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vendredi, 30 octobre 2009

Intervista a Vladimir I. Jakunin

 

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INTERVISTA A VLADIMIR I. JAKUNIN

 


a cura di Daniele Scalea e Tiberio Graziani -Eurasia / http:://www.italiasociale.org/

All'inizio del XX secolo, Halford Mackinder scrisse nel suo celebre saggio The Geographical Pivot of History dell'importanza geostrategica delle ferrovie: egli pensava che le strade ferrate transcontinentali costruite dai Russi in Eurasia controbilanciassero il potere marittimo dei popoli anglosassoni, inaugurando una nuova era nei rapporti tra mare e terra e tra Europa e Asia. Lei pensa che le ferrovie russe abbiano ancora una così grande importanza geostrategica?

Lo sviluppo delle infrastrutture dei trasporti è sempre stato visto attraverso il prisma del posizionamento strategico del paese. Si valutava il suo significato economico, sociale e militare-difensivo. Nell'epoca della globalizzazione il trasporto ferroviario non ha perso minimamente la propria importanza dal punto di vista dell'economicità, del rispetto dell'ambiente e della rapidità che caratterizzano il trasporto di merci e persone. Inoltre, se è diminuito il suo potenziale ruolo strategico-militare, in virtù della nuova realtà bellica, il suo significato geopolitico, a mio parere, non ha fatto che aumentare. A ciò contribuisce lo sviluppo dei legami politici ed economici tra i paesi, la necessità di rispondere alle esigenze delle economie dei paesi sviluppati nello svolgimento delle operazioni di importazione ed esportazione nell'ambito della cooperazione commerciale estera, la possibilità di garantire l'accesso al mare dei cosiddetti «paesi di mezzo», l'opportunità di sviluppare in senso reciprocamente vantaggioso i corridoi di trasporto internazionali. E anche la possibilità di uno sviluppo non conflittuale delle relazioni economiche e di offrire assistenza alla realizzazione di infrastrutture ferroviarie per lo sviluppo delle economie di altri paesi, conformemente alle aspirazioni geopolitiche di questa o quella nazione. Un brillante esempio del conseguimento non conflittuale di obiettivi geopolitici reciprocamente vantaggiosi può essere fornito dalla cooperazione di molti paesi e compagnie nello sviluppo del corridoio Ovest-Est lungo il percorso della «Transiberiana».

Vi sono progetti di privatizzazione di RZhD (la compagnia ferroviaria russa). Crede possibile che lo Stato russo si privi d'una quota di maggioranza in un simile settore strategico?

L'attuale legislazione russa esclude la privatizzazione delle infrastrutture ferroviarie della Russia. E benché si possa ipotizzare in linea teorica che nel tempo, sussistenti determinate condizioni politiche ed economiche, ciò sia possibile, è altamente probabile che la Russia proseguirà la riforma del trasporto ferroviario assegnando i diversi tipi di attività (per esempio il trasporto merci, il trasporto passeggeri, la costruzione e manutenzione delle infrastrutture, il trasporto di containers, la logistica e via dicendo) a compagnie indipendenti e privatizzando queste compagnie interamente o in parte.

Cos'è cambiato nelle relazioni tra Russia e Unione Europea dopo la guerra russo-georgiana della scorsa estate?

Questo è un tema a sé stante ed esigerebbe un'approfondita analisi a parte. Mi limiterò a osservare che sulla percezione delle cause e degli effetti del conflitto in Ossezia del Sud, nei paesi dell'Unione Europea e negli Stati Uniti, hanno notevolmente influito tutti i vecchi pregiudizi sulla «pericolosità» della Russia per i «piccoli» paesi europei. A questo ha contribuito non poco la macchina informativo-propagandistica dei mezzi di informazione occidentali. Questo atteggiamento è profondamente mutato solo quando vari giornalisti occidentali, mesi dopo la conclusione della fase più «calda» del conflitto georgiano-ossetino nel quale la Russia era stata trascinata, hanno pubblicato notizie reali sulle azioni condotte dalle autorità e dai militari georgiani in Ossezia, notizie che hanno sconvolto l'opinione pubblica occidentale.
Per quanto concerne le relazioni politiche tra la Russia e gli Stati Uniti, il palese coinvolgimento della precedente amministrazione al fianco del regime di Saakasvili non ha fatto che accrescere la sfiducia.

Nell'ultimo decennio l'economia russa ha pienamente recuperato dai diffìcili momenti degli anni '90. Nella seconda parte dell'estate 2008, tuttavia, il prezzo del petrolio è crollato ed i mercati azionar! russi hanno sofferto gravi perdite. Le prospettive di recupero economico della Russia sono ancora buone?

Oggi la crisi finanziaria si è trasformata in una crisi economica globale ed è opportuno interrogarsi sulle sue cause e sulle sue conseguenze. Senza entrare nel dettaglio, è possibile concludere che la sua sistematicità è il risultato della realizzazione acritica e dogmatica dei punti essenziali della teoria economica neo-liberista, cioè quelli riguardanti la completa eliminazione dello Stato dalla sfera della gestione dello sviluppo economico. Le azioni più recenti, condotte praticamente da tutti gli Stati sviluppati del mondo, dimostrano palesemente il fallimento di questa teoria. Per quanto concerne le prospettive economiche della Russia, esse subiscono l'influsso di una serie di fattori negativi e d'altri positivi. Tra i fattori negativi possiamo elencare il noto orientamento all'esportazione dell'economia, l'incompiutezza della riforma istituzionale, l'insufficiente sviluppo del mercato, l'assenza di un ampio strato di piccole e medie imprese, la lacunosità del sistema bancario e l'assenza, per esempio, di leggi che sanciscano l'obbligo della partecipazione di organizzazioni sociali e professionali e della comunità di esperti alla formulazione delle decisioni governative. Tra gli aspetti positivi, che ci permettono di guardare con ottimismo alle prospettive economiche del paese, includiamo naturalmente la riforma istituzionale attualmente in corso, l'unione del mondo degli affari e delle élites politiche attorno alla dirigenza dello Stato, una base di risorse tra le più ricche e richieste del mondo, risorse umane sufficienti e ben formate (non ostante le conseguenze demografiche degli anni Novanta), l'importante integrazione della Russia nel sistema economico e finanziario mondiale e, infine, riserve finanziarie molto sostanziose accumulate negli anni passati. Attualmente molto — se non tutto -dipenderà dall'efficacia e dalla tempestività dei provvedimenti anticrisi del governo e del mondo imprenditoriale della Russia.

Ritiene che l'attuale crisi economica e finanziaria possa contribuire a cambiare la struttura geopolitica e le gerarchie internazionali, in particolare favorendo l'emergere d'un nuovo ordine mondiale multipolare?

In effetti il mondo multipolare è emerso già molto prima della fase «calda» della crisi finanziaria, come è stato riconosciuto da esperti ben noti negli ambienti politici e scientifici come il professor F. Fukuyama, Z. Brzezinski, H. Kissinger, l'accademico E. Primakov; dai capi di Stato europei e sudamericani, dell'India, della Cina, della Russia; da organizzazioni della società civile e non-governative come il Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà», dalle Nazioni Unite, dall'UNESCO e molte altre istituzioni. Mi sembra, in pratica, che si possa parlare di un mondo variegato con elementi di pluralità, come riconosciuto dagli autori citati. Di per sé la crisi molto probabilmente produrrà un inasprimento delle contrapposizioni già esistenti tra i vettori di sviluppo del sistema mondiale: unipolarismo contro multipolarismo. Non sarà facile prevederne l'esito. Tuttavia è molto probabile che il ritorno a un mondo unipolare non sarà meno difficoltoso della costruzione di un mondo più giusto.
È ora più o meno ovvio quanto segue: in primo luogo, l'uscita dalla crisi avverrà in un lasso di tempo piuttosto lungo; in secondo luogo, durante quella fase, segnata dalla necessità di ricorrere a provvedimenti cruciali per uscire dalla crisi, avverrà una ricostruzione dell'ordine mondiale, ormai obsoleto, con una ridistribuzione piuttosto radicale dei beni su scala globale; infine, è ormai generalmente riconosciuto che l'attuale struttura del sistema economico-finanziario abbia esaurito le proprie risorse tecnologiche per ciò che riguarda il rinnovamento e l'evoluzione dell'uomo nella sua attività di valorizzazione e sviluppo del mondo. Ed è proprio adesso che sono necessari radicali cambiamenti sociali e civili a livello globale (anche nell'interesse dei promotori di tali cambiamenti).

In che modo un nuovo sistema multipolare potrebbe contribuire a favorire il dialogo tra le civiltà?

Con lo sviluppo, su basi scientifiche, di un sistema d'opinioni che riconosca come sia il dialogo tra le civiltà, e non lo scontro, lo strumento per prevenire conflitti a livello geopolitico, culturale, religioso o geoeconomico. Col rafforzamento del ruolo svolto dalla società civile dei diversi paesi nella formulazione delle ambizioni strategiche delle élites di governo, e coli'influenza della collettività su queste élites non solo attraverso i modi d'espressione della cosiddetta «volontà popolare» già collaudati e in una certa misura orientati da queste élites, ma anche attraverso i metodi del dialogo diretto tra civiltà condotto dai rappresentanti delle diverse civiltà. Questi rappresentanti non sono le organizzazioni e le autorità internazionali, che non conducono un dialogo bensì negoziati, ma gli individui o le organizzazioni non-governative.
Nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà», un lavoro efficace e mirato per controllare la realizzazione dei diversi piani di questa trasformazione può essere organizzato come segue:
1) la creazione da parte di un gruppo di esperti e analisti di un Thesaurus (struttura di subordinazione) dei postulati, delle convinzioni e dei valori politici, etico-morali, economico-sociali e via dicendo, più comunemente impiegati nelle discussioni sulla crisi globale;
2) lo svolgimento di diverse iniziative da parte del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» per armonizzare i risultati analitici ottenuti con gli attori influenti e con le parti interessate alla trasformazione;
3) l'organizzazione di una campagna di informazione su vasta scala, impiegando i mezzi di informazione interattivi e altre strutture, per l'efficace e rapida introduzione di rappresentazioni coerenti, componente necessaria nel contesto della comunicazione globale sui temi attuali dell'agenda globale;
4) lo svolgimento di un regolare monitoraggio delle reazioni a tale informazione, al fine di valutare la risposta del pubblico alle proposte formulate;
5) in base ai risultati dell'analisi ed alla sintesi di queste reazioni, la pianificazione e realizzazione di dialoghi regionali, specialistici, di ricerca ecc. (impiegando i metodi già sperimentati dalle iniziative del Forum Pubblico Mondiale) al fine di ratificare le decisioni concordate e selezionate in maniera mirata.
La necessità di tali iniziative nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» e di strutture simili è giustificata dal fatto che le attuali ricette scientifiche e politiche per uscire dalla crisi circolano in ristrette comunità altamente specializzate, non hanno alcun fondamento legittimo e si impongono alla più ampia pratica internazionale, come accade per esempio con le idee del neo-liberismo, attraverso metodi, politici e d'altro tipo, di natura coercitiva.

In qualità di presidente e cofondatore del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» potrebbe farci un resoconto delle sue attività a partire dal 2002?

Riteniamo che negli ultimi sei anni i partecipanti al Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» siano riusciti a creare una piattaforma pubblica, unica nel suo genere, di interazione tra le civiltà per l'analisi e la descrizione dei caratteri fondamentali della nostra epoca, nonché adeguati strumenti di dialogo tra le civiltà nel contesto delle più importanti sfide del nostro tempo: la globalizzazione, il dialogo tra le culture e le religioni, l'influenza delle tendenze economiche mondiali sui rapporti tra le civiltà, l'inammissibilità dell'imposizione forzata dei propri valori a un'altra civiltà, la creazione di un mondo unipolare e molti altri problemi. La «Prima Dichiarazione di Rodi» e le sue conclusioni non solo sono ampiamente note, ma sono anche alla base di una serie di accordi internazionali sulla cooperazione tra Stati. La Conferenza del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» si svolge già da sei anni con cadenza annuale nell'isola di Rodi, ed è oggetto di grande attenzione. Nel 2008 vi hanno partecipato circa 500 rappresentanti di più di 64 paesi. Prosegue con successo il programma di sviluppo della comunità in rete di «Dialogo di civiltà», e molto altro. In generale mi sembra che questa attività meriti una valutazione positiva. Ritengo che sia giunto il momento di passare dalla constatazione di un interesse per il dialogo all'esercizio di un'influenza controllata sui processi sociali, impiegando a tal fine tutte le risorse delle organizzazioni non-governative internazionali, degli amici rappresentanti delle comunità di esperti, mezzi di informazione e confessioni religiose. Naturalmente qui dobbiamo impegnarci ulteriormente per strutturare questo interesse con l'obiettivo di trasformarlo in uno strumento di influenza pubblica sullo sviluppo mondiale.

A suo parere quali sono i comuni settori d'interesse che andrebbero rafforzati e sviluppati tra Russia e Unione Europea?

Innanzi tutto, agli interessi strategici della Russia e dell'Unione Europea risponde una tendenza all'approfondimento dell'integrazione nella sfera umanistica e in quella economica, in particolare nel settore del trasporto ferroviario in quanto area di reciproco interesse del tutto priva di conflitti: infatti, una tale cooperazione può avere esito positivo solo se le compagnie dei trasporti condividono gli stessi obiettivi.

Considerando la posizione strategica dell'Italia nel mezzo del Mar Mediterraneo e, soprattutto, la sua «alleanza» asimmetrica con gli USA nel contesto della NATO, crede che Washington permetterà a Roma di sviluppare relazioni politiche e militari con Mosca?

Mi sembra che la domanda sia posta in modo scorretto, laddove si chiede se «Washington possa permettere qualcosa all'Italia». Pur nella chiara alleanza strategica con la NATO e con gli Stati Uniti, nell'emergente condizione di multipolarismo l'Italia è libera di determinare da sola il sistema dei propri interessi geopolitici, e ha ripetutamente dimostrato la propria sostanziale posizione di indipendenza in tutta una serie di eventi controversi verificatisi in tempi recenti. Pertanto ritengo che, finché al mondo esisteranno i confini degli Stati nazionali, continueranno a esistere anche i cosiddetti «interessi nazionali» e le aspirazioni geopolitiche dei governi, e questo influenzerà lo sviluppo di una cooperazione internazionale, e difficilmente esisterà un paese in grado di affermare di essere assolutamente libero da questa influenza.
Roma è la capitale dell'Italia ma anche il centro della Cristianità cattolica. Durante gli ultimi anni, malgrado la promozione d'un dialogo ecumenico ed inter-ecclesiastico con la Cristianità russo-ortodossa, il Vaticano ha esteso le proprie attività in Russia ed in alcuni paesi ex sovietici (ad esempio in Kazakistan). Tra queste attività, possiamo menzionare la creazione di nuove diocesi cattoliche senza neppure interpellare le Chiese ortodosse. Tenendo conto che, nel corso di tali iniziative, il Vaticano ha spesso chiesto a Mosca un maggiore rispetto dei diritti umani-al pari d'alcune ONG o apparati politici occidentali — crede vi siano legami tra le strategie di Washington e quelle del Vaticano?
Ogni chiesa, anche all'interno degli Stati laici, resta parte della società e, quando tocca la sfera della morale e tanto più delle relazioni pubbliche o internazionali, spesso riflette gli atteggiamenti socio-politici dominanti. A mio parere ciò vale effettivamente per alcuni aspetti dell'attività del Vaticano. Dato che il cattolicesimo è ampiamente diffuso nel mondo occidentale, è possibile che nelle sue posizioni sui principali temi risenta dell'influenza ideologica degli Stati Uniti che sono la guida riconosciuta di quel mondo. È possibile che questo sia anche una conseguenza dell'attività economica dello Stato del Vaticano e della sua dipendenza dall'economia statunitense. Il Concilio Vaticano II ha affermato che le altre religioni possono essere condotte attraverso il dialogo sulle posizioni della mentalità europea, in quanto identità più evoluta. Per questo il Concilio ha ampliato la sfera del dialogo, ha riconosciuto la possibilità del dialogo con le altre religioni e le altre civiltà: allo scopo di assimilarle gradualmente. La storia del cattolicesimo dimostra in maniera convincente cosa sia questa linea di dialogo. Le chiese del mondo e le principali confessioni devono, riteniamo, contribuire a instaurare un dialogo efficace tra i popoli. Il problema di un ampio dialogo pubblico è che le principali forze sociali e i partecipanti alla collaborazione internazionale tendono spesso a difendere le proprie posizioni, a persuadere gli altri della loro giustezza, a ricevere conferma delle proprie convinzioni. La religione, al contrario, ha sempre invitato ad affermare il punto di vista della verità universale, ad abbandonare l'insieme delle convinzioni inevitabilmente contingenti e a porsi sul cammino del rinnovamento, del miglioramento di sé. La mentalità individualista agli occhi della coscienza religiosa coincide sempre con il peccato e l'errore. Indubbiamente gli sforzi delle Chiese e delle confessioni permettono di innalzare il livello e la cultura del dialogo tra le organizzazioni pubbliche e le strutture internazionali. È necessario che il dialogo sociale non si concentri solo sui problemi immediati, benché comunque importanti, della politica e della vita sociale. In questo caso il nostro dialogo verrà ripreso e sviluppato, estendendosi a nuovi problemi o aspetti della soluzione di vecchi problemi, cui la coscienza collettiva contemporanea non è in grado di arrivare. Ci sembra che nel miglioramento del dialogo collettivo la Chiesa e le confessioni siano chiamati a fornire una nuova forma di servizio all'uomo e a conseguire una propria sfera pratica di realizzazione della verità e della forza delle proprie rivelazioni. Riteniamo che le profonde tradizioni e potenzialità delle organizzazioni religiose e dei contatti interconfessionali apporteranno un inestimabile contributo al dialogo tra le civiltà. E speriamo che la Chiesa e le confessioni assumano un ruolo attivo nelle nostre iniziative future.

(traduzione dall'originale russo di Manuela Vittorelli)

* Vladimir Ivanovic Jakunin è presidente del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» e della Rossijskie Zheleznye Dorogi, la compagnia ferroviaria dello Stato russo. Tra il 1985 ed il 1991 ha fatto parte della missione diplomatica sovietica presso le Nazioni Unite (gli ultimi tre anni come primo segretario). Dal 2000 al 2003 è stato vice-ministro dei trasporti della Federazione Russa.


18/05/2009

00:15 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, russie, eurasie, eurasisme, asie, entretiens | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 29 octobre 2009

Vers la fin de l'hégémonie du dollar?

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Michael WIESBERG:

 

 

Vers la fin de l’hégémonie du dollar?

 

Début octobre 2009, est paru sur les pages internet du journal libéral de gauche britannique “The Independant” un article de Robert Fisk, leur correspondant au Proche Orient. Cet article a suscité de vives discussions. Selon les propos de Fisk, les Etats arabes du Golfe songeraient à remplacer d’ici les neuf prochaines années le dollar américain par un panier de devises et/ou de valeurs incluant le dollar, le yen japonais, le renminbi (ou yuan) chinois, l’euro et l’or. A ce panier s’ajouterait également la monnaie unique, actuellement en projet, du Conseil de Coopération du Golfe (CCASG) qui comprend l’Arabie Saoudite, Abu Dhabi, le Koweit et le Qatar. Pour concrétiser ce projet, ces Etats pétroliers arabes auraient déjà pris langue avec la France, la Chine, le Japon et la Russie. Les représentants de ces Etats se sont empressés de démentir les affirmations de Fisk en arguant qu’elles proviendraient apparemment de “sources intéressées et peu sûres”.

 

Mais la vitesse stupéfiante à laquelle l’article de Fisk s’est diffusé dans le monde entier démontre que la renommée du dollar a considérablement chuté au cours de ces dernières années et que l’incertitude quant à l’avenir du système monétaire international ne cesse de croître. 

 

On considère donc comme parfaitement imaginable que la facturation du prix du pétrole en dollars connaîtra bientôt sa fin et qu’ainsi le dollar cesserait d’être la monnaie-guide dans le monde. Ce pronostic a pour lui quelques arguments percutants: la crise financière a considérablement fragilisé les assises économiques des Etats-Unis; la confiance s’est évanouie ces dernières années dans les perspectives de croissance de l’économie américaine et dans la capacité qu’a la banque d’émission américaine de rétablir la stabilité des prix.

 

Les pays pétroliers cherchent-ils à se débarrasser de leurs réserves de dollars?

 

Or c’était justement cette confiance des acteurs économiques internationaux (comme les banques centrales, les producteurs de pétrole brut ou les banques d’investissement) qui fondait la suprématie monétaires des Etats-Unis depuis que Nixon, en 1971, avait abandonné la convertibilité du dollar en or. De plus, cette confiance résidait également dans le rôle de grands consomamteurs que l’on attribuait aux Américains (et c’est là sans doute qu’il aller chercher les origines de l’actuelle crise du dollar): les marchés américains, en effet, constituaient, jusqu’il y a  peu, 25% de la demande internationale. Et ce sont justement ces marchés-là qui sont frappés aujourd’hui d’un fort recul de la demande. 

 

La portée de ce recul saute aux yeux, si l’on examine comment fonctionnait le “modèle économique” du commerce entre les Etats-Unis et les Etats asiatiques en forte croissance, principalement la Chine: les Etats-Unis achetaient une bonne part des marchandises produites en Asie et les Etats asiatiques, en échange, investissaient leurs bénéfices d’exportateurs dans des emprunts d’Etat américains (ce qui équivaut à des billets de créance). C’est de cette manière que la colossale consommation américaine a été rendue possible (à laquelle même les plus pauvres avaient accès grâce à leurs cartes de crédit), car, par la demande d’obligations américaines, les taux d’intérêts pouvaient être maintenus très bas aux Etats-Unis.

 

Maintenant, le scénario se modifie: la faiblesse persistante du dollar menace de mettre un terme à “ce donner et à ce prendre”, surtout à cause de la perte de valeur des réserves de devises en dollars, que la plupart des banques centrales ont accumulées dans le monde entier. Rien que la Chine possède 24% des “Treasury Securities” américaines et le Japon, 21%. L’Allemagne, pour sa part, n’en possède que 1,8%. En revanche, elle possède beaucoup plus de “chiffons de  papier” émis par des banques privées américaines.

 

On pourrait croire  que les banques centrales ont grand intérêt à ce que le dollar restent à moitié stable. On peut toutefois réfuter cet argument en démontrant que les vicissitudes actuelles du dollar incitent à se débarrasser des réserves que l’on possède de cette devise, avant qu’elle ne chute encore, ce que la conjoncture américaine actuelle permet d’envisager.

 

Le danger de voir les banques centrales se débarrasser de leurs réserves de dollars est réel: le  processus pourrait d’ailleurs commencer dans les pays producteurs de pétrole (qui possèdent 6% des “Treasury Securities” américaines). C’est ce que constatent par ailleurs Jörn Grisse et Christian Kellermann dans une analyse qu’ils ont publiée auprès de la Fondation Friedrich Ebert en Allemagne. L’intérêt des pays producteurs de pétrole à un dollar stable est nettement moindre que dans les pays asiatiques. Ils peuvent aussi compenser la diminution de la demande américaine en allant au devant de la demande croissante d’hydrocarbures que l’on observe  ailleurs dans le monde.

 

Tous ces facteurs pourraient contribuer à précipiter la fin de l’hégémonie du dollar, ainsi que des “pétro-dollars”, comme on les appelle. Contrairement à ce que pense Fisk, on ne passera sans doute pas à l’artifice d’un “panier de devises” mais à  une autre devise, en l’occurrence, très probablement, l’euro.

 

Dans ce cas, les Etats-Unis perdraient leur droit de seigneuriage (le droit de battre monnaie) et les revenus qui en résultent comme les produits nets engrangés par la banque d’émission qui crée les liquidités et d’autres formes d’argent propres aux banques centrales, que celles-ci  peuvent produire vu la demande élevée de dollars. Par ailleurs, les Etats-Unis ont profité jusqu’ici des importations de capitaux en provenance des Etats exportateurs de pétrole. Vu le manque d’investissements potentiels dans ces pays mêmes, les bénéfices des Etats pétroliers étaient réinvestis pour une bonne part aux Etats-Unis.

 

Toutefois, faut-il le préciser, cette fin éventuelle de l’ère des pétro-dollars ne constituerait qu’une “ultima ratio” pour des Etats comme, par exemple, l’Arabie Saoudite qui est contrainte d’en appeler à la protection militaire des Etats-Unis. C’est là un véritable contrat d’assurance dont on ne se débarrassera que si le dollar subit une véritable et rapide dégringolade. La crainte de voir survenir une telle dégringolade est bien présente: elle s’exprime notamment par un repli vers  l’or, dont le court par once de métal fin, vient de battre un nouveau record (calculé en dollars).

 

La classe moyenne américaine ne sera plus jamais le moteur de la sur-consommation mondiale

 

En arrivera-t-on à cette extrémité du point de vue américain ou non? Cela dépendra essentiellement de la politique budgétaire du Président Obama et de la politique en matière d’intérêts de la Federal Reserve (la banque d’émission américaine). Ce qui apparaît toutefois indubitable, c’est qu’il n’y aura pas de retour possible, pour les Etats-Unis, à la situation dont ils jouissaient avant la crise financière. La classe moyenne américaine est extrêmement endettée, est menacée du chômage ou du moins d’un déclin social assuré: elle ne sera plus le moteur de la sur-consommation mondiale. Ensuite, les fonds de pension américains, nourris de gains privés obtenus par spéculation boursière, ont été entraînés dans les abîmes par la crise financière, alors qu’ils auraient permis aux retraités américains de bénéficier d’une fin de vie dorée; encore un pan de la consommation potentielle qui disparaît.

 

Le déclin de la classe moyenne américaine et l’effondrement des fonds de pension éliminent un incitant important chez les fournisseurs des Etats-Unis que sont la Chine et le Japon: pourquoi garderaient-ils le dollar comme devise de réserve? Ensuite, tous les bons du trésor américain auront un jour une fin, arriveront à échéance. S’ils ne trouvent pas suffisamment d’acquéreurs pour de nouveaux billets de créance américains (car l’offre de produits industriels américains est à présent assez limitée), la Federal Reserve pourra certes racheter ces “Treasury Bonds” et augmenter ainsi la bulle des dollars, mais cela aura des répercussions insoupçonnées en matière d’inflation ou autre. Il faudra donc beaucoup de doigté et d’imagination au Prix Nobel de la Paix Barack Obama s’il entend conserver, pour les Etats-Unis, les avantages que leur a offerts jusqu’ici la suprématie du dollar.

 

Michael WIESBERG.

(article paru dans  “Junge Freiheit”, Berlin, n°43/2009; traduction française: Robert Steuckers).

mercredi, 28 octobre 2009

La Colombie, dernier bastion américain en Amérique du Sud

COLOMBIE-I-_Converti_-2.jpgBernhard TOMASCHITZ:

La Colombie, dernier bastion américain en Amérique du Sud

 

D’ici le 30 octobre, le Panama signera un traité avec les Etats-Unis qui prévoit l’installation de deux bases navales américaines sur son territoire, vient d’annoncer le ministre panaméen de la justice, Raul Mulino. Ces deux bases navales, qui seront installées sur la côte pacifique, serviront, d’après Mulino, à “lutter contre le narco-trafic international”. En août dernier, les Etats-Unis avaient annoncé qu’ils installeraient sept nouvelles bases militaires en Colombie,  également, prétendent-ils, pour lutter contre l’internationale des trafiquants de drogues. Cette décision avait provoqué force remous. Le président vénézuélien Hugo Chavez, fer de lance de la gauche sud-américaine, a pu reprocher, une fois de plus, aux Américains de pratiquer une politique “impérialiste” et a évoqué “les vents de guerre” qui soufflaient à présent sur le continent sud-américain.

 

En effet, on peut sérieusement douter que l’engagement de Washington au Panama et en Colombie a pour objectif réel de combattre le trafic international de drogues. Certes, la Colombie est, au monde, le principal producteur de cocaïne mais elle est surtout le dernier allié des Etats-Unis sur le continent sud-américain. A titre de remerciement pour cette fidélité à l’alliance américaine, l’ancien président des Etats-Unis, George W. Bush, avant de quitter les affaires, avait remis au Président colombien Alvaro Uribe la décoration civile la plus prestigieuse, la “Liberty Medal”.

 

A la base de la coopération militaire entre Washington et Bogota, nous trouvons le “Plan Colombia”. En septembre 1999, le président colombien de l’époque, Andres Pastrana, avait annoncé que les forces armées avaient reçu le droit de lancer des opérations de police dans le pays. L’objectif principal, à cette époque-là, était de combattre les rebelles marxistes-léninistes des FARC, qui avaient plongé le pays dans une guerre civile depuis les années 60, ce qui avait entraîné la mort de dizaines de milliers de personnes. Bill Clinton, alors président des Etats-Unis, avait saisi l’opportunité de s’attirer un allié fidèle en Amérique du Sud, en apportant son soutien au “Plan Colombia”; il participa donc à l’élaboration de ce “Plan”, en l’infléchissant selon les conceptions américaines; comme l’écrit Robert White, ancien ambassadeur américain au Salvador, après que le “Plan Colombia” ait été accepté par le Congrès de Washington en juin 2000: “Si on lit le plan dans sa version initiale, et non pas dans la version écrite à Washington, on constate qu’il n’est pas question de lancer des opérations militaires contre les rebelles des FARC, bien au contraire. Le Président Pastrana disait à l’époque que les FARC constituaient une part de l’histoire colombienne, qu’elles étaient un phénomène de nature historique et que leurs militants devaient être considérés comme des Colombiens à part entière”. 

 

Sur base de ce “Plan Colombia”, au cours de la dernière décennie, la Colombie est devenue, par ordre d’importance, le troisième pays bénéficiaire d’aides militaires américaines, après Israël et l’Egypte. De 1999 à 2008, les versements américains n’ont cessé de s’amplifier, ont même centuplé et sont passés de 50 millions de dollars à 5 milliards de dollars. La prodigalité de Washington a un prix, disent les voix critiques. Le scénario se déroule comme le veut Washington: pour l’essentiel, les forces armées colombiennes recevront dorénavant des missions d’ordre subalterne, c’est-à-dire des missions de simple police ce qui, à long terme, renforcera la dépendance de la Colombie à l’endroit de son puissant allié.

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Le “Livre Blanc” de l’armée américain nous dévoile quelle sera l’importance des bases en Colombie pour les Etats-Unis. Dans ce document de 36 pages, on nous explique que la base aérienne de Palanquero permet “aux avions de transport C-17 d’atteindre près de la moitié du continent sans devoir remplir leurs réservoirs”. De cette façon, Washington laisse entendre clairement que les Etats-Unis considèrent l’Amérique latine comme leur sphère d’influence exclusive, comme depuis 1823, quand leur Président de l’époque, James Monroe, avait énoncé sa célèbre doctrine. Mais finalement, les volontés hégémoniques américaines sur les Etats d’Amérique centrale et d’Amérique du Sud ont été nettement battues en brèche au cours de ces dix dernières années: Chavez, chef d’Etat du Venezuela, veut introduire la “révolution bolivarienne” et un “socialisme du 21ème siècle” en Amérique latine et trouve de plus en plus d’adeptes pour ses idées, à commencer par le Président bolivien Evo Morales et le Président nicaraguéen Daniel Ortega, un ancien sandiniste qui avait déjà donné force migraines à Ronald Reagan dans les années 80. A ces deux présidents s’ajoute l’Equatorien Rafael Cortea. De plus, le Venezuela, riche de son prétrole, entretient des relations de plus en plus étroites avec la Russie et l’Iran, ce qui fait que le gouvernement américain de Barack Obama trouve la situation de plus en plus désagréable. C’est pour cette raison que la tête de pont colombienne, bientôt élargie au territoire panaméen, se voit renforcée pour pouvoir, en cas d’urgence, ramener à la raison des Etats récalcitrants comme le Nicaragua. Dans la région, on commence à dire que la Colombie est devenue “l’Israël de l’Amérique latine”, car, comme Israël, la Colombie risque fort bien de devenir là-bas la tête de pont pour toute offensive contre des gouvernements qui seraient jugés  indésirables du point de vue de Washington.

 

Il faut aussi ajouter que la Colombie, au cours de ces dernières années, est devenue pour Washington un terrain d’expérience pour tester de nouveaux modes de combattre les insurrections, stratégies que l’on applique ensuite en Afghanistan. Tant les FARC, aujourd’hui bien affaiblies, que les talibans, sont profondément impliqués dans le trafic de drogues et financent par ce commerce sale leurs achats d’armement. Le Général David Petraeus, ancien commandant des forces américaines en Irak, a donné son avis sur l’exemple colombien: “Les militaires voient dans les rapports entre les Etats-Unis et la Colombie un modèle possible pour l’Afghanistan et le Pakistan et nous expliquent que la stratégie qui se profile derrière le ‘Plan Colombia’ pourrait aider ces deux pays musulmans contre les militants”.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, n°42/2009; traduction française: Robert Steuckers). 

mardi, 27 octobre 2009

Eduardo Galeano: Basi militari dell'EE.UU in Colombia

eduardo-galeano.jpgIntervista al giornalista e scrittore uruguayano


EDUARDO GALEANO :

“LE BASI MILITARI DELL’EE.UU. IN COLOMBIA OFFENDONO LA DIGNITA’ COLLETTIVA DELL’AMERICA LATINA”.

Di Fernando Arellano Ortiz

 

Traduzione di Erika Steiner –italiasociale.org

Nell’Avenita Amazonas, a Quito, a pochi passi dall’hotel dove alloggiamo, incontriamo come una qualsiasi viandante nella notte del 9 agosto Eduardo Galeano, che è arrivato nella capitale ecuadoregna per assistere come invitato speciale all’insediamento del presidente Rafael Correa, cerimonia prevista per il 10 agosto.
Lo abbiamo fermato, ci siamo presentati e gli abbiamo chiesto di rilasciarci un’intervista, cosa che ha accettato con piacere.
“Adesso non si può fare, ma vediamoci domani dopo la cerimonia di insediamento di Correa” ci dice l’autore di “Las venas abiertas de América Latina” (Le vene aperte dell’America Latina) e di “Espejos” (Specchi).
Come sempre, Galeano risponde con ironia a con umorismo, per questo le sue osservazioni vanno oltre la banalità. Come esperto latino americanista lo scrittore uruguaiano intervistato da CRONICON.NET fa una particolare analisi della realtà sociopolitica del nostro emisfero.

PORTE APERTE ALLA SPERANZA


- Dopo 200 anni dall’emancipazione dell’America Latina, si può parlare di una riconfigurazione del soggetto politico di questa regione, tenendo conto dei cambiamenti politici che si traducono in governi progressisti e di sinistra nei vari paesi latinoamericani?

- Sì, lasciamo le porte aperte alla speranza; vediamo una forma di rinascimento che è degna di essere festeggiata in paesi che non hanno ancora raggiunto la piena indipendenza, ma che hanno appena cominciato il loro cammino. L’indipendenza è un compito che non è ancora completato per quasi tutta l’America Latina.

- Con tutto la rinascita del sociale che si sta sviluppando in tutto il mondo, si può dire che c’è un’accentuazione dell’identità culturale dell’America Latina?

- Sì, credo di sì. E questo passa senza dubbio dalle riforme costituzionali. Offese la mia intelligenza, a parte altre cose che sentii, l’orrore del colpo di stato in Honduras, che si disse causato dal peccato commesso dal Presidente che volle consultare il popolo sulla possibilità di riformare la Costituzione, perché quello che voleva in realtà Zelaya era consultare il popolo sul modo di essere consultato, per lo meno era una riforma diretta. Supponendo anche che fosse una riforma costituzionale, che fosse la benvenuta! Le Costituzioni non sono eterne e perché si possano realizzare pienamente gli Stati le devono riformare. Io mi domando: “Che ne sarebbe degli Stati Uniti se i suoi abitanti continuassero osservano la loro prima Costituzione? La prima Costituzione degli Stati Uniti stabiliva che un negro corrispondeva a 3/5 di una persona. Obama non potrebbe essere Presidente perché nessun paese può dare un mandato a tre quinti di una persona.

- Lei parla della condizione razziale del presidente Barack Obama, però il fatto di mantenere o di ampliare le basi militari in America Latina, come sta succedendo in Colombia con l’installazione di sette piattaforme di controllo e di spionaggio, non evidenzia le vere intenzioni di questo mandatario del partito democratico, che semplicemente segue alla lettera i piani di espansione e di minaccia di una potenza egemonica come gli Stati Uniti?

- Il fatto è che Obama finora non ha chiarito bene quello che intende fare né in rapporto all’America Latina, le relazioni con noi, tradizionalmente problematiche, e nemmeno in altri temi. In alcuni settori c’è una volontà di cambio espressamente dichiarata, ad esempio per quel che riguarda il sistema sanitario è scandaloso che se tu ti rompi una gamba devi pagare fino alla fine dei tuoi giorni i debiti contratti per curarti per questo incidente.
Però in altri settori no, Obama continua a parlare della nostra “leadership”, del nostro “stile di vita”, con un linguaggio che assomiglia troppo a quello dei suoi predecessori. A me sembra molto positivo che un paese così razzista come quello, e con episodi di razzismo colossali, scandalosi e fuori dal comune che capitano ogni quarto d’ora abbia un presidente semi-nero.
Nel 1942, cioè mezzo secolo fa, praticamente ieri, il Pentagono proibì le trasfusioni di sangue di cittadini neri e il direttore della Croce Rossa si dimise, o lo fecero dimettere, perché non accettò questo ordine dicendo che tutto il sangue era rosso, e che era una stupidaggine parlare di sangue nero, ed egli era nero, ed era un grande scienziato, fu colui che rese possibili le trasfusioni di plasma su scala universale, Charles Drew.
Quindi per un paese che fece la stupidaggine di proibire il sangue nero avere Obama per presidente è un gran miglioramento. Però, d’altra parte, finora io non vedo un cambiamento sostanziale, basta vedere come il governo ha affrontato la crisi finanziaria, ah, non vorrei essere nei loro panni, però la verità è che alla fine furono ricompensati gli speculatori, i pirati di Wall Street che sono molto più pericolosi di quelli della Somalia, perché questi assaltano solo delle barchette lungo la costa, al contrario quelli della Borsa di New York assaltano il mondo.
E alla fine furono ricompensati; io volevo dar vita ad una campagna in loro favore, inizialmente commosso dalla crisi dei banchieri, con lo slogan “adotta un banchiere”, però ho abbandonato il mio proposito perché ho visto che lo Stato si è fatto carico di questa incombenza. (Risate). E lo stesso avviene con l’America Latina, non hanno ben chiaro quello che vogliono fare. Gli Stati Uniti hanno passato più di un secolo confezionando dittature militari in America Latina, e nel momento di difendere una democrazia, come l’Honduras, di fronte ad un evidente colpo di Stato, vacillano, danno risposte ambigue, non sanno cosa fare, perché non hanno pratica, mancano di esperienza, da un secolo lavorano in modo opposto, quindi capisco che il loro compito non sia facile.
Il caso delle basi militari in Colombia non solo offende la dignità collettiva dell’America Latina, ma anche l’intelligenza di ognuno, perché si dice che la loro funzione è quella di combattere la droga, ma per favore..! Così tutta l’eroina che si consuma nel mondo viene dall’Afganistan, anzi, quasi tutta, dati ufficiali delle Nazioni Unite che si possono facilmente trovare su internet. E l’Afganistan è un paese occupato dagli Stati Uniti, e come si sa i paesi occupanti hanno la responsabilità di quello che succede nei paesi occupati, quindi gli Stati Uniti hanno qualcosa a che fare con questo narcotraffico su scala universale e sono degni eredi della regina Vittoria che era una narcotrafficante.


eduardo-galeano-las-venas-abiertas-de-latinoamerica-copia3.jpgNON SI PUO’ ESSERE COSI’ IPOCRITI

- La regina britannica che nel secolo XIX introdusse con tutti i mezzi l’oppio in Cina attraverso commercianti inglesi e americani….

- Sì, la celeberrima regina Vittoria di Inghilterra impose l’oppio in Cina durante la guerra dei trent’anni, uccidendo una quantità immensa di cinesi perché l’impero cinese non voleva accettare questa sostanza proibita all’interno delle sue frontiere. E l’oppio è il padre dell’eroina e della morfina, per l’appunto. E questo alla Cina costò caro, perché la Cina era una grande potenza che avrebbe potuto competere con l’Inghilterra sia nei commerci che nella rivoluzione industriale, era l’officina del mondo, e la guerra dell’oppio li rovinò, tolse loro il nerbo, e da lì entrarono i giapponesi, in casa loro, in quindici minuti. Vittoria era una regina narcotrafficante e gli Stati Uniti, che usano la droga come pretesto per giustificare le loro invasioni militari, perché di questo si tratta, sono degni eredi di questa brutta tradizione. A me sembra che sia ora che ci svegliamo un po’, non si può essere così ipocriti. Se devono essere ipocriti che almeno lo facciano con un po’ di attenzione.
In America Latina abbiamo buoni professori di ipocrisia, se vogliono possiamo organizzare un accordo di aiuto reciproco e scambiarci gli ipocriti.

- Esattamente nove anni fa, in un’intervista concessaci a Bogotà, lei disse la seguente frase: “Dio salvi la Colombia dal Plan Colombia”. Qual è oggi la sua riflessione rispetto a questo paese andino gestito da un governo autoritario, legato agli interessi degli Stati Uniti, con un’allarmante situazione di violazioni dei diritti umani e con un conflitto interno che si ingrandisce sempre più?

- Permangono problemi gravissimi che il tempo ha reso più acuti. Io non so, non sono qui per dare consigli alla Colombia o ai colombiani, sono sempre stato contrario a questo modo di chi si sente in condizione di decidere su cosa un paese debba fare.
Non ho mai commesso questo imperdonabile peccato e non voglio commetterlo adesso nei confronti della Colombia, voglio solo auspicare che i colombiani trovino il loro cammino, sì, che lo trovino, nessuno può imporlo loro da fuori, né a destra né a sinistra, né al centro, né da nessuna parte, saranno i colombiani che dovranno trovarlo. Quello che posso fare io è dare testimonianza. Se mai ci sarà un tribunale che giudicherà la Colombia per quello che della Colombia si dice: paese violento, narcotrafficante, condannato alla violenza perpetua, testimonierò che no, che non è così, è un paese amabile, allegro e che merita un destino migliore.

RIVENDICANDO LA MEMORIA DI RAUL SENDIC

- Molti anni fa, forse quaranta, c’era un personaggio in Montevideo che si incontrava con un giovane chiamato Eduardo Hughes Galeano, con il proposito di dargli delle idee per le sue caricature, questo personaggio era Raul Sendic, l’ispiratore del Frente Amplio dell’Uruguay…

- e capo guerriero dei Tupamaros, anche se a quel tempo non lo era ancora. E’ vero, quando ero un ragazzino di circa 14 anni e cominciavo a disegnare caricature, lui si sedeva vicino a me e mi dava delle idee...era un uomo più grande di me, con una certa esperienza, e non era ancora ciò che diventò dopo: il fondatore, l’organizzatore e il capo dei Tupamaros.
Ricordo che disse di me al sig. Emilio Frugoni, che era il capo del Partito Socialista e direttore del settimanale dove io pubblicavo qualche caricatura: “Questo diventerà o un presidente o un gran delinquente”. E’ stata una buona profezia e alla fine sono diventato un gran delinquente. (Risate).

- Il fatto che oggi il Frente Amplio stia governando l’Uruguay e che un guerrigliero come Pepe Mujica abbia la possibilità di vincere le elezioni presidenziali è un omaggio alla memoria di Sendic?

- Sì, e di tutti quelli che parteciparono alla grande lotta per rompere il monopolio a due, il bi-polio, esercitato dal Partido Colorado e dal Partido Nacional per quasi tutta la vita indipendente del paese. Il Frente Amplio è arrivato da poco nello scenario politico nazionale e mi sembra un successo che adesso stia governando, anche se non sono sempre d’accordo con quello che fa e credo anche che non faccia tutto quello che bisognerebbe fare.
Però questo non c’entra perché alla fine la vittoria del Frente Amplio è anche la vittoria della diversità politica e io credo che questo significhi democrazia. Nel Frente coesistono molti partiti e movimenti diversi, uniti per l’appunto in una causa comune ma con le loro diversità e differenze, che io rivendico, per me questo è fondamentale.

- Cosa significa per lei come uruguaiano il fatto che un dirigente emblematico della sinistra come Pepe Mujica, ex guerrigliero tupamaro, abbia forti possibilità di arrivare alla Presidenza delle Repubblica del suo paese?

- Non sarà semplice, vedremo cosa succederà, giustamente la gente si riconosce in Pepe Mujica perché è completamente diverso dai politici tradizionali, nel linguaggio, nell’aspetto e in generale in tutto, anche se cerca di vestirsi come un uomo elegante non gli riesce bene ed è l’espressione di una volontà popolare di cambiamento. Credo che sarebbe una buona cosa se arrivasse alla Presidenza, vediamo se succede o no, in ogni caso il dramma dell’Uruguay, come quello dell’Ecuador, sicuramente, paese dove stiamo conversando in questo momento, è l’emorragia della sua popolazione giovane.
Ossia, la nostra patria pellegrina; nel suo discorso di insediamento il presidente Rafael Correa parlò di esiliati della povertà e la verità è che c’è un’enorme quantità di uruguaiani emigrati, molti più di quello che si dice perché le cifre non sono ufficiali, almeno 700 mila, 800 mila, in una popolazione piccolissima perché noi nell’Uruguay siamo 3 milioni e mezzo, questa quantità di gente fuori, tutti o quasi giovani, che hanno lasciato qui i vecchi o le persone che ormai hanno concluso la tappa della vita nella quale uno vuole che tutto cambi per poi rassegnarsi che non cambia niente o molto poco.

TESSERE COLORATE PER COMPORRE MOSAICI

- Partendo dai suoi libri di successo, “Las venas abiertas de América Latina pubblicato nel 1970, y Espejos, nel 2008, che raccontano storie di infamia, il primo nel nostro continente, l’altro nel mondo, c’è ancora spazio per continuare a credere nell’utopia?

- Espejos recupera la storia universale in tutte le sue dimensioni, nei suoi orrori ma anche nelle sue feste, è molto diverso da “Las venas abiertas de América Latina” che fu l’inizio del cammino. Las venas abiertas è quasi un saggio di economia politica, scritto in un linguaggio non molto tradizionale, per questo non ha vinto il concorso Casa de las Americas, perché la giuria non l’ha considerato serio.
Era un’epoca nella quale la sinistra pensava che il serio era quello che era noioso, e siccome il mio libro non era noioso non era serio, però è un libro con un concentrato di storia di politica economica e dei danni che questa storia ci portò, di come ci deformò e strangolò.
Al contrario Espejos tenta di affacciarsi al mondo intero raccogliendo tutto, le notti e i giorni, le luci e le ombre, tutte storie piuttosto corte, e c’è anche una differenza di stile, Las venas abiertas ha una struttura tradizionale, e partendo da qui io vorrei trovare un mio linguaggio, che è quello del racconto corto, tessere colorate per comporre grandi mosaici, e ogni racconto è una tesserina piena di colore, e uno degli ultimi racconti di Espejos evoca un vero ricordo della mia infanzia, io, da piccolo, credevo che tutto quello che si perdeva sulla terra andasse a finire sulla luna, ero convinto di questo e rimasi sorpreso quando arrivarono gli astronauti sulla luna perché non trovarono né promesse tradite, né illusioni perdute, né speranze vane, e allora mi domandai: “se non sono sulla luna dove sono? Non sarà che sono qui sulla terra e ci stanno aspettando?”.

Di Eduardo Gaelano ricordiamo: “Le vene aperte dell’America Latina” Ed. Sperling e Kupfer-
 

02/10/2009

mardi, 20 octobre 2009

Pourparlers militaires sino-australiens

Flag-Pins-China-Australia.jpg Pourparlers militaires sino-australiens

 

Les relations sino-australiennes se renforcent considérablement depuis quelques mois, en dépit de l’apprtenance de l’Australie à la sphère culturelle anglo-saxonne, dont elle est le bastion entre Océan Indien et Océan Pacifique. Désormais, c’est sur les plans militaire et stratégique que les deux puissances traitent à Canberra, après avoir régulé leurs relations commerciales. Le général chinois Chen Bingde vient de rencontrer le chef de l’armée de l’air australienne, Angus Houston, et le ministre de la défense, John Faulkner.

 

L’Australie est-elle progressivement attirée par l’informelle “sphère de co-prospérité est-asiatique”, qui existe de facto en dépit de l’ancienne volonté américaine de l’éliminer pendant la  seconde guerre mondiale? Faut-il conclure qu’on ne contrarie pas la géographie et que les faits géographiques sont plus têtus que les discours idéologiques?

 

Restent quelques questions: la Chine cherche indubitablement une projection vers l’Océan Indien, par le Détroit de Malacca, par l’Isthme de Kra ou par des oléoducs traversant le Myanmar (Birmanie). Elle doit, pour ce faire, avoir les bonnes grâces de l’Australie. Mais l’Indonésie dans ce rapprochement, l’archipel indonésien qui est là, comme un verrou potentiel entre les deux puissances en phase de rapprochement accéléré? Quel rôle est-elle appelé à jouer? Celle d’un ami ou d’un ennemi du nouveau binôme sino-australien? Sa spécificité d’Etat à dominante largement musulmane déplait-elle à la Chine qui se méfie dorénavant de tout islamisme depuis les ennuis que lui procure sa minorité ouïghour dans le Sinkiang? Les implications potentielles du rapprochement sino-australien nous permettent encore de spéculer à l’infini. Un glissement géopolitique intéressant, dans une zone clef de la planète.

 

(sources: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).

L'Irak demande à la Turquie de cesser ses incursions en pays kurde

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L’Irak demande à la Turquie de cesser ses incursions en pays kurde

 

La Turquie vient, on le sait, de se faire rappeler à l’ordre par Israël pour deux motifs: le ministre israélien des affaires étrangères, Avigor Liebermann, dont on se souvient des propos fort indélicats à l’égard des voisins arabes de l’Etat hébreu, n’a guère apprécié les émissions de la télévision d’Etat turque, où les soldats israéliens sont campés comme de sombres brutes qui assassinent à qui mieux mieux des civils palestiniens; ensuite, Ankara s’est opposé à la participation israélienne à des manoeuvres dans l’espace aérien turc.

 

Mais il n’y a pas qu’Israël qui s’insurge. L’Irak aussi. Les relations turco-irakiennes s’étaient pourtant améliorées depuis 2003, l’année où l’invasion américaine avait mis un terme au pouvoir de Saddam Hussein. Les relations économiques entre les deux pays  n’ont plus cessé de  se renforcer. Mais, malgré cette amélioration des rapports commerciaux, deux problèmes demeurent: d’abord, les fréquentes violations de la frontière irakienne par des unités turques, cherchant à frapper les bases arrière du PKK kurde. Les incursions musclées de l’armée turque ont redoublé d’intensité ces derniers mois. Les Irakiens souhaitent que cela cesse.

 

Deuxième problème: l’eau. On sait que la maîtrise des eaux et des nappes phréatiques deviendra à très court terme le problème numéro un dans les pays semi-désertiques où les zones arables et irriguées sont réduites par rapport à une démographie en pleine croissance. La Turquie continue à pomper l’eau des fleuves mésopotamiens, le Tigre et l’Euphrate, qui prennent tous deux leurs sources sur territoire turc. L’Irak est en permanence menacé de sécheresse et, pire, sans eau et sans paix intérieure dans les régions septentrionales de son territorie, ne peut pas amorcer de reconstruction.

 

La violence continue aussi à frapper la communauté chiite irakienne, notamment à Kerbala. En tout, l’Irak doit déplorer 85.694 morts et quelque 147.000 blessés, dus à des attentats. Moralité générale: les Etats-Unis se sont montrés incapables d’assurer la paix dans le pays qu’ils ont envahi et occupé. Ils ne méritent pas le statut d’hegemon qu’ils prétendent exercer. La Turquie, qui n’a plus l’extension impériale qu’elle possédait du temps des sultans ottomans, tente de jouer un rôle accru de puissance régionale, mais le redécoupage territorial d’après 1918 dans la zone entre Méditerranée et Golfe Persique, partiellement révisé lors du Traité de Lausanne en 1923 (plus d’Arménie indépendante, plus de présence grecque à Smyrne), interdit de rejouer pleinement ce rôle: les entités étatiques nées des accords Sykes-Picot et des Traités de Sèvres et de Lausanne ont acquis un statut autonome, avec une géopolitique particulière, qui n’accepte plus l’ingérence ni la tutelle turques. Personne ne semble avoir relu les écrits des “arabistes” des décennies 1890-1914 qui avaient revendiqué, face à l’éclosion de l’idéologie pantouranienne en Turquie, dans le sillage de la prise de pouvoir des Jeunes Turcs, l’unité des Arabes de la péninsule arabique et des pays arabophones situés au sud de la Turquie (Syrie, Palestine, Liban, Irak).

 

Dans les écrits, rédigés souvent en français, de ces précurseurs du panarabisme de Michel Aflaq, on décèle la volonté de créer un bloc arabe au départ des régions arabophones de la péninsule arabique et du Croissant Fertile, dont le ciment ne serait pas tant l’islam que la langue arabe qui, elle, unit effectivement Arabes chrétiens et musulmans. Cette vision a servi à fomenter la révolte arabe patronné par le fameux Lawrence d’Arabie en 1916 puis à animer la plupart des visions politiques à l’oeuvre dans le futur Etat irakien. A méditer, car c’est, indépendamment de la présence américaine, l’idéologie qui anime tout décideur irakien. Dans cette optique, la Turquie s’occupe des affaires turques et les Arabes des affaires arabes. Chacun sur son territoire, chacun avec sa langue. Un partage des tâches qui ne doit pas empêcher l’entente économique.

 

(sources: “Iraq asks Turkey to stop cross-border raids on Kurds”, in: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).

lundi, 19 octobre 2009

The Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia

264515072_small2.jpgThe Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia
Reframing the History of World War II


Global Research, October 2, 2009

As tensions mount between the U.S. and the North Atlantic Treaty Organization (NATO) on one side and Moscow and its allies on another, the history of the Second World War is being re-framed to demonize Russia, the legal successor state and largest former constituent republic (pars pro toto) of the Union of Soviet Socialist Republics (U.S.S.R.). In 2009, the U.S.S.R. and the Nazi government of Germany started being portrayed as the two forces that ignited the Second World War.

The historicity behind such a narrative is incorrect and nothing can be further from the truth in regards to Moscow. The security of the European core of the Soviet Union was the main objective of the Kremlin as well as the recovery of lost territory. The Soviet government was also aware of war plans against the Soviet Union. Adolph Hitler thought Britain would join Germany in war against the Soviets, even until the latter part of the Second World War.

This discourse in itself is part of a broader roadmap to control Eurasia through the encirclement of any rival powers, such as Russia and China. To understand the geo-politics and strategic nature of the encirclement of Russia and China by the U.S. and NATO, as well as the Eurasian alliance being formed by Moscow and Beijing as a counter-measure, one must look at the historic Anglo-American drive to cripple and contain any power in Eurasia.

Geography is the basis of the social evolution of traditional power, whether in feudal societies or in industrial societies. For example the property ownership of the landed class, which originally was the nobility, gave rise to the factory system. The rise of financial power is somewhat different, but yet it is also tied to geography.

The United States, India and Brazil are all “natural great powers” — a term coined herein. Natural great powers are states that are bound, with time, to develop or evolve into major hubs of human production because of their geographic configuration or nature’s blessings. In the Eurasian landmass, above all others, there are three states that we can call natural great powers; these states are Russia, China, and India. They have large territories and vast resources and, due to the two former factors, possess great human capacity that can lead to major productivity.

Without human capacity, however, geography and resources are meaningless, and therefore any impairment of population growth or social development through war, civil strife, famine, political instability and/or economic instability can obstruct the emergence of a natural great power. This is exactly what has been happening in the Russian Federation and its earlier predecessors, the U.S.S.R. and the Russian Empire, for the last two hundred years - from the numerous episodes of civil war, the First World War, and the Second World War, to the Yeltsin era and the problems in Caucasia. This is also why the declining population of Russia is a major worry for the Kremlin. If left undisturbed, such nation-states like China and Russia, would dominate the global economy and, by extension, international politics.

This is exactly what Anglo-American foreign policy has been trying to prevent for almost three centuries, first strictly under British clout and then later through combined British and American cooperation. In Europe, the containment policy was first applied to France for centuries and later, after German unification under Prince Otto von Bismarck, to Germany. Later the policy was expanded in scope to all Eurasia (the proper geographic extension of Europe or the “Continent”, as the British called it).

Part of this policy included the prevention of Russian access to the shores of the Mediterranean Sea or the Persian Gulf, which would threaten British trade and eventually maritime supremacy. This is one of the main reasons that the British and French played Czarist Russia and Ottoman Turkey against one another and militarily supported the Ottoman Empire in the Crimean War, when the possibility of Russia, under Catherine II, gaining Ottoman territory on the Mediterranean Sea seemed real.

Why did the Soviets and Chinese Bear the Brunt of the Burden in the Second World War?

The U.S.S.R. and China suffered the greatest material, demographic and overall losses in the Second World War. A quantitative comparative overview and cross-examination of the casualty figures of Britain, the United States, the Soviet Union and China will show the staggering differences between the so-called “Western Allies” and the so-called “Eastern Allies.”

Britain suffered 400,000 casualties and the U.S. suffered just over 260,000 casualties. U.S. civilian casualties were virtually non-existent and no U.S. factories were even touched. On the other hand, the U.S.S.R. had about 10 million military casualties and 12 to 14 million civilian casualties, while China had about 4 to 5 million military casualties and civilian casualties that have been estimated in the range of 8 to 20 million deaths.

Suffering can not be qualified or quantified, but much is overlooked in regards to the Soviet Union and China. Without question the Soviet Union and China lost the greatest ratio of their populations amongst the major Allies. In many cases the casualties of the series of civil wars in the Soviet Union (which saw foreign involvement and even intervention) and the casualties of the Japanese invasion of China (30 million people, starting before 1939) are not counted as Second World War casualties by many historians in Western Europe and the Anglosphere

Most the fighting in the Second World War also took place in the territories of China and Russia. Both Eurasian giants also faced the greatest destruction of infrastructure and material loss, which set their development back by decades. The agricultural and industrial capacity of China alone was cut in half. The Axis, specifically Germany and Japan (two economic rivals of the U.S. and Britain), also were crippled. In contrast, the U.S. was virtually untouched, while Britain as a state was totally depended on U.S. patronage. [1]

U.S. Economic Expansion: Global Wars and the Growth of U.S. Industrial and Economic Might

Both the First World War and the Second World War managed to eliminate any economic rivalry or challenge to U.S. corporations. While Europe and Asia were ravaged by war, the U.S. inversely grew economically. U.S. industrial might grew by leaps and bounds, while the industrial capacities of Europe and Asia were destroyed by both Allied and Axis sides in the Second World War and by the Allies and the Central Powers in the First World War.

By the end of the the Second World War, the U.S. literally owned half the global economy through loans, American foreign investment and war debts. U.S. economic expansion and the American export boom were unprecedented in the scale that took place during the period from 1910-1950, all of which was tied to the Eurasian warscape. Also, it was also only the U.S. that had the economic resources to rebuild the economies and industrial capacities of Europe and Asia, which it did with strings attached. These strings involved favourable treatment of U.S. corporations, preferential trade with the U.S., and the setting up of U.S. branch plants.

1945 was the beginning of Pax Americana. Even much of the foreign aid provided by the U.S. government (with the approval of Congress), to facilitate the reconstruction of European states, flowed back into the private bank accounts of the owners of U.S. corporations, because American firms were awarded many reconstruction-related contracts. War had directly fuelled the industrial might of the United States, while eliminating other rivals such as the Japanese who were a major economic threat to U.S. markets in Asia and the Pacific.

Just to show the extent of the American objectives to handicap their economic rivals one should look at the handling of Japan from 1945 till about October 1, 1949. After the surrender of Tokyo to the U.S. on the U.S.S. Missouri and the start of the American occupation and administration of Japan, the Japanese economy began to rapidly decline because of the calculated neglect of the U.S. through the office of the Supreme Commander of the Allied Powers (SCAP). In economic terms, the Japanese case was initially very similar to that of Anglo-American occupied Iraq.
 
In late-1949 all this began to change. Almost overnight, there was literally a complete change, or a flip-flop, in U.S. policy on Japan. It was only after October 1, 1949 when the People’s Republic of China was declared by Mao Zedong and the Communist Party of China that the U.S. began to allow Japan to recover economically, so as to use it as a counter-weight to China. As a side note, in a case of irony, the quick change in American policy regarding Japan allowed the U.S. to overlook the Japanese policy of not allowing foreign investment, which is one of the reasons for the economic success of Japan and one of the reasons why the financial elites of Japan form part of the trilateral pillar of the global economy along with the elites of the U.S. and Western Europe.

The “Open Doors” Policy of the Anglo-American Establishment

Anglo-American elites also made it clear that they wanted a global policy of “open doors” through the 1941 Atlantic Charter, which was a joint British and American declaration about what post-war international relations would be like. It is very important to note that the Atlantic Charter was made before the U.S. even entered the Second World War. The events and description above was the second clear phase behind the start of modern neo-liberal globalization; the first phase was the start of the First World War. In both wars the financial and corporate elite of the U.S., before the entry of the U.S. as a combatant, had funded both sides through loans and American investment, while they destroyed one another. This included the use of middlemen and companies in other countries, such as Canada.

The creation of the U.S. Federal Reserve in 1913, before the First World War and the U.S. domestic (not foreign, because of the regulations of other states) de-coupling of the gold standard from the U.S. dollar in 1933, before the Second World War, were required beforehand for the U.S. domination of other economies. Both were steps that removed the limits and restrains on the number of U.S. dollars being printed, which allowed the U.S. to invest and loan money to the warring states of Europe and Asia.

Norman Dodd, a former Wall Street banker and investigator for the U.S. Congress, who examined  U.S. tax-exempt foundations, revealed in a 1982 interview that the First World War was anticipated by U.S. elites in order to further manage the global economy. [2] War or any form of large-scale traumatic occurences are the perfect events to use for restructuring societies, all in the name of the war effort and the common good. Civil liberties and labour laws can be suspended, while the press is fully censored and opposition figures arrested or demonized, while corporations and governments merge in close coordination and under the justification of the war effort. This was true of virtually all sides in the First World War and the Second World War, from Canada to Germany under Adolph Hitler.
 
In contrast to the views of its own citizens, the American government was never really neutral during both the First World War and the Second World War. The U.S. was funding and arming the British at the start of the Second World War. Also before the American entry in the Second World War, the U.S., Canada, and Britain started the process of joint war planning and military integration. Before the Japanese attacked Pearl Harbour on December 7, 1941 the U.S. and Canada, which was fighting Germany, on  August 17, 1940 signed the Ogdensburg Agreement, which was an agreement that spelled out joint defence through the Permanent Joint Board of Defence and joint war planning against Germany and the Axis. In 1941, the Hyde Park Agreement formally united the Canadian and American war economies and informally united the U.S., Canadian, and British economies. The U.S. and British military command would also be integrated. In part, the monetary arrangement that was made through these war transactions between the U.S., Canada, and Britain would become the basis for the Bretton Woods formula.
 
Also, the empires of Britain, France, and other Western European states were not dismantled just due to the fact that they were all degraded because of the Second World War, but because of Anglo-American economic interests. The imperialist policies of these European states made it mandatory for their colonies to have preferential trade with them, which went against the “open doors” policy that would allow U.S. corporations to penetrate into other national economies, especially ones that were ravaged by war and thus perfect for U.S. corporate entrance.
 

The Reasons for the German-Soviet Non-Aggression Pact
 
Britain and the U.S. also deliberately delayed their invasion of Western Europe, calculating that it would weaken the Soviets who did most the fighting in Europe’s Eastern Front. This is why the U.S. and Britain originally invaded North Africa instead of Europe. They wanted the Third Reich and the Soviet Union to neutralize one another.

The German-Soviet Non-Aggression Pact or the Ribeentrop-Molotov Pact caused shock waves in Europe and North America when it was signed. The German and Soviet governments were at odds with one another. This was more than just because of ideology; Germany and the Soviet Union were being played against one another in the events leading up to the Second World War, just as how previously Germany, the Russian Empire, and the Ottoman Empire were played against one another in Eastern Europe [3]

This is why Britain and France only declared war on Berlin, in 1939, when both the U.S.S.R. and Germany had invaded Poland. If the intentions were to protect Poland, then why only declare war against Germany when in reality both the Germans and the Soviets had invaded? There is something much deeper to be said about all this.

If Moscow and Berlin had not signed a non-aggression agreement there would have been no declaration of war against Germany. In fact Appeasement was a deliberate policy crafted in the hope of allowing Germany to militarize and then allowing the Nazi government the means, through military might, to create a common German-Soviet border, which would be the prerequisite to an anticipated German-Soviet war that would neutralize the two strongest land powers in Europe and Eurasia. [4]

British policy and the rationale for the non-aggression pact between the Soviets and Germans is described best by Carroll Quigley. Quigley, a top ranking U.S. professor of history, on the basis of the diplomatic agreements in Europe and insider information as an professor of the elites explains the strategic aims of British policy from 1920 to 1938 as:

[T]o maintain the balance of power in Europe by building up Germany against France and [the Soviet Union]; to increase Britain’s weight in that balance by aligning with her the Dominions [e.g., Australia and Canada] and the United States; to refuse any commitments (especially any commitments through the League of Nations, and above all any commitments to aid France) beyond those existing in 1919; to keep British freedom of action; to drive Germany eastward against [the Soviet Union] if either or both of these two powers became a threat to the peace [probably meaning economic strength] of Western Europe [and most probably implying British interests]. [5]

In order to carry out this plan of allowing Germany to drive eastward against [the Soviet Union], it was necessary to do three things: (1) to liquidate all the countries standing between Germany and [the Soviet Union]; (2) to prevent France from [honouring] her alliances with these countries [i.e., Czechoslovakia and Poland]; and (3) to hoodwink the [British] people into accepting this as a necessary, indeed, the only solution to the international problem. The Chamberlain group were so successful in all three of these things that they came within an ace of succeeding, and failed only because of the obstinacy of the Poles, the unseemly haste of Hitler, and the fact that at the eleventh hour the Milner Group realized the [geo-strategic] implications of their policy [which to their fear united the Soviets and Germans] and tried to reverse it. [6]

It is because of this aim of nurturing Germany into a position of attacking the Soviets that British, Canadian, and American leaders had good rapports (which seem unexplained in standard history textbooks) with Adolph Hitler and the Nazis until the eve of the Second World War.

In regards to appeasement under Prime Minister Neville Chamberlain and its beginning under the re-militarization of the industrial lands of the Rhineland, Quigley explains:

This event of March 1936, by which Hitler remilitarized the Rhineland, was the most crucial event in the whole history of appeasement. So long as the territory west of the Rhine and a strip fifty kilometers wide on the east bank of the river were demilitarized, as provided in the Treaty of Versailles and the Locarno Pacts, Hitler would never have dared to move against Austria, Czechoslovakia, and Poland. He would not have dared because, with western Germany unfortified and denuded of German soldiers, France could have easily driven into the Ruhr industrial area and crippled Germany so that it would be impossible to go eastward. And by this date [1936], certain members of the Milner Group and of the British Conservative government had reached the fantastic idea that they could kill two birds with one stone by setting Germany and [the Soviet Union] against one another in Eastern Europe. In this way they felt that two enemies would stalemate one another, or that Germany would become satisfied with the oil of Rumania and the wheat of the Ukraine. It never occurred to anyone in a responsible position that Germany and [the Soviet Union] might make common cause, even temporarily, against the West. Even less did it occur to them that [the Soviet Union] might beat Germany and thus open all Central Europe to Bolshevism. [7]

The liquidation of the countries between Germany and [the Soviet Union] could proceed as soon as the Rhineland was fortified, without fear on Germany’s part that France would be able to attack her in the west while she was occupied in the east. [8]

In regards to eventually creating a common German-Soviet, the French-led military alliance had to first be neutralized. The Locarno Pacts were fashioned by British foreign policy mandarins to prevent France from being able to militarily support Czechoslovakia and Poland in Eastern Europe and thus to intimidate Germany from halting any attempts at annexing both Eastern European states. Quigley writes:

[T]he Locarno agreements guaranteed the frontier of Germany with France and Belgium with the powers of these three states plus Britain and Italy. In reality the agreements gave France nothing, while they gave Britain a veto over French fulfillment of her alliances with Poland and the Little Entente. The French accepted these deceptive documents for reason of internal politics (...) This trap [as Quigley calls the Locarno agreements] consisted of several interlocking factors. In the first place, the agreements did not guarantee the German frontier and the demilitarized condition of the Rhineland against German actions, but against the actions of either Germany or France. This, at one stroke, gave Britain the right to oppose any French action against Germany in support of her allies to the east of Germany. This meant that if Germany moved east against Czechoslovakia, Poland, and eventually [the Soviet Union], and if France attacked Germany’s western frontier in support of Czechoslovakia or Poland, as her alliances bound her to do, Great Britain, Belgium, and Italy might be bound by the Locarno Pacts to come to the aid of Germany. [9]

The Anglo-German Naval Agreement of 1935 was also deliberately signed by Britain to prevent the Soviets from joining the neutralized military alliance between France, Czechoslovakia, and Poland. Quigley writes:

Four days later, Hitler announced Germany’s rearmament, and ten days after that, Britain condoned the act by sending Sir John Simon on a state visit to Berlin. When France tried to counterbalance Germany’s rearmament by bringing the Soviet Union into her eastern alliance system in May 1935, the British counteracted this by making the Anglo-German Naval Agreement of 18 June 1935. This agreement, concluded by Simon, allowed Germany to build up to 35 percent of the size of the British Navy (and up to 100 percent in submarines). This was a deadly stab in the back of France, for it gave Germany a navy considerably larger than the French in the important categories of ships (capital ships and aircraft carriers), because France was bound by treaty to only 33 percent of Britain’s; and France in addition, had a worldwide empire to protect and the unfriendly Italian Navy off her Mediterranean coast. This agreement put the French Atlantic coast so completely at the mercy of the German Navy that France became completely dependent on the British fleet for protection in this area. [10]

The Hoare-Laval Plan was also used to stir Germany eastward instead of southward towards the Eastern Mediterranean, which the British saw as the critical linchpin holding their empire together and connecting them through the Egyptian Suez Canal to India. Quigley explains:

The countries marked for liquidation included Austria, Czechoslovakia, and Poland, but did not include Greece and Turkey, since the [Milner] Group had no intention of allowing Germany to get down onto the Mediterranean ‘lifeline.’ Indeed, the purpose of the Hoare-Laval Plan of 1935, which wrecked the collective-security system by seeking to give most Ethiopia to Italy, was intended to bring an appeased Italy in position alongside [Britain], in order to block any movement of Germany southward rather than eastward [towards the Soviet Union]. [11]

Both the Soviet Union, under Joseph Stalin, and Germany, under Adolph Hitler, ultimately became aware of the designs for the planning of a German-Soviet war and because of this both Moscow and Berlin signed a non-aggression pact prior to the Second World War. The German-Soviet arrangement was largely a response to the Anglo-American stance. In the end it was because of Soviet and German distrust for one another that the Soviet-German alliance collapsed and the anticipated German-Soviet war came to fruition as the largest and deadliest war theatre in the Second World War, the Eastern Front.

The Origins of the Russian Urge to Protect Eurasia

With this understanding of the Anglo-American strategic mentality of weakening Eurasia the ground can be paved for understanding the Russian mentality and mind frame for protecting themselves through protecting their European core and uniting  Eurasia through such organizations as the Warsaw Pact, the Collective Security Treaty Organization (CSTO), and the Shanghai Cooperation Organization (SCO), and such Russian policies as the Primakov Doctrine and allying Moscow with Iran and Syria.

As spheres of influence were carved in Europe, it was understood that Greece would fall into the Anglo-American orbit, while Poland, Bulgaria, Romania, Albania, Yugoslavia, and Czechoslovakia would fall within the Soviet orbit. Due to this understanding the Red Army of the Soviet Union watched as the Greek Communists were butchered and the British militarily intervened in the Greek Civil War. The reason for these agreements involving spheres of influence in Europe was that the Soviets wanted a buffer zone to protect themselves from any further invasions from Western Europe, which had been plaguing the U.S.S.R. and Czarist Russia.

In reality, the Cold War did not start because of Soviet aggression, but because of a long-standing historic impulse by Anglo-American elites to encircle and control Eurasia. The Soviet Union honoured its agreement with Britain and the U.S. not to intervene in Greece, which even came at the expense of Yugoslav-Soviet relations as Marshal Tito broke with Stalin over the issue. This, however, did not stop the U.S. and Britain from falsely accusing the Soviets of supporting the Greek Communists and declaring war on the Soviets through the Truman Doctrine. This move was a part of the Anglo-American  bid to encircle the Soviet Union and to control Eurasia. Today this policy, which existed before the First World War and helped spark the Second World War, has not changed and Anglo-American elites, such as Zbigniew Brzezinski, still talk about partitioning Russia, the successor state of the Soviet Union.

Mahdi Darius Nazemroaya is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization (CRG) specializing in geopolitics and strategic issues.

NOTES

[1] British elites, however, had managed to incorporate themselves into the economic livelihood of the U.S., forming an Anglo-American elite and effectively separating themselves from the interests of the majority of British citizens.

[2] Mahdi Darius Nazemroaya, Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a “New Middle East”, Centre for Research on Globalization (CRG),
November 18, 2006.

[3] Mahdi Darius Nazemroaya, The “Great Game”: Eurasia and the History of War, Centre for Research on Globalization (CRG),
December 3, 2007.


[4] China at this time was already being limited by Japan and before that by combined Japanese, Russian, and Western European policies. This would leave Germany and the U.S.S.R. as the two main threats to Anglo-American interests.

[5] Carroll Quigley, The Anglo-American Establishment: From Rhodes to Cliveden (San Pedro, California: GSG & Associates Publishers, 1981), p.240.

[6] Ibid., p.266.

[7] Ibid., p.265.

[8] Ibid., p.272.

[9] Ibid., p.264.

[10] Ibid., pp.269-270.

[11] Ibid., p.273.



dimanche, 18 octobre 2009

Unegrande Albanie parrainée par l'Occident

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Menace d'un nouveau conflit en Europe:
Une Grande Albanie parrainée par l'Occident


Le 10 octobre 2009

L'Europe peut être perchée au-dessus du précipice de son premier conflit armé depuis les 78 jours de bombardement de la guerre de l'OTAN contre la Yougoslavie en 1999 et l'invasion armée de la Macédoine qui a suivi lancée à partir du Kosovo occupé par l'OTAN deux ans plus tard.

Avec l'accession formelle,  en avril, de l'Albanie à l'OTAN comme membre à part entière et la victoire de la réélection (au moins formellement) qui a suivi, du premier ministre de la nation Sali Berisha, le théâtre est prêt pour la réalisation du projet de nouveau retraçage des frontières de l'Europe du Sud-est à la recherche d'une grande Albanie.

Les étapes précédentes dans cette direction ont été la guerre menée par les États-Unis et l'OTAN contre la République Fédérale de Yougoslavie il y a dix ans pour le compte de l'ainsi dite Armée de Libération du Kosovo (AKL, en albanais UÇK) et de connivence avec elle, une violation criminelle du droit international qui s'est terminée par l'arrachage de la province serbe du Kosovo en même temps à la Serbie et à la Yougoslavie.

50 000 soldats de l'OTAN versés dans le Kosovo en juin 1999, accompagnés par les dirigeants et les combattants de l'ALK basés en Albanie, sous les auspices de la  Résolution 1244 des Nations Unies qui, entre autres, condamnait les "actes terroristes commis par l'une ou l'autre  partie "et" [réaffirmait] l'engagement de tous les états membres pour la souveraineté et l'intégrité territoriale de la République Fédérale de Yougoslavie et des autres états de la région, conformément à l'acte final d'Helsinki et à l'annexe 2".

Les États-Unis et leurs alliés de l'OTAN n'avaient pas l'intention de respecter les dispositions de la résolution 1244 de l'ONU et ils ont montré leur mépris pour un document qu'eux-mêmes avaient signé en réarmant les combattants de l'ALK, qui pendant des années avaient attaqué, enlevé et assassiné des civils de toutes provenances ethniques et en transformant l'ancien groupe armé sécessionniste en Corps de Protection du Kosovo.

La Résolution 1244 de l'ONU ordonnait expressément que l'ALK et ses gangsters affiliés devaient être désarmés, alors les puissances de l'OTAN ont contourné cette exigence par un tour de passe-passe en fournissant à l'ALK de nouveaux uniformes, de nouvelles armes et un nouveau nom. Mais pas un nouveau commandant. Celui qui a été choisi pour ce rôle a été Agim Ceku, commandant de l'armée croate durant la brutale campagne Opération Tempête de 1995 "la plus grande offensive terrestre européenne depuis la seconde guerre mondiale" [1] - et chef d'état-major de l'ALK au cours de sa guerre commune avec l'OTAN contre la Yougoslavie quatre ans plus tard.

Encouragée par le soutien militaire de l'Occident dans la réalisation de son programme séparatiste, l'ALK a lâché ses groupes affiliés contre la Serbie du Sud et la Macédoine : l'Armée de Libération de Presevo, Medveda et Bujanovac dans le premier cas à partir de 1999 et l'Armée de Libération Nationale dans le second, qui a commencé les attaques à l'intérieur de la Macédoine à partir de sa base au Kosovo en 2001.

Seule la capitulation du gouvernement de la Serbie après octobre 2000 et un semblable fléchissement sous la pression - pression occidentale – du gouvernement de la Macédoine en 2001 ont satisfait les longues attentes des extrémistes armés pan-albanais dans les deux nations pour une éventuelle unification au-delà des différentes frontières nationales avec le soutien des États-Unis et de leurs alliés de l'OTAN.

La confirmation décisive du soutien occidental est arrivée en février 2008 avec la déclaration unilatérale d'indépendance des forces séparatistes du Kosovo. L'ancien chef de l'ALK et protégé de l'Amérique  Hashim Thaci, alors premier ministre en titre, a proclamé la sécession d'avec la  Serbie et la plupart des nations de l'OTAN se sont précipitées pour gratifier l'entité illégale d'une reconnaissance diplomatique.

Vingt mois après, plus des deux-tiers des pays du monde, y compris la Russie, la Chine et l'Inde, n'ont pas légitimé cette abomination par la reconnaissance, mais l'Occident est resté inébranlable dans son mépris pour le droit international et dans le soutien apporté aux  extrémistes violents au Kosovo, qui ont des ambitions plus vastes pour l'ensemble de la région, ambitions encouragées par l'appui consistant des États-Unis et de l'OTAN et la conviction que l'Occident poursuivra ce soutien à l'avenir.

L'Albanie étant maintenant un état membre à part entière de l'OTAN et en tant que tel sous la protection de la clause d'assistance militaire mutuelle de l'article 5 de l'Alliance, les appels à une Grande Albanie au détriment du territoire de plusieurs autres pays européens sont devenus plus forts et plus acharnés.

En réponse à la campagne grandissante pour étendre le modèle du Kosovo au sud de la Serbie à la Macédoine, au Monténégro et même en Grèce (Épire), il y a deux mois le Ministre des Affaires étrangères russe Sergei Lavrov a admonesté les nations qui envisagent de reconnaître le statut d'état du Kosovo en leur conseillant de "réfléchir très attentivement avant de prendre cette décision très dangereuse qui aurait un résultat imprévisible et qui n'est pas bonne pour  la stabilité de l'Europe.» [2]

Neuf jours plus tard le premier ministre albanais Berisha a déclaré sans détours que «le projet de l'unité nationale de tous les Albanais devrait être un phare directeur pour les politiciens en Albanie et au Kosovo.» Il a dit avec insistance que «l'Albanie et le Kosovo ne doivent en aucun cas se considérer mutuellement comme des états étrangers.» [3]

Un commentateur russe a répondu à cette déclaration en avertissant que "toute tentative de mise en œuvre de l'idée d'une Grande Albanie est similaire à la réouverture d'une boîte de Pandore. Cela pourrait déstabiliser la situation dans les Balkans et déclencher une guerre sur le continent, semblable à celle de la fin des années 1990." [4]

Parlant du " projet d'une soi-disant Grande Albanie qui embrasse tous les territoires des Balkans où vivent des Albanais ethniques, y compris le Kosovo, certaines régions de la Macédoine, le Monténégro et plusieurs autres pays ", l'analyste politique russe Pyotr Iskenderov a dit que « la déclaration de l'indépendance du Kosovo et la reconnaissance de cet acte illicite par les États-Unis et les principaux membres de l'Union Européenne ont stimulé la mise en œuvre de l'idée d'une soi-disant Grande Albanie.» [5]

Le reste de la Serbie est également affecté - la vallée de Presevo dans le sud de la nation où la  Serbie proprement dite, le Kosovo et la Macédoine se rejoignent - et pareillement la Grèce si l'on doit croire un rapport de 2001. À l'époque Ali Ahmeti, fondateur et commandant de l'ALK, puis chef de l'Armée Nationale de Libération (ANL) qui avait commencé à lancer des attaques meurtrières contre la Macédoine depuis sa base dans la ville de Prizren au Kosovo, a été signalé comme ayant glorifié une Armée de Libération de Chameria dans la région d'Epire du Nord-Ouest de la Grèce, une armée équipée d'un arsenal d'armes impressionnant.

Le drapeau national introduit après février 2008 contient une esquisse du Kosovo avec six étoiles blanches au-dessus de lui. Alors qu'il n'a pas été reconnu pour des raisons évidentes, les étoiles sont supposées représenter les nations ayant des populations albanaises ethniques : le Kosovo, l'Albanie, la Serbie, la Macédoine, le Monténégro et la Grèce.

L'entraînement militaire et l'aptitude au combat des groupes séparatistes et irrédentistes pan-Albanais sont en train d'être augmentés à un niveau plus élevé que jamais auparavant par les principaux pays de l'OTAN. En mars la Force du Kosovo dirigée par l'OTAN  (KFOR) a commencé à remanier le Corps de Protection du Kosovo, lui-même un avatar de l'Armée de Libération du Kosovo,  en une armée nationale embryonnaire, la Force de Sécurité du Kosovt o, dont le chef d'état-major est le Lieutenant General [[général de corps d'armée]] Sylejman Selimi venant en transition directe du poste de commandant du Corps de Protection du Kosovo. Un sympathique reportage d'information de décembre dernier a décrit plus précisément son nouveau poste comme Chef d'Etat-major de l'Armée de la République du Kosovo. [6]

La Force de Sécurité du Kosovo (FSK) comme le Corps de Protection du Kosovo avant elle est vantée dans les cercles occidentaux comme une prétendue force de police multiethnique; elle n'est ni multiethnique, ni une force de police, mais une armée naissante, une armée que l'autoproclamé président du Kosovo, le président Fatmir Sejdiu en juin dernier a caractérisée comme étant "une force moderne qui se construit en conformité avec les standards de l'OTAN". [7]

Dans le même mois l'OTAN a annoncé que l'armée du Kosovo prototype serait prête en septembre et "que l'OTAN devrait augmenter ses capacités de contrôle au sein de la FSK afin d'assurer le meilleur renforcement des capacités de la FSK ". [8]

Un rapport antérieur du Kosovo a également démontré que les nouvelles forces armées de l'entité illégitime ne seraient rien d'autre qu'un accessoire militaire de l'OTAN : «La force de sécurité doit être entraînée par des officiers de l'armée britannique, les uniformes ont été fournis par les États-Unis et les véhicules ont été fournis par L'Allemagne.

«La Force de Sécurité du Kosovo doit être conforme aux standards de l'OTAN.» [9]

En février l'Italie a annoncé qu'elle ferait un don de 2 millions d'euros et l' Allemagne qu'elle donnerait 200 véhicules militaires pour l'armée dans le processus. Le Commandant suprême allié de l'OTAN en Europe de l'époque, le général John Craddock, s'est rendu au Kosovo pour lancer la création de la Force de Sécurité du Kosovo et il a visité le Camp d'Entrainement National de la FSK à Vucitrn, voyage au cours duquel il a dit "Je suis satisfaits de l'état d'avancement à ce jour. À la fin de la première phase de recrutement nous avons quelque 4.900 candidats pour environ 300 postes dans la FSK dans cette première tranche de recrutement ". [10]

En mai de cette année, le Ministère de la Défense britannique a signé un accord avec la Force de Sécurité du Kosovo balbutiante pour "donner une formation aux membres de la FSK en différents domaines conformément aux standards de l'OTAN."

L'Ambassadeur britannique au Kosovo Andrew Sparks a été cité comme disant "Nous espérons qu'après la signature de cet accord et l'expansion de notre coopération, le Kosovo parviendra à devenir un membre de l'OTAN." [11]

Comme les soldats d'Albanie auxquels l'OTAN a apporté une expérience des zones de combat en Irak et en Afghanistan, la nouvelle armée du Kosovo sera, comme les forces armées des autres nouvelles nations de l'OTAN, utilisée pour les guerres à l'étranger. Un exemple récent, en août le chef du Quartier Général de la Macédoine, le General Lieutenant Colonel Miroslav Stojanovski, "a souligné que plus d' un quart de la composition des unités du service combattant de l'AMR (Forces Armées Macédoniennes), soit 1.746 soldats ont participé aux missions de paix," ce qui signifie les déploiements de l'OTAN. [12] Cependant plus de soldats macédoniens ont été tués en 2001 par l'Armée de Libération Nationale avatar de l'ALK  qu'il y en a de  morts à ce jour en Afghanistan et en Irak.

Un rapport d'information de mai dernier a apporté davantage de détails sur l'envergure initiale et l'objectif à long terme de la nouvelle armée du Kosovo: "Selon la Constitution de la République du Kosovo, la FSK est censée avoir 3 000 soldats actifs et 2 000 réservistes. Ils sont organisés conformément aux standards de l'OTAN. Il y a également la possibilité de leur déploiement à l'étranger,  garantie de la situation mondiale dans l'avenir." [13]

Lorsque le nouveau Secrétaire général de l'OTAN Anders Fogh Rasmussen a rendu sa première visite en tant que tel au Kosovo en août pour rencontrer le Commandant de la KFOR Giuseppe Emilio Gai, le Président du Kosovo Fatmir Sejdiu, le premier ministre Hashim Thaci et le Ministre des Forces de Sécurité du Kosovo Fehmi Mujota,  "le Président du Kosovo Fatmir Sejdiu a déclaré qu'il espère que l'état participera aux opérations de maintien de la paix de l'OTAN à l'étranger.» [14] L'Afghanistan est le premier déploiement apparent.

Six ans plus tôt Agim Ceku avait offert les troupes du Corps de Protection du Kosovo aux États-Unis en vue de la guerre et de l'occupation en Irak comme contrepartie du maintien des troupes de l'OTAN au Kosovo.

L'OTAN a déployé des soldats venant de nations comme la Géorgie, l'Azerbaïdjan, l'Estonie, la Lettonie, la Lituanie, la Pologne et la Finlande en Afghanistan pour la formation dans le cadre des conditions de combat dans la réalité, pour les utiliser plus près de chez eux une fois revenus comme  l'ont reconnu ouvertement des officiers des armées des nations ci-dessus nommées. Plusieurs milliers de soldats d'Albanie et du Kosovo endurcis par les opérations dans la zone de guerre afghane seront de formidables forces combattantes pour de futurs conflits dans les Balkans.

La distinction entre les forces armées de l'Albanie et du Kosovo, devient en grande partie académique. En août le premier ministre albanais Berisha a publié un déclaration sans équivoque selon laquelle  "l'idée d'unité nationale est fondée sur les principes et les idéaux européens.... De ce fait le Premier ministre du Kosovo Hashim Thaci, et moi-même travaillerons en vue de la suppression de tous les obstacles qui empêchent les Albanais de de sentir unis quel que soit l'endroit où ils vivent," ajoutant que " il ne doit pas y avoir d'administration des douanes et l'Albanie et le Kosovo ne devraient pas se considérer mutuellement comme des pays étrangers...." [15]

L'Albanie est maintenant un membre complet de l'OTAN et comme l'Alliance elle-même pourrait être appelée à réagir si les autorités du Kosovo provoquaient une confrontation avec des voisins comme la Serbie, et la Macédoine et l'Albanie insistent pour affirmer qu'elles et le Kosovo ne sont pas  des "pays étrangers." Si l'Albanie intervient au nom de sa «nation frère» dans un conflit militaire avec un adversaire non-Alliance, l'OTAN deviendra impliquée ipso facto.

En septembre, les ministères des affaires étrangères de la Russie et de la Roumanie ont exprimé leurs graves préoccupations concernant l'évolution dans et se rapportant au Kosovo. La Roumanie est un des trois seuls pays membres de l'OTAN qui n'ont pas reconnu l'indépendance du Kosovo, les deux autres étant l'Espagne et la Slovaquie. Toutes ces trois nations craignent que le précédent du Kosovo puisse contribuer à l'éclatement par la force de leurs propres pays.

Le porte-parole du ministère russe des affaires étrangères, Andrei Nesterenko, a déclaré qu'un  " conflit potentiel considérable " persistait au Kosovo et qu'il attendait des représentants de la communauté internationale qu'ils agissent avec impartialité pour empêcher de "nouvelles provocations anti-serbes".

Il a ajouté que "les événements dans la province  montrent qu'un conflit potentiel considérable  " demeure et que les plus récent affrontements inter-ethnies ont été un résultat du désir des Albanais du Kosovo pour compresser à tout prix le territoire serbe ethnique" et que "dans l'ensemble, le problème du Kosovo reste un des plus sérieux problèmes posés à la sécurité de la région.» [16]

Nullement découragée, l'OTAN a annoncé le 16 septembre sur son site web de la KFOR que «la Force de Sécurité du Kosovo (FSK) a acquis la capacité opérationnelle initiale (COI).

«La décision a été rendue après l'exercice Lion Agile, qui était le point d'aboutissement d'un peu plus de sept mois de dur labeur de la KFOR et de la FSK pour recruter, former et équiper la force.

«Le prochain objectif de la FSK est de parvenir à la pleine capacité opérationnelle. La KFOR va encadrer et soutenir ce processus qui devrait prendre 2 à 5 ans.» [17]

Le jour précédent le nouvel ambassadeur U.S. au Kosovo, Christopher Dell, avait signé le premier accord interétat des États-Unis avec l'entité dissidente, démontrant "l'engagement  de l'Amérique pour un Kosovo indépendant," avec Fatmir Sejdiu et Hashim Thaci. Le président putatif Sejdiu a déclaré à l'occasion: "Cet accord élève cela au niveau de la coopération d'état entre les États-Unis et le Kosovo, pas seulement par le biais des divers organismes des USA et du Kosovo, comme ce fut le cas jusqu'à maintenant.» [18]

Ce que l'extension du "Kosovo indépendant" laisse présager a été indiqué fin septembre lorsque les policiers serbes ont découvert une importante cache d'armes dans la Vallée de Presevo près des frontières Serbie-Macédoine-Kosovo qui comportait  " des mitrailleuses, des bombes, des lance-fusées, 16 grenades à main et plus de 20 mines, ainsi qu'un grand contingent de munitions"[19] et plus tard au début du mois d'octobre lorsque la police des frontières macédonienne  a été "attaquée avec des armes automatiques alors qu'elle menait une patrouille de routine le long de la frontière du Kosovo...." [20].

Ce qui peut également être en magasin a été révélé tardivement le mois dernier lorsque l'Allemagne a déporté les premiers des 12. 000 Roms (gitans) qu'elle renvoie de force au Kosovo. Vers l'exclusion, la persécution, les attentats et la mort. Les Roms qui restent sont en train de mourir dans les abris où la mission intérimaire d'administration des Nations Unies au Kosovo (MINUK) les abandonne après la prise de la province par l'OTAN et l'ALK en juin 1999.
é «Les camps, près d'un complexe fermé de mine et de fonderie  qui comprend un monceau de scories de 100 millions de tonnes de matières toxiques, ont été envisagés comme une mesure temporaire après qu'un quartier qui avait été un foyer pour 9 000 tsiganes a été détruit par  les Albanais ethniques alors que les forces de sécurité serbes avaient quitté la zone dans les derniers jours du conflit du Kosovo en juin 1999.» [21]

Quelques semaines avant la Russie avait averti qu'elle envisageait "l'arrêt de la mission de l'OSCE [Organisation pour la sécurité et la coopération en Europe] au Kosovo instituée pour protéger les droits des communautés ethniques inacceptables."

L'ambassadeur de Russie à l'OSCE, Anvar Azimov, a déclaré «De telles mesures, sanctionnées par personne, sont unilatérales et ont une incidence sur l'activité globale sous le mandat de cette mission». [22]

Le 5 septembre une source de nouvelles serbe a signalé que plus de 200 000 réfugiés du Kosovo ont été enregistrés en Serbie, comprenant des Serbes ethniques, des Roms, des Gorans et autres non-Albanais. Ce nombre excluait ceux qui n'étaient pas inscrits, ceux qui avaient fui vers d'autres pays comme la Macédoine et ceux chassés de leurs foyers mais restés au Kosovo.

Au cours des dix dernières années des centaines de milliers de résidents du Kosovo, y compris Albanais ethniques, ont été assassinés et chassés de la province. Des organisations de Roms ont estimé que le nombre des Roms, des Ashkalis et des Egyptiens ainsi touchés se comptent avec  six chiffres. Des Serbes, des Gorans, des Turcs, des Bosniaques, des Monténégrins et autres victimes de la terreur raciale et de l'extermination au Kosovo se comptent également en centaines de milliers.

Les médias occidentaux ont affirmé régulièrement depuis dix ans maintenant que le Kosovo était à  90 pour cent albanais ethnique. Il pourrait bien en être ainsi maintenant après de telles expulsions à grande échelle, mais les chiffres ci-dessus réfutent que c'était auparavant le cas dans une province de pas plus de deux millions d'habitants.

Après la première déclaration du Premier ministre albanais que son pays et le peuple du  Kosovo et les siens sont un, le Ministre des affaires étrangères russe Sergei Lavrov a publié une condamnation de cette déclaration et par forte implication de l'Ouest: «Nous sommes très préoccupés par la déclaration du Premier ministre albanais.

«Nous sommes convaincus qu'il devrait y avoir des réactions appropriées à la déclaration - tout d'abord, de l'UE et également de l'OTAN. Nous n'avons pas encore eu ces réactions. Nous espérons que, malgré le fait qu'aucune des déclarations publiques ne sont venues des capitales européennes, les négociations avec les autorités albanaises sont en route». [23]

"Moscou est préoccupée par les déclarations de Tirana sur  « l'indispensable unification de tous les Albanais » "[24]

À moins que les commentaires de Lavrov n'aient été que strictement rhétoriques, il lui faudra attendre longtemps avant que les responsables des USA, de l'OTAN et de l'Union européenne ne fassent quelques déclarations, beaucoup moins critiques, sur les demandes de Berisha et de ses homologues du Kosovo et de Macédoine pour une grande Albanie unifié (ou un Grand Kosovo). Les nations de l'OTAN ont armé, entraîné et doté d' un soutien logistique l'Armée de Libération du Kosovo dans sa guerre contre les forces de sécurité serbes et yougoslaves à la fin des années 1990 ; ils entrèrent en marchant côte à côte avec l'ALK dans le Kosovo et l'ont institutionnalisée comme Corps de Protection du Kosovo la même année ; ils ont tiré son Armée de Libération Nationale d'une cuisante défaite de la part de l'Armée Macédonienne en 2001 ; Ils l'ont recréée à nouveau cette année en tant que noyau d'une future armée nationale du Kosovo, la Force de Sécurité du Kosovo ; et ils ont reconnu la déclaration unilatérale de l'indépendance d'un Kosovo dirigé par l' ex chef de l'ALK Hashim Thaci l'an dernier.

Il n'y a aucune raison de croire que Washington et Bruxelles abandonneront maintenant leurs clients et leur projet de subversion et de mutilation de quatre pays voisins pour créer un super-état étendu Albanie-Kosovo ethniquement purifié,  en proie au crime, alors que ce dernier approche de sa réalisation.

Le 6 octobre Berisha a été à Pristina, la capitale du Kosovo, "pour signer un certain nombre d'accords. Selon [Berisha], son gouvernement travaillera mener à bien les projets d'infrastructure qui prévoient une unification des systèmes économiques de l'Albanie et du Kosovo, la création de voies de communications pour expédier des marchandises et pourvoir à la migration économique de la population. [25]

Un compte-rendu de nouvelles italien de la visite a signalé que "l'Albanie a également cédé au Kosovo le port adriatique de Shendjin (Shengjin), donnant ainsi à l'état nouvellement indépendant une issue vers la mer." [26]

Selon les propres termes de Berisha, "le port de Shengjin est maintenant l'issue à la mer du Kosovo ".[27] Accès à l'Adriatique que la Serbie n'a plus depuis l'éclatement de l'Union de la Serbie et du Monténégro il y a trois ans.

Son homologue, l'ancien chef  de bande Hashim Thaci, s'est fait l'écho de la déclaration précédente de son invité en disant "Les Albanais vivent dans de nombreux pays, mais nous sommes une seule nation. Les pays de la région ont deux pays amis au Kosovo et en Albanie, pays partenaires, pour la coopération, la paix et stabilité, pour l'investissement dans la région et pour l'intégration européenne." [28]

Le premier ministre albanais a été cité sur le site web du président du Kosovo le 7 octobre promettant que "l'Albanie aidera le Kosovo de toutes les manières possibles. L'Albanie est résolue à renouveler, de la manière la plus rapide possible, tous ses liens infrastructurels avec le Kosovo. Dans les quatre prochaines années, la construction de l'autoroute Qafe Morine–Shkoder sera terminée et cela donnera au Kosovo occidental un accès rapide à la mer. L'année prochaine, mon gouvernement mettra en œuvre une étude de faisabilité et élaborera le projet d'un chemin de fer Albanie-Kosovo. De nombreuses autres lignes infrastructurelles sont et seront construites. [29]

Berisha a également rencontré le commandant de la Force du Kosovo de l'OTAN (KFOR), le Lieutenant général allemand Markus Bentler et il a dit "Les troupes albanaises pourraient faire partie de la KFOR" avant de déposer une couronne sur la tombe d' Adem Jashari, le premier commandant de l'ALK. [30]

Le jour précédent de la réunion Berisha-Thaci à Pristina, l'accommodant gouvernement serbe du Président Boris Tadic et du Ministre des affaires étrangères Vuk Jeremic se sont avérés d'accord sur les raisons pour lesquelles les intentions de l'OTAN et les intentions pan-albanaises dans la région ont rencontré peu d'opposition. Jeremic, tout en déclarant pour la forme que sa nation n'adhérerait pas  à l'OTAN dans l'avenir immédiat (bien qu'elle ait rejoint le programme transitoire de Partenariat pour la Paix), a déclaré «Nous poursuivons une étroite coopération parce que l'OTAN est le facteur le plus important pour assurer la sécurité dans le monde.»

Un site d'actualités russe informant de cette affirmation a rappelé à ses lecteurs que " en 1999 les forces aériennes de l'OTAN ont bombardé Belgrade et d'autres villes serbes en soutenant les séparatistes albanais du Kosovo. Puis plus de 3 000 Serbes sont morts et des dizaines de milliers de personnes ont été blessées. L'OTAN a également fait la promotion de la séparation du Kosovo de la Serbie...." [31]

A la fin du mois dernier l'amiral américain James Stavridis, chef du Commandement Européen des USA et Commandant Suprême Allié  en Europe de l'OTAN, ont assisté à une réunion de Charte de l'Adriatique que Washington a signé avec l'Albanie, la Macédoine, la Croatie, la Bosnie et le Monténégro en 2003 pour les préparer eux et en réalité l'ensemble des Balkans à l'adhésion à l'OTAN. Stavridis est ensuite parti pour la Croatie pour superviser les manœuvres de guerre multinationales Jackal Stone 09 dont l'objectif était  "d'améliorer avec succès la capacité des participants à mener des opérations de contre-insurrection."le 

Co-organisé par le Commandement des Opérations Spéciales Europe des États-Unis , le commandant de ce dernier,  le Major General Frank Kisner a vanté le  succès de l'exercice : «Cette planification ininterrompue a réuni les représentants de 10 Nations et leur a permis d'exécuter efficacement une multitude de tâches dans les airs, sur terre et sur mer. [32]

Jackal Stone 09 a été le premier exercice militaire mené en Croatie depuis son entrée dans l'OTAN au début de cette année. Des responsables des États-Unis et l'OTAN ont à maintes reprises affirmé qu'après la Croatie et Albanie, la Macédoine, la Bosnie et le Monténégro allaient les premiers devenir membres à part entière et que la Serbie et le Kosovo viendraient ensuite.

Le 2 octobre la Bosnie a présenté au Secrétaire général de l'OTAN Anders Fogh Rasmussen une demande formelle d'un plan d'action pour l'adhésion, à l'OTAN une demande de facto d'adhésion à part entière. Rasmussen a déclaré, «je crois que cette demande est la meilleure route pour une stabilité durable dans la région euro-atlantique. C'est ma vision pour que tous les pays des Balkans occidentaux soient intégrés dans l'OTAN.» [33]

L'OTAN a utilisé plusieurs prétextes pour une intervention militaire dans les Balkans au cours des quinze dernières années, bon nombre de ces prétextes étant contradictoires comme avec le Kosovo contre la République serbe de Bosnie et avec le Kosovo dans son ensemble contre le Nord Kosovska Mitrovica. Son intention, cependant, n'a pas varié et elle persiste: pour absorber chaque nation et pseudo-nation de la région dans ses rangs et recruter parmi  ses nouveaux membres et partenaires pour des guerres plus lointaines.

Le séparatisme armé a été l'outil utilisé pour commencer l'éclatement de la République fédérale socialiste de Yougoslavie en 1992, un processus qui a maintenant fragmenté cette nation en ses six républiques fédérales constitutives et dans le cas du Kosovo arraché une province à une ancienne république.

Mais la refonte des frontières nationales, avec les perturbations et la violence qu'elle implique inévitablement, n'est pas terminée.

Le Kosovo est indiscutablement une boîte de Pandore au fond de laquelle l'espoir n'attend pas  nécessairement. Il reste une étincelle potentielle, capable d augmenter le danger, comme on l'a vu précédemment,  pour "déstabiliser la situation dans les Balkans et déclencher une guerre sur le continent, similaire à celle de la fin des années 1990."

Traduction:  André Compte pour
Mondialisation.ca

Notes

1) Wikipedia
2) Black Sea Press, August 6, 2009
3) Voice of Russia, August 20, 2009
4) Ibid
5) Ibid
6) New Kosova Report, December 20, 2009
7) Kosovo Times, June 9, 2009
8) Kosovo Times, June 8, 2009
9) Kosovo Times, May 27, 2009
10) NATO, Supreme Headquarters Allied Powers Europe, February 18, 2009
11) Southeast European Times, May 21, 2009
12) Makfax, August 17, 2009
13) New Kosova Report, May 20, 2009
14) Focus News Agency, August 13, 2009
15) Sofia News Agency. August 16, 2009
16) Tanjug News Agency, September 4, 2009
17) NATO, Kosovo Force, September 16, 2009
18) Beta News Agency, September 15, 2009
19) Tanjug News Agency, September 23, 2009
20) Makfax, October 2, 2009
21) Washington Times, May 3, 2009
22) FoNet, September 11, 2009
23) Russia Today, October 5, 2009
24) Voice of Russia, October 6, 2009
25) Ibid
26) ADN Kronos International, October 6, 2009
27) B92, October 6, 2009
28) B92, Beta News Agency, Tanjug News Agency, October 6, 2009
29) President of the Republic of Kosovo, October 7, 2009
30) Beta News Agency, October 7, 2009
31) Voice of Russia, October 5, 2009
32) United States European Command, September 28, 2009
33) NATO, October 2, 2009



Europa-Russia-Eurasia: una geopolitica "orizzontale"

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EUROPA-RUSSIA-EURASIA:

 

UNA GEOPOLITICA "ORIZZONTALE"

 

 

 

di  Carlo Terracciano / Ex: http://eurasiaunita.splinder.com/

 

"L'idea eurasiatica rappresenta una fondamentale revisione della storia politica, ideologica, etnica e religiosa dell'umanità; essa offre un nuovo sistema di classificazione e categorie che sostituiranno gli schemi usuali. Così l'eurasiatismo in questo contesto può essere definito come un progetto dell'integrazione strategica, geopolitica ed economica del continente eurasiatico settentrionale, considerato come la culla della storia e la matrice delle nazioni europee".

Aleksandr Dugin

Continenti e geopolitica

 

L'Eurasia è un continente "orizzontale", al contrario dell'America che è un continente "verticale". Cercheremo di approfondire poi questa perentoria affermazione analizzando la storia e soprattutto la geografia, in particolare eurasiatica. Terremo ben presente che in geopolitica la suddivisione dei continenti non corrisponde a quella accademica, ancor oggi insegnata nelle nostre scuole fin dalle elementari, e che, comunque, se un continente è "una massa di terre emerse e abitate, circondata da mari e/o oceani", è evidente che l'Europa, come continente a sé stante (assieme ad Asia, Africa, America e Australia), non risponde neanche ai requisiti della geografia scolastica. Ad est infatti essa è saldamente unita all'Asia propriamente detta. La linea verticale degli Urali, di modesta altezza e degradanti a sud, è stata posta ufficialmente come la demarcazione trai due continenti, prolungata fino al fiume Ural ed al Mar Caspio; ma non ha mai rappresentato un vero confine, un ostacolo riconosciuto rispetto all'immensa pianura che corre orizzontalmente dall'Atlantico al Pacifico. La nascita e l'espansione della Russia moderna verso est, fino ad occupare e popolare l'intera Siberia, non è altro che la naturale conseguenza militare e politica di un dato territoriale: la sostanziale unità geografica della parte settentrionale della massa eurasiatica, la grande pianura che corre dall'Atlantico al Pacifico, distinta a sud da deserti e catene montuose che segnano il vero confine con l'Asia profonda.

Nel suo libro Pekino tra Washington e Mosca (Volpe, Roma, 1972) Guido Giannettini affermava: "Riassumendo, dunque, il confine tra il mondo occidentale e quello orientale non sta negli Urali ma sugli Altai". Inseriva quindi anche la Russia con la Siberia in "occidente" e ne specificava di seguitole coordinate geografiche: "la penisola anatolica, i monti del Kurdistan, l'altopiano steppico del Khorassan, il Sinkiang, il Tchingai, la Mongolia, il Khingan, il Giappone". Semplificando possiamo dire che il vero confine orizzontale tra le due grandi aree geopolitiche della massa continentale genericamente eurasiatica è quello che separa l'Europa (con la penisola di Anatolia) più la Federazione Russa, con tutta la Siberia fino a Vladivostok, dal resto dell'Asia "gialla" (Cina, Corea Giappone); nonché dalle altre aree geopoliticamente omogenee (omogenee per ambiente, storia, cultura, religione ed economia) dell'Asia (Vicino Oriente arabo-islamico, mondo turanico, Islam indoeuropeo dal Kurdistan all'Indo, subcontinente indiano, Sudest asiatico peninsulare e insulare fino all'Indonesia). Più che di un confine di tipo moderno si potrebbe parlare, specie nell'Asia centrale, di un limes in senso romano, di una fascia confinaria più o meno ampia che separa popoli e tradizioni molto differenti. In termini politici, specie dopo la dissoluzione dell'URSS, potremmo comunque porre questo confine asiatico attorno al 50° parallelo, per poi proseguire con gli attuali confini di stato tra Federazione Russa a nord e Cina-Mongolia-Giappone.

Del resto, in questo XXI secolo dell'era volgare la nuova concezione eurasiatista delle aree geopolitiche e geoeconomiche omogenee supera le concezioni politiche vetero­nazionaliste otto-novecentesche, basate su confini ritagliati a linee rette con squadra e compasso. Al contrario si considerano "aree" che spesso si sovrappongono ed integrano, come una serie di anelli concatenati tra loro (tipo i cerchi colorati della bandiera olimpica): ad esempio, l'arca mediterranea è certamente un'unità geopolitica in un mare interno, quasi chiuso agli oceani, che, come dice il suo stesso nome, rappresenta la medianità, il baricentro, il ponte tra le terre prospicienti. Ciò non toglie che i paesi europei che si affacciano sul sistema marittimo Mediterraneo - Mar di Marinara - Mar Nero facciano certamente parte integrante dell'Europa, a sua volta prolungamento occidentale dell'Asia settentrionale, cioè dello spazio russo-siberiano.

Come si noterà, le varie unità omogenee della massa eurasiatica sono disposte tutte in senso orizzontale. La geografia del Mondo Antico, di tutta la massa che con un neologismo potremmo definire Eufrasia, penetrata da un sistema marittimo interno, va in questo senso: da ovest ad est (o viceversa), nel senso dei paralleli. È lo stesso senso di marcia seguito dai ReitervöIker, i "popoli cavalieri" che corsero l'intera Eurasia fin dai più remoti tempi preistorici, i tempi dei miti e delle saghe dell'origine. È lo stesso tragitto, da est a ovest, delle invasioni che dalle steppe dell'Asia centralesi rovesciarono sulla penisola occidentale europea in ondate successive: quelle che noi definiamo "invasioni barbariche", nel periodo della caduta dell' Impero Romano. Poi vennero Tamerlano e Gengiz-Khan; quindi i Turchi, dapprima in Anatolia e poi nei Balcani.

 

 

Siberia russa

 

"Precisamente del Sur de Siberia y de Mongolia provencan las oleadas de los llamados 'bárbaros' que, a través de las estepas que rodean el Caspio y el Mar Negro, llegaron a Europa y cambiaron tanto su faz durante los primeros siglos de nuestra Era" (Alexandr Dugin, Rusia. El misterio de Eurasia, Madrid, GL 88,1992, p. 127).

Precedentemente la grande epopea araba dell'Islam, conquistatala penisola arabica, si era espansa sia verso ovest - nel Sahara e in Spagna – sia verso est - nel Vicino Oriente e fino al centro dell'Asia. Con l'avvento dell'età moderna sarà proprio la Russia, liberatasi dal dominio dell'Orda d' Oro e riunificata attorno al Principato di Moscoviti, a percorrere la strada lineare da ovest ad est. "Jermak è il Pizarro della Russia, l'uomo che sottomise la Siberia e la donò allo zar Ivan il Terribile. E con lui la famiglia degli Stroganoff e in generale i Cosacchi" (Juri Semionov, La conquista della Siberia, Sonzogno, Piacenza, 1974). Nell'arco di appena un secolo, dalla salita al trono di Ivan IV il Terribile nel 1547 alla scoperta dello stretto di Bering nel 1648, la conquista della Siberia è un fatto compiuto. Un evento quasi sconosciuto nei nostri testi di storia, ma che rappresenta e sempre più rappresenterà in futuro un fattore determinante per gli equilibri planetari, come intuì anche il geopolitico inglese Mackinder all'inizio del secolo scorso.

Lo spazio è potenza, anche uno spazio vuoto. La Siberia, con la sua vastità ancora in massima parte intatta, con le sue risorse energetiche e minerali, con la sua posizione, rappresenta una potenzialità unica per l' Eurasia, cioè per l'Europa e la Russia insieme: la possibilità di una possibile autarchia da contrapporre alla globalizzazione mondialista americanocentrica. La Siberia rappresenta per tutta l'Europa fino agli Urali quello che fu il "Far West" per le tredici colonie dei nascenti Stati Uniti: è il nostro "Far East"! Ma HeartIand mackinderiano può essere difeso solo con il controllo di tutta la penisola Europa e delle sue coste atlantiche. Come ben sanno i Russi dal '700 in poi.

Dal XVIII al XX secolo la Russia fu mira dell'espansionismo da occidente. Svezia, Francia, Germania hanno tentato invano di conquistare da ovest ad est lo spazio vitale russo: sempre e comunque in linea orizzontale, seguendo la conformazione geografica del continente.

E, in senso inverso, sarà l'impero russo, oramai divenuto sovietico, a espandere verso ovest la propria influenza dopo la Seconda Guerra Mondiale (la "Grande Guerra Patriottica" per i Russi), mentre gli USA conquisteranno la parte occidentale, marittima e oceanica della penisola europea.

 

 

La NATO in marcia verso l’Heartland

 

All'inizio dell'ultimo decennio del secolo scorso, il crollo implosivo dell'URSS e l'avanzata ad est della NATO portano le truppe e i missili USA nei paesi dell'ex blocco sovietico, del Patto di Varsavia, e della stessa URSS (paesi baltici). La talassocrazia americana, già padrona incontrastata degli oceani mondiali, penetra a fondo nel cuore d'Eurasia, all'assalto degli ultimi bastioni di resistenza rappresentati dalle potenze terrestri russa e cinese.

Pensare che la Russia possa fare a meno dell'Europa peninsulare (e viceversa l'Europa della Russia) di fronte a questa avanzata finale è assolutamente contrario alla geostrategia quanto al semplice buon senso. Consideriamo innanzitutto che l'Europa di cui parliamo non è una libera e sovrana unità di stati indipendenti, se non formalmente. In realtà dal '45 in poi il continente è sotto l'egemonia statunitense, cioè della talassocrazia atlantica. Con qualche rara eccezione, come in parte la Francia erede del gollismo, e con la conferma della Gran Bretagna quale appendice americana in Europa.

La NATO, non a caso, dal 1949 fino al crollo dell'URSS si estendeva su tutti gli stati europei rivieraschi dell'Atlantico e del Mediterraneo, per chiudere al Patto di Varsavia ogni accesso marittimo, isolando l' URSS e strangolandola nella sua dimensione territoriale: tanto estesa quanto chiusa alle grandi acque oceaniche e ai mari caldi interni. Dopo il fallimento dell'avventura afgana, preliminare ad uno sbocco all'Oceano Indiano che spezzasse l'accerchiamento nella massa eurasiatica, il contraccolpo derivato dalla sconfitta e dal ripiegamento ha mandato in frantumi l'oramai artificiosa struttura dell'impero sovietico, demotivato anche ideologicamente e stremato economicamente da un apparato militare obsoleto e chiaramente inadatto alle sfide del presente.

Oggi poi l'Alleanza Atlantica, lungi dall'essersi dissolta per "cessato pericolo", si è estesa sempre più ad est, toccando nel Baltico i confini russi. L'Ucraina è già sulla via dell'integrazione occidentale, il Caucaso è in fiamme, la Georgia è saldamente in mano a Washington.

Non è certo con la sola, ipotetica, alleanza di medie potenze regionali asiatiche che Mosca può pensare di vincere la partita con Washington; partita mortale, esiziale per la sua stessa integrità territoriale e sopravvivenza come impero.

Quello a cui punta l'America di Bush, di Brzezinski (ebreo di origine polacca) e di tutti i loro sodali biblici è semplicemente l'annientamento della Russia come entità storico-politica. L'alternativa alla Federazione Russa attuale è il ritorno al Principato di Moscovia, tributario stavolta di un'altra "Orda d'Oro", ben peggiore: quella dei finanzieri di Wall Street.

Da un punto di vista geopolitico russocentrico, l'unica sicurezza per i secoli a venire non può esser rappresentata che dal controllo sotto qualsiasi forma delle coste della massa eurasiatica settentrionale, quelle coste che si affacciano sui due principali oceani mondiali, l'Atlantico e il Pacifico. E se Vladivostok è la "porta d'Oriente" (e tale può restare, in accordo e collaborazione con il colosso nascente cinese, indirizzando Pechino al Pacifico e appoggiandone le giuste rivendicazioni perla restituzione di Taiwan), è ad occidente che si giocherà la partita decisiva: quella della salvezza della Russia come della liberazione dell'Europa dal giogo americano. Fino alla Manica, al Portogallo, a Reykjavik. O l'Europa si integrerà in una sfera di cooperazione economica, politica e militare con Mosca (il famoso asse Parigi­-Berlino-Mosca), o sarà usata nell'ambito NATO dagli americani come una pistola puntata su Mosca. L'esperienza del Kossovo e della guerra alla Serbia dovrebbe aver insegnato qualcosa.

L'unica sicurezza per una potenza continentale estesa come la Federazione Russa è il controllo delle coste, di isole e penisole della sua area geopolitica di interesse; in caso contrario, l'Europa sarebbe prima o poi usata come un ariete americano per sfondare le porte della Federazione e dissolverla nelle sue cento realtà etno-politico-religiose.

La tentazione di risolvere per sempre la "questione russa" (anticipando anche lo sviluppo della Cina come grande potenza economica e militare) è forte, specialmente oggi che Washington resta l'unica superpotenza dominante nel globo.

L'Heartland, il "Cuore della Terra", è a portata di mano. La talassocrazia USA ha occupato buona parte di quel Rimland, di quell"'Anello Marginale" eurasiatico che era stato individuato dal geopolitico americano Spykman già durante la Guerra Mondiale. E Russia e Cina sono gli ultimi reali ostacoli a quella conquista definitiva dell'Isola del Mondo, ossia dell'Eurasia, che concluderebbe la conquista americana del pianeta. Le truppe a stelle e strisce sono a Kabul e a Bagdad, ma con basi avanzate anche a Tiblisi, Taškent, Biškek. Iran e Siria, potenziali alleati, sono sotto il mirino delle armate americane e dei missili atomici di Israele. E anche se l'occupazione a stelle e strisce dell'Iraq non è andata secondo i piani del Pentagono, è certo che le truppe americane non lasceranno il paese, le sue basi militari, i suoi pozzi petroliferi, neanche molti anni dopo le elezioni farsa del 2005.

 

 

Oriente e Occidente

 

Certo l'integrazione di due realtà complesse e per molto tempo separate, come sono Europa e Russia, non sarà semplice e immediata; d'altronde non lo fu neanche la creazione di Stati nazionali quali la Spagna, la Francia e specialmente l'Italia. Eppure oriente e occidente sono destinati ad incontrarsi e fondersi. L'Europa Unita dei capitali, dei mercati, della tecnologia, ma sradicata dalle proprie tradizioni e valori, trova nella Russia dei grandi spazi siberiani, della potenza militare nucleare e delle materie prime, una Russia ancora in parte legata alle proprie tradizioni, il suo stesso naturale proseguimento geografico, politico, storico, culturale. Una parte possiede quel che manca all'altra.

A questo punto va inserita una precisazione sui concetti di "Oriente" e "Occidente" conforme alla prospettiva eurasiatista di Dugin e della scuola geopolitica russa in generale. In un te­sto dell'ottobre 2001, intitolato "La sfida della Russia e la ricerca dell'identità", Aleksandr Dugin affermava tra l'altro: "Gli eurasiatisti considerano tutta la situazione presente da una loro peculiare prospettiva [rispetto ai nazionalisti slavofili e ai neosovietisti]: nemico principale è la civiltà occidentale. Gli eurasiatisti fanno proprie tutte le tesi antioccidentali: geopolitiche, filosofiche, religiose, storiche, culturali, socioeconomiche, e sono pronti ad allearsi con tutti i patrioti e con tutti coloro che propugnano una 'politica di potere' (derzhavniki) - siano essi di destra o di sinistra – che miri a salvare la 'specificità russa' di fronte alla minaccia della globalizzazione e dell'atlantismo". E ancora: "Per noi eurasiatisti, l'Occidente è il regno dell' Anticristo, il "luogo maledetto". Ogni minaccia contro la Russia viene dall'Occidente e dai rappresentanti delle tendenze occidentaliste in Russia".

È ovvio che Dugin, pensatore formatosi sul pensiero tradizionale, sulla cultura europea di Nietzsche, Guénon, Evola ecc., non confonde affatto l'Europa con l'Occidente, tant'è vero che di seguito indica giustamente il nemico comune dell'Uomo nell'atlantismo, nel Nuovo Ordine Mondiale, nella globalizzazione americanocentrica, ecc. ecc. La contrapposizione tra Oriente e Occidente, specialmente se riferita all'Europa del XX secolo, è, in termini politici e geografici, un' invenzione della propaganda atlantista, dopo la spartizione dell'Europa stessa a Jalta.

 

 

Quale Europa?

 

Possiamo anche aggiungere che la stessa contrapposizione "razziale" tra euro-germanici e slavi, assimilati alla "congiura ebraica" sulla base dell'esperienza della rivoluzione bolscevica in Russia e non solo, fu uno dei grandi errori della Germania, la quale, proprio per questo, perse la guerra, l'integrità territoriale e l'indipendenza. Valida in parte nella prima fase rivoluzionaria, tale contrapposizione non tenne conto della svolta staliniana in politica interna, né del rovesciamento di prospettiva tra Rivoluzione e Russia attuata dal dittatore georgiano, considerato dai russi "l'ultimo zar" rosso del paese: non la Russia come strumento e trampolino di lancio della "rivoluzione permanente" trotzkista in Europa, ma al contrario il marxismo come strumento ideologico-politico di conquista per iI rinato impero russo-sovietico.

Riproporre questa contrapposizione tra Europei, a ruoli rovesciati, sarebbe esiziale per i Russi oggi quanto lo fu per i Tedeschi ieri. La scuola geopolitica tedesca di Haushofer, al contrario, aveva sempre auspicato un'alleanza geostrategica tra Germania e Russia, estesa fino all'estremo limite dell'Eurasia, all'Impero del Sol Levante, bastione oceanico contro l'ingerenza espansionistica dell' imperialismo USA nel Pacifico.

Per oltre mezzo secolo l' Europa è stata divisa dai vincitori tra un Est e un Ovest; la Germania, tra una Repubblica Federale ad ovest e la DDR a est; la sua capitale, cuore d'Europa, tra Berlino Est e Berlino Ovest. Su questo falso bipolarismo per conto terzi si è giocata, per quasi mezzo secolo, la "guerra fredda" delle due superpotenze. "Fredda" in Europa, ma ben "calda" nel resto del mondo, in Asia, Africa e America Latina, con guerre, rivoluzioni, decolonizzazione, colpi di stato, dittature militari, invasioni, blocchi economici, minacce nucleari e via elencando. L’antitesi tra un'Europa "occidentale", progredita e democratica ed un Est "slavo" aggressivo e minaccioso, retrogrado e inaffidabile, è il residuo politico del passato prossimo, un rottame della Guerra Fredda, ma anche uno strumento dell'attuale politica di Bush e soci per tenere a freno un'Europa avviata all'unità economica, affinché non riconosca nella Russia il naturale complemento del proprio spazio geoeconomico vitale, bensì vi veda un pericolo sempre incombente. Il caso Ucraina, con ancora una volta europei e americani schierati contro la Russia, è la cartina di tornasole di queste posizioni residuali sorte dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale, la Guerra Civile Europea per eccellenza.

Errore mortale quindi identificare Europa ed Occidente. Esiziale per l'Europa, ma soprattutto per la Russia e in ogni caso per l'Eurasia comunque intesa.

Certo l'Europa/Occidente a cui pensano gli eurasiatisti di Mosca è quella sorta dalla Rivoluzione francese, l'Europa degli "Immortali Principi" dell'89,dell'Illuminismo prima e del Positivismo poi, del modernismo e del materialismo estremo. Si tratta di quell'Occidente che ha tentato a più riprese di invadere lo spazio vitale russo, per poi attuare sul corpo vivo della Santa Russia ortodossa uno degli esperimenti politico-sociali più disastrosi della storia. Ebbene: questo "Occidente" ed i suoi falsi miti sono il nemico oggettivo anche dell'Europa, cioè della penisola eurasiatica d'occidente. L'Europa della tradizione, della vera cultura, della civiltà latina-germanica-slava. Alla fine del ciclo è l' antitradizione quella che coinvolge tutto il globo e travolge ogni distinzione, senza limiti né confini: a est, ad ovest, a nord, a sud. Sarebbe un errore, ripetiamolo, da pagare in futuro a caro prezzo, confondere le politiche dei singoli governi europei di oggi, o anche quella della UE in generale, con la realtà storica e geografica, con la geopolitica appunto, che vede Europa-Russia-Siberia come un unico blocco, una inscindibile unità geografica. Infatti essa ha prodotto per secoli e secoli una storia comune fatta sia di conflitti che di scambi, di reciproci imprestiti culturali, artistici, religiosi, economici, politici.

 

 

Russia vichinga, bizantina, tartara

 

Da un punto di vista etnico, la tendenza degli studi storici e geografici presso la scuola geopolitica russa contemporanea è quella di rivalutare la componente "orientale", in particolare l'influsso delle popolazioni nomadi dell'Asia centrale sulla formazione della Russia moscovita; influenza che avrebbe determinato una specificità "eurasiatica" dal Principato di Moscoviti all'Impero zarista, dalla Russia sovietica (in particolare nell'epoca staliniana) fino all'attuale Federazione Russa, che attraverso la C.S.I. (Comunità degli Stati Indipendenti) dovrebbe far recuperare a Mosca il ruolo egemone sui territori islamici dell'Asia Centrale: quelli, per inciso, che oggi sono sottoposti alla pressione statunitense, dopo l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq. In questo contesto, la qualità "eurasiatica" non si riferirebbe tanto ad una realtà geopolitica unitaria da Reykjavik a Vladivostok, bensì ad una diversità tutta russa, rispetto sia alla parte occidentale sia all'Asia "gialla" vera e propria.

Gli autori citati da Dugin, Trubeckoj, Savickij, Florovskij e soprattutto Lev Gumilev (del quale è stato tradotto in italiano il fondamentale studio Gli Unni. Un impero di nomadi antagonista dell'antica Cina, Einaudi, Torino 1972) hanno rivalutato il ruolo, misconosciuto dai filoccidentalisti, della componente asiatica della Russia. L'influenza mongolo-tatara, il regno dell'Orda d'Oro che nel XIII secolo investì i territori russi e l'Europa orientale, arrivando fino a Cattaro sull'Adriatico, viene considerata determinante nella formazione della presunta specificità dell'"anima russa" e della corrispondente autocrazia politica e sociale. Quella che in passato rappresentava per gli studiosi occidentali e per i Russi occidentalizzati una macchia, un marchio per la Russia, è tradotto oggi dai neo-eurasiatisti in un dato positivo: si tratta di un fattore che segna la differenza nei confronti di un Occidente corrotto e corruttore, sicché le steppe d'Asia e la componente di sangue tataro vengono a recuperare le radici di un radicamento "altro", senza per questo confondersi con i popoli asiatici. In tal modo viene affermata una specificità eurasiatica differenziata, rispetto ai popoli d'occidente e a quelli d'oriente. Tutt'al più, la Russia è un ponte di passaggio, il "regno mediano" tra le due ali della massa eurasiatica genericamente intesa. Non europei, non asiatici, ma russi, cioè eurasiatici! In quanto tali, i Russi sono interessati ad una "sfera geopolitica" (potremmo definirla senza giri di parole con il termine geopolitico di spazio vitale?)che recuperi a Mosca le terre già sovietiche del centro dell'Asia, ed associ nuovi partner regionali fino al Golfo Persico e all'Oceano Indiano: Turchia, Iran, India.

Questo revisionismo storico dei neo-eurasiatisti russi del secolo appena trascorso e del XXI ineunte è certamente giusto e positivo rispetto allo sbilanciamento della proiezione, tutta occidentalista, iniziata da Pietro il Grande (di cui la capitale baltica, da lui voluta tre secoli or sono per proiettare il paese verso ovest e sui mari, è il simbolo più evidente) e proseguita con Caterina la Grande giù giù fino ai Romanov.

Ma, come sempre avviene, un' estremizzazione rischia di rovesciarsi nell'estremizzazione di segno contrario.

Aparte la devastante incursione del 1237 su Rjazan, Mosca e Vladimir, è al 1240 che si fa risalire il dominio del Canato dell'Orda d'Oro sulla Russia, cioè le conquiste occidentali di Batu, nipote di Temujin-Gengis Khan (1162-1227) e fondatore di questo regno gengiskhanide. Nello stesso anno tuttavia il principe Aleksandr, Duca di Novgorod e Granduca di Vladimir, combatteva contro gli Svedesi al fiume Neva (da cui il soprannome onorifico di Nevskij)e due anni dopo sconfiggeva l'Ordine Teutonico al lago Peipus (lo scontro reso celeberrimo anche dal film di Ejzenštein); poi faceva atto formale di sottomissione all'Orda. Così fece Mosca, che creò la propria fortuna quale tributaria dei Tartari presso le altre città russe.

Ma il dominio mongolo fu molto blando. Karakorum, capitale e baricentro dell'espansione, lontanissima. Un piccolo numero di baskaki (sorveglianti) furono insediati nelle città principali; ma solo la nobiltà e non il popolo ebbe un rapporto diretto, di vassallaggio, con i nuovi dominatori delle steppe, con l'istituzione dello jarlyk, cioè l'autorizzazione a governare. Già alla fine del XIII secolo il confine dell'Orda correva sotto la linea Viatka-Ninj Novgorod - Principato di Rjazan, mentre il Grande Principato di Mosca espandeva i suoi confini e iniziava la lunga marcia verso l'unificazione dei Russi. Con il Principato di Novgorod, di Tver, di Pskov, di Rjazan, Mosca era solo tributaria dell'Orda d'Oro. Nel 1480, con un semplice schieramento di eserciti sul fiume Ugra, senza quasi combattere, si poteva considerare finita la dominazione mongola sulla Moscovia e la Russia centro-settentrionale. Due secoli e mezzo.

A confronto di questi eventi nella formazione della Russia e dei Russi ci sono da ricordare i quattro secoli precedenti: in particolare influenza esercitata dalla popolazione vichinga dei Variaghi, pacificamente fusi con gli Slavi autoctoni, che li avevano chiamati a governarli. L'origine della Rus' è narrata in varie Cronache, la più nota delle quali è la Cronaca degli anni passati (1110-1120 circa, probabilmente ripresa da un manoscritto originale di sessanta anni prima). Dell'860 è l'attacco di Askold e Dir, sovrani di Kijev, a Costantinopoli. Poi vennero le imprese semi-leggendarie di Rjurik, dalla penisola scandinava a Novgorod, fondatore di una dinastia che regnerà fino al 1598. E poi Igor, "guerriero vichingo vagabondo e pagano, sebbene portasse un nome interamente slavo" (Robin Milney-Gulland e Nikolai Dejevsky, Atlante della Russia e dell'Unione Sovietica, Istituto Geografico De Agostani, Novara, 1991). E figlio Vladimir si convertirà al cristianesimo nel 988 d.C., trascinando la Russia alla fede ortodossa dipendente da Costantinopoli, ma soprattutto introducendola da allora in poi nel consesso della cultura e degli stati europei. Una conversione che a quei tempi comportava anche una nuova cultura, libri, architettura religiosa e civile e, in particolare, un nuovo assetto politico, modellato su quello del l'Impero Romano d' Oriente, del quale un giorno Mosca si proclamerà erede come "Terza Roma", ergendosi quindi a depositaria delle glorie di Roma antica e di Costantinopoli: cioè occidente e oriente dell'Europa. È evidente da tutto ciò, dalla storia, dalla geografia, dalla fede e dalla cultura, quale sia stato il peso dell'Europa (quella della Tradizione e non quella moderna dei Lumi),su tutta la Russia. Fu certo un peso preponderante, anche sotto l'aspetto etnico e culturale, rispetto a quello, pur importante, del successivo khanato mongolo; combattendo contro il quale, i Russi svilupparono nei secoli posteriori una coscienza nazionale. Dugin stesso è, nella sua figura, l'esempio nobile delle ascendenze nordico-vichinghe della Rus'.

Sarebbe dunque veramente assurdo contrapporre l'etnia slava (con la sua componente tatara) all'Europa germanica ed a quella latina, magari identificando l'Europa latino-germanica con l'occidente "atlantico" e con la mentalità razionalista, positivista e materialista propria degli ultimi secoli e resasi egemone particolarmente in America.

Le varie "famiglie" linguistiche europee hanno un'unica origine, un solo ceppo, radici comuni nell'Eurasia e nel Nord. E fanno parte a pieno titolo dell'Europa anche popoli come quelli ugrofinnici (Ungheresi, Finlandesi, Estoni), arrivati nella penisola continentale in epoche successive, da quel crocevia di popoli che fu il centro dell'Asia. E che dire dei Baschi o dei Sardi, popoli di origini controverse? Contrapporre le genti dell'est e dell'ovest dell'Europa, lo ripetiamo, sembra la riproposizione, fatta al contrario, di quella propaganda razziale che vedeva negli Slavi "razze inferiori" da sottomettere e utilizzare come manodopera servile. Fu una posizione ideologica che determinò in buona parte l'esito disastroso della Seconda Guerra Mondiale per chi si fece portatore non dell'indipendenza e unità dell'Eurasia, bensì di una visione razziale che comportava l'antagonismo tra gli Europei; una posizione condannata peraltro proprio dalla scuola geopolitica germanica di Haushofer, il quale vedeva giustamente nelle potenze talassocratiche anglofone il vero nemico comune di Tedeschi, Russi, Giapponesi: di tutta l'Eurasia, ad occidente come ad oriente.

 

 

Nord-Sud, Est-Ovest

 

I termini che Dugin pone in contrapposizione, oriente ed occidente, necessitano di un'ulteriore precisazione. Occidente non è una caratterizzazione geografica, più di quanto non lo sia oriente. L'occidente dell'America è l'Asia, la quale, a sua volta, ha nel continente americano il proprio oriente.

In realtà oggi "Occidente" e "Oriente" (ma, soprattutto dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, "il Nord e il Sud del mondo") sono designazioni economiche, politiche, sociali di quelle potenze che rappresentano la parte industrialmente, finanziariamente e tecnologicamente avanzata del globo. E "G8", gli otto "grandi", è il club esclusivo che li raccoglie. Il Giappone è "Occidente" allo stesso titolo di USA e UE. La Cina si avvia a divenirlo, come la Russia che già lo è.

Allora, se ancora di Occidente ed Oriente si può e si deve parlare, la linea di demarcazione deve essere posta trai due emisferi, tra le due masse continentali separate dai grandi oceani: l'Occidente per antonomasia, la terra dell'occaso, del tramonto, la Terra Verde della morte è l'America, il Mondo "Nuovo" della fine del ciclo.

L'Oriente, o meglio il Mondo Antico, il mondo della Tradizione, sarà allora l'Europa, l'Asia, l'Africa; l'Eurasia in particolare, cioè l'intera Europa con la Russia e la Siberia, sarà la terra dell'alba radiosa di un nuovo cielo, ma anche la terra dell'origine dei popoli indoeuropei, la terra degli avi iperborei. Uno spazio vitale strategico peri destini mondiali, da riscoprire ritornando all'origine polare delle stirpi arie che, millenni e millenni or sono, la catastrofe climatica disperse dalla sede originaria del nord, verso est, sud, ovest, come semenze di quelle grandi civiltà che hanno fatto la storia e modellato la geografia del mondo antico. In questo contesto e solo in esso allora le collocazioni geografiche si armonizzano perfettamente con quelle della geografia sacra, della morfologia della storia, della tradizione ciclica, ma anche con la lotta di liberazione dell'intero continente dalla morsa mortale in cui lo costringe il blocco marittimo della talassocrazia imperialista USA.

 

 

Un mondo multipolare

 

Certo non ci nasconderemo che Europa, Russia, Asia hanno anche notevoli differenze tra loro. Lo ribadiamo: le civiltà d'Eurasia, pur traendo linfa vitale dall'unica matrice d'origine, hanno sviluppato nei secoli caratteristiche specifiche proprie: lingue, culture, legislazioni, arti e mestieri, fedi religiose, costumi e stili di vita, modelli di governo differenziati. È una ricchezza nella differenza, nella diversità, che rappresenta ora, alla fine dei tempi, il patrimonio forse più importante della nostra Eurasia, minacciata mortalmente dal monoculturalismo americano, da quell'American way of life che i selvaggi senza radici (le recisero approdando nel "Nuovo Mondo", nella "Seconda Israele") hanno imposto a tutti i popoli vinti e sottomessi o (quando fosse impossibile piegarli) sterminati. Il genocidio dopo l'etnocidio. Il più grande sterminio di massa dell'umanità: i 15 milioni di nativi amerindi trucidati dai "colonizzatori" yankee. Tutto questo come necessaria premessa per l'edificazione del loro Nuovo Ordine Mondiale, del Governo Unico Planetario, con sede ovviamente a Washington-Boston-New York, in attesa di esser portato a Sion!

"Gli eurasiatisti difendono logicamente il principio della multipolarità, opponendosi al mondialismo unipolare imposto dagli atlantisti. Come poli di questo nuovo mondo, non vi saranno più gli Stati tradizionali, ma un gran numero di nuove formazioni culturalmente integrate ('grandi aree'), unite in 'archi geoeconomici' ('zone geo-economiche')". Parole sacrosante di Dugin nel III capitolo del saggio intitolato La visione eurasiatista. Principi di base della piattaforma dottrinale eurasiatista.

Da discutere semmai, in termini geografici e storici, quindi geopolitici, sono proprio gli spazi privilegiati di queste grandi aree integrate. Geopoliticamente parlando, è indubbio che per Eurasia si debba intendere in primo luogo l'integrazione della grande pianura eurasiatica settentrionale dal canale della Manica allo stretto di Bering. Attorno a questo spazio vitale imperiale europeo, si affiancano in strati orizzontali successivi le altre realtà geopolitiche d'Asia e Africa, quelle sopra descritte, nel senso dei paralleli. L'Eurasia Unita sarà la garante della libertà, dell' indipendenza, dell' identità di queste altre realtà, di questi spazi vitali affiancati, contro l'egemonismo talassocratico delle stelle e strisce.

 

 

America o Americhe?

 

Ancor più. Bisognerà garantire che nei secoli futuri l'imperialismo mondialista dei fondamentalisti biblici della "Seconda Israele" non rialzi la testa e riprenda forza. Una forza che fin dall'inizio trasse energie, risorse, ricchezza dallo sfruttamento di tutto il resto del continente americano a sud del Rio Grande. L’America Latina, centrale-caraibica e meridionale, ha una propria storia, una propria cultura, un proprio spazio geopolitico e geoeconomico, che può svilupparsi liberamente e fruttuosamente solo se svincolato dal gigante a nord.  Al contrario, oggi il pericolo più grande è che il NAFTA possa conglobare, oltre al Messico, tutto il Centro America e l'altra metà del continente.

Già nei tempi precolombiani le culture autoctone si erano completamente differenziate, pur traendo tutte origine dalle migrazioni siberiane, avvenute attraverso lo stretto di Bering tra i 40.000 e i 10.000 anni fa. Ma mentre nelle vaste pianure del Nord America i cacciatori nomadi seguivano i branchi di bisonti, divisi in tribù, con uno stile di vita e riti non molto dissimili da quelli dei cacciatori siberiani cultori dello sciamanesimo, nell'America Centrale e Meridionale fiorivano raffinate civiltà di coltivatori-allevatori, imponenti insediamenti urbani, religioni che riuscirono ad elaborare straordinari calendari con l'accurata osservazione astronomica, pittura, architettura, scultura, scienza, medicina che non temevano di rivaleggiare con le più avanzate civiltà d'Eurasia. Con la scoperta dell'America da parte di Colombo e con le successive invasioni europee (inglesi, francesi, olandesi a nord, ispano-lusitani al centro e al sud), le differenze si sono accentuate. Infatti, nonostante stragi, distruzioni culturali, malattie, schiavismo, imposizione della nuova religione, nella parte latina delle Americhe le popolazioni autoctone sono sopravvissute allo sterminio; nei nuovi stati, prima coloniali e poi nazionali, si sono venute a trovare in una posizione subordinata, a volte integrandosi e mischiandosi agli Europei. Dal Chiapas al Perù, dal Centro America alla Bolivia, passando per il Venezuela di Chavez, gli eredi degli antichi imperi meso-americani e andini oggi tornano alla ribalta, riprendono in mano le redini del proprio destino e, spesso, sono i più strenui difensori della diversità culturale latino-indio-americana contro l' influenza dei gringos nordisti e l'invadenza distruttiva delle loro multinazionali.

Vediamo dunque distintamente come l'America, diversamente dall'Eurasia e dall'Africa settentrionale, sia un "continente verticale". Da Nord a Sud, dallo stretto di Bering alla Terra del Fuoco, oltre diecimila anni or sono scesero le popolazioni siberiane: gli "indiani", i nativi americani poi sopraffatti e sterminati dall'invasione marittima da occidente. A loro volta gli Stati Uniti estenderanno la conquista ed egemonia da nord a sud: in Messico, nei Carabi e nell'America Centrale (il "cortile di casa" degli yankee), giù fino all'America meridionale, alla punta del Cile e all'Argentina. Dove peraltro, a smentire la Dottrina Monroe dell"'America agli Americani", l'Union Jack sventola ancora sulle Isole Malvinas argentine, anche grazie all'appoggio USA ai cugini inglesi. E dopo la conquista delle Americhe, seguendole indicazioni geopolitiche di Mahan gli Stati Uniti si lanciarono sul Pacifico e verso le coste dell'Asia. (Alfred Thayer Mahan, L'influenza del potere marittimo sulla storia. 1660-1783, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1994).

Dunque due "sensi", due direzioni opposte per le masse continentali dei due emisferi, rappresentanti ciascuno una diversa visione del mondo, ed assunti oggi a simboli dell'eterno scontro fra la Terra e il Mare, fra tellurocrazia e talassocrazia, ma anche tra mondo della tradizione e mondo moderno, tra identità dei popoli della terra e globalizzazione mondialista.

Ambigua quindi, quando non falsa e fuorviante, la distinzione tra Oriente ed Occidente. A questa caratterizzazione delle forze in campo tra Est e Ovest, possiamo aggiungere anche la suddivisione del pianeta in sfere d'influenza "verticali", praticamente da Polo a Polo: vi fa riferimento lo stesso Dugin sia nell' articolo sul primo numero di "Eurasia" (L'idea eurasiatista), sia in altri scritti più o meno recenti, come quelli raccolti e pubblicati in Italia dalle edizioni Nuove Idee, nel volume dal titolo Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia.

 

 

Geopolitica "orizzontale" e geopolitica "verticale"

 

E qui veniamo ad affrontare il nodo centrale di queste chiose ai recenti articoli di Dugin, i quali potrebbero apparire come uno spostamento di prospettiva rispetto alle posizioni espresse dallo stesso autore dieci e più anni or sono, cioè al tempo del traumatico crollo dell'impero rosso, di cui Dugin (geopolitico moscovita di formazione tradizionale e traduttore di Evola) aveva ben compreso con largo anticipo l'irreversibile crisi.

Nell'articolo su "Eurasia" Dugin considera un ventaglio di possibilità per la realizzazione dell' "idea eurasiatista" dal punto di vista di Mosca, in particolare prospettando "l'Eurasia [dei] tre grandi spazi vitali, integrati secondo la latitudine": "tre cinture eurasiatiche" che si distendono in verticale sui continenti seguendone le meridiane. Ovviamente il nostro autore aveva premesso un "vettore orizzontale dell'integrazione, seguito da una direttrice verticale"; ma indubbiamente la seconda prospettiva sembra quella prevalente nel pensiero attuale di Dugin e, probabilmente, in quello degli strateghi dell'era Putin. Proprio nella pagina seguente si afferma a chiare lettere che "La struttura del mondo basata su zone meridiane è accettata dai maggiori geopolitici americani che mirano alla creazione del Nuovo Ordine Mondiale e alla globalizzazione unipolare" (!) L'unico "punto d'inciampo" sarebbe semmai rappresentato proprio dall'esistenza o meno di uno spazio geopolitico verticale, "meridiano", della Russia in Asia centrale, con la diramazione di tre assi principali: Mosca-Teheran, Mosca-Delhi, Mosca-Ankara. In quanto all'altro emisfero, l'egemonia USA, seguendo in questo caso la naturale disposizione geografica del continente (o due continenti, nord e sudamericano?) sarebbe assicurata dal Canada a Capo Horn. Proprio come recita la famigerata Dottrina Monroe: "l'America agli Americani", sottintendendo ovviamente ai nord-americani, i WASP statunitensi con il contorno di immigrati e neri integrati. L'attuale Amministrazione Bush è un tipico spaccato di questo assunto. Con l'aggiunta, semmai, che agli Americani del nord spetta sì tutta l' America, ma anche... il resto del mondo.

I loro geopolitici, passati e presenti, conoscono bene infatti la lezione mackinderiana sull'HeartIand, sul suo controllo per il dominio dell' intera Eurasia e quindi dell’"Isola del Mondo" e quindi delle "fasce marginali" (vedi lezione Afghanistan). In sintesi da Alfred T. Mahan a Spykman, passando per Mackinder, fino ai contemporanei Brzezinski, Huntington e ai vari neo-cons della lobby ebraico-sionista militante in Usa: i Perle, i Pipes, i Wolfowitz, i Cheney, i Kagan, i Kaplan, i Kristol, ma anche Ledeen e il e il vecchio Kissinger, pur con qualche differenza, e tanti altri. Consigliamo in proposito la lettura de I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, a cura di Jim Lobe e Adele Oliveri (Feltrinelli, Milano, 2003).

Anche la suddivisione per sfere d'influenza verticale non è certo nuova, né tanto meno inventata da Dugin. Risale pari pari al grande padre della geopolitica tedesca ed europea, Karl Haushofer ed alle sue panidee: la Pan-America con guida USA, l'Eurafrica centrata sul III Reich con l'aggiunta del Vicino Oriente, la Pan-Russia estesa fino allo sbocco all'Oceano Indiano attraverso Iran e India, ma priva dello sbocco siberiano al Pacifico settentrionale, assegnato dal geopolitico monacense alla sfera di Coprosperità Asiatica ovviamente a guida nipponica.

La suddivisione duginiana segue lo stesso schema, ma con le modifiche dovute alla situazione politica internazionale attuale: la Pan-Eurasia a guida russa comprende tutti i territori ex-sovietici, il Vicino Oriente, l'Iran, il Pakistan, l'India, ma anche la Siberia fino a Vladivostok. La zona asiatica vera e propria si incentra oggi su Pechino. L'area americana comprende anche Islanda e isole britanniche (ma non la Groenlandia!) ecc...

Tanto per cominciare la suddivisione di Karl Haushofer è completamente superata, essendo propria ad un preciso periodo storico, cioè quello della Seconda Guerra Mondiale e del colonialismo europeo in Africa. Anche perché, in termini di geopolitica propriamente detta, l'Africa non è un' unità geopolitica unica, ma comprende almeno tre distinte unità. Il Nord-Africa, col Magreb, fa parte della più vasta unità geopolitica del Mediterraneo, di cui rappresenta la sponda sud. Poi c'è la vastissima fascia desertica del Sahara-Sahel, che rappresentala vera divisione, il "mare di sabbia" navigato soltanto dalle carovane di mercanti che importavano sale, spezie, schiavi. Infine, a sud, I'"Africa Nera", a sua volta composta di varie sottodivisioni. Come il cosiddetto "Corno d' Africa", una realtà sia geopolitica che etnica a sé stante.

Anche l'Asia odierna ha ben poco a che vedere con quella che Haushofer conosceva e tanto ammirava: specialmente il Giappone, o per dir meglio l'Impero Nipponico, oggi ridotto al rango di vassallo americano e base delle truppe, delle navi, dei missili USA puntati contro le coste orientali dell'Eurasia. L'Iran della Rivoluzione Islamica dell'Imam Khomeini ha rimescolato le carte di tutto il Vicino Oriente, dove, dal 1948, si èinstallato lo stato sionista di Israele, fidato baluardo invalicabile dell' imperialismo americano; piazzato proprio nel baricentro della massa eurasiatico-africana, a ridosso delle sue vie marittime interne, esso taglia a metà l'Umma islamica e la "Mezzaluna Fertile" del sistema potamico irriguo (Delta del Nilo ­- Giordano/Mar Morto - Tigri Eufrate).

Chi pensa che possa un domani esistere un "sionismo filo-eurasiatista" non ha evidentemente molto chiara la storia, la geografia e la stessa visione religioso-messianica che ha permesso all'entità sionista di installarsi proprio in quelle terre geostrategicamente così decisive per il controllo dell'intera massa eurasiatica e africana. Gli ebrei russi della diaspora tornati in Israele non sono russi: sono ebrei e israeliani a tutti gli effetti, e la Russia è il loro nemico storico, forse ancor più della Germania oramai domata.

È singolare poi, che parlando di Asia e di "sfere d'influenza e/o cooperazione" si tenda spesso a sminuire se non addirittura ignorare il ruolo decisivo della Cina. La storia da secoli e la geografia da sempre hanno delimitato lo spazio vitale del colosso asiatico (come anche è il caso dell' India). Russia e Cina sono destinate ad una stretta collaborazione che si basi sulla non ingerenza nelle rispettive sfere di appartenenza e nel riconoscimento di quella altrui.

È nell'interesse dell'imperialismo egemone statunitense metterei due colossi d'Asia l'uno contro l'altro; suo massimo danno è vederli alleati. Interesse della Russia è appoggiare la Cina nelle sue naturali rivendicazioni territoriali, a cominciare da Taiwan; ciò aprirebbe a Pechino lo sbocco al l'Oceano Pacifico, in aperta competizione con la talassocrazia USA in uno spazio marittimo che Washington considera un "lago americano", essendo propria di ogni potenza di questo tipo la spinta ad occupare entrambe le coste marittime su cui si affaccia.

 

 

Eurasia unita e lotta di liberazione

 

 

 

 

Alle pan-idee "verticali" haushoferiane, che interpretate alla luce dell'assetto internazionale attuale, assumono oggi vago sapore neocolonialista (l'esatto contrario delle posizioni anticoloniali del padre della geopolitica tedesca), noi sostituiamo la visione di una collaborazione paritaria e integrata fra realtà geopolitiche omogenee disposte a fasce orizzontali in Eurasia ed Africa.

Tale politica non esclude, ma semmai la allarga, la prospettiva dughiniana delle aree integrate verticali; essa infatti favorisce la creazione di una potenza "terrestre", quella nata dal l'unione di Europa e Federazione Russa, che allargherebbe al mondo la sua politica estera di collaborazione. Ciò permetterebbe a tutto il "Terzo Mondo" di sottrarsi al ricatto economico e finanziario nordamericano, riconoscendo nella grande potenza del Nord-Eurasia lo stato guida della lotta di liberazione mondiale antimondalista, la potenza veramente capace di contrastare l'egemonismo USA su tutte le aree geopolitiche della massa eurasiatica, delle "Afriche" e delle "Americhe".

A conclusione di queste brevi chiose all'intervento di Dugin, il cui contributo alla dottrina geopolitica e alla lotta di liberazione eurasiatica resta fondamentale, vogliamo riallacciarcialle stesse conclusioni del suo saggio L'idea eurasiatista.

 

 

La nuova Weltanschauung

 

L'eurasiatismo è una Weltanschauung (ecco il vero Dugin, formatosi alla cultura mitteleuropea!), una visione del mondo onnicomprensiva che, avendo come priorità la società tradizionale, "riconosce l'imperativo della modernizzazione tecnica e sociale". Il postmodernismo eurasiatico "promuove un'alleanza di tradizione e modernità come impulso energetico, costruttivo, ottimistico verso la creatività e la crescita". Come filosofia "aperta", l'eurasiatismo non potrà esser dogmatico e certo sarà differenziato nelle varie versioni nazionali: "Tuttavia, la struttura principale della filosofia rimarrà invariata". I valori della tradizione, il differenzialismo e pluralismo contro il monoculturalismo ideologizzante del liberal-capitalismo; la difesa delle culture, dei diritti delle nazioni e dei popoli, contro l'oro e l'egemonia neocoloniale del ricco Nord del mondo. "Equità sociale e solidarietà umana contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo". Verrebbe quasi da dire: il sangue (e il suolo) contro l'oro"!

Certo, la Terra contro il Mare: la terra degli avi contro il mare indifferenziato eppur sempre mutevole, percorso da moderni pirati, eredi di quei "corsari", che erano dotati dalla corona inglese di "lettere di corsa" per depredare ed uccidere in nome e a maggior gloria di Sua Maestà Britannica. Pirati odierni in giacca e cravatta, che con un tratto di penna fanno la fortuna o la disgrazia di popoli e continenti. E per chi non si piega alla logica del "libero mercato" imposta dalla moderna pirateria finanziaria internazionale, restano sempre gli "interventi umanitari", le "missioni di... pace (eterna), i "missili intelligenti". Come in Serbia, come in Afghanistan, come in Iraq, come ieri in Corea o in Vietnam, a Cuba, in America Latina, in Africa e ancor prima in Europa, in Giappone, ovunque. Forse domani in Iran, in Siria, in Sudan, di nuovo in Corea. Forse anche in Russia e in Cina.

Intanto le "rivoluzioni di velluto" sono arrivate a Kiev e a Tiblisi, circondando la Russia, insidiando la Cina, sottomettendo il Vicino Oriente, dove il progetto del "Grande Israele" è quasi cosa fatta. La Terza Guerra Mondiale (la quarta dopo quella "fredda", anch'essa vinta dagli Stati Uniti) è già cominciata, è in atto. Se dobbiamo porre una data ufficiale, scegliamo senza dubbio l'11 settembre 2001, il giorno in cui l'Amministrazione Bush ha ottenuto (sapremo mai come?) la sua Pearl Harbour, il suo 7 dicembre '41, cioè la giustificazione per un'aggressione mondiale preordinata nei mesi ed anni precedenti, specie approfittando del crollo dell'URSS di dieci anni prima. Proprio con l'Afghanistan come primo obiettivo.

La Russia è stata ingannata e condotta a collaborare con il suo nemico mortale sulla comune piattaforma della "lotta al terrorismo islamico"; è stata inchiodata alla guerra cecena, con il suo strascico di errori ed orrori da entrambe le parti, mentre la superpotenza USA si assicurava posizioni strategiche decisive nel cuore d'Eurasia.

 

 

Tsunami America

 

La talassocrazia americana opera come un devastante tsunami!

L'onda della potenza marittima nordamericana invade la terra in profondità e distrugge tutto quel che trova sul suo cammino: uomini, società, economie, culture, identità, storia, coscienza geopolitica, fedi, civiltà.

Dove passa, è morte, fame, distruzione, miseria, lacrime e sangue. È il Diluvio Universale del terzo millennio dell'Era Volgare.

Ma l'Eurasia è grande, troppo estesa e popolata anche per questo Leviatano moderno. E l'Eurasia propriamente detta, col suo retroterra logistico siberiano, l'Heartland di mackinderiana memoria è ancora abbastanza vasta e potenzialmente ricca in materie e uomini per resistere e respingere l'attacco del Rimland occupato dall'invasione marittima.

 

 

La volontà e la via

 

Cosa manca allora a tutt'oggi ?

La volontà, solo la volontà, nient'altro che la volontà. La volontà che è potere, che è fare, è quindi agire nello spazio vitale geopolitico assegnato dalla natura e dalla storia. La volontà di élites dirigenti rivoluzionarie d'Eurasia che, puntandolo sguardo ben oltre i ristretti limiti del veteronazionalismo sciovinista, sappia raccogliere la bandiera delle lotte di liberazione identitaria dei suoi popoli. Ma una simile volontà, scaturita da una fede indiscussa nei valori tradizionali, deve alimentarsi di una retta conoscenza dei fatti, della storia e della geografia, della geopolitica e delle sue leggi.

L'eurasiatismo sarà allora la bandiera, la spada e il libro di questa lotta titanica e veramente decisiva per i destini del pianeta nei prossimi secoli. Eurasiatismo come liberazione e unificazione statuale, imperiale, dell'unità geopolitica euro-siberiana, da Reykjavik a Vladivostok. Eurasiatismo come sistema di alleanze e sfere di cooperazione con tutti gli altri "spazi geopoliticamente omogenei" dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina. Quindi eurasiatismo come sacra alleanza di tutti gli sfruttati, di tutti i "diseredati della terra", come li definiva l'Imam Khomeini, contro tutti gli sfruttatori e i depredatori mondialisti delle multinazionali. Contro i corruttori dei popoli, contro gli apolidi del capitale, gli "eletti"... da nessuno che preparano l'avvento del Nemico dell'Uomo, la catastrofe dell'Armageddon, che pure li travolgerà. Eurasiatismo infine come contrapposizione, lotta senza quartiere tra civiltà e civilizzazione, tradizione e mondo moderno, terra e mare, imperium e imperialismo, comunitarismo e liberal-capitalismo.

Se un giorno la Russia (attraverso le sue élites politiche, militari, culturali, economiche e spirituali) saprà riconoscere il proprio ruolo guida, tradizionale e rivoluzionario, in questo "scontro dei continenti", lo dovrà essenzialmente ad una piena comprensione della geopolitica, dell'eurasiatismo, della Weltanschauung che esso rappresenta. E lo dovrà in massima parte a Dugin e a tutti quei geopolitica d'Eurasia che seppero indicare la via sulla quale indirizzare la volontà.

jeudi, 15 octobre 2009

Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper

Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper

Ex: http://www.insolent.fr/

091012L'accord diplomatique signé à Zurich le 10 octobre, en présence de Mme Clinton, entre les ministres des Affaires étrangères turc et arménien est présenté au monde comme une avancée historique.

Il ne fait pas novation, pourtant, par rapport à une observation patiente des actes concrets accomplis, année après année, par le gouvernement d'Ankara (1).

Faut-il relever par exemple qu'en 1959, il y a exactement 50 ans par conséquent, et en la même ville de Zurich étaient convenus les accords gréco-turcs supposés régler le problème de Chypre. Celui-ci, cependant, aujourd'hui encore attend son règlement, supposant le simple respect des droits d'un État souverain, reconnu comme tel par les Nations-Unies, membre lui-même de l'Union européenne, à laquelle son envahisseur prétend adhérer.

À l'époque la Grande-Bretagne faisait office de puissance tutélaire.

Le cabinet de Londres songeait, paraît-il, à préserver, – sans aucune considération pour les engagements donnés depuis des décennies, – à ses intérêts stratégiques et pétroliers, tant au proche orient qu'à l'est de Suez.

À peine déplacées dans leur localisation les mêmes préoccupations président aujourd'hui à la présence sur la photo de la très épanouie Mme Clinton, triomphatrice du jour. En accord avec M. Lavrov, son homologue russe, elle pourra croire assuré le transit du pétrole et du gaz d'Asie centrale.

Inutile de souligner que la question symbolique de la reconnaissance du génocide arménien de 1915 n'a toujours pas reçu de réponse positive de la part du grand diplomate Davutoglou. On la renvoie encore une fois à une réunion d'experts, vieille manipulation turque. Le caractère négationniste de cette sempiternelle proposition ne devrait pourtant échapper à personne. Le débat a déjà eu lieu, notamment au parlement européen, qui a reconnu le génocide arménien le 18 juin 1987. La remise en cause de ce vote devrait exclure de toute perspective européenne ceux qui s'y adonnent.

Est-ce à dire, dès lors, que rien ne change sous le soleil d'Anatolie ?

Bien au contraire. Il se passe en effet beaucoup de choses en Turquie, depuis les élections européennes de juin 2009. Et comme d'habitude les médiats hexagonaux, particulièrement lorsqu'ils se font les propagandistes de l'adhésion, n'en parlent que très peu. Ils ne pointent, de loin en loin, que de fugaces et fragiles apparences de rapprochements, espoirs de solutions, promesses de réformes. Ils ne daignent jamais en évaluer, pour éclairer leurs auditeurs et lecteurs, le caractère cosmétique sinon irréaliste.

Tout l'été par exemple une polémique s'est développée, en Turquie même, à propos de l'amplitude des réformes que le gouvernement allait proposer aux Kurdes, tout en écartant les révolutionnaires du PKK. Même les chefs militaires ont dû consentir, à l'inverse des dirigeants du parti kémaliste, la nécessité de certaines évolutions. Cela n'a pas empêché la cour pénale de poursuivre 4 des 20 députés du parti DTP, qualifié de "pro-kurde". On les convoque en décembre devant la 11e Chambre du Tribunal correctionnel d'Ankara pour des propos qu'ils auraient tenus lors de la campagne électorale de 2007 : leurs opinions supposées les fait tomber, en effet, sous le coup de l'article 14 de la constitution.

Ce texte dispose que :

"aucun des droits et libertés fondamentaux inscrits dans la Constitution ne peut être exercé dans le but de porter atteinte à l’intégrité indivisible de l’État du point de vue de son territoire et de sa nation…"

L'intention séparatiste, ou même la simple revendication de l'autonomie culturelle, le fait de parler sa langue maternelle, l'affirmation suspecte de l'identité, étant appréciée par les tribunaux, ce dispositif fait explicitement exception à l'article 83 de la même constitution qui protège, en principe, la liberté d'expression et assure l'immunité des parlementaires.

Le premier ministre Erdogan, dont l'habileté n'est plus à découvrir, est allé jusqu'à protester contre cette démarche de l'autorité judiciaire et à proposer que l'on révise ces articles 14 et 83.

Reconnaissons qu'il serait bien avisé de passer à l'acte et de ne pas se contenter d'effets d'annonce.

La grande affaire consiste en effet à rendre le dossier de candidature présentable, pour le rapport qui sera établi en novembre, en vue de la conclusion en décembre de la présidence suédoise, conjoncture la plus favorable depuis fort longtemps. Rappelons à ce sujet que le rapport annuel sur l'avancée des négociations entre Bruxelles et Ankara avait été particulièrement pessimiste en novembre 2008.

En fait on sait aujourd'hui que la majorité des responsables européens partagent l'hostilité à l’entrée de la Turquie dans l’Union européenne, mais que la plupart d’entre eux n’osaient pas publiquement le faire savoir.

Profitons de la circonstance pour donner des nouvelles des positions les plus récentes prises officiellement par notre sous-ministre Lellouche affecté aux Affaires européennes à propos du sujet qui nous préoccupe et qui nous sépare de cette surprenante personnalité qui n'hésite pas à se dire lui-même "l'ami" du négociateur turc Bagis.

Lors de son passage du 23 septembre 2009 devant la commission des affaires européennes M. Lellouche a sobrement déclaré :

"Quant à notre position sur la Turquie, elle n'a pas varié. Comme l'a précisé le Président de la République, nous voulons une Turquie avec l'Europe mais pas dans l'Europe."


Jolie formule. Bien balancée. Elle dit beaucoup de choses en peu de mot, y compris au sujet de l'alignement de M. Lellouche sur la diplomatie présidentielle.

Du point de vue que je développe dans mon petit bouquin "La Question turque et l'Europe" qui vient de sortir, se pose quand même la question de ce que veut dire "la Turquie avec l'Europe". (2)

Je constate que ce pays qu'on insiste à déclarer "ami" agit actuellement contre l'Europe. Vis-à-vis des 3 pays de l'Union qui lui sont limitrophes, elle développe avec arrogance de véritables tensions frontalières permanentes, des provocations militaires, des revendications territoriales. Vis-à-vis des 24 autres sa position n'en est pas moins conquérante et cynique. etc.

Plus prolixe sur le sujet lors de son audition, le 16 septembre 2009, par la Commission chargée des affaires européennes de l'Assemblée nationale, il avait détaillé cette position française, et la sienne, de la manière suivante :

"Reste le dossier, cher à plusieurs d'entre vous, de la candidature turque. La position française est sans ambiguïté : nous souhaitons ardemment entretenir et enrichir encore une relation bilatérale pluriséculaire avec nos amis turcs - je recevrai d'ailleurs demain soir le ministre d'État turc chargé de la négociation avec l'Union européenne, Egemen Bagis, qui est un ami personnel -, nous sommes favorables au lien le plus fort entre la Turquie et l'Europe, mais nous sommes opposés à l'adhésion de la Turquie à l'Union européenne. Le président Nicolas Sarkozy s'y était engagé avant son élection, et les Français ont approuvé ce choix. 'Nous sommes pour une association aussi étroite que possible avec la Turquie, sans aller jusqu'à l'adhésion' : c'est en ces termes qu'il s'était exprimé devant les ambassadeurs, en août 2007, au lendemain de son élection. Cette position n'a pas varié. Elle est celle du gouvernement, et je m'y tiendrai.
Nous avons accepté de poursuivre les négociations avec la Turquie sur les trente chapitres compatibles avec une issue alternative à l'adhésion ; en revanche, les cinq chapitres qui relèvent directement de la logique d'adhésion sont laissés de côté.
J'ajoute que, depuis ma nomination, j'ai rencontré de nombreux collègues européens ; la plupart m'ont confié qu'ils partageaient la position française, mais qu'ils ne pouvaient le dire publiquement."


Cette dernière confidence de M. Pierre Lellouche me semble décisive.

Pourquoi cette pusillanimité demandera-t-on ?

Individuellement les responsables politiques européens savent ce projet d'élargissement préjudiciable au projet commun, et même fondamentalement contraire aux objectifs que s'est assignés l'Union européenne.

Cet élargissement extravagant, les peuples n'en veulent pas. Le grand espoir turc, du point de vue des partisans de l'adhésion, reposait sur l'hypothèse le 27 septembre d'une victoire aux élections allemandes du parti social démocrate, lequel a recueilli 55 % des voix au sein des 600 000 électeurs d'origine turque, mais 23 % seulement des suffrages de l'ensemble des Allemands.

Le manque de courage, le manque de clarté, le manque de vision de nos dirigeants me semble justifier que l'on oppose à l'Europe des États, qui nous prépare sans le vouloir peut-être, comme inexorablement, l'entrée de l'État turc dans son club, l'Europe des peuples, la vraie.

JG Malliarakis


Apostilles

  1. Dès le lendemain de l'accord ça recommençait : "Ouverture des frontières entre la Turquie et l’Arménie : Erdogan pose ses conditions" cf. 20 Minutes du 11.10.09 à 15 h 38.
  2. Vign-questionturqueCe petit livre sur "La Question Turque et l'Europe" est paru ce 2 octobre. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander directement au prix franco de port de 20 euros pour un exemplaire, 60 euros pour la diffusion de 5 exemplaires.
  3. Règlement
  4. par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.

ou sur le site des Éditions du Trident par débit sécurisé de votre carte bleue

mardi, 13 octobre 2009

Rusia espera detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU en Europa

Rusia espera detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU en Europa

Rusia espera conocer los detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU (DAM) en Europa en las consultas bilaterales previstas para el próximo 12 de octubre en Moscú, informó hoy el ministerio ruso de Asuntos Exteriores.

“Contamos con que la parte estadounidense nos suministrará información detallada y completa sobre las nuevas iniciativas de la administración sobre la creación del DAM”, dijo un funcionario del departamento de prensa de esa cartera a RIA Novosti.

En las consultas, la delegación rusa estará presidida por el viceministro Serguei Riabkov y la delegación estadounidense por la subsecretaria de Estado para el Control de Armamento Ellen Tauscher.


Recientemente, el presidente estadounidense, Barack Obama y el jefe del Pentágono Robert Gates anunciaron correcciones a los planes del DAM en Europa, que inicialmente tenía previsto la creación de una estación de radar en la República Checa y el emplazamiento de misiles interceptores en Polonia.

Los nuevos planes de EEUU no suponen una renuncia al emplazamiento de elementos del DAM en el territorio europeo sino que posterga ese proceso para el año 2015.

La nueva estructura del DAM incluidos los elementos terrestres se desarrollará en cuatro etapas y deberán estar operativas para el año 2020.

Moscú siempre se manifestó en contra de la configuración inicial del DAM estadounidense en Europa porque consideraba que la estación de radar en territorio checo, y los misiles en el polaco, amenazaban su seguridad nacional al alterar el equilibrio estratégico nuclear entre Rusia y EEUU.

Extraído de RIA Novosti.

dimanche, 11 octobre 2009

Il bilancio occulto della "difesa" americana

pentagono

A fine giugno, Mother Jones ha pubblicato un’approfondita analisi sul bilancio militare degli Stati Uniti d’America, partendo dalla richiesta del presidente Barack Obama al Congresso di stanziare 534 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa. Ma l’ammontare reale di ciò che gli USA spendono per la “difesa” è molto maggiore. Per rendere il tutto più facilmente digeribile, ve ne proponiamo una sintesi divisa in quattro parti.
L’Office of Management and Budget ha elaborato un calcolo totale che tiene in considerazione le diverse parti del governo, e comprende i soldi assegnati al Pentagono, le attività relative alle armi nucleari svolte presso il Dipartimento dell’Energia ed alcuni esborsi nel campo della sicurezza effettuati dal Dipartimento di Stato (il ministero degli esteri statunitense) e dall’FBI. Nel bilancio 2010 (che in realtà ha il suo momento iniziale nell’ottobre 2009) la cifra ammonta a 707 miliardi, più della metà della spesa governativa cosiddetta “discrezionale” per l’anno prossimo. La spesa discrezionale è quella per cui gli stanziamenti sono decisi annualmente dal Congresso, a differenza di programmi quali ad esempio quello sanitario denominato Medicare il cui finanziamento è obbligatorio e ricorrente.
Ma la cifra reale è ancora più alta perché, fra le varie cose, l’ufficio governativo del bilancio non tiene conto della spesa aggiuntiva per le guerre in Iraq ed Afghanistan. Riepilogando tutte le diverse fonti di spesa in campo militare per l’anno 2010 che emergono dai documenti contabili, si ha:

  • bilancio del Pentagono: 534 miliardi
  • stanziamenti extra per il personale militare: 4,1 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2010): 130 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2009, ancora da legiferare): 82,2 miliardi
  • armi nucleari ed altra spesa “atomica” (Dip. dell’Energia): 16,4 miliardi
  • sostegno militare ed economico ad Iraq, Afghanistan e Pakistan (Dip. di Stato): 4,9 miliardi
  • sicurezza, controterrorismo ed aiuto militare a Paesi stranieri, incluso il Medio Oriente ed Israele (Dipartimento di Stato): 8,4 miliardi
  • Guardia costiera (Dipartimento per la Sicurezza Interna): 583 milioni

Spesa totale: 780,4 miliardi di dollari

In questo calcolo sono incluse solo le risorse direttamente collegate ad attività militari, non viene quindi preso in considerazione il Dipartimento dei Veterani la cui spesa di 55,9 miliardi porterebbe il totale a 836,3; e la parte restante del Dipartimento per la Sicurezza Interna (altri 54,5 miliardi), arrivando così alla colossale cifra di 890,8 miliardi di dollari, rispetto ai 534 ufficialmente stanziati.
Si tenga poi presente che i bilanci degli apparati di intelligence (CIA, NSA…) sono segreti e che perciò non possono essere aggiunti a questa contabilità.

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Nel 2008, il Pentagono ha calcolato che gli impegni correnti per i programmi di armamento costeranno al governo, ad ultimazione avvenuta, 1.600 miliardi di dollari. Una parte consistente – 296 miliardi – è rappresentata da costi aggiuntivi. Questi 296 miliardi non sono il risultato di grandi programmi che, in via eccezionale, hanno sfondato il tetto di spesa e sbilanciato i conti, ma rappresentano la norma. Tali incrementi di costo sono spesso significativi: considerando tutti i programmi, la media dell’aumento rispetto alle stime iniziali è pari al 26%. Rappresentano la normalità anche i ritardi nel loro completamento, che riguardano ben il 72% dei programmi.
Incrementi di costo e ritardi hanno subito un peggioramento durante le due amministrazioni Bush terminate nel 2008, ma se si volge lo sguardo ancora più all’indietro si scopre che i costi aggiuntivi sono aumentati ad un ritmo serrato per tutti gli ultimi quindici anni, ad una media del 1,86% annuo per essere precisi. Se la spesa del Pentagono continuerà a crescere al tasso attuale, la media degli incrementi di costo raggiungerà il 46% in dieci anni.
Facendo qualche confronto, lo spreco militare USA è quattro volte tanto l’intera spesa per la difesa della Cina (che oggi rappresenta il secondo bilancio militare nazionale al mondo con 70 miliardi di dollari) ed è anche superiore al bilancio militare di tutti i Paesi dell’Unione Europea messi insieme (pari a 281 miliardi).

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Passiamo ora in rassegna i principali programmi militari statunitensi:

- cacciabombardiere F-22 Raptor: progettato per sfidare i velivoli di concezione sovietica, un F-22 costa 351 milioni di dollari, più del doppio delle stime originali.
Fu messo in produzione ancora prima di essere pienamente testato e – non sorprendentemente – è incorso in ogni genere di intoppi; non ha partecipato a nessuna azione di combattimento in Afghanistan né in Iraq. Il titolare del Pentagono Robert Gates ha deciso di acquistarne altri quattro, per un totale di 187 rispetto ai 243 che inizialmente l’USAF voleva.
Addirittura, all’inizio di quest’anno, 194 deputati e 44 senatori statunitensi hanno scritto ad Obama per sollecitarlo ad acquistare più F-22, ed a metà giugno i parlamentari del comitato militare della Camera hanno previsto uno stanziamento per altri 12 caccia. Sollecitazioni che però non sono servite a rianimare la morente linea di produzione del velivolo, almeno per l’uso domestico. Infatti
è notizia fresca il via libera da parte del comitato finanziario del Senato statunitense allo sviluppo di una versione del F-22 per l’esportazione, privato degli accorgimenti tecnologici “segreti” presenti nella versione originale. Probabilmente la decisione vuole far fronte alla perdita di migliaia di posti di lavoro causata dallo stop della produzione per l’aviazione USA; fra i probabili acquirenti figurano Giappone, Corea del Sud, Australia ed Israele;
- aereo da trasporto C-17 Globemaster III: l’aeronautica USA ne possiede 205 esemplari e non ne chiede di ulteriori,
ma il Senato intende introdurre nel bilancio per la difesa del 2010 l’importo di 2,5 miliardi per comprarne altri 10;
- Future Combat Systems: si tratta di apparati in cui armi, veicoli e robot coesistono, uniti da un comune sistema di comunicazione, ed è un altro caso in cui le intenzioni di spesa sono state messe in pista prima che la tecnologia in questione sia stata effettivamente testata. Dal 2003, il costo totale è aumentato del 73% fino ad arrivare a 159 miliardi, tanto che Gates nei mesi a venire vuole ripensare l’intero programma;
- elicottero presidenziale VH-71: Lockheed Martin ed Agusta Westland (del gruppo Finmeccanica) vinsero nel 2005 la commessa per il sostituto dell’attuale “Marine One”, un Sikorsky VH-60 entrato in servizio nel 1989. La flotta di 28 (!) esemplari doveva costare inizialmente 6 miliardi di dollari, ma poi i correttivi introdotti durante l’amministrazione Bush avevano portato il conto totale quasi a raddoppiare fino ad 11,2 miliardi (400 milioni ad esemplare). Il programma è stato cancellato a maggio, ed una conferma pubblica del suo annullamento è stata data dallo stesso presidente Obama ad agosto in un discorso ai veterani di guerra;
- DDG-1000 Destroyer: navi che dovrebbero costare 4 miliardi di dollari ma fonti alternative stimano un costo reale vicino ai 6 miliardi. Mentre la marina statunitense inizialmente desiderava acquistarne fra un minimo di 16 ed un massimo di 24, Gates tenterà di ridurre il programma a soli 3 Destroyers.

E’ comunque inquietante notare come Gates abbia dato il via libera ad un paio di palesi catorci. Del primo abbiamo già parlato su questo blog, si tratta del Littoral Combat Ship (LCS), un altro progetto Lockheed Martin sviluppato prima di completare i test. Nonostante i suoi costi siano quasi raddoppiati rispetto alle prime stime, Gates si è impegnato ad acquistare 55 di queste unità navali.
Ma
forse l’indizio più evidente della continuità del bilancio militare USA è la decisione di più che raddoppiare l’ordine di cacciabombardieri F-35 Lightning II Joint Strike Fighter (JSF), facendone il più grande programma di acquisizione del Dipartimento della Difesa (quasi a voler placare l’industria produttrice, l’onnipresente Lockheed Martin, per la cancellazione del F-22). Ciò nonostante l’F-35 sia ben lontano dall’essere pronto, visto che a novembre 2008 era stato implementato solo il 2% dei voli di prova previsti.
Secondo l’attuale calendario, gli Stati Uniti spenderebbero 57 miliardi di dollari per acquistarne 360 unità prima che i test siano completati. Per velocizzare i tempi, la Lockheed ha elaborato un piano per svolgere solo il 17% delle prove richieste mediante test di volo, il restante 83% affidandole ai simulatori. Sfortunatamente, secondo un rapporto della Corte dei Conti americana (GAO) “la capacità di sostituire i voli di prova con laboratori di simulazione non è stata ancora dimostrata”.
Ciò non fa che aumentare i dubbi sulla decisione del Dipartimento della Difesa di acquistarne 2.456 (sì, avete letto bene, duemilaquattrocentocinquantasei!).
Fonti ufficiali hanno stimato un costo per l’intero programma superiore al trilione di dollari (più di mille miliardi) – circa la stessa cifra del deficit nazionale -, sommando ai 300 miliardi per l’acquisizione dei velivoli i 760 miliardi per la loro operatività, manutenzione compresa. Ma poiché il Pentagono ha deciso di comprarne così tanti esemplari prima di verificare l’efficienza della tecnologia, ritardi ed incrementi di costo saranno inevitabili.

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Il Dipartimento della Difesa è presente dal 1995 nell’elenco di apparati governativi ad alto rischio stilato dalla Corte dei Conti statunitense. Per gestire gli acquisti, la contabilità e la logistica, le varie agenzie e servizi del Pentagono mantengono 2.480 diversi sistemi informatici, molti dei quali non sono interconnessi. Di conseguenza, nessuno conosce con sicurezza quanto il Pentagono abbia speso in passato, stia spendendo adesso e spenderà in futuro. Al contrario, esso fonda le sue decisioni di bilancio prevalentemente sulle informazioni delle aziende private vincitrici degli appalti.
Un rapporto del Defense Science Board Task Force on Developmental Test and Evaluation rileva che, fra il 1997 ed il 2006, benché il 67% dei sistemi d’arma non abbia superato i parametri di prova, molti di essi sono stati egualmente messi in produzione. Il concetto che il Pentagono dovrebbe “provare prima di comprare” risale almeno agli anni Settanta, ma i funzionari della difesa ed i parlamentari statunitensi non l’hanno mai veramente messo in pratica. Anzi, i funzionari sono fortemente incentivati a sottoscrivere contratti sottostimati perché se rendono noti i veri costi fin da subito, rischiano di non poter avere i loro “giocattoli”. Ogni tanto il Congresso o la Casa Bianca chiedono di insediare un’agenzia indipendente in grado di produrre stime attendibili dei costi, ma ciò è estremamente difficile a causa dello stretto rapporto tra i funzionari del Pentagono e l’industria bellica.
Nel 2006, 2.435 ex funzionari del Pentagono, generali ed ufficiali lavoravano per aziende private operanti nel settore della difesa, ed almeno 400 di questi erano impiegati nell’ambito di appalti direttamente collegati al loro precedente datore di lavoro governativo. Quando i calendari slittano di anni ed i bilanci sforano di miliardi, le aziende sono già state pagate; inoltre, è prassi fra i parlamentari dare il via libera al proseguimento dei programmi nonostante la legge preveda che essi devono essere informati su quei programmi che sforano il bilancio per più del 30% e che quelli con aumenti superiori al 50% devono essere ricertificati o cancellati.
Quest’anno, la Casa Bianca ha promesso di impiegare altri 20.000 funzionari nel prossimi quinquennio per tenere sotto controllo i contratti militari e la relativa spesa, ma bene che vada ci vorranno diversi anni prima che ciò porti frutti. La legge di riforma circa l’acquisto dei sistemi d’arma patrocinata dal candidato repubblicano alle ultime elezioni presidenziali, John McCain, prevede anche l’istituzione di un ufficio per l’accertamento imparziale dei costi che però non dovrebbe occuparsi di tutti i programmi. Ufficio il cui primo direttore, comunque, è William Lynn, lobbysta precedentemente al servizio proprio di un’azienda privata del complesso militare, la Raytheon.

jeudi, 08 octobre 2009

Le pont ferroviaire eurasiatique, nouvelle route de la soie!

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Le pont ferroviaire eurasiatique,

nouvelle route de la soie du XXIe siècle !

par Alexandre LATSA ( http://www.agoravox.fr )

De la conquête de la Sibérie à l’Amérique russe, de Lisbonne à Vancouver, en passant par Pékin, petit résumé du gigantesque pont ferroviaire Transeurasien et Transcontinental en construction...

La conquête de l’Est

Lorsque le tsar Ivan IV conquiert Kazan en 1554, la Russie tarit définitivement, par la force, le flot des invasions nomades, venues de l’Est. Désormais, elle se tourne vers cet immense territoire. En 1567, deux cosaques traversent la Sibérie et reviennent de Pékin en racontant les immenses territoires et les possibilités commerciales avec l’empire du milieu. Le tsar concédera alors à des marchands de fourrure, les Stroganoff des territoires « à l’Est » (en fait en Sibérie occidentale). Ceux-ci feront appel à 800 cosaques, sous commandement de Yermak pour les protéger.
A la toute fin du XVIe siècle, la conquête russe du far-est est lancée, elle mènera les colons russes jusqu’aux portes de San Francisco...

De l’Oural au Pacifique

Les chasseurs de fourrure traversent la Sibérie en moins de cinquante ans, et installent des bases sur la route de l’Est, Iénisséisk en 1619, Iakoutsk en 1632, puis la ville d’Okhotsk. En 1649, à l’extrême est de la Sibérie. Au Sud, les Atamans russes affronteront les Chinois pour la conquête de l’Amour. Yeroïeï Khabarov met en déroute une troupe de plusieurs milliers de Chinois avant de reperdre la région et que la paix de Nertchinsk (1689) ne laisse la zone aux Mandchous. Les chasseurs russes remontent alors vers le Nord, et l’Est. Entre 1697 et 1705, le Kamtchatka est conquis. Un mercenaire danois, Vitus Behring, entreprendra une traversée de la Sibérie puis de la mer d’Okhotsk pour enfin traverser, en 1728, le détroit qui porte son nom.
En 1741, moins de deux cents ans après l’expédition de Yermak, les Russes abordent l’Amérique du Nord.

L’Amérique russe

Cette conquête s’accentuera dans la deuxième partie du XVIIIe siècle, non pour des raisons politiques, le pouvoir russe se désintéressant provisoirement de l’Amérique russe, mais purement commerciales, sous la pression des chasseurs de fourrures, livrés à leur seule ingéniosité et à leur volonté de négoce avec l’Asie. En 1761, ils mettent pied en Alaska. Une « Compagnie américaine » est même créée en 1782 pour « organiser » l’écoulement de fourrure russe en Chine, et contrer les Anglais qui écoulent eux la fourrure du Canada via le cap de Bonne-Espérance. En 1784, Alexandre Baranov, aventurier et trappeur russe fonda un empire commercial de vingt-quatre comptoirs permanents entre le Kamtchatka et la Californie. Le pouvoir russe dès lors prend conscience de l’énorme avantage que lui procure cette situation. Baranov sera nommé gouverneur de la zone, puis anobli, avant de se voir confier de déployer la « Compagnie russo-américaine » (qui gère tout le commerce de fourrure du Pacifique) le plus au Sud possible. En 1812, Fort Ross est créé, au nord de San Francisco. La présence russe est à son apogée en Amérique.

Le déclin de l’Amérique russe

Cette mainmise russe sera pourtant de courte durée. Concurrencé par les Anglais en Extrême-Orient, soumis à des révoltes occasionnelles des indigènes « nord-américains » (Aléoutes, Esquimaux, Indiens), le pouvoir russe se focalisera sur la Sibérie du Sud, jugée plus accessible de la capitale et tout aussi frontalière des pays d’Asie et de leurs débouchés commerciaux. En 1841, Fort Ross est abandonné et, en 1858, la frontière russo-chinoise est quasi stabilisée, l’Amour étant de nouveau rattachée à la Russie. En 1860, la « Compagnie russo-américaine » ne fait plus le poids face à son concurrent anglais (la Compagnie de la baie d’Hudson) et son « bail » n’est pas renouvelé.

En outre, l’effort consenti pour la guerre de Crimée (opposant la Russie avec la Grande-Bretagne, la France, l’Autriche, le Piémont et la Turquie, obligeant la Russie à se défendre de Saint-Pétersbourg à Novo Arkhangelsk, en Amérique du Nord) rendait difficilement tenable le front américain, menacé par les Britanniques. Le coût excessif de cette « colonie » et l’incapacité militaire russe à la défendre face aux Britanniques fit germer l’idée d’une cession à l’Amérique (alliée d’alors contre la Couronne). Le traité de vente de l’Alaska fut signé le 30 mars 1867.

Du Transcanadien au Transsibérien

En 1891 (alors que le projet avait été mis sur table dès 1857 par le comte Mouraviev), Alexandre III décrète la construction d’une immense voie ferrée qui reliera l’Oural à Vladivostock, sur les rives du Pacifique. Ce choix sera déterminé par les débouchés commerciaux envisagés avec l’Asie du Sud-Est, mais aussi la nécessité de renforcer les « villes ports » de l’Extrême-Orient (face à la militarisation de la Chine à sa frontière avec la Russie) et la marine militaire du Pacifique. La voie sera terminée en 1904, passant par la Mandchourie (sur du lac Baikal). La perte de ce territoire en 1907 rendra nécessaire la création d’une ligne de contournement, passant au « nord » du lac, c’est la seconde ligne, dite BAM (Baikal-Amour-Magistral), qui sera terminée elle en 1916.

En outre, les Russes s’inspirent de leurs concurrents anglais qui ont eux lancé dès 1871 une ligne de chemin de fer entre la côte Est et la côte Ouest du Canada, avec un double but : le transport des matières premières et surtout l’unification territoriale du Canada. Le premier Transcanadien joindra le Pacifique en 1886.

Le projet fou : la jonction ferroviaire Eurasie-Amérique

En 1849, un gouverneur du Colorado élabore un projet fou : un tunnel « sous » le détroit pour faciliter la traversée entre la Russie et l’Amérique. A cette époque, l’Alaska est pourtant encore russe. Le projet réapparaîtra au début du XXe siècle, un architecte français, Loic de Lobel, le présentant au tsar Nicolas II, moins de quarante ans après que son grand-père a cédé l’Alaska aux Etats-Unis. Les changements géopolitiques majeurs du demi-siècle qui suivirent ne laissèrent pas beaucoup de place à la coopération russo-américaine. En 1945, la guerre froide fait de ces deux monstres, qui se partagent le monde, des ennemis jurés. Le délabrement post-soviétique ne permet pas de relancer l’idée.

En septembre 2000 pourtant, à Saint-Pétersbourg, a lieu une « Conférence eurasiatique sur les transports », cinq grands couloirs de développement furent définis sur le continent :

- le couloir Nord, via le Transsibérien, de l’Europe vers la Chine, la Corée et le Japon ;

- le couloir central, de l’Europe méridionale à la Chine, via la Turquie, l’Iran et l’Asie centrale ;

- le couloir Sud, de l’Europe méridionale vers l’Iran, puis remontant vers la Chine par le Pakistan et l’Inde ;

- le couloir Traceca, d’Europe de l’Est à l’Asie centrale, par les mers Noire et Caspienne ;

- un couloir Nord-Sud combinant le rail et le transport maritime (Caspienne), de l’Europe du Nord à l’Inde.

Plus récemment, en mai 2007, une conférence intitulée « Les mégaprojets de l’Est russe » eut lieu à Moscou, ayant pour but de dévoiler les grands projets de l’Etat pour lutter contre le sous-développement et le sous-peuplement des régions de Sibérie et renforcer l’axe Est de la Russie. La conférence était présidée par un ancien gouverneur de l’Alaska, Walter Hickel, également secrétaire à l’Intérieur des Etats-Unis et ardent supporter du « projet fou » depuis les années 1960.

A cette occasion, fut dévoilé le nouveau projet de voie ferrée reliant la Russie à l’Amérique, à l’étude au Conseil d’études des forces productrices russes (CEFP). Son vice-président, Viktor Razbeguine, en a dévoilé les grands traits : la construction d’une immense artère reliant les continents « Eurasie-Amérique », de Iakoutsk en Sibérie orientale jusqu’à Fort Nelson au Canada, le tout via un tunnel sous le détroit de Béring long de 100 à 110 kilomètres ce qui en ferait de loin le plus long de la planète.

La voie ferrée assurerait l’accès aux ressources hydro-énergétiques de l’Extrême-Orient et du Nord-Ouest des Etats-Unis, et permettrait de construire des lignes HT et un passage de câbles par le détroit, en reliant les systèmes énergétiques des deux pays. Cette artère pourrait assurer le transport de 3 % des cargaisons du monde. La durée et la construction de l’ensemble devrait prendre de quinze à vingt ans. Le chiffre d’affaires des échanges commerciaux générés pourrait atteindre 300 à 350 milliards de dollars, toujours selon Viktor Razbeguine et le retour sur investissement attendu sur trente ans, après l’accession du chemin de fer à sa capacité projetée de 70 millions de tonnes de marchandises par an.

Sa construction pourrait en outre créer entre 100 000 et 120 000 emplois et revivifier la région Sibérie orientale, avec pourquoi pas la création de nouvelles villes et d’immenses zones agro-industrielles.

Outre le « link » des systèmes énergétiques de l’Ours et de l’Aigle, le président de l’IBSTRG (Interhemispheric Bering Strait Tunnel and Railroad Group), un « lobby tripartite Russie-Canada-Etats-Unis  » qui défend le projet de son côté depuis 1992, affirme : «  Le sous-sol de la Sibérie extrême-orientale regorge d’hydrocarbures, mais aussi de métaux rares, pas encore exploités précisément à cause de l’absence de communications  ». Ce sont ces trésors enfouis qui devraient selon lui permettre de lever les fonds pour lancer la voie ferrée de Iakoutsk, mais aussi le début des travaux sous le détroit. L’IBSTRG a en outre confirmé lors de la conférence de l’Arctique sur l’énergie (AES) en octobre 2007 que le projet passerait par l’utilisation de mini-réacteurs nucléaires mobiles, transportées par rail, route ou navire, ainsi que par l’énergie hydroélectrique pour l’expansion du réseau ferroviaire.

Les regards sont aujourd’hui tournés vers le gouverneur de l’immense région de Tchoukotka, que devrait traverser l’artère, également homme le plus riche du pays car, comme l’a affirmé le représentant du ministère russe de l’Economie, Maxime Bistrov, le fonds fédéral d’investissement finance des projets uniquement s’ils sont déjà soutenus par des entreprises privées ou avec l’aide de financements régionaux... A bon entendeur.

Quoi qu’il en soit, les différents promoteurs du tunnel fondent l’espoir que les pays du G8 soutiendront le projet. Sinon, des entreprises asiatiques, japonaises en priorité, ont déjà proposé leur aide. Le principal atout de ces liaisons ferroviaires transcontinentales n’est pas uniquement de transporter des marchandises plus rapidement, mais « intégrées à de véritables corridors de développement, elles participeront au désenclavement des pays et des régions dépourvus d’accès maritime » et, plausiblement, introduiront les futures lignes à très haute vitesse (magnétique ?) qui permettront de traverser l’Eurasie encore plus vite.

Le TransEurasien, route de la soie du XXIe siècle

Le 7 mai 1996 à Pékin, Song Jian, président de la Commission d’Etat chinoise pour la science et la technologie présentait le « Pont terrestre eurasiatique comme le tremplin d’une nouvelle ère économique pour une nouvelle civilisation humaine ». Douze ans plus tard, le 9 janvier 2008, s’est élancé le premier train « eurasiatique » de marchandise reliant Pékin à Hambourg. Le train a relié les deux villes après avoir traversé la Chine, la Mongolie, la Russie, la Biélorussie, la Pologne et l’Allemagne (soit plus de 10 000 km) en seulement quinze jours.

Lors du sommet de l’APEC en 2006, le président russe Vladimir Poutine évoquait la perspective d’une nouvelle configuration de l’Eurasie, reposant sur : « des projets conjoints à large échelle dans les transports, l’énergie et les communications ». Au même sommet, l’ancien président sud-coréen Kim Dae-Jung avait lui assuré que : « les chemins de fer Transcoréen, Transsibérien, Tnansmongol, Transmanchourien et Transchinois formeront cette "route ferroviaire de la Soie", reliant l’Asie du Nord-Est à l’Europe en passant par l’Asie centrale...  »
La glorieuse route de la soie du passé renaîtra ainsi sous la forme d’une "route ferroviaire de la soie", faisant ainsi entrer l’Eurasie dans une ère de prospérité.

"Je veux récupérer mon empire", aurait lancé Vladimir Poutine lors d’une rencontre internationale à huis clos. A en croire la position qu’est en train de prendre la Russie, aiguillon entre l’Europe, l’Asie et l’Amérique du Nord, sur la plaque eurasiatique, on peut sans doute le croire...

SOURCES :

- Philippe Conrad sur CLIO

- Catherine SAUER BAUX sur STRATISC

- Wikipédia

- Le Figaro magazine

- Arctic.net

- Ria Novosti

- Solidarité et progrès

- La Tribune

- L’association « Amitié France Corée »

- Xinhua.net

- La Voix de la Russie

mercredi, 07 octobre 2009

Russia is the future of Europe!

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Russia is the future of Europe !

Alexander LATSA ( http://alexandrelatsa.blogspot.com )

"There is no longer any doubt that with the end of the Cold War a lengthier world development period came to an end, spanning 400-500 years during which European civilization had dominated in the world. The historical West had consistently advanced on the edge of this dominance."

" The new stage is occasionally defined as “post-American.” But, of course, this is not a “world after the US” and even less so without the US. It is a world where as a result of the rise of other global centers of power and influence the relative significance of America’s role dwindles, as was already the case over recent decades in the global economy and trade. Leadership is an entirely different question though; it’s above all the question of achieving harmony within a circle of partners, of the ability to be the first, but among equals."

"To define the content of an emerging world order, such terms as multipolar, polycentric and nonpolar are also put forward"

"We do not share the concerns that the current reconfiguration in the world will unavoidably lead to “chaos and anarchy.” There goes the natural process of the formation of a new international architecture – political as well as financial-economic – which would correspond to the new realities."

"Russia conceives itself as being a part of European civilization having common Christian roots"

"The rigid Anglo-Saxon model of economic and social development is again, as it did in the 1920s, beginning to wobble.the global financial-economic architecture was largely created by the West to suit its own needs. And now that we watch the generally recognized shift of financial-economic power and influence towards the new fast-growing economies, such as China, India, Russia and Brazil, the inadequacy of this system to the new realities becomes obvious. In reality, a financial-economic basis is needed which would conform to the polycentricity of the contemporary world.
The manageability of world development can’t be restored otherwise." 


*****


More than a year after Sergei Lavrov’s assertions (June 2008), the only report that comes to mind is that the financial crisis has totally confirmed those assertions. At the dawn of the autumn 2009, the Western world is about to leave History by the smallest door, after having transmitted its metastasis to the whole humanity. In this world in transition, it would be good to wonder what game the European populations intend to play.

At that time where the line breakages are less and less legible, it would be good to remember that the only chance of survival of the Europeans is to get out of the suicidal atlantist rut and to develop a true and integrated collaboration with the Federation of Russia. This European-Russian partner could contribute to peace within Heartland, in the hart of this new multi polar and decentralized world. 

In a multi polar and decentralized world the European unity is unavoidable

Far from the ideal of psychology armchair, the reality of tomorrow is based on demography and economy. The decrease of America’s influence is also proved by the increase of many other actors: Brazil, Russia, India, China and the Arab Muslim world, both rich in energy and human capital. The world population reaches 6, 5 billions of inhabitants and will be over the 9 billions in 2050.  Europe counts today 758 millions inhabitants 91/3 of the EU0 and should see its population fall down, between 564 millions and 632 millions inhabitants i.e. 7 % to 8% of the world population and less than 20% of the GDP (about the same than China on its own).

France as an example should count 70 millions inhabitants in 2050, i.e. 0,8% of the world population, 1 inhabitant out of 3 being more than 60 years old and half of its youngest population being mainly African and from Northern Africa.

In this context, and despite the punchy speeches of credible and interesting personalities (Nicolas DuPont Aignant, Paul Marie Couteaux or Jean Pierre Chevènement to only quote those), the way out of the EU and the return to a national sovereignty is surely the very last solution to think of.

The EU is imperfect to 99%, because being led by Brussels, and under the influence of ‘’the American party’’, who treats Europe as an American colony.

Worse the Americans (who wish first to maintain their dominating position and defend their own interests) do not want a united and powerful Europe. This Europe may not follow them in their military offensives or even oppose to them diplomatically and maybe militarily.
This is the reason why the Americans try everything in order to have their Troy horse entering the EU (Turkey) in order to create dissension and destabilize a homogeneous whole on its way.

Let us not forget, at last, that Turkey is the second army of NATO and with Israel the pawn of America in the Near East, while occupying Cyprus.
This is the reason why America has done everything in order to persuade De Gaulle not to obtain the nuclear independency and to stop France to exit the NATO commandment.
An independent France would be a prelude to an independent Europe. The latter could lead to the worse situations for the US strategists: the loss of the advantages gained at the end of the World War II with the occupation of Western Europe and therefore the loss of the Heartland western side.

This is also the reason why some strategists of the ‘American party’ in Europe have understood the necessity to support the EU refusals through the anti EU and the Europhobic parties such as Ireland with the Libertas candidate.

More recently, the Europhobic Philippe de Villiers has also joined the atlantist party of Nicolas Sarkozy, UMP, a party though openly pro EU, after that UMP has had France joining the NATO commandment.

The loss of sovereignty for the European countries is a process that went through 2 stages.

* The first one is the end of the empires, originating from the Westphalia treaty, supporting the national identity concept (nation state) as the primary identity. This “nationalisation” of the European identities has generated the 30 years war that destroyed our continent in the first half of the 20th century. Strange coincidence, the Westphalia treaty ended a European civil war that lasted 30 years.
* The second is the stage of the fragmentation into regions. This process, are we told, is very progressive politically (i.e. regions would be the ultimate stage of the European integration). But it is in fact the result of a deliberate external political process aiming at weakening Europe, by fragmenting in small pieces that are left with neither economical independence nor military sovereignty.

This was the case in particular for Eastern Europe, e.g. Czechoslovakia, Yugoslavia or the USSR, for obvious reasons: Those nations are not under the western influence since long so they are suspected of being hostile to the Euro –Atlantic Axis.

Of course, it is no surprise that most of the regionalist European political parties are also the most Europhiles and the ones fighting most actively for a NATO expansion and a Euro – Atlantic integration.

Those same political alignments are shared by the Brussels commissioners, devoted agents of the American interests in Europe.

The Europe of Brussels is of course the opposite of the powerful and independent Europe that we want. The EU made of flesh, the reel EU (the non legal one) is the only aim to defend in order for the Europeans to control their destiny and to become more than spectators, to become actors.

The world of tomorrow though will probably not be a more opened world than the one we know. It surely will be a world made of blocks in conflict, conflict for territories zones and civilisations.
In this world of increasing tensions the key for Europe is to gain a structure of defence that belongs to it and allows her to protect its interests and citizens.
In that sense, the proposals of President Medvedev on the necessity of creating a Pan European structure of security (replacing NATO) are a real challenge and the most interesting one, for Europe.

In a multi polar world, let us exit NATO and create a continental and NON Atlantic defence’s system.

NATO is a military alliance created is 1949 in order to face USSR, but also in order to avoid a new risk to Europe (as it had been the case with Germany). Fast, this alliance, under the Anglos Saxons’ influence, led to the creation of a competing alliance in the other bloc, the soviet one, in 1955: ‘’ The Warsaw Pact’’. This double alliance split up the world in two rival blocs, until 1958 while the De Gaulle France decided to leave the Anglo Saxon block and to develop its own nuclear programme.

In 1966, France leaves the NATO commandment and the NATO HQ moves from Paris to Brussels, which is still the case nowadays. Brussels hosts the European institutions as well as the NATO ones. 30 years later in 1995, the French President Jacques Chirac started the negotiations to get back into the integrated commandment of NATO. This return was confirmed and focalized by President Sarkozy on the 17th March 2009.

Why this return ? What were the motivations of France to become an essential NATO actor ?

NATO has got today only two essential functions, both in the interest of America and both against the European interests.
First it has become a conquest weapon of the Eurasian heartland by America and its extension towards the East and the Russian borders. New nations are asked to join under wrong justifications, i.e. the historical fear of a Russian imperialism.  But this imperialism does not exist any longer. Only the American strategists keep it alive at perfection.

Under the pretext of entering the Euro-Atlantic partnership, NATO installs itself in the hart of Europe, pushes Russia back towards its own eastern borders and divides Europe once more, with the installation of American bases in front of the Russian borders.

This is the real aim of the Serbia campaign. Serbia is an ally of Russia in the logic of the Pentagon. With the bondsteel base but also the orchestrated revolution in Ukraine, the aim of America was to implement an American base in Crimea, in order to respond to the Russian base.

Since the 11/09/NATO has become a crusaders army at the eyes of the Muslim world, the same American strategists trying to convince us that NATO is a protection against the aggressive and terrorist Islamism.
No need though to be a scientist in order to understand that the Iraq and Afghanistan campaigns, if they could be won (which will probably not be the case) will not defeat ‘’terrorist’’ Islamism. Islamism is used today like an excuse in order to justify much older geopolitical objectives. Do we not suspect that the Afghanistan attack has been justified by the 11th September, but planned much before and that its reel aim had been the implementation of US troops in the heart of Eurasia?

Can we, without laughing, believe that the baathist Iraq of Saddam Hussein was one of the vectors of the world Islamist terrorism, or targeted for its petrol dwells?

Domination wars of the USA are wars aiming at controlling the natural resources that are concentrated (apart from Arctic) in the Arab peninsula, Iraq, Iran, Persian Gulf, Southern Russia (Caucasus) and Afghanistan.

Those resources conflicts are provoked by wrong motives, which are not Europe’s one. Worse, they may lead Europe to ethnical and religious tensions on ‘’its’’ territory.

Yugoslavia disintegration showed us how much a security structure was essential in order to maintain its harmony and face the external destabilizations. The recent Kosovo issue has perfectly shown that Europe is the bridge head that serves the USA who attack and invade Eurasia. America therefore creates tensions between European populations and in particular with Russia, to whom the ‘’Serbia’’ warning was addressed.

The vote of the Silk road strategy Act by the US Congress in 1999 was aimed at ‘’favouring’ the independence of the Caucasus and the Central Asian countries and at creating a land bridge in order to divert the road of the Silk Road to the Turkish harbours, therefore a NATO country.

The BATCH oil pipeline that passes by Georgia is following the same strategy and also partly explains the development of the military assistance to Georgia, since the arrival at power of Mikhaïl Saakachvili.

In a multi polar world with many centres, we could avoid a continental disintegration
In 1999 despite the attack on Serbia and after 10 years of total collapse, the assumption by Vladimir Poutine straightens Russia up and replaces the country at the front of the word political scene. Europe has toppled over NATO (by its participation to the bombing of Serbia). Russia, China, and the Muslim nations of Central Asia create in 2001 the Shanghai organisation as well as the OSTC in 2002. Those military Eurasian and inter-religious alliances aim at replying to the double Chinese and Russian surrounding by the American army and at defending the Eurasian regional well defined area.
Zbigniew Brezinski said: «The Eurasian strategy of the USA brought Russia and China closer. The two continental powers are building a real military alliance in order to face the Anglo Saxon coalition and its allies. » 


The American offensive towards the East (from Berlin to Kiev) has materialized in two majors steps, from 1996 until 2009.

In 1996, GUUAM was born. It regroups Georgia, Uzbekistan, Ukraine, Azerbaijan and Moldavia.
Those nations wish to get out of the post soviet bosom, right after the Berlin wall fall and while Russia was collapsing. It is not surprising that those nations who have strategic geographical positions, consequently have been the victims of revolutions financed by the CIA (orange revolution, tulips, roses and recently in Moldavia too after the elections). They also have been the victims of changes of western regimes. The most representative members of this association are the observers, Turkey and Latvia (!).
Nevertheless those regimes have not made it through, despite the expectations of their supporters (integration to NATO and EU, improvement of life).
On the contrary, those overthrown regimes have degraded economically and no integration into the euro-atlantist model occurred.

This is the reason why the departure of Uzbekistan in 2005 and the absence of concrete realization of the organization have led the latter to become inexistent politically. In May 2006 the political scientist Zardust Alizadé from Azerbaijan expressed his doubts regarding the development of the alliance and of the alliance’s ‘’practical results’’.

Today, the second step sees a quite aggressive materialization through the creation of a new front that we may call GUA (Georgia, Ukraine, and Arctic). In Georgia: the political incapacity of the president has pushed the American strategists to launch a military operation in August 2008. This operation failed because the Russian army has replied with a lot of strength and has liberated the territories of Ossetia and Abkhazia.  This conflict is the first conflict opposing Russia to America out of the Russian borders. The previous conflict had been the Whabitt destabilization in Chechnya, instigated mainly by the CIA.

In Ukraine the recent conflicts about gas show the growing tensions and a bright observer recently said that ‘’ a limited conflict, under the pretext of a territorial dispute, will surely burst and lead to a rupture of the gas’ supplies for a more or less long period of time. Those gas crises are provoked in order to train the Europeans to get used to such cuts.’’

Artic would need another article just for itself. I invite my readers to read my previous articles on the topic here and there and to consult the blog « zebrastationpolaire ».

Those manoeuvres of surroundings, of containment and of destabilization have various objectives:
-  To control the Black sea the Caspian and Baltic seas perimeters as they are essential zones of transit between the East and the West.
- To control the future corridors of energy in particular via a building project of oil and gas pipelines going round Russia but linking the regions of the Caspian sea with the ones of the Black and the Baltic sea.
- To spread the NATO influence further East in the heart of Eurasia in order to reduce the sphere of influence of Russia (on its close stranger) but mainly in Europe, and avoid a potential development of the Chinese influence towards Central Asia.  

Of course, a non experienced reader will tell me that the Russians and the Americans have never stopped to fight since 1945 and that globally this is not the business of Europe and of the Europeans. Well, this is exactly the contrary.

In a multipolar world with many centres, the Euro-Russian Alliance is the key stone for peace on the continent.
The consequences we told you about in this article are dramatic for Europe. They will cut Europe from Russia at a civilization, geopolitical, political and energetic level.
They will create a new wall in Europe, not in Berlin but in the heart of Ukraine, separating the West (under the American influence) from the East (under the Russian influence).
In a more pragmatic way this fracture nearly cuts the Orthodox Europe from the catholic and protestant Europe, underlining the theory of S.Hungtinton in his book « The shock of civilisations ». Last, let us note that China, a crucial geopolitical and economical actor, probably sees Europe (through NATO) as co-responsible of the surrounding situation that it (China) faces, West (military American bases in central Asia) and East (the Pacific along its shores, with also many American bases).
This rupture with two essential actors that are Russia (the biggest country in the world) and China (the most populated country of the world) are very serious.

In case of growing tensions with NATO and OCS, France and the other European countries would be in a conflict with an organisation that nearly groups together, one man out of three in the world, covers 32, 3 millions of km² et resources wise groups together 20 % of the petroleum world resources, 38% of natural gas, 40% coal and 50% uranium.

This strategy of separation of Russia and Europe and of Western and the centre will limit Europe in a micro territory slot in the west of the continent and will cut t from the huge possibilities that a partnership with Russia would offer.  
·         Europe needs Russia energy wise because Russia has got the gas and the petroleum resources that Europe needs. Russia is a stable supplier as its relation with Turkey proves it. Turkey has no supply problem. Just remember that the supply cuts during the war with Ukraine were due to the latter, but funnily enough the media have made Russia guilty).  The topic ‘’energy’’ is essential because Europe under the American commandment is proposed very risky alternatives, as for instance to replace Russia by Turkey (A NATO country aiming at becoming an EU member!). . This replacement of Russia by Turkey would also mean to have Nabbuco instead of South Stream and to participate to conflicts for energy (like Iraq). Europe could surely avoid all those troubles.
·         Europe needs the fabulous Russian potential, the human one (140 millions inhabitants), and the geographical one (17 millions km2 and its opening on the Pacific). Europe would therefore become a crucial actor, especially with the Asian world, the latter being in a full development process.
·         Russia also needs Europe and the Europeans not only for allocating its primary resources but also for its technologies and human capital that it could use to fight against it depopulation at the East of Oral. Last but not least it needs Europe like a natural and complementary ally, originating from the same civilisation.

This Euro- Russian unity is the only warrant of peace and independence for the continent populations. It is vital, it is strongly advised, because the Western European and the Russians belong to the same civilisation first of all.

As Natalia Narotchnitskaïa recently said in Paris during a colloquy:

 « The real cooperation between Russia and Europe could give a new energy to our continent, at the dawn of the third millenary. The big roman – German and Russo- Orthodox cultures share one and only one apostolic foundation, the Christian and spiritual one. Europeans, whether they are western or Russians, have given to the world the biggest examples of the orthodox and Latin spirituality.’’

These are the reasons why Russia is the future of Europe.

mardi, 06 octobre 2009

L'avenir de l'Europe, c'est la Russie!

L’avenir de l’Europe, c'est la Russie!


par Alexandre Latsa ( http://alexandrelatsa.blogspot.com )
 "Nul doute deja, que la fin de «la guerre froide» a marque la fin d'une etape plus longue du developpement international – 400-500 ans, durant lesquels la civilisation europeenne a domine dans le monde. L'Occident historique s'est toujours propulse a la pointe de cette domination".

"La nouvelle etape est parfois definie comme «post-americaine». Mais, certes, ce n'est pas le «monde d'apres les USA» et d'autant plus sans les USA. C'est un monde, ou, a la suite de la montee d'autres centres globaux de la force et de l'influence, l'importance relative du role de l'Amerique se reduit, comme cela avait deja eu lieu au cours des dernieres decennies dans l'economie et le commerce globaux. Le leadership est un tout autre probleme, avant tout celui de l'obtention de l'entente parmi les partenaires, de la capacite d'etre premier, mais parmi ses égaux".

" Pour definir le contenu de l'ordre mondial en formation, on avance aussi les termes comme multipolaire, polycentrique, non-polaire".

"Nous ne partageons pas les craintes, que la reconfiguration actuelle qui se passe dans le monde mene inevitablement « au chaos et a l'anarchie ». On observe le processus naturel de la formation d'une nouvelle architecture internationale – tant politique, que financiere et economique, qui repondrait aux realites nouvelles".

"La Russie se voit comme une partie de la civilisation europeenne, qui possede les racines chretiennes communes".

"Le dur modele anglo-saxon du developpement socio-economique presente de nouveau des rates, comme dans les annees 20 du ХХe siecle.l'Occident avait pour beaucoup cree l'architecture financiere et economique globale a son image. Et actuellement, ou l'on est en presence du deplacement reconnu par tous de la force financiere et economique vers les nouvelles economies en croissance rapide comme la Chine, l'Inde, la Russie, le Bresil, il devient evident que ce systeme n'est pas adequat aux realites nouvelles. Au fond, on a besoin d'une base financiere et economique, qui correspondait au polycentrisme du monde contemporain".


***
Plus d'un an après ses propos tenus par Sergei Lavrov (en juin 2008) un seul constat s'impose, la crise financière les a totalement confirmés. A l'aurore de cet automne 2009, l'occident s'apprête à sortir de l'histoire par la petite porte, après avoir transmis ses métastases à l'humanité toute entière. Dans ce monde en re-configuration, il est bon se se demander quelle est la place que les peuples du continent Européen entendent jouer.

A l'heure ou les lignes de fractures sont de plus en plus illisibles, il est bon de rappeler que la seule chance de survie des peuples  Européens survivent est de sortir de l'ornière atlantiste suicidaire et de développer une collaboration poussée et intégré avec la fédération de Russie, afin que ce binôme "Euro-Russe" contribue à maintenir la paix sur le Heartland, au sein de ce nouveau monde multipolaire et polycentrique.

Dans un monde polycentrique et multipolaire, l’unite Européene est inévitable
Loin de l'idéalisme politique de comptoir, la réalité du monde de demain passe par l'économie et la démographie. La baisse d'influence de l'Amérique se traduit également par une augmentation de l'influence de nombres d'autres acteurs (BRIIC, monde arabo-musulman riche en énergie et en capital humain ..).  La population de la planète atteint aujourd'hui 6,5 milliards d'habitants et devrait dépasser les 9 milliards en 2050. L'europe, qui compte aujourd'hui 728 millions d'habitants (dont 1/3 hors de l'UE) devrait voir 
sa population tomber à entre 564 millions et 632 millions d'habitants, soit représenter entre 7 et 8% de la population mondiale et moins de 20% du PIB soit à peu près autant que la Chine seule (!). La France pour prendre un exemple devrait compter elle 70 millions d'habitants en 2050, soit 0,8% de la population mondiale, un habitant sur trois ayant plus de 60 ans (!) et la moitié la plus jeune de sa population étant à cet moment la d’origine extra-européene, principalement Afro-maghrébine.

Dans ce contexte, et malgré les discours percutants de personnalités crédibles et intéressantes (nicolas dupont aignant, paul marie couteaux ou jean pierre Chevènement pour ne citer qu’eux) la sortie de l’UE et le retour au « souverainisme » national est probablement la dernière des solutions à envisager. L’UE est certes imparfaite à 99% mais elle est imparfaite en ce qu’elle est dirigée par Bruxelles, qui est une officine du « parti américain » qui traite l’Europe en colonie américaine.
Pire les Américains (qui souhaitent avant tout maintenir leur position dominante et défendre leurs interets) ne souhaitent pas une Europe unie et puissante, apte à ne pas les suivre dans leurs offensives militaires illégales ou même à s’y opposer, diplomatiquement, voir militairement. C’est la raison pour laquelle les Américains font « tout » pour rentrer leur cheval de troie (Turque) dans l’Europe, afin d’y semer la discorde et de déstabiliser un ensemble homogène en création. N’oublions pas enfin que la Turquie, seconde armée de l’OTAN, est avec Israêl le pion de l’Amérique au proche orient, et que celle-ci occupe militairement l’Europe (Chypre).

C’est la raison pour laquelle les Américains ont tout fait pour dissuader De Gaulle d’obtenir l’indépendance nucléaire et de sortir du commandement intégré de l’OTAN. Parcequ’une France indépendante, prélude à une Europe indépendante pouvait entraîner la pire des situations envisageables pour les stratèges US, perdre l’avantage pris à la fin de la guerre (l’occupation de l’europe de l’ouest) et donc la main mise sur la façade « ouest » du heartland.

C’est également la raison pour laquelle certains stratèges du « parti américain » en Europe ont parfaitement compris l’interet a appuyer les « refus » de l’UE en soutenant des partis « anti UE » et Europhobes comme ce fus ouvertement le cas en Irlande avec le candidat Libertas par exemple. Plus récemment, le Bruxellophobe Philippe de Villiers a lui aussi rejoint le parti Atlantiste de Nicolas Sarkosy, l’UMP, pourtant ouvertement Europhile et après que celui ci ai fait rejoindre à la France le commandement intégré de l’OTAN.

La perte de souveraineté des pays Européens est un processus qui a traversé deux stades principaux.
* Le premier est celui de la fin des empires, issu du traité de westphalie et qui prône l’identité nationale (l’état nation) comme identité première. Cette ‘nationisation’ des identités Européennes a crée les conditions de la guerre de 30 ans qui a ravagé notre continent dans la première moitié du 20ième siècle. Curieux hasard, le traité de westphalie mettait lui également fin à une guerre civile européenne de 30 ans.
* Le second stade est celui de la régio-fragmentation. Ce processus que l’on nous affirme comme éminemment politico-progressiste (les régions seraient le stade ultime de l’intégration politique européenne) est en fait le résultat d’un processus politique extérieur volontaire afin d’affaiblir l’Europe en la morcelant en entité qui de par leur petite taille n’ont plus aucune autonomie économique ni de souveraineté militaire. Cela a été particulièrement le cas pour l’est de l’Europe comme en Tchécoslovaquie, en Yougoslavie ou en URSS, pour des raisons évidentes : ces nations ne « baignant » dans le bain Occidental que depuis peu elles étaient suspectes de réticence à l’alignement euro-atlantique.
Quoi alors de plus étonnant que les partis Européens les plus éminemment régionalistes soient les partis les plus européistes et les actifs en faveur de l’extension de l’OTAN et de l’intégration euro-atlantique. Ces mêmes « lignes » politiques sont partagées par les commissaires de Bruxelles, agents zélés des intérêts Américains en Europe.
Evidemment cette Europe de Bruxelles est évidemment l’inverse de l’Europe puissante et indépendante que nous voulons. L’union Européenne charnelle et réelle (et non légale) est néanmoins le seul objectif à défendre pour que les Européens maîtrisent leur destin et redeviennent acteur et non seulement spectateurs. Hors le monde de demain ne sera probablement pas un monde plus « ouvert » que celui que nous connaissons, ce sera plausiblement un monde d’affrontements, de conflits de blocs, de territoires, de zones et de civilisations. Dans ce monde de tension croissante, la clef pour l’Europe est de se doter d’une structure de défense qui lui appartienne et lui permette de protéger ses intérêts et ses citoyens. En ce sens, les propositions du président Medvedev sur la nécessité de créer une structure de sécurité Pan-Européenne (remplaçant l’OTAN) sont un défi réellement intéressant pour l’Europe.

Dans un monde polycentrique et multipolaire, sortir de l’OTAN et créer une défense continentale non atlantique.
L’OTAN est une alliance militaire constituée en 1949 pour faire face à l’URSS mais aussi au risque futur d’une nouvelle situation pour l’Europe comme celle-ci avait connu avec l’Allemagne. Rapidement, cette alliance sous la coupe des anglo saxons entraîna la constitution d’une alliance concurrente dans l’autre bloc (soviétique) en 1955 : « le pacte de Varsovie ». Cette double alliance scinda le monde en deux blocs rivaux jusqu’en 1958, lorsque la France de De Gaulle décida de quitter le bloc anglo-saxon et de développer son propre programme nucléaire. En 1966, la France quitte le commandement de l’OTAN, et le siège de l’OTAN est déplacé de Paris à Bruxelles, ce qui est toujours le cas aujourd’hui, Bruxelles hébergeant donc et les institutions Européennes, et celles de l’OTAN. Retour dans le giron moins de 30 ans plus tard puisqu’en 1995, le président Français Chirac entama les négociations de retour au sein du commandement intégré de l’OTAN, retour avalisé et effectué par le président Nicolas Sarkosy le 17 mars 2009.

Il convient dès lors de se demander quelles sont les raisons de ce retour de la France en tant qu’acteur essentiel au sein de l’OTAN. Celle-ci n’a en effet aujourd’hui que deux fonctions principales, qui sont les deux dans le pur intérêt de l’Amérique mais vont toalement à l’encontre des intérêts Européens.
Tout d’abord elle est devenue une arme de conquête du heartland Eurasien par l’Amérique et en ce sens, son extension à l’est, vers les frontières de la Russie, passe par l’adhésion de nations nouvelles (nouvelle Europe) pour des motifs erronés, qui sont la crainte historique d’un impérialisme Russe qui n’existe pas mais que les stratèges américains entretiennent parfaitement.

Sous couvert d’entrée dans le  « partenariat euro-atlantique », l’OTAN s’installe directement dans le cœur de l’Europe afin de pousser la Russie dans ses retranchements orientaux et de diviser une nouvelle fois l’Europe en installant ses bases militaires devant la frontière Russe. C’est le but réel de la campagne de Serbie (la Serbie étant un pion Russe dans la logique du Pentagone) avec la base bondsteel mais également de la révolution orchestrée en Ukraine, le but étant d’installer une base Américaine en crimée, en lieu et place de la base Russe actuelle.
Depuis le 11/09/2001 également, l’OTAN s’est transformée en « armée » de croisés au yeux du monde musulman, les mêmes stratèges tentant de nous persuader que l’OTAN est un rempart contre l’islamisme agressif et terroriste. Pourtant nul besoin d’être savant pour comprendre que la campagne d’Irak et celle d’Afghanistan, si elles devaient être gagnées (ce qui ne sera vraisemblablement pas le cas) ne vaincraient pas le « terrorisme Islamique ». L’Islamisme est aujourd’hui utilisé comme bouclier et paravent pour justifier des objectifs géopolitiques bien antérieurs. Ne suspecte t’on pas que l’attaque de l’Afghanistan ait été justifié par le 11/09 mais planifiée bien avant et que son but réel soit l’implantation de troupes US au cœur de l’Eurasie ? Peut on sans rire croire que l’Irak baathiste de saddam hussein ai été un des vecteurs du terrorisme islamique mondial, ou plutôt visée pour ses puits de pétrole ?

Les guerres de domination de l’empire Américain sont des guerres pour la maîtrise des ressources naturelles, qui sont concentrées (hormis en Arctique) entre la péninsule Arabe, l’Irak, l’Iran, le golfe Persique, le sud Russie (caucase) et l’Afghanistan.  Hors ces conflits énergétiques déclenchés sur des faux motifs ne sont pas ceux de l’Europe. Pire ils sont susceptibles d’entrainer l’europe dans des tensions ethniquo-religieuses sur « son » territoire. La désintégration de la Yougoslavie nous a montré à quel point une structure de sécurité était essentielle pour maintenir son harmonie et faire face aux déstabilisations de l’extérieur.

L’affaire récente du Kosovo a parfaitement démontré à quel point l’europe sert de tête de pont aux américains pour « attaquer » et « conquérir » l’Eurasie, et donc la Russie tout en créant des tensions entre peuples Européens et surtout avec la Russie, à qui « l’avertissement » Serbe était adressé. Point d’orgue de cette politique de conquête, le vote du Silk road strategy Act par le congrès US en 1999 destiné à « favoriser l’indépendance des pays du Caucase et d’Asie centrale et à créer un  pont terrestre détournant le commerce de ces pays avec l’ouest (qui passe actuellement par le territoire russe) vers le trajet de l’antique Route de la Soie aboutissant aux ports turcs, donc à un pays de l’OTAN. L’oléoduc BTC qui passe par la Georgie s’inscrit dans cette stratégie et explique en partie le développement de l’assistance militaire à la Géorgie depuis l’arrivée au pouvoir de Mikhaïl Saakachvili.

Dans un monde polycentrique et multipolaire, éviter la désintégration continentale.
Toujours en 1999, malgré l’attaque de la Serbie, et après 10 ans d’effondrement total, la prise de pouvoir de Vladimir Poutine va redresser la Russie et replacer celle ci sur le devant de la scène politique mondiale. L’Europe ayant basculé vers l’OTAN (participation des nations européennes à l’agression contre la Serbie), la Russie, la Chine et les nations musulmanes d’Asie centrale créent en 2001 
l’Organisation de Shanghai ainsi que l’OSTC en 2002. Ces alliances militaires eurasiatique et inter-religieuses ayant pour but de répondre au double encerclement Russe et Chinois par l’armée Américaine et à défendre le pré-carré régional eurasiatique.  Comme le disait Zbigniew Brezinski : « La stratégie eurasiatique des Etats Unis a suscité en réaction un rapprochement entre la Russie et la Chine. Les deux puissances continentales sont en train de construire une véritable alliance militaire face à la coalition anglo-saxonne et à ses alliés. » 

Cette offensive Américaine vers l’est (de Berlin à Kiev) s’est matérialisée en deux étapes essentielles, de 1996 à 2009.
* En 1996 est créé l'organisation GUUAM qui regroupe Géorgie, Uzbékistan , Ukraine, Azerbaïdjan et Moldavie. Ces nations désirent à l’époque « sortir » du Giron post soviétique après la chute du mur et dans un contexte d’effondrement de l’état Russe. Il n’est pas surprenant que ces nations aient des positions géographiques 
stratégiques et par conséquent aient été victimes des révolutions de couleur financées par les ONG proches de la CIA (révolution orange, des tulipes, des roses et récemment en Moldavie après les élections) ainsi que des changements de régimes pro Occidentaux liés. Symbole de la « couleur » de cette association, les membres observateurs sont la Turquie et la Lettonie (!). Néanmoins ces régimes renversés n’ont pas obtenu les résultats escomptés par leur supporters (intégration dans l’OTAN et l’UE, amélioration du niveau de vie ..) mais au contraire ont entrainé une dégradation de la situation économique et aucune intégration dans le système euro-atlantique. C’est la raison pour laquelle le départ de l’Ouzbékistan en 2005 et l’absence de réalisation concrète de l’organisation l’ont mise en sommeil politique et qu’en mai 2006, le politologue azerbaïdjanais Zardust Alizadé exprimait encore ses doutes quant aux « perspectives de développement de l'alliance, et l'obtention de résultats pratiques ».

* Aujourd’hui, la seconde étape se matérialise agressivement via l’apparition d’un nouveau front, que l’on peut appeler le GUA (Georgie, Ukraine, Arctique).
En Géorgie : l’incapacité politique du président a incité les stratèges Américains à lancer une opération militaire en août 2008, celle-ci ayant néanmoins échoué puisque l’armée Russe a répondu avec force et a « libéré » les territoires d’Ossétie et d’Abkazie. Ce conflit est le premier conflit de la Russie avec l’Amérique hors des frontières Russes (la précédente étant la déstabilisation Wahabitte en Tchétchénie, fomentée en grande partie par la CIA).
En Ukraine les récents conflits gaziers témoignent des tensions grandissantes et un observateur éclairé jugeait récemment que « un conflit limité, sous le prétexte d'un litige territorial, devrait éclater entraînant une rupture des fournitures de gaz pour une période plus ou moins lingue, les crises gazières sont provoquées afin d'entraîner les consommateurs européens à une telle coupure ».

L’arctique nécessitant un développement propre, j’incite mes lecteurs à lire mes précédents articles à ce sujet (ici et la) et à consulter le blog de « 
zebrastationpolaire » à ce sujet.

Ces manœuvres d’encerclement, d’endiguement et de déstabilisation ont divers objectifs :
-  Contrôler les pourtours des mers noire, caspienne et baltique, zone  essentielles et de transit entre l’orient et l’occident.
- Maîtriser les futurs corridors énergétiques, notamment via un projet de construction d’oléo- et gazoducs contournant la Russie mais reliant les régions de la Caspienne, de la mer Noire et de la Mer Baltique.
- Etendre l’influence de l’OTAN le plus à l’est, au cœur de l’Eurasie afin de réduire la sphère d’influence de la Russie (sur son étranger proche) mais surtout en Europe et empêcher un éventuel développement de l’influence Chinoise vers l’asie centrale
Évidemment un lecteur non averti me dira que les russes et les américains n’ont cessé de s’affronter depuis 1945 et que globalement, ce n’est pas l’affaire de l’Europe et des Européens. Hors c’est précisément l’inverse…

Dans un monde polycentrique et multipolaire, l’alliance Euro-Russe, clef de voute de la paix sur le continent.
Les conséquences sus cités sont absolument dramatiques pour l’Europe. Elles ont pour conséquences de nous couper de la Russie sur un plan civilisationnel, géopolitique, politique et énergétique ou encore de créer un nouveau mur en Europe, non plus à berlin mais au cœur de l’Ukraine, en séparant l’Ouest (ensemble sous influence Américaine) de l’Est (ensemble sous influence Russe). Plus prosaiquement, cette ligne de fracture coupe « presque » l’Europe orthodoxe de l’europe catholico-protestante, reprenant la vision des civilisations séparées de S. Hungtinton dans son ouvrage « le choc des civilisations ». Enfin il est à noter que la Chine, acteur géopolitique et économique majeur, juge probablement l’Europe (via l’OTAN) co-responsable de la situation d’encerclement total qu’elle subit, que ce soit à l’ouest (
ring centro-asiatique) et à l’est (dans le pacifique devant ses côtes). Cette rupture avec deux acteurs essentiels que sont la Russie (le pays le plus grand du monde) et la Chine (le pays le plus peuple du monde) sont doublement graves. En cas de tension croissante entre l’OTAN et l’OCS, la France et les pays d’Europe Occidentale seraient en conflit avec une organisation qui regroupe presque un homme sur trois dans le monde, couvret 32,3 millions de km² et comprend au niveau des ressources énergétiques 20 % des ressources mondiales de pétrole, 38 % du gaz naturel, 40 % du charbon, et 50 % de l'uranium.

Cette stratégie de séparation de la Russie et de l’Europe de l’ouest et du centre a en outre comme conséquence de « limiter » l’Europe dans un micro territoire encastré à l’ouest du continent et de la couper des possibilitées immenses que lui offriraient un partenariat avec la Russie.

·         L’Europe à besoin de la Russie au niveau énergétique car la Russie dispose des réserves de gaz et de pétrole dont l’Europe à besoin. La Russie est un fournisseur stable comme le prouve sa relation avec la Turquie qui ne souffre elle d’aucun problème d’approvisionnement (il faut rappeller que les coupures d’approvisionnement lors de la guerre du gaz avec l’Ukraine étaient dus à cette dernière mais que les « médias » ont curieusement désignés la Russie comme coupable). La  question énergétique est essentielle car l’Europe sous commandement Américain se voit proposer des alternatives à hauts risques, comme celui de remplacer la Russie par la Turquie (pays de l’otan candidat à l’UE !) comme fournisseur énergétique (Nabucco au lieu de south stream) ou encore de participer à des conflits pour l’énergie (Irak) dont elle pourrait se passer.

·         L’Europe a besoin du fabuleux potentiel que représente la Russie, tant le potentiel humain avec ses 140 millions d’habitants, que géographique avec ses 17 millions de Km² et le débouché sur le pacifique. Elle deviendrait ainsi un acteur de premier plan notamment avec le monde asiatique, qui en en plein développement.

·         La Russie à également besoin de l’Europe et des Européens, tant pour l’acheminement de ses matières premières que pour ses technologies ou son capital humain, qu’elle pourrait utiliser afin de combler le dépeuplement à l’est de l’oural. Enfin et surtout, elle a besoin de l’Europe comme d’un allié naturel, complémentaire car issu de la même civilisation.

En effet cette unité Euro-Russe (seule garante de paix et d'indépendance pour les peuples du continent) n'est pas seulement vitale, elle est souhaitable car les Européens d'Occident ou de Russie appartiennent avant tout à la même civilisation.

Comme le disait récemment Natalia Narotchnitskaïa lors d’un colloque à Paris : « La vraie coopération entre la Russie et l’Europe pourrait cependant donner un nouvel élan à notre continent à l’aube du troisième millénaire. Les grandes cultures romano-germanique et russe-orthodoxe partagent un seul et même fondement apostolique, chrétien et spirituel. Les Européens, qu’ils soient Occidentaux ou Russes, ont donné au monde les plus grands exemples de la spiritualité latine et orthodoxe ».

Voilà pourquoi l’avenir de l’Europe, c'est la Russie.

jeudi, 01 octobre 2009

La conexion de las cuencas hidrograficas de Suramérica

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La conexión de las cuencas hidrográficas de Suramérica

 

 

 

Alberto Buela (*)

 

La navegación fluvial del Plata al Guaria es el eje más genuino de la integración suramericana el resto sono parole.

 

Sostiene muy bien el geopolitólogo belga Robert Steuckers que “ningún poder serio puede sobrevivir sin una dominación y una sujeción de la tierra y del espacio”.[1]  Todos los imperios antiguos organizaron la tierra mediante la construcción de carreteras como en el caso de Roma o mediante el control de los grandes ríos navegables como Egipto o China.

 

Si nosotros en Suramérica pretendemos constituir un gran espacio autocentrado con características de soberano y libre, debemos llevarnos de este consejo que nos viene dado por la historia.

 

Este subcontinente americano tiene una extensión de casi 18 millones de kilómetros cuadrados, el doble de los Estados Unidos así como el doble de Europa, posee, aparte de otras menores, tres grandes cuencas fluviales: la del río Amazonas (6.430.000 km.2), la del río de la Plata (4.000.000 km.2) y la del río Orinoco (1 millón km.2), que cubren dos tercios de su territorio y que forman una nutrida red de 50.000 km de vías navegables de grandes y pequeños cursos de agua que se extienden por toda América del Sur.

 

Así pues el tema de la vinculación por vía fluvial desde el Plata en Argentina-Uruguay al Guaria en Venezuela es un asunto de crucial valoración geopolítica y estratégica. Hablando con propiedad es un tema de metapolítica, por ser esta la interdisciplina que estudia las grandes categorías que condicionan la acción política.

 

Antecedentes históricos

 

El estudio del tema se viene arrastrando desde hace varios siglos y hasta ahora no ha pasado de buenas intenciones.

 

El primer antecedente que encontramos es en 1773 cuando el gobernador del Matto Grosso, Luiz de Cáceres, pensó construir un canal entre los ríos Alegre, afluente del Guaporé de la cuenca amazónica y el Aguapey, afluente del Paraguay de la cuenca del Plata. En esa estela sigue el Barón de Melgaço en 1851.

 

El primer estudio experimental lo encontramos en el geógrafo inglés  William Chandless: Resumo do intinerario da descida do Topajoz en octubre de 1854, (Notas, Río de Janeiro 1868) donde va a mostrar que en el descenso del río Topajoz viajando desde su desembocadura en el Amazonas se puede navegar hasta el Juruena que termina vinculado en las nacientes del Guaporé. Se busca el acceso al Amazonas por el este pero sin resolver el tema de la vinculación de las dos cuencas. Este trabajo es profundizado en Brasil por los ingenieros José de Moraes en 1869 con su “Plan Moraes” de navegación del Plata al Orinoco y luego por el ingeniero Andre Rebousas en 1874. Es de destacar que los estudios brasileños sobre la interconexión de las tres cuencas son de una precisión y detalle exquisitos y además son muchos trabajos, pero ninguno, absolutamente ninguno provocó ni un solo movimiento de tierra. Esta es la queja del gran estudioso brasileño del tema en el siglo XX don Paulo Mendes da Rocha.

 

El otro antecedente ilustre es el de presidente Sarmiento que hizo estudiar a un grupo de científicos franceses la posibilidad navegar sin interrupción desde la desembocadura del Río de la Plata hasta la del Orinoco. Algo que había ya expuesto en 1850 en su libro Argirópolis o la capital de los Estados Confederados del Río de la Plata, cuyo emplazamiento estaría en la Isla Martín García en el estuario del río de la Plata.

 

 

Cincuenta años después, en 1909, el geógrafo uruguayo Luis Cincineto Bollo en su libro Suramérica, pasado y presente afirma que “la futura gran ruta comercial de Sud América es el canal”  y propone seguir la tesis de Chandless de unir la cuenca del Plata con la del Amazonas por el Topajoz y no por el Guaporé-Madeira.

 

En 1916 aparece la Carta potomografica especial de America do Sul  Francisco Jaguaribe de Matos, padre del gran sociólogo brasileño Helio Jaguaribe, quien indica las claras posibilidades de conexión entre los ríos Guaporé y Paraguay.

 

Años después, en 1941, La Conferencia regional de los países del Plata reunida en Montevideo recomendó, a propuesta de Argentina, a los Estados miembros continuar los estudios existentes sobre conexión de los tres grandes sistemas hidrográficos de América del Sur.

 

Un año más tarde el ingeniero Ernesto Baldasarri dicta una conferencia titulada La vinculación de las cuencas del Amazonas y del Plata [2] donde expone que la vinculación entre las dos cuencas se puede realizar por dos caminos: por el este siguiendo los ríos Amazonas, Tapajoz, Juruena, Diamantino, Paraguay, Paraná, el Plata con un recorrido de 7.000 kms Y el otro por los ríos Amazonas, Madeira, Mamoré, Guaporé, Alegre, Aguapey, Jaurú, Paraguay, Paraná, el Plata con 8.500 kms de recorrido.

 

En 1947 aparece un trabajo liminar por su detalle técnico y precisión conceptual el del geógrafo Horacio Gallart Cruzando la América del sur desde el río de la Plata hasta el Orinoco, por vía fluvial [3] y el mapa de la ruta fluvial suramericana propone es por los ríos Paraná, Paraguay, Jaurú, Aguapey (cuenca del Plata), Alegre, Guaporé, Mamoré, Madeira, Amazonas, Negro (cuenca del Amazonas), Casiquiare y Orinoco.

 

Y en 1962 se publica el trabajo del ingeniero Gabriel del Mazo, historiador del radicalismo, legislador y publicista; ministro de defensa 58/59 titulado: Proyecto de un canal sudamericano [4]  en donde  se ocupa de analizar la vinculación entre las tres cuencas estableciendo que con la construcción de un canal intermedio de 30 km (entre las nacientes de los ríos Casiquiare y Negro) se salva la dificultad para vincular el Orinoco con el Amazonas y quedarían así vinculados y para conectar el Guaporé con el Paraguay, se deberá construir un canal de 8 km. con una diferencia de altitud de 30 metros, insignificante desnivel que divide las aguas de las dos más grandes cuencas hidrográficas de América del Sur: la del Amazonas y del Plata.

 

Entre diciembre de 1979 y mayo de 1980  hermanos Georgescu, venezolanos de origen rumano, navegaron los ríos Orinoco, Casiquiare, Negro, Amazonas, Madeira, Mamoré, Guaporé, Paraguay, Paraná y de la Plata, hasta la ciudad de Buenos Aires, cumpliendo una travesía de más de 8.000 km. Con ello demostraron prácticamente la existencia del eje fluvial norte - sur que permite la comunicación de las principales cuencas y las posibilidades que tienen los países de América del Sur de conectarse. El regreso por la misma vía se inició el 18 de enero de 1981.

 

Dificultades geográficas

 

Sabemos luego de los trabajos del ingeniero Ernesto Baldasarri que existen dos rutas para vincular el Amazonas y el Plata.

 

La vía más frecuentada hasta el presente es aquella que recorrieron Roger Courteville [5] en los años 30 y los hermanos Georgescu a principio de los 80. La misma que recomendó el geógrafo Horacio Gallart y el ingeniero Gabriel del Mazo, la que va del Plata al Amazonas volcada al oeste por el Guaporé-Madeira.

 

Existen acá dos dificultades muy simples de salvar. Navegando de sur a norte nos encontramos, en primer lugar, con la necesidad de la construcción de un canal de 8 km que una los ríos Aguapey y Alegre que corren largo trecho en paralelo. El primero afluente del Jaurú que lo es a su vez del Paraguay y el segundo del Guaporé.

La segunda dificultad la plantean las cachoeiras, cachuelas o pequeños saltos de agua sobre el río Madeira que surgen entre Guajará-Mirim y Porto Velho que en su conjunto significan un descenso de 66 metros de las aguas del río, lo que exige la construcción de un sistema de represas, hoy con la tecnología existente de fácil y rápida realización.[6]

 

Finalmente la vinculación entre el Amazonas y el Orinoco no ofrece mayores dificultades salvo los rápidos o raudales Atures y Maypures del Casiquiare cuya navegación se hace en base a baqueanos o prácticos conocedores de toda la red de ríos adyacentes como lo atestiguan los hermanos Georgescu que lo navegaron de ida y de vuelta sin inconvenientes.[7]

 

La segunda vía es la propuesta por Cincineto Bollo que navegando de sur a norte va del Paraguay, al Diamantino, Juruena, Tapajoz para desembocar en el Amazonas. Parte de este largo viaje fue relatado magníficamente por el fotógrafo francés naturalizado brasileño Hécules Florence (1804-1879) en su libro Vingem fluvial: Do Tieté do Amazonas.

 

Afirma Gabriel del Mazo que: A solo dos kilómetros al este de las fuentes del Paraguay nace el río Negro (Preto) afluente occidental del Arinos (Tapajoz). En esta zona donde laten y brotan las fuentes del Amazonas y del Plata existe el relato del dueño de una fazenda del Estivado (río afluente del Arinos) quien afirma que eventualmente unió el Amazonas y el Plata pues “se propuso regar su jardín” y cavó un canal entre dos de sus afluentes originarios”. [8]

Vemos como esta vía no ofrece mayores dificultades geográficas por superar.

 

Dificultades políticas

 

La demora inconcebible luego de tres siglos de propuesta de un canal suramericano no encuentra otra explicación que las dificultades políticas que se han opuesto a su realización. Es  sabido luego de una larga historia de desencuentros que las estrategias de Argentina y Venezuela chocan con la del Brasil en este punto.

 

Brasil desalienta la navegación del Plata al Amazonas porque ello supone abrirle el acceso de la Amazonia a la Argentina.  Además de las dos vías se encuentra descartada la propuesta por el geógrafo uruguayo Bollo, aquella que va a través del Tapajoz pues ello implica penetrar en el corazón mismo del Brasil. Esta es una dificultad política insalvable y entendible. Una potencia emergente como Brasil no puede permitir que barcos de Venezuela y Argentina transiten libremente por el centro estratégico de su territorio.

 

Descartada esta posibilidad solo queda la vía del oeste que navega por ríos limítrofes del Brasil con Paraguay y con Bolivia, pero la resistencia también se siente. Pues la estrategia de Brasil como la de los Estados Unidos es salir al oeste y no extenderse de norte a sur, y el canal suramericano se inscribe en esta última estrategia. Brasil no tiene necesidad de navegar el Casiquiare para llegar al Guaira ni tiene necesidad de navegar el Guaporé para llegar al Plata. La Superintendencia de Navegación interior del Brasil muestra oficialmente que la estrategia del país lusitano es buscar la integración del Brasil por separado  con Perú y Bolivia por un lado, con Argentina, Paraguay y Uruguay por otro, con Ecuador, Colombia y Venezuela por otro. Esto hay que tenerlo en cuenta porque sino corremos el riesgo de caer en un utopismo voluntarista que solo nos lleva a producir ensayos sobre el tema. Hay que decirlo con todas las letras, la necesidad es de Argentina, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perú y Bolivia que podrían sacar sus productos en grandes cantidades, en forma económica y no contaminante.

 

La realización de este canal suramericano supone, antes que nada, persuadir y convencer a la intelligensia  brasileña de Itamaraty de las ventajas que su realización puede acarrearle al Brasil [9], de lo contrario seguiremos escribiendo ensayos sobre la conexión de las tres cuencas de América del Sur y leyendo amables diarios de viajes de los impenitentes viajeros europeos.[10]

 

(*) CeeS- Centro de estudios estratégicos suramericanos- UTN- Federación del Papel

 

alberto.buela@gmail.com



[1] Entrevista de Metamedia publicada en Geosur Nº 352-352, Montevideo, sep-oct 2009, p.16

[2] Publicada en la revista Ingeniería, publicación del Centro Argentino de Ingenieros, Buenos Aires, mayo de 1942 pp.285 a 293

[3] En Revista de Geografía Americana, año XV, Buenos Aires, octubre de 1947

[4] Publicado, entre otros, en revista Estrategia Nº 61/62, Buenos Aires, enero-feb. 1980 pp. 30 a 39

5 De Buenos Aires a l`Amazona par le centre de l´Amerique du Sud, revista “L´Ilustration”, Paris Nº 20, sep. 1930

6 Sobre este tramo de la navegación es irremplazable el trabajo de Monseñor Federico Lunardi:  De Guajará-Mirim a Porto Velho en Revista de Geografía Americana N° 64, enero 1939

[7] Los ríos de la integración suramericana, Universidad Simón Bolivar, Caracas, 1984

[8] Del Mazo, Gabriel: op.cit. p.34

[9] Por ejemplo, se podría argumentar que si la Hidrovía Paraguay-Paraná conectara efectivamente Puerto Cáceres en Mato Grosso, con el de Nueva Palmira en Uruguay, la soja brasileña y paraguaya podría desembarcar en el exterior U$S 25 más barata, por tonelada, que la soja de EE.UU.. De igual forma, si la Hidrovía careciera de los obstáculos de dragado y balizamiento que hoy tiene, lo que actualmente se transporta en treinta días podría llegar a transportarse en un máximo de diez días.

[10] Existe en italiano un viejo trabajo Giuseppe Puglisi: Dal Plata al Orinoco per via fluviale, publicado en la revista "Le Vie d'Italia e del Mondo" (año I, Nos. 11 y 12), noviembre y diciembre de 1933.

 

mercredi, 30 septembre 2009

Les arguments rationnels ne manquent pas - Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

Les arguments rationnels ne manquent pas

Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

090925

Ex: http://www.insolent.fr/
Je boucle aujourd'hui le dossier consacré à la question turque, mon petit livre paraissant la semaine prochaine, un peu plus lourd que prévu (1).

Au moment où j'écris, en vue de conclure, d'importantes transformations agitent le débat politique en Turquie même, sans que les Européens semblent en recevoir l'information. Il s'agira probablement d'évolutions en partie réelles. Le parti actuellement majoritaire AKP, et les forces confrériques qu'il représente, poussent leurs pions pour des raisons essentiellement nationales. Mais le courant de réforme a explicitement été développé fin juin en fonction de la candidature à l'Union européenne, en vue de la rendre présentable. Cela a été répété par le premier ministre Erdogan et par le président de la république Abdullah Gül.

On a ainsi assisté à une offensive diplomatique en direction des Arméniens, en leur promettant à terme la réouverture d'une frontière dont le blocage enclave complètement leur pays. On a vaguement ouvert la porte à une normalisation du statut de minorités religieuses. Or ces dernières se trouvent numériquement si affaiblies qu'on se demande désormais quelle menace elles pourraient bien représenter encore pour l'ombrageux jacobinisme turc. On prend ainsi en otage leurs représentants afin d'en faire des agents de la diplomatie turque, dans la tradition des pays totalitaires.

La plus importante avancée serait proposée aux Kurdes. Or, après que le chef du gouvernement ait reçu certains dirigeants de leur contestation, une passe d'armes considérable aura opposé entre le 25 août et le 22 septembre, les dirigeants politiques et le chef d'État-Major des forces armées turques, le général Basbug. Celui-ci avait déclaré en août que l'armée ne pourrait accepter et que par conséquent elle s'opposerait à tout plan violant l'article 3 de la constitution lequel dispose 1° que la Turquie est un État unitaire et indivisible, et 2° que sa langue est le turc. Les opposants kémalistes et nationalistes faisaient chorus et criaient à la trahison gouvernementale. On ne pouvait menacer plus nettement d'une hypothèse de putsch récurrente dans la vie politique de ce pays depuis qu'en 1946 il a adopté le pluralisme démocratique.

En moins d'un mois, et malgré le ramadan, le chef du gouvernement et du parti AKP est intervenu à la télévision pour démentir toute rumeur de réforme vraiment radicale, et enfin le 22 septembre à Mardin le général Basbug pouvait déclarer désormais qu'il avait obtenu satisfaction, et qu'il ne fallait plus s'inquiéter. Il ne fallait même plus que les officiers regardent les fausses nouvelles déprimantes annoncées par les chaînes de télévision de leur beau pays. Aucune vraie concession linguistique ou institutionnelle ne sera faite aux Kurdes. L'armée n'a même pas eu besoin de faire la démarche de l'hiver 1996-1997, où elle avait forcé le gouvernement à la démission. Elle pense avoir obtenu gain de cause en se contentant de froncer les sourcils à la fin de l'été.

Toute cette affaire était donc destinée à ménager les apparences auprès des interlocuteurs de Bruxelles, aux gens si représentatifs comme Emma Bonino, Michel Rocard et autres directeurs de conscience qui relayent la propagande de nos chers amis. Les réformes promises demeureront cosmétiques ou elles ne verront même pas le jour. Mais cela suffira à quelques médiats européens de saluer de nouveaux "espoirs", d'hypothétiques "accords en vue", de prétendus "progrès dans la négociation" aussi fallacieux que par le passé.

Et, à vrai dire, quand on s'efforce, depuis des années, de suivre l'avancée de la candidature d'Ankara auprès de l'Europe institutionnelle, on éprouve une véritable difficulté s'agissant de comprendre la logique de ceux qui s'y acharnent. Ils peuvent appeler cette carpe lapin, ils ne parviennent pas à faire courir devant nos yeux ce malheureux poisson, et cela dure depuis 20 ans. À force de mentir cependant ils finissent petit à petit par persuader à la partie bienveillante de l'opinion qu'il courra. Bientôt on pariera sur sa victoire.

Turgut Özal a déposé son dossier en 1987 près d'un quart de siècle après le premier accord d'association commerciale de 1963. À cette époque, premier ministre désigné par une dictature il rassurait les milieux d'affaires, et il mettait en place la transition vers un régime civil conforme aux desiderata du coup d'État militaire de septembre 1980. Le général Evren dirigeait le pays en qualité de président de la république désigné par l'Etat-Major de l'armée. Il s'agissait de normaliser l'apparence de la vie politique mais également l'image internationale du pays. À cette candidature pratiquement personne, en Europe, ne pouvait croire vraiment. On s'interrogeait alors à Bruxelles : « comment éluder sans vexer ». Il initiait cette demande alors que la commission Delors s'employait à franchir une première étape en direction de la construction politique, prolongeant la communauté économique des premiers traités. Cette évolution allait donner naissance à l'Union européenne scellée en 1991 à Maastricht. Or à l'époque la Turquie briguait le 13e siège d'une communauté ne comptant encore que 12 membres. Aujourd'hui nous avons atteint le nombre de 27 nations. D'autres nouvelles adhésions se profilent (Croatie, Islande par exemple) plus vraisemblables, plus mûres que celle de ce pilier de l'OTAN.

À vrai dire, survolant les problèmes, le Département d'État de Washington semble la seule bureaucratie qui ait toujours cru, ou fait semblant de croire, à l'appartenance européenne de ce pays. Et comme cela n'a jamais rien coûté aux présidents américains, ils réitèrent régulièrement, quand ils rencontrent leurs homologues turcs, l'expression conventionnelle de leur opinion favorable, à la grande satisfaction des médiats d'Istanbul. Surestimer cependant le poids de telles déclarations diplomatiques tendrait à masquer les responsabilités de la sottise européenne.

Car, en même temps, subrepticement, dans les coulisses bruxelloises, le dossier technique continue d'avancer. Certes il suit un rythme de tortue. Certes il fait bon marché de toute vraisemblance. Certes il chemine dans la plus totale opacité. Certes en 2007 un candidat à la présidence de la république française a pu se faire élire en promettant de s'opposer à cette avancée turque. Pourtant en 2008, une réforme constitutionnelle fourre-tout, votée à Versailles, a permis de supprimer sans que les citoyens n'y prennent garde les dispositions introduites par l'éphémère article 88-5. Celui-ci avait été présenté comme la garantie suprême contre toute hypothèse d'un élargissement non voulu. Selon cet ancien additif à la constitution de 1958, tout traité de cette nature devait être soumis à un référendum de ratification par les Français. Mais hélas rien ne garantissait cette garantie. On la fit passer à la trappe un an après la victoire électorale.

Parallèlement encore, l'un après l'autre s'ouvrent des "chapitres" de négociations comme une tablette de chocolat, grignotée carré par carré, avant de disparaître : 35 chapitres, puis la ratification. Quand donc a-t-on vu une chose aussi extraordinaire qu'un dernier morceau de chocolat, le 36e, demeurer stoïquement et chastement, immangé, esseulé, dans son écrin de papier argenté, après que ses 35 confrères aient disparu ?

On va donc chercher à forcer la résistance naturelle des systèmes de droit, des hommes politiques et des citoyens pour des motifs géostratégiques chimériques inventés dans des bureaux aseptisés, entièrement coupés de toute réalité européenne charnelle. On va faire propager ces mots d'ordre par tous les serre-files habituels du politiquement correct.

Chacun d'entre nous a pu rencontrer tel ou tel de ces bons esprits. Dociles, ils croient dur comme fer à leur astrologie indémontrée mais péremptoire, car transmise depuis l'Antiquité grâce aux mages de la Chaldée ou de la Perse. Ils nous invitent à dépasser le stade, qu'eux-mêmes n'ont sans doute jamais atteint, celui la conscience nationale, identitaire ou européenne ; à les entendre, il faudrait voir plus haut et plus loin dans le devenir de l'humanité. La lourdeur de la géographie leur indiffère. La tragédie de l'Histoire leur échappe. Seul compte leur désir de paraître intelligents, et si cette illusion se révèle impossible, ils se voudront au moins dans le vent.

Or l'idée de prétendre les Turcs européens mériterait plutôt de se voir noter pour son ineptie, pour sa contradiction, et même, au fond, pour sa cocasserie.

On peut égrener des arguments rationnels. Ils ne manquent pas.

On les retrouvera tout au long du petit volume qui sort de presse ces jours-ci.

Essayons de les résumer pour constituer une sorte de fil conducteur.

1° Argument géographique. Ce pays ne se situe tout simplement pas en Europe. Il n'a donc pas plus vocation à participer à la confédération de notre continent que la possession du département français de la Guyane ne situe l'Hexagone en Amérique.

2° Argument mémoriel. Rationnellement, on professera sans doute que, si même les dirigeants d'Ankara consentaient de reconnaître le génocide arménien, cela ne déplacerait pas d'Asie en Europe le siège de leur gouvernement. Mais le seul fait que cet État s'obstine à nier les crimes commis par son prédécesseur de 1915, puisqu'il s'agissait du gouvernement jeune-turc et de l'empire ottoman, en dit long sur la différence de mentalité des gouvernants actuels de ce pays et ceux des nations d'Europe.

3° Argument linguistique. La langue turque n'est pas européenne. La culture à laquelle elle renvoie vient d'Asie centrale, mêlée au cours de l'Histoire aux apports d'autres cultures de l'orient, persanes et arabes.

4° Argument de la violence sociale. La société turque est fondée sur l'acceptation permanente d'une violence dont l'Europe s'est affranchie depuis plusieurs siècles.

5° Argument du système juridique. À plusieurs reprises, depuis le XIXe siècle, l'Empire ottoman d'abord, puis la république kémaliste ont cherché à importer sur le papier les pratiques et les principes juridiques de l'occident. Mais l'état de droit est fort loin de s'être vraiment acclimaté. Un certain nombre d'interdictions pèsent de manière redoutable sur la liberté d'expression, sur le droit de propriété, etc. L'importation des 85 000 pages de la réglementation européenne se révélerait inapplicable et illusoire.

6° Argument de l'économie. On invoque bien souvent l'imbrication des économies. En réalité, le pas décisif, franchi sous l'impulsion de la présidence français en 1993, et sous l'influence de MM. Balladur et Juppé, forçant le parlement européen à ratifier l'Union douanière, a créé une situation paradoxale. La sous-traitance industrielle développe l'économie turque sur la base du fait qu'elle n'est tributaire ni de la zone euro ni de la réglementation bruxelloise. Il en va de même avec d'autres pays émergents, on peut comparer cette situation avec celle de la Chine : cette forme de coopération économique exclut toute intégration juridique, monétaire, sociale et politique.

7° Argument du coût. La politique agricole et toutes les subventions et redistributions que l'Europe pratique ne sauraient mettre aux normes avant des décennies, à partir des budgets communautaires actuels, sans une modification radicale du pouvoir de financement de Bruxelles, cet immense pays aux besoins considérables. On notera par exemple que la formation brute de capital fixe y est à peine supérieure à celle de la Grèce, sept fois moins peuplée. L'Europe a encore de gros efforts à accomplir pour intégrer complètement les pays de l'est. Qui payera ?

8° Argument historique. Certes la plupart des nations européennes ont été en conflit, et alliées, les unes contre les autres, alternativement. Le seul ennemi commun des Européens depuis le XVe siècle a été la Turquie. On ne connaît pas les princesses turques ayant épousé un seul de nos rois.

9° Argument des réalités criminelles. À défaut de nous avoir donné ses princesses par le passé, ce pays nous expédie ses mafieux, ses trafics de drogue, ses réseaux d'immigration clandestine, ses énormes contrefaçons de nos marques, etc. On appelle cela un "grand pays ami".

10° Argument de l'homogénéité européenne. Bien évidemment cette irruption romprait toute perspective de constitution d'une société européenne, toute l'évolution naturelle de l'union vers la confédération, puis de celle-ci vers la fédération. On comprend mieux pourquoi les partisans de l'Europe des États, dite "intergouvernementale", adversaires forcenés de tout fédéralisme parce qu'adversaires de l'Europe, poussent cette candidature.

11° Argument de la taille et du poids dans les institutions. Insérée dans une Europe démocratique, la Turquie deviendrait, du seul fait de sa population, le principal État, elle compterait le plus grand nombre d'eurodéputés, etc.

12° Argument démocratique : les peuples n'en veulent pas. Cela devrait suffire à nos gouvernants.

Enfin, on doit mettre à part le contre argument des racines chrétiennes de l'Europe. Il préoccupe légitimement les croyants des diverses Églises et qui a été mentionné par Jean-Paul II et Benoît XVI ne peut pas être passé à la trappe. On peut constater qu'il existe aussi des racines européennes dans le christianisme, que Platon se retrouve chez les Pères de l'Église, qu'Aristote se retrouve dans saint Thomas d'Aquin, etc. manifestant une imprégnation réciproque des deux réalités. Mais on constate aussi qu'il est surtout invoqué "a contrario" par ceux qui prétendent "ne pas vouloir blesser les musulmans", qui veulent "empêcher que l'Europe soit un club chrétien". Mais précisément personne n'a jamais proposé rien de tel. On finit par se demander si l'argument ne consiste pas à considérer que la vraie raison, le meilleur titre de ce pays exotique à entrer dans la famille européenne viendrait de ce qu'il n'en a jamais fait partie. Il s'agirait de vouloir à tout prix le faire entrer, de soutenir, contre toute raison, cette encombrante candidature, parce qu'il est musulman.

Apostilles
  1. Notre "Cahier de l'Insolent" consacré à "La Question Turque" paraîtra avec quelques jours de retard, début octobre pour tenir compte débats importants ces jours-ci en Turquie. Il formera un petit livre finalement plus épais, de 164 pages, et coûtera en librairie 15 euros à l'unité après parution. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander à l'avance, au prix franco de port de 8 euros pour un exemplaire, 35 euros pour la diffusion de 5 exemplaires (maintenu jusqu'au 1er octobre). Règlement par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.
JG Malliarakis

mardi, 29 septembre 2009

A propos du Sommet entre Africains et Latino-Américains

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A propos du Sommet entre Africains et Latino-Américains

 

Le sommet entre pays d’Afrique et d’Amérique latine se tiendra les 26 et 27 septembre prochains au Venezuela. Il aura pour but, selon le Président Chavez, de créer un “pont” entre les deux rives de l’Atlantique Sud. Dans la célèbre émission télévisée vénézuélienne “Alo Presidente!”, où Chavez s’adresse chaque dimanche directement à son peuple, le président “bolivarien” a déclaré: “Il faut créer un pont entre le Venezuela et l’Afrique, un pont de solidarité, de coopération, de rapprochement culturel, politique et économique qui s’avèrera fondamental pour la vie de nos deux continents”. Et: “Nous sommes latino-américains mais aussi africains; plus africains que les autres. Sans l’Afrique, nous ne serions pas tels que nous sommes”. Outre quelques outrances, qui pourraient prêter à rire, ce discours implique que des relations bilatérales entre continents peuvent désormais émerger (ou devraient pouvoir émerger) sans l’intervention de Washington et sans une participation nord-américaine. En ce sens, l’exemple que vient de donner Chavez, en tendant la main à l’Afrique, pourrait servir de modèle à l’Europe, qui ne parvient pas à se débarrasser du boulet atlantiste. Si Latino-Américains et Africains envisagent l’établissement de “ponts”, on ne voit pas pourquoi l’Europe et le reste de l’Eurasie n’envisageraient pas la consolidation définitive de “ponts” qui nous ramenerait à l’optimum stratégique que fut, pendant seulement une quinzaine d’années au début du 19ème siècle, la Pentarchie européenne qui s’étendait de l’Atlantique au Pacifique. Au contraire, l’Europe vassalisée tolère que Washington installe des obstacles entre l’Europe et le reste de l’Eurasie: surtout dans le Caucase, non seulement en entretenant l’abcès de fixation tchétchène, mais en induisant une nouvelle diplomatie turque à faire sauter le verrou arménien, entre la Turquie et l’Azerbaïdjan et, pire, à faire sauter le pont arménien potentiel entre la Russie et l’Iran.

 

La règle géopolitique en jeu ici est celle, éternelle, de la biocéanité: la Pentarchie était bi-océanique; la Doctrine Monroe visait la biocéanité nord-américaine; le Mercosur vise une bi-océanité ibéro-américaine entre Atlantique et Pacifique; les géopolitologues d’Amérique du Sud ont déjà, avant Chavez, imaginé un “pont” au-dessus du Pacifique (la géopolitique pacifique de Pinochet, notamment); désormais, comme dans les spéculations géopolitiques sur le “Cinquième Empire” de Dominique de Roux, Chavez entend rétablir un “pont” au-dessus de l’Atlantique Sud, en direction d’une Afrique, à laquelle les Britanniques ont toujours ravi la biocéanité, en torpillant les projets allemands, belges et portugais de “Mittelafrika” entre l’Atlantique et l’Océan Indien. La marche du monde, les vicissitudes de la politique internationale, sont bien souvent déterminées par la volonté de bi-océanicité: la Chine actuelle, notamment, cherche à devenir biocéanique, avec sa façade pacifique et ses bases au Myanmar, reliées au territoire chinois par les axes routiers birmans installés par les Alliés anglo-saxons pendant la seconde guerre mondiale pour venir en aide à Tchang Kai-Tchek. L’Axe euro-russe pourrait, lui, viser la quadri-océanité: arctique, atlantique, pacifique et indienne. A méditer.

 

Robert Steuckers.

dimanche, 27 septembre 2009

Vers un Axe Berlin-Moscou?

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ARCHIVES de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

 

Vers un Axe Berlin-Moscou?

 

Même si leurs cultures et leurs évolutions historiques respectives ont été très différentes, la Russie et l'Allemagne ont depuis longtemps un point commun, celui de n'avoir qu'imparfaitement assimilé le modèle occidental moderne; face à celui-ci, les deux pays ont suivi des évolutions “anormales”, de formes et d'ampleurs très différentes. Au cours des deux siècles qui viennent de s'écouler, la conscience de soi dans ces deux pays a été confrontée à des phénomènes culturels et politiques dérivés d'une modernité qu'ils ont désirée ou refusée mais qui, dans tous les cas de figure, a germé dans des milieux substantiel­lement anglais ou français. Allemands et Russes ont donc perçu ces milieux comme fondamentalement étrangers à eux et les ont rejettés.

 

Ensuite, la différence entre l'Allemagne et la Russie est moindre qu'entre l'Allemagne et l'Occident sur les plans de la géopolitique et de la géoculture, si bien que l'on peut affirmer que les catégories intellectuelles élaborées par les Allemands pour répondre aux questions de l'identité nationale allemande peuvent être reprises et repensées sans problème majeur dans le contexte russe. Signalons notamment que, dès les slavophiles de la première génération, la pensée russe a fait sienne la nostalgie des conservateurs ro­mantiques allemands: une société traditionnelle, communautaire et organique qu'ils opposaient à la so­ciété moderne, mécanique, atomisée et désacralisée (c'est l'antinomie spenglérienne entre Kultur et Zivilisation, et celle de Tönnies entre la Gemeinschaft et la Gesellschaft). Les difficultés à assimiler cette modernité occidentale ont débouché en Allemagne et en Russie sur l'affirmation de deux systèmes totali­taires, qui, quoique de signes opposés, étaient tous deux fondés sur le refus du modèle politico-culturel de l'Occident.

 

Le totalitarisme allemand a été battu militairement. Après cette défaite, la partie occidentale de l'Alle­ma­gne a connu une intégration rapide et sans heurts dans les communautés européennes et dans le systè­me occidental. Le totalitarisme russe, en revanche, s'est désintégré de l'intérieur, victime de son échec politique total. Aujourd'hui, ces deux pays  —l'Allemagne réunifiée et la nouvelle Russie postsovié­tique—  sont à la recherche d'une identité nouvelle, d'un nouveau rôle à jouer: le premier le cherche en Europe, le second dans tout l'espace eurasiatique. Tous deux suscitent de l'inquiétude: l'Allemagne parce que son poids politique commence à égaler son poids économique; la Russie parce qu'elle est en­core une très grande puissance militaire et qu'elle est géopolitiquement instable.

 

En un certain sens, la montée en importance de l'une correspond au déclin de l'autre, du moins en Europe centrale et orientale. Mais ce processus ne semble pas induire de la conflictualité entre les deux pays, au contraire, on semble revenir à un meilleur équilibre dans leurs zones d'influence respectives. Depuis la dissolution de l'URSS et la chute du Mur de Berlin, les rapports germano-russes sont de plus en plus in­tenses parce qu'il y a désormais confluence objective de bon nombre de leurs intérêts géopolitiques et économiques.

 

une européanisation sur un mode allemand

 

Du reste, même si l'Allemagne et la Russie se sont retrouvée chaque fois dans des camps opposés au cours des deux guerres mondiales, il serait erroné de penser que leurs consciences nationales se sont, sous la dictée des événements, pensées brusquement en opposition irréductible l'une à l'autre. En fait les deux guerres mondiales ont interrompu momentanément des processus de profonde interaction politique et culturelle entre les deux pays, comme on avait pu l'observer aux XVIIIième et XIXième siècles. Au cours de cette période la Russie s'est européanisée essentiellement sur un mode allemand et protestant (du point de vue russe, c'est là un mode “occidental”), a entretenu des rapports étroits  —y compris dy­nastiques—  avec le monde germanique et a maintenu un rapport de solide complicité avec la Prusse, autre puissance bénéficiaire de la partition de la Pologne. Les affrontements germano-russes pendant les suicides européens de 1914-18 et de 1939-45 et dans le conflit idéologique entre national-socialisme et communisme stalinien sont des exceptions et non pas la norme dans les rapports germano-russes.

 

anti-occidentalisme et germanophilie

 

On ne sera dès lors pas surpris d'apprendre que dans les milieux nationalistes russes actuels les posi­tions anti-occidentales s'accompagnent souvent de fortes tendances germanophiles. On peut l'observer par exemple dans le programme géopolitique énoncé par Jirinovski, personnage qui, malgré ses écarts verbaux, n'est pas aussi confus et velléitaire qu'on pourrait le croire à première vue (1). Ses incohérences et ses improvisations ne doivent pas nous empêcher de discerner chez lui un programme géopolitique suffisamment clair, où il pose la Russie comme opposée à la Chine et au monde islamique (surtout turc), et envisage de s'allier en Europe avec l'Allemagne, à l'égard de laquelle Jirinovski  —comme beaucoup de Russes d'hier et d'aujourd'hui—  nourrit des sentiments complexes, où se mêlent la peur et l'admiration. Le projet de Jirinovski semble reprendre quelques-uns des points essentiels du Pacte Molotov-Ribbentrop d'août 1939, notamment ceux qui impliquent un partage entre l'Allemagne et la Russie de l'Europe centrale et orientale: division de la Pologne, absorption de l'Autriche, de la République Tchèque et de la Slovénie par l'Allemagne, des républiques baltes, de l'Ukraine, de la Biélorussie et de la Moldavie par la Russie (2).

 

En d'autres occasions, Jirinovski semble songer non pas à une partition pure et simple de ces territoires, mais à des zones d'influence bien définies. Quoi qu'il en soit, le “projet” nationaliste et panslaviste de Jirinovski tente de récréer, de concert avec l'Allemagne, les solides liens économiques et culturels qui, pendant deux siècles, avaient contribué au développement de la Russie; de cette façon, il reprend à son compte  —et très clairement—  la ligne de la politique impériale pré-révolutionnaire.

 

«Elementy» et l'eurasisme

 

Dans l'orbite du néo-nationalisme russe, nous trouvons une autre option pro-allemande, qui ne se réfère pas à la ligne idéologico-politique du panslavisme mais à une forme d'anti-occidentalisme extrême, l'eurasisme. Dans cette perspective, l'alliance stratégico-militaire entre la Russie et l'Allemagne est con­sidérée comme l'axe porteur d'un espace eurasiatique et continental opposé au monde atlantique. Cette thématique est centrale dans une revue comme Elementy, organe officiel du néo-eurasisme russe.

 

Dans le premier numéro de cette revue, on trouve le compte-rendu d'une table ronde qui a eu lieu en 1992 à Moscou à l'Académie d'Etat-Major russe sur le thème “La Russie, l'Allemagne et les autres”. Parmi les participants, outre quelques représentants de la “nouvelle droite” européenne, il y avait les Généraux Klokotov, Pichev et Iminov, qui, tous trois, enseignent à cette Académie. Tous les participants se sont dits convaincus de la nécessité d'un puissant tandem politique et militaire germano-russe pour stabiliser le continent européen (3).

 

Le troisième numéro d'Elementy  publie des réflexions sur le rôle de l'Allemagne dans une rubrique intitu­lée “Le bloc continental” (4), reprend un article de Moeller van den Bruck (1876-1925), figure centrale de la Révolution Conservatrice allemande après 1918 («L'Allemagne entre l'Europe et l'Occident»). Cet article affirme la spécificité culturelle allemande et insiste sur la nécessité d'avoir des liens privilégiés avec la Russie pour permettre à l'Europe de se soustraire au déclin provoqué par l'“occidentalisation” moderne (5).

 

les thèses du Colonel Morozov

 

Mais, toujours dans ce n°3 d'Elementy, l'article qui exprime au mieux cette nouvelle tendance germano­phile du néo-eurasisme russe, est celui du Colonel E. Morozov, intitulé «Les relations germano-russes: l'aspect géostratégique» (6). Pour le Colonel Morozov, le rapprochement germano-russe a des motifs his­toriques: depuis Pierre le Grand, on constate que quand les deux pays sont alliés, ils en tirent des avan­tages considérables. Et des motifs géopolitiques: l'un est au centre de l'Europe, l'autre au centre de l'Eurasie. Les difficultés d'un éventuel rapprochement germano-russe sont les suivantes: elles sont d'ordre psychologique, car Russes et Allemands se méfient les uns des autres depuis les deux conflits sanguinaires de ce XXième siècle; elles sont ensuite d'ordre stratégique: l'Allemagne s'étend vers l'Est, ce qui est inévitable vu la faiblesse des petits Etats qui “se situent entre Stettin et Taganrog et entre Tallin et la Crète”, et vu la crise actuelle que traverse la Russie. Mais l'expansion économique allemande ac­tuelle ne heurte pas fondamentalement les intérêts vitaux de la Russie. Ces difficultés doivent être sur­montées, d'après Morozov, en prenant conscience des énormes avantages stratégiques qu'une alliance entre les deux pays pourrait apporter, surtout dans la double perspective de redéfinir les espaces euro­péens et de redimensionner la présence américaine en Europe et le rôle global de Washington dans le monde.

 

De telles thèses sont largement diffusées dans les rangs de l'opposition nationale-communiste et dans les hautes sphères de l'armée; elles acquerront du poids, deviendront de plus en plus visibles, si la situa­tion politique oblige à renforcer ces secteurs-là de la société russe. Mais dans ce cas, il n'est pas dit que l'hypothétique nouvel axe germano-russe soit réellement praticable, à moins que l'Allemagne réunifiée décide d'abandonner la politique d'intégration européenne que la RFA avait suivie sans réticence depuis les années 50. Mais ça, c'est un autre problème.

 

Aldo FERRARI.

(article paru dans Pagine Libere, n°11-12/1995).

 

Notes:

(1) Cf. «Le mie frontiere», entretien de Vladimir Jirinovski avec Rolf Gauffin, in Limes, n°1/1994, pp. 25-32.

(2) Sur Jirinovski circule un essai récent, confus et prétentieux, rédigé par deux “spécialistes” se dissimulant derrière des pseudo­nymes. En trad. it.: G. Frazer & G. Lancelle, Il libretto nero di Zirinovskij, Garzanti, Milano, 1994.

(3) Cfr. Elementy, n°1/1992, pp. 22-25.

(4) Cfr. Elementy, n°3/1993, pp. 21-22.

(5) Ibidem, pp. 30-33.

(6) Cfr. Elementy, n°5/1994, pp. 26-30.

samedi, 26 septembre 2009

Iran, de dollar en de euro

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Iran, de dollar en de euro

Geplaatst door yvespernet

http://presstv.com/detail.aspx?id=106669&sectionid=351020102

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts.
The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported.
Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.
Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent.
Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar.
The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts. The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported. Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.

Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent. Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar. The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Als u zich afvraagt waarom de V.S.A het op Iran gemunt hebben, dit is één van de hoofdredenen. Heel de retoriek over het gevaar van raketten heeft te maken met het scheppen van een anti-Iransfeer. Want als je nadenkt over die Iraanse “rakettendreiging” is dat niet meer dan onzin. Iran overleeft voor een zeer groot deel van de olie-export naar het Westen. Zodra er ook maar één Iraanse raket richting Europa vliegt, stort heel hun economie in.

En natuurlijk is Iran nu bezig met het versterken van hun leger. Ze hebben genoeg lessen getrokken uit Irak, dat ironisch genoeg kort voor de Amerikaanse inval bezig was met het overschakelen naar de Euro voor de olie-industrie. Komt daar nog eens bij, als Iran een kernwapen ontwikkelt, dan is het omdat ze lessen hebben getrokken uit Noord-Korea die met rust gelaten worden vanwege die kernwapens.

L'axe paneuropéen Paris Berlin Moscou

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L’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou

En 2002 sortait Paris – Berlin – Moscou par Henri de Grossouvre (1). Un an après, l’actualité semblait avaliser cette perspective avec le refus de la France, secondée par l’Allemagne et la Russie, de cautionner l’aventure étatsunienne en Irak. Cependant, l’invasion de ce pays, puis l’arrivée à la Chancellerie et à l’Élysée d’atlantistes patentés avortèrent cet axe embryonnaire et surtout de circonstance. Sept ans plus tard, Marc Rousset relance le concept qui présente l’avantage de dépasser à la fois le strict souverainisme national et l’utopie mondialiste.

Imposant, l’ouvrage est aussi stimulant. Nourri par les lectures d’Yves-Marie Laulan, Samuel Huntington, Julien Freund, Carl Schmitt, Alain de Benoist, Régis Debray, Emmanuel Todd, etc., Marc Rousset prend note de l’échec essentiel de la présente construction européenne et offre une alternative : l’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou.

La Françallemagne ou le chaos multiculturel


Hostile à l’adhésion turque, l’auteur s’inquiète de la sous-natalité des Européens et de son terrible corollaire, l’immigration extra-européenne de peuplement. Pour lui, les petits égoïsmes nationaux devraient s’estomper au profit d’une réconciliation des « deux poumons » de l’Europe : l’ensemble occidental romano-protestant et son pendant oriental orthodoxe. L’auteur de La nouvelle Europe de Charlemagne (1995) conçoit l’Europe de l’Ouest comme un espace « néo-carolingien » organisé autour d’une unité politique étroite entre Paris et Berlin. Marc Rousset veut la Françallemagne. « Y aura-t-il un jour un État franco-allemand comme il en fut naguère de l’Autriche-Hongrie ? La France et l’Allemagne constituent une continuité spatiale de plus de cent quarante millions d’habitants. La restauration de l’espace communautaire franc est la tâche dévolue tant aux Français qu’aux Allemands. Elle est la condition préalable à toute unité européenne […]. La France et l’Allemagne sont liées par une Schicksalgemeinschaft, une “ communauté de destin ”, affirme-t-il » (p. 133) (2). Plus loin, il ajoute sans hésiter qu’« il n’y a que la Françallemagne augmentée éventuellement de l’Italie, de l’Espagne, des États de Bénélux et de l’Autriche pour présenter un bloc suffisamment homogène, puissant et crédible, capable de s’appuyer ou de s’allier avec la puissance russe » (p. 532).

Or l’homogénéité ethnique, gage et/ou facteur de la puissance selon l’auteur, est-elle encore possible quand on connaît la déliquescence multiraciale de nos sociétés ? « Une société multi-ethnique conduit tout droit inexorablement, au mieux à des troubles et des affrontements, au pire au chaos et à la guerre civile, car il lui manque la philia, la fraternité sincère, réelle et profonde entre les citoyens » (p. 523), observe-t-il avec lucidité. Une France européenne ne présuppose-t-elle pas au préalable le retour au pays massif et inconditionnel des allogènes ?

Marc Rousset dénonce avec raison l’islamisation du continent, mais il ne voit pas que ce phénomène n’est que la conséquence inévitable de l’immigration. Plus grave, l’auteur reproduit sur l’islam les lieux communs les plus banaux. Il apporte son soutien à Robert Redeker, grand contempteur naguère du mouvement national. Il assimile l’islamisme à un « nouveau totalitarisme » (p. 300) ou à un « fascisme vert » (p. 301), ce qui est erroné et préjudiciable. Le concept de totalitarisme fait l’objet de discussions animées au sein de la communauté historienne. Quant à assimiler l’islamisme au fascisme, n’est-ce pas s’incliner devant l’« antifascisme » obsessionnel et perdre  la bataille du vocabulaire ? Enfin, vouloir, à la suite de quelques musulmans « éclairés », un « islam des Lumières » (p. 290), n’est-ce pas une ingérence dans une matière qui n’intéresse pas au premier chef les Européens ? Est-il vraiment indispensable de promouvoir la modernisation et/ou l’occidentalisation de l’islam, c’est-à-dire la contamination de cette religion par le Mal moderne, matérialiste et individualiste ?

L’économie comme instrument de la puissance

La dépression démographique n’est pas le seul défi à une possible entente paneuropéenne. Suivant le prix Nobel d’économie Maurice Allais, l’auteur conteste le libre-échange et la mondialisation, la « fuite des cerveaux » et la désindustrialisation. Il rappelle qu’« avec la délocalisation de son tissu industriel et depuis peu de ses services informatiques et de gestion, l’Europe perd chaque année des centaines de milliers d’emplois. Ce furent d’abord les emplois les moins qualifiés. Ce sont aujourd’hui des métiers à haute technicité qui sont externalisés vers l’Asie » (p. 49). Il s’effraie par ailleurs de la généralisation des emplois précaires du fait de la concurrence exacerbée planétaire aussi bien là-bas où le pauvre hère travaille dix heures par jour pour un salaire misérable qu’ici avec la pression exercée sur les rémunérations par les étrangers clandestins délinquants réduits en esclavage par un patronat immonde. Il craint en outre que l’essor des services à la personne ne soit « favorisé [que] par le contexte d’inégalité sociale croissante » (p. 55). Bref, « il est vital pour l’Europe de ne pas rester à l’écart du monde industriel moderne, de concevoir un développement industriel fort, créateur d’emplois pour la prochaine génération, d’assurer un renouvellement de son tissu manufacturier » (p. 56), clame  cet ancien directeur général chez Aventis, Carrefour et Veolia.

Cependant, l’industrie et le tertiaire à haute valeur ajoutée ne doivent pas mésestimer la caractère stratégique de l’agriculture. À rebours des thèses sociologiques du cliquet ou d’un secteur agricole surproductiviste et sans presque de paysans, on a la faiblesse de croire qu’une économie humainement satisfaisante suppose un équilibre entre les secteurs primaire, secondaire et tertiaire. Les questions agricole et nutritionnelle sont en passe de devenir des enjeux majeurs du XXIe siècle. Avec la maîtrise de l’eau douce et le contrôle des ressources naturelles énergétiques, la quête de terres arables devient une priorité, car elles sont à l’origine, par l’auto-suffisance qu’elle induit, de la souveraineté alimentaire. Signalons que dans cette recherche bientôt éperdue, l’Europe détient un atout considérable avec les immenses Terres noires fertiles de Russie et, surtout, d’Ukraine (3). Ce simple fait inciterait l’Europe, la France et l’Allemagne, à régler en arbitres le contentieux entre Moscou et Kiyv afin de rendre effective une entente géopolitique respectueuse de tous les peuples.

Surmonter les querelles nationales !


Concernant les relations entre l’Ukraine et la Russie, notre désaccord est total avec Marc Rousset. S’appuyant sur l’historiographie conventionnelle française, il mentionne la « Russie de Kiev » alors que le terme « Russie » n’apparaît qu’en 1727. Il aurait été plus juste de parler de « Rous’ » ou de « Ruthénie ». Certes, « pour les Russes, l’Ukraine est une partie intégrante de la Russie, une simple annexe de Moscou » (p. 363). Cela implique-t-il de nier l’existence du peuple ukrainien ? Marc Rousset le pense puisqu’il affirme que « l’identité ukrainienne n’existe pas. Cette identité, exception faite de la Galicie, est une variante de l’identité russe et non une nationalité constituée qui s’interposerait durablement entre Russie, Pologne et Slaves du    Sud » (p. 367). Ignore-t-il que la langue ukrainienne s’est formalisée deux décennies avant la langue russe ? L’auteur se fourvoie quand il explique que « le russe et l’ukrainien sont si proches que deux locuteurs parlant chacun sa langue se comprennent sans interprète » (p. 367). Autant écrire qu’un Castillan et un Catalan se comprennent sans mal… relevons une autre erreur : « à Kiev, il est difficile de trouver un panneau autre qu’en russe » (p. 366). En réalité, l’ukrainien domine largement l’espace public de la capitale de l’Ukraine. Sait-il enfin que les dirigeants de la « Révolution orange », Viktor Iouchtchenko et Yulia Timochenko, viennent des confins orientaux, russophones, du pays et non de Galicie ?

L’axe paneuropéen ne pourra pas faire l’économie d’une résolution équitable et sereine des lancinantes questions nationalitaires inter-européennes. La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou compenserait la complexe problématique impériale russe. Les Russes n’ont toujours pas fait le deuil de leur empire, tsariste puis soviétique, d’où cette politique agressive envers l’étranger proche (4) qui, par méfiance, se place sous la protection illusoire de l’O.T.A.N. Le projet paneuropéen de puissance transcenderait la frustration légitime de nos amis russes en un salutaire désir de renaissance géopolitique tant pour la Russie que pour les Allemands et les Français.

Comment alors acquérir cette puissance ? Force est de constater qu’à part les Russes, Français et Allemands ne se préoccupent guère de ce sujet. Le confort émollient de la Modernité les châtre psychologiquement. L’héroïsme est dévalorisé, remplacé par l’héroïne. En Afghanistan, les soldats allemands protestent contre leurs conditions de vie qu’ils jugent trop sommaires. Plus de soixante ans de rééducation mentale commencent à se payer et l’addition sera lourde. On aboutit au même constant en France. Le salut viendrait-il de la guerre économique mondiale ? En effet, le « nouveau continent » appliquerait la préférence communautaire, l’autarcie des grands espaces, le patriotisme économique et une coopération franco-germano-russe fort intense. « Il est temps que la France, l’Allemagne et la Russie coopèrent davantage pour de grands projets dans de nombreux d’une façon volontariste, que l’Eurosibérie se décide à enrayer son déclin, que les jeunes Européens désabusés, à l’égoïsme matérialiste hypertrophié, sortent de la torpeur passive et annihilante de la société de consommation futile et frustrante avec ses gadgets inutiles et loufoques, de l’idéologie américaine de la marchandise passion avec l’argent pour seul horizon, se guérissent d’une certaine forme de sida mental conduisant au renoncement à leur identité propre, à un idéal, au dépassement de soi » (p. 12). De ce fait, face à la montée des périls vitaux, « les Européens doivent […] se tourner vers les occidentalistes de la Russie, pousser les feux d’une réconciliation russo-ukrainienne et russo-géorgienne en lieu et place de la gifle inacceptable, du casus belli, que représenterait pour la Russie l’entrée de l’Ukraine et de la Géorgie dans l’O.T.A.N. » (p. 527).

Quel avenir pour le continent paneuropéen ?


L’enjeu est considérable. « L’Europe doit-elle être simplement un sous-ensemble d’un empire transatlantique à direction américaine, ou est-elle, au contraire, un moyen pour les nations européennes de contrebalancer, avec l’aide de la Russie, les menaces […] ainsi que le poids de “ l’Amérique-monde ” ? L’Europe occidentale doit-elle, tel un paquet bien ficelé, continuer à être intégrée au One World dirigé depuis Manhattan ? » (p. 12). Anxieux, Marc Rousset se demande si l’idée européenne « serait un moyen de créer enfin cette “ Troisième Rome ” dont ont toujours rêvé séparément la France, l’Allemagne et la Russie » (p. 198). « Cette Eurosibérie, prévient-il, serait véritablement indépendante, ne menacerait personne, mais personne également, que ce soit la Chine, les États-Unis ou l’Islam ne pourrait non plus véritablement indépendante la menacer. C’est pourquoi la France et l’Allemagne devraient remodeler l’architecture européenne en concertation avec la Russie » (pp. 198 – 199).

Dans ce plaidoyer se retrouve l’impératif démographique. Marc Rousset rappelle que l’Extrême-Orient russe est un quasi-désert humain tandis que sur l’autre rive de l’Amour vivent des millions de Chinois. Une alliance avec la Françallemagne renforcerait la Russie face à Pékin. « Un droit à l’occupation doit donc être reconnu aux peuples européens sur l’espace allant du nord du Portugal au détroit de Behring, en incluant le Nord-Caucase et la totalité de l’espace sibérien. Sur cet espace, cinq cents millions d’Européens et cent cinquante millions de Russes devraient pouvoir prolonger jusqu’à Vladivostok les frontières humaines et culturelles de l’Europe » (p. 46).

Il importe néanmoins de ne pas confondre les thèses de Marc Rousset avec les visions de Guillaume Faye ou les ratiocinations d’Alexandre Del Valle. « Nous croyons en l’Eurosibérie comme un simple concept géographique, mais en aucun cas à un empire eurosibérien qui aurait pu être réalisé par l’U.R.S.S. si elle avait gagné la Guerre froide et occupé l’Europe de l’Ouest. L’Eurosibérie de facto et de jure avec une seule capitale ne peut être réalisée que par une nation dominante disposant des ressources militaires, humaines et naturelles nécessaires, ce qui n’est le cas aujourd’hui d’aucune nation européenne, Russie incluse » (p. 532).

Dans ce cadre grand-européen, quelle en serait la langue institutionnelle et véhiculaire ? Sur ce point, M. Rousset surprend ! Il dénie tout droit à l’anglais d’être la lingua franca de l’Europe-puissance. Il soutient le multilinguisme, mais se détourne des langues vernaculaires, ce qui est dommage. Est-il partisan du retour au latin ? A priori oui, mais, après un examen minutieux, il l’estime inadapté à notre époque. Le français aurait-il toute sa chance comme le suggéra naguère l’archiduc Otto de Habsbourg-Lorraine ? Ce serait l’idéal parce que la langue de Stendhal est réputée pour sa richesse, sa clarté et son exactitude. Marc Rousset craint néanmoins qu’on accuse la France d’impérialisme linguistique. Il se déclare finalement favorable à l’espéranto. Envisagé comme une langue universelle, l’espéranto est surtout une marque du génie européen. Il serait une langue utilitaire européenne appropriée qui ne froisserait aucune susceptibilité linguistique tant nationale que régionale. On ne peut que partager ici son raisonnement.

La nouvelle Europe sur terre et… sur mer !


Le destin de la nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou serait-il uniquement continental, terrien ? Marc Rousset n’en doute pas et reprend à son compte la célèbre dichotomie géopolitique entre la Terre et la Mer. Or l’Union européenne dispose d’un domaine d’Outre-mer (dont de nombreux archipels non peuplés), ce qui en fait potentiellement la première puissance maritime au monde. Il est fâcheux que l’auteur accepte cette opposition désormais classique, mais fallacieuse. Non, la France n’est pas qu’une « nation terrienne » (p. 36) ! Au-delà des succès navals de Louis XVI et des échecs en mer de Napoléon Ier, rappelons  que l’amiral Darlan joua un rôle capital  dans la création d’une remarquable flotte de guerre à la fin de la IIIe République. Des remarques similaires s’appliquent à la Russie qui dispose d’une immense façade littorale arctique prise jusqu’à maintenant plusieurs mois par an par les glaces. Mais si le fameux « réchauffement climatique » se manifestait, la Russie ne deviendrait-elle pas de fait une puissance navale ? Songeons déjà qu’au temps de l’Union soviétique, les navires de l’Armée rouge patrouillaient sur toutes les mers du globe, preuve manifeste d’une indéniable volonté thalassocratique…

Il ne faut pas que ces quelques critiques gâchent le thème central de l’essai de Marc Rousset. Il a écrit, il y a neuf ans, Les Euroricains qui était un cri d’alarme contre la « yanquisation » du « Vieux Monde ». À cette colonisation globale, il apporte maintenant une solution envisageable à la condition que les hommes politiques saisissent le Kairos et que s’établisse sur tout notre continent une communion d’esprit bien aléatoire actuellement. Le dilemme est posé : nos contemporains accepteront-ils d’être des sujets transatlantiques ou bien des citoyens paneuropéens ? Accepteront-ils l’abêtissement ou le redressement ? Comprendront-ils enfin que la France et l’Europe, que nos nations et l’Europe ne s’opposent pas, mais se complètent ? Louis Pauwels concluait son « Adresse aux Européens sans Europe » par cette évidence : « Qui s’étonnerait, à y bien regarder, du peu de patriotisme de la jeunesse française ? Trop peu d’Europe éloigne de la patrie. Beaucoup d’Europe y ramène. Ils seront patriotes quand nous serons européens. » (5)

Georges Feltin-Tracol

Notes


1 : Henri de Grossouvre, Paris – Berlin – Moscou. La voie de l’indépendance et de la paix, L’Âge d’Homme, 2002.

2 : On peut dès lors très bien imaginer que Strasbourg devienne la capitale françallemande, ce qui faciliterait le transfert à Bruxelles de toutes les institutions européennes.

3 : L’Arabie saoudite vient ainsi d’acquérir en Ukraine des milliers d’hectares de terres fertiles.

4 : On appelle « l’étranger proche » les États issus de l’éclatement de l’U.R.S.S. et que le Kremlin considère comme son aire d’influence traditionnelle.

5 : Louis Pauwels, Le droit de parler, Albin Michel, 1981.

• Marc Rousset, La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou. Le continent paneuropéen face au choc des civilisations, Godefroy de Bouillon, 2009, 538 p., préface de Youri Roubinski, 37 €.

Un livre sur l'Iran

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES – 1990

 

Un livre sur l’Iran

Recension: Shireen T. HUNTER, Iran and the World. Continuity in a Revolutionary Decade, Indiana University Press, Bloomington (Indiana 47.405), 1990, 256 p., $35.00 (cloth) ou $14,95 (paperback), ISBN 0-253-32877-2 (cl.) ou 0-253-20590-5 (pbk).

 

En février 1979, le triomphe des forces révolutionnaires islamiques, hostiles au pouvoir du Shah Mohammad Reza Pahlevi, met un terme à une tradition monarchique vieille de 2500 ans en Iran. La chute de la monarchie n'a pas installé d'emblée un régime islamique, bien que l'Ayatollah Rouhollah Khomeiny apparaissait très nettement comme le leader incontesté de la révolution. En théorie, pendant près d'un an, le pouvoir est demeuré entre les mains d'un gou­vernement provisoire dirigé par le Premier Ministre Mehdi Bazargan, flanqué de ses collègues nationalistes et séculiers.

 

En fait, ce gouvernement provisoire ne contrôlait nullement la situation et le pays entra rapidement dans une phase d'incertitude chaotique. Les extrémistes islamiques ainsi qu'une flopée de mouvements hybrides, gauchistes/islamistes, défiaient le gouvernement de façon ininterrompue, tandis que le «Conseil de la Révolution» minait ses possibilités d'agir. Rapidement, le front de bataille s'est dessiné en toute limpidité: les trois groupements idéologiques majeurs (séculier-nationaliste, islamiste et gauchiste) avaient chacun une vision radicalement différente du futur de l'Iran.

 

Le livre de Shireen T. Hunter entend dégager plusieurs lignes de faîte:

 

1) démontrer qu'une variété de facteurs  —et pas seulement l'Islam—  a marqué le comportement de l'Iran sur la scène internationale et déterminé sa politique extérieure;

 

2) montrer que la vision du monde iranienne n'est ni purement islamique ni un phénomène réellement nouveau dans la pensée politique du tiers-monde;

 

3) expliquer que le comportement de l'Iran n'a pas été une rupture totale par rapport au comportement politique normal escompté dans le concert des Etats du globe; ce comportement est celui d'un Etat du tiers-monde à un stade révolutionnaire de son existence;

 

4) montrer qu'il y a continuité entre le comportement actuel et passé de l'Iran, y compris dans les stratégies diplomatiques;

 

5) fournir un panorama des relations extérieures de l'Iran au cours de la dernière décennie, en le replaçant dans son propre contexte historique;

 

6) enfin, tirer des conclusions des événements de la dernière décennie pour prévoir l'avenir de l'Iran, quel que soit le régime qui émergera après la mort de l'Ayatollah Khomeiny.

 

Les outils méthodologiques utilisés dans cet ouvrage, afin de mettre en lumière les lignes de faîte énoncées ci-dessus, sont ceux qui président généralement aux analyses classiques dans les domaines de la diplomatie, de l'histoire et de la politique étrangère. Le livre aborde de front les questions majeures de la géopolitique régionale, de l'histoire mouvementée de l'Iran, des ressources économiques du pays, des circonstances intérieures (les processus de décision), pour examiner dans la foulée leurs interactions multiples et leur résultat final, celui qui détermine en dernière instance le comportement (géo)politique de l'Iran. Un ouvrage capital pour comprendre les dynamiques à l'œuvre dans une région bouleversée, où se décide sans doute le sort de toute la masse continentale eurasienne.  

 

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jeudi, 24 septembre 2009

Pour un grand espace européen! Sans libre-échange!

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Thorsten HINZ:

 

Pour un grand espace européen ! Sans libre-échange!

 

Oui à l’Europe ! Non aux eurocrates de Bruxelles !

Le continent a besoin d’une nouvelle volonté de puissance !

 

Le jugement rendu à Karlsruhe récemment, à propos du Traité de Lisbonne a le mérite de la  clarté: le “Sur-Etat”, qui nous tient sous sa tutelle, et dont les gouvernements et les bureaucrates bruxellois visent le parachèvement, n’est pas sanctionnable comme s’il émanait d’un jugement de Dieu. Nous ne sommes pas contraints de l’accepter. Mais survient alors une autre question fondamentale: celle de l’avenir de l’Europe. Le jugement de Karlsruhe n’a en aucune façon réglé ce problème-là, n’a pas tranché la question de savoir si l’Europe et l’eurocratisme bruxellois sont une seule et même chose.

 

Un simple regard sur la carte, sur les statistiques, sur les rapports de forces et autres ordres de grandeur nous fait voir, sans détours, que les Etats de petites et moyennes dimensions en Europe ne peuvent freiner leur perte de signification à l’échelle du globe que s’ils agissent de concert. D’autres faits sont également patents: les anciens conflits entre Etats européens s’atténuent graduellement, de nouveaux conflits d’intérêts émergent, mais plus aucun de ceux-ci n’est encore existentiel. Si on les mesure à l’échelle du globe, les convergences d’intérêts entre Européens dominent et les divergences passent à l’arrière-plan. 

 

Constituer une puissance hégémonique continentale est un souci, voire un cauchemar, qui hante depuis plus d’un siècle la politique intérieure du sous-continent européen, même si cela peut paraître anachronique face à la domination mondiale qu’exercent les Etats-Unis et à l’émergence de nouveaux centres de puissance en Asie. Se précipiter encore dans des conflits intérieurs à l’Europe et, de surcroît, à l’incitation de puissances extra-européennes, n’aurait qu’un résultat: accroître la puissance des autres et pérenniser la mise sous tutelle de l’Europe.

 

La crise financière et économique, qui frappe la planète entière, nous apporte quelques arguments supplémentaires en faveur d’une européanisation de la politique en Europe.  Cette  crise a déjà conduit à réévaluer les phénomènes liés à la globalisation. Bien entendu, soyons  clairs, on ne pourra pas réduire à néant les acquis de la globalisation qui a commencé il y a plus de 500 ans par la découverte, l’exploitation et la colonisation du monde par les puissances européennes; cependant, la globalisation ne pourra plus rester, désormais, un but en soi, une idée que personne ne pourra jamais contester. Au cours de ces récentes années, il semblait que la tâche principale des Etats ne consistait plus qu’en une seule chose: se déréguler eux-mêmes, renoncer à toutes leurs fonctions de contrôle et de direction. Capitaux et marchandises devaient s’écouler et vagabonder en toute liberté; la vie humaine, elle, devait se réduire à une existence d’abeilles besogneuses, acceptant la “flexibilité”, en concurrence avec des homologues tout aussi aliénées dans le monde entier. On planifiait une guerre de tous contre tous, dernière conséquence de la victoire totale qu’avait obtenue le modèle anglo-saxon de libre-échange après deux guerres mondiales et une guerre froide. 

 

Il y a deux ans encore, on ne faisait aucun effort intellectuel pour justifier ce modèle: il portait sa légitimité en lui-même. Ceux qui osaient encore le critiquer étaient traités d’incorrigibles passéistes, de réactionnaires, de bornés, de nationalistes, d’anti-modernes, d’ennemis de la liberté, etc. On les ridiculisait. Et voilà que soudain, la charge de la preuve a changé de camp. L’idéologue français Emmanuel Todd, dans “Après la démocratie”, constate “qu’il faudra soit abolir le suffrage universel et renoncer ainsi à la démocratie soit limiter le libre-échange, par exemple en inventant des formes intelligentes de protectionnisme au niveau continental européen, ce qui impliquerait de remettre en question le système économique actuellement dominant”.

 

La proximité conceptuelle entre le protectionnisme que Todd appelle de ses voeux et l’ébauche d’un “grand espace” continental chez le juriste allemand Carl Schmitt est patente. Pour l’Europe actuelle, l’enjeu n’est pas seulement la démocratie mais porte sur l’ensemble de ses traditions historiques et culturelles, ancrées sur son territoire. Tout néo-protectionnisme européen émergent ne devra pas se limiter au seul domaine de l’économie. Sur les plans politiques et éthiques aussi, la logique du libre-échange devra être jugulée. Avant toute chose, l’Europe devra renoncer à l’universalisme contenu dans ce discours idéologique et banalisé sur les droits de l’homme qui sert de vulgate générale. Cet universalisme avait accompagné l’expansion économique et coloniale des pays d’Europe occidentale mais il a atteint ses limites aujourd’hui (que l’on songe à la Chine...). Aujourd’hui, cet universalisme ne sert plus qu’à une chose: sur les plans politique, moral et juridique, à donner un instrument de pression potentiel à des cultures ou des religions extra-européennes, étrangères au continent européen, pour que celles-ci, à leur tour, mettent en oeuvre une stratégie d’expansion en Europe même. Sur le plan des droits de l’homme, l’Europe a aussi besoin d’un protectionnisme qui entraînerait de donner priorité et protection aux propres citoyens européens dans leur propre “Maison commune”.

 

C’est pourquoi l’Europe politique future doit s’édifier sur des bases nouvelles, historiques, intellectuelles, culturelles et spirituelles. Car l’universalisme mis en pratique par les eurocrates en poste à Bruxelles est lié étroitement aux mythes fondateurs de l’Union Européenne. Celle-ci, en effet, considère que l’année 1945 constitue un point de départ historique et que les Etats-Unis, avec la forme de libéralisme et de libre-échange qu’ils ont importée dans leur zèle missionnaire, ont été les sauveurs de l’Europe.

 

Ces positions signifient ipso facto de fonder moralement l’UE sur la victoire emportée sur le pays qui a dû, doit et devra contribuer le plus aux charges financières en vue de structurer le grand espace européen et qui constitue, de surcroît, le pays le plus indispensable de tous à la formation de l’Europe! Par conséquent, tous les autres partenaires de la construction européenne en arrivent à considérer que les contributions allemandes sont des “réparations” à payer pour cause de deuxième guerre mondiale au lieu de les considérer comme des investissements pour un futur commun à bâtir de concert et dans lequel, eux aussi, auraient la responsabilité et le devoir de contribuer à l’intérêt collectif. 

 

En Allemagne, ce malentendu a conduit à une grande lassitude à l’égard de l’Europe: les Allemands, en effet, se sentent grugés et exploités; ils ont l’impression qu’on les maltraite, qu’on exige trop d’eux, tandis que l’élite qui fait fonctionner leur pays accepte pour eux le rôle du financier unique pour maintenir la cohésion d’un tout désormais branlant alors même que cette élite n’est plus capable de lancer des initiatives politiques en faveur de l’Europe. Les Allemands ont expurgé leur passé jusqu’à satiété, placé partout des garde-fous pour que plus  aucun dérapage nationaliste ne soit possible: les autres partenaires de l’UE, en cette matière, en ont fait trop peu.

 

La distance temporelle qui nous sépare aujourd’hui des événements de la seconde guerre mondiale doit nous amener à interpréter la tragédie européenne du 20ème siècle comme une auto-destruction collective, où tous ont eu leur part! Cette auto-destruction procède d’erreurs de jugement sur la situation réelle de l’Europe, au sein même du continent et en dehors de lui, notamment sur une évaluation erronée de l’influence globale qu’exerçait le Vieux Continent. Les  bénéficiaires de ces erreurs de jugement ont été la Russie soviétique et les Etats-Unis, deux puissances étrangères à l’espace européen. Si une nouvelle tragédie de même ampleur devait frapper l’Europe demain, d’autres bénéficiaires en tireraient profit et les conséquences en seraient, cette fois, irréversibles.

 

Si l’Europe ne formule pas bien vite une volonté de puissance commune et la défend de manière crédible, elle ne pourra pas opposer un modèle alternatif au libre-échange actuel. Or le contraire se profile à l’horizon: comme les mythes fondateurs de l’UE sont une fatalité, ils invitent les puissances extérieures à appuyer et favoriser les tensions intérieures en Europe, à les exploiter, à les pérenniser. Derrière l’accord britannique à une adhésion turque se profile l’intention de réduire l’idée européenne à n’être plus rien d’autre qu’une simple acceptation du libre-échange: l’Europe ne serait donc pas un bloc géopolitique autonome, structurée par une identité autochtone, mais une vague zone de libre-échange. La Pologne, la République Tchèque ou l’Italie, qui soutiennent, elles aussi, le désir des Turcs d’adhérer à l’UE, se réjouissent du coup de Jarnac qu’elles infligent ainsi à l’Allemagne et se vantent d’être les partenaires les plus féales des Etats-Unis, procurant du même coup, à ceux-ci, une sorte de levier d’Archimède pour disloquer l’unité européenne.

 

Une Europe qui reposerait sur de nouvelles bases politiques et spirituelles, qui considérerait que ses formes culturelles et ses modes de vie valent la peine d’être protégés, une Europe qui se montrerait prête à assurer sa défense, deviendrait, aux yeux des Allemands, un objectif digne d’être réalisé et justifierait les paiements disproportionnés qu’ils paient pour l’édification européenne. Mais, dans ce domaine, nous ne devons pas nous limiter aux seuls questions financières.

 

Voilà pourquoi, nous devons dire “oui” à l’Europe et, dans certaines conditions, à l’UE, mais uniquement si elle constitue une tentative de donner forme au continent. Mais nous devons dire “non”, et cela de manière décisive et tranchée, à la domination des bureaucrates et des idéologues fumeux qui pontifient à Bruxelles!

 

Thorsten HINZ.

(article paru dans “Junge Freiheit”, n°34/2009; trad.  franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 23 septembre 2009

Le bouclier antimissile américain en Europe relancé?

Le bouclier antimissile américain en Europe relancé ?

Des missiles SM-3 en Europe...

PARIS (NOVOpress) – Contrairement à ce que pouvait laisser penser la décision du président Obama de renoncer à implanter un système antimissile en Pologne et en Tchéquie, les Etats-Unis n’ont nullement renoncé à leur projet de bouclier antimissile en Europe, bien au contraire.

En effet, dans un article paru samedi dans The New-York Times, Robert M. Gates, secrétaire à la Défense des Etats-Unis l’affirme très clairement : « nous renforçons la défense antimissile en Europe, nous ne l’abandonnons pas» .

Selon lui, le système qui vient d’être abandonné ne serait pas entré en service « avant au moins 2017 et probablement beaucoup plus tard»  alors que le nouveau plan prévoit un déploiement, effectif dès 2011, de missiles d’interception SM-3 embarqué à bord de navires, sans doute en Méditerranée orientale. Une deuxième phase, « vers 2015″, verra, elle, le déploiement d» une version améliorée du SM-3 au sol « en Europe du sud et centrale» .

Bref, la tutelle militaire américaine sur L’Europe, renforcée par le retour de la France dans l’Otan, a encore de beaux jours devant elle.

[cc [1]] Novopress.info, 2009, Article libre de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info [2]]


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

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[1] cc: http://fr.novopress.info http://creativecommons.org/ licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[2] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info

Lettre ouverte à Hervé Morin, ministre de la Défense euro-atlantiste

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Lettre ouverte à Hervé Morin,

ministre de la Défense euro-atlantiste

 

 

 

Monsieur le ministre de la Défense de l’Occident,

 

 

 

 

Je m’autorise de vous interpeller avec un titre erroné puisque, renouant avec une mauvaise habitude pratiquée sous le septennat giscardien, le terme « nationale » a été supprimé de l’intitulé officiel de votre ministère. Permettez-moi par conséquent de vous désigner tour à tour comme le ministre de la Défense euro-atlantiste ou celui de la Défense de l’Occident, tant ces deux appellations me paraissent vous convenir à merveille.

 

 

 

Si je vous adresse aujourd’hui la présente algarade, sachez au préalable que je ne vise nullement l’élu local normand que vous êtes par ailleurs. L’adhérent au Mouvement Normand que je suis soutient, tout comme vous, l’indispensable (ré)unification normande des deux demi-régions. Notre désaccord concerne l’avenir de la France, de son armée et de l’Europe de la défense.

 

Je vous dois d’être franc. Quand en mai 2007, vous avez été nommé au ministère de la rue Saint-Dominique, j’ai immédiatement pensé à une erreur de recrutement : vous n’êtes pas fait pour occuper ce poste, faute d’une carrure suffisante. Comment cela aurait pu être autrement avec un Premier ministre qui, lui, est un fin connaisseur de la chose militaire depuis de longues années ? Il s’agissait surtout de vous récompenser pour avoir abandonné (trahi, diraient de mauvaise langues) entre les deux tours de la présidentielle votre vieil ami François Bayrou et rallié le futur président.

 

 

 

D’autres, tout aussi non préparés aux fonctions de ce ministère éminemment régalien, auraient acquis au contact des militaires une stature politique afin de viser, plus tard, bien plus haut. Hélas ! Comme l’immense majorité de vos prédécesseurs depuis 1945, voire depuis l’ineffable Maginot, et à l’exception notable d’un Pierre Messmer, d’un Michel Debré ou d’un Jean-Pierre Chevènement, vous êtes resté d’une pâleur impressionnante. Pis, depuis votre nomination, vous avez démontré une incompétence rare qui serait risible si votre action ne nuisait pas aux intérêts vitaux de la France et de l’Europe.

À votre décharge, je concède volontiers qu’il ne doit pas être facile de diriger un tel ministère à l’ère de l’« omniprésidence omnipotente » et de sa kyrielle de conseillers, véritables ministres bis. Faut-il en déduire qu’une situation pareille vous sied et que vous jouissez en fait des ors de la République ?

 

 

 

Je le croyais assez jusqu’à la survenue d’un événement récent. Depuis, j’ai compris que loin d’être indolent, vous effectuez un véritable travail de sape, pis une œuvre magistrale de démolition systématique qui anéantit quarante années d’indépendance nationale (relative) au profit d’une folle intégration dans l’O.T.A.N. américanocentrée, bras armé d’un Occident mondialiste globalitaire.

 

 

Vous vous dîtes partisan de la construction européenne alors que vous en êtes l’un de ses fossoyeurs les plus déterminés. L’Europe, sa puissance sous-jacente, ses peuples historiques vous indiffèrent, seule compte pour vous cette entité despotique de dimension planétaire appelée « Occident ».

 

 

 

Qu’est-ce qui m’a dessillé totalement les yeux en ce 6 février 2009 ? Tout simplement votre décision inique et scandaleuse de congédier sur le champ Aymeric Chauprade de son poste de professeur au Collège interarmées de Défense (C.I.D.). Brillant spécialiste de géopolitique, Aymeric Chauprade présente, dans un nouvel ouvrage Chronique du choc des civilisations, des interprétations alternatives à la thèse officielle des attentats du 11 septembre 2001. Exposer ces théories « complotistes » signifie-t-il obligatoirement adhérer à leurs conclusions alors qu’Aymeric Chauprade, en sceptique méthodique, prend garde de ne pas les faire siennes ?

 

 

 

Peu vous chaut l’impartialité de sa démarche puisque, sur l’injonction du journaliste du Point, Jean Guisnel, auteur d’un insidieux article contre lui, vous ordonnez son exclusion immédiate de toutes les enceintes militaires de formation universitaire. Mercredi dernier – 11 février -, l’infâme Canard enchaîné sortait une véritable liste d’épuration en vous enjoignant d’expulser d’autres intervenants rétifs au politiquement correct. Auriez-vous donc peur à ce point (si je puis dire) de certains scribouillards pour que vous soyez si prompt à leur obéir, le petit doigt sur la couture du pantalon ? Faut-il comprendre que Jean Guisnel et autres plumitifs du palmipède décati sont les vrais patrons de l’armée française ?

 

 

 

Avez-vous pris la peine de lire l’ouvrage incriminé ? Votre rapidité de réaction m’incite à répondre négativement. Il importe par conséquent de dénoncer votre « attitude irresponsable, irrespectueuse et indigne », car « nier la réalité est une attitude particulièrement inquiétante pour un ministre et qui n’atteste pas du courage que chacun est en droit d’attendre d’un haut responsable politique ». Qui s’exprime ainsi ? M. Jean-Paul Fournier, sénateur-maire U.M.P. de Nîmes, irrité par la fermeture de la base aéronavale de NÎmes – Garons, cité par Le Figaro (et non Libé, Politis ou Minute) du 9 février 2009. Le sénateur Fournier a très bien cerné votre comportement intolérable et honteux.

 

 

 

Aymeric Chauprade interdit de tout contact avec le corps des officiers d’active, vous agissez sciemment contre l’armée française, contre la France. En le renvoyant, vous risquez même de devenir la risée de l’Hexagone. En effet, le 12 juillet 2001, Aymeric Chauprade publiait dans Le Figaro un remarquable plaidoyer en faveur d’un « bouclier antimissile français ». Et que lit-on dans Le Figaro du 13 février 2009 ? « La France se lance dans la défense antimissile »… Certes, nul n’est prophète en son pays, mais quand même, ne peut-il pas y avoir parfois une exception ?

 

 

 

Votre action injuste me rappelle d’autres précédents quand l’Institution militaire sanctionnait des officiers coupables de penser par eux-mêmes et de contester ainsi le conformisme de leur temps : le général Étienne Copel, le colonel Philippe Pétain, le lieutenant-colonel Émile Mayer, le commandant Charles de Gaulle.

 

 

Anticonformiste, Aymeric Chauprade l’est avec talent et intelligence; il s’inscrit dans la suite prestigieuse des Jomini, Castex et Poirier. Voilà pourquoi le réintégrer au C.I.D. serait un geste fort pour l’indispensable réarmement moral d’une armée qui en a grand besoin.

 

 

 

Je doute fort, Monsieur le ministre de la Défense euro-atlantiste, que ma missive vous fera changer d’avis. Qu’importe ! Libre à vous de rester insignifiant et de figurer dans les chroniques comme le Galliffet de la réflexion stratégique.

 

Recevez, Monsieur le Ministre, mes salutations normandes.

 

 

 

Georges Feltin-Tracol