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jeudi, 02 décembre 2010

Atene dorica. Comunità gerarchica di popolo

Atene dorica. Comunità gerarchica di popolo

athenes-agora-grecque-11.jpgA sentire il poeta aristocratico Teognide (VI-V secolo a.C.), già ai suoi tempi si doveva parlare di crisi della Tradizione: a quel tipo di Junker greco, tutti i valori superiori sembravano esser crollati dinanzi all’affermazione del dèmos. Ci sono intellettuali della Grecia antica che fanno pensare a certi loro omologhi moderni. Difensori dei valori tradizionali, essi  interpretano la società a democrazia totalitaria del loro tempo come una caduta plebea e demagogica. Teognide o Pindaro, ad esempio, per diversi aspetti si assomigliano come gocce d’acqua a Jünger o a Evola: per loro un’aristocrazia democratica, estesa a tutto il popolo, è uno sproposito. Nessuno dei quattro ammise che la valenza politica dell’eguaglianza di stirpe affermatasi in modi diversi a Sparta e ad Atene, così come nel Reich del 1933, non era un principio di eguaglianza assoluta, ma l’allargamento della coscienza signorile all’intera comunità di popolo, per via del comune lignaggio di sangue. Per il reazionario, spesso difendere la casta vuol dire essere ostile al popolo.

 

 

La democrazia greca nulla ha da spartire con gli universalismi della moderna “democrazia” liberale, che di fatto è una tirannia del denaro in mano a oligarchi estranei al popolo, ridotto a massa livellata. La differenza sta tutta nel concetto cardinale che ad Atene la democrazia non è un diritto, ma un privilegio.

 

Per capire come in Grecia non solo Sparta, ma anche Atene fosse il centro di una concezione di democrazia anti-egualitaria ed etnicista, del tutto opposta all’idea moderna di “democrazia” parlamentare basata sui diritti individuali, basta dare uno sguardo agli ordinamenti di Pericle. È vero che l’epoca classica non vide più all’opera i venerandi ceppi nobiliari dell’epoca arcaica, già decaduti, ma è altrettanto vero che presentava ugualmente la volontà di preservare i retaggi bio-storici della Tradizione dorica, allargandoli all’intera comunità popolare, in una vera e propria specie di socialismo nazionale ante-litteram. Grandi politici come Clìstene, Cimone e Pericle, demagoghi a occhi reazionari, in realtà furono protagonisti di una lotta rivoluzionaria, intesa a proteggere con istituzioni sociali ferree l’identità atavica del popolo, di tutto il popolo, messa in pericolo dal procedere dei commerci e dai contatti con le altre popolazioni. Secondo Plutarco, Pericle, di carattere autoritario e carismatico, era un «capoparte popolare», tipico rappresentante della politica ateniese, gestita da Capi forniti di un Seguito personale, alla maniera della democrazia tribale germanica. Quello di Pericle, in particolare, fu un sistema di potere fondato sul sostegno diretto del popolo, senza intermediari istituzionali, e tutto basato sul prestigio del capo.

 

La cittadinanza, nell’Atene del V secolo, non era un pezzo di carta da mettere in mano al primo venuto, come accade oggi nella “democrazia” liberale. Pericle restrinse la legge precedente, che considerava cittadino chi fosse figlio di un genitore ateniese, e riservò il diritto di cittadinanza unicamente al figlio di entrambi i genitori ateniesi. Questa disposizione – risalente al 451 – si accompagnava al tassativo divieto di contrarre matrimoni misti, secondo una legislazione che prevedeva la condanna e la confisca dei beni per un Ateniese che avesse sposato una straniera e la riduzione in schiavitù per qualunque straniero si fosse ammogliato con una Ateniese. I divieti di immigrazione erano chiari: si tollerava soltanto la presenza dei meteci, stranieri-residenti privati dei diritti civili, cui si inibiva la facoltà di possedere terra, di ricoprire cariche pubbliche, di adire ai tribunali.

Per un’idea di quanto fosse egualitaria Atene, basta un piccolo esempio: l’omicidio di un Ateniese per mano di uno straniero comportava la messa a morte del colpevole, mentre l’omicidio di uno straniero per mano di un Ateniese era punito con una multa…insomma, nulla a che vedere con l’ideologia dei diritti individuali…Si ricordi che siamo nell’aureo V secolo, l’epoca di Platone, di Fidia, di Eschilo, di Sofocle: tutte persone così poco “democratiche” in senso moderno, da considerare del tutto ovvia la superiorità della loro civiltà rispetto a quelle “barbare”, e da vantare l’eccellenza non solo di ordinamenti comunitari apertamente discriminatori verso gli stranieri, ma pure dell’aggressivo imperialismo colonizzatore ateniese – attivo dalla Sicilia al Mar Nero – e persino del sistema schiavile, su cui Atene basava la propria economia e di cui, tra gli altri, Aristotele fece un celebre elogio.

 

E proprio da Aristotele sappiamo di un caso tipico, in cui certi stranieri giunti verso il 510 ad Atene per partecipare alla vita politica ne furono senz’altro allontanati perché non in grado di «dimostrare la loro discendenza dai più remoti antenati della società attica»: era questo il metodo del diapséphismos, la revisione delle liste elettorali in base alla «purezza della nascita». Qualcosa che, ad un confronto, fa apparire le leggi di Norimberga del 1935 – che, diversamente da quelle ateniesi, contemplavano numerose eccezioni, a cominciare dalla figura del Mischlinge, il sanguemisto, del tutto sconosciuta ad Atene – delle blande misure di magnanima tolleranza.

 

Platone definì bene il senso della democrazia ateniese: «un’aristocrazia con l’approvazione del popolo». Una democrazia, quindi, gerarchica, diretta e acclamatoria, in cui la isonomìa, cioè l’uguaglianza davanti alla legge, riguardava unicamente i nativi d’Attica, di cui si sollecitava la partecipazione politica e la mobilitazione, chiamandoli a condividere in assemblea pubblica le decisioni prese dal comando politico. Questo è il senso di ciò che è stato definito il “totalitarismo” delle istituzioni ateniesi, tutte incentrate sulla netta distinzione tra membri della polis ed estranei, sulla rude chiusura ad ogni assorbimento di stranieri, sulla centralità della fratrìa quale organismo parentale e insieme sorta di corporazione ereditaria. Un ricordo dell’arcaico ordinamento ateniese, in cui gli eupàtrides (i patrizi di “buona nascita”), gli agrìkoi (i contadini) e i demiùrgoi (gli artigiani) davano vita allo Stato organico etnico e corporativo.

 

Nell’Atene classica vigevano, ripotenziati da Pericle, gli arcaici presupposti dell’Atene dorica, in cui il legame di sangue veniva protetto lungo la linea ereditaria sia familiare che “nazionale”. Alla base di tutta la grecità troviamo il concetto di synghéneia, la fratellanza di sangue, che ad Atene – città e territorio uniti in un’unica koiné – veniva tutelata dalla legge e riproposta attraverso un fitto reticolo di legami sociali: le varie tribù in cui era suddiviso il dèmos si diramavano su base razziale vera e propria, con la fratrìa, e su base territoriale, con i dèmoi, racchiudendo il senso dell’antica filé dorica, la tribù clanica che legava l’individuo come membro di schiatta radicato al suolo. In questo quadro, così lontano dall’idea moderna di “democrazia”, c’era spazio anche per la difesa del klèros, il possedimento familiare inalienabile, nucleo della solidarietà di stirpe e di terra, secondo il ben noto “mito dell’autoctonia” attica. Come dire, un Blut und Boden in piena regola.

 

In realtà, la preponderanza della comunità sull’individuo era tale che, ad Atene, tutto veniva risolto comunitariamente, e la società inglobava il singolo in ogni aspetto della vita associata. Era lo “Stato” ad occuparsi, ad esempio, della gestione dei funerali, del mantenimento degli orfani, della regolamentazione della prostituzione o della vendetta familiare. Solo che lo “Stato” come lo intendiamo noi, ad Atene semplicemente non esisteva. Come ha scritto lo storico Brook Manville, ad Atene lo “Stato” erano tutti i cittadini: «La comunità non temeva l’intervento dello Stato: la comunità era, infatti, lo Stato». In altre parole, ad Atene ciò che contava non era lo Stato burocratico e anonimo, ma, detto con parola che rende bene l’idea, era il Volk.

 

Antonio Castronuovo, studioso della democrazia ateniese, ha riportato le enunciazioni del mito: «Noi siamo Greci puri e mai ci siamo mescolati coi barbari…non abbiamo contaminato il nostro sangue…», definendole una «vera attestazione di purezza etnica», cosicché «l’uomo attico vuole far credere che il ghénos, la stirpe, sia il primo livello di aggregazione comunitaria». E si ricorderanno le famose parole del Menesseno platonico: «Il primo fondamento della loro buona nascita sta nell’origine dei loro antenati, non straniera…».

Nell’Atene di Pericle vediamo insomma una società completamente “anti-democratica” in senso moderno e democratica in senso tradizionale: autarchia economica; gerarchia del rango sociale; privilegio esclusivo dell’appartenenza; solenne culto dei padri e degli eroi; mistica dell’ethnos ereditario; sacralizzazione del suolo patrio; libertà di popolo e non libertà dell’individuo; religione della guerra, dell’onore e del coraggio; culto della bellezza e della sanità psico-fisica; partecipazione totalitaria dei cittadini alla vita pubblica nelle liturgie assembleari; abbattimento del diaframma tra sfera pubblica e privata…e così via. Tutti valori rivendicati da Pericle in persona, in una celebre orazione dell’anno 431.

Quando, ancora oggi, sentiamo ripetere la secolare sciocchezza che Atene sarebbe statala culla della democrazia occidentale”, a stento si può reprimere una risata omerica. Ricordiamo solo le brevi parole di Ambrogio Donini, il famoso studioso di religioni: «La cosiddetta “democrazia greca” è un’invenzione della storiografia idealistico-borghese». Ad Atene, come a Sparta, non si aveva idea di cosa fossero il cosmopolitismo, i diritti individuali, l’eguaglianza universale, il pacifismo, il libertarismo, l’etnopluralismo e tutte le altre devastanti utopie della liberaldemocrazia. Ad Atene, come a Sparta, civiltà significava lotta eterna per difendere la propria identità contro tutte le aggressioni, quelle di fuori come quelle di dentro.

Luca Leonello Rimbotti

mardi, 30 novembre 2010

March on Fiume

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MARCH ON FIUME

Excerpted from Hakim Bey’s T.A.Z. The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism

Ex: http://www.freespeechproject.com/

“To die is not enough.”
— D’Annunzio

When pressed about his political allegiance, Gabriele D’Annunzio (1863-1938) refused to commit himself. “My undertaking may seem rash and alien to my art and style of life,” he wrote to his publisher, “but… people must realise that I am capable of doing anything.” After his election to Italy’s Chamber of Deputies he showed his contempt for the parliamentary circus by rarely attending the sessions, and behaving unpredictably when he did. Nicknamed “the deputy of beauty”, D’Annunzio watched the parliamentary debates as an artist rather than a participant. Originally elected to the Chamber as a ‘rightwing’ nationalist, he had no trouble crossing the floor to vote — and sit with — members of the ‘extreme left’.

Plagued by creditors, D’Annunzio settled in France in 1910 to concentrate on his writing and art. Since the 1890s he had enjoyed mass appeal and on returning to Italy in 1915 he was greeted by some one hundred thousand admirers. A strong supporter of Italy’s involvement in the First World War, D’Annunzio, aged fifty-two, volunteered for active service in the trenches. A daring aviator, he led bombing raids, losing an eye in an aeroplane accident. In a final act of heroism, as the war drew to a close, he flew as far as Vienna and there dropped propaganda pamphlets from his aeroplane.

 At the Peace Conference of 1919, Italy claimed the port of Fiume on the grounds of self-determination. Little aroused the indignation of so many Italians as much as the question of Fiume. The US, Britain and France argued that Fiume be included in Yugoslavia and occupied the port. A group of young army officers begged the war hero D’Annunzio to seize Fiume for Italy. On September 12 he marched from Rome at the head of a thousand black shirted legionaries; the Allied troops withdrew and D’Annunzio, who announced his intention of remaining in the city until it was annexed by Italy, assumed control of the port city as the ‘Commandante’.

 Within a few weeks some seven thousand legionaries and four hundred sailors had joined him. They saw in D’Annunzio a heroic alternative to the sedentary parliamentarians they despised. For them the Commandante’s Fiume became “the symbol of a moral, political and social rejection of the entire established order.” The legionaries called for the freedom of all oppressed people and viewed with interest the Soviet experiment in Russia. They were open to an alliance with the syndicalists, anarchists and Socialists. D’Annunzio established contacts with Sean O’Kelly, the future President of Ireland, who then represented Sinn Fein in Paris; with the Egyptian nationalists; and with the Soviet government. Lenin referred to D’Annunzio as one of the only revolutionaries in Italy.

 In asserting the independence of Fiume, Gabriele D’ Annunzio denounced the big powers, especially British imperialism:

 Fiume is as invincible as she has ever been. True, we may all perish beneath her ruins, but from these same ruins the spirit will rise again strong and vigorous. From the indomitable Sinn Fein of Ireland to the Red Flag which unites cross and crescent in Egypt, rebellions of the spirit, catching fire from our sparks, will burn afresh against the devourers of raw flesh, and the oppressors of unarmed nations. The voracious Empire which has possessed itself of Persia, Mesopotamia, New Arabia and a greater part of Africa, and yet is never satisfied, can, if it so wishes, send its aviator-murderers against us, just as in Egypt it was not ashamed to massacre insurgents, who were armed with nothing more than sticks.”

 Many of D’Annunzio’s emblems were later taken over by Mussolini. The legionaries’ black shirts derived from the tunics of first world war shock troops. Garibaldi, the father of modern Italy, had made all Italians familiar with the idea of a coloured shirt as a symbol of a liberating cause. Even the word Fascio, from which is derived Fascism, meaning “group” or “association” (literally “bundle”), had long been used by the Italian leftwing. In 1872 Garibaldi had founded a Fascio Operaio, and in 1891 an extreme leftwing group was set up known as Fascio dei Lavoratori.

 For fifteen months the Commandante held out against Allied protests and an Italian government blockade. Then on 24 December 1920, “the Christmas of Blood” as D’Annunzio called it, 20,000 troops moved against D’Annunzio’s 3,000.

 While it lasted, the short lived Free State of Fiume, under the direction of Commandante D’Annunzio, stood as a heroic, passionate revolt against mediocrity. For in the words of D’Annunzio:

 “Blessed are the youths who hunger and thirst for glory, for they shall be satisfied.”
Gabriele D’Annunzio

“Everything in life depends upon the eternally new. Man must either renew himself or die.”
— D’Annunzio

 Gabriele D’Annunzio, Decadent poet, artist, musician, aesthete, womanizer, pioneer daredevil aeronautist, black magician, genius and cad, emerged from World War I as a hero with a small army at his beck and command: the “Arditi.” At a loss for adventure, he decided to capture the city of Fiume from Yugoslavia and give it to Italy. After a necromantic ceremony with his mistress in a cemetery in Venice he set out to conquer Fiume, and succeeded without any trouble to speak of. But Italy turned down his generous offer; the Prime Minister called him a fool.

 In a huff, D’Annunzio decided to declare independence and see how long he could get away with it. He and one of his anarchist friends wrote the Constitution, which declared music to be the central principle of the State. The Navy (made up of deserters and Milanese anarchist maritime unionists) named themselves the Uscochi, after the long-vanished pirates who once lived on local offshore islands and preyed on Venetian and Ottoman shipping. The modern Uscochi succeeded in some wild coups: several rich Italian merchant vessels suddenly gave the Republic a future: money in the coffers! Artists, bohemians, adventurers, anarchists (D’Annunzio corresponded with Malatesta), fugitives and Stateless refugees, homosexuals, military dandies (the uniform was black with pirate skull-&-crossbones — later stolen by the SS), and crank reformers of every stripe (including Buddhists, Theosophists and Vedantists) began to show up at Fiume in droves. The party never stopped. Every morning D’Annunzio read poetry and manifestos from his balcony; every evening a concert, then fireworks. This made up the entire activity of the government. Eighteen months later, when the wine and money had run out and the Italian fleet finally showed up and lobbed a few shells at the Municipal Palace, no one had the energy to resist.

 D’Annunzio, like many Italian anarchists, later veered toward fascism — in fact, Mussolini (the ex-Syndicalist) himself seduced the poet along that route. By the time D’Annunzio realized his error it was too late: he was too old and sick. But Il Duce had him killed anyway — pushed off a balcony — and turned him into a “martyr.” As for Fiume, though it lacked the seriousness of the free Ukraine or Barcelona, it can probably teach us more about certain aspects of our quest. It was in some ways the last of the pirate utopias (or the only modern example) — in other ways, perhaps, it was very nearly the first modern TAZ [Temporary Autonomous Zone].

 I believe that if we compare Fiume with the Paris uprising of 1968 (also the Italian urban insurrections of the early seventies), as well as with the American countercultural communes and their anarcho-New Left influences, we should notice certain similarities, such as: — the importance of aesthetic theory (cf. the Situationists) — also, what might be called “pirate economics,” living high off the surplus of social overproduction — even the popularity of colorful military uniforms — and the concept of music as revolutionary social change — and finally their shared air of impermanence, of being ready to move on, shape-shift, re-locate to other universities, mountaintops, ghettos, factories, safe houses, abandoned farms — or even other planes of reality. No one was trying to impose yet another Revolutionary Dictatorship, either at Fiume, Paris, or Millbrook. Either the world would change, or it wouldn’t. Meanwhile keep on the move and live intensely.

lundi, 29 novembre 2010

Greek & Barbarian

Greek & Barbarian

F. Roger DEVLIN

Ex: http://www.counter-currents.com/

The Landmark Herodotus: The Histories
Edited by Robert B. Strassler
New York: Pantheon, 2007

Independent scholar Robert Strassler has produced far and away the best English edition aimed at the general reader of the work which remains the fountainhead of the Western historical tradition. Let us hope there is still a fit audience out there for it—men, that is, capable of learning what Herodotus has to teach. Generations of schoolboys at British public schools, German Gymnasia, and American rural academies once read his Histories to learn who they were—in other words, what it meant to be men of the West.

On a first approach, Herodotus’s great work appears a confusing welter of names, colorful stories, digressions, and miscellaneous ethnographic information. I have taught the work to undergraduates and remember students valiantly struggling to discuss “that one King of Wherever, who was fighting that tribe, whatever they were called . . .” In reality, the narrative is carefully—indeed intricately—structured, but in a manner that only becomes clear after repeated readings. What Strassler has done is provide a wealth of maps, indices, cross references, notes, illustrations, and appendices which reduce the preliminary mental effort required merely to grasp this overall structure. The reader can thus proceed more quickly to genuine historical understanding.

It is remarkable that no one in the small, overspecialized world of academic classical studies has ever bothered to attempt such a project. Strassler himself fetchingly admits: “I am not a scholar of ancient Greek and indeed can barely parse a simple sentence in that language” (xlvi). He commissioned a new translation for this edition by Andrea Purvis of Duke University. It is not “dazzling,” as the publisher’s blurb claims, but perhaps something better: unpretentiously accurate, and less mannered than its nearest competitor, David Grene’s 1987 version.

Herodotus grew up in Halicarnassus, an important trading center on the edge of the Greek world, where Greek and Barbarian came into frequent contact. He traveled widely, visiting Egypt as well as many Greek cities; he interviewed public figures and veterans of the events he recounts and gave public readings of his work, which he called the “Inquiries” (historiē in Greek). His great theme is the contrast between Greek and Barbarian, and more particularly the struggle of Greek freedom with Asiatic despotism. The narrative is designed from the beginning to culminate in a description of the successful Greek struggle to repel the Persian invasions of 490 and 480 BC.

Herodotus, like most ancient writers, was concerned with freedom primarily in a political sense. He says nothing about freedom of commerce or religion or conscience or of individual action. All of these may be fine things, but they are ideals which belong to a later age.

During the Cold War, many were inclined to cite the greater efficiency of the market economy as the fundamental distinguishing trait of the West, proudly pointing to our groaning supermarket shelves and favorably contrasting them with Soviet bread lines. Persons used to this way of viewing matters will be especially liable to a feeling of cognitive dissonance when reading Herodotus, who constantly stresses the wealth of oriental despotisms; whereas “in Hellas,” according to one Greek quoted in the Histories, “poverty is always and forever a native resident” (Book 7: chapter 102).

An especially famous and illustrative story, not less significant for being probably unhistorical, concerns Solon the Athenian lawgiver and Croesus of Lydia (immortalized in the expression “rich as Croesus”). After proudly displaying his wealth to his Athenian visitor, Croesus hopefully asks whether Solon in all his travels has “yet seen anyone who surpasses all others in happiness and prosperity?” Solon disappoints him by naming a number of Greeks who lived in relatively moderate circumstances. Croesus indignantly asks “are you disparaging my happiness as though it were nothing? Do you think me worth less than even a common man?” Solon explains that no judgment can be made while Croesus is still alive, for reversals of fortune are too common. (1:30-32) Croesus eventually attempts to conquer the Persians, but is defeated by them and deprived of his kingdom.

The Asiatics as portrayed by Herodotus might be described, for lack of a better word, as accumulators. This applies no less to political power than to wealth. “We have conquered and made slaves of the Sacae, Indians, Ethiopians, Assyrians, and many other great nations” says one Persian grandee matter of factly, “not because they had committed injustices against Persia, but only to increase our own power through them” (7:8). In other words, they are believers in what a contemporary neoconservative journalist might call “national greatness.” They build larger monuments than the Greeks and undertake vast projects such as diverting rivers. It never seems to occur to them that anything might become too big or too organized. When they attempt the conquest of Greece, Herodotus shows them becoming encumbered by their vast baggage trains, unable to moor their multitude of ships properly in tiny Greek coves—generally crushed beneath their own weight like a beached whale as much as they are defeated by the Hellenic armies.

A related Asiatic trait is a failure to acknowledge human limitations. When Xerxes’ invasion is delayed by stormy weather at the Hellespont, he orders the beachhead scourged and branded. His slaves are instructed to say: “Bitter water, your Master is imposing this penalty upon you for wronging him. King Xerxes will cross you whether you like it or not” (7:35). Similarly, there is no real place in the Asiatic’s thought for death, because it is the ultimate limitation on human planning and power. Xerxes weeps while reviewing his army as it occurs to him that all his men will be dead in a hundred years, but decides he must simply put the matter out of his mind.

The Solonian view of happiness as a life well lived from beginning to end, by contrast, begins with the fundamental fact of human finitude. It is this characteristically Greek view which Aristotle eventually formalized and extended in his discussion of happiness (eudaimonia) in the Nicomachian Ethics, and which has continued to influence the best minds of Christendom to this day. The modern “consumerist” mentality, by contrast, might be understood as a relapse into Asiatic barbarism.

The Persians make efforts to buy off Greek leaders. Herodotus describes the wealth of a Persian Satrap named Hydarnes, and then recounts his advice to some Spartan envoys passing through his province on the way to the Persian capitol:

“Lacedaemonians, why are you trying to avoid becoming the King’s friends? You can see that the King knows how to honor good men when you look at me and the state of my affairs. This could be the same for you if only you would surrender yourselves to the King, since he would surely think you to be good men and allow each of you Greek territory to rule over.” To this they replied, “Hydarnes, you offer us this advice only because you do not have a fair and proper perspective. For you counsel us based on your experience of only one way of life, but you have had no experience of the other: you know well how to be a slave but have not yet experienced freedom, nor have you felt whether it is sweet or not. But if you could try freedom, you would advise us to fight for it, and not only with spears, but with axes!” (7:135)

When the envoys arrive in Susa,

At first the King’s bodyguards ordered them and actually tried to force them to prostrate themselves before the King; but they refused to do so, saying that they would never do that, even if the bodyguards should try to push them down to the ground headfirst, since it was not their custom [nomos] to prostrate themselves before any human being. (7:136)

King Xerxes, by contrast, is a great believer in “leadership:” if he were alive today, one might picture him topping the bestseller lists with books on his “Seven Principles of Effective Leadership.” Before invading Greece, he asks:

How could 1,000 or even 10,000 or 50,000 men, all of them alike being free and lacking one man to rule over them, stand up to an army as great as mine? Now if they were under the rule of one man, as is our way, they would fear that man and be better able, in spite of their natural inclinations, to go out and confront larger forces, despite their being outnumbered, because they would then be compelled by the lash. But they would never dare to do such a thing if they were allowed their freedom! (7:103)

At the Battle of Salamis, he has a throne erected for himself on a prominent hill, convinced that his men will fight best knowing they are under his watchful eye.

Herodotus leaves us in no doubt where he stands on this issue; he relates in his own voice that

the Athenians increased in strength, which demonstrates that an equal voice in government has beneficial impact not merely in one way, but in every way: the Athenians, while ruled by tyrants, were no better in war than any of the peoples living around them, but once they were rid of tyrants, they became by far the best of all. Thus it is clear that they were deliberately slack while repressed, since they were working for a master, but that after they were freed, they became ardently devoted to working hard so as to win achievements for themselves as individuals. (5:78)

This comparative lack of emphasis on leadership does not mean the ancients were egalitarian levelers. All successful enterprises must be organized hierarchically, because this is what allows men to coordinate their efforts. The Greeks, in fact, made a proverb of a line from Homer’s Iliad: “Lordship for many is no good thing; let there be one ruler.” Moreover, they greatly honored men who performed leadership functions successfully.

Public offices were, however, always distinguished from the particular men holding them. They did not regard their magistrates as sacred, and none ever claimed to be descended from Zeus. Aristotle defined political freedom as “ruling and being ruled in turn.” In battle, Greek captains fought in a corner of the phalanx beside their men; they could be difficult for an enemy to distinguish.

What allowed Greeks to combine effective organization with political freedom? Herodotus suggests it was a kind of “rule of law.” As a Greek advisor explains to Xerxes:

Though they are free, they are not free in all respects, for they are actually ruled by a lord and master: law [nomos] is their master, and it is the law that they inwardly fear—much more so than your men fear you. They do whatever it commands, which is always the same: it forbids them to flee from battle, and no matter how many men they are fighting, it orders them to remain in their rank and either prevail or perish. (7:104)

In order to appreciate what is being said here, it is important to understand what is meant by law, or nomos. If it were possible to make intelligible to Herodotus such modern legal phenomena as executive orders, Supreme Court decrees, or annually updated administrative regulations, it is more than doubtful whether he would have considered them examples of nomos. These are simply instruments of power, not much different from what existed in the Persian Empire or any despotism. A “rule of law” in this sense makes no particular contribution to freedom. In fact, much of the West’s current predicament results from our traditional respect for law being converted into a weapon against us, rendering us subject to a regime of arbitrary commands disguised as “law” and concocted by an irresponsible power elite hostile to our interests.

It is essential to nomos that it be superpersonal. Often the word can be translated “custom,” which helps one understand that it cannot be decreed by any man, whether King or Hellenic magistrate. Freedom under nomos is not lack of a master, as Herodotus makes clear, but the capacity for self-mastery. In battle, it extends even to the point of demanding total self-sacrifice.

This helps to explain why wealth is dangerous to freedom; the man who becomes used to gratifying his desires comes to be ruled by desire and loses his capacity for self-mastery and sacrifice. When an earlier King of Persia is threatened by rebellion, Herodotus shows him being advised as follows:

Prohibit them from possessing weapons of war, order them to wear tunics under their cloaks and soft boots, instruct them to play the lyre and the harp, and tell them to educate their sons to be shopkeepers. If you do this, sire, you will soon see that they will become women instead of men and thus will pose no danger or threat to you of any future rebellion. (1:155)

The limitations of the Asiatic leadership principle become evident when an Asiatic army loses its leader. It is liable to cease being an army—to become a rabble, a mob of individuals incapable of organization or initiative. A famous episode from later Greek history makes clear how the Greek way was different: In 401 BC, about a generation after Herodotus’ death, an army of ten thousand Greek mercenaries marched into the heart of the Persian Empire in support of a rival candidate for the Imperial title. Their leader was killed in battle and they were stranded hundreds of miles deep in hostile territory. A Persian representative came to accept their surrender and collect their weapons, and was flummoxed to learn the Greeks had no intention of handing any weapons over. Instead, they simply met in assembly and elected a new leader for themselves—exactly as they were accustomed to do in the political assembles of their home cities. They proceeded to fight their way back to Greece with most of them surviving, and the entire might of the Persian Empire was insufficient to stop them. It is safe to say that no Persian army could have equaled the feat.

This spirit of independence and self-reliance did not last forever. The Greek cities wore out their strength through decades of fighting with one another. In 338, they finally fell to Philip, King of Macedon. By 291, Athenians were celebrating the triumphal return of a Macedonian general to their city in hymns describing him as a “living god.” He used the Parthenon to house his harem. Economic historians tell us that the overall Greek standard of living was higher in this later age, however.

Today we see a traitorous leadership consciously abandons our heritage of freedom to a barbarism worse than Persian, buying us off with the bread and circuses of television, shopping malls, and tax subsidies for collaborators, punishing the few who offer even verbal resistance. The reader who still has a mind to do something about this situation might find some lessons in the pages of Herodotus. He would be well advised to take a little time from our current plight to reacquaint himself with what Western man has been.

TOQ Online, April 19, 2009

The Doctrine of Higher Forms

The Doctrine of Higher Forms

Sir Oswald MOSLEY

Ex: http://www.counter-currents.com/

1311427.jpgSince the war I have stressed altogether five main objectives. The true union of Europe; the union of government with science; the power of government to act rapidly and decisively, subject to parliamentary control; the effective leadership of government to solve the economic problem by use of the wage-price mechanism at the two key-points of the modern industrial world; and a clearly defined purpose for a movement of humanity to ever higher forms.

It is strange that in this last sphere of almost abstract thought my ideas have more attracted some of the young minds I value than my practical proposals in economics and politics. The reason is perhaps that people seek the ideal rather than the practical during a period in which such action is not felt to be necessary. This is encouraging for an ultimate future, in which through science the world can become free from the gnawing anxiety of material things and can turn to thinking which elevates and to beauty which inspires, but the hard fact is that many practical problems and menacing dangers must first be faced and overcome.

The thesis of higher forms was preceded by a fundamental challenge to the widely accepted claim of the communists that history is on their side. On the contrary, they are permanent prisoners of a transient phase in the human advance which modern science has rendered entirely obsolete. Not only is the primitive brutality of their method only possible in a backward country, but their whole thinking is only applicable to a primitive community. Both their economic thinking and their materialist conception of history belong exclusively to the nineteenth century. This thinking, still imprisoned in a temporary limitation, we challenge with thinking derived from the whole of European history and from the yet longer trend revealed by modern science. We challenge the idea of the nineteenth century with the idea of the twentieth century.

Communism is still held fast by the long obsolete doctrine of its origin, precisely because it is a material creed which recognizes nothing beyond such motives and the urge to satisfy such needs. Yet modern man has surpassed that condition as surely as the jet aircraft in action has overcome the natural law of gravity which Newton discovered. The same urge of man’s spiritual nature served by his continually developing science can inspire him to ever greater achievement and raise him to ever further heights.

The challenge to communist materialism was stated as follows in Europe: Faith and Plan:

What then, is the purpose of it all? Is it just material achievement? Will the whole urge be satisfied when everyone has plenty to eat and drink, every possible assurance against sickness and old age, a house, a television set, and a long seaside holiday each year? What other end can a communist civilization hold in prospect except this, which modern science can so easily satisfy within the next few years?

If you begin with the belief that all history can be interpreted only in material terms, and that any spiritual purpose is a trick and a delusion, which has the simple object of distracting the workers from their material aim of improving their conditions—the only reality—what end can there be even after every conceivable success, except the satisfaction of further material desires? When all the basic needs and wants are sated by the output of the new science, what further aim can there be but the devising of ever more fantastic amusements to titillate material appetites? If Soviet civilization achieves its furthest ambitions, is the end to be sputnik races round the stars to relieve the tedium of being a communist?

Communism is a limited creed, and its limitations are inevitable. If the original impulse is envy, malice, and hatred against someone who has something you have not got, you are inevitably limited by the whole impulse to which you owe the origin of your faith and movement. That initial emotion may be well founded, may be based on justice, on indignation against the vile treatment of the workers in the early days of the industrial revolution. But if you hold that creed, you carry within yourself your own prison walls, because any escape from that origin seems to lead towards the hated shape of the man who once had something you had not got; anything above or beyond yourself is bad. In reality, he may be far from being a higher form; he may be a most decadent product of an easy living which he was incapable of using even for self-development, an ignoble example of missed opportunity. But if the first impulse be envy and hatred of him, you are inhibited from any movement beyond yourself for fear of becoming like him, the man who had something which you had not got.

Thus your ideal becomes not something beyond yourself, still less beyond anything which now exists, but rather, the petrified, fossilized shape of that section of the community which was most oppressed, suffering, and limited by every material circumstance in the middle of the nineteenth century. The real urge is then to drag everything down toward the lowest level of life, rather than the attempt to raise everything towards the highest level of life which has yet been attained, and finally to move beyond even that. In all things this system of values seeks what is low instead of what is high.

So communism has no longer any deep appeal to the sane, sensible mass of the European workers who, in entire contradiction of Marxian belief in their increasing “immiseration,” have moved by the effort of their own trade unions and by political action to at least a partial participation in the plenty which the new science is beginning to bring, and towards a way of living and an outlook in which they do not recognize themselves at all as the miserable and oppressed figures of communism’s original workers.

The ideal is no longer the martyred form of the oppressed, but the beginning of a higher form. Men are beginning not to look down, but to look up. And it is precisely at this point that a new way of political thinking can give definite shape to what many are beginning to feel is a new forward urge of humanity. It becomes an impulse of nature itself directly man is free from the stifling oppression of dire, primitive need.

The ideal of creating a higher form on earth can now rise before men with the power of a spiritual purpose, which is not simply a philosophic abstraction but a concrete expression of a deep human desire. All men want their children to live better than they have lived, just as they have tried by their own exertions to lift themselves beyond the level of their fathers whose affection and sacrifice often gave them the chance to do it. This is a right and natural urge in mankind, and, when fully understood, becomes a spiritual purpose.

venus_milo_ac-grenoble.jpgThis purpose I described as the doctrine of higher forms. The idea of a continual movement of humanity from the amoeba to modern man and on to ever higher forms has interested me since my prison days, when I first became acutely aware of the relationship between modern science and Greek philosophy. Perhaps it is the very simplicity of the thesis which gives it strength; mankind moving from the primitive beginning which modern science reveals to the present stage of evolution and continuing in this long ascent to heights beyond our present vision, if the urge of nature and the purpose of life are to be fulfilled. While simple to the point of the obvious, in detailed analysis it is the exact opposite of prevailing values. Most great impulses of life are in essence simple, however complex their origin. An idea may be derived from three thousand years of European thought and action, and yet be stated in a way that all men can understand.

My thinking on this subject was finally reduced to the extreme of simplicity in the conclusion of Europe, Faith and Plan:

To believe that the purpose of life is a movement from lower to higher forms is to record an observable fact. If we reject that fact, we reject every finding of modern science, as well as the evidence of our own eyes. . . . It is necessary to believe that this is the purpose of life, because we can observe that this is the way the world works, whether we believe in divine purpose or not. And once we believe this is the way the world works, and deduce from the long record that it is the only way it can work, this becomes a purpose because it is the only means by which the world is likely to work in future. If the purpose fails, the world fails.

The purpose so far has achieved the most incredible results—incredible to anyone who had been told in advance what was going to happen—by working from the most primitive life forms to the relative heights of present human development. Purpose becomes, therefore, quite clearly in the light of modern knowledge a movement from lower to higher forms. And if purpose in this way has moved so far and achieved so much, it is only reasonable to assume that it will so continue if it continues at all; if the world lasts. Therefore, if we desire to sustain human existence, if we believe in mankind’s origin which science now makes clear, and in his destiny which a continuance of the same progress makes possible, we must desire to aid rather than to impede the discernible purpose. That means we should serve the purpose which moves from lower to higher forms; this becomes our creed of life. Our life is dedicated to the purpose.

In practical terms this surely indicates that we should not tell men to be content with themselves as they are, but should urge them to strive to become something beyond themselves. . . . To assure men that we have no need to surpass ourselves, and thereby to imply that men are perfect, is surely the extreme of arrogant presumption. It is also a most dangerous folly, because it is rapidly becoming clear that if mankind’s moral nature and spiritual stature cannot increase more commensurately with his material achievements, we risk the death of the world. . . .

We must learn to live, as well as to do. We must restore harmony with life, and recognize the purpose in life. Man has released the forces of nature just as he has become separated from nature; this is a mortal danger, and is reflected in the neurosis of the age. We cannot stay just where we are; it is an uneasy, perilous and impossible situation. Man must either reach beyond his present self, or fail; and if he fails this time, the failure is final. That is the basic difference between this age and all previous periods. It was never before possible for this failure of men to bring the world to an end.

It is not only a reasonable aim to strive for a higher form among men; it is a creed with the strength of a religious conviction. It is not only a plain necessity of the new age of science which the genius of man’s mind has brought; it is in accordance with the long process of nature within which we may read the purpose of the world. And it is no small and selfish aim, for we work not only for ourselves but for a time to come. The long striving of our lives can not only save our present civilization, but can also enable others more fully to realize and to enjoy the great beauty of this world, not only in peace and happiness, but in an ever unfolding wisdom and rising consciousness of the mission of man.

The doctrine of higher forms may have appealed to some in a generation acutely aware of the divorce between religion and science because it was an attempted synthesis of these two impulses of the human movement. I went so far as to say that higher forms could have the force of a science and a religion, in the secular sense, since it derived both from the evolutionary process first recognized in the last century, and from the philosophy, perhaps the mysticism, well described as the ‘eternal becoming’, which Hellenism first gave to Europe as an original and continuing movement still represented in the thinking, architecture and music of the main European tradition.

To simplify and synthesize are the chief gifts which clear thought can bring, and never have they been so deeply needed as in this age. A healing synthesis is required, a union of Hellenism’s calm but radiant embrace of the beauty and wonder of life with the Gothic impulse of new discoveries urging man to reach beyond his presently precarious balance until sanity itself is threatened. The genius of Hellas can still give back to Europe the life equilibrium, the firm foundation from which science can grasp the stars. He who can combine within himself this sanity and this dynamism becomes thereby a higher form, and beyond him can be an ascent revealing always a further wisdom and beauty. It is a personal ideal for which all can try to live, a purpose in life.

We can thus resume the journey to further summits of the human spirit with measure and moderation won from the struggle and tribulation of these years. We may even in this time of folly and sequent adversity gain the balance of maturity which alone can make us worthy of the treasures, capable of using the miraculous endowment, and also of averting the tempestuous dangers, of modern science. We may at last acquire the adult mind, without which the world cannot survive, and learn to use with wisdom and decision the wonders of this age.

I hope that this record of my own small part in these great affairs and still greater possibilities has at least shown that I have ‘the repugnance to mean and cruel dealings’ which the wise old man ascribed to me so long ago, and yet have attempted by some union of mind and will to combine thought and deed; that I have stood with consistency for the construction of a worthy dwelling for humanity, and at all cost against the rage and folly of insensate and purposeless destruction; that I have followed the truth as I saw it, wherever that service led me, and have ventured to look and strive through the dark to a future that can make all worth while.

Source: http://www.oswaldmosley.com/higher-forms.htm

samedi, 27 novembre 2010

Quel "Terzo Regno" del socialismo nazionale europeo

Quel “Terzo Regno” del socialismo nazionale europeo

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Ex : http://www.centrostudilaruna.it/

moeller.jpgArthur Moeller van den Bruck fu uno dei più alti risultati ideologici conseguiti dallo sforzo europeo di uscire dalle contraddizioni e dai disastri della modernità: fu uno dei primi a politicizzare il disagio della nostra civiltà di fronte all’affermazione mondiale del liberalismo e all’ascesa della nuova anti-Europa, come fin da subito fu giudicata l’America dai nostri migliori osservatori. Di qui una netta separazione del concetto di Occidente da quello di Europa. Il rifiuto dell’Occidente capitalista e della sua violenta deriva antipopolare doveva condurre in linea retta ad una rivoluzione dei popoli europei, ad un loro ringiovanimento, al loro rilancio come vere democrazie organiche di popolo. Come tanti altri ingegni dei primi decenni del Novecento, anche Moeller vide subito chiaro ciò che ancora oggi molti nostri contemporanei non riescono a distinguere: la perniciosità del liberalismo, la mortifera distruttività delle tecnocrazie capitaliste, l’inganno di fondo che dava e dà sostanza a quel centro di decomposizione mondiale, che già allora erano gli USA: falsa democrazia, impero della Borsa, libertà sì, ma unicamente per il dominio delle sette affaristiche.

In una parola, per chiunque avesse occhi per vedere, era evidente che un trucco liberale stava per gettare sui popoli del mondo la sua rete di potere, gestita da minoranze snazionalizzate e apolidi: “L’appello al popolo – scrisse Moeller ne Il terzo Reich, il suo libro più famoso, pubblicato nel 1923 – serve alla società liberale soltanto per sentirsi autorizzata ad esercitare il proprio arbitrio. Il liberale ha utilizzato e diffuso lo slogan della democrazia per difendere i suoi privilegi servendosi delle masse”. Chiaro come il sole! Ottant’anni fa, e con tanta maggiore profondità di analisi politica degli odierni cosiddetti no-global, ci fu qualcuno che centrò in pieno l’obiettivo politico, segnalando con forza quale razza di tarlo stesse corrodendo dall’interno la nostra civiltà … ben più lucidamente di tante “sinistre” – ma anche di tante “destre”… – di allora come di oggi, antagoniste di nome ma complici di fatto.

Il disegno politico di Moeller era preciso: instaurazione di un socialismo conservatore; edificazione di una comunità solidale fortemente connotata dai valori nazionali; avvento di una “democrazia elitaria e organicista”: il tutto, inserito in un quadro di ripresa del ruolo mondiale dell’Europa, gettando uno sguardo di simpatia verso la Russia, il cui bolscevismo Moeller – che fin da giovane fu ammiratore della cultura russa e di Dostoewskij in particolare – giudicava passibile di volgersi prima o poi in un sano socialismo nazionale. Era, questa, l’impostazione generale di quel movimento degli Jungkonservativen che faceva parte della più vasta galassia della Rivoluzione Conservatrice, la dinamica risposta tedesca alla sconfitta del 1918 e alle insidie della moderna tecnocrazia cosmopolita, da cui prese corpo infine il rovesciamento nazionalsocialista.

Il senso ultimo del messaggio ideologico di Moeller è dunque duplice: da un lato, denuncia del dominio dell’economia sulla politica, per cui in Occidente, come egli scrisse, “il rivolgere l’attenzione alla fluttuazione del denaro ha sostituito la preghiera quotidiana”; dall’altro lato, fortissimo impulso alla ripresa della nazione, da incardinarsi su quel moderno corporativismo antiparlamentare in cui lo scrittore tedesco vedeva la vera rappresentanza del popolo, la vera partecipazione alla “comunità di lavoro”. L’occasione di una rinnovata riflessione sul pensiero antagonista di Moeller viene adesso offerta dal libro di A. Giuseppe Balistreri, Filosofia della konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck (edizione Lampi di Stampa, Milano 2004). Un testo da cui si ricava, ancora una volta e supportata da una preziosa mole di riferimenti scientifici, l’importanza di un progetto politico che non si estingue nella circostanza storica in cui l’autore visse – la Germania guglielmina e poi quella weimariana – ma si presenta a tutt’oggi con la freschezza di un referente politico attualissimo, reso anzi ancora più immediato dal crescente tracollo che negli ultimi decenni ha investito il concetto europeo di nazione sociale.

Moeller ebbe la capacità di risvegliare un sistema ideologico – il socialismo antimarxista – e di collocarlo a fianco del valore-nazione, così da presentare alle masse, stordite dalla doppia aggressione del bolscevismo e del liberalismo capitalista, un modello politico che, se da un lato intendeva rinnovare la società, dall’altro mostrava di volerlo fare senza distruggere i patrimoni di cultura, di socialità e di tradizione comunitaria che l’Europa aveva costruito in secoli di lotte. Tutto questo venne racchiuso dal termine terzo Reich: un’evocazione politica che portava in sé anche una volontà di rigenerazione morale, di rivincita religiosa sul materialismo, e che nascondeva l’antico sogno del millenarismo. Da Gioacchino da Fiore in poi, il “terzo regno” significò aspettativa, non solo religiosa ma anche politica, di un mondo finalmente giusto. Era dunque un mito. E Moeller reinterpretò questo mito in chiave ideologica, mettendolo a disposizione delle masse. Come scrive Balistreri, “il terzo Reich è un mito soreliano”. Questo mito soreliano di attivizzazione del popolo fu infine organizzato politicamente dal Nazionalsocialismo il quale, se non coincise con l’elitarismo e l’impoliticità della Rivoluzione Conservatrice, ne tradusse le istanze teoriche in decisioni politiche, trasformando l’ideologia culturale in politica quotidiana di massa.

Certo, il conservatorismo di Moeller, il suo disegno di una società “dei ceti”, secondo una concezione corporativa conservatrice, rientrava in una tradizione tedesca – quella della Körperschaft, la “comunità dei ranghi sociali” – che esisteva fin dal prussianesimo ottocentesco. E tuttavia la novità del terzo Reich moelleriano consiste nell’abbinare questa tradizione con le esigenze della moderna società di massa. E’ su questo punto che il vecchio conservatorismo doveva diventare il nuovo socialismo. Questo socialismo, come scrive Balistreri riassumendo la concezione moelleriana, “ristabilirà la democrazia nazionale di stampo tedesco, bandendo il liberalismo, il parlamentarismo e il sistema dei partiti, creerà la Volksgemeischaft che si costituirà secondo l’idea dell’articolazione per ceti e corporazioni, e si reggerà in base al Führergedanke“. Moeller aveva compreso che al tentativo di una piccola minoranza di internazionalisti liberali di condurre le nazioni alla sparizione nella “globalità”, si risponde con la nascita di un socialismo dei popoli.

* * *

Tratto da Linea del 12 settembre 2004.

Giuseppe A. Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck

vendredi, 26 novembre 2010

El Reich neoconservador de Edgar J. Jung

EL REICH NEOCONSERVADOR DE EDGAR J. JUNG

Alexander Jacob
 
 
El movimiento neo-conservador en la República de Weimar fue una empresa política elitista que pretendía devolver a Alemania a su mundo espiritual original y posición como líder del Sacro Imperio Romano-Germánico medieval de la nación alemana. Constituido por intelectuales como Oswald Spengler, Arthur Moeller van den Bruck, y Edgar Julius Jung, los neo-conservadores estaban destinados a destruir la situación socio-política y ética de la República de Weimar liberal que se había impuesto a Alemania por sus enemigos. La mayoría de los neo-conservadores eran miembros de los clubes de élite de la época, el Juniklub, fundada por Moeller van den Bruck, y su sucesor, el Herrenklub, y se oponían tanto a todos los populistas de los sistemas democráticos liberales.
De los neo-conservadores, tal vez el más influyente teórico y activista político fue, sin duda, el abogado de Munich, Edgar Julio Jung. Jung no era solamente un pensador y propagandista, sino también un político activo en la República de Weimar, después de haber comenzado su carrera política al mismo tiempo que su práctica jurídica poco después de la primera Guerra Mundial. Jung nació en 1894 en el Palatinado bávaro y sirvió como voluntario en la guerra. Después de la guerra, se unió a una unidad del Cuerpo Libre y participó en la liberación de Munich de la República Soviética de Baviera en la primavera de 1919. Antes de la ocupación franco-belga del Ruhr (1923-25), Jung había terminado su doctorado en Derecho y comenzó la práctica en Zweibrücken. Sus actividades políticas durante este tiempo incluyen la organización de la resistencia y de las actividades terroristas contra la ocupación del Ruhr, formando parte del directorio del Deutsche Volkspartei.
Después de la crisis del Ruhr, Jung se estableció como abogado en Munich, donde vivió hasta su muerte. Jung adquirió fama a través de su política de varios escritos en el Deutsche Rundschau, y su tratado político más importante, Die Herrschaft der Minderwertigen (segunda edición, 1929, 30), que, según Jean Neuhrohr, fue considerado como una especie de "biblia del neo- conservadurismo".
En enero de 1930, Jung se unió a la Volkskonservative Vereinigung, un partido de extrema derecha formado inicialmente por doce diputados del Reichstag, que se habían separado de la Volkspartei Deutschnationale dirigido por Alfred Hugenberg. La actitud de Jung frente al Partido Socialista Nacional de Hitler era tibia, a pesar de su admiración por las "energías positivas" del movimiento. Hitler se había postulado a la nación como un ídolo para hipnotizar a las masas ignorantes, mientras que un cierto movimiento conservador trataba de elevar a las masas mediante la invocación de la santificación de su liderazgo. Los partidos de extrema derecha sin embargo estaban demasiado divididos para formar una alternativa sólida a las fuerzas nacionalistas, especialmente después de una segunda secesión de la DNV, que creó otro partido escindido, el Volkspartei Konservative.
El intento de Jung para imponer su propia marca de 'conservadurismo revolucionario' en la VKV se reunió con poco éxito, y cuando la DNV y KVP unieron fuerzas en diciembre de 1930 la dirección de la nueva coalición fue entregada no a Jung, pero sí a Pablo Lejeune-Jung. En enero del año siguiente, Jung y algunos de los conservadores de Baviera formaron la «Bewegung zu Volkskonservative Bewegung deutscher 'como una política de origen"para todos aquellos que, al margen de las consignas y las fórmulas mágicas de la vida política partidaria, estaban dispuestos a mirar los problemas políticos contemporáneos desde la perspectiva exclusiva de la misión histórica del pueblo alemán".
Sin embargo, la negativa de Jung a cooperar con los conservadores más moderados como Heinrich Brüning y los recursos de Treviranus, a fin de promover su propia marca de conservadurismo revolucionario, no ayudó a su movimiento, que había perdido casi toda la fuerza política en la primavera de 1931. La carencia de entusiasmo de Jung por el canciller Brüning fue explicada por él en un borrador de una carta a Pechel de fecha 14 de agosto 1931:
"Sólo cuando el gobierno está en camino de volver al concepto de autoridad y se libera de la esterilidad del parlamentarismo alemán, puede que estas fuerzas se pongan al servicio de la nación en su conjunto. En la reorganización del gabinete, el objetivo debe ser el abandono total de su base del partido. No es la aprobación de las partes, pero la práctica y la competencia profesional deben determinar la selección de aquellos a quienes usted, canciller respetado, tendrán que ayudarle en el dominio de estas tareas difíciles."
Cuando Hitler y el Partido Nacional Socialista obtuveron las victorias masivas en la región y las elecciones estatales del 24 de abril de 1932, Jung dio la bienvenida a la realidad jurídica de la adhesión de los nazis al poder. Porque, aunque Jung estaba temeroso de las tendencias extremistas de los nazis, esperaba que con este proceso legal, se evitaría la debacle de un ataque forzoso a la voluntad política mayoritaria. Además, la marea de entusiasmo nazi en el país era imparable y la alianza conservadora se vió impotente cuando el NSDAP obtuvo una resonante victoria en las elecciones del Reichstag de noviembre de 1932. Jung quedó naturalmente sorprendido cuando Hitler astutamente unió fuerzas con el conservador Von Papen para formar un gobierno de coalición en enero de 1933. Jung siempre mantuvo una actitud de superioridad con el populismo de Hitler, y creía que, puesto que los conservadores eran "responsables de que este hombre llegase al poder, ahora tenemos que deshacernos de él".
Así que, cuando Franz von Papen fue nombrado vicecanciller de Brüning, en 1933, Jung escribió a Papen que ofrecía sus servicios como escritor de discursos y asesor intelectual. Por consejo de su estrecho colaborador, Hans Haumann, Papen invitó a Jung a unirse con su gobierno en una organización con capacidad de asesoramiento. La intención de Jung en el servicio a la administración de Papen fue "para proteger [a Papen] con una pared de los conservadores" que proporcionaría el rector un enriquecimiento moral necesario frente a un rápido ascenso de Hitler al poder. Con la esperanza de frenar el extremismo de Hitler con su ideología conservadora, Jung se destacó como redactor de los discursos para Papen, cuando éste, Hugenberg y Seldte Franz de la Stalhelm se unieron para formar el conservador Kampfront Schwarz-Rot-Weiss. Sus discursos fueron diseñados para impresionar a la nueva coalición de fuerzas de extrema derecha con un sello conservador en lugar del extremista nazi. Jung defendió el gobierno de Papen contra los nazis "de las acusaciones de reaccionarios”, haciendo hincapié en el carácter revolucionario de la nueva derecha y poniendo de relieve lo espiritual y los defectos ideológicos de Hitler y su partido.
Mientras Papen trataba de luchar contra el movimiento nazi desde un punto de vista conservador, Jung escribió una crítica del fenómeno nazi en su Sinndeutung der deutschen Revolución (1933), en el que reiteró sus acusaciones de neoliberalismo y democratismo, al tiempo que destacaba que "el objetivo de la nacional-revolución tiene que ser la despolitización de las masas y su exclusión de la dirección del Estado".
Jung llama a un nuevo estado basado en la religión y en el mundo visto universalmente. No las masas, sino una nueva nobleza, o una élite auto-consciente, debe informar al nuevo gobierno, y el cristianismo debe ser la fuerza moral en el estado. La propia sociedad debe ser organizada jerárquicamente y más allá de los límites del nacionalismo, a pesar de que debe basarse en "una base völkisch indestructible”. La referencia a ir más allá de los límites del nacionalismo fue, por supuesto, motivada por su deseo de restituir un Reich federalista europeo. El conservadurismo de Jung se distinguió también por su llamamiento para la creación de una monarquía electiva y el nombramiento de un regente imperial como el director espiritual del nuevo Reich europeo-germánico. Sin embargo, tanto el proyecto de Reich como el énfasis puesto en las asociaciones völkisch, se llevaron a cabo de forma más dramática y temeraria por Hitler que por cualquiera de los líderes conservadores.
La oposición de Jung a Hitler tomó una forma más concreta a principios de 1934, cuando emprendió numerosos viajes por toda Alemania para desarrollar una red de simpatizantes conservadores que ayudasen a derrocar el régimen de Hitler. El propio Papen no estaba al tanto de los esfuerzos de Jung en esta dirección y la asistencia de Jung vino de Herbert von Bose, Günther von Tschirschky y Ketteler. Jung incluso contemplaba personalmente asesinar a Hitler, a pesar de los temores de que esta acción drástica podría descalificarlo para asumir un papel protagonista en la nueva dirección. Después adoptó la alternativa académica de escribir otro discurso para Papen, última entrega que se desarrolló en la Universidad de Marburg el 17 de junio de 1934. Los repetidos ataques sobre la ilegitimidad del régimen de Hitler y los fracasos políticos de este régimen en este discurso, obligaron a Hitler, bajo el consejo de Goering, Himmler y Heydrich, su asistente, para deshacerse de la amenaza planteada por Jung. Así, junto con Röhm y los oficiales SA, que se había convertido en rebeldes para los nazis, Jung perdió la vida en la "Noche de los cuchillos largos", el 30 de junio de 1934.
Retrospectivamente, podemos considerar la carrera política de Jung como ambivalente. Motivado por un lado, por su filosofía y la visión de un Reich alemán neo-medieval que debía destruir el sistema parlamentario nocivo de los liberales, la oposición de Jung a Hitler y su negativa a comprometerse con sus compañeros conservadores de la derecha fueron, claramente, impulsados por su ambición personal y, tal vez incluso, por la envidia de los éxitos políticos de Hitler. De hecho, el proyecto conservador propuesto por Jung difería de un extremista como Hitler sólo en grado y no en especie. La comunidad en que Jung deseaba convertir al pueblo alemán, en realidad se presentaba, de una forma similar a la diseñada por de Hitler, como un gigantesco movimiento de masas. Por supuesto, este populismo carecía de la sustancia espiritual que Jung había estipulado para la comunidad, pero los nazis, al menos, podían argumentar que fueron ellos los que sentaron las bases völkisch necesarias para una cultura espiritual uniforme. Además, la dramática política extranjera de Hitler, después de la muerte de Jung, en realidad se parecía demasiado al imperialismo cultural propuesto por Jung para el Reich alemán que debía liderar al resto de Europa.

jeudi, 25 novembre 2010

Cercle Aristote: l'amitié franco-russe - passé, présent, avenir

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LE CERCLE ARISTOTE

vous invite à un colloque sur le thème


« L'amitié franco-russe: passé, présent, avenir »


La manifestation se déroulera à L’INSTITUT DE LA DÉMOCRATIE ET DE LA COOPÉRATION, 63 bis, rue de Varenne, 75007 PARIS

le 3 décembre 2010, de 10 h 00 à 19 h 00.


Programme:

10h – 10h30 : Pierre-Yves ROUGEYRON, président du Cercle :  Introduction. 

10h30 – 11h30 : Valérie HALLEREAU, universitaire : « La réception de l’œuvre d'Alexandre Soljenitsyne en France ».

11h30 – 12h30 : Viatcheslav AVIOUTSKIY, docteur en géopolitique: «La diarchie au sommet du pouvoir russe ». 

PAUSE DEJEUNER

13h30 – 14h30 : Xavier MOREAU, Courrier de Russie: «Histoire et géopolitique franco-russe ».

14h30 – 15h30 : Marc ROUSSET, ancien directeur général d’entreprise: « L'axe Paris-Berlin-Moscou ».

15h30 – 16h30 : Ekaterina NAROTCHNITSKAÏA, Directrice du Département 'Europe et Amérique' au sein de l’Institut de l’Information scientifique en Sciences Sociales, Académie Russe des Sciences, Moscou : «Politiques et perceptions franco-russes ».

16h30 – 17h30 : Romain BESSONNET, Cercle Aristote : « La russophobie dans les médias français ».

17h30 – 18h30 : David MASCRÉ, docteur en mathématiques et en philosophie : « L’actualité de l’alliance franco-russe ».

18h30 – 19h : John LAUGHLAND, Directeur des Etudes de l’IDC: Conclusion générale.


Inscription obligatoire.  Veuillez confirmer votre présence en écrivant à romain.bessonnet@sfr.fr

 

mercredi, 24 novembre 2010

39-45: les dossiers oubliés, retour sur les crimes soviétiques et américains

39-45 : les dossiers oubliés - retour sur les crimes soviétiques et américains

VARSOVIE (NOVOpress) – Boguslaw Woloszanski, journaliste polonais, continue dans son nouvel ouvrage, 39-45 : les dossiers oubliés, aux Editions Jourdan, d’explorer les faces méconnues de la Seconde Guerre mondiale, sur la base notamment de la récente ouverture des archives de l’ex-Union Soviétique.

Le premier chapitre du livre est d’ailleurs consacré aux manœuvres de l’un des plus grands criminels de l’histoire du XXème siècle : Joseph Staline. Où comment l’ami de Lénine [1] liquida en 1937 le chef de son armée, Mikhaïl Nikolaïevitch Toukhatchevski, danger pour son pouvoir absolu, avec l’aide… du régime hitlérien, trop heureux de priver l’Armée Rouge de son officier le plus talentueux.

Boguslaw Woloszanski rappelle aussi les coups tordus perpétrés par les démocraties occidentales durant ce conflit qui saigna à blanc le continent européen. L’auteur souligne pourquoi des centaines de Canadiens furent sacrifiés à Dieppe le 19 août 1942 alors que seulement 50 Américains débarquèrent sur le sol normand ce jour là.

Les Etats-Unis mirent le paquet en revanche pour s’attaquer à des cibles non militaires. Boguslaw Woloszanski revient sur les raids aériens américains sur Tokyo [2] en 1945. Celui du 9 au 10 mars fut le plus meurtrier des bombardements de la Seconde Guerre mondiale : 100 000 victimes, pour la plupart brûlées vives. Il dépassa en nombre de victimes les bombardements d’Hambourg en juillet 1943 ou de Dresde en février 1945 [3]. Au cours des sept derniers mois de cette campagne, ce type d’actions a provoqué la destruction de 67 grandes villes japonaises, causant plus de 500 000 morts et quelque 5 millions de sans abri. Pourtant, aucun général américain ne fut traduit devant un tribunal international pour ces crimes de guerre.


[cc [4]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[http://fr.novopress.info [5]]


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

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[1] l’ami de Lénine: http://fr.novopress.info/16199/russie-une-statue-de-lenine-dynamitee-a-saint-petersbourg/

[2] raids aériens américains sur Tokyo: http://les3abeilles.lefora.com/2010/09/23/les-bombardements-sur-tokyo-2/

[3] Dresde en février 1945: http://fr.novopress.info/466/dresde/

[4] cc: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[5] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info

The Tyrant who is Obama's Role Model

 

discours-de-lincoln.jpg

The Tyrant who is Obama's Role Model

Jan von FLOCKEN

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

When Barack Obama was officially inaugurated as President of the United States, the ceremony was charged with symbolism. The figure of Abraham Lincoln, assassinated in 1865, seemed omnipresent. Remember that 2009 is the 200th anniversary of the birth of Lincoln, who has become a kind of patron saint of Western democracy. Obama was not merely content to retrace Lincoln’s route, in the spring of 1861, departing from Philadelphia, passing through Baltimore, to arrive at the White House in Washinghton D.C. When he took the oath of office, Obama also insisted on placing his hand on the 156 year old velvet-covered Bible that “Old Abe” had used, swearing “to preserve, protect and defend the Constitution of the United States.”

No one, though, has violated the Constitution more than Lincoln . . .

These attempts to draw parallels between the legendary statesman and the young president who is now America’s new hope, inadvertently stirred up all sorts of uncomfortable memories. Indeed, no President of the United States in the last 220 years has violated the Constitution and suppressed the basic rights of citizens more than Lincoln. His mandate was deployed under the bloody banner of a civil war between the Northern and Southern states. The latter left the Union in 1860–61 and founded their own state, the Confederacy. The American Constitution by no means prohibited secession of this type since it was only in 1868 that the Supreme Court ruled to the contrary. Initially, the two parties accepted the secession of the South. Thus it was that Horace Greeley, the influential editor of the New York Tribune and political friend of Lincoln, wrote in his newspaper, on November 9th, 1860: “I hope we will never have to live in a Republic maintained by bayonets.”

But it was these very bayonets that Lincoln used shortly after taking office. He seized the first excuse he found: in fact, an exchange of fire around Fort Sumter, which actually belonged to the Confederacy. This incident, which caused only some slight injuries, was used as pretext for a de facto declaration of war against the South, namely an appeal for 75,000 volunteers on April 15th, 1861. Lincoln then ordered an economic embargo against the Confederacy. The appeal and embargo were two serious political errors because they prompted the immediate secession of four hitherto neutral states: Virginia, Arkansas, North Carolina, and Tennessee.

In Maryland—which, by tradition, leaned toward the Confederacy, but which was to remain in the Union because of its proximity to Washington, D.C.—the population protested en masse against Lincoln’s warmongering. Lincoln immediately suspended the Constitutional principle of “Habeas Corpus” which protects the citizen from arbitrary arrest and guarantees his right to be heard by a judge within a short time. Annapolis, the capital of Maryland, and Baltimore, where Barack Obama went to follow Lincoln’s footsteps, were placed under martial law. On May 13th, 1861, the mayor of Baltimore, the chief of police, and all the members of the city council, were arrested, without any legal pretext, and were imprisoned until the end of the war in 1865. Ironically, among these political prisoners was the grandson of Francis Scott Key, who had composed the American national anthem, which sings the praises of “the land of the free and the home of the brave.”

When the Maryland legislature condemned these illegal and tyrannical actions, Lincoln immediately arrested 31 legislators, who were imprisoned from three to six months without trial. This forceful action clearly violated the sixth amendment to the Constitution, according to which any defendant is entitled to an immediate public trial by an independent jury. The Chief Justice of the Supreme Court, Roger B. Taney, the man before whom Lincoln had officially sworn his oath on the Bible, ordered the President make null and void these arrests because they too obviously violated the principles of the Constitution. The President had arrogated powers that are the sole prerogative of Congress. Following the admonitions of Roger B. Taney, Lincoln issued an order encouraging all public authorities to purely and simply ignore the judgment of the Supreme Court, which itself constitutes, obviously, a manifest violation of the Constitution. One observer, otherwise favorable to Lincoln, the German democrat Otto von Corvin, correspondent of the Times, noted at the time that Lincoln’s antics reminded him of a “village schoolmaster.”

In the course of the war, there were other infringements of the Constitution. The most notable of these occurred in June 1863, when Virginia was partially occupied by Northern soldiers, and a new state, West Virginia, was proclaimed, in violation of the Constitution’s stipulation that no new state can be created or established out of the territory of another.

All these assaults on the Constitution are excused today under pretext that Lincoln liberated the slaves. However, in the summer of 1862, a half year before the official proclamation of their emancipation, the President still held that: “If I could save the Union, without having to free even one slave, I would do it.”

Maintaining the Union eventually cost the lives of 600,000 people.

Americans should hope that in the future, Obama will be satisfied to imitate Lincoln only on festive occasions. For let us not forget that shortly after taking office in January, Obama said: “My politics consists in not having politics.”

Originally published in German in Junge Freiheit, no. 16, 2009

00:15 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : etats-unis, obama, histoire, abraham lincoln, démocratie, tyrannie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 23 novembre 2010

Der Geist von Tauroggen und Sewastopol

Der Geist von Tauroggen und Sewastopol

Wolfgang Strauss - Ex: http://www.velesova-sloboda.org/

 579_Die_Generaele_Diebitsch_und_Yorck_beschliessen_die_K.jpgZahlreiche russische Staatsmänner haben die Auffassung vertreten, gute Beziehungen mit dem deutschen Volk seien das A und O der russischen Europapolitik. Die deutschen Patrioten pflichten dieser Ansicht voll und ganz bei und halten ein deutsch-russisches Bündnis für den Eckstein der deutschen Ostpolitik. Als Vorbild dient ihnen Tauroggen. Am 30. Dezember 1812 unterzeichneten der preußische General York von Wartenberg und der russische General Dibitsch in einer Mühle des litauischen Dorfes Poscherun die Konvention von Tauroggen. Diese sollte das Schicksal Napoleons endgültig besiegeln und seine Niederlage unvermeidlich machen.

In unsren Tagen geht die Bedrohung Europas von keiner Grossen Armee aus. Für Deutsche und Russen stellen die amerikanische Massenkultur sowie der westliche Liberalismus die tödlichste Bedrohung dar. Nach den Plänen Washington ist das Ziel der “Neuen Weltordnung” die Kolonisierung des europäischen Kontinents und die Vernichtung der Eigenständigkeit sowohl des russischen als auch des deutschen Volkes. Aus diesem Grund betrachten die Patrioten Deutschlands Amerika als den Hauptfeind der Deutschen und der Russen zugleich. Der geistige und ethische Widerstand dieser beiden führenden europäischen Völker bildet ein Hindernis auf dem Weg zur “Neuen Weltordnung”.

 

 

   

Die wechselseitigen Beziehungen zwischen Russen und Deutschen sind untrennbar mit der Geschichte der russischen Erde verknüpft; sie bestehen seit ungefähr zweitausend Jahren und sind somit sehr viel älter als die Entdeckung Amerikas oder die Epochen der Aufklärung und des Kapitalismus. Zum Aufbau des imperialen russischen Staates haben Deutsche als Berater, Unternehmer, Diplomaten, Soldaten, Politiker, Philosophen, Pädagogen, Ärzte usw. maßgeblich beigetragen. In den Adern Afanassi Fets und Alexander Bloks floß deutsches Blut, und die deutschen Gelehrten Gmelin, G.F. Müller, Steller, Middendorf, Toll und Pallas wirkten bei der allseitigen Erforschung Sibiriens im 18. Jahrhunderts entscheidend mit.

Der zweite dieser beiden großen Rußlanddeutschen war General Totleben, der dem deutsch-schwedischen Rittertum der Ostsee entstammte und zum Held des Krimkrieges wurde. Die Admiräle Nachimow, Kornilow und Istomin waren im Kampf gefallen, und Totleben selbst, der geniale Schöpfer der Festungsanlagen von Sewastopol, war schwer verwundet worden. Mit seinem Namen verbunden sind das Gefecht von Baklalawa und der Kampf um Malachow-Hügel [Malachow Kurgan]. Dort plante er die befestigten Positionen und errichtete unter dem Kartätschenfeuer der Engländer und Franzosen jene gewaltigen Wälle, vor denen die feindlichen Soldaten verbluteten.

Von diesen Männern und ihren Taten wissen die Moskau-Korrespondenten der deutschen Zeitungen, des deutschen Rundfunks und des deutschen Fernsehens nichts. Sie, die sie keine Ahnung von Geschichte haben, richten törichte Attacken gegen die nationale russische Opposition.

Gegen die einseitige Darstellung der Lage in Rußland wendet sich die nationale deutsche Opposition, insbesondere die hochkarätigen Zeitschriften “Staatsbriefe”, “Criticon”, “Nation und Europa” und “Etappe”. Diese Publikationen, die von Studenten und jungen Intellektuellen gelesen werden, stehen geschlossen hinter der nationalen Opposition Rußlands.

Russenhaß ist im heutigen Deutschland zur seltenen Ausnahme geworden. Die aus Deutschland zurückkehrenden russischen Soldaten berichten kaum je von feindseligen Gefühlen, die ihnen seitens der deutschen Bevölkerung entgegengeschlagen hätten. Unter den Deutschen ist der Geist von Tauroggen und Sewastopol noch lebendig. Alles in allem läßt sich ohne weiteres sagen, daß die antirussischen deutschen Medien gleichzeitig auch Todfeinde Deutschlands, seines Volkes und des deutschen Patriotismus sind. Ihre Feindschaft gegen Rußland geht Hand in Hand mit einer ausgeprägten Deutschfeindlichkeit. Diesen Handlanger der amerikanischen “Neuen Weltordnung” wird es so ergehen wie Napoleon bei Borodino, an der Beresina, in Tauroggen und bei Leipzig.

Aspetti religiosi e storici del Tibet

Aspetti religiosi e storici del Tibet

La storia documentata di questo popolo risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente

Gianluca Padovan

Ex: http://www.rinascita.eu/ 

Tibet.jpgIn questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.


Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa, avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero, abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al paleolitico superiore e al neolitico.


La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni, nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.


Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione: “Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria, terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2


L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3


Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi. La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione, nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte, recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari insieme ai loro beni e al loro seguito».4


Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo Tibetano”.5

 
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet, nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche, religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi; quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana. Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6

 
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi, tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere danneggiati”.8


Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.


18 Novembre 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4991

lundi, 22 novembre 2010

"La condition historique" de Marcel Gauchet

La condition historique (M. Gauchet)

Ex: http://www.scriptoblog.com/

« La condition historique » n’est pas un essai, mais un livre d’entretiens qui contient en filigrane un essai. On passera ici sur ce qui échappe à cette trame cachée, même si les confidences de Gauchet sur le fonctionnement des petits milieux intello-snobinards de gôche valent leur pesant d’or. Pour être tout à fait franc, ça ne donne pas envie de fréquenter le Café de Flore.

Allons donc directement à la thèse qui parcourt l’ouvrage, en arrière-plan d’un échange apparemment décousu. Nous sauterons les passages qui ne sont pas nécessaires à la compréhension de l’ensemble – et, par égard pour Gauchet, tairons délibérément ses errements de « démocrate » qui croit encore, le pauvre, en la « démocratie », ou encore ses élucubrations sur la puissance de l’Amérique impériale, dont il ne détecte absolument pas, en 2003, l’immense fragilité.

 

 


*

 

Marcel Gauchet veut bâtir un « pont » entre la théorie des sociétés et celle du psychisme, sans tomber dans un freudo-marxisme qu’il qualifie de « naïf », et en vue d’opérer une action sur la réalité politique. Dans cette optique, il entend avant tout faire une histoire des concepts.

Le concept même de « société » est, dit-il, d’usage récent (XIX° siècle). Il n’est pas neutre : il porte en lui-même l’espoir d’une libération – la pure « socialité » serait émancipatoire. Gauchet entend à la fois prendre ses distances avec ce prédicat, mais aussi lui accoler les fondements théoriques qui permettront de le déployer judicieusement. Dans cette optique, il faut, dit-il, replacer le politique en amont du social et de l’économique. Fondamentalement, sa démarche recouvre donc une tentative pour politiser réellement un paradigme structuraliste qui, jusqu’ici, est resté avant tout culturel.

Qu’est-ce que ce « paradigme structuraliste » dont parle Gauchet ? Il s'agit ici, avant tout, du structuralisme comme approche anthropologique, on est tout de même assez loin de la linguistique : c'est, en gros, une méthode de recherche postulant qu'il existe un fondement objectif inconscient à toute pensée. Pour faire court, et en reprenant les mots-clefs de Gauchet, il faut comprendre ici le structuralisme comme un « Heidegger accommodé à la française » (1), dont la philosophie (critique de la subjectivité au nom de l’être) devient une critique de la subjectivité au nom de l’objectivité des structures signifiantes.

Comment rendre politique cette pensée structuraliste ? Pour Gauchet, la voie définie par Althusser était largement une imposture. Sa proposition est ailleurs : fondamentalement, il s’agit d’abord de comprendre que nous vivons la substitution du regard positif à la magie du pouvoir, et que dans ce contexte, la question est de savoir si cette substitution débouchera sur la technocratie rationalisant le fait social jusqu’à en éliminer toute forme d’incertitude, ou si au contraire elle ouvrira la porte à une prise en main du savoir social par les acteurs eux-mêmes – créant ainsi une nouvelle condition historique, celle de l’humanité consciente d’elle-même et de son devenir. Prendre conscience de cet enjeu, l’expliciter, apprendre à le traiter : voilà le projet qui fédèrera le structuralisme pour le rendre authentiquement politique.

Sur le plan intellectuel, explique Gauchet, la démarche est rendue difficile par l’impossibilité d’une pluridisciplinarité authentique – chaque discipline tentant d’attirer les autres à elle, et finalement se transformant en sophistique pour inclure coûte que coûte (d’où la « gueule de bois théorique de la génération 68 », pour reprendre sa jolie formule). Sur le plan pratique, elle est perturbée par la nécessité, pour agir dans le champ politique, d’élaborer une programmatique – alors que, justement, une telle démarche suppose l’abandon de toute idée de programme.

Pour surmonter ces difficultés, il faut, explique Gauchet, que le structuralisme se délivre de lui-même. Il s’agit de sortir de l’allégeance formelle au marxisme, de l’emprise exercée par l’histoire structurale de Foucault, de la phénoménologie comme méthode obligée, bref de toutes les formes qui, tout en se démarquant de la critique classique, continuent à fonctionner comme des spécialités. Bien entendu, il faut, aussi, capitaliser sur les acquis de ces mouvements ; mais il serait mortifère de ne pas les prolonger jusqu’au-delà d’eux-mêmes, pour aller vers une unité active de la pensée structuraliste, renvoyée à son élément crucial : l’Histoire, plutôt que le sujet, plutôt que la critique. Pour simplifier à outrance : il s’agit donc de situer le structuralisme dans un cadre fondamentalement hégélien (la raison dans l'histoire), en le sortant de son cadre préexistant, fondamentalement cartésien et kantien.

Ce retour à l’hégélianisme exige évidemment une réinterprétation radicale. Etre structuraliste dans le cadre hégélien, a priori, paraît impossible. Le structuralisme interdit le déterminisme ; donc on ne voit pas comment il pourrait être hégélien.

La réponse réside pour Gauchet dans l’élaboration d’une critique de la raison historique, autour du concept de « Décision ». Il s’agit de poser la question décisive en politique : comment sont prises les décisions ? Si cette question est résolue, la réponse fournira, toujours selon Gauchet, une base pour conjuguer hégélianisme et structuralisme. Parce qu’alors, l’histoire hégélienne sera ramenée dans un cadre structuraliste : on connaît les structures qui produisent son sens, et sa fin devient l’accomplissement de ces structures.

 

*

 

Voilà la question posée. Reste à y répondre – du moins en ce qui concerne l’Occident.

Gauchet a très vite orienté ses recherches vers la religion. Elle lui semblait, instinctivement pourrait-on dire, la clef du mystère. La décision politique est prise parce qu’on pense d’une certaine manière ; certes, cette manière de pensée pense à la place du sujet (structuralisme, influence de Lacan) ; mais le sujet la pense tout de même : l’articulation entre le penser et le pensé, c’est le religieux.

Le moment décisif de l’Histoire est pour Gauchet le « tournant axial » qui se produit lorsque l’Etat transforme la religion, soudainement, au début de l’Antiquité classique. C’est ce qui fait entrer l’humanité dans la condition historique. Désormais, l’engendrement du présent par le passé est pensé comme le résultat d’une action planifiée. L’humanité passe dans un ordre intentionnel. Individualisme et collectivisme, liberté et tyrannie, égalité et inégalité deviennent pensables : la décision doit être prise, parce qu’il y a quelque chose à décider.

Ce quelque chose fait, pour Gauchet, l’objet d’une décision cruciale avec le christianisme : c’est « la sortie du monde où il y a des dominations ». A partir de ce moment, la marche de l’Histoire est définie comme l’extraction du monde hors de lui-même, sa transformation en ce qu’il n’est pas. L’Eglise chrétienne, en revendiquant un pouvoir spirituel détaché du temporel, n’est d’ailleurs pensable que dans le cadre de cette histoire-là. C’est son émergence qui donne, pour Gauchet, un tour particulier à l’Occident : là, à l’ouest de l’Europe, il n’y a plus d’empire pour l’encadrer, si bien que le conducteur spirituel est libre d’orienter la décision matérielle vers des fins autonomisées à l’égard du pouvoir politique.

Au onzième siècle, avec la réforme grégorienne, cette évolution débouche sur une réinvention du christianisme, ou si l’on veut sur la révélation de son essence : l’Eglise devient médiatrice entre un au-delà vers lequel il faut aller, à partir d’un ici-bas qu’on peut transformer. L’idée de Progrès est née, et, avec elle, celle d’une société qui se projette vers l’avenir à partir du passé. Le critère de la décision est défini : ce sera le progressisme. Toute l’histoire de l’Occident n’est pour Gauchet que le déroulé de ce critère, de la Réforme à l’industrialisation, en passant par la Révolution.

Penser Hegel en termes structuralistes, c’est d’abord connaître cette histoire, et donc mettre en perspective l’hégélianisme.

 

*

 

Mais cette approche structuraliste permet, surtout, de penser la crise actuelle comme étant d’abord celle de ce critère de la décision : le progressisme.

Au XIX° siècle, avec la psychiatrie s’ouvre une ère nouvelle, où l’interprétation de la subjectivité humaine échappe radicalement à l’historicité. Soudain, la folie cesse d’être une ruse de la raison, elle devient l’instrument d’une révélation sur le psychisme en amont de la raison (avec en particulier la psychanalyse et la découverte de l’inconscient). Ce surgissement de la psychiatrie n’a rien d’un hasard : c’est, estime Gauchet, un signe parmi d’autres dans une évolution générale qui fait muter la perception que l’humanité a d’elle-même.

Ici, donc, la religion du Progrès explose, parce que la question devient énonçable, qui la prend à revers : et si le sens était à l’intérieur du sujet, donc hors de sa condition historique ?

L’objectivité n’existe plus dans l’univers de la psychiatrie, dans l’univers créé par la psychiatrie. Dès lors, la pensée hégélienne, la pensée de l’historicité, donc, ne peut plus être formulée : il n’est plus possible de pointer dans le sujet le caractère historique de la raison. Les sociétés  modernes avaient entamé la mue, ouvert la porte à la crise, en constituant l’individu en individu de droit. L’individu biologique, devenu individu social, devient, à la fin de l’époque moderne, le producteur du social – à côté de l’Histoire, donc, et potentiellement contre elle. Tant que la religion tenait, l’historicité restait possible pour le sujet, qui ramenait son intériorité à l’historicité ; dès lors que la religion cède, plus rien ne garantit cette historicité du sujet, il devient producteur du social en toute ignorance de l’Histoire. L’humanité entre dans l’ère de l’autonomie individuelle. L’altérité n’est plus nécessaire à l’anthropogenèse, la « culture du narcissisme » (Lash) devient potentiellement la culture dominante.

Contrairement aux attentes des promoteurs de la démarche, il en résulte une dissociation progressive d’abord de la société et de l’Etat, ensuite de la société d’avec elle-même. Elle éclate littéralement. Les idéologies seront, fondamentalement, une tentative pour interdire cet éclatement, pour reconstituer une unité devenue impossible en l’absence du religieux.

Peine perdue : la subjectivité, le rapport de soi à soi, devient le mode de pensée de l’Occident. La condition historique n’existe plus, l’envie même de l’incarner a cessé d’animer les peuples. Hegel avait élevé l’immanence jusqu’à la transcendance, par l’auto-extériorité. Quand il n’y a plus ni extériorité, ni transcendance, il n’y a plus d’élévation de l’immanence.

Gauchet fait remarquer ici que cette évolution est d’ailleurs tout à fait logique, produite par les structures mêmes du projet occidental : le christianisme, en ouvrant la porte à l’idée de Progrès, a aussi préparé le terrain pour l’avènement du sujet autonome. Dès lors que le Verbe s’incarne, dès lors que le Davar hébraïque fusionne avec le Logos grec, ce n’est pas seulement l’humanité en marche vers le Progrès qui devient pensable (le Logos comme instrument du Davar au niveau collectif), c’est aussi celle du sujet autonome en marche vers lui-même (le Logos vers le Davar, au niveau individuel). Telle est l’autre révolution introduite par le christianisme, révolution qui chemine souterrainement, sous l’idée de Progrès, et finit par la submerger.

Pour Gauchet, la crise actuelle de l’Occident est là : c’est l’instant où l’idée du sujet autonome prend le pas sur celle du Progrès. L’organisation du monde reste possible, mais elle ne tend plus vers la Cité idéale : elle est faite en fonction des désirs du sujet. La condition historique est devenue un problème qu’on ne cherche même plus à résoudre, qu’on reconnaît insoluble, et que d’ailleurs on finit par juger sans intérêt.

L’actuel culte du Marché (le  Divin Marché) est l’aboutissement de ce processus : c’est l’idéologie terminale, à ce stade, produite par la sortie de la religion. Et c’est, en fait, une idéologie de la non-idéologie : puisque la condition historique est insoluble, produisons la société à partir du sujet, à partir de l’interaction des sujets (« La société des individus »).

Ce monde des individus, sortis de la condition historique, est-il autre chose qu’un pis-aller, un théâtre d’ombres ? Il n’est que cela, répond Marcel Gauchet. Pour lui, le « Divin Marché » est tout au plus un faux nez de l’Etat, lequel continue à réguler la société (sans lui, pas de marché possible). Simplement, à présent, l’Etat s’efforce de dissimuler son intervention, afin que les sujets réputés autonomes échappent au poids de l’historicité. C’est tout, et c’est la porte ouverte à la captation du regard positif par la technocratie.

Pour autant, Gauchet reste optimiste. Ce pis-aller désastreux n’aura qu’un temps, estime-t-il. La condition historique finira tôt ou tard par faire à nouveau sentir son poids. Et c’est à ce moment-là que le travail de construction d’un hégélianisme structuraliste deviendra utile, indispensable même : il s’agira de réinsérer le sujet, désormais autonome, dans sa condition historique. Cette insertion se fera autour du concept d’apprentissage : le sujet autonome, à un certain moment et si les bases de la démarche ont été créées, voudra apprendre son historicité, pour en faire une composante de son autonomie (on pense ici à Charles Taylor, et à ses réflexions sur le multiculturalisme).

Le structuralisme, comme gage de l’autonomie, et l’hégélianisme, comme vecteur de l’historicité : le projet de Gauchet est intéressant, mais la question reste posée de savoir s’il est faisable. La contemplation médusée du désastre contemporain ne nous pousse pas à l'optimisme, sur ce point. Ou encore, pour le dire avec humour : Gauchet, c'est la pensée élevée... de quelqu'un qui plane.

( 1 ) Il n'est pas interdit d'y voir une trahison de Heidegger, puisque d'une part l'idée même de fondement objectif par les structures nous situe assez loin du concept de dévoilement, et d'autre part cela revient à réintégrer artificiellement la pensée de Heidegger dans le cadre progressiste, cadre où, a priori, il est impossible de la situer (réflexion sur la technique). Au reste, on relèvera que la suite de la réflexion de Gauchet ne fait guère de place à Heidegger... Par commodité, nous n'entrerons pas ici dans ce débat, à chacun de se faire son opinion.

jeudi, 18 novembre 2010

Pétain & De Gaulle: Two Figures of a Tragic Destiny

Pétain & De Gaulle:
Two Figures of a Tragic Destiny

Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

marechal_petain.jpgPétain, De Gaulle . . . Let us think for a moment about those personages from a far-off time.

First, what a astonishing destiny for Marshal Pétain! To have risen so high and fallen so low! In the long history of France, other great personages were admired, but surely none was loved more before being denigrated so much.

His misfortune was to inherit not only a defeat in which he played no part, but also a people, once great, that had fallen terribly low. Yet, he never gave up on his people.

General De Gaulle, whose destiny so often crossed his, did not nourish the same hopes or the same illusions: “I bluffed,” he confided to Georges Pompidou around 1950, “but the 1st army, they were Negroes and Africans [he meant to say “pied-noirs”]. The Leclerc division had 2,500 engaged in Paris. Actually, I saved face, but France did not follow. They collapsed! From the bottom of my heart, I tell you: all is lost. France is finished. I will have written the last page.” [1]

Even at his worst moments, Pétain could not have thought that.

He was born in 1856 to a peasant family in Picardy, under the reign of Napoleon III, before the automobile and electricity. Three times, he saw his fatherland invaded, in 1870, in 1914, and in 1940. The first time, he was a teenager, and his dream of revenge made him a soldier.

In 1914, he was 58 years old. His independence of mind had put the general’s stars out of reach. A mere colonel, he prepared to retire. The assassination of an Austrian archduke in Sarajevo and the conflagration of Europe decided otherwise. In the crucible, he was suddenly revealed. Four years later, he was that commander and chief of the victorious French Armies of 1918 and received the baton of Marshal of France. Of all the great leaders of this atrocious war, he was the only one loved by the soldiers. Unlike so many of his peers, he did not see his men as raw material. The victor of Verdun was one of the few who understood there is no point in winning if one’s own country is bled to death.

There are many explanations of the defeat of 1940, but for the old Marshal, one of the main causes was in the appalling bloodletting of 1914 to 1918. The holocaust of a million and half of young men had killed the energy of a whole people.

General-Charles-De-Gaulle.jpgThus the first priority was to keep these people as safe as possible from another slaughter. At the same time, Pétain hoped for a future renaissance through a “national revolution.” He has been attacked for that. Admittedly, all would be mortgaged by the Occupation. But really he had no choice. The “national revolution” was not premeditated. With all its ambiguities, it emerged spontaneously as a necessary remedy to the evils of the previous regime.

Today, in the safety and the comfort of a society at peace, it is easy to pass categorical judgments on the men of this that time. But those brutal, pitiless days could not be appeased by moral petitions. At every moment, they required decisions with cruel consequences that could lead to, as so often in times of war, to saving some lives by sacrificing others.

In Cangé, in the Council of Ministers, on June 13rd, 1940, having taken the full measure of the disaster, Marshal Pétain, his voice broken, outlined the policy he followed to the end, in 1944: “I declare that as far as I am concerned, outside of the government, if need be, I refuse to leave French soil. I will remain among the French people to share their sorrows and miseries.”

For those who did not assume the responsibility of government, it was permissible to take another side and symbolically raise the challenge of arms. And it is salubrious that some brave men made this choice. But what does that take away of the nobility to the sacrificial resolution of Marshal Pétain?

General De Gaulle’s adversaries try to minimize the scope and nobility of his own gesture, the call to open resistance. They point out that the Marshal’s former protégé had not jumped into the adventure without a parachute. They add that facing the Germans from London, behind a microphone, was less perilous than doing so in France in dramatic, unequal, daily interactions. Perhaps. But, parachute or not, the General’s choice to rebel was of rare audacity. The fruit of an unrestrained ambition, his detractors reply. Surely. But what can one accomplish without ambition?

This type of ambition, however, was lacking in Marshal Pétain. At the age of 84, with his record, he had nothing more to prove and everything to lose.

If our time were less intoxicated with petty politics and base resentments, we would have long ago celebrated the complementarity of two men who redeemed, each in his own fashion, that which is small, vile, and abject in our times.

Note:

1. Georges Pompidou, Pour rétablir une vérité (Paris: Flammarion, 1982), p. 128.

Source: Nouvelle Revue d’Histoire, no. 50, http://www.dominiquevenner.fr/#/edito-nrh-50-petain-de-ga...

mardi, 16 novembre 2010

Nouvelle revue d'histoire, n°51: Les Années 30 - Rêves et révolutions

 

Bientôt en kiosque !

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lundi, 15 novembre 2010

Giorgio Freda: Nazi-maoïste ou révolutionnaire inclassable?

Archives - 2003

 

Giorgio Freda : Nazi-maoïste ou révolutionnaire inclassable?

 

Edouard Rix

 

 

Freda.jpg«Je hais ce livre. Je le hais de tout mon coeur. Il m’a donné la gloire, cette pauvre chose qu’on appelle la gloire, mais il est en même temps à l’origine de toutes mes misères. Pour ce livre, j’ai connu de longs mois de prison, (...) de persécutions policières aussi mesquines que cruelles. Pour ce livre, j’ai connu la trahison des amis, la mauvaise foi des ennemis, l’égoïsme et la méchanceté des hommes. C’est de ce livre qu’a pris naissance la stupide légende qui fait de moi un être cynique et cruel, cette espèce de Machiavel déguisé en cardinal de Retz que l’on aime voir en moi». Ces quelques lignes, écrites par Curzio Malaparte en introduction à son célèbre essai Technique du coup d’Etat, l’auteur de La désintégration du système, Giorgio Freda, aurait pu les faire siennes. Car, pour avoir rédigé cette modeste brochure qui, en une soixantaine de pages très denses, sape à la base le système bourgeois, ce jeune éditeur a subi des années de persécutions judiciaires et mediatiques.

LES EDIZIONI DI AR

Le 26 octobre 1963, le sénateur Umberto Terracini, membre influent de la communauté juive et du Parti communiste italien, dénonce publiquement auprès des ministres de l’Intérieur et de la Justice la diffusion, à Padoue, «d’un immonde opuscule portant le titre Gruppo di Ar qui, reprenant les plus ignobles thèses racistes du nazisme italien, qualifie ouvertement les auteurs éditeurs comme les partisans d’une idéologie antidémocratique», et demande «si des mesures et lesquelles ont été proposées et prises afin de cautériser la plaie fétide et purulente avant qu’elle n’étende la sphère de son action».

A l’origine du groupe ainsi publiquement stigmatisé, l’on trouve un jeune juriste platonicien et évolien, Giorgio Freda. Le terme d’Ar, choisi comme dénomination, se veut éminemment symbolique, puisqu’il s’agit, dans de nombreuses langues indo-européennes, de la racine sémantique connotant l’idée de noblesse, d’aristocratie.

Dès 1964, Freda doit affronter un procès pour avoir dénoncé dans une brochure la politique sioniste en Palestine. Ce n’est que le premier d’une longue série. La même année, les Edizioni di Ar, qu’il vient de fonder, publient leur premier livre, l’Essai sur l’inégalité des races d’Arthur de Gobineau. Suivront des écrits mineurs de Julius Evola, et les oeuvres de Corneliu Codreanu. Chaque titre est tiré à 2000 exemplaires.

Deux constantes dans l’engagement militant de Freda : la lutte contre le sionisme international, dont Israël, estime-t-il, n’est que la partie émergée, et le combat contre le Système libéral bourgeois, expression de l’impérialisme américain en Europe depuis 1945. Concernant l’antisionisme, Freda est l’éditeur qui, le premier en Italie, a soutenu les combattants palestiniens, alors même que la Droite, incarnée par le MSI, exaltait Israël, «rempart de l’Occident contre les Arabes asservis à Moscou». C’est lui qui organisera, en mars 1969, à Padoue, en liaison avec le groupe maoïste Potere Operairo, la première grande réunion en Italie de soutien à la résistance palestinienne, en présence de représentants du Fatah de Yasser Arafat. Le lobby sioniste ne lui pardonnera jamais. En outre, ne se contentant pas d’un simple soutien verbal, comme tant d’intellectuels distingués, il se procurera des minuteries en vus de les remettre à un représentant supposé du Fatah.

LA DÉSINTÉGRATION DU SYSTEME

Disintegrazionesistema.jpgMais Giorgio Freda est avant tout l’homme d’un texte. Et quel texte ! Il s’agit de La désintégration du système, qui voit le jour en 1969, en pleine contestation étudiante. L’Italie subit alors, non une explosion soudaine et aussi vite retombée comme en France, mais un «mai rampant». Convaincu de l’impérieuse nécessité d’une subversion radicale du monde bourgeois, Freda estime que tout doit être tenté, au moment où beaucoup de jeunes cherchent à donner un contenu véritablement révolutionnaire à la révolte étudiante, pour éviter que celle-ci ne soit récupérée par les tenants de l’orthodoxie marxiste ou du réformisme social-démocrate. C’est à ces jeunes que s’adresse La désintégration du système, qui loin d’être le programme personnel du seul Freda, synthétise des exigences communes à tout un milieu national-révolutionnaire, de Giovane Europa à Lotta di Popolo.

Le ton du texte est résolument offensif. Disciple d’Evola, Freda est le premier à ne pas se contenter de commenter doctement ses écrits, mais à passer de la théorie à la pratique, à tel point que l’on peut voir dans La désintégration du système la pratique politique de la théorie exposée dans Chevaucher le tigre, le dernier essai d’Evola. Avec cet ouvrage, le baron a donné le cadre intellectuel dans lequel s’inscrit l’action de Freda en affirmant qu’il ne saurait y avoir de compromis avec le système bourgeois. «Il y a une solution, écrit Evola, qu’il faut résolument écarter: celle qui consisterait à s’appuyer sur ce qui survit du monde bourgeois, à le défendre et à s’en servir de base pour lutter contre les courants de dissolution et de subversion les plus violents après avoir, éventuellement, essayé d’animer ou de raffermir ces restes à l’aide de quelques valeurs plus hautes, plus traditionnelles». Et le baron d’ajouter : «Il pourrait être bon de contribuer à faire tomber ce qui déjà vacille et appartient au monde d’hier, au lieu de chercher à l’étayer et à en prolonger artificiellement l’existence. C’est une tactique possible, de nature à empêcher que la crise finale ne soit l’oeuvre des forces contraires dont on aurait alors à subir l’initiative. Le risque de cette attitude est évident : on ne sait pas qui aura le dernier mot».

Dans La Désintégration, Freda n’est pas tendre avec les valeurs et les idoles de la société bourgeoise. Ordre pour l’ordre, sacro-sainte propriété privée, capitalisme, conformisme moral, anticommunisme viscéral et aveugle, pro-sionisme et philo-américanisme, mais aussi Dieu, prêtres, magistrats, banquiers, rien ni personne n’échappe à sa critique. A ce modèle marchand dominant, il propose une véritable alternative, réaffirmant la doctrine traditionnelle de l’Etat, opposée intégralement aux pseudo-valeurs bourgeoises, et élaborant un projet étatique cohérent, dont l’aspect le plus spectaculaire est l’organisation communiste de l’économie -un communisme spartiate et élitiste, qui doit plus à Platon qu’à Karl Marx -.

Homme d’action, Freda vomit les pseudo-intellectuels évolo-guénoniens enfermés dans leur tour d’ivoire. Il a des mots très durs pour certains évolomanes, «stériles apologètes du discours sur l’Etat», «adorateurs d’abstractions», «champions des témoignages conceptuels», qui ne sont, à ses yeux, que des chevaucheurs de tigres de papier. «Pour nous, écrit-il, être fidèle à notre vision du monde - et donc de l’Etat - signifie se conformer à elle, ne rien laisser de non entrepris pour la réaliser historiquement». Dans cette perspective, il manifeste clairement l’intention d’aller à la rencontre des secteurs objectivement engagés dans la négation du monde bourgeois, y compris l’ultra-gauche extra-parlementaire à laquelle il propose une stratégie loyale de lutte unitaire contre le Système. Il est alors en contact avec divers groupes maoïstes, comme Potere Operaio et le Parti communiste d’Italie-marxiste léniniste.

«Chez un soldat politique, la pureté justifie toute dureté, le désintérêt toute ruse, tandis que le caractère impersonnel imprimé à la lutte dissout toute préoccupation moraliste». C’est sur ces fortes paroles que se clôt le manifeste.

VICTIME DE LA DEMOCRATIE

Le 12 décembre 1969, une bombe explose dans la Banque nationale de l’agriculture, Piazza Fontana, à Milan, tuant 16 personnes et en blessant 87. La section italienne de l’Internationale situationniste d’ultra-gauche diffuse un manifeste intitulé Le Reichstag brûle, qui dénonce le régime comme le véritable organisateur du massacre. Les situationnistes ne cesseront de répéter que la bombe de Piazza Fontana n’était «ni anarchiste, ni fasciste».

Giorgio Freda, quant à lui, poursuit sa lutte intellectuelle contre le Système. En 1970, dans une préface à un texte d’Evola, il envisage favorablement la possibilité d’une guérilla urbaine en Italie. En avril 1971, les Edizioni di Ar publient officiellement, pour la première fois dans la péninsule depuis 1945, Les Protocoles des Sages de Sion. Le même mois, Freda est arrêté et accusé d’ «avoir diffusé des livres, des imprimés et des écrits contenant de la propagande ou instigation à la subversion violente». La machine répressive se met en branle. Pour la première fois depuis la fin du régime fasciste, un magistrat entend appliquer l’article 270 du Code Rocco. Peu après, les Edizioni di Ar publient L’ennemi de l’homme, un recueil de la poésie palestinienne de combat, provoquant la fureur des sionistes.

En juillet 1971, le juge d’instruction modifie les chefs d’accusation et reproche à Freda d’avoir fait «de la propagande pour la subversion violente de l’ordre politique, économique et social de l’Etat» par l’intermédiaire de La désintégration du système , «où il est fait allusion à la nécessité de la subversion, par des moyens violents, de l’Etat démocratique et bourgeois et de son remplacement par un organisme étatique défini et caractérisé comme Etat populaire».

Nullement impressionné par la répression, les Edizioni di Ar publient, en novembre 1971, la traduction italienne du Juif international d’Henry Ford.

Le 5 décembre 1971, Freda est de nouveau arrêté. Il n’est plus seulement poursuivi pour délit d’opinion, mais on l’accuse carrément d’avoir organisé le massacre de Piazza Fontana. Puisqu’on ne réussit pas à coincer les «anarcho-fascistes», on coincera les «nazi-maoïstes». Les accusations contre Freda reposent sur deux types d’indices: il aurait acheté des minuteries dont les débris furent retrouvés dans la banque, ainsi que les sacs de voyages dans lesquels furent déposées les bombes. Or, Freda avait bel et bien acheté des minuteries, remises à un capitaine des services secrets algériens qui les lui avait demandées pour les Palestiniens. L’hebdomadaire Candido, qui menera une enquête en RFA auprès du fabricant, recueillera les preuves que les minuteries vendues en Italie n’étaient pas 57 , comme le soutenait le juge - Freda en avait acheté 50 -, mais plusieurs centaines, et que les modèles achetés par l’éditeur différaient de ceux utilisés pour l’attentat. De plus, la commerçante de Bologne qui avait vendu quatre sacs de voyage semblables à ceux utilisés pour l’attentat ne reconnaîtra pas comme acheteur Freda, mais deux officiers de police... Bien entendu, le juge d’instruction ne tiendra aucun compte de ces preuves à décharge. Freda commence son tour des prisons italiennes Rien que pour 1972, Padoue, Milan et Trieste. Puis Rome, Bari, Brindisi, Catanzaro.

Traité de «maoïste» ou d’«agent de la Chine communiste» par la Droite, en particulier les néo-fascistes du MSI, de «raciste fanatique» ou d’«antisémite délirant» par la gauche légaliste et les milieux sionistes, rejeté peureusement par certains hommes d’ultra-gauche avec lesquels il avait collaboré activement, Giorgio Freda est alors affublé par la presse de l’étiquette, qui se veut infamante, de «nazi-maoïste». Seul point positif, grâce au battage mediatique, les 1500 exemplaires de La désintégration du système sont rapidement épuisés. Quelques années plus tard, Freda admettra que ce texte a été plus pris en considération par les ultras de gauche que par ceux de droite.

LE PROCES

En janvier 1975 s’ouvre, devant la Cour d’Assises de Catanzaro, le procès-fleuve de Piazza Fontana. Sont jugés l’anarchiste Pietro Valpreda et onze complices, le néo-fasciste Giorgio Freda et douze coinculpés. Arrivé au terme de la détention préventive, Freda est remis en liberté et assigné à résidence en août 1976. Ses convictions sont demeurées intacts. C’est ainsi qu’en 1977, alors qu’il risque une condamnation à perpétuité, il n’hésite pas, dans un entretien qu’il accorde à son camarade Claudio Mutti, à parler de la lutte armée comme de la meilleure forme d’opposition au Système en Italie !

Convaincu que les dés sont pipés et que sa condamnation ne fait aucun doute, Freda s’enfuit en octobre 1978. Il est capturé, pendant l’été 1979, au Costa-Rica, dont il n’est pas extradé, mais ramené de force par la police politique italienne.

La farce judiciaire se poursuit. En décembre 1984, s’ouvre à Bari le quatrième procès pour le massacre de Piazza Fontana. Après seize ans d’enquête, Freda est finalement acquitté de ce crime, son incarcération n’étant maintenue que pour délit d’opinion, «association subversive» selon le jargon juridique italien, qui lui vaut une condamnation à quinze ans de prison.

A sa libération, Freda fera encore parler de lui dans les media en lançant le Fronte nazionale, ce qui lui vaudra d’être une nouvelle fois arrêté et poursuivi, en juillet 1993. Décidément, bon sang ne saurait mentir !

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2003, n°17.

dimanche, 14 novembre 2010

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2002

 

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

 

Edouard Rix

 

JNP.gifSeptembre 1938 : le congrès fondateur de la Quatrième Internationale, regroupant les partisans de Trotsky, se tient à Paris. En France, deux groupuscules trotskystes rivaux s’agitent : d’un côté le Parti communiste internationaliste (PCI) de Raymond Molinier et Pierre Franck, qui édite le journal La Commune, de l’autre, le Parti ouvrier internationaliste (POI) de Jean Rous et Yvan Craipeau, chacun privilégiant le travail d’infiltration au sein du Parti socialiste ouvrier et paysan (PSOP) de Marcel Pivert. Juin 1940 : la France est vaincue et occupée par les Allemands. Les Trotskystes hexagonaux sont totalement désorientés : la guerre n’a pas provoqué la révolution attendue, le pacte germano-soviétique a scellé l’alliance d’Hitler et de Staline, et la Quatrième Internationale s’est révélée inutile. C’est dans un tel contexte que certains, convaincus de la victoire durable de l'Allemagne nationale-socialiste, élaborent une sorte de «trotskysme rouge-brun».

Les militants regroupés autour de La Commune décident de poursuivre leur travail d’entrisme. Les partis «ouvriers» étant tous interdits, ils jettent leur dévolu sur les mouvements collaborationnistes et créent une fraction clandestine au sein du Rassemblement national populaire (RNP) de Marcel Déat, qui incarne l’aile gauche de la collaboration et regroupe nombre d’anciens socialistes, notamment pivertistes. C’est ainsi que le frère de Raymond Molinier, Henri, présentera un rapport et prendra la parole dans un congrès du RNP. Autre taupe trotskyste, Roger Foirier, qui avait avant-guerre noyauté les jeunesses du PSOP au point de devenir membre de leur bureau fédéral de la Seine. Il réalisera, sous le pseudonyme de Roger Folk, les affiches des Jeunesses nationales populaires (JNP) pendant que sa femme, Mireille, donnera des cours de gymnastique aux jeunes filles du mouvement.

L’autre groupe trotskyste, le Parti ouvrier internationaliste, tente lui aussi de s’intégrer au paysage politique collaborationniste. En juillet 1940, ses membres créent le Mouvement national révolutionnaire (MNR), qui opte pour une stricte clandestinité, ses réunions se tenant sous le couvert d’une association des Amis de la Musique. Proche des thèses de Marcel Déat et des collaborateurs de gauche, le MNR édite deux journaux clandestins : La Révolution Française, puis Combat national-révolutionnaire. Dans son n°1 de septembre-octobre 1940, La Révolution Française, tout en s’affirmant «ni pro-Allemand, ni pro-Anglais, ni pro-Français», se déclare «partisan de la collaboration européenne avec l’Allemagne». Un slogan proclame d’ailleurs : «Collaborer ? Oui, mais pas sous la botte». Il est vrai que le MNR se rallie ouvertement aux orientations de l’Ordre nouveau européen voulu par les Allemands : «L’Etat et la nation doivent se défendre (...) contre les tentatives de domination occulte, qu’elles proviennent du judaïsme, de la maçonnerie ou du jésuitisme». Le n°1 de mars 1941 de Combat national-révolutionnaire précise que le MNR «souhaite un Etat fort, hiérarchisé, où la régulation entre les divers éléments de la population soit établie par des corporations». Outre son leader Jean Rous, qui a participé à la gauche du PSOP et à la direction du POI, l’on croise au MNR nombre de trotskystes. C’est le cas de Lucien Weitz, qui fut le principal animateur de la gauche révolutionnaire au sein de la SFIO socialiste, puis de l’aile gauche du PSOP, ou encore Fred Zeller, ancien proche de Trotsky et membre de la SFIO, futur grand-maître du Grand Orient de France. Ce dernier commentera son engagement au MNR dans son autobiographie Trois Points c’est tout, et, jouant de l’ambiguïté du groupe, insistera sur ses prises de position anti-allemandes.

L’expérience originale du MNR est totalement interrompue dès juin 1941 par les autorités allemandes qui ont introduit deux espions dans l’organisation. Jean Rous est condamné à six mois de prison, une peine mesurée pour l’époque. L’attaque de l’URSS par l’Allemagne, le 22 juin 1941 modifie radicalement la situation. La Commune cesse son entrisme au sein du RNP. La plupart des membres du MNR rallie la Résistance ou les partis de gauche, tandis qu’une poignée s’engage franchement dans la collaboration avec les Allemands.

Une page d’histoire à rappeler aux actuels boutiquiers trotskystes, Krivine, Laguiller et Lambert, qui font profession d’antifascisme.

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2002, n°15.

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mardi, 09 novembre 2010

SPD-Genetiker

SPD-Genetiker

Ex: http://www.zuerst.de/

SPD-Chef Sigmar Gabriel hat sich im Sarrazin-Streit weit aus dem Fenster gelehnt – er ignoriert, daß Biopolitik auch ein traditionell sozialdemokratisches Anliegen war

Die SPD-Spitze will ihn lieber heute als morgen loswerden – den ungeliebten Ex-Finanzsenator, Ex-Bundesbankvorstand und Bestsellerautor Thilo Sarrazin. Überstürzt und noch bevor das umstrittene Buch Deutschland schafft sich ab überhaupt erschienen war, leitete der SPD-Vorsitzende Sigmar Gabriel ein Ausschlußverfahren ein und begründete seinen Schritt damit, daß Sarrazins Thesen „ein Gebräu aus der Tradition der Rassenhygiene der zwanziger Jahre“ darstellten. „Der biologistische Ansatz von Sarrazins Thesen, der vermittelte Eindruck, bestimmten Gruppen sei genetisch ein Weg vorgezeichnet, stehe aber diametral zu den sozialdemokratischen Grundwerten“, heißt es auf der SPD-Seite im Internet. Auch der Vorwurf einer Nähe zu nationalsozialistischen Theorien sowie des Rassismus blieb nicht ausgespart.

 

In einem Spiegel-Interview warf Gabriel dem Delinquenten vor, er habe sich auf Forscher berufen, die für die Sterilisierung von 60.000 als „minderwertig“ angesehenen Menschen in Schweden verantwortlich seien. Entweder sei Sarrazin so wenig historisch und gesellschaftlich gebildet, daß er das nicht wisse, oder er habe es bewußt getan.

Solche Aussagen könnten allerdings schnell zum Bumerang werden. Denn „Rassenhygiene“ ist mitnichten eine Erfindung der Nationalsozialisten. Sie ist inhaltlich weitgehend identisch mit der „Eugenik“, der „Wissenschaft vom guten Erbe“. Als deren Begründer gilt der Anthropologe Francis Galton (1822–1911), ein Cousin von Charles Darwin. 1883 führte Galton den Begriff „Eugenics“ ein – ihr Ziel sollte es sein, alle Einflüsse zu erforschen, welche die angeborenen Eigenschaften einer Rasse verbessern und diese Eigenschaften zum größtmöglichen Vorteil zur Entfaltung bringen.

Wichtig dabei: Das Wort „Rasse“ hat im englischen Sprachgebrauch einen viel weiteren Bedeutungskreis als im deutschen; es bezeichnet Gruppen bis hin zum „Menschengeschlecht“ (human race). Auch Galton verstand darunter einfach nur eine durch Generationen sich fortpflanzende Gemeinschaft von Menschen. Erbliche Verbesserungen durch eine bewußte Fortpflanzungshygiene wollte er vor allem durch die Aufklärung der Bevölkerung erreichen. Er plädierte aber auch für Maßnahmen „negativer Eugenik“, so sollte die Fortpflanzung von Gewohnheitsverbrechern und Schwachsinnigen möglichst verhindert werden.

ploetz.jpgIn Deutschland führte der Nationalökonom und Mediziner Alfred Ploetz (1860–1940) im Jahre 1895 den Begriff der „Rassenhygiene“ für die Eugenik ein. Neu war jedoch nur der Begriff, die Prämissen und Inhalte lagen auf Galtons Linie. In seiner Schrift Die Tüchtigkeit unserer Rasse und der Schutz der Schwachen sprach sich Ploetz für ein wissenschaftlich angeleitetes Reproduktionsverhalten der Bevölkerung aus. Über den „Erbwert“ von Nachkommen sollten Ärzte entscheiden. „Rassenhygiene als Wissenschaft ist die Lehre von den Bedingungen der optimalen Erhaltung und Vervollkommnung der menschlichen Rasse“, definierte Ploetz. „Als Praxis ist sie die Gesamtheit der aus dieser Lehre folgenden Maßnahmen, deren Objekt die optimale Erhaltung und Vervollkommnung der Rasse ist, und deren Subjekte sowohl Individuen als auch gesellschaftliche Gebilde einschließlich des Staates sein können.“

Im deutschen Kaiserreich und später in der Weimarer Republik gelang es Wissenschaftlern, mittels Büchern, Fachzeitschriften und eigenen Institutionen die Idee der Rassenhygiene immer fester zu etablieren. Anhänger und Verfechter fanden sich in allen politischen Lagern, auch in der Sozialdemokratie. Ein Beispiel ist der Gewerkschafter und SPD-Mann Karl Valentin Müller (1896–1963), der 1927 ein Buch mit dem Titel Arbeiterbewegung und Bevölkerungsfrage veröffentlichte. Darin forderte er eine „planvolle Züchtung der sozialbiologischen Anlagen“ sowie die „rücksichtlose, wenn möglich zwangsweise Unterbindung des Nachwuchses aus dem Bevölkerungsballast, den wir allzu lange schon mit uns schleppen und der ein schlimmerer Ausbeuter der produktiven Arbeit ist als alle Industriekönige zusammengenommen“. In einem Beitrag zu Lebensraum und Geburtenregelung, der 1928 in einer Sonderausgabe der Süddeutschen Monatshefte erschien, bekräftigte er die Ansicht, daß die Ziele der Rassenhygiene mit einem wahrhaften Sozialismus vereinbar seien. Mit diesen Ansichten war er zwar in einer Minderheitenposition innerhalb seiner Partei. Doch auf die Idee, ihn aus der SPD zu entfernen, kam damals niemand. Von 1927 an arbeitete er sogar als Referent im sächsischen Kultusministerium, das zu dieser Zeit sozialdemokratisch geführt wurde.

Alfred Grotjahn (1869–1931), praktischer Arzt und erster Professor für soziale Hygiene in Deutschland an der Berliner Universität, war ein weiterer Sozialdemokrat, der für rassenhygienische Prinzipien stritt (Hygiene der menschlichen Fortpflanzung, 1926). Er betonte, „daß die sozialistischen Theoretiker sich an der jungen Wissenschaft der Eugenik zu orientieren hätten und nicht an Dogmen, die von sozialistischen Klassikern zu einer Zeit aufgestellt worden seien, als es diese Wissenschaft noch nicht gab.“ Seine Forderung, „daß die Erzeugung und Fortpflanzung von körperlich oder geistig Minderwertigen verhindert und eine solche der Rüstigen und Höherwertigen gefördert“ werden müsse, würde in der Gegenwart vermutlich einen Sturm der Entrüstung auslösen, gegen den die Sarrazin-Kampagne nur ein laues Lüftchen wäre. Grotjahn saß von 1921 bis 1924 für die SPD im Reichstag, galt als namhaftester gesundheitspolitischer Sprecher seiner Partei und formulierte das Görlitzer Programm von 1922 mit. Daß ihn die SPD jemals hätte ausschließen wollen, ist nicht bekannt.

Es ist kaum vorstellbar, daß die Existenz sozialdemokratischer Rassenhygieniker in den 1920er Jahren der heutigen SPD-Führung nicht bekannt ist. Immerhin veröffentlichte der Historiker Michael Schwartz bereits 1995 seine Studie Sozialistische Eugenik: eugenische Sozialtechnologien in Debatten und Politik der deutschen Sozialdemokratie 1890–1933, herausgegeben vom Forschungsinstitut der parteieigenen Friedrich-Ebert-Stiftung. Und in der Wochenzeitung Die Zeit erinnerte der Parteienforscher Franz Walter erst Ende August an die „sozialdemokratische Genetik“.

Eugenische Forderungen wurden in zahlreichen Staaten in praktische Politik umgesetzt. Ob in Kanada oder den USA, der Schweiz oder Skandinavien – rund um den Globus gab es Gesetze, auf deren Grundlage Tausende, teils Zehntausende von Menschen zwangssterilisiert wurden. Besonders nachhaltig ging Schweden das Thema an. Schon 1921 beschloß der schwedische Reichstag, an der Universität Uppsala ein „Staatliches Institut für Rassenbiologie“ einzurichten, angeregt durch niemand geringeren als Hjalmar Branting, der zwischen 1920 und 1923 schwedischer Ministerpräsident war – für die Sozialdemokraten. In Uppsala lehrte zeitweise als Gastdozent der deutsche Rassenforscher Hans F.K. Günther, in der NS-Zeit später als „Rassegünther“ bekannt.

1922 brachte die schwedische SAP (Sozialdemokratische Arbeiterpartei) einen Gesetzentwurf zur Sterilisierung geistig Behinderter ein. Schließlich trat 1935 das erste Gesetz in Kraft, das bereits die freiwillige Sterilisierung „geistig zurückgebliebener“ Menschen bei an­zunehmenden „Erbschäden“ vorsah, und Sterilisierungen ohne Einwilligung der Betroffenen, wenn sie durch zwei Ärzte befürwortet wurden. 1941 wurde mit einem deutlich erweiterten Gesetz dann die zwangsweise Unfruchtbarmachung bei „eugenischer Indikation“ eingeführt. Betroffen waren Geisteskranke, -schwache und -gestörte, psychisch Kranke und Menschen mit Mißbildungen. All diese Maßnahmen wurden unter sozialdemokratischen Regierungen beschlossen.

Mit seinen Vorwürfen gegenüber Sarrazin bewegt sich Sigmar Gabriel also auf äußerst dünnem Eis – was den Verweis auf die Zwangssterilisierten in Schweden betrifft, sind sie sogar hochgradig peinlich. Zumindest grollt es in großen Teilen der SPD-Basis, die das Vorgehen des Parteivorstands für befremdlich halten, und auch SPD-Prominenz wie Klaus von Dohnanyi, Peer Steinbrück und Helmut Schmidt favorisiert einen eher entspannten Umgang mit dem „Fall Sarrazin“. Vielleicht hat sich ja an anderen Stellen der Partei einfach auch mehr historische Bildung versammelt als bei Säuberungskommissar Gabriel.

Harald Kersten

lundi, 08 novembre 2010

Enrico Mattei au Proche et au Moyen Orient

Enrico Mattei au Proche et au Moyen Orient

 

par Filippo GHIRA

 

mattei2.jpgLa figure d’Enrico Mattei, le grand pétrolier italien, est encore susceptible de donner du fil à retordre à tous ceux qui, au niveau universitaire, se posent maintes questions sur l’histoire des approvisionnements énergétiques, sur l’indépendance nationale en matières énergétiques, sur le colonialisme et sur les rapports internationaux. Aujourd’hui, on se souvient principalement d’Enrico Mattei parce qu’il avait financé, plus ou moins frauduleusement, les partis politiques de la péninsule pour qu’ils ne lui mettent pas des bâtons dans les roues. En revanche, bien peu se souviennent qu’il entendait ainsi « utiliser les partis comme on utilise un taxi », afin de rendre l’Italie indépendante sur le plan énergétique et de la dégager de la tutelle des « Sept Sœurs » américaines et anglo-hollandaises. Il suffit de penser que, dans l’immédiat après-guerre, Enrico Mattei fut nommé commissaire pour la liquidation de l’AGIP et que, dans le cadre de cette fonction, il a fait preuve d’une indubitable clairvoyance. Il a réussi à convaincre le gouvernement de l’époque de renoncer à liquider l’entreprise pétrolière italienne et d’investir dans un cartel public, l’ENI, qui s’occuperait de garantir à l’Italie les approvisionnements en gaz et en pétrole dont elle avait besoin pour soutenir son envolée économique. La presse italienne, surtout celle du nord, liée aux milieux industriels et financiers nationaux et entretenant des liens solides avec des milieux analogues en Europe et aux Etats-Unis, n’a pas laissé s’échapper l’occasion d’attaquer la politique de l’ENI qui se déployait avec une autonomie quasi totale sur la scène internationale, et dont la préoccupation première était l’intérêt de la nation italienne.

 

Ce qui déterminait le succès de l’ENI dans les pays producteurs de pétrole fut essentiellement l’approche non colonialiste que lui avait conféré Mattei. Celui-ci, en effet, innovait radicalement dans l’attribution des pourcentages que retenait l’ENI pour pouvoir exploiter les gisements de pétrole découverts. Le groupe italien ne retenait que 25% des bénéfices et en octroyait 75% à la compagnie pétrolière de l’Etat recelant les gisements. Au contraire, les « Sept Sœurs » s’appropriaient un minimum de 50%. Le deuxième aspect qui séduisait dans la politique pétrolière de Mattei fut la clause suivante : si les recherches n’aboutissaient à rien sur un site spécifique, l’ENI ne réclamait rien à titre d’indemnisation à l’Etat sur le territoire duquel se trouvait le site en question. C’était là des méthodes élémentaires et simples qui contribuaient à créer un formidable courant de sympathie pour le groupe italien. Troisième aspect de la politique de Mattei, et non le moindre : former les compétences locales à l’école de l’ENI, située à San Donato dans le Milanais. Le but de cette politique était évident. Mattei voulait faire comprendre que l’ENI n’entendait pas se limiter à des rapports économiques mais voulait aussi faire évoluer professionnellement des équipes de techniciens qui, une fois formées, seraient capables de travailler sans aide étrangère et d’aider au mieux les sociétés pétrolières étrangères, sans devoir pour autant dépendre entièrement d’elles. Cette approche demeure encore vivante dans la mémoire de bon nombre de dirigeants des pays producteurs de pétrole. Ce souvenir positif fait que l’ENI, aujourd’hui encore, peut vivre de rentes en provenance de ces pays, en jouissant d’une sympathie qui ne s’est jamais estompée.

 

mattei1.jpgLa politique autonome de l’ENI s’est adressée surtout aux pays du Proche et du Moyen Orient et d’Afrique du Nord. L’Iran fut évidemment l’exemple le plus prestigieux dans le palmarès du groupe italien, qui était parvenu à s’insinuer dans un pays considéré comme chasse gardée et exclusive de la « British Petroleum ». Mais il y eut aussi l’Egypte de Nasser : elle fut le premier pays avec lequel Mattei amorça des rapports stables et durables, dès 1956. Il faut aussi évoquer l’appui financier qu’accorda Mattei au Front de Libération National algérien, ce qui irrita bien entendu la France, dont la classe dirigeante s’était faite à l’idée de perdre ses territoires d’Outremer. Les rapports entre l’ENI et le FNL étaient de fait assez étroits : le chef politique du mouvement indépendantiste algérien, Mohammed Ben Bella, avait un appartement à sa disposition à Rome.

 

L’ENI se présentait donc comme une réalité autonome qui, au nom des intérêts supérieurs de l’Italie, considérait que l’Europe possédait un prolongement naturel sur la rive méridionale de la Méditerranée, ce qui avait pour corollaire de rompre les équilibres consolidés dans toute la région. L’activisme de Mattei rencontrait l’hostilité d’Israël qui tolérait mal de voir l’ENI contribuer à la croissance économique de pays comme l’Egypte ou l’Algérie, et cela tout en maintenant leur autonomie politique. L’origine de l’attentat perpétré contre lui le 27 octobre 1962, lorsqu’une bombe placée dans son avion explosa dans le ciel au-dessus de Bascapè, doit sans doute être recherchée dans l’hostilité que lui vouait ce petit Etat, né quinze ans plus tôt. Une hostilité à son endroit que l’on retrouvait également au sein même de l’ENI. Quelques mois avant sa mort, Mattei avait obligé Eugenio Cefis, vice-président de l’ENI et président de l’ANIC, à abandonner le groupe, où il était considéré comme le leader d’un courant jugé trop proche des intérêts atlantistes et israéliens. Ce même Cefis, ancien bras droit de Mattei dans les rangs des partisans catholiques lors de la guerre civile italienne (1943-45), fut appelé à diriger l’ENI immédiatement après la mort de Mattei. Il existe d’autres hypothèses sur l’attentat mais elles sont peu crédibles. On a évoqué une intervention des « Sept Sœurs » mais Mattei avait trouvé avec elles une sorte de « gentlemen agreement ». On a aussi évoqué la main de la CIA qui aurait jugé Mattei comme un « élément déstabilisateur », surtout en ces jours où sévissait la crise des missiles soviétiques à Cuba. Il y a lieu de faire montre du même scepticisme quand on parle d’un rôle possible des compagnies pétrolières françaises qui avaient de gros intérêts en Algérie. De même, il est peu plausible que la mafia sicilienne ou la Cosa Nostra américaine aient agi pour le compte de tiers. Toutes ces hypothèses ont le désavantage de voir seulement la partie émergée de l’iceberg et de ne pas voir le problème dans toute sa substantialité. L’attentat de Bascapè a mis fin à l’existence d’une personnalité unique, d’un homme qui s’était montré capable de percevoir réalités et potentialités là où la plupart des autres ne voyaient ni n’imaginaient quoi que ce soit.

 

Filippo GHIRA.

(article tiré du site http://rinascita.eu/ , 23 février 2010).

mercredi, 27 octobre 2010

Géopolitique française

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M./ "'t Pallieterke" :

Géopolitique française

Oublions un instant que la géopolitique concerne prioritairement le conflit des civilisations, le « Grand Jeu » en Asie centrale pour la maîtrise des hydrocarbures ou les ambitions de la Chine montante. L’Europe aussi peut s’avérer un théâtre aux intrigues très fines pour les amateurs de cette discipline. Et à l’intérieur de cette Europe, la France occupe une place vraiment à part.

Jetons d’abord un coup d’œil sur une carte physique de l’Europe. Oublions les frontières politiques et ne portons attention qu’aux altitudes. La première chose qui saute aux yeux, lorsqu’on examine une telle carte, c’est qu’il existe une grande plaine nord-européenne. Qui s’étend à l’est jusqu’aux steppes russes, et à l’ouest jusqu’aux Pyrénées. La caractéristique majeure de cette plaine, c’est qu’elle présente une forte concentration de rivières navigables. Et cette concentration est la plus dense au monde, nous ont calculé les spécialistes. Ce réseau fluvial et la qualité élevée des sols qu’ils irriguent ont indubitablement constitué la base première du futur niveau de vie du continent. Autre élément important à retenir : la différence entre cette réalité nord-européenne et le contexte dans lequel se trouve l’Europe du Sud. Sans aucun doute, la caractéristique la plus prégnante de la partie méridionale du continent est la présence de la Méditerranée. Au fil des siècles, depuis l’aube des temps historiques, cette mer intérieure a été des plus commodes pour transporter des marchandises de l’est vers l’ouest et vice-versa ou du nord au sud.

En fait, les deux parties du continent sont très différentes l’une de l’autre (même si on ne peut pas vraiment parler de limites fort tranchées). Les différences géographiques ont contribué à faire émerger des différences culturelles qui se repèrent en économie, en sociologie et dans la vie politique. Et que se passe-t-il lorsque l’on mêle les deux modes de vie dans un seul pays ? On obtient une nation comme la France.

Fleuves et rivières

L’Europe possède un grand nombre de fleuves et de rivières, mais celles-ci sont simultanément fort fragmentées sur leurs cours. En d’autres termes, il s’avère très difficile de les relier entre elles, même si l’on peut citer bon nombre d’exemples de canaux. Les spécialistes de la géopolitique hydrographique parlent même d’ « un modèle précis de fragmentation ». Dans cette fragmentation hydrographique et dans la difficulté à relier les cours d’eau par des canaux, les exceptions se repèrent dans certains cas, où deux rivières ne sont séparées que par une étroite bande de terre, ce qui, dans tous les cas de figure, facilite le transit. Une situation de ce type, nous la trouvons dans la zone où voisinent les vallées de la Seine, de la Loire, du Rhône et de la Garonne. Donc uniquement en France. De surcroît, le Rhône est l’un des rares fleuves européens qui se jette dans la Méditerranée tout en servant de corridor vers l’Europe du Nord.

Dans la région où coulent la Marne et la Seine, se trouve le noyau fertile de l’agriculture française. C’est notamment la région de la Beauce, que l’on appelle parfois la « grenier à blé » du pays. Au nord de cette région, nous avons Paris. Or ce nord est le talon d’Achille de la France. Partout ailleurs, le pays a des frontières naturelles : les Alpes, les Pyrénées, les mers  (Manche, Mer du Nord, Méditerranée) et l’Océan Atlantique. Le nord ne bénéficie pas d’une telle protection : c’est par là que l’on peut entrer dans le pays sans rencontrer d’obstacle. Les années 1814 et 1815, puis la guerre de 1870-71 et les deux guerres mondiales sont à ce titre des exemples historiques instructifs. La capitale, Paris, est liée à l’Océan Atlantique par la Seine. De cette façon, elle bénéficie de tous les atouts qu’offre une ouverture sur l’océan sans risquer immédiatement une invasion venue de ce côté (encore que le débarquement de Normandie de juin 1944 tend à infirmer cette règle, ndt). Le nord est donc le point faible de l’Hexagone, tant et si bien que l’on a parfois suggéré de déplacer la capitale vers le sud, pour des raisons de sécurité.

Le facteur allemand

Au fil des années, et même des siècles, les ennemis de la France ont changé, mais non pas la géopolitique française. Depuis le 19ème siècle, Paris est obsédé par l’Allemagne (au départ par la seule Prusse). C’est bien compréhensible : chaque fois, depuis la fin de l’ère napoléonienne, le voisin de l’est semblait le plus puissant militairement et la France avait besoin d’un bon nombre d’alliés pour conjurer le danger allemand. La fin de la deuxième guerre mondiale a créé une situation intéressante. Les Britanniques ne faisaient plus le poids ; l’Espagne vivait isolée sous le régime de Franco ; les Russes se trouvaient de leur côté du Rideau de Fer et les anciennes puissances de l’Axe pouvaient désormais, sans problèmes majeurs, être incluses de force dans un projet européen. Et, de fait, l’Europe est un projet qui permet surtout à la France de « sauter plus loin que n’est longue sa perche » (comme on dit chez nous).

La fin de la Guerre Froide fut un nouveau moment charnière. Les craintes de la France ne concernaient pas vraiment l’URSS (elle n’avait pas de frontières communes avec le bloc soviétique) mais encore et toujours l’Allemagne. Or voilà que d’un coup l’Allemagne est réunifiée. Pour les élites françaises, c’est là un cauchemar : l’Allemagne va-t-elle vouloir jouer à nouveau un rôle plus indépendant ?

Malgré les très nombreux facteurs qui ont influencé l’histoire de France  —et la géographie n’en est qu’un élément parmi beaucoup d’autres—  on peut aisément déduire que le noyau de la pensée politique française est déterminé par quelques « prémisses géopolitiques ». La France est le seul pays d’Europe qui peut étendre son noyau central sans entrer en conflit avec une autre puissance. Dans la direction des Pyrénées, il existe aujourd’hui un potentiel énorme, sans qu’il ne faille outrepasser les frontières de la République. Autre prémisse géopolitique : toujours garder un œil sur l’est. La fameuse Ligne Maginot du 20ème siècle n’a jamais été que la modernisation d’une ceinture de forteresses installées dès le 16ème siècle. Autre prémisse : la cherche constante d’influence en dehors d’Europe. En fait, au départ, la France se suffisait à elle-même et n’avait nul besoin d’acquérir des colonies. L’aventure coloniale française n’avait pas de motivations économiques (ou très peu) mais principalement des motivations politiques. Les colonies françaises ont constitué un instrument commode contre les rivaux d’Europe occidentale. Rien ne permettait d’anticiper l’aventure coloniale : la France avait vendu la Louisiane pour pouvoir financer les guerres napoléoniennes. Plus tard, elle a laissé tomber l’Algérie, malgré qu’un million de Français ethniques y habitaient ! Dans les deux cas, l’objectif avait été de focaliser toutes les énergies sur des problèmes qui affectaient directement l’Hexagone.  Tel était l’option de base.

Pour conclure, nous évoquerons un dernier point : celui de la flexibilité pure et simple. Cette option n’est pas typiquement française : il suffit de se rappeler la manière dont Nixon s’est rapproché de la Chine. Mais seule la France a réussi à manier cette flexibilité à des hauteurs jusqu’ici inégalées. Tout au long de l’histoire, elle a scellé des accords avec l’Empire ottoman au détriment des pays européens de confession catholique. Jamais elle n’a hésité à se chercher et à se trouver des alliés parmi les entités politiques protestantes. Et cela, en des temps où la France se posait comme « fille aînée de l’Eglise ».

M. / «  ‘t Pallieterke ».

(article paru dans « ‘t Pallieterke », Anvers, 20 octobre 2010).

 

vendredi, 22 octobre 2010

Afrique réelle n°9 (sept. 2010): le pétrole des Grands Lacs

L'Afrique Réelle N°9 - Septembre 2010



Ex: http://bernardlugan.blogspot.com/
 
SOMMAIRE :
ACTUALITE : GRANDS LAC
- Le pétrole du lac Albert : vers un embrasement régional ?
DOSSIER : L'EMBLEMATIQUE AFFAIRE NAHIMANA
- Retour sur le cas Jean-Pierre Chrétien à propos de Ferdinand Nahimana
- L'insolite expertise de Jean-Pierre Chrétien devant le TPIR
- Le mea culpa d'Hervé Deguine
DIALOGUE AVEC LES LECTEURS :
- Questions sur le Rwanda

Editorial de Bernard Lugan :
Les lignes de force se sont remises à bouger dans la région des Grands Lacs où la RDC et le Rwanda, les deux ennemis d’hier, sont, aujourd’hui, devenus des alliés de fait. Pourquoi ce retournement et peut-il durer ?
Tout a changé au début de l’année 2009 quand un accord fut conclu entre Kigali et Kinshasa dont l’objectif officiel était l’éradication dans le Kivu des milices hutu du FDLR. Puis un écran de fumée fut mis en place avec l’arrestation par le Rwanda du « général » tutsi Laurent Nkundabatware dit Nkunda. Cette opération servit à faire croire à la réalité de l’intégration dans les rangs des FARDC (Forces armées de la République Démocratique du Congo), des milices tutsi congolaises. En réalité, les anciens miliciens continuèrent d’agir dans les zones qu’ils occupaient et sous le commandement de leurs chefs, s’étant contentés de coudre sur leurs uniformes les insignes des FARDC. D’ailleurs, si le but de l’accord avait été l’intégration des forces armées, les unités rebelles auraient été éclatées au sein des forces nationales et envoyées en garnison à travers le pays. Toute la région, spécialement celle du Nord Kivu, est donc de fait demeurée entre les mains de Kigali, mais avec l’aval de Kinshasa cette fois.
Le président Kabila qui, certes est faible, mais qui est loin d’être un naïf, aurait-il donc accepté et même cautionné la quasi partition de son pays ? Evidemment non. L’affaire est plus complexe qu’il n’y paraît car, en réalité, c’est un jeu subtil qu’il mène. Comme il n’est pas de taille à lutter à la fois contre les ambitions ougandaises dans la région du lac Albert et contre la politique annexionniste du Rwanda dans les Kivu, il a donc provisoirement décidé de « faire la part du feu » en s’appuyant sur Kigali pour éviter de se voir spolié par Kampala et les grandes compagnies pétrolières.
Le marché est clair : Kigali doit s’immiscer dans le jeu pétrolier du lac Albert afin de tenter de faire obstacle à la tentative de mainmise ougandaise. En échange, Kinshasa se montrera discret sur la présence des troupes rwandaises au Kivu et n’utilisera pas contre Kigali le rapport de l’ONU sur le génocide commis par ses troupes dans l’est de la RDC. Le chef de l’Etat congolais qui a plusieurs fers au feu fait le calcul suivant : dans le futur, il aura moins à craindre de Kagamé que de Museveni car, après avoir été adulé par l’opinion internationale, le président rwandais devient peu à peu un paria au fur et à mesure que les mensonges liés au génocide, à ses causes, à son éclatement, à son déroulement et à ses conséquences en RDC, apparaissent au grand jour.
Le pari de Kinshasa n’est cependant pas gagné car Kagamé n’est pas non plus un naïf et comme il a déjà été lâché par plusieurs de ses soutiens, prendra t’il le risque de se mettre à dos les compagnies pétrolières ? Comme il n’est plus en mesure de jouer sa carte internationale favorite qui est le chantage à la guerre, lui aussi doit donc miser sur plusieurs tableaux. C’est pourquoi, tout en donnant des assurances à la RDC, il fait miroiter les potentialités pétrolières de la région du lac Kivu dont il se ferait fort de garantir l’exploitation, l’intérêt des pétroliers étant naturellement de traiter avec un régime fort… Certes, mais ses opposants tutsi actuellement réfugiés en Afrique du Sud font la même promesse et ils appellent clairement à son renversement… Dans ces conditions, Kagamé qui désormais joue sa survie, n’a donc pas intérêt à se brouiller encore davantage avec Museveni. Comme ce dernier est lui aussi affaibli, tous deux ne vont-ils pas se rapprocher ? Le problème est qu'une telle politique se ferait aux dépens de Kabila qui ne manquerait alors pas d’utiliser le rapport de l’ONU qui accable Kigali... Quoiqu’il en soit, le président ougandais a-t-il, lui, intérêt à une entente avec un Kagamé sur le déclin? Ne pourrait-il pas plutôt tenter de reprendre la main en proposant un « accord » à Kinshasa sur le dos de l’actuel président rwandais ? Toutes les options sont ouvertes.
C’est dans ce jeu de poker menteur à la fois complexe et mouvant que la France tente actuellement de s’introduire avec une connaissance superficielle de la subtile alchimie ethno politique régionale.

A qui profite le terrorisme?

A qui profite le terrorisme ?

Ex: http://www.mecanopolis.org/

La guerre menée par le terrorisme, telle qu’elle est présentée par les responsables gouvernementaux, par les médias, par les forces de polices et par les terroristes eux-mêmes contre leurs adversaires déclarés, est tout à fait invraisemblable.

 

L’exaltation idéologique peut conduire à toutes sortes de crimes, et l’héroïsme individuel comme les assassinats en série appartiennent à toutes les sociétés humaines. Ces sortes de passions ont contribué depuis toujours à construire l’histoire de l’humanité à travers ses guerres, ses révolutions, ses contre-révolutions. On ne peut donc être surpris qu’un mitrailleur, un kamikaze ou un martyre commettent des actes dont les résultats politiques seront exactement opposés à ceux qu’ils prétendent rechercher, car ces individus ne sont pas ceux qui négocient sur le marché des armes, organisent des complots, effectuent minutieusement des opérations secrètes sans se faire connaître ni appréhendés avant l’heure du crime.

Quoiqu’elle veuille s’en donner l’allure, l’action terroriste ne choisit pas au hasard ses périodes d’activités, ni selon son bon plaisir ses victimes. On constate inévitablement une strate périphérique de petits terroristes, dont il est toujours aisé de manipuler la foi ou le désir de vengeance, et qui est, momentanément, tolérée comme un vivier dans lequel on peut toujours pécher à la commande quelques coupables à montrer sur un plateau : mais la « force de frappe » déterminante des interventions centrales ne peut-être composée que de professionnels ; ce que confirment chaques détails de leur style.

L’incompétence proclamée de la police et des services de renseignements, leurs mea-culpa récurrent, les raisons invoquées de leurs échecs, fondées sur l’insuffisance dramatique de crédits ou de coordination, ne devraient convaincre personne : la tâche la première et la plus évidente d’un service de renseignements est de faire savoir qu’il n’existe pas ou, du moins, qu’il est très incompétent, et qu’il n’y a pas lieu de tenir compte de son existence tout à fait secondaire. Pourtant, ces services sont mieux équipés techniquement aujourd’hui qu’ils ne l’ont jamais été.

Tout individu notoirement ennemi de l’organisation sociale ou politique de son pays, et, d’avantage encore, tout groupe d’individus contraint de se déclarer dans cette catégorie est connu de plusieurs services de renseignements. De tels groupes sont constamment sous surveillance. Leurs communications internes et externes sont connues. Ils sont rapidement infiltrés par un ou plusieurs agents, parfois au plus haut niveau de décision, et dans ce cas aisément manipulables. Cette sorte de surveillance implique que n’importe quel attentat terroriste ait été pour le moins permis par les services chargés de la surveillance du groupe qui le revendique, parfois encore facilité ou aidé techniquement lorsque son exécution exige des moyens hors d’atteinte des terroristes, ou même franchement décidé et organisé par ces services eux-mêmes. Une telle complaisance est ici tout à fait logique, eu égard aux effets politiques et aux réactions prévisibles de ces attentats criminels.

Le siècle dernier, l’histoire du terrorisme a démontré qu’il s’agit toujours, pour une faction politique, de manipuler des groupes terroristes en vue de provoquer un revirement avantageux de l’opinion publique dont le but peut être de renforcer des dispositifs policiers pour contrer une agitation sociale, présente ou prévisible, ou de déclancher une opération militaire offensive, et son cortège d’intérêts économiques, à laquelle s’oppose la majorité de la nation.

Allemagne 1933 : Hitler

Le 30 janvier 1933, Hitler est nommé chancelier d’Allemagne et chef du pouvoir exécutif. Pourtant, deux adversaires potentiels sont encore devant lui : le Reichstag, qui vote les lois, arrête le budget et décide la guerre, ainsi que le parti communiste allemand, qui, dans le marasme économique de l’époque, pouvait se relever inopinément et constituer un dangereux concurrent. Le 22 février, Goering, alors président du Reichstag attribue aux SD (Sicherheitsdienst : Service de renseignements de sûreté) des fonctions de police auxiliaire. Le 23, la police perquisitionne au siège du parti communiste et y « découvre » un plan d’insurrection armée avec prises d’otages, multiples attentats et empoisonnements collectifs. Le 27 février, un militant gauchiste s’introduit sans difficultés dans le Reichstag et, avec quelques allumettes, y provoque un incendie. Le feu s’étend si rapidement que le bâtiment est détruit. Tous les experts, techniciens et pompiers, ont témoigné qu’un tel incendie ne pouvait être l’œuvre d’un seul homme. Bien après la guerre, d’anciens nazis confirmeront le rôle des SD dans cet attentat. Dès le lendemain de l’incendie, plusieurs milliers d’élus et de militants communistes sont arrêtés, l’état d’urgence décrété, le parti communiste interdit. Quinze jours plus tard les nazis remportent les élections au Reichstag, Hitler obtient les pleins pouvoirs et, dès juillet 1933, interdit tous les autres partis.

Italie 1970 : les Brigades rouge

Au cours des années septante, l’Italie était au bord d’une révolution sociale. Grèves, occupations d’usines, sabotages de la production, remise en question de l’organisation sociale et de l’Etat lui-même ne semblaient plus pouvoir être jugulé par les méthodes habituelle de la propagande et de la force policière. C’est alors que des attentats terroristes, destinés à provoquer de nombreuses victimes, et attribués à un groupe « révolutionnaire », les Brigades Rouges, sont venu bouleverser l’opinion publique italienne. L’émotion populaire permit au gouvernement de prendre diverses mesures législatives et policières : des libertés furent supprimées sans résistance, et de nombreuses personnes, parmi les plus actives du mouvement révolutionnaire, furent arrêtées : l’agitation sociale était enfin maîtrisée. Aujourd’hui, les tribunaux eux-mêmes reconnaissent que la CIA était impliquée, de même que les services secrets italiens, et que l’Etat était derrière ces actes terroristes.

USA 1995 : Timothy Mc Veigh

Le 19 avril 1995, un vétéran de la première guerre du Golfe, Timothy Mc Veigh, lance contre un bâtiment du FBI, à Oklahoma City, un camion chargé d’engrais et d’essence. Le bâtiment s’effondre et fait cent soixante-huit victimes. Au cours de l’instruction, Mc Veigh a déclaré avoir été scandalisé par l’assaut donné par le FBI, deux ans plus tôt, à une secte d’adventiste à Wacco, dans le Texas. Assaut au cours duquel périrent plus de quatre-vingt membres de la secte, dont vingt-sept enfants. Révolté par ce crime, Mc Veigh était donc parti en guerre, seul, contre le FBI. Et au terme de son procès, largement médiatisé, il a été exécuté, seul, par une injection mortelle, devant les caméras américaines.

Après l’attentat, 58 % des Américains se sont trouvés d’accord pour renoncer à certaine de leur liberté afin de faire barrage au terrorisme. Et dans l’effervescence populaire entretenue par les médias, le président Clinton du signer le consternant antiterrorism Act autorisant la police à commettre de multiples infractions à la constitution américaine.

Au vu des ravages causés par l’attentat, Samuel Cohen, le père de la bombe à neutrons, avait affirmé : « Il est absolument impossible, et contre les lois de la physique, qu’un simple camion remplis d’engrais et d’essence fassent s’effondrer ce bâtiment. » Deux experts du Pentagone étaient même venu préciser que cette destruction avait été « provoquée par cinq bombes distinctes », et avaient conclu que le rôle de Mc Veigh dans cet attentat était celui de « l’idiot de service ».

Au cours de son procès, Mc Veigh a reconnu avoir été approché par des membres d’un « groupe de force spéciales impliquées dans des activités criminelles ». Le FBI ne les a ni retrouvés, ni recherchés. Mais dans cette affaire, la police fédérale a dissimulé tant d’informations à la justice qu’au cours de l’enquête, l’ancien sénateur Danforth a menacé le directeur du FBI d’un mandat de perquisition, mandat qu’il n’a pu malheureusement obtenir. L’écrivain Gore Vidal affirme, dans son livre La fin de la liberté : vers un nouveau totalitarisme, sans hésiter : « Il existe des preuves accablantes qu’il y a eu un complot impliquant des milices et des agents infiltrés du gouvernement afin de faire signer à Clinton l’antiterrorism Act ».

USA : 11/9

La situation mondiale exige l’ouverture continuelle de nouveaux marchés et demande à trouver l’énergie nécessaire pour faire fonctionner la production industrielle en croissance constante. Les immenses réserve des pays arabes, et la possibilité des se les approprier, d’acheminer cette énergie à travers des zones contrôlées, font désormais l’objet de conflits entre les USA, décidés à asseoir leur hégémonie, et les autres pays d’Europe et d’Asie. S’emparer de telles réserves aux dépends du reste du monde exige une suprématie militaire absolue et d’abord une augmentation considérable du budget de la défense. Mesures que la population américaine n’était, il y a quelques années encore, aucunement disposée à entériner. Le 11 janvier 2001, la commission Rumsfeld évoquait qu’un « nouveau Pearl Harbour constituera l’évènement qui tirera la nation de sa léthargie et poussera le gouvernement américain à l’action.»

Les services de renseignements américains, qui prétendaient tout ignorer de l’attentat du 11 septembre, étaient si bien averti dans les heures qui ont suivi, qu’ils pouvaient nommer les responsables, diffuser des comptes rendus de communications téléphoniques, des numéros de cartes de crédit, et même retrouver inopinément le passeport intact d’un des pilotes terroristes dans les ruines fumantes des deux tours, permettant ainsi de l’identifier ainsi que ses présumés complices. La version des autorités américaines, aggravée plutôt qu’améliorée par cent retouches successives, et que tous les commentateurs se sont fait un devoir d’admettre en public, n’a pas été un seul instant croyable. Son intention n’était d’ailleurs pas d’être crue, mais d’être la seule en vitrine.

Le pouvoir est devenu si mystérieux qu’après cet attentat, on a pu se demander qui commandait vraiment aux Etats-Unis, la plus forte puissance du monde dit démocratique. Et donc, par extension, on peut se demander également qui peut bien commander le monde démocratique ?

Démocratie : Etat et Mafia

La société qui s’annonce démocratique semble être admise partout comme étant la réalisation d’une perfection fragile. De sorte qu’elle ne doit plus être exposée à des attaques, puisqu’elle est fragile ; et du reste n’est plus attaquable, puisque parfaite comme jamais société ne fut. Cette démocratie si parfaite fabrique elle-même son inconcevable ennemi : le terrorisme. L’histoire du terrorisme est écrite par l’Etat, elle est donc éducative. Les populations ne peuvent certes pas savoir qui se cache derrière le terrorisme, mais elles peuvent toujours en savoir assez pour être persuadées que, par rapport à ce terrorisme, tout le reste devra leur sembler plutôt acceptable, en tout cas plus rationnel et plus démocratique.

On se trompe chaque fois que l’on veut expliquer quelque chose en opposant la Mafia à l’Etat : ils ne sont jamais en rivalité. La théorie vérifie avec efficacité ce que toutes les rumeurs de la vie pratique avaient trop facilement montré. La Mafia n’est pas étrangère dans ce monde ; elle y est parfaitement chez elle, elle règne en fait comme le parfait modèle de toutes les entreprises commerciales avancées.

La Mafia est apparue en Sicile au début du XIXe siècle, avec l’essor du capitalisme moderne. Pour imposer son pouvoir, elle a du convaincre brutalement les populations d’accepter sa protection et son gouvernement occulte en échange de leur soumission, c’est-à-dire un système d’imposition directe et indirecte (sur toutes les transactions commerciales) lui permettant de financer son fonctionnement et son expansion. Pour cela, elle a organisé et exécuté systématiquement des attentats terroristes contre les individus et les entreprises qui refusaient sa tutelle et sa justice. C’était donc la même officine qui organisait la protection contre les attentats et les attentats pour organiser sa protection. Le recours à une autre justice que la sienne était sévèrement réprimé, de même que toute révélation intempestive sur son fonctionnement et ses opérations.

Malgré ce que l’on pourrait croire, ce n’est pas la Mafia qui a subvertit l’Etat moderne, mais ce sont les Etats qui ont concocté et utilisé les méthodes de la Mafia. Tout Etat moderne contraint de défendre son existence contre des populations qui mettent en doute sa légitimité est amené à utiliser à leur encontre les méthodes les plus éprouvées de la Mafia, et à leur imposer ce choix : terrorisme ou protection de l’Etat.

Mais il n’y a rien de nouveau à tout cela. Thucydide écrivait déjà, 400 ans avant Jésus-Christ, dans La guerre du Péloponnèse : « Qui plus est, ceux qui y prenaient la parole étaient du complot et les discours qu’ils prononçaient avaient été soumis au préalable à l’examen de leurs amis. Aucune opposition ne se manifestait parmi le reste des citoyens, qu’effrayait le nombre des conjurés. Lorsque que quelqu’un essayait malgré tout des les contredire, on trouvait aussitôt un moyen commode des les faire mourir. Les meurtriers n’étaient pas recherchés et aucune poursuite n’était engagée contre ceux qu’on soupçonnait. Le peuple ne réagissait pas et les gens étaient tellement terrorisés qu’ils s’estimaient heureux, même en restant muet, d’échapper aux violences. Croyant les conjurés bien plus nombreux qu’ils n’étaient, ils avaient le sentiment d’une impuissance complète. La ville était trop grande et ils ne se connaissaient pas assez les uns les autres, pour qu’il leur fût possible de découvrir ce qu’il en était vraiment. Dans ces conditions, si indigné qu’on fût, on ne pouvait confier ses griefs à personne. On devait donc renoncer à engager une action contre les coupables, car il eût fallut pour cela s’adresser soit à un inconnu, soit à une personne de connaissance en qui on n’avait pas confiance. Dans le parti démocratique, les relations personnelles étaient partout empreintes de méfiance, et l’on se demandait toujours si celui auquel on avait à faire n’était pas de connivence avec les conjuré ».

Aujourd’hui, les manipulations générales en faveur de l’ordre établi sont devenues si denses qu’elles s’étalent presque au grand jour. Pourtant, les véritables influences restent cachées, et les intentions ultimes ne peuvent qu’être assez difficilement soupçonnées, presque jamais comprises.

Notre monde démocratique qui, jusqu’il y a peu, allait de succès en succès, et s’était persuadé qu’il était aimé, a du renoncer depuis lors à ces rêves ; il n’est aujourd’hui plus que l’arme idéologique d’un nouvel ordre mondial.

Publié sur Mecanopolis [2] le 18 octobre 2010

 


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The Yezidis: The History of a Community, Culture and Religion

The Yezidis: The History of a Community, Culture and Religion
 

Birgul Acikyildiz (author)

Hardback, £49.50

Yezidism is a fascinating part of the rich cultural mosaic of the Middle East. Yezidis emerged for the first time in the 12th century in the Kurdish mountains of northern Iraq. Their religion, which has become notorious for its associations with 'devil worship', is in fact an intricate syncretic system of belief, incorporating elements from proto-Indo-European religions, early Persian faiths like Zoroastrianism and Manichaeism, Sufism and regional paganism like Mithraism. Birgul Acikyildiz offers a comprehensive appraisal of Yezidi religion, society and culture. Written without presupposing any prior knowledge about Yezidism, and in an accessible and readable style, her book examines Yezidis not only from a religious point of view but as a historical and social phenomenon. She throws light on the origins of Yezidism, and charts its historical development - from its beginnings to the present - as part of the general history of the Kurds.

The author describes the Yezidi belief system (which considers Melek Taus - the 'Peacock Angel' - to be ruler of the earth) and its religious practices and observances, analysing the most important facets of Yezidi religious art and architecture and their relationship to their neighbours throughout the Middle East. Richly illustrated, with accompanying maps, photographs and illustrations, the book will have strong appeal to all those with an interest in the culture of the Kurds, as well as the wider region.

 

List of Illustrations 
Acknowledgements 
Abbreviations 
Introduction 

Chapter I: Origins, History and Development 

  •  
    • Yezidis in Mesopotamia and Anatolia 
    • Yezidis in Syria 
    • Yezidis in Transcaucasia 

Chapter II: Religious Belief System 

1. God, Angels and the Trinity 

  •  
    • God (Xwedê)
    • Angels 
    • The Peacock Angel (Tawûsî Melek) 
    • Sultan Êzi 
    • Sheikh ‘Ad? 

2. Yezidi Mythology 

  •  
    • Creation of Cosmos and Universe 
    • Creation of Human Being 
    • The Flood 

3. Holy Books 

4. Religious Hierarchy 

Chapter III: Religious Practices, Observances and Rituals 

  •  
    • Haircut, Baptism, Circumcision, Brother of the Hereafter, Marriage, Death 
    • Prayer
    • Fast 
    • Pilgrimage 
    • Festivals and Ceremonies 
    • Taboos 

Chapter IV: Material Culture 

  •  
    • Homeland, Landscape, Sacred Places 
    • Places of Worship 
    • The Sanctuary 
    • Mausoleums 
    • Shrines 
    • The Baptistery 
    • Caves 
    • Tombstones 

Conclusion 
Appendixes 
Glossary 
Notes



Birgul Acikyildiz is a Research Fellow at the Khalili Research Centre for the Art and Material Culture of the Middle East, Faculty of Oriental Studies, University of Oxford.



This is a major, innovative study of one of the least known religious communities of the Middle East…[it will] probably long remain the definitive work on Yezidi material culture.
– Martin van Bruinessen, Professor of the Comparative Study of Contemporary Muslim Societies, Utrecht University

A fascinating narrative and photographic journey through Yezidi religion, society and material culture.
– Nelida Fuccaro, Lecturer in Modern History of the Arab Middle East, School of Oriental and African Studies, University of London

It is particularly gratifying to see the publication of a scholarly work that takes into account both the living tradition and the archaeological and architectural aspects of the Yezidi heritage...A book that makes a real contribution to Yezidi studies.
– Philip G Kreyenbroek, Professor of Iranian Studies, Georg-August University, Göttingen

An invaluable introduction to Yezidi architectural and spiritual history…An indispensable reference book.
– Sebastian Maisel, Assistant Professor for Arabic and Middle East Studies, Grand Valley State University, Allendale

A remarkable and original interdisciplinary work on Yezidi history, religion and material culture.
– Khalil Jindy Rashow, Consular at the Ministry of Iraqi Foreign Affairs, Baghdad

Imprint: I.B.Tauris
Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd

Hardback
ISBN: 9781848852747
Publication Date: 30 Sep 2010
Number of Pages: 304

 

 

jeudi, 21 octobre 2010

Afrique: des colonies à l'indépendance

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Des colonies à l'indépendance...

Le premier numéro hors-série de La nouvelle revue d'histoire est en kiosque. Il est entièrement consacré à l'Afrique et à l'accession des colonies à l'indépendance. On y trouve des articles de l'africaniste Bernard Lugan, de Philippe Conrad, de Jean-Joël Brégeon et de Philippe d'Hugues, notamment.

 

The Emergence of Nationalist Politics in Morocco

The Emergence of Nationalist Politics in Morocco: The Rise of the Independence Party and the Struggle Against Colonialism After World War II
 

Daniel Zisenwine (author)

Hardback, £54.50

The end of World War II intensified Morocco's nationalist struggle against French colonial rule, with the establishment of the Istiqlal ('independence') party and the Moroccan Sultan's emergence as a national leader. In this book, Daniel Zisenwine charts the rise of Morocco's leading nationalist party, and illustrates the weakness of Moroccan political parties at the outset of the anti-colonial struggle. While Morocco today faces formidable challenges, its political system remains profoundly influenced by the events charted in this book. Drawing from a wide range of previously unpublished sources, Daniel Zisenwine presents the background to the Istiqlal's establishment, its initial actions and demands, and an extensive discussion of its social activities aimed at mobilizing the Moroccan public during the anti-colonial struggle.

 

Daniel Zisenwine is Research Fellow at The Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies, Tel Aviv University.

Imprint: I.B.Tauris
Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
Series: International Library of Political Studies

Hardback
ISBN: 9781848853232
Publication Date: 30 Sep 2010
Number of Pages: 272

mercredi, 20 octobre 2010

Force et Honneur

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SOMMAIRE

 

1ère partie : des batailles…

         Préface de Jean-Pierre Papadacci

1.     Les Thermopyles par Christian Segré – 480 avant J.C.

2.     Marathon par Romain Lecap – 490 avant J.C.

3.     Issos par Quentin Hélène – 331 avant J.C.

4.     Gergovie par Joseph Maie Joly – 52 avant J.C.

5.     Zama par André Lama – 202 avant J.C.

6.     Teutoburger Wald par Pascal Lassalle – 9 après J.C.

7.     Tolbiac par Hubert Kohler – 496 après J.C.

8.     Les champs catalauniques par Arnaud Derville – 541 après J.C.

9.     La bataille de Toulouse et la bataille de Poitiers par Gilbert Sincyr – 732 après J.C.

10.  Hastings par Erik Fuchs – 1066 après J.C.

11.  La prise de Jérusalem par Pierre Vial – 1099 après J.C.

12.  Las Navas de Tolosa par Jean Kapel– 16 juillet 1212

13.  La bataille de Bouvines par Jean-Christophe Hartmann − 1215

14.  Tannenberg par Arthur Lorc’h − 1242

15.  Azincourt ou la mort de la chevalerie française par Jean Denègre – 25 octobre 1415

16.  La prise d'Orléans par Thierry Bouzard – 1429

17.  Le siège de Vienne par Philippe Conrad – 1529

18.  La bataille de Lépante par Robert Steuckers – 7 octobre 1571

19.  La bataille de Torfou par Arthur de Lascaux − 1793

20.  Austerlitz, la bataille des trois empereurs par Louis Samagne − 1805

21.  Camerone par Alain Sanders – 30 avril 1863

22.  Mourir pour Verdun par Philippe Fraimbois – 1916

23.  Le siège de l’Alvazar de Tolède par Olivier Grimaldi – 1936

24.  Stalingrad par Pierre Gilieth – 2 février 1943

25.  Le débarquement du commando Kieffer par Jean André − 1944

26.  La bataille de Berlin par Chris Chatelet – avril 1945

27.  Dien Bien Phu par Éric Fornal – 7 mai 1954

28.  L’insurrection de Budapest par Lajos Marton – octobre 1956

29.  La bataille d'Alger par François-Xavier Sidos– janvier à mars 1957

30.  Le siège de Sarajevo par Pierre-Henri Bunel – 1992 

 

2ème partie : et des hommes de guerre

1.     Général Yves Dervilles

2.     Colonel Jean Luciani

3.     Capitaine Dominique Boneli

4.     Jean Laraque

5.     Alexis Arette

6.     Roger Holeindre

7.     Aimé Trocmé

 

« C’est la guerre qui a fait des hommes et des temps ce qu’ils sont…Et toujours, si longtemps que la roue de la vie danse en nous sa ronde puissante, cette guerre sera l’essieu autour duquel elle vrombit. »

Ernst Jünger, La guerre notre mère

 

 « On ne se dérobe pas à la loi du combat, parce que c’est la loi de la vie. »

Pierre Drieu la Rochelle

 

 « L’avenir appartient à qui recueille et sème l’éternelle fleur du passé. »

Charles MAURRAS.

 

« La vie d’une grande nation n’est qu’un combat. Elle a ses jours d’épreuve.

Mais comme l’a dit Montaigne : l’adversité est une fournaise à recuire l’âme. »

Maxime WEYGAND

Le calendrier mémoriel de nos pères était, autrefois, parsemé de noms de saints, de soldats héroïques et aussi de grandes batailles. Ces noms,  gravés dans l’histoire des peuples, étaient toujours évocateurs : Ils constituaient une mémoire collective et  forgeaient  les identités nationales. Chaque  nation vénérait ses saints, exaltait ses héros et communiait dans le souvenir  de  ses grandes batailles. Le souvenir de celles-ci, gagnées ou perdues, était perpétué par des cérémonies patriotiques, véritables liturgies, qui cimentaient les peuples en reliant les vivants et les morts.

  Aujourd’hui,  ce culte de la mémoire, propre aux vieilles nations historiques, est contrôlé, contesté pour ne pas dire condamné car il dérange les tenants du nouvel ordre mondial. L’idéologie universaliste règne désormais en maîtresse, elle déforme, révise, détourne  le passé en attendant de le faire disparaître. C’est dans cet esprit que le bicentenaire de la victoire  d’Austerlitz a été  effacé, ignoré et  que  la commémoration du 90ième  anniversaire de la fin de la Première Guerre mondiale  a été transformée en promotion de l’union européenne et de son prétendu «  avenir radieux ». On  n’évoque plus les guerres que pour les condamner ou pour jeter l’opprobre sur les combattants. On  réhabilite les mutins, on glorifie les déserteurs, les traîtres, les objecteurs de conscience et on les offre en modèle. Les combats futurs ne se dérouleront plus que dans les stades ou dans les temples de la Bourse et les héros ne seront plus que des sportifs ou des traders. On nous promet un univers de paix et de prospérité qui  implique l’oubli de notre identité et  l’abandon de  notre nationalité : le monde n’est plus qu’un marché soumis à la religion du Veau d’Or  et notre avenir est assuré à jamais à condition d’en devenir les consommateurs.

  Beaucoup de ceux qui confondent rêves et réalités peuvent  se convertir aux utopies mondialistes  mais  nous, qui fûmes les enfants de Dien-Bien-Phu et de Budapest, nous refusons d’entrer dans ce marché de dupes. Nous savons que la vie  ne sera jamais un long fleuve tranquille.  Nous savons que nous sommes les héritiers de générations qui ont œuvré, souffert et parfois  sacrifié leur vie pour nous transmettre une patrie. Nous savons  que notre nationalité est un titre de propriété sur notre terre,  sur nos biens et  sur notre culture. Nous savons que  nous sommes des débiteurs et que nous avons le devoir de faire fructifier et de transmettre le patrimoine que nous avons reçu. Nous  savons qu’il  ne serait pas digne d’oublier les sacrifices de  nos anciens et encore moins de les stigmatiser ou de les renier. Enfin nous sommes convaincus que la nation reste la clef de voûte de l’ordre mondial. C’est pourquoi nous avons décidé de relater les grandes batailles qui ont marqué l’histoire des nations. Elles rappelleront à ceux qui l’oublient que la vie est avant tout un combat et que  notre premier  devoir est de rester fidèles à tous nos compatriotes qui, au cours des siècles, n’ont pas hésité  à donner leur vie pour assurer la pérennité de leur nation.

Jean-Pierre PAPADACCI.

Français d’Empire.