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mardi, 28 avril 2009

Jean Giono e "Le Chant du Monde"

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Jean Giono e “Le Chant du Monde”

  

Giovedì 16 Aprile 2009 – 16:06 – Rinascita - http://www.rinascita.info/

  
 

Il paganesimo di Jean Giono (foto) è stato ben identificato da Thierry Maulnier, che scriveva nel 1943, nella sua rubrica del quotidiano “Laction française”: “Il signor Giono è uno di quei rari artisti per i quali il grande Pan non è morto e non è ancora pronto a morire”. Punto di vista rafforzato da quello di Henry Miller: “Nell’opera di Giono chiunque possiede una dose sufficiente di vitalità e di sensibilità, riconosce subito ‘le chant du monde’. Secondo me questo canto, di cui egli ci dà con ogni nuovo libro delle variazioni senza fine, è molto più prezioso, più commovente, più poetico del Cantico delle creature”. (The books in my life, 1951). Non si saprebbe spiegare meglio quale abisso separi il mondo biblico dall’universo di Giono.
Questo universo è bagnato di sole, di profumo di timo e lavanda, di canti di cicale. Figlio della Provenza, la sua patria, con la quale ha un profondo legame carnale, Jean Giono è nato a Manosque il 30 marzo 1895. Suo padre, calzolaio, era anche un po’ guaritore. Jean ne erediterà senza dubbio il gusto di guarire gli animi, e si cimenterà in ciò nel Contadour. Si ricorderà per tutta la vita del saggio consiglio paterno: “Diffida della ragione”. Quanto al nonno, era un carbonaro, come Angelo dell’ “Hussard sur le toit” (L’Ussaro sul tetto)... Bella eredità.
La sua infanzia, che egli descrive in “Jean le bleu”, è il momento di una scoperta meravigliata del mondo. Lui che diventerà, grazie ai suoi testi, un incantatore, è prima incantato, vale a dire è sensibile, intuitivamente, sensualmente, all’incanto del mondo. Il canto del mondo lo porta prima di tutto in se stesso.
C’è qualche merito: avendo deciso a sedici anni di lavorare per aiutare i genitori, entra come “sbriga-faccende” al Banco Nazionale di Sconto di Manosque, ove doveva restare per diciotto anni. Per evadere da questo grigiore divora in continuazione e in modo disordinato: “Il libro della giungla”, Omero, Virgilio, Stendhal, Dostoevskij, Shakespeare, i poeti tragici greci in edizione molto popolare a 50 centesimi il volume. Questa copiosa iniziazione alla letteratura gli apre il cammino verso l’universo magico della scrittura.
Ma il destino ha preparato per lui, come per quelli della sua generazione, la prova più tragica tra tutte: a venti anni conosce, durante quattro interminabili anni, l’inferno dei campi di battaglia, da Eparges a Verdun (solo undici sono i superstiti della sua compagnia), da Chemin des Dames alla 
Somme. Egli esorcizzerà questo bagno di sangue dipingendo in “Le grand truopeau” il quadro più terribile, tra quelli che conosco, delle carneficine del 1914-1918.
Dal suo matrimonio nel 1920 nasceranno Aline nel 1926 e Sylvie nel 1934. Saranno loro le custodi benevole ma tenaci del rifugio dello scrittore, che è la sua casa, poi, più tardi, della sua memoria. Ritrovando, dopo l’incubo, la sua Provenza, Giono si purifica camminando zaino in spalla sui sentieri degli altipiani spazzati dal vento e si siede, al crepuscolo, davanti al fuoco dei pastori, con i quali parla molto e dei quali saprà raccontare con fervore l’antica e semplice saggezza.
Nel 1924 inizia, a dire il vero modestamente, la sua carriera letteraria: il suo amico Lucine Jacques pubblica a proprie spese dei poemi in prosa intitolati “Accompagnés de la flute”, stampati in 300 esemplari dei quali solo 30 furono venduti. Tuttavia qui si ritrova tutto Giono: “Il silenzio a denti 
stretti cammina, a piedi nudi, lungo i sentieri”.
Nel 1927, Giono scrive “Nascita dell’Odissea” (decisamente questo provenzale si sente molto vicino a “nostra madre la Grecia”), testo rifiutato da Grasset. che si precipiterà a pubblicarlo nel 1930, perché nel frattempo Giono si è fatto conoscere. Grazie a Gide, che ha diffuso a Parigi tutte le opinioni positive che ha di questo sconosciuto nella rivista “Commerce” (che ha lanciato, pensate un po’, Fargue, Valéry, Joyce), egli ha pubblicato nel 1929 “Colline”, il cui tema è il ritorno del “Grande Pan”. Lo stesso paganesimo, campestre e gioioso, si esprime in “Un de Baumugnes”, pubblicato anch’esso nel 1929, poi, l’anno successivo, con “Regain”. Seguono a raffica: 
“Solitude de la pitié”, “Présentation de Pan”, “Manosque des plateaux” e “Le serpent d’étoiles” (1933), “Le chant du monde” (1934), “Que ma joie demeure” (1935). Ecco un autore inesauribile. Ma il fatto è che lui canta, in ogni libro, il suo Paese, la Haute Provence, questa terra di montagne aspre ove bruciano il sole e le erbe aromatiche.
Un Paese di grande tradizione 
pastorale e poetica, dove la montagna realizza, nel suo silenzio e nella sua nudità, l’unione dell’uomo con l’Universo. “La montagna è mia madre” dichiara Giono in “Voyage en Italie” (1953).
Lassù, sulle rocce, tra i cespugli secchi odorosi o nelle foreste e nell’erba alta, la vita è potente e semplice, il ritmo dei giorni è lo stesso ritmo della natura. I venti avvolgono tutto. Gli alti pianori sono luoghi d’esaltazione, di comunione, agitati da un fremito continuo, da un linguaggio, come le querce di Dodona. Perché la natura parla a quelli che sanno ascoltarla (gli incantatori lo sanno, e Giono è un incantatore). E questo linguaggio afferma che tutto è vita: desiderio, piacere, dolore, crescita, scambio. La natura è vita. Il contadino di “Colline” lo sa bene: “Egli pensa che uccide quando taglia un albero. Uccide quando falcia. Ogni cosa è dunque vivente? Tutto, bestie, piante, e chi lo sa? Forse anche le pietre”. Questo è, dalla Grecia antica, il messaggio panteista che, camminando attraverso il tempo, è giunto fino a noi, grazie ad una catena di messaggeri, e Giono ne è evidentemente un anello fondamentale. Perché i personaggi di Giono camminano in mezzo all’ “immensa folla degli dei”. Dove sono questi dei? “Sono nell’animo e nella bellezza degli alberi, succo e cuore brillante dei vegetali, istinto di battersi e di amare delle giovani bestie, dolcezza feconda delle donne”. Tutto è un segno. Bobi, in “Que ma joie demeure” è affascinato dalle costellazioni, che sono altrettanti messaggi nel cielo: “Guarda i segni”. E “Jean le bleu”, cominciando la sua vita di uomo, afferma: “Ogni parola mi diceva l’importanza del sangue”.
L’uomo e gli alberi appartengono allo stesso mondo: “Gli alberi avevano l’odore penetrante di quando sono in amore”. E aggiunge: “L’uomo è come il fogliame attraverso il quale bisogna che passi il vento perché questo canti”. Il panteismo è la comunione con l’Universo, consiste nel collegarsi al divino dappertutto presente nel mondo, poiché il mondo è divino, e Giono lo sa bene: “I temporali, il vento, la pioggia, non ne gioisco più come un uomo, ma sono io il temporale, il vento, la pioggia”.
Bisogna qui metter fine allo stupido controsenso operato da Claudine Chonez (Giono, 1956, Le Seuil) quando afferma perentoria: “Non c’è religione in Giono”. Due possibilità: o lei non ha letto veramente Giono o confonde (ma non è la sola, perché duemila anni di condizionamento mentale hanno avuto la stessa difficoltà a distinguerli) religione e monoteismo.
Sicuramente lo stesso Giono può aumentare la confusione quando dichiara a Jean Carrière (Giono, La Manufacture, 1985): “Ammetto di non essere adatto per Dio”. Ma è un errore precisare che il dio biblico e gli Dei non solo non sono la stessa cosa, ma che sono anche, senza possibilità d’errore, due concezioni 
perfettamente e irrimediabilmente incompatibili.
D’altronde ogni ambiguità sparisce quando Giono si prende la pena di demolire la truffa intellettuale che è la confusione tra ateismo e paganesimo. Egli spiega il suo punto di vista, ed in maniera insistente, dialogando con Christian Michelfelder (Jean Giono et les religions de la terre, 1938, Gallimard): “L’affermazione dell’uomo libero si esprimerà sempre in una sorta di paganesimo molto colorato d’umanesimo. E questo è il motivo per cui sarà un paganesimo umano a salvarci. L’ateo dice no, si accontenta di rifiutare.
Ma il pagano desidera, vuole, e quindi distrugge e ricostruisce. Il vero mondo sarà un mondo di pagani. L’umanesimo pagano è la grande affermazione dell’uomo pieno di vita. Resta nell’ateismo qualcosa dell’atmosfera triste delle religioni spiritualiste. Bisogna tuttavia mettere da parte i mistici. Ma il paganesimo libera veramente”.
Gran lettore di Omero, di Eschilo, di Sofocle, Giono afferma un paganesimo vitale e cosmico per mezzo di numerosi suoi testi. Perché là sono le vere ricchezze (Les vraies richesses, 1937): “Noi siamo degli elementi cosmici”.
Questa comunione con il cosmo è il messaggio che predica il patriarca di Contadour, in questa comunità fervente e calorosa che ha raggruppato in un luogo solitario una cinquantina di persone tra il 1935 e il 1939. Con la pubblicazione dei “Cahiers de Contadour”, ai quali ha collaborato un certo Marc Augier, sedotto dal carattere fortemente influenzato da Nietzsche di un Giono che insegna, come Zarathustra, ai suoi ascoltatori - discepoli: “La soluzione è attuabile attraverso ciascuno”.
Il divino, Giono lo percepisce nelle stelle (Le serpent d’étoiles), nell’acqua (Colline), nella terra (Que ma joie demeure), questa terra materna e dura, amara e dolce. Ma anche negli animali, questi intermediari tra l’uomo e l’inanimato (o almeno che ha l’aspetto dell’inanimato). Tutto è vita: “Tutti gli errori dell’uomo derivano dal fatto che egli immagina di camminare su una cosa morta mentre i suoi passi s’imprimono in una carne piena di grande volontà”.
Giono è un autore che scuote dal torpore (alcuni direbbero un iniziato ma è la stessa cosa). Egli ha in effetti la capacità rara di risvegliare il lettore, di farlo passare dall’altro lato dello specchio, con poche parole molto semplici.
Lo testimonia Jean Carrière: “Avevo quattordici anni quando 
ho letto il primo libro di Giono, ‘Que ma joie demeure’. La prima frase resterà per me la chiave di volta della magia, ‘Era una notte straordinaria’. Ogni volta che rileggo quella frase passa in me la stessa piccola scossa, quella di un bambino meravigliato dal respiro delle foreste. La magia funziona ancora oggi. Divento di nuovo lo stesso bambino meravigliato”.
Stupore: la capacità di stupire è una qualità rara, una ricchezza che proviene dall’infanzia e che pochi hanno la fortuna (o la volontà) di conservare e che provoca la presa in giro delle “persone serie”, vale a dire vecchie (perché l’età non centra niente, nel caso specifico molti sono vecchi a vent’anni: poveri loro). Stupore davanti al mondo, davanti alla vita, questo miracolo, perché al contrario di ciò che dice “L’Ecclesiaste” (“Vanità delle vanità, tutto è vanità” Bibbia, Libro dell’Ecclesiaste, Prologo 1,2-11), Giono afferma che “Rien n’est vanità” (inedito, presentato da Christian Michelfelder): “Guarda come tutto conta, come tutto prende posto. Perché ci si è lasciati dire che tutto è vanità? L’acqua, e il prato, e il vento, e Yvonne. Colui che è solo, in piedi nella notte, canta come un albero ed è tutto sconvolto dalla canzone della sua carne. Sono sempre gli stessi che si stupiscono di San Francesco che parla agli uccelli”.
Perché la vita è un’acqua di sorgente che cola tra le dita. Bisogna vivere ogni istante come se dovesse essere l’ultimo. In Svizzera, spellando un camoscio, Giono medita: “Qui è il mistero della vita e del mondo. E un po’ di succo verde, come una pania tra le mie dita. Ciò che sarò un giorno io stesso nel corso della mia trasformazione tra carne e pianta, tra pianta e pietra, tra pietra e cielo, tra polvere di stella e spermatozoo in cammino nelle spine dorsali”. Ecco sorto il tema dell’eterno ritorno, della ruota che gira senza fine, la ruota solare che è simbolo di ogni vita. Una vita 
che non ha bisogno di giustificazioni, che basta a se stessa come portatrice di senso in sé: “Noi abbiamo dimenticato che il nostro solo scopo è quello di vivere e che, vivere, noi lo facciamo ogni giorno e tutti i giorni e che a tutte le ore del giorno noi raggiungiamo il nostro vero scopo se viviamo”. (Rondeur des Jours, 1937).
Apollineo per molti tratti della sua opera, Giono è anche, profondamente, dionisiaco, come l’ha ben compreso Christian Michelfelder sottolineando che uno degli obiettivi dello scrittore è quello di “rimettere l’uomo nel seguito di Dioniso”.
L’eremita di Manosque, del resto, spiega lui stesso ciò 
attraverso certe immagini evocatrici. Per esempio, per descrivere nella prefazione delle “Vraies richesses” (1936) la montagna, la sua montagna di Lure, dice: “Questa montagna di Lure, che si alza nel cielo non come un picco ma come il dorso mostruoso del toro di Dioniso”. Davanti a questa montagna l’uomo si sente messo di fronte alla terra”.
Si ritrova qui l’influenza di Virgilio, già manifesta dagli “Accompagnés de la flute”: “Sia che discenda nel mezzo dei fiumi del frutteto, o che s’insinui nel canneto, questo respiro che tu credi essere il vento è esalato dal dio seduto lassù sulla collina, in mezzo alle piante di salvia del cielo”. Si pensa all’Eneide, libro VIII: “Su questa collina dalla cima verdeggiante, un dio, quale non si sa, sì, un dio risiede qui”. E, dice Giono, bisogna tendere l’orecchio: “E vedi, sotto la sua voce musicale, che goccia a goccia questa sera cola attraverso i pini, commuoversi le piccole gole bianche di questo caprifoglio, ed alzarsi l’onda silenziosa degli ulivi argentati”.
Giono il meditativo è anche un uomo impegnato civilmente. Fa parte di quelli che, avendo vissuto sulla loro pelle il 14-18, non vogliono veder tornare la carneficina stupida e fratricida. E in prima fila nella lotta dei pacifisti quando firma un telegramma intimidatorio a Daladier e Chamberlain, in data 11 settembre 1938. Per questo è arrestato e rinchiuso nel forte di Saint-Nicolas a Marsiglia, il 3 settembre 1939. Nonostante le proteste di qualche coraggioso, tra cui Gide, ci resta fino a novembre. Durante la guerra conduce una vita ritirata scrivendo poco. Ma commette un errore fatale facendo pubblicare una novella sul giornale “La Gerbe” (1). Questo lo porta ad essere arrestato nel 1944 per collaborazionismo da giustizieri improvvisati, e messo in prigione per sette mesi, nel forte di Saint-Vincent, nelle Hautes Alpes. Il comitato centrale degli scrittori, controllato dai comunisti, lo iscrive, naturalmente, nella sua lista nera, destinata ad impedire di esprimersi ormai ad un gran numero di scrittori, tra i quali figurano i più grandi nomi della letteratura contemporanea. Ciò si chiama epurazione. Il crimine di Giono? Tutta la sua opera lo dice: avrebbe potuto essere l’autore della famosa formula “maréchaliste” (del Maresciallo Petain), “la terra non mente”.
Si capisce di colpo perché egli abbia potuto essere considerato da alcuni come un elemento particolarmente perverso e pericoloso.
Disincantato, Giono si volta verso una nuova tappa della sua opera. I suoi romanzi, che conosceranno un grande successo, sono ormai sprovvisti di ogni aspetto militante. Ma lo fanno affermare definitivamente come un grandissimo scrittore, riconosciuto come tale durante la sua elezione nel 1954 all’Accademia Goncourt (e, segno degli dei, per occupare il posto di Colette). Quindi fa l’esperienza dell’avventura cinematografica, realizzando nel 1960 il suo “Crésus”, impersonato da Fernandel. Il mondo del cinema gli affida la presidenza della giuria del Festival di Cannes nel 1961. Giono non è più un maledetto, perché il suo genio ha vinto i mediocri. Dopo la sua morte a Manosque nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 1970, la Pléiade gli rende molto in fretta un giusto riconoscimento pubblicando in sei volumi la sua opera romanzesca, tra il 1971 e il 1983.
Noi conserviamo nel cuore l’immagine di colui che ci ha risvegliato al canto del mondo. Colui che diceva: “Il poeta deve essere un professore di speranza”. E nell’ultima frase dei “Grands Chemins” ci dà la ricetta della speranza: “Il sole non è mai così bello come il giorno in cui ci si mette in cammino”.
Allora mettiamoci in cammino. Sappiamo che Jean Giono camminerà al nostro fianco.

Pierre Vial

nota
(Tratto dal libro di Pierre Vial “Anthologie payenne”, Les Editions de la Forèt, Solstizio d’estate 2757 Ab Urbe Condita (2004) 308 pagine, formato 210 x 140, ISBN: 2-9516812-3-2, 23 euro.
Richiedere a: Les Editions de la Forèt 87, Monte des Grapilleurs, F 69380 Saint Jean des Vignes
France o all’indirizzo www.terreetpeuple.com
E-mail:contact@terreetpeuple.com

A lungo si rinfaccerà a Giono la pubblicazione di Deux cavaliers de lorage nella rivista La Gerbe (1), e  Description de Marseille le 16 octobre 1939 ne La Nouvelle revue française (2) di Drieu La Rochelle, ed un reportage fotografico su di lui apparso su Signal (edizione francese del periodico tedesco). A lui sarà imputata anche una certa vicinanza alle idee del regime di Vichy (ritorno alla terra e all’artigianato, esaltazione della giovinezza), idee che Giono veicolava da molti anni. Le idee di Giono si riaffermano nella nuova edizione del 1941 del Triomphe de la vie. Il libro, assai ben accolto dalla stampa della collaborazione, sarà uno dei capi d’accusa per lo scrittore al termine della guerra. Nel 1943 Giono pubblica L’eau vive e Fragments d’un paradis.
(1) La Gerbe, fondato e diretto da Alphonse de Chàteaubriant l’11 luglio 1940 reca come sottotitolo “Settimanale della volontà francese”. Con tiratura di 140.000 copie, dopo, “Je suis partout”, è la pubblicazione collaborazionista più seguita. I suoi principali redattori sono il corrispondente di guerra Marc Augier, più prossimo al direttore e noto in seguito come Saint-loup, il cattolico monarchico Bernard Fay, l’ex comunista poi doriotista Camille Fègy, e diversi altri, tra i quali Alfred Canton, Luois-Charles Lecoc, Louis Thomas, Michèle Lapierre, Jean Passere, Maurice Morel, Aimé Cassar, André Castelot, Claude Cabry. Tra i collaboratori del giornale figura inoltre il quasi intero Gotha della Collaborazione: Jacques Benoist-Méchin, Abel Bonnard, Georges Montandon, Pierre Drieu La Rochelle, Jacques de Lesdain, Ramon Fernandez, Jean Hérold-Paquis, il nipote di Gobineau Clément Serpeille, Armand Petitjean e ancora Jean Anouilh, Henry de Montherlant, Paul Morand, Jean-Pierre Maxence, Marcel Aymé, Dominique Sordet, Pierre Mac Orlan, Maurice Rostand, Jean Giono, Jean de La Varende.Da Moreno Marchi ‘I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri’, Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 67.
“L’antesignano Giono, piuttosto prossimo al governo del Maresciallo”, (pag.13) Al di là dei suoi atteggiamenti intransigenti, o forse proprio per questo, collaborano a “Je suis partout”, molti tra i maggiori intellettuali dell’epoca, tra i quali Pierre Drieu La Rochelle, Jean Anouilh, Marcel Aymé, Jean Goino, Pierre Mac Orlan, André Fraigneau, Jean de La Varende, Abel Bonnard. Vi compaiono inoltre alcune lettere di Louis-Ferdinand Céline, secondo la sua abitudine di mantenere rapporti con i giornali solo a livello epistolare, e addirittura, 11 agosto 1941, un racconto Mort subite, dell’italiano Alberto Moravia. Ma sapeva quest’ultimo che si trattava di una pubblicazione antisemita? E, di converso, sapeva la redazione che si trattava di uno scrittore per metà ebreo?’, Moreno Marchi “I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri”, Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 65.
(2) “La Nouvelle revue française” è una prestigiosa rivista letteraria mensile fondata nel 1909 da Gaston Gallimard. Dopo aver interrotto le pubblicazioni per motivi bellici nel luglio del 1940, La Nouvelle revue française ricompare nel successivo dicembre, per volontà e sotto gli auspici dell’ambasciatore ed alto commissario tedesco a Parigi Otto Abetz. La dirige Pierre Drieu La Rochelle. (...) Lo stesso fatto di scrivere o meni sulla NRF rappresenta un termometro della popolarità alla quale è difficile rinunciare. Ecco così che tra scrittori ed intellettuali direttamente impegnati nella politica di collaborazione ed altri, che non lo sono o che vi discordano, su la Nouvelle revue française si ritrova alfine quasi l’intero l’empireo delle lettere francesi: André Gide, Paul Valere, Henry de Montherlant, Paul Léautaud, Marcel Aymé, Paul Morand, Abel Bonnard, Paul Eluard, Marcel Jouhandeau, Jean Giono, Ramon Fernandez, Alfred Fabre-Luce, Jacques Chardonne, Marcel Arland, AndrÀ© Fraigneau. Moreno Marchi “I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri”, Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 76

Bibliografia italiana:
Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, Ed. Ponte alle grazie, 2004; Note su Machiavelli. Con uno scritto su Firenze, Medusa Edizioni, 2004; Due cavalieri nella tempesta, Ed. Guanda, 2003; L’uomo che piantava gli alberi, Edizioni Angolo Manzoni, 2003; L’affare Dominaci, Ed. Sellerio, 2002; Angelo, Ed. Tea, 2002; Il serpente di stelle, Ed. Guanda, 2002; Morte di un personaggio, Ed. Passigli, 2001; Un re senza distrazioni, Ed. Guanda, 2001; L’ussaro sul tetto, Ed. Corbaccio, 2001; Il bambino che sognava l’infinito, Ed. Salani, 2000; La menzogna di Ulisse, Ed. Robin, 2000; Una pazza felicitÀ , Ed. Tea, 200°; Il ragazzo celeste, Ed. Guanda, 1999; Collina, Ed. Guanda, 1998; Risveglio, Ed. Passigli 1997; La fine degli eroi, Ed. Sellerio, 1996; Il disertore, Ed. Guanda,

Traduzione, note, bibliografia e iconografia a cura di
Harm Wulf

dimanche, 26 avril 2009

"Ramon" de Dominique Fernandez

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“Ramon” de Dominique Fernandez

 

Dominique Fernandez est un écrivain, un traducteur, un critique littéraire et un journaliste de grande notoriété. Pendant de longues années, il collabora à l’hebdomadaire “le Nouvel Observateur”. Ce spécialiste de l’Italie et de la Russie a terminé ses études à l’Ecole Normale Supérieure; il a reçu le Prix Médicis en 1974 pour son roman “Porporino ou les mystères de Naples”. Huit ans plus tard, il obtint le Goncourt pour “Dans la main de l’Ange”. Depuis deux ans, il est membre de l’Académie française. Cette année, Dominique Fernandez fêtera ses 80 ans  mais l’essai biographique de 800 pages que vient de publier cet auteur de gauche est indubitablement le livre le plus personnel de toute son oeuvre, pourtant si riche et bigarrée. Ces huit cent pages sont consacrées à un autre critique littéraire chevronné. Huit cent pages sur la vie d’un contemporain et ami de Proust, Mauriac, Gide, Bernanos et d’autres coryphées de l’entre-deux-guerres. Huit cent pages sur un socialiste qui cultivait des sympathies communistes. Huit cent pages sur l’un des fondateurs du fameux “Comité de vigilance des intellectuels anti-fascistes” qui a vu le jour en 1934.

 

Huit cent ! Huit cent pages consacrées à un traître qui, après la victoire du Front populaire des gauches en 1936, s’en va rejoindre le nouveau “Parti Populaire Français” (PPF) de Jacques Doriot, exclu du parti communiste et rival de Thorez qui évoluera rapidement dans le sens du fascisme puis de la collaboration. Dominique Fernandez consacre donc huit cent pages à un tel personnage. Le romancier de gauche Dominique Fernandez écrit huit cent pages sur Ramon Fernandez, son père, qu’il a à peine connu. “Je suis né de ce traître, il m’a légué son nom, son oeuvre, sa honte...”. Ce n’est qu’à la page 424 de son essai (auto)biographique sobrement intitulé “Ramon”, que nous apprenons pourquoi Dominique Fernandez a couché sur le papier  cette histoire de la vie de son père. Il affirme avoir voulu savoir pourquoi cet amoureux si raffiné de la littérature, qui se trouvait encore en 1934 sur la barricade de l’anti-fascisme, a pu se laisser embrigader dans le parti fascisant de Doriot et s’est finalement retrouver en 1942, en compagnie de quelques autres écrivains collaborationnistes français, en visite chez Goebbels, tout en prêtant sa plume aux principales revues de la collaboration. Ramon Fernandez n’a jamais pu l’expliquer lui-même. Il est mort en août 1944, quelques jours avant la libération: il avait cinquante ans. Il a ainsi échappé aux griffes de l’épuration. Le fils Fernandez connait certainement aujourd’hui l’étude très vivante que Simon Epstein a consacré l’an passé au phénomène: “Un paradoxe français – antiracistes  dans la Collaboration, antisémites dans la Résistance” (Grasset, mars 2008, 613 pages, 28 Euro). Dans cet ouvrage, le professeur israélien montre combien d’intellectuels de gauche de l’entre-deux-guerres ont fini par adhérer à l’idéal collaborationniste et combien de figures de l’extrême droite d’avant-guerre ont atterri  dans la Résistance, en contradiction avec ce que l’on pourrait penser à première vue. Dominique Fernandez donne une explication personnelle au “péché” de son père: il va la chercher dans le mariage difficile de ce playboy mexicain, amoureux de la dive bouteille, avec sa mère, Liliane Chomette, femme sévère et femme d’intérieur. Dominique Fernandez cite abondamment des passages du journal intime de sa mère, véritable chronique d’un divorce annoncé. 

 

Mais ce journal est également la chronique d’une rupture politique. Dominique Fernandez cite les belles paroles que Marguerite Duras  —qui était pendant la guerre une voisine et une amie de  son père—  a écrites dans son roman autobiographique en 1984, quand elle cherchait elle-même à expliquer son engagement communiste d’alors: “Collaborateurs, les Fernandez. Et moi, deux  ans après la guerre, membre du PCF. L’équivalence est absolue, définitive. C’est la même chose, la même pitié, le même appel au secours, la même débilité du jugement, la même superstition  disons, qui consiste à croire à la solution politique du problème personnel”.

 

“On ne devient pas communiste ou fasciste par conviction idéologique”, écrit Dominique Fernandez, le fils du collabo Ramon, mais pour guérir d’un mal personnel. Le ton employé par Dominique Fernandez peut paraître fort critique à l’endroit de son géniteur, il n’empêche que ces huit cent pages constituent l’hommage le plus pénétrant d’un fils à son père que j’ai jamais eu l’occasion de lire. Mais je dois m’empresser d’ajouter que Dominique Fernandez n’est pas juste. Mais dans cette injustice, je ne repère pas la plume du rédacteur du “Nouvel Observateur”. Il cherche parfois des circonstances atténuantes où il n’y en a pas. Il cherche à trouver de l’ironie dans les articles de son père, alors que toute ironie y est absente, tout cela pour plaider son acquittement. Pire encore, et là on ne peut pas lui laisser seul la parole: il injurie d’autre écrivains collaborationnistes (Drieu, Brasillach,...) pour défendre son père, alors, qu’en fin de compte, Ramon Fernandez fut le seul, parmi ces intellectuels, à avoir porté un uniforme pendant l’occupation. Quoi qu’il en soit, “Ramon”, en tant que “document humain”, mérite une bonne place dans la tribune d’honneur. Sans doute, Dominique Fernandez, avec ce livre consacré à son père, a voulu écrire son testament politique.

 

“Guitry”/”’t Pallieterke”.

(article paru dans  “’t Pallieterke”, Anvers, 15 avril 2009, trad. franç.: Robert Steuckers).

 

Source:

Dominique Fernandez, “Ramon”, Grasset, 807 pages, 24,90 Euro.

 

 

jeudi, 23 avril 2009

Mishima: l'homme, l'oeuvre, la mort

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

MISHIMA: L'HOMME, L'ŒUVRE, LA MORT

 

Dans son autobiographie Le Soleil et l'Acier, Kimitake Hiraoka, bien plus connu sous le pseudonyme qui le révèlera à l'humanité, Mishima Yukio, confessait son irréfragable désir d'assouvissement tragique par ces quelques mots, jetés en une fausse interrogation, et alors fort peu écoutés: «Qu'est-ce qui distingue une mort héroïque d'une mort décadente? (...) Résister à la mort et à l'oubli». Cette phrase, le 25 novembre 1970 consommé, personne ne devait plus l'oublier. De fait, pacte suicidaire du plus célèbre des auteurs japonais marque au­jourd'hui encore les esprits à un point tel qu'elle recouvre d'ombre sa pourtant foisonnante et géniale œuvre littéraire. La biographie recomplétée de son ami journaliste Henry Scott-Stokes est éclairante en la matière, qui lui consacre près de 400 pages à décortiquer la troublante personnalité du dernier samouraï nippon, rejetant l'étude de ses textes à une simple énumération-explicitation insipide et sans profondeur aucune.

 

Etonnante inconséquence bien ancrée à “droite” également, pour qui le seppuku du Grand Quartier Général de Tokyo, plus coup d'éclat que coup d'état, est devenu un évènement prépondérant sa mythologie, qu'il est inutile ici d'évoquer à nouveau, tant il l'a déjà à maintes reprises été: «Yukio Mishima choisit d'être le dernier samourai. Sa sortie fulgurante hors d'un monde qu'il abhorrait se camoufle sous une tentative de putsch. Mais un putsch à la nip­pone, voué à l'échec, ayant pour seul dessein de mettre en scène un évènement inou­bliable» (Jean Mabire). Pourtant, un rapide retour sur ses écrits jette un éclairage nouveau et bien plus instructif que tous les cours de psychologie ou études de philosophie orientale (sa vie durant, il restera sceptique à l'égard du bouddhisme et du shintoïsme institutionnels) que depuis vingt-sept ans littérateurs, critiques journalistiques ou prétendus exégètes nip­pophiles s'acharnent à plaquer sur la personne de Mishima pour en finir avec son geste fa­tal.

 

Tout dans ses romans, nouvelles, essais et recueils autobiographiques annonçaient par la plume ce que leur auteur allait bientôt sceller par le sang. L'idée précède l'action, l'action la complète. Le mot, trompeur, factice transposition scripturale du fatum humain, pallié, trans­cendé par l'action elle-même. Et si Mishima nous paraît si proche, c'est que derrière le vernis de l'artiste insulaire imprégné de culture sino-nippone se profile, tantôt en filigrane, tantôt frappant d'évidence, l'écrivain baigné de littérature européenne, de philosophie allemande, de mythologie hellénique. Ceux qui l'ont connu ou approché s'accordent tous à le recon­naître: sa maison, délirant bâtiment baroque mariant avec plus ou moins bon goût pilastres massifs, fioritures et plâtres moulés de statues de l'antiquité et de la renaissance, sa passion pour la Grèce, son culte de l'haltérophilie, son goût immodéré pour Thomas Mann et Friedrich Nietzsche, le philosophe au marteau, attestent de son regard tourné vers le berceau de la tragédie. «Il faut ne jamais s'être ménagé soi-même, il faut avoir fait de la dureté une habitude pour rester serein et de bonne humeur parmi de dures vérités», quelle meil­leure traduction que cet aphorisme nietzschéen tiré d'Ecce Homo pourrait mieux percer à jour la complexité de Mishima, sa pensée profonde et la vision unique qui guida sa vie, son œuvre, et, point d'orgue terrible, sa mort par suicide.

 

Mishima, d'abord un écrivain européen? Perspective ambitieuse certes, mais qui s'appuie sur des faits et des écrits-mêmes de Mishima qu'il serait navrant de vouloir oblitérer, au titre fallacieux d'une compréhension plus aisée d'un auteur ultra-nationaliste et impérialiste en rup­ture de ban. En un dernier aveu au monde qu'il allait définitivement quitter, il laissait sur son bureau, accompagnant la dernière partie manuscrite de sa tetralogie La Mer de la Fertilité, ce billet, disant «La vie est brève, mais je voudrais vivre toujours». Espoir d'éternité concrétisé certes par sa postérite littéraire, que confirme la récente sortie dans la prestigieuse collection NRF-Gallimard du Pélerinage aux Trois Montagnes, mais qui, s'il n'avait été qu'un «quelconque» écrivain de talent, lui aurait au contraire évité sa mort volontaire et prématurée. Son acte, s'il reste nimbé de mystère, doit sa raison d'être à une toute autre inspiration, divine ou classique, indubitablement tragique, nourrie de références européennes, classiques grecs, littérature du «Grand Siècle» et bréviaires sils-mariens, juste retour des choses pour un Nietzsche volontiers «schopenhaueriennement» vulgarisateur du bouddhisme. Mishima, le plus occidental des écrivains asiatiques, tellement opposé au précepte Zen «Aller droit de­vant soi, sans se retourner et sans se poser aucune question».

 

*

«L'homme qui sait mourir ne sera jamais esclave» prêchait déjà Sénèque, conseiller de l'Empereur Néron et maître de la Rome stoïcienne, pour qui la vie, ascèse virile et souverai­neté aristocratique sur ses pulsions tendues vers la LIBERTE absolue de l'Etre, trouvait sa conclusion la plus pure et olympienne dans son propre abandon volontaire. Mais se sacrifier sous le coup de la passion, preuve de son inaptitude à s'affirmer contre le monde, ne saurait mériter que mépris et déshonneur. Or, c'est bien dans ce sens qu'abonde Henry Scott-Stokes quand il affirme péremptoirement que le suicide de Mishima ne fut jamais que shinju, double suicide amoureux en compagnie de son prétendu amant et second au sein de la Tatenokai;  Morita Masakatsu, connotant l'acte d'une homosexualité sado-masochiste honteuse qui ne résiste pas devant l'examen des faits. Quand meurt Mishima, il y a long­temps qu'il s'est défait de ses oripeaux romantiques. Son passage à la Bungei Bunka, asso­ciation militariste de littérateurs nationalistes et son appartenance au mouvement Nippon Roman-Ha («les Romantiques japonais») regroupés derrière la figure du romancier Yasuda Yajura remonte aux dernières années du second conflit mondial.

 

Glorifiant la «guerre sainte» et prônant la valeur salvatrice du sacrifice et de l'autodestruction du peuple japonais guidé par l'infaillabilité de son Empereur-thaumaturge, seul aux yeux de ce cercle avait droit de cité l'exploit intrinsèque, la défaite et la mort, inéluctables, magnifiant comble du romantique la plus belle des victoires, d'ores et déjà acquise par le seul fait que le Japon, peuple à la supériorité divine, ait osé lever le sabre sur l'Asie et s'aliéner la haine de l'Occident. Profondément influencé en ses jeunes années par l'école néo-confucéenne Wang-Yang-Ming  du Dr Inoue Tetsujuio («La mort du corps n'est rien face à la mort de l'esprit»), Mishima confiera bien plus tard, dans Le Soleil et l'Acier  (1968), son progressif changement d'orientation: «L'élan romantique, à partir de l'adolescence, avait toujours été en moi une veine cachée, n'ayant de signification qu'en tant que destruction de la perfection classique (...) En l'espèce, je chérissais un élan romantique vers la mort, tout en exigeant en même temps comme véhicule un corps strictement classique (...). Me manquaient, en bref, les muscles qui convenaient à une mort tragique».

 

Le grand bouleversement de sa vie a lieu en 1952, lorsque Mishima, alors tout jeune ro­mancier mondialement célébré pour Confession d'un Masque  (1949) met le pied en Grèce. Lecteur assidu d'Homère, Eschyle et Sophocle, des classiques grecs et du «Grand Siècle», cas rarissime dans le Japon post-1945, il «tombe amoureux des mers bleues et des ciels vifs de cette terre classique» et echafaude une théorie pour sublimer son Voyage à Sparte:  dans les temps anciens, la spiritualité («cette excroissance grotesque du christia­nisme»), inexistante, était palliée par un équilibre précaire entre le corps et l'esprit nécessitant un effort constant pour le préserver, que les Grecs sublimèrent dans la beauté et la tragédie, punition infligée aux hommes par les dieux pour leur arrogance. «Mon interprétation était peut-être fausse, mais telle était la Grèce dont j'avais besoin». Aristote ne disait-il pas qu'un «beau pied est l'indice d'une belle âme»?

 

A travers cette nouvelle grille de lecture éthique, le jeune et chétif écrivain désapprend la soli­tude, la haine de soi et découvre la beauté du corps travaillé, sculpté par l'exercice. A son re­tour au Japon, dégoûté du romantisme, «caractéristique typiquement bourgeoise (...) fa­daises poétiques, héroïsmes mélodramatiques, pathétiques complications d'amour» (dixit Julius Evola), il décide que l'heure est venue pour lui désormais d'écrire des «œuvres clas­siques», et, en corollaire, autre lecon rapportée de l'Hellade, de s'adonner au culturisme. «Le bon endroit, c'est le corps, l'apparence physique, le régime, la physiologie -et le reste  suit de lui-même (...) c'est pourquoi les Grecs constituent toujours le premier évènement capital de la culture de l'humanité. Ils savaient -et ils faisaient-, ce qu'il fallait». (Nietzsche in Crépuscule des Idoles).

 

La mort, qui jusque là n'était que trouble nihilisme destructeur, et attrait morbide pour la souf­france («Le penchant de mon cœur vers la mort, la nuit et le sang était indéniable» notera-t-il à l'occasion de la publication de Confession pour un Masque)  se voit rehaussé au rang d'idéal, de suprême geste de domination, de puissance et de liberté. Patet Exitus:  «Lorsque vous ne voulez plus combattre, il vous est toujours possible de vous retirer. Rien ne vous est plus facile que de mourir» (Sénèque). Chacune des œuvres qui paveront le panthéon de sa gloire littéraire sera dorénavant un pas supplémentaire dans son approche définitive du néant.

 

En 1951 puis 1953 paraissent deux versions de Couleurs Interdites, évocation de la société homosexuelle de Tokyo et des relations tumultueuses qui unissent le vieil écrivain Shinsuke et le bel éphèbe ingrat Yuichi, conclue par la mort par injection de drogue du vieillard, au terme d'un sermon inutile. Saisissante préfiguration de ce qui allait attendre Mishima... Cette même année 1953 sort La Mort en été, roman qui conte l'histoire d'une femme déses­pérée après la noyade accidentelle de ses deux enfants. Se profile à nouveau l'étude d'une âme en proie au chaos existentiel, qui lutte pour sa dignité dans le dépassement de ses sen­timents. Définissant sa perception de la tragédie classique, Mishima écrit, toujours dans Le Soleil et l'Acier:  «Selon ma définition de la tragédie, le pathos  tragique naît lorsqu'une sen­sibilité parfaitement moyenne assume pour un temps une noblesse privilégiée qui tient les autres à distance, et non pas quand un type particulier de sensibilité émet des prétentions particulières (...). Pour que, parfois, un individu touche au divin, il faut dans des conditions normales, qu'il ne soit lui-même ni divin ni rien qui en approche. C'est seulement lorsque, à mon tour, je vis le ciel bleu, étrange et divin, uniquement perçu par ce type d'individu, qu'enfin j'eus confiance en l'universalité de ma propre sensibilité, que je pus étancher ma soif et que fut dissipée ma foi aveugle et maladive dans les mots. A cet instant, je participai à la tra­gédie de tout être».

 

La parution du Pavillon d'Or en 1956, qui confère définitivement à Mishima le rang d'écrivain à la renommée mondiale, entérine son rejet viscéral de la laideur physique et mentale, son mépris pour ce qu'incarne ici le personnage de Kashiwagi, être vil dont les pieds bots ne sont qu'extériorisation corporelle de sa bassesse intérieure, dans la formule toute kantienne «le beau est le symbole du bien moral»: «Il avait pour marque particulière deux pieds aussi bots que pieds peuvent l'être et une démarche extrêmement étudiée. Il avait toujours l'air de mar­cher dans la boue: lorsqu'une jambe parvenait, non sans peine, à s'extraire, l'autre au con­traire paraissait s'engluer. En même temps, tout son corps s'agitait avec véhémence; sa dé­marche était une espèce de danse extraordinaire, aussi peu banale que possible». Autre ap­proche de la mort avec Le Marin Rejeté par la Mer (1963), qui voit une bande d'adolescents nihilistes combattant leur sensibilité s'essayer à l'exercice macabre de la mise à mort de Ryuji, l'officier de marine marchande, amant de la mère de Noboru, membre du groupe, par l'ignoble sacrifice longuement détaillé par l'auteur d'un innocent chaton abandonné.

 

A cette époque Mishima a déjà pris conscience, au cours des évènements de 1960, de son intérêt pour la politique. Les émeutes qui émaillèrent le renouvellement de l'ANPO (traité de sécurité américano-japonais), humiliante charte imposée par Mac Arthur en 1945, agirent sur Mishima comme le révélateur d'un engagement à venir. C'est alors qu'il découvre la richesse de la tradition militariste nippone. A l'automne 1960, il termine la nouvelle Yûkoku (Patriotisme, aujourd'hui insérée dans le volume La Mort en été) qui traite à travers l'histoire d'un jeune officier, le lieutenant Takeyama Shinji, de l'affaire Ni Ni Roku, putsch entrepris le 26 février 1936 par la société secrète impérialiste Kodo-Ha. Tiraillé entre sa fidélité pour l'Empereur et celle pour la Kodo-Ha, Takeyama préfère se suicider en compagnie de son amie Reiko, shinju  fort idéalisé et accompagné d'un véritable luxe de détails: «Il est difficile d'imaginer spectacle plus héroïque que le sursaut du lieutenant qui brusquement rassembla ses forces et releva la tête (...). Il y avait du sang partout. Le lieutenant baignait jusqu'aux ge­noux et demeurait écrasé et sans force, une main sur le sol. Une odeur âcre emplissait la pièce. Le lieutenant, tête ballante, hoquetait sans fin et chaque hoquet ébranlait ses épaules. Il tenait toujours dans sa main droite la lame de son sabre, que repoussaient les intestins et dont on voyait la pointe».

 

A deux reprises, Mishima reprend ce thème, dans la pièce Toka no Kiku puis dans l'essai Eirei No Koe (La Voix des Morts héroïques, parue en 1966). De Patriotisme,  il dira: «Ce n'est ni une comédie, ni une tragédie, mais simplement l'histoire d'un bonheur... Le douloureux suicide du soldat équivaut à une mort honorable sur le champ de bataille». De cette nouvelle devait être tiré un film éponyme en 1965, où Takeyama sera joué par... Mishima lui-même. On se souvient de la honte qui l'étouffa sa vie durant d'avoir triché au conseil de révision en 1945, alors que le Japon mobilisait ses dernières forces pour repousser l'hydre américaine. Dix ans après ce film, Mishima se rejouait la même scène, sans caméra cette fois.

 

Mais si Mishima manifeste un réel intérêt pour la politique, il reste un parfait apoliteia, seule­ment préoccupé par la figure de l'Empereur, à qui il reproche d'avoir trahi et sa charge divine et son peuple, sacrifié en son nom propre pendant huit ans de guerre. «Pourquoi fallait-il qu'il devienne un être humain...», écrira-t-il. La lecture de son roman Après le Banquet (1960) prouve quant à elle le profond mépris que ressentait Mishima pour la classe politique en gé­néral et le rôle prégnant qu'y tient l'argent. Le ridicule dont il affuble des personnages à l'identité réelle à peine voilée que manipule allègrement une sombre prostituée ne manqua pas de lui causer des déboires avec les milieux politiciens et certains groupes extrémistes.

 

Il s'initie aux règles du Bushido  ainsi qu'aux arts martiaux (Kendo et Karaté), réédite le premier en 1967 le bréviaire du Samurai condamné par l'occupant en 1945, le Hagakuré, du guerrier Yamamoto Jocho (XVIIIième siècle), qu'il adapte aux conditions du XXième siècle et sous-titre Le Japon Moderne et l'Ethique Samourai:  il en retient particulièrement quelques idées-clés, la soumission à son destin et à la mort, au relent fortement teinté de stoïcisme: «La mort recèle toujours un combat obscur entre la liberté de l'homme et un destin qui le dépasse». En introduction, il note: «Un homme d'action est destiné à subir une longue période de tension et de concentration jusqu'au dernier instant où il achève sa vie par son acte final: la mort —soit par causes naturelles, soit par seppuku»  Si la mort l'obsède depuis son enfance, sa propre mort lui devient dès à présent prépondérante. «Aux abords de la quarantaine, l'âge com­mence à tracasser Mishima» remarque Scott-Stokes dans sa biographie. Toujours en ex­cellente condition physique, ses muscles se font maintenant moins proéminents, ses con­tractions moins impressionnantes. Comment un homme si pétri d'esthétique classique pour­rait s'en contenter, lui qui écrivait, toujours dans Le Soleil et l'Acier, qu'à un muscle dur cor­respond la force de caractère et «la sentimentalité à un ventre flasque».

 

Impossible d'accepter l'inéluctable décrépitude de l'âge, lui qui sait que la grande idée de l'art classique se trouve dans la commémoration dans le marbre de l'instant parfait où s'affirme la beauté ultime, l'extrême moment qui précède le déclin et derrière lui, la mort. C'est désormais à elle qu'il consacrera ses dernières années. Dans l'ouvrage Shobu No Kokoro (L'Ame des Guerriers), reprise d'un dialogue avec Murakami Ichiro, paru après son décès, il confie: «On doit assurer la responsabilité de ses paroles, une fois qu'on les a prononcées. Il en va de même du mot écrit. Si l'on écrit: Je mourrai en novembre, alors on doit mourir. Si l'on fait une fois bon marché des mots, on continuera de le faire». Sa tétralogie achevée, La Mer de la Fertilité, certainement le sommet de son écriture, et interrogation sur la réincar­nation où s'exprime un bouddhisme plus universitaire que mystique, Mishima Yukio pourra se considérer enfin au bord de la falaise et rejoindre le héros qu'il vénère le plus, lui-même. «Le suicide est quelque chose qui s'organise dans le silence du cœur, comme une œuvre d'art» disait Albert Camus. Alors que persomne ne voulait voir en Mishima la réunion de la plume et de l'épée, il décidait de mourir fièrement, puisqu'il ne lui était plus permis de vivre avec fierté.

 

Dans son excellente biographie, Mishima ou la vision du vide, Marguerite Yourcenar de­vait écrire: «Il y a deux sortes d'êtres humains: ceux qui écartent la mort de leur pensée pour mieux et plus librement vivre, et ceux qui, au contraire, se sentent d'autant plus sagement et fortement exister qu'ils la guettent dans chacun des signaux qu'elle leur fait à travers les sen­sations de leur corps ou les hasards du monde extérieur. Ces deux sortes d'esprit ne s'amalgament pas. Ce que les uns appellent une manie morbide est pour les autres une hé­roïque discipline». Mishima aura vécu en artiste tragique, acceptant posément de se retirer en «joyeux pessimiste». Dyonisien aurait sans doute conclu Nietzsche.

 

*

Quand du haut du balcon du GQG des Jieitaï, ce 25 novembre fatidique de 1970, Mishima, revêtu de son uniforme moutarde, le front masqué par son hachi-maki, le poing tendu vers la foule qui le conspue, s'écrie «Au nom du passé, à bas l'avenir!», c'est d'abord et surtout à lui-même qu'il s'adresse, lui, subtile réunion d'irrationalisme nippon et d'universalisme européen, ayant décidé d'en finir avec une vie qui ne peut plus répondre à son idéal de beauté phy­sique, de grandeur virile, de pureté olympienne. Sa résolution est prise, recouvrer sa liberté dans l'extase finale de la mortification purificatrice, à l'image de ce Saint Sébastien agonisant peint par Gueno Reni qu'il ne cessera jamais de révérer dans son martyre, allant jusqu'à l'imiter pour le photographe Shinoyama Kishi. Deux mois avant son seppuku, il posait en­core pour un recueil de photos jamais publié et intitulé Otoko no Shi (La Mort d'un Homme). Sur certaines on le voit couvert de sang, sur d'autres mimant son seppuku. «Qu'est-ce que l'éternité», s'interrogeait Pierre Drieu la Rochelle. «Une minute excessivement in­tense». De son amour pour Saint Sébastien devait découler sa passion pour Gabriele d'Annunzio, dont il traduisit Le Martyre de Saint Sébastien et comme lui s'écriant: «J'ai tout risqué, j'ai tout donne, j'ai vaincu», il put lancer fièrement à la face de ce monde vieillot et as­soupi, dernier acte d'insoumission à la fatalité, cet épitaphe: «La mort violente est l'ultime beauté, toujours, et surtout quand on est jeune».

 

Laurent SCHANG,

le 27 juin 1997.

 

mardi, 21 avril 2009

"Cette gaieté paradoxale et prodigieuse"

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« Cette gaieté paradoxale et prodigieuse » [1957]

 

Nous avions exhumé l’article de Lucien Rebatet paru à la sortie de D’un château l’autre. Voici celui de Robert Poulet qui évoque, dans l’introduction, la polémique née au sein de la rédaction de l’hebdomadaire Rivarol.

 

Dans les circonstances difficiles, il vaut mieux être tout à fait clair et tout à fait franc. J’ai lu, comme tout le monde, l’interview que Louis-Ferdinand Céline a donnée à L’Express le mois dernier. J’y ai retrouvé, ni plus ni moins, le ton, l’humeur, les dispositions qui ont toujours distingué l’auteur du Voyage au bout de la nuit. Avec les mêmes facéties truculentes, les mêmes défis burlesques, la même affectation de platitude et de grossièreté, qu’il mettait déjà dans ses discours au temps glorieux de ses débuts, et qui comme alors enveloppent bel et bien une extraordinaire hardiesse de pensée et d’expression... En ayant l’air de se moquer de tout et de lui-même, Bardamu vient d’asséner à ses adversaires qui avaient pensé cette fois le prendre au piège, des vérités comme aucune oreille française n’en a encore entendu depuis dix ans. Et les artificieux propos de Mme Françoise Giroud ¹ ne parvenaient pas une seconde à couvrir cette voix qui porte, jusque dans le registre le plus contenu, quand Céline joue, avec des intonations redoutables, la scène de l’esclave rebelle et puni : du Plaute tranposé dans ce siècle sans élites ; un morceau plus que remarquable, et où l’on ne découvre, mon cher Pierre-Antoine Cousteau, pas un atome de reniement ².

 

   À celui qui ne fut jamais d’aucun clan, et qui se définit justement par cette autonomie totale, qui va jusqu’à la manie, jusqu’à la furie, on ne saurait demander de respecter la « loi du clan » – à laquelle je ne crois pas, quant à moi. Je n’ai de considération que pour la probité individuelle, pour l’amitié, pour la solidarité du malheur, qui est une question de sentiment. Il ne me paraît pas du tout qu’en l’occurrence le persécuté Céline, le méconnu Céline ait enfreint ces règles de pure hygiène morale. Celles-ci ne sauraient exiger qu’un écrivain de vigoureux tempérament cesse de se manifester sous l’aspect qui répond en lui à des nécessités quasi constitutionnelles.

 

L’œuvre et l’outil

 

  Depuis vingt-cinq ans tout juste, l’auteur de Normance a toujours réussi à conjuguer le profond sérieux, qui se dissimule dans son œuvre et dans sa vie, et qui s’y approfondit encore en pathétique, avec la nature orageuse et volcanique de son art ; et aussi avec l’impatience irritée, le besoin de scandale et de contradiction, qu’excite chez lui – c’est sa vocation particulière – la soif de vérité, de pureté, de justice. Dès le commencement, on a reconnu dans cet anarchiste aux visions obscènes, aux propos blasphématoires, un défenseur déçu et meurtri de la tradition. Cet iconoclaste garde en lui le regret des « bonnes façons de vivre ». Sa manière de servir le beau et le vrai, c’est de s’insurger aveuglément contre toutes les impostures qui en tiennent lieu, dans une société faussée à la base ; de s’insurger sans réserve, sans mesure, comme il convient à l’indignation et à la déréliction. Et, comme les choses qu’il faut bafouer ont pris l’aspect des usages et des lois, l’insurrection célinienne s’ouvre par une explosion de délire subversif.

 

   Les révolutionnaires professionnels n’en sont pas encore revenus, d’avoir vu naguère cet isolé, ce vagabond de la pensée, battre une fois pour toutes les records de négation, de destruction, de malédiction qu’ils pensaient avoir établis depuis cent ans, et qui, par comparaison avec la terrible et naïve « table rase » où s’installe Bardamu, paraissent les fruits d’une timidité ridicule. Personne n’avait jamais poussé la dérision de tout aussi loin que le petit médecin de banlieue, mal embouché, sorti d’on ne sait quels remous coloniaux, maritimes, internationaux, populaires, et qui surgit un matin de 1931 sur la scène de Paris.

 

   Dès ses premiers mots, il montra ce que peut être, réellement, un contempteur du monde moderne. Du coup on vit les mœurs, les usages, la sensibilité, le langage même, chanceler sur leurs bases. D’autant que le novateur s’était fabriqué l’outil qu’il fallait ; un style comme on n’en avait jamais vu nulle part, fait d’argot décanté, qu’entrecoupent des  soupirs,   des  haussements d’épaules ; le mouvement d’un discoureur de bistrot qui crache de mépris entre deux onomatopées ou qui a des renvois de vin bourru ; rythme essentiellement vulgaire, qui soutient une émotion parfaitement indépendante, parfaitement aberrante, mais d’une secrète noblesse.

 

Le génie deux fois escamoté

 

  Le miracle se reproduisit, en plus éclatant encore, avec Mort à crédit. Seulement, déjà la tourbe des imitateurs s’était jetée sur le pur produit du célinisme. Dès avant la guerre, les sous-Céline pullulaient ; et maintenant il en est qui n’ont jamais lu leur modèle, qui n’ont jamais entendu prononcer son nom, ayant trouvé leur provende chez des épigones et des caudataires qui l’avaient pesamment remâchée ; et prospérant en outre dans une atmosphère intellectuelle que régit la conspiration du silence, au détriment de « l’auteur le plus original qui soit apparu en Europe depuis un siècle » (dixit Middleton Murry) ³.

 

   Que reprochent à Céline les critiques qui pendant deux lustres l’ont supprimé de l’histoire littéraire, exclu de la vie littéraire, jeté moralement dans des oubliettes aussi profondes que celles dans lesquelles le grand écrivain languit au Danemark, pour avoir « vendu les plans de la Ligne Maginot » (ô alliance de la méchanceté et de la sottise, dont Hamlet devait rire amèrement à Elseneur, distante d’une portée de mitraillette) ? Ils lui reprochent (au nom d’un principe né de la guerre) d’avoir écrit des pamphlets contre les Juifs avant la guerre.

 

   L’extravagance furibarde de Bagatelles pour un massacre et des Beaux draps avait sa source – c’est visible pour qui étudie de sang-froid ces pages pleines de divagations, d’imprudences, de méprises monumentales, pêle-mêle avec quelques beautés sulfureuses – dans l’angoisse que la vue trop exacte des hécatombes imminentes, voulues par les uns, acceptées par les autres, inspirait à un homme dont la pensée première, la définition initiale est l’horreur des maux évitables, avec la rage de crier cette horreur, fût-ce dans la confusion extrême qui accompagne les grandes crises de prophétisme.

 

   Quoi qu’il en soit, l’événement Céline, pour des motifs qui ne tenaient pas à la littérature, et même qui ne se rattachaient pas aux idées de résistance et de collaboration, étrangères à ce j’men-fichiste fabuleux, à ce parangon d’anarchie, disparut d’une époque qui, sans lui, se révélait inexplicable. La jeunesse française ignore le romancier contemporain dont l’attitude, l’esprit, le vocabulaire, répondent le mieux au chaos mental et moral dans lequel elle se complaît, se raccrochant à des interprètes beaucoup moins qualifiés, beaucoup moins expressifs – et surtout beaucoup moins libres.

 

Quelques petites choses

 

   Aux hommes de lettres « engagés », auxquels la nouvelle génération  a  un  moment prêté l’oreille, faute de mieux, la révélation célinienne oppose, au contraire, le spectacle d’une âme soucieuse de se dégager à fond, de se dégager de tout, pour avoir senti soudain que toutes les contraintes sociales, avec les doctrines et les institutions dont elles découlent, étaient en train d’appesantir sur l’Occidental du XXème siècle une énorme chape de mensonge, faits de la corruption et de la falsification du patrimoine humain. Procédant du même état d’âme, le Voyage fit le même bruit d’écroulement que le dernier effort de Samson. Si les jouisseurs du désordre, les adorateurs de l’absurde, étaient conséquents avec eux-mêmes, ils se tourneraient de ce côté, pour voir enfin sortir de la terre, au milieu des décombres que Louis-Ferdinand Céline remue avec de sanglants sarcasmes, la pousse verte du naturel, en attendant la fleur de la charité, que n’ont pas étouffée toute cette colère et toute cette haine.

 

   S’il y a dans ce temps-ci un écrivain qui l’exprime en plein, et qui même anticipe sur le temps à venir, avec des mots que sans doute on ne comprendra tout à fait qu’au-delà des effondrements qui y conduisent, c’est bien celui-ci, dont pourtant la plupart de nos successeurs n’ont aucune idée par la faute des témoins prévenus et des serviteurs infidèles de la littérature.

 

   Ils tablèrent d’abord sur l’absence du personnage, puis sur son affaiblissement. Depuis son retour en France, l’auteur de L’Église a publié trois livres, dont les deux premiers, malgré des passages étonnants, que lui seul pouvait écrire, avaient quelque chose de blessé, un souffle rauque de grabataire ; un creux s’ouvrait au cœur de cette élocution toujours abondante et puissante. Puis, il y eut les Entretiens avec le professeur Y, où s’étirait et se gonflait une pugnacité convalescente. Mais voici D’un château l’autre. Et nul ne peut nier que le grand Céline soit revenu.

 

   C’est si vrai que les chevaliers de la distraction calculée, les spécialistes de la bouche en cul-de-poule et de la mine-de-rien ont compris qu’il fallait changer de tactique. Du moment qu’on renonçait à faire comme si l’homme et l’œuvre étaient morts ou mieux, n’avaient jamais existé, il n’y avait pas de moyen terme : il fallait se précipiter à leur rencontre. Ainsi s’explique le tumulte exceptionnel qui s’est élevé dans la presse depuis trois semaines. Tout d’un coup, le réprouvé, le maudit, l’intouchable, est devenu l’un des thèmes majeurs de la publicité journalistique, l’un des bouffons favoris que ses organisateurs proposent au public. Et ainsi, tout en jouant les Frontins et les Scapins, au commandement et conformément à sa pente, Céline a-t-il pu se débarrasser de deux ou trois petites choses qu’il avait sur le cœur...

 

Une réalité seconde

 

   Passons outre à ces numéros de cirque, mais d’un cirque sur lequel plane un drame. Et arrêtons-nous devant le livre qui a provoqué la rentrée du clown (voir les conséquences du fait dans un célèbre conte d’Edgar Poe 4 ).

 

   On sait que les romans céliniens sont toujours tirés d’une réalité interprétée et transverbérée à laquelle s’applique le martèlement du verbe, dont les coups rapides et répétés finissent par forger une réalité seconde, chargée de poésie frénétique et sarcastique, avec une épouvante au bout. Cette fois, c’est sur ses souvenirs d’Allemagne – où il dut fuir en 1944, menacé de mort, sans nul motif – que l’auteur a travaillé. Il en résulte que, par exemple, on voit surgir à Sigmaringen une image du Maréchal Pétain, une image de Pierre Laval, et beaucoup d’autres images dont chacune a l’air d’être quelqu’un, de porter un nom. Purs cauchemars, où naturellement n’interviennent aucune des délicatesses ou des précautions que l’auteur a toujours instinctivement méprisées, à tort ou à raison, ne trouvant son maximum d’expressivité que dans l’irrespect intégral. Néanmoins, je défie bien les esprits les plus mal disposés de retirer d’un tel tableau une idée amoindrie des personnes qu’il met en scène.

 

   Cela éclate surtout aux yeux de ceux qui prennent la peine de lire jusqu’au bout ces trois cent cinquante  pages  à  la  température d’ébullition. Il en sera récompensé par des plaisirs, par des surprises, dont les lecteurs des romans à la mode, si infirmes, si timorés sous leur masque de fausses audaces, ont perdu l’habitude. Il y a, notamment, une hallucination au bord de la Seine, qui rappelle dans le féerique et dans l’effrayant la fameuse « galère » du Voyage, et laisse loin derrière elle les plus échevelés pensums surréalistes. Il y a l’errance en chemin de fer. Il y a l’écriture, qui est encore plus divisée qu’avant ; ce n’est plus qu’un halètement musical, comme dans les premiers Stravinsky. Il y a cette gaieté paradoxale et prodigieuse, où entrent des éléments enfantins, des éléments jupitériens, à mi-chemin entre le petit garçon qui faisait des niches à ses copains en poussant dans Paris la voiture de sa mère dentellière, et le démiurge qui se moque de sa création au moment de la détruire. 

 

   En ce cas, le monde finirait par un cri de désespoir, qui ressemblerait furieusement à un cri de joie. C’est pourquoi l’on peut croire qu’au fin fond de la dissolution universelle à la Céline, il y a un noyau de santé. Puisse-t-il en tirer tout le suc, le cher homme !

 

   En attendant, voici son bouquin. Le troisième de sa main qui ait chance de défier les siècles. Citez-moi seulement une dizaine de contemporains, dans les trois générations, qui puissent en dire autant !

 

Robert POULET

(Rivarol, 4 juillet 1957)

 

 

Notes

 

1. C’est François Giroud qui avait rédigé le chapeau rédactionnel de cette interview paru dans L’Express (14 juin 1957) sous le titre « Voyage au bout de la haine ».

2. Poulet répond ici à l’article de P.-A. Cousteau paru dans Lectures françaises (juillet-août 1957) sous le titre « Fantôme à vendre ».

3. John Middleton Murry (1889-1957), critique littéraire anglais, époux de Katherine Mansfield.

4. « La Barrique d’amontillado », avec son personnage tragique de Fortunato.

samedi, 18 avril 2009

Il federalismo etnico di Saint Loup

Il federalismo etnico di Saint-Loup

 Jérôme Moreau : Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 “La gioventù francese che ieri viveva nelle tenebre, a cui mancava un ideale, che aveva perso la fede nei destini della patria, sarà abbagliata domani dal compito che l’attende: rifare l’Europa…” (1).

Saint-Loup Per la destra, per lo meno quella che non lo disprezza, Marc Augier detto Saint-Loup è il romanziere della civiltà minacciata e dell’Europa delle patrie carnali… Due temi che sono punto di riferimento dopo Solstice en Laponie, pubblicato nel 1939, dove l’autore espone già il suo timore per l’evangelizzazione e la colonizzazione delle popolazioni lapponi da parte dei mercanti della morale. Riflessione che prosegue sotto l’occupazione, soprattutto negli articoli sui Baschi ed i Bretoni dove Saint-Loup pone i primi fondamenti del “federalismo etnico” quale principio su cui vuole organizzare l’Europa (2). Sia detto tra parentesi, la difesa dei popoli minacciati non si limita nel suo spirito al solo territorio europeo giacché egli affermava nel 1941, in un articolo sull’avvenire dell’Impero francese: “Il nostro dovere in Africa è quello di ristabilire nel quadro storico e razziale una grande civilizzazione araba ed una grande civilizzazione nera (3)”.

Ed è sempre per l’Europa delle etnie che Saint-Loup ha seguito la fede gammata ed è andato a combattere sul Fronte dell’Est nel 1942. Egli era in effetti persuaso fin dal 1941 che la Germania preparasse una pace fondata su un federalismo etnico europeo. A questa convinzione si aggiunge ancora l’idea, diffusa precedentemente negli ambienti tedeschi rivoluzionari conservatori, che il futuro dell’Europa si trovi ad Est, in una Russia battuta dove si potranno attingere nuove forze: economiche, razziali, spirituali.

Dopo la sconfitta è difficile per molti comprendere come Saint-Loup abbia potuto interpretare – benché non sia stato il solo – il pangermanismo hitleriano come un tentativo di unione dell’Europa sulla base delle etnie che la compongono. Otto Strasser che manifestava negli anni trenta la medesima volontà, l’intenzione di riorganizzare l’Europa su basi etnico-linguistiche, entrerà presto in conflitto con i seguaci ortodossi di Hitler. Probabilmente questo atteggiamento era dovuto all’anticomunismo fanatico che Saint-Loup aveva sviluppato a causa del suo contatto con i militanti di sinistra nel periodo tra le due guerre mondiali (4). L’esperienza del fronte russo segna però un radicale cambiamento nell’atteggiamento di Marc Augier, che non si fa più illusioni sulle intenzioni tedesche. Questa tendenza è manifestata in alcuni articoli su “Combattant Européen” che oscillano tra la fedeltà completa ed una certa presa di distanza dalle posizioni ideologiche tedesche. Così scriveva a qualche mese di distanza “Hitler non è che un uomo (5)” mostrando così il suo rifiuto verso un’Europa a dominazione tedesca: “Non si tratta di fonderci in una specie di europeo. Non vogliamo essere germanofili o russofili. Vogliamo rimanere noi stessi, con la nostra eredità nazionale, pur adottando uno stile di vita moderno. E vogliamo arricchire questo stile con il genio francese che non è un mito (6)”.

La contraddizione apparente di questi due propositi deve essere compresa con lo iato tra un giuramento di fedeltà incondizionata e il pensiero proprio di Marc Augier. Questa confusione tra l’aspetto sentimentale e quello dottrinario che ha potuto, dopo il 1945, far passare Saint-Loup come un settario del Nazionalsocialismo proprio quando egli considerava lo stato nazione come un principio politico storicamente superato. Non è tuttavia errato osservare che questa contraddizione rimane in Saint-Loup per quelli che dopo la guerra hanno voluto far coincidere la sua esperienza nelle Waffen SS con la sua concezione del mondo. Nelle opere Götterdämmerung, Les Volontaires e Les Hérétiques, Saint-Loup, manifesta un viscerale attaccamento ai suoi camerati lasciando libero corso ai suoi fantasmi e concepisce l’esistenza di una frazione oppositrice federalista che avrebbe tentato di affermarsi all’interno del regime nazionalsocialista.

Jean Mabire, Les Jeunes Fauves du Führer Saint-Loup non ha mai deposto l’uniforme. Rifare l’Europa! Ma perché l’Europa delle etnie, delle patrie carnali? Perché nello spirito di Saint-Loup questa è la forma politica che più ha la forza di resistere alle ideologie massificanti - liberalismo, cristianesimo, comunismo - nascoste sotto la maschera dell’universalismo e dell’internazionalismo. Perché gli stati nazione hanno confini ideologici. Perché la patria carnale, terra dei padri, risponde ad una aspirazione di identità naturale. “L’Europa deve dunque essere riconsiderata a partire dalla nozione biologicamente fondata del sangue (…) e degli imperativi tellurici (…). Non può esistere che come somma di piccole patrie carnali nutrite di questa doppia forza. Infatti più lo spazio unificato si estende, più la realtà razziale si diluisce per mescolamento e più il territorio sfugge alla proprietà del singolo a profitto della massa (7)”. Saint-Loup fa della razza il motore della storia di un popolo e dell’ibridazione la principale minaccia che grava su una civiltà. Poiché l’omogeneità razziale è un elemento di stabilità.

La dottrina di Saint-Loup non si manifesta dunque sotto la forma di un nazionalismo aggressivo ma si avvicina maggiormente ad un differenzialismo etnico. In altre parole solo colui che ama e vuole difendere il suo popolo è capace di amare ed apprezzare i popoli stranieri. L’affermazione del diritto alla differenza si sostituisce all’imperialismo e Saint-Loup può stigmatizzare l’universalismo come ideologia razzista. E’ proprio quello che si vede in La Nuit commence au Cap Horn, eccellente libro con i caratteri dell’affresco epico: gli indiani della terra del fuoco sono vittime di un pericoloso progetto di un pastore evangelico pieno di buone intenzioni ma incapace di concepire un modo d’esistere diverso dal suo. Un popolo soccombe al colonialismo cristiano perché il cristianesimo è inadatto all’ambiente in cui questo popolo evolve. La morte di una civiltà attraverso l’arrivo di missionari, funzionari, commercianti. Questa tematica è anche quella di La peau de l’aurochs (8) pubblicato per la prima volta nel 1954 e finalmente ristampato. Anche in questo libro una civiltà è minacciata di scomparire; un’invasione dittatoriale, la conquista della meccanizzazione che si sostituisce poco a poco alla tradizione rurale e cattolica locale.

Nelle opere di Saint-Loup la patria carnale appare allo stesso tempo come un’alternativa politica, sociale e religiosa. Politica inizialmente, poiché rappresenta un rifugio contro l’imperialismo. Sociale in seguito, poiché mira a rafforzare il senso della comunità, che è istinto puramente etnico. Si basa su ciò che Saint-Loup chiama “socialismo dell’azione” che è destinato a diventare la pietra angolare della nuova Europa e che si definisce come un socialismo radicato, un atteggiamento del cuore, della volontà, di opposizione alla logica astratta del marxismo-leninismo. La patria carnale è infine un’alternativa religiosa che ci permette di ricollegarci alle nostre radici pagane. Ad una concezione eroica della vita che il giudeo-cristianesimo, religione salvifica, ha soffocato. La patria carnale deve concepirsi in un certo senso come un ritorno alle fonti spirituali e sensoriali dell’uomo. “Si tratta per l’individuo di attingere alle fonti di vita eroiche ed estetiche, di ricevere quindi l’insegnamento del combattimento naturale e di tutto ciò che implica: selezione delle aristocrazie con la lotta per la vita, nuova nozione del diritto che si stabilisce più con l’azione del forte e del migliore, infine ricerca ed applicazione della nozione estetica e della vera grandezza (9)”. Il federalismo etnico di Saint-Loup porta in realtà una nuova concezione della società. Un paganesimo eroico e popolare che rimanda ad un’immagine più accettabile della persona umana.

N'oubliez jamais - Saint-Loup Nonostante le apparenti contraddizioni, l’itinerario politico di Saint-Loup obbedisce ad una logica perfettamente coerente, dove la volontà di affermarsi caccia le contrazioni ideologiche. Prende forma un mondo di grande salute fisica e morale dove tutti i popoli hanno il diritto di esistere, purché radicati nelle loro proprie culture. Nel tempo, Saint-Loup ha tessuto un opera sincera attraverso la quale si è espresso uno spirito libero, che ha pagato la sua libertà con la cospirazione del silenzio di cui si circonda il suo nome.

Note

1 Marc Augier, “Jeunesse d’Europe, unissez-vous!”, Conversazione del 17 maggio 1941 sotto gli auspici del Groupe Collaboration à la Maison de la Chimie - Paris.
2 Marc Augier, A la recherche des forces françaises, in La Gerbe, 4-9-1941 e 2-10-1941.
3 Marc Augier, La route de l’huile, in La Gerbe, 6-2-1941.
4 Occorre sempre avere lo spirito per comprendere l’itinerario politico di Saint-Loup, che ha fatto le sue prime esperienze politiche nell’ambito della sinistra “Fronte Popolare”. “Infatti Marc Augier fu uno dei principali animatori e ideologi del movimento Auberges de jeunesse (ostelli della gioventù, ajisme), fu redattore principale del periodico Cri des Auberges de Jeunesse (rivista del centro Laïc degli Auberges de Jeunesse), incaricato nel gabinetto di Léo Lagrange sotto governo del fronte popolare nel 1936 e vicino a Jean Giono, il suo riferimento ideale e maestro, con cui partecipò all’esperienza pacifista del Contadour. Per tutto questo periodo del dopo guerra, sono il pacifismo e volontà d’unire la gioventù europea che motivano il suo impegno. Rappresentante del CLAJ al Congresso Mondiale della gioventù che ebbe luogo negli Stati Uniti nel 1937, si rese tuttavia conto che i delegati comunisti si consegnavano ad una intensa propaganda bellicista contro la Germania e l’Italia. Da quella data manifesta i suoi primi sentimenti anticomunisti. Varie volte, dopo il 1941, Marc Augier considererà del resto la crociata europea contro il bolscevismo come il logico prolungamento della sua azione passata nell’ambito del movimento Ajiste.
5 Marc Augier, La fidélité des Nibelungen, in Le Combattant Européen, 30-9-1943.
6 Marc Augier, Ce siècle avait deux ans, in Le Combattant Européen, 15-6-1943.
7 Saint-Loup, Une Europe des patries charnelles?, in Défense de l’Occident, n°136, marzo 1976.
8 Saint-Loup, Peau de l’aurochs, Paris, Editions de l’Homme libre, 2000.
9 Marc Augier, Les Skieurs de la nuit, Paris, Stock, 1944, pp. 16-17.

In edizione italiana sono usciti presso l’editore Volpe e Sentinella d’Italia (via Buonarroti 4 – 34074 Monfalcone) le seguenti opere di Saint-Loup:

Saint-Loup, I volontari europei delle Waffen SS, Volpe, 1967 (curatore Adriano Romualdi).
Saint-Loup, Il sangue d’Israele, Sentinella d’Italia, 1975.
Saint-Loup, I velieri fantasma di Hitler, Sentinella d’Italia, 1978.
Saint-Loup, I volontari. Storia della LVF contro il bolscevismo, Sentinella d’Italia, 1983.
Saint-Loup, Gli eretici. Storia della Divisione SS “Charlemagne”, Sentinella d’Italia, 1985.
Saint-Loup, I nostalgici, Sentinella d’Italia, 1991.

Traduzione italiana di Harm Wulf.


Jérôme Moreau

jeudi, 16 avril 2009

La pazza del Bargello - Il d'Annunzio pagano

La pazza del Bargello.
Il D’Annunzio pagano

di Luca Leonello Rimbotti

Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

Come sappiamo, nella cultura europea a cavallo tra Otto e Novecento - corrosa dal degrado positivista - D’Annunzio ha significato la rivolta romantica e dionisiaca del gesto audace, dell’istinto vittorioso, dell’immersione nella sensualità selvatica. Era la rivendicazione di un patrimonio di atavismi che il razionalismo moderno stava spegnendo con la sua violenta irruzione nei mondi della tradizione: di qui l’amore per la bellezza dorica - che l’Immaginifico assaporò nella sua crociera greca del 1895 -, per il lusso dell’estetica, per la volontà di potenza che crea il Superuomo.

In D’Annunzio c’è la sintesi del volontarismo di Nietzsche, dello slancio vitale di Bergson e della filosofia dell’azione di Blondel: in lui dunque si riassumono al meglio - nella poesia, nella narrativa, nella vita vissuta e poi nell’interventismo eroico del “poeta-soldato” - tutti i patrimoni culturali e ideologici che la vecchia Europa rilancerà in chiave tradizionale e anti-modernista. E con D’Annunzio, infatti, avremo il tipico rappresentante di quella figura di esteta armato che dominerà gli eventi a partire dalla guerra del 1914: da Jünger a Marinetti, da Soffici a Péguy ai vorticisti inglesi.

I messaggi di egualitarismo democratico e di individualismo borghese con cui il progressismo stava già allora sfibrando le radici europee, vennero rovesciati con una rivolta neo-pagana, nuova e antica, intesa a impugnare l’identità arcaica come un’arma estetica, letteraria e, infine, anche politica. Nel tardo Ottocento, D’Annunzio è già una guida per queste energie antagoniste, che saranno l’avanguardia europea delle future rivoluzioni nazionali del XX secolo.

Incastonato tra La Vergine delle rocce del 1895 e Il Fuoco del 1900, cioè i due bastioni del sovrumanismo nietzscheano rielaborato da D’Annunzio, c’è un piccolo capolavoro di solito trascurato dagli esegeti - forse perché al frivolo pubblico parigino dell’epoca non piacque il suo andamento sofoclèo e a quelli di oggi giunge estranea ogni forma di pensiero mitico -, ma che ben si inserisce nel filone neo-pagano, che è il fulcro di tutta l’opera dell’Inimitabile. Alludiamo al Sogno di un mattino di primavera, dramma “rinascimentale” buttato giù alla svelta nel 1897, nello spazio di pochi giorni, per placare il dispetto di Eleonora Duse [nel ritratto sotto a sinistra], cui pochi mesi prima era stata preferita Sarah Bernhardt nel ruolo di protagonista della Città morta.

In questo apice di vis tragica che è il Sogno, D’Annunzio dà fondo alla sua inesauribile vena visionaria. Del personaggio principale, Donna Isabella, la Demente, impazzita per essersi vista uccidere dal marito l’amante stretto tra le braccia, egli fa un’icona dell’uscita dalla normalità attraverso il più atroce dolore. E dell’ingresso in quell’arcano spazio aperto che è la follia, la grande follia. D’Annunzio scrisse il Sogno di un mattino di primavera in piena febbre nietzscheana: aveva da poco scoperto la grandezza recondita del Solitario, fu anzi tra i primi in Europa a capirne e divulgarne il genio rivoluzionario, ne rimase impregnato e ne impregnò molta parte della sua opera: pensiamo al Trionfo della morte, del 1894, in cui il “superuomo” Giorgio Aurispa esalta il «sentimento della potenza, l’istinto di lotta e di predominio, l’eccesso delle forze generatrici e fecondanti, tutte le virtù dell’uomo dionisiaco».

E proprio nel Sogno noi ritroviamo, schermati dietro il tragico destino individuale della pazza Isabella, questi stessi valori. Ciò che D’Annunzio definiva essenzialmente come la «giustizia dell’ineguaglianza». La Demente - creatura per definizione ineguale, inassimilabile alla normalità che appiattisce e livella - diventa il lato femminile e notturno del suprematismo virile e attivo proclamato da D’Annunzio. Chiusa in un micromondo claustrale, circondata dalle attenzioni cliniche dei “normali”, la pazza d’amore è lo specchio teatrale della follia vera in cui si rinchiuse Nietzsche. Ricordiamo che quando D’Annunzio scriveva questa sua prosa tragica, Nietzsche era ancora vivo, ma già da anni tutto avvolto da una pazzia inespressiva, che aveva ormai già dato tutto, e che era il prezzo che dovette pagare per aver troppo a lungo fissato le voragini della mente. Come l’Isabella di D’Annunzio, Nietzsche visse i suoi ultimi anni sorvegliato a vista dai “vivi”, per lo più ignari di quale profonda sapienza ci possa essere in simili fughe dalla “normalità”.

Bisogna tornare più spesso al D’Annunzio “minore”, a quello del Libro ascetico della Giovane Italia, dei Taccuini, della Vita di Cola di Rienzo… e a quello del Sogno di un mattino di primavera. Quando ripenso al D’Annunzio folgorale e insieme notturnale, alla sua capacità medianica di trasferire nei posteri i suoi mondi di apparizioni e di presenze arcane attraverso sedute di veri e propri transfert scenici, mi torna alla mente una rappresentazione del Sogno a cui ebbi modo di assistere anni fa, nel cortile del Palazzo del Bargello di Firenze. Qui prese corpo, dapprima lentamente, poi in maniera trascinante, la rarissima sintesi tra l’eloquenza traboccante della parola dannunziana e l’eloquenza muta dell’antica pietra squadrata: il Bargello, austero palazzo medievale. Questo prezioso vestigio della Firenze gotica e ghibellina, spazio di severità duecentesca un tempo sacrario del potere popolare, sede del Podestà e della Guardia del Capitano del Popolo, eretto da un Lapo Tedesco che fu forse il padre di Arnolfo di Cambio, è il luogo che meglio si prestava alla congiura dannunziana tra raffinatezza dei sensi e rigore della volontà politica. Qui D’Annunzio soleva venire e tornare, fermandosi davanti alle opere del Verrocchio, di Benedetto da Maiano, del Laurana…dai suoi Taccuini sappiamo che fu più volte al Bargello negli anni della sua residenza alla Capponcina di Firenze: aggirandosi tra quei capolavori, gli venne l’idea di fare una delle sue coltissime citazioni. E nel Sogno fa dire a Isabella di un busto di Desiderio da Settignano che lei teneva amorevolmente sulle ginocchia, consumandolo di pianto e di carezze.

Il Sogno di un mattino di primavera è un cammeo di prodigi. Qui D’Annunzio l’occulto, l’uomo d’arme che conosceva le tecniche dell’estasi, che invocava gli attimi visionari, che era sciamano, taumaturgo e profeta, ci mette a contatto con una creatura esiliata dalla vita, ma aperta a valori di eccezionale trascendenza. La Pazza si è fatta fare una veste verde, vuole diventare natura, vuole essere selva: «Ora potrò distendermi sotto gli alberi…non s’accorgeranno di me…sarò come l’erba umile ai loro piedi…vedo verde, come se le mie palpebre fossero due foglie trasparenti…io potrò dunque con gli alberi, con i cespugli, con l’erba essere una cosa sola…». E si fa guanti di rami, stringe ghirlande, si fascia di fili d’erba, aspetta di farsi bosco per rivivere in natura la natura selvaggia del suo amore. Impossibile non riandare, davanti a tali celebrazioni, a quella passione per la dimensione dionisiaca e panteista che, ad esempio, traspare in certe inquadrature del Trionfo della morte: l’epopea del «dominatore coronato  da quella corona di rose ridenti di cui parla Zarathustra…». Qualcosa che ricorre di nuovo quando Giorgio Aurispa il solitario, nell’osservare il tramonto, sente pulsare gli annunci di Zarathustra nel trionfo di una natura esuberante, irta di colori che eccitano l’animo e fondono l’uomo con le più enigmatiche energie del creato. Perfetta creazione silvestre, simbolo compiuto di pagana immersione nella natura pànica, l’Isabella del Sogno reca anche archetipi di morte, di sangue e di scatenata sensualità.

Essa ci rimanda con naturale similitudine alla Wildfrau nordica, la “vergine selvatica” che percuote le notti durante la caccia selvaggia di Wotan, così come compare nel mito indoeuropeo della ridda, che accomuna mistero, magia e ancestrali terrori, giacenti nella sfera della natura barbarica e nel subconscio atavico dell’uomo: purissimo scrigno da cui sale - quando la si sa udire - la voce del sangue primordiale. Come spesso accade alla tregenda pagana, la morte e il dolore non sono tuttavia disgiunti da una sensualità istintuale. E, infatti, profondamente sensuale è il contatto di Isabella col corpo dell’amato morente, da cui sgorga sangue come da una fonte inesauribile. Il suo trauma si muta allora in una sorta di allucinazione orgasmica:

«…La sua bocca mi versava tutto il sangue del suo cuore, che mi soffocava; e i miei capelli n’erano intrisi; e il mio petto inondato; e tutta quanta io ero immersa in quel flutto…com’erano piene le sue vene e di che ardore! Tutto l’ho ricevuto sopra di me, fino all’ultima stilla; e gli urli selvaggi che mi salivano alla bocca io li ho rotti coi miei denti che stridevano, perché nessuno li udisse…».

In brani di rapimento erotico come questo - in cui, tra l’altro, non si è lontani neppure dagli estatici abbandoni alla voluttà del sangue presenti, ad esempio, nelle lettere di Santa Caterina da Siena: «Annegatevi nel sangue del Cristo crocifisso, bagnatevi nel sangue, saziatevi di sangue…» -, noi riconosciamo una miriade di rimandi alla sacralità pagana e neo-pagana del sangue, ai suoi occulti poteri fecondanti, alle sue qualità misteriche di infondere vita ulteriore, e proprio quando fuoriesce in fiotti, come seme di vita, da un corpo in travaglio di morte.

Basterà ricordare la libido di sangue ossessivamente presente nella tragedia greca, capace di celebrare l’amore di rango come una lotta spasmodica che non fa più differenza tra la vita e la morte, che riconosce nella carne viva, nel segno sensuale, un universo infinito, confine tra saggezza e follia scatenante: Pentesilea, ad esempio,  di cui Kleist fece un superbo affresco del dramma romantico…ferro di lame e di scudi, ma anche di cuori. Tutto questo ebbe riverberi nella nostra poesia nazionalista dei poeti-soldati volontari nella Grande Guerra: amore e lotta celebrati in nozze mistiche di sangue. Ad esempio, in Vittorio Locchi o in Giosuè Borsi, il sangue dell’eroe caduto e riverso al suolo, con la bocca a toccare il terreno come in un bacio, diviene seme generatore, potenza che feconda la terra redenta, paragonata a una sposa che si lasci inondare il grembo dal flusso ancora caldo dello sposo morente. Nel poemetto di Locchi, un tempo famoso, intitolato La sagra di Santa Gorizia, la città da liberare attende il suo eroe come un’amante fremente: «Amore, amore dolce, mi vedi? Amore dolce, mi senti? - chiede l’amata - Quanti tormenti ancora, quanti tormenti prima degli sponsali?». È un misticismo di visionaria trance erotico-guerriera, che certo rinnova esplicitamente gli arcaici connubi di Eros e Thànatos. Ed è in un trionfo di celebrazioni al benigno destino, alla vita che vince la morte, alle armi che liberano lo spirito, che avviene alla fine l’apoteosi trasfiguratrice dell’unione tra la città-femmina, finalmente liberata, e il vittorioso eroe liberatore.

L’amore - ma non solo quello letterario, proprio quello vero…ma certo non quello “comune”…- è sempre a un passo dalla pazzia: c’è un frammento del Sogno, in cui Isabella viene assalita da gelido terrore nel vedere una coccinella posatasi sul suo candido braccio e da lei creduta una goccia di sangue: esatta trasposizione della demenza che impietrisce Parsifal nell’osservare la rossa goccia di sangue di un passero sulla neve immacolata…

Detto per inciso, sottesa al Sogno leggiamo una - certo non casuale - combinazione di fine simbolismo cromatico: il bianco dei lunghi capelli e dello spettrale volto di Isabella, il verde della sua mimesis selvatica e il rosso del sangue dell’amato: ed ecco qua i tre colori per i quali l’Orbo Veggente andrà a rischiare la vita, ormai anziano, sui fronti della Grande Guerra…È in situazioni come queste che noi, più che altrove, apprezziamo la fantastica capacità dannunziana di intrecciare una raffinata sensibilità con il primario istinto di vita. Se c’è un luogo in cui la follia diventa mistica percezione dell’Altrove, magia di poteri visionari, potenza che fonde in un unico rogo  il dolore e la gioia, questo è l’amore pazzo e disperato: quello profondamente filosofico di Nietzsche, come quello semplicemente umano di Isabella. D’Annunzio, alla sua maniera di grande sensitivo, li visse e li rappresentò entrambi.

E li rappresentò anche nella vita vera vissuta, magari alla maniera di un sacerdote pagano che solennizzasse i riti della terra e del sangue. Tra i suoi amori folli, c’era infatti, e non minore, anche quello per l’Italia. Un suo legionario ricordò un giorno di  come, già vecchio e cadente, al Vittoriale ogni tanto il Comandante amasse celebrare occulte comunioni insieme ai suoi fedelissimi: «sovente, la notte, adunato un piccolo numero di fedeli, alla rossastra luce fantastica di torce resinose, parla della nostra terra e della nostra stirpe, della nostra guerra e dei nostri Morti, dei nostri mari e delle nostre glorie; qui i compagni lo ritrovano, lo rivedono e lo risentono, come in trincea e come a Fiume». Una liturgia nibelungica per eredi della razza di Roma: esisteranno ancora da qualche parte, dispersi, solitari, silenziosi, uomini simili?

 

samedi, 11 avril 2009

Céline - Hergé, le théorème du perroquet

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Céline – Hergé, le théorème du perroquet

 

 

Dans son dernier ouvrage  intitulé Céline, Hergé et l’affaire Haddock ¹, notre brillantissime ami Émile Brami, nous expose sa théorie sur les origines céliniennes des célèbres jurons du non moins célèbre capitaine. Même s’il ne dispose pas de «  preuves » en tant que telles, l’on ne peut être que troublé par ces faisceaux qui lorgnent tous dans la même direction. En attendant l’hypothétique découverte d’une lettre entre les deux susnommés ou d’un exemplaire de  Bagatelles pour un massacre  dans la bibliothèque Hergé, nous en sommes malheureusement réduits aux conjectures. Pendant la rédaction de son livre, j’indiquais à Émile Brami quelques hypothèses susceptibles de conforter sa thèse. Par exemple, est-ce que le professeur Tournesol et Courtial de Pereires partagent le même géniteur ? etc. C’est un heureux hasard qui me  fit découvrir un autre point commun entre le dessinateur de  Bruxelles et l’ermite de Meudon. Hasard d’autant plus intéressant, qu’à l’instar de Bagatelles pour un massacre, les dates concordent.  Si  les premières  recherches  furent encourageantes, l’on en est également réduit aux hypothèses, faute de preuve matérielle.

    Grâce aux nombreuses publications dont Hergé est l’objet, l’on en sait beaucoup plus sur la genèse de son œuvre. Grâce aux travaux de Benoît Mouchard ², on connaît maintenant le rôle primordial qu’a joué Jacques Van Melkebeke dans les apports « littéraires » de Tintin. Mais surtout les travaux d’Émile Brami ont permis, pour la première fois, de faire un lien entre les deux, et de replacer la naissance du capitaine Haddock et la publication de Bagatelles pour un massacre dans une perspective chronologique et culturelle cohérente. Néanmoins, il n’est pas impossible que d’autres liens entre Céline et Hergé figurent dans certains albums postérieurs du Crabe aux Pinces d’or.

    Le lien le plus « parlant », si l’on ose dire, entre le dessinateur belge et l’imprécateur antisémite est un perroquet, héros bien involontaire des Bijoux de la Castafiore.

 

    Lorsque Hergé entame la rédaction de cet album au début des années 1960, il choisit pour la première (et seule fois) un album intimiste. Coincé entre Tintin au Tibet et Vol 714 pour Sydney, Les Bijoux de la Castafiore a pour cadre exclusif le château de Moulinsart. Tintin, Milou, Tournesol et le capitaine Haddock ne partent pas à l’aventure dans une contrée lointaine, c’est l’aventure qui débarque (en masse) chez eux. Et visiblement, l’arrivée de la Castafiore perturbe le train-train habituel de nos héros. Les Bijoux de la Castafiore offre également l’intérêt d’être un album très « lourd » du point de vue autobiographique, avec des rapports ambigus entre la Castafiore et Haddock (projets de mariage), des dialogues emplis de sous-entendus (« Ciel mes bijoux ») et, au final, bien peu de rebondissements et d’action. Néanmoins, au milieu de ce joyeux bazar, émerge un élément comique qui va mener la vie dure au vieux capitaine. C’est Coco le « perroquet des îles », qui partage de nombreux points communs avec Toto, le non moins célèbre perroquet de Meudon.

 

    Tout d’abord, il y a l’amour que Hergé et Céline portent aux animaux. L’œuvre d’Hergé est truffée de références au monde animal ; quant à Céline, il transformera son pavillon de Meudon en quasi arche de Noé… Mais revenons aux deux psittacidés. Dans les deux cas, les perroquets sont offerts par des femmes. Lucette achète le sien sur les quais de la Mégisserie. La Castafiore destine « cette petite chose pour le capitaine Koddack ». Dans les deux cas, Céline et Haddock ne sont pas particulièrement ravis de voir arriver l’animal dans leur demeure. Mais au final, ils finissent par s’y faire, voire s’en réjouissent. Céline fait de son perroquet un compagnon d’écriture, le capitaine Haddock s’en sert pour jouer un mauvais tour à la Castafiore. Autre élément commun, les deux perroquets portent presque le même nom ; « Toto » pour celui de Céline, et « Coco » (avec un C comme Céline ?) pour celui de Haddock. Certes, ce n’est pas d’une folle originalité, mais bon… Détail intéressant, les deux espèces sont différentes. Lucette rapporte à Meudon un perroquet gris du Gabon (Psittacus erithacus, communément appelé « Jaco » ³). La Castafiore offre un perroquet tropical (Ara ararauna 4). Autre détail intéressant, dans les deux cas, les perroquets parlent. Céline apprend au sien quelques mots, et même un couplet de chanson. Celui de Haddock se contente de répéter des phrases. Or de ces deux perroquets, le seul qui a la capacité de retenir quelques mots, et de parler, est bel est bien le perroquet gris du Gabon. Le perroquet tropical peut reproduire des sons (téléphone, moteur de voiture, etc.) mais il ne possède pas les capacités vocales que lui prête Hergé. Est-ce une erreur délibérée ? Est-ce que la documentation d’Hergé était défaillante ? Est-ce dû à l’ajout précipité du perroquet dans Les Bijoux de la Castafiore ? Cette dernière hypothèse a notre préférence.

 

    L’autre élément qui accrédite l’hypothèse du perroquet est chronologique. La conception des Bijoux de la Castafiore et la mort de Céline sont concomitantes. Alors qu’Hergé est en train de construire l’album, Céline décède, en juillet 1961. Si peu de journaux ont fait grand cas de cette nouvelle, Paris-Match évoquera, dans un numéro en juillet et un autre, en septembre 1961, la disparition de Céline (et d’Hemingway, mort le même jour). Largement illustrés de photographies, deux thèmes récurrents se retrouvent d’un numéro l’autre : Céline et son perroquet Toto. Dans son numéro de juin, Paris Match s’extasie devant la table de travail de Céline sur laquelle veille le perroquet, dernier témoin (presque muet) de la rédaction de Rigodon... Dans le numéro de septembre, l’on peut voir la photographie de Céline dans son canapé, avec Toto, ultime compagnon de solitude.

    Grâce aux biographes d’Hergé, on sait que ce dernier ne lisait pour ainsi dire jamais de livres. Quand il s’agissait de ses albums, il demandait à ses collaborateurs de préparer une documentation importante afin qu’il n’ait plus qu’à se concentrer sur le scénario et le dessin. Éventuellement, il lui arrivait de rencontrer des personnes idoines qu’il interrogeait sur un sujet qui toucherait de près ou de loin un aspect de ses futurs albums (Bernard Heuvelmans, pour le Yéti, par exemple…). Si Hergé lisait peu de livres, on sait, par contre, qu’il était friand de magazines 5 et qu’il puisait une partie de son inspiration dans l’actualité du moment. La grande question est : a-t-il eu dans les mains les numéros de Paris-Match relatant la mort de Céline ? C’est hautement probable car l’on sait qu’il lisait très régulièrement ce magazine. S’en est-il servi pour Les Bijoux de la Castafiore ? Pour cela, il suffit de comparer la photographie de Céline dans son canapé à Meudon, à celle de Haddock dans son fauteuil, à Moulinsart. La comparaison est probante.

 

    En voyant ainsi Céline et son perroquet dans Paris-Match, Hergé s’est-il souvenu des conversations qu’il avait eu autrefois à ce sujet avec Melkebeke ou Robert Poulet ? A-t-il admiré autrefois Céline, non pas forcément comme écrivain, mais comme « idéologue » antisémite ? A-t-il décidé de faire un petit clin d’œil discret au disparu en reprenant son fidèle perroquet ? Malheureusement, il est encore impossible de répondre. Lentement, les éditions Moulinsart ouvrent les « archives Hergé » en publiant chaque année un important  volume  chronologique sur la genèse des différentes œuvres du dessinateur. À ce jour, ces publications courent jusqu’aux années 1943, et il faudra attendre un petit peu pour en savoir plus sur la genèse des Bijoux de la Castafiore et de son célèbre perroquet.

   Reste néanmoins un élément troublant. Dans son livre, Le Monde d’Hergé 6, Benoît Peeters publie la planche qui annonce la publication des Bijoux de la Castafiore dans les prochaines livraisons du Journal de Tintin. Sur cette planche apparaissent tous les protagonistes du futur album, Tintin, Haddock , les Dupond(t)s, Tournesol, Nestor, la Castafiore, Irma, Milou, le chat, l’alouette, les romanichels, etc. Mais point de perroquet, qui pourtant a une place beaucoup plus importante que certains protagonistes précédemment cités. Hergé a-t-il rajouté Coco en catastrophe ? Coco était-il prévu dans le scénario d’origine ? Pourquoi Hergé fait-il parler un perroquet qui ne le pouvait pas ? Erreur due à la précipitation ? Ou à une mauvaise documentation ? Est-ce la vision de Céline et de son compagnon à plumes qui ont influencé in extremis cette décision en cours de création ? Détail intéressant, dans ses derniers entretiens avec Benoît Peeters, Hergé avoue qu’il aime se laisser surprendre : « J’ai besoin d’être surpris par mes propres inventions. D’ailleurs, mes histoires se font toujours de cette manière. Je sais toujours d’où je pars, je sais à peu près où je veux arriver, mais le chemin que je vais prendre dépend de ma fantaisie du moment » 7. Coco est-il le fruit de cette « surprise » ? À ce jour, le mystère reste entier, mais peut-être que les publications futures nous éclaireront sur ce point… Il serait temps ! Mille sabords !

 

David ALLIOT

 

1. Éditions Écriture. Les travaux d’Émile Brami sur Hergé et Céline ont été présentés au colloque de la Société d’Études céliniennes de juin 2004 à Budapest, et  partiellement publiés par le magazine Lire de septembre 2004.

2. Benoît Mouchart, À l’ombre de la ligne claire, Jacques Van Melkebeke le clandestin de la B. D., Vertige Graphic, Paris, 2002.

3. Il est amusant de noter que ce perroquet est relativement courant dans les forêts du golfe de Guinée, et que sa répartition s’étend de l’Angola jusqu’à en Sierra Leone. Peut-être que le jeune Louis-Ferdinand Destouches en vit-il quelques-uns lors de son séjour au Cameroun…

4. Originaire d’Amérique du Sud, ce perroquet ne vient nullement « des îles », comme l’indique la Castafiore.

5. Hasard ? Les Bijoux de la Castafiore évoque justement le poids grandissant des médias dans la société.

6. Benoît Peeters, Le Monde d’Hergé, Casterman, 1983.

7. In Le Monde d’Hergé, entretien du 15 décembre 1982. Cité également par Émile Brami, p. 73.

vendredi, 03 avril 2009

Edgar Poe, une modernité de droite

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Edgar Poe, une modernité de droite

Nicolas Bonnal : Ex: http://www.philipperanda.com/

Nous fêtons le bicentenaire de la naissance d’Edgar Poe, venu au monde lorsque la littérature nord-américaine regorgeait de talents comme Hawthorne, Whitman ou Melville, au point que Borges parlait d’une concentration astronomique pour expliquer une telle densité de génies. Mais à l’époque la France ou la Russie en regorgeait aussi, de génies.
Écartons tout d’abord la polémique très médiocre qui a fait de Poe un écrivain ignoré dans son pays et reconnu en France. Il était connu dans son pays, et il a été l’inspirateur de la poésie moderne française. Sans lui, nous n’aurions eu ni Baudelaire, ni Mallarmé, ni le culte des poètes maudits. Et contrairement à ce que dit la critique, Poe n’a pas été trahi en France.
Bien des traits d’Edgar Poe demeurent essentiels à nos yeux.
Tout d’abord son rejet de la démocratie et du règne de la « canaille », comme il disait. Poe un farouche sudiste, un patricien d’adoption attaché à sa vieille Angleterre et à sa classe aristocratique. Ce snobisme littéraire va retentir dans toute la littérature française des deux siècles suivants…
Ce faisant Poe invente un littéraire dandy, décalé, d’ailleurs alcoolique et mauvais garçon. Il est un « Bohemian Tory », un artiste et un homme inadapté à la vie moderne. Il se projette dans des mondes aristocratiques comme celui d’Ellison ou de la maison Usher et ces mondes aristocratiques, médiévaux et gothiques sont condamnés. Neruda n’avait pas voulu survivre à la dictature de Pinochet, l’écrivain gothique ne veut pas survivre à la démocratie matérialiste et vulgaire. Cela peut conduire à une surdimension de l’ego, à une fatuité provocatrice caractéristiques des artistes modernes. Mais Poe, Nerval ou Baudelaire ont bien souffert.
Dans le même temps, en bon américain, Poe était un professionnel, un journaliste. Il a joué des scoops, des canulars, de sa traversée de l’Atlantique en trois jours (en ballon) et il s’intéressait à tous les sujets modernes : les placements financiers, les découvertes scientifiques, le sport (comme Lord Byron, il était excellent nageur), tout ce qui était susceptible d’intéresser son lectorat. Il redevenait vite plébéien lorsqu’il s’agissait de gagner sa vie…
Valéry avait été fasciné par la présentation du Corbeau, où certains, toujours plus malins, voient encore un canular, tout comme ils voient du racisme dans le voyage initiatique d’Arthur Gordon Pym. Mais Poe impose ici une vision neuve de la poésie, éloignée de l’histrionisme et de l’inspiration. La poésie est affaire de travail et de technicité, comme les contes policiers. Poe impose une figure du travailleur, je dirais même de l’entrepreneur intellectuel, véritable professionnel consacré au travail du vers et du conte.
Dans le même temps qu’il révolutionne la forme, Poe révolutionne le fond. Il n’est évidemment pas le seul, s’il est l’un des plus importants à se passionner pour le fantastique, le macabre, l’étrange, la fantaisie et même l’ésotérisme pur et dur. Son immense culture et sa formation cosmopolite et européenne lui ont ouvert des horizons que son talent sophistiqué a pu ciselé à souhait. Poe est le grand-père de Tim Burton de ce point de vue et de tout le cinéma fantastique moderne.
Son goût très anglo-saxon pour les énigmes, les situations et les scénarii compliqués : Poe invente avec son très chic détective français Dupin le roman policier, dont les origines théologiques sont également évidentes. Mais, en même temps, il déploie des trésors d’ingéniosité scientifiques et expérimentales qui en font un écrivain encore plus complet que son parèdre Chesterton. Sa francophilie, caractérisitique des élites americaines, est encore à souligner.
Je terminerai cet hommage par un rappel de la face d’ombre de notre aristocrate libertaire : Poe était un alcoolique, un joueur, un drogué, un homme obsédé par les jeunes innocentes (qui n’étaient d’ailleurs pas plus jeunes que la Juliette de Shakespeare). Poe joue au vicieux, il est désespéré, torturé, ambitieux dans le mal, dépravé, découragé. En ce sens aussi il est prophète ébouissant de nos Temps de la Fin, caractérisés par une frénésie nihiliste.

jeudi, 02 avril 2009

Alexander Solzhenitsyn (1918-2008)

 

 

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Alexander Solzhenitsyn (1918-2008)

 

por Gonzalo Rojas Sánchez  / Ex: http://www.arbil.org/

Solzhenitsyn fue heroico para denunciar a Occidente y a sus mediocridades: "Soy critico de un hecho que no podemos comprender: cómo se puede perder el vigor espiritual, la fuerza de la propia voluntad y, teniendo libertad, no apreciarla, no estar dispuesto a hacer sacrificios por ella."

Ha muerto un coloso. Después de casi 90 años intensos y fecundos, Alexandr Solzhenitsyn ha sellado su vida de modo paradojal: le ha fallado el corazón a uno de los hombres de mayor fuerza cordial del siglo XX.

Un héroe, eso fue el ruso más importante de la centuria pasada. Ante todo -y lo dejaremos hablar a él en estas líneas- fue heroico en la crítica, porque después de lograr sobrevivir a 8 años de trabajos forzados, dio a conocer al mundo el stalinismo, el sistema más opresivo y criminal que jamás se haya diseñado y practicado. Ese sistema por el que "Iván Denisovich había perdido la costumbre de pensar en lo que ocurría al día o al año siguiente, y de qué alimentaría a su familia; la dirección del campo lo pensaba todo por él." Ese sistema en el que "el plato de sopa importa más que la vida que llevaron antes y la que todavía les queda." Es el Gulag, esa palabra ya indeleblemente asociada a Solzhenitsyn y que desde su valiente denuncia estremece a todos, menos a los pocos comunistas aún vigentes.

Además, el premio Nobel practicó más adelante el heroísmo para criticar, cuando ya había sido acusado de antisoviético y corría el riesgo de ser nuevamente encarcelado o proscrito. ¿Quién sino él podía decirle por escrito a los líderes soviéticos que "no abrigo muchas esperanzas de que ustedes se dignen examinar ideas que no me han sido formalmente solicitadas, aun cuando provienen de un compatriota de rara índole; uno que no está en una escala subordinado al mandato de ustedes, que no puede ser despedido de su puesto, ni degradado o promovido o recompensado por uds.?" Sólo podía hablar así a esos burócratas del crimen un hombre heroico en el dominio y en el ejercicio de su libertad interior. Lo hacía porque tenía claro que "el marxismo siempre se ha opuesto a la libertad; el comunismo jamás ha ocultado el hecho de que rechaza todos los conceptos absolutos de moralidad; se mofa de toda estimación del 'bien' y del 'mal'."

Una vez expulsado de la URSS, Solzhenitsyn fue heroico para denunciar a Occidente y a sus mediocridades: "Soy critico de un hecho que no podemos comprender: cómo se puede perder el vigor espiritual, la fuerza de la propia voluntad y, teniendo libertad, no apreciarla, no estar dispuesto a hacer sacrificios por ella."

Vuelto a la Rusia post soviética en 1995, no vaciló en criticar su estado lamentable. "Rusia está pisoteada, hecha girones; han saqueado a Rusia, la han vendido a precio vil, pero hay algo más aún terrible: ¿de dónde vino esta tribu, cruel, bestial, estos ladrones codiciosos que se apropiaron hasta del título de nuevos rusos, que engordaron con tanto placer y elegancia con la desgracia de nuestro pueblo? Más funesta que nuestra miseria es esta deshonra ostensible, esta vulgaridad depravada y triunfal que se ha infllitrado en las capas superiores del Estado."

Pero la suya no fue una voz siempre ácida, sino que también iluminó caminos futuros y propuso nobles desafíos.

A los soviéticos les dijo: "Desechen esta ideología llena de grietas; cédansela a los rivales de ustedes: dejen que se vaya donde quiera; déjenla que siga de largo y se aleje de nuestro país como la nube de una tormenta, como una epidemia."

Y a Occidente lo interpeló: "Si no aprendemos a limitar drásticamente nuestros deseos y demandas y subordinar nuestros intereses a criterios morales, nosotros, la humanidad, sencillamente nos desgararremos, ya que los peores aspectos de la naturaleza humana sacarán a relucir sus colmillos; en la circunstancias cada vez más complejas de nuestra modernidad, el imponernos límites a nosotros mismos es la única senda que verdaderamernte hará posble nuestra preservación; la felicidad no reinará en nuestro planeta, no nos será concedida con tanta facilidad."

Pero sobre todo, en su patria clamó: "El camino es largo, muy largo. Si bajamos por la pendiente durante casi un siglo, ¿cuánto tiempo nos llevará subirla? Años y años, sólo para tomar conciencia de todas las pérdidas, de todos los males. (Š) En la Rusia actual, pervertida, arruinada, desconcertada, asplastada, es evidente que sin el apoyo espiritual de la Iglesia Ortodoxa jamás nos levantaremos; si no somos una manada de seres irracionales, necesitamos un fundamento respetable para nuestra unidad."

Se fue una presencia; quedó una voz rotunda, colosal.

·- ·-· -······-·
Gonzalo Rojas Sánchez

mercredi, 01 avril 2009

Entretien sur Céline avec Philippe Alméras

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Entretien avec Philippe Alméras

 

 

Philippe Alméras est un personnage controversé dans le petit monde des  céliniens. Nous avons déjà dit ici ce que nous pensions de sa biographie de Céline qui n’est assurément pas un modèle d’équanimité. Au moins lui reconnaîtra-t-on une puissance de travail peu commune. Ainsi c’est entièrement seul qu’il a rédigé un Dictionnaire Céline, coiffant ainsi au poteau les autres céliniens qui nourrissaient ce projet. Nous l’avons rencontré pour lui poser quelques questions sur un sujet qui l’occupe  depuis  quarante ans et dont ce dictionnaire est l’aboutissement.

 

Comment vous est venue l'idée de ce Dictionnaire Céline ?

 

Accidentellement : j'avais oublié mon ordinateur portable dans le train de Paris. Aussitôt signalée, la perte a été déclarée irréparable : « On ne retrouve jamais les ordinateurs ». J'en ai donc acheté un autre. Fourni sans la moindre notice d'instruction, naturellement. Pour apprendre à m'en servir, découvrir par exemple la touche qui mange le texte, j'ai eu l'idée de transcrire mes notes, fiches, entretiens, tout cela vieux souvent de trente ans et plus. Et l'ordre alphabétique allait de soi.

 

Habituellement, ce genre d'ouvrage est le résultat d'un travail d'équipe. La tâche ne vous a pas paru colossale pour un seul homme ?

 

À vrai dire, je ne me suis rendu compte de ce que je faisais qu'après 200 ou 300 pages. Si je m'étais mis en tête de réunir un Dictionnaire de 850 pages, le « colossal » de la chose m'aurait probablement inhibé et nous en serions encore au projet.

 

Si cela avait été possible, auriez- vous souhaité travailler dans une équipe ou préférez-vous, somme toute, le cavalier seul ?  

 

Il y avait, lorsqu'une indiscrétion a révélé mon travail en cours, deux ou trois projets similaires. Quelqu'un a proposé une conjonction des données et des talents. Cela ne s'est pas fait. Je le regrette et je ne le regrette pas : ce que ce Dictionnaire aurait gagné en précision, il l'aurait sans doute perdu en spontanéité. Est-ce vraiment un hasard si ce genre de travail est toujours la responsabilité d'un seul et si les œuvres collectives aboutissent souvent à des mishi-mashi de cotes mal taillées ? Tu me laisses ceci, je t'accorde cela.

 

Comment avez-vous conçu ce Dictionnaire ?

 

Il s'est façonné de lui-même chemin faisant. Une entrée en appelait une autre, un dépouillement d'autres dépouillements. J'avais intégré les témoignages reçus, ils ont failli disparaître lorsque tel éditeur candidat les a jugés diffamatoires ou futiles.

 

Les céliniens vous ont souvent reproché une trop grande partialité à l'égard de votre sujet. Pensez-vous que ce Dictionnaire soit susceptible de provoquer à nouveau ce type de critiques ?

 

Cette partialité m'a été pour ainsi dire laissée en lot, les autres ne parlant que sources, références, tours de mains, etc. Mon premier travail visait à décrire le passage de Mort à crédit aux Bagatelles, du « roman » au « pamphlet ». Devant l'impossibilité de le faire recevoir ou même lire, je me suis obstiné à présenter mes petites trouvailles, et certains disent avec raison : la problématique de Céline a changé.

Cela dit, et cela dépassé, la forme du Dictionnaire est en soi objectivante. Elle oblige à aborder chaque chose sous ses angles divers et la promenade d'une entrée à l'autre fait le reste. Le fait même de pouvoir retrouver tel fait et telle citation et de les comparer à tels autres est en  soi  instructif.  J'ai beaucoup appris à le faire. D'ailleurs, je ne suis pas resté seul longtemps même si le fait de dire qu'il s'agissait d'un travail personnel et subjectif a protégé l'entreprise qui ne manquait pas de concurrents.

 

Les notices de ce Dictionnaire ne sont pas seulement consacrées à des personnages mais aussi à des thèmes. Sur quels critères se sont fondés vos choix ?

 

Le premier critère était de faire figurer tout ce dont nous disposons aujourd'hui. Le second de traiter sa production sans exclusive comme cela se fait souvent au nom des bonnes mœurs ou des bons sentiments. Céline en trente ans d'activité a abordé des thèmes et des genres différents selon une progression et des modalités dont la continuité n'apparaît pleinement qu'après 1961. Au Dictionnaire de mettre cela à jour.

 

En quoi Céline est-il, selon vous, un grand écrivain ?

 

Je pourrais vous dire, comme tel autre, que le fait d'être publié dans La Pléiade est une garantie. Ce serait peut-être un peu court. Répondre qu'on le trouve prodigieusement doué, avec son goût des « diamants du langage parlé » ne serait même pas suffisant. Il ne faut pas oublier que ce qu'il dit – juste ou faux – est au moins aussi intéressant que la façon dont il le dit. Dans sa langue de prédilection – celle de la pré-Renaissance – on faisait la distinction entre « matire » et « sen ».  C'est la combinaison qui fait bien sûr Céline : sans tabous ni précautions, il cite son temps comme le toréador cite le taureau. Ce n'est pas la meilleure des métaphores s'agissant de l'homme de tous les égards et de toutes les tendresses  envers  les  animaux, mais je n'en vois dans la minute pas d'autre.

Comme le pays (lui avec) s'est refait une mémoire littéraire et historique à l'automne 44, il reste le seul à parler de ce dont il est convenu jusqu'à nouvel ordre de ne plus parler. C'est, après  érosion, comme ces témoins de pierre des grands déserts d'Anatolie : indestructible.  

 

Le fait que le Dictionnaire soit l'œuvre d'un seul auteur en fait quelque chose de très personnel : un Dictionnaire certes, mais en même une sorte de « Céline vu par Alméras ». Récusez-vous cette façon de considérer votre travail ?

 

Le « Céline vu par Alméras » reste encore à écrire. Il faudra que je le définisse d'abord. Ce Dictionnaire est à cette date mon travail le moins personnalisé. J'y ai rassemblé les pièces disponibles du puzzle célinien en m'efforçant d'envisager tous les angles et en donnant la parole à tout le monde. Nommément, ce qui devrait fournir à chacun l'occasion de répondre pour corriger ce qui lui paraîtra encore trop interprété. Cela devrait favoriser le rapprochement des diverses obédiences. Les clivages entre céliniens me paraissent dus à la particularité des parcours et aux options politiques prêtées à l'autre. Sur les faits tout le monde se rejoint.

 

En quoi ce Dictionnaire est-il aussi redevable au journaliste que vous fûtes ?

 

J'ai utilisé certainement des approches apprises à Réalités-Entreprise où je m'étais fait une spécialité paresseuse des portraits de dirigeants. Il existe une technique de l'interview. Dans le journalisme j'ai aussi appris le devoir absolu de ne pas ennuyer à mort le lecteur ou l'auditeur. Mais à ce compte une bonne partie des céliniens sont journalistes d'autant que tous ou à peu près tous ont interrogé les témoins du temps. Moi, quand je me suis rendu compte que je n'obtiendrais pas par cette voie la réponse à la question posée  (quelles était la vision du monde et les opinions de Céline entre 1927 et 1936 ?), ce sont les textes que j'ai interrogés, et c'est le chartiste qui a découvert que – pour citer un exemple marquant – ce que Céline avait vraiment écrit dans telle lettre à Élie Faure, ce qui libérait la datation des « mauvaises idées ». Joie lorsque les photocopies ont confirmé ma radiographie. Et certitude dès lors d'aller dans la bonne direction.

 

La manière dont vous considérez l'homme Céline n'a pas toujours été empreinte de la plus grande bienveillance. Mais ne considérez-vous pas qu'il s'agit en l'occurrence d'une personnalité très ambivalente ?  Tour à tour radin et généreux, méfiant et imprudent, courageux et timoré, cynique et sentimental, etc.

 

Il était effectivement tout ce que vous dites, et tout à la fois mais n'est-ce pas notre sort à tous si nous sortons du type : l'avare, le malade imaginaire, Don Juan… et si nous entrons dans la carrière sans plan à la main ? Cette question de « bienveillance »  me reste toujours aussi peu compréhensible. C'est un effet du Céline entre haines et passion où j'ai mis à jour tout ce que je savais alors de la vie de Céline. M'entendre dire que j'avais écrit un livre   haineux  ou   me  voir  décrit à d'innocents étrangers comme « l'auteur d'une biographie extrêmement hostile à Céline » me déconcerte alors comme maintenant. S'il s'était agi de témoigner devant un tribunal, l'exercice serait différent. Je mentirais avec l'accusé. Céline ne risque plus sa peau. Céline ne faisait pas dans l'eau tiède et rarement dans la bienveillance. Il avait le regard aigu et la dent dure. Ceux qui lui veulent le plus de mal sont à mon sens ceux qui occultent, travestissent son œuvre et font de lui un délirant : « Céline the fou » décrit dans les endroits les plus inattendus. J'ai conscience pour ma part de lui avoir rendu la santé mentale et des dents : est-ce malveillant ?

 

Commentant votre biographie, Henri Godard a écrit qu’on avait l’impression de lire la vie d’un second Drumont (et donc que l’accent n’était pas suffisamment mis sur l’écrivain). Que pensez-vous de cette observation ?

 

Êtes-vous sûr qu'il a écrit cela ? Et que cela a été imprimé ? Je ne l'ai pas lu. La seule biographie de Drumont que je connaisse est celle de Bernanos que Céline a pu lire en 1932. En voilà un qui n'hésitait pas. Il faut supposer que Godard a voulu me flatter, ce qui n'est pourtant pas son genre. Il est vrai que le lyrisme mystico-patriote de Bernanos n'est pas non plus le mien.  Peut-être aussi est-ce la « grande peur » que Godard dit lui-même éprouver qui a amené Drumont sous ses doigts. Passons.

 

Comment jugez vous les travaux de vos confrères céliniens ? Quels ont été, de votre point de vue, les apports décisifs ?

 

Ils ont tous eu leur importance ou leur intérêt même si je m'attache plus aux coups de projecteurs et aux apports factuels qu'aux paraphrases et aux commentaires. Merci à ceux qui ont apporté des documents (Lainé les lettres à Garcin, Nettelbeck les lettres à Cillie Pam, Pécastaing les lettres à Zuloaga et ainsi de suite). Celui qui a fait le travail documentaire le plus important est évidemment Jean-Pierre Dauphin. On peut regretter le coup de sang ou le point d'honneur qui lui a fait quitter la partie dont il s'exagérait à mon avis les dangers et les enjeux.

 

Pour vous, le « fil rouge » de l’œuvre de Céline est ce racisme biologique que vous voyez apparaître très tôt et qui est présent jusque dans l’ultime Rigodon. Même si cet aspect de l’œuvre n’est pas négligeable, n’avez-vous pas l’impression d’avoir tellement mis l’accent sur ceci qu’il semble que, pour Céline lui-même, son travail d’écrivain était subordonné à cette préoccupation ?

Ce fil, c'est vous qui le voyez. Céline, personne ne le nie, a cru au corps, à la santé du corps, au dépassement du corps, comme tout le monde aujourd'hui (sport, beaux enfants, pas d'alcool), mais comme on ne le faisait pas alors. D'où les effets de rupture.

Il a ensuite étendu au groupe  (aux « communautés ») la prescription  aux individus. Est-ce unique ?

Comment ces conceptions qu’on dit maintenant temporaires, sans portée littéraire et donc à oublier, entrent dans l'écriture, la sous-tendent et l'orchestrent, voilà ce qu'il est permis de se demander. « L’homme, c’est le style », disait Céline et cela peut autoriser à aller de l'homme au style... Au moins le temps de voir. Surtout si, comme lui, on ne croit pas à la Littérature en soi.

 

Quelles sont les éventuelles critiques auxquelles vous vous attendez au sujet de ce travail ?

 

Vous les avez anticipées : trop personnel, trop désinvolte, trop copieux, trop léger. On chicanera des dates et des virgules. Je ne parle pas des « signes diacritiques » sans lesquels Céline nous reste imperméable. Jean-Pierre Dauphin avait eu l'idée d'assortir ses calepins de bibliographie de pages blanches ou chacun inscrivait ses apports. Si ce Dictionnaire n'avait pas déjà atteint la taille critique, j'aurais bien voulu l'imiter. Chacun aurait pu inscrire son apport, celui qu'il garde jalousement par devers lui. Les exemplaires auraient été disponibles en solde au bout de quatre ou cinq ans, on les aurait collationnés et l'on aurait « Le Dictionnaire Céline » dont nous rêvons tous : impeccable, exhaustif, unanime.

 

(Propos recueillis par Marc LAUDELOUT)

 

 

Comment j'ai commencé à travailler sur Céline

 

par Philippe Alméras

 

Quand j’ai commencé à « travailler sur Céline », il y en avait deux : celui d’avant 1937 et celui d’après, que certains vouaient d’ailleurs à la poubelle.

 

Plus le temps a passé et plus les Céline se sont multipliés. Les Anglo-Saxons parlent des neuf vies du chat. Le chat Céline en a eu bien plus, surtout si l’on ajoute celles qu’il s’est fabriquées à celles qu’on lui a prêtées.

 

Il a été successivement l’enfant du Passage et de la rue Marsollier, le stagiaire en langues d’Allemagne et d’Angleterre, l’apprenti commerçant, le cuirassier de Rambouillet, le combattant d’août 14, l’agent consulaire de Londres, le colon du Cameroun, le grouillot-journaliste d’Eurêka, le propagandiste antituberculeux de la Fondation Rockefeller, le bachelier éclair, l’étudiant en médecine tout aussi pressé, le mari et le père temporaire, l’hygiéniste itinérant de la SDN, le médecin en clientèle, le consultant du dispensaire à Clichy, l’auteur de théâtre, le pharmacien visiteur médical, le rédacteur de Voyage au bout de la nuit, Goncourt raté et événement littéraire de l’année 1933, le héros d’une légende misérabiliste, l’explorateur des enfances de Mort à crédit, le polémiste engagé des « pamphlets », le prophète vérifié un temps (1940-1944), l’émigré d’Allemagne puis du Danemark, le prisonnier de la Vestre Fængsel, le rural malgré lui de Korsør, le  banlieusard  de Meudon et l’auteur d’un come back qui n’allait pas de soi, l’écrivain restauré. Soit trois fois neuf vies de chat. Et l’enchaînement des œuvres dans une langue indéfiniment renouvelée.

 

À ces métamorphoses s’ajoutent les images qu’un lectorat multiple s’est faites de lui. Si les céliniens ne s’aiment guère en règle générale, c’est qu’ils ont chacun leur Céline. En 1932, Daudet le monarchiste et Descaves le nostalgique de la Commune se rejoignent certes dans l’admiration pour le Voyage, mais pas pour les mêmes raisons. L’étudiant Lévi-Strauss le voit socialiste. Bernanos le catholique lit le roman de la déréliction d’un monde sans Dieu. Décor, philosophie, tout renvoyant au peuple, certains croient à un Céline peuple et donc populiste, et c’est d’ailleurs sous cette forme que, génération après génération, il trouve chez les jeunes ses nouvelles recrues. Aujourd’hui le Voyage en poche serait encore le plus « fauché », le plus « chouré », le plus volé des livres dans un temps où les livres se volent de moins en moins. (…)

 

Philippe ALMÉRAS

(extrait de la préface du

Dictionnaire Céline)

 

 

Philippe Alméras, Dictionnaire Céline. Une œuvre, une vie, Plon, 2004, 880 pages.

mardi, 24 mars 2009

Aleksandr Solzjenitsyn - Leven, woord en daad van een merkwaardige Rus

Aleksandr Solzjenitsyn

Leven, woord en daad van een merkwaardige Rus

Ex: http://onsverbond.wordpress.com/

 

Op 3 augustus 2008 overleed de Russische auteur en voormalig dissident Aleksandr Soljzenitsyn. Naar aanleiding van zijn overlijden volgt hier een beknopte schets van het leven, het werk en de nalatenschap van een van de monumenten uit de Russische literatuur.

LEVEN

<Aleksandr Soljzenitsyn werd op 11 december 1918 geboren te Kisovodsk als zoon van een tsaristische officier die gesneuveld was tijdens de Eerste Wereldoorlog. Als overtuigd communist sloot de jonge Soljzenitsyn zich in 1941 aan bij het Rode Leger, na zijn studies in de wis- en natuurkunde te hebben vervolmaakt. Als wiskundig specialist we

rd hij als officier ingedeeld bij de artillerieregimenten van het Rode Leger, hoewel hij reeds vroeg in opspraak kwam

door kritische uitlatingen aan het adres van Stalin in een briefwisseling met een kameraad aan het front. Dit ‘vergrijp’ kwam de kritische jongeling duur te staan: hij werd veroordeeld tot dwangarbeid in diverse werkkampen. Bij de dood van Stalin in 1953 werd zijn straf omgezet in drie jaar ballingschap in de Sovjetrepubliek Kazachstan. Zijn ervaringen met de concentatiekampen in die jaren zou Soljzenitsyn later neerschrijven in zijn romans In de eerste cirkel (1968) en Het Kankerpaviljoen (1968).

De dood van Sta

lin leidde een versoepeling in van de censuurpolitiek onder het bewind van Nikita Chroesjtsjov, waarop Soljzenitsyn de kans zag tot het publiceren van zijn werken. Een in 1962 gepubliceerde novelle Een dag in het leven van Ivan Denisovitsj vormde een klinkend debuut van zijn literaire carrière, hetgeen hem op slag beroemd maakte.

Sovjetleider Jozef Stalin.

Na het afzetten van Chroesjtsjov in 1964 en ook door het succes van Soljzenitsyn verscherpte de censuur zich weer in de USSR, onder meer op aandringen van een conservatief-communistisch gezinde groep van cultuurpolitici in het Kremlin. Aantijgingen, pestcampagnes en dreigementen van de KGB en andere Sovjetautoriteiten aan Soljzenitsyns adres lieten na deze institutionele hervormingen niet op zich wachten en het geheel culmineerde in een buitengewoon stoutmoedige reactie van de dissident zelf: in 1967 schreef hij een open brief aan het 4de Congres van de Schrijversbond met een duidelijke vraag tot het afschaffen van de Sovjetcensuur.

Het intellectueel verzet van de auteur werd stilletjes aan opgemerkt in het kapitalistische Westen naarmate zijn werken er met mondjesmaat gepubliceerd raakten en officiële erkenning van de strijd van de auteur liet dan ook niet lang meer op zich wachten. In 1970 werd immers, ondanks een hetze in de Sovjetpers en Westerse angst voor de eventuele politieke implicaties van deze erkenning, de Nobelprijs voor Literatuur aan Soljzenitsyn toegekend. Deze erkenning gaf het regime in Sovjet-Rusland een nieuwe aanleiding om zijn pijlen op de dissident te richten, hoewel ook deze keer Soljzenitsyn van zich afbeet in een stoutmoedige tot zelfs arrogant aandoende reactie. Naar aanleiding van de vuilbekkende artikels tegen zijn persoon in de Sovjetpers schreef hij een brief aan partij-ideoloog Soeslov met daarin een voor de autoriteiten onaanvaardbaar eisenpakket: Soljzenitsyn wenste zijn werken onder meer te zien verschijnen in nieuwe oplagen en in de rekken van de Sovjetbibliotheken.

Premier Poetin en Aleksandr Soljzenitsyn.

Van 1973 tot 1975 gaf Soljzenitsyn de verschillende delen van zijn roman De Goelagarchipel uit, hetgeen hem de ultieme straf opleverde: hij werd in 1974 verbannen uit de Sovjetunie. Soljzenitsyn trok in 1976 naar de VS, waar hij in 1978 de Westerse intelligentsia tegen zich in het harnas joeg door zich kritisch uit te laten over het kapitalisme en de consumptiemaatschappij van het Westen in een toespraak aan de universiteit van Harvard. Na de val van de USSR keerde hij terug naar Rusland, waar hij in 1994 een triomfantelijke zegetocht maakte doorheen het onmetelijke land. Soljzenitsyn bleef onafgebroken werken publiceren tot aan zijn dood op 3 augustus jl. In 2007 kreeg hij de Staatsprijs voor Humanitaire Verdiensten en tijdens de laatste fasen van zijn leven bouwde hij een vriendschapsband op met Vladimir Poetin, voormalig president en huidig premier van Rusland.

IDEOLOGIE EN ENKELE PARALLELLEN

Aleksandr Soljzenitsyn.

Soljzenitsyn kan gezien worden als de literair-culturele grondlegger van een nieuwe en toch traditionele koers die Rusland volgens hem zou moeten volgen om zich uit de naweeën van het Sovjettijdperk te ontworstelen en op te staan als de rechtmatige culturele en politieke grootmacht die Rusland altijd was in zijn eeuwenlange en rijke culturele en politieke geschiedenis. Deze ‘Russische Mythe’, die centraal staat in de gedachtegang van Soljzenitsyn en ook is neergeschreven in zijn literaire werken, berust op de idee dat een volk als gemeenschap fundamenteel verschillend van andere volkeren zijn goddelijke zending moet vervullen om zijn plaats in te nemen in het lappendeken van volkeren: ieder volk heeft deze plicht van hogerhand meegekregen, zodat de mens als soort kan uitblinken in de verschillende facetten waarin deze soort kan voorkomen. Deze ideologische visie stamt uit de vroegste fasen van het nationalistisch denken, het vredevol ‘Romantisch nationalisme’ uit het begin van de 19de eeuw.

Verder heeft Soljzenitsyn diepgaande kritieken geformuleerd op de latere vorm van nationalisme, die met het darwinisme de poort openzette naar de gruwelen van de Tweede Wereldoorlog en de creatie van de Sovjetunie. Tevens uitte hij in de jaren 1970 bijtende kritiek op de Amerikaanse consumptiemaatschappij als een gedegenereerde vorm van de Verlichtingsidealen die mede aan de wieg stonden van nationalisme en Romantiek in de vroege 19de eeuw. Essentieel in Soljzenitsyns visie is een aandeel van het transcendente – het godsdienstige – in het streven van de mens per volk. Dit aandeel verheft het streven van de mens immers tot een ethisch hoogstaand niveau, hetgeen een ethische buffer installeert tegen moreel laakbare uitspattingen als gevolg van misinterpretaties van menselijke ideologische systemen, zoals in de Westerse consumptiemaatschappij – waar van hun intrinsieke waardigheid ontdane mensen als vee op een veemarkt worden geschat op hun consumptie- en productiewaarde – en zoals in het Oosten het geval was met de gruwel van de USSR.

Soljzenitsyns visie op Rusland oefende een enorme invloed uit op de hedendaagse politieke en culturele elite, zowel binnen als buiten Rusland. Dit stelde hem in contact met enkele andere markante personages uit de laatste decennia van de 20ste eeuw, waarvan met sommigen de gelijkenissen en tegenstrijdigheden soms uit onverwachte hoek komen.

Zo had Soljzenitsyns denken veel parallellen met de politieke visie en actie van het vorige hoofd van de Rooms-Katholieke Kerk, paus Johannes-Paulus II. Ondanks de traditionele reserve van het orthodoxe christendom ten opzichte van het rooms-katholicisme vinden we treffende gelijkenissen in het denken van beide figuren. Beiden gingen uit van een innige verwevenheid van goddelijke zending en menselijk handelen in het geheel van het wereldgebeuren. Een mens als individu en als lid van een volksgemeenschap komen in de wereld met een goddelijk doel, waarbij het lijden als typisch christelijke trek een doel kan hebben in het leven van een mens. Let maar op het lijden van Soljzenitsyn als politiek dissident, hetgeen hij omsmeedde tot een wapen met als doel het vormen van een cultureel gefundeerd alternatief voor de USSR, wat uiteindelijk tot politieke verwezenlijking leidde in het kleine aandeel dat Soljzenitsyn had in de val van de USSR, zoals ook paus Johannes-Paulus II dat heeft gehad.

Een tweede duidelijke parallel is te trekken tussen Soljzenitsyn en premier Poetin. Met recht kan gezegd worden dat Poetin voor een deel op politiek vlak in praktijk bracht wat Soljzenitsyn op cultureel-literair vlak met Rusland voor ogen had. Tekenend voor deze parallel is de vriendschap die beiden opbouwden in de laatste jaren van Soljzenitsyns leven en de officiële erkenning die Poetin gaf aan het werk en de nalatenschap van zijn vriend door hem in 2007 de Staatsprijs voor Humanitaire Verdiensten te schenken.

ENKELE BEDENKINGEN

Sovjetleider Nikita Chroesjtsjov.

Door de aard van zijn literaire activiteit en doordat Soljzenitsyn vanaf zijn debuut onafgebroken schreef en publiceerde, is zijn werk een perfecte literaire barometer om af te leiden hoe het gebruik van censuur in de USSR evolueerde. Onder Stalin heerste er een streng repressief klimaat, wat we kunnen opmerken uit het meteen versoepelen van Solzjenitsyns straf van dienst in een werkkamp naar ballingschap bij Stalins dood in 1953. Deze versoepeling op gebied van repressie en censuur kenmerkt het bewind van Nikita Chroesjtsjov, die de censuur terugschroefde om zich – postuum – af te zetten tegen zijn voormalig politiek rivaal en voorganger Stalin. Merk op dat Soljzenitsyns straf, die hij had opgelopen vanwege zijn kritiek op Stalin, werd verminderd en dat zijn 1ste novelle, Een dag in het leven van Ivan Denisovitsj, eveneens een kritiek op Stalin, in 1962 mocht verschijnen. Net zoals de dood van Stalin een cesuur vormde in de evolutie van het Sovjet-Russische censuurbeleid, leidde ook het afzetten van Chroesjtsjov in de nasleep van de Cubacrisis en een hongersnood in de USSR tot verandering in het censuurbeleid. De censuur werd verscherpt, wat men kan merken in de steeds grotere tegenkanting culminerend in Soljzenitsyns moedige open brief in 1967 met vraag tot het afschaffen van de censuur.

Soljzenitsyn heeft een reputatie nagelaten van moedig politiek dissident, die in tegenstelling tot de normaal menselijke reactie op repressie – zich gedeisd te houden – tot de selecte groep bleek te behoren die zich niet alleen niets aantrok van deze repressie, maar zelfs aanstoot nam aan tegenwerking om de stok nog eens extra in het hoenderhok te gooien, getuige voornoemde open brief in 1967 en zijn aanstootgevende eisenpakket aan partij-ideoloog Soeslov in 1970. Daarmee is Soljzenitsyn tot op vandaag een spreekwoordelijk voorbeeld van politieke moed – en dit niet voor vijf minuten (!), maar gedurende zijn gehele leven – ondanks alle tegenslagen en ronduit vijandige omstandigheden.

Hoewel bij het beschouwen van zijn literaire carrière misschien de nuchtere nuancering zou kunnen gemaakt worden dat Soljzenitsyn na verloop van tijd zijn imago van dissident probeerde te cultiveren, als middel tot persoonlijke bekendheid en voordeel, valt deze overweging dadelijk in het niet bij het overdenken van de risico’s die gepaard gaan met het uiten van kritiek op een regime dat onmenselijke middelen niet schuwde om ‘incorrecte’ meningen de kop in te drukken. Een nuchtere kosten-baten-analyse door een charlatan zou de balans in het voordeel van het plat opportunisme doen overslaan, een weg die Soljzenitsyn zeker niet bewandeld heeft, zodat we met recht en rede kunnen besluiten dat Soljzenitsyn gerekend mag worden tot een van de dapperste idealisten van de laatste eeuw.

Tenslotte kan Soljzenitsyn behalve tot de selecte groep van politiek-culturele koppigaards ook nog gerekend worden tot de uiterst selecte en uitverkoren groep die niet alleen een politieke verschuiving mee heeft kunnen realiseren, maar echter de gevolgen van zijn politiek-literaire activiteiten tevens nog verwezenlijkt zag tijdens zijn eigen leven, of tenminste een schuchter begin daarvan. Soljzenitsyn kan aldus genoemd worden als het voorbeeld bij uitstek van hoe literatuur en een politiek geëngageerde levensloop hun stempel kunnen drukken op de bestaande politieke realiteit, getuige de wederopstanding van Rusland uit de as van de USSR en de persoonlijke band tussen Soljzenitsyn en een van de machtigste figuren van Rusland.

Vbr. stud. philol. Raf Praet

Figure du Partisan chez Schmitt, figures du rebelle et de l'anarque chez Jünger

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Figure du Partisan chez Schmitt, figures du rebelle et de l'anarque chez Jünger

 

 

(intervention d'Alessandra Colla - Université d'été de la FACE, 1995)

 

Les notions de rebelle ou d'anarque chez Jünger en impliquent une autre: celle du “recours aux forêts”. En recourant aux forêts, l'anarque (le rebelle) manifeste sa libre volonté de chercher lui-même sa propre voie et de se soustraire ainsi à la massification qui est le lot du plus grand nombre. Mais comment survivre dans le désert spirituel de cette massification? Dans Eumeswil, l'anarque, qui affine le concept de rebelle et le hisse à un niveau qualitatif supérieur, est l'homme qui veut affirmer sa propre liberté. Mais en dehors du système, avec ses propres moyens. Le rebelle, puis l'anarque, maintiennent leur propre identité, ils n'acceptent de jouer aucun rôle dans la société étouffante qu'ils cherchent à fuir. En revanche, ils cherchent leurs pairs, avec l'espoir ténu de former de nouvelles élites qui agiront directement sur les noyaux vitaux du système. Face à ces figures proches du rebelle et de l'anarque, le partisan de Schmitt est l'héritier des maquisards français, yougoslaves ou soviétiques de la deuxième guerre mondiale. Mais le partisan n'est pas en dehors de toute loi: il reçoit ses déterminations d'une instance extérieure à lui, sur laquelle il n'a aucune prise. Après son combat et en cas de victoire, le partisan se hisse au pouvoir et le rend aussi routinier qu'auparavant, donc aussi insupportable, aussi étouffant.

 

Débat: Le système produit des “décalés”, non des anarques, et peut se justifier par la présence même de ces “décalés”, prouver de la sorte qu'il n'est pas aussi totalitaire et étouffant qu'il n'en a l'air. Le “décalé” est celui qui se taille une toute petite sphère d'autonomie dans le système, sans en sortir, en profitant des avantages matériels qu'il offre: le “décalé” est donc un “Canada Dry” par rapport à l'anarque. Le marketing du système utilise l'atypisme formel du décalé, qui est ainsi parfaitement récupéré, sans le moindre heurt. L'anarque se caractérise par une discipline intérieure, par un travail en profondeur sur lui-même, qu'est incapable de parfaire le décalé.

 

(notes prises par Catherine Niclaisse).

dimanche, 22 mars 2009

Le Loup et l'Agneau ou la tentation sophistique

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Le Loup et l'Agneau ou la tentation sophistique

 

 

Chacun sait que le plaisir de l'écrivain réside dans l'incertitude et la difficulté. La Fontaine est un auteur difficile.

 

Le Loup et l'Agneau  est exemplaire en ceci qu'il vient à contre-temps des autres fables du recueil, que le système de la logique fabuliste et moraliste (histoire et leçon de l'histoire) a été tourné en dérision par celui même qui s'en faisait le champion, détournant du même coup la loi morale, qui se voudrait pourtant le fondement et la direction du récit. Ce système de pensée vient évidemment en opposition à la puissante croyance officielle, et je m'en remets aux sermons et aux oraisons funèbres de Bossuet, en la divine Providence, principe de cohésion historique et personnel. L'ouverture de la Fable est avant tout un coup de théâtre, ou un coup de force: double renversement: dans la topologie du discours, la morale, contrairement à ce que l'on observe dans la majorité des Fables, ne se trouve pas à la fin, comme la déduction suit la réflexion, mais en tête. Comme s'il s'agissait d'une induction, d'une intuition. Le préfixe latin in- signifiant “dans”, la “morale” se trouverait en embryon dans l'histoire, comme pré-établie. Première surprise.

 

La Fontaine commence donc: “La raison du plus fort est toujours la meilleure”, mettant sur un même plan deux notions traditionnellement opposées: la force et la raison. Au premier renversement d'une fable à l'envers, s'ajoute la surprise d'une fable à rebours, par l'évocation d'une anti-morale, d'une contre-morale. L'opinion commune admet que la raison l'emporte sur la force  —en tout cas dans une société policée, comme l'était celle de Louis le Grand—; a contrario, avec le fabuliste, la force est supérieure à la raison. Et l'histoire de la Fable ne le démontre pas, elle le montre.

 

Le seul argument du loup, c'est la faim. Et pourtant la pudeur, si chère aux contemporains de La Fontaine et si chère à la littérature galante, précieuse ou érotique, la fardera. Ce qui excusera cette appétance obscène et la légitimera, c'est l'art de la circonvolution rhétorique. Seulement l'agneau la dénichera au terme du clair-obscur de la série argumentation/réfutation. On pourrait ici démonter le mécanisme du dialogue à la fois si théâtral et si drôle, mais aussi et combien inquiétant. Le loup en serait comme un Tartuffe de la logique. Car quelle belle critique de la raison faite en ces temps de Descartes et de classicisme  —le premier recueil de Fables ayant été rédigé trente ans après le Discours de la méthode... La raison érigée en escroquerie. La raison, insinue La Fontaine, est ce que l'on veut bien en faire, ce que la force veut bien faire d'elle.

 

Sans ignorer le point de vue sexuel de la Fable (Le petit chaperon rouge  de Perrault est sur ce terrain bien comparable), La Fontaine aborde la morale et la fable à l'imitation des Anciens, mais dans une perspective sophistique. Qu'implique alors cette induction? Que la raison peut tout démontrer (qu'elle est un outil, qu'elle n'est pas une fin). Que la raison ne fait que justifier, elle n'est qu'une excuse à nos faiblesses. On en est exactement à ce que démontraient les sophistes, réputés pour soutenir sur la place publique un jour une thèse et le lendemain l'inverse: non point l'absurde de l'humaine condition  —qui est postérieur, mais ce qui est rationnel est aussi affectif, que la rationalité n'est qu'une bizarrerie d'affectivité. Et plus loin: le savoir, les connaissances ne sont qu'un cumul d'affectivité “objectivée”.

 

Cela nous ramène à un La Fontaine inquiétant, dont se méfiait Rousseau, à juste titre, un La Fontaine libertin non-voilé (de mœurs et de pensées) où perce sous l'auteur des Fables l'auteur des Contes en vers,  l'écrivain du règne des sens, du trouble et de l'irrationnel.

 

Le Loup et l'Agneau, Fable 10, Livre 1 (publication: 1668).

 

Jean-Charles ANGRAND.

samedi, 21 mars 2009

The Social Vision of Valentin Rasputin

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The Social Vision of Valentin Rasputin

by Matthew Raphael Johnson

The Social Vision of Valentin Rasputin

by Matthew Raphael Johnson

In his own mind Rasputin may well be answering some such summons to be his own people’s medicine man for the purposes of understanding and cleansing that part of the world he calls home. –Harry Walsh

Soviet Marxism and Western Capitalism are nearly identical systems of rule. Where they differ is in the means of policy implementation. The USSR based its existence, clumsily, on a state apparatus. The west is far more sophisticated. It rules by a complex Regime: a matrix of private, state and semi-private capital, meshing together in advocating specific policies, appearing to be separate sources of power, but, in reality, offering a closed oligarchy of power, wealth and arrogance.

Nowhere is this identity of policy more obvious than in the realm of agriculture. Both capitalism and Soviet Marxism claim to be the bearers of Enlightenment values to mankind: modern Promethiuses, bringing the “transvaluation of all values” to a benighted herd. Both ideologies believe in progress and technology, which provides both with a distorted view of country and agrarian life. Both ideologies demand absolute conformity to its ideological dictates, even to the point of building global empires to impose such ideas. But insofar as the agrarian life is concerned, these ideologies are identical, considering this life “backward” and “inferior” to the technological paradise of urban living. Both ideologies demand, in short, either the eradication of country life (as in Lenin’s case), or its radical transformation (as in Khrushchev’s case). In Soviet Russia, modernization meant the state’s invasion of the agricultural sphere, demanding strict oversight and control of all agricultural programs, and encouraging migration to the cities. Urbanites were told to “enlighten” their “backward brethren” in rural areas into the socialist idea and the technological paradise that awaited them. Entire regions of arable land were annihilated through dam projects which flooded them, or nuclear fallout from tests, or environmental disasters responsible for the deaths of thousands.

In the west, as always, the policy is identical, the means very different. In 1999, the U.S. Department of Agriculture met with the two oligolopolists of the agrarian life–Archer Daniels Midland of Kansas City, and ConAgra of Omaha. Their purpose was the final destruction of the family farm and the parceling out of the abandoned arable to their corporate interests. In the meantime, major media was spewing the typical stereotype of rustics as hicks and morons, with pickup trucks and southern accents, “spittin’ tobacca’” and killing non-whites. It was and is an acceptable stereotype, according to the apostles of diversity, and one encouraged by everything from sitcoms to stand up comics. If one wants to sound stupid, merely speak in a southern accent. Media and corporate finance worked hand and hand to destroy agrarianism, small towns and the family farm.

The reality, of course, is that, from a political and moral point of view, the agrarian life is a threat. It is a threat to the Regime and its obsession with social control and Pavlovian manipulation. In Russia, it was not the Soviets who depopulated the countryside, by rather the “democratic reformers,” so beloved of Beltway lawyers. And it is within this context that the prose of Valentin Rasputin (b. 1937) needs to be understood, and cannot be understood without it.

The defenders of agrarianism are few and far between: Jefferson, Emerson, de Bonald and Rasputin largely exhaust the names. The Green movement in America, though occasionally assisting this cause, is funded almost exclusively by the Rockefeller and Ford Foundations, and contain, equally exclusively, Volvo-driving urbanites and suburbanites who might want to defend the “family farm” in theory, but despise actual rural people in reality. What the SUV-environmentalist crowd is actually doing in the name of “saving the family farm” is attacking rural hunters and ranchers (occasionally with state-sanctioned violence). The environmentalists have made their central policy ideas the attacks on hunting, ranching and logging, three major occupations of rural America. Whether the soccer moms see the absurdity is a matter of speculation, but the board of the Rockefeller Brother’s Fund fully is aware of it. The attack on rural life is both an ideological, as well as a class, battle. In the early 1990s, a common sight was turtle-neck clad suburbanites attacking poor, rural hunters in the name of “animal rights.” While only a few specialized outlets would touch stories like that, the clear class lines of the confrontations were obvious.

In the prose of Valentin Rasputin, many of these struggles make their appearance. Rasputin is largely loathed and ignored by the denizens of American literary criticism, and the published literature in English on his work numbers a whopping four articles. These range from the simplistic but informative “Conflicts in the Soviet Countryside in the Novellas of Valentin Rasputin” (by Julian Laychuk, published in the Rocky Mountain Review), to the very well done “‘Live and Love’: The Spiritual Path of Valentin Rasputin” (by Margaret Winchell, published in Slavic and East European Journal). The nature of Rasputin’s social vision is at the root of this obvious hostility.

For Rasputin, the dividing line of the 20th century is clear: it is between civilization and country; urban and rural; artificial and natural. Such a dividing line is common enough. His major works proceed in a basic and predictable style, more aimed at approaching an audience than explicating a genre. But this dividing line is always present, and it is what provides this writer with his strength and consistency.

The artificial world is that of civilization: regimented and fake. It is the world of ideology and power. The world of civilization is that of geometry, it is the Tower of Babel, where the worship of dead matter is the official religion. It recognizes only materiality, for materiality can be easily manipulated and controlled. It is elite by definition, for only an elite can even begin to understand the feats of engineering and mathematics that must be understood before the “marvels” civilization are manifest to the world. Reason is reserved to the elites, while the herd is controlled through their passions. The herd is accepting of technology because their “needs” are easily met by it, but at the price of their freedom and independence. But even more significantly, at the price of their identity.

But as the urban/civilizational life is based upon matter, the rural/rustic life is based on spirit. This is a rather complex notion in Rasputin, but is a notion that has a rather long history behind it. Spirit is not the opposite of matter, but is something hidden behind it, in the literal meaning of “metaphysics,” as something “behind” appearance. What science/urbanism can understand is solely what is can quantify , whether it be heat or velocity; votes or roubles. Matter is by its constitution quantifiable, and therefore controllable. Spirit is another matter, and is that aspect of material life that is non-quantifiable. Orthodox Christians can in no manner posit a radical opposition between spirit and matter, for it is precisely this confrontation that made up the “practical” backbone of the Synod of Chalcedon in 431. It is this distinction, that, at least at the time, made up the confrontation between Christian and Monophysite heresy. Matter and Spirit are two very different sides of the same thing. As vulgar Orthodox scholars like to reduce Chalcedon to a “quibble over language,” the reality is rather different, and goes to the heart of a Christian metaphysics.

In 18th century Ukraine, a now largely unread philosopher and metaphysician was active, Gregory Skovoroda. His mind was set to develop a Christian metaphysics, one that would do justice to the powerful insights of Chalcedon. Skovoroda is significant in understanding the nature of Spirit as manifest in the writings of Rasputin, and is able to distinguish Christian spirit from both the vulgar spiritualism of western “religion” and the materialism of the western economic world. One sentence might make sense of this: “This one is the outer frame, that one the body, this–the shadow, that–the tree, this–matter and that–the essence; that is the foundation sustaining the material mud just as the picture sustains its paint.” Though Skovoroda is distinct from Aristotle as he writes: “The universe consists of two essences: one visible, the other invisible. The invisible is called God. This invisible nature or God penetrates and sustains all creation and is and will be present everywhere and at all times.” While far from “materializing God,” such ideas (and they are difficult to being out in English) speaks of God as the Law of Law, or the Essence of Essence. Regularity and Law exist in the universe, and the ground of this regularity is God. Regularity and Law cannot exist without a Lawgiver by definition. While the Essence exists, the appearance, or the “material” side of this, is regularly changing. However, God is not purely imminent, but is so insofar as human beings can approach him. Objects the way out fallen and vulgar understanding picture them, are merely “shadows” cast by the Primal essence, or the Law of Law.

Objects partake of Law and Regularity, and that is the “divine” in them, object sub specie aeternis. Only the advanced ascetic can see objects in this manner. An object as it is, rather than as it appears. In the fallen world, objects/material are things for manipulation. They become objects, as Locke will argue, only to the extent that they are expropriated from their natural state. Humans too, can exist in either a natural or “expropriated” state. Objects exist to the extent to which man has rejected his empirical state of fallenness, and though the Orthodox life, through fasting and silence, can the Reality of being make an appearance. Objects do not them excite lusts, bur rather joy and contemplation.

Natural objects are “paths” to God, here. For they hide the reality of the Creator under their “accidents,” qualities that primarily strike the observer for only the fallen mind can appropriate these things. From this falseness, objects appear in a distorted way, as mere means for the domination of the gnostic elite over all nature through geometry. Ultimately, this is the genesis of empiricism and later capitalist democracy. Objects appear thus through the jaundiced lens of sin and fear of death. While Hegel argued that objects appear differently to different historical epochs, conditioned by specific ideas relative to such ears, Orthodoxy views the material world as changing through the specific “rung on the ladder” the ascetic finds himself on.

Skovoroda does not really require a “space” that is “beyond” the appearance of objects. Vulgar western religion has posited God “up, above” our material existence, existing in “heaven” that is “out,” somewhere “in space.” God then is a purely transcendent being, someone radically separate from his creation, and thus needs to be petitioned like a feudal lord. Of course, the patristic reality is different. God’s person is found as the eternal “idea” in creation, a part of it but far from identical with it. He is imminent in this sense, and is manifest to only the Orthodox ascetic through a life of self-denial, the slow emergence of the sprit struggle through the prison of false images cast by sin and fear. After the various western schisms, these religious bodies quickly lose this specifically imminent aspect of God. The papacy, then, in Protestantism, the individual will, was to take its place, until God became a mere philosopher’s phantom, without real being, without presence.

Once men begin the Christian struggle and receive “adopted sonship” through baptism, they become a living, empirical aspect of the Spirit’s activity on earth. Men do not pray in the sense they renew their driver’s licence (the Protestant view), but the Spirit communicates with Christ through their/our material agency. In other words, this metaphysics posits man/creation not radically separated from God, but simply unable to see His presence under the layers of filth caused by sin, the world and the Regime’s science. The Regime posits a globe of dead matter (including the cowans, i.e. non-initiated people, the herd) ripe for manipulation. Orthodoxy posits a material world that is bi-composite: one, comprising the qualities that Locke is convinced exhaust the matter of matter, and, two, the spirit, the Law of Law, or that aspect that permits matter to partake of Law and Regularity (without which there could be no science, good or bad). The life of asceticism permits the ascetic to begin to see and focus on the Law, rather than its quality, though Law through quality, rather than opposed to it.

Whether or not Rasputin regularly reads this great Ukrainian writer is another story, but in reading these novels, one can easily see the influence of the Chalcedonian metaphysic. For Rasputin, the urbanite cannot see the spirit underlying matter (so to speak). Everything in urban life, as all is conditioned by will, appears artificial, to be merely a bundle of qualities (i.e. substance-less). Men are no different, for to reduce them to a bundle of qualities is the only means of controlling them. Freedom, properly understood, derives solely through Orthodox asceticism; urbanism, therefore, must be based on indulgence, for indulgence, by building up the passions and their demands for satisfaction, permits for those who control access to such fulfillment full control over “human” or semi-human faculties. Urbanism destroys humanity; it destroy’s freedom by its very constitution and organization.

For Rasputin, particularly in his more recent labors, the purpose of life is to struggle to see, at least in outline, the basic spirit structures of the world. This can only be done in nature, outside of the distorted elite lense of urbanism. His characters experience mystical visions when in the outlands of Siberia, suggesting a knowledge that is beyond logic; a strange form of communication between Law and the psyche, one completely bypassed by modern geometry/logic. Such experience radically change these characters, bringing them to a knowledge of their identity and therefore, purpose. Rasputin’s epistemology is mystical, in that the mind is illumined through participation, a participation in Law, or a Reality that is only in a small way explicable through logic. The argument looks like this:

  • P1: Modernity is based on quantification
  • P2: Quantification is a quality adhering to extended matter
  • P3: Extended matter, by definition, is not free, but is subject to manipulation
  • C1: Therefore, Modernity is based on the manipulation of extended matter
  • C2: Therefore, Modernity is based on unfreedom
  • P4: Logic exists to assist in the manipulation of extended matter
  • P5: Logic has no purpose other than being applied to matter and its behavior
  • C3: Spiritual experience is therefore non-logical (super-logical).
  • C4: Modern life can only see things that logic can manipulate

While this is incomplete, this argument makes a great deal of sense out of Rasputin’s writings, and the agrarian life specifically. Because of the nature of “participation,” (in the Platonic sense) Rasputin’s heroes/heroines, often are not specifically educated formally. They are people who have, so to speak, absorbed, through participation, the Reality of life. These are often older women, our babas or yayas, who, simply through experience outside of the logical/mathematical world of urban life, receive a great deal of wisdom, a wisdom outside of the experience of the urban life, a life that cannot absorb anything that is not based on the behavior of matter.

In modern life, the Slavic and Greek immigrant community that first built Orthodox life in North America is dying. Our babas/yayas are either dead or extremely elderly. In many parishes in America, the elderly are the only ones left, preserving some vague memory of the old country and a way of life radically alien to the American. They remain the last holdouts largely because of a specific form of cruelty and abuse, one specific to modernity, that is abandonment. But not a simple form of leaving home, but a sort of abandonment very different from that; it is a mental leaving of home.

My babas are still to be found among the Ukrainians of Lincoln, NE, holding down the parish of St. George with no more than 7 or 8 elderly members as of this writing (April 2007). These are the original Slavic immigrants to this part of the world. They came with nothing and built a small but extremely prosperous community. Needing no help from the Regime, the Ukrainian community in Lincoln and Omaha built a life based on the agrarian ideal of the small community, ethnic unity, religious devotion and limited wants. Media knew no role in their life. There were no TVs, and the music was either religious or folk. Coming to America not speaking English, being of an alien religion, and knowing nothing but persecution and suffering, these Ukrainins built prosperity and togetherness. In fact, to such an extent that they were able to finance several shipments of goods to Ukraine after the 1986 nuclear disaster, and were even involved with settling new immigrants and smuggling Christian literature into Ukraine. They burned their mortgage on that parish years early. They rarely contracted debts, and are now in retirement, enjoying a great deal of security.

Their children? A different story; a story of objective evil, failure and stupidity that can be summed up in two words: modernity and Americanization. These children have left the church and the community. They speak to their parents in the most smug of condescending tones, without a clue as to their virtues. The children have sought entry into corporate America, and, at best, have become groveling middle management bureaucrats, without identity, spirit or purpose. They watch the parish(es) that their parents built die of neglect, but have no difficulty in buying the SUV or spending $40 per tank of gas. They spout rehearsed slogans about democracy, as they vote for Clinton or McCain, while assisting in the destruction of real democracy, the autonomous ethnic community, financially and socially independent. They have abandoned the Ukrainian community and its church, while vegetating in front of the television, the chatroom or the ball game. These are survivors of both Soviet and Nazi Holocausts (some were married in the camps by secret clergy), but, oddly, no one cares; no one asks them how. No one asks about their experience, and they die in obscurity. Just down the street at my Alma Mater, the University of Nebraska, there are several scholars pretending to be Russia experts, and has one asked these survivors about their experience? Not one.

This is the vision of Rasputin. The elderly country woman as the ignored, spat upon bearer or wisdom. The spitter? The urbanite who abandoned the ancestral life for urbanism, the chance for power and money. The urbanite believes that formal education is the “magic elixir” that will transmogrify him or her from an ignorant bumpkin to a civilized member of the New Soviet Experiment, the 21st Century, or whatever. Returning to the village, smug and arrogant, the baba is simply considered an “old, pious fool,” but, as always, a fool who is far wiser than any urban bureaucrat, crammed into his minuscule apartment in the name of “success” and “progress.”

The baba is people centered; she is concerned with personality and simple yet profound moral lessons. The urbanite is institution centered. He is concerned with “progress” and “utility,” even “competitiveness.” Folklore is the center of the “people centered” baba, while ideology is the center of the “progress centered” urbanite. For the baba, decentralization is the key to freedom (though it is never articulated as such); while for the urbanite, it is centralization; oversight; control; coordination. These are the modern buzzwords. As always, the baba is the simple and unassuming (but strong) advocate of freedom and personality; the urbanite is the advocate of the machine and the institution; weak and dependent. Baba is strong and independent. Rasputin paints these colors in a strong but realistic contrast that is simply too much for the modern American literary critic to stomach. Many of us can see some of our own experience in Rasputin’s pages. My babas in Lincoln are powerhouses of knowledge, articulated in simple yet compelling forms. Their children have absorbed the latest fads from the major media, and thus appear as dependent, weak and childish (rather than child-like) shadows of their parents. For the babas, community and its values, codified in folklore, is the guide to life, for the urbanite, it is ultimately the ego, but an ego flattered by modern ideology and fashion.

Another writer has done an excellent job in getting to the heart of Rasputin’s work. In his article, “Shamanism and Animistic Personification in the Writings of Valentin Rasputin” (South Central Review, 1993), Harry Walsh brings out a few new insights into the agrarian vision through the prisim of ancient Shamanism. While Rasputin is Orthodox, his view of the ancient pagan “religion” of Russia is typical of my own: harmless customs that serve largely to humanize nature. These kinds of simple religion take natural reason and feeling as far as it can go in dealing with natural phenomenon without revelation. There are no “gods” in the Christian sense, but rather poetic fetishizations of either natural or social forces. It is precisely these customs and poetic “humanizations” that St. Innocent of Alaska strictly forbade his missionaries to interfere with as they were being evangelized into Orthodoxy. So long as these ideas did not interfere with the Christian faith, they were to be left alone.

Once of these sort of “personalizations” that comes out in Rasputin’s work is important to agrarianism and anti-modernism, and that is the “personification” of objects; that is, the personification of the land itself, and its common markers: rovers, mountains, leaves, colors and sounds. Here, as is commonly seen in Johann Herder, language is merged poetically with nature, with one’s surroundings. In herder’s case, thought is inconceivable without language (and thus historical experience), thought itself is merged within the natural world. The natural world is then a home. Contrary to the ravings of the gnostics and technophiles, nature is not an arbitrary creature, the creation of a semi-wicked demiurge that needs to be dethroned and “corrected,” but is a home, a life, it is not “other,” but an extension of one’s self. In Russian the noun “drug” means both “friend” and “other,” showing the slow merger of the two concepts. Of course, there is no “other” in friendship: the one is swallowed in the other. Friendship is precisely the swallowing of otherness, and a pleasant and voluntary absorption of otherness.

For the agrarian, the land is a person, in a sense. It is a loving mother that, all other things being equal, yield her bounty when she is treated with respect, no different than a loving wife. Is there a connection between modernity, abortion and the destruction of agrarian lifestyles? Of course. They are all really the same notion: the female, nature is desecrated and abused in the name of progress. As Francis Bacon wrote, “knowledge of nature” is “power.” Knowledge of nature is designed to keep her in submission, chained to the libidinous whims of the Lunar Society. Rape and industry have the same Baconian/Atlantean root. Therefore, agrarianism is seen as backward, as the male whoremonger is seen as macho and virile.

Nature in Rasputin is not merely to be preserved and loved as a mother/wife because she is pretty, or because she yields fruit. Both are important, but it goes deeper: nature is a mediator, of sorts, between man and God. The Orthodox vision of relics partakes in a limited way from this insight. Nature, to the sensitive, aesthetic and ascetic soul, contains the “fingerprints” of God in that it is regular, law governed, and sensitive to affection. It is not a difficult road from nature as law bearing, to nature as designed, to nature as the subject of a creator. The sensitive soul sees in nature tremendous beauty, order, proportion and the source of bodily life. How difficult is it to go from here to God as Beauty, Love and Provider? Even in the more disagreeable aspects of nature, such as snake’s venom, or cow dung, one can see the hand of the creator. Human beings, like it or not, eat that cow dong when we eat the products of the earth, that have been fertilized by it. Back in Nebraska, the farmers would tell the suburbanites holding their noses in the rural areas: “It smells like s**t to you; money and food to us.” They never quite had the heart to tell these benighted souls that they eat this fertilizer in every bite of a tomato or carrot.

For the agrarian, nature, the village, the trees and mountains are friends. They create a home. They are part of a larger community all bound together in love, a love at least partially manifested in the “law bearing” aspect of natural events. Science has never been able to understand that nature of regularity as such. Newton can understand it as a quality of matter, but as to its source, that’s another issue. Regularity is not something that adheres to objects, but itself must have a source. Regularity and law are the basis of science, and yet its source is purely in the realm of metaphysics and theology. Regularity and law are not the products of random events, but themselves are objects of scientific inquiry, and only a Law of Law, or the ground of law, can be responsible for order in a universe that tends to disorder and dissolution.

Yet, contrary to the myopia of modern positivism, poetry is the source of making a home out of natural objects. A home for the modern suburbanites is the McMansion thrown up in a few weeks by a builder making a quick buck, only soon itself to be sold in order to see a profit. Rasputin and the agrarian tradition see a home as a complex matrix, a matrix of sights and sounds, smells, people, colors and structures. Only a sensitive mind can “see” memories in an old barn, a careworn field, or an old tractor. The modern suburbanite cannot.

But taking this one step further, Dr. Walsh makes it clear that in Rasputin’s writings, these connections among objects, God, law, sense, memory (in the affective sense), loyalty, home, family, community, local institutions, etc., called by the ever misinterpreted Slavophiles “integral knowledge” automatically mean that man is a mediator, he is a mediator between the senses themselves (what philosophers sometimes call “intersubjectivity”); between logic and poetry; between sense and love; and most of all, between the living and the dead. Edmund Burke once famously called “tradition” the “democracy of the dead.” The traditions that hold rural communities together is not the creation of the present generation, but can only be the product of generations past, generations who suffered and struggled to make it possible for the present generation to be alive at all. The fact that the founders are now dead should have no bearing on their influence over the present. If one exists through the accident of birth, than why should the accident of death be a problem? Why should mere death be a barrier to influence? What is the moral ground for such an opinion? Should the dead vote? Yes, and it’s called tradition.

There are some modern philosophers who are slowly rejecting the concept of “I” in moral theory. Such a revolutionary opinion is almost inconceivable in modern post-revolutionary times. The “I” according to Oxford’s Derrick Parfit, should be reduced to “streams of experience” that do not admit of an ontological fundament. Such a notion is common enough for agrarianism and is found in Rasputin: the idea that the “I” is not a fundament, but is part of a larger reality. The ego is sunk into the integral basis of reality, but such a basis must be rather small (physically) and be based on a determinate community of people, region and language. The separation of the “I” from its surroundings is primarily an invention of the Roman empire and Stoicism, and is so well lampooned in Chekov’s Ward No. 6 The “I” is not a fundament, the community is, the integrity of one’s surroundings is. And it is on this basis that the personification of reality makes sense. Reality is absorbed by the community and transformed its social experience. And, further, it is this that makes capitalism and democracy so vile: for they see a forest as only so much wood, or as a potential field for development. The community, however, sees it as an ontological reservoir or feelings and memories; it is an aspect of personhood. The extreme emotions that sometimes are drawn out when old, rural settlements are bulldozed over for some trivial purpose is derived from precisely this ontological reality.

There is little doubt that Rasputin is a threat, and will remain so. As a fairly young man, he has several good years ahead of him. His work is accessible, and his message is clear. His characters are powerful and his personality uncompromising. Rasputin should have the role of the Solzhenitsyn of the 21st century, only it is not the Soviet GULAG that is the target, but the modern world and its sickness; the merger of corporate capital and Soviet repression.

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Ezra Pound a Milano

«EZRA POUND  A MILANO»


Luca Gallesi, Introduzione a Ezra Pound e il turismo colto a Milano - Ex: http://www.ares.mi.it/

Una delle caratteristiche della biografia di Ezra Pound che più colpisce il lettore europeo è la sua irrequietezza tipicamente nordamericana. Nato nel 1885 a Hailey, nell’Idaho, a soli 18 mesi Pound lascia il Far West per iniziare una interminabile serie di trasferimenti che presto lo portano ad attraversare prima gli Stati Uniti poi l’Oceano Atlantico, per approdare definitivamente nel Vecchio Continente nel 1908.
 In Europa Pound vive anni molto intensi, prima  a Londra e poi a Parigi ma non è soddisfatto e decide di trasferirsi nel nostro Paese, a Rapallo, dove soggiorna dal 1925 al 1945.
  Accusato in patria di tradimento, alla fine della guerra viene fatto prigioniero dalle truppe statunitensi e torna nel Nuovo Mondo, per la prima volta in aeroplano. Giudicato mentalmente inadatto a sostenere un processo, viene internato nel manicomio criminale del Saint Elizabeths’ Hospital di Washington fino al 1958. Terminata la lunga e ingiusta  detenzione, il Poeta torna in Italia, e si stabilisce per tre anni in Alto Adige, dalla figlia Mary, prima di riprendere a vivere tra Rapallo e Venezia. Qui muore nel 1972 e da allora le sue spoglie riposano nel Cimitero di San Michele.
 
I rapporti tra l’Autore dei Cantos e il nostro Paese sono stati spesso oggetto di studio, a partire dall’ormai classico L’Italia di Ezra Pound  di Niccolò Zapponi, sino ai numerosi studi dedicati a città italiane predilette dal Poeta quali Verona, Ravenna e Venezia, che sono state anche recentemente sedi di importanti convegni dedicati a Ezra Pound.
 Si è scritto anche dei rapporti di Pound con Siena e con Pisa, nelle cui campagne si trovava il Disciplinary Traninig Center dell’esercito statunitense, divenuto tristemente famoso per la “gabbia del gorilla” dove Ezra Pound viene rinchiuso alla fine della guerra, e dove scrive la splendida poesia dei Canti Pisani.
Anche della breve permanenza di Pound in Sicilia è disponibile una curiosa testimonianza, contenuta nelle recentemente pubblicate Lettere dalla Sicilia così come molto sappiamo delle numerose visite di Pound nella Capitale, nelle vesti di commentatore radiofonico per Radio Roma. 
 

Nel meritatamente celebre Discrezioni, infine, Mary de Rachewiltz ci porta testimonianza delle frequenti visite del padre in Alto Adige, dove lei viene cresciuta per volontà paterna e dove ancora oggi vive con la propria famiglia in un ospitale castello sede di numerose iniziative poundiane.
 Di Pound a Milano, invece, nessuno aveva finora ritenuto opportuno occuparsi. Città gelosa dei propri tesori e avara nel mostrarli, Milano ha infatti frequentemente evitato di celebrare i propri ospiti illustri, anche se sono numerosi e importanti i “turisti colti” che qui vennero a soggiornare per motivi di studio o di lavoro, passando, come Pound, quasi inosservati.
 Eppure Milano è tutt’altro che irrilevante per la biografia del Poeta: sui preziosi manoscritti custoditi alla Biblioteca Ambrosiana, infatti, Pound viene a studiare per il suo Cavalcanti; qui è invitato dal Rettore della prestigiosa Università Bocconi a tenere un ciclo di lezioni  di storia dell’economia  e infine a Milano risiedono i suoi storici editori italiani, prima Giovanni e poi Vanni Scheiwiller, che gli sono vicini e complici nell’applicare sul campo i principi poundiani di quella “nuova economia editoriale” più attenta alla qualità dei prodotti che ai margini di profitto.
Oltre alle circostanze appena ricordate, Pound ha a che fare in altre occasioni con la città di Milano, come vedremo dagli scritti raccolti in questo volume: dalla vorticosa amicizia con Martinetti, che del capoluogo lombardo fa la capitale delle avanguardie artistiche d’inizio secolo allo storico discorso milanese di Benito Mussolini del 6 ottobre 1934, che Pound propone con martellante insistenza all’attenzione dei suoi numerosi amici e corrispondenti di quegli anni; dalla collaborazione con i giornali e con l’emittente della Repubblica Sociale Italiana al tragico e vergognoso scempio di Piazzale Loreto, drammatica icona posta dal Poeta all’inizio dei Canti Pisani, che peserà come un macigno nell’animo di Pound, da allora mai più riconciliato con Milano, dove non tornerà più volentieri, come ricorda Mary de Rachewiltz nel suo intervento.
 Gli scritti dedicati a Ezra Pound e il turismo colto a Milano vogliono dunque essere un piccolo ma significativo tentativo di riconciliazione tra Pound e il capoluogo lombardo, attraverso il lavoro scientifico e originale degli studiosi chiamati a discutere i vari aspetti delle esperienze milanesi del Poeta, che qui vengono per la prima volta riassunte e approfondite.
 Giano Accame e Cesare Cavalleri ricostruiscono le vicende e l’atmosfera culturale della Milano degli anni Trenta, in cui Pound viene a tenere le lezioni d’economia all’Università Bocconi, mentre Alessandro Zaccuri  ripercorre, servendosi di “coincidenze significative” i complicati intrecci di editori, amici e poeti che qui si sono incontrati; Carlo Fabrizio Carli ha esaurientemente tracciato il quadro dei rapporti di Pound con le avanguaride artistiche del primo Novecento, mentre due studiosi nordamericani, Tim Redman e Leon Surette, analizzano gli spinosi rapporti tra Pound e il fascismo.
 Il quadro complessivo tracciato da queste relazioni offre sicuramente interessanti spunti di riflessione tanto sulle insospettate risorse culturali di una città come Milano quanto sulla confermata poliedricità di Pound artista, economista dilettante e sommo poeta.

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Luca Gallesi

 

Christopher Isherwood : "Adieu à Berlin"

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Christopher Isherwood: «Adieu à Berlin»

 

 

«Ainsi défilaient les champions de la Révolution. La flambée de passion propice à la réalisation du rêve ardent de sang et de barricades devrait surgir de cette fourmilière noirâtre?» (Ernst von SALOMON).

 

La disparition, voici bientôt dix ans, de l'écrivain anglais Christopher Isherwood, auteur, entre autres nouvelles, d'Adieu à Berlin, nous rappelle qu'il faut aborder différemment la littérature traitant des événements qui ont secoué l'Allemagne de la défaite de 1918 à l'avènement du national-socialisme. Isherwood (1904-1986) a traité cette époque de manière magistrale, surtout la véritable période charnière entre 1929 et 1933, époque où il a vécu en Allemagne et a été témoin direct des bouleversements politiques. L'auteur a observé la reconstitution d'une forme particulière d'engagement politique collectif, propre à l'action de l'ère du nihilisme, due à un surplus de volonté accompagnant la décomposition des hautes sphères de la bourgeoisie et le déclin des valeurs civiques, entraînant la disparition du citoyen traditionnel, pacifique et productif.

 

Adieu à Berlin correspond à ce que Roger Stéphane décrit dans Portrait de l'aventurier comme étant un moment particulier de la culture européenne, où éclot la «désolidarisation d'avec un monde moribond». Ce monde, en effet, produit une “réalité négative et obscure”, où domine un type humain bien cerné par Drieu la Rochelle: «l'homme de main communiste, l'homme citadin, neurasthénique, excité par l'exemple des “fasci” italiens, de même celui des mercenaires des guerres de Chine, des soldats de la Légion Etrangère».

 

Malgré la volonté d'Isherwood de se distancier de l'horreur et de la violence d'une guerre civile berlinoise se camouflant derrière une fausse normalité, celle des cabarets, des quartiers riches en marge des masses et des hôtels de maître hors de la réalité violente de la rue, sa narration se transforme en une chronique de la révolte aveugle et désespérée, celles des hommes qui diront plus tard: «nous connaissions ce que nous aimions et nous n'aimions pas ce que nous connaissions» (propos rapportés par Ernst von Salomon).

 

L'importance d'Isherwood réside au fond en ceci: il est curieux d'une époque et d'une atmosphère, il s'en fait donc le chroniqueur et l'historien et, par l'excellence littéraire de son récit, il nous offre un accès aisé à cette trame d'événements qui ont fait les “années décisives” comme les a appelées Spengler. Vue sous cet angle, l'œuvre de l'écrivain anglais, devenu par après citoyen américain, n'est pas seule: sur le plan narratif, nous avons la nouvelle autobiographique d'Ernst von Salomon, Les Réprouvés;  sur un plan plus philosophique, nous avons les Considérations d'un apolitique de Thomas Mann, réflexions, hésitations d'un intellectuel qui est organiquement un citadin et un bourgeois et qui jette son regard sur ce que sont devenues les valeurs des Lumières.

 

Adieu à Berlin  est donc l'adieu à une époque qui se termine, à ces illusions bourgeoises qui prétendent que “plus rien ne doit se passer”. Adieu à Berlin nous restitue le cadre d'une réalité, nous livre la chronique d'une histoire complexe qui est aussi la récapitulation en condensé d'un large pan de l'histoire européenne contenu tout entier dans les années qui ont immédiatement suivi la défaite allemande de 1918. Dans Les Réprouvés  de von Salomon, on trouve les sédiments de ce qu'expérimentera Isherwood quelques années plus tard. Les thématiques littéraires qui fascineront ou horrifieront l'écrivain anglais étaient déjà nées dans les expériences de ce volontaire des Corps Francs, de ce franc-tireur, de ce terroriste, de cet aventurier, de ce partisan des solutions les plus radicales dans la lutte contre le spartakisme ou contre la République bourgeoise et procédurière de Weimar: Ernst von Salomon.

 

Isherwood décrit les violences des combats de rues à Berlin, la ville conquise par l'habilité propagandiste du Dr. Goebbels et de son journal agressif, dur, caustique et percutant, Der Angriff. «Dans les murs d'un Berlin qui se transformait, apparaissaient, écrites en lourdes lettres gothiques, les affiches de la peste brune. On pouvait y lire: “l'Etat bourgeois approche de sa fin! Il faut forger une nouvelle Allemagne! Elle ne sera ni un Etat bourgeois ni un Etat de classe! Pour réaliser cette mission, l'histoire t'a choisi, toi, le Travailleur manuel et intellectuel!». Pour sa part, von Salomon ne se fait plus aucun illusion, ses espoirs se sont définitivement évanouis: «Le vin qui fermentait dans les tonneaux de la bourgeoisie, sera un jour bu sous la dénomination de “fascisme”».

 

Adieu à Berlin est la mémoire qui nous reste d'une civilisation vieille-bourgeoise, démocratique et pluraliste, perdue au milieu de la marée montant du nihilisme s'annonçant dans l'élan et les ruines, dans un nouveau vitalisme, tel celui que prévoit un personnage du livre, Hinnerk: «Unir les jeunesses communistes et hitlériennes et, avec l'aide de ces bataillons unifiés, envoyer au diable les voleurs de la grosse industrie et de la haute finance, avec leurs appendices, ces ordonnances de merde, et ensuite établir, comme loi suprême, comme unique loi décente, la camaraderie (...) Et tu pourras appeler cela socialisme ou nationalisme, cela m'est absolument égal».

 

Sur les décombres et les différences, Christopher Isherwood salue un écrivain allemand, dont l'idiosyncrasie est foncièrement différente de la sienne, mais dont le constat est pareil au sien: une époque entrait, à Berlin, dans ces années décisives, en extinction.

 

José Luis ONTIVEROS.

(Trad. franç.: Rogelio PETE).

vendredi, 20 mars 2009

Ernst Jünger et le retour aux Grecs

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Ernst Jünger et le retour aux Grecs

 

 

(conférence d'Isabelle Fournier lors de l'Université d'été de la FACE, juillet 1995)

 

L'œuvre jüngerienne est, selon l'auteur lui-même, divisée en deux parties, un “ancien testament” (1920-1932), dont le fleuron est Le Travailleur (1932) et un “nouveau testament”, commencé par Sur la douleur. Pour Jünger, comme pour tous les hommes de culture en Europe, le recours aux Grecs est une démarche essentielle, malgré l'irrevéresibilité de l'histoire. Aujourd'hui, époque nihiliste, la clef de voûte de la civilisation hellénique, c'est-à-dire la Cité, s'effondre. L'homme libre doit la quitter, retourner à la forêt, au resourcement.

 

Dans l'œuvre jüngerienne, le symbolisme de la Cité est essentiel. Du temps des Grecs, la Cité s'opposait au chaos des périphéries incultes et sauvages. Mais cette Cité, symbole de l'empire que l'homme est parfois capable d'exercer sur lui-même, est périssable, comme nous le constantons, constat qui autorise à proclamer son imperfection. Jünger s'intéresse à la signification de cette mort des cités. Dans le monde grec, la Cité, justement, permettait d'élaborer, à l'abri du chaos, une pensée rationnelle, se substituant progressivement au mythe, fondateur de la culture initiale. L'esprit grec est celui qui a inscrit la pensée humaine dans la mémoire et la durée. C'est Hérodote qui fait passer l'hellénité du mythe à l'histoire. C'est aussi dans cette intersection que se situe Thucydide. Mais cette construction va s'éroder, s'effondrer. Nous sommes alors entrés dans l'âge des cités imparfaites.

 

Les cités imparfaites découlent de la dévaluation des valeurs supérieures: elles annoncent le nihilisme. La décadence est le concours de l'érosion de l'autorité spirituelle, de la dissolution des hiérarchies et du déclin de la langue. Le temps des virtualités religieuses est épuisé, l'unité mentale du peuple n'existe plus, les fidélités communautaires sont fissurées, on rompt avec le mos majorum. La Cité des Falaises de marbre est une de ces cités imparfaites, où il n'y a plus unité de culte, où les rites funéraires sont en déchéance, banalisés par la technique, où le sacré se retire, où la raison n'est plus qu'un outil de puissance. Mais Jünger sait surtout que l'on n'exhume pas les dieux morts. Dans Heliopolis, il se penche sur cette question du vide laissé par ces dieux et place cette autre cité imparfaite qu'imagine son génie poétique, à l'enseigne des néo-spiritualismes, palliatifs éphémères et maladroits à cette déchéance. Toute chute est précédée d'un affaiblissement intérieur, nous dit Jünger. Comment supporter ce déclin, qui est en même temps terreur? Par la fuite. Les héros jüngeriens présentent dès lors des itinéraires individuels tout de solitude, de nostalgie du monde originel, d'inquiétude existentielle. Ils sont volontairement des étrangers à l'histoire.

 

Œuvre et des cités primordiales et des cités imparfaites, l'œuvre de Jünger est aussi celle qui tente de donner un sens à cette fuite. L'homme peut-il guérir d'un monde foncièrement vicié? Oui, à condition de passer par l'athanor de la souffrance (de la douleur). Oui, à condition de recourir aux archétypes féminins, de retourner à la Grande Mère, retour qui est simultanément “réhabilitation du temps”.

 

(notes prises par Etienne Louwerijk et Catherine Niclaisse).

jeudi, 19 mars 2009

Patriotic Anarch? 100 Years of Robert A. Heinlein

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Patriotic Anarch? 100 Years of Robert A. Heinlein

by Flavio Goncalves

Ex: http://www.rosenoire.org/

THE first book I read that was authored by Robert A. Heinlein was “Stranger in a Strange Land”. I borrowed it from my younger brother and it was a cheap paperback edition with a very beautiful cover. I still keep it in my library at my family home in the Azores. “Stranger in a Strange Land” was considered very progressive in Heinlein’s day, dealing with the sexual revolution when that sort of thing was still considered as counter-culture and giving Heinlein himself some sort of guru status. Even though the book was first published in 1961, that edition was censored and the readers only got a chance to read the book in its entirety in 1991. Some claims have been made that this was the book that inspired the Manson Cult, even though Charles Manson himself publicly stated that he didn’t ever even read the book and had no responsibility regarding what his followers read.

Born July 7, 1907, Heinlein began his political trail as a regular left-winger but somehow along the trail that changed and when he died he was viewed as some sort of right-wing anarchist. I can’t really tell you what happened, but his “Starship Troopers” novel did sound a bit anti-communist to me and it was published earlier than “Stranger in a Strange Land”. But since anti-communism cannot be considered as something which is reviled by right-wingers alone, after all, regular anarchists are also anti-communist as part of their anti-authoritarian agenda (say what you like, proletariat dictatorship is still a dictatorship) and that goes as far back as the First International, when Mikhail Bakunin clashed with Karl Marx. So, many left-wingers (I would dare say most) are anti-communist and that’s nothing new.

I’ll avoid all the fuss about whether “Starship Troopers” was an ode to militarism or some sort of patriotic fascist order and place it, instead, side by side with “Nineteen Eighty-Four”, “The Iron Heel” and “Brave New World”. It depicts a future under an authoritarian form of government and that is that! Let me borrow a quote from Wikipedia: “The overall theme of the book is that social responsibility requires individual sacrifice. Heinlein's Terran Federation is a limited democracy with aspects of a meritocracy based on willingness to sacrifice in the common interest. Suffrage belongs only to those willing to serve their society by two years of volunteer Federal Service (there is no draft)” Well, that sounds good to me and remains one of my own views on Socialism. The common interest of the people should be more important than the interest of individuals and this would improve our modern society, even though I also believe that we need a more significant change.

Returning to Heinlein, as was common practice among militaristic science fiction writers, once upon a time he had been a soldier and served in the United States Navy during World War Two, but due to health reasons he never had a chance to fight. He remained in the States, in the background, during the war. He and his wife, during the Cold War, founded the Patrick Henry League when the National Committee for a Sane Nuclear Policy, in 1958, tried to unilaterally stop all nuclear weapons testing in the USA despite the fact that the Soviet Union could keep on testing theirs… which sounds like the act of a patriot. To this day “Starship Troopers” remains a part of the reading list in four of the five existing American military academies (covering the Army, the Marines and the Navy).

So, what was he? He has been labeled a fascist, a nazi, a racist and at the same time promoted homophobia and sexual liberation. And if in “Starship Troopers” we see him picturing good government as big government, on the other hand we find him fighting central government in “The Moon is a Harsh Mistress” while promoting small communities as models of individual freedom (as any good anarchist should). and what can one say about his “Take Back Your Government!: A Practical Handbook for the Private Citizen Who Wants Democracy to Work”?

All of his earlier writings and even his Socialist political activism will show him as an anarchist, but due to the peculiarities of the Cold War he also embraced patriotism. His country was at war with a federation of foreign countries and it seemed natural to him to stand up for his fellow countrymen, but let us not forget that his position regarding homosexuality, sexual liberation, his criticism of organised religion and his more private issues (he remained a naturist all of his life) can hardly be interpreted as right-wing. His writing was revolutionary, his positions were those of a traditional anarchist, but when need be he also was a patriot and criticised Soviet Communism, which should not be mistaken with Socialism.

His books remain as exciting today as they were almost half a century ago and important lessons can be derived from all of them, as well as great entertainment. He did won four Hugo awards, after all, so let us hope that this revolutionary writer and thinker will not be forgotten so soon.

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Ezra Pound, lo scandalo libertario

Ezra Pound, lo scandalo libertario

 
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"Beauty is difficult", scriveva Ezra Pound: la bellezza è difficile. E senz' altro è difficile capire come uno dei geni poetici del Novecento volesse conciliare Benito Mussolini e Thomas Jefferson, la libertà e la scelta per la Repubblica sociale. A sciogliere queste contraddizioni in un «elogio libertario di Ezra Pound» ci ha provato la settimana scorsa sul Corriere della Sera il filosofo Giulio Giorello in un articolo dedicato a un saggio di Pound tradotto da Andrea Colombo per la prima volta in italiano, Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento (Edizioni Ares, introduzione di Luca Gallesi).

«Beauty is difficult»,


L' intervento di Giorello non è passato inosservato. Non ci riferiamo tanto al commento entusiastico di Luciano Lanna sulla prima pagina del Secolo d' Italia, «Pound (come Jünger) era un libertario», quanto all' attenzione che ad esso ha dedicato Giano Accame, ex direttore del Secolo d' Italia, ma soprattutto uno dei maggiori esperti italiani del pensiero politico di Pound. «Negli anni Novanta avevo pubblicato per Settimo Sigillo il saggio Pound economista. Contro l' usura - ci dice Accame -. Un lavoro cui mi dedicai quando Pound, soprattutto per i lavori poetici, era stato ampiamente rivalutato dalla critica di sinistra, a cominciare dai fondamentali saggi del professor Massimo Bacigalupo, che collaborava al manifesto e, detto per inciso, era figlio del medico italiano dell' autore dei Cantos. Mi sembra che l' intervento di Giorello possa rappresentare l' inizio della rivalutazione non soltanto poetica, ma del pensiero complessivo di Pound, anche alla luce della crisi finanziaria internazionale».


Che cosa c' entra, si potrebbe obiettare, il crollo dei mercati finanziari, evocato peraltro anche da Giorello, con il poeta americano che aveva scelto di vivere in Italia? «Pound - spiega Accame - si reputava un patriota, legato ai valori della Costituzione, che affidava al Congresso di Washington la custodia della moneta. Egli considerava un' abiura della sovranità popolare l' aver delegato la gestione della moneta e della finanza alla Banca centrale, un ente i cui responsabili non rispondono delle proprie azioni al popolo. Da questa concezione derivava la proposta ingenua di una moneta deperibile... Al di là degli aspetti utopistici e sconclusionati del suo pensiero economico, restano oggi, in questa situazione, i moniti profetici. Pound considerava i poeti come le antenne di un popolo».
Pensiero economico a parte, definire «libertario» uno scrittore che si schierò pubblicamente per la Repubblica sociale italiana può essere visto da alcuni intellettuali di sinistra come un' impostura. «Non è affatto un' impostura - risponde Accame - perché il sogno finale di tutti i grandi intellettuali fascisti, da Giovanni Gentile all' eretico Berto Ricci e all' artista Mario Sironi, era realizzare la grandezza italiana nella libertà. Il fatto poi che Pound fosse vicino al fascismo in declino rispondeva un po' alla natura dei pionieri americani, gente costretta a fuggire perché negletta nella propria terra».


Internato in un campo di concentramento vicino a Pisa, dove scrisse i Canti pisani, da alcuni considerato il meglio della sua produzione, Pound passò poi dodici anni in un manicomio criminale a Washington, ma l' America non ebbe mai il coraggio di condannare per tradimento uno dei suoi geni. Nessuno può negare la tensione libertaria di testi composti in un campo di prigionia. Tuttavia, osserva Luigi Sampietro, docente di letteratura angloamericana all' Università Statale di Milano e frequentatore tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta di casa Pound a Brunnenburg, vicino a Merano, «non si deve confondere tensione democratica, certamente presente in Pound, e liberalismo, che è l' espressione culturale del mercato. In fondo Adams e Jefferson condussero una guerra economica, per la liberalizzazione del mercato, diedero l' indipendenza alla propria terra perché non volevano pagare tasse. Ezra Pound, invece, con la sua ossessione contro l' usura, da cui derivava il suo antiebraismo, e l' invenzione di una moneta deperibile basata sul valore accumulato con il lavoro, contrapposto al denaro neutro valido per tutti, si ispirava in fondo a principi antiliberali. Chi potrebbe realizzare, se non una dittatura con un' economia dirigista, la carta-lavoro ipotizzata dall' autore dei Cantos?».
D' accordo con «l' elogio libertario» scritto da Giulio Giorello è lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, autore di Cabaret Voltaire (Bompiani). Tuttavia, dice Buttafuoco, il contesto politico-culturale del nostro Paese ci costringe sempre «alla scoperta dell' acqua calda. Sì, ha capito bene: scoperta dell' acqua calda. Perché fin quando non ci libereremo dell' incubo antifascista, non ci potremo accostare con serenità al grande patrimonio culturale del Novecento. E non solo, perché ricordo che in Italia la cultura marxista più retriva ha messo in dubbio persino i filosofi presocratici, considerandoli antesignani del pensiero negativo. Come per Pound, oggi assistiamo alla rivalutazione del Futurismo, dopo che per anni ci hanno annoiato con le scoperte della transavanguardia. Ci rendiamo conto soltanto adesso che il Futurismo è stato il maggiore movimento culturale italiano assieme al Rinascimento? Certo, ebbe anche una valenza politica».

mardi, 17 mars 2009

Tra prosodia e immagine : Ezra Pound

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Tra prosodia e immagine: Ezra Pound

 

 

di Nicola D’Ugo

Ex: http://www.controluce.it/

In questo secolo la poesia, spronata dai grandi maestri dell’Ottocento, a partire dai simbolisti francesi, ha dato luogo alle più diverse manifestazioni espressive. Al di là dei responsi dei vari periodi circa le influenze sull’arte e sulla letteratura esercitate da un singolo autore –si pensi alla tardissima riesumazione dell’opera della poeta americana Emily Dickinson– è opportuno segnalare una tendenza fortemente motoria della poesia, ottenuta con mezzi prevalentemente a base fonica, e una statica, ottenuta anzitutto tramite immagini. Se i calligrammi, le parole in libertà e la poesia concreta in genere hanno portato a un incontro più deciso di immagine iconica, suono e concetto, la letteratura in versi che si è avvalsa solo del mezzo linguistico –che è poi la più considerevole– si è diversificata puntando o sulle modalità prosodiche o sulle modalità di rimando iconico. Motoria è da dirsi la scrittura timbrica o ritmica, fortemente improntata su occorrenze e ricorrenze temporalmente esibite, una scrittura già tradizionale ma che l’introduzione del verse libre ha fortemente riformato. Attenta a quest’aspetto, ma decisamente formata sull’altro versante, la poetica dell’immagine, o Imagismo, seppure abbia avuto esiti che si allontanarono molto dal loro intento iniziale, ci offre un limpido spaccato dell’attività poetica del Novecento riguardo ai propri propositi. L’incontro di un iniziatore del movimento come Ezra Pound con la poesia cinese, di cui ci restano le splendide e libere traduzioni di Cathay, si incrociava se non altro con il Medioevo nostrano, di cui Pound era un appassionato conoscitore. Rileggere oggi Cathay ci permette intanto di avvicinarci a una mentalità della scrittura poetica non esclusivamente occidentale, ma che già nell’Occidente medievale dello Stilnovo trovava una formulazione risolutamente caratterizzata. I rischi dell’importazione sono molteplici. Più di recente, in una nuova ondata d’interesse per l’Estremo Oriente, il semiologo francese Roland Barthes ci ha illustrato un modo di porsi negli interstizi fra Oriente e Occidente, non tanto cercando di «scoprire» l’Oriente, con l’incombente rischio di travisarlo e deformarlo attraverso la patina dell’occhio occidentale, quanto piuttosto «inventandoselo» per scoprire meglio se stesso e i suoi «simili» occidentali, il nostro modo di pensare (che ci pare sempre l’unico adeguato, finché l’apparenza non ci induca a credere che il diverso funziona meglio del consueto), la nostra alterità.

Nello Stilnovo, il cui interesse per l’immagine è fortissimo, le cose inanimate sanno acquisire un valore anche spirituale e morale, allegorico e anagogico, di modo che le finalità della loro presenza sulla pagina sono tutte regolate da una logica squisitamente occidentale, ovvero una logica di nessi riconducibili a principi, una logica di gerarchie che, se non sono date, possono essere ricostruite secondo un processo analitico e associativo. Il rapporto con la natura, considerato fondamentale per la ricognizione cosmologica e per la comprensione dell’uomo quale creatura privilegiata, viene ricondotto, anche nelle sue manifestazioni meno evidentemente cerebrali, a una concezione filosofica più o meno individuale del singolo autore: la poesia, per metafisica che possa apparire, si fonda, per lo stilnovista, su principi fisici e culturali.
Il celebre distico imagista di Ezra Pound «In a Station of the Metro» («In una stazione del métro») consiste di due soli versi in cui è posto un nesso analogico:

«The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.»

(«L’apparizione di questi volti nella folla;
Petali su un umido, nero ramo.»)

In questo tipo di componimento non si utilizza l’immagine con l’intento di evocarne una privilegiata e intraducibile in un referente esterno, ma per rimandarci a un dato sensoriale che ha connotazioni di carattere emozionale; l’immagine è di un’estetica trascendentale proposta attraverso un’espressione linguistica, non già fondata su un’estetica esclusivamente linguistica. A differenza dei componimenti simbolisti, il testo è una mediazione fra esperienza e interiorità, ci offre un referente, non il libero gioco dell’immaginazione a partire da significati e suoni, e il suo fine non è suggerire qualcosa oltre l’apparenza, ma rendere il lettore partecipe dell’apparenza in tutta la sua pienezza. È impressionistico, e fine della poetica imagista la rappresentabilità. L’apparire non contiene in sé, aprioristicamente, valenze di simulazione e dissimulazione, è invece e anzitutto direzionato verso un valore di verità (anche emozionale) che trapela dalla scrittura.

Nonostante i limiti di questa poetica di gruppo –del resto straordinariamente superati da un iniziatore del calibro di Pound negli anni successivi– un grande bardo del Novecento come W. B. Yeats volle ammettere di aver appreso molto dal giovane poeta americano. Nelle Autobiografie ci ricorda l’episodio in cui un giorno Pound gli parlò di questa poetica delle parole concrete in luogo di quelle astratte, e Yeats, già celebre e d’età più matura del poeta americano, gli diede un suo componimento invitandolo a indicargli le parole astratte che aveva utilizzato. Pound prese lo scritto e se lo portò via, per poi tornare poco dopo. Il componimento era quasi tutto sottolineato. Da quella volta Yeats prestò attenzione all’insegnamento del suo geniale segretario.

Qualunque poeta dovrebbe aver presente la qualità e l’efficacia delle parole astratte che pone in un suo scritto. Poeti successivi a Pound, come T. S. Eliot, W. B. Yeats e Dylan Thomas (e Pound stesso nei Cantos), fecero largo uso dei termini astratti, con finalità anche molto diverse, ma seppero dar maggior vigoria alla scrittura nei componimenti in cui l’astrazione è ridotta all’osso. Pound si avvalse di questa distinzione come regola prima, segnalando che se la Comedia di Dante era un capolavoro dell’uso poetico dell’immagine, Il Paradiso perduto di Milton, essendo privo di immagini altrettanto concrete, appariva come un «sacco vuoto».

dimanche, 15 mars 2009

Drieu La Rochelle. Il mito dell'Europa

Drieu La Rochelle. Il mito dell’Europa

Autore: Andrea Strummiello

Pierre Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 15 marzo 1945)

Pierre Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 15 marzo 1945)

Questo libro, edito nel lontano 1965, poi ristampato nel 1981, ed ormai reperibile nel migliore dei casi in sbiadite fotocopie, rivelò al distratto pubblico italiano la figura di Pierre Drieu La Rochelle. A questa lacuna, aveva in parte rimediato un libro di Paul Serant (Romanticismo fascista) uscito qualche anno prima, ma fu solo con questo piccolo saggio che esplose la passione per questo “poeta maledetto” del Novecento. Contemporaneamente alla scoperta in Italia della figura del “collaborazionista” La Rochelle, in Francia cominciavano ad essere ristampati i suoi testi, come in una timida, comune, primavera del pensiero anticonformista brutalmente azzittito con la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.

La Rochelle è sicuramente una personalità forte, uno scrittore dal temperamento d’acciaio, ma anche un polemista dalle grandi capacità di romanziere. Questa sua grande sensibilità fu probabilmente dovuta all’esperienza tragica nella Prima Guerra Mondiale (in cui fu ferito tre volte), e all’estrazione borghese della sua famiglia, rovinata da crisi economiche e sentimentali.

Sicuramente Drieu sapeva che non si potevano servire due “padroni”, la verità e la notorietà, scegliendo così di essere compreso bene, ma da pochi. Non a caso gli autori del libro, sottolineano la figura di questo poeta come quella del miglior Nietzsche: un’inattuale appunto, che ha lasciato fosse il fluire del tempo a dispiegare tutta la sua attualità e profeticità.

L’analisi del pensiero di La Rochelle segue così per ognuno dei tre autori una prospettiva differente: se Romualdi ne analizza la personalissima Weltanschauung, il suo esempio, identificato come militia per l’Europa, è il contributo di Giannettini, mentre Prisco si sofferma sulla storia “personale” di questo.

Dopo la crisi del ‘29, mentre tutti i suoi amici d’infanzia scelgono di abbracciare le sorti dell’Internazionale comunista, Drieu fa una scelta impopolare: egli comincia a proclamarsi apertamente fascista. Il suo fascismo è però quello di chi non può fare a meno di denunciare i mali della decadenza, di elaborare una personale rivolta contro quel “tramonto dell’occidente” già raccontato da Spengler, e dagli autori tedeschi della Rivoluzione Conservatrice.

Per questo, Drieu non fu solo un “intellettuale fascista”, come qualcuno ha voluto etichettarlo un po’ troppo semplicisticamente. Fu uno scrittore che credette di trovare una risposta alle sue domande e alle sue speranze nel fascismo o, meglio, in una certa immagine del fascismo che si era creato. Particolare fondamentale, poiché se non si tiene conto di ciò, si rischia di non capire la sua critica e lucida analisi dei regimi di Mussolini e di Hitler, e quell’atteggiamento anticonformista (appunto “maledetto”) che gli attirò le antipatie sia delle destre che delle sinistre dell’epoca.

La sua Europa non è un’Europa “neutra”: aborto esangue ed intellettuale dei federalisti di Strasburgo o d’altri democratici tout court. La sua Europa è invece quella volontà unica e formidabile, già narrata da Nietzsche, che nel sacrificio e nella stirpe, trova la sua ragion dessere. Non aveva allora torto Drieu La Rochelle, a scrivere poco prima di morire che le generazioni future si sarebbero chinate, incuriosite, sui suoi libri per cogliere un suono diverso da quello solito.

Drieu, però, a differenza di molti altri “redenti” o fascisti “pentiti”, volle pagare sino in fondo, dimostrando che ancora oggi le parole possono essere scritte «con il sangue e non solo con l’inchiostro». Avrebbe potuto fuggire come molti, starsene tranquillo per un po’ e ritornare in patria dopo qualche anno. No. Sarebbe stato troppo facile, troppo moderno per lui. Drieu La Rochelle moriva perciò suicida, il 15 Marzo 1945 nel momento della “liberazione”.

* * *

A. Romualdi, M. Prisco, G. Giannettini, Drieu La Rochelle. Il mito dell’Europa, Edizioni del Solstizio, 1965.

[Tratto da “il Borghese”, n.8, Agosto 2008]


Andrea Strummiello

samedi, 07 mars 2009

L. F. Céline: la grande attaque contre le Verbe

Louis-Ferdinand Céline : La grande attaque contre le Verbe

Ex: http://ettuttiquanti.blogspot.com/
Dans L.F. Céline vous parle (1957), émission radiophonique où Céline aborde à nouveau son oeuvre, ses techniques, l'auteur donne un prolongement aux images du rail camouflé rectiligne et du bâton courbé vu droit dans l'eau. Nous complétons l'analyse du "métro du bout de la nuit" par un extrait de l'entretien, avec des incursions dans quelques autres lettres et textes de l'écrivain. Parlant de son style émotif qui rend caduc le "style verbal" du "bachot" ou du "journal habituel", "éloquent peut-être mais certainement pas émotif", l'auteur rencontre le symbole du Verbe et de la porte.

Il faut, dit-il, sortir les phrases de leur sens usuel, d'un écart très léger comme on déplace une porte hors de ses gonds:

"Le style, il est fait d'une certaine façon de forcer les phrases à sortir légèrement de leur signification habituelle, de les sortir des gonds pour ainsi dire, les déplacer, et forcer ainsi le lecteur à lui-même déplacer son sens."

Ce "labeur" exige beaucoup de doigté. Céline enchaîne immédiatement sur sa "grande attaque contre le Verbe":

"Vous savez, dans les Ecritures, il est écrit : "Au commencement était le Verbe" Non! Au commencement était l'émotion..."

Tecniquement parlant, l'auteur décrit, par l'image, les procédés grâce auxquels il fait passer le langague parlé à travers l'écrit, pour atteindre, dit-il ailleurs, "cette espèce de prose versifiée (...) de dentelle" toute "en émotion et en violence" (1), un travail aussi "éreintant" que celui du médium en transe. Il faut gauchir, "tordre la langue tout en rythme, cadence, mots"(2). "C'est transposé dans le domaine de la rêverie entre le vrai et le pas vrai." (3)

Les gonds et la porte sont aussi un archétype très ancien. En posant son Verbe magique en rival de celui des Ecritures, Céline ne pouvait guère faire l'impasse sur ce point. L'idée d'axe du monde, de cycle, d'ouverture et de fermeture des portes solsticiales, tout ceci est contenu dans l'image de la porte et des gonds, nommés dans l'Antiquité par le même mot "cardo", d'où dérive le terme "cardinalis" servant à désigner les quatre directions de l'espace. Dans la symbolique romane les portes désaxées figurent une atteinte à l'âme du monde et à celle de l'homme. Le Christ, que l'Evangéliste désigne par le Verbe est dit "la Vraie Porte".

[...] La "grande attaque contre le Verbe" menée par Céline a bien d'autres finalités qu'un simple retour à la pureté des origines émotives du langage. Le métro célinien est tellement contre-nature que le colonel Réséda, à l'esprit si lent, finit par céder à la panique :

"il voit le métro sur le boulevard!... là, sur le boulevard Sébastopol!... il se cramponne... (...) Les rails!... qu'il crie, lui (...) traître! les rails!... il a dévissé tous les rails!... (...) au secours! au secours! (...) il a mis des soupirs partout!... monstre anarchiste!... vendu!... traître!... traître!..."

La vision n'est pas si délirante. Elle énonce le remède. Le colonel hurle:

"C'est le métro! (...) c'est le métro!" "Sauvez-moi! sauvez-moi tous!" "Un taxi pour l'amour de Dieu!"

Dans son accès de démence, Réséda propose une sortie du métro, au jour, il achète des fleurs, "les lys, les glaïeuls, les roses", véritable antidote. La fable ne saurait se contenter de cette fin : Réséda perd ses lys; hypocritement Céline les ramasse, mais le coeur n'y est pas :

"C'est vrai, il perdait ses fleurs!... (...) il en perd encore!... j'en ramasse..."

Récapitulons: Les Entretiens avec le Professeur Y constituent une véritable parabole de l'oeuvre célinienne, de ses tropismes, et de l'envoûtement qu'elle exerce sur le lecteur. L'auteur y livre rétrospectivement la théorie et la pratique de ses écrits, tout particulièrement leur phase "au noir" constituant sa grande période créatrice. Le renversement des valeurs diurnes, symboliquement la Surface - avec majuscule - la chute active, accélérée vers le "bout de la nuit" sont exprimés par la métaphore du métro Pigalle.
L'écrivain fera basculer ses fables pseudo-biographiques dans cet "Espace Pigalle" ainsi que toute la matière substancielle de ses romans.

Le choix dit Pascalien de Céline témoigne d'une sacralité inversive. Descendre au gouffre par le "Nord-Sud", à toute vapeur, s'y boucler avec les voyageurs en un trajet strictement nocturne analogue à la navigation des morts, signifie un renversement caractéristique de substitution de la nuit au jour. Telle est la politique qui sera celle de Céline dans Voyage au bout de la nuit, métaphoriquement et intuitivement comme Monsieur Jourdain faisait de la prose sans le savoir, puis, bien plus tard, consciemment dans les Féerie dont les allégories offrent un véritable florilège de tous les gestes de l'Oeuvre au noir, première époque célinienne.

Les Entretiens considèrent l'état mental des voyageurs-lecteurs entraînés dans l'abîme : vivre dans les ténèbres substituées au jour sous la dictature du magicien-inventeur-ferroviaire est une situation inviable, à plus forte raison si l'auteur réussit, comme il l'a fait dans Voyage, à faire passer pour naturelle cette chute aux enfers. Céline ajoute dans un entretien avec A. Zbinden :

"Et pour tout avouer, si je me suis mis tant de gens à dos, l'hostilité du monde entier, je ne suis pas certain que ce ne soit pas volontairement. (...) Je me suis isolé, pour ainsi dire. Isolé, c'est pour être plus en face de la "chose".

[...] Il avait de quoi s'isoler volontairement face à la "chose", la redouter, lui attribuer tous les malheurs, estimer qu'ils remontent à Voyage, "le seul livre vraiment méchant" de sa carrière... (4) C'est peut-être dans cette magie noire du Verbe qu'il faut chercher le trouble que Céline inspire. C'est peut-être la perversité, le malaise, la délectation du pacte forcé avec la nuit que certains lecteurs lui pardonnent le moins.

Source : Denise Aebersold, Goétie de Céline, SEC, 2008.


Notes
1- Lettre de Céline au Dr Camus du 24 mai 1950, citée par P. Alméras, in Dictionnaire Céline, pp 802-803.
2- Lettre du 16 avril 1947 à Milton Hindus.
3- Entretien avec Claude Sarraute, Le Monde, 1/6/1960, Cahiers Céline 2.
4- Préface à une réédition de Voyage au bout de la nuit, 1949.

F. M. Dostojevski: "Duivels"

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Fjodor Michailovitsj Dostojevski, ‘Duivels’ (2008)

European Friends of Russia

Cédric Raskin

Te traag, te weinig actie en te moeilijk: altijd een makkelijk excuus om in luie momenten een zware Dostojevski links te laten liggen. Niet zo met deze frisse nieuwe editie van ‘Boze geesten’. Met maar liefst dertien doden (als we goed hebben geteld) is dit verhaal zowat het bloederigste van alle Dostojevski’s. En door de universele tijdloze thematiek blijft deze roman, een van de literaire hoogtepunten van de wereldliteratuur, ook nu nog brandend actueel.

Een en ander is ook te danken aan de uitstekende vertaling van Hans Boland. Eindelijk eens een vertaler die doorheeft dat de Russen elkaar dan wel aanspreken met alle mogelijke vadersnamen en koosnaampjes, maar dat die patroniemen voor ons, Vlamingen en Nederlanders, alleen maar verwarrend overkomen. Dus heeft hij de vrijheid genomen om alle personages consequent bij dezelfde naam te noemen - met uitzondering van de pedante verfransingen om het taalgebruik van de aristocratische klasse te parodiëren -, en daar zijn wij allerminst rouwig om.

Een andere spectaculaire ingreep van Boland is dat hij ‘Boze geesten’ of ‘De demonen’ voor het eerst herdoopt tot ‘Duivels’. Helemaal geen slechte titelkeuze als je de psychologie van het hoofdpersonage Nikolai Stavrogin onder de loep houdt. Als een echte Mefistofeles is Stavrogin de duivel in eigen persoon die enkele andere anarchistische en nihilistische jongeren ophitst om de revolutie voor te bereiden en zo de rust te verstoren in een vredig doorsnee Russisch provinciestadje. Zo krijgt het kleinburgerlijke wereldje vol hypocrisie, schijn en praalzucht een flinke uppercut die op zich nog aardig uit de hand loopt…

Revolutie, daar draait het om. Als blijkt dat die enkel kan worden bereikt door terrorisme als conditio sine qua nonvan politiek extremisme, is het niet verwonderlijk dat de meest controversiële schrijver uit Rusland met ‘Duivels’ ook zijn meest controversiële roman aflevert. Dat de duivelse opstandelingen en onevenwichtige socialisten ook daadwerkelijk zijn opgestaan zo’n halve eeuw nadat Dostojevski dit in 1873 op papier zette, geeft het boek ook een opvallend hoog profetisch karakter mee en draagt dankbaar bij tot de mythe.

Maar hoewel ‘Duivels’ op het eerste gezicht vooral een politieke roman lijkt, is het religieuze en filosofische debat over het bestaan van God minstens even sterk uitgewerkt. Dostojevski’s werk wemelt van intellectuelen met psychische stoornissen en dat is ook hier weer geen uitzondering. Zo is naast Stavrogin de vurige ongelovige Kirilov ongetwijfeld een van de merkwaardigste figuren. Gekweld door de vraag of er al dan niet een God bestaat, of dat hij die God zélf is, neemt hij het zekere voor het onzekere en pleegt hij zelfmoord om volledig vrij te zijn. Ook de constante psychische tweestrijd van de crimineel Stavrogin, de chef-duivel Pjotr Verchovenski of de moordenaar Raskolnikov is ronduit geniaal. Je zou voor minder beginnen twijfelen aan de geestelijke gezondheid van Dostojevski zelf, die zo’n scherp vermogen heeft om zich in te leven in het brein van wrede moordenaars…

Wie Russische literatuur zegt, hoeft niet te rekenen op een snel tempo. De Russen hebben en nemen hun tijd. Begint het verhaal wat te vlotten, dan haalt Dostojevski het tempo al te graag onderuit door zijsprongen te maken en dieper te graven in de psyche van zijn personages. Is dat niet echt je ding, laat het boek dan nog even in de rekken rijpen. Genoot je wél van pakweg ‘De gebroeders Karamazov’, ‘Misdaad en straf’ of ‘Schuld en boete’, dan zal dit verduiveld sterke meesterwerk zeker niet misstaan in je bibliotheek.

 

vendredi, 06 mars 2009

Lucien Combelle

 

Lucien Combelle

...Voici bientôt quinze ans qu’il nous a quittés. Je n’ai dû le rencontrer qu’une ou deux fois, rue Monge où il habitait alors. C’était en compagnie de Laurence Granet qui avait soutenu, quelques années auparavant, une thèse de doctorat sur « L’idéologie fasciste dans les œuvres de Brasillach, Drieu La Rochelle, Rebatet ». Le souvenir de ces conversations s’est effacé. Je me souviens seulement du jour où, en public, il évoqua, au risque de lui nuire, son « éditeur fasciste » [sic] qui publia au début des années quatre-vingts ses souvenirs de prison. Cette sortie ne fut pas sans choquer un ami célinien qui fit cette réflexion : « Tout de même, il exagère, c’est lui qui a été fasciste ! ». Longtemps, j’ai cru que, dans son journal Révolution nationale, il s’était montré partisan d’un fascisme « libéral », je veux dire moins radical que celui prôné par ses confrères de la presse parisienne. Jusqu’à cet été 1988 où, pour annoter la correspondance que lui adressa Céline sous l’Occupation, je dépouillai, à la Bibliothèque Royale (de Belgique), la collection complète de cet hebdomadaire. Comme l’a également montré Jeannine Verdès-Leroux, qui s’est livrée au même exercice, Lucien Combelle était, bien au contraire, partisan d’un collaborationnisme sans concessions. C’est dire si Vichy n’était pas ménagé, surtout quand le régime prenait l’initiative, approuvé en cela par l’Église, de censurer en zone non occupée des écrivains jugés délétères : « Valéry, Fargue interdits. Demain Gide et Proust. Et Céline et Marcel Aymé. Et Montherlant. La France officielle semble vouloir retrouver sa beauté en avalant la jouvence de  l’abbé Soury, et  soigner ses blessures avec de l’eau bénite »¹.  On n’est donc pas étonné de le voir dénoncer ensuite l’une des plus hautes autorités du clergé français, « Mgr Gerlier, primat des Gaules – quelle fâcheuse consonance ! – qui se permet de jouer au conseiller d’État et se mêler aux affaires de César. Monseigneur n’aime point l’antisémitisme. Monseigneur n’est pas révolutionnaire. (…) Il est démocrate et pluraliste, comme on dit. Bref, Monseigneur est, à sa manière, un dissident » ².  Fustigeant  le chef de l’Action française, Combelle n’y allait pas davantage de main morte : « M. Maurras a été antisémite et antidémocrate pour son bonheur et pour le nôtre. Mais, pour son malheur et pour celui de la France, M. Maurras reste germanophobe. La France, pour lui, c’est le félibrige » ³. « Révolution » est sans doute le mot qui revient alors le plus souvent sous sa plume : « Nous sommes, ou les acteurs, ou les témoins, selon une bonne ou une mauvaise fortune, d’une révolution mondiale, d’une révolution qui est née très exactement sur notre continent, dans cette Europe qui, pour notre orgueil, continue à étonner le monde » 4. « Grand garçon, intelligent, très cultivé, avec l’esprit caustique, bon avec les copains, plutôt désagréable avec ceux qui lui avaient fait dans les bottes, Combelle cultivait une pointe de cynisme » 5 : c’est ainsi que le décrit Henry Charbonneau,  venu, comme lui, de l’Action française.

Après la guerre, Lucien Combelle présentera naturellement un profil nettement moins tranché. Ainsi, lors de l’émission « Apostrophes » (1978), il évoqua le « jeune fasciste sincère,  de bonne foi et naïf » qu’il fut.  C’est seulement chez le juge d’instruction, ajouta-t-il, qu’il découvrit ce qu’est la responsabilité des intellectuels. Philippe Alméras, qui l’avait rencontré, lui aussi, dans les années quatre-vingts, garde le souvenir de sa grande prudence : « Comme tous les ébouillantés de la Libération, il craignait l’eau froide 6 ». Céline entretint avec lui une relation du même type (un peu paternelle) que celle qu’il noua avec Henri Poulain, le secrétaire de rédaction de Je suis partout. D’une vingtaine d’années leur aîné, il ne craignait pas de les morigéner dès que paraissait dans leur journal respectif un article qu’il désapprouvait. Ainsi, à propos de cet éditorial sur (ou plutôt contre) Maurras : « Combelle fait l’enfant. Il sait aussi bien que moi  l’origine de l’horreur de  Maurras  pour  l’Allemagne – le Racisme 7. » Ou à propos d’un compte rendu du livre, Pétition pour l’histoire, d’Anatole de Monzie : « Tu dédouanes Monzie à présent et son histoire ? La merde est à ton goût ! Rien de plus pourri que ce vieux pitre – membre de la Ligue des Droits de l’Homme – membre de la Lica – grand ami de Lecache et Jean Zay ! » 8. Les exemples sont nombreux… Contrairement à Poulain, exilé en Suisse, Combelle reverra Céline. C’est seulement à la parution d’Un château l’autre qu’il reprit contact. « Tout ceci ne nous rajeunit pas ! » 9, lui répond Céline, une dizaine d’années après la tourmente qui les vit embastillés l’un à Copenhague, l’autre à Fresnes.

Marc LAUDELOUT

 

Notes

 

1. Lucien Combelle, « Avec ou sans prières », Révolution nationale, 22 août 1942.

2. Id., « Où en sommes-nous ? », Révolution nationale, 26 septembre 1942.

3. Id., « La France de M. Maurras », Révolution nationale, 31 mai 1942.

4. Id., « Ceci commande cela », Révolution nationale, 8 mai 1943.

5. Henry Charbonneau, Les mémoires de Porthos, La Librairie française, 1981 (rééd.).

6. Philippe Alméras, « Lucien Combelle relaps », Le Bulletin célinien, janvier 2006.

7. Lettre du 31 mai 1942 in L’Année Céline 1995, Du Lérot-Imec Éditions, 1996, p. 122.

8. Lettre du 21 août 1942,  Ibidem, p. 127.

9. Lettre du 12 août 1957, Ibid., p. 154.

 

Bibliographie

Lucien Combelle est l’auteur de six livres : Je dois à André Gide (Frédéric Chambriand, 1951) ; Chansons du Mirador (Frédéric Chambriand, 1951) ; Prisons de l’espérance (ETL, 1952) ;  Louis Renault ou un demi-siècle d’automobile française (La Table ronde, 1954) [signé d’un pseudonyme : Lucien Dauvergne] ; Péché d’orgueil (Olivier Orban, 1978) et Liberté à huis clos (La Butte aux cailles, 1983). Sous le titre « Céline, le pérégrin », il a préfacé un recueil de textes de Céline (Le style contre les idées, Complexe, 1987). Il a également écrit le scénario d’une bande dessinée de José Fernandez Bielsa, Quand les héros étaient des dieux (Dargaud, 1969).  Au  début des  années 80, il  avait  l’intention  d’écrire, en collaboration avec Laurence Granet, un Panorama des écrivains de l’Occupation ; le projet n’a pas abouti. En 1997, Pierre Assouline lui a consacré un livre, Le fleuve Combelle (Calmann-Lévy). L’année suivante, Lucien Combelle lui accorda une série de cinq entretiens dans le cadre de l’émission À voix nue sur les ondes de France-Culture (25-29 juillet 1998).  Le 1er décembre 1978, à l’occasion de la parution de son livre de souvenirs, Péché d’orgueil, il participa – aux côtés de Henri Amouroux, Raymond Bruckberger, Jean-Luc Maxence et Dominique Desanti – à l’émission Apostrophes de Bernard Pivot sur le thème « Les intellectuels et la collaboration ». Il donna également son témoignage dans le film documentaire d’Alain de Sédouy et Guy Seligmann, Paris l’outragée (Antenne 2, 1989). On trouvera dans L’Année Céline 1995 (Du Lérot, 1996) la correspondance que lui adressa Céline, présentée et annotée par Éric Mazet. Plusieurs ouvrages retracent brièvement son itinéraire : Dictionnaire Céline de Philippe Alméras (Plon, 2004), Dictionnaire commenté de la Collaboration française de Philippe Randa (Jean Picollec, 1997) et Histoire de la Collaboration de Dominique Venner (Pygmalion, 2000). Sur son activité sous l’Occupation, on lira le livre de Jeannine Verdès-Leroux, Refus et violences. Politique et littérature à l’extrême droite des années trente aux retombées de la Libération (Gallimard, 1996), qui s’appuie sur une lecture de ses articles de l’Occupation.

 

 

 

jeudi, 05 mars 2009

Bulletin célinien n°306

Le Bulletin célinien

Le Bulletin célinien, n° 306, mars 2009 :

Au sommaire :
-"Le Testament de Céline" de Paul Yonnet : entretien avec Christian Authier.

-"Entretiens avec le Professeur Y" au théâtre par Jean-Pierre Doche.

-"Études céliniennes" : présentation du n° 4 par André Derval.

-"Style, morale et anarchie chez Céline" par Xavier Garnier.










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