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dimanche, 03 octobre 2010

Gli intellettuali tedeschi e la crisi di Weimar

Gli intellettuali tedeschi e la crisi di Weimar

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

In tempo di crisi – economica, politica, sociale e culturale -, gli intellettuali possono costituire un faro nella nebbia per i cittadini “comuni”? E, se lo possono, lo devono anche?

Qual è il loro ruolo, esattamente, nel contesto della società? È giusto aspettarsi da loro che siano la nostra coscienza critica? O forse non commettiamo l’errore, quando essi – specialmente in tempi di crisi – ci additano la Luna, di guardare il dito anziché la Luna, ossia di prendere troppo alla lettere ciò che essi dicono, invece di cogliere lo spirito che li muove e l’orizzonte cui aspirano e che cercano di dischiudere, per sé e per noi?

È facile fraintenderli, quando li si prende alla lettera: come nel caso dei surrealisti. Tutto essi volevano, tranne che fondare una scuola; il loro credo fondamentale era la rivolta contro ogni sistema, quindi anche contro il surrealismo. E invece che cosa fa il pubblico, davanti agli intellettuali che contestano un sistema ormai agonizzante? Li innalza sugli altari di un nuovo sistema; li promuove a profeti di una nuova religione – che essi lo vogliano o no. E, anche se lo vorrebbero – come nel caso di Spengler, di cui tra poco parleremo – non è detto che noi rendiamo loro un buon servizio, accontentandoli; certamente non lo rendiamo a noi stessi.

Tutte queste domande e queste considerazioni ci sono venute alla mente rileggendo un famoso brano del libro di H. Kohn (I Tedeschi, traduzione italiana Edizioni di Comunità, Milano, 1963), dedicato agli intellettuali tedeschi di fronte al nazismo.

Non è un brano molto breve, tuttavia ci sembra indispensabile riportarlo integralmente, per non correre il rischio di falsare, semplificandolo, il pensiero dell’Autore; dopo di che svilupperemo le nostre riflessioni, portandole dal piano storico contingente (la crisi della Repubblica di Weimar e l’avvicinarsi del nazismo al potere) a quello della riflessione storico-filosofica generale, per cercar di trarne qualche utile insegnamento per il presente.

«In poco più di un decennio gli intellettuali furono in grado di condurre il popolo tedesco nell’abisso. Non ci sarebbero riusciti se non fossero stati preceduti da generazioni di preparazione, in cui germanofilismo e antioccidentalismo erano divenuti sempre più caratteristici del pensiero nazionale. Nell’ultimo stadio il nazionalismo tedesco respinse non solo la civiltà occidentale, ma anche la validità della vita civile. «Il nuovo nazionalismo – ammonì Ernest Robert Curtius nel 1931 – vuole buttar via non solo il diciannovesimo secolo, attualmente tanto calunniato, bensì addirittura tutte le tradizioni storiche». I pensatori nazionalisti francesi – Charles Maurras,o Maurice Barrès – non si spinsero mai fino al punto di rivoltarsi contro la civiltà. In Germania gli antintellettuali non erano plebaglia, ma intellettuali di primo piano, uomini spesso di gusti raffinati e di grande erudizione.

Mettendosi a considerare ogni cosa dall’angolo visuale tedesco, essi si convinsero che la civiltà occidentale fosse dappertutto profondamente minata come in Germania. Partendo da osservazioni parziali arrivarono alle conclusioni più estreme. Identificarono la situazione tedesca, com’era peraltro da essi interpretata, con quella dell’umanità, addirittura con quella dell’universo. Gottfried Benn non dubitava che il periodo quaternario dell’evoluzione geologica stessa approssimandosi alla fine, che l’homo sapiens stesse diventando sorpassato. Nessuna espressione era tanto forte da riuscire a manifestare tutto l’odio nutrito per la civiltà occidentale, il liberalismo, l’umanitarismo. La filosofia di Martin Heidegger, la dottrina politica di Carl Schmitt, la teologia di Karl Barth contribuirono per parte loro a convincere gli intellettuali che l’umanità aveva raggiunto una svolta decisiva, una crisi senza precedenti causata dal liberalismo. Questi intellettuali guardavano dall’alto in basso l’Occidente con lo stesso disprezzo più tardi manifestato dai capi nazisti. Allo stesso tempo si mostravano arrogantemente sicuri che il pensiero tedesco, proprio per la sua consapevolezza della crisi, fosse l’unico degno della nuova epoca storica. […]

“La comprensione classica della tradizione, così viva in Goethe, fu perduta negli anni trenta in Germania come in Russia. L’arte divenne ‘popolare’, ‘nuova’ e ‘utilitaria’; la forma non contò più. Nadler si sentì autorizzato a criticare Goethe perché «un uomo come lui non poteva trasformare un popolo». Ora il popolo si stava «trasformando»; perlomeno i suoi portavoce se ne vantavano. Un periodico molto stimato, Hochschule und Ausland, dedicato al mantenimento dei contatti fra le università tedesche e quelle straniere, nell’aprile del 1937 cambiò testata assumendo il nuovo nome di Geist der Zeit (Spirito dei tempi). Il suo editoriale dichiarò con appropriata modestia: «Non c’è alcuna nazione in Europa, e non ce n’è mai stata alcuna al di fuori della Grecia, in cui lo spirito è così vivo come nell’odierna Germania». Ma gli intellettuali tedeschi sbagliavano scambiando il loro spirito dei tempi con l’effettivo spirito del tempo. Nella loro cieca antipatia per l’Occidente essi interpretavano erroneamente la storia. […]

Moeller, Spengler e Jünger ritenevano che la guerra perduta si sarebbe trasformata in vittoria, se i tedeschi si fossero resi conto di rappresentare lo spirito dei tempi – Moeller aveva iniziato la sua attività come critico letterario e principale traduttore tedesco di Dostoevskij. La guerra comunque lo trasformò da uomo di cultura in pensatore politico. Nel Diritto dei popoli giovani, apparso all’inizio del 1919, egli chiedeva che fosse riconosciuto il diritto all’espansione delle giovani nazioni, che avevano idee nuove, mentre il decrepito Occidente non era altro che una continuazione del sorpassato diciottesimo secolo. Fra i popoli giovani era la Prussia che avrebbe assunto la funzione di guida. «Verrà il momento in cui tutti i popoli giovani, in cui tutti coloro che si sentono giovani, riconosceranno nella storia prussiana la più bella, la più nobile, la più virile storia politica dei popoli europei». […]

“Nel 1923, due anni prima di suicidarsi, Moeller pubblicò il suo libro più autorevole, Das Dritte Reich. Il titolo non può essere tradotto con ‘Terzo Impero’. Il Reich è nella sua essenza molto più di un impero. Ci sono più imperi, c’è un unico Reich. «Il nazionalismo tedesco – scriveva Moeller – è un campione del Reich finale: sempre ricco di promesse, mai concluso… C’è un unico Reich, come c’è un’unica Chiesa. Gli altri pretendenti al titolo non possono essere altro che uno stato, una comunità o una setta. Esiste solo Il Reich». Creando il Reich, i tedeschi non agivano per se stessi, ma per l’Europa. Il loro Reich era urgentemente necessario perché la civiltà occidentale aveva non elevato, bensì degradato l’umanità. «Circondato dal mondo in sfacelo che è il mondo vittorioso di oggi, il tedesco cerca la sua salvezza. Cerca di preservare quei valori imperituri, che sono tali per propria natura. Cerca di assicurare la loro permanenza nel mondo riconquistando il rango a cui hanno diritto i loro difensori. Allo stesso tempo combatte per la causa dell’Europa, per ogni influenza europea che si irradia dalla Germania in quanto centro dell’Europa… L’ombra dell’Africa si proietta sull’Europa. È nostro compito fare da sentinella sulla soglia dei valori».

Moeller definiva il Reich «una vecchia bella idea tedesca che risale al Medioevo, ed è associata all’attesa di un regno millenario». Esso sarebbe stato genuinamente socialista e antiliberale. Il terzo capitolo del libro portava come motto le significative parole «Col liberalismo il popolo perisce».Il socialismo tedesco non aveva nulla in comune col materialismo storico marxista e con la lotta di classe internazionale. Era la solidarietà nazionale di un popolo sfruttato dalla plutocrazia straniera; era l’idea dell’altruismo al servizio del bene comune anziché del perseguimento del profitto personale. «Dove finisce il marxismo – scriveva Moeller – lì comincia il socialismo: un socialismo tedesco, la cui missione è quella di soppiantare nella storia intellettuale dell’umanità ogni specie di liberalismo. Il socialismo tedesco non è compito di un Terzo Reich. È piuttosto la sua base». Moeller accettava la rivoluzione antiliberale e antiplutocratica di Lenin come un tipo di socialismo nazionale peculiarmente adatto alla Russia e si dichiarava propenso a collaborare con essa purché dirigesse la sua espansione verso l’Asia e ammettesse la legittimità della missione della Germania nelle terre di confine russo-tedesche.[…]

Oswald Spengler in Preussentum und Sozialismus [Prussianesimo e Socialismo] (1919) fece un altro passo avanti: «Solo quello tedesco è vero socialismo! Il vecchio spirito prussiano e il socialismo, benché oggi sembrino contrari l’uno all’altro, sono in realtà tutt’uno». Questo libro relativamente beve di Spengler rimase sconosciuto al pubblico inglese, ma attrasse molti più lettori tedeschi dei due grossi volumi della sua opera principale. Le idee esposte in Preussentum und Sozialismus furono, come egli stesso confessò, il nucleo (Kern) da cui si sviluppò tutta la sua filosofia. Il libro è basilare non solo per la conoscenza dell’autore, ma anche per la conoscenza del periodo weimariano. Naturalmente Spengler contrapponeva i suoi prussiani socialisti agli individualisti inglesi attaccati al denaro, che facevano ognuno per conto proprio, mentre i primi erano legati l’uno all’altro. Quando gli inglesi lavoravano, lo facevano per smania di successo; i prussiani lavoravano invece per amore del dovere da compiere. In Inghilterra era la ricchezza che contava, in Prussia l’azione. Il socialismo marxista era profondamente influenzato dalle idee inglesi. Marx infatti, al pari degli inglesi, non ragionava dal punto di vista dello stato, bensì da quello della società. Per lui, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità. A detta di Spengler, Federico Guglielmo I, il re-soldato prussiano del diciottesimo secolo, e non Marx, era stato «il primo socialista cosciente». Soltanto la Prussia era uno stato reale, e quindi uno stato socialista. «Qui, nel senso stretto del termine, non esistevano individui isolati. Chiunque viveva nell’ambito del sistema, che funzionava con la precisione di una buona macchina, faceva parte della macchina».

Spengler andava a ritroso nella storia per spiegare la differenza fra inglesi e prussiani; il carattere inglese derivava dai saccheggiatori vichinghi, quello prussiano dai devoti Cavalieri Teutonici. Malgrado lo storicismo, ora brillante, ora falso, gli scritti di Spengler intendevano essere non distaccate opere di studio, bensì littérature engagée [letteratura impegnata]. Il suo Preussentum und Sozialismus era infatti un fervido appello alla gioventù tedesca, lanciato nell’ora della disfatta e dello sconforto. «Nella nostra lotta – egli scriveva nell’introduzione – conto su quella parte della nostra gioventù che sente profondamente, al di là di tutti gli oziosi discorsi quotidiani, […] l’invincibile forza che continua a marciare in avanti malgrado tutto, una gioventù […] romana nell’orgoglio di servire, nella umiltà di comandare, preoccupata di chiedere non diritti dagli altri, bensì doveri da se stessa, senza eccezione, senza distinzione, per realizzare il destino che sente nel suo intimo. In questa gioventù vive una tacita coscienza che integra l’individuo nel tutto, nella nostra cosa più sacra e profonda, un patrimonio di duri secoli, che distingue noi fra tutti i popoli, noi, i più giovani, gli ultimi della nostra civiltà. A questa gioventù io mi rivolgo. Possa essa comprendere quello che ora diventa il suo compito futuro. Possa essere fiera di aver l’onore di affrontarlo.»

L’appello di Spengler alla gioventù si faceva ancora più fervido alla fine del libro: «Chiamo a raccolta coloro che hanno midollo nelle ossa e sangue nelle vene… Diventate uomini! Non vogliamo più discorsi sulla cultura, sulla cittadinanza mondiale, sulla missione spirituale della Germania. Abbiamo bisogno di durezza, di ardito scetticismo, di una classe di dominatori socialisti. Ancora una volta: socialismo significa potenza, potenza, ancora e sempre potenza. La via verso la potenza è chiaramente segnata: i più valenti lavoratori tedeschi devono unirsi ai migliori rappresentanti del vecchio spirito politico prussiano, gli uni e gli altri decisi a creare uno stato rigidamente socialista, una democrazia nel senso prussiano, gli uni e gli altri legati da un comune senso del dovere, dalla coscienza di un grande compito, dalla volontà di obbedire per dominare, di morire per vincere, dalla forza di compiere tremendi sacrifici per realizzare il nostro destino, per essere quel che siamo e quel che senza di noi non esisterebbe. Noi siamo socialisti. Noi non intendiamo esser stati socialisti invano».

La filosofia spengleriana della storia era concisamente esposta in un brano di Preussentum und Sozialismus: «La guerra è eternamente la più alta forma di esistenza umana, e gli stati esistono per la guerra; essi manifestano per la guerra essi manifestano la loro preparazione alla guerra. Anche se un’umanità stanca e smorta desiderasse rinunciare alla guerra, essa diventerebbe, anziché il soggetto, l’oggetto della guerra per cui e con cui gli altri guerreggerebbero».

Lo stesso tema viene ripetuto nel secondo volume del Tramonto dell’Occidente, apparso nel 1922: «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace.» E nell’ultimo libro pubblicato, undici anni dopo, Anni della decisione, egli affermava con ripetitività quasi hitleriana: «La lotta è il fatto fondamentale della vita, è la vita stessa. La noiosa processione di riformatori, capaci di lasciare come loro unico monumento montagne di carta stampata, è ora finita… La storia umana in un periodo di civiltà altamente evoluta è storia di potenze politiche. La forma di questa storia è la guerra. La pace è soltanto […] una continuazione della guerra con altri mezzi […] Lo stato è l’essere in forma di un popolo, che è da esso costituito e rappresentato, per guerre attuali e possibili». Questa filosofia della storia ultrasemplificata portava la priorità della politica estera su quella interna, tipica di Ranke, a un estremo palesemente assurdo. Civiltà e religioni, istituzioni e costituzioni, economia e benessere nazionale non contavano più nella storia; non rimaneva che la politica estera, ridotta essa stessa alla guerra e alla preparazione della guerra. Le guerre non erano più eccezioni o incidenti, erano il fatto centrale della vita e della storia, il loro significato e coronamento. La prima nazione moderna che l’aveva compreso era, secondo Spengler, la Prussia, che su questa consapevolezza basava la sua pretesa di supremazia nella nuova era. «La Prussia – egli scriveva – è soprattutto priorità incondizionata della politica estera su quella interna, la cui sola funzione è quella di mantenere la nazione in forma per quel compito.»[…]

Le teorie politiche proclamate da Spengler col tono di un veggente furono esposte, in veste più erudita, da Carl Schmitt, professore di diritto internazionale e costituzionale all’università di Bonn, per due decenni il più autorevole maestro di diritto pubblico in Germania. I suoi scritti, legati a quelli di Spengler, introdussero una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale. […]

La guerra era un momento importante della vita politica e della vita in genere; l’inevitabile relazione amico-nemico dominava ogni settore. «I punti culminanti della grande politica – sosteneva Schmitt – sono quelli in cui si discerne il nemico con estrema concreta chiarezza come nemico». Questa teoria politica corrispondeva al presunto primordiale istinto combattivo dell’uomo che tendeva a considerare chiunque si frapponesse all’appagamento dei suoi desideri come un avversario da toglier di mezzo. La tradizionale arte di governo dell’Occidente, invece, consisteva nel trovare e vie e i mezzi per superare l’istinto primitivo col negoziato paziente, col compromesso, con uno sforzo di reciprocità, soprattutto con l’osservanza di leggi universalmente vincolanti.

La totalitaria filosofia di guerra fu così riassunta da Schmitt: «La guerra è l’essenza di ogni cosa. La natura della guerra totale determina la forma naturale dello stato totale». Comprensibilmente, egli nutriva un profondo disprezzo per il diciannovesimo secolo, «un secolo pieno d’illusione e frode.» Nel suo stato ideale di quest’epoca, ovviamente immune da illusioni e frode, la vita nella sua interezza era subordinata al conflitto armato. in tale ordine d’idee Karl Alexander von Müller, direttore della Historische Zeitschrift [Rivista storica], l’organo ufficiale degli storici tedeschi, concluse, nel numero di settembre del 1939, un editoriale sulla guerra con le parole: «In questa battaglia d’animi troviamo il settore delle trincee che è affidato alla scienza storica della Germania. Essa monterà la guardia. La parola d’ordine è stata data da Hegel: lo spirito dell’universo ha dato l’ordine di avanzare; tale ordine sarà ciecamente obbedito».

In questo brano di riflessione storica emergono, a nostro avviso, alcuni tipici difetti della storiografia d’impostazione liberal-democratica, primo fra tutti quello di presentarsi (e percepirsi essa stessa) come la storiografia, immune da passioni e pregiudizi, e perciò titolata a giudicare, davanti al tribunale della storia, tutte le altre ideologie. Intendiamoci: molti giudizi sono pertinenti e perfettamente condivisibili. Giusto porre l’accento sulle responsabilità politiche ed etiche degli intellettuali tedeschi dell’epoca di Weimar nell’aver spianato la strada al nazismo; giusto evidenziare la rozzezza e le eccessive semplificazioni della filosofia della storia di Moeller, Spengler, Schmitt; e giusto anche aver richiamato il fatto che il successo di quella impostazione dei problemi politici, nella cultura e nella società, non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata una lunga preparazione, da parte di generazioni e generazioni di intellettuali che li avevano preceduti.

In che cosa verte, dunque, la nostra perplessità, davanti all’approccio storiografico di Kohn? Essenzialmente nel fatto che egli, tutto preso dal suo pathos moralistico, sembra essersi scordato che il compito primo e fondamentale del mestiere di storico (e anche dello storico del pensiero) non è quello di giudicare, ma di sforzarsi di capire. Il che, naturalmente – giova ripeterlo, onde evitare il solito malinteso tanto caro ai moralisti in male fede – non significa giustificare alcunché. Nel caso specifico, a Kohn è sfuggita la comprensione di quanto di originale poteva esservi nella “rivoluzione conservatrice” che ha coinvolto, oltre a Moeller, Spengler e Schmitt, anche personalità della statura di Heidegger, Jünger, Frobenius, Gogarten e, per certi versi, anche Jung; per non parlare, fuori della Germania, di Hamsun, Pound, Evola, Gentile, Ungaretti, Pirandello, Unamuno, Barrés, Eliade, … dobbiamo continuare? E occorre ricordare che alcuni di questi intellettuali, anche fra quelli particolarmente presi di mira da Kohn, ebbero il coraggio di opporsi al nazismo, o ad aspetti significativi della sua politica, esponendosi in prima persona? Il tanto vituperato Spengler rifiutò di aderire al fanatico antisemitismo nazista e avrebbe subito gravi rappresaglie, se la morte non fosse giunta in buon punto, nel 1936, per metterlo al riparo da esse. Jünger, col romanzo Sulle scogliere di marmo, presentò apertamente Hitler come un malvagio e dissennato timoniere che porta la nave della Germania verso la catastrofe; e suo figlio venne ucciso dai nazisti. Heidegger, come è noto, si dissociò al regime e si chiuse in un cupo silenzio, pur non schierandosi esplicitamente contro di esso.

Ma, si dirà, Kohn non accusa costoro di essere stati dei cripto-nazisti, bensì di avere oggettivamente spianato il terreno della cultura tedesca all’influsso nefasto del nazismo. Senonché, è proprio quell’avverbio, oggettivamente (che ricorda, guarda caso, altri climi politici e altre condanne spicciole), che ci sembra ingeneroso e poco corretto dal punto di vista del metodo. In un’epoca di crisi, morale non meno che materiale, gli intellettuali vanno anch’essi a tentoni e non li si può accusare con troppa disinvoltura di aver preparato le catastrofi a venire, istituendo per loro una sorta di retroattività morale. Lungi da noi voler minimizzare le responsabilità degli intellettuali; senz’altro alcuni di essi sono stati dei cattivi maestri, e ne portano tutta intera la responsabilità. Occorre, però, distinguere bene i due piani della riflessione: quello storico e quello etico. Se il libro di Kohn, I Tedeschi, vuol essere un libro di storia, è necessario che del metodo storico accetti le premesse e l’impostazione generale: la priorità rivolta allo sforzo di comprendere, innanzitutto. E non ci pare che egli abbia fatto molto in tal senso. Non ha tenuto conto del punto di vista interno della società tedesca nel periodo della Repubblica di Weimar; e non ha tenuto conto della frustrazione e del risentimento, in parte comprensibili, con i quali il popolo tedesco visse quel periodo, dopo che a Versailles Clemenceau era riuscito a far prevalere la logica della pace “punitiva” e dopo che l’inflazione aveva polverizzato non solo i risparmi e i frutti del lavoro di una intera generazione, ma anche – apparentemente – le speranze di rinascita del popolo tedesco.

Se la famosa pugnalata alla schiena è, infatti, un mito bello e buono, inventato dalla cricca militare prussiana per scaricare sulla società civile, e specialmente sulla socialdemocrazia, la responsabilità della sconfitta in quella guerra che essa aveva fortemente voluto, considerandola – a torto o a ragione – necessaria e inevitabile per la sopravvivenza della Germania come grande potenza, vi sono pochi dubbi – a nostro parere – che il popolo tedesco, al termine della prima guerra mondiale (e, di nuovo, con la crisi della Ruhr del 1923), fu vittima di una grossa ingiustizia storica. Se si fa astrazione da ciò, si rischia di non capire come le parole e gli slogan degli intellettuali conservatori tedeschi ebbero tanta risonanza e tanto successo, specialmente fra la gioventù, negli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Lo storico, invece – anche e, per certi aspetti, soprattutto lo storico del pensiero – deve sempre e rigorosamente contestualizzare. Non si può comprendere Lutero fuori del proprio tempo e della propria situazione storica; non si può comprendere Kant; non si può comprendere Hegel o Nietzsche o Heidegger. In verità, non si può comprendere niente; a meno che si immagini che il pensiero non vada in nulla debitore della società che lo esprime.

Un’altra riflessine di carattere generale che ci sembra opportuno fare è che la sconfitta, così nella vita del singolo individuo come in quella dei popoli, è portatrice di una crisi che può anche essere salutare, perché costringe, letteralmente, a prendere atto di una inadeguatezza e a elaborare delle strategie per superare le presenti difficoltà. La società tedesca non era stata certo l’unica responsabile della tragedia del 1914-1918; ma, alla fine della guerra, si trovò dalla parte del perdente e quindi, automaticamente, dalla parte del torto (cosa che si sarebbe ripetuta di lì a ventisette anni). Una clausola del trattato di pace imponeva ai rappresentanti della Germania di firmare una dichiarazione in cui la loro patria si assumeva, tutta intera, la responsabilità di quanto era accaduto: e questo sotto la minaccia di una ripresa immediata della guerra. Mai si era vista una simile prepotenza giuridica, per giunta sotto l’ipocrita bandiera del democraticismo wilsoniano; ma Erzberger dovette trangugiare, a nome del suo popolo, l’amaro boccone (cosa che ne provocò la condanna a morte da parte dell’estremismo nazionalista: condanna che fu eseguita, pochi anni dopo, da un giovane assassino).

Né basta. Per tre volte – nel 1919, nel 1923 e nel 1929 – l’economia tedesca fu travolta dalla terribile bufera della crisi economica, che spazzò il risparmio e creò milioni e milioni di disoccupati. Ogni volta la società tedesca riusciva a rimettersi in piedi, compiendo degli sforzi veramente titanici, un intervento esterno la rigettava a terra. Nel 1919 la pace punitiva – con le mutilazioni territoriali, la perdita delle colonie e della marina, l’enorme indennità di guerra da pagare agli Alleati; nel 1923 l’occupazione francese e belga del bacino minerario della Ruhr, che rendeva ancor più impossibile soddisfare quei pagamenti; nel 1929 il crollo della borsa di Wall Street, cui gli speculatori della finanza ebraica newyorkese non furono certo estranei: e la terza volta spianò la strada a Hitler. C’è da chiedersi, semmai, come poté resistere tanto a lungo la società tedesca alle sirene del nazismo, con la comunità internazionale ben decisa a distruggerne la volontà di ripresa e la Lega delle Nazioni, comodo paravento giuridico-morale delle plutocrazie britannica e francese, a fare da cane da guardia alle assurde decisioni politiche e territoriali della Conferenza di Versailles.

Tale il contesto del decennio preso in esame da Kohn (1923-33), e che egli chiama “la marcia verso l’abisso”, attribuendone tutta la responsabilità morale agli intellettuali tedeschi, che avrebbero dissennatamente predicato la violenza e l’esasperazione del darwinismo sociale e del machiavellismo politico. Egli conclude affermando che, per opera di Schmitt e di Spengler, penetrò nella cultura tedesca “una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale”. Omette però di precisare che la Germania, a causa della miopia e dell’egoismo delle classi dirigenti britanniche, francesi e americane, da oltre un decennio non viveva affatto in una situazione “normale”; che potenti forze economico-finanziarie internazionali facevano di tutto per tenerla in una condizione di cronica e disperata anormalità.

Così pure, quando Spengler afferma che «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace», Kohn omette di precisare che questa visione cinica e brutale della vita umana era stata ampiamente diffusa (anche se non “inventata”) dall’egoismo e dalla cecità dei vincitori di Versailles. Era stata la loro politica ad insegnare agli sconfitti la dura legge del vae victis, la legge inumana secondo la quale la pace è un lusso degli oziosi e degli imbelli o un’utopia dei sognatori, e che la sola cosa che conta è la forza. Per giunta, i brutali vincitori avevano ammantato tale machiavellismo con le vesti rispettabili dell’umanitarismo wilsoniano e della democrazia liberale, sanzionando a posteriori, con una capillare opera di propaganda e di diplomazia internazionale, il puro e semplice trionfo della forza. Come avrebbero fatto col processo di Norimberga (e con quello di Tokyo) alla fine della seconda guerra mondiale. Un processo ove i crimini tedeschi (e giapponesi) vennero giudicati dagli stessi vincitori, ragion per cui nessun fiatò sui crimini anglo-americani e sovietici.

Ma veniamo allo specifico, e cioè alle caratteristiche fondamentali della cultura tedesca nel decennio 1923-33, in cui Kohn vede solo e unicamente una marcia verso l’abisso, una preparazione del diluvio nazista, mentre gli sfuggono completamente le esigenze autentiche e legittime di rinnovamento che si esprimevano in quel contesto e con quella tradizione storica: elementi dai quali non è lecito prescindere, a meno di fare un’operazione culturale altamente anti-storica. Non entriamo ora nel merito della filosofia di Mueller, Spengler, Schmitt, e neanche di Jünger, Wittgenstein o Gogarten, perché ciò esulerebbe, e di molto, dai limiti che ci siamo prefissi. Desideriamo piuttosto far notare che questi autori (che, fra l’altro, non vanno arbitrariamente omologati, pena il perdere di vista la specificità intellettuale di ciascuno d’essi) testimoniano uno sforzo del pensiero per trovare nuove certezze dopo le tremende delusioni e i traumi del periodo precedente e, al tempo stesso, un tentativo di ridefinire lo spazio culturale della Mitteleuropa, e anche dell’Europa in generale, nei confronti di un “Occidente” sentito ormai come una realtà socio-culturale al tempo stesso obsoleta e artificiale. In questo senso, furono i promotori di un’autocritica del pensiero europeo: autocritica, ripetiamo, nata dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale; mentre nulla di simile fu neanche immaginato dalla cultura delle nazioni vincitrici, tutte intente a godersi il bottino di Versailles e, semmai, a giocare cinicamente sulle rivalità dei nuovi, piccoli Stati dell’Europa centrale (Cecoslovacchia, Jugoslavia, ecc.) sorti dallo sfacelo del vecchio ordine europeo.

È vero, gli intellettuali inglesi e francesi degli anni Venti non hanno seminato idee ultranazionaliste e guerrafondaie. Non ve n’era bisogno: la cultura di quei Paesi si godeva la meravigliosa sensazione di aver affrontato e superato una dura prova e, alla fine, di aver contribuito al trionfo della giustizia, della libertà, della democrazia. Gli intellettuali tedeschi – e, a maggior ragione, quelli austriaci o dell’area ex asburgica: Musil, Roth, Kafka, von Rezzori, Cioran – erano costretti a interrogarsi non solo sulla sconfitta e sulla disintegrazione della vecchia Mitteleuropa, ma anche sull’incipiente disintegrazione dello spirito europeo, sulla stessa disintegrazione dell’Io come soggetto unitario della coscienza. Avevano a che fare con una situazione estrema, e fecero del loro meglio per trovare un raggio di luce, una indicazione che li guidasse fuori dalla crisi, verso il futuro. Possiamo discutere la saggezza della via da essi battuta e dissentire da alcuni aspetti della loro polemica; tuttavia, se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che non tutte le ragioni della loro polemica erano infondate.

Quando Spengler, ad esempio, affermava che “per Marx, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità”, non ci sembra che dicesse cosa molto lontana dal vero. Anche l’osservazione che nel vecchio sistema prussiano erano impliciti elementi di socialismo e che, ad ogni modo, in Germania il senso dei valori collettivi prevaleva sull’individualismo, non era peregrina; come non era infondata la convinzione di Moeller che il regime bolscevico, per le sue istanze profonde antiplutocratiche, fosse – nonostante le apparenze – ideologicamente più vicino agli interessi e al sentire del popolo tedesco di quanto non lo fossero i sistemi liberal-democratici dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. La polemica degli intellettuali tedeschi contro l’umanitarismo era sicuramente riprovevole, così come pericoloso il loro continuo soffiare sul fuoco del nazionalismo esasperato. Però bisogna rendersi conto di una cosa: essi sentivano il dovere di ricorrere a ogni mezzo per rimettere in piedi un popolo che era stato ridotto in ginocchio e che era tuttora vittima di una ingiustizia storica. La spettacolare crescita economica, culturale e sociale tedesca del Secondo Reich, fra il 1871 e il 1918 (sì, anche sociale: con una delle legislazioni del lavoro fra le più avanzate al mondo) era stata letteralmente strangolata da una coalizione mondiale che adesso era ben decisa a impedire che la Germania si rialzasse e tornasse a mettere in pericolo i privilegi acquisiti dalle potenze mondiali più vecchie.

Gli storici come H. Kohn, implicitamente o esplicitamente, rimproverano agli intellettuali tedeschi di quel periodo di non aver fatto nulla per convogliare le simpatie dei loro compatrioti verso gli istituti della democrazia. Così facendo, sembrano dimenticare un elemento fondamentale, che oggi si ripete in Iraq e in varie altre parti del mondo: la democrazia era stata, per la Germania, non il punto d’arrivo di un processo interno e naturale, ma la conseguenza della sconfitta e, in un certo senso, una imposizione dei vincitori. Quantomeno, gli Alleati si erano serviti della Repubblica democratica di Weimar per presentare al popolo tedesco il conto salatissimo della Conferenza di Versailles e della pace-capestro. Portata al potere dal doppio trauma della disfatta militare e del diktat dei vincitori, la Repubblica non era amata e, soprattutto, non era sentita come parte della tradizione storica nazionale.

Si può, naturalmente, chiamare in causa la scarsa maturità politica della classe dirigente tedesca e, più in generale, la tradizione filistea del ceto medio, sempre pronto – in particolare dal 1870 – ad applaudire il vincitore di turno, ossia qualunque governo capace di portare al successo l’affermazione dello Stato con la forza materiale. Questo, certamente, era il peccatum originalis del Secondo Reich: il “patto col diavolo” della borghesia tedesca che, nel 1866 e nel 1870, si era inchinata davanti alla politica di Bismarck solo perché, sul piano della pura forza, si era dimostrata vincente. Ma sarebbe antistorico e ingeneroso addossare tutte le colpe agli intellettuali che, negli anni Venti, dovettero procedere alla liquidazione del vecchio mondo e delle vecchie certezze a prezzi fallimentari; e che, contemporaneamente, dovettero cercare in tutta fretta di fornire nuovi orientamenti al loro popolo traumatizzato e demoralizzato.

Più in generale, ci sembra che la vicenda della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” segni l’ultimo sprazzo di vitalità della cultura europea, l’ultima sua reazione davanti alle forze inumane e omologanti che oggi chiamiamo della globalizzazione, ma che già allora venivano percepite come una americanizzazione del vecchio continente, capace di fare piazza pulita, in nome della borsa, del profitto e dei metodi tayloristici di organizzazione scientifica del lavoro, dell’anima stessa del vecchio continente. Si può interpretare l’opera filosofica di Mueller, Spengler, Schmitt e Jünger come una reazione, aristocratica e popolare al tempo stesso, contro gli aspetti più minaccioso della modernità, primo fra tutti il prevalere delle logiche del mercato su quelle della società civile, della quantità sulla qualità, dell’egoismo privato sull’interesse collettivo. In breve, si può interpretare il pensiero di quegli autori come un tentativo disperato, nostalgico e anti-moderno, di ripristinare i valori tramontati dell’aristocrazia davanti al trionfo degli aspetti più massificanti ed egoistici dello spirito borghese.

Certo, vi furono molte, troppe scorie all’interno di un tale tentativo; vi fu un uso irresponsabile di slogan aggressivi e razzisti; vi fu un disprezzo esagerato e irragionevole per tutto quanto, a torto o a ragione, era considerato parte di quello spirito borghese e, pertanto, parte di quel quadro internazionale che aveva penalizzato così duramente la patria tedesca. Vi furono molte semplificazioni assurde, molti facili luoghi comuni e un uso troppo disinvolto di formule dall’intrinseco potere distruttivo, che avrebbero sospinto alla catastrofe la società tedesca per la seconda volta nel volgere di una sola generazione. Però, lo ripetiamo, occorre tener conto della particolare situazione tedesca, anche sul piano internazionale. Da una parte la Russia staliniana, dall’altra i vincitori di Versailles, chiusi e sordi a ogni senso di equità e di saggezza, protesi unicamente a sfruttare al massimo i loro immensi imperi coloniali e i profitti giganteschi che la guerra stessa, come nel caso degli Stati Uniti, aveva portato loro.

La Germania, pertanto, si sentiva come una cittadella assediata e abbandonata alle sue risorse; o trovava in se stessa la forza di reagire, o sarebbe perita, forse per sempre. Questo videro i Mueller, gli Spengler e gli Schmitt. Bisognerebbe tener conto del dramma che stava vivendo il loro popolo, prima di giudicarli con una severità dettata dal senno di poi e da una serie di pregiudizi ideologici che derivano proprio dal fatto che la storia, una volta di più, l’hanno fatta e continuano a farla i vincitori. Basti pensare al destino riservato, circa vent’anni dopo, al cuore della Germania, la vecchia Prussia: smembrata, svuotata dei suoi abitanti con una spietata pulizia etnica, cancellata totalmente dalla carta geografica. Vae victis, appunto: gli Alleati, nel 1945 come nel 1918, non amavano i toni rozzi e aggressivi alla Spengler, ma agivano esattamente in base a quei criteri, brutali e machiavellici, che tanto li disgustavano quando a teorizzarli erano i Tedeschi.

samedi, 02 octobre 2010

Turreau et les colonnes infernales

Archives des SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

 

Turreau et les colonnes infernales

 

vendelucs.jpgMalgré les préparatifs fébriles en vue de commémorer le 200ème anniversaire de la Révolution Française, malgré l'unanimisme des partis politiques français autour des "acquis" de 1789, un certain nombre de travaux tentent encore et toujours de cerner l'histoire de cette révolution, non d'une point de vue républicain, partisan et politicien mais d'un point de vue analytique, objectif et historique. L'ouvrage d'Elie FOURNIER, que nous évoquons ici, tente de nous expliquer ce que fut réellement, sur le plan du vécu, la Révolution française, après les brèches ouvertes ces dernières années par des historiens comme François FURET ou Pierre CHAUNU. Il ne s'agit pas de la Révolution de Paris ni de celle des membres du Club des Jacobins ni celle des "représentants du peuple" à la Convention, mais celle des peuples qui constituaient alors l'ancien royaume de France, présentement transformé en "République une et indivisible".

 

Le cas de la Vendée est exemplaire. Mais il n'est pas unique. D'autres provinces connurent alors des mouvements de révoltes populaires face aux exigences et à la tyrannie des comités de gouvernement. La révolution fut en effet transformée en révolte sous-tendue par les intérêts d'une certaine classe, la bourgeoisie. Et le pouvoir parisien, appuyé sur des forces armées recrutées dans les grandes capitales (Paris mais aussi Marseille, Grenoble, Lyon, Toulouse, etc...) exerça une répression féroce contre des citoyens qui refusaient le vieux principe jacobin de la "République ou la mort!".

 

Des hommes et des femmes, pour la plupart attachés à leurs prêtres, mais aussi aux premières réformes de la révolution (notamment la suppression d'un certain nombre de privilèges) furent massacrés au nom des valeurs neuves de la "Liberté" et de "l'Egalité". FOURNIER prend ici comme exemple le véritable génocide (le mot n'est pas trop fort!) perpétré par les généraux républicains au nom du pouvoir central sur les populations de la Vendée et des territoires limitrophes. Le décor est planté: 23 décembre 1793, juste après la défaite des troupes royalistes, accompagnée de 100.000 morts sur les routes de Normandie et de Bretagne. Pour réduire définitivement les séditions royalistes, la Convention prend la décision, sur la proposition des "patriotes" vendéens représentés à cette même Conven- tion, de supprimer froidement et systémati- quement tous les "brigands" vendéens. D'ailleurs, pour mieux marquer cette volonté d'en finir, on modifie le nom de cette région en "Vengé"...

 

Effacement des gens, effacement des souvenirs. Il faut extirper toute trace de vie sur ces terres, interdire par la terreur toute révolte contre la République. De fait, la République peut puiser dans le passé récent: l'exemple est là, celui des grandes répressions opérées par les troupes de l'Ancien Régime en Corse. Dans une lettre écrite le 14 juin 1794 par le Général VIMEUX au Comité de Salut Public, on peut lire à propos de la campagne de Vendée: "La guerre et le brigandage de Vendée finiront, mais comment et avec quels moyens? Avec ceux qu'on employa en Corse, après de grosses dépenses et bien des années d'erreur"... Déclaration qui rejoint par ailleurs celle du Général HUCHE, l'un des organisateurs les plus "consciencieux" et les plus patriotes de la guerre de Vendée.

 

Et cette terreur que connut la Vendée, terreur dont les pouvoirs centraux furent les inspirateurs, déléguant par décrets et proclamations (le plus célèbre de ces décrets étant celui du 1er août 1793) aux généraux et aux représentants du peuple le soin d'accomplir "l'extermination" (mot utilisé dans les textes légaux) des "brigands" vendéens (entendez non seulement les combattants chouans sous les ordres des chefs royalistes Charette, Stofflet, de la Rochejacquelain, etc. mais aussi tous les habitants de la Vendée sans considération d'âge ou de sexe). Cette "extermination" fut une réédition de celle qu'avait appliquée un MARBEUF à la république paoline corse quelques décennies auparavant. La tactique était simple: détruire systématiquement tous les "repaires" des habitants de la région révoltée. Autrement dit, la politique de la terre brûlée, pratiquée à une échelle collective.

 

Un arrêté du Général Louis Marie TURREAU donne d'ailleurs la liste, non exhaustive, des communes proscrites. Les deux "colonnes agissantes" seront responsables du massacre de plusieurs dizaines de milliers de paysans, de citoyens des villes accusés de mollesse ou de modération patriotique et même d'élus communaux pourtant favorables à la République. Ainsi, le 28 février 1794 eut lieu le massacre des Lucs, au cours duquel furent assassinés 110 enfants âgés de 7 ans et moins!

 

Le livre de FOURNIER nous dévoile d'autre part les causes réelles de cette politique de génocide perpétrée par les comités parisiens. Le règne de la Terreur est moins une période républicaine au sens politique du terme qu'une période morale, celle du règne de la vertu robespierriste!

 

Les personnages de ROBESPIERRE et de SAINT JUST, relayés en province par les délégués CARRIER à Nantes ou TALLIEN à Bordeaux symbolisent ce passage de la révolution à la construction d'une cité vertueuse. Il s'agit ici d'une nouvelle guerre de religion, au cours de laquelle s'opposent les partisans minoritaires du culte de l'Etre Suprême, ersatz de l'ancien culte catholique accomodé aux valeurs nouvelles de 1789 et les anciens tenants du culte chrétien, catholique apostolique et romain. D'ailleurs le levier des révoltes populaires paysannes en Vendée fut beaucoup moins la défense du trône que celle de l'autel. Le royalisme militant resta le fait d'une minorité consciente et l'attachement aux rites catholiques le principe de la dynamique chouanne.

 

Une fois de plus, il était utile de rappeler une certaine réalité de la révolution française. L'image idyllique colportée par les institutions républicaines d'éducation nationa- le, appuyée sur les travaux de MICHELET, est aujourd'hui de plus en plus remise en cause. Moins par des historiens partisans de l'Ancien Régime que par des universitaires désireux de mieux reconnaître, derrière les masques de la propagande et des idées toutes faites, la réalité historique. Au total, le livre de FOURNIER est un excellent ouvrage. A lire pour apprendre que l'histoire ne se déroule pas selon un mécanisme manichéen mais consiste en un choc perpétuel de contradictions.

 

Ange SAMPIERU.

 

Elie FOURNIER, Turreau et les colonnes infernales, Albin Michel, Paris, 1985, 89 FF.

lundi, 27 septembre 2010

Les ravages de l'esprit révolutionnaire

Les ravages de l'esprit révolutionnaire

Ex: http://www.polemia.com/

 

Sansculottes.jpgUne critique politique de la révolution et de l’esprit révolutionnaire est souvent à courte vue. Le phénomène de la révolution est multiforme. La révolution peut être violente comme celles de Robespierre ou de Lénine. Elle peut aussi se dérouler sans violence apparente mais bouleverser la société en profondeur. Les Canadiens parlent de « la révolution silencieuse » des années soixante où la pratique religieuse a diminué, le taux de natalité s’est effondré, la délinquance a augmenté, etc… On a bien eu dans les années 68 comme on dit en France, une sorte de révolution dans les mœurs (au sens large) qui a été reprise notamment par le parti socialiste et qui n’a pas fini d’avoir de l’influence, y compris sur la vie politique.

L’une des analyses les plus profondes de l’esprit révolutionnaire a été faite par le philosophe allemand existentiel Martin Heidegger. Dans son livre « que veut dire penser ? » (« Was heisst denken ?») il a montré que cet esprit ne procédait ni de la politique ni de la morale, mais bien de la métaphysique. La métaphysique ignore la différence entre l’être et l’étant. Elle ne connaît que l’étant et l’homme moderne, déterminé par la pensée métaphysique sans même le savoir, vit « le nez dans le guidon » accroché aux objets immédiats et à l’instant présent. Il oublie l’être sans lequel les étants n’existeraient pas.

Cet homme moderne correspond au « dernier homme » décrit par Nietzsche dans « Ainsi parlait Zarathoustra ». Ce dernier homme n’a plus d’idéal, il est matérialiste et utilitariste.

« Qu’est ce que l’amour ? Qu’est ce que la création ? Qu’est ce que la nostalgie ? Qu’est ce qu’une étoile ? » Ainsi demande le dernier homme et il cligne de l’œil. « Nous avons inventé le bonheur disent les derniers hommes, et ils clignent de l’œil ». Dans les quatre questions posées, le dernier homme montre :

  • - sa froideur envers les hommes considérés comme des matières premières interchangeables (l’égalitarisme a pour but de faciliter cette interchangeabilité avec de beaux objectifs affichés) ;
  • - son scepticisme envers un Dieu créateur ;
  • - son mépris du passé (c’est un trait fondamental comme on le verra) ;
  • - son rejet de tout idéal (l’étoile).

Le dernier homme est persuadé d’avoir inventé le bonheur : c’est typique de tous les esprits révolutionnaires. Et il va chercher à l’imposer. « Il cligne de l’œil » veut dire qu’il se sent supérieur et qu’il croit que ses jugements de valeur ont une validité universelle.

Nietzsche va loin car il découvre que la réflexion la plus profonde dont est capable le dernier homme est fondée sur « l’esprit de vengeance ». Dans le chapitre sur « les Tarentules », il explique que l’égalitarisme n’est pas autre chose que de la volonté de puissance qui prend la forme de la vengeance sous le masque de la justice. Nietzsche dit que l’on ne pourra dépasser le dernier homme que si l’on est capable de se libérer de cet esprit de vengeance, donc de l’égalitarisme. Cet homme libéré de l’esprit de vengeance, il l’appelle le surhomme, dont il donne une définition : « César avec l’âme du Christ » !

La métaphysique moderne, observe Heidegger, identifie l’être avec la volonté. La volonté veut commander à tout : c’est la définition même de l’esprit révolutionnaire. Or, quel est l’obstacle invincible contre lequel la volonté ne peut rien ? C’est le temps et plus particulièrement le passé. Le temps est ce qui passe. On ne peut pas revenir sur ce qui est passé. Et Nietzsche définit la nature de cette vengeance métaphysique : c’est la vengeance à l’égard du temps qui passe, la vengeance à l’égard du passé.

C’est bien ce que l’on trouve chez tous les révolutionnaires : Robespierre comme Lénine comme les animateurs de Mai 68 : ils ont la haine du passé. Le passé est à détruire, c’est lui qui bloque l’accès au bonheur. Pour la métaphysique, l’être, c’est l’instant, ce n’est ni ce qui est passé, ni ce qui est à venir. Autrement dit, l’être n’est autre que l’étant, les objets (y compris les hommes) que l’on a sous la main.

Mais la métaphysique commet plusieurs erreurs : l’être n’est pas l’étant mais à la fois le passé, le présent et l’avenir. Le temps lui-même ne peut être réduit à l’instant. Le temps est durée : passé, présent et avenir. C’est en cela qu’être et temps sont inséparables.Toute la civilisation est fondée sur la prise en compte de ce temps long. Le révolutionnaire qui veut tout ici et maintenant n’aboutit qu’à détruire et à tuer.

C’est l’enfant ou le sauvage qui n’est pas capable de prendre en compte le temps, d’investir dans le temps et de faire fructifier dans l’avenir l’héritage du passé.

L’esprit révolutionnaire est bien parmi nous et il exerce ses ravages. Chaque fois que la facilité conduit à ne voir que l’avantage dans l’instant, cet esprit conduit à détruire notre avenir et à gaspiller l’héritage du passé. La responsabilité de l’adulte est justement de savoir prendre des décisions dans la durée. La propriété, la famille sont des institutions qui justement poussent l’homme vers plus de sens des responsabilités. Le citoyen propriétaire aura toujours une vue plus responsable que le gérant élu pour un temps court : c’est sur cette idée qu’est fondée la démocratie directe des Suisses. T

outefois, pour Heidegger, Nietzsche avait fait un bon diagnostic mais n’a pas trouvé le remède. Il le trouve dans l’éternel retour de l’identique. Mais on ne voit pas comment cet éternel retour supposé nous délivre vraiment de l’esprit de vengeance. Pour cela, il faut aller au-delà de la métaphysique. Il ne faut plus considérer le temps exclusivement comme ce qui s’enfuit, donc comme un ennemi. Le temps, c’est aussi, ce qui advient, donc c’est un don qui nous est fait par l’être. Le don, s’il est perçu, nous conduit non à la vengeance mais à la gratitude. Alors, nous sortons totalement de l’esprit révolutionnaire et de son esprit de vengeance égalitaire, nous en sommes délivrés.
 

Yvan Blot
0I/09/2010

Correspondance Polémia - 04/09/2010

dimanche, 26 septembre 2010

Carl Schmitt: The End of the Weimar Republic

Carl Schmitt (part III)

The End of the Weimar Republic

Ex: http://www.alternativeright.com/

Carl Schmitt (part III)  
 
 Adolf Hitler Accepts the Weimar Chancellorship From President Paul von Hindenburg, January 30, 1933

Carl Schmitt accepted a professorship at the University of Berlin in 1928, having left his previous position at the University of Bonn. At this point, he was still only a law professor and legal scholar, and while highly regarded in his fields of endeavor, he was not an actual participant in the affairs of state. In 1929, Schmitt became personally acquainted with an official in the finance ministry named Johannes Popitz, and with General Kurt von Schleicher, an advisor to President Paul von Hindenburg.

Schleicher shared Schmitt’s concerns that the lack of a stable government would lead to civil war or seizure of power by the Nazis or communists. These fears accelerated after the economic catastrophe of 1929 demonstrated once again the ineptness of Germany’s parliamentary system. Schleicher devised a plan for a presidential government comprised of a chancellor and cabinet ministers that combined with the power of the army and the provisions of Article 48 would be able to essentially bypass the incompetent parliament and more effectively address Germany’s severe economic distress and prevent civil disorder or overthrow of the republic by extremists.

Heinrich Bruning of the Catholic Center Party was appointed chancellor by Hindenburg. The Reichstag subsequently rejected Bruning’s proposed economic reforms so Bruning set about to implement them as an emergency measure under Article 48. The Reichstag then exercised its own powers under Article 48 and rescinded Bruning’s decrees, and Bruning then dissolved the parliament on the grounds that the Reichstag had been unable to form a majority government. Such was the prerogative of the executive under the Weimar constitution.

In the years between 1930 and 1933, Carl Schmitt’s legal writings expressed concern with two primary issues. The first of these dealt with legal matters pertaining to constitutional questions raised by the presidential government Schleicher had formulated. The latter focused on the question of constitutional issues raised by the existence of anti-constitutional parties functioning within the context of the constitutional system.

Schmitt’s subsequent reputation as a conservative revolutionary has been enhanced by his personal friendship or association with prominent radical nationalists like Ernst Jünger and the “National Bolshevist” Ernst Niekisch, as well as the publication of Schmitt’s articles in journals associated with the conservative revolutionary movement during the late Weimar period. However, Schmitt himself was never any kind of revolutionary. Indeed, he spoke out against changes in the constitution of Weimar during its final years, believing that tampering with the constitution during a time of crisis would undermine the legitimacy of the entire system and invite opportunistic exploitation of the constitutional processes by radicals. His continued defense of the presidential powers granted by Article 48 was always intended as an effort to preserve the existing constitutional order.

The 1930 election produced major victories for the extremist parties. The communists increased their representation in the Reichstag from 54 to 77 seats, and the Nazis from 12 to 107 seats. The left-of-center Social Democrats (SPD) retained 143 seats, meaning that avowedly revolutionary parties were now the second and third largest parties in terms of parliamentary representation. The extremist parties never took their parliamentary roles seriously, but instead engaged in endless obstructionist tactics designed to de-legitimize the republic itself with hopes of seizing power once it finally collapsed. Meanwhile, violent street fighting between Nazi and communist paramilitary groups emerged as the numbers of unemployed Germans soared well into the millions.

In the April 1932 presidential election, Hitler stood against Hindenburg, and while Hindenburg was the winner, Hitler received an impressive thirty-seven percent of the vote. Meanwhile, the Nazis had become the dominant party in several regional governments, and their private army, the SA, had grown to the point where it was four times larger than the German army itself.

Schmitt published Legality and Legitimacy in 1932 in response to the rise of the extremist parties. This work dealt with matters of constitutional interpretation, specifically the means by which the constitutional order itself might be overthrown through the abuse of ordinary legal and constitutional processes. Schmitt argued that political constitutions represent specific sets of political values. These might include republicanism, provisions for an electoral process, church/state separation, property rights, freedom of the press, and so forth. Schmitt warned against interpreting the constitution in ways that allowed laws to be passed through formalistic means whose essence contradicted the wider set of values represented by the constitution.

Most important, Schmitt opposed methods of constitutional interpretation that would serve to create the political conditions under which the constitution itself could be overthrown. The core issue raised by Schmitt was the question of whether or not anti-constitutional parties such as the NSDAP or KPD should have what he called the “equal chance” to assume power legally. If such a party were to be allowed to gain control of the apparatus of the state itself, it could then use its position to destroy the constitutional order.

Schmitt argued that a political constitution should be interpreted according to its internal essence rather than strict formalistic adherence to its technical provisions, and applied according to the conditions imposed by the “concrete situation” at hand. On July 19, 1932, Schmitt published an editorial in a conservative journal concerning the election that was to be held on July 31. The editorial read in part:

Whoever provides the National Socialists with the majority on July 31, acts foolishly. … He gives this still immature ideological and political movement the possibility to change the constitution, to establish a state church, to dissolve the labor unions, etc. He surrenders Germany completely to this group….It would be extremely dangerous … because 51% gives the NSDAP a “political premium of incalculable significance.”

The subsequent election was an extremely successful one for the NSDAP, as they gained 37.8 percent of the seats in the parliament, while the KPD achieved 14.6 percent. The effect of the election results was that the anti-constitutional parties were in control of a majority of the Reichstag seats.

On the advice of General Schleicher, President Hindenburg had replaced Bruning as chancellor with Franz von Papen on May 30. Papen subsequently took an action that would lead to Schmitt’s participation in a dramatic trial of genuine historic significance before the supreme court of Germany.

Invoking Article 48, the Papen government suspended the state government of Prussia and placed the state under martial law. The justification for this was the Prussian regional government’s inability to maintain order in the face of civil unrest. Prussia was the largest of the German states, containing two-thirds of Germany’s land mass and three-fifths of its population. Though the state government had been controlled by the Social Democrats, the Nazis had made significant gains in the April 1932 election. Along the way, the Social Democrats had made considerable effort to block the rise of the Nazis with legal restrictions on their activities and various parliamentary maneuvers. There was also much violent conflict in Prussia between the Nazis and the Communists.

Papen, himself an anti-Nazi rightist, regarded the imposition of martial law as having the multiple purposes of breaking the power of the Social Democrats in Prussia, controlling the Communists, placating the Nazis by removing their Social Democratic rivals, and simultaneously preventing the Nazis from becoming embedded in regional institutions, particularly Prussia’s huge police force.

The Prussian state government appealed Papen’s decision to the supreme court and a trial was held in October of 1932. Schmitt was among three jurists who defended the Papen government’s policy before the court. Schmitt’s arguments reflected the method of constitutional interpretation he had been developing since the time martial law had been imposed during the Great War by the Wilhelmine government. Schmitt likewise applied the approach to political theory he had presented in his previous writings to the situation in Prussia. He argued that the Prussian state government had failed in its foremost constitutional duty to preserve public order. He further argued that because Papen had acted under the authority of President Hindenburg, Papen’s actions had been legitimate under Article 48.

Schmitt regarded the conflict in Prussia as a conflict between rival political parties. The Social Democrats who controlled the state government were attempting to repress the Nazis by imposing legal restrictions on them. However, the Social Democrats had also been impotent in their efforts to control violence by the Nazis and the communists. Schmitt rejected the argument that the Social Democrats were constitutionally legitimate in their legal efforts against the Nazis, as this simply amounted to one political party attempting to repress another. While the “equal chance” may be constitutionally denied to an anti-constitutional party, such a decision must be made by a neutral force, such as the president.

As a crucial part of his argument, Schmitt insisted that the office of the President was sovereign over the political parties and was responsible for preserving the constitution, public order, and the security of the state itself. Schmitt argued that with the Prussian state’s failure to maintain basic order, the situation in Prussia had essentially become a civil war between the political parties. Therefore, imposition of martial law by the chancellor, as an agent of the president, was necessary for the restoration of order.

Schmitt further argued that it was the president rather than the court that possessed the ultimate authority and responsibility for upholding the constitution, as the court possessed no means of politically enforcing its decisions. Ultimately, the court decided that while it rather than the president held responsibility for legal defense of the constitution, the situation in Prussia was severe enough to justify the appointment of a commissarial government by Papen, though Papen had not been justified in outright suspension of the Prussian state government. Essentially, the Papen government had won, as martial law remained in Prussia, and the state government continued to exist in name only.

During the winter months of 1932-33, Germany entered into an increasingly perilous situation. Papen, who had pushed for altering the constitution along fairly strident reactionary conservative lines, proved to be an extraordinarily unpopular chancellor and was replaced by Schleicher on December 3, 1932. But by this time, Papen had achieved the confidence of President von Hindenburg, if not that of the German public, while Hindenburg’s faith in Schleicher had diminished considerably. Papen began talks with Hitler, and the possibility emerged that Hitler might ascend to the chancellorship.

Joseph Bendersky summarized the events that followed:

By late January, when it appeared that either Papen or Hitler might become chancellor, Schleicher concluded that exceptional measures were required as a last resort. He requested that the president declare a state of emergency, ban the Nazi and Communist parties, and dissolve the Reichstag until stability could be restored. During the interim Schleicher would govern by emergency decrees. …

This was preferable to the potentially calamitous return of Papen, with his dangerous reform plans and unpopularity. It would also preclude the possibility that as chancellor Hitler would eventually usurp all power and completely destroy the constitution, even the nature of the German state, in favor of the proclaimed Third Reich. Had Hindenburg complied with Schleicher’s request, the president would have denied the equal chance to an anti-constitutional party and thus, in Schmitt’s estimate, truly acted as the defender of the constitution. … Having lost faith in Schleicher, fearing civil war, and trying to avoid violating his oath to uphold the constitution, Hindenburg refused. At this point, Schleicher was the only leader in a position to prevent the Nazi acquisition of power, if the president had only granted him the authorization. Consequently, Hitler acquired power not through the use of Article 48, but because it was not used against him.

[emphasis added]

The Schleicher plan had the full support of Schmitt, and was based in part on Schmitt’s view that “a constitutional system could not remain neutral towards its own basic principles, nor provide the legal means for its own destruction.” Yet the liberal, Catholic, and socialist press received word of the plan and mercilessly attacked Schleicher’s plan specifically and Schmitt’s ideas generally as creating the foundation for a presidential dictatorship, while remaining myopically oblivious to the immediate danger posed by Nazi and Communist control over the Reichstag and the possibility of Hitler’s achievement of executive power.

On January 30, 1933, Hitler became chancellor. That evening, Schmitt received the conservative revolutionary Wilhelm Stapel as a guest in his home while the Nazis staged a torchlight parade in Berlin’s Brandenburg Gate in celebration of Hitler’s appointment. Schmitt and Stapel discussed their alarm at the prospect of an imminent Nazi dictatorship and Schmitt felt the Weimar Republic had essentially committed suicide. If President von Hindenburg had heeded the advice of Schleicher and Schmitt, the Hitler regime would likely have never come into existence.

Carl Schmitt: The Concept of the Political

Carl Schmitt (Part II)

The Concept of the Political

 
 
Carl Schmitt (Part II) Carl Schmitt, circa 1928

It was in the context of the extraordinarily difficult times of the Weimar period that Carl Schmitt produced what are widely regarded as his two most influential books. The first of these examined the failures of liberal democracy as it was being practiced in Germany at the time. Schmitt regarded these failures as rooted in the weaknesses of liberal democratic theory itself. In the second work, Schmitt attempted to define the very essence of politics.

Schmitt's The Crisis of Parliamentary Democracy was first published in 1923.* In this work, Schmitt described the dysfunctional workings of the Weimar parliamentary system. He regarded this dysfunction as symptomatic of the inadequacies of the classical liberal theory of government. According to this theory as Schmitt interpreted it, the affairs of states are to be conducted on the basis of open discussion between proponents of competing ideas as a kind of empirical process. Schmitt contrasted this idealized view of parliamentarianism with the realities of its actual practice, such as cynical appeals by politicians to narrow self-interests on the part of constituents, bickering among narrow partisan forces, the use of propaganda and symbolism rather than rational discourse as a means of influencing public opinion, the binding of parliamentarians by party discipline, decisions made by means of backroom deals, rule by committee and so forth.

Schmitt recognized a fundamental distinction between liberalism, or "parliamentarianism," and democracy. Liberal theory advances the concept of a state where all retain equal political rights. Schmitt contrasted this with actual democratic practice as it has existed historically. Historic democracy rests on an "equality of equals," for instance, those holding a particular social position (as in ancient Greece), subscribing to particular religious beliefs or belonging to a specific national entity. Schmitt observed that democratic states have traditionally included a great deal of political and social inequality, from slavery to religious exclusionism to a stratified class hierarchy. Even modern democracies ostensibly organized on the principle of universal suffrage do not extend such democratic rights to residents of their colonial possessions. Beyond this level, states, even officially "democratic" ones, distinguish between their own citizens and those of other states.

At a fundamental level, there is an innate tension between liberalism and democracy. Liberalism is individualistic, whereas democracy sanctions the "general will" as the principle of political legitimacy. However, a consistent or coherent "general will" necessitates a level of homogeneity that by its very nature goes against the individualistic ethos of liberalism. This is the source of the "crisis of parliamentarianism" that Schmitt suggested. According to the democratic theory, rooted as it is in the ideas of Jean Jacques Rousseau, a legitimate state must reflect the "general will," but no general will can be discerned in a regime that simultaneously espouses liberalism. Lacking the homogeneity necessary for a democratic "general will," the state becomes fragmented into competing interests. Indeed, a liberal parliamentary state can actually act against the "peoples' will" and become undemocratic. By this same principle, anti-liberal states such as those organized according to the principles of fascism or Bolshevism can be democratic in so far as they reflect the "general will."

The Concept of the Political appeared in 1927. According to Schmitt, the irreducible minimum on which human political life is based.

The political must therefore rest on its own ultimate distinctions, to which all action with a specifically political meaning can be traced. Let us assume that in the realm of morality the final distinctions are between good and evil, in aesthetics beautiful and ugly, in economics profitable and unprofitable. […]

The specific political distinction to which political actions and motives can be reduced is that between friend and enemy. … In so far as it is not derived from other criteria, the antithesis of friend and enemy corresponds to the relatively independent criteria of other antitheses: good and evil in the moral sphere, beautiful and ugly in the aesthetic sphere, and so on. 

These categories need not be inclusive of one another. For instance, a political enemy need not be morally evil or aesthetically ugly. What is significant is that the enemy is the "other" and therefore a source of possible conflict.

The friend/enemy distinction is not dependent on the specific nature of the "enemy." It is merely enough that the enemy is a threat. The political enemy is also distinctive from personal enemies. Whatever one's personal thoughts about the political enemy, it remains true that the enemy is hostile to the collective to which one belongs. The first purpose of the state is to maintain its own existence as an organized collective prepared if necessary to do battle to the death with other organized collectives that pose an existential threat. This is the essential core of what is meant by the "political." Organized collectives within a particular state can also engage in such conflicts (i.e. civil war). Internal conflicts within a collective can threaten the survival of the collective as a whole. As long as existential threats to a collective remain, the friend/enemy concept that Schmitt considered to be the heart of politics will remain valid.

Schmitt has been accused by critics of attempting to drive a wedge between liberalism and democracy thereby contributing to the undermining of the Weimar regime's claims to legitimacy and helping to pave the way for a more overtly authoritarian or even totalitarian system of the kind that eventually emerged in the form of the Hitler dictatorship. He has also been accused of arguing for a more exclusionary form of the state, for instance, one that might practice exclusivity or even supremacy on ethnic or national grounds, and of attempting to sanction the use of war as a mere political instrument, independent of any normative considerations, perhaps even as an ideal unto itself. Implicit in these accusations is the idea that Schmitt’s works created a kind of intellectual framework that could later be used to justify at least some of the ideas of Nazism and even lead to an embrace of Nazism by Schmitt himself.

The expression "context is everything" becomes a quite relevant when examining these accusations regarding the work of Carl Schmitt. This important passage from the preface to the second edition of The Crisis of Parliamentary Democracy sheds light on Schmitt’s actual motivations:

That the parliamentary enterprise today is the lesser evil, that it will continue to be preferable to Bolshevism and dictatorship, that it would have unforeseen consequences were it to be discarded, that it is 'socially and technically' a very practical thing-all these are interesting and in part also correct observations. But they do not constitute the intellectual foundations of a specifically intended institution. Parliamentarianism exists today as a method of government and a political system. Just as everything else that exists and functions tolerably, it is useful-no more and no less. It counts for a great deal that even today it functions better than other untried methods, and that a minimum of order that is today actually at hand would be endangered by frivolous experiments. Every reasonable person would concede such arguments. But they do not carry weight in an argument about principles. Certainly no one would be so un-demanding that he regarded an intellectual foundation or a moral truth as proven by the question, “What else?”

This passage indicates that Schmitt was in fact wary of undermining the authority of the republic for its own sake or for the sake of implementing a revolutionary regime. Clearly, it would be rather difficult to reconcile such an outlook with the political millenarianism of either Marxism or National Socialism. The "crisis of parliamentary democracy" that Schmitt was addressing was a crisis of legitimacy. On what political or ethical principles does a liberal democratic state of the type Weimar establish its own legitimacy? This was an immensely important question, given the gulf between liberal theory and parliamentary democracy as it was actually being practiced in Weimar, the conflicts between liberal practice and democratic theories of legitimacy as they had previously been laid out by Rousseau and others and, perhaps most importantly, the challenges to liberalism and claims to "democratic" legitimacy being made at the time by proponents of revolutionary ideologies of both the Left and the Right.

Schmitt observed that democracy, broadly defined, had triumphed over older systems, such as monarchy, aristocracy and theocracy, by trumpeting its principle of "popular sovereignty." However, the advent of democracy had also undermined older theories on the foundations of political legitimacy, such as those rooted in religion ("divine right of kings"), dynastic lineages or mere appeals to tradition. Further, the triumphs of both liberalism and democracy had brought into fuller view the innate conflicts between the two. There is also the additional matter of the gap between the practice of politics (such as parliamentary procedures) and the ends of politics (such as the "will of the people").

Schmitt observed how parliamentarianism as a procedural methodology had a wide assortment of critics, including those representing the forces of reaction (royalists and clerics, for instance) and radicalism (from Marxists to anarchists). Schmitt also pointed out that he was by no means the first thinker to recognize these issues, citing Mosca, Jacob Burckhardt, Hilaire Belloc, G. K. Chesterton, and Michels, among others.

A fundamental question that concerned Schmitt is the matter of what the democratic "will of the people" actually means, and he observed that an ostensibly democratic state could adopt virtually any set of policy positions, "whether militarist or pacifist, absolutist or liberal, centralized or decentralized, progressive or reactionary, and again at different times without ceasing to be a democracy." He also raised the question of the fate of democracy in a society where "the people" cease to favor democracy. Can democracy be formally renounced in the name of democracy? For instance, can "the people" embrace Bolshevism or a fascist dictatorship as an expression of their democratic "general will"?

The flip side of this question asks whether a political class committed in theory to democracy can act undemocratically (against "the will of the people"), if the people display an insufficient level of education in the ways of democracy. How is the will of the people to be identified in the first place? Is it not possible for rulers to construct a "will of the people" of their own through the use of propaganda?

For Schmitt, these questions were not simply a matter of intellectual hair-splitting but were of vital importance in a weak, politically paralyzed liberal democratic state where the commitment of significant sectors of both the political class and the public at large to the preservation of liberal democracy was questionable, and where the overthrow of liberal democracy by proponents of other ideologies was a very real possibility.

Schmitt examined the claims of parliamentarianism to democratic legitimacy. He describes the liberal ideology that underlies parliamentarianism as follows:

It is essential that liberalism be understood as a consistent, comprehensive metaphysical system. Normally one only discusses the economic line of reasoning that social harmony and the maximization of wealth follow from the free economic competition of individuals. ... But all this is only an application of a general liberal principle...: That truth can be found through an unrestrained clash of opinion and that competition will produce harmony.

For Schmitt, this view reduces truth to "a mere function of the eternal competition of opinions." After pointing out the startling contrast between the theory and practice of liberalism, Schmitt suggested that liberal parliamentarian claims to legitimacy are rather weak and examined the claims of rival ideologies. Marxism replaces the liberal emphasis on the competition between opinions with a focus on competition between economic classes and, more generally, differing modes of production that rise and fall as history unfolds. Marxism is the inverse of liberalism, in that it replaces the intellectual with the material. The competition of economic classes is also much more intensified than the competition between opinions and commercial interests under liberalism. The Marxist class struggle is violent and bloody. Belief in parliamentary debate is replaced with belief in "direct action." Drawing from the same rationalist intellectual tradition as the radical democrats, Marxism rejects parliamentarianism as a sham covering the dictatorship of a particular class, i.e. the bourgeoisie. “True” democracy is achieved through the reversal of class relations under a proletarian state that rules in the interest of the laboring majority. Such a state need not utilize formal democratic procedures, but may exist as an "educational dictatorship" that functions to enlighten the proletariat regarding its true class interests.

Schmitt contrasted the rationalism of both liberalism and Marxism with irrationalism. Central to irrationalism is the idea of a political myth, comparable to the religious mythology of previous belief systems, and originally developed by the radical left-wing but having since been appropriated in Schmitt’s time by revolutionary nationalists. It is myth that motivates people to action, whether individually or collectively. It matters less whether a particular myth is true than if people are inspired by it.

At the close of Crisis, Schmitt quotes from a speech by Benito Mussolini from October 1922, shortly before the March on Rome. Said the Duce:

 

We have created a myth, this myth is a belief, a noble enthusiasm; it does not need to be reality, it is a striving and a hope, a belief and courage. Our myth is the nation, the great nation which we want to make into a concrete reality for ourselves.

Whatever Schmitt might have thought of movements of the radical Right in the 1920s, it is clear enough that his criticisms of liberalism were intended not so much as an effort to undermine democratic legitimacy so much as an effort to confront its inherent weaknesses with candor and intellectual rigor.

Schmitt also had no illusions about the need for strong and decisive political authority capable of acting in the interests of the nation during perilous times. As he remarks,

If democratic identity is taken seriously, then in an emergency no other constitutional institution can withstand the sole criterion of the peoples' will, however it is expressed.

In other words, the state must first act to preserve itself and the general welfare and well-being of the people at large. If necessary, the state may override narrow partisan interests, parliamentary procedure or, presumably, routine electoral processes. Such actions by political leadership may be illiberal, but they are not necessarily undemocratic, as the democratic general will does not include national suicide. Schmitt outlined this theory of the survival of the state as the first priority of politics in The Concept of the Political. The essence of the "political" is the existence of organized collectives prepared to meet existential threats to themselves with lethal force if necessary. The "political" is different from the moral, the aesthetic, the economic, or the religious as it involves, first and foremost, the possibility of groups of human beings killing other human beings.

This does not mean that war is necessarily "good" or something to be desired or agitated for. Indeed, it may often be in the political interests of a state to avoid war. However, any state that wishes to survive must be prepared to meet challenges to its existence, whether from conquest or domination by external forces or revolution and chaos from internal forces. Additionally, a state must be capable of recognizing its own interests and assume sole responsibility for doing so. A state that cannot identify its enemies and counter enemy forces effectively is threatened existentially.

Schmitt's political ideas are, of course, more easily understood in the context of Weimar's political situation. He was considering the position of a defeated and demoralized German nation that was unable to defend itself against external threats, and threatened internally by weak, chaotic and unpopular political leadership, economic hardship, political and ideological polarization and growing revolutionary movements, sometimes exhibiting terrorist or fanatical characteristics.

Schmitt regarded Germany as desperately in need of some sort of foundation for the establishment of a recognized, legitimate political authority capable of upholding the interests and advancing the well-being of the nation in the face of foreign enemies and above domestic factional interests. This view is far removed from the Nazi ideas of revolution, crude racial determinism, the cult of the leader, and war as a value unto itself. Schmitt is clearly a much different thinker than the adherents of the quasi-mystical nationalism common to the radical right-wing of the era. Weimar's failure was due in part to the failure of the political leadership to effectively address the questions raised by Schmitt. 

______________

 

 

*The German title -- Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus -- literally means “the historical-spiritual condition of contemporary parliamentarianism.” The common rendering, “The Crisis of Parliamentary Democracy,” is certainly more euphonious, though it is problematic since one of Schmitt’s central points in the book is that parliamentarianism is not democratic.   

Carl Schmitt - Weimar: State of Exception

Carl Schmitt (Part I)

Weimar: State of Exception

 
 
 
Carl Schmitt (Part I) Carl Schmitt, the Return of the German Army Following World War I (photo: BBC)

Among the many fascinating figures that emerged from the intellectual culture of Germany’s interwar Weimar Republic, perhaps none is quite as significant or unique as Carl Schmitt. An eminent jurist and law professor during the Weimar era, Schmitt was arguably the greatest political theorist of the 20th century. He is also among the most widely misinterpreted or misunderstood.

The misconceptions regarding Schmitt are essentially traceable to two issues. The first of these is obvious enough: Schmitt’s collaboration with the Nazi regime during the early years of the Third Reich. The other reason why Schmitt’s ideas are so frequently misrepresented, if not reviled, in contemporary liberal intellectual circles may ultimately be the most important. Schmitt’s works in political and legal theory provide what is by far the most penetrating critique of the ideological and moral presumptions of modern liberal democracy and its institutional workings.

Like his friend and contemporary Ernst Junger, Schmitt lived to a very old age. His extraordinarily long life allowed him to witness many changes in the surrounding world that were as rapid as they were radical. He was born in 1888, the same year that Wilhelm II became the emperor of Germany, and died in 1985, the year Mikhail Gorbachev became the final General Secretary of the Communist Party of the Soviet Union. Schmitt wrote on legal and political matters for nearly seven decades. His earliest published works appeared in 1910 and his last article was published in 1978. Yet it is his writings from the Weimar period that are by far the most well known and, aside from his works during his brief association with the Nazis, his works during the Weimar era are also his most controversial.

Not only is it grossly inaccurate to regard Schmitt merely as a theoretician of Nazism, but it is also problematical even to characterize him as a German nationalist. For one thing, Schmitt originated from the Rhineland and his religious upbringing was Catholic, which automatically set him at odds both regionally and religiously with Germany’s Protestant and Prussian-born elites. As his biographer Joseph Bendersky noted, Schmitt’s physical appearance was “far more Latin than Germanic” and he had French-speaking relatives. Schmitt once said to the National-Bolshevik leader Ernst Niekisch, “I am Roman by origin, tradition, and right.”

At age nineteen, Schmitt entered the prestigious University of Berlin, which was exceedingly rare for someone with his lower middle-class origins, and on the advice of his uncle chose law as his area of specialization. This choice seems to have initially been the result of ambition rather than specificity of interest. Schmitt received his law degree in 1910 and subsequently worked as a law clerk in the Prussian civil service before passing the German equivalent of the bar examination in 1915. By this time, he had already published three books and four articles, thereby foreshadowing a lifetime as a highly prolific writer.

Even in his earliest writings, Schmitt demonstrated himself as an anti-liberal thinker. Some of this may be attributable to his precarious position as a member of Germany’s Catholic religious minority. As Catholics were distrusted by the Protestant elites, they faced discrimination with regards to professional advancement. Schmitt may therefore have recognized the need for someone in his situation to indicate strong loyalty and deference to the authority of the state. As a Catholic, Schmitt originated from a religious tradition that emphasized hierarchical authority and obedience to institutional norms.

Additionally, the prevailing political culture of Wilhelmine Germany was one where the individualism of classical liberalism and its emphasis on natural law and “natural rights” was in retreat in favor of a more positivist conception of law as the product of the sovereign state. To be sure, German legal philosophers of the period did not necessarily accept the view that anything decreed by the state was “right” by definition. For instance, neo-Kantians argued that just law preceded rather than originated from the state with the state having the moral purpose of upholding just law. Yet German legal theory of the time clearly placed its emphasis on authority rather than liberty.

Schmitt’s most influential writings have as their principal focus the role of the state in society and his view of the state as the essential caretaker of civilization. Like Hobbes before him, Schmitt regarded order and security to be the primary political values and Schmitt has not without good reason been referred to as the Hobbes of the 20th century. His earliest writings indicate an acceptance of the neo-Kantian view regarding the moral purpose of the state. Yet these neo-Kantian influences diminished as Schmitt struggled to come to terms with the events of the Great War and the Weimar Republic that emerged at the war’s conclusion.

Schmitt himself did not actually experience combat during the First World War. He had initially volunteered for a reserve unit but an injury sustained during training rendered him unfit for battle; Schmitt spent much of the war in Munich in a non-combatant capacity. Additionally, Schmitt was granted an extended leave of absence to serve as a lecturer at the University of Strassburg.

As martial law had been imposed in Germany during the course of the war, Schmitt’s articles on legal questions during this time dealt with the implications of this for legal theory and constitutional matters. Schmitt argued that the assumption of extraordinary powers by military commanders was justified when necessary for the preservation of order and the security of the state. However, Schmitt took the carefully nuanced view that such powers are themselves limited and temporary in nature. For instance, ordinary constitutional laws may be temporarily suspended and temporary emergency decrees enacted in the face of crisis, but only until the crisis is resolved. Nor can the administrators of martial law legitimately replace the legislature or the legal system, and by no means can the constitutional order itself be suspended.

Carl Schmitt was thirty years old in November of 1918 when Kaiser Wilhelm II abdicated and a republic was established. To understand the impact of these events on Schmitt’s life and the subsequent development of his thought, it is necessary to first understand the German political culture from which Schmitt originated and the profoundly destabilizing effect that the events of 1918 had on German political life.

Contemporary Westerners, particularly those in the English-speaking countries, are accustomed to thinking of politics in terms of elections and electoral cycles, parliamentary debates over controversial issues, judicial rulings, and so forth. Such was the habit of German thinkers in the Wilhelmine era as well, but with the key difference that politics was not specifically identified with the state apparatus itself.

German intellectuals customarily identified “politics” with the activities surrounding the German Reichstag, or parliament, which was subordinated to the wider institutional structures of German statecraft. These were the monarchy, the military, and the famous civil service bureaucracy, with the latter headed up primarily by appointees from the aristocracy. This machinery of state stood over and above the popular interests represented in the Reichstag, and pre-Weimar Germans had no tradition of parliamentary supremacy of the kind on which contemporary systems of liberal democracy are ostensibly based.

The state was regarded as a unifying force that provided stability and authority while upholding the interests of the German nation and keeping in check the fragmentation generated by quarrelling internal interests. This stability was eradicated by Germany’s military defeat, the imposition of the Treaty of Versailles, and the emergence of the republic.

The Weimar Republic was unstable from the beginning. The republican revolution that had culminated in the creation of a parliamentary democracy had been led by the more moderate social democrats, which were vigorously opposed by the more radical communists from the left and the monarchists from the right.

The Bolshevik Revolution had taken place in Russia in 1917, a short-lived communist regime took power in Hungary in 1919, and a series of communist uprisings in Germany naturally made upwardly mobile middle-class persons such as Schmitt fearful for their political and economic futures as well as their physical safety. During this time Schmitt published Political Romanticism where he attacked what he labeled as “subjective occasionalism.” This was a term Schmitt coined to describe the common outlook of German intellectuals who sought to remain apolitical in the pursuit of private interests or self-fulfillment. This perspective regarded politics as merely the prerogative of the state, and not as something the individual need directly engage himself with. Schmitt had come to regard this as an inadequate and outmoded outlook given the unavoidable challenges that Germany’s political situation had provided.

Schmitt published Dictatorship in 1921. This remains a highly controversial work and subsequent critics of Schmitt who dismiss him as an apologist for totalitarianism or who attack him for having created an intellectual framework conducive to the absolute rule of the Fuhrer during the Nazi period have often cited this particular work as evidence. However, Schmitt’s conception of “dictatorship” dealt with something considerably more expansive and abstract than what is implied by the term in present day popular (or often academic) discourse.

For Schmitt, a “dictatorship” is a situation where a particular constitutional order has either been abrogated or has fallen into what Schmitt referred to as a “state of exception.” As examples of the first kind of situation, Schmitt offered both the Leninist model of revolution and the National Assembly that had constructed the constitutional framework of Weimar. In both instances, a previously existing constitutional order had been dismissed as illegitimate, yet a new constitutional order had yet to be established. A sovereign dictatorship of this type functions to

represent the will of these formless and disorganized people, and to create the external conditions which permit the realization of the popular will in the form of a new political or constitutional system. Theoretically, a sovereign dictatorship is merely a transition, lasting only until the new order has been established.

By this definition, a “sovereign dictatorship” could include political forces as diverse as the Continental Congresses of the period of the American Revolution to the anarchist militias and workers councils that emerged in Catalonia during the Spanish civil war to guerrilla armies holding power in a particular region where the previously established government has retreated or collapsed during the course of an armed insurgency. Schmitt also advanced the concept of a “commissarial dictatorship” as opposed to a “sovereign dictatorship.”

Schmitt used as an illustration of this idea Article 48 from the Weimar constitution. This article allowed the German president to rule by decree in states of emergency where threats to the immediate security of the state or public order were involved. As he had initially suggested in his wartime articles concerning the administration of martial law, Schmitt regarded such powers as limited and temporary in nature and as rescinded by the wider constitutional order once the emergency situation has passed. Contrary to the image of Schmitt as a totalitarian apologist, Schmitt warned of the inherent dangers represented by the powers granted to the president under Article 48, noting that such powers could be used to attack and destroy the constitutional order itself.

The following year, in 1922, Schmitt published Political Theology. This work advanced two core arguments. The first of these was a challenge to the legal formalism represented by German jurists of the era such as Hans Kelsen. Kelsen’s outlook was not unlike that of contemporary American critics of “judicial activism” who regard law as normative unto itself and insist legal interpretation should be restricted to pure law as derived from constitutional texts and statutory legislation, irrespective of wider or related political, sociological or moral concerns. Schmitt considered this to be a naïve outlook that failed to consider two crucial and unavoidable matters: the reality and inevitability of political and social change, and exceptional cases. It was the latter of these that Schmitt was especially concerned with. It was the question of the “state of exception” that continued to be a preoccupation of Schmitt.

Exceptional cases involved situations where emergencies threatened the state itself. For Schmitt, the maintenance of basic order preceded constitutional norms and legal formalities. There is no constitution or law if there is chaos. The important question regarding exceptional cases was the matter of who decides when an emergency situation exists. Schmitt regarded this decision-making power as the prerogative of the sovereign. Within the constitutional framework of Weimar, sovereignty was held jointly by the Reich president and the Reichstag, meaning that the president could legitimately declare a state of emergency and temporarily rule by decree if the Reichstag agreed to grant him such powers.

While Schmitt was certainly a thinker of the Right, it is a mistake to group him together with proponents of the “conservative revolution” such as Moeller van den Bruck, Oswald Spengler, Edgar Jung, or Hugo von Hofmannsthal. There is no evidence of him having expressed affinity for the views of these thinkers or joining any of the organizations that emerged to promote their ideas. Schmitt’s conservatism was squarely within the Machiavellian tradition, and he counted Machiavelli, Hobbes, Jean Bodin and conservative counterrevolutionaries such as Joseph De Maistre and Juan Donoso Cortes as his influences.

During the Weimar era, Schmitt expressed no sympathy for the mystical nationalism of the radical Right, much less the vulgar racism and anti-Semitism of the Nazi movement. He was closer to the anti-liberal thinkers that James Burnham and others subsequently labeled as “the neo-Machiavellians.” These included Vilfredo Pareto, Robert Michels, Gaetano Mosca, and Georges Sorel along with aristocratic conservatives like Max Weber. These thinkers expressed skepticism regarding the prospects of liberalism and democracy and emphasized the role of elites, the irrational, and the power of myth with regards to the political. Though Schmitt never joined a political party during the Weimar era, within the spectrum of German politics of the time he can reasonably be categorized as something of a moderate. He had admirers on both the far Right and far Left, including sympathizers with the Conservative Revolution as well as prominent intellectuals associated with the Marxist Frankfurt School, such as Walter Benjamin, Franz Neumann, and Otto Kirchheimer.

Schmitt’s own natural affinities were mostly likely closest to the Catholic Center Party, which along with the Social Democrats who had led the revolution of 1918 were the most consistently supportive of the republic and the constitutional order, and which represented the broadest cross-section of economic, class, regional, and institutional interests of any of the major parties during Weimar.

Like Hobbes before him, Schmitt was intensely focused on how order might be maintained in a society prone to chaos. Both economic turmoil and political instability continually plagued the republic. Successive political coalitions failed in their efforts to create a durable government and chancellors came and went. The Reichstag was immobilized by the intractable nature of political parties representing narrow class, ideological, or economic interests and possessing irreconcilable differences with one another. Additionally, many of the political parties that formed during the Weimar era, including those with substantial representation in the Reichstag, possessed little or no genuine commitment to the preservation of the republican order itself. Extremist parties, most notably the German Communist Party (KPD) and the National Socialist German Workers Party (NSDAP), or the Nazis, as they came to be called, openly advocated its overthrow. Terrorism was practiced by extremists from both the right and left. Crisis after crisis appeared during the Weimar period, and the parliament was each time unable to deal with the latest emergency situation effectively. The preservation of order subsequently fell to the president. Article 48 of the constitution stated in part:

If a state does not fulfill the duties imposed by the Reich constitution or the laws of the Reich, the Reich president may enforce such duties with the aid of the armed forces. In the event that public order and security are seriously disturbed or endangered, the Reich president may take the necessary measures in order to restore public security and order, intervening, if necessary, with the aid of the armed forces. To achieve this goal, he may temporarily suspend entirely or in part, the stipulated basic rights in articles 114, 115, 117, 118, 123, 124, and 153. All measures undertaken in accordance with sections 1 or 2 of this article must be immediately reported to the Reichstag by the Reich president. These measures are to be suspended if the Reichstag so demands.

As an indication of the unstable nature of the Weimar republic, Article 48 was invoked more than two hundred and fifty times by successive presidents during the republic’s fifteen years of existence.

samedi, 25 septembre 2010

Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?

Un nouveau destin pour le port et la ville de Hambourg? La métropole allemande deviendra-t-elle l'avant-poste de l'Extrême-Orient en Europe? Une "nouvelle Hanse" est-elle en gestation? Comment cela se réalisera-t-il? Un groupe d'architectes, rassemblés autour des époux VOLKENBORN, projettent, avec l'aide officielle du Sénat de la ville, de construire sur les rives de l'Elbe, dans le faubourg d'Altona, un nouveau port qui sera simultanément gare terminale du Transsibérien.

 

Le port de Hambourg connaît de sérieuses difficultés économiques: sur une longueur de 6 km, site envisagé pour la gare terminale du Transsibérien, les grues rouillent et les quais s'effritent. Les forces vives doivent émigrer et le chômage guette ceux qui restent. Hambourg est en cela une sorte de microcosme de l'Europe industrielle. Deux projets existent à l'heure actuelle pour effacer du paysage nord-allemand ce site déshérité: le premier envisage d'y installer un gigantesque lunapark; le second, nous venons de le révéler, c'est d'y construire une installation portuaire et ferroviaire telle, qu'elle révolutionnera le trafic international comme jadis le creusement des canaux de Suez et de Panama.

 

Le Groupe des VOLKENBORN envisage de construire une île artificielle face au vieux port désaffecté, d'où partiraient des voies larges de chemin de fer (identiques à celles du Transsib') qui conduiraient à Lübeck, le port baltique. De là, un ferry transporterait les trains jusqu'à Klaipeda (Memel) en Lituanie soviétique. Dès leur débarquement à Klaipeda, les trains retrouveraient la voie la plus longue du monde, le Transsibérien, qui pourra les conduire jusqu'au rives du Pacifique, en face du Japon.

 

Hambourg deviendrait ainsi la plaque tour-nante d'un circuit d'échanges eurasiens: les marchandises d'Extrême-Orient y seraient débarquées à destination de l'Europe et de l'Afrique tandis que les marchandises européennes et africaines y seraient embarquées à destination des marchés soviétique, chinois et japonais. A plus grande échelle, Hambourg et Lübeck retrouveraient leur rôle du temps de la Hanse: échanger des fourrures russes contre du drap anglais ou flamand.

 

De leur côté, les Soviétiques, qui ont en-tamé des négociations avec les Allemands, veillent à terminer le BAM (Baïkal-Amour-Magistral), une ligne de chemin de fer ultra-moderne, tracée au nord du Transsibérien terminé en 1902 et raccourcissant de 500 à 600 km le trajet Klaipeda-Vladivostock. Ces trains rouleront à 250 km/h et diminueront de manière conséquente la durée et la lon-gueur du trajet maritime usuel. Tandis que les navires à conteneurs les plus modernes mettent, via Suez, trente jours pour arriver en Extrême-Orient et parcourir les 22.000 km qui nous en séparent, le BAM mettra 16 jours pour relier Londres à Yokohama (13.000 km). En outre les coûts de transport seront de 10 à 15% inférieurs à ceux que demandent aujourd'hui les armateurs. La quantité transportable de marchandises sera, quant à elle, multipliée par quatre.

 

Ce projet est appuyé par le bourgmestre de Hambourg, Klaus von DOHNANYI, grand spécialiste du commerce avec l'Extrême-Orient. En 1969 déjà, il avait rédigé un ou-vrage sur les stratégies économiques japo-naises. Entretemps, plus de 150 firmes nippones ont installé leur siège à Hambourg, même si la majorité d'entre elles préfèrent toujours Düsseldorf. Depuis peu, ce sont les Chinois qui se mettent à considérer la cité hanséatique comme la ville d'Europe la plus importante. Les Chinois veulent importer une brasserie complète et prévoient la construction d'un mini-Airbus germano-chinois. Les nouvelles relations commericales sino-germaniques contribuent, indirectement, à apaiser le contentieux sino-soviétique. En ef-fet, les Chinois, pour le transport de leurs marchandises, préfèrent de loin le fer à la mer et conçoivent l'importance du Transsib' et du BAM. Leur intérêt premier sera donc de négocier avec les Soviétiques une utili-sation commune de ces voies ferrées.

 

Autre problème politique qui se verrait ré-glé: les Soviétiques et les Allemands pour-raient éviter, grâce au ferry baltique, de passer par la Pologne, perpétuellement en crise et dangereusement manipulée par les forces rétrogrades de l'Eglise de Rome. Mais, ces forces calamiteuses ne sévissent pas qu'en Pologne: en Allemagne Fédérale, tous les politiciens n'ont pas la clairvoyance de von DOHNANYI et de ses architectes. A Bonn, les armateurs (qui se verraient ruinés), les clowns militaires otanesques, les profes-sionnels de l'anti-communisme à la Fola-mour, ont tout entrepris pour saboter le projet et pour retarder les négociations (Cf. VOULOIR no.14). A Moscou, les dirigeants soviétiques, las de toutes ces tergiversations puériles, n'insistent plus et les autorités est-allemandes entreprennent la construction de ports de ferries à Mukran (Ile de Rügen) et à Wismar.

 

Le projet hambourgeois est-il définitivement mort? Les réalisations est-allemandes à Rügen et à Wismar parviendront-elles à remplacer la fenêtre sur la Mer du Nord qu'est Hambourg? On en doute... Ce projet représente finalement le plus grand défi géopolitique du siècle. S'il se réalise, nos maîtres à penser Karl HAUSHOFER et Hallford John MACKINDER auront eu raison à titre post-hume. La grande unité eurasienne, avec collaboration étroite entre Allemands, Russes, Chinois et Japonais se réalisera. Les mar-chandises africaines pourront atteindre aisément les profondeurs continentales de Sibérie et d'Asie Centrale. La qualité de vie en bénéficiera et les immensités sibériennes pourront s'avérer plus attrayantes. Dans la lutte entre le Léviathan et Béhémoth (Carl SCHMITT), la Terre aura enfin vaincu...

 

En revanche, la non-réalisation du projet, à cause des pressions atlantistes et des intérêts sectoriels des armateurs, condamnera Hambourg à devenir un lunapark ou une cité touristique balnéaire. Où est l'utopie? Certes pas dans le cerveau des époux VOLKENBORN. Le choix entre Orient et Occident, entre le réalisme et les chimères trahit ici un choix de civilisation: ou bien le bon sens de la survie économique à très long terme ou bien les attractions du Cirque Gros-Occidental... Au fond, nous pourrions envoyer pas mal d'"artistes" à Hambourg, si le projet VOLKENBORN est expédié à la poubelle au profit du lunapark: les parlementaires belges, le gouvernement Martens, les Jeunesses Atlantistes, le Général Close Badaboum, les Moonistes et les disciples de LaRouche, les Le Pen Boys, la fine équipe du PTB, Marchais, le couple de pitres paléo-communistes "Rosine Lewine et Louis Van Geyt", l'ex-gouvernement Mitterand, Yves Montand, BHL, une masse impressionnante de prêtres et de pasteurs privés de paroissiens,...

 

Vincent GOETHALS.

 

Source: "Der Spiegel" 1986/No.29 (14-VII); article intitulé "Für China die wichtigste Stadt Europas" (pp. 60 à 67).   

 

Le mouvement aryen en Iran

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Le mouvement aryen en Iran

 
ll y a maintenant en Russie beaucoup de publications consacrées à la révolution islamique, quand la monarchie fut renversée et qu’il y eut un Etat des mollahs. Les historiens et les journalistes qui rendent célèbre la révolution islamique passent consciemment sous silence ce que se passa en Iran jusqu’en 1978.

Il est naturel qu’un pays dont le nom vient du mot Aryanam-vaejo, c’est-à-dire le pays des Aryens, n’ait pu rester indifférent aux événements européens. La religion et la tradition islamiques furent imposées au pays d’abord par les conquérants arabes, puis par les fondamentalistes musulmans. Dans le pays de Zoroastre, Kir, Darius, Iskander et Rustem, elles sont étrangères. De plus, les nouveaux venus turco-mongols inondant au XIIIe siècle toute l’Asie supprimèrent toute l’élite persane. Jusqu’au siècle dernier les Turcs occupaient les postes-clés dans l’armée persane et dans le gouvernement, ce qui mena le pays à l’appauvrissement et à la dévastation.

Pour lutter contre la contagion révolutionnaire les Perses à l’exemple des Russes commencèrent à utiliser des cosaques, qui créèrent la brigade persane des cosaques. Le commandant de cette brigade devint bientôt le jeune et talentueux Mohamed Reza, qui était le fils d’un riche paysan persan. Reza détruisit d’abord les révolutionnaires et les séparatistes, puis tourna ses troupes vers Téhéran.

S’étant mis à la tête du gouvernement, il tâcha par tous les moyens de discréditer le shah, qu’il détestait. En 1925, le Premier ministre, profitant de l’absence du shah, l’accusa d’incompétence et le démit. Mohamed Reza décida de fonder une nouvelle dynastie Pahlavi, d’après l’ancien nom des rois parthes. Pendant le couronnement, le shahinshah (l’empereur) frais émoulu, imitant Charlemagne, arracha la couronne des mains du religieux qui devait le couronner. Alors l’un des hommes politiques présents prononça cette phrase historique : « Enfin un homme appartenant à la race aryenne est arrivé à la tête de notre Etat ».

Le nouveau shah proclama la nécessité de l’européisation : le costume européen et le calendrier solaire furent introduits, les noms des villes et des mois du vieil Iran furent rétablis. Les journaux et la radio commencèrent à glorifier la grandeur de l’ancien Iran, prêchant partout le nationalisme persan. En politique étrangère le shah s’orienta vers l’Italie fasciste, à l’exemple de laquelle furent créés de nombreux détachements de jeunesse scouts. Le shah souligna par tous les moyens que son arrivée au pouvoir était une sorte de révolution fasciste.

Mais la jeunesse était encore plus attirée par le mouvement pour la pureté de la race aryenne en Allemagne, que préconisait l’hebdomadaire l’« Iran-e-bastan » (L’Ancien Iran) et le groupe formé autour de lui. La jeunesse organisait des manifestations bruyantes en soutien aux nazis allemands, manifestations qui finissaient le plus souvent par des heurts avec la police, parce que le shah était très réservé concernant le parti d’Hitler. Cependant l’influence du national-socialisme germanique était très grande en Iran : le général Zahedi, le Parti Nationaliste de l’Iran, plusieurs représentants du clergé et des députés du Medjlis (le parlement iranien) sympathisaient avec lui. Même le parti gouvernemental « Iran Novin » (Nouvel Iran), créé en 1929, prit la croix gammée comme emblème.

La propagande du national-socialisme en Iran se renforça après l’arrivée au pouvoir d’Hitler en 1933. Le Troisième Reich commença à aider l’Iran avec des techniciens et des spécialistes. Des étudiants et des officiers iraniens firent leurs études en Allemagne. La propagande hitlérienne radiodiffusait sur la nécessité de l’union entre les « Aryens du Nord » et la « nation de Zoroastre » ; en plus de cela, les Perses étaient considérés comme des Aryens pur sang et par un décret spécial furent exemptés de l’application des lois raciales de Nuremberg. Après cela en Iran vinrent souvent d’Allemagne des conférenciers pour des sujets raciaux, et des peintres allemands, qui organisaient là des expositions de tableaux glorifiant la race aryenne.

Quand, en 1937, l’Iran reçut la visite du leader de la jeunesse allemande Baldur von Schirach, on lui organisa une réception pompeuse, et la jeunesse iranienne défila le bras tendu. Cette activité effraya le shah, qui voyait en cela une menace pour son pouvoir. D’autant plus que la même année on découvrit un complot ayant à sa tête le lieutenant M. Dzhadzhuz, qui voulait renverser le shah et établir une dictature de droite. Après l’exécution des révoltés, le shah interdit le national-socialisme dans le pays et ordonna de fermer l’« Iran-e-bastan ». Le mouvement national-socialiste avec à sa tête le docteur Dzhahansuzi entra dans la clandestinité.

Mais la propagande nazie en Iran se poursuivit quand même. Elle agissait officiellement – par les journaux et les consulats allemands – et illégalement. Une fois une affaire fit scandale : le bulletin officiel iranien publia l’article de A. Rosenberg : « Où la race aryenne s’est le mieux conservée », offensant les sentiments des musulmans. Les Allemands durent annoncer que Hitler avait accepté l’islam pour retrouver la sympathie du petit peuple iranien. Vers 1940 les Allemands devinrent tellement audacieux qu’une « maison Brune » fut ouverte à Téhéran et qu’ils procédèrent à la construction de la « Naz’jabada » (la ville des nazis), à laquelle participèrent les membres de l’organisation « Melli modafe » (la Protection Nationale) de la jeunesse radicale de droite. Les consulats allemands répandaient activement « Mein Kampf » et le bulletin « l’Aryen » en farsi.

Dès 1940 dans le pays apparurent de nouveaux groupements radicaux de droite : « Kabud » (Bleu), « Millet » (Nation), « Mejhanparastan » (les Patriotes), l’« Iran-e-bidar » (l’Iran Réveillé), « Shijahtushan » (les Manœuvres), « Pejkar » (la Lutte), « Mejhan » (la Patrie), « Istikal » (Indépendance), ainsi que l’organisation« Nehzat-e-melli » des officiers nazis (le Mouvement national). Toutes ces organisations s’unirent en 1942 au parti « Mellijun Iran » (les Nationalistes iraniens). Le renforcement de la droite radicale fut notamment la raison de l’occupation de l’Iran par les troupes de la coalition anti-hitlérienne.

Après leur départ en 1949, il y eut un Parti national des ouvriers socialistes. En 1951, les sections d’assaut de cette organisation saccagèrent l’exposition des marchandises soviétiques. Dès 1952, le Parti de la nation iranienne s’orienta contre le capitalisme et l’impérialisme, mais agit aussi contre le communisme pour la protection de la nation et de la monarchie. Le Parti des travailleurs de l’Iran et le groupement « Troisième force » manifestaient avec des slogans analogues.

vendredi, 24 septembre 2010

Tomislav Sunic sur "Radio Courtoisie"

Sur Radio Courtoisie

Pour honorer le "Grand Héritage" ou comment il faudrait pavoiser...

Les flamboyantes bannières du "Grand Héritage"

Termonde, 4 septembre 2010. Visite de Pavel Toulaiev dans la cité flamande. Sur les façades de l'Hôtel de Ville, les couleurs de Bourgogne et de Charles-Quint, le splendide aigle bicéphale!

A Termonde, on honore le "Grand Héritage" de Marie de Bourgogne, comme le nommait l'historien Luc Hommel.

Magnifique vision dans un pays soumis à la grisaille de politiciens sans substance et sans foi!

Quelle merveille que ces couleurs face aux fadeurs des tricolores qui ne nous ont apporté que déboires, déchéances, vulgarités et malheurs!

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Photos: RS 

mardi, 21 septembre 2010

De la Croatie par défaut à l'Occident par excès

De la Croatie par défaut à l’Occident par excès

par Georges FELTIN-TRACOL

hl_croatie_pays_defaut.jpgAncien enseignant en sciences politiques aux États-Unis, ex-diplomate croate, maîtrisant parfaitement l’anglais, l’allemand et le français, auteur d’articles remarquables dans Éléments ou Catholica, Tomislav Sunic vient de publier aux Éditions Avatar son premier ouvrage rédigé dans la langue de son cher Céline, La Croatie : un pays par défaut ?. Il faut se réjouir de cette sortie qui, prenant prétexte du cas croate, ausculte avec attention le monde contemporain occidental. Précisons tout de suite que ce livre bénéficie d’une brillante préface de Jure Vujic, responsable par ailleurs d’un exceptionnel article « Vers une nouvelle “ epistémè ” des guerres contemporaines » dans le n° 34 de la revue Krisis sur la guerre.

 

La Croatie : un pays par défaut ? est un ouvrage essentiel qui ne se limite pas aux seuls événements historiques liés à l’indépendance croate des années 1990. Avec le regard aigu du sociologue, du linguiste, du philosophe et du géopoliticien, Tomislav Sunic examine l’Occident-monde postmoderniste en se référant à son vécu d’ancien dissident qui a grandi dans la Babel rouge de Joseph Tito. L’auteur a ainsi acquis une expérience inestimable que ne peuvent avoir les chercheurs occidentaux sur le communisme.

 

De ce fait et à travers maints détails, il constate que l’Occident ressemble étonnamment au monde communiste en général et à la Yougoslavie en particulier. Il lui paraît d’ailleurs dès lors évident que « l’échec de la Yougoslavie multiculturelle fut également celui de l’architecture internationale édifiée à Versailles en 1919, à Potsdam en 1945 et à Maastricht en 1992 (p. 188) ». C’est la raison fondamentale pour laquelle les grandes puissances occidentales firent le maximum pour que n’éclate pas l’ensemble yougoslave. À la fin de la décennie 1980, les États occidentaux témoignaient d’une sympathie indéniable envers l’U.R.S.S., la Yougoslavie et la Tchécoslovaquie avec le secret espoir d’empêcher des désintégrations qui risqueraient de perturber durablement les flux marchands mondiaux.

 

En ces temps d’amnésie historique, Tomislav Sunic revient sur la tragédie méconnue des Volksdeutsche, des Allemands des Balkans, massacrés en 1944 – 1945 par les partisans titistes au point que « le favori de longue date des Occidentaux, l’ex-dirigeant communiste yougoslave et défunt maréchal Josip Broz, avait un passé bien plus chargé d’épurations ethniques et de meurtres de masse (p. 187) ». Il aurait pu aussi rappeler ce qu’on sait peu et que savait certainement Charles de Gaulle qui n’a jamais apprécié l’imposteur. « Natif d’Odessa où son patronyme était Wais, signale Jean-Gilles Malliarakis, il usurpe l’identité de Josip Broz, révolutionnaire communiste croate et son pseudonyme de résistant correspondait au sigle T.I.T.O. de Tajna Internationalna Terroricka Organizatia en serbe (1). » En note, il précisait qu’« après guerre, la mère de Josip Broz ne reconnaîtra pas Tito (2) ». Ces omissions de première importance démontrent que, loin de l’idéal autogestionnaire de la Deuxième Gauche hexagonale, la « Titoslavie » n’était pas le paradis terrestre en édification, mais un banal système communiste soumis à la terreur diffuse et implacable de la police politique secrète.

 

Si on peut déplorer que Tomislav Sunic donne une interprétation banale et convenue de l’œuvre européenne du cardinal Richelieu (3), il insiste, en revanche, sur l’importance géopolitique des Balkans tant en stratégie que dans la mise en place des futurs réseaux de transports d’énergie (oléoducs et gazoducs). Depuis la fin de la Yougoslavie s’est manifesté le « cheval de Troie des États-Unis » avec le soutien total de Washington envers des entités fantoches comme la Bosnie-Herzégovine et le Kossovo, ou mafieuses tel le Monténégro.

 

La Yougoslavie, anticipation de l’Occident !

 

Pour Tomislav Sunic, cet appui occidental n’est pas seulement utilitariste ou à visée géopolitique, il est aussi et surtout idéologique parce que, pour le Système occidental, la fédération de Tito « à bien des égards, représentait une version miniature de leur propre melting pot (p. 81) ». La comparaison n’est pas anodine, ni fortuite.

 

L’auteur discerne dans les sociétés multiraciales post-industrielles d’Occident des facteurs d’explosion similaires aux premiers ferments destructeurs de la Yougoslavie. En effet, « la société multiculturelle moderne, comme l’ex-Yougoslavie l’a bien montré, est profondément fragile et risque d’éclater à tout instant. Ce qui fut le cas en ex-Yougoslavie peut se produire au niveau interethnique et interracial à tout instant, en Europe comme aux États-Unis (pp. 60 – 61) ». De plus, pensé et voulu comme une amitié forcée et fictive entre les peuples, « le multiculturalisme, quoique étant un idéal-cadre de l’Union européenne, peut facilement aboutir à des conflits intra-européens mais également à des conflits entre Européens de souche et allogènes du Tiers-Monde (p. 210) ». Enfin, « l’ex-Yougoslavie fut un pays du simulacre par excellence : ses peuples n’ont-ils pas simulé pendant cinquante ans l’unité et la fraternité ? (p. 206) ». Le projet européen n’est-il pas une nouvelle illusion ?

 

L’auteur développe éclaircit ce rapprochement osé : l’Occident serait donc une Yougoslavie planétaire en voie de délitement. Il s’inquiète par exemple de l’incroyable place prise dans les soi-disant « démocraties libérales de marché » des lois liberticides en histoire (conduisant à l’embastillement scandaleux de Vincent Reynouard), du « politiquement correct », de la novlangue cotonneuse et de l’éconolâtrie. Pour lui, ces cas d’entrave patents prouvent que « l’Union se trouve déjà devant un scénario semblable à celui de l’ex-Yougoslavie, où elle est obligée de modifier ses dispositifs juridiques pour donner un semblant de vraisemblance à sa réalité surréaliste (p. 126) ».

 

La multiplication des actions contre les opinions hérétiques en France, en Allemagne, en Grande-Bretagne, témoignent de la volonté des oligarchies transnationales et de leurs relais politiques à exiger par la coercition plus ou moins douce une mixité mortifère et ultra-marchande. « Le rouleau compresseur du globalisme triomphant entend détruire les identités substantialistes (nationales, locales, généalogiques) et les identités “ par héritage ” qui font du citoyen le membre d’une communauté définie par l’histoire, par la continuité de l’effort de générations sur le même sol – pour leur substituer le nouveau mythe de la citoyenneté postmoderne, une sorte de bric-à-brac constructiviste, à savoir la citoyenneté “ par scrupules ” qui ne reconnaît le citoyen qu’en tant que simple redevable à la communauté dont il est membre et à laquelle il oppose l’humanité sans frontière des droits de l’homme immanents et sa propre individualité (p. 70) ». Une puissante pression psychologique s’impose à tous, sans la contrainte nécessaire, et « à l’instar de la Yougoslavie défunte, les sociétés multiculturelles ne réussissent jamais à accommoder les identités de tous les groupes ethniques (p. 68) ».

 

Naissance archétypale de l’homme occidental soviétique

 

En fin observateur, Tomislav Sunic avance aussi que les formules venues d’outre-Atlantique ne conviennent finalement pas aux attentes matérielles (ou matérialistes) des peuples de l’ancien bloc communiste pétris par des années de bolchevisme triomphant. Ces peuples – désemparés de ne pas bénéficier d’un autre culte du Cargo – « vont vite se rendre compte que l’identité de l’homo americanus ne diffère pas beaucoup  de celle de son homologue, l’homo jugoslavensis (p. 114) ». Il relève plus loin que « le mimétisme de l’homo sovieticus a trouvé son double dans le mimétisme de l’homo occidentalis (p. 239) » et considère qu’une « identité paléo-communiste subsiste toujours dans les structures mentales de la population post-yougoslave, partout dans les Balkans (p. 34) ». Le communisme comme le libéralisme a a tué les peuples ! Il en découle chez les Européens de l’Est une immense déception à l’égard des « nouvelles élites […] issues, pour la plupart, de l’ancienne nomenklatura communiste, habilement reconvertie au modèle libéral, directement issue du système de structuration soviétique (p. 53) ». Auraient-ils compris que l’ultra-libéralisme mondialiste serait le stade suprême du communisme ?

 

Comme Guy Debord qui, prenant acte de la fin des blocs, annonçait dans ses Commentaires sur la société du spectacle l’émergence d’un spectaculaire intégré dépassant les spectaculaires diffus et concentré, Tomislav Sunic entrevoit un processus de fusion en cours entre les types occidental et communiste afin de créer un homme occidental soviétique. Celui-ci aurait « une existence combinant le charme et le glamour de l’homo americanus, comme dans les films américains, tout en jouissant de la sécurité sociale et psychologique offerte par l’homo jugoslavensis ! (p. 115) ». Ainsi apparaît la figure rêvée de la social-démocratie, du gauchisme et du libéralisme social… Stade final du bourgeois, l’homme occidental soviétique est le Travailleur postmoderniste de l’ère mondialiste. Il s’épanouit dans la fluidité globalitaire marchande. « La globalisation de l’économie n’est nullement une simple extension des échanges commerciaux et financiers, comme le capitalisme l’a connue depuis deux siècles. À la différence de l’internationalisation qui tend à accroître l’ouverture des économies nationales (chacune conservant en principe son autonomie), la globalisation ou mondialisation tend à accroître l’intégration des économies. Elle affecte les marchés, les opérations financières et les processus de production, réduit le rôle de l’État et la référence à l’économie nationale (p. 42). » Les ravages torrentiels de la mondialisation atteignent tous les pays, y compris les États les plus récents. Ainsi, « le folklorisme de masse qui fut l’unique manifestation de l’identité croate à l’époque yougoslave et communiste, fut après l’éclatement de la Yougoslavie, vite suivie par la coca-colisation des esprits au point que la symbolique nationaliste croate est devenue une marchandise – au grand plaisir des classes régnantes en Occident (p. 58) ». Après une période d’exaltation nationale, voire nationaliste, correspondant à la présidence de Franjo Tudjman, les responsables croates actuels ont tout fait pour l’évacuer, l’oublier et accentuer au contraire une occidentalisation/mondialisation qui flatte leur internationalisme d’antan… Pis, « les élites post-néo-communistes croates […] n’ont jamais aspiré à l’indépendance de la Croatie et n’ont jamais eu, il faut le dire clairement, une quelconque vision d’une identité croate matricielle et fondatrice (p. 238) ». On retrouve ce manque de volonté nationale en Ukraine. Les nouvelles oligarchies, croate ou ukrainienne, salue le produit du Mur de Berlin et de Wall Street : l’homme occidental soviétique.

 

Victimes, histoire et mémoire

 

Tomislav Sunic retrace l’historique de la fin du modèle yougoslave. Avant d’être le père de la Croatie indépendante, Franjo Tudjman fut un compagnon de route de Tito et un responsable communiste. Puis, écarté des cénacles dirigeants, il se passionna pour l’histoire, en particulier pour la Seconde Guerre mondiale, au risque de se faire accuser par certains cénacles mi-officieux et demi-mondains de « révisionniste »… Dans sa belle préface, Jure Vujic considère que l’identité nationale croate « qui à bien des égards, se trouve bousculée par les défis du globalisme, les processus intégrationnistes régionaux et supranationaux, à bien du mal à se stabiliser dans un espace-temps exsangue et à mûrir autour d’un projet politique commun, libéré des réminiscences et du trop-plein d’histoire fratricide hérités de la Deuxième Guerre mondiale (p. 12) ». Bien avant le déchaînement titanesque des violences nationales et étatiques, les antagonismes ne se cachaient pas et s’exposaient plutôt par l’intermédiaire d’une « guerre des mots » et de revendications mémorielles perceptibles lors des compétitions de football. En estimant avec raison que « dans le monde vidéosphérique d’aujourd’hui, l’image de guerre incite fatalement au narcissisme et à l’individualisme extrême (p. 207) », Tomislav Sunic ponte le rôle belligène des médias qui se sont substitués à l’intelligentsia. « De même qu’il n’y a pas de guerre sans morts, il ne peut plus aujourd’hui y avoir de guerre sans mots d’ordre, donc sans communication (p. 197) », d’où la montée en puissance dans les coulisses du pouvoir des spin doctors, ces agents d’influence très grands communicants. Pour parvenir à leurs fins, ils pratiquent « tout d’abord, les actions “ pédagogiques ” à long terme, ensuite le conditionnement des esprits et le modelage des mentalités (p. 198) ». Ils portent ainsi jusqu’à l’incandescence les opinions publiques facilement manipulables.

 

tomislav_sunic_2eaf3.jpgLes médias accaparent la thématique victimaire. Dorénavant, toute mémoire, identité ou communauté soucieuse d’acquérir une légitimité se pose avant tout en victime. Or « toute identité victimaire est par définition portée à la négation ou au moins à la trivialisation de la victimologie de l’Autre (p. 213) ». Pourtant, rappelle Tomislav Sunic, « l’esprit victimaire découle directement de l’idéologie des droits de l’homme. Les droits de l’homme et leur pendant, le multiculturalisme, sont les principaux facteurs qui expliquent la résurgence de l’esprit victimaire (p. 219) ». Loin d’être les ultimes exemples d’antagonismes nationalitaires meurtriers propres aux XIXe et XXe siècles, les conflits yougoslaves ont préfiguré les guerres postmodernistes. La Post-Modernité qui met au cœur de sa logique l’identité. Au risque de se mettre à dos tous les néo-kantiens, l’auteur croît que « toute identité, qu’elle soit étatique, idéologique, nationale ou religieuse, est à la fois la victime et le vecteur d’un engrenage qui aboutit souvent à la violence et à la guerre (p. 37) ». L’identité est donc l’inévitable corollaire du politique.

 

Il faut néanmoins prendre ici le terme « identité » dans son acception d’identique, de similitude, parce que « souvent, ce sont les ressemblances et non les différences qui provoquent les conflits, surtout lorsque ces conflits prennent la forme d’une rivalité mimétique (p. 70) ». Autrement dit et dans le contexte croate, « peut-on être Croate aujourd’hui sans être antiserbe ? (p. 37) ». La réponse serait affirmative si n’entraient pas en ligne de compte d’autres paramètres. « De l’affirmation d’une identité patriotique fondée sur l’ethnos et le mythos, écrit Jure Vujic, la Croatie d’aujourd’hui est à la recherche d’un “ piémontisme axiologique ” qui n’est autre qu’une identité de valeurs communes (p. 16) ». Et puis, « dans notre postmodernité, poursuit Tomislav Sunic, c’est l’Union européenne et l’Amérique qui décident, dans une large mesure, de l’identité d’État croate et même de l’identité supra-étatique de la Croatie dans un monde futur (p. 74) ». Par ailleurs, « avec et dans l’Union européenne, les valeurs marchandes imposent une hiérarchie des valeurs qui va directement à l’encontre de la survie des petits peuples (p. 57) ». Le postmodernisme multiculturaliste et ultra-individualiste s’apparente à une broyeuse de cultures enracinées. Il détient pourtant en lui ses propres objections.

 

Les paradoxes explosifs de la postmodernité multiculturelle

 

Oui, la postmodernité (ou plus exactement selon nous, l’ultra-modernité) creuse sa propre tombe en suscitant des contradictions insurmontables. Pour Tomislav Sunic, « le multiculturalisme est […] une constellation de politiques et de pratiques qui cherche à concilier l’identité et la différence, à déconstruire et à relativiser la métaculture des sociétés post-industrielles (p. 47) ». Puisque « le problème de l’identité en tant qu’altérité est devenu essentiel dans l’Occident postmoderne (p. 211) », la seule réponse « politiquement correcte » apte est l’acceptation du fait multiculturel (l’empilement individualiste et chaotique de communautés de nature ou de choix) et le rejet du corps social homogène. « Le pluralisme classificatoire qu’induisent les droits positifs en faveur de populations stigmatisées ou discriminées en fonction de l’âge et du sexe est interprété, notamment en Europe, comme une déstructuration de l’homogénéité sociale et culturelle de la nation et du concept de citoyenneté (pp. 41 – 42). » Il appert que « le choix d’un style de vie individuel, la tribalisation et l’atomisation de la société moderne ainsi que la multiculturalisation de la société européenne, rendent l’analyse de l’identité nationale croate encore plus compliquée. Même les Croates modernes, qui sont bien en retard en matière d’identité d’État, doivent faire face à une multitude de nouvelles identités. Leur identité nationale varie au gré des circonstances internationales, ces changements se juxtaposent quotidiennement et ils remettent en cause leur ancien concept d’identité nationale. On pourrait facilement qualifier ces nouvelles identités juxtaposées d’identités apprises ou acquises, par rapport aux anciennes identités qui relevaient de la naissance et de l’héritage culturel (pp. 49 – 50) ». Dans ces conditions, doit-on vraiment s’étonner qu’« à défaut d’une diplomatie cohérente, les eurocrates préfèrent tabler sur une identité croate consumériste et culinaire, et miser sur une classe politique locale aussi corrompue que criminogène (p. 232) » ? L’identité subit une pseudomorphose : « peu à peu, l’ancienne identité nationale, voire nationaliste, qui sous-entendait l’appartenance à un terroir historique bien délimité, est supplantée par le phénomène du communautarisme sans terroir – surtout dans les pays occidentaux qui ont subi une profonde mutation raciale (p. 38) ».

 

Malgré l’affirmation répétitive et incantatoire des valeurs fondatrices de l’actuelle entreprise européenne, à savoir un antifascisme obsessionnel et fantasmatique pitoyable, la multiplication des contentieux mémoriels résultant du fait multiculturaliste renforce une « rivalité des récits victimaires [qui] rend les sociétés multiculturelles extrêmement fragiles. Par essence, tout esprit victimaire est conflictuel et discriminatoire. Le langage victimaire est autrement plus belligène que l’ancienne langue de bois communiste et il mène fatalement à la guerre civile globale (p. 220) ». Extraordinaire paradoxe ou hétérotélie selon les points de vue ! Surtout que « dans une société pluri-ethnique et multiculturelle, l’identité des différents groupes ethniques est incompatible avec l’individualisme du système libéral postmoderne (pp. 37 – 38) ». Tomislav Sunic ajoute que « la schizophrénie du monde postmoderne consiste, d’une part, dans la vénération absolue de l’atomisation individualiste qui met en exergue l’identité individuelle et consumériste, et d’autre part, dans le fait qu’on est tous devenu témoin du repli communautaire et de la solidarité raciale (p. 39) ».

 

Certes, si Jure Vujic craint que « la Croatie comme toutes les “  démocraties tardives ”, ainsi qu’aime à le dire la communauté internationale, se doit de transposer de manière paradigmatique le sacro-saint modèle libéral, politique et économique, sans prendre en considération les prédispositions psychologiques, historiques et sociales spécifiques du pays (p. 13) », « pour l’instant, lui répond Sunic, les Croates, comme tous les peuples est-européens, ignorent complètement le danger de la fragmentation communautaire. La société croate, au début du IIIe millénaire, du point de vue racial est parfaitement homogène, n’ayant comme obsession identitaire que le “ mauvais ” Serbe. Pourtant, il ne faut pas nourrir l’illusion que la Croatie va rester éternellement un pays homogène. Le repli communautaire dont témoignent chaque jour la France et l’Amérique, avec le surgissement de myriades de groupes ethniques et raciaux et d’une foule de “ styles de vie ” divers, deviendra vite la réalité, une fois la Croatie devenue membre à part entière du monde globalisé (p. 38) ». La Croatie parviendra-t-elle enfin au Paradis occidental ? Rien n’est certain. En observant les pesanteurs de l’idéologie victimaire sur l’opinion et constatant que « souvent, la perception d’un groupe ira jusqu’à se considérer comme la victime principale d’un autre groupe ethnique (p. 68) », Tomislav Sunic y devine l’amorce de futurs conflits.

 

Des guerres communautaires à venir

 

« On a beau critiquer le communautarisme et l’identité nationale et en faire des concepts rétrogrades, relève l’auteur, force est de constater que le globalisme apatride n’a fait qu’exacerber la quête d’identité de tous les peuples du monde (p. 61). » Bonne nouvelle ! La vision morbide et totalitaire d’une humanité homogène ne se réalisera jamais. Ses adeptes chercheront quand même à la faire en se servant de cette idéologie moderne par excellence qu’est le nationalisme. « À l’instar des nationalistes classiques, le trait caractéristique des nationalistes croates est la recherche de la légitimité négative, à savoir la justification de soi-même par le rejet de l’autre. Impossible d’être un bon Croate sans être au préalable un bon antiserbe ! Ceux qui en profitent le plus sont les puissances non-européennes : jadis les Turcs, aujourd’hui l’Amérique ploutocratique et ses vassaux européens. Ce genre de nationalisme jacobin, qu’on appelle faussement et par euphémisme, en France, le souverainisme, ne peut mener nulle part, sauf vers davantage de haine et de guerres civiles européennes (p. 53). »

 

Un regain ou une résurgence du nationalisme étatique moderne n’empêchera pas la « contagion postmoderniste » de la Croatie, ni d’aucun autre État post-communiste. Bien au contraire ! « Les mêmes stigmates de la décomposition identitaire occidentale sont visibles en Croatie, qui subit les assauts conjugués d’une dénationalisation politique et institutionnelle ainsi qu’un raz-de-marée de réseaux “ identitaires ” relevant de la postmodernité. Université, presse, politique, syndicat, on pourrait poursuivre la liste : administration, clubs, formation, travail social, patronat, Églises, etc., le processus néo-tribal a contaminé l’ensemble des institutions sociales. Et c’est en fonction des goûts sexuels, des solidarités d’écoles, des relations amicales, des préférences philosophiques ou religieuses que vont se mettre en place les nouveaux réseaux d’influence, les copinages et autres formes d’entraide qui constituent le tissu social. “ Réseau des réseaux ”, où l’affect, le sentiment, l’émotion sous leurs diverses modulations jouent le rôle essentiel. Hétérogénéisation, polythéisme des valeurs, structure “ hologrammatique ”, logique “ contradictionnelle ”, organisation fractale (p. 50). »

 

On le voit : Tomislav Sunic « dévoile “ au scalpel ” les dispositifs subversifs, psychologiques et sociopolitiques, qui sont actuellement à l’œuvre dans une matrice identitaire croate qui reste très vulnérable face aux processus pathogènes de l’occidentalisation, assène Jure Vujic (p. 21) ». Les Croates ont obtenu un État-nation et une identité politique au moment où ceux-ci se délitent, dévalorisés et concurrencés par un foisonnement d’ensembles potentiellement porteurs d’identités tant continentales que vernaculaires ou locales (4). Le décalage n’en demeure pas moins patent entre l’Ouest et le reste de l’Europe ! « La petite Estonie, la Croatie et la Slovaquie vont bientôt réaliser que dans l’Europe transparente d’aujourd’hui, on ne peut plus se référer aux nationalismes du XXe siècle. Après avoir refusé le jacobinisme des Grands, ils se voient paradoxalement obligés de pratiquer leur propre forme de petit jacobinisme qui se heurte fatalement aux particularismes de leurs nouveaux pays. Sans nul doute, affirme alors Sunic, la phase de l’État-nation est en train de se terminer dans toute l’Europe et elle sera suivie par un régime supranational. Peu importe que ce régime s’appelle l’Union européenne ou le IVe Reich (p. 57). » Et si c’était plutôt l’Alliance occidentale-atlantique ou le califat universel ?

 

Dans sa riche préface, Jure Vujic s’élève avec vigueur contre le supposé « retour en Europe » des anciens satellites soviétiques. En appelant à une « réappropriation de l’identité grand-européenne » de la croacité, il appelle à une réflexion majeure sur l’Europe de demain, celle qui surmontera les tempêtes de l’histoire.

 

Seule une prise de conscience générale de leur européanité intrinsèque permettra aux peuples autochtones du Vieux Continent de contrer le travail corrosif de l’Occident moderne, du multiculturalisme et du postmodernisme. La transition des sociétés pré-migratoires et migratoires (Croatie et Ukraine par exemple) vers des sociétés post-migratoires (Europe occidentale) risque de provoquer une riposte identitaire virulente de la part de peuples européens (ou de certaines couches sociales) les moins séniles. « Une guerre larvée et intercommunautaire entre des bandes turcophones et arabophones vivant en Allemagne ou en France, et des groupes de jeunes Allemands ou Français de souche ne relèvent plus d’un scénario de science-fiction (p. 125) », avertit Tomislav Sunic. Il tient pour vraisemblable que « le nationalisme inter-européen d’antan, accompagné par la diabolisation de son proche voisin, comme ce fut le cas entre les Croates et les Serbes, peut dans un proche avenir devenir périmé et être supplanté par une guerre menée en commun par les Serbes et les Croates contre les “ intrus ” non-européens (pp. 38 – 39) ». La réalisation effective d’une identité politique et géopolitique européenne s’en trouverait grandement renforcée et annulerait le présent dilemme des populations croates par défaut et occidentalisées par excès. C’est dire, comme le remarque Jure Vujic, que « le livre de Tomislav Sunic […] constitue […] un éclairage politologique et philosophique considérable sur l’actuelle transition de l’identité croate dans la postmodernité (pp. 17 – 18) ». Une lecture indispensable en ces temps incertains et désordonnés.

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Jean-Gilles Malliarakis, Yalta et la naissance des blocs, Albatros, 1982, p. 152.

 

2 : Idem. Ajoutons en outre qu’on n’a pas de sources exactes quant à la naissance de Tito. Ce dernier parlait d’ailleurs un mauvais serbo-croate avec un accent russe,  loin de sa prétendue région natale au nord de la Croatie. Sa syntaxe était également mauvaise.

 

3 : Tomislav Sunic reprend une erreur courante quand il qualifie « le Conseil de l’Europe […de…] corps législatif (p. 137) ». Il confond le Parlement européen et le Conseil de l’Europe qui tous deux siègent à Strasbourg. Le Conseil de l’Europe ne relève pas de l’Union européenne puisque ses membres sont tous les États du continent – sauf le Bélarus qui est un invité spécial -, la Turquie et l’Azerbaïdjan. Sont membres observateurs les États-Unis, le Canada, Israël, le Mexique et le Japon…

 

De ce Conseil procède la Convention européenne des droits de l’homme et sa sinistre Cour qui entérine les lois liberticides et encourage la fin des traditions européennes.

 

Il ne faut pas mélanger ce conseil avec le Conseil européen qui  réunit les chefs d’État et de gouvernement, ni avec le Conseil de l’Union européenne rassemblant les ministres des États-membres pour des problèmes de leurs compétences.

 

4 : Une fois la Croatie membre de l’U.E., il se posera la question de l’adhésion à l’Union européenne des autres États ex-yougoslaves. À la demande expresse de Franjo Tudjman, la Constitution croate, par l’article 141, interdit explicitement toute reconstitution d’une union balkanique. Or l’arrivée de la Serbie, de la Bosnie-Herzégovine, du Monténégro, etc., dans l’U.E. ne sera-t-elle pas perçue comme la reformation d’un ensemble slave du sud dans le giron eurocratique et atlantiste ? Zagreb ne risquera-t-il pas de poser son veto à l’entrée de Belgrade, de Sarajevo ou de Skopje ?

 

• Tomislav Sunic, La Croatie : un pays par défaut ?, préface de Jure Vujic, Éditions Avatar, coll. « Heartland », 2010, 252 p., 26 €.


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lundi, 20 septembre 2010

Le Who's Who du fascisme européen

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

 

Le Who's Who du fascisme européen

Le Who's Who du fascisme européen est paru en Norvège depuis six ans déjà, grâce aux travaux de trois universitaires d'Oslo, Stein Ugelvik LARSEN, Bernt HAGTVET et Jan Petter MYKLEBUST. Le bilan de leurs travaux est paru aux éditions universitaires d'Oslo en langue anglaise, ce qui nous en facilite la lecture, même si l'on serait tenté de déplorer l'anglicisation systématique des travaux académiques. L'intérêt pour le fascisme n'a cessé de croître depuis une quinzaine d'années. On a essentiellement retenu les noms de NOLTE en RFA, de son compatriote Reinhard KüHNL, de l'Italien Renzo DE FELICE, de l'Américain Stanley G. PAYNE et, plus récemment, de l'Israëlien Zeev STERNHELL. Mis à part NOLTE, tous ces "fascistologues" figurent dans la table des matières de cette encyclopédie du fascisme de 816 pages. C'est dire le sérieux de l'entreprise et la rigueur historique qu'on acquerra en se livrant à une lecture critique de ces éclairages divers.

 

La première partie de l'ouvrage se penche sur la question très délicate de la définition du fascisme. Est-il, en effet, définissable de façon monolitihque? Sur le plan théorique, ne trouve-t-on pas autant de différences entre ce qu'il est convenu de nommer les fascismes qu'entre, mettons, les socialismes de diverses factures? Pour être clair, il y a sans doute autant de différences entre un Hitler et un Mussolini, entre un Degrelle et un Monseigneur Tiso qu'entre Castro et Spaak, Olof Palme et Felipe Gonzalez. La recherche d'une définition du fascisme est sans doute vaine, sauf si l'on veut bien admettre que le dénominateur commun de ces "fascismes", jetés pêle-mêle dans le même concept, est d'avoir appartenu au camp des vaincus de 1945. Car, si l'on prend le cas des "fascismes" cléricaux autrichien et slovaque ou du fascisme à coloration catholique des Oustachis croates, n'y constate-t-on pas une analogie, quant à la vision de l'histoire, avec bon nombre de conservateurs catholiques qui, comme un Pierlot, un Paul Van Zeeland ou un Otto de Habsbourg, se sont retrouvés dans le camp des vainqueurs en 1945? Par ailleurs, le socialisme fasciste d'un Drieu La Rochelle, anti-chrétien et nietzschéen, reprend tout de même à son compte des thématiques anticléricales du mouvement ouvrier tradi- tionnel qui s'est souvent retrouvé du côté de la résistance au nazisme, perçu comme complice du conservatisme catholique pour avoir forgé un concordat avec le Vatican ou pour avoir soutenu Franco au cours de la guerre civile espagnole.

 

Seconde partie de l'ouvrage: les divers "fascismes autrichiens". On y découvre l'ambigüité du terme "fascisme" surtout quand celui-ci est utilisé dans une acception polémique. En effet, comment concilier le clérical-fascisme des chanceliers DOLLFUSS  et  SCHUSCHNIGG avec le programme de la NSDAP autrichienne, qui visait à les éliminer sans autre forme de procès... En Autriche, le pouvoir conservateur avait maté deux révoltes en 1934: celle portée par la social-démocratie et les communistes et celle fomentée par les nationaux-socialistes. Les ouvriers viennois rebelles ont été fusillés par la Heimwehr et les nazis pendus à la suite d'un procès assez sommaire. Les conservateurs pariaient sur l'alliance italien- ne et vaticane, alors que leurs adversaires, nazis, libéraux, socialistes et communistes tablaient sur l'avènement d'une société libérée de l'influence catholique et débarras- sée de la tutelle italienne. La question sud-tyrolienne jouant dans cette problématique un rôle capital.

 

La troisième partie recense les variétés de fascismes italiens et allemands. Ce sont les thèses les plus connues.

 

la quatrième partie aborde le sujet plus complexe des fascismes est-européens (Slova- quie, Croatie, Roumanie et Hongrie). Pour les Croix Flechées hongroises, Miklós LACKO écrit que le recrutement est essentiellement prolétarien et plébéien en 1939 quand le parti enregistre 25% des voix dans l'ensemble du pays. Mais que ce recrutement donne une masse d'électeurs instables qui quitteront le parti en 1943, le réduisant ainsi à 25% de ses effectifs initiaux. LACKO estime que cette désaffection provient du manque d'encadre- ment sérieux du parti et de la faiblesse de la conscience politique réelle de ses effectifs. Après la guerre, les ex-membres des Croix Flechées se retrouveront largement au sein des formations de gauche.

 

La cinquième partie de l'ouvrage traite des "fascismes" du Sud et de l'Ouest de l'Europe (Espagne, Portugal, Suisse, France, Belgique, Pays-Bas, Grande-Bretagne, Grèce et Irlan- de). Pour la Belgique, les textes de Luc SCHEPENS, par ailleurs excellent historien de la diplomatie belge au cours de la 1ère Guerre Mondiale, et de Danièle WALLEF, sur l'émergence et le développement du mouvement rexiste, sont assez banals. Pour la France, Zeev STERNHELL nous livre un texte excellent, profond mais hélas trop court. La lecture de son oeuvre complète reste indispensable. Le lecteur curieux s'interessera davantage aux mouvements suisses et irlandais moins connus. En Irlande, le mouvement découle d'une amicale d'Anciens Combattants hostiles à l'IRA qui adopte, par catholicisme social, une idéologie "corporatiste" et un certain décorum fasciste. Présidé par O'DUFFY, le parti n'aura guère de succès.

 

La sixième partie est la plus dense: elle aborde un sujet quasiment inconnu dans le reste de l'Europe, celui des "fascismes" scandinaves et finlandais. Les racines agrariennes du "Nasjonal Samling" de QUISLING, et sans doute du national-socialisme littéraire de Knut HAMSUN,  y sont analysées avec une rigueur toute particulière et avec l'appui de cartes montrant la répartition des votes par régions.

 

Pour la Finlande, Reijo E. HEINONEN brosse l'historique de l'IKL (Mouvement patriotique du peuple). Pour le Danemark, Henning POULSEN et Malene DJURSAA évoque le plus significatif des groupuscules danois, le DNSAP, calque du Grand Frère allemand. Ce groupuscule n'a enregistré que des succès très relatifs dans le Sud du pays, où vit une minorité allemande. Plus intéressant à nos yeux est l'essai de Bernt HAGTVET sur l'idéologie du "fascisme" suédois. HAGTVET ne se borne pas seulement à recenser les résultats électoraux mais scrute attentive- ment les composantes idéologiques d'un mouvement qui, à vrai dire, ne s'est jamais distingué par de brillants scores électoraux. Il nous montre clairement ce qui distingue les partis proprement classables comme "fascistes" des mouvements conservateurs musclés. Il nous signale quelles sont les influences du juriste et géopoliticien Rudolf KJELLEN dans l'émergence d'un "socialisme national" suédois. Néanmoins, les groupuscules "fascistes" suédois se sont mutuellement excommuniés au cours de leurs existences marginales et ont offert l'image d'un triste amateurisme, incapable de gérer la Cité. Asgeir GUDMUNDSSON relate les mésaventures du "national-socialisme" islandais sans toutefois nous fournir le moindre éclaircissement sur les réactions de cette formation à l'encontre de l'occupation américaine de l'île au cours de la seconde guerre mondiale. GUDMUNDSSON nous signale simplement que les réunions publiques du parti se tinrent jusqu'en 1944.

 

En résumé, même une encyclopédie aussi volumineuse du fascisme ne parvient pas à lever l'ambigüité sur l'utilisation générique du terme pour désigner un ensemble finalement très hétéroclite de formations politiques, dans des pays qui n'ont pas de traditions communes. Une encyclopédie semblable devrait voir le jour mais qui prendrait pour objets de ces investigations les références et les formulations théoriques de ces partis. Sans oublier comment ils se situent par rapport à l'histoire nationale de leurs patries respectives. La diversité en ressortirait encore davantage et l'inanité du terme "fascisme" en tant que concept générique éclaterait au grand jour.

 

Michel FROISSARD.

 

Stein Ugelvik LARSEN, Bernt HAGTVET, Jan Petter MYKLEBUST, Who were the Fascists, Social Roots of European Fascism, Universitetsforlaget, Bergen / Oslo / Tromsø, 1980, 816 p., 340 NOK.

dimanche, 19 septembre 2010

Epic of the Persian Kings: The Shahnameh of Ferdowsi

Epic of the Persian Kings: The Shahnameh of Ferdowsi

Edited by: Charles Melville, Barbara Brend

Hardback - £45.00 - I. B. Tauris, London

Composed more than a millennium ago, the "Shahnameh" - the great royal book of the Persian court - is a pillar of Persian literature and one of the world's unchallenged masterpieces. Recounting the history of the Persian people from its mythic origins down to the Islamic conquest in the seventh century, the "Shahnameh" is the stirring and beautifully textured story of a proud civilization. But the "Shahnameh" (or, literally, the "Book of Kings") is much more than a literary masterpiece: it is the wellspring of the modern Persian language, a touchstone for Iranian national consciousness and its illustrations, in manuscripts of different eras, are the inspiration for one of the world's greatest artistic traditions. "Epic of the Persian Kings" combines revealing scholarship with stunning, full-colour illustrations from the rich manuscript tradition of the "Shahnameh". International experts including Charles Melville, Barbara Brend, Dick Davis and Firuza Abullaeva shed light on the epic's background, national importance and enduring legacy.

This context is accompanied by a wealth of illustrations from "Shahnameh" manuscripts belonging to the Fitzwilliam Museum, the Victoria and Albert Museum, and the Bodleian Library, as well as rarely-seen material from the Royal Collection. These illustrations, drawn from a wide range of artists and styles, display the timeless flexibility of the "Shahnameh" story as well as the marvellous ingenuity of the Persian artistic experience. "Epic of the Persian Kings" is an essential textual and pictorial guide to one of the world's great cultural achievements.

vendredi, 17 septembre 2010

Pétain, De Gaulle: deux figures d'un tragique destin

Pétain, De Gaulle : deux figures d’un tragique destin

Pétain, De Gaulle… Réfléchissons un instant à ces personnages d’une époque lointaine. Et d’abord, quelle étonnante destinée que celle du maréchal Pétain ! Avoir été porté si haut et avoir été jeté si bas ! Dans la longue histoire de la France, d’autres grands personnages furent admirés, mais aucun sans doute n’a été plus aimé avant d’être tant dénigré.

Son malheur fut d’hériter, non seulement d’une défaite à laquelle il n’avait pris aucune part, mais plus encore d’un peuple, jadis grand, qui était tombé effroyablement bas. Pourtant, de ce peuple, jamais il ne désespéra. Le général De Gaulle, dont le destin croisa si souvent le sien, ne nourrissait pas les mêmes espérances, sinon les mêmes illusions. « J’ai bluffé. confiera-t-il vers 1950 à Georges Pompidou, mais la 1 ère armée, c’était des nègres et des Africains (il voulait dire des « pieds-noirs »). La division Leclerc a eu 2 500 engagés à Paris. En réalité, j’ai sauvé la face, mais la France ne suivait pas. Qu’ils crèvent ! C’est le fond de mon âme que je vous livre : tout est perdu. La France est finie. J’aurai écrit la dernière page. » (1)

Cela, même aux pires moments, Pétain eût été incapable de le penser.

Il était né en 1856 dans une famille de paysans picards, sous le règne de Napoléon III, avant l’automobile et avant l’électricité. Trois fois, il connut l’invasion de sa patrie, en 1870, en 1914 et en 1940. La première fois, il était adolescent et son rêve de revanche fit de lui un soldat.

En 1914, il avait 58 ans. Son indépendance d’esprit l’avait écarté des étoiles. Simple colonel, il se préparait à la retraite. L’assassinat à Sarajevo d’un archiduc autrichien et l’embrasement de l’Europe en décidèrent autrement. L’épreuve, soudain, le révéla. Quatre ans plus tard, il commandait en chef les armées françaises victorieuses de 1918 et recevait le bâton de maréchal de France. De tous les grands chefs de cette guerre atroce, il fut le seul à être aimé des soldats. Contrairement à tant de ses pairs, il ne voyait pas dans les hommes un matériel consommable. Le vainqueur de Verdun était l’un des rares à comprendre qu’il ne servait à rien d’être victorieux si le pays était saigné à mort.

Il y a bien des explications à la défaite de 1940, mais pour le vieux Maréchal, l’une des causes premières se trouvait dans l’effroyable saignée de 14-18. L’holocauste d’un million et demi d’hommes jeunes avait tué l’énergie de tout un peuple.
La première urgence était donc de maintenir ce peuple autant que possible à l’abri d’une nouvelle tuerie. Simultanément, Pétain espérait une future renaissance d’une « révolution nationale ». On l’en a blâmé. Certes, tout pouvait être hypothéqué par l’Occupation. En réalité, il n’avait pas le choix. La « révolution nationale » ne fut pas préalablement pensée. Avec toutes ses équivoques, elle surgit spontanément comme un remède nécessaire aux maux du régime précédent.

Aujourd’hui, dans la sécurité et le confort d’une société en paix, il est facile de porter sur les hommes de ce temps-là des jugements définitifs. Mais cette époque brutale et sans pitié ne pouvait se satisfaire de pétitions morales. Elle exigeait à chaque instant des décisions aux conséquences cruelles qui pouvaient se traduire, comme souvent en temps de guerre, par des vies sacrifiées pour en sauver d’autres.

À Cangé, en conseil des ministres, le 13 juin 1940, ayant pris la mesure exacte du désastre, le maréchal Pétain, de sa voix cassée, traça la ligne de conduite qui allait être la sienne jusqu’au bout, en 1944 : « Je déclare en ce qui me concerne que, hors du gouvernement, s’il le faut, je me refuserai à quitter le sol métropolitain. Je resterai parmi le peuple français pour partager ses peines et ses misères. »

Pour qui n’assumait pas de responsabilité gouvernementale, il était loisible de prendre un autre parti et de relever symboliquement le défi des armes. Et il est salubre que quelques audacieux aient fait ce choix. Mais en quoi cela retire-t-il de la noblesse à la sacrificielle résolution du maréchal Pétain ?

Les adversaires du général De Gaulle ont tenté de minimiser la portée et la hauteur de son propre geste, l’appel à une résistance ouverte. Ils ont fait valoir que l’ancien protégé du Maréchal ne s’était pas embarqué dans l’aventure sans parachute. Ils ajoutent qu’affronter les Allemands, depuis Londres, derrière un micro, était moins périlleux que de le faire en France même, dans un face à face dramatique, inégal et quotidien. Peut-être. Mais, parachute ou pas, le choix rebelle du Général était d’une rare audace. Fruit d’une ambition effrénée, ripostent ses détracteurs. Sans doute. Mais que fait-on sans ambition ?

Ce type d’ambition, cependant, faisait défaut au maréchal Pétain. A 84 ans, avec le passé qui était le sien, il n’avait plus rien à prouver et tout à perdre.

Si notre époque était moins intoxiquée de basse politique et de louches rancunes, il y a longtemps que l’on aurait célébré la complémentarité de deux hommes qui ont racheté, chacun à leur façon, ce qu’il y eut de petit, de vil et d’abject en ce temps-là.

Dominique Venner

Notes:

1. Georges Pompidou, Pour rétablir une vérité, Flammarion, 1982, p 128

Source : DominiqueVenner.fr

La "Nouvelle revue d'histoire" est disponible en kiosque!

mercredi, 08 septembre 2010

Armin Mohler: Réflexions sur les thèses de Zeev Sternhell

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

 

Armin MOHLER:

Réflexions sur les thèses de Zeev Sternhell

 

ZSnidroite.jpgUn livre, paru à Paris en 1983, a complètement bouleversé l'historiographie du fascisme. Ce livre porte le titre de: Ni droite ni gauche. L'idéologie du fascisme en France. Gros de 412 pages, il est publié par les éditions du Seuil, maison pourtant connue pour ses tendances de gauche.

 

L'auteur, Zeev Sternhell, professeur de politologie à l'Université Hébraïque de Jérusalem, est né en Pologne en 1935. Il est actuellement le Directeur du "Centre d'Etudes Européennes" et, peu avant la parution de Ni droite ni gauche, il avait fondé le Centre Interdisciplinaire de Recherche sur la Civilisation Française.

 

Son livre est très dense. Il abonde en outre de répétitions car, ce qui importe pour Sternhell, homme au tempérament fougueux, c'est d'inculquer au lecteur certains jugements  inhabituels. Mais il serait erroné de lui reprocher l'emploi de "concepts vagues". A l'opposé du spécialiste jusqu'ici accrédité de l'étude du fascisme, Ernst Nolte, Sternhell n'a pas reçu de formation philosophique. Il est un authentique historien qui se préoccupe de recenser le passé. Pour lui, chaque réalité historique est "irisable", on ne peut la ramener à un seul concept, il faut en considérer les diverses facettes. Dès lors, contrairement à Nolte, Sternhell ne construit pas un schéma abstrait du fascisme, dans lequel il conviendra d'enserrer ensuite les phénomènes concrets. Il renvoie de préférence ces phénomènes à toute une variété de concepts qu'il puise toutefois dans le vocabulaire politique traditionnel, afin de les cerner et de les localiser.

 

S'il entre dans notre propos de résumer ici un ouvrage aussi complexe, notre exposé ne pourra cependant pas remplacer la lecture de ce livre. Il en est plutôt l'introduction.

 

1. Qui est Zeev Sternhell?

 

1.1. Indubitablement, il est un authentique homme de gauche. Le journal Le Monde  (14.1.1983) déclare à son sujet: Sternhell entra en mai 1977, après la victoire électorale de Begin et la chute du Parti Travailliste, dans la vie politique israëlienne. Il créa le Club 77, un rassemblement d'intellectuels de l'aile d'extrême-gauche du Parti Travailliste. Ce Club s'engagea dans une politique de modération envers le monde arabe et milita pour l'évacuation de la Cisjordanie; en matière de politique interne, il chercha à favoriser une politique aussi "socialiste" que possible, c'est-à-dire accordant le maximum d'égalité. Au sein du Parti Travailliste, Sternhell fait partie d'une minorité, tout en étant membre du Comité Exécutif".

 

1.2. Sternhell est un "gramsciste". A l'instar de toute la gauche revendicatrice et contestatrice de sa génération, il s'est libéré de l'orthodoxie marxiste. Il rejette expressément la conception matérialiste de l'histoire (pp.18-19).

 

A la suite de Gramsci (et a fortiori de l'inspirateur de ce communiste italien, Georges Sorel), Sternhell se rallie à la conception historiographico-philosophique qui veut que les idées ne soient pas le reflet des réalités, mais l'inverse.

 

1.3. Le point de départ de la démarche de Sternhell: le révisionnisme. Le fait que Sternhell se soit consacré à l'étude du fascisme s'explique sans aucun doute par son intérêt pour la biographie des révisionnistes, ceux qui ont tenté de changer et de réformer le marxisme orthodoxe. De Ni droite ni gauche,  il ressort que le révisionnisme de "droite" (p.35) ou révisionnisme "libéral" (p.81), qui mène à des alliances et des compromissions avec le libéralisme bourgeois et qu'incarne un Eduard Bernstein (en France, Jaurès) fascine moins Sternhell que le révisionnisme de "gauche" (p.290), mouvement amorcé par Sorel et les syndicalistes révolutionnaires qui refusaient les "ramollissements" du socialisme et passèrent ultérieurement au fascisme. Sternhell s'intéresse en particulier à un nouveau courant socialiste d'alors qui, dépassant l'opposition Sorel/Bernstein, vit le jour au lendemain de la Grande Guerre: le révisionnisme "planiste" ou "technocratique" (p.36) du socialiste belge Henri De Man et du néo-socialiste français Marcel Déat. Ce révisionnisme-là aboutit directement au fascisme.

 

1.4. Sternhell contre le fascisme de salon. L'orientation "socialiste", qui sous-tend l'étude de Sternhell sur la problématique du fascisme, se traduit par le peu d'intérêt marqué pour les formes de fascismes philosophiques ou littéraires. Trait caractéristique: Sternhell ne mentionne nulle part les deux écrivains les plus importants appartenant au fascisme, Céline et Rebatet. Et Sternhell néglige encore d'autres aspects du fascisme de salon, du fascisme des penseurs "qui finissent leur vie en habit vert" (p.22). Vu les multiples facettes du fascisme français (et européen)(p.21), Sternhell s'adjuge le droit de poser une analyse pars pro toto: il prétend se consacrer en ordre principal à l'étude de secteurs négligés jusqu'ici (p.9).

 

2. La France, modèle du fascisme?

 

2.1. Pourquoi la France?  Le livre de Sternhell veut développer une définition du "fascisme" en se basant sur l'exemple français. Cette intention peut étonner. La France, en effet, si l'on excepte l'intermède de l'occupation allemande, n'a jamais connu un régime qualifiable de "fasciste". L'Italie, l'Allemagne voire l'Espagne seraient à cet égard de meilleurs exemples. Mais Sternhell, nous allons le voir, déploie de très sérieux arguments pour justifier son choix.

 

2.2. Les études antérieures de Sternhell. Ces arguments, pour nous, ne sauraient se déduire des travaux antérieurs de Sternhell, qui portaient tous sur la France. Dès le départ, il orienta son attention vers le fascisme, même s'il l'on peut supposer qu'un changement de perspective aurait pu se produire et lui faire choisir un autre territoire de recherches. Ce que Sternhell découvrit très tôt dans ces secteurs délaissés par la recherche qu'il se trouvait sur la bonne voie. Deux livres aussi copieux avait précédé Ni gauche ni droite. Le premier s'intitulait Maurice Barrès et le nationalisme français  (1972). Le second, La droite révolutionnaire 1885-1914. Les origines françaises du fascisme  (1978), traitait de la même époque historique, mais le grand thème de Sternhell, le fascisme, apparaissait pour la première fois dans le sous-titre. La recherche a imméditament considéré ces deux ouvrages comme des classiques. Les sujets de ces livres sont à la fois plus sectoriels et plus généraux que la thématique du troisième, que nous commentons ici. Dans Ni gauche ni droite, Sternhell cherche à forger un classification globale et détaillée du phénomène fasciste qu'il entend maîtriser conceptuellement.

 

2.3. La France a inventé le fascisme. Le premier argument de Sternhell, pour situer le champ de ses recherches en France, c'est que ce pays a vu naître le fascisme vingt ans avant les autres, notamment vers 1885 (p.41). Sternhell n'emploie qu'occasionnelle- ment le terme de "pré-fascisme" pour qualifier les événements entre 1885 et 1914 (p.21). Une figure comme celle de Maurice Barrès portait déjà en elle les germes de tout le fascisme ultérieur. Et quand j'ai énoncer la même hypothèse en 1958, je me suis heurté à une surprenante incompréhension de la part des experts français...

 

2.4. La France comme contre-modèle. Le second argument qu'avance Sternhell est plus complexe. Il contourne deux écueils. Parmi les grands pays de l'Europe continentale, la France est celui où la position dominante de l'idéologie et de la praxis politique du libéralisme a été la moins menacée, du moins jusqu'à la défaite militaire de 1940 (p.41). Sternhell souligne (p.42) le fait que la révolution libérale la plus importante et la plus exemplaire de l'histoire s'est déroulée dans ce pays et attire notre attention sur les phénomènes du "consensus républicain" (p.43) et du "consensus centriste" (p.52) qui sont les clés de voûte de l'histoire française contemporaine. C'est précisément à cause de ces inébranlables consensus que Sternhell opte pour la France comme champ d'investigation. Car le fascisme, en France, n'est jamais parvenu au pouvoir (p.293) et, écrit Sternhell, "le fascisme n'y a jamais dépassé le stade de la théorie et n'a jamais souffert des compromissions inévitables qui faussent toujours d'une façon ou d'une autre l'idéologie officielle d'un régime. Ainsi on pénètre sa signification profonde et, en saisissant l'idéologie fasciste à ses origines, dans son processus d'incubation, on aboutit à une perception plus fidèle des mentalités et des comportements. Et on comprend mieux, semble-t-il, la complexité des situations et l'ambiguïté des attitudes qui font le tissu des années trente". C'est là, de toute évidence, un principe heuristique, dérivé d'une option radicalement gramsciste qui pose le primat des idées et réfute celui des contraintes factuelles.

 

3. Les problèmes de "périodisation"

 

3.1. Impossibilité de poser des datations exactes. Comme doit le faire tout véritable historien, Sternhell fait varier légèrement les dates. Mis à part pour les événements ponctuels, il n'est pas aisé de fournir des dates précises, bien délimitées dans le temps, pour désigner l'émergeance ou l'assomption d'un courant d'idées politiques. C'est pourquoi Sternhell examine le phénomène "fasciste" dans l'espace d'un demi-siècle.

 

3.2. Continuité entre 1885 et 1940.  Fait essentiel pour Sternhell: cette période est "dans l'histoire de l'Europe, une période véritablement révolutionnai- re". Et il poursuit: "En moins d'un demi-siècle, les réalités sociales, le mode de vie, le niveau technologique et, à beaucoup d'égards, la vision que se font les hommes d'eux-mêmes changent plus profondément qu'à aucun autre moment de l'histoire moderne" (p.45). Dès lors, cette période forme une unité, si toutefois l'on met entre parenthèses les quatre années de la Grande Guerre (pp.19 et 290). Et Sternhell l'écrit expressément: "Au cours de ce demi-siècle, les problèmes de fond n'ont guère varié" (p.60).

 

3.3. Trois générations. Bien qu'il soit conscient de cette continuité, Sternhell procède cenpendant à des subdivisions dans le temps; ainsi, par exemple, quand il parle des "fascistes de 1913" comme des fascistes d'un type particulier. Il distingue trois générations de fascistes (cf. pp. 30, 52 et 60): d'abord les boulangistes et les anti-dreyfusards de la fin des années 80; ensuite, avant 1914, ceux de la "deuxième génération", celle du mouvement des "Jaunes" dans le monde ouvrier et de l'Action Française  de Maurras, qui atteint alors son apogée; en finale, il évoque, comme troisième génération, le "fascisme d'après-guerre".

 

3.4. Le poids d'une époque. Il est à remarquer que Sternhell accorde nettement plus de poids aux premières décennies de l'époque qu'il étudie. Pour lui, sur le plan qualitatif, les années qui précèdent la Grande Guerre revêtent davantage d'importance que les décennies qui les suivirent car, dans cette avant-guerre, tout ce qui est essentiel dans l'élaboration du fascisme doctrinal a été dit et mis en œuvre.

 

4. Prolégomènes du fascisme

 

4.1. Refus de prendre en considération les groupuscules excentriques. Sternhell s'intéresse aux "propagateurs d'idées". Il ne ressent aucune envie de perdre son temps à étudier ce fascisme folklorique de quelques illuminés qui jouent aux brigands, fascisme caricatural dont les médias font leurs choux gras. Il n'a que mépris pour ceux qui axent leurs recherches sur ce type de phénomènes marginaux (p.9): "A l'époque déjà, quand un groupe de la Solidarité française se fait photographier à l'entraînement au pistolet, toute la presse de gauche en parle pendant des semaines: un quelconque défilé de quelques dizaines de "chemises bleues" soulève alors beaucoup plus d'intérêt que le patient travail de sape d'un Thierry Maulnier ou d'un Bertrand de Jouvenel...".

 

4.2. Le fascisme, une idéologie comme les autres. Sternhell parle de la "banalité du fascisme" (p.296): "Dans les années trente, le fascisme constitue une idéologie politique comme les autres, une option politique légitime, un état d'esprit assez courant, bien au-delà des cercles restreints qui assument leur identité fasciste...". Selon Sternhell, le fascisme était "un phénomène possédant un degré propre d'autonomie, d'indépendance intellectuelle" (p.16). Il s'élève contre "le refus fondamental de voir dans le fascisme autre chose qu'un accident de l'histoire européenne" (p.18). Pour Sternhell donc, c'est une erreur de ne considérer le fascisme que comme "une simple aberration, un accident, sinon un accès de folie collective..." (p.18). A la fin de son ouvrage (p.296), Sternhell nous met en garde contre ceux qui propagent l'opinion que les fascistes n'étaient que des "marginaux". Nombreux sont les "fascistes" qui ont été jugés, par leurs contemporains, comme les "plus brillants représentants de leur génération" (Luchaire, Bergery, Marion, de Jouvenel).

 

4.3. Les courroies de transmission. "L'idéologie fasciste constitue, en France, un phénomène de loin plus diffus que le cadre restreint et finalement peu important des adhérents aux groupuscules qui s'affublent de ce titre" (p.310). Deux pages plus loin, Sternhell explique comment il s'est fait que "l'idée fasciste" ait pu se propager dans un milieu si prêt à recevoir son message: "Les fascistes purs furent toujours peu nombreux et leurs forces dispersées. Leur influence véritable s'exercera par une contribution continue à la cristallisation d'un certain climat intellectuel; par le jeu des courroies de transmissions secondaires: des hommes, des mouvements, des revues, des cercles d'études,..." (p.312).

 

4.4. Difficulté de situer sociologiquement le fascisme. Sternhell insiste sur le fait que le fascisme "prolifère aussi bien dans les grands centres industriels de l'Europe occidentale que dans les pays sous-développés d'Europe de l'Est" (p.17). Et il aime se moquer de ceux qui croient pouvoir ranger le fascisme dans des catégories sociales bien déterminées. Il est significatif que Sternhell attire notre attention sur une constante de l'histoire des fascismes: "le glissement à droite d'éléments socialement avancés mais fondamentalement opposés à la démocratie libérale" (p.29). Si cette remarque se vérifie, elle s'opposera à toutes les tentatives de rattacher l'idéologie fasciste à des groupes sociaux trop bien définis.

 

4.5. Pour expliquer le fascisme: ni crises économiques ni guerres. Ce qui m'a frappé aussi chez Sternhell, c'est l'insistance qu'il met à montrer la relative indépendance du fascisme vis-à-vis de la conjoncture (pp.18 et 290). Il ne croit pas que la naissance du fascisme soit due à la pression de crises économiques et, assez étonnamment, estime que la première Guerre mondiale (ou tout autre conflit) a eu peu d'influence sur l'émergence du phénomène. En ce sens, Sternhell s'oppose à la majorité des experts ès-fascisme (pp.96 et 101). C'est dans cette thèse, précisément, que se manifeste clairement l'option "gramsciste" de Sternhell, nonobstant le fait que jamais le nom de Gramsci n'apparaît dans l'œuvre du professeur israëlien. Sternhell ne prend les "crises" au sérieux que lorsqu'il s'agit de crises morales, de crises des valeurs ou de crise globale, affectant une civilisation dans son ensemble.

 

4.6. "Auschwitz" en tant qu'argument-massue n'apparaît nulle part. Sternhell fait preuve d'une étonnante objectivité, ce qui est particulièrement rare dans les études sur le fascisme. Mais une telle attitude semble apparemment plus facile à adopter en Israël qu'à New York ou à Zurich. Ainsi, Sternhell n'hésite pas à reconnaître au fascisme "une certaine fraîcheur contestataire, une certaine saveur de jeunesse" (p.80). Il renonce à toute pédagogie moralisatrice. Mais il est très conscient du "problème de la mémoire", mémoire réprimée et refoulée; il l'évoquera notamment à propos de certaines figures au passé fasciste ou fascisant qui, après 1945, ont opté pour la réinsertion en se faisant les porte-paroles du libéralisme: Bertrand de Jouvenel (p.11), Thierry Maulnier (p.12) et surtout le philosophe du personnalisme, fondateur de la revue Esprit , Emmanuel Mounier (pp 299 à 310).

 

5. La formule du fascisme chez Sternhell

 

5.1. Les carences du libéralisme et du marxisme. Après cette introduction, nous sommes désormais en mesure d'expliciter l'alchimie du fascisme selon Sternhell. Pour cet historien israëlien, le fascisme s'explique en fonction d'un préliminaire historique, sans lequel il serait incompréhensible: l'incapacité du libéralisme bourgeois et du marxisme à assumer les tâches imposées par le XXème siècle.Cette incapacité constitue une carence globale, affectant toute notre civilisation, notamment toutes les institutions, les idéologies, les convictions qu'elle doit au XVIIIème, siècle du rationalisme et du mécanicisme bourgeois. Libéralisme et marxisme sont pour Sternhell les deux faces d'une même médaille. Inlassablement, il souligne que la crise de l'ordre libéral a précédé le fascisme, que cette crise a créé un vide où le fascisme a pu se constituer. Fallait-il  nécessairement que ce fascisme advienne? Sternhell ne se prononce pas, mais toute sa démonstration suggère que cette nécessité était inéluctable.

 

5.2. Révisionnistes de gauche et nationalistes déçus. Généralement, pour expliquer la naissance du fascisme, on évoque la présence préalable d'un nationalisme particulièrement radical et exacerbé. Sternhell, lui, trouve cette explication absurde. D'après le modèle explicatif qu'il nous suggère, l'origine du fascisme s'explique bien davantage par le fait qu'aux extrémités, tant à gauche qu'à droite, du spectre politique, des éléments se sont détachés pour se retrouver en dehors de ce spectre et former un troisième et nouvel élément qui n'est plus ni de gauche ni de droite. Dans la genèse du fascisme, Sternhell n'aperçoit aucun apport appréciable en provenance du centre libéral. D'après lui, le fascisme résulte de la collusion de radicaux de gauche, qui n'admettent pas les compromis des modérés de leur univers politique avec le centre mou libéral, et de radicaux de droite. Le fascisme est, par suite, un amalgame de désillusionnés de gauche et de désillusionnés de droite, de "révisionnistes" de gauche et de droite. Ce qui paraît important aux yeux de Sternhell, c'est que le fascisme se situe hors du réseau traditionnel gauche/centre/droite. Dans l'optique des fascistes, le capitalisme libéral et le socialisme marxiste ne s'affrontent qu'en apparence. En réalité, ils sont les deux faces d'une même médaille. L'opposition entre la "gauche" et la "droite" doit disparaître, afin qu'hommes de gauche et hommes de droite ne soient plus exploités comme chiens de garde des intérêts de la bourgeoisie libérale (p.33). C'est pourquoi la fin du XIXème siècle voit apparaître de plus en plus de notions apparemment paradoxales qui indiquent une fusion des oppositions en vigueur jusqu'alors. L'exemple le plus connu de cette fusion est la formule interchangeable: nationalisme social / socialisme national. Sternhell (p.291) insiste sur la volonté d'aller "au-delà", comme caractéristique du climat fasciste. Le terme "au-delà" se retrouve dans les titres de nombreux manifestes fascistes ou préfascistes: "Au-delà du nationalisme" (Thierry Maulnier), "Au-delà du marxisme" (Henri De Man), "Au-delà du capitalisme et du socialisme" (Arturo Labriola), "Au-delà de la démocratie" (Hubert Lagardelle). Ce dernier titre nous rappelle que le concept de "démocratie" recouvrait le concept de "libéralisme" jusque tard dans le XXème siècle. Chez Sternhell également, le concept de "capitalisme libéral" alterne avec "démocratie capitaliste" (p.27).

 

5.3. L'anti-ploutocratisme. L'homme de gauche qu'est Sternhell prend les manifestations sociales-révolutionnaires du fascisme plus au sérieux que la plupart des autres analystes, historiens et sociologues de son camp. Si Sternhell avait entrepris une étude plus poussée des courants philosophiques et littéraires de la fin du XIXème, il aurait découvert que la haine envers la "domination de l'argent", envers la ploutocratie, participait d'un vaste courant à l'époque, courant qui débordait largement le camp socialiste. Cette répulsion à l'encontre de la ploutocratie a été, bien sûr, un ferment très actif dans la gestation du fascisme. De nombreux groupes fascistes s'aperçurent que l'antisémitisme constituait une vulgarisation de cette répugnance, apte à ébranler les masses. L'antisémitisme, ainsi, offrait la possibilité de fusionner le double front fasciste, dirigé simultanément contre le libéralisme bourgeois et le socialisme marxiste, en une unique représentation de l'ennemi. Parallèlement, cette hostilité envers la ploutocratie pré-programmait très naturellement le conflit qui allait opposer fascistes et conservateurs.

 

5.4. La longue lutte entre conservateurs et fascistes. Vu la définition du fascisme qu'esquisse Sternhell, il n'est guère étonnant qu'il parle d'une "longue lutte entre la droite et le fascisme" (p.20) comme d'une caractéristique bien distincte, quoiqu'aujourd'hui méconnue, de l'époque et des situations qu'il décrit. Et il remarque: "Il en est d'ailleurs ainsi partout en Europe: les fascistes ne parviennent jamais à ébranler véritablement les assises de l'ordre bourgeois. A Paris comme à Vichy, à Rome comme à Vienne, à Bucarest, à Londres, à Oslo ou à Madrid, les conservateurs savent parfaitement bien ce qui les sépare des fascistes et ils ne sont pas dupes d'une propagande visant à les assimiler" (p.20). Aussi Sternhell s'oppose-t-il (p.40) clairement à la classification conventionnelle de la droite française, opérée par René Rémond, qui l'avait répartie en trois camps: les ultras, les libéraux-conservateurs et les bonapartistes. Il n'y a, en fait, jamais eu que deux camps de droite, les libéraux et les conservateurs, auxquels se sont opposés les révolutionnaires, les dissidents et les contestataires.

 

5.5. A la fois révolutionnaires et modernes. Avec ces deux termes, utilisés par Sternhell pour désigner le fascisme, l'historien israëlien a choqué ses collègues politologues. Pour lui, en effet, le fascisme est un phénomène réellement révolutionnaire et résolument moderne. "Une idéologie conçue comme l'antithèse du libéralisme et de l'individualisme est une idéologie révolutionnaire". Plus loin (p.35), Sternhell expose l'idée, d'après lui typiquement fasciste, selon laquelle le facteur révolutionnaire qui, en finale, annihile la démocratie libérale est non pas le prolétariat, mais la nation. Et il ajoute: "C'est ainsi que la nation devient l'agent privilégié de la révolution" (p.35). Les passages évoquant le modernisme du fascisme sont tout aussi surprenants. A propos d'un de ces passages (p.294), on pourrait remarquer que cette attribution de modernisme ne concerne que les fascismes italien et français:"Car le fascisme possède un côté moderniste très développé qui contribue à creuser le fossé avec le vieux monde conservateur. Un poème de Marinetti, une œuvre de Le Corbusier sont immédiatement adoptés par les fascistes, car, mieux qu'une dissertation littéraire, ils symbolisent tout ce qui sépare l'avenir révolutionnaire du passé bourgeois". Un autre passage s'adresse clairement au fascisme dans son ensemble: "L'histoire du fascisme est donc à beaucoup d'égard l'histoire d'une volonté de modernisation, de rajeunissement et d'adaptation de systèmes et de théories politiques hérités du siècle précédent aux nécessités et impératifs du monde moderne. Conséquence d'une crise générale dont les symptômes apparaissent clairement dès la fin du siècle dernier, le fascisme se structure à travers toute l'Europe. Les fascistes sont tous parfaitement convaincus du caractère universel du courant qui les guide, et leur confiance dans l'avenir est dès lors inébranlable".

 

6. Eléments particuliers de l'idéologie fasciste

 

6.1. L'anti-matérialisme. Puisque, pour Zeev Sternhell, le fascisme n'est pas simplement le produit d'une mode politique, mais une doctrine, il va lui attribuer certains contenus intellectuels. Mais comme ces contenus intellectuels se retrouvent également en dehors du fascisme, ce qui constitue concrètement le fascisme, c'est une concentration d'éléments souvent très hétérogènes en une unité efficace. Citons les principaux éléments de cette synthèse. Sternhelle met principalement l'accent sur l'anti-matérialisme (pp. 291 & 293): "Cette idéologie constitue avant tout un refus du matérialisme, c'est-à-dire de l'essentiel de l'héritage intellectuel sur lequel vit l'Europe depuis le XVIIème siècle. C'est bien cette révolte contre le matérialisme qui permet la convergence du nationalisme antilibéral et antibourgeois et de cette variante du socialisme qui, tout en rejetant le marxisme, reste révolutionnaire...Tout anti-matérialisme n'est pas fascisme, mais le fascisme constitue une variété d'anti-matérialisme et canalise tous les courants essentiels de l'anti-matérialisme du XXème siècle...". Sternhell cite également les autres éléments de l'héritage auquel s'oppose le fascisme: le rationalisme, l'individualisme, l'utilitarisme, le positivisme (p.40). Cette opposition indique que cet anti-matérialisme est dirigé contre toute hypothèse qui voudrait que l'homme soit conditionné par des données économiques. C'est quand Sternhell parle de la psychologie que l'on aperçoit le plus clairement cette opposition. Ainsi, il relève (p. 294) que les "moralistes" Sorel, Berth et Michels "rejettent le matérialisme historique qu'ils remplacent par une explication d'ordre psychologique". "Finalement", poursuit Sternhell, "ils aboutissent à un socialisme dont les rapports avec le prolétariat cessent d'être essentiels".Et il insiste: "Le socialisme commence ainsi, dès le début du siècle, à s'élargir pour devenir un socialisme pour tous, un socialisme pour la collectivité dans son ensemble,..." (p. 295). Plus explicite encore est un passage relatif au révisionnisme de Henri De Man, qui, lui, cherche la cause première de la lutte des classes "moins dans des oppositions d'ordre économique que dans des oppositions d'ordre psychologique".

 

6.2. Les déterminations. Il serait pourtant faux d'affirmer que, pour le fascisme, l'homme ne subit aucune espèce de détermination. Pour les intellectuels fascistes, ces déterminations ne sont tout simplement pas de nature "mécanique"; entendons par là, de nature "économique". Comme l'indique Sternhell, le fasciste ne considère pas l'homme comme un individu isolé, mais comme un être soumis à des contraintes d'ordres historique, psychologique et biologique. De là, la vision fasciste de la nation et du socialisme. La nation ne peut dès lors qu'être comprise comme "la grande force montante, dans toutes ses classes rassemblées" (p. 32). Quant au socialisme, le fasciste ne peut se le représenter que comme un "socialisme pour tous", un "socialisme éternel", un "socialisme pédagogique", un "socialisme de toujours", bref un socialisme qui ne se trouve plus lié à une structure sociale déterminée (Cf. pp. 32 & 295).

 

6.3. Le pessimisme. Sternhell considère comme  traits les plus caractéristiques du fascisme "sa vision de l'homme comme mu par des forces inconscientes, sa conception pessimiste de l'immuabilité de la nature humaine, facteurs qui mènent à une saisie statique de l'histoire: étant donné que les motivations psychologiques restent les mêmes, la conduite de l'homme ne se modifie jamais". Pour appuyer cette considération, Sternhell cite la définition du pessimisme selon Sorel: "cette doctrine sans laquelle rien de très haut ne s'est fait dans le monde" (p. 93). Cette définition rappelle en quoi consiste le véritable paradoxe de l'existentialité selon les conservateurs: la perception qu'a l'homme de ses limites ne le paralyse pas, mais l'incite à l'action. L'optimisme, au contraire, en surestimant les potentialités de l'homme, semble laisser celui-ci s'enfoncer sans cesse dans l'apathie.

 

6.4. Volontarisme et décadence. Sternhell, qui n'est pas philosophe mais historien, n'est nullement conscient de ce "paradoxe du conservateur". Il constate simplement la présence, dans les fascismes, d'une "énergie tendue" (p. 50) et signale sans cesse cette volonté fasciste de dominer le destin (pp. 65 & 294). Sternhell constate que le problème de la décadence inquiète le fasciste au plus haut point. C'est la raison pour laquelle celui-ci veut créer un "homme nouveau", un homme porteur des vertus classiques anti-bourgeoises, des vertus héroïques, un homme à l'énergie toujours en éveil, qui a le sens du devoir et du sacrifice. Le souci de la décadence aboutit à l'acceptation de la primauté de la communauté sur l'individu. La qualité suprême, pour un fasciste, c'est d'avoir la foi dans la force de la volonté, d'une volonté capable de donner forme au monde de la matière et de briser sa résistance. Sternhell se livre à de pareilles constatations jusqu'à la dernière ligne de son ouvrage; ainsi, à la page 312: "Dans un monde en détresse, le fascisme apparaît aisément comme une volonté héroïque de dominer, une fois encore, la matière, de dompter, par un déploiement d'énergie, non seulement les forces de la nature, mais aussi celles de l'économie et de la société".

 

6.5. La question de la vérité. D'une part, le pessimisme; d'autre part, le volontarisme. Pour une pensée logique, ce ne pourrait être là qu'un paradoxe. Mais le fascisme se pose-t-il la question de la vérité? Voyons ce que Sternhell déclare à propos de l'un des "pères fondateurs" du fascisme: "Pour un Barrès par exemple, il ne s'agit plus de savoir quelle doctrine est juste, mais quelle force permet d'agir et de vaincre" (p. 50). Comme preuve du fait que le fascisme ne juge pas une doctrine selon sa "vérité", mais selon son utilité, Sternhell cite Sorel au sujet des "mythes" qui, pour l'auteur des Réflexions sur la violence, constituent le moteur de toute action: "...les mythes sont des "systèmes d'images" que l'on ne peut décomposer en leurs éléments, qu'il faut prendre en bloc comme des forces historiques... Quand on se place sur le terrain des mythes, on est à l'abri de toute réfutation..." (pp. 93 & 94).

 

En résumé...

 

Nous n'avons pu recenser le livre de Sternhell que dans ses lignes fondamentales. Nous avons dû négliger bien des points importants, tels son allusion à la "nouvelle liturgie" comme partie intégrante du fascisme (p. 51), à son anti-américanisme latent (même avant 1914) (p. 290); nous n'avons pas approfondi sa remarque signalant que, pour le fascisme, la lutte contre le libéralisme intérieur a toujours été plus importante que la lutte menée contre celui-ci pas certains dictateurs... (p. 34). En tant que recenseur, je me permets deux remarques, pouvant s'avérer utiles pour le lecteur allemand. D'abord, l'Allemagne n'est que peu évoquée chez Sternhell. En fait de bibliographie allemande, il ne cite que les livres de Nolte traduits en français; on peut dès lors supposer qu'il ne maîtrise pas la langue de Goethe. Ma seconde remarquer sera de rappeler au lecteur allemand ma tentative de redonner une consistance au concept de "fascisme", en le limitant à un certain nombre de phénomènes historiques (Cf. Der faschistische Stil, 1973; trad.franç.: Le "style" fasciste, in Nouvelle Ecole, n°42, été 1985). Sternhell, pour sa part, a donné au terme "fascisme" une ampleur énorme. Son effort est justifiable, dans la mesure où sa vaste définition du "fascisme", au fond, correspond à ce que je désignais sous l'étiquette de "révolution conservatrice". Bref, on peut dire du livre de Sternhell qu'il a envoyé au rebut la plupart des travaux consacrés jusqu'ici à l'étude du fascisme...

 

Armin MOHLER.

(recension tirée de la revue Criticón, Munich, n°76, mars-avril 1983; traduction française d'Elfrieda Popelier).     

 

dimanche, 29 août 2010

Jean Mabire: La maîtrise des mers

La maîtrise des mers

Jean Mabire

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

L’Angleterre l’avait compris. La possession de colonies et la liaison avec l’Amérique supposent la maîtrise des mers, donc une puissante marine. Avec ses Normands, ses Bretons ou ses Basques, la France ne manquait pas de marins. Mais les marins ne font pas une marine.

La traversée de l’Atlantique pour rejoindre “les Amériques” fut longtemps une grande aventure. Les histoires de la marine, en privilégiant la Royale, c’est-à-dire la flotte de guerre, restent assez lacunaires – une fois passée la période des grandes explorations – sur les bâtiments armés pour le commerce ou la pêche. Pourtant l’épopée de Terre-Neuve est demeurée très présente dans l’imaginaire des gens de nos côtes jusqu’au début de ce siècle.

Pour se rendre outre-Atlantique, il fallait donc des bâtiments, des capitaines, des équipages.

Une fois les grandes lignes maritimes inaugurées, un mouvement continuel de navires devait amener sur les terres du Nouveau Monde des soldats, des missionnaires, des négociants et aussi des émigrants, hommes et femmes.

L’histoire océanique de la France américaine est étroitement liée à l’évolution de ce qu’on appellera un jour notre empire colonial, dont les possessions canadiennes ou acadiennes sont sans doute moins pittoresques que les multiples comptoirs antillais, avec leur arrière-plan de flibuste, de violence et de plaisirs.

L’époque des grandes explorations, qui va tant marquer le XVI siècle européen, voit la France occuper une place singulière. Elle arrive après les Espagnols, certes, mais elle précède les Britanniques et les Hollandais. Sur la façade maritime du royaume, de Dieppe à Bayonne, on retrouve les héritiers de ces populations dont la naissance et l’activité sont étroitement liées au monde maritime: au nord, les Normands qui n’ont jamais coupé tout à fait les liens avec les Vikings; en proue avancée du continent, les Bretons qui se souviennent d’être arrivés outre-Manche; ensuite, au-delà de la Loire, vers le sud, les Poitevins, qui furent à la fois gens de terre et gens de mer, navigateurs et colonisateurs; enfin les Basques qui, même dans leurs expéditions lointaines, gardent quelque chose de mystérieux toujours lié à leur énigmatique identité.

Mais il n’est pas de tradition navale sans construction navale. Une flotte, ce n’est pas seulement le désir de l’aventure, appel irrésistible vers quelque inconnu situé au-delà de l’horizon. C’est aussi et c’est d’abord un chantier naval.

La technique prime et impose sa loi. Les historiens expliquent avant tout l’épopée viking par ces longs serpents à proue et poupe identiques et dont les bordés sont assemblés “à clin”. Ce sera une révolution du même genre – en sens exactement contraire – qui va imposer, dès la fin du XV, siècle, le bordage “à carvel”.

Quant au nombre de mâts, il passe d’un seul à deux et même, plus souvent, à trois. Un “château” à l’avant, un autre à l’arrière. Entre les deux, s’étagent les ponts où l’on trouve parfois des canons. La voilure se complique. On commence à jouer habilement d’une garde-robe fournie où voiles triangulaires et voiles carrées s’harmonisent pour régler l’allure de navires auxquels on demande, autant que possible, de remonter au vent, même si cela tient encore de l’acrobatie.

Ces navires du XVIe siècle, à l’heure des grandes navigations transocéaniques sont encore de petite taille. Armés pour la guerre, le commerce ou la pêche, ils ne dépassent guère une centaine de tonneaux. Peu à peu, ce tonnage va monter en puissance. On verra même au Havre-de-Grâce, fondé par François Ier à l’embouchure de la Seine, des vaisseaux de mille tonneaux et même davantage.

En remontant la Seine, on arrive à Rouen et on découvre, sur les berges du grand fleuve, un des plus singuliers hauts-lieux de la technique marine: le “Clos des galées” , chantier de construction à l’inlassable activité. Il s’agit de construire les bâtiments qui partiront des ports voisins de Fécamp ou de Honfleur pour tenter l’aventure au Nouveau Monde.

Quelques hectares de bois pour construire un navire

Les Bretons, bien entendu, ne sont pas en reste sur les Normands. Mais ils construisent et utilisent des bâtiments d’une taille généralement inférieure à ceux de leurs voisins d’outre-Couesnon. Ces navires y gagnent en maniabilité et un plus faible tirant d’eau va leur permettre de remonter profondément les fleuves américains sans crainte d’échouage. Après viendra l’emploi des canots, sur le modèle des légères embarcations indigènes.

Un chantier ce n’est pas seulement des scieries qui débitent les troncs abattus dans la région ou venus des pays du Nord, ce sont aussi des voileries, des corderies, des entrepôts, des magasins. A Rouen, le fameux Clos occupe toute une partie des berges de la Seine. En Bretagne, les chantiers se dispersent, au hasard des abers, en de petites entreprises vivantes et familiales où la tradition s’accompagne de ces multiples initiatives auxquelles se reconnaît la main du maître charpentier.

Tout cela coûte cher. D’où l’importance des armateurs qui constituent de véritables dynasties et qu’on verra, les poches pleines, s’intéresser à la course… comme au commerce du “bois d’ébène”.

Les écoles d’hydrographie, à commencer par celle de Dieppe, où enseigne le fameux abbé astronome Descellers, forment les pilotes à la navigation hauturière. La science de la navigation ne fait que s’affiner et arrive en renfort d’un sens marin que rien ne saurait remplacer. Du grand explorateur au moindre patron de pêche qui ose affronter l’océan, la qualité des maîtres des navires s’affirme.

Encore faut-il des équipages pour mener leurs bâtiments. Le recrutement obéit à certaines règles, souvent empiriques. Ainsi l’historien Philippe Bonnichon précise: “Un homme par tonneau, c’est un ordre de grandeur, variable du simple à la moitié et loin d’être une règle fixe. Mousses et novices embarquent jeunes, souvent avec des parents, pour se former, devenir mariniers et servir jusqu’à la cinquantaine. Communautés de famille et de paroisse se retrouvent à bord et, de retour, travaillent la terre après avoir bourlingué. Les salaires sont peu élevés, proportionnels à la compétence technique”.

Malgré les expéditions des Normands, des Bretons, des Poitevins ou des Basques, le royaume de France n’en reste pas moins une puissance terrienne, peu tournée vers la mer, malgré l’extraordinaire variété de ses côtes. C’est un handicap qui ne va guère cesser tout au long de son histoire.

La liaison avec l’Amérique suppose ce qu’on nommera un jour “la maîtrise des mers”. Faute d’être soutenues par une imposante flotte de guerre, bien des aventures coloniales sont vouées au dépérissement et à l’échec.

 

Construction d'un navire pour la navigation en haute mer au XVIe  siècle
Construction d’un navire pour la navigation en haute mer au XVIe siècle

Finalement, les périodes favorables aux entreprises maritimes d’envergure sont rares. On cite la première moitié du XVIe siècle, la première moitié du règne de Louis XIV, la fin du règne de Louis XV et le règne de Louis XVI.

Faute de soutien de l’État, les entreprises lointaines sont souvent individuelles ou pour le moins privées. D’où le rôle des fameuses “compagnies”. Mais que peut le commerce seul sans le renfort de la Royale et de ses canons?

Ce royaume qui tourne le dos à la mer et a toujours considéré comme “étrangers” les peuples maritimes qu’il devait subjuguer, à commencer par les Normands et les Bretons, eut la chance de posséder quelques grands hommes d’État qui comprirent que les rivages du nord-ouest de l’Hexagone n’étaient pas des limites mais au contraire des aires d’envol d’où allaient partir caravelles et vaisseaux. Trois grands noms: Richelieu, Colbert et Choiseul.

Au lendemain des guerres de religion, une patrie réconciliée pouvait renaître outre-mer. Sur la terre d’Amérique, la Nouvelle-France devenait plus vaste et plus jeune que celle du Vieux Monde. Ainsi vit-on les étendards fleur de lysés battre au Canada et en Acadie, aux Antilles ou en Guyane.

Techniciens dieppois, malouins et olonnais

Les grands ministres qui furent, de leur bureau continental, de véritables “seigneurs de la mer” n’hésitèrent pas à s’inspirer des expériences septentrionales en matière de construction navale. Des ingénieurs et des ouvriers furent même recrutés en Hollande et au Danemark, en Courlande ou en Suède.

Ces remarquables techniciens, aidés par le vieux savoir-faire des Dieppois, des Malouins ou des Olonnais amenèrent le bâtiment de ligne à une quasi-perfection technique. On n’avait pas vu une telle science nautique depuis les “esnèques” scandinaves du Haut Moyen Age!

Claude Farrère, qui fut aussi bon historien de la mer qu’il fut bon romancier, a laissé une belle description de la construction d’un vaisseau aux temps les plus splendides de la marine à voile.

“Un vaisseau, au temps de Louis XIV, est d’ores et déjà l’un des chefs-d’œuvre de l’industrie humaine. Voyons un peu ce qu’est un vaisseau. Cela peut mesurer quelque soixante ou soixante-dix mètres de long, sur quinze ou vingt mètres de large. Cela déplace de mille à cinq mille tonneaux. La coque comporte une quille, laquelle joint l’étrave à l’étambot, c’est-à-dire la proue à la poupe, -puis des couples, c’est-à-dire de robustes côtes taillées en plein cœur de chêne, et courbées comme il faut; ces couples prennent appui de part et d’autre sur cette façon d’épine dorsale qu’est la quille, et montent du plus profond de la bâtisse jusqu’au plus haut, jusqu’au tillac, dit aussi pont des gaillards. Une charpente horizontale, – les lisses, des préceintes, doublées d’un bordé, qu’on assemble à clins ou à franc-bord, – lie les couples entre eux. Et les ponts et les faux-ponts, régnant de tribord à bâbord, et d’arrière en avant, achèvent la solidité merveilleuse de l’ensemble. Au-dessus de la flottaison, deux ou trois entreponts s’étagent vers les gaillards, – gaillard d’avant ou château, gaillard d’arrière ou dunette. Ces entreponts vont du faux-pont, qui est juste au-dessous des gaillards. Et, plus haut, il n’y a que les mâts”.

Quatre mâts. Trois verticaux, l’artimon, le grand mât, la misaine. Un quatrième oblique, le beaupré, à l’avant. Deux de ces mâts, le grand mât et le mât de misaine, servent principalement à la propulsion. Les deux autres, beaupré et artimon, principalement à l’orientation du navire, ce pourquoi chaque mât porte des vergues, et chaque vergue sa voile. Le tout fait une montagne de toile blanche, haute de soixante mètres environ, chaque basse voile étant large d’au moins vingt-cinq. Rien de plus majestueux qu’un vaisseau de l’ancienne marine sous ses voiles.

Ce qui va le plus manquer à la marine royale – qu’elle soit de guerre ou de commerce – c’est la persévérance. Certes, au temps des grandes compagnies maritimes, les Français porteront leur flotte marchande de trois cents à mille vaisseaux. Mais les Britanniques vont en aligner quatre mille et les Hollandais seize mille! Dans cette disproportion se trouve déjà inscrite la perte de la plupart des possessions américaines, malgré les exploits des capitaines corsaires ou des flibustiers.

Il n’est pas d’empire sans maîtrise des mers. L’infortuné Louis XVI devait le comprendre, alors que tout était déjà joué depuis le funeste traité de 1763 – dont certains ont voulu faire une date aussi significative que celle de 1789.

Claude Farrère devait parfaitement tirer la leçon de près de trois siècles d’aventure navale à la française, une histoire en tragiques dents de scie, où l’héroïsme des équipages n’a que rarement compensé l’impéritie des gouvernants.

“C’est une criminelle erreur d’avoir cru qu’on peut avoir des colonies en négligeant d’avoir une marine”.

mardi, 24 août 2010

Cola di Rienzi & the Politics of Proto-Fascism

Cola di Rienzi & the Politics of Proto-Fascism

Roma-coladirienzo01.jpgA young Italian nationalist leads his followers on a march through Rome, seizing power from corrupt elites to establish a palingenetic regime. Declaring himself Tribune, his ultimate aim is to recreate the power and glory of Ancient Rome. However, a conspiracy of his enemies topples him from power, and he is imprisoned.  Eventually, the most powerful man in the West frees him and restores him to power — albeit as leader of a puppet regime. His second attempt at Italian rebirth is cut short; he is captured, killed, and his body desecrated by the howling mob. A man who had attempted to drive his degenerate countrymen to fulfill a higher destiny is cut down by the unthinking masses — a cowardly herd who lacked the ability to comprehend, much less work towards, this leader’s dreams of glory.

Is this the life of Benito Mussolini, Duce of Fascist Italy? Well, perhaps — but even more accurately it is a description of Il Duce’s predecessor, the Roman notary Cola di Rienzi. In the mid-fourteenth century, 900 years after the Fall of Rome, di Rienzi engaged in a romantic and ill-fated attempt to restore the Roman Republic and, perhaps, the Empire itself.  Musto’s book tells us what happened. To those familiar with the life of Mussolini, di Rienzi’s tale is shocking in its similarities — shocking and depressing.

The life of Cola di Rienzi — referred to by Musto as Cola di Rienzo — is well known to historians of the Middle Ages, and was, at one time, well known to Italians in general. But in the twentieth century he was eclipsed by Mussolini, who still symbolizes Roman and Italian renewal in many minds. The self-hating Italian Luigi Barzini did di Rienzi no favors in his book The Italians. Thus, Musto’s sympathetic and well-written biography of di Rienzi is long overdo, and is an excellent addition to the library of any individual interested in European history. Of interest for this essay is the relationship of di Rienzi to fascism and the role played by the church and selfish elites in the downfall of di Rienzi and in the humiliating history of modern Italy.

Roger Griffin (Fascism, Oxford University Press, 1995) famously described fascism as “palingenetic populist ultra-nationalism” — making the elements of renewal, rebirth, and regeneration central to all permutations of this ideology. That Cola di Rienzi was a proto-fascist is quite clear. He was a populist leader, appealing to the middle class against established elites, intent on the regeneration and rebirth of Rome, Italy, and, by example, the world.

That he couched this agenda in highly religious Christian terms is to be expected for the time and place — in fourteenth century Italy he could not do otherwise — and in no way detracts from the fascistic palingenetic tone of his rhetoric and actions. After all, perhaps the “most fascist” of all the twentieth-century fascisms — Romania’s Legionary movement — was devoutly Christian and made spiritual/moral regeneration the palingenetic focus of their ideology. Thus, there is no obvious reason not to see “Rienzism” as a sort of fourteenth century fascism.

Indeed, as Musto describes di Rienzi’s march through Rome (sound familiar?) to establish his buono stato (good state), we read the following : “. . . the people of Rome restored to their proper place, mingling among friends, neighbors, and strangers, all sharing the same sense of rebirth and renewal” (emphasis added). That sounds reasonably palingenetic to me; Cola di Rienzi as Tribune of Rome or Benito Mussolini as Duce of Italy — the similarities outweigh the differences.

That Cola di Rienzi is viewed by many as a generally positive figure who — for all his flaws — sincerely wanted the best for the people suggests that perhaps proto-fascism (or fascism, for that matter) is not the unalloyed evil that some make it out to be.

Musto states that di Rienzi was more of an artist than a politician in his actions and propaganda, which is completely consistent with the aesthetic nature of fascist movements (uniforms, ceremonies, rituals, art, etc.) of the twentieth century. Cola di Rienzi’s friend and admirer was the famed Petrarch, who recognized in the young Tribune the hope of Italy and the possibility of a new age, an age of rebirth and promise. Thus, a primary icon of fourteenth century Western culture was attracted to the sociopolitical and aesthetic characteristics of the Rienzian phenomenon.

Musto notes that di Rienzi spoke not only for the people of Rome but for all the people of “sacred Italy” to whom he wished to extend Roman citizenship. Musto describes in detail how, after spending time with Pope Clement VI — his eventual bitter enemy — di Rienzi returned to Rome to overthrow the feudal rule of the baronial families. These barons had turned the eternal city into a depopulated, anarchical, bloody, and violent mess, with the Roman people groaning under the self-interested misrule of the baronial elite.

Cola spent many months laying the groundwork for his revolution, engaging in various form of propaganda, including art as well as speech, until the day came when he and followers marched to seize power. Cola declared himself Tribune, ousted the barons, and began the formation of the so-called buono stato — a name which implies as much moral/spiritual renewal as much as it does plain good governance.

And di Rienzi did bring good governance; to use twentieth-century language he made the “trains run on time.”  Establishing ties with other Italian cities, reaching out to the West as a whole, and supported by Petrarch, di Rienzi captured the attention not only of Europe but also instilled fear into the Islamic world, which saw the possibility of a resurgent Rome as the center of Western resistance to Asiatic expansion.

However, the Pope was not at all pleased with the rise of a secular power base in Rome to challenge the Church. As long as he perceived that di Rienzi would act as an effective mouthpiece to enforce Papal prerogatives against the barons, Clement supported the Tribune. But as soon as it became apparent that di Rienzi was his own man, with his own agenda, and that this agenda included a destiny for Rome and Italy that went beyond slavish subservience to the church, Clement decided that di Rienzi had to go.

Therefore, after months of intriguing against di Rienzi — even to the point of attempting to orchestrate food shortages to turn the Roman people against the Tribune — the Pope (the papacy at this time being self-exiled in France to protect themselves from their secular enemies) dropped the bombshell: on Dec. 3, 1347, Cola di Rienzi was condemned and excommunicated, and all who would support the Tribune were threatened with the same fate.

Indeed, if Rome still rallied behind di Rienzi, the entire city would have been under the Papal interdict; the entire city would have become a pariah in the Western, Christian world. In the fourteenth century, particularly fourteenth century Italy, excommunication was the worst sociopolitical fate for any leader, far worse than merely being labeled a “traitor” (which they called di Rienzi as well).

A whole list of crimes were put forth against the Tribune (including, absurdly, necromancy), and the Pope began to actively collaborate with the barons for the “final act” against the Rienzian regime. By this time, di Rienzi and the Roman people had decisively defeated the barons in the battle of Porta San Lorenzo. But it did not matter. In the year 1347, the Church, and the spiritual power of the Pope, was far more powerful than any army, any military victory. So, with the aid of the Pope, the barons rebelled and deposed di Rienzi, who was forced into exile.

Even then the Pope was not satisfied, remaining “fixated” on di Rienzi, scheming to have him captured and “annihilated.” Such was the hatred of this “Christian man of God” for the Tribune who wished to create regeneration for Romans and Italians. Could di Rienzi, in the fourteenth century, have said “Basta!” and defied the Church? Consider that Mussolini in the twentieth century could not do so, to his detriment. The secular power and ambitions of the Church was and remains a shackle on the aspirations of the Italian people.

Cola di Rienzi attempted to find sanctuary in Prague with the emperor Charles IV who eventually bowed to the overwhelming power of the papacy and turned di Rienzi over to the Inquisition for trial for “heresy.” Part of di Rienzi’s defense was his assertion — somewhat “outrageous” for the fourteenth century — that the church should have no secular power, since the founding basis for Christianity was “poverty and humility.” One can only imagine Pope Clements’s reaction to that.

Eventually brought before Pope Clement, di Rienzi was a shell of his former self, and the symbolism of this meeting cannot be dismissed. The populist and secular (yet devoutly religious) hope of Italy was brought as a humiliated prisoner before the man representing the memetic virus that has infected the West and enslaved the Italian people for centuries.

The worm turned after the death of Clement VI and the ascension of Pope Innocent VI, a less “worldly and extravagant” man than his predecessor. Innocent had, not surprisingly, secular aspirations in Rome and was therefore distressed by the violence and anarchy prevailing after the fall of di Rienzi and the rise, once again, of the baronial families. Therefore, Cola was “rehabilitated” and sent to Rome as a Papal puppet to restore his “good state” — but this time, as Innocent writes, without the “fantastic innovations” of the first Rienzian regime.

Of course, those “fantastic innovations” were merely the assertion of the Roman peoples’ right to rule themselves in a secular state independent of papal micromanagement, and that Rome and Italy were in dire need of regeneration and renewal. This was not exactly what the church wanted, or wants today. And so, a chastened Cola di Rienzi was put forward as Pope Innocent’s tool with the hope that the repeat of the Rienzian regime would not degenerate into farce. Rome not being what she once was, that hope was misplaced.

The ex-tribune (now “senator” and Papal rector) was painfully aware that the real leader of Rome was the Pope, not the Emperor, not any self-proclaimed Tribune. This is something that he had dedicated years to opposing. From the beginning of his second tenure of power — power only at the sufferance of the Pope — the established elites, particularly the barons, opposed and plotted against di Rienzi. The plots became complicated and di Rienzi, after years of imprisonment and hardship, and possibly suffering from epilepsy, was not the same man. Errors of judgment, executions of venerable Roman citizens, and the imposition of required taxes began to fray the support of the fickle Roman masses.

When the end came, at the instigation of the barons and their supporters, it came fast. The howling mob stormed di Rienzi’s residence and drowned out his attempts to reason with them. Cola di Rienzi was caught trying to flee the mob in disguise (like Mussolini); he was stabbed to death (like Caesar); his body was desecrated (like Mussolini again) then burnt to ashes (like Hitler). The ashes were thrown into the Tiber; all physical traces of the Tribune were gone.

The eerily similar lives and political careers of di Rienzi and Mussolini should give one pause. Both men were Italians living in a time of crisis for their people. Both men rose up to lead populist revolts against the established order. Both men established regimes which were initially successful and lauded by many, but then these regimes went sour and were overthrown by the forces of reaction. Both men were imprisoned thereafter. Both men then returned to power through the help of another, more powerful person — in the case of di Rienzi it was the Pope, in the case of Mussolini, Hitler. Both men then attempted to reestablish their regime, eventually failed, were killed by their enemies, and their bodies were desecrated by the mob. Both men attempted to lift the Italian people to greatness, but the special interests were too powerful and the lure of insipid, hedonistic stagnation too great.

The similarities are too many to be a coincidence. This then seems to be a distinctly Italian phenomenon. Who was at fault? Was it the fault of the two leaders themselves? Were they fatally flawed men? No doubt both men, particularly di Rienzi, had their flaws, and these flaws contributed to their failure and demise. But all great men have flaws. This easy explanation does not suffice.

No, the Italian people also have to share the blame, and I say this as a pan-European racial nationalist who is very supportive of the Italian people. Nevertheless, twice in Italy’s modern history dynamic leaders came to the fore to lead Italians to greatness, and twice did the Italian people turn on them. (In defense of the Italians, one has to ask if any other European societies have done better. One might say that it is better to have tried and failed a Rienzi or a Mussolini than never to have tried at all, which is the case of most European societies.)

I cannot forget reading Leon DeGrelle’s book on his experiences on the eastern front (translated as Campaign in Russia), fighting for Europe as part of the Wallonian division of the Waffen SS. The Italian soldiers he met were uninterested in fighting. They had no sense of the seriousness of the crusade against Bolshevism and for Europe. Instead, they cared only about “wine, women, and fun in the sun.” Nietzsche’s “last men” to be sure! (The rest of Europe has surely caught up with the Italians since then.) No wonder Italian military performance in WW II was a farce. No wonder that Italians have so long been the anvil of history, not the hammer, a fact lamented by great Italians from the middle ages to Machiavelli to Julius Evola to the present day.

But we cannot solely blame the Italians or focus on the personal flaws of di Rienzi and Mussolini. No, the 800 pound gorilla in the room is the Vatican.

An analysis of the career of di Rienzi clearly shows the pernicious influence of Pope Clement VI. Musto’s book makes it clear that Clement VI was little more than a self-interested feudal lord, more concerned with maintaining petty Papal power and privilege than in the national regeneration promised by di Rienzi. For example, on page 190 we read of the Pope’s real attitude toward di Rienzi’s new regime: “. . . the pope began carefully, delicately plotting Cola’s downfall and seeking his personal humiliation, as well as his public infamita as a traitor and a heretic.” In short, the church plotted to crush the political aspirations of the Italian people to keep them in secular servitude to the Vatican.

There is a long history of such behavior. Cola di Rienzi was not the first man to attempt Italian/Roman regeneration only to fall victim to the Vatican. As Musto tells us, in 1143, the people of Rome rose up against Pope Innocent II, drove the papacy into exile, re-established the Roman Senate, and even started minting coins in the name of “SPQR” — “The Senate and the People of Rome.” Arnold of Brescia, a monk and political philosopher, rose to lead the new republic and offered an intellectual rationale for the church’s renunciation of secular power. But in 1155, at the instigation of the papacy, the German Emperor Frederick I led an army against Rome to crush the republic and reinstall the pope. Arnold of Brescia was burned at the stake as a heretic and his ashes dumped into the Tiber. Yes, to preserve its power, the church turned to foreigners to suppress the political aspirations of the Romans.

The secular power of the church caused a “dual loyalty” problem that remains to this day. Is an Italian’s highest loyalty to Italy or to the Vatican? To di Rienzi and Mussolini or to the Pope? (Or, in Il Duce’s Italy, to the Pope as well as the secular figurehead, the King?) It is interested to contemplate how history might have been changed if the papacy had remained in Avignon, if the church had been disestablished and the papacy denied sovereign status once and for all after the reunification of Italy, or if Mussolini had not signed the Lateran Treaty of 1929, rescuing papal sovereignty from the legal limbo in which it had languished since 1861.

The other major party opposed to Cola di Rienzi were the barons of medieval Rome. As a self-interested elite, enriching themselves at the cost of the people’s well being, they are perfectly analogous to the white globalist elites of today, who routinely betray their race’s interests in their hedonistic pursuit of money, power, and pleasure.

The barons of di Rienzi’s time are also analogous to the established elites (King, nobility, military, and business) of Mussolini’s Italy. These elites opposed a full and radical fascistization of the Italian people and instead valued the well-being of their own caste over that of society as a whole. European-derived peoples, with their greater individualism, tend to produce elites willing to betray their race (and their own ethnic genetic interests) for selfish class/caste/individual interests.

What are the lessons of the story of Cola di Rienzi?

Culturally and politically, the Italians are one of the healthiest people in Europe today. Their tradition of palingenetic populist nationalism has deep roots, nourished and hallowed by the blood of martyrs like Arnold of Brescia, Cola di Rienzi, and Benito Mussolini. They failed because they could not overcome the resistance of the “barons” and the church — those whose petty secular interests are threatened by genuine national renewal. The next time — if there is a next time — things need to be done right.

For the West as a whole, the story of di Rienzi demonstrates that self-interested established elites always oppose palingenesis. It is time for a new elite, one that understands that their own interests and those of their people are one and the same, and who will work first towards  survival, and second towards fulfilling a higher destiny, the Destiny of the West.

Will “the people” be up to the challenge? We shall see. One thing is for sure — we cannot afford to waste the likes of a di Rienzi or a Mussolini. Such leaders need to be treasured, not to have their torn bodies hanged upside down for the amusement of the small-brained, milling mob.

It is time for a clean sweep. Reform is the enemy. Only complete rebirth can save us now.

dimanche, 22 août 2010

UN ouvrage fondamental sur la "révolution conservatrice"

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Un ouvrage fondamental sur la révolution conservatrice

 

Richard FABER (Hrsg.), Konservatismus in Geschichte und Gegenwart, Königs­hau­sen & Neu­mann, Würzburg, 1991, ISBN 3-88479-592-9.

 

Deux contributions de cet ouvrage collectif intéressent directement notre propos: 1) Ri­chard FABER, «Differenzierungen im Be­griff Konservatismus. Ein religionssoziolo­gi­scher Versuch» et 2) Arno KLÖNNE, «"Rechts oder Links?". Zur Geschichte der Nationalrevolutionäre und Na­tionalbolsche­wisten». Richard Faber, dont nous connais­sons déjà la concision, résume en treize points les positions fondamentales du "con­servatisme" (entendu dans le sens alle­mand et non pas britannique):

◊1) le principe de "mortui plurimi", le culte des morts et des anciens, garant d'un ave­nir dans la conti­nui­té, de la durée.

 

◊2) Ce culte de la durée im­plique la no­stal­gie d'un ordre social stable, comme celui d'a­vant la révolution, la réfor­me et la re­nais­san­ce (Hugo von Hofmanns­thal).

 

◊3) Dans l'actualité, cette nostalgie doit con­duire l'homme politique à défendre un or­dre économique "sain", respectant la plu­ralité des forces sociales; à ce niveau, une con­tra­diction existe dans le conservatisme con­temporain, où Carl Schmitt, par exem­ple, dé­nonce ce néo-médiévisme social, com­me un "romantisme politique" inopé­rant, au nom d'un étatisme efficace, plus dur encore que le stato corporativo italien.

 

◊4) L'ordre social et politique dérive d'une re­­pré­sentation de l'empire (chinois, babylo­nien, perse, assyrien ou romain) comme un analogon du cosmos, comme un reflet mi­cro­cosmique du macrocosme. Le christia­nis­­me médiéval a retenu l'essentiel de ce cosmisme païen (urbs deis hominibusque com­munis). La querelle dans le camp con­ser­vateur, pour Faber, oppose ceux qui veu­­­lent un retour sans médiation aux sour­ces originales païen­­nes et ceux qui se con­tentent d'une ré­­pétition de la synthèse mé­dié­vale christia­ni­sée.

 

◊5) Les conservateurs perçoivent le fer­ment chrétien comme subversif: ils veu­lent une re­ligion qui ne soit pas opposée au fonction­nement du politique; à partir de là, se déve­loppe un anti-christia­nisme conservateur et néo-païen, ou on impose, à la suite de Jo­seph de Maistre, l'ex­pé­diant d'une infailli­bi­li­té pontificale pour bar­rer la route à l'impo­li­tis­me évangélique.

 

◊6) Les positivistes comtiens, puis les maur­ras­siens, partageant ce raisonnement, déjà présent chez Hegel, parient pour un catho­li­cis­me athée voire pour une théocratie a­thée.

 

◊7) Un certain post-fascisme (défini par Rü­diger Altmann), observable dans toutes les traditions politiques d'après 1945, vise l'in­té­gration de toutes les composantes de la so­ciété pour les soumettre à l'économie. Ainsi, le pluralisme, pourtant affiché en théo­rie, cè­­de le pas devant l'intégra­tion/ho­mo­loga­tion (option du conservatisme technocrate).

 

◊8) Dans ce contexte, se dé­ve­lop­pe un ca­tholicisme conservateur, hostile à l'auto­no­mie de l'économie et de la so­cié­té, les­quel­les doivent se soumettre à une "syn­thèse", celle de l'"organisme social" (suite p. 67).

 

◊9) Le contraire de cette synthèse est le néo-li­béralisme, expression d'un polythéis­me po­liti­que, d'après Faber. Les principaux re­pré­sentants de ce poly­théis­me libéral sont O­do Marquard et Hans Blumenberg.

 

◊10) Dans le cadre de la dialectique des Lu­mières, Locke estimait que l'individu devait se soumettre à la société civile et non plus à l'autorité po­litique absolue (Hobbes); l'exi­gence de soumission se mue en césarisme chez Schmitt. Dans les trois cas, il y a exi­gence de soumission, comme il y a exi­gen­ce de sou­mission à la sphère économique (Alt­mann). Le conservatisme peut s'en ré­jouir ou s'en insurger, selon les cas.

 

◊11) Pour Fa­ber, comme pour Walter Ben­jamin avant lui, le conservatisme représente une "tra­hi­son des clercs" (ou des intellec­tuels), où ceux-ci tentent de sortir du cul-de-sac des discussions sans fin pour débou­cher sur des décisions claires; la pensée de l'ur­gence est donc une caractéristique ma­jeu­re de la pensée conservatrice.

 

◊12) Faber cri­ti­que, à la suite d'Adorno, de Marcuse et de Ben­jamin, le "caractère affir­ma­teur de la cul­ture", propre du con­ser­va­tisme. Il re­mar­que que Maurras et Maulnier s'engagent dans le combat politique pour pré­server la culture, écornée et galvaudée par les idéo­logies de masse. Waldemar Gu­rian, disciple de Schmitt et historien de l'Ac­tion Fran­çai­se, constate que les sociétés ne peuvent sur­vivre si la Bildung disparaît, ce mé­lange de raffinement et d'éducation, pro­pre de l'é­li­te intellectuelle et créatrice d'une na­tion ou d'une civilisation.

 

◊13) Dans son dernier point, Faber revient sur la cosmologie du conservatisme. Celle-ci implique un temps cyclique, en appa­ren­ce différent du temps chrétien, mais un au­teur comme Erich Voe­gelin accepte explici­te­ment la "plus ancien­ne sagesse de l'hom­me", qui se soumet au rythme du devenir et de la finitude. Pour Voe­gelin, comme pour cer­tains conserva­teurs païens, c'est la pen­sée gnostique, an­cêtre directe de la moder­nité délétère, qui re­jette et nie "le destin cy­clique de toutes choses sous le soleil". La gnose christia­ni­sée ou non du Bas-Empire, cesse de per­ce­voir le monde comme un cos­mos bien or­don­né, où l'homme hellé­ni­que se sentait chez lui. Le gnostique de l'an­tiquité tardive, puis l'homme moderne qui veut tout mo­di­fier et tout dépasser, ne par­vient plus à re­gar­der le monde avec émerveillement. Le chré­tien catholique Voe­gelin, qui aime la cré­a­tion et en admire l'or­dre, rejoint ainsi le païen catholique Maur­ras. Albrecht Erich Günther, figure de la ré­vo­lution conserva­trice, définit le conserva­tis­me non comme une propension à tenir à ce qui nous vient d'hier, mais propose de vi­vre comme on a toujours vécu: quod sem­per, quod ubique, quod omnibus.      

 

Dans sa contribution, Arno Klönne évoque la démarche anti-système de personnalités comme Otto Strasser, Hans Ebeling, Ernst Niekisch, Beppo Römer, Karl O. Paetel, etc., et résume clairement cette démarche en­tre tous les fronts dominants de la pen­sée politique allemande des années 20 et 30.  Le refus de se laisser embrigader est une leçon de liberté, que semble reprendre la "Neue Rechte" allemande actuelle, sur­tout par les textes de Marcus Bauer, philo­so­phe et théologien de formation. Un ex­cel­lent résumé pour l'étudiant qui sou­hai­te s'i­ni­tier à cette matière hautement com­ple­xe (RS).

 

vendredi, 20 août 2010

Nouvelle Revue d'Histoire n°49: en kiosque!

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En kiosque !

16:19 Publié dans Histoire, Revue | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : revue, histoire, afghanistan, moyen orient, nouvelle droite | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 06 août 2010

Prussien par élection

Prussien par élection

 

Hommage à Hans-Joachim Schoeps, à l’occasion du trentième anniversaire de sa disparition

 

656.jpg« On n’est pas Prussien par le sang, on le devient par un acte de foi ». Cette phrase est due à la plume du philosophe juif et de l’explorateur des religions Hans-Joachim Schoeps. Le 8 juillet 2010, il y avait juste trente ans qu’il avait quitté ce monde. Inutile de préciser que la maxime mise en exergue de ce texte le concernait personnellement : Schoeps s’affirmait Prussien.

 

Après la seconde guerre mondiale, à une époque où le peuple allemand entamait le long processus qui consistait à se nier soi-même, Schoeps s’est dressé et a commencé à militer pour le droit de l’Allemagne à la vie. Il savait comment son engagement allait être perçu et il l’a dit de manière très pertinente : « Les pierres angulaires de ma vie, être tout à la foi conservateur, prussien et juif, font bien évidemment l’effet d’une provocation chez les fils rouges de pères bruns ». Les insultes n’ont pas manqué de fuser : Wolf Biermann, compositeur juif de chansons d’inspiration communiste, s’est immédiatement laissé aller en étiquetant Schoeps de « Juif à la Heil Hitler ». Cette insulte était bien entendu une aberration telle qu’elle n’a jamais eu d’équivalent. De fait, Schoeps, qui a enseigné jusqu’en 1938 au Gymnasium juif de Vienne, n’avait pas eu d’autre alternative, après la terrible « Nuit de Cristal » d’emprunter le chemin de l’exil. Il s’est rendu en Suède. Son père, le Dr. Julius Schoeps, colonel médecin militaire attaché à l’état-major, et d’après le très officiel « Biographisches Handbuch der deutschsprachigen Emigration » (« Manuel biographique de l’émigration germanophone ») , un « nationaliste allemand », est mort en 1942 dans le camp-ghetto de Theresienstadt.

 

Le rêve de l’unité allemande

 

Hans-Joachim Schoeps est né en 1909 à Berlin. Il était sentimentalement et profondément lié à la capitale allemande et le resta jusqu’à la fin de ses jours. Il n’a malheureusement pas pu vivre la chute du Mur et la réunification du pays. Dans les souvenirs qu’il nous a laissés, il écrit : « ah, que j’aimerais encore une fois au moins me promener dans les rues de Potsdam et entendre le son des vieilles cloches de l’église de la garnison ou me retrouver sur les murailles de Marienburg pour voir y flotter l’aigle noir et le drapeau avec nos deux couleurs, le drapeau sous lequel ont combattu les Chevaliers de l’Ordre pour gagner la Prusse au Reich ».

 

Pendant la République de Weimar, Schoeps a fréquenté les nationaux-allemands, les mouvements de jeunesse « bündisch » (liguistes), liés à  la tradition des Wandervögel, mais en s’intéressant à la politique et animés par une volonté de forger une société et un Etat nouveaux. En 1932, une année après avoir obtenu son doctorat en philosophie, thèse qui portait sur « l’histoire de la philosophie religieuse juive à l’époque moderne », Schoeps fonde le « Deutscher Vortrupp – Gefolgschaft deutsche Juden » (« Avant-garde des éclaireurs allemands – Leudes juifs allemands »), pour offrir un espace d’activité et de survie aux Juifs allemands patriotes, leur donnant simultanément la possibilité d’agir pour forger un ordre nouveau. L’entreprise fut un échec car ni les antisémites de la NSDAP ni les sionistes ne voulaient voir se constituer un tel mouvement.

 

En 1946, Schoeps revient de Suède et se fixe à nouveau en Allemagne. Il a l’honneur de refuser catégoriquement l’offre que lui fit immédiatement l’occupant américain : travailler dans un journal sous licence pour participer à la rééducation du peuple. « Je ne veut pas devenir un Quisling des Américains », déclara-t-il à la suite de son refus hautain. En 1947, il obtient un nouveau titre de docteur à l’Université de Marbourg et, à partir de 1950, il enseigne l’histoire des religions et des idées à l’Université d’Erlangen. Dans le cadre de ses activités universitaires, il s’est toujours dressé contre les accusations collectives que l’idéologie nouvelle, anti-allemande, ne cessait de formuler. Schoeps s’engage aussi pour réhabiliter l’histoire prussienne, continuellement diffamée. Dès 1951, il réclame la reconstitution de la Prusse, que le Conseil de Contrôle interallié avait dissoute en 1947.

 

Après la guerre, il n’a jamais cessé non plus de parler au nom de la communauté juive d’Allemagne. Il refusait de s’identifier aux idéologues du sionisme et n’a jamais voulu se rendre dans le nouvel Etat d’Israël.

 

(article paru dans DNZ, n°28/juillet 2010).

   

jeudi, 15 juillet 2010

Foundations of Russian Nationalism

Foundations of Russian Nationalism

Robert Steuckers
 
Ex: http://www.counter-currents.com/
 

Medal of the Soviet Order of Alexander Nevsky, 1942

Translated by Greg Johnson

Throughout its history, Russia has been estranged from European dynamics. Its nationalism and national ideology are marked by a double game of attraction and revulsion towards Europe in particular and the West in general.

The famous Italian Slavist Aldo Ferrari points out that from the 10th to the 13th centuries, the Russia of Kiev was well-integrated into the medieval economic system. The Tartar invasion tore Russia away from the West. Later, when the Principality of Moscow reorganized itself and rolled back the residues of the Tartar Empire, Russia came to see itself as a new Orthodox Byzantium, different from the Catholic and Protestant West. The victory of Moscow began the Russian drive towards the Siberian vastness.

The rise of Peter the Great, the reign of Catherine the Great, and the 19th century brought a tentative rapprochement with the West.

To many observers, the Communist revolution inaugurated a new phase of autarkic isolation and de-Westernization, in spite of the Western European origin of its ideology, Marxism.

But the Westernization of the 19th century had not been unanimously accepted. At the beginning of the century, a fundamentalist, romantic, nationalist current appeared with vehemence all over Russia: against the “Occidentalists” rose the “Slavophiles.” The major cleavage between the left and the right was born in Russia, in the wake of German romanticism. It is still alive today in Moscow, where the debate is increasingly lively.

The leader of the Occidentalists in the 19th century was Piotr Chaadaev. The most outstanding figures of the “Slavophile” camp were Ivan Kireevski, Aleksei Khomiakov, and Ivan Axakov. Russian Occidentalism developed in several directions: liberal, anarchist, socialist. The Slavophiles developed an ideological current resting on two systems of values: Orthodox Christendom and peasant community. In non-propagandistic terms, that meant the autonomy of the national churches and a savage anti-individualism that regarded Western liberalism, especially the Anglo-Saxon variety, as a true abomination.

Over the decades, this division became increasingly complex. Certain leftists evolved towards a Russian particularism, an anti-capitalist, anarchist-peasant socialism. The Slavophile right mutated into  “panslavism” manipulated to further Russian expansion in the Balkans (supporting the Romanians, Serbs, Bulgarians, and Greeks against the Ottomans).

Among these “panslavists” was the philosopher Nikolay Danilevsky, author of an audacious historical panorama depicting Europe as a community of old people drained of their historical energies, and the Slavs as a phalange of young people destined to govern the world. Under the direction of Russia, the Slavs must seize Constantinople, re-assume the role of Byzantium, and build an imperishable empire.

Against the Danilevsky’s program, the philosopher Konstantin Leontiev wanted an alliance between Islam and Orthodoxy against the liberal ferment of dissolution from the West. He opposed all conflict between Russians and Ottomans in the Balkans. The enemy was above all Anglo-Saxon. Leontiev’s vision still appeals to many Russians today.

Lastly, in the Diary of Writer, Dostoevsky developed similar ideas (the youthfulness of the Slavic peoples, the perversion of the liberal West) to which he added a radical anti-Catholicism. Dostoevsky came to inspire in particular the German “national-Bolsheviks” of the Weimar Republic (Niekisch, Paetel, Moeller van den Bruck, who was his translator).

Following the construction of the Trans-Siberian railroad under the energetic direction of the minister Witte, a pragmatic and autarkical ideology of “Eurasianism” emerged that aimed to put the region under Russian control, whether directed by a Tsar or a Soviet Vojd (“Chief”).

The “Eurasian” ideologists are Troubetzkoy, Savitski, and Vernadsky. For them, Russia is not an Eastern part of Europe but a continent in itself, which occupies the center of the “World Island” that the British geopolitician Halford John Mackinder called the “Heartland.” For Mackinder, the power that managed to control “Heartland” was automatically master of the planet.

Indeed, this “Heartland,” namely the area extending from Moscow to the Urals and the Urals to the Transbaikal, was inaccessible to the maritime powers like England and the United States. It could thus hold them in check.

Soviet policy, especially during the Cold War, always tried to realize Mackinder’s worst fears, i.e., to make the Russo-Siberian center of the USSR impregnable. Even in the era of nuclear power, aviation, and transcontinental missiles. This “sanctuarization” of the Soviet “Heartland” constituted the semi-official ideology of the Red Army from Stalin to Brezhnev.

The imperial neo-nationalists, the national-Communists, and the patriots opposed Gorbachev and Yeltsin because they dismantled the Eastern-European, Ukrainian, Baltic, and central-Asian glacis of this “Heartland.”

These are the premises of Russian nationalism, whose multiple currents today oscillate between a populist-Slavophile pole (“narodniki,” from “narod,” people), a panslavist pole, and an Eurasian pole. For Aldo Ferrari, today’s Russian nationalism is subdivided between four currents: (a) neo-Slavophiles, (b) eurasianists, (c) national-Communists, and (d) ethnic nationalists.

The neo-Slavophiles are primarily those who advocate the theses of Solzhenitsyn. In How to Restore Our Russia?, the writer exiled in the United States preached putting Russia on a diet: She must give up all  imperial inclinations and fully recognize the right to self-determination of the peoples on her periphery. Solzhenitsyn then recommended a federation of the three great Slavic nations of the ex-USSR (Russia, Belarus, and Ukraine). To maximize the development of Siberia, he suggested a democracy based on small communities, a bit like the Swiss model. The other neo-nationalists reproach him for mutilating the imperial motherland and for propagating a ruralist utopianism, unrealizable in the hyper-modern world in which we live.

The Eurasianists are everywhere in the current Russian political arena. The philosopher to whom they refer is Lev Goumilev, a kind of Russian Spengler who analyzes the events of history according to the degree of passion that animates a people. When the people are impassioned, they create great things. When inner passion dims, the people decline and die. Such is the fate of the West.

For Goumilev, the Soviet borders are intangible but new Russia must adhere to the principle of ethnic pluralism. It is thus not a question of Russianizing the people of the periphery but of making of them definitive allies of the “imperial people.”

Goumilev, who died in June 1992, interpreted the ideas of Leontiev in a secular direction: the Russians and the Turkish-speaking peoples of Central Asia were to make common cause, setting aside their religious differences.

Today, the heritage of Goumilev is found in the columns of Elementy, the review of the Russian “New Right” of Alexandre Dugin, and Dyeïnn (which became Zavtra, after the prohibition of October 1993), the newspaper of Alexander Prokhanov, the leading national-patriotic writers and journalists. But one also finds it among certain Moslems of the “Party of Islamic Rebirth,” in particular Djemal Haydar. More curiously, two members of Yeltsin’s staff, Rahr and Tolz, were followers of Eurasianism. Their advice was hardly followed.

According to Aldo Ferrari, the national-Communists assert the continuity of the Soviet State as an historical entity and autonomous geopolitical space. But they understand that Marxism is no longer valid. Today, they advocate a “third way” in which the concept of national solidarity is cardinal. This is particularly the case of the chief of the Communist Party of the Russuan Federation, Gennady Zyuganov.

The ethnic nationalists are inspired more by the pre-1914 Russian extreme right that wished to preserve the “ethnic purity” of the people. In a certain sense, they are xenophobic and populist. They want people from the Caucasus to return to their homelands and are sometimes strident anti-Semites, in the Russian tradition.

Indeed, Russian neo-nationalism is rooted in the tradition of 19th century nationalism. In the 1960s, the neo-ruralists (Valentine Raspoutin, Vassili Belov, Soloukhine, Fiodor Abramov, etc.) came to completely reject “Western liberalism,” based on a veritable “conservative revolution”—all with the blessing of the Soviet power structure!

The literary review Nache Sovremenik was made the vehicle of this ideology: neo-Orthodox, ruralist, conservative, concerned with ethical values, ecological. Communism, they said, extirpated the “mythical consciousness” and created a “humanity of amoral monsters” completely “depraved,” ready to accept Western mirages.

Ultimately, this “conservative revolution” was quietly imposed in Russia while in the West the “masquerade” of 1968 (De Gaulle) caused the cultural catastrophe we are still suffering.

The Russian conservatives also put an end to the Communist phantasm of the “progressive interpretation of history.” The Communists, indeed, from the Russian past whatever presaged the Revolution and rejected the rest. To the “progressivist and selective interpretation,” the conservatives opposed the “unique flow”: they simultaneously valorized all Russian historical traditions and mortally relativized the linear conception of Marxism.

Bibliography

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Robert STEUCKERS (éd.), Dossier «National-communisme», in Vouloir, n°105/108, juillet-septembre 1993 (textes sur les variantes du nationalisme russe d’aujourd’hui, sur le “national-bolchévisme” russe des années 20 et 30, sur le fascisme russe, sur V. Raspoutine, sur la polé­mique parisienne de l’été 93).

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Walter LAQUEUR, Der Schoß ist fruchtbar noch. Der militante Nationalismus der russi­schen Rechten, Kindler, München, 1993.

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Alexandre DOUGUINE, «La révolution conservatrice russe», manuscrit,  texte à paraître dans Vouloir.

Konstantin LEONTIEV, Bizantinismo e Mondo Slavo, Ed. all’insegna del Veltro, Parme, 1987 (trad. d’Aldo FERRARI).

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Hans KOHN, Le panslavisme. Son histoire et son idéologie, Payot, Paris, 1963.

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http://euro-synergies.hautetfort.com/archive/2010/06/14/fondements-du-nationalisme-russe.html

mardi, 13 juillet 2010

Les travaux de Tilak et Horken: sur les origines des peuples indo-européens

Map-8000BC.jpg Walther BURGWEDEL :

 Les travaux de Tilak et Horken : sur les origines des peuples indo-européens

 

Il arrive parfois que deux chercheurs, chacun pour soi, se rapprochent de la solution recherchée, si bien que chacun d’entre eux aurait abouti dans sa démarche plus rapidement s’il avait eu connaissance des résultats de son homologue. Je vais étudier la démarche de deux chercheurs, qui ne se connaissaient pas l’un l’autre, appartenaient à des générations différentes et n’ont donc jamais eu l’occasion de se rencontrer ni, a fortiori, de compléter leurs recherches en s’inspirant l’un de l’autre. Je vais essayer de rattraper le temps perdu, tout en sachant que le résultat de mon travail contiendra forcément un dose de spéculation, comme c’est généralement le cas dans tous travaux d’archéologie et d’anthropologie. Je ne pourrai pas travailler l’ensemble prolixe des connaissances glanées par mes deux chercheurs et je me focaliserai pour l’essentiel sur un aspect de leur œuvre : celle qui étudie le cadre temporel où se situent les premières manifestations protohistoriques des peuples indo-européens.  Je procéderai à une comparaison entre les résultats obtenus par les deux chercheurs.

 

J’aborderai trois de leurs livres qui, tous, s’occupent des premiers balbutiements de la protohistoire des peuples indo-européens. Nos deux auteurs n’étaient ni anthropologues ni archéologues et ignoraient leurs recherches respectives. Ils ont ensuite abordé leur sujet au départ de prémisses très différentes.

 

Voici ces livres :

-          Bal Gangadhar Tilak, The Orion or Researches into the Antiquity of the Vedas, Bombay, 1893.

-          Bal Gangadhar Tilak, The Arctic Home in the Vedas, Poona, 1900.

-          H. K. Horken, Ex Nocte Lux, Tübingen, 1973. Seconde édition revue et corrigée, Tübingen, 1996.

 

(…)

 

Dans ces ouvrages, nous trouvons trois assertions de base :

 

Chez Tilak : le Rig-Veda, d’après ce qu’il contient, daterait d’environ 6000 ans ; il n’aurait été retranscrit que bien plus tard (« Orion », pp. 206 et ss.).

 

Les auteurs initiaux du Rig-Veda, c’est-à-dire les hommes qui furent à l’origine du texte ou d’une bonne partie de celui-ci, vivaient sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique. Ils avaient développé là-bas une culture et une économie comparativement élevées par rapport au reste de l’humanité (« Orion », pp. 16 et ss. ; « Arctic Home », p. 276).

 

Pour Horken, les périodes glaciaires se sont manifestées à la suite des phénomènes liés à la séparation progressive du continent eurasien et du continent américain, d’une part, et à la  suite de l’émergence du Gulf Stream, d’autre part. Elles ont eu pour résultats de fixer de grandes quantités d’eau sous forme de glace et donc de faire descendre le niveau de la mer. De cette façon, les zones maritimes, normalement inondées, qui présentent des hauts fonds plats, ont été mises à sec, zones auxquelles appartient également le plateau continental de la zone polaire eurasienne. Sur le plan climatique, le Gulf Stream apporta une source de chaleur et les zones évacuées par la mer furent recouvertes de végétation, face à la côte française actuelle et tout autour des Iles Britanniques, en direction du Nord-Est. Après la végétation vint la faune et ses chasseurs, les premiers hommes d’Europe. Ainsi, l’espace occupé aujourd’hui par la Mer du Nord a été peuplé.

 

250px-Doggerland_svg.png

Nous avons donc affaire ici à une population qui a suivi cette voie migratoire, au départ, probablement, des confins occidentaux du continent européen ; cette population, profitant d’un climat clément dans la zone aujourd’hui redevenue plateau continental, a fini par atteindre la Mer de Barents, avant qu’au sud de celle-ci, d’énormes masses de glace accumulées sur le sol de l’actuelle Scandinavie, ne leur barrent la route d’un éventuel retour.

 

 

La durée de leur migration et de leur séjour dans les régions polaires arctiques a été déterminée par les vicissitudes de la période glaciaire, de même que le temps qu’ils ont mis à s’adapter à leurs nouvelles conditions de vie. Quand le Gulf Stream a commencé à ne plus atteindre les régions constituant leur nouvelle patrie, cette population a vu revenir les conditions préglaciaires, avec, pour conséquence, que la vie y devint de plus en plus difficile et, finalement, impossible. Cette population a été contrainte d’émigrer vers l’Europe centrale et le bassin méditerranéen ou, autre branche, vers l’espace indien, au-delà des massifs montagneux de Sibérie (« Ex nocte lux »).

 

Tilak, lui, avance des arguments plus fiables : il étudie les descriptions dans le Rig-Veda qui ne sont compréhensibles que si l’on part du principe que les auteurs initiaux ont vécu, au moment où émerge le Rig-Veda, sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique. Ce n’est qu’en posant cette hypothèse que les textes, considérés auparavant comme inexplicables, deviennent parfaitement compréhensibles. Tilak ne pose cependant pas la question de savoir comment cette population est arrivée dans cette région.

 

Horken, lui, nous offre une thèse éclairante, en se basant sur les phénomènes prouvés de l’histoire géologique de la Terre ; selon cette thèse, les événements qui se sont déroulés à l’époque glaciaire, plus spécifiquement à l’époque glaciaire de Würm, expliquent comment, par la force des choses, les premiers Européens sont arrivés sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique. La géologie lui fournit de quoi étayer sa thèse sur la chronologie de cette migration.

 

On peut évidemment supposer que nos deux auteurs ont écrit sur la même population. Pour prouver que cela est exact, il faut d’abord démontrer comment les choses se sont passées sur le plan géologique en s’aidant de toutes les connaissances scientifiques disponibles et en les présentant de la manière la plus précise qui soit. Toutes les données que je vais aligner ici relèvent d’évaluations qui devront, si besoin s’en faut, être remplacées par des données plus précises. Mais pour donner un synopsis de ce déroulement, cette restriction, que je viens d’avancer, n’a guère d’importance.

 

La dérive des continents a fait en sorte que le Gulf Stream, après avoir passé le long du littoral occidental de l’Europe, a atteint les glaces de l’Océan Glacial Arctique et les a fait fondre dans la zone de contact. D’énormes masses d’eau se sont alors évaporées et, par l’effet des forces Coriolis (*) se sont retrouvées au-dessus des massifs montagneux de Scandinavie ; en montant, elles se sont refroidies et sont retombées sous forme de neige (Horken). Ce processus, d’après les évaluations actuelles, aurait commencé il y a 32.000 ans. Plus tard, les masses d’eau se sont figées en glace et ont entrainé la descente du niveau de la mer, non pas seulement le long des côtes, comme on peut encore les voir ou les deviner, mais sur l’ensemble du plateau continental; par la suite, la flore et la faune ont pu s’installer dans cette nouvelle région abandonnée par les flots. On peut donc admettre que l’homme, qui migre en suivant les troupeaux ou selon les espèces végétales qui le nourrissent, ait atteint les régions polaires avant que le point culminant de la glaciation ait produit ses effets. Au départ, la population arrivée là-bas n’a dû se contenter que d’un petit morceau habitable du plateau continental.

 

Pour pouvoir préciser quand cette phase a été atteinte, la géologie doit nous aider à éclairer ou corroborer les données suivantes, relatives à la région polaire du continent eurasiatique : fournir une chronologie capable de nous dire avec plus de précision quand le niveau de la mer est descendu, quand la glaciation est survenue et sur quelle extension géographique.  La paléobotanique pourrait aider à compléter cette chronologie en nous renseignant sur la flore présente et sur la température moyenne annuelle qu’implique la présence de cette flore.

 

D’après une carte topographique du plateau continental en face des côtes de l’Océan Glacial Arctique, on devrait pouvoir reconnaître quelles ont été les régions de terres nouvelles disponibles pour une population migrante, qui, de surcroît, a sans doute été la première population humaine dans la région. Il faut toutefois tenir compte d’un facteur : le niveau de la mer a baissé partout dans le monde mais seulement selon un axe Ouest-Est, à commencer par la région du Golfe de Biscaye (Horken, p. 120) puis le long de toute la côte française actuelle, ensuite tout autour des Iles Britanniques ; le Gulf Stream a donc réchauffé toute cette immense région, jusqu’au littoral arctique de la Scandinavie, qu’il a ainsi rendu apte à la colonisation humaine, en modifiant le climat progressivement, jusqu’à épuisement de l’énergie thermique qu’il véhicule. Les flots qu’il pousse vers le Nord se refroidissent ensuite s’écoulent et retournent vers l’Atlantique, en faisant le chemin inverse mais sous les masses d’eau plus chaudes. Plus à l’est, les zones du plateau continental ont été également libérées des flots mais n’ont pas bénéficié indéfiniment des avantages offerts par le Gulf Stream et sont sans nul doute devenues tout aussi inhospitalières qu’aujourd’hui, vu la proximité des glaces du sud de la banquise.

 

Toutes les régions situées sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique, qui font l’objet de notre investigation, se trouvent sur le plateau continental et dès lors ont été recouvertes par les flots lors de la fonte des glaces et de la montée du niveau de la mer. Il faudrait l’explorer davantage. En règle générale, le socle continental accuse une pente légère en direction du pôle, si bien que toute descente du niveau de l’océan correspond à un accroissement équivalent de terres nouvelles, également en direction du pôle. A hauteur de la Mer de Barents, par exemple, cela correspondrait, dans le cas extrême, à un recul de l’océan d’environ 500 km. Mais on peut estimer qu’une telle surface n’a pas été abandonnée par les flots : c’est ici que les géologues doivent nous apporter des précisions. Pendant la période d’occupation de ce territoire aujourd’hui retourné aux flots marins, tous les fleuves et rivières ont dû se jeter dans l’océan beaucoup plus au nord qu’aujourd’hui et il doit être parfaitement possible de repérer l’ancien lit de ces cours d’eau sur le plateau continental, comme nous pouvons d’ailleurs le faire pour l’Elbe dans la Mer du Nord. Ces fleuves et leurs affluents ont dû fournir de l’eau douce indispensable à la faune dans son ensemble et aux hommes.  On peut dès lors en déduire que des sites d’installation ont existé sur les rives de ces cours d’eau. Les limites respectives du permafrost sur le continent (ou sur ce qui était le continent) ont certainement eu une influence sur la progression des migrants vers le Nord, progression que l’on pourrait suivre d’après les traces laissées. La valeur que revêt la découverte d’os dans cette région est importante : elle nous donnerait de bons indices, dès qu’on en découvrirait. 

 

Horken nous a élaboré un modèle géophysique convainquant  pour nous expliquer l’émergence et la fin de la période glaciaire de Würm. Si, à titre d’essai, nous posons cette théorie comme un fait, nous devons tout naturellement constater qu’à l’époque glaciaire, le long du littoral polaire du continent eurasiatique,  des hommes ont vécu, qui devaient au préalable avoir résidé à l’Ouest de l’Europe centrale. Ils sont arrivés sur ce littoral polaire et, pendant longtemps, sans doute pendant quelques millénaires, ont dû y vivre sous un climat non hostile à la vie.

 

Tilak constate, en se basant sur le texte du Rig-Veda, que celui-ci a dû, pour sa matière primordiale, se dérouler dans une zone littorale polaire de l’Eurasie.

 

Pour ce qui concerne la durée temporelle de ce séjour, qui a vu l’émergence de la matière propre du Rig-Veda, nos deux auteurs avancent les faits suivants :

Tilak s’est préoccupé de l’âge des Vedas dans sa première publication (« Orion », op. cit.). Dans un grand nombre d’hymnes du Rig-Veda, Tilak a repéré des données astronomiques particulières et les a vérifiées sur base de la pertinence de ce que nous dit le texte de ces hymnes, d’une part, et sur les déductions étymologiques des descriptions que l’on y trouve, d’autre part. Comme l’objet de ses recherches n’était pas, de prime abord, le dit des hymnes védiques mais l’âge du Rig-Veda, il a pris en considération les phénomènes astronomiques décrits et ce, toujours en tenant compte de l’effet modifiant de la précession astronomique. Pour rappel : par le fait de la précession, le moment du printemps se déplace chaque année sur l’écliptique de 50,26 secondes, dans le sens ouest-est, ce qui nous donne un circuit entier au bout de 25.780 années. Tilak a ensuite étudié les interprétations d’autres chercheurs et explique pourquoi il ne partage pas leur avis. A l’époque où le Rig-Veda aurait émergé et où ses hymnes auraient commencé à jeter les bases de tous les sacrifices sacrés de la tradition indo-aryenne, le moment principal du cycle annuel était le moment précis où commençait le printemps, où le soleil revenait, c’est-à-dire, plus exactement, le moment même du lever du soleil quand les nuits et les jours sont strictement égaux. Il faut aussi que ce soit un moment du cycle annuel qui soit mesurable à l’aide de méthodes simples.

 

Tilak connaissait forcément le nom des figures zodiacales sur l’écliptique, telles que les astronomes védiques les nommaient. Contrairement à la pratique actuelle, les hommes distinguaient à l’époque vingt-sept signes du zodiaque. Tilak a fait l’importante découverte que le Rig-Veda a émergé sous la constellation d’Orion, car, il est dit que le moment du début du printemps, à l’ère d’émergence des chants védiques primordiaux, se trouvait dans la constellation d’Orion. En tenant compte de la précession astronomique, Tilak a daté les faits astronomiques relatifs au moment du début du printemps, que l’on trouve dans les hymnes védiques, et, ainsi, a pu établir que ceux-ci ont dû apparaître vers 5000 avant l’ère chrétienne.

 

Cette évaluation de l’âge du Rig-Veda chez Tilak, du moins dans la plus ancienne de ses publications (« Orion », op. cit.), doit être fausse.

 

Pourquoi ?

Ce que décrit Horken, en replaçant les faits dans le cadre de la dernière glaciation, celle de Würm, se voit confirmer par Tilak, et de façon définitive. Même quand il découvre que les événements décrits dans les hymnes du Rig-Veda se sont déroulés au départ dans une zone circumpolaire, Tilak n’a aucune idée cohérente quant à leur époque. Horken, lui, nous livre des données plus précises à ce propos, quasi irréfutables.

 

Nous apprenons de Tilak quel était le degré de développement atteint par les Aryas du temps du Rig-Veda ; déjà, dans son ouvrage intitulé « Orion », il rejette le doute émis par d’autres chercheurs quant aux connaissances astronomiques des Aryas des temps védiques : « je ne crois pas, écrit-il, qu’une population qui connaissait le métal et en avait fait des outils de travail, qui fabriquait des habits de laine, construisait des embarcations, des maisons et des chariots, et possédait déjà quelques connaissances en matière d’agriculture, aurait été incapable de distinguer la différence entre année solaire et année lunaire » (« Orion », pp. 16 et ss.).

 

Dans son second ouvrage, « The Arctic Home », Tilak avait décrit les gestes sacrés des prêtres, dont la tâche principale, semble-t-il, était de décrire les événements cosmiques et météorologiques, surtout pendant la nuit arctique. C’est ainsi que nous entendons évoquer, au fil des hymnes, des phénomènes et des choses qui nous permettent d’énoncer des conclusions d’ordre culturel. Dans un tel contexte, nous pouvons peut-être faire référence à un fait bien particulier : rien que nommer une chose ou un phénomène implique que cette chose ou ce phénomène étaient connus. Nous apprenons, surtout quand nous lisons les événements tournant autour de figures divines, que, par exemple, la première population védique utilisait l’âne comme bête de somme (p. 299), que les fortifications de Vritra étaient de pierre et de fer (p. 248), que Vishnou possédait des destriers de combat (p. 282), qu’on fait allusion à des embarcations de cent rames, bien étanches, à la domestication de moutons et au fer (p. 302, versets 8 et ss., 27 et 32), que cette population connaissait les bovins domestiques et avait des rudiments d’élevage et de fabrication de produits dérivés du lait (p. 303) ; un étable pour vache est même citée (p. 328) ; on trouve aussi un indice, par le biais d’un nom propre, que cette population travaillait l’or (p. 311), que Titra possède une flèche à pointe de fer (p. 335) et qu’un cheval, dédié à une cérémonie sacrificielle, est dompté par Titra et monté par Indra (p. 338 et ss.). Finalement, on apprend aussi l’existence de « destriers de combat de couleur brune » (p. 341).

 

Ce sont là tous des éléments que nous rapporte le Rig-Veda, dont l’émergence se situe quasi avec certitude dans une région correspondant au littoral polaire arctique. Cependant, cette émergence ne peut avoir eu lieu 5000 ans avant l’ère chrétienne car, à cette époque-là, la fonte des masses de glace de l’ère de Würm relevait déjà du passé ; sur le littoral polaire arctique régnait déjà depuis longtemps un climat semblable à celui que nous connaissons aujourd’hui ; le plateau continental était revenu à l’océan ; il est dès lors impossible qu’une existence, telle que décrite dans les hymnes védiques primordiaux, ait été possible sur ce littoral.

 

Il n’y a qu’une explication possible : Tilak, dans ses calculs, a dû oublier une période entière de précession. Cette impression nous est transmises uniquement par sa publication la plus ancienne, « Orion », où Tilak critique les affirmations de nombreux chercheurs : « La distance actuelle entre le krittikas et le solstice d’été s’élève à plus de 30°, et lorsque ce krittikas correspondait au solstice d’été, alors il devait remonter à beaucoup plus de temps par rapport au cours actuel de la précession de l’équinoxe. Nous ne pouvons donc pas interpréter le passage en question de la manière suivante : si nous plaçons le solstice d’été dans le krittikas, alors nous devons attribuer une datation plus ancienne au poème de Taittiriya Sanhitâ, correspondant à quelque 22.000 ans avant l’ère chrétienne ». On n’apprend pas, en lisant Tilak dans « Arctic Home », s’il déduit de ses constats et conclusions la possibilité ou l’impossibilité de cette datation. Sans doute a-t-il deviné qu’il risquait de faire sensation, et surtout de ne pas être cru et pris au sérieux.

 

En partant du principe que tant Tilak (à condition que nous tenions compte de la correction de ses calculs, correction que nous venons d’évoquer) que Horken sont dans le juste, suite à leur investigations et déductions, alors nous pouvons émettre l’hypothèse suivante quant au déroulement des faits :

Le Gulf Stream provoque une ère glaciaire. Dès que des masses glaciaires se sont accumulées en quantités suffisantes et que le niveau de la mer a baissé, de nouvelles terres sèches émergent sur l’ensemble du plateau continental. Aux endroits atteints par le réchauffement dû au Gulf Stream, ces nouvelles terres deviennent des espaces habitables, en croissance permanente au fur et à mesure que le niveau de l’océan baisse encore et que la végétation s’en empare ; elles s’offrent donc à la pénétration humaine. Les populations, habitant à cette époque dans l’Ouest de l’Europe, sans vraiment le remarquer car le processus dure sans doute des siècles, migrent vers les zones de chasse les plus avantageuses, en direction de l’est où elles rencontrent d’autres populations ;  ces populations sont avantagées par rapport à d’autres car elles absorbent une nourriture plus riche en protéines, issue de la mer et disponible tant en été qu’en hiver (Horken).

 

Il me paraît intéressant de poser la question quant à savoir à quel type humain cette population appartenait ; vu la lenteur et la durée du phénomène migratoire qu’elle a représenté, cette population ne s’est sans doute jamais perçue comme un « groupe appelé à incarner un avenir particulier » et n’a jamais été véritablement consciente de la progression de sa migration sur l’espace terrestre. S’est-elle distinguée des autres populations demeurées dans le foyer originel ? Et, si oui, dans quelle mesure ? Appartenait-elle au groupe des Aurignaciens ? Ou à celui des Cro-Magnons ? Etait-elle apparentée à cette autre population qui, plus tard, lorsqu’elle vivait déjà dans son isolat arctique (Horken), créa les images rupestres des cavernes situées aujourd’hui en France méridionale et atteste dès lors d’un besoin, typiquement humain, de création artistique ? Les populations migrantes étaient-elles, elles aussi, animées par un tel besoin d’art ?

 

Dans le cadre de l’Institut anthropologique de l’Université Johannes Gutenberg à Mayence, on procède actuellement à des recherches dont les résultats permettront de formuler des hypothèses plausibles ou même d’affirmer des thèses sur la parenté génétique entre les différents groupes humains. L’axe essentiel de ces recherches repose sur la tolérance ou l’intolérance à l’endroit du lait de vache (la persistance de la lactose), tolérance ou intolérance qui sont déterminées génétiquement, comme le confirment les connaissances désormais acquises par les anthropologues. Pour vérifier, il suffit de prélever un échantillon sur un os. Les connaissances, que l’on acquerra bientôt, permettront de découvrir plus d’un indice sur l’origine et le séjour de cette population le long du littoral arctique. Comme nous l’avons déjà dit, ces populations connaissaient déjà les « vaches » et le « lait » et, vraisemblablement, l’élevage du bétail.

 

Les conditions de vie dominantes dans cette région dépourvue de montagnes impliquent un maintien général du corps qui est droit, afin de pouvoir voir aussi loin que possible dans la plaine. Le manque de lumière solaire a limité la constitution de pigments de la peau, d’où l’on peut émettre l’hypothèse de l’émergence d’un type humain de haute taille et de pigmentation claire (Horken). Lors de la migration toujours plus au nord, ces populations s’adaptèrent aux modifications des saisons et, dès qu’elles atteignirent la zone littorale de l’Arctique, leur mode de vie dut complètement changer. La nuit polaire est longue et la journée est courte : sur ce laps de temps finalement fort bref, il faut avoir semé et récolté, si l’on veut éviter la famine l’hiver suivant. Tous les efforts, y compris ceux qui revêtent un caractère sacré, ont surtout un but unique : savoir avec précision quel sera le cours prochain des saisons et savoir quand l’homme doit effectuer tel ou tel travail (Tilak). Dans le Rig-Veda, on apprend que pour chaque nuit de l’hiver polaire, nuit qui dure vingt-quatre heures, on avait à effectuer un acte sacré et qu’en tout une centaine de tels actes sacrés était possible. Il n’y en avait pas plus d’une centaine (Tilak, « Arctic Home… », pp. 215 et ss.) et peut-être ne les pratiquait-on pas toujours.

 

De ce que nous révèle ici le Rig-Véda, nous pouvons déduire à quelle latitude ces populations ont vécu, en progressant vers le nord. De même, nous pouvons admettre que ces populations ont vécu le long des fleuves et aussi sur le littoral, parce que fleuves et côtes offrent une source de nourriture abondante. D’après le texte védique, on peut émettre l’hypothèse que ces populations présentent une persistance de lactose. Vu l’absence de parenté entre le bovin primitif et le bovin domestique européen, il serait extrêmement intéressant de savoir de quel type de « vache » il s’agit dans le Rig-Véda, où ces animaux sont maintes fois cités.

 

Sur le plateau continental de la Mer de Barents, on devrait pouvoir trouver des ossements de bovidés, afin de pouvoir élucider cet aspect de nos recherches. La faune locale, quoi qu’il en soit, a dû correspondre à celle d’un climat plus chaud. A la même époque, les populations probablement apparentées et demeurées en Europe occidentale dans les cavernes de France et d’Espagne, représentaient en dessins des bovidés primitifs, des bisons, des rennes, des chevaux sauvages et des ours, et surtout, plus de soixante-dix fois, des mammouths. Les « hommes du nord », eux, selon Horken, représentaient la constellation d’Orion par la tête d’une antilope (Tilak, « Orion »).

 

Le fait que le Rig-Véda évoque, chez les populations vivant sur les côtes de l’Océan Glacial Arctique, la  présence de certains animaux domestiques est d’une grande importance pour notre propos, puisque leur domestication a été datée, jusqu’ici, comme bien plus tardive. Pour ces animaux, il s’agit surtout de la vache (du moins d’une espèce de bovidé qu’il s’agit encore de déterminer), du cheval et du chien. Le Rig-Véda évoque deux chiens, que Yama va chercher, pour « garder le chemin » qui contrôle l’entrée et la sortie du Ciel (Tilak, « Orion », p. 110) ; dans le dixième mandala du Rig-Véda, on apprend qu’un chien est lâché sur Vrishâkapi. On peut imaginer que ces faits se soient réellement déroulés lorsqu’une existence quasi normale était encore possible le long du littoral arctique.

 

La glaciation de Würm a connu quelques petites variations climatiques, pendant lesquelles une partie de la couche de glace a fondu, ce qui a provoqué une légère montée du niveau de la mer. Pour les populations concernées, ces variations se sont étalées sur plusieurs générations ; néanmoins, le retour de la mer sur des terrains peu élevés ou marqués de déclivités a conduit rapidement à des inondations de terres arables, ce qui a marqué les souvenirs des hommes. De même, les phénomènes contraires : l’accroissement des masses de glace et la descente du niveau de la mer, soit le recul des eaux. Dans le Rig-Véda, un hymne rapporte qu’Indra a tué le démon de l’eau par de la glace (Tilak, « Arctic Home », p. 279). Sans doute peut-on y voir un rapport…

 

Quand la glaciation de Würm a pris fin graduellement et réellement, elle a eu pour effet sur les populations concernées que les étés sont devenus plus frais et bien moins rentables et que, pendant les nuits polaires devenues fort froides, la nourriture engrangée n’a plus été suffisante, entrainant des disettes. Dans le Rig-Véda, on trouve quelques indices sur la détérioration du climat (Tilak, « Arctic Home… », p. 203). Le contenu des textes védiques, qui contient des informations très importantes, a sans nul doute été complété, poursuivi et « actualisé ».

 

Les raz-de-marée, provoqués par des tempêtes, ont inondé de plus en plus souvent les terres basses, notamment celles qui étaient exploitées sur le plan agricole : la mer revenait et les populations devaient se retirer. A un moment ou à un autre, les plus audacieux ont envisagé la possibilité d’une nouvelle migration. On ne connaît pas le moment où elle fut décidée, ni les voies qu’elle a empruntées ni les moyens mis en œuvre. Quoi qu’il en soit, le Rig-Véda nous rapporte que le pays des bienheureux peut être atteint à l’aide du « vaisseau céleste dirigé par un bon timonier » (Tilak, « Orion », pp. 110 et ss.). Les voies migratoires et l’équipement des migrants ont pu changer au cours de leurs pérégrinations, car ce mouvement de retour, de plus en plus fréquent sans doute, a pu durer pendant plusieurs millénaires. Procédons par comparaison : l’ensemble de l’histoire de l’humanité compte, jusqu’à présent, 5000 ans ! Cependant, on peut déjà deviner qu’avant cela les populations s’étaient mises en branle, principalement en direction de l’Ouest, probablement à l’aide d’embarcations (Horken), pour déboucher en fin de compte dans le bassin méditerranéen, tandis qu’un autre groupe de population migrait du littoral arctique en direction du sud, en remontant le cours des fleuves et en traversant les barrières montagneuses de Sibérie, voire de l’Himalaya, en direction de l’espace indien. Horken, pour sa part, a publié une carte en y indiquant les endroits où, aujourd’hui, on parle des langues indo-européennes ; dans la zone littorale arctique, on les trouve surtout le long des fleuves, plus denses vers l’embouchure qu’en amont (p. 238).

 

Les migrants ont partout trouvé d’autres populations ; on peut admettre qu’ils se sont mêlés à elles, partout où ils ont demeuré longtemps ou pour toujours. De ces mélanges entre le « groupe du nord », au départ homogène, et les autres groupes humains, différents les uns des autres, ont émergé des tribus qui, plus tard, ont donné les divers peuples de souche indo-européenne (Horken). Elles ont un point commun : elles proviendraient toutes d’un foyer originel situé à l’ouest de l’Europe centrale, et, après migrations successives, auraient débouché dans l’espace arctique où elles seraient demeurées pendant plusieurs millénaires, tout en étant soumises à rude école. On peut aussi émettre l’hypothèse que des adaptations physiologiques aux rythmes saisonniers arctiques ont eu lieu. Un médecin américain a rédigé un rapport d’enquête après avoir observé pendant plusieurs années consécutives le pouls de ses patients, pour arriver au résultat suivant : les patients de race africaine présentaient les mêmes pulsations cardiaques tout au long de l’année, tandis que les Blancs europoïdes présentaient un rythme de pulsation plus lent en hiver qu’en été (Horken).

 

Les Indiens védiques ont la même origine géographique et génétique que les Blancs europoïdes et ce sont eux qui ont rapporté jusqu’à nos jours le message de ce très lointain passé qui nous est commun, sous la forme des chants védiques, surtout le Rig-Véda qui a été transmis par voie orale, de génération en génération, depuis des millénaires, sans jamais avoir subi d’altérations majeures ou divergentes. Cette transmission s’est effectuée en respectant une remarquable fidélité au texte que de nombreux passages de la première version écrite (vers 1800 avant l’ère chrétienne) correspond mot pour mot aux versions plus récentes, du point de vue du contenu et non de celui de la formulation lexicale (laquelle n’est plus compréhensible telle quelle par les locuteurs actuels des langues post-sanskrites). Le principal point commun est la langue, certes, mais il y en a d’autres. La Weltanschauung des Indiens et des Perses présente des grandes similitudes avec celle des Européens et plus d’une divinité des chants védiques a son correspondant dans le panthéon grec, par exemple, possédant jusqu’au même nom ! Il faudrait encore pouvoir expliquer comment les Grecs ont trouvé le chemin vers les terres qu’ils ont occupées aux temps historiques : en empruntant partiellement une voie migratoire que les Indiens ont également empruntée (c’est l’hypothèse que pose Tilak dans « Orion ») ou en passant par l’espace de l’Europe septentrionale ?

 

Un trait commun aux Indiens et aux Germains se retrouve dans le culte de la swastika, qui a dû revêtir la même signification dans les deux populations. Dans son livre intitulé « Vom Hakenkreuz » et paru en 1922, Jörg Lechler estime pouvoir dater la swastika de 5000 ans, en se basant sur des signes rupestres. Mais cette datation pourrait bien devenir caduque. Si les hypothèses avancées par Tilak et Horken s’avèrent pertinentes, des fouilles sur le plateau continental arctique devraient mettre à jour des représentations de la swastika.

 

On ne peut toutefois partir de l’hypothèse que ces « hommes du nord » ont occupé les parties du littoral plus à l’est, régions que le Gulf Stream ne fournit plus en énergie calorifique, ce qui ne permettait pas la diffusion de la végétation. Pourtant, des populations ont sûrement habité dans cette partie plus orientale du plateau continental, selon un mode de vie que nous rencontrons encore aujourd’hui chez les ressortissants de peuples et de tribus plus simples, se contentant de l’élevage du renne, de la chasse aux fourrures et de la pêche, et qui sont partiellement nomades comme les Tchouktches. Ces peuples étaient probablement habitués à un climat aussi rude que celui qui règne là-bas actuellement, ce qui implique que, pour eux, il n’y a jamais eu détérioration fondamentale du climat et qu’une émigration générale hors de cette région n’avait aucune signification. Certains chercheurs, dont M. de Saporta, pensent que certains peuples non indo-européens ont également leur foyer originel sur le littoral de l’Arctique (Tilak, « Arctic Home », p. 409).

 

Horken termine son ouvrage en émettant les réflexions suivantes : sur base des mêmes fondements géophysiques, qui ont fait émerger la période de glaciation de Würm, une nouvelle période glaciaire pourrait ou devrait survenir. Horken repère des transformations d’ordre météorologique dans la zone polaire qui abondent dans son sens, notamment, il constate qu’un port dans les Iles Spitzbergen peut désormais être fréquenté plus longtemps pendant la saison chaude qu’auparavant. Cet indice, il l’a repéré il y a plus de dix ans. Entretemps, nous avons d’autres géologues qui ont exprimé la conviction que nous allons au devant d’une nouvelle période glaciaire.

 

Walther BURGWEDEL.

(article paru dans « Deutschland in Geschichte und Gegenwart », n°4/1999 ; traduction  et adaptation française : Robert Steuckers).       

 

Notes :

(*) Le phénomène que l’on appelle les « forces Coriolis » s’inscrit dans la constitution mouvante de l’atmosphère terrestre : celle-ci est en effet toujours en mouvement parce que l’air chaud des tropiques se meut en direction des pôles, tandis que l’air froid des pôles se meut en direction de l’Equateur. Ce schéma circulatoire est influencé par un autre mouvement, impulsé par la rotation de la Terre autour de son propre axe. Cette rotation fait en sorte que les courants nord-sud s’infléchissent vers l’est ou l’ouest ; c’est précisément cet infléchissement que l’on appelle la « force Coriolis » ; celle-ci s’avère la plus forte au voisinage des pôles. Elle a été étudiée et définie par le physicien et mathématicien français Gustave-Gaspard de Coriolis (1792-1843), attaché à l’Ecole Polytechnique de Paris.

 

 

 

jeudi, 08 juillet 2010

Chi ha provocato la II guerra mondiale?

richardcliff.jpgChi ha provocato la II guerra mondiale?

Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.mirorenzaglia.org/

Questa domanda se la poneva lo storico Romolo Gobbi nel lontano 1995. E in un suo libro importante, ma debitamente ignorato dai mass-media di allora e di oggi, rispondeva: «Dunque la guerra scoppiò per una serie di errori e non per la malvagità di Hitler». Poi chiamò in causa il celebre storico inglese A. J. P. Taylor, che fin dal 1961 aveva rotto il ghiaccio, facendo con parecchio anticipo un revisionismo radicale e spostando le responsabilità dalla Germania alla Francia e all’Inghilterra, prima, e a USA e URSS, poi. Cosa “revisionava” in concreto Taylor? Semplicemente faceva vedere quanto strumentali e di comodo fossero le attribuzioni a Hitler di tutte le responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ricordava che le vere istigatrici furono in realtà le “democrazie” occidentali; sottolineava che, a guerra vinta in Polonia e sul fronte occidentale, Hitler offrì svariate volte una pace equilibrata agli Alleati, addirittura garantendo la conservazione dei loro imperi coloniali, ma che questi rifiutarono, dando quindi corso alla carneficina degli anni seguenti. Taylor scrisse che «certo, la fuga nell’irrazionalità è più facile. La colpa della guerra si può attribuire al nichilismo di Hitler anziché alle deficienze e agli errori degli statisti europei…».

 

Le prove che Hitler nel 1939 non voleva la guerra sono sempre state conosciute. Solo che, a parte pochi studiosi “eroici”, nessuno le hai mai considerate. Come numerose sono le prove che a volerla furono i franco-inglesi. La divulgazione di massa, sotto la spinta di interessi di bottega, ha imposto un altro dogma, utile a garantire la coscienza pulita a chi invece aveva lungamente tramato: tutta la colpa al Terzo Reich e al pazzo fanatico di Berlino, questo l’ordine di scuderia: e al diavolo i documenti. Tanto a scrivere la storia sono sempre i vincitori e a difendere Hitler non ci penserà certo nessuno.

 

Senza volerlo, ci pensò invece Taylor, storico perfettamente democratico, che non aveva una sua tesi preconcetta da dimostrare per forza, non doveva difendere nessuno, non andava in cerca di scuse per accusare a vanvera questo o quello. Scriveva solo pagine di storia. E raggiunse le sue conclusioni soltanto attingendo dalla documentazione esistente. Senza forzature. E affermò che «Hitler era lungi dal preparare una grande guerra» a Occidente. E che…incredibile! non la voleva neppure contro la Polonia: «La distruzione della Polonia non faceva parte del suo progetto originario; al contrario, egli aveva desiderato risolvere la questione di Danzica in modo tale che i rapporti tra Germania e Polonia restassero buoni».

 

Solo dopo la garanzia della Gran Bretagna alla Polonia, dell’estate 1939, concepita appositamente come provocazione, Hitler si irrigidì e si decise a distruggere la Polonia. Che era uno Stato semi-fascista e accesamente antisemita, ricordiamolo, che in quanto a persecuzione degli Ebrei non aveva proprio nulla da imparare dalla Germania nazista, ma di cui gli Alleati si presero improvvisamente a cuore la causa, dopo aver lasciato a Hitler la Cecoslovacchia, che al contrario era uno dei pochi Stati europei dell’epoca a regime parlamentare e liberal-democratico. L’ipocrisia degli Alleati, di presentarsi come i difensori della “democrazia”, a questo punto appare in tutto il suo volto grottesco.

 

Una delle prove che la Germania non voleva una guerra allargata, ma al massimo gestire un conflitto locale, sta nel fatto che, dopo la campagna a Est del ’39, l’esercito tedesco rimase privo di riserve, e pressoché completamente scoperto a Ovest. Avesse voluto un regolamento dei conti con gli Alleati, Hitler in quel momento avrebbe mobilitato ben altrimenti la sua macchina da guerra. Queste le considerazioni di Taylor. Prontamente occultate dai padroni del pensiero.

 

Gobbi, nel suo libro, rinforzava il tutto asserendo che Hitler verso il suo nemico fu artefice di un gesto di cavalleria più unico che raro nella storia mondiale. Aveva a portata di mano la più facile e schiacciante delle vittorie, ma si astenne dal coglierla per esclusivi motivi politici, cioè per non umiliare il Regno Unito e ben predisporlo alla pace. Quando nel giugno ’40 arrestò i Panzer davanti a Dunkerque, dove centinaia di migliaia di inglesi in fuga si ammassavano per reimbarcarsi, si può dire col senno di poi che Hitler commise il suo più grande errore militare, ma lo commise per troppa generosità e per motivi di conciliazione politica: «Dunque l’aver lasciato fuggire i soldati inglesi da Dunkerque – scriveva Gobbi – non era un errore, ma una mossa per facilitare le trattative di pace…Ma da parte dell’Inghilterra giunse dopo un’ora un “no!” reciso…». È del resto noto che Churchill proibì alla radio inglese la diffusione dei vari messaggi di pace che Hitler lanciò uno dopo l’altro nel ‘40, per evitare che si formasse un’opinione pubblica favorevole alla pace…

 

Ma Gobbi, nel suo esplosivo libretto, affermò anche molte altre cose. Ad esempio, che l’Europa del Nuovo Ordine Europeo non era affatto un inferno, ma un progetto politico seguito dalle masse: «Nella mitologia antifascista tutti questi paesi risultavano oppressi dal “tallone d’acciaio” del nazi-fascismo, ma la realtà sconvolgente è che in tutta l’Europa vi era un consenso diffuso al fascismo, compresa la libera Svizzera». Frasi pesanti. Ma Gobbi andava oltre. Ricordò che la guerra nel Pacifico e nel Sud-Est asiatico venne subdolamente provocata da Roosevelt e dal suo entourage in lunghi mesi di studiata provocazione del Giappone: l’embargo al Sol Levante cui furono costrette le Indie Olandesi e i possedimenti inglesi mise in ginocchio il Giappone, lo esasperò, spingendolo a gesti disperati per sopravvivere. Proprio quello che si voleva a Londra, ma soprattutto a Washington, dove si cercava da un pezzo qualcosa che rimuovesse lo sgradito isolazionismo americano: «Anche in questo caso dunque la scelta della guerra venne fatta non da chi è tradizionalmente considerato l’aggressore e cioè il Giappone, ma da chi lo costrinse deliberatamente a farla».

 

L’attacco di Pearl Harbor, in cui morirono migliaia di marinai americani, fu la bella notizia che Roosevelt e i suoi amici armatori e industriali aspettavano. Di passata, Gobbi ricordava che la storiografia del dopoguerra – ad esempio R. E. Sherwood, sin dal ’49 – non aveva mancato di notare che Roosevelt era circondato «dalla “cricca nefasta” dei suoi stretti collaboratori composta dal giudice Felix Frankfurter, Samuel I. Rosenman e David K. Niles…tutti e tre ebrei…». Comunque sia, l’America ebbe la sua guerra e…«finalmente il ristagno dell’economia che il New Deal non era riuscito a eliminare venne completamente superato…».

 

Gobbi – che ricordiamo è storico di accesa sinistra – nel suo libro lamentava che il suo testo fosse stato rifiutato con imbarazzo da numerose case editrici, e che alla fine dovette accontentarsi di farlo pubblicare dalla piccola ma prestigiosa editrice Muzzio di Padova. C’è da capirlo. Questioni come queste, “revisionismi” come questo, sono intollerabili per chi gestisce l’opinione pubblica e dirige il conformismo a senso unico. E non tutti hanno il coraggio di perseguire la verità, specie se sgradita.

 

Oggi apriamo un altro piccolo libro, Le origini della seconda guerra mondiale di Richard Overy (il Mulino), e vi troviamo pari pari le medesime affermazioni di Gobbi. A mezza bocca, con qualche reticenza opportunistica, ma insomma la verità esce fuori: «La causa della seconda guerra mondiale non fu semplicemente Hitler: la guerra fu provocata dall’interazione tra fattori specifici»…che in soldoni riguardano il declino economico del capitalismo delle “democrazie” occidentali e il loro urgente bisogno di uscirne attraverso una guerra di proporzioni mondiali.

 

Overy, di cui in questo periodo è uscito anche Sull’orlo del precipizio. 1939. I dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra (Feltrinelli), non è neppure lui un bieco fascista alla ricerca di notorietà. È uno storico “democratico” più onesto di tanti altri e meno disposto di loro ad occultare le evidenze documentali. Emilio Gentile, su Il Sole-24 Ore del 25 ottobre scorso, recensendo i due libri di Overy, ha ammesso a sua volta, a proposito del Führer, che «non è tuttavia provato che egli volesse deliberatamente scatenare, proprio in quel momento, una guerra europea o addirittura mondiale». E allora? Non era il pazzo che voleva dominare il mondo? Il gioco delle “grandi democrazie” viene scoperto in tutta la sua doppiezza e improntitudine da Overy, quando ricorda che Gran Bretagna e America, imperi mondiali, accusavano paradossalmente la Germania, tutto sommato piccola nazione centro-europea del tutto priva di colonie e possedimenti, di volersi appunto impadronire niente meno che del mondo. Secondo una retorica falsificatoria che ancora oggi, come tutti sanno, ha un larghissimo corso. Le classi dirigenti anglosassoni temevano una crescita della Germania e del Giappone e, nel suo piccolo, anche dell’Italia. Non perdonarono a quei Paesi di fare una politica libera. Dovevano fare una politica inglese. La classe dirigente “democratica”, di fronte alla crisi economica, preferì fare la guerra piuttosto che ridistribuire il potere mondiale con i nuovi arrivati: «Questa classe dirigente si arrogò il ruolo di giudicare gli interessi nazionali; anziché affrontare la realtà del declino, che era stato la prima causa della crisi, essa scelse una strategia di deterrenza e contenimento, e infine la guerra stessa». Viene allora da chiedersi: in tutto questo la Germania, l’Italia e il Giappone, nazioni emergenti che semmai avevano problemi di crescita e certo non di declino economico, che c’entravano?

 

Oltre a questo, per concludere un argomento tanto vasto nel breve spazio di un articolo, non possiamo non ricordare il recente libro del russo Constantine Pleshakov Il silenzio di Stalin (Corbaccio), in cui si dimostra che l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica del 22 luglio ’41 non fu per nulla il frutto della bramosia hitleriana di conquista, ma una necessità vitale: Stalin aveva intenzione di attaccare di lì a poco, approfittando che la Germania era ancora impegnata contro l’Inghilterra. Stava per questo ammassando truppe alla frontiera e venne anticipato solo di un soffio: di qui il famoso shock emotivo che paralizzò di paura il dittatore georgiano per diversi mesi. Neanche la tanto sbandierata “aggressione” tedesca alla Russia comunista, dato che fu provocata dal comportamento sovietico, sarebbe quindi da ascrivere a Hitler. Il quale pertanto, stando ai risultati di tutti questi storici, non fu colpevole di aver scatenato una guerra mondiale (Overy ricorda tra l’altro che la dichiarazione di guerra la fecero la Francia e l’Inghilterra alla Germania, e non il contrario) e, anche nel caso della guerra a Oriente, come già facevano i Romani al tempo della loro repubblica, il dittatore tedesco si limitò a veder giusto, anticipando il nemico di un minuto, non facendo insomma nulla di diverso di una delle tante, millenarie “guerre preventive” di cui sono piene le pagine di storia.

Luca Leonello RIMBOTTI. 

 

jeudi, 01 juillet 2010

La "Damnatio memoriae" fruto de la memoria historica

La Damnatio memoriae fruto de la memoria histórica

Alberto Buela (*)

Cuando el historiador Ernst Nolte demostró allá por los años ochenta del siglo pasado que la historia reciente de Alemania, especialmente la de la segunda guerra mundial, se había transformado en un pasado que no pasa, el mundo académico y los voceros de la policía del pensamiento saltaron como leche hervida. Es que Nolte puso en evidencia el mecanismo por el cual la memoria histórica había reemplazado a la historia como ciencia, con lo que quedó en evidencia la incapacidad histórica de los famosos académicos y los presupuestos ideológicos-políticos que guiaban sus investigaciones.

Es sabido que la memoria es siempre la memoria de un sujeto individual o si se quiere de una persona, singular y concreta. La memoria no existe más que como memoria de alguien. Su naturaleza estriba en otorgarle al sujeto el principio de identidad. Yo soy yo y me reconozco como tal a lo largo del tiempo de mi vida por la memoria que tengo de mi mismo desde que existo hasta el presente. Si existe o no una “memoria colectiva” esta es una cuestión que no está resuelta. El gran historiador alemán  Reinhart Koselleck (1923-2006) sostuvo que no. Así, en su última  entrevista en Madrid, publicada póstumamente el 24/4/2007, afirma:

Y mi posición personal en este tema es muy estricta en contra de la memoria colectiva, puesto que estuve sometido a la memoria colectiva de la época nazi durante doce años de mi vida. Me desagrada cualquier memoria colectiva porque sé que la memoria real es independiente de la llamada "memoria colectiva", y mi posición al respecto es que mi memoria depende de mis experiencias, y nada más. Y se diga lo que se diga, sé cuáles son mis experiencias personales y no renuncio a ninguna de ellas. Tengo derecho a mantener mi experiencia personal según la he memorizado, y los acontecimientos que guardo en mi memoria constituyen mi identidad personal. Lo de la "identidad colectiva" vino de las famosas siete pes alemanas: los profesores, los sacerdotes (en el inglés original de la entrevista: priests), los políticos, los poetas, la prensa..., en fin, personas que se supone que son los guardianes de la memoria colectiva, que la pagan, que la producen, que la usan, muchas veces con el objetivo de infundir seguridad o confianza en la gente... Para mí todo eso no es más que ideología. Y en mi caso concreto, no es fácil que me convenza ninguna experiencia que no sea la mía propia. Yo contesto: "Si no les importa, me quedo con mi posición personal e individual, en la que confío". Así pues, la memoria colectiva es siempre una ideología, que en el caso de Francia fue suministrada por Durkheim y Halbwachs, quienes, en lugar de encabezar una Iglesia nacional francesa, inventaron para la nación republicana una memoria colectiva que, en torno a 1900, proporcionó a la República francesa una forma de autoidentificación adecuada en una Europa mayoritariamente monárquica, en la que Francia constituía una excepción. De ese modo, en aquel mundo de monarquías, la Francia republicana tenía su propia identidad basada en la memoria colectiva. Pero todo esto no dejaba de ser una invención académica, asunto de profesores.”

En concordancia con esto ya había reaccionado cuando el gobierno alemán decidió erigir un símil de la estatua de La Piedad en la Neue Wache para venerar a las víctimas de las guerras producidas por Alemania. Koselleck levantó su voz crítica para advertir que un monumento de connotación cristiana resultaba una "aporía de la memoria" frente a los millones de judíos caídos en ese trance. Pero también en 1997, cuando el ayuntamiento de Berlín decidió erigir un monumento para recordar el Holocausto judío, volvió a la palestra para recordar que los alemanes habían matado por igual a católicos, comunistas, soviéticos, gitanos y gays. Nadie como él, entre los historiadores, hizo tanto para desembarazar a la escritura y a las representaciones de la historia del brete a que la someten los ideólogos de la “memoria histórica”.

El reemplazo de la historia como ciencia, como conocimiento por las causas, con el manejo metodológico que exige el trabajo sobre los testimonios y materiales del pasado, por parte de la memoria histórica siempre parcial e interesada (la ideología es un conjunto de ideas que enmascara los intereses de un grupo, clase o sector) ha desembocado en la moderna damnatio memoriae o condena de la memoria.

La damnatio memoriae era una condena judicial que practicaba el senado romano con los emperadores muertos por la cual se eliminaba todo aquello que lo recordaba. Desde Augusto en el 27 a.C. hasta Julio Nepote en el 480 d.C. fueron 34 los emperadores condenados. Se llegaba incluso hasta la abolitio nominis, borrando su nombre de todo documento e inscripción. Se buscaba la destrucción de todo recuerdo. Se destruían sus bustos y estatuas. Suetonio cuenta que los senadores lanzaban sobre el emperador muerto las más ultrajantes y crueles invectivas. La intención era borrar del pasado todo vestigio que recordara su presencia.

Las damnationes se realizaban a partir del poder constituido y su presupuesto ideológico era: de aquello que no se habla no existe. Arturo Jauretche, ese gran pensador popular argentino en su necrológica de nuestro maestro, José Luís Torres, nos habla de la confabulación del silencio como mejor mecanismo de los grupos de poder.  Es una manifestación de prepotencia del poder establecido, con lo que busca eliminar el recuerdo del adversario, quedando así el poder actual como único dueño del pasado  colectivo.

No es necesario ser un sutil pensador para comparar estas destrucciones de la memoria y eliminaciones de  todo recuerdo con lo que sucede con nuestros gobiernos de hoy. En España una vez muerto Franco comenzó una campaña de difamación contra su persona y sus obras que llegó hasta cambiarle el nombre al pueblo donde nació. En Argentina cuando cayó Perón en 1955 se prohibió hasta su nombre (por dictador), reapareció la vieja abolitio nominis. Hace poco tiempo el gobierno de Kirchner hizo bajar el cuadro del ex presidente Videla (por antidemócrata). Al General Roca que llevó la guerra contra el indio le quieren voltear la estatua (por genocida). Se le quitó el nombre del popular escritor Hugo Wast a un salón de la biblioteca nacional (por antijudío). Y así suma y sigue.

Cuando la historia de un pueblo cae en manos de la memoria colectiva o de la memoria histórica lo que se produce habitualmente es la tergiversación de dicha historia, cuya consecuencia es la perplejidad de ese pueblo, pues se conmueven los elementos que conforman su identidad.

Es que la memoria lleva, por su subjetividad, necesariamente a valorar de manera interesada lo qué sucedió y cómo sucedió. Así para seguir con los ejemplos puestos, objetivamente considerados, Franco fue un gobernante austero y eficaz, Perón no fue un dictador, Videla fue un liberal cruel, Roca no fue un genocida y Wast fue un novelista católico. Vemos que aquello que deja la memoria histórica es un relato mentiroso que extraña al hombre del pueblo sobre sí mismo.

La memoria histórica es un producto de la mentalidad y los gobiernos jacobinos, aquellos que gobiernan a favor de unos grupos y en contra de otros. Aquellos que utilizan los aparatos del Estado no en función de la concordia interior sino como ejercicio del resentimiento, esto es, del rencor retenido, dando a los amigos y quitando a los enemigos. La sana tolerancia de la visión y versión del otro acerca de los acontecimientos históricos es algo que la memoria histórica no puede soportar, la rechaza de plano. La consecuencia lógica es la dammnatio memoriae, la condena de la memoria del otro.

 

(*) arkegueta, eterno comenzante- Univ. Tecnológica Nacional

alberto.buela@gmail.com

  

La lutte du Japon contre les impérialismes occidentaux

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

La lutte du Japon contre les impérialismes occidentaux

Intervention de Robert Steuckers, 5ième université d'été de la F.A.C.E. et de «Synergies Européennes», Varese, Lombardie, 1 août 1997

 

japon1011240.jpgLes principales caractéristiques politiques du Japon avant son ouverture forcée en 1853 étaient:

1. Un isolement complet

2. Un gouvernement assuré par le Shôgun, c'est-à-dire un pouvoir militaire.

3. La fonction impériale du Tennô est purement religieuse.

4. La société est divisée en trois castes:

- les Daimyos, seigneurs féodaux.

- les Samouraïs, fonctionnaires et vassaux.

- les Hinin, le peuple.

 

Sous le Shôgun YOSHIMUNE (1716-1745), le pouvoir impose:

- des taxes sur les biens de luxe afin d'"ascétiser" les daimyos et les samouraïs qui s'amollissaient dans l'hédonisme.

- une élévation des classes populaires.

- la diffusion de livres européens, à partir de 1720 (afin de connaître les techniques des Occidentaux).

 

Sous le Shôgun IEHARU (1760-1786), le Japon connaît une phase de déclin:

- la misère se généralise, les castes dirigeantes entrent en décadence (les tentatives de Yoshimune ont donc échoué).

- la misère générale entraîne le déclin du Shôgunat.

- on assiste alors à une réaction nationale, portée par le peuple, qui revalorise le shintoïsme et la figure du Tennô au détriment du Shôgun.

 

Avant l'ouverture, le Japon présente:

1. Une homogénéité territoriale:

- Trois îles + une quatrième en voie de colonisation, soit Kiou-Shou, Shikoku, Honshu + Hokkaïdo).

- Sakhaline et les Kouriles sont simplement perçues comme des atouts stratégiques, mais ne font pas partie du "sol sacré" japonais.

 

2. Une homogénéité linguistique.

 

3. Une certaine hétérogénéité religieuse:

- le Shinto est l'élément proprement japonais.

- le bouddhisme d'origine indienne a été ajouté à l'héritage national.

- le confucianisme d'origine chinoise est un corpus plus philosophique que religieux et il a été ajouté au syncrétisme bouddhisme/shintoïsme.

- la pratique du prosélytisme n'existe pas au Japon.

- la vie religieuse est caractérisée par une co-existence et un amalgame des cultes: il n'existe pas au Japon de clivages religieux antagonistes comme en Europe et en Inde.

- aucune religion au Japon n'aligne de zélotes.

 

4. Une homogénéité ethnique:

(la majeure partie de la population est japonaise, à l'exception des Aïnous minoritaires à Hokkaïdo, des Coréens ostracisés et d'une caste d'intouchables nommé "Eta").

 

Cette esquisse du Japon d'avant l'ouverture et ces quatre facteurs d'homogénéité ou d'hétérogénéité nous permettent de dégager trois leitmotive essentiels:

 

1. Contrairement à l'Occident chrétien ou même à l'Islam, le Japonais n'est pas religieux sur le mode de la disjonction (ou bien... ou bien...). Il ne dit pas: “je suis protestant ou catholique et non les deux à la fois”. Il est religieux sur le mode CUMULATIF (et... et...). Il dit: "Je suis ET bouddhiste ET shintoïste ET confucianiste ET parfois chrétien...). Le mode religieux du Japonais est le syncrétisme.

 

2. Le Japonais ne se perçoit pas comme un individu isolé mais comme une personne en relation avec autrui, avec ses ancêtres décédés et ses descendants à venir.

 

3. Pour le Japonais, la Nature est toute compénétrée d'esprits, sa conception est animiste à l'extrême, au point que les poissonniers, par exemple, érigent des stèles en l'honneur des poissons dont ils font commerce, afin de tranquiliser leur esprit errant. Les poissonniers japonais viennent régulièrement apporter des offrandes au pied de ces stèles érigées en l'honneur des poissons morts pour la consommation. A l'extrême, on a vu des Japonais ériger des stèles pour les lunettes qu'ils avaient cassées et dont ils avaient eu un bon usage. Ces Japonais apportent des offrandes en souvenir des bons services que leur avaient procurés leurs lunettes.

 

LE JAPON ET L'EUROPE:

 

Premiers contacts:

- Avec les Portugais (chargé d'explorer, de coloniser et d'évangéliser toutes les terres situées à l'Est d'un méridien fixé par le Traité de Tordesillas).

 

- Avec les Portugais s'installent les premières missions chrétiennes, composées de Franciscains, de Dominicains et de Jésuites.

 

- Le Shôgun IYEYASU est bouddhiste, membre de la secte Jodo, et s'oppose au christianisme parce que cette religion occidentale:

a) exclut les autres cultes et refuse leur juxtaposition pacifique;

b) génère des querelles incompréhensibles entre Franciscains et Dominicains espagnols d'une part et Jésuites portugais d'autre part;

c) parce que les Anglais et les Hollandais, qui harcèlent les deux puissances catholiques ibériques, promettent de ne pas s'ingérer dans les affaires religieuses du Japon, de ne pas installer de missions et donc de ne pas transposer les querelles de l'Occident au Japon.

 

- Après l'éviction des Portugais et des Espagnols catholiques, l'influence européenne la plus durable sera la hollandaise. Elle s'exercera surtout sur le plan intellectuel et scientifique, notamment en agriculture et en anatomie.

 

Le JAPON FACE AUX PUISSANCES LIBÉRALES (USA/GRANDE-BRETAGNE):

 

- Les Japonais se désintéressent des marchandises que leur proposent les Anglais.

- Pour gagner quand même de l'argent, les Anglais vendent de la drogue (opium).

- Ils obligent ensuite les Japonais à accepter des "traités inégaux", équivalent à un régime de "capitulations".

- Ils obligent les Japonais à accepter un statut d'EXTRA-TERRITORIALITÉ pour les résidents étrangers qui sont ainsi soustraits à toute juridiction japonaise (cette mesure a été prise à la suite de la décapitation de plénipotentiaires portugais de Macao, exécutés sans jugement et arbitrairement).

- Ils obligent les Japonais à renoncer à ériger tous droits de douane et à respecter de la façon la plus ab­solue le principe du "libre marché".

- Sans appareil politico-administratif issu d'un mercantilisme ou d'un protectionnisme bien étayés, les Japonais sont à la merci du capital étranger.

- Face à cette politique anglaise, qui sera appliquée également par les Etats-Unis à partir de 1853, les Japonais comprennent qu'ils doivent à tout prix éviter le sort de l'Inde, de la Chine et de l'Egypte (cette dernière était un Etat solidement établi au début du 19ième siècle, selon les principes de l'"Etat commer­cial fermé” de Fichte).

- Le Japon se rend compte qu'il doit adopter:

a) la technologie occidentale (armes à feu, artillerie, navires de guerre).

b) les méthodes d'organisation occidentales (il adoptera les méthodes prussiennes).

c) les techniques navales occidentales.

Pour ne pas être démuni face aux puissances européennes et aux Etats-Unis. Cette volonté de s'adapter aux technologies occidentales ouvrira l'Ere Meiji à partir de 1868.

Géopolitiquement, à partir de 1868, le Japon était coincé entre la Russie et les Etats-Unis. La Russie avançait ses pions en Sibérie orientale. Les Etats-Unis transformaient le Pacifique en lac américain.

 

LE JAPON FACE AUX ÉTATS-UNIS:

 

- Date clef: 1842. Cette année-là voit la fin de la première guerre de l'opium entre la Grande-Bretagne et la Chine. Londres impose aux Chinois le Traité de Nankin, où le Céleste Empire doit accepter la clause de la nation la plus favorisée à toutes les puissances occidentales. Sur le continent américain, les derniers soldats russes quittent leur colonie de Californie (Fort Ross).

- En 1844 est signé le Traité de Wanghia entre la Chine et les Etats-Unis. Ce Traité amorce la politique commerciale américaine en direction de l'immense marché potentiel qu'est la Chine. Jamais les Américains ne renonceront à conquérir ce marché.

- Dès le Traité de Wanghia, la volonté d'expansion des Etats-Unis dans le Pacifique prend forme.

- En 1845, cette longue marche en direction de l'hypothétique marché chinois commence sur le territoire américain lui-même, par la querelle de l'Oregon. Sur ce territoire sans souveraineté claire (ni britannique ni américaine), les Etats-Unis veulent imposer exclusivement leur souveraineté, car ils considèrent que cette région est un tremplin vers les immensités océaniques du Pacifique.

- Dans la presse de l'époque, les intentions géopolitiques des Etats-Unis s'expriment en toute clarté: «L'Oregon est la clef du Pacifique». Au Congrès, un Sénateur explique sans circonlocutions: «Avec l'Oregon, nous dominerons bientôt tout le commerce avec les îles du Pacifique-Sud et avec l'Asie orien­tale». Finalement, les Etats-Unis imposent leur volonté aux Britanniques (qui conservent néanmoins Vancouver, surnommé depuis une dizaine d'années, "Han-couver").

- En 1847, les Etats-Unis amorcent les premières négociations avec les Russes en vue d'acheter l'Alaska et les Aléoutiennes; ils envisagent ainsi de projeter leur puissance en direction de la Mer d'Okhotsk et du Japon (en 1867, vingt ans après le début des pourparlers, l'Alaska deviendra effectivement américain).

- En 1848, après une guerre avec le Mexique, les Etats-Unis annexent le Texas, le Nouveau-Mexique et la Californie. Ils possèdent désormais une façade pacifique. 

- L'objectif est clairement esquissé: c'est la création d'un "nouvel empire" américain dans le Pacifique.

Le théoricien de cette expansion pacifique est William H. Seward. Ses théories se résument en huit points:

1. Cet empire sera commercial et non militaire.

2. Il devra compenser l'insuffisance du marché intérieur américain.

3. Il devra lancer et consolider l'industrie américaine.

4. Il devra être épaulé par un flotte de guerre importante.

5. Il devra être structuré par une chaîne de comptoirs, de points d'appui et de stations de charbon (pour les navires de commerce et de guerre).

6. Il ne devra pas être colonial au sens romain et européen du terme, mais se contenter d'une collection de “Hong-Kongs” américains.

7. Il devra viser le marché chinois et éviter toute partition de la Chine.

8. Il devra faire sauter les verrous japonais.

 

En 1853, avec l'expédition des canonnières du Commandant Perry, la marine américaine ouvre de force le Japon au commerce international. A partir de 1853, les Etats-Unis cherchent à contrôler îles et archipels du Pacifique.

Ce seront, tour à tour, Hawaï, Samoa (où ils s'opposeront aux Allemands et perdront la première manche) et les Philippines (qu'ils arracheront à l'Espagne à la suite de la guerre de 1898).

Avec l'acquisition des Philippines, les Etats-Unis entendent s'approprier le marché chinois, en chasser les puissances européennes et le Japon et y imposer à leur profit une économie des "portes ouvertes".

 

Le JAPON FACE À LA RUSSIE:

 

- Au 19ième siècle, la Russie s'étend en Eurasie septentrionale et en Asie Centrale. Elle vise à faire du fleuve Amour sa frontière avec la Chine, afin d'avoir pour elle le port de Vladivostok (gelé toutefois pen­dant quatre mois par an), puis d'étendre son protectorat à la Mandchourie et d'avancer ses pions en di­rection de la Mer Jaune, mer chaude, et d'utiliser Port Arthur pour avoir sa propre façade pacifique.

 

- La Russie encercle ainsi la Corée, convoitée par le Japon et coincée entre Vladivostok et Port Arthur.

- La Grande-Bretagne et les Etats-Unis veulent maintenir la Russie le plus loin possible de la Chine et du littoral pacifique.

- Pour contenir la Russie, la Grande-Bretagne conclut une alliance avec le Japon.

- L'appui de la haute finance new-yorkaise permet au Japon de bénéficier de crédits pour mettre sur pied une armée de terre et une marine de guerre.

- Au même moment, s'enclenche dans la presse libérale du monde entier une propagande contre le Tsar, "ennemi de l'humanité". Simultanément, émerge un terrorisme en Russie, qui agit comme cinquième co­lonne au profit des Britanniques, des financiers américains et des Japonais (qui servent de chair à ca­non).

- Le Japon frappe les Russes à Port Arthur par surprise, sans déclaration de guerre.

- La Russie doit envoyer sa flotte de la Baltique à la rescousse. Mais les Anglais ferment Suez et refusent de livrer eau potable et charbon aux navires russes.

- La Russie est battue et doit composer.

- Les Etats-Unis, qui avaient cependant soutenu le Japon, font volte-face, craignant la nouvelle puis­sance nippone en Mandchourie, en Corée et en Chine.

- Sous la pression américaine, les Japonais sont contraints de renoncer à toutes réparations russes, alors qu'ils comptaient sur celles-ci pour rembourser leurs emprunts new-yorkais.

- Les intrigues américaines font du Japon un pays endetté, donc affaibli, et, croit-on, plus malléable.

- Dès 1907, on assiste à un rapprochement entre Russes et Japonais.

- En 1910, les Japonais s'emparent définitivement de la Corée, sans pour autant inquiéter les Russes.

- De 1914 à 1918, les Japonais s'emparent des établissements et colonies du Reich dans le Pacifique et en Chine.

- Les Japonais interviennent dans la guerre civile russe en Sibérie:

a) ils appuient les troupes de l'Amiral Koltchak qui se battent le long du Transsibérien et dans la région du Lac BaÏkal au nord de la Mongolie.

b) ils appuient la cavalerie asiatique du Baron Ungern-Sternberg en Mongolie.

c) ils tentent de pénétrer en Asie centrale, via le Transsibérien, la Mandchourie et la Mongolie.

 

LE RETOURNEMENT AMERICAIN ET LA « CONFERENCE DE WASHINGTON »

 

- Les Etats-Unis s'opposent à cette pénétration japonaise et appuient en sous-main les Soviétiques en:

a) décrétant l'embargo sur les exportations de coton vers les Japon;

b) interdisant l'importation de soies japonaises aux Etats-Unis;

c) provoquant ainsi un chomâge de masse au Japon, lequel est dès lors incapable de financer ses projets géopolitiques et géoéconomiques en Asie septentrionale (Mandchourie et Mongolie).

 

- En 1922, se tient la CONFÉRENCE DE WASHINGTON.

Les Américains y imposent au monde entier leur point de vue:

1. L'Angleterre est priée de retirer définitivement tout appui au Japon.

2. Les Japonais doivent se retirer de Sibérie (et abandonner Koltchak et Ungern-Sternberg).

3. Les Japonais doivent rendre à la Chine le port ex-allemand de Kiao-Tchau.

4. La Chine doit pratiquer une politique des "portes ouvertes" (en théorie, le Japon et les Etats-Unis sont à égalité dans la course).

5. Les Etats-Unis imposent un équilibrage ou une limitation des marines de guerre:

- Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne peuvent aligner chacun 525.000 tonnes.

- Le Japon doit se contenter de 315.000 tonnes.

- L'Italie et la France se voient réduites à 175.000 tonnes chacune (Georges Valois, Charles Maurras et l'état-major de la marine française s'en insugeront, ce qui explique la germanophilie des marins français pendant la seconde guerre mondiale, de même que leur européisme actuel).

- La marine allemande est quasiment réduite à néant depuis Versailles et n'entre donc pas en ligne de compte à Washington en 1922.

 

- Le Japon est dès lors réduit au rôle d'une puissance régionale sans grand avenir et est condamné au "petit cabotage industriel".

- Les militaires japonais s'opposeront à cette politique et, dès 1931, une armée "putschiste", mais non sanctionnée pour avoir perpétré ce putsch, pénètre en Mandchourie, nomme Empereur du "Mandchoukuo, Pu-Yi, dernier héritier de la dynastie mandchoue et pénètre progressivement en Mongolie intérieure, ce qui lui assure un contrôle indirect de la Chine.

- Washington refuse le fait accompli imposé par les militaires japonais. C'est le début de la guerre diplomatique qui se muera en guerre effective dès 1941 (Pearl Harbour).

 

LE JAPON ET L'ALLEMAGNE:

 

C'est le facteur russe qui déterminera les rapports nippo-germaniques.

 

- L'Allemagne s'intéresse au Japon pour:

a) créer un front oriental contre la Russie qui se rapproche de la France.

b) créer une triplice Berlin-Pétersbourg-Tokyo.

 

- En 1898, au moment de la guerre hispano-américaine, le ministre japonais ITO HIROBUMI suggère une alliance eurasiatique entre l'Allemagne, la Russie et le Japon. C'est au Japon, en lisant les écrits du Prince Ito, que Haushofer a acquis cette idée de "bloc continental" et l'a introduite dans la pensée poli­tique alle­mande.

 

- Mais en Allemagne on s'intéresse très peu au Japon et bien davantage à la Chine.

- Guillaume II est hanté par l'idée du "péril jaune" et veut une politique dure en Asie, à l'égard des peuples jaunes. Sa politique est de laisser faire les Russes.

- Par ailleurs, les diplomates allemands craignent que des relations trop étroites avec le Japon ne bra­quent la Russie et ne la range définitivement dans le camp français.

- L'Allemagne refuse de se joindre au Pacte nippo-britannique de 1902 contre la Russie et braque ainsi l'Angleterre (qui s'alliera avec la France et la Russie contre l'Allemagne en 1904: ce sera l'Entente).

- En 1905, la Russie, après sa défaite, quitte le théâtre extrême-oriental et jette son dévolu en Europe aux côtés de la France.

- L'Allemagne est présente en Micronésie mais sans autre atout: elle en sera chassée après la première guerre mondiale.

 

Les déboires et les maladresses de l'Allemagne sur le théâtre pacifique lui coûteront cher. Ce sera l'obsession du géopolitologue Haushofer.

 

Le DISCOURS DE LA POLITIQUE JAPONAISE:

 

Face à l'Europe et surtout aux Etats-Unis, à partir de la Conférence de Washington de 1922, quel discours alternatif le Japon va-t-il développer?

 

A. Les idéologies au Japon en général:

Pierre Lavelle, spécialiste français de la pensée japonaise distingue:

1. des formes idéologiques traditionnelles

2. des formes idéologiques néo-traditionnelles

3. des formes idéologiques modernes.

 

1. Les formes traditionnelles:

- Parmi les formes traditionnelles, le Shinto cherche à s'imposer comme idéologie officielle de la japoni­tude.

- Mais cette tentative se heurte au scepticisme des dirigeants japonais, car le Shinto éprouve des difficul­tés à penser le droit et la technique.

- Au cours des premières décennies de l'Ere Meiji, le bouddhisme perd du terrain mais revient ensuite sous des formes innovantes.

- Le confucianisme est revalorisé dans les milieux ultra-nationalistes et dans les milieux patronaux.

 

2. Les formes néo-traditionnelles:

- Leur objectif:

a) garder une identité nationale

b) cultiver une fierté nationale

c) faire face efficacement au monde extérieur avec les meilleures armes de l'Occident.

 

3. Les formes modernes:

- C'est d'abord la philosophie utilitariste anglo-saxonne qui s'impose au milieu du XIXième siècle.

- Après 1870, les orientations philosophiques japonaises s'inspirent de modèles allemands (ce qui perdu­rera).

- Vers 1895 disparaissent les dernières traces du complexe d'infériorité japonais.

- De 1900 à nos jours, la philosophie japonaise aborde les mêmes thématiques qu'en Europe et aux Etats-Unis.

- La dominante allemande est nette jusqu'en 1945.

- De 1955 à 1975 environ, le Japon connaît une période française. Michel Foucault est fort apprécié.

- Aujourd'hui, l'Allemagne reste très présente, ainsi que les philosophes anglo-saxons. Heidegger semble être le penseur le plus apprécié.

 

B. Le PANASIATISME (1):

 

L'idéal panasiatique repose sur deux idées maîtresses:

- Le Japon est puissance dominante qui a su rester elle-même et a assimilé les techniques de l'Occident.

- Le Japon est une puissance appelée à organiser l'Asie.

Dans cette optique, deux sociétés patriotiques émergent:

1) La Société du Détroit de Corée (Gen'yôsha).

2) La Société du Fleuve Amour (Kokuryûkai).

 

C. La “DOCTRINE D'ÉTAT”: POSITIONS ET FIGURES

 

Positions:

1. Centralité du Tennô/de la Maison Impériale.

2. Le Shintô d'Etat qui laisse la liberté des cultes mais impose un civisme à l'égard de l'Empereur et de la nation japonaise.

3. L'âme des sujets n'est pas distincte de l'Auguste Volonté  du Tennô.

4. La vision sociale de Shibuwasa Eiichi (1841-1931):

a) subordonner le profit à la grandeur nationale;

b) subordonner la compétition à l'harmonie;

c) subordonner l'esprit marchand à l'idéalisme du samouraï.

Ce qui implique:

- des rapports non froidement contractuels;

- des relations de type familial dans l'entreprise.

5. L'idéal bismarckien d'un Etat social fort et protectionniste, s'inscrivant dans le sillage de l'école histo­rique allemande.

6. Le développement d'un nationalisme étatique reposant, chez Inoue Testujiro (1856-1944):

a) sur une modernisation du confucianisme;

b) sur le panasiatisme;

c) sur le rejet du christianisme.

Et chez Takayama Chogyu (1871-1902) sur l'idée que le Japon est le champion des "Non-Aryens” dans la grande lutte finale entre les races qui adviendra.

7. Le développement concommittant d'un nationalisme populaire, dont les idées-forces sont:

a) le refus de l'étiquette occidentale dans les rituels d'Etat japonais.

b) la défense de l'essence nationale (kokusui).

c) la remise en cause de l'idée occidentale du progrès unilinéaire.

d) la nation est la médiation incontournable des contributions de l'individu à l'humanité.

 

Figures: 

1. Miyake Setsurei (1868-1945):

- L'objectif du Japon doit être le suivant: il doit faire la synthèse de l'émotion chinoise, de la volonté in­dienne et de l'intelligence occidentale (la démarche, comme toujours au Japon, est une fois de plus CUMULATIVE).

- Le Japon doit être capable de bien faire la guerre.

- Le Japon doit éviter le piège du bureaucratisme.

- Le Japon doit adopter le suffrage universel, y compris celui des femmes.

 

2. Shiga Shigetaka (1863-1927):

- L'identité culturelle japonaise passe par une valorisation des paysages nationaux (Shiga Shigetaka est écologiste et géophilosophe avant la lettre).

- L'expansion dans le Pacifique doit se faire par le commerce plutôt que par les armes.

 

3. Okahura Tenshin (1862-1913)

- Le Japon doit prendre conscience de son asiatisme.

- Il doit opérer un retour aux valeurs asiatiques.

- Il doit s'inspirer de la démarche de l'Indien Rabindranath Tagore (1861-1941), champion de l'émancipation indienne et asiatique.

- Les valeurs asiatiques sont: le monisme, la paix, la maîtrise de soi, l'oubli de soi, une notion de la famille centrée sur la relation entre générations et non sur le couple.

 

4. Les nationalistes chrétiens:

Attention: les chrétiens japonais sont souvent ultra-nationalistes et anti-américains.

Pour les nationalistes chrétiens, les valeurs communes du christianisme et du Japon sont:

- la fidélité, l'ascèse, le sacrifice de soi, le dévouement au bien public, l'idée d'une origine divine de toute autorité.

Les chrétiens protestants:

a. Ebina Danjô (1856-1937):

- L'Ancien Testament doit être remplacé par la tradition japonaise.

- Le Tennô doit être adjoint à la Sainte-Trinité.

b. Uchimura Kanzô (1861-1930):

- L'Occident n'applique pas les principes chrétiens, c'est au Japon de les appliquer en les japonisant.

c. Les Catholiques:

En 1936, le Vatican s'en tire avec une pirouette: le Shintô n'est pas une religion, donc il est compatible avec le christianisme. Les Catholiques peuvent donc pratiquer les rites shintoïstes.

 

En conclusion, le christianisme japonais se présente comme un “christianisme de la Voie Impériale”.

Seuls les Quakers et les Témoins de Jéhovah ne s'y rallient pas.

 

D. L'ULTRA-NATIONALISME à partir des années 20:

 

Comme l'Alldeutscher Verband  allemand ou la Navy League  américaine, l'ultra-nationalisme japo­nais débute par la fondation d'une société: la SOCIÉTÉ DE LA PÉRENNITÉ (Yûzonsha).

Ses fondateurs sont: ÔKAWA SHÛMEI et KITA IKKI (1883-1937).

a. Kita Ikki:

- Kita Ikki plaide pour le socialisme et le culte de l'Etat.

- Il adhère à la "Société du Fleuve Amour".

- Il prône une solidarité avec la Chine, victime de l'Occident, dans une optique panasiatique.

- Il développe une vision "planiste" de la Grande Asie japonocentrée. Par "planisme", j'entends une vision tournée vers l'avenir, non passéiste, où la mission du Japon passe avant le culte du Tennô.

b. Ôkawa Shûmei (1886-1957):

- La pensée d'Ôkawa Shûmei est à dominante confucéenne.

- Il plaide pour une solidarité avec l'Islam.

c. Nakano Seigô (1886-1943):

- Il est le fondateur de la SOCIÉTÉ DE L'ORIENT (la Tôhôkai), qui sera active de 1933 à 1943.

- Il est le seul au Japon à se réclamer ouvertement du fascisme et du national-socialisme.

- Il plaide pour l'avènement d'un "socialisme national anti-bureaucratique".

- Dans sa défense et son illustrations des modèles totalitaires allemand et italien, il est seul car le Japon n'a jamais été, même pendant la guerre, institutionnellement totalitaire.

d. Le Général Araki Sadao (1877-1966):

- Il inscrit l'ultra-nationalisme japonais dans une perspective spirituelle et fonde la FACTION DE LA VOIE IMPÉRIALE (Kôdôha).

 

L'ultra-nationalisme japonais culminera pendant les années de guerre dans quatre stratégies:

- La valorisation de l'esprit (tiré des mânes des ancêtres et des dieux présents partout dans le monde) contre les machines.

- L'éradication de la culture occidentale moderne en Asie.

- La valorisation de l'"Autre Occident", c'est-à-dire l'Allemagne et l'Italie, où il mettre surtout l'accent sur l'héroïsme (récits militaires de la première guerre mondiale, pour servir d'exemple aux soldats), plutôt que sur le racisme de Mein Kampf, peu élogieux à l'égard des peuples jaunes.

- L'antisémitisme alors que le Japon n'a pas de population juive.

 

E. GÉOPOLITIQUE ET PANASIATISME (2):

 

Les sources de la géopolitique japonaise:

 

Les Japonais, bons observateurs des pratiques des chancelleries européennes et américaines, lisent dans les rapports de l'Américain Brooks Adams des commentaires très négatifs sur la présence alle­mande dans la forteresse côtière chinoise de Kiau-Tchéou, alors que les Russes se trouvent à Port Arthur.

 

Brooks Adams exprime sa crainte de voir se développer à grande échelle une politique de chemin de fer transcontinentale portée par les efforts de la Russie, de l'Allemagne et d'une puissance d'Extrême-Orient.

 

Devant une masse continentale unie par un bon réseau de chemin de fer, la stratégie du blocus, chère aux Britanniques et aux Américains, ne peut plus fonctionner.

 

Conclusion: Les Japonais ont été les premiers à retenir cette leçon, mais ont voulu prendre la place de la Chine, ne pas laisser à la Chine le bénéfice d'être la puissance extrême-orientale de cette future "troïka" ferroviaire.

 

D'où: les flottes allemande et japonaise doivent coopérer et encadrer la masse continentale russe et mettre ainsi un terme à la pratique des "traités inégaux" et inaugurer l'ère de la coopération entre partenaires égaux.

 

Après l'alliance anglaise de 1902 et après la victoire de 1905 sur la Russie, qui ne rapporte pas grand'chose au Japon, le Prince Ito, le Comte Goto et le Premier Ministre Katsura voulaient une alliance germano-russo-japonaise. Mais elle n'intéresse pas l'Allemagne. Peu après, le Prince Ito est assassiné en Corée par un terroriste coréen.

 

L'IDÉE D'UN "BLOC CONTINENTAL EURASIEN" est donc d'origine japonaise, bien qu'on le retrouve chez l'homme d'Etat russe Sergueï Witte.

 

F. Le PANASIATISME (3):

 

Quant au panasiatisme, il provient de trois sources:

1. Une lettre du révolutionnaire chinois Sun-Yat-Sen au ministre japonais Inoukaï: le leader chinois demandait l'alliance de la Chine et du Japon avec la Turquie, l'Autriche-Hongrie et l'Allemagne, pour "libérer l'Asie".

 

2. L'historien indien Benoy Kumar Sakkar développe l'idée d'une “Jeune Asie” futuriste.

 

3. Le discours de l'écrivain indien Rabindranath Tagore, exhortant le Japon à ne pas perdre ses racines asiatiques et à coopérer avec tous ceux qui voulaient promouvoir dans le monde l'émergence de blocs continentaux.

 

APRÈS 1945:

- La souveraineté japonaise est limitée.

- McArthur laisse le Tennô en place.

- Le Japon est autorisé à se renforcer économiquement.

 

Mais dès les années 80, ce statu quo provoque des réactions. La plus significative est celle de Shintaro Ishihara, avec son livre The Japan That Can Say No  (1989 au Japon, avant la guerre du Golfe; 1991 dans sa traduction américaine, après la guerre du Golfe).

 

Dans cet ouvrage, Shintaro Ishihara:

- réclame un partenariat égal avec les Etats-Unis en Asie et dans le Pacifique.

- souligne les inégalités et les vexations que subit le Japon.

- explique que la politique des "portes ouvertes" ne réglerait nullement le problème de la balance commer­ciale déficitaire des Etats-Unis vis-à-vis du Japon.

- observe que si les Etats-Unis présentent une balance commerciale déficitaire face au Japon, c'est parce qu'ils n'ont jamais adapté correctement leur politique et leur économie aux circonstances variables dans le monde.

- observe que les pratiques japonaise et américaine du capitalisme sont différentes, doivent le rester et dérivent de matrices culturelles et historiques différentes.

- observe que l'imitation d'un modèle étranger efficace n'est pas un déshonneur. Le Japon a appris de l'Occident. Les Etats-Unis pourraient tout aussi bien apprendre du Japon.

- se réfère à Spengler pour dire:

a) il n'y a pas de "fin de l'histoire".

b) la quête de l'humanité se poursuivra.

c) comme Spengler l'avait prévu, la civilisation de demain ne sera possible que si se juxtaposent des cul­tures différentes sur la planète.

d) les différences ne conduisent pas à l'incompatibilité et à la confrontation.

- annonce que le Japon investira en Europe, notamment en Hongrie et en Tchéquie.

- suggère aux Américains un vaste programme de redressement, basé sur l'expérience japonaise.

 

La réponse américaine, rédigée par Meredith et Lebard (cf.) est:

- une réponse agressive;

- une réponse prévoyant une future guerre en Asie, mettant aux prises un Japon regroupant autour de lui une alliance avec l'Indonésie, Singapour, la Papouasie-Nouvelle-Guinée, les Philippines, la Malaisie, la Thaïlande, la Myanmar, l'Inde et la Chine. Cette alliance visera à contrôler à la place des Américains la route du pétrole du Golfe à Singapour et de Singapour au Japon, par un binôme marin Inde/Japon.

- Face à ce bloc est-asiatique et indien, les Etats-Unis doivent, disent Meredith et Lebard, mobiliser un contre-alliance regroupant la Corée, la Chine, Taïwan, l'Indonésie, l'Australie, les Philippines et Singapour.

- L'Indonésie et la Chine constituant les enjeux majeurs de cette confrontation.

 

Robert STEUCKERS,

Forest-Flotzenberg, juillet 1997.

 

BIBLIOGRAPHIE

 

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