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mardi, 23 novembre 2010

Der Geist von Tauroggen und Sewastopol

Der Geist von Tauroggen und Sewastopol

Wolfgang Strauss - Ex: http://www.velesova-sloboda.org/

 579_Die_Generaele_Diebitsch_und_Yorck_beschliessen_die_K.jpgZahlreiche russische Staatsmänner haben die Auffassung vertreten, gute Beziehungen mit dem deutschen Volk seien das A und O der russischen Europapolitik. Die deutschen Patrioten pflichten dieser Ansicht voll und ganz bei und halten ein deutsch-russisches Bündnis für den Eckstein der deutschen Ostpolitik. Als Vorbild dient ihnen Tauroggen. Am 30. Dezember 1812 unterzeichneten der preußische General York von Wartenberg und der russische General Dibitsch in einer Mühle des litauischen Dorfes Poscherun die Konvention von Tauroggen. Diese sollte das Schicksal Napoleons endgültig besiegeln und seine Niederlage unvermeidlich machen.

In unsren Tagen geht die Bedrohung Europas von keiner Grossen Armee aus. Für Deutsche und Russen stellen die amerikanische Massenkultur sowie der westliche Liberalismus die tödlichste Bedrohung dar. Nach den Plänen Washington ist das Ziel der “Neuen Weltordnung” die Kolonisierung des europäischen Kontinents und die Vernichtung der Eigenständigkeit sowohl des russischen als auch des deutschen Volkes. Aus diesem Grund betrachten die Patrioten Deutschlands Amerika als den Hauptfeind der Deutschen und der Russen zugleich. Der geistige und ethische Widerstand dieser beiden führenden europäischen Völker bildet ein Hindernis auf dem Weg zur “Neuen Weltordnung”.

 

 

   

Die wechselseitigen Beziehungen zwischen Russen und Deutschen sind untrennbar mit der Geschichte der russischen Erde verknüpft; sie bestehen seit ungefähr zweitausend Jahren und sind somit sehr viel älter als die Entdeckung Amerikas oder die Epochen der Aufklärung und des Kapitalismus. Zum Aufbau des imperialen russischen Staates haben Deutsche als Berater, Unternehmer, Diplomaten, Soldaten, Politiker, Philosophen, Pädagogen, Ärzte usw. maßgeblich beigetragen. In den Adern Afanassi Fets und Alexander Bloks floß deutsches Blut, und die deutschen Gelehrten Gmelin, G.F. Müller, Steller, Middendorf, Toll und Pallas wirkten bei der allseitigen Erforschung Sibiriens im 18. Jahrhunderts entscheidend mit.

Der zweite dieser beiden großen Rußlanddeutschen war General Totleben, der dem deutsch-schwedischen Rittertum der Ostsee entstammte und zum Held des Krimkrieges wurde. Die Admiräle Nachimow, Kornilow und Istomin waren im Kampf gefallen, und Totleben selbst, der geniale Schöpfer der Festungsanlagen von Sewastopol, war schwer verwundet worden. Mit seinem Namen verbunden sind das Gefecht von Baklalawa und der Kampf um Malachow-Hügel [Malachow Kurgan]. Dort plante er die befestigten Positionen und errichtete unter dem Kartätschenfeuer der Engländer und Franzosen jene gewaltigen Wälle, vor denen die feindlichen Soldaten verbluteten.

Von diesen Männern und ihren Taten wissen die Moskau-Korrespondenten der deutschen Zeitungen, des deutschen Rundfunks und des deutschen Fernsehens nichts. Sie, die sie keine Ahnung von Geschichte haben, richten törichte Attacken gegen die nationale russische Opposition.

Gegen die einseitige Darstellung der Lage in Rußland wendet sich die nationale deutsche Opposition, insbesondere die hochkarätigen Zeitschriften “Staatsbriefe”, “Criticon”, “Nation und Europa” und “Etappe”. Diese Publikationen, die von Studenten und jungen Intellektuellen gelesen werden, stehen geschlossen hinter der nationalen Opposition Rußlands.

Russenhaß ist im heutigen Deutschland zur seltenen Ausnahme geworden. Die aus Deutschland zurückkehrenden russischen Soldaten berichten kaum je von feindseligen Gefühlen, die ihnen seitens der deutschen Bevölkerung entgegengeschlagen hätten. Unter den Deutschen ist der Geist von Tauroggen und Sewastopol noch lebendig. Alles in allem läßt sich ohne weiteres sagen, daß die antirussischen deutschen Medien gleichzeitig auch Todfeinde Deutschlands, seines Volkes und des deutschen Patriotismus sind. Ihre Feindschaft gegen Rußland geht Hand in Hand mit einer ausgeprägten Deutschfeindlichkeit. Diesen Handlanger der amerikanischen “Neuen Weltordnung” wird es so ergehen wie Napoleon bei Borodino, an der Beresina, in Tauroggen und bei Leipzig.

Aspetti religiosi e storici del Tibet

Aspetti religiosi e storici del Tibet

La storia documentata di questo popolo risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente

Gianluca Padovan

Ex: http://www.rinascita.eu/ 

Tibet.jpgIn questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.


Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa, avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero, abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al paleolitico superiore e al neolitico.


La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni, nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.


Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione: “Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria, terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2


L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3


Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi. La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione, nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte, recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari insieme ai loro beni e al loro seguito».4


Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo Tibetano”.5

 
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet, nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche, religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi; quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana. Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6

 
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi, tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere danneggiati”.8


Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.


18 Novembre 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4991

lundi, 22 novembre 2010

"La condition historique" de Marcel Gauchet

La condition historique (M. Gauchet)

Ex: http://www.scriptoblog.com/

« La condition historique » n’est pas un essai, mais un livre d’entretiens qui contient en filigrane un essai. On passera ici sur ce qui échappe à cette trame cachée, même si les confidences de Gauchet sur le fonctionnement des petits milieux intello-snobinards de gôche valent leur pesant d’or. Pour être tout à fait franc, ça ne donne pas envie de fréquenter le Café de Flore.

Allons donc directement à la thèse qui parcourt l’ouvrage, en arrière-plan d’un échange apparemment décousu. Nous sauterons les passages qui ne sont pas nécessaires à la compréhension de l’ensemble – et, par égard pour Gauchet, tairons délibérément ses errements de « démocrate » qui croit encore, le pauvre, en la « démocratie », ou encore ses élucubrations sur la puissance de l’Amérique impériale, dont il ne détecte absolument pas, en 2003, l’immense fragilité.

 

 


*

 

Marcel Gauchet veut bâtir un « pont » entre la théorie des sociétés et celle du psychisme, sans tomber dans un freudo-marxisme qu’il qualifie de « naïf », et en vue d’opérer une action sur la réalité politique. Dans cette optique, il entend avant tout faire une histoire des concepts.

Le concept même de « société » est, dit-il, d’usage récent (XIX° siècle). Il n’est pas neutre : il porte en lui-même l’espoir d’une libération – la pure « socialité » serait émancipatoire. Gauchet entend à la fois prendre ses distances avec ce prédicat, mais aussi lui accoler les fondements théoriques qui permettront de le déployer judicieusement. Dans cette optique, il faut, dit-il, replacer le politique en amont du social et de l’économique. Fondamentalement, sa démarche recouvre donc une tentative pour politiser réellement un paradigme structuraliste qui, jusqu’ici, est resté avant tout culturel.

Qu’est-ce que ce « paradigme structuraliste » dont parle Gauchet ? Il s'agit ici, avant tout, du structuralisme comme approche anthropologique, on est tout de même assez loin de la linguistique : c'est, en gros, une méthode de recherche postulant qu'il existe un fondement objectif inconscient à toute pensée. Pour faire court, et en reprenant les mots-clefs de Gauchet, il faut comprendre ici le structuralisme comme un « Heidegger accommodé à la française » (1), dont la philosophie (critique de la subjectivité au nom de l’être) devient une critique de la subjectivité au nom de l’objectivité des structures signifiantes.

Comment rendre politique cette pensée structuraliste ? Pour Gauchet, la voie définie par Althusser était largement une imposture. Sa proposition est ailleurs : fondamentalement, il s’agit d’abord de comprendre que nous vivons la substitution du regard positif à la magie du pouvoir, et que dans ce contexte, la question est de savoir si cette substitution débouchera sur la technocratie rationalisant le fait social jusqu’à en éliminer toute forme d’incertitude, ou si au contraire elle ouvrira la porte à une prise en main du savoir social par les acteurs eux-mêmes – créant ainsi une nouvelle condition historique, celle de l’humanité consciente d’elle-même et de son devenir. Prendre conscience de cet enjeu, l’expliciter, apprendre à le traiter : voilà le projet qui fédèrera le structuralisme pour le rendre authentiquement politique.

Sur le plan intellectuel, explique Gauchet, la démarche est rendue difficile par l’impossibilité d’une pluridisciplinarité authentique – chaque discipline tentant d’attirer les autres à elle, et finalement se transformant en sophistique pour inclure coûte que coûte (d’où la « gueule de bois théorique de la génération 68 », pour reprendre sa jolie formule). Sur le plan pratique, elle est perturbée par la nécessité, pour agir dans le champ politique, d’élaborer une programmatique – alors que, justement, une telle démarche suppose l’abandon de toute idée de programme.

Pour surmonter ces difficultés, il faut, explique Gauchet, que le structuralisme se délivre de lui-même. Il s’agit de sortir de l’allégeance formelle au marxisme, de l’emprise exercée par l’histoire structurale de Foucault, de la phénoménologie comme méthode obligée, bref de toutes les formes qui, tout en se démarquant de la critique classique, continuent à fonctionner comme des spécialités. Bien entendu, il faut, aussi, capitaliser sur les acquis de ces mouvements ; mais il serait mortifère de ne pas les prolonger jusqu’au-delà d’eux-mêmes, pour aller vers une unité active de la pensée structuraliste, renvoyée à son élément crucial : l’Histoire, plutôt que le sujet, plutôt que la critique. Pour simplifier à outrance : il s’agit donc de situer le structuralisme dans un cadre fondamentalement hégélien (la raison dans l'histoire), en le sortant de son cadre préexistant, fondamentalement cartésien et kantien.

Ce retour à l’hégélianisme exige évidemment une réinterprétation radicale. Etre structuraliste dans le cadre hégélien, a priori, paraît impossible. Le structuralisme interdit le déterminisme ; donc on ne voit pas comment il pourrait être hégélien.

La réponse réside pour Gauchet dans l’élaboration d’une critique de la raison historique, autour du concept de « Décision ». Il s’agit de poser la question décisive en politique : comment sont prises les décisions ? Si cette question est résolue, la réponse fournira, toujours selon Gauchet, une base pour conjuguer hégélianisme et structuralisme. Parce qu’alors, l’histoire hégélienne sera ramenée dans un cadre structuraliste : on connaît les structures qui produisent son sens, et sa fin devient l’accomplissement de ces structures.

 

*

 

Voilà la question posée. Reste à y répondre – du moins en ce qui concerne l’Occident.

Gauchet a très vite orienté ses recherches vers la religion. Elle lui semblait, instinctivement pourrait-on dire, la clef du mystère. La décision politique est prise parce qu’on pense d’une certaine manière ; certes, cette manière de pensée pense à la place du sujet (structuralisme, influence de Lacan) ; mais le sujet la pense tout de même : l’articulation entre le penser et le pensé, c’est le religieux.

Le moment décisif de l’Histoire est pour Gauchet le « tournant axial » qui se produit lorsque l’Etat transforme la religion, soudainement, au début de l’Antiquité classique. C’est ce qui fait entrer l’humanité dans la condition historique. Désormais, l’engendrement du présent par le passé est pensé comme le résultat d’une action planifiée. L’humanité passe dans un ordre intentionnel. Individualisme et collectivisme, liberté et tyrannie, égalité et inégalité deviennent pensables : la décision doit être prise, parce qu’il y a quelque chose à décider.

Ce quelque chose fait, pour Gauchet, l’objet d’une décision cruciale avec le christianisme : c’est « la sortie du monde où il y a des dominations ». A partir de ce moment, la marche de l’Histoire est définie comme l’extraction du monde hors de lui-même, sa transformation en ce qu’il n’est pas. L’Eglise chrétienne, en revendiquant un pouvoir spirituel détaché du temporel, n’est d’ailleurs pensable que dans le cadre de cette histoire-là. C’est son émergence qui donne, pour Gauchet, un tour particulier à l’Occident : là, à l’ouest de l’Europe, il n’y a plus d’empire pour l’encadrer, si bien que le conducteur spirituel est libre d’orienter la décision matérielle vers des fins autonomisées à l’égard du pouvoir politique.

Au onzième siècle, avec la réforme grégorienne, cette évolution débouche sur une réinvention du christianisme, ou si l’on veut sur la révélation de son essence : l’Eglise devient médiatrice entre un au-delà vers lequel il faut aller, à partir d’un ici-bas qu’on peut transformer. L’idée de Progrès est née, et, avec elle, celle d’une société qui se projette vers l’avenir à partir du passé. Le critère de la décision est défini : ce sera le progressisme. Toute l’histoire de l’Occident n’est pour Gauchet que le déroulé de ce critère, de la Réforme à l’industrialisation, en passant par la Révolution.

Penser Hegel en termes structuralistes, c’est d’abord connaître cette histoire, et donc mettre en perspective l’hégélianisme.

 

*

 

Mais cette approche structuraliste permet, surtout, de penser la crise actuelle comme étant d’abord celle de ce critère de la décision : le progressisme.

Au XIX° siècle, avec la psychiatrie s’ouvre une ère nouvelle, où l’interprétation de la subjectivité humaine échappe radicalement à l’historicité. Soudain, la folie cesse d’être une ruse de la raison, elle devient l’instrument d’une révélation sur le psychisme en amont de la raison (avec en particulier la psychanalyse et la découverte de l’inconscient). Ce surgissement de la psychiatrie n’a rien d’un hasard : c’est, estime Gauchet, un signe parmi d’autres dans une évolution générale qui fait muter la perception que l’humanité a d’elle-même.

Ici, donc, la religion du Progrès explose, parce que la question devient énonçable, qui la prend à revers : et si le sens était à l’intérieur du sujet, donc hors de sa condition historique ?

L’objectivité n’existe plus dans l’univers de la psychiatrie, dans l’univers créé par la psychiatrie. Dès lors, la pensée hégélienne, la pensée de l’historicité, donc, ne peut plus être formulée : il n’est plus possible de pointer dans le sujet le caractère historique de la raison. Les sociétés  modernes avaient entamé la mue, ouvert la porte à la crise, en constituant l’individu en individu de droit. L’individu biologique, devenu individu social, devient, à la fin de l’époque moderne, le producteur du social – à côté de l’Histoire, donc, et potentiellement contre elle. Tant que la religion tenait, l’historicité restait possible pour le sujet, qui ramenait son intériorité à l’historicité ; dès lors que la religion cède, plus rien ne garantit cette historicité du sujet, il devient producteur du social en toute ignorance de l’Histoire. L’humanité entre dans l’ère de l’autonomie individuelle. L’altérité n’est plus nécessaire à l’anthropogenèse, la « culture du narcissisme » (Lash) devient potentiellement la culture dominante.

Contrairement aux attentes des promoteurs de la démarche, il en résulte une dissociation progressive d’abord de la société et de l’Etat, ensuite de la société d’avec elle-même. Elle éclate littéralement. Les idéologies seront, fondamentalement, une tentative pour interdire cet éclatement, pour reconstituer une unité devenue impossible en l’absence du religieux.

Peine perdue : la subjectivité, le rapport de soi à soi, devient le mode de pensée de l’Occident. La condition historique n’existe plus, l’envie même de l’incarner a cessé d’animer les peuples. Hegel avait élevé l’immanence jusqu’à la transcendance, par l’auto-extériorité. Quand il n’y a plus ni extériorité, ni transcendance, il n’y a plus d’élévation de l’immanence.

Gauchet fait remarquer ici que cette évolution est d’ailleurs tout à fait logique, produite par les structures mêmes du projet occidental : le christianisme, en ouvrant la porte à l’idée de Progrès, a aussi préparé le terrain pour l’avènement du sujet autonome. Dès lors que le Verbe s’incarne, dès lors que le Davar hébraïque fusionne avec le Logos grec, ce n’est pas seulement l’humanité en marche vers le Progrès qui devient pensable (le Logos comme instrument du Davar au niveau collectif), c’est aussi celle du sujet autonome en marche vers lui-même (le Logos vers le Davar, au niveau individuel). Telle est l’autre révolution introduite par le christianisme, révolution qui chemine souterrainement, sous l’idée de Progrès, et finit par la submerger.

Pour Gauchet, la crise actuelle de l’Occident est là : c’est l’instant où l’idée du sujet autonome prend le pas sur celle du Progrès. L’organisation du monde reste possible, mais elle ne tend plus vers la Cité idéale : elle est faite en fonction des désirs du sujet. La condition historique est devenue un problème qu’on ne cherche même plus à résoudre, qu’on reconnaît insoluble, et que d’ailleurs on finit par juger sans intérêt.

L’actuel culte du Marché (le  Divin Marché) est l’aboutissement de ce processus : c’est l’idéologie terminale, à ce stade, produite par la sortie de la religion. Et c’est, en fait, une idéologie de la non-idéologie : puisque la condition historique est insoluble, produisons la société à partir du sujet, à partir de l’interaction des sujets (« La société des individus »).

Ce monde des individus, sortis de la condition historique, est-il autre chose qu’un pis-aller, un théâtre d’ombres ? Il n’est que cela, répond Marcel Gauchet. Pour lui, le « Divin Marché » est tout au plus un faux nez de l’Etat, lequel continue à réguler la société (sans lui, pas de marché possible). Simplement, à présent, l’Etat s’efforce de dissimuler son intervention, afin que les sujets réputés autonomes échappent au poids de l’historicité. C’est tout, et c’est la porte ouverte à la captation du regard positif par la technocratie.

Pour autant, Gauchet reste optimiste. Ce pis-aller désastreux n’aura qu’un temps, estime-t-il. La condition historique finira tôt ou tard par faire à nouveau sentir son poids. Et c’est à ce moment-là que le travail de construction d’un hégélianisme structuraliste deviendra utile, indispensable même : il s’agira de réinsérer le sujet, désormais autonome, dans sa condition historique. Cette insertion se fera autour du concept d’apprentissage : le sujet autonome, à un certain moment et si les bases de la démarche ont été créées, voudra apprendre son historicité, pour en faire une composante de son autonomie (on pense ici à Charles Taylor, et à ses réflexions sur le multiculturalisme).

Le structuralisme, comme gage de l’autonomie, et l’hégélianisme, comme vecteur de l’historicité : le projet de Gauchet est intéressant, mais la question reste posée de savoir s’il est faisable. La contemplation médusée du désastre contemporain ne nous pousse pas à l'optimisme, sur ce point. Ou encore, pour le dire avec humour : Gauchet, c'est la pensée élevée... de quelqu'un qui plane.

( 1 ) Il n'est pas interdit d'y voir une trahison de Heidegger, puisque d'une part l'idée même de fondement objectif par les structures nous situe assez loin du concept de dévoilement, et d'autre part cela revient à réintégrer artificiellement la pensée de Heidegger dans le cadre progressiste, cadre où, a priori, il est impossible de la situer (réflexion sur la technique). Au reste, on relèvera que la suite de la réflexion de Gauchet ne fait guère de place à Heidegger... Par commodité, nous n'entrerons pas ici dans ce débat, à chacun de se faire son opinion.

jeudi, 18 novembre 2010

Pétain & De Gaulle: Two Figures of a Tragic Destiny

Pétain & De Gaulle:
Two Figures of a Tragic Destiny

Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

marechal_petain.jpgPétain, De Gaulle . . . Let us think for a moment about those personages from a far-off time.

First, what a astonishing destiny for Marshal Pétain! To have risen so high and fallen so low! In the long history of France, other great personages were admired, but surely none was loved more before being denigrated so much.

His misfortune was to inherit not only a defeat in which he played no part, but also a people, once great, that had fallen terribly low. Yet, he never gave up on his people.

General De Gaulle, whose destiny so often crossed his, did not nourish the same hopes or the same illusions: “I bluffed,” he confided to Georges Pompidou around 1950, “but the 1st army, they were Negroes and Africans [he meant to say “pied-noirs”]. The Leclerc division had 2,500 engaged in Paris. Actually, I saved face, but France did not follow. They collapsed! From the bottom of my heart, I tell you: all is lost. France is finished. I will have written the last page.” [1]

Even at his worst moments, Pétain could not have thought that.

He was born in 1856 to a peasant family in Picardy, under the reign of Napoleon III, before the automobile and electricity. Three times, he saw his fatherland invaded, in 1870, in 1914, and in 1940. The first time, he was a teenager, and his dream of revenge made him a soldier.

In 1914, he was 58 years old. His independence of mind had put the general’s stars out of reach. A mere colonel, he prepared to retire. The assassination of an Austrian archduke in Sarajevo and the conflagration of Europe decided otherwise. In the crucible, he was suddenly revealed. Four years later, he was that commander and chief of the victorious French Armies of 1918 and received the baton of Marshal of France. Of all the great leaders of this atrocious war, he was the only one loved by the soldiers. Unlike so many of his peers, he did not see his men as raw material. The victor of Verdun was one of the few who understood there is no point in winning if one’s own country is bled to death.

There are many explanations of the defeat of 1940, but for the old Marshal, one of the main causes was in the appalling bloodletting of 1914 to 1918. The holocaust of a million and half of young men had killed the energy of a whole people.

General-Charles-De-Gaulle.jpgThus the first priority was to keep these people as safe as possible from another slaughter. At the same time, Pétain hoped for a future renaissance through a “national revolution.” He has been attacked for that. Admittedly, all would be mortgaged by the Occupation. But really he had no choice. The “national revolution” was not premeditated. With all its ambiguities, it emerged spontaneously as a necessary remedy to the evils of the previous regime.

Today, in the safety and the comfort of a society at peace, it is easy to pass categorical judgments on the men of this that time. But those brutal, pitiless days could not be appeased by moral petitions. At every moment, they required decisions with cruel consequences that could lead to, as so often in times of war, to saving some lives by sacrificing others.

In Cangé, in the Council of Ministers, on June 13rd, 1940, having taken the full measure of the disaster, Marshal Pétain, his voice broken, outlined the policy he followed to the end, in 1944: “I declare that as far as I am concerned, outside of the government, if need be, I refuse to leave French soil. I will remain among the French people to share their sorrows and miseries.”

For those who did not assume the responsibility of government, it was permissible to take another side and symbolically raise the challenge of arms. And it is salubrious that some brave men made this choice. But what does that take away of the nobility to the sacrificial resolution of Marshal Pétain?

General De Gaulle’s adversaries try to minimize the scope and nobility of his own gesture, the call to open resistance. They point out that the Marshal’s former protégé had not jumped into the adventure without a parachute. They add that facing the Germans from London, behind a microphone, was less perilous than doing so in France in dramatic, unequal, daily interactions. Perhaps. But, parachute or not, the General’s choice to rebel was of rare audacity. The fruit of an unrestrained ambition, his detractors reply. Surely. But what can one accomplish without ambition?

This type of ambition, however, was lacking in Marshal Pétain. At the age of 84, with his record, he had nothing more to prove and everything to lose.

If our time were less intoxicated with petty politics and base resentments, we would have long ago celebrated the complementarity of two men who redeemed, each in his own fashion, that which is small, vile, and abject in our times.

Note:

1. Georges Pompidou, Pour rétablir une vérité (Paris: Flammarion, 1982), p. 128.

Source: Nouvelle Revue d’Histoire, no. 50, http://www.dominiquevenner.fr/#/edito-nrh-50-petain-de-ga...

mardi, 16 novembre 2010

Nouvelle revue d'histoire, n°51: Les Années 30 - Rêves et révolutions

 

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lundi, 15 novembre 2010

Giorgio Freda: Nazi-maoïste ou révolutionnaire inclassable?

Archives - 2003

 

Giorgio Freda : Nazi-maoïste ou révolutionnaire inclassable?

 

Edouard Rix

 

 

Freda.jpg«Je hais ce livre. Je le hais de tout mon coeur. Il m’a donné la gloire, cette pauvre chose qu’on appelle la gloire, mais il est en même temps à l’origine de toutes mes misères. Pour ce livre, j’ai connu de longs mois de prison, (...) de persécutions policières aussi mesquines que cruelles. Pour ce livre, j’ai connu la trahison des amis, la mauvaise foi des ennemis, l’égoïsme et la méchanceté des hommes. C’est de ce livre qu’a pris naissance la stupide légende qui fait de moi un être cynique et cruel, cette espèce de Machiavel déguisé en cardinal de Retz que l’on aime voir en moi». Ces quelques lignes, écrites par Curzio Malaparte en introduction à son célèbre essai Technique du coup d’Etat, l’auteur de La désintégration du système, Giorgio Freda, aurait pu les faire siennes. Car, pour avoir rédigé cette modeste brochure qui, en une soixantaine de pages très denses, sape à la base le système bourgeois, ce jeune éditeur a subi des années de persécutions judiciaires et mediatiques.

LES EDIZIONI DI AR

Le 26 octobre 1963, le sénateur Umberto Terracini, membre influent de la communauté juive et du Parti communiste italien, dénonce publiquement auprès des ministres de l’Intérieur et de la Justice la diffusion, à Padoue, «d’un immonde opuscule portant le titre Gruppo di Ar qui, reprenant les plus ignobles thèses racistes du nazisme italien, qualifie ouvertement les auteurs éditeurs comme les partisans d’une idéologie antidémocratique», et demande «si des mesures et lesquelles ont été proposées et prises afin de cautériser la plaie fétide et purulente avant qu’elle n’étende la sphère de son action».

A l’origine du groupe ainsi publiquement stigmatisé, l’on trouve un jeune juriste platonicien et évolien, Giorgio Freda. Le terme d’Ar, choisi comme dénomination, se veut éminemment symbolique, puisqu’il s’agit, dans de nombreuses langues indo-européennes, de la racine sémantique connotant l’idée de noblesse, d’aristocratie.

Dès 1964, Freda doit affronter un procès pour avoir dénoncé dans une brochure la politique sioniste en Palestine. Ce n’est que le premier d’une longue série. La même année, les Edizioni di Ar, qu’il vient de fonder, publient leur premier livre, l’Essai sur l’inégalité des races d’Arthur de Gobineau. Suivront des écrits mineurs de Julius Evola, et les oeuvres de Corneliu Codreanu. Chaque titre est tiré à 2000 exemplaires.

Deux constantes dans l’engagement militant de Freda : la lutte contre le sionisme international, dont Israël, estime-t-il, n’est que la partie émergée, et le combat contre le Système libéral bourgeois, expression de l’impérialisme américain en Europe depuis 1945. Concernant l’antisionisme, Freda est l’éditeur qui, le premier en Italie, a soutenu les combattants palestiniens, alors même que la Droite, incarnée par le MSI, exaltait Israël, «rempart de l’Occident contre les Arabes asservis à Moscou». C’est lui qui organisera, en mars 1969, à Padoue, en liaison avec le groupe maoïste Potere Operairo, la première grande réunion en Italie de soutien à la résistance palestinienne, en présence de représentants du Fatah de Yasser Arafat. Le lobby sioniste ne lui pardonnera jamais. En outre, ne se contentant pas d’un simple soutien verbal, comme tant d’intellectuels distingués, il se procurera des minuteries en vus de les remettre à un représentant supposé du Fatah.

LA DÉSINTÉGRATION DU SYSTEME

Disintegrazionesistema.jpgMais Giorgio Freda est avant tout l’homme d’un texte. Et quel texte ! Il s’agit de La désintégration du système, qui voit le jour en 1969, en pleine contestation étudiante. L’Italie subit alors, non une explosion soudaine et aussi vite retombée comme en France, mais un «mai rampant». Convaincu de l’impérieuse nécessité d’une subversion radicale du monde bourgeois, Freda estime que tout doit être tenté, au moment où beaucoup de jeunes cherchent à donner un contenu véritablement révolutionnaire à la révolte étudiante, pour éviter que celle-ci ne soit récupérée par les tenants de l’orthodoxie marxiste ou du réformisme social-démocrate. C’est à ces jeunes que s’adresse La désintégration du système, qui loin d’être le programme personnel du seul Freda, synthétise des exigences communes à tout un milieu national-révolutionnaire, de Giovane Europa à Lotta di Popolo.

Le ton du texte est résolument offensif. Disciple d’Evola, Freda est le premier à ne pas se contenter de commenter doctement ses écrits, mais à passer de la théorie à la pratique, à tel point que l’on peut voir dans La désintégration du système la pratique politique de la théorie exposée dans Chevaucher le tigre, le dernier essai d’Evola. Avec cet ouvrage, le baron a donné le cadre intellectuel dans lequel s’inscrit l’action de Freda en affirmant qu’il ne saurait y avoir de compromis avec le système bourgeois. «Il y a une solution, écrit Evola, qu’il faut résolument écarter: celle qui consisterait à s’appuyer sur ce qui survit du monde bourgeois, à le défendre et à s’en servir de base pour lutter contre les courants de dissolution et de subversion les plus violents après avoir, éventuellement, essayé d’animer ou de raffermir ces restes à l’aide de quelques valeurs plus hautes, plus traditionnelles». Et le baron d’ajouter : «Il pourrait être bon de contribuer à faire tomber ce qui déjà vacille et appartient au monde d’hier, au lieu de chercher à l’étayer et à en prolonger artificiellement l’existence. C’est une tactique possible, de nature à empêcher que la crise finale ne soit l’oeuvre des forces contraires dont on aurait alors à subir l’initiative. Le risque de cette attitude est évident : on ne sait pas qui aura le dernier mot».

Dans La Désintégration, Freda n’est pas tendre avec les valeurs et les idoles de la société bourgeoise. Ordre pour l’ordre, sacro-sainte propriété privée, capitalisme, conformisme moral, anticommunisme viscéral et aveugle, pro-sionisme et philo-américanisme, mais aussi Dieu, prêtres, magistrats, banquiers, rien ni personne n’échappe à sa critique. A ce modèle marchand dominant, il propose une véritable alternative, réaffirmant la doctrine traditionnelle de l’Etat, opposée intégralement aux pseudo-valeurs bourgeoises, et élaborant un projet étatique cohérent, dont l’aspect le plus spectaculaire est l’organisation communiste de l’économie -un communisme spartiate et élitiste, qui doit plus à Platon qu’à Karl Marx -.

Homme d’action, Freda vomit les pseudo-intellectuels évolo-guénoniens enfermés dans leur tour d’ivoire. Il a des mots très durs pour certains évolomanes, «stériles apologètes du discours sur l’Etat», «adorateurs d’abstractions», «champions des témoignages conceptuels», qui ne sont, à ses yeux, que des chevaucheurs de tigres de papier. «Pour nous, écrit-il, être fidèle à notre vision du monde - et donc de l’Etat - signifie se conformer à elle, ne rien laisser de non entrepris pour la réaliser historiquement». Dans cette perspective, il manifeste clairement l’intention d’aller à la rencontre des secteurs objectivement engagés dans la négation du monde bourgeois, y compris l’ultra-gauche extra-parlementaire à laquelle il propose une stratégie loyale de lutte unitaire contre le Système. Il est alors en contact avec divers groupes maoïstes, comme Potere Operaio et le Parti communiste d’Italie-marxiste léniniste.

«Chez un soldat politique, la pureté justifie toute dureté, le désintérêt toute ruse, tandis que le caractère impersonnel imprimé à la lutte dissout toute préoccupation moraliste». C’est sur ces fortes paroles que se clôt le manifeste.

VICTIME DE LA DEMOCRATIE

Le 12 décembre 1969, une bombe explose dans la Banque nationale de l’agriculture, Piazza Fontana, à Milan, tuant 16 personnes et en blessant 87. La section italienne de l’Internationale situationniste d’ultra-gauche diffuse un manifeste intitulé Le Reichstag brûle, qui dénonce le régime comme le véritable organisateur du massacre. Les situationnistes ne cesseront de répéter que la bombe de Piazza Fontana n’était «ni anarchiste, ni fasciste».

Giorgio Freda, quant à lui, poursuit sa lutte intellectuelle contre le Système. En 1970, dans une préface à un texte d’Evola, il envisage favorablement la possibilité d’une guérilla urbaine en Italie. En avril 1971, les Edizioni di Ar publient officiellement, pour la première fois dans la péninsule depuis 1945, Les Protocoles des Sages de Sion. Le même mois, Freda est arrêté et accusé d’ «avoir diffusé des livres, des imprimés et des écrits contenant de la propagande ou instigation à la subversion violente». La machine répressive se met en branle. Pour la première fois depuis la fin du régime fasciste, un magistrat entend appliquer l’article 270 du Code Rocco. Peu après, les Edizioni di Ar publient L’ennemi de l’homme, un recueil de la poésie palestinienne de combat, provoquant la fureur des sionistes.

En juillet 1971, le juge d’instruction modifie les chefs d’accusation et reproche à Freda d’avoir fait «de la propagande pour la subversion violente de l’ordre politique, économique et social de l’Etat» par l’intermédiaire de La désintégration du système , «où il est fait allusion à la nécessité de la subversion, par des moyens violents, de l’Etat démocratique et bourgeois et de son remplacement par un organisme étatique défini et caractérisé comme Etat populaire».

Nullement impressionné par la répression, les Edizioni di Ar publient, en novembre 1971, la traduction italienne du Juif international d’Henry Ford.

Le 5 décembre 1971, Freda est de nouveau arrêté. Il n’est plus seulement poursuivi pour délit d’opinion, mais on l’accuse carrément d’avoir organisé le massacre de Piazza Fontana. Puisqu’on ne réussit pas à coincer les «anarcho-fascistes», on coincera les «nazi-maoïstes». Les accusations contre Freda reposent sur deux types d’indices: il aurait acheté des minuteries dont les débris furent retrouvés dans la banque, ainsi que les sacs de voyages dans lesquels furent déposées les bombes. Or, Freda avait bel et bien acheté des minuteries, remises à un capitaine des services secrets algériens qui les lui avait demandées pour les Palestiniens. L’hebdomadaire Candido, qui menera une enquête en RFA auprès du fabricant, recueillera les preuves que les minuteries vendues en Italie n’étaient pas 57 , comme le soutenait le juge - Freda en avait acheté 50 -, mais plusieurs centaines, et que les modèles achetés par l’éditeur différaient de ceux utilisés pour l’attentat. De plus, la commerçante de Bologne qui avait vendu quatre sacs de voyage semblables à ceux utilisés pour l’attentat ne reconnaîtra pas comme acheteur Freda, mais deux officiers de police... Bien entendu, le juge d’instruction ne tiendra aucun compte de ces preuves à décharge. Freda commence son tour des prisons italiennes Rien que pour 1972, Padoue, Milan et Trieste. Puis Rome, Bari, Brindisi, Catanzaro.

Traité de «maoïste» ou d’«agent de la Chine communiste» par la Droite, en particulier les néo-fascistes du MSI, de «raciste fanatique» ou d’«antisémite délirant» par la gauche légaliste et les milieux sionistes, rejeté peureusement par certains hommes d’ultra-gauche avec lesquels il avait collaboré activement, Giorgio Freda est alors affublé par la presse de l’étiquette, qui se veut infamante, de «nazi-maoïste». Seul point positif, grâce au battage mediatique, les 1500 exemplaires de La désintégration du système sont rapidement épuisés. Quelques années plus tard, Freda admettra que ce texte a été plus pris en considération par les ultras de gauche que par ceux de droite.

LE PROCES

En janvier 1975 s’ouvre, devant la Cour d’Assises de Catanzaro, le procès-fleuve de Piazza Fontana. Sont jugés l’anarchiste Pietro Valpreda et onze complices, le néo-fasciste Giorgio Freda et douze coinculpés. Arrivé au terme de la détention préventive, Freda est remis en liberté et assigné à résidence en août 1976. Ses convictions sont demeurées intacts. C’est ainsi qu’en 1977, alors qu’il risque une condamnation à perpétuité, il n’hésite pas, dans un entretien qu’il accorde à son camarade Claudio Mutti, à parler de la lutte armée comme de la meilleure forme d’opposition au Système en Italie !

Convaincu que les dés sont pipés et que sa condamnation ne fait aucun doute, Freda s’enfuit en octobre 1978. Il est capturé, pendant l’été 1979, au Costa-Rica, dont il n’est pas extradé, mais ramené de force par la police politique italienne.

La farce judiciaire se poursuit. En décembre 1984, s’ouvre à Bari le quatrième procès pour le massacre de Piazza Fontana. Après seize ans d’enquête, Freda est finalement acquitté de ce crime, son incarcération n’étant maintenue que pour délit d’opinion, «association subversive» selon le jargon juridique italien, qui lui vaut une condamnation à quinze ans de prison.

A sa libération, Freda fera encore parler de lui dans les media en lançant le Fronte nazionale, ce qui lui vaudra d’être une nouvelle fois arrêté et poursuivi, en juillet 1993. Décidément, bon sang ne saurait mentir !

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2003, n°17.

dimanche, 14 novembre 2010

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2002

 

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

 

Edouard Rix

 

JNP.gifSeptembre 1938 : le congrès fondateur de la Quatrième Internationale, regroupant les partisans de Trotsky, se tient à Paris. En France, deux groupuscules trotskystes rivaux s’agitent : d’un côté le Parti communiste internationaliste (PCI) de Raymond Molinier et Pierre Franck, qui édite le journal La Commune, de l’autre, le Parti ouvrier internationaliste (POI) de Jean Rous et Yvan Craipeau, chacun privilégiant le travail d’infiltration au sein du Parti socialiste ouvrier et paysan (PSOP) de Marcel Pivert. Juin 1940 : la France est vaincue et occupée par les Allemands. Les Trotskystes hexagonaux sont totalement désorientés : la guerre n’a pas provoqué la révolution attendue, le pacte germano-soviétique a scellé l’alliance d’Hitler et de Staline, et la Quatrième Internationale s’est révélée inutile. C’est dans un tel contexte que certains, convaincus de la victoire durable de l'Allemagne nationale-socialiste, élaborent une sorte de «trotskysme rouge-brun».

Les militants regroupés autour de La Commune décident de poursuivre leur travail d’entrisme. Les partis «ouvriers» étant tous interdits, ils jettent leur dévolu sur les mouvements collaborationnistes et créent une fraction clandestine au sein du Rassemblement national populaire (RNP) de Marcel Déat, qui incarne l’aile gauche de la collaboration et regroupe nombre d’anciens socialistes, notamment pivertistes. C’est ainsi que le frère de Raymond Molinier, Henri, présentera un rapport et prendra la parole dans un congrès du RNP. Autre taupe trotskyste, Roger Foirier, qui avait avant-guerre noyauté les jeunesses du PSOP au point de devenir membre de leur bureau fédéral de la Seine. Il réalisera, sous le pseudonyme de Roger Folk, les affiches des Jeunesses nationales populaires (JNP) pendant que sa femme, Mireille, donnera des cours de gymnastique aux jeunes filles du mouvement.

L’autre groupe trotskyste, le Parti ouvrier internationaliste, tente lui aussi de s’intégrer au paysage politique collaborationniste. En juillet 1940, ses membres créent le Mouvement national révolutionnaire (MNR), qui opte pour une stricte clandestinité, ses réunions se tenant sous le couvert d’une association des Amis de la Musique. Proche des thèses de Marcel Déat et des collaborateurs de gauche, le MNR édite deux journaux clandestins : La Révolution Française, puis Combat national-révolutionnaire. Dans son n°1 de septembre-octobre 1940, La Révolution Française, tout en s’affirmant «ni pro-Allemand, ni pro-Anglais, ni pro-Français», se déclare «partisan de la collaboration européenne avec l’Allemagne». Un slogan proclame d’ailleurs : «Collaborer ? Oui, mais pas sous la botte». Il est vrai que le MNR se rallie ouvertement aux orientations de l’Ordre nouveau européen voulu par les Allemands : «L’Etat et la nation doivent se défendre (...) contre les tentatives de domination occulte, qu’elles proviennent du judaïsme, de la maçonnerie ou du jésuitisme». Le n°1 de mars 1941 de Combat national-révolutionnaire précise que le MNR «souhaite un Etat fort, hiérarchisé, où la régulation entre les divers éléments de la population soit établie par des corporations». Outre son leader Jean Rous, qui a participé à la gauche du PSOP et à la direction du POI, l’on croise au MNR nombre de trotskystes. C’est le cas de Lucien Weitz, qui fut le principal animateur de la gauche révolutionnaire au sein de la SFIO socialiste, puis de l’aile gauche du PSOP, ou encore Fred Zeller, ancien proche de Trotsky et membre de la SFIO, futur grand-maître du Grand Orient de France. Ce dernier commentera son engagement au MNR dans son autobiographie Trois Points c’est tout, et, jouant de l’ambiguïté du groupe, insistera sur ses prises de position anti-allemandes.

L’expérience originale du MNR est totalement interrompue dès juin 1941 par les autorités allemandes qui ont introduit deux espions dans l’organisation. Jean Rous est condamné à six mois de prison, une peine mesurée pour l’époque. L’attaque de l’URSS par l’Allemagne, le 22 juin 1941 modifie radicalement la situation. La Commune cesse son entrisme au sein du RNP. La plupart des membres du MNR rallie la Résistance ou les partis de gauche, tandis qu’une poignée s’engage franchement dans la collaboration avec les Allemands.

Une page d’histoire à rappeler aux actuels boutiquiers trotskystes, Krivine, Laguiller et Lambert, qui font profession d’antifascisme.

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2002, n°15.

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mardi, 09 novembre 2010

SPD-Genetiker

SPD-Genetiker

Ex: http://www.zuerst.de/

SPD-Chef Sigmar Gabriel hat sich im Sarrazin-Streit weit aus dem Fenster gelehnt – er ignoriert, daß Biopolitik auch ein traditionell sozialdemokratisches Anliegen war

Die SPD-Spitze will ihn lieber heute als morgen loswerden – den ungeliebten Ex-Finanzsenator, Ex-Bundesbankvorstand und Bestsellerautor Thilo Sarrazin. Überstürzt und noch bevor das umstrittene Buch Deutschland schafft sich ab überhaupt erschienen war, leitete der SPD-Vorsitzende Sigmar Gabriel ein Ausschlußverfahren ein und begründete seinen Schritt damit, daß Sarrazins Thesen „ein Gebräu aus der Tradition der Rassenhygiene der zwanziger Jahre“ darstellten. „Der biologistische Ansatz von Sarrazins Thesen, der vermittelte Eindruck, bestimmten Gruppen sei genetisch ein Weg vorgezeichnet, stehe aber diametral zu den sozialdemokratischen Grundwerten“, heißt es auf der SPD-Seite im Internet. Auch der Vorwurf einer Nähe zu nationalsozialistischen Theorien sowie des Rassismus blieb nicht ausgespart.

 

In einem Spiegel-Interview warf Gabriel dem Delinquenten vor, er habe sich auf Forscher berufen, die für die Sterilisierung von 60.000 als „minderwertig“ angesehenen Menschen in Schweden verantwortlich seien. Entweder sei Sarrazin so wenig historisch und gesellschaftlich gebildet, daß er das nicht wisse, oder er habe es bewußt getan.

Solche Aussagen könnten allerdings schnell zum Bumerang werden. Denn „Rassenhygiene“ ist mitnichten eine Erfindung der Nationalsozialisten. Sie ist inhaltlich weitgehend identisch mit der „Eugenik“, der „Wissenschaft vom guten Erbe“. Als deren Begründer gilt der Anthropologe Francis Galton (1822–1911), ein Cousin von Charles Darwin. 1883 führte Galton den Begriff „Eugenics“ ein – ihr Ziel sollte es sein, alle Einflüsse zu erforschen, welche die angeborenen Eigenschaften einer Rasse verbessern und diese Eigenschaften zum größtmöglichen Vorteil zur Entfaltung bringen.

Wichtig dabei: Das Wort „Rasse“ hat im englischen Sprachgebrauch einen viel weiteren Bedeutungskreis als im deutschen; es bezeichnet Gruppen bis hin zum „Menschengeschlecht“ (human race). Auch Galton verstand darunter einfach nur eine durch Generationen sich fortpflanzende Gemeinschaft von Menschen. Erbliche Verbesserungen durch eine bewußte Fortpflanzungshygiene wollte er vor allem durch die Aufklärung der Bevölkerung erreichen. Er plädierte aber auch für Maßnahmen „negativer Eugenik“, so sollte die Fortpflanzung von Gewohnheitsverbrechern und Schwachsinnigen möglichst verhindert werden.

ploetz.jpgIn Deutschland führte der Nationalökonom und Mediziner Alfred Ploetz (1860–1940) im Jahre 1895 den Begriff der „Rassenhygiene“ für die Eugenik ein. Neu war jedoch nur der Begriff, die Prämissen und Inhalte lagen auf Galtons Linie. In seiner Schrift Die Tüchtigkeit unserer Rasse und der Schutz der Schwachen sprach sich Ploetz für ein wissenschaftlich angeleitetes Reproduktionsverhalten der Bevölkerung aus. Über den „Erbwert“ von Nachkommen sollten Ärzte entscheiden. „Rassenhygiene als Wissenschaft ist die Lehre von den Bedingungen der optimalen Erhaltung und Vervollkommnung der menschlichen Rasse“, definierte Ploetz. „Als Praxis ist sie die Gesamtheit der aus dieser Lehre folgenden Maßnahmen, deren Objekt die optimale Erhaltung und Vervollkommnung der Rasse ist, und deren Subjekte sowohl Individuen als auch gesellschaftliche Gebilde einschließlich des Staates sein können.“

Im deutschen Kaiserreich und später in der Weimarer Republik gelang es Wissenschaftlern, mittels Büchern, Fachzeitschriften und eigenen Institutionen die Idee der Rassenhygiene immer fester zu etablieren. Anhänger und Verfechter fanden sich in allen politischen Lagern, auch in der Sozialdemokratie. Ein Beispiel ist der Gewerkschafter und SPD-Mann Karl Valentin Müller (1896–1963), der 1927 ein Buch mit dem Titel Arbeiterbewegung und Bevölkerungsfrage veröffentlichte. Darin forderte er eine „planvolle Züchtung der sozialbiologischen Anlagen“ sowie die „rücksichtlose, wenn möglich zwangsweise Unterbindung des Nachwuchses aus dem Bevölkerungsballast, den wir allzu lange schon mit uns schleppen und der ein schlimmerer Ausbeuter der produktiven Arbeit ist als alle Industriekönige zusammengenommen“. In einem Beitrag zu Lebensraum und Geburtenregelung, der 1928 in einer Sonderausgabe der Süddeutschen Monatshefte erschien, bekräftigte er die Ansicht, daß die Ziele der Rassenhygiene mit einem wahrhaften Sozialismus vereinbar seien. Mit diesen Ansichten war er zwar in einer Minderheitenposition innerhalb seiner Partei. Doch auf die Idee, ihn aus der SPD zu entfernen, kam damals niemand. Von 1927 an arbeitete er sogar als Referent im sächsischen Kultusministerium, das zu dieser Zeit sozialdemokratisch geführt wurde.

Alfred Grotjahn (1869–1931), praktischer Arzt und erster Professor für soziale Hygiene in Deutschland an der Berliner Universität, war ein weiterer Sozialdemokrat, der für rassenhygienische Prinzipien stritt (Hygiene der menschlichen Fortpflanzung, 1926). Er betonte, „daß die sozialistischen Theoretiker sich an der jungen Wissenschaft der Eugenik zu orientieren hätten und nicht an Dogmen, die von sozialistischen Klassikern zu einer Zeit aufgestellt worden seien, als es diese Wissenschaft noch nicht gab.“ Seine Forderung, „daß die Erzeugung und Fortpflanzung von körperlich oder geistig Minderwertigen verhindert und eine solche der Rüstigen und Höherwertigen gefördert“ werden müsse, würde in der Gegenwart vermutlich einen Sturm der Entrüstung auslösen, gegen den die Sarrazin-Kampagne nur ein laues Lüftchen wäre. Grotjahn saß von 1921 bis 1924 für die SPD im Reichstag, galt als namhaftester gesundheitspolitischer Sprecher seiner Partei und formulierte das Görlitzer Programm von 1922 mit. Daß ihn die SPD jemals hätte ausschließen wollen, ist nicht bekannt.

Es ist kaum vorstellbar, daß die Existenz sozialdemokratischer Rassenhygieniker in den 1920er Jahren der heutigen SPD-Führung nicht bekannt ist. Immerhin veröffentlichte der Historiker Michael Schwartz bereits 1995 seine Studie Sozialistische Eugenik: eugenische Sozialtechnologien in Debatten und Politik der deutschen Sozialdemokratie 1890–1933, herausgegeben vom Forschungsinstitut der parteieigenen Friedrich-Ebert-Stiftung. Und in der Wochenzeitung Die Zeit erinnerte der Parteienforscher Franz Walter erst Ende August an die „sozialdemokratische Genetik“.

Eugenische Forderungen wurden in zahlreichen Staaten in praktische Politik umgesetzt. Ob in Kanada oder den USA, der Schweiz oder Skandinavien – rund um den Globus gab es Gesetze, auf deren Grundlage Tausende, teils Zehntausende von Menschen zwangssterilisiert wurden. Besonders nachhaltig ging Schweden das Thema an. Schon 1921 beschloß der schwedische Reichstag, an der Universität Uppsala ein „Staatliches Institut für Rassenbiologie“ einzurichten, angeregt durch niemand geringeren als Hjalmar Branting, der zwischen 1920 und 1923 schwedischer Ministerpräsident war – für die Sozialdemokraten. In Uppsala lehrte zeitweise als Gastdozent der deutsche Rassenforscher Hans F.K. Günther, in der NS-Zeit später als „Rassegünther“ bekannt.

1922 brachte die schwedische SAP (Sozialdemokratische Arbeiterpartei) einen Gesetzentwurf zur Sterilisierung geistig Behinderter ein. Schließlich trat 1935 das erste Gesetz in Kraft, das bereits die freiwillige Sterilisierung „geistig zurückgebliebener“ Menschen bei an­zunehmenden „Erbschäden“ vorsah, und Sterilisierungen ohne Einwilligung der Betroffenen, wenn sie durch zwei Ärzte befürwortet wurden. 1941 wurde mit einem deutlich erweiterten Gesetz dann die zwangsweise Unfruchtbarmachung bei „eugenischer Indikation“ eingeführt. Betroffen waren Geisteskranke, -schwache und -gestörte, psychisch Kranke und Menschen mit Mißbildungen. All diese Maßnahmen wurden unter sozialdemokratischen Regierungen beschlossen.

Mit seinen Vorwürfen gegenüber Sarrazin bewegt sich Sigmar Gabriel also auf äußerst dünnem Eis – was den Verweis auf die Zwangssterilisierten in Schweden betrifft, sind sie sogar hochgradig peinlich. Zumindest grollt es in großen Teilen der SPD-Basis, die das Vorgehen des Parteivorstands für befremdlich halten, und auch SPD-Prominenz wie Klaus von Dohnanyi, Peer Steinbrück und Helmut Schmidt favorisiert einen eher entspannten Umgang mit dem „Fall Sarrazin“. Vielleicht hat sich ja an anderen Stellen der Partei einfach auch mehr historische Bildung versammelt als bei Säuberungskommissar Gabriel.

Harald Kersten

lundi, 08 novembre 2010

Enrico Mattei au Proche et au Moyen Orient

Enrico Mattei au Proche et au Moyen Orient

 

par Filippo GHIRA

 

mattei2.jpgLa figure d’Enrico Mattei, le grand pétrolier italien, est encore susceptible de donner du fil à retordre à tous ceux qui, au niveau universitaire, se posent maintes questions sur l’histoire des approvisionnements énergétiques, sur l’indépendance nationale en matières énergétiques, sur le colonialisme et sur les rapports internationaux. Aujourd’hui, on se souvient principalement d’Enrico Mattei parce qu’il avait financé, plus ou moins frauduleusement, les partis politiques de la péninsule pour qu’ils ne lui mettent pas des bâtons dans les roues. En revanche, bien peu se souviennent qu’il entendait ainsi « utiliser les partis comme on utilise un taxi », afin de rendre l’Italie indépendante sur le plan énergétique et de la dégager de la tutelle des « Sept Sœurs » américaines et anglo-hollandaises. Il suffit de penser que, dans l’immédiat après-guerre, Enrico Mattei fut nommé commissaire pour la liquidation de l’AGIP et que, dans le cadre de cette fonction, il a fait preuve d’une indubitable clairvoyance. Il a réussi à convaincre le gouvernement de l’époque de renoncer à liquider l’entreprise pétrolière italienne et d’investir dans un cartel public, l’ENI, qui s’occuperait de garantir à l’Italie les approvisionnements en gaz et en pétrole dont elle avait besoin pour soutenir son envolée économique. La presse italienne, surtout celle du nord, liée aux milieux industriels et financiers nationaux et entretenant des liens solides avec des milieux analogues en Europe et aux Etats-Unis, n’a pas laissé s’échapper l’occasion d’attaquer la politique de l’ENI qui se déployait avec une autonomie quasi totale sur la scène internationale, et dont la préoccupation première était l’intérêt de la nation italienne.

 

Ce qui déterminait le succès de l’ENI dans les pays producteurs de pétrole fut essentiellement l’approche non colonialiste que lui avait conféré Mattei. Celui-ci, en effet, innovait radicalement dans l’attribution des pourcentages que retenait l’ENI pour pouvoir exploiter les gisements de pétrole découverts. Le groupe italien ne retenait que 25% des bénéfices et en octroyait 75% à la compagnie pétrolière de l’Etat recelant les gisements. Au contraire, les « Sept Sœurs » s’appropriaient un minimum de 50%. Le deuxième aspect qui séduisait dans la politique pétrolière de Mattei fut la clause suivante : si les recherches n’aboutissaient à rien sur un site spécifique, l’ENI ne réclamait rien à titre d’indemnisation à l’Etat sur le territoire duquel se trouvait le site en question. C’était là des méthodes élémentaires et simples qui contribuaient à créer un formidable courant de sympathie pour le groupe italien. Troisième aspect de la politique de Mattei, et non le moindre : former les compétences locales à l’école de l’ENI, située à San Donato dans le Milanais. Le but de cette politique était évident. Mattei voulait faire comprendre que l’ENI n’entendait pas se limiter à des rapports économiques mais voulait aussi faire évoluer professionnellement des équipes de techniciens qui, une fois formées, seraient capables de travailler sans aide étrangère et d’aider au mieux les sociétés pétrolières étrangères, sans devoir pour autant dépendre entièrement d’elles. Cette approche demeure encore vivante dans la mémoire de bon nombre de dirigeants des pays producteurs de pétrole. Ce souvenir positif fait que l’ENI, aujourd’hui encore, peut vivre de rentes en provenance de ces pays, en jouissant d’une sympathie qui ne s’est jamais estompée.

 

mattei1.jpgLa politique autonome de l’ENI s’est adressée surtout aux pays du Proche et du Moyen Orient et d’Afrique du Nord. L’Iran fut évidemment l’exemple le plus prestigieux dans le palmarès du groupe italien, qui était parvenu à s’insinuer dans un pays considéré comme chasse gardée et exclusive de la « British Petroleum ». Mais il y eut aussi l’Egypte de Nasser : elle fut le premier pays avec lequel Mattei amorça des rapports stables et durables, dès 1956. Il faut aussi évoquer l’appui financier qu’accorda Mattei au Front de Libération National algérien, ce qui irrita bien entendu la France, dont la classe dirigeante s’était faite à l’idée de perdre ses territoires d’Outremer. Les rapports entre l’ENI et le FNL étaient de fait assez étroits : le chef politique du mouvement indépendantiste algérien, Mohammed Ben Bella, avait un appartement à sa disposition à Rome.

 

L’ENI se présentait donc comme une réalité autonome qui, au nom des intérêts supérieurs de l’Italie, considérait que l’Europe possédait un prolongement naturel sur la rive méridionale de la Méditerranée, ce qui avait pour corollaire de rompre les équilibres consolidés dans toute la région. L’activisme de Mattei rencontrait l’hostilité d’Israël qui tolérait mal de voir l’ENI contribuer à la croissance économique de pays comme l’Egypte ou l’Algérie, et cela tout en maintenant leur autonomie politique. L’origine de l’attentat perpétré contre lui le 27 octobre 1962, lorsqu’une bombe placée dans son avion explosa dans le ciel au-dessus de Bascapè, doit sans doute être recherchée dans l’hostilité que lui vouait ce petit Etat, né quinze ans plus tôt. Une hostilité à son endroit que l’on retrouvait également au sein même de l’ENI. Quelques mois avant sa mort, Mattei avait obligé Eugenio Cefis, vice-président de l’ENI et président de l’ANIC, à abandonner le groupe, où il était considéré comme le leader d’un courant jugé trop proche des intérêts atlantistes et israéliens. Ce même Cefis, ancien bras droit de Mattei dans les rangs des partisans catholiques lors de la guerre civile italienne (1943-45), fut appelé à diriger l’ENI immédiatement après la mort de Mattei. Il existe d’autres hypothèses sur l’attentat mais elles sont peu crédibles. On a évoqué une intervention des « Sept Sœurs » mais Mattei avait trouvé avec elles une sorte de « gentlemen agreement ». On a aussi évoqué la main de la CIA qui aurait jugé Mattei comme un « élément déstabilisateur », surtout en ces jours où sévissait la crise des missiles soviétiques à Cuba. Il y a lieu de faire montre du même scepticisme quand on parle d’un rôle possible des compagnies pétrolières françaises qui avaient de gros intérêts en Algérie. De même, il est peu plausible que la mafia sicilienne ou la Cosa Nostra américaine aient agi pour le compte de tiers. Toutes ces hypothèses ont le désavantage de voir seulement la partie émergée de l’iceberg et de ne pas voir le problème dans toute sa substantialité. L’attentat de Bascapè a mis fin à l’existence d’une personnalité unique, d’un homme qui s’était montré capable de percevoir réalités et potentialités là où la plupart des autres ne voyaient ni n’imaginaient quoi que ce soit.

 

Filippo GHIRA.

(article tiré du site http://rinascita.eu/ , 23 février 2010).

mercredi, 27 octobre 2010

Géopolitique française

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M./ "'t Pallieterke" :

Géopolitique française

Oublions un instant que la géopolitique concerne prioritairement le conflit des civilisations, le « Grand Jeu » en Asie centrale pour la maîtrise des hydrocarbures ou les ambitions de la Chine montante. L’Europe aussi peut s’avérer un théâtre aux intrigues très fines pour les amateurs de cette discipline. Et à l’intérieur de cette Europe, la France occupe une place vraiment à part.

Jetons d’abord un coup d’œil sur une carte physique de l’Europe. Oublions les frontières politiques et ne portons attention qu’aux altitudes. La première chose qui saute aux yeux, lorsqu’on examine une telle carte, c’est qu’il existe une grande plaine nord-européenne. Qui s’étend à l’est jusqu’aux steppes russes, et à l’ouest jusqu’aux Pyrénées. La caractéristique majeure de cette plaine, c’est qu’elle présente une forte concentration de rivières navigables. Et cette concentration est la plus dense au monde, nous ont calculé les spécialistes. Ce réseau fluvial et la qualité élevée des sols qu’ils irriguent ont indubitablement constitué la base première du futur niveau de vie du continent. Autre élément important à retenir : la différence entre cette réalité nord-européenne et le contexte dans lequel se trouve l’Europe du Sud. Sans aucun doute, la caractéristique la plus prégnante de la partie méridionale du continent est la présence de la Méditerranée. Au fil des siècles, depuis l’aube des temps historiques, cette mer intérieure a été des plus commodes pour transporter des marchandises de l’est vers l’ouest et vice-versa ou du nord au sud.

En fait, les deux parties du continent sont très différentes l’une de l’autre (même si on ne peut pas vraiment parler de limites fort tranchées). Les différences géographiques ont contribué à faire émerger des différences culturelles qui se repèrent en économie, en sociologie et dans la vie politique. Et que se passe-t-il lorsque l’on mêle les deux modes de vie dans un seul pays ? On obtient une nation comme la France.

Fleuves et rivières

L’Europe possède un grand nombre de fleuves et de rivières, mais celles-ci sont simultanément fort fragmentées sur leurs cours. En d’autres termes, il s’avère très difficile de les relier entre elles, même si l’on peut citer bon nombre d’exemples de canaux. Les spécialistes de la géopolitique hydrographique parlent même d’ « un modèle précis de fragmentation ». Dans cette fragmentation hydrographique et dans la difficulté à relier les cours d’eau par des canaux, les exceptions se repèrent dans certains cas, où deux rivières ne sont séparées que par une étroite bande de terre, ce qui, dans tous les cas de figure, facilite le transit. Une situation de ce type, nous la trouvons dans la zone où voisinent les vallées de la Seine, de la Loire, du Rhône et de la Garonne. Donc uniquement en France. De surcroît, le Rhône est l’un des rares fleuves européens qui se jette dans la Méditerranée tout en servant de corridor vers l’Europe du Nord.

Dans la région où coulent la Marne et la Seine, se trouve le noyau fertile de l’agriculture française. C’est notamment la région de la Beauce, que l’on appelle parfois la « grenier à blé » du pays. Au nord de cette région, nous avons Paris. Or ce nord est le talon d’Achille de la France. Partout ailleurs, le pays a des frontières naturelles : les Alpes, les Pyrénées, les mers  (Manche, Mer du Nord, Méditerranée) et l’Océan Atlantique. Le nord ne bénéficie pas d’une telle protection : c’est par là que l’on peut entrer dans le pays sans rencontrer d’obstacle. Les années 1814 et 1815, puis la guerre de 1870-71 et les deux guerres mondiales sont à ce titre des exemples historiques instructifs. La capitale, Paris, est liée à l’Océan Atlantique par la Seine. De cette façon, elle bénéficie de tous les atouts qu’offre une ouverture sur l’océan sans risquer immédiatement une invasion venue de ce côté (encore que le débarquement de Normandie de juin 1944 tend à infirmer cette règle, ndt). Le nord est donc le point faible de l’Hexagone, tant et si bien que l’on a parfois suggéré de déplacer la capitale vers le sud, pour des raisons de sécurité.

Le facteur allemand

Au fil des années, et même des siècles, les ennemis de la France ont changé, mais non pas la géopolitique française. Depuis le 19ème siècle, Paris est obsédé par l’Allemagne (au départ par la seule Prusse). C’est bien compréhensible : chaque fois, depuis la fin de l’ère napoléonienne, le voisin de l’est semblait le plus puissant militairement et la France avait besoin d’un bon nombre d’alliés pour conjurer le danger allemand. La fin de la deuxième guerre mondiale a créé une situation intéressante. Les Britanniques ne faisaient plus le poids ; l’Espagne vivait isolée sous le régime de Franco ; les Russes se trouvaient de leur côté du Rideau de Fer et les anciennes puissances de l’Axe pouvaient désormais, sans problèmes majeurs, être incluses de force dans un projet européen. Et, de fait, l’Europe est un projet qui permet surtout à la France de « sauter plus loin que n’est longue sa perche » (comme on dit chez nous).

La fin de la Guerre Froide fut un nouveau moment charnière. Les craintes de la France ne concernaient pas vraiment l’URSS (elle n’avait pas de frontières communes avec le bloc soviétique) mais encore et toujours l’Allemagne. Or voilà que d’un coup l’Allemagne est réunifiée. Pour les élites françaises, c’est là un cauchemar : l’Allemagne va-t-elle vouloir jouer à nouveau un rôle plus indépendant ?

Malgré les très nombreux facteurs qui ont influencé l’histoire de France  —et la géographie n’en est qu’un élément parmi beaucoup d’autres—  on peut aisément déduire que le noyau de la pensée politique française est déterminé par quelques « prémisses géopolitiques ». La France est le seul pays d’Europe qui peut étendre son noyau central sans entrer en conflit avec une autre puissance. Dans la direction des Pyrénées, il existe aujourd’hui un potentiel énorme, sans qu’il ne faille outrepasser les frontières de la République. Autre prémisse géopolitique : toujours garder un œil sur l’est. La fameuse Ligne Maginot du 20ème siècle n’a jamais été que la modernisation d’une ceinture de forteresses installées dès le 16ème siècle. Autre prémisse : la cherche constante d’influence en dehors d’Europe. En fait, au départ, la France se suffisait à elle-même et n’avait nul besoin d’acquérir des colonies. L’aventure coloniale française n’avait pas de motivations économiques (ou très peu) mais principalement des motivations politiques. Les colonies françaises ont constitué un instrument commode contre les rivaux d’Europe occidentale. Rien ne permettait d’anticiper l’aventure coloniale : la France avait vendu la Louisiane pour pouvoir financer les guerres napoléoniennes. Plus tard, elle a laissé tomber l’Algérie, malgré qu’un million de Français ethniques y habitaient ! Dans les deux cas, l’objectif avait été de focaliser toutes les énergies sur des problèmes qui affectaient directement l’Hexagone.  Tel était l’option de base.

Pour conclure, nous évoquerons un dernier point : celui de la flexibilité pure et simple. Cette option n’est pas typiquement française : il suffit de se rappeler la manière dont Nixon s’est rapproché de la Chine. Mais seule la France a réussi à manier cette flexibilité à des hauteurs jusqu’ici inégalées. Tout au long de l’histoire, elle a scellé des accords avec l’Empire ottoman au détriment des pays européens de confession catholique. Jamais elle n’a hésité à se chercher et à se trouver des alliés parmi les entités politiques protestantes. Et cela, en des temps où la France se posait comme « fille aînée de l’Eglise ».

M. / «  ‘t Pallieterke ».

(article paru dans « ‘t Pallieterke », Anvers, 20 octobre 2010).

 

vendredi, 22 octobre 2010

Afrique réelle n°9 (sept. 2010): le pétrole des Grands Lacs

L'Afrique Réelle N°9 - Septembre 2010



Ex: http://bernardlugan.blogspot.com/
 
SOMMAIRE :
ACTUALITE : GRANDS LAC
- Le pétrole du lac Albert : vers un embrasement régional ?
DOSSIER : L'EMBLEMATIQUE AFFAIRE NAHIMANA
- Retour sur le cas Jean-Pierre Chrétien à propos de Ferdinand Nahimana
- L'insolite expertise de Jean-Pierre Chrétien devant le TPIR
- Le mea culpa d'Hervé Deguine
DIALOGUE AVEC LES LECTEURS :
- Questions sur le Rwanda

Editorial de Bernard Lugan :
Les lignes de force se sont remises à bouger dans la région des Grands Lacs où la RDC et le Rwanda, les deux ennemis d’hier, sont, aujourd’hui, devenus des alliés de fait. Pourquoi ce retournement et peut-il durer ?
Tout a changé au début de l’année 2009 quand un accord fut conclu entre Kigali et Kinshasa dont l’objectif officiel était l’éradication dans le Kivu des milices hutu du FDLR. Puis un écran de fumée fut mis en place avec l’arrestation par le Rwanda du « général » tutsi Laurent Nkundabatware dit Nkunda. Cette opération servit à faire croire à la réalité de l’intégration dans les rangs des FARDC (Forces armées de la République Démocratique du Congo), des milices tutsi congolaises. En réalité, les anciens miliciens continuèrent d’agir dans les zones qu’ils occupaient et sous le commandement de leurs chefs, s’étant contentés de coudre sur leurs uniformes les insignes des FARDC. D’ailleurs, si le but de l’accord avait été l’intégration des forces armées, les unités rebelles auraient été éclatées au sein des forces nationales et envoyées en garnison à travers le pays. Toute la région, spécialement celle du Nord Kivu, est donc de fait demeurée entre les mains de Kigali, mais avec l’aval de Kinshasa cette fois.
Le président Kabila qui, certes est faible, mais qui est loin d’être un naïf, aurait-il donc accepté et même cautionné la quasi partition de son pays ? Evidemment non. L’affaire est plus complexe qu’il n’y paraît car, en réalité, c’est un jeu subtil qu’il mène. Comme il n’est pas de taille à lutter à la fois contre les ambitions ougandaises dans la région du lac Albert et contre la politique annexionniste du Rwanda dans les Kivu, il a donc provisoirement décidé de « faire la part du feu » en s’appuyant sur Kigali pour éviter de se voir spolié par Kampala et les grandes compagnies pétrolières.
Le marché est clair : Kigali doit s’immiscer dans le jeu pétrolier du lac Albert afin de tenter de faire obstacle à la tentative de mainmise ougandaise. En échange, Kinshasa se montrera discret sur la présence des troupes rwandaises au Kivu et n’utilisera pas contre Kigali le rapport de l’ONU sur le génocide commis par ses troupes dans l’est de la RDC. Le chef de l’Etat congolais qui a plusieurs fers au feu fait le calcul suivant : dans le futur, il aura moins à craindre de Kagamé que de Museveni car, après avoir été adulé par l’opinion internationale, le président rwandais devient peu à peu un paria au fur et à mesure que les mensonges liés au génocide, à ses causes, à son éclatement, à son déroulement et à ses conséquences en RDC, apparaissent au grand jour.
Le pari de Kinshasa n’est cependant pas gagné car Kagamé n’est pas non plus un naïf et comme il a déjà été lâché par plusieurs de ses soutiens, prendra t’il le risque de se mettre à dos les compagnies pétrolières ? Comme il n’est plus en mesure de jouer sa carte internationale favorite qui est le chantage à la guerre, lui aussi doit donc miser sur plusieurs tableaux. C’est pourquoi, tout en donnant des assurances à la RDC, il fait miroiter les potentialités pétrolières de la région du lac Kivu dont il se ferait fort de garantir l’exploitation, l’intérêt des pétroliers étant naturellement de traiter avec un régime fort… Certes, mais ses opposants tutsi actuellement réfugiés en Afrique du Sud font la même promesse et ils appellent clairement à son renversement… Dans ces conditions, Kagamé qui désormais joue sa survie, n’a donc pas intérêt à se brouiller encore davantage avec Museveni. Comme ce dernier est lui aussi affaibli, tous deux ne vont-ils pas se rapprocher ? Le problème est qu'une telle politique se ferait aux dépens de Kabila qui ne manquerait alors pas d’utiliser le rapport de l’ONU qui accable Kigali... Quoiqu’il en soit, le président ougandais a-t-il, lui, intérêt à une entente avec un Kagamé sur le déclin? Ne pourrait-il pas plutôt tenter de reprendre la main en proposant un « accord » à Kinshasa sur le dos de l’actuel président rwandais ? Toutes les options sont ouvertes.
C’est dans ce jeu de poker menteur à la fois complexe et mouvant que la France tente actuellement de s’introduire avec une connaissance superficielle de la subtile alchimie ethno politique régionale.

A qui profite le terrorisme?

A qui profite le terrorisme ?

Ex: http://www.mecanopolis.org/

La guerre menée par le terrorisme, telle qu’elle est présentée par les responsables gouvernementaux, par les médias, par les forces de polices et par les terroristes eux-mêmes contre leurs adversaires déclarés, est tout à fait invraisemblable.

 

L’exaltation idéologique peut conduire à toutes sortes de crimes, et l’héroïsme individuel comme les assassinats en série appartiennent à toutes les sociétés humaines. Ces sortes de passions ont contribué depuis toujours à construire l’histoire de l’humanité à travers ses guerres, ses révolutions, ses contre-révolutions. On ne peut donc être surpris qu’un mitrailleur, un kamikaze ou un martyre commettent des actes dont les résultats politiques seront exactement opposés à ceux qu’ils prétendent rechercher, car ces individus ne sont pas ceux qui négocient sur le marché des armes, organisent des complots, effectuent minutieusement des opérations secrètes sans se faire connaître ni appréhendés avant l’heure du crime.

Quoiqu’elle veuille s’en donner l’allure, l’action terroriste ne choisit pas au hasard ses périodes d’activités, ni selon son bon plaisir ses victimes. On constate inévitablement une strate périphérique de petits terroristes, dont il est toujours aisé de manipuler la foi ou le désir de vengeance, et qui est, momentanément, tolérée comme un vivier dans lequel on peut toujours pécher à la commande quelques coupables à montrer sur un plateau : mais la « force de frappe » déterminante des interventions centrales ne peut-être composée que de professionnels ; ce que confirment chaques détails de leur style.

L’incompétence proclamée de la police et des services de renseignements, leurs mea-culpa récurrent, les raisons invoquées de leurs échecs, fondées sur l’insuffisance dramatique de crédits ou de coordination, ne devraient convaincre personne : la tâche la première et la plus évidente d’un service de renseignements est de faire savoir qu’il n’existe pas ou, du moins, qu’il est très incompétent, et qu’il n’y a pas lieu de tenir compte de son existence tout à fait secondaire. Pourtant, ces services sont mieux équipés techniquement aujourd’hui qu’ils ne l’ont jamais été.

Tout individu notoirement ennemi de l’organisation sociale ou politique de son pays, et, d’avantage encore, tout groupe d’individus contraint de se déclarer dans cette catégorie est connu de plusieurs services de renseignements. De tels groupes sont constamment sous surveillance. Leurs communications internes et externes sont connues. Ils sont rapidement infiltrés par un ou plusieurs agents, parfois au plus haut niveau de décision, et dans ce cas aisément manipulables. Cette sorte de surveillance implique que n’importe quel attentat terroriste ait été pour le moins permis par les services chargés de la surveillance du groupe qui le revendique, parfois encore facilité ou aidé techniquement lorsque son exécution exige des moyens hors d’atteinte des terroristes, ou même franchement décidé et organisé par ces services eux-mêmes. Une telle complaisance est ici tout à fait logique, eu égard aux effets politiques et aux réactions prévisibles de ces attentats criminels.

Le siècle dernier, l’histoire du terrorisme a démontré qu’il s’agit toujours, pour une faction politique, de manipuler des groupes terroristes en vue de provoquer un revirement avantageux de l’opinion publique dont le but peut être de renforcer des dispositifs policiers pour contrer une agitation sociale, présente ou prévisible, ou de déclancher une opération militaire offensive, et son cortège d’intérêts économiques, à laquelle s’oppose la majorité de la nation.

Allemagne 1933 : Hitler

Le 30 janvier 1933, Hitler est nommé chancelier d’Allemagne et chef du pouvoir exécutif. Pourtant, deux adversaires potentiels sont encore devant lui : le Reichstag, qui vote les lois, arrête le budget et décide la guerre, ainsi que le parti communiste allemand, qui, dans le marasme économique de l’époque, pouvait se relever inopinément et constituer un dangereux concurrent. Le 22 février, Goering, alors président du Reichstag attribue aux SD (Sicherheitsdienst : Service de renseignements de sûreté) des fonctions de police auxiliaire. Le 23, la police perquisitionne au siège du parti communiste et y « découvre » un plan d’insurrection armée avec prises d’otages, multiples attentats et empoisonnements collectifs. Le 27 février, un militant gauchiste s’introduit sans difficultés dans le Reichstag et, avec quelques allumettes, y provoque un incendie. Le feu s’étend si rapidement que le bâtiment est détruit. Tous les experts, techniciens et pompiers, ont témoigné qu’un tel incendie ne pouvait être l’œuvre d’un seul homme. Bien après la guerre, d’anciens nazis confirmeront le rôle des SD dans cet attentat. Dès le lendemain de l’incendie, plusieurs milliers d’élus et de militants communistes sont arrêtés, l’état d’urgence décrété, le parti communiste interdit. Quinze jours plus tard les nazis remportent les élections au Reichstag, Hitler obtient les pleins pouvoirs et, dès juillet 1933, interdit tous les autres partis.

Italie 1970 : les Brigades rouge

Au cours des années septante, l’Italie était au bord d’une révolution sociale. Grèves, occupations d’usines, sabotages de la production, remise en question de l’organisation sociale et de l’Etat lui-même ne semblaient plus pouvoir être jugulé par les méthodes habituelle de la propagande et de la force policière. C’est alors que des attentats terroristes, destinés à provoquer de nombreuses victimes, et attribués à un groupe « révolutionnaire », les Brigades Rouges, sont venu bouleverser l’opinion publique italienne. L’émotion populaire permit au gouvernement de prendre diverses mesures législatives et policières : des libertés furent supprimées sans résistance, et de nombreuses personnes, parmi les plus actives du mouvement révolutionnaire, furent arrêtées : l’agitation sociale était enfin maîtrisée. Aujourd’hui, les tribunaux eux-mêmes reconnaissent que la CIA était impliquée, de même que les services secrets italiens, et que l’Etat était derrière ces actes terroristes.

USA 1995 : Timothy Mc Veigh

Le 19 avril 1995, un vétéran de la première guerre du Golfe, Timothy Mc Veigh, lance contre un bâtiment du FBI, à Oklahoma City, un camion chargé d’engrais et d’essence. Le bâtiment s’effondre et fait cent soixante-huit victimes. Au cours de l’instruction, Mc Veigh a déclaré avoir été scandalisé par l’assaut donné par le FBI, deux ans plus tôt, à une secte d’adventiste à Wacco, dans le Texas. Assaut au cours duquel périrent plus de quatre-vingt membres de la secte, dont vingt-sept enfants. Révolté par ce crime, Mc Veigh était donc parti en guerre, seul, contre le FBI. Et au terme de son procès, largement médiatisé, il a été exécuté, seul, par une injection mortelle, devant les caméras américaines.

Après l’attentat, 58 % des Américains se sont trouvés d’accord pour renoncer à certaine de leur liberté afin de faire barrage au terrorisme. Et dans l’effervescence populaire entretenue par les médias, le président Clinton du signer le consternant antiterrorism Act autorisant la police à commettre de multiples infractions à la constitution américaine.

Au vu des ravages causés par l’attentat, Samuel Cohen, le père de la bombe à neutrons, avait affirmé : « Il est absolument impossible, et contre les lois de la physique, qu’un simple camion remplis d’engrais et d’essence fassent s’effondrer ce bâtiment. » Deux experts du Pentagone étaient même venu préciser que cette destruction avait été « provoquée par cinq bombes distinctes », et avaient conclu que le rôle de Mc Veigh dans cet attentat était celui de « l’idiot de service ».

Au cours de son procès, Mc Veigh a reconnu avoir été approché par des membres d’un « groupe de force spéciales impliquées dans des activités criminelles ». Le FBI ne les a ni retrouvés, ni recherchés. Mais dans cette affaire, la police fédérale a dissimulé tant d’informations à la justice qu’au cours de l’enquête, l’ancien sénateur Danforth a menacé le directeur du FBI d’un mandat de perquisition, mandat qu’il n’a pu malheureusement obtenir. L’écrivain Gore Vidal affirme, dans son livre La fin de la liberté : vers un nouveau totalitarisme, sans hésiter : « Il existe des preuves accablantes qu’il y a eu un complot impliquant des milices et des agents infiltrés du gouvernement afin de faire signer à Clinton l’antiterrorism Act ».

USA : 11/9

La situation mondiale exige l’ouverture continuelle de nouveaux marchés et demande à trouver l’énergie nécessaire pour faire fonctionner la production industrielle en croissance constante. Les immenses réserve des pays arabes, et la possibilité des se les approprier, d’acheminer cette énergie à travers des zones contrôlées, font désormais l’objet de conflits entre les USA, décidés à asseoir leur hégémonie, et les autres pays d’Europe et d’Asie. S’emparer de telles réserves aux dépends du reste du monde exige une suprématie militaire absolue et d’abord une augmentation considérable du budget de la défense. Mesures que la population américaine n’était, il y a quelques années encore, aucunement disposée à entériner. Le 11 janvier 2001, la commission Rumsfeld évoquait qu’un « nouveau Pearl Harbour constituera l’évènement qui tirera la nation de sa léthargie et poussera le gouvernement américain à l’action.»

Les services de renseignements américains, qui prétendaient tout ignorer de l’attentat du 11 septembre, étaient si bien averti dans les heures qui ont suivi, qu’ils pouvaient nommer les responsables, diffuser des comptes rendus de communications téléphoniques, des numéros de cartes de crédit, et même retrouver inopinément le passeport intact d’un des pilotes terroristes dans les ruines fumantes des deux tours, permettant ainsi de l’identifier ainsi que ses présumés complices. La version des autorités américaines, aggravée plutôt qu’améliorée par cent retouches successives, et que tous les commentateurs se sont fait un devoir d’admettre en public, n’a pas été un seul instant croyable. Son intention n’était d’ailleurs pas d’être crue, mais d’être la seule en vitrine.

Le pouvoir est devenu si mystérieux qu’après cet attentat, on a pu se demander qui commandait vraiment aux Etats-Unis, la plus forte puissance du monde dit démocratique. Et donc, par extension, on peut se demander également qui peut bien commander le monde démocratique ?

Démocratie : Etat et Mafia

La société qui s’annonce démocratique semble être admise partout comme étant la réalisation d’une perfection fragile. De sorte qu’elle ne doit plus être exposée à des attaques, puisqu’elle est fragile ; et du reste n’est plus attaquable, puisque parfaite comme jamais société ne fut. Cette démocratie si parfaite fabrique elle-même son inconcevable ennemi : le terrorisme. L’histoire du terrorisme est écrite par l’Etat, elle est donc éducative. Les populations ne peuvent certes pas savoir qui se cache derrière le terrorisme, mais elles peuvent toujours en savoir assez pour être persuadées que, par rapport à ce terrorisme, tout le reste devra leur sembler plutôt acceptable, en tout cas plus rationnel et plus démocratique.

On se trompe chaque fois que l’on veut expliquer quelque chose en opposant la Mafia à l’Etat : ils ne sont jamais en rivalité. La théorie vérifie avec efficacité ce que toutes les rumeurs de la vie pratique avaient trop facilement montré. La Mafia n’est pas étrangère dans ce monde ; elle y est parfaitement chez elle, elle règne en fait comme le parfait modèle de toutes les entreprises commerciales avancées.

La Mafia est apparue en Sicile au début du XIXe siècle, avec l’essor du capitalisme moderne. Pour imposer son pouvoir, elle a du convaincre brutalement les populations d’accepter sa protection et son gouvernement occulte en échange de leur soumission, c’est-à-dire un système d’imposition directe et indirecte (sur toutes les transactions commerciales) lui permettant de financer son fonctionnement et son expansion. Pour cela, elle a organisé et exécuté systématiquement des attentats terroristes contre les individus et les entreprises qui refusaient sa tutelle et sa justice. C’était donc la même officine qui organisait la protection contre les attentats et les attentats pour organiser sa protection. Le recours à une autre justice que la sienne était sévèrement réprimé, de même que toute révélation intempestive sur son fonctionnement et ses opérations.

Malgré ce que l’on pourrait croire, ce n’est pas la Mafia qui a subvertit l’Etat moderne, mais ce sont les Etats qui ont concocté et utilisé les méthodes de la Mafia. Tout Etat moderne contraint de défendre son existence contre des populations qui mettent en doute sa légitimité est amené à utiliser à leur encontre les méthodes les plus éprouvées de la Mafia, et à leur imposer ce choix : terrorisme ou protection de l’Etat.

Mais il n’y a rien de nouveau à tout cela. Thucydide écrivait déjà, 400 ans avant Jésus-Christ, dans La guerre du Péloponnèse : « Qui plus est, ceux qui y prenaient la parole étaient du complot et les discours qu’ils prononçaient avaient été soumis au préalable à l’examen de leurs amis. Aucune opposition ne se manifestait parmi le reste des citoyens, qu’effrayait le nombre des conjurés. Lorsque que quelqu’un essayait malgré tout des les contredire, on trouvait aussitôt un moyen commode des les faire mourir. Les meurtriers n’étaient pas recherchés et aucune poursuite n’était engagée contre ceux qu’on soupçonnait. Le peuple ne réagissait pas et les gens étaient tellement terrorisés qu’ils s’estimaient heureux, même en restant muet, d’échapper aux violences. Croyant les conjurés bien plus nombreux qu’ils n’étaient, ils avaient le sentiment d’une impuissance complète. La ville était trop grande et ils ne se connaissaient pas assez les uns les autres, pour qu’il leur fût possible de découvrir ce qu’il en était vraiment. Dans ces conditions, si indigné qu’on fût, on ne pouvait confier ses griefs à personne. On devait donc renoncer à engager une action contre les coupables, car il eût fallut pour cela s’adresser soit à un inconnu, soit à une personne de connaissance en qui on n’avait pas confiance. Dans le parti démocratique, les relations personnelles étaient partout empreintes de méfiance, et l’on se demandait toujours si celui auquel on avait à faire n’était pas de connivence avec les conjuré ».

Aujourd’hui, les manipulations générales en faveur de l’ordre établi sont devenues si denses qu’elles s’étalent presque au grand jour. Pourtant, les véritables influences restent cachées, et les intentions ultimes ne peuvent qu’être assez difficilement soupçonnées, presque jamais comprises.

Notre monde démocratique qui, jusqu’il y a peu, allait de succès en succès, et s’était persuadé qu’il était aimé, a du renoncer depuis lors à ces rêves ; il n’est aujourd’hui plus que l’arme idéologique d’un nouvel ordre mondial.

Publié sur Mecanopolis [2] le 18 octobre 2010

 


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The Yezidis: The History of a Community, Culture and Religion

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Birgul Acikyildiz (author)

Hardback, £49.50

Yezidism is a fascinating part of the rich cultural mosaic of the Middle East. Yezidis emerged for the first time in the 12th century in the Kurdish mountains of northern Iraq. Their religion, which has become notorious for its associations with 'devil worship', is in fact an intricate syncretic system of belief, incorporating elements from proto-Indo-European religions, early Persian faiths like Zoroastrianism and Manichaeism, Sufism and regional paganism like Mithraism. Birgul Acikyildiz offers a comprehensive appraisal of Yezidi religion, society and culture. Written without presupposing any prior knowledge about Yezidism, and in an accessible and readable style, her book examines Yezidis not only from a religious point of view but as a historical and social phenomenon. She throws light on the origins of Yezidism, and charts its historical development - from its beginnings to the present - as part of the general history of the Kurds.

The author describes the Yezidi belief system (which considers Melek Taus - the 'Peacock Angel' - to be ruler of the earth) and its religious practices and observances, analysing the most important facets of Yezidi religious art and architecture and their relationship to their neighbours throughout the Middle East. Richly illustrated, with accompanying maps, photographs and illustrations, the book will have strong appeal to all those with an interest in the culture of the Kurds, as well as the wider region.

 

List of Illustrations 
Acknowledgements 
Abbreviations 
Introduction 

Chapter I: Origins, History and Development 

  •  
    • Yezidis in Mesopotamia and Anatolia 
    • Yezidis in Syria 
    • Yezidis in Transcaucasia 

Chapter II: Religious Belief System 

1. God, Angels and the Trinity 

  •  
    • God (Xwedê)
    • Angels 
    • The Peacock Angel (Tawûsî Melek) 
    • Sultan Êzi 
    • Sheikh ‘Ad? 

2. Yezidi Mythology 

  •  
    • Creation of Cosmos and Universe 
    • Creation of Human Being 
    • The Flood 

3. Holy Books 

4. Religious Hierarchy 

Chapter III: Religious Practices, Observances and Rituals 

  •  
    • Haircut, Baptism, Circumcision, Brother of the Hereafter, Marriage, Death 
    • Prayer
    • Fast 
    • Pilgrimage 
    • Festivals and Ceremonies 
    • Taboos 

Chapter IV: Material Culture 

  •  
    • Homeland, Landscape, Sacred Places 
    • Places of Worship 
    • The Sanctuary 
    • Mausoleums 
    • Shrines 
    • The Baptistery 
    • Caves 
    • Tombstones 

Conclusion 
Appendixes 
Glossary 
Notes



Birgul Acikyildiz is a Research Fellow at the Khalili Research Centre for the Art and Material Culture of the Middle East, Faculty of Oriental Studies, University of Oxford.



This is a major, innovative study of one of the least known religious communities of the Middle East…[it will] probably long remain the definitive work on Yezidi material culture.
– Martin van Bruinessen, Professor of the Comparative Study of Contemporary Muslim Societies, Utrecht University

A fascinating narrative and photographic journey through Yezidi religion, society and material culture.
– Nelida Fuccaro, Lecturer in Modern History of the Arab Middle East, School of Oriental and African Studies, University of London

It is particularly gratifying to see the publication of a scholarly work that takes into account both the living tradition and the archaeological and architectural aspects of the Yezidi heritage...A book that makes a real contribution to Yezidi studies.
– Philip G Kreyenbroek, Professor of Iranian Studies, Georg-August University, Göttingen

An invaluable introduction to Yezidi architectural and spiritual history…An indispensable reference book.
– Sebastian Maisel, Assistant Professor for Arabic and Middle East Studies, Grand Valley State University, Allendale

A remarkable and original interdisciplinary work on Yezidi history, religion and material culture.
– Khalil Jindy Rashow, Consular at the Ministry of Iraqi Foreign Affairs, Baghdad

Imprint: I.B.Tauris
Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd

Hardback
ISBN: 9781848852747
Publication Date: 30 Sep 2010
Number of Pages: 304

 

 

jeudi, 21 octobre 2010

Afrique: des colonies à l'indépendance

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Des colonies à l'indépendance...

Le premier numéro hors-série de La nouvelle revue d'histoire est en kiosque. Il est entièrement consacré à l'Afrique et à l'accession des colonies à l'indépendance. On y trouve des articles de l'africaniste Bernard Lugan, de Philippe Conrad, de Jean-Joël Brégeon et de Philippe d'Hugues, notamment.

 

The Emergence of Nationalist Politics in Morocco

The Emergence of Nationalist Politics in Morocco: The Rise of the Independence Party and the Struggle Against Colonialism After World War II
 

Daniel Zisenwine (author)

Hardback, £54.50

The end of World War II intensified Morocco's nationalist struggle against French colonial rule, with the establishment of the Istiqlal ('independence') party and the Moroccan Sultan's emergence as a national leader. In this book, Daniel Zisenwine charts the rise of Morocco's leading nationalist party, and illustrates the weakness of Moroccan political parties at the outset of the anti-colonial struggle. While Morocco today faces formidable challenges, its political system remains profoundly influenced by the events charted in this book. Drawing from a wide range of previously unpublished sources, Daniel Zisenwine presents the background to the Istiqlal's establishment, its initial actions and demands, and an extensive discussion of its social activities aimed at mobilizing the Moroccan public during the anti-colonial struggle.

 

Daniel Zisenwine is Research Fellow at The Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies, Tel Aviv University.

Imprint: I.B.Tauris
Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
Series: International Library of Political Studies

Hardback
ISBN: 9781848853232
Publication Date: 30 Sep 2010
Number of Pages: 272

mercredi, 20 octobre 2010

Force et Honneur

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SOMMAIRE

 

1ère partie : des batailles…

         Préface de Jean-Pierre Papadacci

1.     Les Thermopyles par Christian Segré – 480 avant J.C.

2.     Marathon par Romain Lecap – 490 avant J.C.

3.     Issos par Quentin Hélène – 331 avant J.C.

4.     Gergovie par Joseph Maie Joly – 52 avant J.C.

5.     Zama par André Lama – 202 avant J.C.

6.     Teutoburger Wald par Pascal Lassalle – 9 après J.C.

7.     Tolbiac par Hubert Kohler – 496 après J.C.

8.     Les champs catalauniques par Arnaud Derville – 541 après J.C.

9.     La bataille de Toulouse et la bataille de Poitiers par Gilbert Sincyr – 732 après J.C.

10.  Hastings par Erik Fuchs – 1066 après J.C.

11.  La prise de Jérusalem par Pierre Vial – 1099 après J.C.

12.  Las Navas de Tolosa par Jean Kapel– 16 juillet 1212

13.  La bataille de Bouvines par Jean-Christophe Hartmann − 1215

14.  Tannenberg par Arthur Lorc’h − 1242

15.  Azincourt ou la mort de la chevalerie française par Jean Denègre – 25 octobre 1415

16.  La prise d'Orléans par Thierry Bouzard – 1429

17.  Le siège de Vienne par Philippe Conrad – 1529

18.  La bataille de Lépante par Robert Steuckers – 7 octobre 1571

19.  La bataille de Torfou par Arthur de Lascaux − 1793

20.  Austerlitz, la bataille des trois empereurs par Louis Samagne − 1805

21.  Camerone par Alain Sanders – 30 avril 1863

22.  Mourir pour Verdun par Philippe Fraimbois – 1916

23.  Le siège de l’Alvazar de Tolède par Olivier Grimaldi – 1936

24.  Stalingrad par Pierre Gilieth – 2 février 1943

25.  Le débarquement du commando Kieffer par Jean André − 1944

26.  La bataille de Berlin par Chris Chatelet – avril 1945

27.  Dien Bien Phu par Éric Fornal – 7 mai 1954

28.  L’insurrection de Budapest par Lajos Marton – octobre 1956

29.  La bataille d'Alger par François-Xavier Sidos– janvier à mars 1957

30.  Le siège de Sarajevo par Pierre-Henri Bunel – 1992 

 

2ème partie : et des hommes de guerre

1.     Général Yves Dervilles

2.     Colonel Jean Luciani

3.     Capitaine Dominique Boneli

4.     Jean Laraque

5.     Alexis Arette

6.     Roger Holeindre

7.     Aimé Trocmé

 

« C’est la guerre qui a fait des hommes et des temps ce qu’ils sont…Et toujours, si longtemps que la roue de la vie danse en nous sa ronde puissante, cette guerre sera l’essieu autour duquel elle vrombit. »

Ernst Jünger, La guerre notre mère

 

 « On ne se dérobe pas à la loi du combat, parce que c’est la loi de la vie. »

Pierre Drieu la Rochelle

 

 « L’avenir appartient à qui recueille et sème l’éternelle fleur du passé. »

Charles MAURRAS.

 

« La vie d’une grande nation n’est qu’un combat. Elle a ses jours d’épreuve.

Mais comme l’a dit Montaigne : l’adversité est une fournaise à recuire l’âme. »

Maxime WEYGAND

Le calendrier mémoriel de nos pères était, autrefois, parsemé de noms de saints, de soldats héroïques et aussi de grandes batailles. Ces noms,  gravés dans l’histoire des peuples, étaient toujours évocateurs : Ils constituaient une mémoire collective et  forgeaient  les identités nationales. Chaque  nation vénérait ses saints, exaltait ses héros et communiait dans le souvenir  de  ses grandes batailles. Le souvenir de celles-ci, gagnées ou perdues, était perpétué par des cérémonies patriotiques, véritables liturgies, qui cimentaient les peuples en reliant les vivants et les morts.

  Aujourd’hui,  ce culte de la mémoire, propre aux vieilles nations historiques, est contrôlé, contesté pour ne pas dire condamné car il dérange les tenants du nouvel ordre mondial. L’idéologie universaliste règne désormais en maîtresse, elle déforme, révise, détourne  le passé en attendant de le faire disparaître. C’est dans cet esprit que le bicentenaire de la victoire  d’Austerlitz a été  effacé, ignoré et  que  la commémoration du 90ième  anniversaire de la fin de la Première Guerre mondiale  a été transformée en promotion de l’union européenne et de son prétendu «  avenir radieux ». On  n’évoque plus les guerres que pour les condamner ou pour jeter l’opprobre sur les combattants. On  réhabilite les mutins, on glorifie les déserteurs, les traîtres, les objecteurs de conscience et on les offre en modèle. Les combats futurs ne se dérouleront plus que dans les stades ou dans les temples de la Bourse et les héros ne seront plus que des sportifs ou des traders. On nous promet un univers de paix et de prospérité qui  implique l’oubli de notre identité et  l’abandon de  notre nationalité : le monde n’est plus qu’un marché soumis à la religion du Veau d’Or  et notre avenir est assuré à jamais à condition d’en devenir les consommateurs.

  Beaucoup de ceux qui confondent rêves et réalités peuvent  se convertir aux utopies mondialistes  mais  nous, qui fûmes les enfants de Dien-Bien-Phu et de Budapest, nous refusons d’entrer dans ce marché de dupes. Nous savons que la vie  ne sera jamais un long fleuve tranquille.  Nous savons que nous sommes les héritiers de générations qui ont œuvré, souffert et parfois  sacrifié leur vie pour nous transmettre une patrie. Nous savons  que notre nationalité est un titre de propriété sur notre terre,  sur nos biens et  sur notre culture. Nous savons que  nous sommes des débiteurs et que nous avons le devoir de faire fructifier et de transmettre le patrimoine que nous avons reçu. Nous  savons qu’il  ne serait pas digne d’oublier les sacrifices de  nos anciens et encore moins de les stigmatiser ou de les renier. Enfin nous sommes convaincus que la nation reste la clef de voûte de l’ordre mondial. C’est pourquoi nous avons décidé de relater les grandes batailles qui ont marqué l’histoire des nations. Elles rappelleront à ceux qui l’oublient que la vie est avant tout un combat et que  notre premier  devoir est de rester fidèles à tous nos compatriotes qui, au cours des siècles, n’ont pas hésité  à donner leur vie pour assurer la pérennité de leur nation.

Jean-Pierre PAPADACCI.

Français d’Empire. 

mardi, 19 octobre 2010

Etats-Unis: l'imposture messianique

11111112747572285r.jpgETATS-UNIS : L'IMPOSTURE MESSIANIQUE

Nicole Guétin


Cet ouvrage s'attache à analyser l'influence du religieux sur la politique américaine. Il focalise l'attention sur un principe commun que l'on qualifiera de messianisme, compte tenu de l'environnement religieux dans lequel naquit et vit encore la nation américaine. Il s'agit d'esquisser l'évolution de ce concept, une constante dans les préoccupations spirituelles, intellectuelles et sociales du peuple américain, depuis sa période coloniale jusqu'à nos jours. Cette conviction d'œuvrer selon les desseins d'une autorité divine a imprégné l'idéologie nationale et influencé sa politique étrangère.

ISBN : 2747572285

Nombre de pages : 126

Date : 11- 2004

lundi, 18 octobre 2010

Nationalism and Identity in Romania

Nationalism and Identity in Romania: A History of Extreme Politics from the Birth of the State to EU Accession
 

Radu Cinpoes (author)

Hardback £59.50

Romanian_Revolution_1989_1.jpgThe collapse of communism in Central and Eastern Europe produced a fundamental change in the political map of Europe. In Romania, nationalism re-emerged forcefully and continued to rally political support against the context of a long and difficult transition to democracy. Extreme right-wing party The Greater Romania Party gained particular strength as a major political power, and its persuasive appeal rested on a reiteration of nationalism and identity - and themes such as origins, historical continuity, leadership, morality and religion - that had been embedded in Romanian ideological discourse by earlier nationalist formations. Radu Cinpoes here examines the reasons for the strength and resilience of nationalism in Romania, from the formation of the state to its accession in the EU.

 

  • Preface * Nationalism - Conceptual Framework * Continuity and Discontinuity in the Romanian Nationalist Discourse * Tradition, Context and Transition to Post-Communism * The Greater Romania Party: Background, Competition and Significance * The Party and its Leader * The Decline of the Greater Romania Party * Romania in the EU: The Future of Nationalism * Conclusions
  • Radu CinpoeA specializes in nationalism and identity politics. He is lecturer in Politics and Human Rights at Kingston University, where he also obtained his PhD in 2006.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
    Series: International Library of Political Studies

    Hardback
    ISBN: 9781848851665
    Publication Date: 21 Sep 2010
    Number of Pages: 320

     

    Nationalism and Identity in Romania

    Nationalism and Identity in Romania: A History of Extreme Politics from the Birth of the State to EU Accession
     

    Radu Cinpoes (author)

    Hardback £59.50

    Romanian_Revolution_1989_1.jpgThe collapse of communism in Central and Eastern Europe produced a fundamental change in the political map of Europe. In Romania, nationalism re-emerged forcefully and continued to rally political support against the context of a long and difficult transition to democracy. Extreme right-wing party The Greater Romania Party gained particular strength as a major political power, and its persuasive appeal rested on a reiteration of nationalism and identity - and themes such as origins, historical continuity, leadership, morality and religion - that had been embedded in Romanian ideological discourse by earlier nationalist formations. Radu Cinpoes here examines the reasons for the strength and resilience of nationalism in Romania, from the formation of the state to its accession in the EU.

     

  • Preface * Nationalism - Conceptual Framework * Continuity and Discontinuity in the Romanian Nationalist Discourse * Tradition, Context and Transition to Post-Communism * The Greater Romania Party: Background, Competition and Significance * The Party and its Leader * The Decline of the Greater Romania Party * Romania in the EU: The Future of Nationalism * Conclusions
  • Radu CinpoeA specializes in nationalism and identity politics. He is lecturer in Politics and Human Rights at Kingston University, where he also obtained his PhD in 2006.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
    Series: International Library of Political Studies

    Hardback
    ISBN: 9781848851665
    Publication Date: 21 Sep 2010
    Number of Pages: 320

     

    dimanche, 17 octobre 2010

    Britain and the Weimar Republic

    Britain and the Weimar Republic: The History of a Cultural Relationship

    Colin Storer (author)

    Between the two world wars, Germany managed - despite all the political upheavals it was experiencing - to attract extremely large numbers of British travellers and tourists. During the Weimar period in particular, Germany attracted visitors from virtually every section of British society. In this book, Colin Storer moves beyond the traditional scholarly focus on figures such as Christopher Isherwood and John Maynard Keynes to provide the first broad comparative study of British intellectual attitudes towards Weimar Germany. Based on original research and using striking examples from intellectual life and literature it highlights the diversity of British attitudes, challenges received opinions on areas such as the 'inevitable collapse' of the Republic, and seeks to establish why Weimar Germany was so appealing to such a variety of individuals.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd

    Hardback
    ISBN: 9781848851405
    Publication Date: 30 Sep 2010
    Number of Pages: 264
    Height: 216
    Width: 134

    00:11 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, grande-bretagne, allemagne, weimar, années 20, années 30 | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

    samedi, 16 octobre 2010

    Cyrpus in World War II

    Cyprus in World War II: Politics and Conflict in the Eastern Mediterranean

    Anastasia Yiangou (author)

    World War II marked a pivotal point in the history of Cyprus, yet surprisingly, this period of the island's history has been little studied to date. Anastasia Yiangou here provides the first major study of the impact of World War II on the political development of Cyprus. In doing so, she traces shifting Cypriot attitudes to the war and the formation of a triangular conflict in the island between the Left, Right and British colonial power. She explains how the British and Cypriots fought a war alongside each other, yet remained far apart in discussions on the future of the island. Yiangou's original and compelling analysis highlights how the post-1945 landscape of Cypriot political struggles was shaped by forces set in motion during the war itself.

    Anastasia Yiangou holds a PhD from the Institute of Commonwealth Studies, University of London in 2009. She has taught at the University of Cyprus and the G.C. School of Careers, Cyprus.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
    Series: International Library of Twentieth Century History

    Hardback
    ISBN: 9781848854369
    Publication Date: 30 Sep 2010
    Number of Pages: 304
    Height: 216
    Width: 134

    Cyprus: Diplomatic history

    Cyprus: Diplomatic History and the Clash of Theory in International Relations

    William Mallinson (author)

    Hardback £54.50

    What are the mainsprings of international rivalry and conflict and how are they to be uncovered - by international relations theory, history or by the practice of diplomacy? Cyprus is ideal for thoroughly testing theory and practice. The island has been at the epicentre of international relations rivalry throughout its history and to this day Cyprus remains a geopolitical tinder-box with acute tension between Cyprus and Turkey over the Turkish occupation of a third of the island. Hostility has now been transferred to the forum of the EU, with Cyprus as a member and the US and Britain pushing for Turkey to join. Meanwhile in the geopolitical hinterland, Russia remains suspicious of the island's British bases which project NATO power in the Eastern Mediterranean and the Middle East. William Mallinson's approach in analyzing Cyprus' problems and the dangers for international relations is unique. He applies practical hands-on experience of international diplomacy with academic research as an historian and international relations theorist.

    Mallinson applies international theory to his minute analysis of revealing documents - the life-blood of the historian of diplomacy - and shows how historical research provides the essential basis for international relations theory.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd

    Hardback
    ISBN: 9781848854161
    Publication Date: 30 Sep 2010
    Number of Pages: 256

    Cyprus: Diplomatic history

    Cyprus: Diplomatic History and the Clash of Theory in International Relations

    William Mallinson (author)

    Hardback £54.50

    What are the mainsprings of international rivalry and conflict and how are they to be uncovered - by international relations theory, history or by the practice of diplomacy? Cyprus is ideal for thoroughly testing theory and practice. The island has been at the epicentre of international relations rivalry throughout its history and to this day Cyprus remains a geopolitical tinder-box with acute tension between Cyprus and Turkey over the Turkish occupation of a third of the island. Hostility has now been transferred to the forum of the EU, with Cyprus as a member and the US and Britain pushing for Turkey to join. Meanwhile in the geopolitical hinterland, Russia remains suspicious of the island's British bases which project NATO power in the Eastern Mediterranean and the Middle East. William Mallinson's approach in analyzing Cyprus' problems and the dangers for international relations is unique. He applies practical hands-on experience of international diplomacy with academic research as an historian and international relations theorist.

    Mallinson applies international theory to his minute analysis of revealing documents - the life-blood of the historian of diplomacy - and shows how historical research provides the essential basis for international relations theory.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd

    Hardback
    ISBN: 9781848854161
    Publication Date: 30 Sep 2010
    Number of Pages: 256

    mercredi, 13 octobre 2010

    Regering moet banken redden - anno 1934

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    Regering moet banken redden, anno 1934

     
    Met de bankencrisis en de grote regeringsinspanningen om de banken te redden is ons vaak wijsgemaakt dat dit een uniek, eenmalig en vooral precedentloos gebeuren was. Daarbij wordt echter wel vergeten dat in 1934 in België een ongeveer gelijk fenomeen plaatsvond. In die tijd werd België geregeerd door de toenmalige “bankiersregering” Theunis II (*). In het boek “De Jaren ’30 in België: de massa in verleiding”, uitgegeven door nota bene de toenmalige ASLK, kan men op pagina’s 148 en 149 het volgende lezen:

    Enkele spectaculaire faillissementen in de banksector bewezen hoe precair de toestand van de Belgische economie was geworden. De bankdeposito’s die eind 1930 meer dan 23 miljard frank bedroegen, waren eind 1933 tot 25 miljard frank gedaald. De deposito’s namen bovendien voortdurend verder af door oppotting en door kapitaalvlucht naar het buitenland, veroorzaakt door de sfeer van wantrouwen. Banken die door slinkende deposito’s en door de algemene achteruitgang van het zakenleven ernstig werden getroffen kwamen in zware liquiditeitsmoeilijkheden. Vaak hadden zij immers hun kortlopende deposito’s aangewend voor het verlenen van ruime kaskredieten en voorschotten aan de door hen gepatroneerde bedrijven. Veel bedrijven slaagden er echter niet langer in hun financiële verplichtinge nna te komen. De banken konden evenwel moeilijke een onmiddellijke vereffening van de achterstallige betalingen eisen. Daardoor zouden de bedrijven immers onvermijdelijk het faillissement worden ingejaagd en zouden de banken hun vaak aanzienlijke participaties en kredieten zien verloren gaan. In de loop van 1932 en 1939 stond de Nationale Bank aan meerdere banken voorschotten als overbrugginskrediet toe. Deze hulp bleek echter vaak onvoldoende om onhei lte voorkomen. [...]

    Op 28 maart 1934 moest de socialistische Bank van de Arbeid haar loketten sluiten. [...] Om de algemene onrust te temperen en panische reacties te voorkomen, vaardigde de regering enkele ingrijpende maatregelen uit. Door het Koninklijk Besluit van 22 augustus 1934 werd de splitsing van de gemende banken in portefeuillemaatschappijen en depositobanken beter te beschermen, het vertrouwen in het bankwezen te herstellen en een algemene bankcrisis te voorkomen. [...]

    In de loop van 1934 werd steeds duidelijker dat de Algemeene Bankvereeniging, de grootste Vlaamse bank, enorme verliezen had geleden in riskante beleggingen. In haar val dreigde zij de Belgische Boerenbond mee te sleuren. Deze dominerende landbouworganisatie had immers via haar Middenkredietkas, centrale kas van 1200 landelijke Raiffeissenkassen, circa 85% van de aandelen in handen. Om paniek te vermijden liet de regering op 7 december 1934 een wet goedkeuren waarbij een nieuwe instelling, het  Centraal Bureau voor de Kleine Spaarders, werd opgericht met een werkkapitaal van één miljard frank. Het moest hulp bieden in het volksspaarwezen. In realiteit moest het in de eerste plaats de spaargelden van de Raiffeisenkassen redden, een delicate opdracht waarin het ook slaagde.

    Het is maar dat u weet dat bankcrisissen geen uniek gebeuren zijn, maar in een systeem van speculatie met een zekere regelmaat zullen voorkomen.

    (*) Het kabinet van Georges Theunis, dat de regering van de bankiers wordt genoemd wegens de aanwezigheid in haar schoot van Francqui (Société Générale), Gutt (Groep Lambert) benevens Theunis zelf (Groep Empain), is één van de meest verwenste ministeries geweest die ons land ooit heeft gehad. Bron

    mardi, 12 octobre 2010

    12 octobre 1943: les Alliés anglo-saxons occupent les Açores

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    12 octobre 1943 : les Alliés anglo-saxons occupent les Açores

     

    Les Alliés pourront occuper les Açores, y établir des bases aéronavales et faire relâche dans les ports de l’île, suite à des accords secrets anglo-portugais où Londres force la main à Lisbonne, en lui rappelant un traité signé au 19ème siècle et scellant une alliance entre les deux pays. Par cet accord, plusieurs centaines de kilomètres sur le territoire océanique ne seront plus livrés au bon vouloir des sous-marins allemands. Hitler perd définitivement la bataille de l’Atlantique. Rétrospectivement, nous pouvons en conclure que les Açores sont un archipel de très grande importance stratégique pour l’Europe et pour le contrôle de l’Atlantique à partir des côtes du Vieux Continent. Elles permettent notamment de contrôler la route vers les Amériques et de surveiller les côtes marocaines. Il ne s’agit pas seulement de « confettis d’Empire », de résidus de la grandeur passée du Portugal mais d’une position stratégique de toute première importance qu’il ne s’agit pas de perdre.