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samedi, 28 août 2010

Dall'unipolarità alla multipolarità

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Dall’unipolarità alla multipolarità

di Carlos Pereyra Mele

Fonte: eurasia [scheda fonte]

La geopolitica (scienza maledetta sin dalla II Guerra Mondiale), rinasce a partire dagli anni settanta, quando la politica internazionale si trasforma dal modello che si fondava nello scontro ideologico (capitalismo versus comunismo), poiché in quegli anni gli USA stabiliscono buoni rapporti con la Cina comunista di Mao, a quello in cui si dà inizio a una nuova fase nella geopolitica moderna. Ma fondamentalmente è a partire dallo schieramento capeggiato dagli USA contro l’ex URSS che la geopolitica si dispiega con tutta la sua potenzialità, trasformando gli Stati Uniti nella prima repubblica imperiale moderna e anche nell’iperpotenza militare che impone la globalizzazione per raggiungere il controllo planetario; per questa ragione uno dei suoi più dotati geopolitici, Henry Kissinger, affermò che “in realtà, la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”.

Quest’idea di controllo planetario, come più volte ribadito, si affida sull’appoggio mitico del destino manifesto dai dirigenti americani e dalle grandi corporazioni che integrano il modello, e che cerca di piegare la resistenza sollevata da regioni e stati nazionali per imporre un controllo all’espansione del modello economico capitalista neoliberale. Il modello che si è voluto fornire è un sistema di espansione economico vulnerabile che deve essere protetto militarmente nelle sue infrastrutture. Questo modello ha fornito un sistema militarmente unipolare (gli USA come grande potenza), e culturalmente ed economicamente multipolare (USA, UE, Giappone) che è riuscito a dividere in due correnti l’America latina, soprattutto a seguito dell’attuazione della globalizzazione asimmetrica. Anche se fondamentalmente trova sempre maggiore resistenza nel cuore del continente asiatico e, nonostante l’immenso sforzo messo in pratica dall’iperpotenza per imporsi totalmente, dopo una decade questo modello non ha avuto successo e ciò sta creandogli nuove sfide e condizioni che mettono in crisi quella politica dal destino manifesto.

Dopo il sistema bipolare (dal 1945 al 1991), è iniziata una nuova era geopolitica, quella del “momento unipolare”, nella quale gli Stati Uniti rappresentavano “l’iperpotenza” (“hyperpuissance”, secondo la definizione del ministro francese Hubert Védrine).

Ad ogni modo, il nuovo sistema unipolare avrebbe avuto una vita breve e si è esaurito agli inizi del secolo XXI, quando la Russia ricompare come sfidante strategica nelle faccende globali e, allo stesso tempo, Cina e India, i due giganti asiatici, si affacciano come potenze economiche e strategiche. A livello globale, dobbiamo anche prendere in considerazione il peso crescente rappresentato da alcune nazioni dell’America latina, come il Brasile, l’Argentina e il Venezuela. Gli importanti rapporti che intrattengono questi paesi con la Cina, la Russia e l’Iran, sembrano acquisire valore strategico e prefigurano un nuovo sistema multipolare, i cui principali pilastri si possono considerare costituiti da Eurasia e dall’America latina sudamericana.

Ma stiamo vivendo anche un nuovo momento in cui la supremazia imposta dal cosiddetto mondo occidentale sin dalla rivoluzione industriale, cessa di rappresentare l’asse portante dello sviluppo e della cultura del mondo moderno per ridefinirsi in nuovi equilibri con paesi e culture molto diversi da quelli dominati negli ultimi duecento anni (e che concerne anche la nostra storia, soprattutto adesso che stiamo festeggiando il Bicentenario).

Il grande cambiamento s’imposta in rapporto alla partecipazione e allo sviluppo dell’Asia, in particolar modo di Cina, India e Russia, i quali rispettivamente sono passati ad avere un PIL pro capite da 419 a 6800 dollari, 16 volte in più, da 643 a 3500 dollari, 5 volte in più, in Russia si è arrivati a 13173 e in Brasile si è passati da 3744 a 9080, quasi tre volte in più. Il potere economico tendenzialmente va accompagnato verso la regionalizzazione, il che rende più dinamici e danno maggiore potere agli emergenti che capeggiano questi processi. Gli scambi interregionali si accelerano e si attivano in Asia Orientale, passando negli ultimi anni da un 40% a un 60%, lo stesso sta accadendo con l’aumento delle possibilità di sviluppo nella regione sudamericana, di là dalle asimmetrie esistenti, come nel caso del Mercosur.

Autorevoli analisti economici prevedono che, nonostante la crisi mondiale e se questa non produce maggiori danni di quelli che ha prodotto fino a ora, nella cosiddetta triade (USA, UE, Giappone), la partecipazione nel prodotto lordo mondiale da parte delle regioni emergenti sarà nel periodo 2020-2025 di circa il 60%, spettandogli all’Asia il 45% di questo incremento.

Questo aumento della potenzialità economica e dello sviluppo sarà accompagnato da una maggiore autonomia politica.

Per questa ragione, il secolo XXI si caratterizzerà come un secolo decentralizzato e con molte zone di potere decisionale.

Questa realtà la nascosero molti studiosi di rapporti esteri, perché “occidentali”. E ancora adesso continuano a confondere i nostri popoli con informazione falsa, mediante i mezzi di comunicazione che sono proprietà di quel sistema di alleanze. L’iperpotenza americana deve negoziare con attori che prima non prendeva in considerazione o al massimo li considerava marginalmente. E questo non è poco.

Ricordiamo che questa dinamica del nuovo ordine in gestazione la stiamo sostenendo sin dall’anno 2001, e quelli che hanno partecipato nelle nostre conferenze, riunioni e seminari possono confermare ciò.

Con una globalizzazione severamente aggravata dall’unilateralismo degli Stati Uniti, nel 2001 sostenevamo una divisione del mondo schematicamente diviso in 4 livelli:

  1. Livello superiore. Supremazia assoluta (o quasi) degli USA.
  2. Livello a elevata autodeterminazione, dove si trovano solo l’Unione Europea e il Giappone.
  3. Livello di resistenza. Lì stanno la Cina, l’India e la Russia, le quali posseggono la capacità di limitare l’interferenza della globalizzazione nel loro territorio. Vale a dire, hanno autodeterminazione interna, ma molto limitata autodeterminazione esterna.
  4. Livello di dipendenza. Tutti gli altri paesi.

Dopo il 1991 non c’è stato nessun altro tipo di negoziati tra le “potenze vittoriose”, come accadde alla fine della II Guerra Mondiale. Neanche ci fu “accordo di pace”, i nuovi rapporti politici ed economici sanciti tra le grandi potenze – e tra queste e il resto del mondo- da allora si stanno definendo in forma lenta, conflittuale, basati nel “caso per caso”. Gli Stati Uniti continuarono ad applicare le tesi Nicolas Spykman, per controllare ciò che lui definì il Rimland – principale oggetto della strategia per il governo mondiale -, il quale è pensato per il controllo dell’Europa occidentale, Medio Oriente, la Penisola arabica, Iran, Turchia, India e Pakistan, il Sudest asiatico, parte della Cina, Corea, Giappone e la parte costiera della Russia orientale. E, all’interno di questo quadro di controllo geopolitico “ha luogo” l’11 settembre (attentato alle torri gemelle), per mezzo del quale gli USA portano avanti la denominata “guerra infinita” contro i paesi che unilateralmente dichiara “Stati canaglia” con il suo famoso “asse del male” e con questa giustificazione mette in moto la parte finale del processo di dominio planetario che i suoi ideologi ed esecutori militari avevano pianificato sin dalla caduta dell’URSS (si vedano i documenti americani di Santa Fe per capire meglio questo modello).

Quello che in realtà si volle imporre fu una versione aggiornata del vecchio modello globalizzatore della rivoluzione industriale della fine del secolo XIX, nel quale il mondo si divise in centri dominanti (paesi sviluppati) e periferici (colonie dipendenti).

Ma il progetto non poté rendersi del tutto operativo nella sua totalità e la grande notizia è che l’attuale mutazione sta mettendo fine a una struttura storica di quasi duecento anni di dominazione da parte dell’occidente e con essa non è in crisi il modello capitalista, bensì tutto il sistema munito di strutture e di organizzazioni che si sono imposte dopo il trionfo degli USA nella II Guerra Mondiale (ONU, FMI, BM, OSA nel nostro caso specificamente latinoamericano, ecc.)

Attualmente, il sistema mondo 2010 si sta ridefinendo nella seguente maniera:

  1. Livello superiore. Supremazia non più assoluta degli USA.
  2. Livello a elevata autodeterminazione, dove si collocano l’Unione Europea, il Giappone, la Cina e la Russia.
  3. Livello di resistenza. In esso si collocano l’India, il Sudafrica e il Brasile (che cerca di irrobustire tutto un suo sistema regionale del quale l’Argentina rappresenta il nucleo forte dell’integrazione con strutture come: Gruppo di Rio, Mercosur, UNASUR, Consiglio di Difesa Sudamericano, Banco del Sud, ecc.), le quali consentono di avere una capacità di limitazione dell’interferenza globalizzatrice nel proprio territorio. Vale la pena ricordare che il livello di resistenza significa: autodeterminazione interna e con limitata autodeterminazione esterna).
  4. Livello di dipendenza. Tutti gli altri paesi.

Queste sono le tendenze geopolitiche del 2010, il come si definirà questo modello di sistema mondo lo vedremo tra qualche anno, il grande dubbio che rimane in sospeso è se gli attuali detentori dell’egemonia militare non tenteranno d’imporre il loro modello di controllo planetario di tipo bellico, perché se così fosse, l’umanità starebbe sull’orlo dell’estinzione in un olocausto nucleare.

I grandi mutamenti sono un’enorme sfida che devono affrontare gli attori politici e sociali d’America e, in particolar modo, quelli del nostro paese che si trovano davanti a un’alternativa molto forte, perché da questi esigono un livello di cooperazione pressante per evitare il trionfo dell’irrazionalità. Evidenziando che queste nuove circostanze danno al nostro continente la possibilità, vera e concreta, di ridefinire il nostro ruolo a livello globale e di non partecipare nuovamente come invitati di pietra nel ridisegnare il mondo, giacché siamo alla presenza di un mondo che racchiuderà molti centri di potere e la logica ci dovrebbe obbligare a pensare in grande, cioè in termini di regione e di continente per uscire dallo stadio di dipendenza periferica che ci aveva assegnato il sistema di globalizzazione avviato dagli USA. Dobbiamo ricordare, come lo abbiamo più volte detto, che il mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni si sta modificando nelle sue strutture basiche, paradigmi e miti, tanto nazionali, regionali e continentali, e ciò ci richiede una nuova insubordinazione che getti le fondamenta in questo Bicentenario.

Testo presentato alla Conferenza del III Seminario di Geopolitica organizzato dal Settore Cultura della Provincia di Córdoba il 12 agosto 2010.

Fonti:

La Insoburdinación Fundante, del Dott. Marcelo Gullo.

Le monde Diplomatique, edición latinoamericana.

Rivista EURASIA, del Dott. Tiberio Graziani.

Pensamiento de Ruptura, del Dott. Alberto Buela.

Diccionario Latinoamericano de geopolítica y Seguridad del Dott. Miguel Barrios y Carlos Pereyra Mele.

(trad di V. Paglione)

http://licpereyramele.blogspot.com/

* Carlos Pereyra Mele, politologo argentino e membro del  Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos, collabora con la rivista “Eurasia”.


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samedi, 21 août 2010

L'idée touranienne dans la stratégie américaine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2001

 

 

L'idée touranienne dans la stratégie américaine

 

Le régime turc est autorisé à se maintenir en lisière de l'Eu­rope et dans l'OTAN, malgré ses dimensions "non démo­cra­ti­ques", parce ce pays reçoit en priorité l'appui des Etats-U­nis, qui savent que le militarisme turc pourra leur être très utile si le "Grand Jeu" reprend au beau milieu de l'espace eurasiatique. Cette coïncidence d'intérêts entre militaires turcs et stratégie générale des Etats-Unis incite les uns et les autres à redonner vigueur au "panturquisme", qui porte quelques fois un autre nom : celui de "pantouranisme" ou de "touranisme". C'est le rêve et le projet d'un "empire grand-turc", même s'il doit rester informel, qui s'étendrait de l'Adriatique (en Bosnie) à la Chine (en englobant le Xin­jian ou "Turkestan oriental" ou "Turkestan chinois") (1). Cet empire grand-turc rêvé prendrait le relais de l'Empire otto­man défunt. Le projet touranien a été formulé jadis par le dernier ministre de la guerre de cet empire ottoman, Enver Pacha, tombé au combat face aux troupes soviétiques en com­mandant des indépendantistes turcophones d'Asie cen­tra­le. La "Touranie" centre asiatique n'a jamais fait partie de l'Empire ottoman, sauf quelques bribes territoriales dans les marches; néanmoins, il y a toujours eu des liens entre les khanats des peuples turcs d'Asie centrale et l'Empire ot­to­man, qui y recrutait des hommes pour ses armées. Si la li­gnée d'Osman s'était éteinte, celle des khans de Crimée, de la maison de Giraj, dont l'ancêtre était le Grand Khan des Mongols, Gengis Khan (2), serait alors devenue, comme prévu, la dynastie dirigeante de l'Empire Ottoman (3). 

 

Face au projet touranien, Atatürk adoptait plutôt une posi­tion de rejet, mais c'était très vraisemblablement par tac­ti­que (4), car il devait justifier sa politique face à l'Occident et condamner, pour cette raison, le génocide perpétré par les gouvernements jeunes-turques contre les Arméniens. En­suite, dès que le régime soviétique s'est consolidé, il n'au­rait pas été réaliste de persister sur des positions pan­tou­raniennes. Pourtant, en 1942, quand les troupes alle­man­des pénètrent profondément à l'intérieur du territoire so­viétique, le panturquisme, longtemps refoulé, revient très vite à la surface. Mais, vu la constellation internatio­nale, le gouvernement turc a dû officiellement juger cer­tains activistes pantouraniens, comme le fameux Alparslan Türkesch, pour "activités racistes"; en effet, les Britan­ni­ques (et non pas l'Allemagne nationale-socialiste) avaient, selon leurs bonnes habitudes et sans circonlocutions inu­ti­les, menacé d'occuper la Turquie et Staline, lui, était passé à l'acte en déportant en Sibérie les Tatars de Crimée, alliés poten­tiels d'une coalition germano-turque.

 

Perspective touranienne

et "grande turcophonie"

 

Après l'effondrement de l'URSS, la perspective touranienne (5) est bien trop séduisante pour les Etats-Unis, héritiers du système de domination britannique, pour qu'ils la négli­gent. Mises à part les républiques caucasiennes, la majorité écrasante de la population des Etats indépendants dans la partie méridionale de l'ex-Union Soviétique sont de souche turque, sauf les Tadjiks qui sont de souche persane. Qui plus est, de nombreux peuples au sein même de la Fé­dé­ra­tion de Russie appartiennent à cette "grande turcophonie": leur taux de natalité est très élevé, comme par exemple chez les Tatars, qui ont obtenu le statut d'une république quasi indépendante, ou chez les Tchétchènes, qui combat­tent pour obtenir un statut équivalent. Les "pantouraniens" de Turquie ne sont pas encore très conscients du fait que les Yakoutes de Sibérie nord-orientale, face à l'Etat amé­ri­cain d'Alaska, relèvent, eux aussi, au sens large, de la tur­co­phonie.

 

Si l'on parvient à unir ces peuples qui, tous ensemble, comp­tent quelque 120 millions de ressortissants, ou, si on par­vient à les orienter vers la Turquie et son puissant allié, les Etats-Unis, à long terme, les dimensions de la Russie pourraient bien redevenir celles, fort réduites, qu'elle avait au temps d'Ivan le Terrible (6). En jouant la carte azérie (l'A­zerbaïdjan), ethnie qui fournit la majorité du cadre mi­li­taire de l'Iran, on pourrait soit opérer une partition de l'I­ran soit imposer à ce pays un régime de type kémaliste, indirectement contrôlé par les Turcs. Certains pantoura­niens turcs, à l'imagination débordante, pourraient même rêver d'un nouvel Empire Moghol, entité démantelée en son temps par les Britanniques et qui sanctionnait la domina­tion turque sur l'Inde et dont l'héritier actuel est le Pa­ki­stan.

 

Le "Parti du Mouvement National" (MHP), issu des "Loups Gris" de Türkesch, se réclame très nettement du touranis­me; lors des dernières élections pour le parlement turc, ce parti a obtenu 18,1%, sous la houlette de son président, Dev­let Bahceli et est devenu ainsi le deuxième parti du pays. Il participe au gouvernement actuel du pays, dans une coalition avec le social-démocrate Ecevit, permettant ainsi à certaines idées panturques ou à des sentiments de même acabit, d'exercer une influence évidente dans la so­ciété turque. C'est comme si l'Allemagne était gouvernée par une coalition SPD/NPD, avec Schroeder pour chancelier et Horst Mahler comme vice-chancelier et ministre des af­faires extérieures! […].

 

Une Asie centrale "kémalisée"?

 

Dans un tel contexte, le kémalisme comme régime a toutes ses chances dans les républiques touraniennes de l'ex-Union Soviétique. Les post-communistes, qui gouvernent ces E­tats, gardent leur distance vis-à-vis de l'Islam militant et veu­lent le tenir en échec sur les plans politique et institu­tionnel. Mais l'arsenal du pouvoir mis en œuvre là-bas peut rapidement basculer, le cas échéant, dans une démocratie truquée. Jusqu'à présent, ces Etats et leurs régimes se sont orientés sur les concepts du soviétisme libéralisé et, mis à part l'Azerbaïdjan, choisissent encore de s'appuyer plutôt sur la Russie que sur la Turquie (8), malgré l'engagement à grande échelle de Washington et d'Ankara dans les sociétés pétrolières et dans la politique linguistique (introduction d'un alphabet latin modifié (7), adaptation des langues turques au turc de Turquie. Comme l'Occident exige la li­berté d'opinion et le pluralisme, ces éléments de "bonne gouvernance" sont introduits graduellement par les gouver­ne­ments de ces pays, ce qui constitue une démocratisation sous contrôle des services secrets selon la notion de peres­troïka héritée de l'Union Soviétique (9).

 

Cela revient à construire les "villages à la Potemkine" de la dé­mocratie (10), dont le mode de fonctionnement concret est difficile à comprendre de l'extérieur. Tant que les diffé­rents partis et organes de presse demeurent sous le contrô­le des services secrets, on n'aura pas besoin d'interdire des formations politiques en Asie centrale (contrairement à ce qui se passe en Allemagne fédérale!). Mieux: on ira jusqu'à soutenir le "pluralisme" par des subsides en provenance des services secrets, car cela facilitera l'exercice du pouvoir par les régimes post-communistes établis, selon le bon vieux principe de "Divide et impera", mais l'Occident aura l'im­pression que la démocratie est en marche dans la ré­gion.

 

Avec Peter Scholl-Latour, on peut se poser la question: «Pen­dant combien de temps l'Occident  —principalement le Congrès américain et le Conseil de l'Europe—  va-t-il culti­ver le caprice d'imposer un parlementarisme, qui soit le cal­que parfait de Westminster, dans cette région perdue du monde, où le despotisme est et reste la règle cardinale de tout pouvoir? ». Ce jeu factice de pseudo-partis et de pseu­do-majorités ne peut conduire qu'à discréditer un système, qui ne s'est avéré viable qu'en Occident et qui y est incon­tour­nable. Le pluralisme politique et la liberté d'opinion ne sont pas des "valeurs" qui se développeront de manière op­timale en Asie centrale. Même le Président Askar Akaïev du Kirghizistan, considéré en Europe comme étant "relative­ment libéral", a fait prolonger et bétonner arbitrairement son mandat par le biais d'un référendum impératif. Nous avons donc affaire à de purs rituels pro-occidentaux, à un libéralisme d'illusionniste, pure poudre aux yeux, et les mis­sionnaires de cette belle sotériologie éclairée, venus d'Oc­cident, finiront un jour ou l'autre par apparaître pour ce qu'ils sont: des maquignons et des hypocrites (11).

 

Va-t-on vers une

islamisation de l'extrémisme libéral?

 

Comme la pseudo-démocratie à vernis occidental court tout droit vers le discrédit et qu'elle correspond aux intérêts américains, tout en ménageant ceux de la Russie (du moins dans l'immédiat…), c'est un tiers qui se renforcera, celui dont on veut couper l'herbe sous les pieds : l'islamisme. Com­me le kémalisme connaît aussi l'échec au niveau des par­tis politiques, parce que la laïcisation forcée qu'il a prô­née n'a pas fonctionné, la perspective touranienne conduit ipso facto à réclamer une ré-islamisation de la Turquie, mais une ré-islamisation compatible avec la doctrine kéma­liste de l'occidentalisation (12); de cette façon, le kéma­lis­me pourra, à moyen terme, prendre en charge les régimes post-communistes de la "Touranie".

La synthèse turco-islamique ("Türk-islam sentezi") est un nou­vel élément doctrinal, sur lequel travaillent depuis long­temps déjà les idéologues du panturquisme (13), avec de bonnes chances de connaître le succès : si l'on compta­bi­lise les voix du DSP et du CHP, on obtient à peu de choses près le nombre des adeptes de l'alévisme; ceux-ci se veu­lent les représentants d'un Islam turc, posé comme distinct du sunnisme, considéré comme "arabe", et du chiisme, con­sidéré comme "persan" (14). Dans cette constellation poli­tique et religieuse, il faut ajouter aux adeptes de l'alé­visme, l'extrême-droite turque et une partie des islamistes (15). Ces deux composantes du paysage politique turc é­taient prêtes à adopter une telle synthèse, celle d'un Islam turc, voir à avaliser sans problème une islamisation du ké­malisme, qui aurait pu, en cas de démocratisation, con­duire à une indigénisation de facto de l'extrémisme libéral.

 

Universalisme islamique

et Etats nationaux

 

En s'efforçant de créer une religion turque basée sur la ma­xime "2500 ans de turcicité, 1000 ans d'islam et (seule­ment) 150 ans d'occidentalisation", un dilemme se révèle : ce­lui d'une démocratisation dans le cadre d'un islam qui reste en dernière instance théocratique. L'établissement de la démocratie dans tout contexte islamique s'avère fort difficile, parce que la conception islamique de l'Etat im­plique une négation complète de l'Etat national (16). Or cette instance, qu'on le veuille ou non, a été la grande pré­misse et une des conditions premières dans l'éclosion de la démocratie occidentale (en dépit de ce que peuvent penser les idéologues allemands au service de la police politique, qui marinent dans les contradictions de leur esprit para-théocratique, glosant à l'infini sur les "valeurs" de la démo­cratie occidentale). Dans l'optique de l'islam stricto sensu, en principe, tous les Etats existants en terre d'islam sont illégitimes et peuvent à la rigueur être considérés comme des instances purement provisoires. Ils n'acquièrent légiti­mité au regard des puristes que s'ils se désignent eux-mê­mes comme bases de départ du futur Etat islamique qui, en théorie, ne peut être qu'unique. 

 

Dans le christianisme, le conflit entre la revendication universaliste de la religion et les exigences particularistes de la politique "mondaine" (immanente) se résout par la séparation de l'Eglise et de l'Etat. Dans le christianisme oriental (orthodoxie), la séparation de l'Eglise et de l'Etat n'a pas été poussée aussi loin, ce qui est une caracté­ristique découlant tout droit de la forme de domination propre au système ottoman, que l'on appelle le "système des millets", où les chefs d'Eglise, notamment le Patriarche de Constantinople, sont considérés comme des "chefs de peuple". De ce fait, le principe de l'"église nationale" con­stitue la solution dans cette aire byzantine et orthodoxe. Dans l'aire islamique, nous retrouvons cette logique, qui, en Occident, a conduit à la démocratie, telle qu'on la connaît aujourd'hui. Cette démocratie a pu s'organiser dans un es­pace particulier et circonscrit, via l'instance "Etat national". Donc dans l'aire islamique, réaliser la démocratie passe né­cessairement par le postulat de créer une religion natio­nale. On retrouve une logique similaire dans le judaïsme, lui aussi apparenté à l'Islam, où le sionisme a été le moteur d'une démocratisation nationaliste, qui a finalement con­duit à la création de l'Etat d'Israël. Cependant, dans l'aire islamique, une religion nationale de ce type, qui pourrait concerner tous les Etats musulmans, ne pourrait pas se con­tenter d'être une simple religion civile, comme en Occident et notamment en RFA, où la religion civile repose sur un reniement moralisateur du passé, organisé par l'Etat lui-mê­me; elle devrait avoir tous les éléments d'une véritable religion (17), pouvant se déclarer "islamique", même si d'au­tres refusent de la considérer comme telle.

 

 

L'alévisme turc,

religiosité de type gnostique

 

Dans les doctrines de l'alévisme turc (18), nous avons affai­re à une religion de type gnostique, car son noyau évoque la théorie des émanations, selon laquelle tous les étants sont issus de Dieu, vers lequels ils vont ensuite s'efforcer de retourner. Dieu a créé les hommes comme êtres corporels (phy­siques) (19), afin de se reconnaître lui-même dans sa création. Après le "retour" dans l'immense cycle ontolo­gi­que, toutes les formes, produites par l'émanation, retour­nent à Dieu et se dissolvent en lui (20), ce qui lui permet de gagner en quelque sorte une plus-value d'auto-connais­sance. La capacité qu'a l'homme de reconnaître Dieu at­teste de la nature divine de l'homme. Par extrapolation, on aboutit quelques fois à une divinisation de l'homme, deve­nant de la sorte un être parfait (où l'homme devient un dieu sur la Terre), et, dans la logique de l'alévisme turc, le Turc devient ainsi le plus parfait des êtres parfaits. L'hom­me a parfaitement la liberté d'être athée, car l'athéisme con­stitue une possibilité de connaître Dieu (21), car la con­nais­sance de Dieu, dans cette optique, équivaut à une con­naissance de soi-même.

 

Par conséquent, les lois islamiques, y compris les règles de la prière, ne sont pas reconnues et, à leur place, on installe les anciennes règles sociales pré-islamiques des peuples turcs, ce qui revient à mettre sur pied une religion ethni­que turque, compénétrée d'éléments chamaniques venus d'Asie centrale. Dans une telle optique, Mohammed et Ali, qui, au titre d'émanation est pied sur pied d'égalité avec lui, sont perçus comme des êtres angéliques préexistants, devenus hommes.  Le Coran n'a plus qu'une importance de moin­dre rang, car, disent les gnostiques turcs, par sa chute dans une forme somatique d'existence, le Prophète a subi une perte de savoir, le ramenant au niveau de la simple con­naissance humaine. Tous les éléments d'arabité en vien­nent à être rejetés, pour être remplacés par des éléments turcs.

 

Ordre des Janissaires, alévisme

et indigénisme turc

 

Si l'on ôte de l'idéologie d'Atatürk tout le vernis libéral (extrême libéral), on perçoit alors clairement que le fonda­teur de la Turquie moderne —même s'il n'en était pas entiè­rement conscient lui-même—  était effectivement un Alé­vite, donc en quelque sorte un indigéniste turc (on le voit dans ses réformes : égalité de l'homme et de la femme, in­terdiction du voile, autorisation de consommer de l'alcool, suppression de l'alphabet et de la langue arabes, etc.). Ce programme ne peut évidemment pas se transposer sans heurts dans d'autres Etats islamiques. En Turquie, ces ré­for­mes ont pu s'appliquer plus aisément dans la majorité sun­nite du pays sous le prétexte qu'elles étaient une occi­dentalisation et non pas une transposition politique des critères propres de l'alévisme. La suppression du califat sun­nite par Atatürk en 1924 peut s'interpréter comme une ven­geance pour la liquidation de l'ordre des janissaires par l'Etat ottoman en 1826. Les janissaires constituaient la prin­cipale troupe d'élite de l'Empire ottoman; sur le plan re­ligieux, elle était inspirée par l'Ordre alévite des Bekta­chis , lui aussi interdit en 1827 (22). Les intellectuels de l'Armée et les nationalistes d'inspiration alévite reprochent à cette interdiction d'avoir empêché la turquisation des Albanais, très influencés par le bektachisme, à l'ère du ré­veil des nationalités. Les nationalistes alévites constituent l'épine dorsale du mouvement des Jeunes Turcs qui arrivent au pouvoir en 1908. Ces événements et cette importante cardinale du bektachisme alévite explique pourquoi la Tur­quie actuelle et les Etats-Unis (23) accordent tant d'impor­tance à l'Albanie dans les Balkans, au point de les soutenir contre les Européens.

L'idéal de "Touran" vise

à poursuivre la marche de l'histoire

 

La religion quasi étatique dérivée directement des doctri­nes alévites pourrait sous-tendre un processus de démocra­ti­sation dans l'aire culturelle musulmane (24), mais elle ne serait acceptée ni par les Sunnites ni par les Chiites. Ceux-ci n'hésiteraient pas une seconde à déclarer la "guerre sain­te" aux Alévites. On peut penser que les prémisses de cet Is­lam turco-alévite pourrait, par un effet de miroir, se re­trou­ver dans le contexte iranien, où les Perses se réfère­raient à leur culture pré-islamique (ou forgeraient à leur tour un islam qui tiendrait compte de cette culture). Une tel­le démarche, en Iran, prendrait pour base l'épopée na­tio­nale du Shahnameh (le "Livre des Rois"). Aujourd'hui, on observe un certain retour à cette iranisme, par nature non islamique, ce qui s'explique sans doute par une certaine dé­ception face aux résultats de la révolution islamique. Mais le nouvel iranisme diffus d'aujourd'hui se plait à souligner toutes les différences opposant les Perses aux Turcs, alliés des Etats-Unis. Enfin, dans l'iranisme actuel, on perçoit en fi­ligrane une trace du principe fondamental du zoro­as­tris­me, c'est-à-dire la partition du monde en un règne du Bien et un règne du Mal, un règne de la "Lumière" et un règne de l'"Obscurité", compénétrant entièrement l'épopée nationale des Perses. Cela se répercute dans l'opposition qui y est dé­cri­te entre l'Empire d'"Iran" et l'Empire du "Touran". « L'Iran étant la patrie hautement civilisée des Aryens, tandis que le Touran obscur est le lieu où se rassemblent tous les peu­ples barbares de la steppe, venus des profondeurs de l'Asie centrale, pour assiéger la race des seigneurs de souche in­do-européenne » (25).

 

La fin de l'histoire occidentale

 

Peut importe ce que les faits établiront concrètement dans le futur : dés aujourd'hui, on peut dire que la perspective tou­ranienne permet d'aller dans le sens des intérêts amé­ri­cains au cas où le "Grand Jeu" se réactiverait et aurait à nou­veau pour enjeu la domination du continent eurasia­ti­que, prochain "champ de bataille du futur" (26). Parce qu'ils bénéficient du soutien des Etats-Unis, les Etats riverains et touraniens de la Mer Caspienne équipent leurs flottes de guerre pour affirmer leurs droits de souveraineté sur cette mer intérieure face à la Russie et à l'Iran. Le tracé de ces frontières maritimes est important pour déterminer dans l'avenir proche à qui appartiendront les immenses réserves de pétrole et de gaz naturel. Le risque de guerre qui en découle montre l'immoralité de la politique d'occidentalisa­tion, dont parle Huntington (27). Celui-ci nous évoque les moyens qui devront irrémédiablement se mettre en œuvre pour concrétiser une telle politique : ces moyens montrent que la conséquence nécessaire de l'universalisme est l'im­pé­­rialisme, mais que, dans le contexte actuel qui nous pré­occupe, l'Occident n'a plus la volonté nécessaire de l'impo­ser par lui-même (mis à part le fait que cet impérialisme con­tredirait les "principes" occidentaux…). L'universalisme oc­ci­dental, qui cherche à s'imposer par la contrainte, ne peut déboucher que sur le désordre, car les moyens mis en œuvre libèreraient des forces religieuses, philosophiques et démographiques qu'il est incapable de contrôler et de com­pren­dre. Cette libération de forces pourra conduire à tout, sauf à la "fin de l'histoire". Mais cette fin de l'histoire sera effectivement une fin pour la civilisation qui pense que cet­te fin est déjà arrivée. «Les sociétés qui partent du prin­ci­pe que leur histoire est arrivée à sa fin sont habituel­le­ment des sociétés dont l'histoire sera interprétée comme étant déjà sur la voie du déclin » (28).

 

On peut émettre de sérieux doute quant à la réalisation ef­fective de la "perspective touranienne" ou d'une issue con­crète aux conflits qu'elle serait susceptible de déclencher dans l'espace centra-asiatique quadrillé jadis par l'interna­tionalisme stalinien qui a imposé des frontières artificiel­les, reprises telles quelles par le nouvel ordre libéral, qui ne parle pas d'"internationalisme", comme les Staliniens, mais de "multiculturalisme". Ce multiculturalisme ne veut pas de frontières, alors que ce système de frontières est une nécessité pour arbitrer les conflits potentiels de cette ré­gion à hauts risques. Renoncer aux frontières utiles re­vient à attendre une orgie de sang et d'horreur, qui sera d'au­tant plus corsée qu'elle aura une dimension métaphy­si­que (29). C'est une sombre perspective pour nous Euro­péens, mais, pour les Turcs, elle implique la survie, quoi qu'il arrive, à l'horizon de la fin de l'histoire, que ce soit en préservant leur alliance privilégiée avec les Etats-Unis ou en entrant en conflit avec eux, remplaçant l'URSS comme dé­tenteurs de la "Terre du Milieu", nécessairement opposés aux maîtres de la Mer.

Josef SCHÜSSLBURNER.

(extrait d'un article paru dans Staatsbriefe, n°9-10/2001).

Notes :

(1)     Cf. «Waffen und Fundamentalismus. Die muslimischen Separa­tisten im Nordwesten Chinas erhalten zulauf», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29.3.1999.

(2)     Plus tard, un nombre plus élevé de tribus mongoles se sont pro­­gressivement "turquisées"; le terme "Moghol" le rappelle, par exemple, car il signifie "mongol" en persan; c'est un sou­venir des origines mongoles des familles dominantes, alors qu'en fin de compte, il s'agit d'une domination turque sur l'In­de.

(3)     F. Gabrieli, Mohammed in Europa - 1300 Jahre Geschichte, Kunst, Kultur, 1997, p. 143.

(4)     La position d'Atatürk était purement tactique, en effet, si l'on se rappelle que les principaux responsables du génocide sont devenus les meilleurs piliers du régime kémaliste; cf. W. Gust, Der Völkermord an den Armeniern, 1993, pp. 288 et ss.

(5)     Cf. «Stetig präsent. Das Engagement der Türkei in einem unsi­cher werdenden Mittelasien», Frankfurter Allgemeine Zei­tung, 4.10.1999.

(6)     La Russie reconnaît effectivement cette problématique; cf. «Mos­kau will eine Allianz gegen Russland nicht hinnehmen. Ankara der Verbreitung pantürkischer Vorstellung bezichtigt - Ab­schluß des Gipfels (der Staatschefs von Aserbaidschan, Ka­sachstan, Kyrgystan, Usbekistan und Turkmnistan) in Istanbul» (!), Frankfurter Allgmeine Zeitung, 20.10.1994.

(7)     Vu le caractère "irréversible" de la candidature de la Turquie à l'UE, la CDU et le Frankfurter Allgemeine Zeitung espèrent que l'ancien bourgmestre d'Istanbul fondera un parti islamique sur le modèle de la CDU (cf. «Im Zeichen der Glühbirne - Die neu­ge­gründete islamische Partei in der Türkei könnte erfolgreich sein - Diesen Erfolg will jedoch das kemalistische Regime nicht zulassen», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16.8.1991, p. 12; cf. également: «Neues Verfahren gegen Erdogan», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 22.8.2001, p. 8.

(8)     A ce sujet, cf. «Ein U für ein Y. Schriftwechsel in Aserbaid­schan von kyrillischen zu lateinischen Buchstaben; "…die durch den Wechsel der Schrift zu erwartende engere Anbindung an die Türkei sei von Vorteil für das Land, weil dadurch auch ein wirtschaftlicher Aufschwung zu erwarten sei», Frankfurter All­gemeine Zeitung, 2.8.2001, p. 10.

(9)     Pourtant la distance s'amplifie, cf. «Staatschefs der GUS reden ü­ber regionale Sicherheit; "… herrschen indes Zweifel am Sinn und Zweck der GUS, deren Staaten sich in den vergangenen Jahren auseinanderentwickelt haben», Frankfurter Allge­mei­ne Zeitung, 2.8.2001, p. 6.

(10)   Malheureusement, il n'existe aucune présentation systéma­ti­que de ce concept de "pseudo-démocratisation" téléguidée par les services secrets; on trouve cependant quelques allusions chez A. Zinoviev, Katastroïka, L'Age d'Homme, Lausanne. Par ail­leurs, des allusions similaires se retrouvent dans A. Golit­syn, New Lies for Old, 1984, livre dont nous recommandons la lecture car l'auteur, sur base de sa bonne connaissance du sys­tème soviétique de domination, a parfaitement pu prévoir la mon­tée de la perestroïka.

(11)   Voir le titre de chapitre, p. 109, dans le livre de Peter Scholl-La­tour, Das Schlachtfeld der Zukunft. Zwischen Kaukasus und Pamir, 1998. 

(12)   Ibidem, pp. 151 et ss.

(13)   Cf. «Türkisierung  des Islam? Eine alte Idee wird in Ankara neu aufgelegt», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 4.9.1998.

(14)   Références dans U. Steinbach, Geschichte der Türken, 2000, p. 111.

(15)   Dans ce contexte, il convient de citer le nom du prédicateur iti­né­rant Fethullah Gülen, toutefois soupçonné par les kéma­listes, cf. Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15.4.1998.

(16)   C'est ce que souligne à juste titre Huntington, pp. 281 et sui­vantes de l'édition de poche allemande de son livre Der Kampf der Kulturen. Die Neugestaltung der Weltpolitik im 21. Jahr­hundert, 1996.

(17)   Il existe une étape intermédiaire entre une religion civile em­preinte de dogmatisme, comme cette "révision moralisante et permanente du passé" qui s'exerce en RFA, et une véritable religion d'Etat: c'est le concept du "panchasilla", qui est à la fois politique et religieux, propre au régime indonésien, qui permet à l'Etat d'énoncer des dogmes religieux, comme celui d'un monothéisme abstrait, ce qui oblige la minorité bouddhis­te d'interpréter l'idée de nirvana dans un sens théiste, ce qui pré­pare en fait son islamisation (voir notre note 20).

(18)   On en trouve une bonne présentation chez Anton J. Dierl, Ge­schichte und Lehre des anatolischen Alevismus-Bektasismus, 1998, voir en particulier pp. 29 et ss.

(19)   L'accent mis sur le corps et sur les besoins du corps, y compris l'autorisation de boire de l'alcool, a rendu les Alévites sus­pects, comme jadis les Pauliciens et les Bogomils, dont la spiritualité est sous-jacente à l'islam européen dans les Bal­kans. On peut hésiter à qualifier cette religiosité de "gnosti­que". Toutefois la construction théologique générale possède les caractéristiques du gnosticisme, car son lien avec l'islam ap­paraît plutôt fortuit (en effet, les doctrines gnostiques peu­vent recevoir aisément une formulation chrétienne ou boud­dhis­te, comme l'atteste le manichéisme).

(20)   Cette conception peut provenir du temps où la majeure partie des peuples turcs était encore bouddhiste : à l'évidence, il s'a­git ici d'une interprétation théiste du nirvana; on peut suppo­ser qu'elle ait continué à exister au niveau de la mémoire, mê­me après la conversion à l'islam de ces Turcs bouddhistes d'A­sie centrale et d'Inde, même si cette théorie n'est pas satis­fai­sante pour expliquer le principe du karma tout en niant l'exis­tence de l'âme.

(21)   On peut y reconnaître des influences venues de l'hindouisme ; la vision de Dieu comme créateur, conservateur et destructeur du monde rappelle la doctrine trifonctionnelle (Trimurti) de l'hin­douisme; quant à savoir si les cercles ésotériques de l'alé­visme turc croient à la transmigration des âmes  —comme les Dru­ses, mais qui se réfèrent à d'autres traditions, on peut sim­ple­ment le supposer. Les Alaouites de Syrie le pensent, mais les Alévites turcs ne veulent rien avoir à faire avec les Alaoui­tes qui dominent le système politique en Syrie, comme, en fin de compte, aucun Turc s'estimant authentiquement turc ne veut rien avoir à faire avec les Arabes!

(22)   L'orthodoxie sunnite n'a pas pu reprendre en charge cette fonc­tion, car elle s'opposait à la conversion forcée des Chré­tiens (jusqu'en 1700, les janissaires se recrutaient parmi les garçons chrétiens enlevés à leurs familles); cette orthodoxie ne pouvait accepter qu'un musulman soit l'esclave d'un chré­tien (ce que les janissaires étaient formellement en dépit de leur conversion forcée); ce devrait être un avertissement à ceux qui pensent que les Alévites sont des "libéraux" que l'on pourrait soutenir contre l'orthodoxie islamique.

(23)   Cf. «Das Doppelspiel der Amerikaner : Unter den Europäern wächst die Irritation über das zwielichtige Agieren Washing­tons auf dem Balkan : Als Paten der UÇK sind die USA mitver­ant­wortlich für die Zuspitzung des Konflikts zwischen Albanern und Slawo-Mazedoniern», Der Spiegel, n°31/2001, p. 100.

(24)   Il faut tenir compte du fait que l'Islam, actuellement, se trou­ve à une période de son histoire qui correspond à celle de la Ré­forme en Europe : à cette époque-là en Europe, la démo­cra­tisation ne pouvait se comprendre que comme une théocra­tisation - l'Iran actuel correspond ainsi au pouvoir instauré par Calvin à Genève (et aux théocraties équivalentes installées en Nouvelle-Angleterre). Il faudrait en outre accorder une plus grande importance à la phénoménologie culturelle que nous a léguée un Oswald Spengler; celui-ci , avec une précision toute allemande, a approfondi la théorie de l'anakyklosis (doctrine des cycles ascendants) de Polybe. Pour les collaborateurs des ser­vices de sûreté allemands, Spengler et Polybe seraient au­tomatiquement classés comme des "ennemis de la consti­tu­tion", car ni l'un ni l'autre n'auraient cru, aujourd'hui, à l'é­ternité du système de la RFA actuelle, que tous les historiens contemporains sont sommés de ne jamais relativiser!

(25)   Cf. le résumé final dans le livre de Peter Scholl-Latour, op. cit., p. 294.

(26)   Comme le dit bien le titre du livre de Peter Scholl-Latour, op. cit.

(27)   Ibidem, p. 511.

(28)   Comme le dit à juste titre Samuel Huntington, op. cit. , p. 495.

(29)   Exactement comme le dit le titre de chapitre en page 151 du li­vre de Peter Scholl-Latour, op. cit.

 

jeudi, 19 août 2010

Iran: les Etats-Unis préoccupés par les investissements chinois

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Ferdinando CALDA :

 

Iran : les Etats-Unis préoccupés par les investissements chinois

 

Les rapports commerciaux sino-iraniens et russo-iraniens risquent d’annuler l’effet des sanctions américaines

 

Le maillage des sanctions infligées à l’Iran par les Etats-Unis et la « communauté internationale » n’est pas étanche, ce qui fait enrager les bellicistes américains et donne matière à penser aux Israéliens, qui, en attendant, fourbissent leurs armes pour toute intervention militaire éventuelle.

 

Vendredi 30 juillet 2010, la Chine, à son tour et après la Russie, a critiqué la décision de l’UE d’imposer de nouvelles sanctions unilatérales contre l’Iran, sanctions qui s’ajoutent à celles déjà votées par l’ONU. « La Chine désapprouve les sanctions décidées unilatéralement par l’UE à l’encontre de l’Iran. Nous espérons que les parties intéressées continueront dans l’avenir à opter pour la voie diplomatique afin de chercher à résoudre de manière appropriée les différends, par le biais de discussions et de négociations », a déclaré Jiang Yu, le porte-paroles du ministère chinois des affaires étrangères.

 

Dans le sillage des décisions prises ces jours-ci par les Etats-Unis, en effet, l’Union Européenne ainsi que le Canada et l’Australie ont adopté une série de sanctions unilatérales sans précédent contre l’Iran, sanctions qui frappent surtout le secteur énergétique du pays. Le ministre iranien des affaires étrangères, Manouchehr Mottaki, a souligné que cette décision, une fois de plus, démontre que « l’Europe est sous l’influence des Etats-Unis dans toutes ses décisions de politiques extérieures ».

 

Plus grave : ces mesures restrictives prises récemment par l’UE déplaisent fortement à la Russie et à la Chine qui, à la tribune de l’ONU, avaient demandé d’éviter toutes sanctions « paralysantes » contre la République Islamique d’Iran, particulièrement dans le secteur énergétique, lequel constitue le véritable talon d’Achille de Téhéran. Tant Moscou que Beijing entretiennent des rapports commerciaux avec l’Iran et n’ont aucune intention d’y renoncer. La position prise par les Russes et les Chinois préoccupe fortement la Maison Blanche, vu qu’elle ébranle considérablement toutes les tentatives entreprises pour isoler l’Iran.

 

« Le fait que Beijing fasse des affaires avec Téhéran est pour nous un motif de grande préoccupation », confirme Robert Einhom, conseiller spécial du département d’Etat américain pour la non prolifération et le contrôle des armements.

 

Ce fonctionnaire américain a par ailleurs annoncé qu’une délégation américaine se rendra en Chine très bientôt, ainsi qu’au Japon (qui, lui aussi, au cours de ces derniers mois, a entamé une collaboration avec l’Iran pour la construction de centrales nucléaires antisismiques). Cette délégation se rendra également en Corée du Sud et dans les Emirats arabes du Golfe car ces Etats exportent énormément vers l’Iran. Le but de la délégation est évidemment de faire accepter par toutes ces puissances les sanctions contre l’Iran décidées par Washingto (ndt : et entérinées benoîtement par ses satellites).

 

Plus particulièrement, cette délégation aura pour tâche de rappeler à Beijing que les nouvelles sanctions approuvées par les Etats-Unis, l’Union Européenne, le Canada et l’Australie impliquent que toutes les entreprises étrangères qui coopèreront avec le secteur énergétique iranien seront également sanctionnées. Or, actuellement, les entreprises chinoises, auxquelles la délégation américaine fait implicitement référence, sont en train d’investir de « manière agressive » dans ce secteur-là et non dans d’autres.

 

Du reste, le pétrole et le gaz iraniens  —qui pourraient arriver en Chine via le Pakistan, après qu’Islamabad ait noué d’importants accords en ce sens avec Téhéran—  représentent un enjeu important pour une Chine en croissance continue, de plus en plus demanderesse en matières énergétiques.

 

« Les Chinois prétendent avoir des exigences importantes en matière de sécurité », explique Einhom, qui, toutefois, invite Beijing « à revoir ses priorités ».

 

Entretemps, la République Islamique d’Iran cherche de nouvelles collaborations pour échapper aux sanctions et à l’étranglement voulu par Washington. Ces dernières semaines, le vice-ministre iranien des pétroles, Javad Oji, a eu une longue entrevue avec une délégation irakienne afin de préparer un accord sur l’exportation de gaz iranien vers l’Irak. Les Iraniens espèrent qu’il y aura très bientôt un gazoduc partant d’Iran pour aboutir en Irak qui, ultérieurement, pourra être étendu au territoire syrien et, de là, aboutir à la Méditerranée et servir à l’alimentation énergétique de l’Europe.

 

Ferdinando CALDA (f.calda@rinascita.eu ).

(article tiré de « Rinascita », Rome, 31 juillet/1 août 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

 

 

 

 

mercredi, 18 août 2010

Les Etats-Unis modifient leur stratégie en Afghanistan

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Bernhard TOMASCHITZ :

 

Les Etats-Unis modifient leur stratégie en Afghanistan

 

A partir de 2014, le gouvernement afghan devra lui-même assurer la sécurité sur son propre territoire. Cette intention a été confirmée au Président Hamid Karzai fin juillet 2010, lors de la Conférence internationale sur l’Afghanistan, tenue à Kaboul. Dès l’été 2011, les premières troupes américaines quitteront le pays, ce qui, d’après les paroles d’Hillary Clinton, ministre américaine des affaires étrangères, constituera « le commencement d’une phase nouvelle de notre engagement et non sa fin ». En fin de compte, les Etats-Unis entendent participer, après le retrait de leurs troupes, à la formation des forces afghanes de sécurité.

 

Le Président américain Barack Obama cherche ainsi à se débarrasser du vieux fardeau afghan, hérité de son prédécesseur George W. Bush, juste avant les présidentielles de 2012. Mais derrière les plans de retrait hors d’Afghanistan, que l’on concocte aux Etats-Unis, se profile le constat que la guerre dans ce pays, qui dure maintenant depuis neuf ans, ne pourra pas être gagnée. A cela s’ajoute le coût très élevé de cette guerre, qui se chiffre à quelque 100 milliards de dollars par an. Une telle somme ne peut plus raisonnablement s’inscrire désormais dans le budget américain, solidement ébranlé. Richard N. Haass, Président du très influent « Council of Foreign Relations » (CFR) tire la conclusion : « Nous devons reconnaître que cette guerre a été un choix et non pas une nécessité ». Il y a surtout que le coût militaire de l’entreprise est trop élevé, dans la mesure où elle mobilise des ressources qui, du coup, manquent en d’autres points chauds. Haass cite, dans ce contexte, l’Iran et la Corée du Nord, deux Etats étiquetés « Etats voyous », qui se trouvent depuis longtemps déjà dans le collimateur de Washington.

 

Si les Etats-Unis se retirent du théâtre opérationnel de l’Hindou Kouch, l’Afghanistan, ébranlé par la guerre, n’évoluera pas pour autant vers des temps moins incertains. Ensuite et surtout, les Etats-Unis ne disposent pas de moyens adéquats pour trancher le nœud gordien afghan, constitué d’un entrelacs très compliqué de combattants talibans, de divisions ethniques et de structures claniques traditionnelles. Il y a ensuite le voisin pakistanais, disposant d’armes nucléaires, qui est tout aussi instable que l’Afghanistan. Rien que ce facteur-là interdit aux Etats-Unis de laisser s’enliser l’Afghanistan dans un chaos total. D’après Haass, « les deux objectifs des Etats-Unis devraient être les suivants : empêcher qu’Al Qaeda ne se redonne un havre sécurisé dans les montagnes afghanes et faire en sorte que l’Afghanistan ne mine pas la sécurité du Pakistan ». C’est pourquoi, malgré le retrait annoncé, on peut être certain que des troupes américaines demeureront en permanence en Afghanistan, fort probablement en vertu d’un accord bilatéral qui sera signé entre Washington et Kaboul. Les Américains, finalement, n’ont que fort peu confiance en les capacités du Président afghan Karzai, homme corrompu, qui, au cours des années qui viennent de s’écouler, n’a pu assurer sa réélection que par une tricherie de grande envergure.

 

La situation en Afghanistan et aussi en Irak indique aujourd’hui qu’il y a changement de stratégie à Washington, comme l’atteste les nouvelles démarches des affaires étrangères américaines. Hier, nous avions les « guerres préventives » pour généraliser sur la planète entière les principes de la « démocratie libérale » ; les cénacles et les « boîtes à penser » des néo-conservateurs les avaient théorisées. Aujourd’hui, nous assistons à un retour à la Doctrine Nixon. Richard Nixon, Président des Etats-Unis de 1969 à 1974, après le désastre du Vietnam, avait parié, surtout en Asie, sur le renforcement des économies des pays alliés et sur le soutien militaire à leur apporter. Aujourd’hui, le ministre de la défense américain Robert Gates déclare « qu’il est peu vraisemblable que les Etats-Unis répètent bientôt un engagement de l’ampleur de celui d’Afghanistan ou d’Irak, pour provoquer un changement de régime et pour construire un Etat sous la mitraille ». Mais parce que le pays doit faire face à toutes sortes de menaces, en premier lieu celle du terrorisme, l’efficacité et la crédibilité des Etats-Unis doivent demeurées intactes aux yeux du monde. Ces réalités stratégiques exigent, dit Gates, que le gouvernement de Washington améliore ses capacités à consolider les atouts de ses partenaires. Il faudra donc, poursuit-il, « aider d’autres Etats à se défendre eux-mêmes et, si besoin s’en faut, de lutter aux côtés des forces armées américaines, dans la mesure où nous aurons préparé leurs équipements, veillé à leur formation et apporté d’autres formes d’assistance à la sécurité ».  Gates justifie aussi le changement de stratégie comme suit : l’histoire récente a montré que les Etats-Unis ne sont pas prêts de manière adéquate à affronter des dangers nouveaux et imprévus émanant surtout d’Etats dits « faillis ».

 

L’Afghanistan recevra donc une « assistance à la sécurité », mais on peut douter qu’elle enregistrera le succès escompté. Toutefois la nouvelle stratégie américaine nous montre que Washington n’est pas vraiment prêt à renoncer à ses visées hégémoniques. En effet, l’armement d’alliés et de partenaires, en lieu et place de l’envoi de troupes propres, offre un grand avantage : les moyens peuvent être utilisés de manière beaucoup plus diversifiée. En fin de compte, il y a, dispersés sur l’ensemble du globe, bon nombre de pays qui peuvent être mobilisés pour faire valoir les intérêts américains. Exemples : la Colombie, pour tenir en échec le Président vénézuélien Hugo Chavez, ennemi des Etats-Unis ; ou les petits émirats du Golfe Persique pour constituer un avant-poste menaçant face à l’Iran. Comme l’exprime le ministre des affaires étrangères Gates : « Trouver la manière d’améliorer la situation qu’adoptera ensuite le gouvernement américain pour réaliser cette tâche décisive, tel est désormais le but majeur de notre politique nationale ».

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°30/2010 ; http://www.zurzeit.de/ ).

lundi, 16 août 2010

Schritt für Schritt in den nächsten (kalten) Krieg. Die USA planen militärische Dauerpräsenz in den Gewässern vor China

Schritt für Schritt in den nächsten (kalten) Krieg. Die USA planen militärische Dauerpräsenz in den Gewässern vor China

Wang Xin Long

in: http://info.kopp-verlag.de/

 

Das amerikanisch-südkoreanische Seemanöver im Ostchinesischen Meer rund um die Koreanische Halbinsel ist letzte Woche zu Ende gegangen. Die Weltgemeinschaft ist also dem Ernstfall gerade noch einmal entkommen. Was sich wie Panikmache liest, ist aber leider bittere Wirklichkeit. Die Nationen der Region haben über die letzten vier Tage und Nächte den Atem angehalten – und das Militär machte Überstunden in Bereitschaft. Die Welt war nur einen Wimpernschlag von einer militärischen, möglicherweise sogar atomaren Auseinandersetzung entfernt.

 

 

 

Unfälle passieren, weil Menschen fehlbar sind, weil sie Fehleinschätzungen machen oder eine Sekunde lang nicht aufpassen. In der letzten Woche befanden sich mehr als 8.000 Soldaten, bewaffnet mit neuester Kriegstechnologie, an der Grenze zu Nordkorea, um dort einen Krieg zu führen – wenn auch nur als Simulation. Es haben also 8.000 Menschen über vier Tage und Nächte hinweg mit dem Finger am Abzug ein »Signal« nach Nordkorea gesendet. Wenn nur einem der 8.000 am Manöver beteiligten Soldaten ein menschliches Versagen (welcher Art auch immer) unterlaufen wäre, hätte sich Nordkorea zu einem Gegenschlag genötigt gesehen – und diesen auch ausgeführt, hierüber darf kein Zweifel bestehen.

Das ganze Szenario erinnert irgendwie an einen Kindergarten, in dem die Bandenchefs »ihr« Territorium verteidigen. Es werden Linien in den Sand gezogen, diese Linien werden irgendwann übertreten, und am Ende gibt es Tränen.

In Bezug auf die aktuelle Situation ist es nun einmal leider so, dass aus einer kleinen fehlgeleiteten Rakete oder der falsch berechneten Position eines Kriegsschiffes sich schnell eine Situation hätte hochschaukeln können, mit allerschlimmsten Folgen für die Menschen weltweit. Die Liste der potenziellen Auslöser kann beliebig weitergeführt werden – und das macht die Gefahr nur noch greifbarer, und den Konflikt wahrscheinlicher. Aber es ist ja nun »zum Glück« nichts passiert. Schade ist nur, dass die Menschheit mittlerweile auf das Glück angewiesen ist, denn die Vernunft scheint sich aus verschiedenen Winkeln der Welt bereits verabschiedet zu haben.

 

Und Glück wird die Menschheit weiterhin brauchen; eine ganze Menge sogar, denn die USA planen eine Dauerpräsenz in der Region, mit weiteren Manövern und Tausenden von Soldaten. Die Nordkoreaner haben auf diese Ankündigung bereits reagiert und bekannt gegeben, dass man sich vor diesen »Bedrohungen« nicht fürchtet und jederzeit gewillt ist, mit voller Härte zurückzuschlagen. Die USA quittieren solche Ankündigungen mit der Aussage, man sei lediglich an der militärischen Übung interessiert und wolle auf keinen Fall provozieren. Aber wenn dem tatsächlich so ist, warum muss diese Übung dann nur einen Steinwurf von jener Grenze stattfinden, deren Verletzung einen Weltkrieg auslösen könnte? Ist das nicht ein zu hoher Preis für so ein wenig »militärische Übung«?

Es ist in der Tat ein hoher Preis, der gezahlt werden muss. Die Frage ist nur: von wem? Denn bei den asiatischen Nachbarn machen sich die Südkoreaner durch das Spiel mit dem Feuer nicht gerade beliebt. Insbesondere die Volksrepublik China, die ja gleichfalls Adressat der amerikanisch-südkoreanischen »Signale« ist, wird diese Provokation so schnell nicht vergessen.

Denn in Wahrheit geht es den USA nämlich um mehr als nur ein paar militärische Übungen und »Signale«. Es geht – wieder einmal – um die geopolitischen Interessen der Amerikaner. Diese Interessen hat die amerikanische Außenministerin, Hillary Clinton, bei der letzte Woche stattgefundenen ASEAN-Konferenz (Association of Southeast Asian Nations, deutsch: Verbund der Südostasiatischen Nationen) unverblümt zu Protokoll gegeben.

Clinton sprach ganz offen über die »nationalen Interessen« der USA im Südchinesischen Meer (nicht zu verwechseln mit dem Ostchinesischen Meer, in dem die Manöver der letzten Woche stattfanden). Die Außenministerin stellte darüber hinaus fest, dass die dortigen Souveränitäts-verhältnisse nicht geklärt seien. Das ist politischer Sprengstoff, und die Tragweite dieser Aussage darf nicht unterschätzt werden. Denn die »Besitzverhältnisse« im Südchinesischen Meer sind – vorsichtig ausgedrückt – problembehaftet. Dies liegt in der Tatsache begründet, dass die Anrainerstaaten unterschiedliche Ansprüche aus der eigenen geografischen Lage ableiten.

Somit haben die USA, hier in Person ihrer Außenministerin, wieder einmal Öl in ein Feuer gegossen, welches schnell eine ganze Region in Brand stecken könnte. Und warum? Ganz einfach: wegen der »nationalen Interessen« der USA! Denn aus den angeblich ungeklärten Hoheitsverhältnissen leiten die USA das Recht – nein, die Pflicht! – ab, sich in der Region zu engagieren. Als Friedensstifter sozusagen.

Die Worte Clintons zielen darauf ab, einen über viele Jahre hinweg erfolgreich geführten Friedensprozess aufzulösen, um die nötige Volatilität in der Region zu schüren. Denn die Anrainerstaaten des Südchinesischen Meeres haben eine gemeinsame Erklärung unterzeichnet, welche die Hoheitsansprüche und Nutzungsrechte vor Ort regelt, um den Frieden und die Kooperation in der Region zu sichern. Es handelt sich hierbei um die Declaration on the Conduct of Parties in the South China Sea (DOC), die im Rahmen des ASEAN-Forums ausgehandelt wurde und seit 2002 in Kraft ist.

Die Erklärung als solche geht eindeutig auf die Initiative der Volksrepublik China zurück, und die Tatsache, dass alle Anrainerstaaten die Erklärung unterzeichneten, ist ein Verdienst unermüdlicher Diplomatie. Oberstes Ziel war es, der Region die nötige Stabilität zu geben. Dass die angestrebte Stabilität nun gewährleistet ist, ist den Amerikanern zwar bekannt – aber offensichtlich egal. Aus einer stabilen Region ist nun einmal aus Sicht der USA kein geopolitischer oder wirtschaftlicher Nutzen zu ziehen.

 

Einen ganz besonderen Schliff bekommt die Angelegenheit durch die Aussage Clintons, die Anrainererklärung sei nicht bindend, denn die Regeln des Seerechtsübereinkommens der Vereinten Nationen (United Nations Convention on the Law of the Sea, UNCLOS) seien bei Fragen zu den Hoheitsrechten anzuwenden. Mit anderen Worten: Die USA sprechen den souveränen Anrainerstaaten einer ganzen Region die Fähigkeit ab, eigene nationale Interessen in multilateralen Verträgen zu regeln. Stattdessen verlangen die Amerikaner im Rahmen des internationalen Rechts, die Würfel zu Gunsten der USA neu zu rollen. Hervorzuheben ist, dass die USA dieses Seerechtsübereinkommen selbst nie ratifiziert haben, weil man durch diese Erklärung die eigenen Interessen und Souveränität gefährdet sieht.

Dank der »Friedensinitiative« der USA wird das Südchinesische Meer nun also zum geopolitischen Brennpunkt. Sehen wir also weiter zu, wie unsere Freunde aus »Fernwest« die Welt in Fernost zu befrieden gedenken.

 

 

vendredi, 13 août 2010

La geopolitica en la Italia republicana

LA GEOPOLÍTICA EN LA ITALIA REPUBLICANA

 

por Tiberio Graziani *

 

Un país con soberanía limitada

 

            A pesar de su enviadiable posición geográfica y de los carácteres que constituyen su estructura morfológica, en la actualidad, Italia no posee una doctrina geopolítica.

            Esto se debe principalmente a los tres siguientes aspectos: a) la afiliación de Italia en la esfera de influencia americana (el así llamado sistema occidental); b) la profunda crisis de la identidad nacional; c) la escasa cultura geopolítica de su clase dirigente.

            El primer aspecto, además de limitar la soberanía del Estado italiano en múltiples ámbitos, desde el militar al de la política exterior, tanto para citar algunos de aquellos más relevantes bajo el apecto geopolítico, condiciona la política y la economía interna, la elección estratégica por lo que concierne el tema de la energía, investigación tecnológica y realización de grandes infraestructuras y, no por último, incluso llega a vincular las políticas nacionales de contraste a la criminalidad organizada. La Italia republicana, por causa de las notorias consecuencias del tratado de paz de 1947 y también en virtud de la ambigüedad ideológica de su dictamen constitucional, según el cual la soberanía pertenecería a una entidad socioeconómica y cultural, por otra parte variable y vagamente homogénea, el pueblo, y no a un sujeto político bien definido como es el Estado (1), ha seguido la regla áurea del “realismo colaboracionista o claudicador”, es decir, el de renunciar a la responsabilidad de dirigir el proprio destino (2). Semejante abdicación ubica a Italia en la condición de “subordinación pasiva” y ata sus elecciones estratégicas a “la buena voluntad del Estado subordinador” (3).

            El segundo aspecto invalida uno de los factores necesarios para la definición de una doctrina política coherente. La crisis de la identidad italiana se debe a causas complejas que remontan a la fracasada combinación de las varias ideologías nacionales (la de inspiración católica, monárquica, liberal, socialista o laico-masónica) que han apoyado el proceso de unificación de Italia, la edificación del Estado unitario y, luego de la paréntesis fascista, la realizaciٖón del actual orden republicano. Además, la crisis de la identidad nacional se debe también a la mal digerida experiencia fascista y al trauma de la derrota sufrida durante la guerra. La retórica romántica del Estado-Nación, el mito de la Nación y, sucesivamente, los de la Resistencia y de la “liberación”, seguramente non han ofrecido un buen servicio a los intereses de Italia, quien, después de ciento cincuenta años de su unificación, aún está en busca de su propia identidad nacional.

            Finalmente, el tercer aspecto que por motivos históricos en parte se puede relacionar a los anteriores,  no permite situar la cuestión de las directrices geopolíticas de Italia entre las prioridades de la agenda nacional.

            No obstante, una especie de geopolítica – o bien una política exterior esencialmente basada en la colocación geográfica – correspondiente a los intereses nacionales y por lo tanto excéntrica con respecto a las indicaciones estadounidenses, exclusivamente dirigida para asegurarle a Washington la hegemonía en el Mediterráneo, se ha hallado siempre presente en las alternas vicisitudes de la República italiana. En particular, el interés de hombres del gobierno como Moro, Andreotti, Craxi, así como de importantes commis d’État como Mattei, orientado a los países de África del Norte y a los del Cercano y Medio Oriente, si bien limitado a las relaciones “de amistosa vecindad” y de “coprosperidad”, estaba decididamente acorde no sólo con la posición geográfica de Italia en el Mediterráneo, sino que también era funcional sea a una potencial, futura y deseable emancipación de la Italia democrática del amparo norteamericano, sea del papel regional que Roma habría podido ejercer también en el ámbito del rígido sistema bipolar. Tales iniciativas habrían podido constituir la base para definir las líneas estratégicas de lo que el argentino, Marcelo Gullo, ha denominado, en el ámbito del estudio de la construcción del poder de las naciones, “realismo liberacionista” para permitir a Italia transitar desde la “subordinación pasiva” a la “subordinación activa”, un estadio decisivo para conseguir algunos espacios de autonomía en la competición internacional.

            El fracaso de la modesta política mediterránea de la Italia repubblicana hay que atribuirlo, además de las interferencias norteamericanas, también a la naturaleza ocasional con la cual ha sido ejercida y a la actitud contraria y obstativa de los grupos de presión internos más filoamericanos y prosionistas. Con la conclusión del bipolarismo y de la así llamada Primera república, las iniciativas arriba expuestas, orientadas a conseguir una aun limitada autonomía de la política exterior italiana, literalmente se han desvanecido.

            Actualmente Italia, en calidad de país euromediterráneo subordinado a los intereses americanos, se halla en una situación muy delicada, puesto que además de sufrir, en cuanto miembro de la Unión Europea y de la OTAN, las tensiones entre Usa y Rusia presentes en Europa continental, particularmente en aquella centroriental (véase la cuestión polaca por lo que respecta la “seguridad”, o bien aquella energética), sufre sobre todo las repercusiones de las políticas cercano y mediorientales  de Washington. Además, el sometimiento de Italia a los Estados Unidos que – vale la pena corroborarlo- se expresa a través de un evidente límite de la soberanía del Estado italiano, exalta los carácteres de fragilidad típicos de las áreas peninsulares (tensión entre la parte continental, aun limitada por lo que concierne Italia y aquella más específicamente peninsular e insular), aumenta los empujes centrífugos, hasta hacer dificultosa la gestión de la normal administración del Estado.

            Ocupada militarmente por los Estados Unidos, - en el ámbito de la “alianza” atlántica- con más de cien bases (4), desprovista de recursos energéticos adecuados, económicamente frágil y socialmente instable por la continua erosión del ya agonizante “estado social”, Italia no posee niveles de libertad tales que le permitan valorizar su potencial geopolítico y geoestratégico en sus naturales directrices representadas por el Mediterráneo y por el área adriática-balcánica-danubiana, sino en el contexto de las estrategias de allende el atlántico con exclusivo beneficio para los intereses extranacionales y extracontinentales.

            Las oportunidades que posee Italia para alcanzar un propio rol geopolítico resultan ser, por lo tanto, externas a la voluntad de Roma; éstas radican en la recaída que la actual evolución del escenario mundial – a esta altura multipolar- produce en la cuenca mediterránea y en el área continental europea. De hecho, los grandes trastornos geoplíticos en acto, principalmente determinados por Rusia podrían exaltar la función estratégica de Italia en el Mediterráneo precisamente en el ámbito del orden y de la consolidación del nuevo sistema multipolar  y de la potencial integración eurasiática.

            De hecho, hay que tener presente que la estructuración de este nuevo sistema geopolítico multipolar pasa, por obvias razones, a través del proceso de desarticulación o de reorganización de aquel de tipo “occidental” bajo control norteamericano, a partir de sus periferias. Estas últimas están compuestas, considerando la masa euroafroasiática, por la península europea, por la cuenca mediterránea y por el arco insular japonés.

 

Rusia y Turquía: los dos polos geopolíticos

 

            Las recientes transformaciones del cuadro geopolítico global han producido algunos factores que podrían facilitar la “desvinculación” de gran parte de los países que constituyen el llamado sistema occidental bajo tutela del “amigo americano”. Esto, potencialmente pondría a Roma en la posición de activar una propia doctrina geopolítica en coherencia con el nuevo contexto mundial.

            Es notorio que la reafirmación de Rusia a nivel mundial y el protagonismo de China y de India han provocado un reajuste de las relaciones entre las mayores potencias y ha sentado las premisas para la constitución de un nuevo orden que excluye las relaciones de fuerza de carácter militar, y que se basa en unidades geopolíticas continentales de interés estratégico. Tales cambios también se registran en la parte meridional del hemisferio oriental, el que fue el patio trasero de los EE.UU, donde las relaciones de Brasil, Argentina y Venezuela con las potencias eurasiticas arriba mencionadas han aportado nuevo impulso a las hipótesis de la unidad continental suramericana. Por lo que concierne el área mediterránea, el principal de estos nuevos factores geopolíticos está representado por la inversión de tendencia fijada por Ankara en sus últimas políticas cercano y mediorientales. La ruptura con Washington y Tel Aviv de parte de Ankara podría asumir, a corto plazo, un alcance geopolítico de largo alcance con el fin de constituir un espacio geopolítico eurasiático integrado, puesto que representa un primer acto concreto a través del cual se hace posible desencadenar el proceso de desarticulación (o de limitación) del sistema occidental a partir de la cuenca mediterranea.

            Dadas las condiciones actuales, los polos geopolíticos - acerca de los cuales una Italia relamente intencionada a emanciparse de la tutela norteamericana debería hacer hincapié- están representados precisamente por Turquía y Rusia. Un alineamiento de Roma a las indicaciones turcas sobre el tema de política cercano oriental dotaría a Italia del necesario prestigio, pesadamente obcecado por sus avasalladoras relaciones con Washington, para imprimir un sentido geopolítico a la fatigada política de cooperación que desde hace años la Farnesina mantiene con el margen sur del Mediterráneo y el Cercano Oriente. Además, la pondría junto (y gracias a ello) al aliado turco, en la situación, si bien no de denuncia del pacto atlántico, por lo menos en aquella necesaria de renegociar  el oneroso y humillante empeño en el seno de la Alianza, y, simultanemanete, para plantear la reconversión de las bases militares controladas por la OTAN en bases útiles para la seguridad del Mediterráneo. Italia y Turquía, junto a los demás países costeños del Mediterráneo, podrían en ese caso realizar un sistema de defensa integrado siguiendo el ejemplo de la Organización del Tratatdo de la Seguridad Colectiva (OTSC).

            Para ejercer esta “exit strategy” del vínculo americano, sintéticamente esbozada en los párrafos anteriores, Roma encontraría un apoyo valedero, además de parte de Ankara, también de Tripoli, Damasco y Teheran y, lógicamente, de Moscú. Por otra parte esta última apoyaría con certeza a Roma en su salida de la órbita norteamericana, favoreciendo su natural proyección geopolítica en la directriz adriática-balcanica-danubiana en el marco, obviamente, de una alianza italo-turco-rusa edificada bajo intereses comunes en el así llamado Mediterráneo alargado (es decir, constituido por los mares Mediterráneo, Negro y Caspio).

 

* Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

 

Notas

 

1.      Por lo que concierne el estudio de la génesis del primer artículo de la Constitución y, en particular, el segundo apartado (La soberanía pertenece al pueblo, quien la ejerce en las formas y en los límites de la Constitución), y además por la falta de un artículo específico de la Constitución dedicado al Estado y a la soberanía, como lo deseaba Dossetti, véase Maurizio Fioravanti, Constitución y pueblo soberano, Il Mulino, Bologna, 2004, p.11 y pp. 91-98.

2.      Marcelo Gullo, La insubordinación fundante, Editorial Biblos, Buenos aires, 2008, pp. 26-27.

3.      Marcelo Gullo, ibid.

4.      Fabrizio Di Ernesto, Portaerei Italia. Sessant’anni di Nato nel nostro Paese, Fuoco Edizioni, Roma, 2009.

 

(Trad. di V. Paglione)

jeudi, 05 août 2010

L'Allemagne et la Chine renforcent leur partenariat stratégique

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Andrea PERRONE :

 

L’Allemagne et la Chine renforcent leur partenariat stratégique

 

Berlin et Beijing relancent leurs rapports commerciaux, économiques et politiques

Jiabao heureux des nouveaux rapports avec l’UE

 

La Chancelière allemande Angela Merkel est arrivée à Beijing vers la mi-juillet 2010, après avoir rencontré le Président russe Dmitri Medvedev à Yekaterinenbourg, pour une visite qui pourrait contribuer à la naissance d’un vaste partenariat stratégique entre les deux pays : la Chine, en effet, est le premier partenaire commercial de l’Allemagne en Asie et l’Allemagne est le principal partenaire commercial européen pour la Chine ; le volume des échanges se chiffre à quelque 105,73 milliards de dollars en 2009, pour 2010, le chiffre pourrait être beaucoup plus élevé. L’Allemagne et la Chine vont donc relancer leurs relations bilatérales, qui reposeront sur « de nouvelles bases », comme l’a déclaré Mme Merkel, à la fin des entretiens qu’elle a eus à Beijing avec le premier ministre chinois Wen Jiabao. Pour résumer le parcours entrepris depuis quelque temps par les deux puissances économiques, un communiqué de vingt-huit points a été distribué, illustrant le travail fait en commun dans les secteurs de l’économie, des sciences et de la culture. Nous avons donc affaire à une véritable syntonie et à un grand pas en avant dans les relations germano-chinoises, qui envisagent notamment une coopération élargie dans la lutte contre les changements climatiques. Ce projet a été confirmé par une déclaration de Wen Jiabao qui, en s’adressant à ses interlocuteurs allemands, a rappelé : « Nous sommes embarqués sur le même navire ». Le ministre allemand de l’environnement, Norbert Roettgen, vient de signer un accord pour renforcer le travail commun entrepris par la Chine et l’Allemagne dans les secteurs de la politique énergétique et écologique. Pour l’automne, Allemands et Chinois ont prévu une réunion d’experts des deux pays pour discuter de la lutte contre les effets négatifs du changement climatique.

 

Les différends qui avaient opposé les deux pays semblent avoir été surmontés: ils étaient survenus en 2007 lorsque la Chancellerie allemande avait reçu le Dalaï Lama, chef spirituel des Tibétains. Le premier ministre Jiabao a tenu à préciser que l’Europe constitue la destination préférée des investissements chinois à l’extérieur. “Il est de bonne notoriété que la Chine possède d’abondantes réserves de devises étrangères”, a poursuivi le premier ministre chinois lors d’une conférence de presse, tenue après les entretiens qu’il avait eus pendant deux heures avec Mme Merkel. “En qualité de responsable et d’investisseur sur le long terme, la Chine adhère au principe de toujours détenir un portefeuille diversifié. Le marché européen est et restera l’un des marchés clefs pour les investissements chinois”, a-t-il ajouté. Le premier ministre chinois a rappelé que la Chine a offert une aide quand certains pays européens ont été frappés par une crise de la dette publique, ce qui a renforcé les relations amicales entre la Chine et l’Europe.

 

Les accords commerciaux qui ont été conclus entre les deux pays sont très importants. La firme Daimler, géant automobile allemand qui possède la marque Mercedes-Benz, et le producteur de camions chinois Beiqi Foton Motor ont signé un projet commun pour constituer une « joint venture » dans le secteur des poids lourds. La « joint venture » Daimler/Foton, où chacun des signataires détient une quantité égale de parts, produira des autocars et des autobus dont la technologie aura été développée chez Daimler (surtout en ce qui concerne les moteurs Diesel). Les véhicules seront vendus soit en Chine soit à l’étranger, en particulier en Asie. Le groupe allemand n’a pas donné jusqu’ici de détails sur son engagement dans cette initiative mais des sources gouvernementales à Berlin ont révélé que les deux entreprises associées ont consenti un investissement total de 800 millions d’euros.

 

Toujours au cours de la conférence de presse tenue conjointement avec Mme Merkel, Jiabao a précisé que « la Chine poursuivra sa politique de rapprochement économique et continue à avoir confiance en l’Europe, malgré la crise financière qui l’a frappée » ; il faut souligner que ces paroles du premier ministre chinois constituent « un signal important de confiance en l’euro de la part de la Chine ». Pour ce qui concerne l’économie du géant asiatique, Jiabao a dit bien clairement que le gouvernement chinois « maintiendra une continuité dans sa politique et mettra en acte une politique fiscale active et une politique monétaire permissive à bon escient ». Sur la crise des dettes publiques en Europe, Jiabao semble pourtant trop optimiste, en rappelant que la Chine « a toujours tendu la main » dans les moments difficiles et s’est déclaré « convaincu qu’avec un dur labeur en commun au sein de la communauté internationale, l’Europe surmontera certainement ses difficultés ». Jiabao a ensuite répété sa satisfaction de voir l’Allemagne intercéder pour la Chine au sein de l’UE et reconnaître la valeur de l’économie de marché en Chine, se félicitant, par la même occasion, que l’Allemagne, moteur de l’économie européenne, joue un rôle actif dans le renforcement des relations entre la Chine et l’UE.

 

Andrea PERRONE ( a.perrone@rinascita.eu ).

(texte paru dans « Rinascita », Rome, 17 juillet 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).   

 

lundi, 02 août 2010

L'antagonisme Chine/Etats-Unis sur le continent africain

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Federico DAL CORTIVO:

 

L’antagonisme Chine/Etats-Unis sur le continent africain

 

Avec la création de l’AFRICOM, la thalassocratie américaine veut transformer le Continent noir en une arrière-cour de Washington !

 

Les Etats-Unis, sous « l’Administration Bush », n’ont plus cessé de considérer l’Afrique comme un futur « espace vital », destiné à fournir des matières premières, dont du pétrole, indispensables pour l’économie américaine qui est constamment à la recherche de nouveaux territoires à exploiter sans vergogne, aujourd’hui plus que jamais, vu l’actuelle crise économique et le recul de l’hégémonie américaine sur l’Amérique latine, son arrière-cour traditionnelle. Mais la volonté de Washington d’étendre son influence en Afrique a aussi pour objectif de s’opposer à la pénétration chinoise sur ce continent, qui se montre de plus en plus importante. Beijing entretient des rapports commerciaux étroits et de grande ampleur avec de nombreux pays africains, rapports qui, eux aussi, s’avèrent de plus en plus nécessaire pour une économie chinoise en pleine croissance.

 

Dans le passé, la présence militaire américaine s’était manifestée en Afrique via l’ « US European Command » qui prenait sous son aile tous les pays africains ; ensuite cette compétence fut transférée au « Strike Command », devenu en 1971 le « Readiness Command » et puis, successivement, au « CentCom » et au « Pacific Command ». Il a fallu attendre 2007 pour que le Pentagone annonce la création d’un commandement tout entier consacré à l’Afrique seule.

 

La création de ce nouveau commandement a permis de définir clairement les nouvelles structures militaires qui expriment la volonté bien déterminée de Washington de renforcer considérablement sa présence militaire et de se doter, en Afrique, de capacités de riposte rapide.

 

Placé sous le commandement du Général William E. « Kip » Ward, l’Africom comprend toutes les armes formant traditionnellement les forces armées : l’armée de terre, la marine, l’aviation et les Marines, dont les postes de commandement se situent actuellement en Italie, à Vicenza (US Army Africa Setaf), à Naples (US Navy Africa), et en Allemagne, à Ramstein (US Air Force Africa), à Boeblingen (US Marine Corps Africa) et à Stuttgart (Special Operation Command Africa) ; enfin, à ces postes installés en Italie et en Allemagne, s’ajoute le Camp Lemonier à Djibouti en Afrique orientale, où se trouve également le « Combined Joint Task Force – Horn of Africa ». Le Pentagone examine actuellement la possibilité de mettre à la disposition de l’Africom d’autres forces, afin d’accroître sa vitesse opérationnelle : 1000 Marines aéroportables, capables d’être déployés rapidement sur divers théâtres d’opération. Toujours sous le prétexte de la « lutte contre le terrorisme international », Washington a renforcé ses liens militaires et diplomatiques avec plusieurs Etats africains, en suivant, dans cette optique, trois lignes directrices principales : la diplomatie, la chose militaire et le développement. Ce dernier sert, comme d’habitude, à lier l’Etat en question au modèle économique américain, afin d’un faire un vassal, pompeusement baptisé « allié ».

 

Aux côtés du Général Ward, on trouvera l’ambassadeur Anthony Holmes afin de mieux coordonner les rapports entre pays africains et, par conséquent, de s’assurer une mainmise toujours plus forte sur le Continent noir, considéré dorénavant comme « stratégique ». Tout cela correspond bel et bien à ce que l’on peut lire dans le « Quadrennial Defence Review » de février 2010, qui prévoit une augmentation des dépenses militaires de 2%, avec une somme totale allouée de 708 milliards de dollars pour 2011 (y compris les 160 milliards de dollars prévus pour les guerres d’Irak et d’Afghanistan). Pour 2010, l’Africom pourra s’attendre à recevoir 278 millions de dollars pour les opérations et 263 autres millions de dollars pour la logistique, le développement de nouvelles structures et d’autres moyens divers.

 

La machine de guerre américaine s’apprête aussi à débarquer en force en Afrique, où elle avait déjà, à intervalles réguliers, organisé des manœuvres militaires communes avec le Mali, le Nigéria, le Maroc et le Sénégal.

 

Les raisons géopolitiques, qui président à ce nouveau projet africain des Etats-Unis, doivent être recherchées dans le poids de plus en plus lourd que pèse Beijing en Afrique, grâce à une politique de non ingérence dans les affaires intérieures des pays concernés, à la différence de la pratique américaine qui a toujours préféré contrôler étroitement les « gouvernements amis » et les manipuler à loisir.

 

Après avoir adopté le « socialisme de marché », en tant que version revue et corrigée du communisme, la Chine s’est affirmée avec force sur la scène internationale, mue par l’impératif d’acquérir matières énergétiques en grandes quantités et à bon prix. On se rappellera les bonnes relations qu’entretient Beijing avec certains pays d’Amérique latine, surtout le Venezuela et le Brésil ; ces relations se déroulent de manière paritaire, mode de travail qui ne trouble en aucune façon le cours nouveau qu’a emprunté ce continent sud-américain, comme on peut le constater en observant les accords pris entre certains de ces pays d’Amérique ibérique, d’une part, et la Russie, l’Inde, l’Iran et l’Afrique du Sud, d’autre part.

 

Cependant la partie la plus importante se joue en Afrique où d’immenses richesses minières et pétrolières sont encore disponibles. Le Dragon chinois est présent sur place, avec des investissements dépassant les 20 milliards de dollars pour la réalisation d’infrastructures importantes comme des ponts, des centrales électriques et des routes.

 

Les rapports entre la Chine, d’une part, l’Angola et le Soudan, d’autre part, sont optimaux ; d’autres accords ont été conclu avec l’Algérie et l’Egypte, où 150 entreprises chinoises se sont implantées. En Afrique du Sud, les Chinois ont acquis la « Standard Bank », principale banque de ce pays riche en minerais, dont l’or et le diamant.

 

Au Soudan, la découverte de riches gisements de pétrole a attiré l’attention de la « China Petroleum Company », ce qui fait que 8% du pétrole consommé en Chine vient désormais de ce pays africain. En Algérie, la « China Petroleum & Chemical Corporation » et la « China National Petroleum » ont pris en main la gestion des puits les plus importants. A la liste, on peut ajouter le Nigéria, troisième fournisseur africain de pétrole à la Chine ; ensuite, le Sénégal, la Tchad, la Guinée, qui possèdent aussi  des gisements de pétrole, et le Cameroun, où l’on trouve et du gaz naturel et du pétrole.

 

Aujourd’hui donc, force est de constater que les fronts sur lesquels sont déployées les forces armées des Etats-Unis augmentent en nombre au lieu de diminuer ; dans un tel contexte, la thalassocratie américaine ne peut rien faire d’autre que de mettre la main sur les ressources du « Tiers Monde » (comme il était convenu de l’appeler). Pour y parvenir, Washington doit déployer de plus en plus de troupes, d’avions et de navires aux quatre coins du globe. Ces efforts ne laissent pas indifférents les Américains eux-mêmes car, pour réaliser cette politique d’omniprésence, la Défense engloutit des sommes gigantesques : il suffit d’analyser les chiffres ; entre 2001 et 2011, le bilan du Pentagone a augmenté de 40% et, si nous prenons en compte également les frais engendrés par les guerres, nous arrivons au chiffre de 70%. Nous sommes dont dans un état de guerre permanente, même si cette guerre n’a jamais été déclarée ; en effet, 400.000 hommes de l’armée américaine sont déployés sur les divers théâtres opérationnels de tous les continents. On le voit : de Bush à Obama, il n’y a eu aucun changement.

 

Federico DAL CORTIVO.

(article paru dans « Rinascita », Rome, 13 juillet 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

 

 

US-Raketen in der Umgabung Chinas stationiert

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US-Raketen in der Umgebung Chinas stationiert

F. William Engdahl / ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Das Pentagon stationiert verstärkt U-Boot-gestützte Marschflugkörper an der Peripherie Chinas – denn die wachsende wirtschaftliche Macht Chinas stellt mittlerweile den Status der bankrotten und industriell maroden USA als einziger Supermacht ernsthaft in Frage. Die Raketen sind Teil des breiter angelegten Versuchs der USA, China in Schranken zu halten. Dem Bemühen wird jedoch kaum Erfolg beschieden sein.

 

 

Ohne großes Aufheben hat die US-Marine in den vergangenen Tagen vier U-Boote der Ohio-Klasse auf den Weg geschickt, wie sie die in der Zeit des Kalten Krieges – damals mit Trident-Atomraketen bestückt – zum Einsatz gekommen waren. Heute sind diese U-Boote mit je 154 Tomahawk-Marschflugkörpern ausgerüstet, die Ziele in einer Entfernung von 1000 Meilen treffen können.

Ende Juni hat die US-Navy die U.S.S. Ohio in die Subic Bay auf den Philippinen entsandt. Gleichzeitig traf die U.S.S. Michigan in der südkoreanischen Hafenstadt Pusan ein, während die U.S.S. Florida auf dem gemeinsamen britisch-amerikanischen Marinestützpunkt Diego Garcia im Indischen Ozean auftauchte. Insgesamt sind zurzeit 462 neue Tomahawks in der Umgebung von China stationiert. »Es gab die Entscheidung, unsere Streitmacht im Pazifik zu verstärken,« so Bonnie Glaser, China-Expertin am Center for Strategic and International Studies in Washington.

Letzten Monat hatte die Navy angekündigt, erstmals würden sämtliche mit Tomahawks bestückten U-Boote gleichzeitig ihre jeweiligen Heimathäfen verlassen. Der Marineeinsatz ist Teil der Pentagon-Strategie, das Schwergewicht der Präsenz vom Atlantik zum Pazifik zu verschieben. Die US-Navy hat etwa 4 Milliarden Dollar aufgewendet, um die U-Boote von den Trident-Raketen auf die Tomahawk-Marschflugkörper umzurüsten und Platz für die jeweils 60 Soldaten der Sondereinheiten zu schaffen, die verdeckt weltweit operieren.

Als eindeutiges Signal an Peking, wer beide Weltmeere beherrscht, laufen zurzeit zwei große gemeinsame Manöver der USA und der Alliierten in der Region, nämlich zunächst das »Rim of the Pacific«-Manöver vor Hawaii, das größte multinationale Marinemanöver dieses Jahres. Zusätzlich hat gerade vor Singapur das CARAT-2010-Manöver begonnen, an dem insgesamt 73 Schiffe aus den USA, Singapur, Bangladesh, Brunei, Kambodscha, Indonesien, Malaysia, den Philippinen und Thailand beteiligt sind.

China nimmt an keinem der beiden Manöver teil. Die Ankunft der Tomahawks »ist Teil einer größeren Anstrengung, unsere Schlagkraft in der Region zu erhöhen«, erklärte ein China-Experte der Washingtoner Denkfabrik CSIS. »Wir signalisieren damit, dass niemand unsere Entschlossenheit unterschätzen sollte, die Machtbalance in der Region aufrecht zu erhalten, was auch viele der Länder dort von uns erwarten.«

 

dimanche, 01 août 2010

Deutschland bald im Rohstoff-Krieg?

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Deutschland bald im Rohstoff-Krieg?

Udo Schulze / ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Hinter den Kulissen der europäischen Alltagspolitik zeichnen Experten in den »Think Tanks« (zu Deutsch etwa: Denkfabriken) von Ministerien und Regierungen ein düsteres Zukunftsbild. Dabei geht es allerdings weder um Umweltkatastrophen noch um die beängstigende Altersentwicklung der Bevölkerung. Was die Polit-Strategen befürchten, ist eine zunehmende Rohstoffknappheit in Europa, der mit eigenen Mitteln kaum begegnet werden kann. Als stärkste Industrienation der EU ist Deutschland von der fatalen Entwicklung besonders betroffen. Müssen wir deswegen bald Kriege um Rohstoffe führen?


 


 

 

 

 

Nach einem Bericht der »Financial Times« benötigen die Staaten der EU tagtäglich 14 Rohstoffe, die im Boden dieser Länder nicht oder nicht ausreichend vorkommen und deswegen eingeführt werden müssen. Deutschland braucht vor allem Gallium, Neodym, Indium und Germanium zur Herstellung von Lasertechnik, zur Produktion von Photovoltaik und Brennstoffzellen. Doch diese Stoffe lagern zum größten Teil in Russland, China und afrikanischen Ländern. Allesamt Staaten, die mit diesen reichen Bodenschätzen nicht nur Geschäfte, sondern auch knallharte Politik machen. Ihr Vorteil: Sie verfügen nicht nur über die begehrten Stoffe, sondern sind auch von geostrategischer Bedeutung. Nach Schätzungen des Bundeswirtschaftsministeriums wird sich die Nachfrage nach den Rohmaterialien innerhalb der nächsten 20 Jahre verdreifachen. Damit, so glauben Experten, könne es schnell zu militärischen Konflikten kommen, da Staaten außerhalb der EU an den knapper werdenden Schätzen ebenfalls teilhaben wollen. Hinzu kommt die relative militärische Schwäche Europas.

Deswegen hat die Bundesregierung inzwischen mit der »Deutschen Rohstoffagentur« in Hannover ein Instrument geschaffen, das Wege zum kostengünstigen Zugriff auf Rohstoffe in aller Welt erarbeiten soll. Hauptansprechpartner in diesem Kampf um die Schätze der Erde sind die Chinesen, die sich ihrer Rolle sehr bewußt sind und bereits Ausfuhrquoten und Ausfuhrzölle für eigene Rohstoffe erhoben haben, um den Aufbau der heimischen Industrie zu sichern. Nach einem Bericht des »Handelsblatt« vom vergangenen Monat droht den Europäern eine Niederlage im Wettrennen um die Stoffe. Während die USA sich ihre Ansprüche in Afghanisatan sicherten und die Chinesen in Afrika tätig würden, hinke Europa hinterher, heißt es. Aus diesem Grund ging Berlin jüngst zum Angriff über und verklagte zusammen mit anderen EU-Staaten China bei der Welthandelsorganisation WTO, damit die Exportbeschränkungen aus dem Reich der Mitte aufhören.

Gleichzeitig ist man auf der Suche nach strategichen Partnern in aller Welt. So verhandelt die EU mit der Afrikanischen Union darüber, freien Zugang zu den Rohstoffen des Kontinents zu bekommen. Im Gegenzug soll es Entwicklungshilfe geben, auch in Form von Aus- und Weiterbildung der Fachkräfte vor Ort. Ob dabei das Engagement der Nehmerländer in den Bereichen Menschenrechte und Anti-Korruption auf der Strecke bleibt, ist abzuwarten. Den deutschen Industrieverbänden jedenfalls reichen die Initiativen der Politik nicht. Sie befürchten für die nahe Zukunft eine erhebliche »Rohstofflücke«, nicht nur bei den Bodenschätzen. Laut »Handelsblatt« erwartet Ulrich Grillo vom Verband der deutschen Industrie demnächst auch eine Versorgungslücke bei Metallschrotten.

Sollte es in Zukunft zu bewaffneten Konflikten um Rohstoffe kommen, wird der Europäischen Union der Preis für ihre momentane Unterstützung der USA im Irak und in Afghanistan präsentiert werden. Während sie zur Sicherung der amerikanischen Ansprüche in den Krieg gezogen ist, reichen ihre militärischen Kräfte kaum aus, um eine weitere Konfrontation durchzustehen. Auf Hilfe durch die USA kann wohl kaum gerechnet werden. Denn wie fasste der CDU-Politiker und ehemalige Staatssekretär im Bundesverteidigungsministerium, Friedbert Pflüger, die Situation in der Zeitschrift »Internationale Politik« kürzlich doch zusammen: »Nationalismus, Kolonialismus und Imperialismus des 19. Jahrhunderts kehren zurück.«

 

samedi, 31 juillet 2010

Die neue geopolitische Bedeutung von Lubmin

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Die neue geopolitische Bedeutung von Lubmin

F. William Engdahl / ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

In der Nachkriegsgeschichte der Bundesrepublik verschwinden die deutschen Bundeskanzler zumeist in der Versenkung, sobald sie politische Ziele verfolgen, die zu stark von Washingtons globalen Absichten abweichen. Im Fall von Gerhard Schröder gab es gleich zwei unverzeihliche »Sünden«. Die erste war 2003 sein offener Widerstand gegen die Irak-Invasion. Die zweite, strategisch sehr viel schwerwiegendere, war seine Verhandlung mit Putin über den Bau einer neuen großen, direkt von Russland nach Deutschland führenden Erdgas-Pipeline, die das Hoheitsgebiet des damals feindlich gesinnten Polen umgehen sollte. Heute hat der erste Abschnitt dieser »Nord-Stream«-Gaspipeline das Ostseebad Lubmin in Mecklenburg-Vorpommern erreicht. Lubmin wird damit zu einem geopolitischen Dreh- und Angelpunkt für Europa und Russland.

 

 

 

Tatsächlich verdankte Gerhard Schröder seinen Posten dem stillen, aber nachdrücklichen Rückhalt durch US-Präsident Clinton, der nach Angaben unserer Quellen in der deutschen SPD verlangt hatte, eine rot-grüne Koalition müsse im Fall ihrer Wahl 1999 einen Krieg gegen Serbien unterstützen. Washington wollte ein Ende der Ära Helmut Kohl. Doch 2005 verhielt sich Schröder nach Washingtons Geschmack viel zu »deutsch«, deshalb soll sich die Regierung Bush vordringlich darum bemüht haben, einen möglichen Amtsnachfolger aufzubauen.

Seine letzte Amtshandlung als Bundeskanzler war die Genehmigung der riesigen Gaspipeline Nord Stream, die von der russischen Hafenstadt Vyborg nahe der finnischen Grenze nach Lubmin verläuft. Sofort nach dem Ausscheiden aus dem Amt des Bundeskanzlers wurde Schröder Vorsitzender des Aktionärsausschusses der Nord Stream AG, einem Joint Venture des staatlichen russischen Energiekonzerns Gazprom und den deutschen Unternehmen E.ON Ruhrgas und BASF-Wintershall. Er verstärkte in der Folgezeit auch seine öffentlich geäußerte Kritik an der US-Außenpolitik, beispielsweise beschuldigte er den US-Marionettenstaat Georgien, 2008 den Krieg gegen Südossetien begonnen zu haben.

2006 verglich der polnische Außenminister Radoslaw Sikorski, ein enger Vertrauter Washingtons und bekennender Neokonservativer, das Nord-Stream-Konsortium mit dem 1939 geschlossenen Pakt zwischen den Nazis und der Sowjetunion. Seit dem Zusammenbruch der Sowjetunion ist die Politik Washingtons darauf gerichtet, Polen als Keil zu benutzen, um eine engere wirtschaftliche und politische russisch-deutsche Zusammenarbeit zu verhindern. Das ist auch der Grund für die Entscheidung, in Polen amerikanische Raketenabwehrsysteme und jetzt auch Patriot-Raketen zu stationieren, die gegen Russland gerichtet sind.

Trotz vehementen politischen Widerstands aus Polen und anderen Ländern erreichte Schröders Nord-Stream-Projekt in diesem Monat das erste wichtige Ziel, als der erste der beiden Rohrstränge plangemäß in Lubmin das Festland erreichte. Wenn später in diesem Monat auch der zweite Rohrstrang an Land gezogen wird und die Pipeline 2011 den Betrieb aufnimmt, dann wird sie die größte unterseeisch verlaufende Pipeline der Welt sein, die jährlich 55 Milliarden Kubikmeter Gas quer durch Europa transportiert. Die unterseeische Route verläuft durch die Hoheitsgewässer und Wirtschaftszonen Finnlands, Schwedens, Dänemarks und Deutschlands, sie umgeht das Gebiet Polens und der baltischen Staaten Estland, Lettland und Litauen.

Von der Übernahmestation Lubmin aus wird die OPAL-Anbindungsleitung 470 km durch Mecklenburg-Vorpommern, Brandenburg und Sachsen bis zur tschechischen Grenze verlaufen. Andere westliche Pipelinerouten werden russisches Gas über eine bestehende Pipeline nach Holland, Frankreich und Großbritannien transportieren, was die Energie-Bindungen zwischen der EU und Russland erheblich stärken wird – eine Entwicklung, die Washington ein Dorn im Auge ist. Die französische GDF Suez, ehemals Gaz de France, hat gerade neun Prozent der Anteile an der Nord Stream AG gekauft, der niederländische Gasinfrastrukturkonzern N.V. Nederlands Gasunie besitzt ebenfalls neun Prozent. Das Projekt ist also in der EU gut verankert – eine große geopolitische Leistung der Regierung Putin-Medwedew angesichts starken Widerstands der USA. Nord Stream verfügt zurzeit über zwei langfristige Verträge über die Lieferung von Erdgas an Dänemark, Frankreich, Belgien, die Niederlande und Deutschland.

Die Gazprom verfolgt noch ein zweites großes Pipeline-Projekt, die South Stream, über die Gas von der russischen Schwarzmeerküste unter dem Schwarzen Meer hindurch nach Bulgarien und weiter nach Italien transportiert werden soll. Washington hat auf die EU-Länder und die Türkei erheblichen Druck ausgeübt, eine alternative Gaspipeline, die Nabucco, zu bauen, die Russland umgehen würde. Bisher findet Nabucco in der EU jedoch wenig Unterstützung, es gibt auch nicht genügend Gas, um die Pipeline zu füllen. Aus geopolitischer Sicht würde die Fertigstellung von South Stream die Länder der EU und Russland stärker zusammenschweißen – ein geopolitischer Albtraum für Washington. Seit Ende des Zweiten Weltkriegs war die Politik der USA darauf gerichtet, Westeuropa zu beherrschen, darum wurde zunächst der Kalte Krieg mit der Sowjetunion angefacht und nach 1990 die NATO-Osterweiterung bis an die Grenzen Russlands betrieben. Ein zunehmend unabhängiges Europa, das sich gen Osten statt über den Atlantik orientiert, bedeutet eine empfindliche Niederlage für die fortgesetzte Herrschaft der »einzigen Supermacht« USA. Damit wird das idyllische Seebad Lubmin im Nordosten Deutschlands de facto zu einem wichtigen Dreh- und Angelpunkt des geopolitischen Dramas zwischen Washington und Eurasien – ob sich die Einwohner dessen bewusst sind oder nicht.

 

vendredi, 30 juillet 2010

Obama fianziert Israel-Gegner: Amerikanische Steuergelder für die Gaddafi=Stiftung

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Obama finanziert Israel-Gegner: Amerikanische Steuergelder für die Gaddafi-Stiftung

Udo Ulfkotte / ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Die libysche Gaddafi-Stiftung organisiert derzeit eine libysche Schiffs-»Hilfslieferung« für den Gaza-Streifen. Diese libysche Stiftung wird finanziell unter anderem vom amerikanischen Präsidenten Barack Hussein Obama unterstützt. Der hatte der umstrittenen islamischen Organisation der Diktatoren-Familie 200.000 Dollar überweisen lassen. Und es ist nicht die einzige obskure libysche »Stiftung«, die Präsident Obama seit seinem Wahlsieg mit amerikanischen Steuergeldern gefördert hat.

 

 

 

Die libysche Gaddafi-Stiftung ist auf den ersten Blick eine streng islamische Wohltätigkeitsorganisation. Sie wurde 1997 von Saif Gaddafi, einem Sohn des libyschen Diktators gegründet, und spielt heute bei Verhandlungen mit islamischen Terroristen aus der Sicht westlicher Staaten eine wichtigere Rolle als das libysche Außenministerium. So war es die Gaddafi-Stiftung, die vor zehn Jahren mit den streng islamischen philippinischen Abu-Sayyaf-Terroristen die Freilassung der Göttinger Familie Wallert aus islamischer Geiselhaft verhandelte. Die Bundesregierung soll das Lösegeld damals direkt an die Gaddafi-Stiftung gezahlt haben. Offiziell wird das alles bis heute dementiert.

Wenn es um Gespräche mit islamischen Terroristen oder Terrorunterstützern geht, dann ist die Gaddafi-Stiftung häufig in der Nähe. So auch im letzten Jahr. Da hatten die Libyer aus »humanitären« Gründen die Freilassung des libyschen Lockerbie-Bombers Abdel Baset Megrahi aus einem Gefängnis in Großbritannien vermittelt. Der libysche Terrorist, der bei dem Bombenanschlag auf die PanAm-Maschine im Dezember 1988 mit Plastiksprengstoff 259 Menschen getötet hatte, war angeblich unheilbar an Krebs erkrankt und hatte nur noch wenige Tage zu leben. In Libyen wurde er dann von der Gaddafi-Familie nach seiner Rückkehr wie ein Volksheld gefeiert. Die Libyer hatten den berauschenden Empfang für den Terroristen der Weltöffentlichkeit mit einer angeblichen »beduinischen Volkssitte« erklärt. Wenig später wurde bekannt, dass die entsprechenden Atteste über den angeblich unmittelbar bevorstehenden Tod des libyschen Terroristen von den Libyern gekauft worden waren. Der Terrorist Abdel Baset Megrahi lebt heute fröhlich, und von der Gaddafi-Familie umsorgt, in Libyen. Es war Saif Gaddafi, Gründer der Gaddafi-Stiftung, der sich höchstpersönlich liebreizend um das Wohl des Terroristen kümmerte.

Die umstrittene Gaddafi-Stiftung hat unlängst ein unter moldawischer Flagge fahrendes Schiff gechartert und »Al Amal« getauft. Das arabische Wort bedeutet übersetzt »Hoffnung«. Es sollte eigentlich die von Israel über Gaza verhängte Blockade brechen.

Am 31. Mai hatten israelische Elitesoldaten eine andere Hilfsflotte für Gaza gestoppt und auf dem türkischen Schiff »Mavi Marmara« neun Aktivisten getötet. Nach einem internationalen Proteststurm wurde die Blockade des Gaza-Streifens zwar deutlich gelockert, Israel will aber keinesfalls, dass Waffen in das von der Hamas kontrollierte Gebiet eingeschmuggelt werden können.

 

An Bord der »Al Amal« befinden sich jetzt neben zwölf Besatzungsmitgliedern auch 15 pro-palästinensische Aktivisten – und Reporter des arabischen Senders Al Jazeera. Libyen hatte in der Vergangenheit PLO-Terroristen ausgebildet und ihre Terroranschläge finanziert. Doch das von Libyen organisierte Schiff wird wohl nicht in Gaza in einen Hafen einlaufen. Der Frachter lief nach Angaben der griechischen Küstenwache am Samstag vom griechischen Hafen Lavrion aus und soll nach Gesprächen mit den Israelis nun den ägyptischen Hafen El Arisch im Norden der Sinai-Halbinsel anlaufen. Die Fahrt soll etwa drei Tage dauern. Von Ägypten aus sollen die Hilfsgüter in den nahe gelegenen Gazastreifen gebracht werden.

Das wird dann wohl nicht nur die libysche Gaddafi-Stiftung freuen. Denn hinter dieser steht nicht nur Saif Gaddafi, der Sohn des libyschen Diktators, sondern als Unterstützer und Mäzen eben auch der amerikanische Staatspräsident Barack Hussein Obama. Der hatte der Gaddafi-Stiftung Ende 2009 immerhin 200.000 Dollar überweisen lassen. Und die Gaddafi-Tochter Aischa bekam weitere 200.000 Dollar für ihre Stiftung »Wa Attassimou«. Sie haben von dieser Organisation noch nie etwas gehört? Es ist jene umstrittene Stiftung, die sich wie keine andere Gruppe für die Freilassung von Muntazer al-Zaidi einsetzte. Muntazer al-Zaidi ist ein irakischer Journalist, der international bekannt wurde, als er in einer Pressekonferenz am 14. Dezember 2008 den damaligen amerikanischen Präsidenten George W. Bush bei einer Pressekonferenz mit zwei Schuhen bewarf. Er wurde im Irak inhaftiert. Und die libysche Stiftung hat dann seine Freilassung vermittelt und ihn als Helden der Araber gefeiert.

US-Präsident Barak Hussein Obama hat das alles großzügig mit amerikanischen Steuergeldern honorieren lassen. Neben den 400.000 US-Dollar Steuergeldern für die beiden obskuren libyschen Stiftungen bekam das ölreiche Wüstenland jetzt auch noch 2,1 Millionen US-Dollar Entwicklungshilfe.

Abgeordnete der Republikaner hatten Obama vergeblich daran zu hindern versucht, amerikanische Steuergelder an die berüchtigten Gaddafi-Stiftungen zu überweisen. So hatte der republikanische Kongressabgeordnete Mark Steven Kirk im vergangenen Jahr folgenden Brief an Präsident Obama verfasst und ihn darum gebeten, die umstrittenen libyschen Stiftungen nicht mit amerikanischen Steuergeldern zu finanzieren, vergeblich:


 

President Barack Obama


 

The White House


 

1600 Pennsylvania Ave, NW


 

Washington, D.C.


 

Dear Mr. President:


 

Earlier today, Libyan leader Muammar el-Qaddafi stood before the United Nations General Assembly and called the U.N. Security Council a "Terror Council." Qaddafi went on to suggest the State of Israel was behind the assassination of President John F. Kennedy and that the H1N1 flu might be a military or corporate weapon.

Last month, when Scotland freed Abel Baset Megrahi, the only man convicted in the bombing of Pan Am Flight 103, Qaddafi greeted him with a hero's welcome. As you know, Megrahi was accompanied back to Libya by Qaddafi's son, Saif, who was involved in the negotiations for Megrahi's release.

At the time, you expressed your disappointment over Megrahi's release and called it a mistake. Attorney General Holder said, "There is simply no justification for releasing this convicted terrorist whose actions took the lives of 270 individuals, including 189 Americans."

That is why, as a member of the House Appropriations Subcommittee on State-Foreign Operations, I was disturbed by a congressional notification dated September 15, 2009 (enclosed), informing our Committee of the State Department's intent to provide $200,000 to Saif Qaddafi's foundation and another $200,000 to an organization run by Muammar Qaddafi's daughter, Aisha.

Just weeks after the Qaddafi family celebrated the return of a terrorist responsible for the murders of 189 Americans, the U.S. taxpayer should not be asked to reward them with $400,000. For the sake of the victims' families who have endured so much pain these last few weeks, I ask you to withdraw your Administration's request.


 

Sincerely,

Mark Steven Kirk

Member of Congress

 

mercredi, 28 juillet 2010

Stecken von der NATO gedeckte Drogenkriege hinter der jüngsten Instabilität in Kirgisistan?

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Stecken von der NATO gedeckte Drogenkriege hinter der jüngsten Instabilität in Kirgisistan?

F. William Engdahl / ex: http://info-kopp.verlag.de/

 

Angeblich stehen die jüngsten ethnischen Zusammenstöße in Kirgisistan in Verbindung mit Drogenkriegen zwischen rivalisierenden ethnischen Gruppen. Bei den gewalttätigen Auseinandersetzungen im Süden der ehemals sowjetischen zentralasiatischen Republik Kirgisistan sind vermutlich Tausende ums Leben gekommen.

 

 

 

In der südwestlichen Stadt Osch, der ethnischen Machtbasis des gestürzten kirgisischen Präsidenten und Drogenbosses Kurmanbek Bakijew, war es Ende vergangenen Monats zu Kämpfen zwischen ethnischen usbekischen und kirgisischen Gruppen gekommen. Wenn es dabei tatsächlich um Drogen ging, dann würde dies in das in meinen früheren Beiträgen beschriebene geopolitische Szenario passen, wonach die NATO und Washington versuchen, vermittels des afghanischen Heroinhandels Chaos und Instabilität zu verbreiten. Mit Taliban oder Terrorismus hat das nichts zu tun, sondern vielmehr mit Washingtons geopolitischem Plan, China, Russland und indirekt Westeuropa, besonders Deutschland, unter seine Herrschaft zu unterwerfen.

Die Gewalt, die am 11. Juni in Bakijews Heimatbasis Osch ausbrach, wirkt sich unmittelbar auf das strategische Fergana-Tal aus, der Heimat des Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), einer Gruppe, die, wie ich in der Serie Warum Afghanistan darlege, eigentlich nichts weiter ist als eine als islamische Kämpfer verkleidete Drogenbande. Es wird vermutet, dass die CIA und andere westliche Geheimdienste verdeckt die IMU unterstützen, um über dieses Vehikel die NATO-Präsenz in der geopolitisch strategischen Region auszudehnen.

Zahlreichen Berichten zufolge hat die Familie Bakijews, des ehemaligen Präsidenten von Washingtons Gnaden, der 2005 durch die von den USA unterstützte »Tulpen-Revolution« an die Macht gekommen war, den lukrativen Heroinhandel von Afghanistan nach Russland und Westeuropa beherrscht. Als er im Frühjahr dieses Jahres durch einen sehr komplexen Putsch der Opposition gestürzt wurde, hinterließ er ein Machtvakuum im Drogengeschäft, das andere Banden nun anscheinend mit Gewalt ausfüllen wollten.

 

Opium-Geopolitik

Klar ist, dass die Massaker von Osch weitreichende geopolitische Konsequenzen haben werden. Washington fordert eine UN-»Friedenstruppe« für das Land – ganz im Sinne des längerfristigen Plans, die militärische Präsenz der NATO in der Region des Fergana-Tals und in Afghanistan zu rechtfertigen.

Wie aus UN-Berichten hervorgeht, ist die militärische Präsenz der USA seit der US-Invasion in Afghanistan im Jahr 2001 – angeblich mit dem Ziel, Osama bin Landen zu fangen – mit einer beispiellosen Ausweitung der afghanischen Opiumproduktion einhergegangen. Heute stammen 93 Prozent des weltweit gehandelten Heroins aus afghanischem Opium. Als die USA vor neun Jahren in das Land einmarschierten, hatten die Taliban die Opiumproduktion fast völlig ausgerottet. Erst kürzlich hat Botschafter Richard Holbrooke, der amerikanische Sondergesandte für Afghanistan, angekündigt, die USA würden den (völlig erfolglosen, ist man versucht zu sagen) Versuch einstellen, das Opium auszurotten, da dieses, wie er sagte, die kleinen Bauern von den USA »entfremden« würde. Wir mir afghanische Quellen versichern, hat die fortgesetzte Truppenpräsenz der USA und der NATO schon heute die Mehrheit der Menschen in Afghanistan entfremdet.

Tatsächlich besteht die US-Politik im Krieg, sowohl unter dem vor wenigen Tagen entlassenen Stanley McChrystal als auch unter dem neuen US-Befehlshaber General Petraeus aus Counter Insurgency (Aufstandsbekämpfung), COIN, oder wie ich in meinem Aufsatz Warum Afghanistan? Teil II: Washingtons Kriegsstrategie in Zentralasien beschreibe, aus »friedenssichernden Maßnahmen«, d.h. der Strategie, Krieg und Instabilität zu verbreiten, um die verstärkte NATO-Präsenz gegenüber der Welt als »Friedenssicherung« in der Region zu rechtfertigen. Das Pentagon strebt die Vorherrschaft im wichtigen zentralasiatischen Raum an, um auf diesem Weg China, Russland, Zentralasien und den Iran beherrschen zu können. Wie schon bei der CIA und den US-Streitkräften während des Vietnamkriegs Anfang der 1970er Jahre, so wird auch hier der illegale Drogenhandel zum geopolitischen Werkzeug, um Terror und Instabilität zu verbreiten und einen Vorwand für die verstärkte US-Truppenpräsenz zu schaffen, um »die Lage zu stabilisieren«.

Die Invasion des Westens nach Afghanistan im Jahr 2001 hat das Land einerseits zu einer nicht versiegenden Quelle für den weltweiten Drogenhandel und andererseits zum Ausgangspunkt um sich greifender Instabilität gemacht. Momentan erfasst diese den gesamten post-sowjetischen zentralasiatischen Raum, der Putsch in Kirgisistan und das Massaker von Osch waren nur einzelne Szenen eines größeren Dramas. Zu den vorrangigen Zielen des afghanisch-kirgisischen Drogenhandels zählt Russland; nach Berichten gut platzierter asiatischer Quellen wird das Heroin aus Afghanistan und amerikanischem militärischen Schutz über den amerikanischen Luftwaffenstützpunkt Manas in Kirgisistan nach Russland geflogen und geht über Kosovo weiter an westeuropäische Drogenhändler.

Der Chef der Russischen Drogenbekämpfungsbehörde Viktor Iwanow hat kürzlich erklärt: »Die vorliegenden Beweise sprechen eindeutig dafür, dass die frühere kirgisische Führung den Drogenhandel im Lande unter ihrer Kontrolle hatte, was anderen Drogenbaronen ein Dorn im Auge war, die sich um ihren Anteil am Gewinn betrogen fühlten. «

Laut Iwanow sind vermutlich bis zu 500 Drogenlabors in Afghanistan an der Produktion von Drogen beteiligt, die dann nach Russland verschickt werden. Im vergangenen Jahr haben die russischen Behörden den USA eine Liste von »Marken« übergeben, die auf Labors in Afghanistan hindeuteten. »Diese... Labors haben Drogen auf russisches Hoheitsgebiet geliefert«, so Iwanow. Russland ist seit der amerikanischen Besetzung von Kabul ein vornehmliches geopolitisches Ziel des Heroinflusses aus Afghanistan. Nach Angaben der russischen Drogenbekämpfungsbehörde fordert afghanisches Opium Jahr für Jahr das Leben von ca. 30.000 Menschen in Russland. Insgesamt wird die Zahl der Todesopfer durch afghanisches Heroin in den letzten zehn Jahren auf 250.000 bis 300.000 geschätzt.

Antonio Maria Costa, der Direktor des UN-Büros für Drogen- und Verbrechensbekämpfung, bezeichnet die Lage im afghanischen Drogengeschäft als »totalen Sturm, bei dem sich Drogen- und kriminelle Aktivität mit einem Aufstand verbinden. « Der Drogenhandel, der jahrelang auf das Grenzgebiet zwischen Afghanistan und Pakistan beschränkt gewesen war, breitet sich nun über ganz Zentralasien aus. Wie Costa warnt, wäre ohne drastisches Einschreiten ein Großteil Eurasiens mit seinen großen Energiereserven verloren, das Epizentrum der Instabilität verschöbe sich von Afghanistan nach Zentralasien. Genau das ist nun zufällig die Strategie des Pentagon. Die scheinbar konfuse US-Politik dient auch als Deckmantel, unter dem die Entsendung weiterer NATO-Truppen und die Ausweitung des Konflikts gerechtfertigt werden.

Russland schlägt vor, eine Gemeinsame Sicherheits-Organisation in Khorog, der Hauptstadt der Autonomen Provinz Gorno-Badachschan in Tadschikistan, einzurichten, von der aus eine berüchtigte Drogenroute nach Norden verläuft. Bislang haben sich Washington und die NATO zu diesem Vorschlag nicht geäußert.

 

Ahmed Wali Karzai gilt als Boss des afghanischen Heroinhandels

Zurzeit besteht der offizielle Plan der USA darin, die Verantwortung für die Drogenbekämpfungsmaßnahmen der afghanischen Verwaltung zu übertragen, wobei westliche Vertreter inoffiziell zugeben, dass die afghanische Regierung eigentlich völlig funktionsunfähig ist. Der Bruder des afghanischen Präsidenten Hamid Karzai, der Gouverneur der größten Opiumprovinz Helmland, ist laut New York Times der Drogenboss Afghanistans und erhält Geld von der CIA.

Aufgrund der strategischen Lage Afghanistans erlaubt es die militärische Präsenz der USA und der NATO, gleichzeitig Druck auf Russland, China und die wichtigen Ölexporteure Iran, Saudi-Arabien, Irak sowie die Atommacht Pakistan auszuüben. NATO-Militärstützpunkte in Afghanistan können ohne Schwierigkeiten in eine Kampagne gegen den Iran eingebunden werden. Der russische Präsident Medwedew hat soeben die russische »Strategie zur Drogenbekämpfung bis 2020« unterzeichnet, in der die Bildung eines Sicherheitsgürtels um Afghanistan herum gefordert wird, um so den Nachschub von Opiaten aus dem Land zu stoppen. Es bestehen wenig Chancen, dass sich die NATO oder Washington an einer solchen Strategie beteiligen. Ihr Ziel ist dem russischen entgegengesetzt: sie wollen die militärische Dominanz der NATO in ganz Zentralasien. Für Petraeus bedeutet Opium dabei nur eine wichtige strategische Waffe. Deutsche und andere NATO-Soldaten setzen ihr Leben aufs Spiel oder sterben gar für den Schutz dieser Opiumrouten.

 

dimanche, 11 juillet 2010

Le Traité du Trianon fut une catastrophe pour l'Europe entière!

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Le Traité du Trianon fut une catastrophe pour l’Europe entière!

 

 

Entretien avec Gabor Vona, président du parti “Jobbik” sur les conséquences du Traité du Trianon et sur la situation des minorités hongroises en Europe centrale

 

Q. : Monsieur Vona, il y a 90 ans, les puissances signaient le traité du Trianon. Quelles sont les conséquences de ce Traité sur la Hongrie actuelle ?

 

GV : Laissez-moi d’abord vous expliquer la terminologie de cette question épineuse : d’après moi, tout traité est le suite logique de négociations ; or ce qui s’est passé après la seconde guerre mondiale dans le château du Trianon à Versailles relève du diktat et non de négociations ; les ennemis de la Hongrie ont décidé du sort de notre pays en tablant sur des mensonges, des chiffres falsifiés et de faux rapports. L’Europe centrale, et avec elle le Royaume de Hongrie tout particulièrement, a été morcelée par la faute d’une coalition de superpuissances à courtes vues et par un groupe d’Etats avides, calculateurs et frustrés, que nous connaissons depuis sous le nom de « Petite Entente ».

 

Pour les Hongrois, le Traité du Trianon est synonyme d’une tentative de liquider purement et simplement le peuple hongrois. La perte de régions stratégiquement, culturellement et économiquement importantes et de leurs habitants signifie une perte démographique, culturelle et économique qui se ressent encore aujourd’hui dans notre pays, pour ne rien dire des dommages d’ordres psychologique et spirituel que le Traité du Trianon à infligé à notre conscience collective.

 

Mais les résultats du traité du Trianon n’ont pas été une tragédie que pour les seuls Hongrois : ce fut une tragédie pour l’Europe entière. Parce que le Traité du Trianon et les autres diktats imposés par les vainqueurs dans la région parisienne ont déstabilisé l’Europe centrale et orientale et ont été la cause de conflits non encore résolus dans la région. Tant l’effondrement général de l’ex-Yougoslavie dans la violence que la séparation pacifique de la Tchécoslovaquie en deux entités étatiques prouvent que les assises de ce Traité du Trianon étaient insensées.

 

Q. : La Hongrie a perdu plus des deux tiers de son territoire et plus de trois millions de Hongrois ont été placés sous l’autorité d’Etats voisins. Dans quelle mesure cette tragédie nationale a-t-elle transformé la mentalité des Hongrois ?

 

GV : Immédiatement après la tragédie que fut le Traité du Trianon, la Hongrie est parvenue à se consolider très rapidement pendant l’ère chrétienne-conservatrice de l’Amiral Miklos Horthy. L’ère Horthy a permis de libérer des énergies positives pour le bien de la nation hongroise : en un laps de temps très bref, la Hongrie a réussi à reconstruire ses infrastructures, son industrie, son armée et ses forces de police. Le régime de Horthy jeta les bases d’une économie saine et efficace, soutenue par l’une des monnaies les plus stables d’Europe. Ce régime mit également sur pied un système éducatif solide et apte à soutenir la concurrence. La vie culturelle était florissante. Sous Horthy, la Hongrie avait une élite nationale impressionnante et bien formée, qui poursuivait un objectif : réviser les clauses du diktat injuste du Trianon et qui était prête à défendre les minorité ethniques magyares au-delà des nouvelles frontières de l’Etat hongrois résiduaire en menant une diplomatie offensive et même, s’il le fallait, en faisant appel aux forces armées. L’objectif déclaré, réunifier la nation, a pu être atteint, du moins partiellement. Mais depuis cette époque, nous, Hongrois, n’avons plus d’élite nationale. Pendant les cinq décennies de communisme, nous avions une élite d’obédience internationaliste et, aujourd’hui, nous avons une élite qui croit à l’idéologie de la globalisation. Aucune de ces élites n’a été ou n’est capable ou désireuse de défendre les intérêts nationaux. Il faut ajouter que ces « élites » ont eu la pire influence qui soit sur la mentalité actuelle du peuple hongrois.

 

Q : Récemment, le Parlement hongrois a décidé de faire passer une loi sur la « double citoyenneté » et cela a conduit à des tensions avec la Slovaquie. Comprenez-vous les critiques émises par les Slovaques ?

 

GV : Non. Mais je ne crois pas qu’il s’agit, en ce cas précis, d’une mécompréhension du problème. la Slovaquie, en effet, se comporte comme un adolescent frustré, qui approche de ses vingt ans, développe un complexe d’infériorité et réagit de manière disproportionnée face à une loi qui est entièrement au diapason de ce que demandent le droit des gens, les conventions réglementant les droits de l’homme et les principes du Conseil de l’Europe. Il y a quelques semaines, des élections ont eu lieu en Slovaquie et, comme vous l’aurez appris, la rhétorique anti-hongroise s’y est révélée capable de rapporter le maximum de voix. Ce n’est dès lors pas un miracle qu’aucun parti slovaque n’a pu se soustraire à ce chœur anti-hongrois…

 

Q. : Plus d’un demi million de Hongrois ethniques vivent en Slovaquie où, l’an passé, le Parlement a fait passer la loi dite « de protection de la langue slovaque ». Dans quelle mesure celle loi discrimine-t-elle les Hongrois ? Pouvez-vous nous expliquer quelle est la situation de la minorité hongroise en Slovaquie ?

 

GV : La loi sur la langue slovaque a pour noyau que tous les citoyens, pour toutes les questions administratives, ne peuvent utiliser que la seule langue slovaque ; ensuite toute infraction à cette loi est passible de sanctions sévères, imposées par l’Etat. Comme les Hongrois sont la seule minorité importante en Slovaquie, il est clair que cette loi vise principalement les Hongrois ethniques. Cette loi correspond parfaitement à la rhétorique anti-hongroise récurrente et aux pratiques législatives habituelles du gouvernement slovaque. Pour comprendre l’absurdité de cette loi, il faut savoir que la majorité des Hongrois ethniques (près de 10% de la population) vit dans le sud de la Slovaquie dans une région bien délimitée. Dans cette région, on rencontre très souvent des villes ou des villages entièrement hongrois où tous parlent hongrois, y compris les fonctionnaires de l’hôtel de ville ou de l’administration municipale, de la poste ou de la police. Par cette loi, un Hongrois ethnique est désormais contraint d’utiliser la langue slovaque pour s’adresser à un autre Hongrois ethnique qui, lui, travaille, dans un bureau de poste de village où, plus que probablement, tous les clients de la journée parlent hongrois. Tout cela se passe au 21ième siècle, dans l’Union Européenne, avec l’accord tacite de l’UE…

 

Q. : L’UE garde le silence sur le traitement infligé aux Hongrois ethniques de Slovaquie. Ce comportement est-il objectif ?

 

GV : Parmi les plus importantes demandes formulées au moment où la Hongrie adhérait à l’UE, il y avait celle qui réclamait de celle-ci qu’elle ne tolèrerait pas les discriminations infligées aux Hongrois ethniques. Ensuite, il y avait une demande plus claire encore : l’UE devait accepter la disparition éventuelle de certaines frontières, de façon à ce qu’un peuple puisse, le cas échéant, se réunifier. Nous avons beaucoup entendu parler des « valeurs communes » de l’Europe, lesquelles rejetaient les discriminations et les politiques de deux poids deux mesures, pratiquées sur la base de la race ou de l’ethnie. Maintenant, nous entendons très peu d’échos de ces « valeurs », censées être contraignantes. L’Europe se tait lorsque des Hongrois ethniques sont molestés parce qu’ils parlent leur langue maternelle, lorsque des supporters du club de football de Dunaszerdahely sont attaqués brutalement par la police ou quand une loi discriminante se voit ratifiée par le Parlement slovaque.

 

Q. : Et quelle est la situation des minorités hongroises en Roumanie, en Serbie et en Ukraine ?

 

GV : Dans chacun de ces pays, la situation est différente, relève d’une histoire et d’un contexte différents. Toutefois, entre tous ces pays, un point commun : la volonté du gouvernement en place de contraindre les minorités hongroises, qui vivent sur leur territoire, à s’assimiler.

 

Q. : Jusqu’en 1921, le Burgenland, aujourd’hui autrichien, appartenait à la Hongrie. Pourquoi n’y a-t-il pas de tensions entre l’Autriche et la Hongrie au sujet de ce territoire ? Est-ce dû à la « communauté de destin » partagée par les vaincus de la première guerre mondiale ?

 

GV : Vaincus ? Pour ce qui concerne le Burgenland, l’Autriche appartient plutôt au camp des vainqueurs, puisqu’elle a reçu un territoire auparavant hongrois. Du point de vue hongrois, cela paraît étrange d’avoir perdu un territoire au profit de l’Autriche, après que nous ayons combattu côte à côte pendant une guerre. Je pense que la raison pour laquelle le Burgenland ne constitue pas un objet de tension entre nos deux Etats, c’est que l’Autriche ne considère pas la minorité hongroise comme un danger pour l’unité du peuple et de l’Etat. Malheureusement, l’hostilité aux Hongrois ethniques que l’on perçoit en Slovaquie, en Roumanie, en Serbie et en Ukraine est largement répandue.

 

Q. : Dans l’UE les frontières entre Etats perdent de jour en jour plus d’importance. L’UE ne pourrait-elle pas édulcorer les conséquences du Diktat du Trianon ?

 

GV : Non. La rhétorique de l’UE et de ses partisans ressemble très fort aux professions de foi internationalistes des communistes. Le socialisme, bien qu’axé sur une autre logique utopique, cherche, lui aussi, à annihiler l’Etat national. Si l’UE pouvait constituer une solution, alors les relations entre la Hongrie et ses voisins, également membres de l’UE, devraient sans cesse s’améliorer. Mais nos expériences indiquent exactement le contraire…

 

Q. : Pensez-vous que soient possibles une révision du Diktat du Trianon et une réunification des territoires peuplés de Hongrois dans les Etats limitrophes de la Hongrie actuelle avec celle-ci ?

 

GV : Pour que cela advienne, il faut que la Hongrie se dote d’abord d’une véritable élite nationale, au service des intérêts du peuple. C’est là une condition incontournable pour la renaissance spirituelle de notre pays.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°24/2010 ; propos recueillis par Bernhard Tomaschitz).

samedi, 10 juillet 2010

Le démembrement de la Hongrie - Le Diktat du Trianon et sa révision partielle

 

Erich KÖRNER-LAKATOS :

 

Le démembrement de la Hongrie

 

Le Diktat du Trianon et sa révision partielle

 

Après la défaite de Mohacs en 1526 contre les Turcs, le Traité du Trianon est la seconde grande catastrophe subie par le peuple magyar. Le 4 juin 1920, le ministre plénipotentiaire hongrois Agoston Bénard et l’envoyé Alfred Drasche-Lazar signent, dans les salles du château de plaisance du Trianon les actes du traité fatidique pour la Hongrie. En guise de protestation contre ce Diktat imposé par les vainqueurs, les deux hommes ont signé debout. Car la délégation de Budapest avec, à sa tête, le Comte Albert Apponyi, subit en fait le même sort que les Autrichiens guidés par Karl Renner : tous ses arguments, sans exception, n’ont aucun impact. A la suite de ces vaines tentatives de négociations, les délégués hongrois sont contraints de signer le texte formulé et imposé par les vainqueurs.

 

Toute la Hongrie met les drapeaux en berne. Plus des deux tiers du territoire de l’Etat hongrois doivent être cédés, avec 60% de ses citoyens d’avant-guerre qui deviennent en un tournemain des étrangers, parmi lesquels trois millions de Magyars ethniques. La Transylvanie, la Batschka et le Banat, les « Hautes Terres » (c’est-à-dire la Slovaquie) et l’accès à la mer par Fiume : tout est perdu. Même la Pologne, amie par tradition, reçoit quelques lambeaux de sol hongrois dans les Tatras. De plus, le Royaume de Croatie tout entier, avec ses 52.541 km2, est arraché à la Hongrie, alors qu’il était lié à elle par le biais d’une union personnelle depuis le 12ème siècle et où, selon le recensement de 1910, vivaient 105.948 Hongrois. La Croatie, bon gré mal gré, devient partie intégrante du Royaume des Serbes, Croates et Slovènes. « Nem, nem, soha ! » (« Non, non, jamais » !), entend-on de toutes parts. Les uns, en songeant au rude traitement parfois infligé aux composantes ethniques non magyares avant 1914, veulent réviser le Traité du Trianon de manière minimaliste en réclamant que les régions peuplées de Magyars reviennent à la mère patrie ; les autres, plus radicaux, lancent le mot d’ordre « Mindent vissza ! » (« Tout doit revenir ! ») et réclament le statu quo ante.

 

Par le biais du Protocole de Venise et du référendum contesté dans la région d’Ödenburg, Budapest parvient en décembre 1921 à obtenir une révision très modeste du Diktat : les territoires retournés ont une superficie de 292 km2, où vivent 50.023 citoyens. A la suite d’une décision de la Commission des Frontières de l’Entente, quelques villages le long de la rivière Pinka (Nahring, Schilding, Kroatisch-Schützen, Pernau et Grossdorf) retournent sous souveraineté hongroise : en tout 67 km2. A ces villages, il faut ajouter Prostrum et Bleigraben.

 

En juin 1927, le pays entre en ébullition car le quotidien londonien « Daily Mail », dans son édition du 21 juin, fait paraître un article titré « Hungary’s Place in the Sun » (« La place de la Hongrie sous le soleil »). L’auteur de cet article n’est rien moins que le magnat de la presse Lord Rothermere, dont le nom civil est Harold Sidney Harmsworth. Ce Lord Rothermere réclame une révision du Diktat du Trianon sur base ethnique-nationale. A Budapest, les optimistes pensent qu’il s’agit d’une initiative des affaires étrangères britanniques, ce qui s’avère bien rapidement un vœu pieux. Malgré cela, des centaines de milliers de personnes exultent quand Lors Rothermere vient en Hongrie pour visiter le pays. Certes, le Lord reste loyal à l’égard de la Hongrie, sponsorise le vol transocéanique entre Budapest et le New Foundland en juillet 1931, quatre ans après le vol en solitaire de Charles Lindbergh. L’appareil porte sur ses ailes une inscription, « Justice for Hungary »,  et traverse l’Atlantique en moins de quatorze heures.

 

Mais, à ce moment-là, il n’est pas question de songer à modifier les frontières imposées par le Traité du Trianon. En pratique, la Hongrie est presque entièrement encerclée par les puissances de la « Petite Entente », l’alliance militaire entre Prague, Belgrade et Bucarest. Il faut attendre 1938 pour que la situation se modifie. En août, le Régent du Royaume, Horthy, est à Kiel en tant que dernier Commandeur de la Marine de guerre impériale et royale austro-hongroise ; il y est l’invité d’honneur d’Adolf Hitler à l’occasion du lancement du croiseur lourd « Prince Eugène » (Prinz Eugen). On en arrive à parler de la Tchécoslovaquie mais, à la grande déception de son hôte allemand, le Régent Horthy préconise une solution pacifique à la question.

 

Lors des Accords de Munich, Mussolini jette dans les débats la questions des revendications polonaises (le territoire de Teschen) et hongroises sur la Tchécoslovaquie, ce qui débouche sur le premier Arbitrage de Vienne du 2 novembre 1938, qui accorde à la Hongrie une bande territoriale le long de la frontière hungaro-slovaque. Acclamé par la foule, le Régent, chevauchant un destrier blanc, entre dans la petite ville de Kaschau, accompagné de Lord Rothermere. En mars 1939, la Tchéquie résiduaire s’effondre et les troupes de la Honvéd (l’armée nationale hongroise) occupent l’Ukraine subcarpathique jusqu’à la frontière polonaise.

 

Un autre ardent désir des Hongrois se voit exaucé, du moins partiellement, par le second arbitrage de Vienne : le retour de la partie septentrionale de la Transylvanie avec l’enclave des Szekler (13.200 km2 avec un demi million d’habitants, dont 91% de langue hongroise). Cette région se trouve sur les flancs des Carpates orientales. Le 30 août 1940, lorsque la carte des nouveaux changements de frontières est présentée dans les salons du Château du Belvédère à Vienne, le ministre roumain des affaires étrangères Mihail Manoilescu s’effondre, terrassé par une crise cardiaque.

 

L’étape suivante (la dernière) a lieu en avril 1941. A la suite de la campagne militaire menée contre la Yougoslavie, les troupes de la Honvéd entrent dans la plupart des régions de la Batschka, peuplée de Hongrois. L’armée hongroise occupe également l’île de Mur entre les rivières Drave et Mur, au nord de Varajdin. Le Banat occidental (la partie orientale de cette région avait été attribuée à la Roumanie par le Traité du Trianon), avec ses 640.000 habitants, dont un bon nombre d’Allemands ethniques (*), ne revient pas à la Hongrie malgré l’aval de Berlin, parce que la Roumanie, elle aussi, avait exigé des compensations. Pour éviter une confrontation pour la maîtrise de cette région, celle-ci restera sous administration militaire allemande pendant la durée du conflit, une situation qui ne satisfaisait aucun des protagonistes.

 

Avec le soutien allemand, la Hongrie a pu récupéré, en deux ans et demi, un ensemble de territoires de 80.000 km2 en tout, avec cinq millions d’habitants dont plus de deux millions de Magyars, vivant, depuis l’application des clauses du Traité du Trianon, sous domination étrangère. Mais les tensions entre voisins demeurent : des tirs sporadiques éclatent le long de la frontière roumaine pendant l’été 1941. La Slovaquie, à son tour, demande des compensations territoriales ou le retour de certaines terres à la souveraineté slovaque. La Croatie veut récupérer l’île de Mur. Bratislava essaye même de raviver la « Petite Entente » mais Ribbentrop parvient à apaiser les partenaires de l’Allemagne et de l’Axe. Mais la joie d’avoir récupéré les territoires perdus à la suite du Diktat du Trianon ne durera guère. A la fin de l’année 1944, les armées soviétiques déferlent sur la Hongrie, alliée à l’Allemagne. Le traité de paix du 10 février 1947, signé à Paris dans le Palais du Luxembourg, les vainqueurs réimposent le statu quo d’avant la guerre. Pire : la Hongrie doit céder trois villages supplémentaires à la république tchécoslovaque de Benes.

 

Erich KÖRNER-LAKATOS.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°24/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).

 

Note :

(*) Ainsi que des Lorrains et des Luxembourgeois thiois et wallons, installés là-bas à la suite des invasions françaises du 17ème siècle qui ont saccagé et ruiné la Lorraine et la Franche-Comté, « génocidant » littéralement ces provinces et forçant, comme dans le Palatinat rhénan, les populations à fuir. Dans certaines zones, ce sont les deux tiers de la population qui est purement et simplement massacrée ou qui doit fuir. On trouvera des Lorrains dans la région de Rome, où ils ont été invités à assécher les fameux marais pontins et y ont péri de malaria et de typhus. Les Franc-Comtois, dont les villages et les fermes ont été incendiés par la soldatesque française et par les mercenaires suédois au service du Roi-Soleil, se retrouveront en Suisse et surtout au Val d’Aoste. La romanité impériale a subi de terribles sévices que l’historiographie française officielle a gommé des mémoires. Une historiographie, aujourd’hui « républicaine », qui donne des leçons à autrui mais dissimule des pratiques génocidaires inavouées et particulièrement écœurantes.

 

 

 

mardi, 06 juillet 2010

La Turquie tourne le dos à l'Occident

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Bernhard TOMASCHITZ:

La Turquie tourne le dos à l’Occident

L’amitié étroite entre la Turquie et Israël est un fait politique qui relève désormais du passé. Ankara envisage des sanctions contre l’Etat sioniste à la suite de l’attaque israélienne contre la flotille de la paix qui faisait route vers Gaza. Si Israël refuse de satisfaire à l’exigence turque de mettre en oeuvre une commission d’enquête internationale, le gouvernement turc songe à réduire voire à rompre les relations diplomatiques et les coopérations économiques et militaires. De même, la résistance turque au sein du Conseil de sécurité de l’ONU contre tout raffermissement des sanctions contre l’Iran a conduit à un refroidissement considérable du climat entre Ankara, d’une part, Jérusalem et Washington, d’autre part. Président de la commission de politique étrangère du Parlement turc, Murat Mercan explique ce soutien apporté à Téhéran: “La Turquie a des liens historiques, culturels et religieux d’une grande profondeur temporelle avec l’Iran. En d’autres mots: les Iraniens sont non seulement nos voisins mais aussi nos amis et nos frères”.

A Washington, la nouvelle orientation de la Turquie vers la Syrie et vers l’Iran (deux “Etats voyous selon les Etats-Unis) suscite une vigilance toute particulière. Car, en fin de compte, la Turquie est un allié particulièrement important des Etats-Unis pour assurer la pacification de l’Irak. Parce que le gouvernement turc a décidé de ne pas participer aux sanctions, Robert Gates, le ministre américain des affaires étrangères, s’est déclaré “déçu”. Gates avait toutefois une explication toute faite: c’est l’UE qui est responsable de cet état de choses, vu le gel des négociations entre l’Europe et la Turquie en vue de l’adhésion de ce pays à l’Union. Les Etats-Unis mettent une fois de plus la pression sur l’Union européenne pour qu’elle accepte le plus rapidement possible la Turquie en son sein. Et cette pression ira croissant pour autant qu’Ankara n’exagère pas dans son soutien à Téhéran. Au Congrès américain, nous entendons désormais des voix qui réclament une attitude de plus grande fermeté à l’encontre d’Ankara: “Il y aura un prix à payer si la Turquie maintient son attitude actuelle et se rapproche davantage de l’Iran, tout en se montrant hostile à Israël”, a menacé le Républicain Mike Pence. Quant à la Démocrate Shelley Berkley, elle s’est adressé aux Turcs en ces termes: “Ils ne méritent pas de devenir membres de l’UE, tant qu’ils ne commencent pas à se comporter comme les peuples européens et tant qu’ils ne cessent pas d’imiter l’Iran”.

Désormais, la Turquie tourne donc ses regards vers le Proche Orient. Mais l’adoption de cette politique n’est pas vraiment une surprise. De fait, le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan et son parti gouvernemental, l’AKP de tendance islamiste, se sentent plus proches du monde musulman que des Etats-Unis ou de l’Europe. A ce sentiment d’affinité s’ajoute le concept de “profondeur stratégique”, élaboré dès 2001 par l’actuel ministre turc des affaires étrangères, Ahmed Davutoglu. Selon ce concept, la Turquie doit retrouver sa propre “identité historique et géographique”, démarche où l’Empire ottoman constitue la principale référence. Davutoglu considère son pays, la Turquie, comme un “Etat clef”, situé sur le point de rencontre de l’Europe, de l’Asie et de l’Afrique car, en effet, la Turquie est tout à la fois partie des Balkans, du Caucase, de l’espace pontique (Mer Noire), du Proche Orient et de l’espace maritime du bassin oriental de la Méditerranée, ce qui implique, ipso facto, qu’elle doit s’efforcer d’entretenir un “rapport équilibré avec tous les acteurs globaux et régionaux”.

Cette notion de “rapport équilibré” est très visible dans les relations qu’entretient aujourd’hui la Turquie avec la Syrie. Ces relations se sont remarquablement détendues, depuis que la Turquie essaye de jouer un rôle médiateur dans le conflit israélo-syrien. Avant ce travail de médiation, on évoquait fort souvent une possible “guerre pour l’eau” entre les deux pays redevenus amis, parce que la Turquie contrôlait le cours supérieur de l’Euphrate.

Quant à la “profondeur stratégique”, elle constitue le pendant en politique étrangère de l’islamisation de la Turquie en politique intérieure. La notion de “profondeur stratégique” et l’islamisation constituent deux modes de rupture avec le kémalisme, idéologie déterminante de la Turquie depuis la fondation de la République en 1923. Heinz Kramer, politologue oeuvrant à la “Stiftung Wissenschaft und Politik” de Berlin (“Fondation Science et Politique”), évoque, dans l’une de ses études, la rupture fondamentale que cette idée de “profondeur stratégique” apporte dans la praxis turque en politique étrangère: “La domination mentale exercée jusqu’ici par l’exclusivité de l’orientation pro-occidentale, considérée comme l’un des piliers de l’identité républicaine en gestation, se trouve relativisée. La Turquie, dans cette perspective, ne se perçoit plus comme un Etat en marge du système européen mais comme le centre d’une ‘région spécifique’, pour l’ordre de laquelle Ankara doit assumer une responsabilité ou une co-responsabilité politique”.

Conséquence de cette nouvelle vision en politique étrangère et de cette nouvelle conscience politique: la Turquie essaye de se positionner comme un acteur plus déterminant qu’un simple pays assurant le transport d’énergie. En juillet 2009, la Turquie a signé l’accord sanctionnant la construction du gazoduc Nabucco qui devra acheminer le gaz naturel de la région caspienne ou de l’Iran vers l’Europe centrale: cette signature est un véritable coup de maître politique. Morton Abramowitz et Henri J. Barkey, tous deux actifs pour les “boîtes à penser” américaines, écrivent à ce propos dans la très influente revue “Foreign Affairs”: “Le gazoduc Nabucco sera-t-il un jour construit? On demeure dans l’incertitude. Tant le coût de son installation que la question de savoir s’il y aura suffisamment de gaz naturel à disposition pour le remplir, sont des éléments qui restent à élucider (...). Mais le projet de gazoduc a d’ores et déjà augmenté l’influence de la Turquie aux yeux des pays de l’UE, animés par une perpétuelle fringale d’énergie”. Avec la clef énergétique, la Turquie pourrait bien s’ouvrir la porte de l’UE.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°25-26/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

dimanche, 04 juillet 2010

Le élites di Washington sono molto préoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

Le élites di Whashington sono molto preoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

di Pepe Escobar - Salvador Lopez Arnal

Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]





Lentamente ma energicamente il popolo del Sud si organizza e si prepara politicamente non solo per frenare l'imperialismo militarista e bellicista degli Stati Uniti ma anche per mettere fine all'ipocrisia dell'abuso di dominazione neo-coloniale da parte delle potenze industriali europee, con le loro addormentate società civili. Frenare le ingiustizie a cui sono sottomessi numerosi popoli in pieno ventunesimo secolo, rispetto e mutua reciprocità sono i nuovi dogmi. In questa intervista, il nostro collega Pepe Escobar analizza il modo in cui alcuni paesi emergenti, come il Brasile, la Turchia o l'India, stanno organizzando una nuova era di relazioni armoniche e rispettose fra i popoli.

Domanda: in un recente articolo pubblicato da Asia Times Online [1], tradotto da Sinfo Fernández di Rebelión, lei parlava della dominatrice. Mi permetta di complimentarmi per la sua trovata terminologica. Perché lei crede che la Segreteria di Stato statunitense (Hillary Clinton) si adatti bene a questo termine? Non sono migliorate le forme di politica estera degli Stati Uniti nell'amministrazione Obama?

Pepe Escobar: Hillary è una dominatrice nel senso che è capace di soggiogare tutto il Consiglio di Sicurezza dell'ONU invece di ammettere il fallimento della sua diplomazia. Forse lo ha imparato con Bill... O forse sono tutti masochisti.

No, non è così. La ragione principale è che la Cina e la Russia si lasciarono dominare. Cina e Russia decisero che era meglio lasciare la stridula Hillary dominare il palco per qualche giorno, e lavorare in silenzio per raggiungere il loro obiettivo: porre sanzioni con il massimo sentore “light” su Teherán. Per ciò che riguarda l'Iran, gli Stati Uniti sono ciechi, lo vedono tutto rosso. Lo stesso può dirsi in relazione a Israele, lo vedono tutto bianco celestiale.

Domanda: il nodo centrale del suo recente articolo – «Irán, Sun Tzu y la dominatrix» [2] [
Traduzione Comedonchisciotte N.d.r] – è l'accordo fra le diplomazie di Brasile, Turchia e Iran sul tema dello sviluppo nucleare di quest'ultimo Paese. In cosa consiste questo accordo?

Pepe Escobar: è essenzialmente lo stesso accordo proposto dagli stessi statunitensi nell'ottobre del 2009. La differenza sta nel fatto che, secondo la proposta del 2009, l'arricchimento dell'uranio si realizzava in Francia e in Russia e ora, attraverso l'accordo, si effettuerà in Turchia.

La differenza fondamentale è nel metodo. Turchia e Brasile si sono comportate con diplomazia, senza polemiche e rispettando le ragioni iraniane. Altro dettaglio fondamentale: tutto quello che hanno fatto era già stato discusso in dettaglio a Washington. Quando è stato presentato un risultato concreto, quando è stato raggiunto l'accordo con l'Iran, Washington, mi permetta la metafora bellica, ha sparato loro un colpo nelle costole.


Domanda: non è una novità nella diplomazia internazionale che Brasile e Turchia, due paesi non contrapposti agli Stati Uniti, si mettano in gioco in questa faccenda? Perché lei crede che abbiano scommesso su questa strategia autonoma? Cosa vincerebbero? L'Iran non è forse lontano, molto lontano, dal Brasile?

Pepe Escobar: ogni Paese ha i suoi motivi per espandere la propria mappa geopolitica. La Turchia si vuole proiettare come attore eccezionale, che conta davvero in Medio Oriente. Ne consegue una politica diciamo post-Ottomana, organizzata dal Ministro delle Relazioni Estere, il professor Ahmet Davutoglu.

Anche il Brasile, con una politica molto intelligente di Lula e del suo ministro Celso Amorim, vuole posizionarsi come mediatore onesto nel Medio Oriente. Il Brasile fa parte della BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) che secondo me è attualmente il vero contro-potere all'egemonia unilaterale degli Stati Uniti. Se circa due settimane fa ha discusso formalmente a Brasilia la sua adesione, la Turchia sarebbe parte del gruppo, il quale sarebbe quindi chiamato BRICT. Questa è la nuova realtà nella geopolitica globale. E, senza dubbio, le vecchie élites di Washington sono diventate livide.

Domanda: non sembra, come lei stesso segnalava, che l'accordo abbia suscitato entusiasmo nella Segreteria di Stato né nei governi europei. Perché? Vorrebbero che la strada diplomatica fallisca per proseguire con le loro sanzioni e condurci ad uno scenario bellico? Se è così, cosa guadagnerebbero con esso? Non ci sarebbero troppi fronti aperti allo stesso tempo?

Pepe Escobar: dalla prospettiva della politica interna degli Stati Uniti, quello che interessa a Washington è cambiare il regime. Ci sono almeno tre tendenze in lizza. I “realisti” e la sinistra del Partito Democratico che sono a favore del dialogo; l'ala del Pentagono e dei servizi di intelligence vogliono almeno delle sanzioni, e i repubblicani, i neocolonialisti, le lobby di Israele e la sezione Full Spectrum Dominance del Pentagono vogliono un cambio di regime sia come sia, inclusa la strada militare, se fosse necessario.

I governi europei sono cagnolini da compagnia di Bush o di Obama. Non servono a niente. Ci sono voci autorevoli in alcune capitali europee e a Bruxelles. Sanno che l'Europa ha bisogno del petrolio e del gas iraniano per non essere ostaggi di Gazprom. Ma sono una minoranza.

Domanda: lei crede che il Governo iraniano aspiri, oltre le sue dichiarazioni, a possedere un armamento nucleare? Per farsi rispettare? Per piegare Israele? Per attaccarla? Pakistan nucleare, India nucleare, Israele nucleare, Iran nucleare. Tutta questa zona non diventerebbe un'autentica polveriera?

Pepe Escobar: sono stato molte volte in Iran e mi sono convinto di quanto segue: il regime iraniano può causare rabbia ma non è un sistema suicida. Il leader supremo, in diverse occasioni, ha annunciato una fatwa affermando che l'arma nucleare è “non-islamica”. Le Guardie Rivoluzionarie supervisionano il programma nucleare iraniano, senza dubbio, ma sanno molto bene che le ispezioni e il controllo della IAEA, Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, sono molto seri. Se punteranno a sviluppare una bomba atomica rudimentale, saranno scoperti e denunciati immediatamente.

Di fatto, l'Iran non ha bisogno di alcuna bomba atomica come elemento di dissuasione. Gli basta un arsenale militare high-tech, di tecnologia sempre più avanzata. L'unica soluzione giusta sarebbe una denuclearizzazione totale del Medio Oriente che Israele, ovviamente, con i suoi più di duecento missili nucleari, non accetterà e mai rispetterà.

Domanda: che ruolo gioca la Russia in questa situazione? Lei ricordava che l'impianto nucleare di Bushehr fu costruito dalla Russia, che lì si stanno si stanno svolgendo le ultime prove e che probabilmente si inaugurerà quest'estate.

Pepe Escobar: Bushehr deve essere inaugurata in agosto, dopo molti ritardi. Per la Russia l'Iran è un cliente privilegiato in termini nucleari e degli armamenti. Ai russi interessa che l'Iran continui in questo modo, che la situazione non cambi. Non vogliono l'Iran come potere nucleare militare. È una relazione con molti nodi, ma soprattutto commerciale.

Domanda: nel suo articolo lei cita il vecchio generale e stratega Sun Tzu. Ricorda un aforisma del filosofo cinese: “lascia che il tuo nemico commetta i suoi errori e non correggerli”. Lei afferma che Cina e Russia, maestri strateghi quali sono, stanno applicando questa massima rispetto agli Stati Uniti. Che errori stanno commettendo gli USA? Sono tanto goffi i suoi strateghi? Non hanno per caso letto Sun Tzu?

Pepe Escobar: tutti gli statunitensi ben educati nelle università hanno letto Sun Tzu. Altra cosa è saperlo applicare. Cina e Russia, in una strategia comune ai BRIC, si accordarono per lasciare gli Stati Uniti con l'illusione di condurre le sanzioni, nello stesso tempo in cui lavorarono e lavorano per minarle al massimo e approvare in ultima istanza un pacchetto di sanzioni molto “light”. Russia e Cina vogliono stabilità in Iran con il beneficio delle loro importanti relazioni commerciali. Nel caso della Cina, tenga in conto che l'Iran è un grande fornitore di gas e questo riguarda la massima sicurezza nazionale.

Domanda: siamo, lei riassume, in una situazione in cui sul tavolo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica c'è un accordo di interscambio approvato dall'Iran, mentre nelle Nazioni Unite è in marcia un'offensiva di sanzioni contro l'Iran. Lei si domanda di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”. Io le domando: di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”?

Pepe Escobar: la vera “comunità internazionale”, i BRIC, i paesi del G-20, le 118 nazioni in sviluppo del Movimento dei non-allineati, insomma, tutto il mondo in sviluppo, sta con Brasile, Turchia e la loro diplomazia di non-opposizione. Solo gli Stati Uniti vogliono sanzioni e i suoi patetici, ideologici cani da compagnia europei.

Domanda: lei afferma anche che l'architettura della sicurezza globale, “vigilata da un pugno di temibili guardiani occidentali auto-nominati”, è in coma. L'Occidente “atlantista” affonda come il Titanic. Non esagera? Non confonde i suoi desideri con la realtà? Non c'è il pericolo reale che l'affondamento distrugga quasi tutto prima di affondare definitivamente?

Pepe Escobar: io ero già di fronte, con l'orrore di tutto il mondo, come per ora poter almeno credere nella possibilità di un nuovo ordine, delineato soprattutto dal G-20 e dai paesi del BRICT. Inclusa la T finale.

Il futuro economico è dell'Asia e il futuro politico è dell'Asia e delle grandi nazioni in via di sviluppo. È chiaro che le élites atlantiste rinunciano al loro potere solo dopo aver visto i propri cadaveri distesi per terra. Il Pentagono continuerà con la sua dottrina di guerra infinita. Però prima o poi non avrà come pagarla. Non nego che sia una possibilità che gli USA, in un futuro prossimo, sotto l'amministrazione di un pazzo repubblicano di estrema destra, entri in un periodo di guerra allucinata, sconvolta. Se così fosse, sarà senza dubbio la sua caduta, la caduta del nuovo Impero Romano.

Domanda: quale forte lobby degli USA è a favore della guerra infinita a cui si è appena riferito? Chi sostenta e finanzia questa lobby?

Pepe Escobar: La guerra infinita è la logica della Full Spectrum Dominance, la dottrina ufficiale del Pentagono, che include “l’encirclement” di Cina e Russia, la convinzione che questi paesi non possano emergere come ficcanaso e competitori degli USA, e inoltre fare tutti gli sforzi per controllare o almeno vigilare Eurasia. È la dottrina del Dr. Strangelove [3], però è anche la mentalità dei dirigenti militari statunitensi e della maggioranza del suo establishment. Il complesso industrial-militare non ha bisogno dell'economia civile per sostentarsi. Ha in elenco un'enorme quantità di politici e tutte le grandi corporazioni.

Domanda: lei parla della dottrina del Dr. Zbigniew “conquisteremo l'Eurasia”. Un'altra trovata, mi permetta un altro complimento. Il vecchio assessore alla sicurezza nazionale, lei segnala, sottolineò che “per la prima volta in tutta la storia umana, l'umanità si è svegliata politicamente -questa è una nuova e totale realtà- , una cosa mai successa prima”. Secondo lei è così? Che parte dell'umanità addormentata si è svegliata?

Pepe Escobar: per le élites statunitensi il dato essenziale è che Asia, America Latina e Africa stanno intervenendo politicamente nel mondo in un modo impensabile durante il colonialismo e che la decolonizzazione è, per loro, un incubo senza fine. Come dominare chi ora sa come comportarsi per non essere dominato di nuovo? È una domanda basilare.

Domanda: Washington, profondamente unilaterale, lei segnala, non esita a puntare l'indice fino al più vicino dei suoi amici. Perché? Sono per caso l'incarnazione dell'Asse del Male? Può essere raggiunta l'egemonia con procedimenti così poco gentili? Fino a quando?

Pepe Escobar: Non si può sottovalutare la crisi statunitense. È totale: economica, morale, culturale e politica. Ed anche militare perché furono distrutti in Iraq e sono al limite di un’umiliante sconfitta totale in Afganistan. Il nuovo secolo americano morì già nel 2001. L'11 settembre, oggi, si può interpretare come un messaggio apocalittico di fine.

Domanda: ma qual è uno degli attori principali della politica statunitense nel Vicino Oriente? Israele è addormentato? Quali sono i piani dei bulli di Gaza? [4]

Pepe Escobar: Israele si è convertito in quello che io chiamo “briccone” [birbante, o stato villano]. Sparta paranoica, etno-razzista, che ha la responsabilità della macchia profonda dell'apartheid. Israele sarà ogni volta più isolata dal mondo reale, protetta solo dagli USA, di cui è uno Stato-cliente. E il suo incubo, come se si trattasse di un film horror hollywoodiano, sarà il ritorno di ciò che è stato represso: la storia gli farà pagare per tutto l'orrore che ha perpetrato e continua a perpetrare contro i palestinesi.

Domanda: che opinione ha dell'azione di Israele dello scorso 30 maggio? Che senso può avere un attacco a dei pacifisti solidali con Gaza?

Pepe Escobar: fa parte della stessa logica di sempre. Abbiamo sempre ragione; quelli che sono contro le nostre politiche sono terroristi o antisemiti. Ora Israele è nella fase di difendere l'indifendibile: il blocco di Gaza.

È chiaro che ora tutto il mondo lo sa e non lo potrà più ingannare con le sue bugie, la Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele. Ma dubito, come nel caso degli Stati Uniti, che questa volta siano capaci di imparare la lezione.

Pepe Escobar [foto accanto al titolo N.d.r.], analista geopolitico. È autore di «Globalistan: How the Gbalizad World is Dissolving into Liquid War» (Nimble Books, 2007) e di «Red Zone Blues: a shapshot of Baghdad during the surge». Recentemente ha pubblicato «Obama does Globalistan» (Nimble Books, 2009), un libro che merita di essere tradotto (in spagnolo) con urgenza.

NOTE

[1] Fonte:
http://www.atimes.com/atimes/Middle...

[2]
http://www.rebelion.org/noticia.php..., 27 maggio 2010.

[3] Il film di S. Kubrick il cui titolo in italiano è “il Dottor Stranamore”, uno dei film preferiti di Manuel Sacristán.

[4] La domanda è stata formulata prima dell'attacco alla Flotilla della libertà e solidarietà. L'intervista termina con una domanda sull'attacco. “La Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele”, afferma Escobar.

Titolo originale: ""LA GUERRA INFINITA ES LA LÓGICA DE LA DOCTRINA OFICIAL DEL PENTÁGONO”"

Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=107156
04.05.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GABRIELLA REHO
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it


[Truppe statunitensi sparse per il mondo nel tentativo di ottenere una dominazione militare, oltre che economica. Il caso iracheno è esemplare. Si tratta di un’invasione per il petrolio, con il pretesto di difendersi da possibili armi nucleari che non sono mai state trovate.]

samedi, 03 juillet 2010

La collocazione geopolitica dell'Iran

La collocazione geopolitica dell’Iran

di Daniele Scalea

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Quella che segue è la trascrizione dell’intervento di Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e autore de La sfida totale (Fuoco, Roma 2010), al convegno “L’Iran e la stabilità del Medio Oriente”, tenutosi a Trieste giovedì 3 giugno 2010 presso l’Hotel Letterario Victoria e co-organizzato dall’Associazione Culturale “Strade d’Europa” e da “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”.
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Le immagini sono le stesse che, proiettate nella sala, hanno accompagnato l’intervento originale.


 

Quest’intervento è composto da due parti distinte. La prima, e principale, sarà un inquadramento generale dell’Iràn nel contesto geopolitico globale e in particolare eurasiatico. La seconda affronterà invece il problema delle ultime e contestate elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica.

Cominciamo dalla prima parte e, dunque, dalla collocazione geopolitica dell’Iràn.


 

Questa mappa, ripresa da un volume del geografo britannico Halford John Mackinder, mostra come i geopolitici classici, in particolare quelli anglosassoni, vedessero il mondo. La geopolitica classica centra la propria attenzione sul continente eurasiatico: infatti, in Eurasia si trovano la maggior parte delle terre emerse, della popolazione umana, delle risorse; e sempre in Eurasia sono sorte le principali civiltà della storia.

Il mondo è diviso in tre fasce, che dipartono concentriche proprio dal centro dell’Eurasia. Qui si trova la “area perno” (Pivot area) o “terra-cuore” (Heartland), la cui caratteristica è di essere impermeabile alla potenza marittima. Non ha infatti sbocchi sul mare (se si eccettua l’Artico, che non garantisce però collegamenti col resto del mondo), né vi è collegata neppure per via fluviale, in quanto i principali corsi d’acqua della regione sfociano nell’Artico o in mari chiusi. Nella Terra-cuore, pertanto, la potenza continentale non è contrastata da quella marittima.

La Terra-cuore è avviluppata da una seconda fascia, la “mezzaluna interna” (Inner Crescent), che percorre tutto il margine continentale eurasiatico dall’Europa Occidentale alla Cina, passando per Vicino e Medio Oriente e Asia Meridionale: per tale ragione è detta anche “terra-margine” (Rimland). Qui la potenza continentale e quella marittima tendono a controbilanciarsi l’un l’altra.

Infine, al di fuori dell’Eurasia, si staglia la terza ed ultima fascia, la “mezzaluna esterna” (Outer Crescent), che comprende le Americhe, l’Africa, l’Oceania e pure Gran Bretagna e Giappone. Essa è la sede naturale della potenza marittima, dove quella continentale non può minacciarla.

Secondo Mackinder, che scriveva all’inizio del Novecento, l’avvento della ferrovia avrebbe neutralizzato la superiore mobilità del trasporto marittimo, riequilibrando la situazione a favore della potenza tellurica (continentale, terrestre). John Spykman, mezzo secolo più tardi, ridimensionò il peso delle strade ferrate, sostenendo che la potenza talassica (marittima) manteneva il proprio vantaggio: la Terra-cuore è sì imprendibile per la talassocrazia (l’egemone sui mari), ma non può minacciare quest’ultima senza prima occupare la Terra-margine. Compito della talassocrazia – che in quegli anni, proprio come oggi, erano gli USA – è precludere il Rimland alla potenza continentale (allora l’URSS).


 

La strategia del contenimento, durante la Guerra Fredda, s’accorda con la visione del mondo della geopolitica classica. Contro un avversario che occupava l’Heartland (il riferimento è ovviamente all’URSS), gli USA talassocratici hanno messo in funzione un dispositivo che mantenesse sotto controllo il Rimland, impedendo a Mosca di raggiungere le coste continentali e proiettarsi sui mari. In tale dispositivo rientrano la NATO in Europa Occidentale, la CENTO nel Vicino e Medio Oriente, la SEATO in Asia Sudorientale e l’alleanza con Corea del Sud e Giappone (e in un secondo momento anche con la Cina) in Estremo Oriente.


 

Della CENTO, o Patto di Baghdad, faceva parte anche l’Iràn, oltre a Turchia, Iràq, Pakistan e Gran Bretagna (in qualità di ex padrone coloniale). Dalla cartina è facile individuare nella CENTO un anello della catena di contenimento che corre lungo tutto il Rimland.


 

Questa cartina mostra, semplificando un po’ la situazione, quelli che erano gli schieramenti nei primi decenni della contrapposizione bipolare in Vicino Oriente. Se Egitto, Siria e Iràq si erano avvicinati all’URSS, nella regione gli USA poggiavano sulla triade di potenze non arabe: Israele, Turchia e Iràn.


 

La Rivoluzione Islamica del 1979 pone fine all’alleanza tra Iràn e USA, pur senza portare Tehrān nel campo sovietico. Ciò rafforza il peso dei due perni superstiti, Turchia e Israele, ed anche il maggiore appoggio che Washington garantisce ai due paesi, ed in particolare a Tel Aviv. Dal canto loro tutti i paesi arabi, ad eccezione di Siria, Iràq e Yemen del Sud, seguendo il voltafaccia egiziano prendono più o meno tiepidamente posizione per gli Stati Uniti d’America, disperando della possibilità che l’appoggio sovietico possa apportare loro grossi benefici. Preferiscono puntare sull’avvicinamento a Washington, sperando che ciò possa spezzare la “relazione speciale” tra la Casa Bianca e Tel Aviv, e quindi ricevere una più equa mediazione nei confronti dello Stato ebraico. Speranza che rimarrà delusa.


 

Quest’immagine, ripresa da The Grand Chessboard di Zbigniew Brzezinski, mostra la visione del continente eurasiatico da parte degli eredi della geopolitica classica nordamericana. La Federazione Russa continua a mantenere una posizione centrale, pur ristretta rispetto all’epoca sovietica, mentre la Terra-margine è divisa in tre settori. Per ognuno di essi Brzezinski suggerisce una politica regionale a Washington.

A Occidente – ossia in Europa – si trova quella che Brzezinski definisce “la testa di ponte democratica”, ossia il pied-à-terre della talassocrazia nordamericana in Eurasia. L’integrazione europea pone una sfida agli USA: se dovesse fallire restituendo un’Europa frammentata e litigiosa, o se al contrario dovesse avere grosso successo creando un’Unione Europea monolitica e strategicamente autonoma, in entrambi i casi la presenza statunitense nella regione sarebbe messa in discussione. La soluzione prospettata da Brzezinski è quella di mettersi a capo dell’integrazione europea e dirigerla in modo che non leda gl’interessi nordamericani: esattamente quanto successo, con l’espansione della NATO a precedere ed indirizzare quella dell’UE, che ha demandato la propria sicurezza e guida strategica al capoalleanza d’oltreoceano.

A Oriente gli USA hanno ulteriori basi avanzate, in Giappone e Corea, che debbono mantenere ad ogni costo. Ma Brzezinski, memore di una delle mosse che ha deciso la Guerra Fredda, consiglia pure di coltivare i rapporti con la Cina, che potrebbe diventare per gli USA una seconda testa di ponte in Eurasia, pendant dell’Europa a oriente.

Infine c’è il Meridione, corrispondente al Vicino e Medio Oriente, dal Mediterraneo all’India.


 

In quest’area, Brzezinski ritiene che gli alleati naturali, anche se sovente involontari, della geostrategia statunitense siano Turchia e Iràn. Coi loro intenti panturanici la prima e panislamici la seconda, si proiettano nel Caucaso e nell’Asia Centrale controbilanciando l’influenza russa e frustrandone il tentativo di riconquistare quelle regioni alla propria area d’influenza. Questi “interessi competitivi” tra Turchia, Iràn e Russia, individuati da Brzezinski, corrispondono più alla situazione degli anni ’90 che a quella del decennio appena trascorso, in cui i tre paesi hanno privilegiato la soluzione “cooperativa” su quella “competitiva”.


 

Spostiamoci ora dal quadro propriamente geostrategico a quello energetico. La cartina schematizza la situazione dell’energia in Eurasia, individuando quattro regioni importatrici (Europa, Asia Orientale, Asia Meridionale e Asia Sudorientale) e quattro regioni esportatrici (Russia, Asia Centrale, Iràn, Vicino Oriente). Le quattro regioni produttrici potrebbero sostanzialmente ridursi a due: l’Asia Centrale non ha sbocchi sul mare, dipende dai paesi circostanti per lo smercio delle sue risorse, ed in particolare dalla Federazione Russa in ragione della rete d’oleodotti e gasdotti retaggio d’epoca sovietica; l’Iràn invece esporta molto meno del suo potenziale, come vedremo tra poco. Rimangono dunque la Russia e il Vicino Oriente, ma quest’ultimo è diviso in una pluralità di nazioni, spesso politicamente, economicamente e socialmente fragili. Ecco perché la Russia può essere individuata come la maggiore potenza energetica del continente eurasiatico (e del mondo).


 

Quest’immagine mostra come la rete delle condotte energetiche esistenti faccia perno sul territorio della Federazione Russa. In particolare, l’Asia Centrale dipende quasi totalmente da Mosca per l’esportazione dei propri idrocarburi verso l’Europa.


 

Gli USA hanno cercato d’inserirsi nella connessione Asia Centrale-Russia-Europa. Essa, infatti, crea un rapporto di interdipendenza tra i tre soggetti. In particolare, Mosca ne riceve importanti leve strategiche nei confronti dei paesi europei e centroasiatici. Il piano di Washington consiste nel creare nuove rotte energetiche dall’Asia Centrale all’Europa che scavalchino la Russia. Il primo importante progetto in tale direzione è stato l’oleodotto Bakù-Tblisi-Ceyhan. Aperto nel 2006, ha avuto un effetto meno dirompente di quanto s’attendessero gli Statunitensi: esso ha infatti raccolto il petrolio azero, ma solo in maniera marginale quello dei paesi centroasiatici.


 

Negli ultimi anni il gas naturale ha acquisito un’importanza crescente nel paniere energetico, e per questo i progetti più recenti si sono concentrati proprio sul trasporto del “oro blu”. Gli USA hanno rilanciato con l’ambizioso progetto del Nabucco che, partendo dalla Turchia, dovrebbe giungere fino in Austria, rappresentando un canale alternativo al transito sul territorio russo. Mosca non è però rimasta a guardare: i Russi hanno già avviato la costruzione del Nord Stream e si preparano a lanciare quella del South Stream; i due gasdotti, passando rispettivamente sotto il Baltico e il Mar Nero, scavalcheranno l’Europa Orientale (che ha creato diversi problemi al transito di gas russo) ed accresceranno sensibilmente il volume delle forniture russe all’Europa Occidentale.


 

Il Nabucco ha un grave punto debole: l’incertezza riguardo i bacini d’approvvigionamento da cui dovrebbe trarre il gas per l’Europa. A parte il gas azero, è probabile che lo riceverà dall’Egitto e dall’Iràq. Tuttavia, ciò potrebbe essere insufficiente rispetto alle ambizioni per cui verrà creato. Inoltre, il suo palese scopo geopolitico è sottrarre gas centroasiatico, ed in particolare turkmeno, al transito per la Russia. Ma il gas turkmeno ha sole due vie per poter arrivare a Erzurum: un ipotetico gasdotto transcaspico (cui s’oppongono due nazioni rivierasche – Russia e Iràn – e sulla cui possibilità di realizzazione tecnica permangono numerosi dubbi), oppure un transito sul territorio iraniano.


 

Ma il ruolo dell’Iràn rispetto al Nabucco potrebbe non essere soltanto quello d’un semplice canale di transito del gas turkmeno. Il paese persiano è già un grande esportatore di petrolio, ma potenzialità ancora maggiori le mostra rispetto al gas naturale, avendo riserve provate che sono le seconde più vaste al mondo. E sebbene sia il quinto maggiore produttore mondiale di gas, l’Iràn è a malapena il ventinovesimo esportatore. Ciò perché gran parte del gas prodotto viene consumato all’interno. Questa è una delle principali motivazioni del programma nucleare iraniano: soddisfare il fabbisogno energetico interno col nucleare, e liberare ingenti quantità di gas per l’esportazione. Esportazione che potrebbe passare proprio per il Nabucco, se si verificasse una distensione col Patto Atlantico.


 

Anche per scongiurare quest’eventualità, la Russia si è prodigata a sponsorizzare il progettato gasdotto Iràn-Pakistan-India. Rivolgendo verso oriente il gas iraniano, Mosca s’assicura di rimanere la principale ed imprescindibile fornitrice energetica dell’Europa. Tehrān e Islamabad hanno già avviato la costruzione dei rispettivi tratti, mentre Nuova Dehli, complici anche le pressioni di Washington, è ancora titubante. I Pakistani hanno offerto ai Cinesi di prendere il posto degl’Indiani; per ora Pechino non ha né accettato né rifiutato.


 


In questa fase il Vicino Oriente sembra stia vivendo una nuova polarizzazione. Rispetto a quella della Guerra Fredda, il ruolo degli attori strategici esterni è inferiore rispetto a quello dei paesi locali, ma non per questo trascurabile. L’ascesa dell’Iràn intimorisce molti paesi arabi, in particolare quelli del Golfo, che assieme a Giordania e Egitto hanno ormai concluso un’alleanza “inconfessata” con Israele, ovviamente benedetta dagli USA. L’Iràn, oltre all’alleato siriano e ad un paio di paesi in bilico (Iràq e Libano) sembra poter contare anche sulla Turchia: un paese che possiede proprie ambizioni di egemonia regionale, ma in questa fase ha scelto la cooperazione con l’Iràn. Questo secondo blocco coltiva buoni rapporti con la Russia e la Cina.


 


Passiamo quindi alla seconda parte di quest’esposizione, che concerne le elezioni presidenziali iraniane del 2009. In particolare, si cercherà di capire se davvero esse siano state viziate da brogli decisivi, ovvero se la vittoria di Ahmadinejad possa considerarsi sostanzialmente genuina. Ci si appoggerà alle risultanze d’una mia ricerca più particolareggiata, di cui riporterò solo alcuni dati più significativi tralasciando i calcoli intermedi ed altre argomentazioni accessorie – che si potranno comunque leggere consultando la ricerca stessa, che sarà citata in conclusione.


 


Questi sono i contestati risultati ufficiali delle elezioni. La prima cosa che balza all’occhio sono gli oltre 11 milioni di voti di scarto tra Ahmadinejad ed il secondo classificato, Musavì. In un paese in cui ogni seggio vede presenta osservatori indipendenti e dei vari candidati (compresi quelli sconfitti: in particolare, Musavì aveva più osservatori di Ahmadinejad) appare estremamente improbabile se non impossibile pensare ad una manomissione tanto massiccia delle schede già nei seggi. Non a caso, gli stessi oppositori di Ahmadinejad che hanno denunciato i presunti brogli propendono sempre per la tesi che i risultati siano stati semplicemente riscritti a tavolino dalle autorità. Anche se il riconteggio parziale delle schede in alcune delle circoscrizioni dai risultati più controversi ha confermato le risultanze iniziali, l’ipotesi dei brogli ha mantenuto ampio credito in tutto il mondo.


 


Eppure i risultati delle elezioni erano in linea con quanto predetto dalla maggior parte degli osservatori e dei sondaggi. Pur non fidandosi dei sondaggi d’opinione iraniani, ce n’è uno, molto significativo, che è stato realizzato con tutti i crismi di scientificità da tre importanti organizzazioni statunitensi: il centro Terror Free Tomorrow (non sospettabile d’essere benevolo verso Ahmadinejad, avendo tra i suoi consiglieri anche il senatore John McCain), il prestigioso istituto New America Foundation e la ditta di ricerche di mercato KA, tra i leaders mondiali del settore. Questo sondaggio, pur registrando un alto numero d’indecisi, mostrava una propensione di voto verso Ahmadinejad relativamente più alta, rispetto aMusavì, di quella effettivamente registratasi alle elezioni.


 


C’è un altro dato molto significativo. Se si sostituisse Musavì del 2009 col candidato Rafsanjani che nel 2005 sfidò Ahmadinejad al ballottaggio, si scoprirebbe che i risultati delle ultime due elezioni presidenziali in Iràn sono quasi coincidenti. Si tenga presente che nel 2005 in Iràn governava Khatamì, che alle ultime elezioni ha sostenuto Musavì, proprio come Rafsanjani.


 


Secondo taluni commentatori, una “prova” di brogli sistematici alle elezioni del 2009 sarebbe l’eccessiva uniformità di voto da provincia a provincia. L’evidenza aritmetica, tuttavia, mostra che il voto del 2009 è stato più difforme localmente rispetto a quello del 2005 (che, ricordiamo, si è svolto sotto un governo “riformista”, retto dagli attuali avversari politici di Ahmadinejad).


 


La difformità locale del voto in Iràn nel 2009 è nettamente superiore a quella registratasi, ad esempio, alle elezioni italiane del 2008 – che però non per questo sono state tacciate d’invalidità.


 


Alì Ansari, ricercatore della londinese Chatham House, ha individuato 10 province (su un totale di 30) in cui i voti ottenuti da Ahmadinejad sarebbero improbabili rispetto ai risultati del 2005. Ansari, al pari di molti sostenitori della tesi dei brogli, adotta sempre come metro di confronto il primo turno del 2005. Ciò è scorretto, poiché il quadro politico era completamente differente. Innanzitutto, nel 2005 non c’era un presidente uscente candidato – che invece nel 2009 era proprio Ahmadinejad – e perciò la contesa appariva più plurale: nel 2005 ben cinque candidati superarono il 10% dei voti al primo turno. La situazione registratasi nel 2009, con soli 4 candidati e la netta polarizzazione di voti sui due principali, richiama palesemente il secondo turno e non il primo del 2005. Rifacendo i calcoli di Ansari basandosi appunto su un raffronto col ballottaggio del 2005, e riconoscendo a Ahmadinejad il 61,75% dei nuovi votanti (ossia la percentuale che ottenne nel 2005), si nota che in 2 delle 10 province Ahmadinejad è addirittura in calo. In altre 4 ha incrementi percentuali inferiori al 10%; solo in 4 i suoi voti sono aumentati di più del 10%, con un picco in Lorestan del 17,72%. Vanno qui fatte due precisazioni: i voti guadagnati in queste 4 province, anche volendo ammettere che siano tutti fraudolenti, ammontano a poco più di mezzo milione, a fronte d’uno scarto complessivo su Musavì d’oltre 11 milioni di voti. In secondo luogo, non è scontato che incrementi anche così significativi non possano essere genuini. Riprendendo il confronto col caso italiano, si può osservare che – ad esempio – i partiti del Centro-destra (compreso l’UDC, che nel frattempo aveva abbandonato la coalizione) nella circoscrizione “Campania 1” ebbero un incremento percentuale dei consensi pari a quasi il 10% in soli due anni (dal 2006 al 2008). I flussi elettorali esistono, e non sono necessariamente indice di brogli diffusi.


 


Queste sono le indicazioni per chi volesse approfondire i temi qui trattati, o conoscere le fonti delle affermazioni appena fatte.


 


Per un quadro generale della politica internazionale odierna e recente, si rimanda al libro, da poco edito per i tipi di Fuoco Edizioni, La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali.


* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010).

vendredi, 02 juillet 2010

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un'invasione coordinata

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

di Hugo Rodríguez

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

Il presente articolo espone uno sguardo più comprensivo del coordinamento militare degli USA e del Regno Unito nella regione sudamericana. Negli ultimi due anni gli analisti locali hanno molto insistito sulla presenza americana senza mai menzionare una delle basi militari più grandi del mondo appartenente agli USA (Comando Sud) e, men che meno, senza riconoscere il ruolo e la complementarità che le stesse hanno da un punto di vista storico e fattuale nei riguardi della presenza militare del Regno Unito nella nostra terra e nelle nostre acque.

In questo primo lavoro che vi presentiamo, vogliamo solo evidenziare la localizzazione di tutte le basi (attuali e storiche); lasciando per successive illustrazioni la specifica analisi del Consiglio di Sicurezza dell’UNASUR, le analisi dei Ministeri della Difesa della regione, i loro principali successi e insuccessi.

Prendendo come spunto la ricerca effettuata dall’équipe giornalistica di TeleSur e con l’informazione ufficiale del Regno Unito e del Comando Sud degli Stati Uniti, ho sviluppato il seguente schema che evidenzia tutte le basi militari della NATO attualmente presenti in Sudamerica.


 

Base Militare

Localizzazione

Invasore

Organo Militare Superiore

Malvine

Argentina

GB

NATO

George

Argentina

GB

NATO

Sandwich

Argentina

GB

NATO

Tristán de Cuña

Oceano Atlantico

GB

NATO

Santa Helena

Oceano Atlantico

GB

NATO

Ascensión

Oceano Atlantico

GB

NATO

Estigarribia

Paraguay

USA

NATO

Iquitos e Nanay

Perù

USA

NATO

Tres Esquinas Colombia

USA

NATO

Larandia

Colombia

USA

NATO

Aplay

Colombia

USA

NATO

Arauca

Colombia

USA

NATO

Tolemaida

Colombia

USA

NATO

Palanquero

Colombia

USA

NATO

Malambo

Colombia

USA

NATO

Aruba

Antillas

USA

NATO

Curaçao

Antillas

USA

NATO

Roosevelt

Puerto Rico

USA

NATO

Liberia

Costa Rica

USA

NATO

Guantánamo

Cuba

USA

NATO

Comalapa

El Salvador

USA

NATO

Soto Cano

Honduras

USA

NATO

IV flotta

Oceano Atlantico y Pacifico

USA

NATO


 

La NATO è un trattato degli armamenti per la protezione e la cooperazione bellico-politico-economico tra gli stati membri. Fu costituito nel clima della Guerra Fredda e il suo omologo orientale è il trattato di Varsavia. La NATO è integrata dai paesi dell’Ovest europeo e dagli Stati Uniti e Canada. Questa organizzazione militare multilaterale negli ultimi anni si è dedicata a effettuare incursioni militari nei paesi che non sono membri della stessa. Ricordiamo che l’appoggio americano al Regno Unito, nel 1982, si articolò da qui.

È importante osservare con attenzione lo schema sulle basi della NATO, perché la sua parziale visione taglia di sbieco l’analisi, il fuoco dell’attenzione e anche, poiché costituisce la cosa più importante, taglia nella direzione non corretta le raccomandazioni sulle politiche di difesa regionale. Ad esempio, coloro che mettono a fuoco le nuove basi americane in Colombia, osservano a chiare lettere che, insieme alla politica mediatica dell’America del Nord, quelle basi hanno come obiettivo il Venezuela. Altri, cioè coloro che complementano questa analisi con la localizzazione della IV flotta, osservano, invece, che il centro è il Brasile. In ogni caso, tanto la dirigenza venezuelana quanto quella brasiliana si stanno dando da fare per incrementare e aggiornare il loro equipaggiamento, navi e spesa militare per essere all’altezza delle circostanze e delle basi che li circondano. Ma gli altri paesi della regione non dovrebbero cullarsi con questa analisi, in particolare, la nostra repubblica Argentina, pensando che solo quelli citati costituiscono il bersaglio di un eventuale attacco. Come osserva Lacolla (Dall’Afganistan alle Malvine), loro vengono per sfruttare le nostre risorse, principalmente il petrolio, successivamente punteranno la mira sull’acqua. Ma attualmente, la maggioranza delle analisi geopolitiche, comprese quelle del Consiglio di Difesa dell’UNASUR, hanno ignorato nei loro studi sulla regione le basi militari del Regno Unito.

Il tipo di configurazione che questo fatto impone non serve solo per prenderle in considerazione, ma anche per conoscere quale è il coordinamento storico e fattuale delle basi del Regno Unito insieme a quelle degli Stati Uniti. Per questa regione, un’analisi corretta non si deve soffermare alle sole basi stanziate in Colombia, bensì procedere e osservare con gli stessi occhi tutte le basi militari della NATO che, evidentemente, hanno un bersaglio, il quale non è così piccolo come lo possono essere due paesi e alcune isole con petrolio. L’obiettivo è il Sudamerica (e le sue risorse) ; tuttavia, la miopia di quei dirigenti o settori presuntamente rappresentativi della nostra società che ignorano e persino deridono gli avvertimenti che gli sono rivolti, potrà diventare molto dispendiosa nel breve termine.

Dal canto suo, il Comando Sud, meglio conosciuto come IV flotta, complementa le precedenti enclave imperialiste ed è una sorta di mega base militare mobile, è congiuntamente un complesso di portaerei e navi da guerra che circondano il Sudamerica. Nella cartina concernente le basi, si trova sovrapposta un’altra cartina con la dicitura « Souther Command. Area Focus », quella è la cartina ufficiale del Senato degli Stati Uniti, è il luogo dove navigano (in acque internazionali, ma non sempre), le imbarcazioni belliche del paese di Obama. La IV flotta ebbe la sua origine durante la Guerra Fredda per arrestare l’ideologia antimperialista che fiorisce come l’eritrina nelle nostre terre, in quanto naturale reazione di autodifesa da parte di qualsiasi società aggredita. Vale a dire che, stando al margine da ogni presentazione diplomatica, quelle navi compiono la funzione di reprimere ogni manifestazione antimperialista nella regione.

Ciò che deve rimanerci ben chiaro è che sono pochi i paesi dell’America latina che stanno adottando misure per salvaguardare non solo le proprie risorse ma anche per proteggere sé stessi. La nostra amata Argentina non appartiene a quella compagine.


 

Fonti :

Comando Sur : http://www.southcom.mil

TeleSur : http://www.telesurtv.net

Foreign and Commonwealth Office : http://www.fco.gov.uk/en


 

 

(trad. Vincenzo Paglione)

 

 

* Hugo Rodríguez è direttore del Grupo de Estudios Estratégicos Argentinos.

Fonte : http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/06/21/la-otan-en-suramerica/


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

samedi, 26 juin 2010

Les méfaits de la globalisation

GlobalGrenade.jpg

Archives de Synergies Européennes - 2003

Louis VINTEUIL :

Les méfaits de la globalisation

De nos jours l’Europe, sous le masque de cette pâle caricature qu’est l’Union Européenne, est soumise à un processus d’homogénéisation dont les vecteurs et principes capitalistes et militaires sont ceux du « manu-militarisme » et du « manu-monétarisme ». En ce sens, l’Union Européenne constitue un mécanisme régional  politico-économique, un maillon dans la chaîne du globalisme qui assoit sa primauté planétaire par le biais d’une cartellisation régionale du monde. Dans cette même direction, les régimes capitalistes ultralibéraux ainsi que les sociales démocraties qui sont en oeuvre dans la plupart des pays européens ne constituent que des mécanismes régulateurs des intérêts du grand capital financier regroupés dans le groupe G7. Les fondements de l’actuelle construction européenne reposent sur un système de valeurs hérité de la Renaissance : anthropocentrisme, conception technicienne et scientiste de la vie, économicisme exacerbé, obsidionalité et biosidionalité technologique qui considèrent la nature humaine comme un produit de consommation illimité. Derrière le bien être matériel universel et la prospérité globale, se cache une stratégie de développement qui n’est en fait qu’une stratégie de violence dont les pivots sont l’égocentrisme, l’anthropocentrisme et la conception de l’existence fondée sur une croissance continue indifférenciée et dont les armes sont l’exploitation illimitée des ressources naturelles et humaines à l’échelle planétaire. Cette stratégie de la croissance continue —et dont le père spirituel est Joseph Retinger—  n’est au fond qu’une stratégie de la tension qui aboutit à l’utilisation entropique des hommes et de la nature et devient la forme contemporaine de l’évolutionnisme global high-tech. La première ébauche de cette Europe capitaliste, entamée à Bilderberg dans les années 50 et qui fut teintée d’un certain type de Macartysme américain, sera parachevée par la doctrine de la trilatérale qui fera de l’Europe une corporation, une chasse gardée des oligarchies financières transnationales. L’Europe transformée en un immense supermarché , grande ferme soumise au jeu du marché spéculateur.

L’idéologie globale est par essence totalitaire, affectée d’un évolutionnisme pathogène car, par la voie du manu-militarisme et du manu-monétarisme, elle entend effacer et niveler toutes les diversités, les réalités naturelles et plurielles afin de soumettre les peuples aux sacerdoces des lois du monothéisme du marché. Ce manu-militarisme et ce manu-monétarisme ne sont  que les moyens pour créer une zone globale de libre échange, dominée par les cartels financiers anglo-saxons. La globalisation ne s’est jamais fixée pour but philanthropique de créer une utopie d’une communauté mondiale pacifique et fraternelle. Elle n’est qu’un processus avancé de libéralisation des marchés, de délocalisation et de dérégulation des économies ainsi qu’un instrument de conquête capitaliste dans la marche au plus grand profit. En voulant contrôler l’évolution de toute forme d’existence, le globalisme engendre une communication socio-culturelle destructive, dont l’uniformisation et le nivellement viennent détruire la communication naturelle génétique.

La manipulation mentale généralisée

Ce qui caractérise  la société globale, c’est indéniablement la manipulation mentale généralisée. En effet la société globale est un vaste laboratoire où l’on s’ingénie à créer par le contrôle des esprits une société psycho-civilisée qui, grâce à la génétique, expérimente le clonage d’êtres humains, décervelés et domestiquées. C’est en quelque sorte le remake du « procédé Bokanosky » imaginé par Aldous Huxley dans le « Meilleur des mondes ». Le but est, dans l’esprit d’un Francis Fukuyama , par l’intermédiaire des biotechnologies, d’abolir le temps et les concrétudes naturelles, pour mettre un terme à l’histoire et abolir les êtres humains en tant qu’êtres concrets, pour aller au-delà de l’humain. Par les procédés de manipulation mentale on aboutit dans cette société globale à une nouvelle forme d’esclavagisme moderne. En effet, dans le passage au XXIème siècle, les nouvelles technologies, informatiques et images, bouleversent toutes les données de la vie quotidienne tout comme le champ de toutes les investigations scientifiques. L’écran devient fatal et omniprésent, comme du reste le règne du spectacle et du simulacre. C’est de l’intérieur du monde envahissant des images que peut se voir la manipulation vidéographique, se déployer le règne des artifices et des simulations, se mettre en place une sacralisation nouvelle de l’image et de sa présence. La manipulation mentale dont je parle s’apparente à celle qu’exercerait une secte globale. En effet, il y a une parenté flagrante entre la secte, exigeant le consentement intime à un groupe donné et l’adhésion au marché universel , société à la fois globale et fragmentée en cellules consuméristes rendues narcissiques. La société-bulle des cultes sectaires n’est que le plagiat microsociologique de la secte globale planétaire sommant chacun de devenir un « gentil et docile membre de l’humanité » .

Comme dans les sectes, la société globale qui se propose d’abolir le temps et l’histoire, sécrète en elle une volonté de suicide collectif refoulée, l’autodestruction étant vécue de manière indolore tel un voyage spirituel vers une autre incarnation. Il s’agit bien d’une nouvelle forme de « Karma »moderne. La révolution technologique, le règne du cyberspace, la révolution numérique, le développement des réseaux électroniques d’information provoquent un syndrome de saturation cognitive. Assommés par un flux continus d’informations et d’images, les individus sont de moins en moins en mesure de penser et de décider, donc finalement de travailler ; étant de plus en plus accablés et abrutis.

La cyber-crétinisation

Nous sommes au coeur de la cyber-crétinisation. La manipulation mentale aboutit de même à la colonisation de l’inconscient et de l’imagination, en tant qu’espace intime onirique, symbolique et archétypale. Le capitalisme traditionnel, qui se contentait jadis de la publicité, s’attaque aujourd’hui aux domaines du rêve, de l’imagination, dans les visions du monde les plus intimes. Cette colonisation de l’imagination s’opère par la diffusion de supplétifs telle la science fiction, prêt-à-porter de l’imaginaire s’adressant aux « étages intérieurs » de l’inconscient, un imaginaire standardisé, pauvre, qui se réduit le plus souvent à des formes bâtardes de vulgarisation, nulles aussi bien sur le plan littéraire qu’intellectuel. Le loisir imaginaire contemporain qui vise à instaurer une société de joie permanente se réduit à une incitation collective à l’achat. La production symbolique, autrefois ajustée à l’évolution des siècles, est devenue frénétique. Le but est ici d’aboutir à une perte d’identité et des capacité réactives. Ainsi la société globale est une vaste techno-utopie à propos de laquelle Armand Mattelart écrit « qu’elle se révèle une arme idéologique de premier plan dans les trafics d’influence, en vue de naturaliser la vision libre-échangiste de l’ordre mondial, la théocratie libérale ».

Une nouvelle forme de “racisme global”

 L’Egoité, l’anthropocentrisme et le scientisme, qui font les fondements évolutionnistes du globalisme, sont les matrices d’une nouvelle forme de « racisme global ». En effet, de part sa politique ultralibérale et les discriminations culturelles et économiques qu’il implique, le globalisme tend à accroître le fossé entre le développement psychologique et social des hommes, lequel ne correspond plus à l’évolution de sa dynamique biologique. Les types classiques de cette nouvelle forme de racisme et d’eugénisme global résultent des nouvelles formes de manipulations génétiques et de clonage qui bouleversent le cours naturel et biologique des hommes alors qu’elles augmentent les disparités culturelles et économiques. Une nouvelle forme de darwinisme social postmoderne apparaît  sous les traits de l’ultralibéralisme global qui ne laisse aucune chance aux peuples et aux individus. Une nouvelle forme d’hominisation globale de l’être humain apparaît avec le globalisme par la création et la promotion d’un génotype générique, docile consommateur entièrement conditionné par l’idéologie dominante.

Cette nouvelle hominisation est à l’opposé de la bio-pluralité des peuples et de la terre qui tend de plus en plus à disparaître. Le globalisme véhicule une conception anthropocentrique de la science alors que la science devrait être biocentrique. D’autre part, le globalisme n’est que l’expression de l’américanisation unilatérale du monde entier, l’américanisme comme universalisme, l’américanisme comme mondialisme, l’américanisme comme néocolonialisme moderne. Au lendemain de la révolution d’octobre, Lénine écrivait « l’impérialisme stade suprême du capitalisme ». Au seuil du troisième millénaire, le capital international fait monter la donne : le globalisme américain devient le stade suprême de l’impérialisme moderne. Avec ce globalisme sensé apporter la prospérité à l’échelon planétaire, on a vu émerger des « villes globales », des « cités globales », lesquelles ont généré un processus de paupérisation croissante qu’on peut qualifier de « bidonvillisation » accélérée à l’échelle du globe.

La formule des “3D”

Autrement dit , la fondation du village planétaire creuse davantage l’incommensurable fossé entre riches et pauvres. Nouvelle division internationale du travail, nouveaux conflits sociaux, capital spéculatif à 90%, voilà le nouveau visage de l’exploitation capitaliste des grands groupes multinationaux. En réalité ce qu’on entend par “mondialisation”, c’est la généralisation du système capitaliste à tous les Etats de la planète. Le « laisser faire, laisser passer », cher à A. Smith, s’est mué en un nouveau slogan qui charrie le démantèlement des barrières douanières, la suppression de toutes sortes de contraintes au libre déplacement des capitaux tout en exigeant la « non ingérence » des Etats dans la régulation des économies. « Tout ce que l’Etat peut faire, c’est ne rien faire », claironnent les mondialistes. D’où la formule des  3 D  qui se trouve consacrée de plus en plus : désintermédiation, déréglementation et décloisonnement. La mondialisation a créé un vaste horizon économique qui reste à peu près vide sur le plan symbolique et qui s’offre dès lors à l’imagination utopique. Néanmoins on assiste paradoxalement au déclin de l’américanité comme utopie, espace de rêve et de remplacement. Plusieurs données supportent un constat d’échecs des grandes utopies américaines : la démocratie radicale, le melting pot, les mythes latino-américains indigénistes de l’hybridation ou du métissage biologique d’où devait résulter une race supérieure, sont tous autant d’utopies qui n’ont pas trouvé de traduction dans le domaine social et économique et auxquelles se sont substitués les modèles  de ghettoïsation raciale et ethnique. L’idéologie globaliste est en fait un processus de falsification négative et perfide du monde.

mardi, 22 juin 2010

L'US Army à la chasse au trésor afghan

L’US Army à la chasse au trésor afghan

Le Pentagone a découvert un nouveau « Klondike » en Afghanistan. Près de 1 000 milliards de dollars seraient enfouis dans le sous-sol du pays, ce qui en ferait un géant minier d’une taille comparable à celle de l’Australie.

 

Minéraux en Afghanistan (cliquez sur la carte pour l'agrandir)

 

 

 

Depuis longtemps, les géologues russes et américains avaient identifié d’importantes richesses minières en Afghanistan. Dans ses rapports annuels sur les pays, l’US Geological Survey (USGS) avait listé les minerais présents en abondance dans ce pays : cuivre, or, minerai de fer, marbre, nickel, soufre, talc… Toutefois, Chin S. Kuo, le responsable de l’étude, notait que l’absence d’infrastructures, de main-d’œuvre qualifiée, sans oublier les problèmes non résolus de sécurité, interdisaient pour le moment l’exploitation de ces richesses.

 

 

 

Selon l’étude de l’USGS, les réserves cuprifères (prouvées et possible) du pays atteindraient 60 millions de tonnes (Mt). Une fraction des 3 milliards de tonnes possible, probable et vérifiée estimées par l’USGS, dans le monde. Celles, prouvées de minerai de fer s’établiraient à 2,2 milliards de tonnes. Une quantité respectable, mais limitée en comparaison des 160 milliards de tonnes estimées par l’organisme américain ou des 20 milliards de tonnes détenues par l’Australie. Les réserves du pays avaient également été examinées dans une enquête du Mining Journal publiée en 2006.

 

Activité « artisanale », le secteur primaire afghan ne produit annuellement pas plus de 150 000 tonnes de charbon, 50 000 tonnes de ciment, 7 000 tonnes de chromite, 20 000 barils de pétrole brut et 50 millions de mètres cubes de gaz naturel. Seul gisement de grande taille, la mine de cuivre d’Aynak dans la province de Logar a été attribuée en 2007 à l’entreprise chinoise China Metallurgical Group, pour une durée de 30 ans. Pour obtenir ce contrat, MGC a dû verser plus de 3 milliards de dollars, un milliard de plus que n’étaient prêts à verser les grands mineurs internationaux.

 

Outre les métaux ferreux et les métaux de base, l’Afghanistan dispose également d’importantes réserves de métaux mineurs dit stratégiques : tantale, niobium, béryllium, ainsi que de lithium sous plusieurs formes.

 

Malgré leur richesse, ces gisements n’étaient jusqu’à présent pas identifiés à hauteur de 908 milliards de dollars, comme le décrit un mémo du Pentagone cité par le New York Times. « Il y a là un extraordinaire » potentiel, a surenchéri le général David Petraeus, commandant en chef des troupes des Etats-Unis en Afghanistan. Affirmant avoir utilisé des documents datant de l’occupation soviétique, l’Etat-major n’hésite pas à reprendre les superlatifs, recyclant l’expression « Arabie Saoudite du lithium », pour en affubler l’Afghanistan.

 

 

Interrogée par le Washington Post, Stephanie Sanok, qui travaille sur ce type de question pour l’Ambassade des Etats-Unis en Irak, a rappelé que si « tout le monde est au courant », de la richesse minière du pays, « il n’y a aucun moyen de l’atteindre ». Pour Craig Sainsbury, un analyste de Citigroup qui a récemment effectué une évaluation des plus grandes mines du monde, l’estimation du Pentagone, qui mettrait l’Afghanistan au niveau de l’Australie, est bien trop élevée. De plus, évaluer la valeur d’un gisement sans poser la question des coûts de production n’a pas de sens. Particulièrement énergivore, l’extraction minière serait extrêmement difficile dans un pays dont la production d’électricité est au niveau des Iles Féroé.

 

La richesse minière potentielle de l’Afghanistan pourrait aussi bien l’aider à stabiliser son économie, qu’accentuer la guerre civile en cours. « Nous pouvons aussi bien devenir un nouveau Congo, qu’un Botswana ou un Chili », a commenté un ancien ministre des Finances afghan, Ashraf Ghani.

 

En janvier dernier, le Wall Street Journal expliquait que « le ministère des Mines est considéré comme l’un des départements les plus corrompus du gouvernement ». Les concessions sont attribuées en fonction des pots-de-vin et non des intérêts du pays, souligne le quotidien de Wall Street, mettant en cause l’attribution d’Aymak. Reconnaissant la difficulté à réunir les capitaux nécessaires à l’exploitation du cuivre ou du minerai de fer, l’USGS et le Département de la Défense tentent d’identifier les projets qui ne nécessitent pas autant de capitaux.

 

L’usine nouvelle

 

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D’autres articles sur le sujet :

 

L’Afghanistan disposerait de gigantesques réserves de minerais, dont du lithium

 

Des géologues américains ont découvert en Afghanistan de gigantesques réserves de minerais, dont du cuivre et du lithium, évaluées à plusieurs milliards de dollars, a rapporté lundi le New York Times.

 

Ces gisements, qui comprendraient également du fer, de l’or, du niobium et du cobalt, seraient suffisants pour faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux de minerais, ont estimé des responsables de l’administration américaine cités par le journal.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient ainsi comparables à celles de la Bolivie, détenteur des premières réserves mondiales, selon le New York Times.

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

L’Afghanistan pourrait ainsi devenir « l’Arabie saoudite du lithium« , selon une note interne du Pentagone citée par le journal.

 

De même, les réserves de fer et de cuivre seraient susceptibles de faire de l’Afghanistan un des principaux producteurs mondiaux, selon les responsables cités par le journal

 

« Il y a là-bas un potentiel stupéfiant« , a déclaré au journal le général David Petraeus, chef d’Etat-major général, selon qui toutefois « il y a bien sûr beaucoup de ’si’ « . « Mais je pense que, potentiellement, c’est d’une immense portée« , a-t-il ajouté.

 

« Cela deviendra l’ossature de l’économie afghane« , a estimé pour sa part Jalil Jumriany, conseiller du ministère afghan des Mines, cité par le journal.

 

La découverte a été faite par une petite équipe de géologues et responsables du Pentagone, en s’appuyant sur les cartes et les données collectées par les experts miniers soviétiques durant l’occupation par l’URSS de ce pays durant les années 1980.

 

Les géologues afghans avaient caché chez eux pour les mettre à l’abri ces documents après le retrait de l’URSS, avant de les ressortir en 2001 après la chute des talibans.

 

« On avait les cartes, mais il n’y eu pas de suite, parce qu’on a eu 30 à 35 ans de guerre« , a déclaré Ahmad Hujabre, un ingénieur afghan qui travaillait au ministère des Mines dans les années 1970.

 

Selon le journal, le président Hamid Karzaï a été récemment informé de ces découvertes par un responsable américain.

 

Les Echos

 

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Du lithium pour les batteries en Afghanistan

 

Depuis 2001, les Américains cherchent désespérément Oussama Ben Laden dans les montagnes afghanes mais voilà que leurs efforts pourraient être récompensés. Si le riche Saoudien est toujours introuvable, en revanche, des géologues travaillant pour l’armée US viennent de découvrir que le sous-sol d’Afghanistan regorgeait de richesse en tous genres.

 

Outre le cuivre, le colbat, l’aluminium et l’or, ils auraient trouvé un important gisement de lithium, équivalent à celui de la Bolivie, actuellement premier fournisseur de ce métal.

 

Les esprits chagrins se demandent sans doute ce que viennent faire ces considérations minières au coeur d’un site consacré à l’actualité des télécoms. Les plus aguerris d’entre vous auront cependant fait le rapprochement : le lithium est un des principaux composants des batteries modernes, celles-là même qui alimentent les terminaux les plus performants du type iPhone.

 

On se souvient d’ailleurs qu’en 2008, d’inquiétants cas d’auto-combustion d’iPod nano s’étaient déclarés et qu’en août 2009 un iPod Touch avait explosé dans un jardin anglais. Dans chacun de ces cas, la batterie lithium-ion des appareils avait été incriminée. On imagine alors ce que les Talibans pourraient faire avec de telles quantités de lithium sous leurs pieds.

 

DegroupNews

 

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Les réserves minières, une vaste opération de com’

 

Le 14 juin, The New York Times annonçait en une que les Etats-Unis avaient découvert de vastes gisements miniers en Afghanistan. En fait, cette information, connue depuis longtemps, apparaît pour l’armée américaine comme un moyen de justifier sa présence sur le terrain.

 

S’il n’était pas signé James Risen – ce grand reporter du New York Times est actuellement en conflit avec l’administration Obama, qui exige qu’il divulgue l’identité de ses sources -, l’article paru le lundi 14 juin à la une du quotidien : « U.S. Identifies Vast Riches of Minerals in Afghanistan » [Les Etats-Unis découvrent de vastes richesses minières en Afghanistan] aurait suscité une bonne dose de scepticisme. D’autant qu’une simple recherche sur Google fait apparaître un certain nombre d’articles plus anciens contenant des informations identiques.

 

L’administration Bush avait conclu en 2007 que l’Afghanistan était potentiellement assis sur de vastes réserves de minerais et que cet élément devait être pris en compte dans la politique américaine de soutien au gouvernement de Kaboul. Les Soviétiques étaient déjà au courant en 1985, comme le montre une histoire économique de la région depuis 2002 sur le site de l’Institut de technologie de l’Illinois : « L’Afghanistan possède des réserves d’une grande variété de minerais, notamment du fer, du chrome, du cuivre, de l’argent, de l’or, du talc, du magnésium, du mica, du marbre et du lapis-lazuli. Dès 1985, des études soviétiques signalaient également la présence de réserves potentiellement intéressantes d’amiante, de nickel, de mercure, de plomb, de zinc, de bauxite, de lithium et de rubis. Au milieu des années 1980, le gouvernement afghan s’apprêtait à exploiter à grande échelle certaines de ces ressources avec le soutien technique des Soviétiques. La priorité était donnée aux vastes réserves de fer et de cuivre du pays.« 

 

Selon un ancien haut responsable du département d’Etat américain, des discussions sur la meilleure façon d’exploiter ces ressources à l’avenir étaient déjà en cours entre Washington et le gouvernement Karzaï dès 2006. Et, en 2009, le gouvernement afghan a commencé à lancer des appels d’offres pour divers projets d’exploitation minière.

 

La façon dont l’information a été présentée – avec des citations du général David Petraeus en personne, commandant des forces américaines en Afghanistan et en Irak, et de Paul Brinkley, promu pour l’occasion au poste de vice-ministre de la Défense – laisse penser à une vaste opération de communication visant à influencer l’opinion publique à propos de la guerre. En effet, comme le savent ceux qui ont lu les travaux du géographe américain Jared Diamond sur le déterminisme géographique, un pays possédant de vastes ressources en minerai tend vers la stabilité, pourvu qu’il soit doté d’un gouvernement central fort et stable.

 

Dans son article, Risen souligne que la découverte de ces réserves tombe à pic. Il parle notamment des réserves de lithium, un métal essentiel dans l’industrie électronique. Un haut fonctionnaire, lui, dit que l’Afghanistan pourrait devenir « l’Arabie Saoudite du lithium« , en référence à l’or noir qui a fait la richesse du royaume.

 

Le sentiment général qui prévaut aux Etats-Unis et ailleurs dans le monde à propos de la guerre est que la stratégie américaine de contre-insurrection n’a pas réussi à asseoir le gouvernement Karzaï dans les régions hostiles. Et que cette stratégie est vouée à l’échec. Pour les théoriciens et les stratèges du Pentagone, ce n’est pas ainsi que les choses devaient tourner.

 

Quel meilleur moyen de rappeler aux gens – par « gens », je veux dire les Chinois, les Russes, les Pakistanais et les Américains – que le pays est promis à un avenir radieux que de diffuser ou rediffuser des informations valables mais déjà connues sur la richesse potentielle de la région ?

 

L’administration Obama et les militaires américains savent parfaitement qu’un article en une du New York Times attirera instantanément l’attention du monde. L’information est exacte, mais elle n’est pas si nouvelle que cela. Il faut s’interroger sur le contexte dans lequel intervient une telle révélation.

 

La « découverte » américaine fait sourire les Russes et saliver les Afghans

 

« Les cartes soviétiques ont aidé le Pentagone à trouver beaucoup de choses utiles en Afghanistan« , souligne le quotidien gouvernemental russe Rossiskaïa Gazeta à propos de la découverte de gisements miniers par des géologues américains dont fait état l’article du New York Times.

 

Il ne restait « plus qu’à se rendre sur place et à vérifier les données » collectées par les géologues soviétiques et archivées à la bibliothèque de Kaboul, écrit la presse russe. « Mille milliards de dollars en perspective« , titre le journal, en référence au montant auquel sont évaluées les réserves en minerai, notant que, comme en Irak avec le pétrole, c’est l’appât du gain qui motive les Américains en Afghanistan.

 

« Le mythe de l’Eldorado sert souvent à justifier l’expansion impériale. Les grandes puissances se persuadent souvent qu’il faut qu’elles contrôlent tel ou tel territoire éloigné parce qu’il est censé regorger d’or, de diamants, de pétrole, etc., et qu’un contrôle physique s’avère essentiel pour préserver l’accès à ces richesses« , rappelle le professeur de relations internationales Stephen Walt sur le site Internet du bimestriel américain Foreign Policy, qui a amplement commenté la « découverte » américaine.

 

En Afghanistan, le webzine Afghan Paper se réjouit de cette découverte, mais redoute un pillage des ressources, notamment en lithium, par les pays étrangers. « L’Etat afghan n’a pas les moyens financiers ni la stabilité politique nécessaires pour gérer au mieux l’exploitation d’un tel gisement. Il est possible que des pays tels que l’Inde, la Chine ou la Russie essaient de s’implanter davantage dans notre pays pour tirer profit de nos ressources en lithium. Quelles sont les chances que notre peuple profite un jour des retombées économiques de cette découverte ? Si les dirigeants de notre pays ne bradent pas entièrement le sol aux pays étrangers en ne pensant qu’à leur profit personnel, alors ce gisement sera notre chance pour ne plus dépendre des aides extérieures et affirmer une véritable indépendance.« 

 

 

 

 

 

 

- Article original en anglais : The Atlantic

 

- Traduction française et encadré : Courrier International

 

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Afghanistan : le président Karzaï appelle le Japon à investir dans les minerais

 

Le président afghan Hamid Karzaï a appelé vendredi le Japon à investir dans les réserves colossales de minerais découvertes en Afghanistan, qui pourraient faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux.

 

Le gouvernement afghan a estimé jeudi à trois mille milliards de dollars la valeur de ces gisements, soit trois [fois] plus que les estimations des géologues américains révélées en début de semaine.

 

 

Selon un responsable du Pentagone, l’Afghanistan disposerait de réserves énormes de lithium, de fer, de cuivre, d’or, de niobium et de cobalt.

 

« Les perspectives de l’Afghanistan sont donc très bonnes« , a dit le président Karzaï. « L’Arabie saoudite est la capitale mondiale du pétrole et l’Afghanistan va devenir la capitale mondiale du lithium.« 

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient comparables à celles de la Bolivie, qui jouit des premières réserves mondiales, selon les experts américains.

 

« Le Japon est le bienvenu pour participer à l’exploration de lithium« , a souligné le président afghan.

 

« L’Afghanistan doit donner en priorité l’accès aux pays qui l’ont aidé massivement au cours des dernières années« , a-t-il ajouté à l’adresse du deuxième pourvoyeur d’aide à son pays après les Etats-Unis.

 

Le Japon a promis l’an dernier de verser d’ici 2013 jusqu’à cinq milliards de dollars pour la reconstruction de l’Afghanistan.

 

Le président afghan a remercié jeudi le nouveau Premier ministre japonais Naoto Kan pour le soutien solide du Japon. Mais Tokyo a insisté sur la nécessité d’une meilleure gouvernance de l’Afghanistan miné par la corruption.

 

AFP (via Le Point)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lundi, 21 juin 2010

I processi di integrazione nell'America Indiolatina

I processi di integrazione nell’America Indiolatina

di Sergio Barone

Fonte: eurasia [scheda fonte] 
 

I processi di integrazione nell’America Indiolatina

In America Latina dalla fine della Guerra Fredda sono in corso processi di integrazione regionale che vanno nel senso dell’autodeterminazione economica e politica, lontani dall’influenza del modello neoliberale e dal dollaro.

Il Mercosur stesso, che ha le sue fondamenta nella Dichiarazione di Foz Iguazù del 1985  (integrazione tra Brasile e Argentina), ha parzialmente cambiato nel corso del tempo la sua impostazione iniziale, dando maggiore importanza ai temi del lavoro, oltre che del commercio.

Il progetto di integrazione più originale e significativo dal punto di vista geopolitico è l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos (ALBA-TCP), che si contrappone ai progetti neoliberisti nordamaricani dell’ALCA nell’area, per uno sviluppo ed un’integrazione che parta da principi antagonisti rispetto a quelli liberisti: ovvero sovranità, autodeterminazione, cooperazione, solidarietà.

L’ALBA mostra così di essere, oltre che uno strumento di integrazione fra Paesi della stessa area, un altro modello di società e sviluppo possibile rispetto al capitalismo globalizzato dai cui binari non sembra possibile staccarsi.

MERCOSUR

L’embrione di quello che oggi conosciamo come MERCOSUR (Mercato Comune del Sud) fu il Trattato di Asunción, firmato il 26 luglio 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay.

Gli organismi decisionali del Mercosur sono:

Il Consiglio del Mercato Comune, organo supremo (Decisioni);

il Gruppo del Mercato Comune, che si occupa delle questioni socio-lavorative (Risoluzioni);

la Commissione del Commercio del Mercosur (Direttive).

Esiste anche un Parlamento che non ha poteri decisionali, ma emette un parere per ogni direttiva, decisione o risoluzione degli organi decisionali e ha il compito di presentare un documento annuale circa la situazione dei diritti umani nei Paesi membri, oltre ad avere il ruolo di interlocutore privilegiato per ogni organo dell’Organizzazione.

I propositi iniziali del Mercosur erano: raggiungere

la libera circolazione di merci, servizi e fattori produttivi entro i Paesi membri;

l’adozione di una tassa comune con l’esterno  e di una politica commerciale comune;

la coordinazione tra le politiche macroeconomiche degli Stati membri;

l’armonizzazione delle legislazioni interne per avanzare nell’integrazione regionale;

Attualmente il raggiungimento di questi obiettivi soffre le molte eccezioni che ogni Paese applica alla lista di prodotti a cui non vuole applicare l’imposta comune e per questi motivi sono in molti a ritenere il MERCOSUR una unione doganiera incompleta o parziale.

Quello che è da rilevare invece è che, nonostante il Trattato di Asunción non prevedesse nessuno spazio  per i temi del lavoro, fin da subito i sindacati rappresentati nella Coordinadora de Centrales Sindicales del Cono del Sur (CCSCS), assieme ai Ministeri del Lavoro dei vari Paesi hanno spinto per discutere e prendere le adeguate misure a riguardo dell’impatto che l’integrazione avrebbe avuto sulle condizioni socio-lavorative nei Paesi membri.

Così, a un anno dalla nascita del Mercosur, nacque il Sotto Gruppo sulle Questioni socio-lavorative, dipendente dal GMC (Gruppo del Mercato Comune) e organizzato come un vertice tripartito tra sindacati, imprenditori e Ministeri del Lavoro, che ha generato un fruttuoso dialogo interregionale a partire dal quale il Mercato Comune si è dotato di organismi e strumenti per affrontare le tematiche del lavoro.

Nel 1997 si firmò la prima norma di contenuto socio-lavorativo del Mercosur (Acuerdo Multilateral de Seguridad Social del Mercado Común del Sur, ratificato solo dopo anni) e l’anno seguente con la Dichiarazione Sociolavorativa del Mercosur si stabilirono le basi per l’emanazione di risoluzioni di diretta applicazione (senza necessità di ratifica) nei Paesi membri, sempre con lo schema delle riunioni tripartitiche, che riuniscono gli interessi del mondo del lavoro, dell’impresa e i Ministeri del lavoro.

Dopo le associazioni nel Mercosur da parte del Cile e della Bolivia nel 1996, del Perù nel 2004 e di Colombia ed Ecuador nel 2006, si aspetta la ratifica dell’adesione venezuelana da parte del Paraguay.

Il Venezuela firmò gli accordi pre-adesione assieme alla Colombia ed all’Ecuador, ma ancora il Congresso paraguayense non ha dato il suo nullaosta per l’opposizione ideologica al presidente venezuelano Chavez.

Tuttavia le cose si dovrebbero sbloccare presto visto che lo stesso Presidente del Paraguay, Lugo, ha esortato di recente il proprio Congresso affinchè acceleri il processo di ratifica, in quanto l’ingresso venezuelano e’ considerato importante per gli interessi di integrazione di tutti i Paesi della regione.

ALBA

L’ALBA, nata il 14 dicembre 2004 a l’Havana su iniziativa del Presidente venezuelano Hugo Chavez, è oggi composta da otto Paesi (dopo l’espulsione dell’Honduras a seguito del golpe del giugno 2009), Venezuela, Cuba, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, Rep.Dominicana, Granada, Antigua e Barbuda.

Se il Mercosur è la gamba economico-commerciale dell’integrazione dell’america indiolatina (non per niente i due Paesi cardine nella sua costruzione furono Brasile e Argentina, storicamente i più floridi della zona), l’ALBA è la sua gamba politica.

L’iniziativa per la nascita di questo nuovo organismo di integrazione regionale è portata avanti principalmente da Cuba e Venezuela e pretende di abbracciare tutte le nazioni che si trovano tra il Rio Bravo e la Patagonia, realizzando così l’ideale panamericano di Bolìvar.

L’obiettivo è quello di superare i nazionalismi egoistici di ogni Paese al fine di integrarsi secondo i principi di solidarietà e cooperazione, in modo da contrastare il modello neoliberale imposto dagli Stati Uniti tramite l’Accordo di Libero Commercio delle Americhe (ALCA).

La massima autorità è il Consiglio dei Presidenti dell’ALBA, allo stesso livello si trova il Consiglio dei Movimenti Sociali, che si propone di rappresentare appunto i movimenti sociali e i popoli dei Paesi membri, ma che è ancora in via di definizione.

Le principali forme di integrazione dell’ALBA sono i Trattati di Commercio dei Popoli, i cosiddetti progetti “Gran Nazionali” e le imprese Gran Nazionali, che si oppongono per struttura e obiettivi alle note imprese Trans-nazionali.

Queste forme di integrazione hanno come caratteristica primaria il rigetto di qualsiasi principio neoliberista, visto solo come uno strumento di colonizzazione del Nord America.

I Trattati di Commercio dei Popoli sono accordi di interscambio di beni e servizi per soddisfare le esigenze delle persone, al di là della logica del mero profitto.

Si sostentano sui principi di solidarietà, reciprocità, trasferimento tecnologico, utilizzo dei vantaggi che offre ogni Paese per il bene collettivo, risparmio di risorse e includono anche facilitazioni creditizie per facilitare i pagamenti.

Essi nascono per opporsi ai Trattati di Libero Commercio proposti dagli Stati Uniti, che portano verso la distruzione delle economie nazionali, incapaci di competere, senza l’adeguata protezione, con il grande capitale privato straniero.

I progetti Gran Nazionali danno concretezza ai principi solidaristici e antiliberisti espressi dall’ALBA, nonchè ai processi economici e sociali dell’integrazione americana.

Tali progetti sono a differenti stati di sviluppo e quelli che fino ad ora hanno avuto più successo sono il progetto della Banca dell’ALBA e quello di Alfabetizzazione e Post-alfabetizzazione (che ha fatto della zona dell’ALBA il primo spazio regionale libero da analfabetismo), ma esistono progetti Gran Nazionali in ogni settore, dalla scienza all’alimentazione, passando per salute e commercio.

Le imprese Gran Nacional nascono sempre da un progetto e possono essere composte dalla collaborazione fra due o più Stati aderenti all’ALBA.

Il concetto che le muove si oppone allo strapotere dei grandi gruppi privati (Corporations Transnazionali) e del mercato, a favore di una partecipazione dello Stato nell’economia affinchè si ottenga una produzione ed un’allocazione di risorse più razionale, che tenga conto innanzitutto dei reali bisogni della popolazione, a spese della logica del profitto, come fine ultimo dell’impresa.

Esistono imprese Gran Nazionali in molti settori: pesca (Transalba), trasporti, agricoltura e telecomunicazioni (Albatel), settore petrolifero (Albanisa, società mista venezuelo-nicaraguense) , costruzione di porti (Puertos de Alba, nata dalla collaborazione tra Cuba e Venezuela).

Il progetto forse più ambizioso dell’ALBA è la creazione di una moneta comune (SUCRE) da usare negli scambi commerciali fra Paesi dell’area  per sostituire il dollaro, che è già in piena fase di realizzazione.

Dapprima si è utilizzato esclusivamente come unità di misura comune (Sistema Unitario de Compensaciòn Regional, SUCRE), mentre il 27 gennaio è entrata in funzione come moneta commerciale a tutti gli effetti e il 4 febbraio vi è stata la prima transazione commerciale in SUCRE, con l’esportazione di diverse tonnellate di riso venezuelano verso Cuba.

Conclusioni

Oggi in America Latina ci sono degli attori che, dopo due secoli di subalternità alla dottrina Monroe, vogliono giocare il proprio ruolo nello scacchiere internazionale e nello scegliere il proprio modello economico.

Vi è una potenza regionale, il Brasile, che proprio di recente ha dimostrato come sia capace di giocare un ruolo indipendente nel mondo delle relazioni internazionali (si veda l’accordo con la Turchia e Iran sul nucleare) e che è la locomotiva economica trainante del Mercosur.

Proprio il Brasile si è espresso a più riprese per l’ingresso del Venezuela nel MERcado COmune del SUR, poichè, anche per le sue risorse energetiche, è un Paese fondamentale per l’integrazione sudamericana e ormai la ratifica da parte del Paraguay dovrebbe avvenire presto.

Il Venezuela è anche il motore dell’ALBA (organizzazione composta oggi da otto Paesi, ma con l’obiettivo di aumentarne il numero), organizzazione di ispirazione socialista e pan-americana che si propone di disegnare un altro modello di società, antagonista al modello neoliberale americano. Difatti la pressione statunitense nella regione è cresciuta parecchio negli ultimi anni, con la costruzione di sette nuove basi militari in Colombia, la riattivazione della IV Flotta (ottobre 2008) destinata a operare nel Sud Atlantico (inattiva da 52 anni) e attraverso il colpo di Stato contro il Presidente dell’Honduras Zelaya, che ha portato il Paese centroamericano fuori dall’organizzazione Bolivariana.

Il successo di queste iniziative di integrazione regionale dipenderà molto dai concreti risultati che si otterranno nel migliorare le condizioni materiali delle popolazioni sudamericane, poichè, specialmente nel caso dell’ALBA, un cambio nelle preferenze politiche da parte dei cittadini potrebbe interrompere o azzoppare tutto il processo, facendo ritornare preponderante l’influenza statunitense nel decidere le politiche economiche nell’area.

Nonostante i Paesi dell’area siano differenti fra loro (come composizione etnica, popolazione, estensione, sviluppo industriale) e dunque abbiano in parte interessi differenti, finora ha prevalso il rispetto per l’autonomia di ogni Paese e la consapevolezza che una maggiore integrazione può portare solo vantaggi ai Paesi dell’area, al di là delle loro priorità specifiche.

* Sergio Barone è dottore in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)


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samedi, 19 juin 2010

Israël s'inscruste en Irak

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Israël s’incruste en Irak
par Gilles Munier
(Afrique Asie – juin 2010)

Israël s’est vite rendu compte que les Etats-Unis perdraient la guerre d’Irak, et que les projets d’établissement de relations diplomatiques et de réouverture du pipeline Kirkouk- Haïfa promis par Ahmed Chalabi, étaient illusoires. Ariel Sharon a alors décidé, selon le journaliste d’investigation Seymour Hersh, de renforcer la présence israélienne au Kurdistan irakien afin que le Mossad puisse mettre en place des réseaux qui perdureraient dans le reste du pays et le Kurdistan des pays voisins, quelle que soit l’issue des combats.

Programme d’assassinats

   La participation israélienne à la coalition occidentale ayant envahi l’Irak est loin d’être négligeable, mais demeure quasiment secrète. Les Etats-Unis ne tiennent pas à ce que les médias en parlent, de peur de gêner leurs alliés arabes et de crédibiliser leurs opposants qui dénoncent le "complot américano-sioniste" au Proche-Orient.

   Des Israéliens ne sont pas seulement présents sous uniforme étasunien, sous couvert de double nationalité, ils interviennent dès 2003 comme spécialistes de la guérilla urbaine à Fort Bragg, en Caroline du Nord, centre des Forces spéciales. C’est là que fut mise sur pied la fameuse Task Force 121 qui, avec des peshmergas de l’UPK (Talabani), arrêta le Président Saddam Hussein. Son chef, le général Boykin se voyait en croisé combattant contre l’islam, « religion satanique ». C’était l’époque où Benyamin Netanyahou se réunissait à l’hôtel King David à Jérusalem avec des fanatiques chrétiens sionistes pour déclarer l’Irak : « Terre de mission »... En décembre 2003, un agent de renseignement américain, cité par The Guardian, craignait que la "coopération approfondie" avec Israël dérape, notamment avec le " programme d’assassinats en voie de conceptualisation ", autrement dit la formation de commandos de la mort. Il ne fallut d’ailleurs pas attendre longtemps pour que le premier scandale éclate. En mars 2004, le bruit courut que des Israéliens torturaient les prisonniers d’Abou Ghraib, y mettant en pratique leur expérience du retournement de résistants acquise en Palestine. Sur la BBC, le général Janis Karpinski, directrice de la prison révoquée, coupa court aux dénégations officielles en confirmant leur présence dans l’établissement pénitentiaire.

   La coopération israélo-américaine ne se développa pas seulement sur le terrain extra-judiciaire avec la liquidation de 310 scientifiques irakiens entre avril 2003 et octobre 2004, mais également en Israël où, tirant les leçons des batailles de Fallujah, le Corps des ingénieurs de l’armée étasunienne a construit, dans le Néguev, un centre d’entraînement pour les Marines en partance pour l’Irak et l’Afghanistan. Ce camp, appelé Baladia City, situé près de la base secrète de Tze’elim, est la réplique grandeur nature d’une ville proche-orientale, avec des soldats israéliens parlant arabe jouant les civils et les combattants ennemis. D’après Marines Corps Time, elle ressemble à Beit Jbeil, haut lieu de la résistance du Hezbollah à l’armée israélienne en 2006…

Les « hommes d’affaire » du Mossad

   En août 2003, l’Institut israélien pour l’exportation a organisé, à Tel-Aviv, une conférence pour conseiller aux hommes d’affaires d’intervenir comme sous-traitants de sociétés jordaniennes ou turques ayant l’aval du Conseil de gouvernement irakien. Très rapidement sont apparus en Irak des produits sous de faux labels d’origine. L’attaque par Ansar al-Islam, en mars 2004, de la société d’import-export Al-Rafidayn, couverture du Mossad à Kirkouk, a convaincu les « hommes d’affaires » israéliens qu’il valait mieux recruter de nouveaux agents sans sortir du Kurdistan, mais elle n’a pas empêché les échanges économiques israélo-irakiens de progresser. En juin 2004, le quotidien économique israélien Globes évaluait à 2 millions de dollars les exportations vers l’Irak cette année là. En 2008, le site Internet Roads to Iraq décomptait 210 entreprises israéliennes intervenant masquées sur le marché irakien. Leur nombre s’est accru en 2009 après la suppression, par le gouvernement de Nouri al-Maliki, du document de boycott d’Israël exigé des entreprises étrangères commerçant en Irak, véritable aubaine pour les agents recruteurs du Mossad.

 

Equilibri multipolari

Equilibri Multipolari

di Lorenzo Salimbeni

Fonte: cpeurasia

Resoconto della tavola rotonda

Fuoco Edizioni ha scelto coraggiosamente di specializzarsi in un genere di nicchia come quello dell’analisi geopolitica, concedendosi pure qualche sconfinamento in ambito storico. L’editore Luca Donadei ha quindi organizzato assieme ad Eurasia. Rivista di studi geopolitici il 10 giugno la serata Equilibri multipolari. Politiche e strategie per il nuovo secolo per presentare alcune delle sue ultime opere ed i loro autori presso la Biblioteca Comunale Enzo Tortora di Roma, grazie alla collaborazione del dott. Emanuele Merlino.

Donadei ha ben evidenziato come, finita la contrapposizione della Guerra Fredda e con l’inizio della crisi del consequenziale unipolarismo statunitense, oggi lo scenario internazionale si in continuo sussulto, con potenze emergenti come quelle del BRIC (acronimo che indica Brasile, Russia, India e Cina) che chiedono maggiore capacità decisionale, laddove la potenza statunitense accusa colpi a vuoto in ambito militare, economico e diplomatico. In questa situazione è preziosa la guida rappresentata da La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, opera prima di Daniele Scalea, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, con prefazione del Generale Fabio Mini. Apre quest’agile volumetto una disamina sulle principali scuole e dottrine geopolitiche, comun denominatore delle quali è la strategia per il controllo del cosiddetto Heartland, zona nevralgica del globo per la sua posizione e per le sue risorse energetiche che grosso modo corrisponde all’attuale Russia, per cui gran parte di guerre e contrasti erano dovuti proprio al possesso ovvero alla possibilità di influenzare quest’area. Venendo all’attualità, vengono approcciate le principali tematiche d’attualità, a partire dal risveglio dell’orso russo: smaltita la botta della dissoluzione dell’URSS (“l’evento geopolitico più importante della nostra epoca” l’ha definita Vladimir Putin), il Cremlino oggi attraverso alleanze, sistemi di mercato comune e consorzi energetici, sta riallacciando le fila con quei Paesi che ricadono nel suo “estero vicino” (sostanzialmente le ex repubbliche sovietiche), i quali però sono pure al centro dell’interesse statunitense, che, a suon di rivoluzioni colorate e di avveniristici progetti di scudo spaziale, va stringendo sempre più la morsa attorno alla rinascente Federazione russa. Nella massa eurasiatica si trovano anche altre due potenze emergenti a spron battuto, vale a dire la Cina e l’India, entrambe con problemi ancora irrisolti in termini di approvvigionamento energetico, di unificazione nazionale (Formosa e altre isole del Mar Cinese per Pechino, Pakistan e Bangladesh per Nuova Delhi) e di separatismi interni ai quali rispondono in maniera diametralmente opposta. Rispetto al federalismo indiano, ben più efficace sembra l’accentramento cinese, grazie al quale “il Drago” può affrontare le sfide poste dallo sfruttamento delle risorse africane e cimentarsi quasi alla pari con gli USA nella contesa per le rotte del petrolio che dal Medio Oriente deve irrorare il colosso cinese. Offre chiavi di lettura preziosissime per interpretare le notizie di maggiore attualità il capitolo dedicato alla contrapposizione fra Iran e Israele, con quest’ultimo Paese che è rimasto l’ultimo bastione sicuro della politica statunitense in Medio Oriente, anche se, come hanno ben documentato Wall e Mearsheimer, gran parte dell’agenda di politica estera di Washington è in effetti dettata da Tel Aviv. Sintomo più evidente della crisi statunitense è per giunta la perdita di controllo del “cortile di casa”, vale a dire quell’America “indiolatina” (così definita dalla redazione di Eurasia per evidenziare il ruolo fondamentale svolto dai vessilliferi degli abitanti originari nelle più recenti svolte politiche) che sull’onda dei successi elettorali dei movimenti neobolivariani ha posto (forse) finalmente fine all’epoca dei colpi di stato e delle ingerenze a stelle e strisce.

 

Ingerenze a stelle e strisce che sono invece ancora vive e vegete in Italia, come ha ben argomentato Fabrizio Di Ernesto, giornalista professionista e autore di Portaerei Italia. Sessant’anni di NATO nel nostro Paese, basti pensare a come il movimento No Dal Molin venga ostacolato in tutti i modi nella sua battaglia civile finalizzata a scongiurare l’allargamento della base americana sita a Vicenza, ovvero alla strage del Cermis rimasta di fatto impunita in base ad un codicillo sottoscritto dal governo di Roma e che garantisce la non processabilità all’estero per quei soldati statunitensi che commettano reati in Italia. In giorni in cui in Giappone il governo Atoyama dà le dimissioni perché non è stato capace di far chiudere la base di Okinawa, in Italia non possiamo neppure dire quante siano con precisione le installazioni a disposizione in un modo o nell’altro degli Stati Uniti (in ogni caso, un centinaio almeno). Risulta, infatti, che Gaeta e La Maddalena non facciano più parte del novero, eppure vi sono ancora soldati americani di presidio… Tant’è, queste basi, la cui collocazione geografica è oltremodo significativa (a nord-est in prospettiva balcanici, in Sardegna per surrogare l’ondivago appoggio francese, in Sicilia per proiettarsi verso l’Africa ed in Puglia per agire verso il Vicino e Medio Oriente), sono una garanzia per gli USA di poter proseguire l’asservimento della colonia italiana conseguente agli esiti della Seconda Guerra Mondiale: quei politici come Mattei, Moro e Craxi, i quali hanno cercato di riconquistare fette di sovranità, sappiamo tutti come sono “casualmente” finiti.

In questo scenario un Paese cardine per l’accesso ai Balcani è la Romania, facente parte di quella “Nuova Europa” che, sfuggita al controllo moscovita, ora si presta a garantire appoggio diplomatico e non solo all’avventurismo della politica estera atlantista. Antonio Grego, collaboratore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, nel suo Figlie della stessa lupa ha ripercorso la politica diplomatica intercorsa fra Roma e Bucarest fra le due guerre mondiali. A prescindere dalla ricostruzione storica che spiega i tentennamenti rumeni fra l’allineamento alle potenze democratiche occidentali, cui miravano i governi liberalnazionali e conservatori dell’epoca, ed il richiamo delle comuni radici culturali e linguistiche che esercitava l’Italia fascista, si tratta di un testo importante per approfondire la conoscenza di questo Paese. Oggi si parla dei romeni soprattutto con riferimento ad incresciosi fatti di cronaca, però deve essere ben chiaro che etimologicamente “Romania” non ha niente a che fare con il ceppo “rom” degli zingari, altresì è la testimonianza più lampante di come l’antica Dacia si senta legata a quella Roma imperiale che la conquistò e vi lasciò la sua impronta.

Ha tirato le somme della tavola rotonda il prof. Antonio Caracciolo, docente all’Università la Sapienza di Roma, il quale, da buon filosofo del diritto e fresco di un corso monografico su Carl Schmitt, un giusfilosofo col pallino per la geopolitica appunto, ha evidenziato come gli USA oggi abbiano ben presente la lezione hobbesiana che nel bellum omnium contra omnes che intercorre fra Stati sovrani una delle prime armi è quella di creare disordine in casa del nemico e inoltre non rispettino il diritto internazionale, salvo poi in certe circostanze pretendere che certi Paesi lo facciano, per cui viene a cadere l’universalità della norma. Se questi sono gli effetti dell’unipolarismo in prospettiva dell’utopistico Stato unico che dovrebbe affratellarci tutti, ben venga un mondo multipolare in cui le varie potenze regionali avranno modo di mettere in atto un sistema di scambi e compensazioni che sicuramente peggiore di quanto oggi abbiamo non potrà essere.


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US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

 

Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

(Eurasia. Journal of Geopolitical Studies - Italy)

www.eurasia-rivista.org  - direzione@eurasia-rivista.org

 

 

51faLsPf7yL__SS500_.jpgA geopolitical approach aimed at understanding the relationship between the worldwide US strategy and the presence of North American forces in Afghanistan is given. The US penetration in the Eurasian landmass is stressed particularly with regard to the Central Asian area, considered as the underbelly of Eurasia in the context of the US geopolitics. In order to determine the real players in the Afghan theatre, a critics is moved to some general concepts used in geopolitical and international relations studies. The main characteristics  of potential candidates able to overcome the Afghan drug question are discussed. Among these a particular role  is due to Iran, Russia ad China. Anyway, due to the interrelations between the US strategy in Eurasia and the stabilization of Afghanistan, this latter can be fully accomplished only in view of the Eurasian integration process.

 

Key words: Afghanistan, geopolitical, Eurasian, Eurasia, drug

 

 

presentation

 

In order to address properly, without any ideological prejudice, but with intellectual honesty, the question about the drug production in Afghanistan and the related international problems, it is necessary and useful to define (even if schematically) the geopolitical framework and to further clarify some concepts, usually assumed as well known and commonly shared.

 

the geopolitical framework

 

Considering the main global actors nowadays, namely US, Russia, China and India, their geographic position in the two distinct areas of America and Eurasia, and, above all, their relations in terms of power and world geo-strategy, Afghanistan constitutes, together with Caucasus and the Central Asian Republics, a large area (fig. 1), whose destabilization offers an advantage to US, i.e. to the geopolitical player exterior to the Eurasian context. In particular, the destabilization of this large zone assures the US at least three geopolitical and geo-strategic opportunities: a) its progressive penetration in the Eurasian landmass; b) the containment of Russia; c) the creation of a vulnus in Eurasian landmass.

 

 

US penetration in Eurasia – US encirclement of Eurasia

As stated by Henry Kissinger, the bi-oceanic nation of US is an island outside of Eurasian Continent. From the geopolitical point of view, this particular position has determined the main vectors of the expansion of US over the Planet. The first was the control of the entire Western hemisphere (North and South America), the second one has been the race for the hegemony on the Euroafroasian landmass, that is to say the Eastern hemisphere.

Regarding the penetrating process of US in the Eurasian landmass, starting from the European peninsula, it is worthy to remind that it began , in the course of the I WW with the interference of Washington in the internal quarrels among the European Nations and Empires. The penetration continued during the II WW. In April 1945, the supposed “Liberators” occupied the Western side of Europe up to East Berlin. Starting from this date, Washington and the Pentagon have considered Europe, i.e. the Western side of Eurasia, just as a US bridgehead dropped on the Eurasian landmass. US imposed a similar role  to the other occupied nation, Japan, representing the Eastern insular arc of Eurasia. From an Eurasian point of view, the north American “pincer” was the true result of the II WW.

With the creation of some particular military “devices” like NATO (North Atlantic Treaty Organization) (1949), the security treaty among Australia, New Zealand, United States (ANZUS, 1951), the Baghdad Pact, that afterwards evolved in CENTO Pact (Central Treaty Organisation, 1959), the Manila Pact – SEATO (South East Asia Treaty Organization, 1954), the military encirclement of the whole Eurasian landmass was accomplished in less than one decade.

The third step of the US long march towards the heart of Eurasia, starting from its Western side, was carried out in 1956, during the Suez crisis, with the progressive removal of France and, under some aspects, also of Great Britain as geopolitical actors in Mediterranean sea. On the basis of the “special relationship” between Tel-Aviv and Washington, US became an important player of the Near Eastern area in a time lapse  shorter than 10 years. Following the new role assumed in the Near and Middle East, US was able either to consolidate its hegemonic leadership within the Western system or to consider the Mediterranean sea as the initial portion of the long path that, eventually, could permit to the US troops to reach the Central Asian region. The infiltration of US in the large Eurasian area proceeded also in other geopolitical sectors, particularly in the South-Eastern one (Korea, 1950-1953; Vietnam, 1960-1975).

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Coherently with the strategy aimed at dominating the eastern hemisphere, Washington worked also on the diplomatic side, focusing its attention towards Beijing. With the creation of the axis Washington – Beijing, conceived by the tandem Kissinger - Nixon (1971-1972), US contributed to increase the fracture inside the so-called socialist field, constituted by China and URSS and, thus, to block any potential “welding” between the two “lungs” of Eurasia, China and Russia.

During the seventies, two main geopolitical axis faced each other within the Eurasian landmass: the Washington-Islamabad-Beijing axis and the Moscow-New Delhi one.

1979, the destabilization’s year and its legacy in the today’s Afghanistan

Among the many events in international relations occurred in 1979, two are of pivotal importance for their contribution to the upsetting of the geopolitical asset, based at the time on the equilibrium between the United States and the URSS.

We are speaking of the Islamic revolution in Iran and of the Russian military involvement in Afghanistan.

Following the takeover of Iran by the Ayatollah Khomeyni, one of the essential pillars of the western geopolitical architecture, with the US as a leader, was destroyed.

The Pahlavi monarchy could easily be used as a pawn in the fight between the US and the URSS, and when it disappeared both Washington and the Pentagon were forced to conceive a new role for the US in the world politics. A new Iran, now autonomous and out of control, introduced a variation in the regional geopolitical chessboard, possibly able to induce a profound crisis within the “steady” bipolar system. Moreover, the new Iran, established as a regional power against the US and Israel, possessed such characteristics (especially the geographic extent and centrality, and the political-religious homogeneity) as to compete for the hegemony on at least part of the Middle-East, in open contrast to similar interests of Ankara and Tel-Aviv, faithful allies of Washington, Islamabad, Baghdad and Riyadh. For such reasons, the Washington strategists, in agreement with their bicentennial “geopolitics of chaos”, persuaded the Iraq under Saddam Hussein to start a war against Iran. The destabilization of the whole area allowed Washington and the Western Countries enough time to plan a long-lasting strategy and in the meantime to wear down the soviet bear.

In an interview released to the French  weekly newspaper Le Nouvel Observateur (January 15-21, 1998, p. 76), Zbigniew Brzezinski, President Jimmy Carter's national security adviser, revealed that CIA secretly operated in Afghanistan to undermine the power of the regime in Kabul since July, 1979,  that is to say, five months before the Soviet invasion. Indeed, it was July 3, 1979, that President Carter signed the first directive for secret aid to the opponents of the pro-Soviet regime in Kabul. And that very day the US strategist of Polish origin wrote a note to President Carter in which he explained that this aid was going to induce a Soviet military intervention. And this was precisely what happened on the following December. In the same interview, Brzezinski remembers that, when the Soviets invaded Afghanistan, he wrote another note to President Carter in which he expressed his opinion that at that point the USA had the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War.

In Brezinski’s opinion, this intervention was unsustainable for Moscow and in time would have led to the Soviet Empire collapse. In fact, the long war of the Soviets in support of the communist regime in Kabul further contributed to weaken the Soviet Union, already engaged in a severe internal crisis, concerning both political- bureaucratic and socio-economic aspects. As we now well know, the Soviet withdrawal from the afghan theatre left behind an exhausted country, whose politics, economy and geo-strategic asset were extremely weak. As a matter of fact, after less than 10 years from the Teheran revolution, the entire region had been completely destabilized only to the advantage of the western system. The parallel and unrestrained decline of the Soviet Union, accelerated by the afghan adventure, and, afterwards in the nineties, the dismemberment of the Yugoslavian Federation (a sort of buffer state between the western and soviet blocks) changed the balance of power to favour the US expansionism in the Eurasia region.

After the bipolar system, a new geopolitical era began, that of the “unipolar moment”, in which the USA were the “hyperpuissance” (according to the definition of the French minister Hubert Védrin).

However, the new unipolar system was going to have a short life and indeed it ended at the beginning of the XXI century, when Russia re-emerged as a strategic challenger in global affairs and, at the same time, China and India, the two Asian giants, emerged as economic and strategic powers. On the global level, we have to consider also the growing wheight of some countries of Indiolatin America, such as Brazil, Venezuela. The very important relations among these countries with China, Russia and Iran seem to assume a strategic value and prefigure a new multipolar system, whose two main pillars coul be constituted by Eurasia an Indiolatin America.

Afghanistan, due to its geographical characteristics,  to its location  as respect to the Soviet State (its neighbouring nations Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan were, at that time, Soviet Republics), and to the wide  variety of ethnic groups forming its population, different either in culture or in religion, represented for Washington an important portion of the so-called “arc of crisis”, namely that geographical region linking the southern boundaries of the USSR and the Arabian Sea. The Afghanistan trap for the URSS was therefore chosen for evident geopolitical and geo-strategic reasons.

From the geopolitical point of view, Afghanistan is clearly representative of a crisis zone, being from time immemorial the scene for the conflicts among the Great Powers.

The area is now “ruled” by the governmental entity established by US forces and named Islamic Republic of Afghanistan, but traditionally the Pashtun tribes have dominated over the other ethnic groups (Tajiks, Hazaras, Uzbeks, Turkmens, Balochs). Its history was spent as part of larger events concerning the interaction and the prolonged fighting among the three neighbouring great geopolitical entities: the Moghul Empire, the Uzbek Khanate and the Persian Empire. In the XVIII and XIX centuries, when the Country was under the rule of the Kingdom of Afghanistan, the area became strategic in the rivalry and conflict between the British Empire and the Russian Empire for supremacy in Central Asia, termed "The Great Game". The Russian land empire, in its efforts to secure access to the Indian Ocean, to India and to China, collided with the interests of the British maritime empire, that, for its part, sought to extend in the Eurasian landmass, using India as staging post, towards the East, to Burma, China, Tibet and the basin of the Yangtze river, and towards the West, to the present-day Pakistan, to Afghanistan and Iran, as far as the Caucasus, the Black Sea, to Mesopotamia and the Persian Gulf.

Towards the end of the XX century, in the framework of the bipolar system, Afghanistan became the battlefield where, once again, a maritime Power, the USA, confronted a land Power, the URSS.

The actors that confronted each other in this battlefield were basically: URSS troops, Afghan tribes and the so-called mujahideen, these latter supported by US, Pakistan and Saudi Arabia.

After the leaving of the Soviet troops from the afghan chessboard, the taliban movement assumed a growing important role in the region, on the basis of at least three main factors: a) ambiguous relations with some components of Pakistan secret services; b) ambiguous relations with US (a sort of “legacy” relied on the previous contacts between US and some components of the “mujahideen” movement, occurred during the Soviet - afghan war); c) the wahhabism as an ideological-religious platform directly useful to the interests of Saudi Arabia in its projection towards some zones as Bosnia, the Middle East area and the Caucasus (namely Chechnya and Dagestan).

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The three elements mentioned above allowed the taliban movement, for one hand, to insert and root itself in the afghan zone, gaining a growing weight on the military (with the creation and consolidation of the so-called sanctuaries) and economic (namely control of the drug traffic) levels, for other hand, impeded it to become an autonomous organization. Actually, because of the infiltration of US, Pakistan and Saudi Arabia, the taliban movement has to be considered a local organization directed by external players. These kind of considerations allows us to better understand and explain the choice of Obama and Karzai to open a dialogue with the Talibans, even to include some of them in local governments. Moreover, the apparent contradiction of the US (and Karzai) behaviours in Afghanistan, that could be explained according the theory and praxis for which the involvement of the enemy in institutional responsibilities aims to weaken it, follows the classic rule of the US geopolitical praxis, that is to maintain in a state of crisis a region considered strategic.

As we well know now, the drug production in Afghanistan has gone up more or less 40 times since the country’s occupation by NATO.

If we consider the solutions adopted so far by US forces and aimed at containing and overcoming the drug trafficking question in the more general context of the US geopolitical praxis, we can observe that US forces and  NATO seem “wasting” their time: drug production and diffusion in the southern part of the country are still going on. As we well know, the large-scale drug production is impossible in this area, because of the non-stop fighting. On the contrary, US and NATO forces focus their strategic interest in the northern side of the country. Here, they have built roads and bridges linking Afghanistan to Tajikistan), the road to Russia via Uzbekistan, Kyrgyzstan and Azerbaijan (see A. Barentsev, Afghan Heroine flow channelled to Russia, FONDSK). This modus operandi reveals openly the real intentions of Pentagon and Washington: opening a road towards Russia, starting from Afghanistan and the Central Asian republics. Actually NATO and other western forces do not conduct an effective fight against drug production and trafficking.

In such context, the supposed US/NATO fight against drug production and trafficking in Afghanistan seem to belong to the field of the western rhetoric more than to be a concrete fact (Fig. 2).

Similarly, the fight against taliban movement seem clearly subordinated to (and thus depending on) the general US strategy in the Eurasian landmass. Nowadays, this strategy consists in the setting up of military garrisons of US and its Western allies in the long strip that, starting from Morocco, crosses the Mediterranean sea and arrives as far as the Central Asian republics. The main aims of this garrisons are: a) the separation of Europe from North Africa; b) the control of north Africa and Near East (particularly the zone constituted by Turkey, Syria and Iran – using the Camp Bondsteel base, located in Kosovo ); b) the containment of Russia, and, under some aspects, of China too; c) an attempt of cutting the Eurasian landmass in two parts; d) the enlargement of the “arc of crisis” in the Central Asian area [Brzezinski defines this area the “Balkans of Eurasia” (the definition of the former advisor of president Carter sounds more as programmatic than as an objective description of the area)].

Creating a geopolitical chasm in Central Asia, i.d. a vulnus in Eurasia landmass, could lead to hostility and enmity among the main players in Asia, Russia, India and China (fig. 3). The only beneficiary of this game would be the US.

Other than the attempt “to knife” Eurasia along the illustrated path (from Mediterranean sea up to the Central Asia), we observe that US disposes (since 2008) of AFRICOM and, of course, of the related cooperative security locations in Africa: a useful “ military “device” which projection is also directed to Middle East and part of Central Asia (fig. 4).

 

 

In order to understand the importance of  the Central Asian zone for the US strategy aimed at its hegemony on the Eurasian landmass, it is enough to give a glance at the following picture (fig. 5) illustrating the US Commanders’ areas of responsibilities. The picture is representative of what we can name – paraphrasing the expression “the white man’s burden” formulated by the bard of the British imperialism, Rudyard Kipling, 1899 – the US’ burden.

 

general remarks on “accepted and shared” concepts

 

With the goal to reach a larger understanding of the complex dynamics acting presently at global level, it is useful criticizing some general concepts we consider accepted and shared. As we know, in the frame of the geopolitical analyses, the correct use of terms and concepts is at least as important as, those ones related to the description of the reality through maps and diagrams. For instance, the so-called “globalization” is only an euphemistic expression for economic expansionism of the US and the its capitalistic western allies (see Jacques Sapir, Le nouveau XXI siécle, Paris, 2008, p. 63-64). Even the rhetoric call to fight for the supposed “human rights”, or similar democratic values, spread by some think thanks, governments or simple civil activists, emphasizes the colonialist aspect of the US on the mass media and culture, without any consideration to other ways of life, like those expressed by no-western civilisations, i.e. more than three quarts of the world population. Among these concepts, we have to consider the most important one from the geopolitical (and international relations) point of view, that is the supposed International Community. The expression “International Community” does not mean anything in geopolitical terms. Actually, the International Community is not a real entity; its related concept sounds, simultaneously, like an aspiration of some utopian activists and a specific falsification of the history.

As in the worldwide real life we know State, Nations, People, International organisations [generally on the basis of (hegemonic) “alliances”] and, of course the relations among these entities, speaking of International Community means to mis-describe the real powers nowadays acting at global and local scales.

Considering now the focus of the present meeting, aimed at finding “shared solutions” for the afghan drug question in the context of the “International Community” (I.C.), honestly we have to underline, as analysts, that instead of I.C. it is more practical speaking of real players involved (and that could be involved) in the Afghan zone.

 

 the real players in the afghan theatre

 

For analytical reasons is useful to aggregate the players concerning the Afghan theatre in the following three categories: external players; local players; players who potentially could be involved in the afghan context. Afterwards we can easily define some conditions in order to delineate the characters of those partners who could be able to stabilize - effectively - the entire geopolitical area.

External players: US and NATO-ISAF (except Turkey) forces are to be considered external players because of their full strangeness to the specific geopolitical area, even if conceived in a broad sense;

Local players: among the local players we can enumerate the bordering countries (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, China, Pakistan), the tribes, the insurgent forces, the  Talibans and the “governmental” entity led by Karzai.

Regarding the players belonging to the third category as defined above, we can include the Collective Security Treaty Organisation  (CSTO), the Shanghai Cooperation Organisation (SCO), i.e. the main Eurasian organisations with a large experience in managing questions related to the border control and drug trafficking of Central Asian area, and the Eurasian Economic Community (EURASEC). Moreover we have to mention also ONU, in particularly the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODOC).

The potential partners able to overcome the drug question in Afghanistan have to present at least the following characteristics: a) the knowledge of the local dynamics related to the ethnic, cultural, religious an economic aspects; b) the acknowledgement by the local population as part of the same cultural context (obviously in a large meaning); c) the will to coordinate collectively the actions without any prejudice or mental reserve within a Eurasian program.

The partners presenting the features synthetically described above are those included in the second and third categories. As matter of fact US and NATO – ISAF forces are perceived from the local population as what they really are: occupying forces. Moreover, considering the NATO role as hegemonic alliance led by Washington and acting within the framework of the US global strategy, its presence in Afghanistan should be considered a serious obstacle to the stabilization of the entire area. The Talibans and even the governmental entity, do not appear, due to the ambiguous relations that they seem to have with the occupying US forces, to be candidate partners in a collaborative effort to triumph over the drug question in Afghanistan.

The real players able to stabilize the area are - without any doubt - the Afghanistan bordering countries and the Eurasian organizations. Among the bordering countries, a special role could be carried on by Iran. Teheran is the only country that has demonstrated to assure the security of Afghan-Iranian border, specially for drug trafficking. Also Moscow and Beijing  assume an important function in the stabilization of the area and in the fight to drug trafficking, because Russia and China, it is worth to remind it, are the main powers of the Eurasian organizations above mentioned. A strategic axis between the two “lungs” of Eurasia, balanced by the Central Asian republics and India, could constitute the lasting solution for the stabilization of the area and hence the drug question. Only in the frame of a shared Eurasian plan aimed at stabilizing the area – conceived and carried on by Eurasian players –, it is possible to dialogue with local tribes and with those insurgent movements which are clearly not directed by external players.

 

 

conclusions

 

The stabilization of the afghan area is an essential requirement for any plan aimed to face the drug production and trafficking.

However, because of the pivotal role of Afghanistan in the Middle East and in the Central Asian regions,  the strategy to stabilize the area has to be conceived in the context of the integration of the Eurasian landmass.  Candidates particularly interested to halt the drug production and traffic are the Afghanistan bordering Countries.

US and NATO forces, because of their clear geopolitical praxis aimed at hegemonizing the Eurasian landmass, are not plausible candidate.