gesamteuropa, sondern mit kontinentalen Europa.

Wir sehen heute in Astana zwei Verschiedenheiten vom eurasischen Projekt. Hier gibt es kein Europa. Europa beginnt heute nochmals amerikanische Provinz zu sein. Das ist heute nicht mehr als ein Aufmarschraum fűr amerikanische Streitkräften. Heute kann die Schanghaier Organisation nicht vereinbar mit Europa sein.

"Westi": Sie meinen, den Europäern kann man die Erscheinung China hier nicht erklären?

Alexander Dugin: Ja. Heute ist in Schanghaier Organisation China ein Fűhrer. China sieht, dass Russland geht weg vom eurasischen Raum, aber diesen Platz werden Amerikaner behaupten. China arbeitet jetzt eng mit Mittelasien, mit Norden Eurasiens. Natűrlich bin ich froh, das diese Organisation entstanden ist. Aber ich bin besorgt. Ich dachte, dass die Beteiligung Chinas in dieser Organisation streng dosiert wird, dass Russland ein Fűhrer im eurasischen postsowjetischen Raum wird. Ich dachte auch, dass Europa mitwirken wird in diesem Prozess.

"Westi": Erst jetzt versuchen die Media Bund Russland-China-Indien begreifen…

Alexander Dugin: Ich bin gegen einpolaren Welt. Das, was wir heute mit Schanghaier Organisation bekommen, ist besser, als schwaches Russland unter USA.

"Westi": Was haben Russen hier bekommen, und was verloren?

Alexander Dugin: Dieser strategischer Bund mit China wird den Bilanz der Kräfte in Zentralasien verändern. Wenn China seine strategischen Interesse mit uns koordinieren wird, bekommen wir schon viel. China ist der beste Partner fűr Verkauf unserer Waffen. Und was verlieren wir? Wir werden zur Zone fűr demographischen Ausdehnung Chinesen. Das ist ein grosses Problem. Und wenn wir auf Bund mit China kommen, warum integrieren wir uns nicht mit Weissrussland und Kasachstan? Fűr uns sind Indien und Iran die ausgezeichneten Partner. Aber heute sehe ich, dass nichts besseres gibt fűr Russland, wo proamerikanische Elite regiert.

"Westi": Vor kurzem sagte man in einer amerikanischen Zeitung, dass die USA ein Fehler machten, indem sie Schewardnadse in Georgien beseitigten. Denn die Perspektive seines Schicksals hat asiatische Fűhrer erschreckt.

Alexander Dugin: Ich glaube, Amerika versteht, wovon die Rede ist. Sie versteht, dass Peking, Teheran und Bombay nicht Scherz treiben. Ich glaube, dass die USA diese Situation ernst nimmt. Und jetzt werden die USA auf Russland nicht sehr drűcken. Auf drohenden Geste Moskaus werden Amerikaner systematisch reagieren. Zum Beispiel, werden vorschlagen 2008 auf den Posten des Präsidenten Russlands einen Mann stellen, der die Politik Putins forttreiben wird. Kann sein, dass Amerika Newslin zurűckschicken wird, Sakaew Moskau gibt. Aber die ernsten Kompromisse, das kann leider jetzt nicht geschehen.

"Westi": Werden die Beziehungen Lettlands mit Russland besser?

Alexander Dugin: Nein. Baltische Länder sind ein aktivistischer Vektor atlantischen Politik. Hier sind keine Veränderungen denkbar. Europabund und baltische Länder forttreiben ihre antirussische Politik. Amerika wird seine Agente in Russland bremsen, aber Lettland… Baltische Länder sind ein Hinderniss in den Beziehungen zwischen Europa und Russland.

"Westi": Aber vor kurzem ist das Referendum in Frankreich gescheitert. Diese Prozesse in Europa schwächen Europabund.

Alexander Dugin: Das Scheitern der Europaverfassung ist ein komplizierter Prozess. Diese Verfassung war proamerikanisch und war gegen Frankreich und Deutschland gerichtet. Diese Verfassung war gegen die Achse Frankreich-Deutschland gerichtet. Aber Europa vereinigt sich jetzt nicht im amerikanischen Sinne, und es vereinigt nicht in franko-germanischen Sinne.

"Westi": Vielleicht ist Russland eine besondere Zivilisation?

Alexander Dugin: Russland hatte ein einziger richtiger Weg – eurasischen Raum integrieren. Integrieren sollte man mit Frankreich und Deutschland und mit Asien, zwischen Ost und West balanzieren, multipolaren Welt schaffen. Russland ist eine abgesonderte Zivilisation mit Interessen im Osten und im Westen. Wir műssen balanzieren. Aber das kann man nicht mit dieser korrupten Elite machen. Diese Elite hat keine Ethik, keine orthodoxe und keine protestantische, wie das Max Weber schilderte.

 

Lerisa Persikowa
Nika Persikova


 
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JUng and the Völkisch Movement

 

 

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Jung and the Volkisch Movement

Kerry Bolton



Carl Gustav Jung (1875-1961), in founding Analytical Psychology did so as a break and a contradistinction from the psychological school of his mentor Sigmund Freud. The Jungian and the Freudian stand as the contrasts between the Germanic and the Jewish world-views in the realm of psychology. Indeed it has been suggested that Freud's observations were largely derived from mainly Jewish patients.

Jung commented: "... It is a quite unpardonable mistake to accept the conclusions of a Jewish psychology as generally valid."

The Jewish spirit that infuses Freudianism has been remarked upon by others qualified to speak, both Jew and Gentile. The Jewish historian Howard Sachar considered the chief motivation of the Jewish Freudians to be, "the unconscious desire of Jews to unmask the respectability of European society which closed them out... The B'nai B'rith Lodge of Vienna for example delighted in listening to Freud air his theories." (Sachar, The Course of Modern Jewish History).

Thomas Szasz, professor of psychology, State University, NY, wrote of Freud's "anti-Gentilism" as being "an important aspect of his personality and predilections."

Collective Unconscious

Jung gave science an important contribution with his theory that there is not only an individual unconscious but also a collective unconscious, including a racial or ethnic unconscious impacting significantly upon the individual and determining his very Being and Identity. It was a scientific development and elaboration of the concept held by Germanic philosophers such as Johann Gottfried von Herder, postulating that each people, or nation, has its own "soul."

Jung stated: "No doubt on an earlier and deeper level of psychic development, where it is still impossible to distinguish between an Aryan, Semitic, Hamitic, or Mongolian mentality, all human races have a common collective psyche. But with the beginning of racial differentiation, essential differences are developed in the collective psyche as well."

Jung indicated what this means in practical terms, as for example when politicians and religious dogmatists try to impose a multi-racial society. Jung wrote: "For this reason we cannot transplant the spirit of a foreign race in globo into our own mentality without sensible injury to the latter, a fact which does not however deter sundry natures of feeble instinct from affecting Indian philosophy and the like."


The Shadow

Another major contribution from Jung was his theory of individuation, or the Total Being brought into effect by integrating one's repressed unconscious into the conscious Self. To this process which is central to Jungian therapy Jung applied the German word Heilsweg, the "sacred way" of healing. On his way towards individuation one confronts the repressed unconscious or Dark side of oneSelf referred to by Jung as The Shadow Self.

In keeping with Jung's theme of the collective unconscious, not only the individual but an entire nation or ethnos possess its own unique collective 'Shadow.' This is what Jung addressed to the Germanic nation when he wrote,

We cannot possibly get beyond our present level of culture unless we receive a powerful impetus from our primitive roots. But we shall receive it only if we go back behind our cultural level, thus giving the suppressed primitive man in ourselves a chance to develop. How this is to be done is a problem I have been trying to solve for years... The existing edifice is rotten. We need some new foundations. We must dig down to the primitive in us, for only out of the conflict between civilized man and the Germanic barbarian will there come what we need; a new experience of God...


Völkisch Movement

Jung saw the primitive or Shadow of the Germanic folk repressed by a millennium of Christian moral bondage. When what is natural to an individual or an entire folk is repressed it will out eventually in some form or another. It was Jung's concern that the Germanic Shadow be brought to consciousness with the result of a collective individuation of the whole folk. He had stated in 1919, the very year Hitler joined the newly formed German Workers Party: "As the Christian view of the world loses its authority, the more menacingly will the 'blond beast' be heard prowling about in its underground prison, ready at any moment to burst out with devastating consequences."

Jung's desire to see the Germanic folk individuate brought him into contact with the energetic volkisch movements that had emerged during the late 19th century and were ever more determined with the humiliation of Germany and Austria following World War I. Likewise, these movements saw the compatibility of Jungian psychology with their own ideology.

One of the volkisch theorists was Jacob Hauer, founder of the Nordic Faith Movement. He became involved with Jungian conferences and associations during the 1930's. In 1934 he gave a lecture on number symbolism which had a great influence on Jung, and during the course of the same lecture Hauer used Jung's concept of the collective unconscious to suggest the existence of a racial unconscious with racial symbolism.

The year previously the National Socialists had assumed power, an Jung wrote his essay Wotan, stating that the NS Reich was summoning forth the repressed Shadow or Wotanic unconscious of Germany. In 1936 he wrote: "The depths of Wotan's character explain more of National Socialism than all the economic, political and psychological factors put together."

With rivalry for spiritual allegiance in NS Germany between the so-called "German Christians" who had Germanized Jesus, and the pagan, anti-Christian volkisch movement, Jung expressly condemned the former and urged Germans to throw their whole support behind Hauer's movement to bring forth that "new experience of God," of Wotan. He described Hauer as "god (i.e. Wotan) possessed," and Hauer's activities as "the tragic and really heroic efforts of a conscientious scholar."

To Jung the Old Religion was very much alive, albeit underground and waiting to resurface. He wrote:

No, memories of the old German religion have not been extinguished. They say there are greybeards in Westphalia who still know where the old images of the gods lie hidden; on their death beds they tell their youngest grandchild, who carries the secret... In Westphalia, the former Saxony, not everything that lies buried is dead.

In our present time, with the European soul buried beneath excessive materialism and superficiality, and the dying, putrescent vestiges of a thousand years of Judeo-Christian spiritual repression, Jung provides an insight whereby the European folk as a collectivity might find its way back to a sense of being. As that great exponent of European Being, the existentialist philosopher and supporter of National Socialism, Martin Heidegger himself has written:

The past of human existence as a whole is not a nothing, but that to which we always return when we have put down deep roots. But this return is not a passive acceptance of what has been, but its transmutation.

Subir le même sort?

mardi, 17 février 2009

Influence, contre-influence, manipulation et propagande

Influence, contre-influence, manipulation et propagande

Les techniques de manipulation, de propagande et d’influence ont longtemps été cantonnées aux temps de guerre. Avec l’explosion des technologies, les vieilles recettes sont remises au goût du jour pour être utilisées en temps de paix, avec toujours ce même et unique objectif : vendre. Vendre une guerre, vendre un programme politique, vendre un produit, vendre une idée…

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Plusieurs ouvrages ont été publiés fin 2008 pour aborder cette question, et notamment “Maîtres du faire croire ” de François-Bernard Huyghe qui retrace l’histoire et l’évolution de la propagande à travers les siècles. L’auteur revient sur ce qui a caractérisé l’influence, époques après époques,et c’est ainsi qu’il analyse les techniques des missionnaires (convertir des âmes), des philosophes (persuader), des guerriers (vaincre), des politiques (diriger)… En retraçant les différents siècles, il aborde les notions d’influence et de manipulation à notre époque de sociétés en réseau et de la société civile. Les ONG, les think-tanks, les organisations terroristes… toutes ont adapté d’anciennes techniques pour vendre des schémas de pensée ou de la peur.

François-Bernard Huyghe présentera son ouvrage au Press Club de France (8 rue Jean Goujon, 75008 Paris) le 12 février 2009 de 8h 45 à 10h.

Un autre ouvrage mérite toute notre attention, il s’agit de “150 petites expériences de psychologie des médias pour mieux comprendre comment on vous manipule” de Sébastien Bohler. Cet ouvrage se présente sous forme de fiches qui expliquent nos réactions face aux média (publicité, politique, croyances…) en les étayant systématiquement d’éxperiences scientifiques. Ainsi l’on comprendra mieux nos propres réactions de peur face à une pandémie de grippe aviaire après avoir regardé les informations (et que l’on n’y pense plus dès que les médias n’en parlent plus…) ; pourquoi l’on croit plus les informations qui passent en boucle ou que l’on a plus de sympathie pour une personne que l’on voit souvent dans les médias ; pourquoi l’on ne supporte pas les discours de certains hommes politiques ; pourquoi l’on pense que tous les hommes politiques sont corrompus ; comment l’on arrive à vous vendre des voitures en jouant sur l’estime de soi des consommateurs… Un ouvrage essentiel pour ne plus être victime de ses propres réactions provoquées par d’autres.

Notons également l’article “Influence sur Internet” de Didier Heiderich (auteur de Rumeur sur Internet). Sur son site Communication Sensible, Didier Heiderich s’est fait une expertise de la gestion de crise sous toutes ses formes. Dans son article “Influence sur Internet”, il analyse les mécanismes d’influence spécifiques à Internet, à savoir imposer aux internautes un parcours de liens qui mènent vers du contenu visant à forger l’opinion et les perceptions. L’article aborde certaines de ces techniques visant à maîtriser les comportement cognitifs sur Internet : positionnement élevé dans les moteurs de recherche, recommandations de connaissances ou d’autres internautes, appropriation du contenu pour le propager ensuite… Article fort intéressant qui délimite bien les fondamentaux de l’influence sur Internet.

Source : Infoguerre

 

Racak, massacre trop parfait?

La CIA toujours à la besogne : Racak, le massacre n’était-il pas trop parfait ?

Après Timisoara, après les bébés koweîtiens, après les armes de destruction massive d’Irak, le “massacre” serbe de Racak n’a jamais eu lieu.
Il fut pourtant le prétexte qui a justifié le bombardement de la Yougoslavie.

La Dr Helena Ranta, responsable de l’équipe d’enquêteurs sur le terrain, révèle comment elle a été obligée de confirmer la version officielle d’une sinistre mise en scène.

Helena Ranta, une spécialiste finlandaise de médecine légale de renommée mondiale, âgée de 62 ans, vient de publier sa biographie à Helsinki, écrite avec l’aide de Kaius Niemi, un des directeurs du journal Helsingin Sanomat. Elle était la responsable de l’équipe d’enquêteurs internationaux chargée sur place du rapport sur les événements qui s’étaient déroulés dans le village de Racak, au Kosovo, où 45 cadavres avaient été découverts en 1999. La sinistre trouvaille avait été immédiatement transformée par les médias occidentaux en un massacre de civils albanais attribué aux Serbes, suscitant l’indignation mondiale, et servant de prétexte justificatif du bombardement de la Yougoslavie. Dans son livre, Helena Ranta fait des révélations spectaculaires sur les pressions qu’elle a subies pour accréditer la fausse version de la culpabilité serbe, faisant ainsi voler en éclats un des plus grands mensonges de la guerre dans les Balkans.

Elle y raconte que William Walker, le chef américain de la mission de l’OSCE (1) au Kosovo pendant l’hiver 1998-1999, a brisé son crayon en bois et lancé les morceaux à sa figure, furieux des conclusions de son rapport, qui n’avaient pas utilisé « un langage suffisamment convaincant » à propos des atrocités serbes. Elle y décrit les pressions de trois fonctionnaires du ministère finlandais des Affaires étrangères qui exigeaient d’elle « des conclusions plus approfondies ». « J’ai conservé leurs e-mails », a-t-elle dit à son éditeur à Helsinki.

Une déclaration imposée

En 1999, elle avait été obligée de déclarer à la presse « oui, il s’agit d’un crime contre l’humanité ». Mais le journaliste finlandais Ari Rusila, expert pour les Balkans, écrit dans un article sur le livre d’Helena Ranta que, pendant son enquête, elle avait voulu que ses résultats ne soient en faveur ni des uns ni des autres et avait essayé de se soustraire aux infleunces politiques, mais que, dès le début, elle travaillait sous une intense pression de sa hiérarchie et des médias. Les autorités voulaient qu’elle prouve que les coups de feu ayant tué les victimes étaient les coups de grâce d’une exécution. L’objectif de Walker était d’aider l’UCK (2) et de mettre en scène un massacre attribué aux Serbes permettant l’intervention militaire des Occidentaux, qui s’est produite au printemps 1999.

Ranta précise que le chef à l’époque de la section politique du ministère, Pertti Torstila, aujourd’hui secrétaire d’Etat [du gouvernement finlandais], lui a demandé de retirer de son rapport un commentaire « modérément critique » de la politique du gouvernement. Torstila a démenti cette affirmation en se prétendant « stupéfait ».

L’intérêt de ces révélations est qu’elles confirment de façon définitive des doutes qui se manifestaient déjà à l’époque. Un article du 1er février 2001 de « FAIR » (Fairness & Accuracy in Reporting – Equité et exactitude dans le reportage) fait état du black-out des médias à leur propos. Il revient sur le déroulement des faits.

Un “horrible massacre”

En janvier 1999, William Walker annonce que les soldats serbes ont massacré 45 Albanais du village de Racak. Il qualifie la tuerie d’« horrible massacre », précisant que les victimes étaient toutes des civils, brutalement exécutés, certains d’entre eux même mutilés après leur mort.

Une fois l’histoire du massacre évoquée dans ses plus bouleversants détails par les grands médias du monde entier (3), la poussée vers la guerre s’est intensifiée et les alliés européens hésitants ont fait un pas décisif en ce qui concernait l’autorisation de frappes aériennes. Selon un article du Washington Post du 18 avril 1999, « Racak a transformé la politique balkanique de l’Occident comme peu d’événements isolés ont pu le faire. »

Des doutes font surface

Des questions troublantes ont pourtant vite vu le jour, mettant le massacre en doute et évoquant la possibilité que l’incident ait été manipulé pour pousser l’OTAN à la guerre, mais elles ont été complètement ignorées par les médias américains de l’époque.

Des articles importants de correspondants chevronnés en Yougoslavie s’interrogeant sur la version de William Walker ont pourtant été publiés par des journaux français comme « Le Figaro » (« Nuages noirs sur un massacre », 20/1/99), et « Le Monde » (« Les morts de Racak ont-ils réellement été massacrés de sang-froid », 21/1/99). Le quotidien allemand « Berliner Zeitung » a rapporté, le 13/3/99, que plusieurs gouvernements, dont l’Allemagne et l’Italie, demandaient à l’OSCE de renvoyer William Walker, à la lumière d’informations reçues de contrôleurs de l’OSCE au Kosovo selon lesquelles les corps de Racak « n’étaient pas – comme le prétend Walker – des victimes d’un massacre serbe de civils » mais ceux de combattants de l’UCK tués au combat.

Un rapport occulté pendant deux ans

Le « Sunday Times » de Londres (12/3/99) a écrit que l’équipe d’observateurs américains de Walker travaillait secrètement avec la CIA pour pousser l’OTAN à la guerre. Selon le journal, « Les diplomates européens collaborant à l’époque avec l’OSCE affirment avoir été trahis par une politique américaine rendant les frappes aériennes inévitables. »

Après le massacre, l’Union européenne a embauché l’équipe de scientifiques finlandais dirigée par Ranta pour enquêter sur les morts. Son rapport a été gardé secret pendant deux ans. Les médias US l’ont ignoré, malgré le fait que le rapport ait conclu qu’il y avait eu en effet des morts à Racak, mais qu’il n’y avait aucune preuve de massacre.

Selon le « Berliner Zeitung » du 16/1/01, les enquêteurs finlandais n’ont pas pu établir que les victimes étaient des civils, s’ils étaient de Racak, ni où ils avaient été tués. De plus, ils n’ont trouvé qu’un seul cadavre montrant des traces d’exécution, et aucune preuve que des corps aient été mutilés. Le journal précise que ces conclusions avaient été finalisées en juin 2000, mais qu’elles ont été occultées par l’ONU et l’UE. Aucun journal américain n’en a parlé.

Un second article de « FAIR », daté du 18 juillet 2001, soulève à nouveau des questions.

De nouvelles informations sur l’incident de Racak ont vu le jour.

Des douilles introuvables

Selon le documentaire de la Canadian Broadcasting Company, « La route de Racak » (The World at Six, 29/5/2000), quand l’envoyé spécial du « Figaro » Renaud Girard est arrivé au village, il a été surpris de voir que William Walker n’avait pas isolé la scène du crime pour permettre l’enquête. Il s’est également étonné de ne trouver pratiquement aucune douille sur le sol. « C’était étrange, a-t-il dit à la CBC. Peut-être quelqu’un les avait ramassées. » De retour à Pristina le même jour, il a parlé à son confrère Christophe Chatelot du « Monde » de l’apparente absence de douilles. Chatelot a demandé à l’un des observateurs de Walker, un capitaine de l’armée américaine, pourquoi on n’en avait pas trouvé. « C’est parce que je les ai prises, a répondu le capitaine, j’en fais collection. » Le capitaine « a déclaré à Chatelot qu’il avait ramassé toutes les douilles en arrivant sur la scène. »

Intrigué, Chatelot est retourné à Racak le lendemain. Quand il a essayé de trouver le capitaine américain, celui-ci était « tout à coup introuvable ». Chatelot affirme que la mission de l’OSCE lui a dit : « Nous ne le connaissons pas. Il n’a jamais été ici. » Quand il a demandé à parler aux quatre contrôleurs qui étaient présents à Racak et dans ses environs le jour de la tuerie, on lui a dit que leurs noms étaient subitement devenus un secret « classé confidentiel » « C’est très curieux », a-t-il dit à la CBC.

Des agents de la CIA

Plus tard, il est apparu que l’équipe d’observateurs américains de Walker était en grande partie composée d’agents secrets appartenant à la CIA.

Dans son discours à la nation du 19 mars 1999, annonçant la décision de l’OTAN de lancer les frappes aériennes sur la Yougoslavie, le président Bill Clinton a dit : « Au moment où nous nous préparons à agir, nous devons nous rappeler des leçons apprises dans les Balkans. Nous devons nous souvenir de ce qui est arrivé dans le village de Racak en janvier – des hommes innocents, des femmes et des enfants ont été arrachés à leurs foyers, amenés dans un ravin, forcés à s’agenouiller dans la boue et mitraillés – pas pour quelque chose qu’ils auraient fait, mais simplement pour ce qu’ils étaient. »

Tout récemment, le « Byzantine Blog » (4) a marqué le neuvième anniversaire de l’affaire de Racak en rappelant que le jour de Noël 1993, 49 civils serbes avaient été massacrés dans le village bosniaque de Kravice par des troupes musulmanes basées à Srebrenica, un épisode qui n’a entraîné qu’une prudente condamnation des responsables internationaux, bien loin de l’impitoyable bombardement de 78 jours qui a suivi la mort à Racak de 45 Albanais armés.

Le site en profite pour rappeler quelques détails supplémentaires que nos grands médias ont passé sous silence.

Une brigade sur place de l’UCK

Dès son arrivée sur place, Walker a accusé la police serbe du massacre, alors que c’était une police yougoslave multiethnique qui menait les actions antiterroristes au Kosovo. Ses opérations ont été suivies par les contrôleurs de l’OSCE, deux équipes de télévision étrangères et un grand nombre d’envoyés spéciaux de différents pays : aucun d’entre n’a assisté à un massacre avant que Walker n’en ait vu un. Au début de janvier 1999, le poste de commandement d’une brigade de l’UCK de 126 hommes avait été installé à Racak. Parmi eux se trouvait la famille Mujota, connue pour avoir assassiné six policiers serbes. Les villages environnants de Petrovo, Luzak et Rance étaient sous le contrôle de l’UCK.

Une opération contrôlée par l’OSCE

La police yougoslave a informé la mission de l’OSCE de son intention de lancer un raid anti-terroriste sur le village de Racak. L’action a débuté à 8 heures. Selon Renaud Girard, la police n’avait rien à cacher, puisqu’à 8h30 elle a invité une équipe de TV (deux reporters d’Associated Press) à filmer l’opération. Des membres de l’OSCE étaient présents et des contrôleurs ont observé le village pendant toute la journée à partir d’une vallée voisine.

A 15h, un rapport de la police a été rendu public par le « International Press Center » de Pristina, qui précisait qu’au cours des combats à Racak, 15 terroristes de l’UCK avaient été tués, et qu’une quantité significative d’armes avait été confisquée. A 15h30, les forces de police, accompagnée par l’équipe de TV d’« Associated Press », ont quitté le village, emportant une pièce lourde d’artillerie de calibre 12,7 mm, deux engins d’artillerie portables, deux fusils de snipers et 30 kalashnikovs fabriqués en Chine. A 16h30, un reporter français a traversé le village en voiture, et y a vu trois véhicules oranges de l’OSCE. Les contrôleurs internationaux parlaient tranquillement avec trois adultes albanais en civil. Ils cherchaient des civils éventuellement blessés. En retournant au village à 18h, le reporter les a vus emmener deux femmes et deux vieillards légèrement atteints.

126 terroristes et 4 instructeurs

Au centre du village, dans une maison où avait été installée la base de l’UCK, la police a trouvé un ordinateur contenant des informations sur la brigade de l’UCK et la liste de ses 126 membres, dont faisaient partie quatre personnes avec des noms anglo-saxons, qui ont été considérées comme des instructeurs étrangers.

Quand les policiers yougoslaves ont investi le village, et commencé à sécuriser les routes et les tranchées, ils ont été attaqués par les Albanais à partir du Lake Mountain (Jezerska planina) et des villages avoisinants. Pris sous le feu d’une forte offensive et placés en contre-bas, ils ont dû se replier. C’est alors qu’a eu lieu la grande mise en scène destinée à impressionner le monde entier.

Des cadavres déplacés et rhabillés

Les membres de l’UCK revenus dans Racak ont récupéré dans les ravins et vallons les corps des Albanais tués pendant le combat et les ont rassemblés dans un champ où auparavant il n’y en avait aucun. L’équipe de TV d’AP qui était entrée plus tôt dans le village avec la police a certifié que le champ où on avait empilé les cadavres des victimes soi-disant exécutées était à ce moment vide. Les Albanais ont rhabillé en civils une quarantaine de morts, et ont emmené les autres cadavres en uniforme à Budakovo, où ils les ont probablement enterrés.

Le lendemain matin tôt, Walker est arrivé au champ pour indiquer comment les corps devaient être disposés pour faire croire à un massacre. La mise en place achevée, il a fait venir les équipes de TV et les journalistes. La description détaillée de l’épisode figure dans le livre du reporter Milorad Drecun intitulé « La seconde bataille du Kosovo », au chapitre « Le mensonge de Racak ».

Les frappes “humanitaires”

L’agence « Tanjug » rappelle, à l’occasion de cet anniversaire, que la secrétaire d’Etat US de l’époque, Madeleine Albright, avait dit à CBS que « des dizaines de personnes avaient été égorgées à Racak » et que la seule solution était « des frappes aériennes humanitaires sur la Yougoslavie ».

Dossier préparé par Louis MAGNIN.
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2009...
B. I. n° 138, décembre 2008.
www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=12232

Correspondance Polémia
12/02/09

Notes de la rédaction

(1) L’Organisation pour la sécurité et la coopération en Europe (OSCE) est un organisme paneuropéen de sécurité dont les 56 Etats participants couvrent une région géographique qui s’étend de Vancouver à Vladivostok.

Reconnue en tant qu’accord régional au sens du Chapitre VIII de la Charte des Nations Unies, l’OSCE est un instrument de premier recours pour l’alerte précoce, la prévention des conflits, la gestion des crises et le relèvement post-conflit dans son espace. Son approche unique en matière de sécurité est à la fois globale et coopérative. Elle est globale dans le sens où elle traite des trois dimensions de la sécurité: politico-militaire, économico-environnementale et humaine. (NDLR)

(2) Armée de libération du Kosovo,

(3) Echapper aux emballements médiatiques
http://www.polemia.com/article.php?id=1766

(4) http://infobalkans.blogspot.com/2009/01/les-10-ans-de-laf...

Louis MAGNIN

Source : Polémia

 


 

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Les sortilèges du capitalisme et le réenchantement du monde

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Les sortilèges du capitalisme et le réenchantement du monde

Trouvé sur: http://www.polemia.com/ 

Dans le monde moderne, « tout fonctionne et le fonctionnement entraîne toujours un nouveau fonctionnement, et la technique arrache toujours davantage l’homme à la terre (*). » écrit Heidegger (« Essais et conférences, la question de la technique »). Le principe de l’arraisonnement du monde s’autoalimente en dispositifs toujours plus techniques.

Kant avait déjà noté que la raison arraisonne. Dans le monde moderne la pensée se trouve coupée en deux, la pensée méditante, de plus en plus réduite, et la pensée instrumentale, de plus en plus envahissante. En d’autres termes, les arts mécaniques supplantent les arts libéraux. Au rationalisme qui calcule, met en coupe réglée le monde, il serait tentant d’opposer l’irrationalisme. Mais ce n’est pas ce dernier qui remédie aux maux du premier. Le problème est moins celui de la prédominance des arts mécaniques sur les arts libéraux que de leur disjonction. Le turbocapitalisme et sa logique financière relèvent plus de la magie que de la raison. C’est du coté du monde arraisonné par la technique marchandisante que se situent les sortilèges, et cela dans un processus qui a été bien été mis en lumière par Philippe Pignarre et Isabelle Stengers dans « La sorcellerie capitaliste. Pratiques de désenvoûtement » (La Découverte, 2005).

C’est pourquoi le dépassement du capitalisme ne peut se faire que dans et par le même mouvement que celui de dépassement de l’imaginaire de la marchandise, comme l’ont montré  Ludovic Duhem et Eric Verdure (« Faillite du capitalisme et réenchantement du monde, L’Harmattan », 2006). En conséquence tant de l’épuisement des ressources naturelles que, plus encore, de l’impératif de ménager les ressources humaines, Il va peut-être s’agir (« peut-être » car l’histoire est ouverte) de revenir au sens ancien du mot économie, à savoir économiser, comme le montre Bernard Perret (« Le capitalisme est-il durable ? », Carnets nord, 2008).

C’est encore Heidegger qui écrivait dans « Introduction à la métaphysique » (1935) : « Cette Europe qui, dans un incurable aveuglement, se trouve toujours sur le point de se poignarder elle-même, est prise aujourd'hui dans un étau entre la Russie d'une part et l'Amérique de l'autre. La Russie et l'Amérique sont toutes deux, au point de vue métaphysique, la même chose; la même frénésie sinistre de la technique déchaînée, et de l'organisation sans racines de l'homme normalisé.[ souligné par nous] » La disparition de la Russie soviétique comme régime économique et social rend cette réalité du déchainement sans âme de la technique asservie au profit plus nue encore. Il va falloir trouver la voie d’une réconciliation entre la raison et les techniques, hors de la toute puissance de l’argent, du court-termisme, du bougisme et de l’impératif de rentabilité immédiate. Il nous faut retrouver les deux qualités qu’Aristote (« Ethique à Nicomaque ») attribuait aux non-esclaves, les facultés de délibérer et de choisir (« to bouleutikon », la « boulè » est l’unité de base de la démocratie athénienne, c’est l’assemblée qui délibère, assemblée instituée par Solon et Clisthène), et la faculté de prévoir, l’horizon de ce que l’on souhaite (« proairesis ») – les deux étant liées, comme on le comprendra aisément, l’avenir étant fait de prévisions sur des conditions qui nous échappent en partie et d’actes qui modifient l’avenir et ses conditions mêmes.

L’historien des techniques Alain Gras relève la multiplicité des voies techniques possibles et le caractère très contestable de la notion de progrès au sens linéaire du terme. Il explique : « Ma position première est donc anti-évolutionniste y compris sur le plan de la science et de la technique ». C’est peut-être par là qu’il faut commencer.

Pierre Le Vigan
Février 2009
Correspondance Polémia
07/02/09(*) la terre ne s’entend pas au simple sens de l’éloignement du mode de vie rural bien sûr. Il s’agit de quitter le « sol » sur lequel se déploie le propre de l’homme. En ce sens ce n’est pas forcément le cosmonaute qui s’arrache plus à la terre que l’usager de clubs de vacances au bout du monde par exemple.

Pierre Le Vigan

Ode aos soldados do Império

Ex: http://ofogodavontade.wordpress.com/

À memória do soldado desconhecido, caído em combate por todas as Goas do Império, pela pena de Amândio César…

NECROLOGIA PARA UM SOLDADO DA ÍNDIA

Os jornais publicaram nomes,
Muitos nomes,
Não se sabe ao certo quantas linhas de nomes:
O TEU NÃO ESTAVA LÁ!

Eram nomes, muitos nomes,
Não se sabe ao certo quantas linhas de nomes!
Eram milhares de nomes de vivos:
O TEU NÃO ESTAVA LÁ!

Nas linhas, muitas linhas de nomes,
Vinham altas patentes e soldados rasos,
Hierarquicamente e por ordem alfabética:
O TEU NOME NÃO ESTAVA LÁ!

Não! O teu nome não podia estar ali:
Tu morreste em Goa, à vista de Goa,
Que morria quando tu morreste.
Por isso ficaste abandonado e só,
Junto de Goa moribunda.

Tão abandonado e tão só
Como a pistola metralhadora,
Agora inútil,
Agora inútil porque tu morreste
E Goa morreu contigo!

Há-de florir, vermelha,
Uma flor nascida do teu sangue.
As folhas serão verdes
Como a última imagem dos teus olhos baços.

É o último reduto,
Será a última bandeira hasteada em Goa,
Na terra ocupada pelo invasor,
Depois que alguém ergueu ao céu azul
A branca bandeira do medo e da ignomínia!

Não vens na lista de nomes,
Em nenhuma das linhas dos nomes:
O TEU NOME NÃO PODIA ESTAR ALI!

Mas, quando uma jovem manducar
Colher a flor vermelha que sobrou do teu martírio,
Aspirar o perfume solene dessa flor cortada
E perder seus olhos pretos no verde das folhas tenras,
ENTÃO SIM, TU ESTARÁS ALI!

Ali ressuscitado,
Ali vigilante como a sentinela,
Até que tornem os fantasmas dos soldados de Albuquerque
Para castigarem o orgulho sacrílego do invasor.

Tu, anónimo soldado,
Morto na terra escaldante de Goa,
És a imagem do Governador
Que à vista dela morreu.
Tu, sim, és da estirpe de Albuquerque,
Nunca vassalo…

Amândio César, “Não posso dizer adeus às Armas”, A.G.U. 1970, pp64-67

Leibnis, Herder, la tradition romantique

Leibniz.jpg

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1985 

Notions philosophiques de base.


La leçon de Leibniz; les monades:


Prédécesseur de Leibniz, Christian Thomasius (1655-1728), fondateur de l'Université de Halle, développe un sys­tème éthique/philosophique, selon lequel nos croyances doivent être sanctionnées à partir de notre seule intério­rité et non à partir d'une autorité extérieure. L'individu, dans ce système fondé par Thomasius, doit être capable (et donc s'efforcer) de suivre sa propre lumière, sa propre "raison". De cette vision de la nature et de l'agir humains, dé­coule automatiquement un relativisme, donc une acception des différences qui constituent la trame du monde, une acception inconditionnelle du pluriel, de la diversité. Pour Thomasius, son système et ses retombées, comme tout autre espèce de savoir, doit déboucher sur des applications pratiques in vita civilis . Cette figure de l'histoire des idées philosophiques, dont la personne constitue le lien entre la Renaissance et les Lumières, nous lègue ici des principes clairs, une éthique de l'action: la diversité est telle et l'on ne saurait la contourner. De ce fait, nos juge­ments doivent se laisser diriger par une approche relativiste, non mutilante et non réductionniste du monde et des hommes. Ce relativisme doit déboucher ensuite sur un agir respectueux de ces différences qui font le monde. Indubitablement, notre volonté de donner un autre visage à l'Europe, s'inspire de cette démarche vieille de presque trois siècles. Dans notre optique, les Lumières ne constituent nullement un programme rigide, un catéchisme stéré­lisateur, une religion sèche de la Raison (comme avaient voulu l'instaurer les Jacobins français) mais bien plutôt l'attention au monde, le respect des créations spontanées de l'esprit et de l'histoire, la sagesse du jardinier qui har­monise, dans ses parterres, les fleurs les plus diverses... Mais cette attention doit être couplée à une vigilance, une milice spirituelle qui veille à ce que les mutilateurs de toutes obédiences, les réductionnistes de tous acabits ne viennent troubler cette splendide harmonie du monde.


Avec Leibniz, les intuitions de Thomasius, les prolégomènes que ce fondateur de l'Université de Halle a posés, s'affineront. L'orientation rationaliste de sa pensée ne l'a nullement empêché de jeter les bases de la grande syn­thèse organiciste que furent le Sturm und Drang et le Romantisme. Le rationalsime cartésien et spinozien descen­dent, chez Leibniz, au niveau des monades. Celles-ci sont chacune différente: il n'y en a pas deux d'identiques. Et chacune de ces monades acquiert continuellement un "état" nouveau. Leibniz découvre ainsi un devenir constant, un développement incessant de forces et d'énergies intérieures, une continuité ininterrompue. L'état présent d'une monade est le résultat d'un état antérieur et, par suite, tout état présent est gros de son avenir. L'univers de Leibniz, contrairement à celui de Descartes, n'est plus une somme de parties, mais un tout qui déploie ses divers aspects . Le concert international, pour nous, est également une globalité politique qui déploie, sous l'impulsion d'agirs hu­mains, des perspectives, des possibles divers. Cette variété infinie constitue une richesse et notre humanisme veillera à ce que cette richesse ne s'épuise pas. C'est là que s'inscrit la liberté: dans la capacité de déployer collecti­vement un possible original, d'inscrire dans l'histoire une geste unique à côté d'autres gestes uniques. In vita civi­lis , pour reprendre l'expression latine de Thomasius, cette vision implique l'organisation fédéraliste des grands ensembles civilisationnels (chaque monade peut ainsi assumer son devenir sans contraintes extérieures) et le dia­logue fraternel entre les diverses civilisations du globe. Dialogue d'attention et non de prosélytisme mutilant...


Herder: des monades aux peuples


Herder va dépasser Leibniz. De l'œuvre de ce dernier, Herder avait retenu l'énergie interne des monades, génératrice de devenirs spécifiques. Mais, pour Leibniz, chaque monade, activée de l'intérieur, n'avait aucune "fenêtre" exté­rieure, aucune ouverture sur le monde. Leibniz dépassait certes l'atomisme qui voyait des particules sans énergie in­térieure, mais ne concevait pas encore des monades en interaction les unes avec les autres. Cet isolement des mo­nades disparaît chez Herder. Dans sa vision philosophique, chaque unité (un individu ou un peuple) entre en interac­tion avec d'autres unités. Toute individualité singulière ou collective, loin d'être renfermée sur elle-même, dérive la conscience intérieure qu'elle possède d'elle-même de l'extérieur, c'est-à-dire du contact d'avec le monde qui l'entoure. Si ce monde était absent, cette conscience ne pourrait jamais s'éveiller. Herder nous propose ainsi une image du monde où les diverses parties constituantes sont toutes activement liées les unes aux autres au sein d'un réseau dynamique de réciprocité. Cela signifie qu'aucune individualité ne peut, dans l'univers, ni exister indépen­demment du contexte de ses inter-relations ni être comprise comme en dehors de celles-ci. En restant au niveau de développement conceptuel de Leibniz, on risquait de concevoir le concert international comme un ensemble de na­tions repliées sur elles-mêmes et jalouses de leurs petites particularités. On risquait l'albanisation ou, pire, l'incompréhension réciproque. On risquait d'asseoir une image du monde justifiant les nationalismes ou les particu­larismes d'exclusion, les réflexes identitaires de rejet. Et, donc, les bellicismes stériles... Avec Herder, ce risque s'évanouit, dans le sens où la diversité est production hétérogène et incessante d'un fond de monde, rationnelle­ment indéfinissable. Les éléments divers ont pour tâche de mettre en exergue le maximum de possibles, de "colorier" sans relâche le monde, d'échapper sans cesse à la grisaille de l'uniformité. Le respect des identités pos­tule la solidarité et la réciprocité. En termes politiques actualisés, nous dirions que la défense des identités régio­nales, nationales, culturelles, civilisationnelles, etc. exige comme indispensable corollaire la solidarité inter-ré­gionale, internationale, inter-culturelle, inter-civilisationnelle, etc.

L'objectif d'une Europe alternative serait donc de valoriser les peuples avec les productions littéraires, culturelles et politiques qu'ils forgent et de lutter contre l'arasement des spécificités qu'entament automatiquement les sys­tèmes niveleurs, en tout temps et en tout lieu, quelle que soient d'ailleurs leurs orgines et leurs référentiels philo­sophiques ou idéologiques.

La tradition romantique


Le système philosophique de Herder constitue indubitablement une réaction à l'encontre d'un certain despotisme éclairé, qui ne se donnait plus pour objet, comme dans le chef d'un Frédéric II, de défendre un pays en tant que havre de liberté religieuse par tous les moyens militaires modernes, mais un despotisme éclairé, transformé par l'érosion du temps en fonctionnarisme uniformisant, en praxis de mise au pas des libertés locales. Ce despotisme, perçu sous l'angle d'une praxis générale et définitive et non plus comme praxis postulée par l'Ernstfall permanent que vit une société contestataire (la Prusse de Frédéric était le havre des Huguenots et des Protestants de Salzbourg, de bon nombre de "non conformists" britanniques et d'Israëlites, de piétistes) menacée par ses voisines conservatrices, renforce l'autocratie au lieu de l'assouplir et la justifie, en dernière instance, au nom du progrès ou de la raison, se donnant, dans la foulée, l'aura d'un "humanisme". La vision organique de Herder génère, elle, un humanisme radica­lement autre. Le peuple, la population, le paysannat, chez Herder, n'est pas le "cheptel" taillable et corvéable à merci d'une machine étatique, d'un appareil de pouvoir, qui justifie son fonctionnement par référence à la raison mécaniste. L'humanisme herdérien ne nie pas la vie intérieure, le devenir créatif, de cette population, de ce peuple. La substance populaire n'est pas déterminée, dans cette optique, par des ukases venus d'en-haut, promulgués par le pouvoir de l'autocrate ou d'une oligarchie détachée du gros de la population, mais se justifie d'en-bas, c'est-à-dire au départ des phénomènes de créativité littéraire ou scientifique, économique ou religieux que suscite la collectivité, le peuple. En un mot: c'est le Travail global du peuple qui justifie, doit ou devrait justifier, son existence politique ainsi que le mode de fonctionnement qui régirait cette même existence politique.


La tradition romantique procède donc d'un recentrement ontologique, écrit le grand spécialiste français du roman­tisme allemand, Georges Gusdorf. Ce recentrement, Thomasius l'avait déjà tenté, en réfutant toute détermination venue de l'extérieur. Le message démocratique et identitaire du romantisme postule ipso facto un système de repré­sentation impliquant, comme en Suisse, le référendum, la participation directe des citoyens à la défense de la Cité, l'autonomie locale (cantonale, en l'occurrence) et la neutralité armée. Ces pratiques politiques et administratives éliminent les despotismes autocratiques, oligarchiques et partitocratiques, tout en tarissant à la source les vélléités impérialistes, les visées hégémoniques et les chimères conquérantes. En outre, le recentrement ontologique ro­mantique, in vita civilis et à l'âge de l'économisme, signifie une protection du travail local, national (au sens de confédéral) contre les manipulations et les fluctuations des marchés extérieurs. La tradition romantique nous lègue un réflexe d'auto-défense serein et harmonieux qu'oublient, nient et boycottent les idéologies missionnaires et prosélytes qui régentent le monde d'aujourd'hui et colonisent les médias, dans l'espoir d'uniformiser le monde sous prétexte de l'humaniser selon les critères de l'humanisme mécanique. La soif d'alternative passe inmanquablement par un nouveau choix d'humanisme qui, à l'absence de sens observable à notre époque de désenchantement post-moderne (c'est-à-dire postérieur aux séductions actives de l'humanisme mécaniste), reconférera au monde une sura­bondance de sens. Au niveau des individus comme au niveau des individualités collectives que sont les peuples, l'existence n'a de sens que si elle permet le déploiement d'une spécificité ou, mieux, une participation active, con­crète et tangible à la geste humaine totale.

Robert Steuckers.



 

lundi, 16 février 2009

Chauprade porte plainte

CID : Chauprade porte plainte contre Morin pour "discrimination" devant la Cour de Justice de la République

"Aymeric Chauprade, qui a été congédié le 5 février du Collège interarmées de Défense à la suite de la parution d'un texte mettant en doute ce qu'il appelle la "version officielle" des attentats du 11 septembre, estime que le ministre de la Défense Hervé Morin "a commis un acte de discrimination au sens des dispositions des articles 225-1 et 225-2 du Code Pénal qui punit de trois ans de prison le fait de sanctionner autrui pour ses idées". Son avocat, Maître Antoine Beauquier va saisir la Cour de Justice de la République pour obtenir des sanctions à l’encontre du ministre de la Défense.

Se définissant lui-même comme appartenant à la "droite conservatrice", très hostile au courant "néo-conservateur", Aymeric Chauprade affirme que "ses opinions politiques et ses convictions religieuses déplaisaient à Hervé Morin. Croyant plaire à l’entourage du Président de la République, monsieur Morin, qui n’a pas caché que sa décision avait été prise en considération de ce que monsieur Chauprade, de religion catholique, était critique à l’égard de la politique américaine devra répondre de son comportement devant la juridiction compétente" peut-on lire dans un communiqué qu'il publie ce matin. Il ajoute qu'Hervé Morin "a manqué à ses devoirs de ministre, au mépris des principes élémentaires qui gouvernent notre droit public, notamment le droit au débat contradictoire".

Par ailleurs, Chauprade devrait attaquer Le Point en diffamation. La décision du ministre a été prise à la suite de la lecture d'un article de Jean Guisnel sur le site Défense ouverte du Point.fr. Cette affaire devrait également avoir un volet devant le tribunal administratif.

Source

A écouter :
>>> Aymeric Chauprade sur Radio-Courtoisie