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dimanche, 18 avril 2010

L'insegnamento della Costituzione di Fiume

Scritto da Giorgio Emili

http://www.area-online.it/  

Dannunzio_ingressa_Fiume.jpgLa politica si spezza il cuore a forza di predicozzi e buoni sentimenti, nell’era del conflitto sociale.
La Costituzione dovrebbe fare da collante e i valori in essa contenuti dovrebbero essere totalmente condivisi. La realtà, come bene abbiano visto, è un’altra: addirittura opposta. Lo scontro è aperto, i valori non sono condivisi, aleggia da decenni l’idea non dichiarata di una parte giusta che ha vinto e che reca in sé tutto il bene possibile.

La Costituzione italiana – serve parlar chiaro -  in molte parti nasconde questa realtà.
Per molti aspetti continua a essere la Costituzione del dissenso, prodotta da una frattura della storia italiana.
Le istituzione cercano, giustamente, di evidenziare le note concilianti, il sapore pieno di salvaguardia della democrazia e dei valori innati. L’evidenza dei fatti e la scarsa considerazione, da parte dei comuni cittadini, del tessuto della nostra Costituzione (certo, quanti la conoscono realmente?, quanti hanno approfondito le sue norme?) testimoniano che il passo decisivo verso la reale distensione degli animi non è ancora compiuto. Del resto perché tanti tentativi di riforma, perché tante dichiarazioni sulla necessità di un suo adeguamento?
La fiducia nella Costituzione ha, da sempre, sopito il conflitto, rasserenato gli animi, colmato i buchi di ogni possibile deriva. Questo però, a quanto pare, non basta. Fiducia cieca nella Costituzione, ci mancherebbe, ma è bello ricordare che esiste (è esistito) un modello costituzionale diverso (e per certi versi controverso) che ha un filo conduttore invidiabile.
Da uno scritto di Achille Chiappetti abbiamo scoperto una felice ricostruzione della Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume.
«Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro, promulgato l’8 settembre del 1920, costituisce da sempre – scrive Chiappetti - un angolo oscuro quasi perduto della coscienza costituzionale del nostro Paese. Il suo testo predisposto dal socialista rivoluzionario Alceste De Ambris rappresenta infatti un insieme di estrema modernità e di inventiva anticipatoria di quelli che sarebbero stati i successivi sviluppi dell’organizzazione economica dello Stato fascista e delle democrazie moderne. Il suo impianto – spiega - fondato sul sistema corporativo e sul valore del lavoro produttivo, come fondamento dell’eguaglianza e della libertà, nonché sul non riconoscimento della proprietà se non come funzione sociale, costituisce un modello che e stato troppo spesso dimenticato». Ma la parte più affascinante di quelle considerazioni sullo statuto fiumano riguarda l’analisi di singole norme, soprattutto se confrontate con le attuali della nostra Costituzione.
«La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini  - dice lo Statuto -, senza distinzione di sesso, di stirpe, di lingue, di classe, di religione». «Amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori». Ancora: «La Reggenza si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezione e di menzogne». Si respira  - chiosa Achille Chiappetti - «un aria di positività e di concordia quasi da costituzione statunitense e non il clima di tensione e scontro che risuona nelle prime parole della nostra Carta repubblicana».
Le conclusioni hanno forte sapore dannunziano e meritano di essere segnalate. Si innalza, infatti, su tutti l’articolo XIV della Carta del Carnaro: «La vita è bella e degna che veramente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà».
«È nello Statuto fiumano, dunque, che e possibile trovare l’ispirazione per un concetto di socialità posto in maniera differente e del tutto a-conflittuale che meriterebbe di essere ripreso per dare forza ad un nuovo risorgimento italiano».
Ecco. La felicita nella nostra Costituzione non c’è – dice Chiappetti - . E non solo lui.

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La Carta del Carnero - Une constituzione scomoda

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La carta del Carnaro. Una costituzione scomoda

Scritto da Andrea Venanzoni

http://ideodromocasapound.org/   

Uscita formalmente vincitrice dal primo conflitto mondiale, l’Italia si presenta in realtà come una nazione economicamente e socialmente allo sbando; un sistema produttivo prevalentemente a base rurale rimasto inerte e cristallizzato durante i lunghi anni del logoramento bellico, inflazione, disoccupazione, un certo tasso di arretratezza politica considerata dalla popolazione al pari di immobilismo e incapacità decisionale, i primi fermenti rivoluzionari portati dalla eco sempre più vicina della Rivoluzione d’Ottobre e dello spartachismo tedesco(1), danno un quadro desolato e raggelante di un paese sulla soglia della agitazione rivoluzionaria.
In questa composita situazione, si leva alto al cielo il grido dannunziano della vittoria mutilata; fortemente ostile alla linea filo-alleati e alla politica estera di Orlando e del suo Ministro degli Esteri Sonnino (accusati di non saper gestire le delicate trattative di Versailles, soprattutto in tema di annessione della ricca città di Fiume), ancorata questa alle direttive del Presidente americano Wilson (col quale pure si registrano degli screzi , screzi originanti da una condotta scorretta del Wilson stesso che in sprezzante violazione dei principii elementari della politica internazionale si rivolge direttamente in un discorso al popolo italiano invitandolo ad accettare ciò che Orlando non sembra voler accettare, ovvero la rinuncia ai territori giuliani e dalmati),
il Vate raduna una eterogenea pattuglia di militari, ex Arditi, sindacalisti rivoluzionari, artisti, anarchici e avventurieri e alla loro testa si insedia a Fiume per lavare quella che è vissuta a tutti gli effetti come una tragica onta.
Siamo nel Settembre 1919(2).

Fiume rappresenta all’epoca una realtà decisamente particolare; alla fine del secolo XVIII l'imperatrice Maria Teresa aveva concesso alla città lo status speciale di corpus separatum, garantendo una non indifferente autonomia amministrativa e finanziaria.
La particolare posizione geografica poi e lo speciale statuto giuridico avevano favorito lo sviluppo di Fiume non solo come centro commerciale, ma pure come città cosmopolita, intellettualmente vivace. All’interno della città la componente etnica italiana era divenuta nel corso degli anni maggioritaria, tanto che la locale comunità italiana costituitasi in Consiglio Nazionale immediatamente dopo la vittoria nel primo conflitto mondiale aveva unilateralmente proclamato l’annessione all’Italia.
Per quanto possa apparire paradossale, considerato lo stato d’assedio permanente(3) e la ristrettezza geomorfologica dell’enclave, l’area fiumana diventa subito uno straordinario laboratorio socio-giuridico; sul motivo o sui motivi che hanno reso possibile ciò si è scritto in abbondanza(4), quel che preme sottolineare è naturalmente la straordinaria capacità di mediazione operata da D’Annunzio, il quale riesce sin dall’inizio in forza del suo indubitabile carisma a ricomporre le disarmonie e le fratture intellettuali registratesi tra l’anima anarco-libertaria e quella più prettamente nazionalistica.

Il primo problema da affrontare è la denominazione stessa della enclave; lungi dal rivestire solo una importanza nominalistica, la questione è invece prettamente e squisitamente politica. Mentre i nazionalisti e gli Arditi spingono affinchè Fiume divenga Reggenza e quindi estensione sulla costa giuliano-dalmata del territorio italiano, sposando quindi in pieno le tesi degli Irredentisti confluiti nel Consiglio Nazionale, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici e l’anima operaista preferiscono di gran lunga sancire un’autonomia formale e sostanziale dall’Italia utilizzando la denominazione di Repubblica.
A quanto sembra, su questo punto si consuma uno degli scontri intellettuali più intensi tra il Vate e Alceste de Ambris(5); il sindacalista rivoluzionario italiano, amico fraterno di Filippo Corridoni(6), nominato Capo di Gabinetto nel Comando Fiumano dal gennaio 1920 avrebbe senza dubbio alcuno preferito lasciare sullo sfondo le istanze meramente irredentiste e annessioniste per concentrarsi maggiormente sulla riorganizzazione amministrativa e sociale dello Stato fiumano (o della “città libera di Fiume” come si diceva ricorrendo a suggestioni anarchiche). Di questa larvata tensione dialettica tra D’Annunzio e De Ambris sarà dato trovare traccia lungo tutto il testo della Carta.

Ad ogni modo, in considerazione del non secondario fatto che l’ala militare dei Fiumani è decisamente schierata su posizioni nazionaliste e che del Consiglio Nazionale ormai fanno parte anche iscritti ai Fasci di Combattimento mussoliniani, De Ambris accetta la denominazione di Reggenza, preferendo ottenere riconoscimenti di stampo sociale nella normazione dedicata al lavoro e al sistema rappresentativo.
La stesura della Carta nasce da un imperativo eminentemente organizzativo; vi è necessità di sottoporre l’enclave ad una sia pur minimale forma di controllo e di governo, nella speranza che l’Italia nittiana smetta di temporeggiare e proceda alla tanto aspirata annessione. Quindi più che una vera e propria Costituzione, uno Statuto amministrativo legato in modo specifico alla amministrazione delle Finanze e al reperimento dei fondi di cui la eterogenea pattuglia dannunziana abbisogna(7).
Per capire lungo quale tortuoso percorso logico, giuridico e culturale quello che sarebbe dovuto essere un mero Statuto di carattere effimero si trasforma in una vera e propria Costituzione diventa imprescindibile analizzare lo staff chiamato alla operazione di studio e di redazione della Carta stessa. Operazione che tra l’altro presenta il non secondario merito di spazzare via alcune ombre di mero folklore che aleggiano ancora oggi sulla impresa, sulla Reggenza e sulla Carta fiumana.
Quando infatti ci si riferisce alla Carta del Carnaro si è soliti ritenerla frutto del genio estemporaneo del Vate e si tende a mettere in risalto solo gli aspetti più prettamente letterari (come ad esempio l’incardinamento della Musica in un testo normativo) e si dimenticano tutti quei tecnici, giuristi, economisti, sindacalisti che misero il loro impegno al servizio della redazione di uno dei testi costituzionali più innovativi dell’epoca (e che conserva notevoli accenti di modernità ancor oggi).
D’Annunzio, come detto, deve reperire dei fondi e far gestire il Ministero dell’Economia da un tecnico; inizia una ricognizione di personalità accademiche ed istituzionali che lo possano aiutare sia nella gestione delle finanze sia nell’affrontare i problemi concettuali legati alla sfera delle imposizioni fiscali. Per dirigere l’economia fiumana il Vate quindi cerca, nel marzo del 1920, di attirare a Fiume anzitutto Giuseppe Toeplitz, consigliere delegato della Banca Commerciale, che però rifiuta.
Risposta negativa il Comandante riceve anche da Giuseppe Volpi, altro grande finanziere(8).
Inaspettatamente ad accettare è una personalità che, in apparenza, non potrebbe esser più distante dai governanti fiumani; il grande economista Maffeo Pantaleoni.
Sulle motivazioni che spingono Pantaleoni ad accettare l’incarico sembra prevalere il nazionalismo dello studioso, ammesso da lui stesso nel carteggio intercorso con D’Annunzio(9). L’esponente di punta, assieme a Vilfredo Pareto, del filone italico della corrente teorica denominata marginalismo ebbe modo di percorrere durante la sua esistenza una parabola non solo teorica e di studio ma anche esistenziale che lo condusse da una acceso liberalismo individualista ad una fiducia assoluta nella forza e nel potere di equilibrio espletato dallo Stato. Tanto che Pantaleoni, nella introduzione di un suo volume, arriverà a scrivere “il più grande, il più perfetto, il più splendido nazionalista che la guerra abbia rivelato presso di noi è Gabriele D’Annunzio. Molto l’Italia deve a quest’uomo, il più straordinario per intensità di sentimento e ricchezza di pensiero”(10).

In realtà l’idillio non dura molto; quando Pantaleoni arriva a Fiume, oltre alla tenuta del Ministero a cui è stato preposto viene chiamato a collaborare al documento costituzionale ed iniziano allora feroci scontri con le anime più libertarie ed intransigenti dell’Impresa. Effettivamente conciliare la posizione rigidamente statualista (quasi statolatrica) dell’economista con quelle autonomiste, microfederaliste dei vari De Ambris e Keller o con quelle eroico-futuriste di altri personaggi diventa un gioco di ardimento equilibristico. Lo scontro più violento, ed insanabile, però si consuma con i fautori del corporativismo, dottrina questa che Pantaleoni non può e non vuole culturalmente accettare.
Il corporativismo, come noto, non conosce una sua intrinseca univocità strutturale; ne è esistita una corrente di stampo cattolico(11), una più prettamente anarco-socialista (slegata quindi, in ottica di puro mutualismo proudhoniano, da ogni intervento dello Stato(12)) ed un corporativismo statualista che sfocerà poi in quello di stampo fascista.
Per i fautori di questa corrente e per la sua immissione nella carta costituzionale il corporativismo deve essere inteso come la collaborazione delle forze economiche di una Nazione, coordinate dallo Stato, secondo principi produttivistici, al fine di proteggere le economie nazionali dai tentativi egemonici di carattere monetario e politico operati da varie consorterie internazionali. In realtà mentre per lo stesso De Ambris l’intervento statuale può essere in qualche misura limitato, per altri Fiumani, esso deve comunque essere presente.
Per Pantaleoni, il corporativismo rischia di portare con sé il germe del particolarismo economico, fenomeni di lobbying, stratificazioni sociali non più controllabili dallo Stato. Una disarmonia generalizzata ai limiti dell’anarchia.
Dopo incontri, gruppi di studio, proposte accettate, cassate, smussate e lavorate più o meno finemente di cesello, si giunge l’8 Settembre del 1920 alla Promulgazione della Carta. Un testo certamente particolare, sia per alcuni profili di radicale innovazione dell’assetto statuale sia per l’inserimento, del tutto inusuale per un testo giuridico, di licenze poetiche, passi letterari (soprattutto nella considerazione della musica come cardine dello Stato) e palesi contraddizioni di cui si darà conto successivamente, avvertendo sin da ora che aporie e contraddizioni non sarebbero mai potute mancare stante la diversità culturale (ai limiti della irriducibilità ad unità) dei contributi proposti.
Il testo della Carta viene fatto precedere da un preambolo dal sapore puramente storico-letterario, ai limiti della mitopoiesi, significativamente titolato “Della perpetua volontà popolare”, in cui si ricostruisce il valore simbolico della città libera e si fa promessa di consegnarne la gloria imperitura all’Italia (a cui tuttavia non si manca di muovere critica per l’immobilismo, con le parole “la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria vittoria” tipizzando in certa misura lo spettro della vittoria mutilata); già da questa parte della Carta si comprende chiaramente la sua differenza formale con un qualunque testo costituzionale, poiché D’Annunzio afferma ex professo di voler andare oltre il mero status di corpus separatum e di voler far entrare in vigore la Costituzione come forma di controllo temporaneo sull’area in attesa dell’annessione.

Con l’art I si radica la sovranità (non a caso gli articoli dal I al XIV vanno sotto la rubrica di “dei fondamenti”), sia a livello rappresentativo sia a livello geografico (nel testo del medesimo articolo, sempre il I si assiste al passaggio di livello logico tra radicamento della sovranità nella libera audoterminazione del popolo e dato morfologico del confine orientale da difendere...). Particolarmente significativo il disposto dell’art IV(13); si sancisce in modo inequivoco un criterio di uguaglianza sostanziale, mirandosi a superare ogni forma di discriminazione per motivi di sesso, razza, convincimento ideologico, ceto, per poi passare ad una elevazione del diritto del produttore sopra ogni altro diritto, con frasi che echeggiano i principii proudhoniani. Principii proudhoniani che tornano, sia pure giocati sul delicato crinale di libertà individuale e mantenimento dell’ordine sociale, nell’articolo V laddove si fa riferimento alla tensione verso la giustizia e alla liberazione dai vincoli e dalla soggezione.
Anche l’elencazione dei cd diritti civili e politici lascia sbalorditi per l’assoluta modernità; dopo aver stabilito in modo chiaro l’uguaglianza tra i sessi, la Carta si premura di eliminare in radice qualunque ipotesi di coartazione delle libertà individuali, soprattutto quando queste investono la delicata sfera della credenza religiosa. Unico limite, lascia chiaramente intendere l’art. VII, la contrarietà al bene comune e alla stabilità, limite che verrà normativizzato in apposite leggi (le quali comunque non potranno essere equivoche, fumose, in tanto delicata materia).
Dopo aver stabilito il diritto all’educazione come diritto imprescindibile della persona umana, si arriva ad uno degli articoli certo più significativi dell’impalcatura normativa; il IX, che recita “lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la piú utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale.”
Si tratta di una innovazione lungimirante e sociologicamente parlando di grande brillantezza; la funzionalizzazione sociale della proprietà (che avrà vasta eco nei lavori del Costituente repubblicano, tanto poi da finire ad esempio nel secondo comma dell’art 41) e la sua riconduzione nell’alveo del lavoro individuale sono frutto di una visione analitica estremamente precisa, proiettata nel futuro e senza dubbio disancorata dal dato sociale di una Italia in cui la proprietà è all’epoca quasi esclusivamente fondiaria ed in cui l’occupazione della terra costituisce risorsa primaria.
Questa concezione della proprietà rappresenta una evidente rottura con schemi ottocenteschi, che consideravano in senso deteriore qualunque intervento statale in materia di traffici interprivatistici; si pensi alla notissima frase del giurista francese Portalis, uno dei massimi ispiratori del Code Civil del 1804, secondo cui ai privati compete la proprietà, al Sovrano l’impero, sancendo concettualmente l’esistenza di due sfere che avrebbero fatto meglio ad ignorarsi a vicenda.
L’eco della impostazione borghese e napoleonica si era pesantemente riverberata nel codice civile italiano del 1865; si pensi all’articolo 436 che definiva la proprietà come “diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”, si tratta in tutta evidenza di una norma ispirata da profondo egoismo mercantilistico, in cui l’unica accezione negativa di cui può connotarsi la proprietà è quando essa arriva a minacciare l’ordine pubblico o la struttura del consesso, non rilevando quindi la mera speculazione o la distonia sociale che essa dovesse determinare. Piuttosto curioso che, nonostante come detto gli articoli 41 e 42 della costituzione repubblicana tendano ad affermare (più su carta che non nella sostanza) una funzione sociale della proprietà poi sopravvivano norme come quella dell’art 841 del codice civile, norma che ancora oggi sancisce una assolutezza dei diritti del proprietario (nel caso di specie, del proprietario del fondo).

Allo stesso modo rileva l’art. XIII in cui per la prima volta nel testo compaiono le Corporazioni, qui al pari di Cittadini e Comuni considerate forze che concorrono al moto e alla formazione universitaria e sociale. Il lavoro torna in quella che è una delle norme più singolari dell’intera Carta, l’art. XIV; formalmente dedicato ai principii religiosi, di sapore estetizzante e con una smaccata aura nietzschana (soprattutto nella definizione dell’ “uomo intiero”) vede comparire ancora una volta il lavoro, vero motore non tanto invisibile della compagine statuale fiumana.
Con l’art XVIII si entra nel delicato ambito della organizzazione corporativa; ambito delicato perché la struttura corporativa può sottendere tanto ad una ricerca esasperata della democrazia diretta, tesa alla rappresentatività cetuale e dei produttori, quanto ad un controllo capillare di schietta ispirazione organicistica o totalitaria da parte dello Stato. Detto articolo viene a prevedere le corporazioni in numero di dieci, con simbologia presa dal Comune (quindi ricorrendo direttamente ai mitemi medievali) e con proprio Statuto regolamentare interno. Il successivo articolo XIX passa in rassegna la morfologia e le caratteristiche delle varie corporazioni; merita accennare la più particolare di queste, la decima, chiamata a dare rappresentanza “ alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. E' quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all'apparizione dell'uomo novissimo, alle trasfigurazioni
ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l'ànsito penoso e il sudore di sangue. E' rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta un'antica parola toscana dell'epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: "Fatica senza fatica ".”(14)
Non a caso l’ultima corporazione è innominata ed eminentemente priva di fisiologia; essa finisce con l’incarnare lo spirito costruttore che deve informare l’azione delle precedenti nove corporazioni(15). D’altronde uno spirito-guida finisce con l’essere indispensabile se si pensa che alle Corporazioni la Carta assegna un altissimo grado di autonomia decisionale e funzionale; esse svolgono fini di mutualità sociale, mettono in piedi strutture assicurative e previdenziali, si autogovernano, impongono ai loro aderenti dei tributi per l’autofinanziamento. Vedono riconosciuta la personalità giuridica di diritto pubblico.

Il raccordo con il potere centrale, la Reggenza, è determinato dall’articolo XXI secondo un criterio di autonomia e di collaborazione, in previsione del fine ultimo; non a caso si fa esplicito parallelismo con il riconoscimento delle autonomie locali, i Comuni.
E proprio il dettato normativo concernente i Comuni (articoli da XXII a XXVI) rappresenta una delle innovazioni più radicali, riconoscimento pieno ed esplicito dell’autonomia locale al massimo grado. Si pensi invece alla situazione italiana, dall’entrata in vigore dello Statuto albertino (che tra l’altro riconosce gli enti locali ma li normativizza in modo incidentale e limitato) sino agli anni venti; gli enti locali sono organizzati secondo il modello di accentramento francese, con dei Prefetti scelti dal potere centrale e dipendenti dal Ministero degli Interni operanti nella provincia e chiamati a rappresentare il Governo e ad essere al tempo stesso organi di vertice dell’amministrazione locale, coi Comuni governati da un Sindaco scelto dal Governo (tra i consiglieri comunali) e con una serie di controlli pervasivi esperiti dal Governo stesso, controlli che non investono solo la sfera della legittimità ma anche quella del merito(16).
Ai Comuni si riconosce il potere di stipulare trattati e accordi, di comporre le fratture sociali che si dovessero riscontrare al loro interno (a meno che queste non si facciano insanabili e non debba intervenire il potere centrale della Reggenza), in caso di contrasto tra le finalità perseguite dal Comune e la Reggenza una valutazione sarà data dalla Corte della Ragione (giudice delle leggi, sorta di Corte Costituzionale antesignana) attraverso un giudizio di conflitto di attribuzioni.

Per quel che invece concerne il potere legislativo, anche qui si riscontrano delle novità significative e delle concettualizzazioni ardite e moderne; aldilà dell’aspetto nominalistico, per cui si prevedono due Camere, il Consiglio degli Ottimi e quello dei Provvisori, bisogna mettere in luce il riconoscimento del suffragio universale tout- court con estensione dell’elettorato attivo (e passivo; posto che per essere eletti nel Consiglio degli Ottimi è sufficiente il requisito del poter votare, mentre nel caso del Consiglio dei Provvisori, che è espressione delle Corporazioni, si deve appartenere alla Corporazione di riferimento) anche alle donne. L’età per votare è fissata a venti anni.
Anche qui si colgono chiaramente delle nette differenze con la normativa costituzionale italiana dell’epoca; pur rimanendo anche nel caso fiumano la legge elettorale fuori dall’alveo costituzionale (pur se l’articolo XXXI, limitatamente al Consiglio dei Provvisori, parla esplicitamente di criterio della rappresentanza proporzionale), le età per essere eletti divergono in modo inequivoco (trenta anni in Italia, venti a Fiume; si veda l’art 40 dello Statuto albertino a tale proposito). Inoltre in Italia si prevedevano requisiti censitari sconosciuti alla Carta del Carnaro.

Le due Camere, o Consigli, hanno attribuzioni radicalmente differenziate, in forza della loro diversa composizione; il potere legislativo compete al Consiglio degli Ottimi che lo esercita nella stesura del Codice penale e civile, nella organizzazione della Polizia, della Difesa nazionale, della Istruzione pubblica secondaria, delle Arti belle, dei Rapporti fra lo Stato e i Comuni. Al contrario il Consiglio dei Provvisori, espressione delle categorie corporative, ha potestà legislativa in materia di diritto commerciale, diritto della navigazione, diritto del lavoro e quelle che oggi potremmo definire relazioni industriali, diritto tributario e bancario.
Le decisioni più rilevanti, come ad esempio i trattati internazionali e la riforma del testo costituzionale, competono al cd Arengo del Carnaro (anche noto come Consiglio Nazionale), ovvero i due Consigli di cui si è detto sopra, riuniti in seduta comune.

Il potere esecutivo conosce la sua sistemazione in due articoli, il XXXV e il XXXVI; si tratta di due norme eminentemente descrittive, che passano in rassegna la struttura dei Rettori, equivalenti dei Ministri. Essi sono raccolti in un ufficio, un organo collegiale assimilabile in qualche misura al Consiglio dei Ministri in cui il primo Rettore svolge la sua funzione di coordinamento e di apertura del dibattito, come “primus inter pares”.

Una delle novità più rilevanti è situata anche nell’ordinamento giudiziario cui la Carta dedica una cospicua mole di norme; esercizio migliore non potrebbe esservi di una lettura sinottica di queste norme e delle corrispondenti che lo Statuto albertino dedica all’argomento. Salta subito all’occhio quanto scarne siano le norme previste dalla costituzione italiana vigente in quegli anni, gli articoli dal 68 al 73; articoli che rimandano prevalentemente alla legge settoriale occupandosi poco della morfologia giudiziaria e del processo.
Al contrario la Carta del Carnaro all’articolo XXXVII delinea una lunga serie di organi giudiziari, alcuni dei quali di sorprendente modernità; essi sono i Buoni uomini, i Giudici del Lavoro, i Giudici togati, i Giudici del Maleficio, la Corte della Ragione. Gli articoli successivi si dilungano in maniera organica a delineare la funzione peculiare e specifica di questi giudici.
I buoni uomini potrebbero essere considerati antesignani dei nostri giudici di pace, con competenza esclusivamente su materie civili aventi un valore non superiore alle cinquemila lire, ed una residuale competenza in sede penale per quei reati che potremmo definire bagattellari, con pena non superiore all’anno di reclusione.
L’articolo XXXIX si dilunga in maniera articolata per delineare le caratteristiche della magistratura del Lavoro, e non potrebbe essere altrimenti se si pensa l’importanza che il lavoro riveste nella Carta. Si tratta di una norma di grandissima finezza giuridica, in cui al giudice del lavoro sono rimesse le cause lavorative e legate alle dinamiche corporative, materie tecniche e come tali ben conoscibili da esperti del settore che saranno appunto nominati giudici dalle varie Corporazioni; non solo, il Costituente fiumano prevede anche, per garantire celerità e speditezza nel rendere giustizia, la creazione di sezioni specializzate, le quali saranno chiamate a riunirsi nel caso di proposizione di appello.
Vi sono poi giudici togati, giurisperiti chiamati in via residuale a decidere sulle cause che non appartengano alla giurisdizione di buoni uomini o tribunale del lavoro.
Questi giudici, in organo collegiale definito Tribunale, costituiscono giudice d’appello per quel che concerne le cause proposte davanti ai Buoni Uomini.
L’articolo XLI prevede l’istituzione del cd Tribunale del Maleficio, composto da sette cittadini-giurati e da un giudice togato con funzioni di presidente. Si tratta di una sorta di Corte d’Assise penale, competente inoltre a decidere sui reati a sfondo politico.
Vi è poi l’istituzione della Corte della Ragione, supremo giudice delle leggi (e dei provvedimenti dell’esecutivo), organo chiamato a giudicare anche dei conflitti di attribuzione tra legislatore ed enti locali(17).
Si tratta in tutta evidenza di una costituzionalizzazione della funzione giudiziaria eminentemente diversificata rispetto a quella accolta dalle carti costituzionali ispirate ai criteri francesi, in cui la magistratura è un ordine con garanzie formali e sostanziali di indipendenza rispetto agli altri poteri; certamente permane grado di autonomia, in quanto non vi è soggezione del giusdicente rispetto agli altri poteri dello Stato però allo stesso tempo non esiste nemmeno una magistratura in senso tecnico.Anzi, gran parte dei cittadini chiamati a far valere la funzione giudiziaria sono diretta emanazione di interessi corporativi, con l’eccezione dei togati e dei dottori in legge nominati a comporre la Corte della Ragione.
D’altronde basta scorrere la normativa italiana, pre e post-unitaria, in tema di ordinamento giudiziario per comprendere come la magistratura di carriera, costituita in autonoma classe specializzata, fosse divenuta a tutti gli effetti un corpo più o meno separato dall’esecutivo (più o meno perché ad esempio la legge Cortese, r.d. 2626/1865 ancorava in modo abbastanza netto la nomina dei magistrati a seguito di concorso indetto dall’esecutivo e soprattutto ne delineava lo status in termini non prettamente di indipendenza; nemmeno le modifiche intervenute successivamente, fino al 1890, andavano nel senso di una autonomizzazione, autonomizzazione che si palesò al’orizzonte solo con la legge organica Zanardelli, la l. 6878/1890 e con la legge Orlando, l. 438/1908...tuttavia nel 1920, quando la Carta del Carnaro viene promulgata la magistratura italiana gode di una piena autonomia, con tanto dell’avvenuta creazione del CSM e inamovibilità dei pretori, ed una sempre più evidente tecnicizzazione della funzione.). Nella Reggenza di Fiume a rigore non esiste una vera magistratura, non si prevedono contrappesi e bilanciamenti tra le funzioni, tanto che le Corporazioni, che appartengono a tutti gli effetti al novero dei corpi sociali e che esprimono anche una loro funzione legislativa (a mezzo di nomina di cittadini che finiranno nel Consiglio dei Provvisori), sono anche chiamate ad esprimere dei “magistrati” tecnici per il processo del Lavoro e per altre Corti.
Questa curiosa commistione di differenti livelli logici troverà una sua peculiare eco nell’ordinamento Grandi; per fare un esempio che sia chiarificatore basta leggere il paragrafo ventinovesimo della Relazione del Guardasigilli al Re, paragrafo in cui si esprime chiaramente una visione etica dello Stato e della funzione giudiziaria che deve permanere indipendente solo per non vedere turbare il giudizio del magistrato (nonostante poi il magistrato stesso debba essere “responsabilizzato” verso il raggiungimento del bene supremo della comunità statuale). Certo una nozione curiosa di indipendenza.

Consci della effimera consistenza della Reggenza, o quantomeno del suo essere minacciata dall’esercito italiano, i costituenti decidono tuttavia di costituzionalizzare la figura del Comandante, ricalcata palesemente sulla figura del “dittatore” del diritto pubblico romano; figura necessariamente transitoria, chiamata a risolvere casi di eccezionale gravità, il Comandante assomma tutti i poteri. La durata del suo incarico è stabilita dal Consiglio Nazionale, che è pure competente alla sua nomina.
La difesa nazionale, strettamente interrelata alla figura del Comandante, viene affidata al “popolo in armi”, e tanto gli uomini quanto le donne devono prendere parte alle attività militari, i primi come combattenti le seconde come ausiliarie.
L’art XLIX contiene una disposizione piuttosto oscura, prevedendo che “in tempo di pace e di sicurezza, la Reggenza non mantiene l'esercito armato; ma tutta la nazione resta armata, nei modi prescritti dall'apposita legge, e allena con sagace sobrietà le sue forze di terra e di mare”. Si tratta indubbiamente del tentativo di configurare una vera e propria milizia di popolo, sulla scia di suggestioni rivoluzionarie riprese dalla esperienza sovietica. Una conferma a questa impostazione ci arriva da uno scritto di De Ambris(18), in cui si mette in luce l’analogia intercorrente tra bolscevismo e fascismo (almeno il primo fascismo, quello cui lo stesso De Ambris aveva inizialmente abbracciato); non a caso nella temperie fiumana si tenterà la sintesi tra nazionalismo e istanze rivoluzionarie sociali, attingendo al patrimonio culturale dei cd teorici della violenza rivoluzionaria, come Blanqui e Sorel, che come noto furono tra le letture di formazione pure del giovane Mussolini.
L’oscurità della norma adombra in realtà una contraddizione; il non mantenimento dell’esercito in armi cozza decisamente con il concetto di una nazione che resta comunque armata. E per quanto, come tenta di precisare il resto della disposizione, si operi una differenza tra servizio militare attivo e istruzione militare vi è da dire che la norma non si chiarifica, se non nel senso di una enunciazione di principio che vuole appunto la determinazione di una milizia popolare.
Per rimanere in tema di spirito popolare e di democrazia diretta, alcune norme si premurano di garantire al cittadino la possibilità di partecipare, sia pur in modo limitato e mediato, al processo legislativo.

A norma dell’art LV “ogni sette anni il grande Consiglio nazionale si aduna in assemblea straordinaria per la riforma della Costituzione. Ma la Costituzione può essere riformata in ogni tempo quando sia chiesta dal terzo dei cittadini in diritto di voto. Hanno facoltà di proporre emendamenti al testo della Costituzione i membri del Consiglio nazionale le rappresentanze dei Comuni la Corte della Ragione le Corporazion.”. Invece per l’art LVI, “tutti i cittadini appartenenti ai corpi elettorali hanno il diritto d'iniziare proposte di leggi che riguardino le materie riservate all'opera dell'uno o dell'altro Consiglio, rispettivamente. Ma l'iniziativa non è valida se almeno il quarto degli elettori, per l'uno o per l'altro Consiglio, non la promuova e non la sostenga.”.
La carta costituzionale disciplina anche l’istituto della riprova, ovvero un referendum da leggersi sia in chiave propositiva quanto abrogativa.
Estremamente moderno, e attuale, l’art LIX, il quale stabilisce che “nessun cittadino può esercitare piú di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo”.
Abbiamo visto come la Carta sia un testo estremamente moderno, persino ardito in alcune parti; non mancano, come si accennava più sopra, delle contraddizioni e delle aporie soprattutto dettate dal tono generale di enunciazione solenne, persino meta- letteraria. E così, se da un lato sono comprensibili il mancato raccordo concettuale tra istanze socialisteggianti e quelle più smaccatamente nazionalistiche e statolatriche, diventa invece più arduo comprendere come in tema culturale la Carta si affretti a sancire l’uguaglianza di tutte le lingue salvo poi specificare che la lingua superiore a tutte, per retaggio storico e missione universale è quella italiana. Partizione comprensibile in termini di opportunità politica, meno in una prospettiva giuridica e costituzionale.

La Carta tuttavia non ha modo di essere messa alla prova; promulgata l’8 Settembre del 1920, quindi al crepuscolo dell’esperienza fiumana (che sarebbe definitivamente finita col cd Natale di sangue in quello stesso anno), essa si appresta quindi a passare alla storia come uno di quei documenti di altissimo valore simbolico, come la Costituzione della Repubblica romana, priva però di una reale messa in pratica.
Al Fascismo quel documento risulterà pressocchè inservibile(19) dal punto di vista pratico-organizzativo (ma non certamente da quello culturale); gli unici studiosi fascisti che si interesseranno ad essa saranno gli analisti del pensiero corporativo, come Menegazzi, Peteani, Ugo Spirito(20) ma la loro visione del corporativismo sarà decisamente differenziata rispetto a quella sussunta nel dato normativo della Carta.
Piuttosto il Fascismo riprenderà la visione del lavoro fiumana e la tipizzerà nella Carta del Lavoro, cercando di dare un seguito, mediante il Ministero delle Corporazioni, alla piena collaborazione armonica tra le classi per il superiore bene della Nazione. Ma ciò che soprattutto il Fascismo riprenderà sarà il sostrato culturale sotteso alla esperienza fiumana, anche se la funzionalizzazione sociale della proprietà sarà raggiunta soltanto nel sudario di sangue e fuoco della Repubblica Sociale.

Note

  1. Una cui anticipazione poteva essere vista su suolo italico nella cd “settimana rossa” consumatasi nel 1914, e che aveva portato alla costituzione delle prime squadre di autodifesa organizzate da industriali ed agrari per arginare le contestazioni violente delle Leghe socialiste. La fenomenologia dei moti insurrezionali e delle violenze politiche pre e post-belliche è ricostruita, nel generale quadro ricostruttivo delle origini del Fascismo, dalle teoria di Chabod, Tasca e Nenni, secondo i quali si potrebbe parlare di una “periodizzazione del fascismo”, ovvero di fasi storiche in cui il fascismo sarebbe stato presente sia pure in nuce.
  2. In realtà Orlando, suggestionato da questo clima e preoccupato che potessero nascere moti insurrezionali, anziché cercare un compromesso, resta fermo nelle pretese sulla Dalmazia ed aggiunge la richiesta di annessione di Fiume all'Italia, ordinando anche, in risposta all'appello del Consiglio Nazionale fiumano, lo sbarco di alcuni reparti militari a Fiume.
  3. La scarsa incisività diplomatica di Orlando, tornato in Italia stanco e sfiduciato, costa cara al giurista; la Camera difatti gli vota contro ed il suo posto viene preso da Nitti. Il quale Nitti si dimostra decisamente ancor meno benevolo nei confronti della ipotesi di annettere Fiume all’Italia.
  4. Vedasi ex multis, Renzo De Felice: “La Carta del Carnaro”, Bologna, Il Mulino, 1973 , Renzo De Felice: “D’Annunzio politico (1918-1928)”, Roma-Bari, Laterza, 1978 , G. Negri e S. Simoni: “Le Costituzioni inattuali”, Roma, Ed. Colombo, 1990; soprattutto il De Felice, nel suo “la Carta del Carnaro”, op. cit., p. 10, mette in luce un dato estremamente importante; D’Annunzio si trova alla guida di una pattuglia certo eterogenea per aspirazioni e idealità, ma omogenea nella tensione verso la creazione di una compagine organizzativa nuova, soprattutto omogenea nel dato sociale, cetuale e culturale. Mentre al contrario l’Italia era divisa e frammentata da divisioni sociali, culturali di grande rilevanza.
  5. C. Salaris, “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume”, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 100 .
  6. I due tra l’altro, conosciutisi nel 1908, collaboreranno per breve tempo al giornale sindacalista L’Internazionale, inoltre la sorella di Corridoni sposerà il fratello di De Ambris, Amilcare.
  7. Tanto che i Marinai fiumani vengono denominati Uscocchi, riprendendo l’antico nome dei Pirati dalmati; e la pirateria marittima non viene esclusa dal novero dei mezzi di approvvigionamento. Addirittura l’anarco-futurista Guido Keller organizza un Ufficio Colpi di Mano, la cui sezione marittima altro non fa che atti di pirateria, catturando navi mercantili e portandone i carichi a Fiume.
  8. C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, op. cit. p. 137.
  9. A. Cardini, “Il nazionalismo di Maffeo Pantaleoni e il suo carteggio con Gabriele d’Annunzio (1919-1922)”, «Studi Senesi», Supplemento alla centesima annata, Volume Secondo, 1988, pp. 806-834 e R. De Felice, “Il carteggio fiumano d’Annunzio-Pantaleoni”, «Clio», anno X, n. 3/4, luglio-dicembre 1974, pp. 519-551
  10. M. Pantaleoni “Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra”, Bari, Laterza, 1917, pp. VII-VIII.
  11. Leone XIII, Enciclica Humanum Genus, 20 aprile 1884; in quesa enclichica il Pontefice auspica di far risorgere, adattate ai tempi, strutture corporative, simili, per qualche aspetto, a quelle distrutte dai sostenitori di aride leggi economiche, contrastanti con i principii di valorizzazione e di collaborazione che da secoli la Chiesa Cattolica perfezionava e indicava ai popoli. Si pensi pure alla Rerum Novarum. E’ comunque evidente che il corporativismo cattolico è totalmente orientato su coordinate anti-statali.
  12. Come noto per Proudhon il fine ultimo cui deve tendere l’individuo è la giustizia, una giustizia che sarebbe negata dalla presenza stessa dell’autorità, sia essa metafisica o pubblicistica; applicato alla sfera lavorativa questo principio si traduce nel mutualismo, attraverso cui i lavoratori, in quanto produttori, si scambiano i prodotti, in modo da costruire un tutto armonico. In questa nuova forma di società lo Stato e le sue leggi finiscono per scomparire e la loro funzione può essere assolta da contratti liberamente stipulati, volti a risolvere i problemi della convivenza. Questo specifico aspetto dell’anarchismo proudhoniano sarà recepito anche da altri teorici dell’anarchismo, come tra gli altri Kropotkin. Non a caso il lavoratore a Fiume è considerato un produttore.
  13. La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed inalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori; abolisce o riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e gli officii, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre vigorosa e piú ricca la vita comune.
  14. La tensione verso l’orizzonte sovra-umano delle idee, un aroma nietzcshano diffuso, sottendono chiaramente in tutto il testo costituzionale dei lineamenti che potremmo definire di “costituzione-indirizzo”, intendendosi con tale espressione una normativizzazione che vuole essere sprone al cittadino affinchè si senta parte di una comunità in cammino protesa verso il raggiungimento di un fine superiore. Sul punto vedasi M. Fioravanti, Appunti di Storia delle costituzioni moderne- le libertà fondamentali”, Giappichelli, 1995, p. 99 .
  15. L’accenno ad una “mitologia del lavoro” non può passare inosservato; richiama esplicitamente quelle figure immani che saranno poi rievocate dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo. Si pensi per tutti all’operaio jungeriano.
  16. Il microfederalismo di matrice socialnazionale può essere colto in maniera esplicita laddove si confronti questa normazione con la corrispondente normativa italiana in tema di autonomie locali; il Testo Unico degli Enti Locali (d lgs 267/2000) che all’art 1, comma 3, sancisce un quadro imperativo di limiti per le autonomie stesse. Clamoroso da questo punto di vista anche l’articolo 3. Sul punto, vedasi “L’ordinamento degli Enti Locali”, a cura di Mario Bertolissi, Il Mulino, 2002, specialmente pagine 51-69; per una ricostruzione storica del sistema delle autonomie locali, G. Melis “Storia dell’amministrazione italiana”, il Mulino, p. 76
  17. XLII. Eletta dal Consiglio nazionale, la Corte della Ragione si compone di cinque membri effettivi e di due supplenti. Dei membri effettivi almeno tre, dei supplenti almeno uno saranno scelti fra i dottori di legge. La Corte della Ragione giudica degli atti e decreti emanati dal Potere legislativo e dal Potere esecutivo, per accertarli conformi alla Costituzione; di ogni conflitto statutario fra il Potere legislativo e il Potere esecutivo, fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune, fra la Reggenza e le Corporazioni, fra la Reggenza e i privati, fra i Comuni e le Corporazioni, fra i Comuni e i privati; dei casi di alto tradimento contro la Reggenza per opera di cittadini partecipi del Potere legislativo e dell'esecutivo; degli attentati al diritto delle genti; delle contestazioni civili fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune; delle trasgressioni commesse da partecipi dei poteri; delle questioni riguardanti i diritti di cittadinanza e i privi di patria; delle questioni di competenza fra i vari magistrati giudiciali. La Corte della Ragione rivede in ultima istanza le sentenze, e nomina per concorso i Giudici togati. Ai cittadini costituiti in Corte della Ragione è fatto divieto di tenere alcun altro officio, sia nella sede sia in altro Comune. Né possono essi esercitare professione o Industria o mestiere per tutta la durata della carica. L'’istituzione di un giudice delle leggi è una innovazione enorme, che precede addirittura la polemica giuridica sul “custode della costituzione” intercorsa tra Carl Schmitt e Hans Kelsen.
  18. A. De Ambris, “Dopo il trionfo fascista – Le due facce di una sola medaglia”, citato in R. De Felice, Le Interpretazioni del Fascismo, Laterza, 1989
  19. Sulla concezione e sull’ordinamento sindacale e corporativo fascista, in una prospettiva giuridica, vedasi M. Di Simone, “Il Regno di Sardegna e l’Italia Unita”, Giappichelli, 2007, p. 336-339, e A. Grilli “L’Italia dal 1865 al 1942; dal mito al declino della codificazione”, in M. Ascheri “Codificazioni Moderne”, Giappichelli, 2007, p. 238-247
  20. Spirito è probabilmente l’unico intellettuale tecnico, in polemica col corporativismo cattolico, in grado di rileggere e ricontestualizzare in cornice fascista l’esperienza costituzionale fiumana.

Tsarigrad ou le rêve brisé

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

Trouvé sur : http://www.polemia.com/campagne.php?cat_id=31&iddoc=664
[Visitez souvent le site de l’association “Polemia” de Jean-Yves Le Gallou!!]

Fabien de STENAY :

Tsarigrad ou le rêve brisé

"Je me répète lentement, pour bien m'en pénétrer, cette phrase mélancolique d'un vieux prince Bibesco : « La chute de Constantinople est un malheur personnel qui nous est arrivé la semaine dernière »." Com­me le montre la fin amère du fameux roman de Jean Raspail « Le Camp des Saints », la chute de Constan­tinople reste dans l'imaginaire européen symbole de fatalité, de perte irréversible et d'autant plus dou­loureuse. Pourtant, avec le reflux de l'Empire ottoman à partir du XVIIIe siècle, il s'en fallut de peu pour que la Seconde Rome revînt aux mains des Européens. Mais, comme souvent, ce fut la division de ceux-ci qui ruina tous les espoirs.

 

Dans l'Europe restaurée du Congrès de Vienne et de la Sainte Alliance, la Russie s'était assignée la mission de garantir l'ordre sur le continent.

 

Dès le début de son règne, le tsar Nicolas Ier (1825-1855) fit du contrôle des détroits - « les clefs de la maison » - le second objectif de sa diplomatie pour des raisons au moins autant mystiques que straté­gi­ques. La politique de grande fermeté qui suivit vis-à-vis de la Sublime Porte déboucha en 1828 sur une guerre. L'armée russe fut victorieuse, et l'avantageux traité d'Andrinople fut conclu le 14 septembre 1829 : la Russie obtenait les bouches du Danube, des territoires caucasiens, ainsi que le libre passage à travers les détroits pour ses navires marchands. Enfin, les provinces de Moldavie et de Valachie obte­naient leur autonomie et leur placement sous protectorat russe (tout en restant officiellement rattachées à l'Empire ottoman). Les armées du tsar approchaient des Balkans.

 

Toutefois, les principes arrêtés par Alexandre Ier restaient de vigueur : on se contentait d'affaiblir l'Em­pire ottoman, tout en maintenant son intégrité territoriale. Dès le début des années 1830, cette politi­que relativement modérée porta ses fruits : le sultan demanda en 1833 l'aide russe contre le soulèvement du pacha d'Egypte Mehmet Ali. En retour, un traité d'assistance mutuelle fut signé entre les deux Empi­res; une clause secrète interdisait à l'Empire ottoman d'ouvrir les Dardanelles aux bâtiments de guerre étrangers.

 

Les grandes puissances européennes, en premier lieu l'Angleterre, contestèrent le privilège accordé aux Russes, et un nouveau conflit turco-égyptien donna l'occasion d'un nouveau traité : la convention des Dé­troits, entre l'Autriche, la France, la Grande-Bretagne, la Prusse et la Russie, par laquelle les Britanniques obtinrent que les détroits soient interdits, en temps de paix, à tout navire autre que turc.

 

La Russie conservait toutefois des droits sur les populations chrétiennes de l'Empire ottoman, en parti­culier dans les Balkans.

 

Aussi, quand, en 1852, Napoléon III obtint la restitution de douze lieux saints de Palestine à l'Eglise ca­tholique qui les avait perdus en 1808 au profit de l'Eglise orthodoxe, la diplomatie russe perçut le succès français comme une menace. Au début de l'année suivante, le tsar proposa donc au gouvernement bri­tannique un plan de partage de l'Empire ottoman excluant Napoléon III : l'Egypte reviendrait à l'Angleterre tandis que la Russie obtiendrait les Principautés roumaines, la Serbie, la Bulgarie ainsi que le contrôle des détroits. Mais le projet ne pouvait qu'échouer : le tsar négligeait la force des ambitions françaises, et surtout l'hostilité des Anglais comme des Autrichiens à l'avancée russe dans les Balkans. Après une nouvelle guerre russo-turque et la destruction de la flotte ottomane le 30 novembre 1853 à Sinope, la France et l'Angleterre entrèrent en guerre contre le tsar. La guerre de Crimée se poursuivit pendant plus de deux ans et aboutit à une débâcle russe. Le nouveau tsar Alexandre II, à la tête d'une Russie en net recul, con­sacra alors une bonne partie de son énergie à réformer son Empire, et renonça pour le moment à son expansion balkanique.

 

Le climat des années 1870 renoua en partie avec celui qui suivit le Congrès de Vienne : en 1873, une al­liance des trois empereurs (Allemagne, Autriche-Hongrie, Russie) ayant pour but de préserver l'équilibre européen semblait rejouer la Sainte-Alliance.

 

Mais pour le tsar, cette place qui lui était donnée devait servir de tremplin à une nouvelle politique bal­kanique conforme à la poussée du nationalisme et du panslavisme dans l'opinion russe. Celle-ci avait en ef­fet commencé à s'engager passionnément dans la « question d'Orient » au nom de la cause panslave. Mos­cou, « troisième Rome », devait non seulement défendre les intérêts des minorités slaves et orthodoxes de l'Empire ottoman, mais aussi libérer ceux-ci du joug turc et reprendre pied à Constantinople. De plus en plus, la cité du Bosphore était désignée dans la langue russe sous le nom fortement connoté de Tsarigrad, « la ville des empereurs ». Des comités panslaves se formèrent dans les grandes villes (Mos­cou, Saint-Pétersbourg, Kiev, Odessa…), et nourrissaient leur idéologie par les écrits de plumes presti­gieuses, comme Danilevski ou Dostoïevski. Ce dernier écrivait par exemple dans le « Journal d'un écri­vain » : « Le chemin du salut exige que la Russie, et pour son propre compte, s'empare de Constantinople, car la Russie seule a le droit de dire qu'elle est à la hauteur de la tâche ». Certes, le gouvernement russe se méfiait de cette surenchère, mais elle contribua néanmoins au renforcement de l'engagement russe dans les Balkans, au moment même où les minorités orthodoxes de l'Empire ottoman se révoltèrent.

 

Le mouvement lancé en juillet 1875 par les paysans orthodoxes de Bosnie contre leurs seigneurs musul­mans se généralisa en effet à l'ensemble des Balkans.

 

Devant la féroce répression turque et l'entrée en guerre de la Serbie et du Monténégro, la Russie tint na­turellement à intervenir. Prudente, elle attendit la garantie de la neutralité autrichienne pour déclarer la guerre aux Ottomans, en avril 1877. L'engagement russe fut massif et, malgré la vive résistance tur­que, les troupes du Tsar entrèrent dans Andrinople, à 200 Km de Constantinople, en janvier 1878. Le 3 mars suivant, le traité de San Stefano entérinait la victoire de la Russie, qui obtenait de plus des terri­toires arméniens et roumains. L'Empire ottoman dut reconnaître formellement l'indépendance de la Ser­bie, du Monténégro, de la Roumanie, et accepter l'autonomie d'une grande Bulgarie englobant la Ma­cédoine.

 

Toutefois, ce traité bilatéral russo-turc, bien qu'il témoignât du dynamisme retrouvé de la politique bal­kanique russe, se heurta à l'hostilité des diplomaties autrichienne et anglaise qui voyaient d'un mauvais œil cette grande Bulgarie, vaste Etat slave client de la Russie. Les autorités russes durent bientôt ac­cepter le principe d'une conférence internationale; celle-ci se déroula à Berlin en juin et juillet 1878, sous l'égide du chancelier Bismarck et en présence des dirigeants européens de tout premier plan. La Russie dut renoncer à l'autonomie de la Grande Bulgarie et accepter que la Bosnie-Herzégovine fût occupée par l'Autriche-Hongrie. Malgré le dynamisme de la politique balkanique d'Alexandre II, la fin de son règne fut donc marquée par l'opposition virulente des Autrichiens et des Anglais, bientôt rejoints par l'Allemagne : en 1879, une nouvelle alliance, la Duplice, réunissait les Empires autrichien et allemand face à la Russie.

 

Le combat pour Tsarigrad restait toutefois une préoccupation au moins inconsciente de l'impérialisme russe. « Ce damné mirage de Constantinople », comme fait dire Soljénitsyne à l'un des personnages de «Novembre Seize», allait jouer un rôle dans les négociations qui menèrent à la Première Guerre Mon­diale et qui la rythmèrent.

 

En 1912, lors des guerres menées contre la Turquie par les Etats balkaniques, la Russie soutint ces der­niers en faisant bien comprendre à tous que la question constantinopolitaine était un domaine réservé du Tsar. Mais surtout, la mise en place de la Triple Entente impliquait un accord entre Saint-Pétersbourg et Londres : en 1905, la France avait en effet refusé de suivre les cousins Guillaume II et Nicolas II dans leur projet de grande alliance continentale, concocté à Björkö. Après cet échec, le réarmement naval de l'Allemagne inquiéta la Russie, qui, en 1907, n'eut d'autre choix que de suivre la France dans son alliance avec l'Angleterre, bien que cette dernière eût soutenu le Japon dans la guerre de 1904-1905. Mais malgré l'accord tacite de ses alliés à l'enlèvement de Constantinople aux Turcs, la Russie savait qu'elle ne pourrait faire admettre celui-ci aux Autrichiens qu'à la faveur d'une guerre victorieuse.

 

C'est donc après le déclenchement du conflit européen en août 1914 (la Russie ne déclara la guerre à la Turquie qu'en novembre) que commencèrent les manœuvres, militaires comme diplomatiques, autour de la Ville de Constantin.

 

En 1915, Anglais et Français montèrent l'opération des Dardanelles, en vue d'occuper Constantinople et de négocier sa remise à la Russie. Mais devant la résistance menée par Mustafa Kemal et le général allemand Liman von Sanders, l'offensive fut abandonnée après plusieurs mois meurtriers, et ce malgré l'épuisement imminent de l'armement turc: le retrait de l'amiral anglais De Robeck, commandant en chef de l'opéra­tion, stupéfia les Turcs qui ne pensaient pas pouvoir tenir plus longtemps ; il n'est pas impossible que la victoire ait été délibérément évitée. Mais ce n'est pas la dernière occasion manquée dans cette affaire.

 

À partir de la fin de 1916, des négociations secrètes furent ouvertes entre Vienne et Paris, par l'in­termédiaire des princes de Bourbon-Parme, frères de l'impératrice Zita et officiers dans l'armée belge. En février 1917, Charles Ier d'Autriche fit savoir qu'il était prêt à accepter, non seulement la restitution à la France de l'Alsace-Moselle (et même des places enlevées au second traité de Paris en 1815), au sujet de laquelle il fallait encore convaincre Guillaume II, ignorant tout de ces tractations, mais aussi la souve­raineté russe sur Constantinople : sans le soutien autrichien dans les Balkans, il était impossible aux Turcs de résister à une offensive de la Russie et de ses alliés. Le 24 mars, Charles Ier mit ses propo­sitions par écrit, celles-ci restant toutefois encore secrètes.

 

Mais le 31 mars 1917, Clemenceau convainquit le nouveau ministre des Affaires étrangères Ribot de rom­pre les pourparlers engagés par son prédécesseur Briand. Entre-temps, la révolution avait éclaté en Rus­sie, et celle-ci allait bientôt se retirer du conflit ; pendant que Lénine et Trotsky s'activaient en secret, Ribot trahissait les engagements de la France en révélant, aux Italiens d'abord, puis à tous, les propo­sitions autrichiennes. Les révolutionnaires de Petrograd et les radicaux de Paris mettaient fin à un vieux rêve en passe de s'accomplir.

 

Seuls de rares rêveurs espèrent encore que la Seconde Rome et Sainte-Sophie seront un jour libérées. En­core cet espoir n'est-il souvent guère plus qu'une illusion romantique.

 

Toutefois, il n'est pas exclu qu'un jour, peut-être plus proche qu'on ne l'imagine, l'Europe enfin unie ou tout du moins solidaire puisse récupérer l'antique cité fondée au VIIe siècle A.C. par les Grecs de Mégare, élevée au rang de capitale impériale par Constantin le Grand et phare de l'Europe orientale pendant un millénaire. Car si Nietzsche nous apprend que la volonté de puissance est un moteur de l'histoire, n'oublions pas pour autant combien peut être grande la puissance de la volonté.

 

Fabien de STENAY,

(10/10/2003 - © POLEMIA).

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samedi, 17 avril 2010

La "Première Rome" a abdiqué

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

La “Première Rome” a abdiqué...

Plaidoyer italien pour l’Union et l’Idée eurasistes

ex: http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/

chute-de-l-empire-romain.jpgChers amis, En Italie, indubitablement, nous trouvons les meilleurs textes en matières politi­ques. Le mouvement “Eurasien” y a pris pied. La preuve? Les  pages sur la grande toile : http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/; le texte de Francesco Boco, que nous  vous présentons ici, nous rappelle quelques faits  bien réels : nous ne sommes pas indépendants, les élites poli­tiques ont failli, sont totalement incapables de comprendre les nouvelles dynamiques géopoli­tiques à l’œuvre dans le monde. Boco propose une Union Eurasienne, en tant que bloc géostra­tégique contre la tentative américaine de contrôler le globe. Pour ce  qui concerne l’Eurasie, n’oublions pas qu’ici, à Bruxelles, la section de l’émigration russe blanche a connu des ten­dances eurasistes (voir à ce propos le  livre du Prof. Wim COUDENYS, Leven voor de Tsaar. Rus­sische ballingen, samenzweerders en collaborateurs in België, Davidsfonds, Leuven, 2004, ISBN 90-5826-252-9).

Nous nous trouvons au beau milieu d’une époque de grands bouleversements. Aux peuples d’Europe et du monde s’ouvrent des perspectives de longue haleine et de diverses sortes, que l’on peut résumer, en substance, à deux positions principales : les pays collaborateurs seront absorbés par la puissance océanique, afin de former un bloc —la seconde possibilité— contre les pays “non alignés”, c’est-à-dire contre les pays qui cherchent à se soustraire au joug américain et choisissent la voie de l’indépendance.

Depuis quelque temps, face à cette perspective, on parle de la Russie comme de la puissance potentielle capable de guider la résurrection européenne et eurasiatique. Les dernières élections russes donne bon espoir pour l’avenir. Mais il vaut quand même mieux dire que la politique et la géopolitique ne se fondent pas sur des espérances mais sur des faits.

La dure réalité nous contraint de dire, effectivement, que, si, à l’Est la “Troisième Rome” reprend du poil de la bête et que l’ours russe se remet à rugir, le “Première Rome”, elle, la vraie Rome, a abandonné depuis fort longtemps le rôle qui lui revient de droit et qu’elle ne semble plus vouloir assumer.

Un processus d’unification stratégique de l’Eurasie

Le problème, dont question, se pose surtout dans la perspective des scenarii politiques qui se manifesteront dans les prochaines décennies. Inexorablement, l’effondrement du capitalisme est prévisible, prévu par divers observateurs comme inéluctable. Nous devons dès lors prendre conscience de la situation : si, avant que cet effondrement ne soit effectif, nous ne sommes pas prêts, en tant qu’Européens et qu’Italiens, et si nous ne sommes pas suffisamment indépendants des Etats-Unis sur le plan économique, alors nous risquons de subir une crise très dure, aux aléas peu clairs. Acquérir cette nécessaire indépendance économique ne peut venir que d’une alliance territoriale, économique et militaire avec la Russie et ses satellites, c’est-à-dire amorcer le processus d’unification stratégique de l’Eurasie. Depuis longtemps déjà les Etats-Unis entreprennent d’encercler le territoire de la Russie, mais, indépendamment de cette stratégie, nous devons prendre en considération le cas de l’Italie, tel qu’il se présente à l’heure actuelle, et tel qu’il se développera à coup sûr, et avec une intensité accrue, dans le futur.

En admettant qu’il faille d’ores et déjà envisager la possibilité concrète de former le continent-Eurasie, nous devons nous demander quels seront, dans ce contexte, le rôle et la fonction de l’Italie, nous demander si nous sommes prêts ou non pour ce grand bouleversement épocal.

Vu la situation qui prévaut aujourd’hui, la réponse à ces questions est évidemment négative sur toute la ligne.

Si, soudain, le bloc eurasiatique, dont nous espérons l’avènement, venait à se former, l’Italie serait en état d’impréparation totale, surtout à cause de l’absence d’une classe dirigeante qui serait en mesure de devenir un interlocuteur valable pour la Russie et qui pourrait faire valoir les droits et les intérêts de la “Première Rome”. Depuis plusieurs décennies, l’Italie est un pays asservi. Et le restera très probable­ment même si le “patron” change, à la suite de toute une série de circonstances fortuites.

L’unique alternative possible...

Le fait majeur qui nous préoccupe est double : d’une part, le projet eurasien est l’unique alternative possible pour échapper à la domination de la puissance d’Outre Atlantique; d’autre part, on s’est jusqu’ici bien trop peu préoccupé de savoir qui devra prendre les rênes du pouvoir dans notre pays quand et si le changement survient. Nous pourrions tenir le même discours en changeant d’échelle, en passant au niveau européen...

Le “Mouvement Panrusse Eurasia” est puissant et influent en Russie; il est devenu un lobby proprement dit, un centre d’influence politique et culturel; il suffit de se rappeler qu’Alexandre Douguine, Président du Mouvement, dirige aujourd’hui une université où les idées eurasistes trouvent un très large écho.

Dans notre pays, nous devons déplorer l’absence d’un lobby eurasiste, d’un groupe de pression qui, au moment opportun, pourra s’imposer par l’action d’une classe dirigeante préparée, capable de mettre en valeur le rôle de l’Italie, un pays dont l’importance est fondamentale pour nouer des contacts avec les pays de la Méditerranée et pour jouer le rôle de médiateur incontournable dans les rapports avec les pays arabes.

Cependant les idées eurasistes en Italie ont pris pied depuis quelques années; elles ont connu une diffusion plutôt satisfaisante, si bien que, désormais, le concept d’”Eurasie” n’est plus inconnu. Toutefois, la lacune que présenterait l’Italie résiderait dans l’absence d’une classe dirigeante qui pourrait devenir un allié valable, et non une caste servile, pour la nouvelle Russie impériale.

Donner vie à un mouvement eurasiste

Il existe des maisons d’éditions et des intellectuels italiens qui diffusent inlassablement le message eurasiste; leur présence s’avère fondamentale pour notre avenir, mais elle est évidemment insuffisante. Le problème se pose donc en Italie: il faut donner vie à un Mouvement Eurasiste hypothétique, prêt à coopérer avec un mouvement analogue basé à Moscou, et capable de coordonner les ambitions d’unifi­cation continentale, par le biais d’une activité de propagande bien capillarisée et bien ajustée.

Or, aujourd’hui, le problème premier est de former les futurs cadres dirigeants de ce mouvement appelé à garantir le destin grand-continental de notre peuple et de tous les peuples d’Europe. Le milieu, que l’on qualifie à tort ou à raison de “néo-fasciste”, est, qu’on le veuille ou non, le premier à avoir pris cons­cience de l’importance du projet “Eurasie” et des potentialités qu’il représente.

La création d’un centre d’influence, d’inspiration eurasiste, passe nécessairement par l’union des forces de tous ceux qui, indépendamment de leur formation politique, se sentent proches des positions eurasistes; mais chez la frange “anti-système” de la nébuleuse dite “néo-fasciste” qui représente, de fait, le principal réservoir d’hommes, d’esprits et de moyen pour réaliser cette tâche de rassemblement général.

Soyons toutefois bien clairs : dans l’appel à l’union que nous formulons ici, nous utilisons l’expression consacrée de “néo-fascisme” surtout pour identifier une aire politico-culturelle qui, finalement, s’avère vaste et variée, où se bousculent des conceptions politiques très diverses, mais que les médiats classent sous cette étiquette, qu’ils veulent infâmante et qu’ils assimilent systématiquement à des dérapages ta­pageurs, bien visibilisés et mis en scène par les services de désinformation ou de provocations en tous genres. Nous ne prendrons, dans cette aire politico-culturelle, que les éléments de fonds, indispensables à la formation des futures élites eurasistes, c’est-à-dire :

-          Il faut que ces milieux abandonnent tout nostalgisme absurde, cessent de cultiver les clichés incapacitants et mettent en terme à toutes les “führerites” personnelles.

-          Sans renoncer à leur passé politique, sans renoncer aux devoirs qu’ils impliquent, ces milieux devront nécessairement regarder vers l’avenir et se préparer en permanence à comprendre les dynamiques géopolitiques qui animeront la planète demain et après-demain.

-          En premier lieu, il s’agit de consolider le sincère sentiment européiste présent dans ces milieux (ndt :  depuis Drieu La Rochelle) et de le hisser à la dimension supérieure, c’est-à-dire à la dimension “eurasiste”; en Italie, cet européisme et ce passage à l’eurasisme devra s’allier à la conscience que notre pays est le réceptacle de la “Première Rome” et que ce statut l’empêchera d’accepter un rôle servile dans la nouvelle donne, c’est-à-dire dans l’hypothétique union eurasiatique.

Une lutte radicale contre le néo-libéralisme

-          Ces milieux devront développer les axes idéologiques d’une lutte radicale contre le capitalisme et le néo-libéralisme, que génère toute “démocratie” à la sauce américaine, et qui constituent des menaces mortelles pour tous les peuples d’Europe, car le message politique, historique et génétique, qu’ont légué au fil des siècles, les peuples d’Europe, est celui d’une fusion entre l’idéal communautaire et l’idéal impérial.

-          Si nous concevons l’aire dite “néo-fasciste” dans cette perspective, et si nous nous adressons à elle, parce qu’elle est la plus idoine pour réceptionner notre message eurasiste, alors, en bout de course, le processus d’union continental euro-russe s’en trouvera facilité et accéléré.

-          Dans le cas où, dans le processus de formation du bloc eurasiatique, l’Italie ne se serait pas préparée à la nouvelle donne, et si les élites, dont nous entendons favoriser l’avènement, auraient été contrecarrées dans leurs desseins, rien ne changera, ou quasi rien, par rapport à la situation actuelle, comme toujours dans notre pays, la classe dirigeante sera formée d’opportunistes serviles, obséquieux devant le patron du jour, indignes d’assumer la fonction qu’ils occupent, installés au pouvoir par pur intérêt personnel.

-          Nous devons nous rappeler, ici, les enseignements de Machiavel, qui nous disait que l’aide des armes d’autrui est utile en soi, mais calamiteuse dans ses conséquences, “parce que, si l’on perd, on reste vaincu, si l’on gagne, on demeure leur prisonnier”. Dans les conditions actuelles, donc, qui découlent de la victoire américaine de 1945 en Europe, nous ne pouvons espérer être libres un jour, sauf si nous conquerrons le pouvoir à l’aide de nos seules forces et de notre détermination; nous ne le serons que si nous obtenons une Europe souveraine, indépendante et armée, prélude à une Eurasie impériale, fédérale et armée.

-          L’Union avec la “Troisième Rome” ne signifie pas une soumission servile aux volontés de Moscou, au contraire, elle signifie la réaffirmation des valeurs et de l’importance de la “Première Rome”  —et pas seulement sur le plan géopolitique— une “Première Rome” dont nous devons nous enorgueillir d’appartenir et dont nous devons nous faire les nouveaux hérauts.

-          L’Eurasie est un destin, une union continentale à laquelle l’Europe et la Russie ont toujours secrètement aspiré, comme soutenues par un esprit, un moteur invisible. Dans le passé, cette union a échoué. Cet échec nous enjoint à ne plus commettre les erreurs du passé, à nous préparer pour les bouleversements de l’avenir.

Francesco BOCO, Belluno, 30 décembre 2003.

vendredi, 16 avril 2010

Le Général Sikorski: un "trouble-fête têtu" selon ses alliés anglo-saxons

Alfred SCHICKEL:

Le Général polonais Wladyslaw Sikorski: “un trouble-fête têtu” selon ses “alliés” anglo-saxons

 

Une conversation téléphonique entre Churchill et Roosevelt révèle les causes véritables de la mort « accidentelle » du Premier Ministre polonais en exil pendant la seconde guerre mondiale

 

sikorski-bio.pngLe 25 novembre 2008, on a ouvert la crypte de la Cathédrale de Cracovie qui servait de tombeau à Wladyslaw Sikorski, premier ministre du gouvernement polonais en exil (de 1939 à 1943). Le procureur de la République de Pologne a ordonné d’exhumer le corps de Sikorski pour faire définitivement la lumière, à l’aide des méthodes techniques les plus modernes employées actuellement par la criminologie, sur les causes véritables de la mort du général et homme politique polonais, ôté à la vie, il y a plus de soixante-cinq ans lors de la chute de son avion dans la mer au large de Gibraltar. La nouvelle de la mort « accidentelle » du chef du gouvernement polonais Sikorski avait à peine été divulguée, le 4 juillet 1943, que les premiers doutes quant à la vérité de cette nouvelle étaient émis. Les experts en aéronautique et les observateurs critiques, à l’époque, ont jugé peu crédible, pour diverses raisons, la version d’un « accident d’avion ayant entrainé la mort ». La première chose qui les a frappés, c’est que lors de la chute de l’appareil utilisé par Sikorski tous les passagers n’ont pas trouvé la mort mais seulement une partie de ceux-ci, comme si certains d’entre eux avaient été « ciblés ». Par ailleurs, personne n’a pu dissimuler que le premier ministre polonais était tombé en disgrâce profonde chez Staline.

 

La peur de l’imprévisibilité d’Uncle Joe

 

On sait que Sikorski considérait que les officiers polonais assassinés, et dont les corps furent découverts par les Allemands à Katyn en avril 1943, avaient été les victimes des services secrets soviétiques. Staline a feint l’indignation face au soupçon qu’émettait Sikorski et s’en est servi comme prétexte pour rompre avec le gouvernement polonais en exil à Londres et pour répandre la rumeur que Sikorski était « un collaborateur d’Hitler ». Le président des Etats-Unis, Franklin D. Roosevelt, et le premier ministre britannique Winston Churchill, qui partageaient en secret les présomptions de Sikorski, ont fini par considérer les soupçons contre Staline, émis et réitérés par le premier ministre polonais, comme une entrave à la bonne entente au sein de l’alliance forgée entre les puissances anglo-saxonnes et le bolchevisme soviétique. Roosevelt et Churchill ont donc cherché une « solution », d’autant plus qu’ils étaient tous deux entrés en conflit avec Sikorski sur le tracé futur de la frontière polono-soviétique. Dans ce contexte, Roosevelt et Churchill soutenaient les revendications soviétiques qui réclamaient le retour à l’URSS des régions d’Ukraine et de Biélorussie occidentales, annexées par la Pologne en 1921, ce qui impliquait automatiquement de reconnaître la « Ligne Curzon » comme future frontière orientale de la Pologne. Sikorski, en revanche, voulait que ces régions demeurassent polonaises et qu’on ne tint aucun compte de la « Ligne Ribbentrop-Molotov ». Si Sikorski disparaissait de la scène politique, raisonnait-on à Londres, à Washington et à Moscou, la coalition antihitlérienne gardait toutes ses chances de survivre et de se renforcer.

 

A Londres et à Washington, on craignait par dessus tout que l’URSS sorte de cette coalition et ne fasse plus cause commune contre l’Allemagne ; c’est ce que prouve un extrait de conversation téléphonique entre Churchill et Roosevelt, daté du 29 juillet 1943, qui se trouve aujourd’hui dans les archives du « Centre de Recherches en Histoire Contemporaine » d’Ingolstadt (« Zeitgeschichtliche Forschungsstelle Ingolstadt »). Au cours de cette conversation, le premier ministre britannique dit au président des Etats-Unis « qu’Uncle Joe (le surnom donné à Staline) a entrepris des rapprochements inopportuns avec les Nazis dans le but d’un règlement négocié ». Prendre parti pour Sikorski aurait dès lors contribué à renforcer cette tendance chez Staline à vouloir s’arranger séparément avec Hitler et créer ainsi la surprise comme le Pacte Hitler/Staline d’août 1939 avait créé, lui aussi, la surprise. Roosevelt pensait également que Sikorski était un « trouble-fête têtu » qu’il fallait éliminer.

 

Finalement, Churchill s’est également exprimé expressis verbis en faveur d’une « élimination de Sikorski » : « Ces choses-là, aussi désagréables soient-elles, doivent être pourtant faites, tout simplement dans l’intérêt de la cause commune » et, dans la foulée, Churchill entraine Roosevelt avec lui dans la responsabilité de la « mort accidentelle » du premier ministre du gouvernement polonais en exil : « Je ne peux pas m’imaginer que vous ayez oublié nos entretiens personnels justement sur ce sujet-là, lors de mon dernier séjour à Washington. Cela s’est passé il y a juste deux mois. Vos vues sur la question correspondaient presque exactement aux miennes ».

 

Churchill a même durci sa position, à propos du soupçon qui pesait sur les seuls Britanniques, en répondant, piqué au vif, à Roosevelt qui cherchait à se dégager de toute responsabilité dans la mort de Sikorski parce qu’il devait tenir compte des électeurs américains d’origine polonaise. Churchill, dans la conversation téléphonique que nous évoquons, déclare sans détours à Roosevelt : « Vous savez très bien que nous avons discuté du cas Sikorski jusque dans les moindres détails et vous savez aussi que vous étiez entièrement d’accord avec la solution que je proposais. Vous ne pouvez nullement contester le fait que vous saviez et que vous êtes coresponsable. Je ne pourrai pas l’accepter ». Roosevelt a alors répondu sur un ton abrupt : « Vous devrez pourtant l’accepter. Je répète que je n’ai eu aucune connaissance préalable » ; ensuite, dur, il a adressé les paroles suivantes à Churchill : « L’un de mes plus fidèles conseillers m’a dit, quand il a appris l’accident, que trop de gens, qui n’étaient pas d’accord avec vous, avaient des accidents d’avion mortels ».

 

Roosevelt, en poursuivant la conversation avec son allié, met ensuite l’accent sur l’importance capitale de sa présidence et fait la leçon au Britannique : « Si je ne suis pas nominé, je ne pourrai pas être élu. Comprenez-vous cela ? Et si je ne suis pas élu, mon adversaire probable, que tiennent les réactionnaires et les cercles d’affaires, ne sera pas aussi coopératif et amical à l’égard de vous tous, et surtout pas à l’égard d’Uncle Joe. Si je tombe, l’alliance pourrait bien vaciller et vous aussi vous vacillerez. L’Uncle Joe pourrait alors conclure une paix séparée avec Hitler, et qu’arrivera-t-il alors à l’Angleterre ? Hitler pourrait dans ce cas tourner toute sa colère et toute son aviation contre vous pour se venger de certaines de vos actions comme le dernier raid contre Hambourg » ; Roosevelt faisant ici une allusion directe à l’ « Opération Gomorrhe » lancée deux jours auparavant par la RAF et qui a coûté la vie à 35.000 civils.

 

Révélations compromettantes sur le comportement des alliés occidentaux

 

L’incident démontre en toute clarté que les Etats-Unis ont délibérément étalé leur puissance et humilié simultanément, et de manière assez cruelle, l’Empire britannique, jadis si puissant et dont Churchill prétendait être l’intendant, responsable de son destin présent et futur. Apparemment sans en avoir eu l’intention, le président Roosevelt a contribué, par cette conversation téléphonique vespérale du 29 juillet 1943, à nous éclairer sur bon nombre d’événements peu élucidés de notre histoire contemporaine. De même, cette querelle au téléphone entre l’ « Amiral Q » et le « Colonel Warden »  —selon les pseudonymes qu’utilisaient toujours Churchill et Roosevelt à fins de camouflage, lorsqu’ils s’annonçaient sur la ligne spéciale qui les reliait et qui était mise à leur disposition par l’ « American Telephone & Telegraph » de New York  et la « British Post » de Londres—  révèle quels ont été, pendant l’été 1943, les rapports réels entre les puissances occidentales et l’Union Soviétique. En tant que source concrète de notre histoire contemporaine, cette conversation téléphonique peut se révéler explosive par son contenu, vu le débat qui secoue aujourd’hui la Pologne pour savoir quelles ont été les véritables circonstances de la mort de Wladyslaw Sikorski.

 

Prof. Alfred SCHICKEL.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°51/2008 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

 

mardi, 13 avril 2010

Bardèche's Six Postulates of Fasciste Socialism

Bardèche’s Six Postulates of Fascist Socialism

bardecheTranslator’s Note: When liberalism becomes “a foul tyranny masking an evil and anonymous dictature of money” (the basis of Jewish supremacy), everything is inverted and perverted, so that even our word “socialism” is tarnished, associated as it now is with Washington’s Judeo-Negro regime. I thought it appropriate, therefore, to post something that reminds readers of how we once defined this term.  The following is a short excerpt from Maurice Bardèche’s Socialisme fasciste (Waterloo, 1991). — Michael O’Meara

“Socialisme fasciste” is the title of an essay by Drieu La Rochelle. Fascist socialism, though, has been largely symbolic, since it is more an idea than a record of actual achievement.

At certain points, all fascist movements had to come to terms with socialism. And all took inspiration from it: Hitler’s party was the National Socialist German Workers Party, Mussolini was a socialist school teacher, José-Antonio Primo de Rivera was a symbol of national-syndicalist socialism, Codreanu’s Iron Guard was a movement of students and peasants, Mosley in England had been a Labour Minister, Doriot in France was a former Communist and his PPF emerged from a Communist cell in Saint-Denis.

Historically, fascist movements were liberation movements opposing the confiscation of power by cosmopolitan capitalism and by the inherent dishonesty of democratic regimes, which systematically deprive the people of their right to participate [in government].

With the exception of Peron’s Argentina, circumstances have always been such as to prevent the realization of fascism’s socialist vocation.

Those fascist movements that succeeded in taking power were compelled, thus, to reconstitute an economy ruined by demagogues, to re-establish an order undermined by anarchy, to create ways of overcoming the chaos besetting their lands or to repel external threats. These urgent and indispensable tasks required a total national mobilization and dictated certain priorities.

Circumstances, in a word, everywhere prevented fascists from realizing the synthesis of socialism and nationalism, for their socialist project was necessarily subordinated to the imperative of ensuring the nation’s survival.

These circumstances were further exacerbated by another difficulty: Fascist movements were generally reluctant to destroy the structure of capitalist society.

Given that their enemy was plutocracy, foreign capital, and the usurpers of national sovereignty, the immediate objective of these movements was to put the national interest above capitalist interest and to establish a regalian state capable of protecting the nation, as kings had once done against the feudal powers.

This [fascist] policy of conserving ancient structures may have transformed the prevailing consciousness and shifted power, but it did not entail a revolutionary destruction of the old order.

Fascist nostalgia for the old regime has, indeed, been so profound that it routinely reappears [today] in neo-fascist movements that are national-revolutionary more in word than in deed.

This phenomenon is evident throughout Europe, in Italy and Germany, in Spain, in France . . .

Is it, then, a contradiction distinct to neo-fascism that it has been unable to combine the conservation of hierarchical structures upon which Western Civilization rests with measures specifically socialist?  Or do neo-fascists simply — unconsciously — express the impossibility of grafting measures of social justice onto a civilization profoundly foreign to their ideal . . . ?

We need at this point to turn to [first] principles.

Every new vision of social relations rejecting Marxism rests on a certain number of postulates, which, I believe, are common to all radical oppositional movements.

1. The first of these condemns political and economic liberalism, which is the instrument of plutocratic domination. Only an authoritarian regime can ensure that the nation’s interest is respected.

2. The second postulate rejects class struggle. Class struggle is native to Marxism and [inevitably] leads to the sabotage of the nation’s economy and to a bureaucratic dictatorship, while true prosperity benefits everyone and can be obtained only through a loyal collaboration and a fair distribution.

3. The third protects the nation’s “capital” (understood as the union of capital and labor) and represents all who participate in the productive process . . . It is a function of the [fascist] state, thus to promote labor-capital collaboration and to do so in a way that does not put labor at the mercies of capital.

4. Given that the nation’s economy is a factor crucial to the nation’s independence, it, along with the Army and other national institutions, are to be protected from all forms of foreign interference.

5. Since modern nations have become political-economic enterprises whose power resides in those who control the economy as much as it does in those who make political decisions, the nation must play a leading role in the economic as well as the political systems. The instrument appropriate to such participation in the nation’s life have, however, yet to be invented. . . .

6. Above all, the nation’s interest must take priority over every particular interest. . . .

There is nothing specifically “socialist,” as this term is understood today, in these principles, since contemporary socialism is nothing other than a form of social war whose inevitable culmination is the rule of those bureaucratic entities claiming to represent the workers [i.e., national union federations].

Nevertheless, these principles accord with another conception of socialism — one that favors a fair distribution to all who participate in the productive process. This is not the underlying idea, but the consequence thereof, inspiring our postulates.

A fair distribution, however, will never result from sporadic, recurring struggles challenging the present degradations of money. Instead, it is obtainable only through the authority of a strong state able to impose conditions it considers equitable.

vendredi, 09 avril 2010

Ernst Niekisch: un rivoluzionario tedesco (1889-1967)

ERNST NIEKISCH

UN RIVOLUZIONARIO TEDESCO (1889-1967)

di Josè Cuadrado Costa

Ex: http://eurasiaunita.splinder.com/

Niekischthumb_.jpgErnst Niekisch è la figura più rappresentativa del complesso e multiforme panorama che offre il movimento nazional-bolscevico tedesco degli anni 1918-1933. In lui si incarnano con chiarezza le caratteristiche - e le contraddizioni - evocate dal termine nazional-bolscevico e che rispondono molto più ad uno stato d'animo, ad una disposizione attivista, che ad una ideologia dai contorni precisi o ad una unità organizzativa, poiché questo movimento era composto da una infinità di piccoli circoli, gruppi, riviste ecc. senza che ci fosse mai stato un partito che si fosse qualificato nazional-bolscevico. E’ curioso constatare come nessuno di questi gruppi o persone usò questo appellativo (se escludiamo la rivista di Karl Otto Paetel, "Die Sozialistische Nation") bensì che l’aggettivo fu impiegato in modo dispregiativo, non scevro di sensazionalismo, dalla stampa e dai partiti sostenitori della Repubblica di Weimar, dei quali tutti i nazional-bolscevichi furono feroci nemici non essendoci sotto questo punto di vista differenze fra gruppi d’origine comunista che assimilarono l’idea nazionale ed i gruppi nazionalisti disposti a perseguire scambi economici radicali e l’alleanza con l'URSS per distruggere l'odiato sistema nato dal Diktat di Versailles. Ernst Niekisch nacque il 23 maggio 1889 a Trebnitz (Slesia). Era figlio di un limatore che si trasferì a Nordlingen im Reis (Baviera-Svevia) nel 1891. Niekisch frequenta gli studi di magistero, che termina nel 1907, esercitando poi a Ries e Augsburg. Non era frequente nella Germania guglielmina - quello Stato in cui si era realizzata la vittoria del borghese sul soldato secondo Carl Schmitt - che il figlio di un operaio studiasse, per cui Niekisch dovette soffrire le burle e l’ostilità dei suoi compagni di scuola. Già in quel periodo era avido di sapere ("Una vita da nullità è insopportabile", dirà) e divorato da un interiore fuoco rivoluzionario; legge Hauptmann, Ibsen, Nietzsche, Schopenhauer, Kant, Hegel e Macchiavelli, alla cui influenza si aggiungerà quella di Marx, a partire dal 1915. Arruolato nell’esercito nel 1914, seri problemi alla vista gli impediscono di giungere al fronte, per cui eserciterà, sino al febbraio del 1917, funzioni di istruttore di reclute ad Augsburg. Nell’ottobre del 1917 entra nel Partito Socialdemocratico (SPD) e si sente fortemente attratto dalla rivoluzione bolscevica. E' di quell’epoca il suo primo scritto politico, oggi perso, intitolato significativamente Licht aus dem osten (Luce dall’Est), nel quale già formulava ciò che sarà una costante della sua azione politica: l’idea della "Ostorientierung". La diffusione di questo foglio sarà sabotata dallo stesso SPD al cui periodico di Augsburg "Schwabischen Volkszeitung" collaborava Niekisch. Il 7 novembre 1918 Eisner, a Monaco, proclama la Repubblica. Niekisch fonda il Consiglio degli Operai e Soldati di Augsburg e ne diviene il presidente, dopo esserlo già stato del Consiglio Centrale degli Operai, Contadini e Soldati di Monaco nel febbraio e nel marzo del 1919. Egli è l’unico membro del Comitato Centrale che vota contro la proclamazione della prima Repubblica sovietica in Baviera, poiché considera che questa, in ragione del suo carattere agrario, sia la provincia tedesca meno idonea a realizzare l’esperimento. Malgrado ciò, con l’entrata dei Freikorps a Monaco, Niekisch viene arrestato il 5 maggio - giorno in cui passa dal SPD al Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD). lI 22 giugno viene condannato a due anni di fortezza per la sua attività nel Consiglio degli Operai e Soldati, per quanto non abbia avuto nulla a che vedere con i crimini della Repubblica sovietica bavarese. Niekisch sconta integralmente la sua pena, e nonostante l’elezione al parlamento bavarese nelle liste della USPD non sarà liberato fino all’agosto del 1921. Frattanto, si ritrova nel SPD per effetto della riunificazione dello stesso con la USPD (la scissione si era determinata durante la guerra mondiale). Niekisch non è assolutamente d’accordo con la politica condiscendente dell’SPD - per temperamento era incapace di sopportare le mezze tinte o i compromessi - ed a questa situazione di sdegno si aggiungevano le minacce contro di lui e la sua famiglia (si era sposato nel 1915 ed aveva un figlio); così rinuncia al suo mandato parlamentare e si trasferisce a Berlino, dove entra nella direzione della segreteria giovanile del grande sindacato dei tessili, un lavoro burocratico che non troverà di suo gradimento. I suoi rapporti con L'SPD si deteriorano progressivamente, per il fatto che Niekisch si oppone al pagamento dei danni di guerra alla Francia e al Belgio e appoggia la resistenza nazionale quando la Francia occupa il bacino della Ruhr, nel gennaio del 1923. Dal 1924 si oppone anche al Piano Dawes, che regola il pagamento dei danni di guerra imposto alla Germania a Versailles. Niekisch attaccò frontalmente la posizione dell’SPD di accettazione del Piano Dawes in una conferenza di sindacalisti e socialdemocratici scontrandosi con Franz Hilferding, principale rappresentante della linea ufficiale.

NeI 1925 Niekisch, che è redattore capo della rivista socialista Firn (Il nevaio), pubblica i due primi lavori giunti fino a noi: Der Weg der deutschen Arbeiterschaft zum Staat e Grundfragen deutscher Aussenpolitik. Entrambe le opere testimoniano una influenza di Lassalle molto maggiore di quella di Marx/Engels, un aspetto che fa somigliare queste prime prese di posizione di Niekisch a quelle assunte nell’immediato dopoguerra dai comunisti di Amburgo, che si separarono dal Partito Comunista Tedesco (KPD) per fondare il Partito Comunista Operaio Tedesco (KAPD), guidato da Laufenberg e Wolffheim, che era un accanito partigiano della lotta di liberazione contro Versailles (questo partito, che giunse a disporre di una base abbastanza ampia, occupa un posto importante nella storia del nazionalbolscevismo). Nei suoi scritti del 1925, Niekisch propone che l'SPD si faccia portavoce dello spirito di resistenza del popolo tedesco contro l'imperialismo capitalista delle potenze dell’Intesa, ed allo stesso tempo sostiene che la liberazione sociale delle masse proletarie ha come presupposto inevitabile la liberazione nazionale. Queste idee, unite alla sua opposizione alla politica estera filofrancese dell’SPD ed alla sua lotta contro il Piano Dawes, gli attirano la sfiducia dei vertici socialdemocratici. Il celebre Eduard Bernstein lo attaccherà per suoi atteggiamenti nazionalistici sulla rivista "Glocke". In realtà, Niekisch non fu mai marxista nel senso ortodosso della parola: concedeva al marxismo valore di critica sociale, ma non di WeItanschauung, ed immaginava lo Stato socialista al di sopra di qualsiasi interesse di classe, come esecutore testamentario di Weimar e Königsberg (cioè di Goethe e Kant). Si comprende facilmente come questo genere di idee non fossero gradite all'imborghesita direzione dell’SPD... Ma Niekisch non era isolato in seno al movimento socialista, poiché manteneva stretti rapporti con il Circolo Hofgeismar della Gioventù Socialista, che ne rappresentava l’ala nazionalista fortemente influenzata dalla Rivoluzione conservatrice. Niekisch scrisse spesso su "Rundbrief", la rivista di questo circolo, dal quale usciranno fedeli collaboratori quando avrà inizio l’epoca di "Widerstand": fra essi Benedikt Qbermayr, che lavorerà con Darré nel Reichsmährstand. Poco a poco l’SPD comincia a disfarsi di Niekisch: per le pressioni del suo primo presidente, Niekisch fu escluso dal suo posto nel sindacato dei tessili, e nel luglio del 1925 anticipò con le dimissioni dall'SPD il provvedimento di espulsione avviato contro di lui, ed il cui risultato non dava adito a dubbi. Inizia ora il periodo che riserverà a Niekisch un posto nella storia delle idee rivoluzionarie del XX secolo: considerando molto problematico lo schema "destra-centro-sinistra", egli si sforza di raggruppare le migliori forze della destra e della sinistra (conformemente alla celebre immagine del ferro di cavallo, in cui gli estremi si trovano più vicini fra loro di quanto non lo siano con il centro) per la lotta contro un nemico che definisce chiaramente: all’esterno l’Occidente liberale ed il Trattato di Versailles; all’interno il liberalismo di Weimar. Nel luglio del 1926 pubblica il primo numero della rivista Widerstand ("Resistenza"), e riesce ad attirare frazioni importanti - per numero ed attivismo - dell’antico Freikorps "Bund Oberland" mentre aderisce all'Altsozialdemokratische Partei (ASP) della Sassonia, cercando di utilizzarlo come piattaforma per i suoi programmi di unificazione delle forze rivoluzionarie. Per questa ragione si trasferisce a Dresda, dove dirige il periodico dell’ASP ("Der Volkstaat"), conducendo una dura lotta contro la politica filo-occidentale di Stresemann, opponendo al trattato di Locarno, con il quale la Germania riconosceva come definitive le sue frontiere occidentali ed il suo impegno a pagare i danni di guerra, lo spirito del trattato di Rapallo (1922), con il quale la Russia sovietica e la Germania sconfitta - i due paria d'Europa - strinsero le loro relazioni solidarizzando contro le potenze vincitrici. L'esperienza con l’ASP termina quando questo partito è sconfitto nelle elezioni del 1928, e ridotto ad entità insignificante. Questo insuccesso non significa assolutamente che Niekisch abbandoni la lotta scoraggiato. Al contrario, è in questo periodo che scriverà le sue opere fondamentali: Gedanken über deutsche Politik, Politik und idee (entrambe del 1929), Entscheidung (1930: il suo capolavoro), Der Politische Raum deutschen Widerstandes (1931) e Politik deutschen Widerstandes (1932). Parallelamente a questa attività pubblicistica, continua a pubblicare la rivista "Widerstand", fonda la casa editrice che porta lo stesso nome nel 1928 e viaggia in tutti gli angoli della Germania come conferenziere. Il solo elenco delle personalità con le quali ha rapporti è impressionante (dal maggio 1929 si trasferisce definitivamente a Berlino): il filosofo Alfred Baeumler gli presenta Ernst e Georg Jünger, con i quali avvia una stretta collaborazione; mantiene rapporti con la sinistra del NSDAP. il conte Ernst zu Reventlow, Gregor Strasser (che gli offrirà di diventare redattore capo dei "Voelkischer Beobachter") e Goebbels, che è uno dei più convinti ammiratori del suo libro Entscheidung (Decisione). E’ pure determinante la sua amicizia con Carl Schmitt. Nell'ottobre del 1929, Niekisch è l’animatore dell’azione giovanile contro il Piano Young (un altro piano di "riparazioni"), pubblicando sul periodico "Die Kommenden", il 28 febbraio del 1930, un ardente appello contro questo piano, sottoscritto da quasi tutte le associazioni giovanili tedesche - fra le quali la Lega degli Studenti Nazionalsocialisti e la Gioventù Hitleriana -, e che fu appoggiato da manifestazioni di massa. I simpatizzanti della sua rivista furono organizzati in "Circoli Widerstand" che celebrarono tre congressi nazionali negli anni 1930-1932. Nell'autunno del '32 Niekisch va in URSS, partecipando ad un viaggio organizzato dalla ARPLAN (Associazione per lo studio del Piano Quinquennale sovietico, fondata dal professor Friedrich Lenz, altra figura di spicco del nazional-bolscevismo). Questi dati biografici erano indispensabili per presentare un uomo come Niekisch, che è praticamente uno sconosciuto; e per poter comprendere le sue idee, idee che, d'altra parte, egli non espose mai sistematicamente - era un rivoluzionario ed uno scrittore da battaglia -, ne tenteremo una ricostruzione. Dal 1919 Niekisch era un attento lettore di Spengler (cosa che non deve sorprendere in un socialista di quell' epoca, nella quale esisteva a livello intellettuale e politico una compenetrazione tra destra e sinistra, quasi una osmosi, impensabile nelle attuali circostanze), del quale assimilerà soprattutto la famosa opposizione fra "Kultur" e "Zivilisation". Ma la sua concezione politica fu notevolmente segnata dalla lettura di un articolo di Dostoevskij che ebbe una grande influenza nella Rivoluzione conservatrice tramite il Thomas Mann delle Considerazioni di un apolitico, e di Moeller van den Bruck con Germania, potenza protestante (dal Diario di uno scrittore, maggio/giugno 1877, cap. III). Il termine "protestante" non ha nessuna connotazione religiosa, ma allude al fatto che la Germania, da Arminio ad oggi, ha sempre "protestato" contro le pretese romane di dominio universale, riprese dalla Chiesa cattolica e dalle idee della Rivoluzione francese, prolungandosi, come segnalerà Thomas Mann, sino agli obiettivi dell' Intesa che lottò contro la Germania nella Prima Guerra Mondiale. Da questo momento, l’odio verso il mondo romano diventa un aspetto essenziale del pensiero di Niekisch, e le idee espresse in questo articolo di Dostoevskij rafforzano le sue concezioni. Niekisch fa risalire la decadenza del germanesimo ai tempi in cui Carlomagno compì il massacro della nobiltà sassone ed obbligò i sopravvissuti a convertirsi al cristianesimo: cristianesimo che per i popoli germanici fu un veleno mortale, il cui scopo è stato quello di addomesticare il germanesimo eroico al fine di renderlo maturo per la schiavitù romana. Niekisch non esita a proclamare che tutti i popoli che dovevano difendere la propria libertà contro l’imperialismo occidentale erano obbligati a rompere con il cristianesimo per sopravvivere. Il disprezzo per il cattolicesimo si univa in Niekisch all’esaltazione del protestantesimo tedesco, non in quanto confessione religiosa (Niekisch censurava aspramente il protestantesimo ufficiale, che accusava di riconciliarsi con Roma nella comune lotta antirivoluzionaria), ma in quanto presa di coscienza orgogliosa dell’essere tedesco e attitudine aristocratica opposta agli stati d’animo delle masse cattoliche: una posizione molto simile a quella di Rosenberg, visto che difendevano entrambi la libertà di coscienza contro l’oscurantismo dogmatico (Niekisch commentò sulla sua rivista lo scritto di Rosenberg "il mito del XX secolo").Questa attitudine ostile dell'imperialismo romano verso la Germania è continuata attraverso i secoli, poiché "ebrei", gesuiti e massoni sono da secoli coloro che hanno voluto schiavizzare ed addomesticare i barbari germanici. L’accordo del mondo intero contro la Germania che si manifesta soprattutto quando questa si è dotata di uno Stato forte, si rivelò con particolare chiarezza durante la Prima Guerra Mondiale, dopo la quale le potenze vincitrici imposero alla Germania la democrazia (vista da Niekisch come un fenomeno di infiltrazione straniera) per distruggerla definitivamente. Il Primato del politico sull' economico fu sempre un principio fondamentale del pensiero di Niekisch.

Niekisch_-_Der_politische_Raum.jpgFortemente influenzato da Carl Schmitt, e partendo da questa base, Niekisch doveva vedere come nemico irriducibile il liberalismo borghese, che valorizza soprattutto i principi economici e considera l'uomo soltanto isolatamente, come unità alla ricerca del suo esclusivo profitto. l'individualismo borghese (con i conseguenti Stato liberale di diritto, libertà individuali, considerazioni dello Stato come un male) e materialismo nel pensiero di Niekisch appaiono come caratteristiche essenziali della democrazia borghese. Nello stesso tempo, Niekisch sviluppa una critica non originale, ma efficace e sincera, del sistema capitalista come sistema il cui motore è l’utile privato e non il soddisfacimento delle necessità individuali e collettive; e che, per di più, genera continuamente disoccupazione. In questo modo la borghesia viene qualificata come nemico interno che collabora con gli Stati occidentali borghesi all’oppressione della Germania. Il sistema di Weimar (incarnato da democratici, socialisti e clericali) rappresentava l’opposto dello spirito e della volontà statale dei tedeschi, ed era il nemico contro il quale si doveva organizzare la “Resistenza". Quello di "Resistenza" è un'altro concetto fondamentale dell'opera di Niekisch. La rivista dallo stesso nome recava, oltre al sottotitolo (prima "Blätter für sozialistische und nationalrevolutionäre Politik", quindi "Zeitschrift für nationalrevolutionäre Politik") una significativa frase di Clausewitz: "La resistenza è un'attività mediante la quale devono essere distrutte tante forze del nemico da indurlo a rinunciare ai suoi propositi". Se Niekisch considerava possibile questa attitudine di resistenza è perché credeva che la situazione di decadenza della Germania fosse passeggera, non irreversibile; e per quanto a volte sottolineasse che il suo pessimismo era “illimitato", si devono considerare le sue dichiarazioni in questo senso come semplici espedienti retorici, poiché la sua continua attività rivoluzionaria è la prova migliore che in nessun momento cedette al pessimismo ed allo sconforto. Abbiamo visto qual era il nemico contro cui dover organizzare la resistenza: “La democrazia parlamentare ed il liberalismo, il modo di vivere francese e l’americanismo". Con la stessa esattezza Niekisch definisce gli obiettivi della resistenza: l’indipendenza e la libertà della Germania, la più alta valorizzazione dello Stato, il recupero di tutti i tedeschi che si trovavano sorto il dominio straniero. Coerente col suo rifiuto dei valori economici, Niekisch non contrappone a questo nemico una forma migliore di distribuzione dei beni materiali, né il conseguimento di una società del benessere: ciò che Niekisch cercava era il superamento del mondo borghese, i cui beni si devono “detestare asceticamente". Il programma di "Resistenza" dell’aprile del 1930 non lascia dubbi da questo punto di vista: nello stesso si chiede il rifiuto deciso di tutti i beni che l’Europa vagheggia (punto 7a), il ritiro dall'economia internazionale (punto 7b), la riduzione della popolazione urbana e la ricostituzione delle possibilità di vita contadina (7c-d), la volontà di povertà ed un modo di vita semplice che deve opporsi orgogliosamente alla vita raffinata delle potenze imperialiste occidentali (7f) e, finalmente, la rinuncia al principio della proprietà privata nel senso del diritto romano, poiché “agli occhi dell’opposizione nazionale, la proprietà non ha senso né diritto al di fuori del servizio al popolo ed allo Stato”. Per realizzare i suoi obiettivi, che Uwe Sauermann definisce con precisione identici a quelli dei nazionalisti, anche se le strade e gli strumenti per conseguirli sono nuovi, Niekisch cerca le forze rivoluzionarie adeguate. Non può sorprendere che un uomo proveniente dalla sinistra come lui si diriga in primo luogo al movimento operaio. Niekisch constata che l’abuso che la borghesia ha fatto del concetto "nazionale", impiegato come copertura dei suoi interessi economici e di classe, ha provocato nel lavoratore l’identificazione fra "nazionale" e "socialreazionario", fatto che ha portato il proletariato a separarsi troppo dai legami nazionali per crearsi un proprio Stato. E per quanto questo atteggiamento dell’insieme del movimento operaio sia parzialmente giustificato, non sfugge a Niekisch il fatto che il lavoratore in quanto tale è solo appena diverso da un "borghese frustrato” senz’altra aspirazione che quella di conseguire un benessere economico ed un modo di vivere identico a quello della borghesia. Questa era una conseguenza necessaria al fatto che il marxismo è un ideologia borghese, nata nello stesso terreno del liberalismo e tale da condividere con questo una valorizzazione della vita in termini esclusivamente economici.La responsabilità di questa situazione ricade in gran parte sulla socialdemocrazia che "è soltanto liberalismo popolarizzato e che ha spinto il lavoratore nel suo egoismo di classe, cercando di farne un borghese". Questa attitudine del SPD è quella che ha portato, dopo il 1918, non alla realizzazione della indispensabile rivoluzione nazionale e sociale, bensì "alla ricerca di cariche per i suoi dirigenti” ed alla conversione in una opposizione all'interno del sistema capitalista, anziché in un partito rivoluzionario: L’SPD è un partito liberale e capitalista che impiega una terminologia socialrivoluzionaria per ingannare i lavoratori. Questa analisi è quella che porta Niekisch a dire che tutte le forme di socialismo basate su considerazioni umanitarie sono "tendenze corruttrici che dissolvono la sostanza della volontà guerriera del popolo tedesco". Influenzata molto dal “decisionismo" di Cari Schmitt, l’attitudine di Niekisch verso il KPD è molto più sfumata. Prima di tutto, ed in opposizione al SPD, fermamente basato su concezioni borghesi, il comunismo si regge “su istinti elementari". Del KPD Niekisch apprezza in modo particolare la “struttura autocratica”, la “approvazione a voce alta della dittatura”. Queste caratteristiche renderebbero possibile utilizzare il comunismo come “mezzo” ed il percorrere insieme una parte della strada. Niekisch accolse con speranza il "Programma di Liberazione Nazionale e Sociale" del KPD (24 agosto 1930) in cui si dichiarava la lotta totale contro le riparazioni di guerra e l’ordine dì Versailles, ma quando ciò si rivelò solo una tattica - diretta a frenare i crescenti successi del NSDAP-, cosi come lo era stata la "linea Schlagater" nei 1923, Niekisch denunciò la malafede dei comunisti sul problema nazionale e li qualificò come incapaci di realizzare il compito al quale lui aspirava poiché erano "solo socialrivoluzionari" e per di più poco rivoluzionari. Il ruolo dirigente nel partito rivoluzionario avrebbe quindi dovuto essere ricoperto da un "nazionalista" di nuovo stampo, senza legami con il vecchio nazionalismo (è significativo che Niekisch considerasse il partito tradizionale dei nazionalisti, il DNVP, incapace di conseguire la resurrezione tedesca perché orientato verso l'epoca guglielmina, definitivamente scomparsa). Il nuovo nazionalismo doveva essere socialrivoluzionario, non condizionato, disposto a distruggere tutto quanto potesse ostacolare l’indipendenza tedesca, ed il nuovo nazionalista, fra i cui compiti c’era quello di utilizzare l’operaio comunista rivoluzionario, doveva avere la caratteristica fondamentale di volersi sacrificare e voler servire. Secondo una bella immagine di Niekisch, il comunismo non sarebbe altro che “il fumo che inevitabilmente sale dove un mondo comincia a bruciare”.Si è vista l’immagine offerta da Niekisch della secolare decadenza tedesca, ma nel passato tedesco non tutto è oscuro; c’è un modello al quale Niekisch guarderà costantemente: la vecchia Prussia o, come egli dice, l'idea di Potsdam, una Prussia che con l'apporto di sangue slavo possa essere l’antidoto contro la Germania romanizzata.E così che esigerà, fin dai primi numeri di "Widerstand", la resurrezione di "una Germania prussiana, disciplinata e barbara, più preoccupata del potere che delle cose dello spirito". Cosa significa esattamente la Prussia per Niekisch? O.E. Schüddekopf lo ha indicato esattamente quando dice che nella "idea di Potsdam" Niekisch vedeva tutte le premesse del suo nazional-bolscevismo: "Lo Stato totale, l’economia pianificata, l’alleanza con la Russia, una condizione spirituale antiromana, la difesa contro l'Ovest, contro l'Occidente, l'incondizionato Stato guerriero, la povertà...". Nell'idea prussiana di sovranità Niekisch riconosce l'idea di cui hanno bisogno i tedeschi: quella dello "Stato totale", necessario in quanto la Germania, minacciata dall'ostilità dei vicini per la sua condizione geografica, ha bisogno di diventare uno Stato militare. Questo Stato totale deve essere lo strumento di lotta cui deve essere tutto subordinato - l'economia come la cultura e la scienza - affinchè il popolo tedesco possa ottenere la sua libertà. E’ evidente, per Niekisch - ed in questo occorre ricercare una delle ragioni più profonde del suo nazional-bolscevismo -, che lo Stato non può dipendere da un’economia capitalista in cui offerta e domanda determinino il mercato; al contrario, l’economia deve essere subordinata allo Stato ed alle sue necessità. Per qualche tempo, Niekisch ebbe fiducia in determinati settori della Reichswehr (pronunciò molte delle sue conferenze in questo ambiente militare) per realizzare l’"idea di Potsdam”, ma agli inizi del 1933 si allontanò dalla concezione di una "dittatura della Reichswehr" perché essa non gli appariva sufficientemente "pura" e "prussiana" tanto da farsi portatrice della "dittatura nazionale", e ciò era dovuto, sicuramente, ai suoi legami con le potenze economiche. Un'altro degli aspetti chiave del pensiero di Niekisch è il primato riconosciuto alla politica estera (l'unica vera politica per Spengler) su quella interna. Le sue concezioni al riguardo sono marcatamente influenzate da Macchiavelli (del quale Niekisch era grande ammiratore, tanto da firmare alcuni suoi articoli con lo pseudonimo di Niccolò) e dal suo amico Karl Haushofer. Del primo, Niekisch conserverà sempre la Realpolitik, la sua convinzione che la vera essenza della politica è sempre la lotta fra Stati per il potere e la supremazia, dal secondo apprenderà a pensare secondo dimensioni geopolitiche, considerando che nella situazione di allora - ed a maggior ragione in quella attuale - hanno un peso nella politica mondiale solamente gli Stati costruiti su grandi spazi, e siccome nel 1930 l'Europa centrale di per sè non avrebbe potuto essere altro che una colonia americana, sottomessa non solo allo sfruttamento economico, ma "alla banalità, alla nullità, al deserto, alla vacuità della spiritualità americana", Niekisch propone un grande stato "da Vladivostok sino a Vlessingen", cioè un blocco germano-slavo dominato dallo spirito prussiano con l'imperio dell'unico collettivismo che possa sopportare l'orgoglio umano: quello militare. Accettando con decisione il concetto di "popoli proletari" (come avrebbero fatto i fascisti di sinistra), il nazionalismo di Niekisch era un nazionalismo di liberazione, privo di sciovinismo, i cui obbiettivi dovevano essere la distruzione dell'ordine europeo sorto da Versailles e la liquidazione della Società delle Nazioni, strumento delle potenze vincitrici. Agli inizi del suo pensiero, Niekisch sognava un "gioco in comune" della Germania con i due Paesi che avevano saputo respingere la "struttura intellettuale" occidentale: la Russia bolscevica e l'Italia fascista (è un'altra coincidenza, tra le molte, fra il pensiero di Niekisch e quello di Ramiro Ledesma). Nel suo programma dell'aprile del 1930, Niekisch chiedeva "relazioni pubbliche o segrete con tutti i popoli che soffrono, come il popolo tedesco, sotto l'oppressione delle potenze imperialiste occidentali". Fra questi popoli annoverava l'URSS ed i popoli coloniali dell'Asia e dell'Africa. Più avanti vedremo la sua evoluzione in relazione al Fascismo, mentre ci occuperemo dell'immagine che Niekisch aveva della Russia sovietica. Prima di tutto dobbiamo dire che quest' immagine non era esclusiva di Niekisch, ma che era patrimonio comune di quasi tutti gli esponenti della Rivoluzione Conservatrice e del nazional-bolscevismo, a partire da Moeller van den Bruck, e lo saranno anche i più lucidi fascisti di sinistra: Ramiro Ledesma Ramos e Drieu la Rochelle. Perchè, in effetti, Niekisch considerava la rivoluzione russa del 1917 prima di tutto come una rivoluzione nazionale, più che come una rivoluzione sociale. La Russia, che si trovava in pericolo di morte a causa dell'infiltrazione dei valori occidentali estranei alla sua essenza, "incendiò di nuovo Mosca" per farla finita con i suoi invasori, impiegando il marxismo come combustibile. Con parole dello stesso Niekisch: "Questo fu il senso della Rivoluzione bolscevica: la Russia, in pericolo di morte, ricorse all'idea di Potsdam, la portò sino alle estreme conseguenze, quasi oltre ogni misura, e creò questo Stato assolutista di guerrieri che sottomette la stessa vita quotidiana alla disciplina militare, i cui cittadini sanno sopportare la fame quando c'è da battersi, la cui vita è tutta carica, fino all'esplosione, di volontà di resistenza". Kerenski era stato solo una testa di legno dell' Occidente che voleva introdurre la democrazia borghese in Russia (Kerenski era, chiaramente, l’uomo nel quale avevano fiducia le potenze dell’Intesa perché la Russia continuasse al loro fianco la guerra contro la Germania); la rivoluzione bolscevica era stata diretta contro gli Stati imperialisti dell’Occidente e contro la borghesia interna favorevole allo straniero ed antinazionale. Coerente con questa interpretazione, Niekisch definirà il leninismo come "ciò che rimane del marxismo quando un uomo di Stato geniale lo utilizza per finalità di politica nazionale", e citerà con frequenza la celebre frase di Lenin che sarebbe diventata il leit-motiv di tutti i nazional-bolscevichi: "Fate della causa del popolo la causa della Nazione e la causa della Nazione diventerà la causa del popolo". Nelle lotte per il potere che ebbero luogo ai vertici sovietici dopo la morte di Lenin, le simpatie di Niekisch erano dirette a Stalin, e la sua ostilità verso Trotzskij (atteggiamento condiviso, fra molti altri, anche da Ernst Jünger e dagli Strasser). Trotzskij ed i suoi seguaci, incarnavano, agli occhi di Niekisch, le forze occidentali, il veleno dell’Ovest, le forze di una decomposizione ostile a un ordine nazionale in Russia. Per questo motivo Niekisch accolse con soddisfazione la vittoria di Stalin e dette al suo regime la qualifica di "organizzazione della difesa nazionale che libera gli istinti virili e combattenti". Il Primo Piano Quinquennale, in corso quando Niekisch scriveva, era "Un prodigioso sforzo morale e nazionale destinato a conseguire l’autarchia". Era quindi l’aspetto politico-militare della pianificazione ciò che affascinava Niekisch, gli aspetti socio-economici (come nel caso della sua valutazione del KDP) lo interessavano appena. Fu in questo modo che poté coniare la formula: "collettivismo + pianificazione = militarizzazione del popolo". Quanto Niekisch apprezzava della Russia è esattamente il contrario di quanto ha attratto gli intellettuali marxisti degenerati: “La violenta volontà di produzione per rendere forte e difendere lo Stato, l’imbarbarimento cosciente dell’esistenza... l’attitudine guerriera, autocratica, dell’élite dirigente che governa dittatorialmente, l’esercizio per praticare l’ascesi di un popolo...”. Era logico che Niekisch vedesse nell’Unione Sovietica il compagno ideale di un’alleanza con la Germania, poiché incarnava i valori antioccidentali cui Niekisch aspirava. Inoltre, occorre tener presente che in quell’epoca l’URSS era uno Stato isolato, visto con sospetto dai paesi occidentali ed escluso da ogni tipo di alleanza, per non dire circondato da Stati ostili che erano praticamente satelliti della Francia e dell’Inghilterra (Stati baltici, Polonia, Romania); a questo bisogna poi aggiungere che fino a ben oltre gli inizi degli anni ‘30, l’URSS non faceva parte della Società delle Nazioni né aveva rapporti diplomatici con gli USA. Niekisch riteneva che un'alleanza Russia-Germania fosse necessaria anche per la prima, poiché "la Russia deve temere l'Asia", e solo un blocco dall'Atlantico al Pacifico poteva contenere "la marea gialla", allo stesso modo in cui solo con la collaborazione tedesca la Russia avrebbe potuto sfruttare le immense risorse della Siberia. Abbiamo visto per quali ragioni la Russia appariva a Niekisch come un modello. Ma per la Germania non si trattava di copiare l'idea bolscevica, di accettarla in quanto tale. La Germania - e su questo punto Niekisch condivide l'opinione di tutti i nazionalisti - deve cercare le sue proprie idee e forme, e se la Russia veniva portata ad esempio, la ragione era che aveva organizzato uno Stato seguendo la "legge di Potsdam" che avrebbe dovuto ispirare anche la Germania. Organizzando uno Stato assolutamente antioccidentale, la Germania non avrebbe imitato la Russia, ma avrebbe recuperato la propria specificità, alienata nel corso di tutti quegli anni di sottomissione allo straniero e che si era incarnata nello Stato russo. Per quanto gli accordi con la Polonia e la Francia sondati dalla Russia saranno osservati con inquietudine da Niekisch, che difenderà appassionatamente l'Unione Sovietica contro le minacce di intervento e contro le campagne condotte a sue discapito dalle confessioni religiose. Inoltre, per Niekisch "una partecipazione della Germania alla crociata contro la Russia significherebbe... un suicidio". Questo sarà il rimprovero più importante - e convincente - di Niekisch al nazionalsocialismo, e con ciò giungiamo ad un punto che non cessa di provocare una certa perplessità: l'atteggiamento di Niekisch verso il nazionalsocialismo. Questa perplessità non è solo nostra; durante l'epoca che studiamo, Niekisch era visto dai suoi contemporanei più o meno come un "nazi". Certamente, la rivista paracomunista "Aufbruch" lo accomunava a Hitler nel 1932; più specifica, la rivista sovietica "Moskauer Rundschau" (30 novembre 1930), qualificava il suo "Entscheidung" come "l'opera di un romantico che ha ripreso da Nietzsche la sua scala di valori". Per dei critici moderni come Armin Mohler "molto di quanto Niekisch aveva chiesto per anni sarà realizzato da Hitler", e Faye segnala che la polemica contro i nazionalsocialisti, per il linguaggio che usa "lo colloca nel campo degli stessi". Cosa fu dunque ciò che portò Niekisch ad opporsi al nazionalsocialismo? Da un'ottica retrospettiva, Niekisch considera il NSDAP fino al 1923 come un "movimento nazional-rivoluzionario genuinamente tedesco", ma dalla rifondazione del Partito, nel 1925, pronuncia un'altro giudizio, nello stesso modo in cui modificherà il suo precedente giudizio sul fascismo italiano. Troviamo l'essenziale delle critiche di Niekisch al nazionalsocialismo in un opuscolo del 1932: "Hitler - ein deutsches Verhängnis" (Hitler, una fatalità tedesca) che apparve illustrato con impressionanti disegni di un artista di valore: A. Paul Weber. Dupeux segnala con esattezza che queste critiche non sono fatte dal punto di vista dell'umanitarismo e della democrazia, com'è usuale ai nostri giorni, e Sauermann lo qualifica come un "avversario in fondo essenzialmente rassomigliante". Niekisch considerava "cattolico", "romano" e "fascista" il fatto di dirigersi alle masse e giunse ad esprimere "l'assurdo" (Dupeux) che: "che è nazista, presto sarà cattolico". In questa critica occorre vedere, per cercare di comprenderla, la manifestazione di un atteggiamento molto comune fra tutti gli autori della Rivoluzione conservatrice, che disprezzavano come "demagogia" qualsiasi lavoro fra le masse, ed occorre ricordare, anche, che Niekisch non fu mai un tattico né un "politico pratico". Allo stesso tempo occorre mettere in relazione la sfiducia verso il nazionalsocialismo con le origini austriache e bavaresi dello stesso, poiché abbiamo già visto che Niekisch guardava con diffidenza ai tedeschi del sud e dell'ovest, come influenzati dalla romanizzazione. D'altra parte, Niekisch rimprovera al nazionalsocialismo la sua "democraticità" alla Rousseau e la sua fede nel popolo. Per Niekisch l'essenziale è lo Stato: egli sviluppò sempre un vero "culto dello Stato", perfino nella sua epoca socialdemocratica, per cui risulta per lo meno grottesco qualificarlo come un "sindacalista anarchico" (sic). Niekisch commise gravi errori nella sua valutazione del nazionalsocialismo, come il prendere sul serio il "giuramento di legalità" pronunciato da Hitler nel corso del processo al tenente Scheringer, senza sospettare che si trattava di mera tattica (con parole di Lenin, un rivoluzionario deve saper utilizzare tutte le risorse, legali ed illegali, servirsi di tutti i mezzi secondo la situazione, e questo Hitler lo realizzò alla perfezione), e ritenere che Hitler si trovasse molto lontano dal potere...nel gennaio del 1933. Questi errori possono spiegarsi facilmente, come ha fatto Sauermann, con il fatto che Niekisch giudicava il NSDAP più basandosi sulla propaganda elettorale che sullo studio della vera essenza di questo movimento. Tuttavia, il rimprovero fondamentale concerne la politica estera. Per Niekisch, la disponibilità - espressa nel "Mein Kampf" - di Hitler ad un'intesa con Italia ed Inghilterra e l'ostilità verso la Russia erano gli errori fondamentali del nazionalsocialismo, poiché questo orientamento avrebbe fatto della Germania un "gendarme dell'Occidente". Questa critica è molto più coerente delle anteriori. L'assurda fiducia di Hitler di poter giungere ad un accordo con l'Inghilterra gli avrebbe fatto commettere gravi errori (Dunkerque, per citarne uno); sulla sua alleanza con l'Italia, determinata dal sentimento e non dagli interessi - ciò che è funesto in politica - egli stesso si sarebbe espresso ripetutamente e con amarezza. Per quanto riguarda l'URSS, fra i collaboratori di Hitler Goebbels fu sempre del parere che si dovesse giungere ad un intesa, e perfino ad un'alleanza con essa, e ciò non solo nel periodo della sua collaborazione con gli Strasser, ma sino alla fine del III Reich, come ha dimostrato inequivocabilmente il suo ultimo addetto stampa Wilfred von Owen nel suo diario ("Finale furioso. Con Goebbels sino alla fine"), edito per la prima volta - in tedesco - a Buenos Aires (1950) e proibito in Germania sino al 1974, data in cui fu pubblicato dalla prestigiosa Grabert-Verlag di Tübingen, alla faccia degli antisovietici e filo-occidentali di professione. La denuncia, sostenuta da Niekisch, di qualsiasi crociata contro la Russia, assunse toni profetici quando evocò in un' immagine angosciosa "le ombre del momento in cui le forze...della Germania diretta verso l'Est, sperperate, eccessivamente tese, esploderanno...Resterà un popolo esausto, senza speranza, e l'ordine di Versailles sarà più forte che mai". Indubbiamente Ernst Niekisch esercitò, negli anni dal 1926 al 1933, una influenza reale nella politica tedesca, mediante la diffusione e l'accettazione dei suoi scritti negli ambienti nazional-rivoluzionari che lottavano contro il sistema di Weimar. Questa influenza non deve essere valutata, certamente in termini quantitativi: l'attività di Niekisch non si orientò mai verso la conquista delle masse, né il carattere delle sue idee era il più adeguato a questo fine. Per fornire alcune cifre, diremo che la sua rivista "Widerstand" aveva una tiratura che oscillava fra le 3.000 e le 4.500 copie, fatto che è lungi dall'essere disprezzabile per l'epoca, ed in più trattandosi di una rivista ben presentata e di alto livello intellettuale; i circoli "Resistenza" raggruppavano circa 5.000 simpatizzanti, dei quali circa 500 erano politicamente attivi. Non è molto a paragone dei grandi partiti di massa, ma l'influenza delle idee di Niekisch dev'essere valutata considerando le sue conferenze, il giro delle sue amicizie (di cui abbiamo già parlato), i suoi rapporti con gli ambienti militari, la sua attività editoriale, e soprattutto, la speciale atmosfera della Germania in quegli anni, in cui le idee trasmesse da "Widerstand" trovavano un ambiente molto ricettivo nelle Leghe paramilitari, nel Movimento Giovanile, fra le innumerevoli riviste affini ed anche in grandi raggruppamenti come il NSDAP, lo Stahlhelm, ed un certo settore di militanti del KPD (come si sa, il passaggio di militanti del KPD nel NSDAP, e viceversa, fu un fenomeno molto comune negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, anche se gli storici moderni ammettono che vi fu una percentuale maggiore di rivoluzionari che percorsero il primo tipo di tragitto, ancor prima dell'arrivo di Hitler al potere). Queste brevi osservazioni possono a ragione far ritenere che l'influenza di Niekisch fu molto più ampia di quanto potrebbe far pensare il numero dei suoi simpatizzanti. Il 9 marzo del 1933 Niekisch è arrestato da un gruppo di SA ed il suo domicilio perquisito. Viene posto in libertà immediatamente, ma la rivista "Entscheidung", fondata nell'autunno del 1932, viene sospesa. "Widerstand", al contrario, continuerà ad apparire sino al dicembre del 1934, e la casa editrice dallo stesso nome pubblica libri sino al 1936 inoltrato. Dal 1934 Niekisch viaggia per quasi tutti i paesi d'Europa, nei quali sembra abbia avuto contatti con i circoli dell'emigrazione. Nel 1935, nel corso di una visita a Roma, viene ricevuto da Mussolini. Non si può fare a meno di commuoversi nell'immaginare questo incontro, disteso e cordiale, fra due grandi uomini che avevano iniziato la loro carriera politica nelle file del socialismo rivoluzionario. Alla domanda di Mussolini su che cosa aveva contro Hitler, Niekisch rispose:"Faccio mie le vostre parole sui popoli proletari". Mussolini rispose."E' quanto dico sempre a Hitler". (Va ricordato che questi scrisse una lettera a Mussolini - il 6 marzo 1940 - in cui gli spiegava il suo accordo con la Russia, perché "ciò che ha portato il nazionalsocialismo all'ostilità contro il comunismo è solo la posizione - unilaterale - giudaico-internazionale, e non, al contrario, l'ideologia dello Stato stalinista-russo-nazionalista". Durante la guerra, Hitler esprimerà ripetutamente la sua ammirazione per Stalin, in contrasto con l'assoluto disprezzo che provava per Roosevelt e Churchill). Nel marzo del 1937 Niekisch è arrestato con 70 dei suoi militanti (un gran numero di membri dei circoli "Resistenza" aveva cessato la propria attività, significativamente, nel constatare che Hitler stava portando avanti realmente la demolizione del Diktat di Versailles che anch'essi avevano tanto combattuto). Nel gennaio del 1939 è processato davanti al Tribunale Popolare, accusato di alto tradimento ed infrazione sulla legge sulla fondazione di nuovi partiti, e condannato all'ergastolo. Sembra che le accuse che più pesarono contro di lui furono i manoscritti trovati nella sua casa, nei quali criticava Hitler ed altri dirigenti del III Reich. Fu incarcerato nella prigione di Brandenburg sino al 27 aprile del 1945, giorno in cui viene liberato dalle truppe sovietiche, quasi completamente cieco e semiparalitico. Nell'estate del 1945 entra nel KPD che, dopo la fusione nella zona sovietica con l'SPD, nel 1946 si denominerà Partito Socialista Unificato di Germania (SED) e viene eletto al Congresso Popolare come delegato della Lega Culturale. Da questo posto difende una via tedesca al socialismo e si oppone dal 1948 alle tendenze di una divisione permanete della Germania. Nel 1947 viene nominato professore all'Università Humboldt di Berlino, e nel 1949 è direttore dell' "Istituto di Ricerche sull'Imperialismo"; in quell'anno pubblica uno studio sul problema delle élites in Ortega y Gasset. Niekisch non era, ovviamente, un "collaborazionista" servile: dal 1950 si rende conto che i russi non vogliono un "via tedesca" al socialismo, ma solo avere un satellite docile (come gli americani nella Germania federale). Coerentemente con il suo modo di essere, fa apertamente le sue critiche e lentamente cade in disgrazia; nel 1951 il suo corso è sospeso e l'Istituto chiuso. Nel 1952 ha luogo la sua scomunica definitiva, effettuata dall'organo ufficiale del Comitato Centrale del SED a proposito del suo libro del 1952 "Europäische Bilanz". Niekisch è accusato di "...giungere a erronee conclusioni pessimistiche perché, malgrado l'occasionale impiego della terminologia marxista, non impiega il metodo marxista...la sua concezione della storia è essenzialmente idealista...". Il colpo finale è dato dagli avvenimenti del 17 giugno del 1953 a Berlino, che Niekisch considera come una legittima rivolta popolare. La conseguente repressione distrugge le sue ultime speranze nella Germania democratica e lo induce a ritirarsi dalla politica. Da questo momento Niekisch, vecchio e malato, si dedica a scrivere le sue memorie cercando di dare al suo antico atteggiamento di "Resistenza" un significato di opposizione a Hitler, nel tentativo di cancellare le orme della sua opposizione al liberalismo. In ciò fu aiutato dalla ristretta cerchia dei vecchi amici sopravvissuti. Il più influente fra loro fu il suo antico luogotenente, Josef Drexel, vecchio membro del Bund Oberland e divenuto, nel secondo dopoguerra, magnate della stampa in Franconia. Questo tentativo può spiegarsi, oltre che con il già menzionato stato di salute di Niekisch, con la sua richiesta di ottenere dalla Repubblica Federale (viveva a Berlino Ovest) una pensione per i suoi anni di carcere. Questa pensione gli fu sempre negata, attraverso una interminabile serie di processi. I tribunali basarono il rifiuto su due punti: Niekisch aveva fatto parte di una setta nazionalsocialista (sic) ed aveva collaborato in seguito al consolidamento di un'altro totalitarismo: quello della Germania democratica. Cosa bisogna pensare di questi tentativi di rendere innocuo Niekisch si deduce da quanto fin qui esposto. La storiografia più recente li ha smentiti del tutto. Il 23 maggio del 1967, praticamente dimenticato, Niekisch moriva a Berlino. Malgrado sia quasi impossibile trovare le sue opere anteriori al 1933, in parte perché non ripubblicate ed in parte perché scomparse dalle biblioteche, A. Mohler ha segnalato che Niekisch torna farsi virulento, e fotocopie dei suoi scritti circolano di mano in mano fra i giovani tedeschi disillusi dal neo-marxismo (Marcuse, Suola di Frankfurt). La critica storica gli riconosce sempre maggiore importanza. DI quest'uomo, che si oppone a tutti i regimi presenti nella Germania del XX secolo, bisogna dire che mai operò mosso dall'opportunismo. I suoi cambi di orientamento furono sempre il prodotto della sua incessante ricerca di uno Stato che potesse garantire la liberazione della Germania e dello strumento idoneo a raggiungere questo obiettivo. Le sue sofferenze - reali - meritano il rispetto dovuto a quanti mantengono coerentemente le proprie idee. Niekisch avrebbe potuto seguire una carriera burocratica nell'SPD, accettare lo splendido posto offertogli da Gregor Strasser, esiliarsi nel 1933, tacere nella Germania democratica...Ma sempre fu fedele al suo ideale ed operò come credeva di dover fare senza tener conto delle conseguenze personali che avrebbero potuto derivargli. La sua collaborazione con il SED è comprensibile, ed ancor più il modo in cui si concluse. Oggi che l'Europa è sottomessa agli pseudovalori dell'Occidente americanizzato, le sue idee e la sua lotta continuano ad avere un valore esemplare. E' quanto compresero i nazional-rivoluzionari di "Sache del Volches" quando, nel 1976, apposero una targa sulla vecchia casa di Niekisch, con la frase: "O siamo un popolo rivoluzionario o cessiamo definitivamente di essere un popolo libero".

Josè Cuadrado Costa

Articolo tratto dai numeri 56 e 57 di Orion

Per l'approfondimento dell'argomento si consigliano:
- AA.VV., Nazionalcomunismo. Prospettive per un blocco eurasiatico. Ed. Barbarossa 1996
- Origini n°2, L'opposizione nazionalrivoluzionaria al Terzo Reich 1988
- E. Niekisch, Est & Ovest. Considerazioni in ordine sparso. Ed. Barbarossa 2000
- E. Niekisch, Il regno dei demoni. Panorama del Terzo Reich. Feltrinelli Editore 1959
- A. Mohler, La Rivoluzione Conservatrice. Ed. Akropolis 1990

 

jeudi, 08 avril 2010

L'expédition allemande au Tibet de 1938-39

Synergies européennes – Bruxelles/Munich/Tübingen – Novembre 2006

 

Detlev ROSE :

L’expédition allemande au Tibet de 1938-39

Voyage scientifique ou quête de traces à motivation idéologique ?

 

Ernst_Schaefer.jpgLe 20 avril 1938 cinq jeunes scientifiques allemands montent à bord, dans le port de Gènes, sur le « Gneisenau », un navire rapide qui fait la liaison avec l’Extrême-Orient. Le but de leur voyage : le haut plateau du Tibet, entouré d’une nuée de mystères, le « Toit du monde ». Sous la direction du biologiste Ernst Schäfer, s’embarquent pour une aventure hors du commun pour les critères de l’époque, Bruno Beger (anthropologue et géographe), Karl Wienert (géophysicien et météorologue), Edmund Geer (en charge de la logistique et directeur technique de l’expédition) et Ernst Krause (entomologiste, cameraman et photographe).

 

Tous les participants à cette expédition étaient membres des « échelons de protection » (SS), mais ce fait justifie-t-il d’étiqueter cette expédition d’ « expédition SS », comme on le lit trop souvent dans maints ouvrages ? Cette étiquette fait penser qu’il s’agissait d’une expédition officielle du Troisième Reich. Est-ce exact ? Les SS avaient-il vraiment quelque chose à voir avec ce voyage de recherche vers cette lointaine contrée de l’Asie ? Quel intérêt les dirigeants nationaux-socialistes pouvaient-ils bien avoir au Tibet ? Comment cette expédition a-t-elle été montée ; quels étaient ses objectifs, ses motifs ? A quoi a-t-elle finalement abouti ? Beaucoup de questions, qui ont conduit à des études sérieuses mais aussi à l’éclosion de mythomanies, de légendes.

 

Des sources non encore étudiées…

 

« On a raconté et écrit beaucoup de sottises sur cette expédition au Tibet après la guerre », disait le dernier survivant Bruno Beger (1). Cela s’explique surtout par la rareté des sources, qui rend l’accès à ce thème fort malaisé. Il existe certes des travaux à prétention scientifique sur ce sujet, mais, jusqu’il y a peu de temps, nous ne disposions d’aucune analyse complète et détaillée sur les recherches tibétaines entreprises sous le Troisième Reich. Cette lacune est désormais comblée, grâce à une thèse de doctorat de Peter Mierau, un historien issu de l’Université de Würzburg (2). Le thème de ses recherches était la « politique nationale socialiste des expéditions ». Dans le cadre de cette recherche générale, il aborde de manière fort complète cette expédition allemande au Tibet de 1938-39. Mierau a découvert des sources qui n’avaient pas encore été étudiées (ou à peine) jusqu’ici. Certes, ce travail ne répond pas encore à toutes les questions mais, quoi qu’il en soit, les connaissances actuellement disponibles sur cette mystérieuse expédition se sont considérablement élargies.

 

Cette remarque vaut surtout pour les prolégomènes de cette entreprise aventureuse. Le biologiste et ornithologue Ernst Schäfer s’était taillé une bonne réputation en Allemagne, comme spécialiste du Tibet. Deux fois déjà, il avait participé, en 1931-32 et de 1934 à 1936, aux expéditions américaines de Brooke Dolan au Tibet oriental et central. En 1937, Himmler, Reichsführer SS, avait remarqué ce jeune scientifique prometteur et dynamique. Il prit contact avec lui. Schäfer était en train de préparer une nouvelle expédition. Himmler voulait simplement profiter du prestige acquis par le jeune savant. Il voulait inclure l’expédition dans le cadre de l’ « Ahnenerbe », la structure « Héritage des Ancêtres » qu’il avait créée en 1935, et, ainsi, placer l’expédition sous patronage SS (3). Le spécialiste du Tibet était certes déjà membre des SS à ce moment-là, mais il aurait préféré placer son expédition sous le patronage du département culturel des affaires étrangères ou de la très officielle DFG (« Communauté scientifique allemande ») et avait effectué des démarches en ce sens (4).

 

En l’état actuel des connaissances, il n’est donc pas possible d’affirmer ou d’infirmer clairement que les préparatifs de l’expédition aient été entièrement effectués sous la houlette des SS ou de l’Ahnenerbe (5). Le nom officiel de l’expédition était le suivant : « Expédition allemande Ernst Schäfer au Tibet » (= « Deutsche Tibetexpedition Ernst Schäfer »). Himmler eut droit au titre de « patron » de l’expédition et avait tenu à connaître personnellement tous les participants avant qu’ils ne partent et de donner le titre de SS à deux des scientifiques qui ne l’avaient pas encore (Krause et Wienert). Dans les articles des journaux, l’entreprise était souvent citée comme « Expédition SS ». Schäfer lui-même a utilisé cette dénomination à plusieurs reprises (6).

 

Le rôle très restreint de l’Ahnenerbe

 

Il a été question de faire de l’Ahnenerbe, la communauté scientifique fondée par les SS, l’un des commanditaires de cette expédition. On peut le prouver par l’existence d’un programme de travail provisoire intitulé « Ziele und Pläne der unter Leitung des SS-Obersturmführer Dr. Schäfer stehenden Tibet-Expedition der Gemeinschaft « Das Ahnenerbe » (Erster Kurator : Der Reichsführer SS)“ (= Objectifs et plans de l’expédition au Tibet de la Communauté „Héritage des Ancêtres » sous la direction du Dr. Schäfer, Obersturmführer des SS (Premier curateur : le Reichsführer SS) ». Muni de ce document, le département d’aide économique de l’état-major personnel du Reichsführer SS a appuyé le dossier de Schäfer auprès de la DFG (7). Après cette démarche, l’Ahnenerbe n’a plus joué aucun rôle officiel dans les préparatifs et la tenue de l’expédition. L’historien canadien Michael H. Kater, dans son ouvrage de référence sur la question, note que cette « vague institution », aux contours flous, a causé bien des tensions entre Schäfer et les dirigeants de l’Ahnenerbe Wolfram Sievers et Walter Wüst. De plus, l’Ahnenerbe ne semblait pas en mesure de financer quoi que ce soit relevant de l’expédition (8).

 

Ce qui est certain, en revanche, c’est que l’expédition a été financée par des cercles ou initiatives privées. Bruno Beger dit qu’Ernst Schäfer a été en mesure de rassembler quelque 70.000 Reichsmark, dont 30.000 provenaient du « conseil publicitaire » des cercles économiques allemands ; 20.000 RM de la DFG (qui s’appelait jusqu’en 1935 : « Notgemeinschaft Deutscher Wissenschaft ») ; 15.000 RM sont entrés dans les caisses grâce à l’entremise du père de Schäfer, qui était à l’époque le directeur de la fabrique de produits de caoutchouc Phoenix à Hambourg-Harburg ; les 5.000 RM restants ont été offerts par le « Frankfurter Zeitung » (9). Ces donateurs enthousiastes et généreux avaient été séduits par la passion et l’engagement des participants, surtout d’Ernst Schäfer. Beger se souvient encore : « Les instruments scientifiques, les appareils, les équipements photographiques, cinématographiques, sanitaires, presque tout nous a été prêté et même donné » (10).

 

Himmler, pour sa part, s’adressa à Göring pour que celui-ci mette 30.000 RM en devises à la disposition des explorateurs. Il fit verser cette somme à l’avance. Ce n’était pas une maigre somme car il fallait que l’expédition puisse disposer de toutes les sommes nécessaires en devises, pour qu’elle soit tout simplement possible (11).

 

Les premiers Allemands dans la « Cité interdite »

 

Ernst Schäfer s’occupa seul des préparatifs politiques et diplomatiques du voyage scientifique. Vu la situation internationale à l’époque, le chemin vers le Tibet ne pouvait se faire qu’au départ de l’Inde sous domination britannique : il fallait donc obtenir l’autorisation de la Grande-Bretagne. L’adhésion au projet de Britanniques en vue, Schäfer l’obtint grâce à son habilité diplomatique. Il s’embarqua lui-même pour l’Angleterre et en revint avec bon nombre de lettres de recommandation. Les participants à l’expédition ne savaient pas s’il allait être possible d’entrer dans le Tibet, alors indépendant, ni au début de leur voyage ni pendant les premiers mois de leur séjour, qu’ils passèrent pour l’essentiel dans la province septentrionale de l’Inde britannique, le Sikkim. Ce n’est qu’en novembre 1938, après de longues négociations et grâce aux bons travaux préparatoires, que leur parvint une invitation du gouvernement tibétain, comprenant également une autorisation à séjourner dans la « Cité interdite » de Lhassa. Au départ, cette autorisation de séjourner à Lhassa ne devait durer que deux semaines, mais elle a sans cesse été prolongée, si bien que les chercheurs allemands finirent par y rester deux mois. Ils étaient en outre les premiers Allemands à avoir pu pénétrer dans Lhassa.

 

Ce résultat, impressionnant vu les difficultés de l’époque, est dû principalement au travail et à la persévérance personnelle d’Ernst Schäfer et de ses compagnons plutôt qu’à l’action hypothétique des SS et de l’Ahnenerbe. Ernst Schäfer, quand il a organisé cette expédition, a toujours mis l’accent sur son indépendance, sur ses initiatives personnelles ; il a toujours voulu mettre cette entreprise en branle de ses propres forces, pour autant que cela ait été possible. Dans ces démarches, il jouait aussi, bien sûr, la carte de ses contacts SS, les utilisait et les mobilisaient, tant que cela pouvait lui être utile ou se révélait nécessaire (12). Mais en ce qui concerne les préparatifs et le financement (mis à part l’octroi des 30.000 RM en devises), le rôle des SS est finalement fort limité, d’après les nouvelles sources découvertes et exploitées par nos nouveaux historiens.

 

Mais cette modestie s’avère-t-elle pertinente aussi quand il s’est agi de déterminer les buts de l’expédition ? Quels étaient en fait les objectifs que s’était assignés Schäfer en préparant sa troisième expédition au Tibet ? Et que voulait Himmler ? Cette dernière question est bien évidemment la plus captivante, mais aussi celle à laquelle il est le plus difficile d’apporter une réponse précise ; les sources ne nous révèlent rien de bien substantiel. Il n’y a aucune déclaration ni aucun commentaire écrit du Reichsführer SS à propos de cette expédition. Seuls quelques indices existent. Ainsi, Schäfer rapporte, dans ses mémoires non encore publiées, une conversation qu’il a eue avec Himmler et quelques-uns de ses intimes. Himmler lui aurait demandé, lors de cette rencontre, « s’il avait vu au Tibet des hommes aux cheveux blonds et aux yeux bleus ». Schäfer aurait répondu non puis aurait explicité, à l’assemblée réduite des intimes de Himmler, tout son savoir sur l’histoire phylogénétique des hommes de là-bas. Himmler se serait révélé à l’explorateur, ce jour-là, comme un adepte de la « doctrine des âges de glace de Hanns Hörbiger ». Il aurait également fait part à Schäfer qu’il supposait qu’au Tibet « l’on pourrait trouver les vestiges de la haute culture de l’Atlantide immergée » (13). Ernst Schäfer n’a pas cédé : son expédition avait des buts essentiellement scientifiques et aucun autre. Schäfer n’a pas accepté l’exigence première de Himmler d’adjoindre à l’équipe un « runologue », un préhistorien et un chercheur ès-questions religieuses. Il n’a pas davantage accepté de rencontrer l’éminence grise de Himmler, Karl Maria Wiligut pour que celui-ci fasse part de ses théories aux membres de l’expédition (14). Schäfer ne voulait apparemment rien entendre des théories et doctrines occultistes et mythologisantes de Himmler et n’a jamais omis de le faire entendre et savoir (15).

 

Les thèses de Christopher Hale

 

Pourtant, on n’hésite pas à affirmer encore et toujours que cette expédition allemande au Tibet avait un but idéologique. Ainsi, dans un film documentaire de 2004, intitulé « Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn » (= Les expéditions des nazis. Aventure et folie racialiste) (16), cette rengaine est réitérée. Le témoignage magistral que sortent les producteurs de ce documentaire de leur chapeau est un certain Christopher Hale, journaliste britannique de son état, qui venait de publier un livre sur la question et s’était par conséquent  recommandé comme « expert » (17). La voix off commence par dire dans l’introduction : « Déjà vers la moitié des années 30, les chercheurs SS recherchaient dans le monde entier les traces d’une race des seigneurs évanouie ». Cette recherche aurait été motivée par la « doctrine des âges de glace », déjà évoquée ici, et théorisée par l’Autrichien Hanns Hörbiger. Hale ajoute alors qu’il est parfaitement absurde d’aller chercher des lointains parents des « Aryens » en Asie, sur le « Toit du monde ». Or, c’est ce que voulait, affirme Hale, l’expédition allemande au Tibet. La raison, pour Hale, réside tout entière dans les théories qui veulent que, dans une période très éloignée dans le temps, une civilisation nordique ou aryenne, supérieure à toutes les autres, ait existé et régné sur un gigantesque empire s’étendant de l’Europe au Japon. Cet empire se serait ensuite effondré à cause du mélange entre ses porteurs nordiques et les « races inférieures ». Il aurait cependant laissé des traces, même dans les coins les plus reculés de la Terre. Au Tibet, auraient affirmé ces théories selon l’expert Hale, de telles traces se retrouveraient dans l’aristocratie. Voilà en gros ce que ce Hale a tenté de démontrer. En même temps, il a essayé implicitement de prouver que les SS et l’Ahnenerbe auraient eu un grand rôle dans la préparation et l’exécution de l’expédition.

 

Cette interprétation, proposée par Hale, cadre sans doute fort bien avec les théories occultistes du Reichsführer SS, telles que les décrit Schäfer dans ses souvenirs. La « doctrine des âges de glace », la « doctrine secrète » de Madame Blavatsky et le livre paru en 1923 de l’occultiste russe Ferdinand Ossendowski (« Bêtes, hommes et dieux ») auraient donc été les principales sources d’inspiration de Himmler. La conception qu’évoque Christopher Hale d’un « grand empire aryen » remontant à la nuit des temps nous rappelle aussi les doctrines dualistes et racialistes de ceux que l’on nommait les « Ariosophes ». C’est plus particulièrement Jörg Lanz von Liebenfels qui présentait l’effondrement des anciens aryens comme la conséquence d’un mélange interracial. Les adeptes de ces théories, que l’on pose un peu arbitrairement comme les précurseurs occultes du national socialisme (18), ne voulaient absolument rien entendre d’une raciologie et d’une anthropologie scientifiques, comme celles de E. von Eickstedt et de H. F. K. Günther.

 

Une démarche rigoureusement scientifique

 

Le documentaire « Les expéditions des nazis » suggère donc que les vues bizarres de Himmler, qui sont sans aucun doute attestées, ont influencé les objectifs de l’expédition au Tibet. Ce serait aussi vrai que deux et deux font quatre, alors que les documents préparatoires de l’expédition ne prouvent rien qui aille dans ce sens (19) ! Himmler aurait certes aimé convaincre Schäfer d’aller rechercher au Tibet les traces d’une antique haute culture aryenne disparue. Mais il n’y est pas parvenu. Les membres de l’expédition se posaient tous comme des scientifiques et comme rien d’autre. Ainsi, par exemple, quand Bruno Beger a photographié et pris les mesures anthropomorphiques, crânologiques et chirologiques, ainsi que les empreintes digitales, de sujets appartenant à divers peuples du Sikkim ou du Tibet, quand il a examiné leurs yeux et leurs cheveux, quand il a procédé à une quantité d’interviews, il a toujours agi en scientifique, en respectant les critères médicaux et biologiques de l’époque, appliqués à l’anthropologie et à la raciologie, sans jamais faire intervenir des considérations fumeuses ou des spéculations farfelues.

 

Nous pouvons parfaitement étayer cela en nous référant à un essai de Beger, sur l’imagerie raciale des Tibétains, parue en 1944 dans la revue « Asienberichte » (20). Dans cet essai, Beger nous révèle les connaissances scientifiques gagnées lors de l’expédition. D’après le résultat de ses recherches, les Tibétains sont le produit d’un mélange entre diverses races de la grande race mongoloïde (ou race centre-asiatique ou « sinide »). On peut certes repérer quelques rares éléments de races europoïdes. Ce sont surtout celles-ci, écrit Beger : « Haute stature, couplée à un crâne long (ndt : dolichocéphalie), à un visage étroit, avec retrait des maxillaires, avec nez plus proéminent, plus droit ou légèrement plus incurvé avec dos plus élevé ; les cheveux sont lisses ; l’attitude et le maintien sont dominateurs, indice d’une forte conscience de soi » (21). Il explique la présence de ces éléments europoïdes, qu’il a découverts, par des migrations et des mélanges ; il évoque ensuite plusieurs hypothèses possibles pour expliquer « les rapports culturels et interraciaux entre éléments mongoloïdes et races europoïdes, surtout celles présentes au Proche-Orient ». Il a remarqué, à sa surprise, la présence « de plusieurs personnes aux yeux bleus, des enfants aux cheveux blonds foncés et quelques types aux traits europoïdes marqués » (22) (ndt : cette présence est sans doute due aux reflux des civilisations et royaumes indo-européens d’Asie centrale et de culture bouddhiste après les invasions turco-mongoles, quand les polities tokhariennes ont cessé d’exister ; cette présence est actuellement attestée par les recherches autour des fameuses momies du Tarim). Les remarques formulées par Beger s’inscrivent entièrement dans le cadre de l’anthropologie de son époque ; son essai ne contient aucune de ces allusions ou conclusions « mythologiques », contraire aux critères scientifiques ; Beger n’emploie jamais les vocables typiques de l’ère nationale socialiste tels « Aryens », « nordique » ou « race supérieure » ou « race des seigneurs » (23).

 

Ernst Schäfer a explicité les buts de son expédition

 

Dans le même numéro d’ « Asienberichte », Ernst Schäfer publie, lui aussi, un essai, sous le titre de « Forschungsraum Innerasien » (= « Espace de recherche : Asie intérieure) (24), dans lequel il explique quelles ont été les motifs de son expédition. Après les recherches pionnières effectuées dans le cœur du continent asiatique, lors des premières expéditions qui y furent menées, il a voulu procéder à des recherches plus systématiques en certains domaines et fournir par là même une synthèse des résultats obtenus en diverses disciplines. « Tel était l’objectif de ma dernière expédition au Tibet en 1938-39 ; … elle visait à obtenir une vue d’ensemble, après avoir tâté la réalité sur le terrain à l’aide de diverses disciplines scientifiques, ce qui constitue la condition première et factuelle pour que des spécialistes en divers domaines puissent travailler main dans la main, en s’explicitant les uns aux autres les matières traitées, de façon à compléter leurs savoirs respectifs ; toujours dans le but de faire apparaître plus clairement les tenants et aboutissants de toutes choses ». La tâche principale, qu’il s’agissait de réaliser, était la suivante : « Saisir de manière holiste l’espace écologique exploré », raison pour laquelle « la géologie, la flore, la faune et les hommes ont constitué les objets de nos recherches » (25).

 

Obtenir une synthèse globale et scientifique de ce qu’est le Tibet dans sa totalité, tel a donc été le but de l’expédition allemande au Tibet en 1938-39. Il n’existe aucun indice quant à d’autres motivations ou objectifs dans les rapports rédigés par les membres de l’expédition, qui décrivent leurs faits et gestes au Tibet de manière exhaustive et détaillée (26). L’image qu’ils donnent du Tibet se termine par un résumé des résultats obtenus par leurs recherches, accompagné d’une liste méticuleuse de toutes leurs activités et des échantillons prélevés, ainsi que le texte d’un exposé, prononcé par Schäfer à Calcutta. Parmi les résultats, nous trouvons des rapports sur le magnétisme tellurique, sur les températures, sur la salinité des lacs, sur les plans des bâtiments visités, sur la cartographie relative aux structures géologiques, sur les échantillons de pierres et de minéraux, sur les fossiles découverts, sur les squelettes d’animaux, sur les reptiles, les papillons et les oiseaux, sur les plantes séchées, les graines de fleurs, de céréales et de fruits, auxquels s’ajoutent divers objets à l’attention des ethnologues tels des outils et des pièces d’étoffe. A tout cela s’ajoutent 20.000 photographies en noir et blanc et 2000 photographies en couleurs, ainsi que 18.000 mètres de films (27), dont les explorateurs ont tiré, après leur retour, un documentaire officiel (28).

 

Aucun indice pour justifier les hypothèses occultistes

 

Le livre de Hale ne résiste pas, comme nous venons de le démontrer, à une analyse critique sérieuse. Cette faiblesse s’avère encore plus patente quand il s’agit d’analyser les thèses aberrantes de l’auteur, qui cherche à expliquer l’avènement du Troisième Reich par les effets directs ou indirects de toutes sortes de thèses et théories occultistes ou conspirationnistes. L’historien Peter Mierau l’explique fort bien dans sa thèse de doctorat : « Dans les années qui viennent de s’écouler, la double thématique du national socialisme et du Tibet a été dans le vent dans plusieurs types de cénacles. Les activités de chercheur de Schäfer, dans l’entourage de Heinrich Himmler, sont mises en rapport avec des théories occultistes, ésotéristes de droite, sur l’émergence du monde, avec des mythes germaniques et des conceptions bouddhistes ou lamaïstes de l’au-delà. Pour étayer ces thèses, on ne trouve aucun indice ou argument dans les sources écrites disponibles » (29).

 

Les occultistes endurcis ne se sentent nullement dérangés par ce constat scientifique. Ils affirment alors, tout simplement, que le caractère officiel d’une telle entreprise n’est que façade, pour dissimuler la nature de la « mission secrète » et les « motifs véritables ». Quand on sort ce type d’argument (?), inutile d’insister : ces spéculations ne sont ni prouvables ni réfutables.

 

Tant les tenants des thèses occultistes les plus hasardeuses que les dénonciateurs inscrits dans le cadre de la « correction politique » contemporaine, ne trouveront, dans les sources disponibles sur l’expédition allemande au Tibet de 1938-39, aucun élément pour renforcer leurs positions. Même si les explorateurs ont appartenu aux SS et s’ils ont eu des rapports étroits, dès leur retour en août 1939, avec l’Ahnenerbe (dans le département des recherches sur l’Asie intérieure), l’expédition proprement dite ne poursuivait aucun objectif d’ordre idéologique, comme l’ont affirmé les participants eux-mêmes. Bruno Beger, dans son rapport (30), écrit : « Tous les objectifs et toutes les tâches effectuées dans le cadre de nos recherches ont été déterminés et fixés par les participants à l’expédition, sous la direction de Schäfer. Objectifs et tâches à accomplir avaient tous un caractère scientifique sur base des connaissances acquises dans les années 30 ». Certes, les SS espéraient que les résultats scientifiques de l’expédition permettraient une exploitation d’ordre idéologique, mais cela, c’est une autre histoire ; Himmler espérait sans nul doute que les explorateurs découvrissent au Tibet des preuves capables d’étayer ses théories. Par conséquent, la leçon à tirer de cette expédition allemande au Tibet en 1938-39 est la suivante : elle constitue un exemple évident que même dans un Etat totalitaire, comme voulait l’être l’appareil national socialiste et le « Führerstaat », où le parti et la volonté du chef auraient compénétré ou oblitéré l’ensemble des activités des citoyens, le doigté et l’habilité personnelles, chez un homme comme Schäfer, permettaient malgré tout de se donner une marge de manœuvre autonome et des espaces de liberté.

 

Detlev ROSE.

(Article tiré de la revue « Deutschland in Geschichte und Gegenwart », n°3/2006).

 

Notes:

(1)     Bruno BEGER, Mit der deutschen Tibetexpedition Ernst Schäfer 1938/39 nach Lhasa, Wiesbaden, 1998, page 6. Ce livre récapitule les notes du journal de voyage de Beger, réadaptées pour publication. Il n’a été tiré qu’à une cinquantaine d’exemplaires.

(2)     Peter MIERAU, Nationalsozialistische Expeditionspolitik. Deutsche Asien-Expeditionen 1933-1945, Munich, 2006 (cet ouvrage est également une thèse de doctorat de l’Université de Munich, présentée en 2003). On y trouve une vue synoptique des sources et de l’état des recherches en ce domaine aux pages 27 à 34. Les expéditions de Schäfer sont décrites de la page 311 à la page 363.

(3)     Michael H. KATER, Das Ahnenerbe der SS 1935-45. Ein Beitrag zur Kulturpolitik im Nationalsozialismus, Stuttgart, 1974, page 79.

(4)     MIERAU, op. cit., p. 327, note 2.

(5)     Ibidem, p. 329.

(6)     Ibidem. Les participants auraient marqué leur désaccord quant à la qualification de leur expédition. Cette révélation a été faite à l’auteur de ces lignes par Bruno Beger, via une lettre à son fils Friedrich (6 août 2006).

(7)     MIERAU, op.  cit., p. 332, note 2.

(8)     KATER, op.  cit., p. 79, note 3.

(9)     Communication de Bruno Beger dans une lettre de Friedrich Beger à l’auteur (27 mars 2006). Kater estime que la totalité des frais s’élève à 60.000 RM (p. 79 et ss.). Dans le documentaire « Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn » (MDR, ZDF Enterprises & Polarfilm, 2004), on prétend que les frais totaux se seraient élevés à plus de 112.000 RM. Le documentaire produit un document, mais le narrateur du film n’en dit pas davantage. Pour en savoir plus sur le financement, cf. MIERAU, op.  cit., p. 329 et ss., note 2.

(10)  Bruno BEGER, op. cit., p. 8, note 1.

(11)  MIERAU, p. 330, note 2. On trouve également un indice dans un discours tenu par Schäfer, peu avant le vol de retour, le 25 juillet 1939, à la tribune de l’Himalaya Club de Calcutta, une association de tourisme et d’alpinisme. Dans ce discours, Schäfer dit avoir reçu le soutien d’Himmler et de Goering ; cf. « Lecture to be given on the 25.7.39 by Dr. Ernst Schäfer at the Himalaya Club », page 4, Bundesarchiv R135/30, 12). Bruno Beger souligne lui aussi l’importance des devises (voir note 6).

(12)  MIERAU, ibidem, p. 331.

(13)  Ernst SCHÄFER, Aus meinem Forscherleben (autobiographie non publiée), 1994, p. 168 et ss. Voir également MIERAU, op. cit., p. 334 et ss. Cf. Rüdiger SÜNNER, Schwarze Sonne. Entfesselung und Missbrauch der Mythen in Nationalsozialismus und rechter Esoterik, Fribourg, 1999, p. 48. 

(14)  SÜNNER, ibidem, pp. 49 à 53. MIERAU, pp. 335-342; l’auteur y évoque de manière exhaustive les idées que se faisait Himmler sur le Tibet et leurs sources.

(15)  KATER, op. cit., p. 79. SÜNNER, ibidem, p. 49 et ss. BEGER (voir note 9): « Le caractère de Schäfer était tel, qu’il ne permettait pas qu’on lui donne des instructions pour organiser ses voyages et pour lui en dicter les missions ; cela valait aussi pour Himmler ».

(16)  Documentaire sur DVD, Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn, MDR, ZDF Enterprises & Polarfilm, 2004.

(17)  Christopher HALE, Himmler’s Crusade. The True Story of the 1938 Nazi Expedition into Tibet, Londres, 2003.

(18)  Pour comprendre cet univers complexe, voir Nicholas GOODRICK-CLARKE, Die okkulten Wurzeln des Nationalsozialismus, Graz, 1997.

(19)  MIERAU, p. 342, note 2, note en bas de page 1120.

(20)  Bruno BEGER, « Das Rassenbild des Tibeters in seiner Stellung zum mongoliden und europiden Rassenkreis », in : Asienberichte. Vierteljahresschrift für asiatische Geschichte und Kultur, n°21, Avril 1944, pp. 29-53.

(21)  Ibid., p. 45.

(22)  Ibidem, p. 47.

(23)  Rüdiger SÜNNER, op. cit. (note 13). R. Sünner se trompe lui aussi, lorsqu’il écrit que Beger “est allé indirectement à l’encontre des fantaisies himmlériennes sur l’Atlantide » (p. 51). « J’avais reçu une invitation pour participer à un débat sur la doctrine des âges de glace en 1937. Je n’ai pu que secouer la tête devant le caractère abscons des opinions qui y ont été exprimées. Mes camarades de l’expédition, y compris Schäfer, riaient bien fort des thèmes qui y avaient été débattus » : c’est en ces mots que Friedrich Beger reprend les paroles de son père (lettre à l’auteur en date du 22 juin 2006).

(24)  Ernst SCHÄFER, « Forschungsraum Innerasien », in : Asienberichte. Vierteljahresschrift für asiatische Geschichte und Kultur, n°21, avril 1944, pages 3 à 6.

(25)  Ibidem, page 4. Cette présentation correspond à la teneur de la conférence tenue par Schäfer à Calcutta, voir note 11, pages 3 et ss.

(26)  Ernst SCHÄFER, Geheimnis Tibet. Erster Bericht der Deutschen Tibet-Expedition Ernst Schäfer 1938-39, Schirmherr: Reichsführer SS, München 1943. En outre, se référer aux notes de Bruno Beger, voir note 1.

(27)  Cf. Lecture…. (voir note 11), page 6 et ss.

(28)  Ce film est actuellement disponible grâce aux efforts de Marco Dolcetta qui l’a réédité en 1994. A ce propos, cf. H. T. HAKL, « Nationalsozialismus und Okkultismus », in : N. GOODRICK-CLARKE (voir note 18), pp. 194-217, ici p. 204. Hakl, lui aussi, souligne le caractère strictement scientifique de l’expédition, en s’appuyant notamment sur l’essai de Reinhard Greve, „Tibetforschung im SS-Ahnenerbe“, paru dans l’ouvrage collectif, édité par Thomas HAUSCHILD, Lebenslust und Fremdenfurcht. Ethnologie im Dritten Reich, Francfort sur le Main, 1995, pp. 168-209.

(29)  MIERAU, op. cit., p.28. L’auteur vise ici tout particulièrement le roman de Russell McCloud, intitulé, dans sa version allemande, Die Schwarze Sonne von Tashi Lhunpo, paru à Vilsbiburg en 1991. Dans ce roman, un ancien SS explique à l’un des protagonistes que l’histoire mondiale est le produit d’une lutte entre deux puissances occultes (pp. 144 à 173).

(30)  BEGER, op.  cit., p. 278 (voir note 1). Je remercie du fond du coeur monsieur Bruno Beger et son fils Friedrich Beger pour m’avoir permis de consulter notes et documents, pour avoir répondu avec patience à mes nombreuses questions, pour avoir mis à ma dispositions les photographies qui illustrent mon article. A ce propos, je remercie également Monsieur Dieter Schwarz.

 

mercredi, 07 avril 2010

La geopolitica di Karl Haushofer ha ancora qualcosa da insegnare al mondo attuale?

La geopolitica di Karl Haushofer ha ancora qualcosa da insegnare al mondo attuale?
di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]


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È giusto buttare via il bambino insieme all’acqua sporca?
Dal momento che la geopolitica ha un’origine in gran parte tedesca, e poiché è servita a razionalizzare, in parte, gli obiettivi di guerra della Germania nelle due guerre mondiali, la cultura liberaldemocratica oggi dominante l’ha sdegnosamente rigettata, insieme ai vecchi e lugubri armamentari del nazismo.
Tuttavia, a parte il fatto che le potenze liberaldemocratiche - Stati Uniti e Gran Bretagna in testa - perseguono, con altri nomi e sotto alte maschere, un obiettivo strategico globale molto simile a quello che la geopolitica, tedesca e  non, indicava come proprio oggetto di studi, ci sembra che molta confusione ipocrita e molta voluta ambiguità siano alla radice di questa operazione di rifiuto e di radicale rimozione dal salotto buono della cultura odierna.
Fra parentesi, osserviamo che si tratta della stessa confusione ipocrita e della stessa voluta ambiguità che hanno presieduto all’abbandono degli studi geopolitici in Italia, dopo che essi avevano ricevuto un impulso originale fra il 1939 e il 1942, ad opera della omonima rivista e degli studiosi Giorgio Roletto ed Ernesto Massi dell’Università di Trieste. Caduto il fascismo, anche la geopolitica italiana è stata gettata nel cestino della storia, come un lontano cugino impresentabile, di cui doversi vergognare tra la gente “per bene”.
Dunque: in primo luogo, la geopolitica non è solo di origine tedesca, ma anche inglese e americana; anzi, a fondarla è stato uno studioso svedese, Rudolf Kjellen,  nel 1904. E la sua idea fondamentale, ossia la contesa naturale ed incessante fra le potenze marittime o talassocratiche e quelle continentali, deriva dal libro di uno studioso inglese, Sir Halford Mackinder, «The Geographical Pivot of History».
In secondo luogo, anche la geopolitica tedesca non è affatto un prodotto del nazismo e la si può benissimo immaginare anche senza Hitler. Il terreno è stato preparato dalla geografia politica di Friedrich Ratzel (1844-1904) e il suo massimo esponente è stato Karl Haushofer (1869-1946) che non era nazista, anzi che ebbe un figlio giustiziati dai nazisti, ma era piuttosto un militare conservatore della vecchia scuola, le cui idee fondamentali si concretizzarono fra due eventi che precedettero entrambi l’avvento del nazismo: da un lato il “Drang nach Osten”, la “marcia verso Oriente” della Germania guglielmina, che sembrò concretizzarsi con la costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad; dall’altro la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale e il fortissimo sentimento di frustrazione nazionale che si impadronì allora della Germania, sotto il peso del punitivo trattato di Versailles.
La Germania è una potenza continentale e sempre i suoi governi hanno ragionato in termini di politica continentale. La corsa all’accaparramento delle colonie, nel 1884, fu una eccezione alla regola, concessa da Bismarck per dare un contentino agli ambienti della Marina e a taluni settori industriali e finanziari; ma la rivendicazione delle colonie perdute non sarebbe stato che un elemento del tutto secondario nel disegno rivendicazionista di Hitler.
Viceversa, la Gran Bretagna è sempre stata una potenza marittima il cui obiettivo è quello di impedire che, sul continente europeo, si affermi una potenza egemone, ciò che metterebbe in forse i suoi interessi commerciali e strategici; per questo essa ha sempre profuso grandi somme di denaro per armare delle coalizioni contro la potenza egemone del momento, che fosse la Francia di Luigi XIV o di Napoleone, oppure la Germania di Guglielmo II e, poi, di Hitler.
Altrettanto evidente che, per Mackinder, il potere talassocratico fosse di segno positivo, mentre per Haushofer era quello continentale a rappresentare il “bene”: ciascuno vede la verità secondo il proprio specifico angolo visuale. Le potenze marittime sono isole e arcipelaghi (Gran Bretagna, Giappone) o penisole (Italia); quelle continentali sono al centro dei continenti (Germania) o, spingendosi da una costa all’altra, appaiono in grado di unificarli (Russia, poi Unione Sovietica; Stati Uniti; e, oggi, anche la Cina).
Per questo la Gran Bretagna non voleva né poteva rinunciare a Gibilterra, a Suez, ad Aden, a Singapore e Hong Kong, a Città del Capo e alle Isole Falkland: perché solo per mezzo di quelle basi strategiche avrebbe potuto stringere in una morsa le potenze continentali. E per questo la Germania, in entrambe le guerre mondiali, ha puntato a est, al grano dell’Ucraina, al petrolio della Romania e poi del Caucaso, al ferro della Svezia, alle immense steppe dell’Asia centrale: perché solo così avrebbe potuto spezzare l’accerchiamento marittimo e l’inevitabile strangolamento economico cui, con il dominio inglese dei mari, era inevitabilmente esposta.
Ma una cosa è certa: che, mentre per la Gran Bretagna la posta in gioco era la conservazione dell’impero coloniale e, quindi, del benessere legato allo sfruttamento di immense risorse mondiali e alla penetrazione commerciale nei più lontani mercati, per la Germania invece (o, prima di essa, per la Francia e, dopo di essa, per l’Unione Sovietica) la posta in gioco era, in un certo senso, la pura e semplice sopravvivenza. Perciò, a dispetto di tutte la apparenze, le guerre di Napoleone contro le varie coalizioni finanziate dall’Inghilterra erano essenzialmente difensive, come lo furono quelle di Hitler, ivi compreso l’attacco all’Unione Sovietica, spada continentale dei banchieri della City Londinese (e di Wall Street); mentre le guerre condotte e soprattutto finanziate dalla Gran Bretagna, nel corso di oltre due secoli, contro la potenza continentale di turno, a partire dalla Guerra dei Sette anni (1756-63), furono guerre prettamente offensive.
Entrambe le guerre mondiali possono essere considerate come un gigantesco scontro geopolitico fra le potenze talassocratiche e quelle continentali.
Nella prima, la potenza marittima egemone (Gran Bretagna), alleata con due potenze continentali marginali dell’area euroasiatica (Francia e Russia) e con due potenze extraeuropee, una continentale ed una marittima (Stati Uniti e Giappone), nonché con una potenza marittima europea (Italia), ha avuto la meglio sulle due potenze continentali europee (Germania e Austria-Ungheria) e su una potenza continentale marginale (Impero Ottomano).
Nella seconda, una potenza continentale e due potenze marittime dell’area euroasiatica (Germania, Italia e Giappone) hanno tentato, fallendo, di spezzare l’accerchiamento del maggiore potenziale integrato, marittimo e terrestre, che esistesse a livello mondiale (Gran Bretagna e Stati Uniti), alleato - per l’occasione - con l’altra potenza continentale (Unione Sovietica; la Francia essendo stata eliminata già nelle primissime fasi del conflitto).
Insomma, si arriva sempre alla medesima conclusione: che il dominio dei mari, alla lunga, assicura la vittoria, perché consente lo sfruttamento delle maggiori fonti di ricchezza mondiali; ma che le potenze marittime, per strappare la decisione finale, devono o allearsi con delle potenze terrestri, di cui si servono come di altrettante spade continentali, oppure devono trasformarsi esse stesse anche in potenze continentali: come è stato il caso della Gran Bretagna, che, attraverso colonie-continenti come l’Australia, ha decentrato i propri gangli vitali; tanto che è stato osservato come neppure l’invasione tedesca dell’Inghilterra, nel 1940, l’avrebbe costretta alla resa, poiché essa avrebbe potuto benissimo continuare la lotta trasferendo il proprio governo nel Canada e potendo contare sull’appoggio sempre più deciso degli Stati Uniti.
Infine potremmo dire che, negli ultimi decenni, la superpotenza americana (continentale, ma divenuta anche marittima per le necessità della sua politica imperiale), dopo aver avuto la meglio sulla superpotenza sovietica (anch’essa continentale, e anzi bicontinentale, improvvisatasi marittima per ragioni strategiche globali), deve ora fronteggiare l’ascesa irresistibile di una potenza squisitamente continentale, la Cina - e, in prospettiva, anche l’India - divenuta erede dello slogan panasiatico lanciato dai Giapponesi durante la guerra del Pacifico.
Ma sarà bene delineare, adesso, un rapido profilo della figura e dell’opera del controverso “padre” della geopolitica, Karl Haushofer, servendoci della penna di un valente studioso italiano.
Ha scritto Alessandro Corneli, esperto di relazioni internazionali e strategia, nel suo volume «Geopolitica è. Leggere il mondo per disegnare scenari futuri» (Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2006, pp. 123-27):

«Karl Haushofer (1869-1946) è il pensatore geopolitico tedesco per eccellenza, ma il suo nome è Anche legato alla parabola nazista. Ufficiale di carriera senza particolari meriti, in missione diplomatica in Estremo Oriente Giappone e Manciuria, scrive le sue impressioni, restando particolarmente colpito dalla corsa alla modernizzazione dell’Impero del Sol Levante. Durante la partecipazione alla prima guerra mondiale legge “Lo Stato come organismo” dello svedese Kjellén e apprende il significato della geopolitica: scienza dello Stato in quanto organismo geografico, così come si manifesta nello spazio; lo Stato inteso come Paese, come territorio, e come impero. Convinto che la guerra in corso sia una guerra di annientamento della Germania, vuole che il suo paese sia una potenza mondiale. Così, all’indomani della sconfitta, ormai cinquantenne, fa il professore , il conferenziere, e dà vita alla “Rivista di geopolitica”, imponendosi come un’autorità intellettuale.
Nel 1919 aveva conosciuto il giovane Rudolf Hess (1894-1987). Hess, volontario nella prima guerra mondiale, si era arruolato nel reggimento List, in cui combatteva anche un ancora oscuro caporale di origine austriaca, Adolf Hitler, che lo convinse a entrare in politica, nel 1920, abbandonando l’università di Monaco dove stava per laurearsi in filosofia.  Stretta amicizia con Hermann Göring (1893-1946, che durante la guerra aveva acquistato fama di grande aviatore e fu poi il creatore della’armata aerea tedesca, anche se fallì l’impresa contro la Royal Air Force inglese nella Battaglia d’Inghilterra), Hess partecipò al fallito putsch nazista di Monaco nel 1923, e fu arrestato insieme a Hitler. In carcere, Hess aiutò il futuro Führer a scrivere il “Mein Kampf” (“La mia battaglia”), opera destinata a diventare il testo sacro del nazismo. Da quel momento egli divenne uno dei più stretti collaboratori di Hitler, tanto da esserne considerato il suo delfino (che in gergo politico indica il successore alla guida di un partito). Hess, ma non era il solo, coltivava studi esoterici. Per il tramite di Hess,  Haushofer incontrò Hitler almeno una dozzina di volte tra il 1922 e il 1938, ma non ne resta traccia documentaria. E soprattutto nasce il suo rapporto ambiguo con il nazismo. Dapprima, almeno fino al 1939, lo studioso riconosce al Führer il merito di avere ristabilito l’ordine, di avere unificato tutti i tedeschi in un solo Stato (Reich), di avere rimediato alle ingiustizie che il trattato di Versailles aveva imposto alla Germania vinta, considerata anche colpevole di avere scatenato la guerra. Ma la sua natura d’intellettuale un po’ distaccato dalla realtà, in difficoltà a capire i politici e i loro giochi tortuosi, di strenuo difensore della coerenza delle sue teorie,  non gli permise di integrarsi nel sistema, tanto è vero che non ebbe mai la tessera del partito. In fiondo, egli era rimasto un nazionalista conservatore, un esponente della società tedesca guglielmina, aristocratica e gerarchica, , di cui erano espressione le alte cariche dell’esercito, diffidente nei confronti dei “parvenus” un po’ plebei che affollavano il mondo nazista.  Nel 1939 ci fu anche uno screzio profondo: nel libro “Le frontiere “ aveva sollevato la questione della popolazione tedesca del Tirolo meridionale, annesso all’Italia nel 1919, e la cosa doveva turbare i rapporti tra Hitler e il suo principale alleato, Benito Mussolini,.
L’inizio della guerra fece registrare un progressivo isolamento di Haushofer.  La moglie, di discendenza non ariana, era stata salvata per amicizia politica; uno dei figli, Albrecht, si trovò implicato, nell’aprile 1941q, in un complotto per arrivare a una pace separata; il 10 maggio dello stesso anno, il suo amico e protettore, Hess,  compì il misterioso volo in Inghilterra e venne catturato dagli inglesi; la “Rivista di geopolitica” si dibatteva tra molte difficoltà, tra la necessità di giustificare la politica hitleriana e il pensiero del suo fondatore, che nell’ottobre 1945 dichiarerà che dopo il 1933, cioè dopo l’ascesa di Hitler al potere, la rivista stessa era sempre stata “sotto pressione”. Dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, Haushofer venne sospettato e incarcerato: il figlio Albrecht era stato già giustiziato in aprile. Arrestato dagli americani dopo la resa della Germania (8 maggio 1945), Haushofer fu ascoltato come testimone durante il processo di Norimberga: messo a confronto con Hess, questi dichiarò di non conoscerlo. Il 10 maggio 1946 Haushofer e la moglie si suicidarono.
Affrontiamo adesso gli elementi fondamentali del suo pensiero geopolitico, dicendo anzitutto che è figlio della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale: il problema era a quel punto di andare oltre la conoscenza di sé, chiesta da Ratzel, e di fondare un progetto politico ricavandolo dalla geopolitici, perché la geopolitica, come affermava Haushofer, rappresenta il ponte tra il sapere e il potere, una specie di autocoscienza che conduce alla decisione.
Il lavoro dei precedenti studiosi viene utilizzato a fondo. Anzitutto la nozione di spazio vitale aggravato dalle ingiustizie del trattato di Versailles. In secondo luogo, e questo è un suo contributo originale, l’insistenza sulle idee globali o “pan-idee”, come il pangermanesimo, il panslavismo o il panasiatismo.  Sono queste idee in grado di costruire vasti consensi, al di là di quelli che si possono costruire intorno a un piccolo stato, e anzi sono, rispetto ai confini statali, transfrontaliere, disegnando grandi complessi continentali. L’Impero Britannico, secondo Haushofer, è destinato a essere stritolato da queste pan-idee: l’India, per esempio, non si riconoscerà in un pan-britannismo.  L’Unione Sovietica, invece, potrà far leva, data la sua estensione su due continenti, sulle idee panasiatica ed euroasiatica; gli Stati Uniti, a loro volta, sulle idee panamericana e pan pacifica.
Bisogna riconoscere a Haushofer una fantasia non priva d’illuminazioni anticipatrici, , anche se egli generalizza l’dea di alcuni fatti concreti, quali l’idea di “sfera di coprosperità asiatica” con cui il Giappone giustificava il proprio espansionismo o addirittura l’idea  di una Comunità Economica Europea lanciata, tra il 1940 e il 1944, dal ministero dell’economia e presidente della Reichsbank e sostenuta dal mondo industriale tedesco: una comunità, beninteso, di cui la Germania sarebbe stata il fulcro. Ma non è ciò che sta accadendo adesso per via pacifica?
Ciò che i geopolitici tedeschi aborrivano sopra ogni altra cosa  era il modello imperiale britannico e, accanto a coloro che sostenevano la possibilità di distruggerlo con una guerra vittoriosa,  c’erano altri che pensavano di aggirarlo e in qualche modo disgregarlo.  La seconda strada, per esempio, era alla base del progetto della ferrovia  che, iniziata nel 1903, avrebbe dovuto collegare Berlino con Baghdad  passando per Istanbul e che doveva coronare il sogno orientale di Guglielmo II, protagonista di un celebre viaggio a Gerusalemme e di un incontro con il gran muftì., al quale l’imperatore aveva promesso tutto il suo appoggio contro il sionismo, considerato lo strumento di penetrazione della Gran Bretagna in Medio oriente. Se il disegno fosse riuscito, analogamente alla spedizione di Napoleone in Egitto, , sarebbe stato spezzato l’accerchiamento britannico che andava dall’Africa (Gibilterra) all’Asia del sud-est (Singapore, Hong Kong).
Molte di queste idee sono proliferate dopo la seconda guerra mondiale. A patte la linea antisionista, antiamericana e antiamericana ben radicata in tutto il mondo islamico, specie nel Medio Oriente, idee come “l’Asia agli asiatici” o “l’Africa agli africani”, e lo stesso movimento dei “non allineati” o terzomondisti, e recentemente l’opposizione alla globalizzazione, considerata il nuovo strumento di dominio mondiale da parte degli anglo-americani, trovano molti spunti nell’opera dei geopolitici tedeschi e in particolare di Haushofer.
Quando la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin firmarono il patto Molotov Ribbentrop (23 agosto 1939), che prevedeva la spartizione della Polonia e quindi l’inizio della guerra tedesca per la conquista a est della spazio vitale, Hashofer vide che l’incubo di Mackinder, cioè la concentrazione dell’Heartland a spese delle potenze marittime, si era realizzato e definì quel’evento il più grande e importante cambiamento nella politica mondiale. Entusiasmo prematuro, non solo perché il Giappone non condivideva l’alleanza russo-tedesca, mirando a erodere la presenza russa in Asia, ma soprattutto perché a meno di due anni da quella firma la Germania attaccò l’Unione Sovietica.
Un Paese inoltre Haushofer sottovalutò, come del resto Hitler: gli Stati Uniti, , considerati come una potenza che si era chiusa nell’isolazionismo, gelosa del proprio benessere (nonostante la crisi devastante del 1929), soprattutto una società così impregnata di individualismo che non sarebbe stata in gradi di esprimere una forte volontà. Secondo Hitler una plutocrazia giudeizzata, concentrata sugli affari, priva di virtù guerriere, non era portata per la guerra.  Un abbaglio reso possibile dai pregiudizi, come spesso accade.  Eppure, proprio gli Stati Uniti avevano a loro vantaggio, a guerra scoppiata,  fattori determinanti: la sicurezza del loro territorio,  una straordinaria capacità industriale, produttiva e organizzativa, e poi due alleati all’interno dello stesso Heartland che la Germania aveva pensato di avere posto sotto il proprio controllo: la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica.»

L’obiezione più forte che i moderni studiosi di tendenza  liberaldemocratica muovono all’idea stessa della geopolitica è che, nelle condizioni proprie seguite alla seconda guerra mondiale e alla fine della “guerra fredda”, è anacronistico pensare ancora la politica come lotta per l’espansione territoriale, dato che i sistemi democratici non punterebbero all’ingrandimento del proprio territorio, ma all’espansione di pacifiche relazioni commerciali e alla libertà dei mari.
Tutte queste buone intenzioni sono state compendiate nella cosiddetta Carta Atlantica, sottoscritta dal capo del governo inglese Churchill e dal presidente statunitense Roosevelt nel 1941 (quando, si noti, gli Stati Uniti d’America e i governi dell’Asse non erano ancora formalmente in stato di guerra gli uni contro gli altri).
Tuttavia, vi sono pochi dubbi sul fatto che dietro quelle formule si celava, da un lato, la tenace, rancorosa volontà di Churchill di punire la Germania e l’Italia e di conservare a ogni costo l’Impero britannico, l’India specialmente (anche se, poi, le cose sono andate altrimenti); e, dall’altro lato, la determinazione americana di rilanciare la propria economia - mai uscita dalla crisi del 1929, nonostante l’apparato propagandistico del New Deal - ed anche il proprio ruolo politico mondiale,  mediante la colonizzazione finanziaria del mondo intero.
C’è, poi, bisogno di notare che molte idee, e persino molti uomini, della geopolitica nazista, sono passati, quatti quatti, proprio nei meccanismi strategici del Pentagono dopo il 1945, tanto che si può parlare di una autentica ripresa di quei temi e di quelle concezioni in chiave liberaldemocratica? Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, su questo stesso sito (intitolato «Da Hitler a Bush, ovvero come si passa dal Terzo al Quarto Reich», pubblicato in data 01/02/2008), per cui rimandiamo il lettore  a quelle riflessioni.
È davvero insopportabile l’ipocrisia del totalitarismo democratico: il quale, mentre respinge con orrore tutto ciò che la cultura politica tedesca (e italiana) ha prodotto negli anni del fascismo, contemporaneamente si serve di gran parte del suo armamentario ideologico, rivisto e riverniciato, per perseguire sempre più spregiudicatamente i propri disegni di dominio mondiale.



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lundi, 05 avril 2010

Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

dimanche, 04 avril 2010

Quand le Togo et le Cameroun étaient des protectorats allemands

Erich KÖRNER-LAKATOS :

Quand le Togo et le Cameroun étaient des protectorats allemands

 

Deutschen_Schutzgebiete.gifPendant longtemps le Grand Electeur Frédéric-Guillaume de Prusse n’a connu aucun succès dans ses ambitions d’outre-mer. L’entreprise, qui a consisté à mettre sur pied une société à l’image de la Compagnie néerlandaise des Indes orientales, a échoué face aux réticences anglaises.

 

En 1682, Frédéric-Guillaume fonde dans le port maritime d’Emden la « Compagnie commerciale brandebourgeoise et africaine » (= « Brandeburgisch-afrikanische Handelskompagnie »). Une fort modeste expédition prend alors la mer, composée de deux navires avec, à leurs bords, à peine une centaine de matelots, quelques scientifiques et trois douzaines de fantassins.

 

Le jour du Nouvel An de 1683, les Prussiens débarquent au Cap des Trois Pointes sur la Côte d’Or de l’Afrique occidentale, dans le Ghana actuel. Von der Gröben hisse alors le drapeau frappé de l’aigle rouge sur fond blanc, pose la première pierre de la toute première colonie du Prince Electeur, qui est baptisée Gross-Friedrichsburg. Un traité de protection est signé, le « Tractat zwischen Seiner Churfürstlichen Durchlaut von Brandenburg Afrikanischer Compagnie und den Cabusiers von Capo tris Puntas », soit le « Traité entre la Compagnie africaine de son Excellence le Prince Electeur de Brandebourg et les Cabusiers du Cap des Trois Pointes ». Il règle les rapports entre les représentants du Prince Electeur et les chefs indigènes. Le commerce des esclaves, de l’or et de l’ivoire s’avère tout de suite florissant.

 

Mais des pirates français et des expéditions anglaises, venues de l’intérieur du pays, harcèlent les Prussiens qui, de surcroît, sont minés par les fièvres propres au climat des lieux et par la maladie du sommeil, transmise par la mouche tsétsé.

 

En 1708, le fortin n’est plus occupé que par sept Européens et quelques indigènes. Berlin en a assez des tracas que lui procure sa base africaine et le Roi Frédéric I (la Prusse est devenue un royaume en 1701) négocie pendant plusieurs années avec les Hollandais. En 1720, tout est réglé : ceux-ci reprennent à leur compte, pour la modique somme de 7200 ducats et pour quelques douzaines d’esclaves, les misérables reliquats de la première possession prussienne d’outre-mer.

 

Il faudra attendre plus d’un siècle et demi pour que quelques maisons de commerce allemandes se fixent à nouveau dans la région, sur la côte de la Guinée. Les Hanséatiques, qui cultivent l’honneur commercial et entendent baser leurs activités sur le principe de la parole donnée, sont confrontés à une concurrence anglaise, qui ne cesse d’évoquer le libre-échange et la « fairness » mais tisse des intrigues et brandit sans cesse la menace. En 1884, les marchands allemands demandent la protection de leur nouvel Empire et le Chancelier Bismarck envoie en Afrique le Consul Gustav Nachtigal, avec le titre de plénipotentionnaire, à bord du SMS Möve.

 

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Drapeau du Togo à l'époque du protectorat allemand

Lorsque Nachtigal aborde les côtes du Togo, le roi local Mlapa demande un accord de protection au Reich, en songeant bien entendu à se protéger contre ses rivaux de l’arrière-pays. Aussitôt dit, aussitôt fait. A partir du 5 juillet 1884, le Togo est un protectorat allemand et, à Lomé (aujourd’hui capitale du pays), on hisse le drapeau du nouveau Reich en ponctuant la cérémonie de salves d’honneur. Une semaine plus tard, Nachtigal jette l’ancre devant les côtes du Cameroun et signe un traité de protection au cours de la deuxième semaine de juillet avec les chefs King Bell et King Aqua. C’est une malchance pour les envoyés de Londres qui n’arrivent que quelques jours après la conclusion de cet accord et ne peuvent donc plus revendiquer la région pour l’Empire britannique.

 

Dans les décennies qui précédèrent la première guerre mondiale, ce sera surtout le Togo qui deviendra la colonie modèle de l’Allemagne wilhelminienne. Ses principales denrées d’exportation sont le cacao, le coton, les oléagineux, les cacahuètes et le mais. La présence allemande se limite à quelques factoreries et missions sur le littoral togolais ; en 1913, seuls trois cents Allemands vivent au Togo, dont quatre-vingt fonctionnaires coloniaux et cela pour un pays de la taille de l’Autriche actuelle. Les communications avec le Reich sont assurées par la grande station de radio de Kamina, construite en 1914.

 

Pendant l’été 1914, le Togo sera le théâtre d’une lutte brève mais acharnée. 560 soldats de la police indigène et deux cents volontaires européens tenteront de défendre le Togo allemand coincé entre les Anglais qui avancent à partir de l’Ouest, c’est-à-dire à partir du Ghana actuel, et les Français qui progressent en venant de l’Est, du Dahomey, c’est-à-dire du Bénin d’aujourd’hui. Sur la rivière Chra, les soldats de la police indigène togolaise se lancent contre une colonne franco-anglaise et contraignent les attaquants à se replier : les pertes sont lourdes toutefois dans les deux camps. Le sacrifice des Togolais a été inutile : l’ennemi est très supérieur en nombre. Les Allemands font sauter la station radio de Kamina et le gouverneur, le Duc Adolf Friedrich de Mecklembourg, capitule le 26 août. Anglais et Français se partagent le pays.

 

La situation est différente au Cameroun, dix fois plus vaste. Au Nord, le Cameroun est une savane herbeuse et, au Sud, une forêt vierge impénétrable. Les denrées d’exportation sont la banane, le cacao, le tabac, le caoutchouc et les métaux précieux. En 1913, le pays compte quatre millions d’indigènes et seulement 2000 Allemands. L’administration est assurée par quatre cents fonctionnaires. Le nombre de femmes et d’enfants européens est insignifiant, vu le climat très difficile à supporter pour les Blancs, si bien qu’il n’y avait pas une seule école pour les enfants d’Européens.

 

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Drapeau du Cameroun à l'époque du protectorat allemand

Dans ce Cameroun alors fort inhospitalier, les Alliés occidentaux auront de grosses difficultés à maîtriser la situation. La troupe de protection de la colonie comprend 43 compagnies, avec 1460 Allemands et 6550 indigènes. Les puissances de l’Entente leur opposaient, au début de la première guerre mondiale, un millier de soldats blancs et 15.000 colorés, parmi lesquels un régiment disciplinaire indien. Les défenseurs de la colonie allemande durent lutter sur trois fronts : au Sud, les Français entendent gagner du terrain au départ du Gabon, au Nord, les Britanniques pénètrent au Cameroun en partant de leur colonie du Nigéria. Plus tard, les Belges enverront une force de trois mille hommes, venus du Congo à l’Est.

Askaris%20zum%20Appell+.jpgLa troupe de protection allemande fut rapidement coupée de toute voie d’approvisionnement et, devant des forces ennemies supérieures en nombre, est obligée de se replier progressivement sur les hauts plateaux du pays, autour de l’actuelle capitale Yaoundé. Les combats acharnés durent jusqu’au début de l’année 1916. A ce moment-là, Allemands et Camerounais n’ont plus de munitions. Les Askaris de l’Empereur Guillaume II engagent le combat contre l’ennemi uniquement avec leurs baïonnettes. A la mi-février, le gros de la troupe de protection gagne un territoire neutre, la colonie espagnole de Rio Muni au Sud du Cameroun. Des dizaines de milliers d’indigènes, fidèles au Reich allemand, les suivent dans cet exil. Dans le Nord du protectorat du Cameroun, à proximité du Lac Tchad, la forteresse de montagne de Maroua tient sans fléchir sous les ordres du capitaine von Raben, grièvement blessé. 

 

Il ne rendra les armes  —mais ses soldats n’ont plus une seule cartouche !—  que lorsqu’il apprendra que le gros de la troupe de protection, invaincue, était en sécurité sur territoire espagnol. La dernière citadelle allemande du Cameroun était tombée. La présence allemande dans ce pays africain appartenait désormais au passé.

 

Erich KÖRNER-LAKATOS.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°50/2005 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

Evola e la "notte dei lunghi coltelli"

Evola e la ”notte dei lunghi coltelli”

     

di: Luigi Carlo Schiavone

Ex: http://www.rinascita.eu/

evola.jpgIn un articolo del marzo 1935 dal titolo “Il nazismo sulla via di Mosca?” apparso sul quotidiano “Lo Stato”, Julius Evola, allora umile pensatore ai margini del fascismo italiano, prendendo spunto dalle vicende occorse il 30 giugno del 1934 in Germania storicamente note come “Notte dei lunghi coltelli” e cioè la decapitazione sanguinosa, da parte della “destra” hitleriana, delle S.A., le Squadre di Assalto di Roehm e di Strasser che volevano – conquistato il potere – che la rivoluzione nazionalsocialista mettesse in opera il programma sociale, la cosiddetta “seconda rivoluzione” - muove una profonda critica alle posizioni espresse da Carl Dryssen nella sua opera “Fascismo nazionalsocialismo, prussianesimo”, considerato da Evola come il testo guida delle volontà dei rivoluzionari delle SA, facenti capo ad Ernst Röhm, nel quale si rintracciava la linea che essi volevano imporre al movimento nazionalsocialista.
Dryssen, partendo da considerazioni di carattere prettamente politico- economico, delinea due mondi contrapposti, l’Oriente e l’Occidente, che, oltre a risultar divisi da un punto di vista ideologico, trovano in Dryssen anche una frontiera naturale rappresentata dalla linea del Reno.
Il mondo dell’ “Occidente”, in cui Dryssen inquadrava gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna, è identificato come la patria del liberalismo, della democrazia, dell’internazionalismo e del capitalismo, fondamenta del libero commercio e dell’imperialismo finanziario. Un mondo in cui, secondo Dryssen, vigevano due principi: quello dell’individualismo che ne regolava i rapporti in ambito interno e quello dell’imperialismo su cui venivano fondati i rapporti verso l’esterno a servizio di un liberalismo “ipocrita”, generatore di un’azione egemonica o distruttrice a danno di altri popoli.
Radicalmente opposti risultavano essere, nella visione del Dryssen, i tratti caratterizzanti il mondo orientale. Nell’ “Oriente”, identificato territorialmente nella Germania, vigeva un diverso tipo di Stato caratterizzato da un ampio spirito sociale ed essenzialmente agrario sorretto da un’economia di consumo fondata, principalmente, sulla relazione del “Blut und Boden” (sangue e suolo); un’impostazione, questa, totalmente diversa dall’economia imperialistica ed internazionalistica tipica dello Stato Occidentale.
È in forza di suddette considerazioni che Dryssen fornisce una versione della prima guerra mondiale vista, dall’autore, come un’aggressione dell’Occidente ai danni dell’Oriente dettata da una volontà individualista-capitalistica di piegare l’unica parte d’Europa che ancora le resisteva. Dal caos ideologico scaturito nel dopoguerra, inoltre, Dryssen vede il sorgere di due visioni contrapposte che identifica nella corrente riformistica-romana, incarnatasi nel fascismo, e nella corrente germanico-rivoluzionaria, propria del movimento nazionalsocialista.
Secondo Dryssen, infatti, il movimento fascista, sebbene caratterizzato da originari tratti rivoluzionari e socialistici, non avrebbe avuto la forza di travolgere l’antico sistema di marca romana, base del sistema occidentale, ma vi avrebbe apportato solo delle modeste correzioni identificabili nell’instaurazione di un “capitalismo autoritario” sottoposto al controllo dello Stato, evitando così la rivoluzione. Un’altra motivazione, caratterizzante la volontà del movimento fascista di non rivoluzionare ma solo di riformare l’antico sistema, è da trovarsi, secondo l’autore tedesco, nel mantenimento dell’imperialismo. Questa nuova Roma, quindi, considerata da Dryssen come “salvatrice del capitalismo occidentale” viene avvertita come un nuovo ostacolo per la tradizione anticapitalista e socialistica tedesca; compito del nazionalsocialismo, quindi, era quello di dar vita ad una rivoluzione “social prussiana” che, rifacendosi al motto di luterana memoria, Los von Rom! (via da Roma!) avrebbe tutelato la tradizione germanica dalla minaccia occidentale e capitalistica e da Roma, ultimo baluardo di un mondo ormai agonizzante. Ad Adolf Hitler, innalzato da Dryssen a novello Vidukind, (il duce sassone che si oppose a Carlo Magno) il compito di orientare la Germania verso il socialismo nazionale e improntarla su una visione “eroica” e non prettamente economica dell’esistenza. […]
In merito al fascismo, invece, sono altri gli elementi che Evola cita per smantellare l’impostazione di Dryssen: dall’ “educazione guerriera” impartita alle nuove generazioni, ai processi di agrarizzazione e alla lotta contro l’urbanizzazione oltre alla concezione del diritto di proprietà del fascismo, che trasforma il detto, di proudhoniana memoria, “la proprietà è un furto” in la “proprietà è un dovere”.
La proprietà in Evola assume, quindi, una caratterizzazione differente rispetto alla considerazione che se ne ha nella visione “occidentale” data da Dryssen; considerata come una delle condizioni materiali imprescindibili per la dignità e l’autonomia della persona è opportunamente ridimensionata in un sistema, come quello fascista, non asservito al capitalismo e che mira a capovolgere la dipendenza della politica all’economia subordinando nuovamente quest’ultima alla prima in forza di un’idea superiore rappresentata in un primo momento dalla Nazione e successivamente dall’Impero.
Un ulteriore errore da parte di Dryssen, e di alcuni esponenti di spicco dello N.S.D.A.P., è da rintracciarsi, secondo Julius Evola, nell’errata considerazione del binomio individualismo-personalità. Se è lecito, secondo Evola, opporsi all’individualismo, concezione maturata in seno al liberalismo, non alla stessa stregua deve essere considerata la personalità, elemento essenziale per il recupero di buona parte dei valori indoeuropei. Se il socialismo e l’individualismo possono essere considerati come due facce della stessa medaglia in quanto figlie di un’unica decadenza materialistica, antiqualitativa e livellatrice, infatti, diversi sono i tratti tipici del pensiero indoeuropeo miranti alla realizzazione di realtà organiche e gerarchiche che, caratterizzate proprio dall’ideale di personalità libere, virili e differenziate, mirino, ciascuna nel proprio ambito, ad assegnare ad ogni cittadino una propria funzione e una propria dignità. Un ideale, questo, che Evola considera superiore sia al liberalismo che al socialismo, che si è protratto nel tempo approdando dalla comune matrice indoeuropea alla tradizione classica prima e alla tradizione classico-germanica poi, per consolidarsi, infine, nella tradizione romano-germanica medioevale.
Per quel che concerne l’antiromanità professata da Dryssen, essa è da considerarsi, secondo Evola, come diretta emanazione di quel processo di allontanamento della Germania che, come già citato, ebbe inizio con Lutero e che in quel determinato periodo storico favoriva esclusivamente un riposizionamento della stessa a favore della Russia, che a detta dello stesso Dryssen, era l’unica grande potenza ad essersi elevata contro l’Occidente e contro Roma oltre che al capitalismo. L’assenza di reali frontiere spirituali fra l’Elba e gli Urali avrebbe favorito, inoltre, una maggior unione fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo. La fusione dell’antico sistema tedesco dell’Almende e del Mir slavo avrebbe finito, secondo Dryssen, per patrocinare una nuova forma di collettivismo che, in Russia come in Germania, sarebbe stato tutelato da uno Stato agrario socializzato ed armato. Nella visione di Dryssen, inoltre, Evola rintraccia un ulteriore parallelismo tra l’ateismo sovietico e la riforma luterana.
L’ateismo sovietico, infatti, mutuerebbe dalla riforma luterana la volontà di battersi contro una religiosità ufficiale, mondanizzata, legata alle ricchezze e romanizzata; solo dalla rivolta, pertanto, sarebbero potute nascere nuove religioni interiori e a favore del popolo al pari degli effetti che Lutero anelava dalla sua riforma.
A favore di suddetta visione, che porterebbe la Germania all’accordo con la Russia, Dryssen evoca più volte, secondo Evola, lo spauracchio dell’imperialismo italiano quasi come se esso fosse una tendenza esclusivamente romana e non riscontrabile presso altri popoli. Dimenticando, quindi, il primo verso dell’inno tedesco (Deutschland Deutschland über alles, über alles in der Welt) e ponendosi negativamente contro l’universalità romana Dryssen, secondo Evola, accettava implicitamente l’internazionalismo bolscevico all’interno del quale, ricorda il filosofo tradizionalista, scarso posto trovavano i concetti di Patria e di Nazione e ancor meno quello di tradizione nel senso più ampio del termine, tutti e tre più volte ripresi dallo stesso Dryssen. […]
Antiromanità, antiaristocrazia, antitradizione, sono gli elementi che si trovano alla base della visione di quanti, secondo Evola, volevano che il Reich volgesse lo sguardo verso la Russia e concludendo il suo articolo auspicava invece che l’Italia fascista tracciasse una propria strada che si trovasse ad egual distanza dall’Occidente delineato da Dryssen che dalla Russia bolscevica.
Che ci si ritrovi maggiormente nelle posizioni di Carl Dryssen o in quelle espresse da Julius Evola, è indubbio lo stupore di fronte a simili analisi volte ad individuare, tramite profonde riflessioni e ricerche, le soluzioni migliori per l’attuazione di piani politici volti a cesellare, come si trattasse di statue antiche, i tratti ed i caratteri di interi popoli. Uno stupore che si fa ancora più grave se si pensa che tali analisi vennero svolte in quell’epoca che tutti additano come la più oscura d’Europa mentre oggi, nell’epoca delle libertà, si è costretti ad assistere ad ignominiosi spettacoli nei quali, oltre ad essere ripetuti costantemente i medesimi mantra salvifici, l’individuo, sempre più asservito alla tecnocrazia di jungeriana memoria, non è più essere da formare ma tifoso da consolidare.

The Germanization of Early Medieval Christianity

OS_namen_klein.jpgEUROPEAN SYNERGIES – MANAGERS’ SCHOOL / BRUSSELS/LIEGE –
OCTOBER 2004 – BIBLIOGRAPHICAL INFORMATION

The Germanization of Early Medieval Christianity: A Sociohistorical Approach to Religious Transformation

by James C. Russell

Price: US
$25.00
Product Details

*    Paperback: 272 pages ; Dimensions (in inches): 0.72 x 9.16 x 6.08
*    Publisher: Oxford University Press; Reprint edition (June 1, 1996)
*    ISBN: 0195104668

 

Editorial Reviews

Synopsis
While historians of Christianity have generally acknowledged some degree of Germanic influence in the development of early medieval Christianity, this work argues for a fundamental Germanic reinterpretation of Christianity. This treatment of the subject follows an interdisciplinary approach, applying to the early medieval period a sociohistorical method similar to that which has already proven fruitful in explicating the history of Early Christianity and Late Antiquity. The encounter of the Germanic peoples with Christianity is studied from within the larger context of the encounter of a predominantly "world-accepting" Indo-European folk-religiosity with predominantly "world-rejecting" religious movements. While the first part of the book develops a general model of religious transformation for such encounters, the second part applies this model to the Germano-Christian scenario. Russell shows how a Christian missionary policy of temporary accommodation inadvertently contributed to a reciprocal Germanization of Christianity.

Ingram
While historians of Christianity have generally acknowledged some degree of Germanic influence in the development of early medieval Christianity, Russell goes further, arguing for a fundamental Germanic reinterpretation of Christianity. He utilizes recent developments in sociobiology, anthropology, and psychology to help explain this pivotal transformation of the West. This book will interest all who wish to further their understanding of Christianity and Western civilization.


Reviewer: Elliot Bougis "coxson" (Taichung, Taiwan)  
I stumbled upon this book while researching for a study of the conjoined paganization/Christianization of Medieval literature. What a find! As the reviewer above mentioned, Russell's strength lies in the amazing range of his scholarship. This intellectual breadth, however, does not detract from Russell's more focused, balanced, and lucid examination of key points (e.g., anomie as a factor in social religious conversion, fundamental worldview clashes between Christianity and Germanic converts, etc.). Russell covers a lot of ground in a mere 200+ pages. Moreover, his final assertions are modest enough to be credible, and yet daring enough to remain highly interesting. Plus, from a research perspective, the bibliography alone is worth a handful of other books. This book has been normative in my decisions about the contours of any future scholarship I pursue. Alas, I was left hungering for a continuation of many of the themes, to which Russell often just alludes (e.g, the imbibed Germanic ethos as the animus for the "Christian" Crusades, the contemporary implications of urban anomie for our globalizing world, etc.). Of course, such stellar scholarship cannot be rushed. Surely Russell's next inquiry is worth the wait!


Brilliant and innovative study of Germanic religiosity
, September 2, 1999
Reviewer:
A reader
Scholar James Russell has given us an important work with this detailed study. Subtitled "A sociohistorical approach to religious transformation," it is an exceedingly well-researched and documented analysis of the conversion of the Germanic tribes to the imported and fundamentally alien religion of Christianity during the period of 376-754 of the Common Era. Russell's work is all the more dynamic as he does not limit his inquiry simply to one field of study, but rather utilizes insights from sources as varied as modern sociobiological understanding of kinship behaviors, theological models on the nature of religious conversion, and comparative Indo-European religious research. Dexterously culling relevant evidence from such disparate disciplines, he then interprets a vast array of documentary material from the period of European history in question. The end result is a convincing book that offers a wealth of food for thought-not just in regards to historical conceptions of the past, but with far-reaching implications which relate directly to the tide of spiritual malaise currently at a high water mark in the collective European psyche. The first half of Russell's work provides an in-depth examination of various aspects of conversion, Christianization and Germanization, allowing him to arrive at a functional definition of religious transformation which he then applies to the more straightforward historical research material in the latter sections of the book. Along the way he presents a lucid exploration of ancient Germanic religiosity and social structure, placed appropriately in the wider context of a much older Indo-European religious tradition. Russell completes the study by tracing the parallel events of Germanization and Christianization in the central European tribal territories. He marshals a convincing array of historical, linguistic and other evidence to demonstrate his major thesis, asserting that during the process of the large European conversions Christianity was significantly "Germanicized" as a consequence of its adoption by the tribal peoples, while at the same time the latter were often "Christianized" only in a quite perfunctory and tenuous sense. Contrary to simplistic models put forth by some past historians, this book illustrates that conversion was not any sort of linear "one-way street"; a testament to the fundamental power of indigenous Indo-European and Germanic religiosity lies in the evidence that it was never fully or substantially eradicated by the faith which succeeded it. As Russell shows, a more accurate scenario was that of native spirituality and folk-tradition sublimated into a Christian framework, which in this altered form then became the predominant spiritual system for Europe. Russell's Germanization of Early Medieval Christianity is wide-ranging yet commanding in its contentions, and academia could do well with encouraging more scholars of this calibre and fortitude who are able to avoid the pitfall of over-specialization and produce works of great scope and lasting relevance. Make no doubt about it, this is a demanding and complex book, but for those willing to invest the effort, the benefits of understanding its content will be amply rewarding, and of imperative relevance for anyone who wishes to apprehend the past, present and future of genuine European religiosity.

mardi, 30 mars 2010

From Nihilism to Tradition

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

From Nihilism to Tradition


VennerHTrEur.jpgBook Review of Dominique Venner,
Histoire et tradition des Européens: 30 000 ans d'identité, (Paris: Editions du Rocher, 2002) 18.50 euros, 274 pages

by Michael O' Meara

 

I. Race of Blood, Race of Spirit


In the United States, we nationalists take our stand on the question of race, arguing that it denotes meaningful differences between subspecies, that these differences have significant behavioral and social ramification, and that the present threat to white racial survival constitutes the single, most vital issue facing our people. In Europe, by contrast, our counterparts pursue a somewhat different strategy.   Against the anti–white forces of multiculturalism, Third World immigration, feminism, and globalization, European nationalists tend to privilege not race per se, but the defense of their cultural/historical identity.

This identitarian emphasis might be explained by the absence of First Amendment rights and hence the freedom to treat racial questions forthrightly. But there is, I think, another, more interesting reason for these transatlantic differences: namely, that European nationalists define race not simply as a matter of blood, but also as a spiritual – that is, as a historical and cultural –– phenomenon. Implicit in this view is the assumption that the body is inseparable from the spirit animating it, that biological difference, as a distinct vitality, is another form of spiritual difference, and that the significance of such differences (given that man is a spiritual being, not merely an animal) is best seen in terms of culture and history rather than 19th–century biological science. Race, then, may be the necessary organic substratum to every historically and culturally distinct people, but its biological properties, however primordial, are only the form, not the substance, of its spiritual manifestation. Thus, whilst we Americans search for psychological, sociological, conspiratorial, or political explanations to account for the racially self–destructive behavior of our people, Europeans look to the loss of their culture and tradition –– and the identity they define.

These distinctions reflect not just strategic differences between US and continental nationalisms, but also the larger civilizational divide separating America from Europe –– and hence their different historical trajectories. This is especially evident in the fact that Europeans of all political persuasions are presently embarked on an epoch–making project –– a politically united Europe –– that promises them dominance in tomorrow's world. There is, moreover, real debate about how the European project is to be realized, especially in France, where the will to power is most developed. The New Class forces in control of the European Union, as might be expected, favor the liberal, economic, and quantitative principles that are leading white people everywhere to ruin, envisaging Europe as a multiracial civilization based on free markets, unguarded borders, and an ethnocidal humanitarianism. Against them, the various anti–system parties challenging the liberal–democratic order of money imposed on Europe in 1945, along with hundreds of New Right, far Right, revolutionary-nationalist, and revolutionary conservative formations making up the Right's extra-parliamentary wing, marshall an array of persuasive counter–arguments and do so not simply in the language of race. For unlike their New World homologues, these anti-liberals have the millennia–long tradition of Europe's race–culture to buttress their opposition.

It is as part of this larger debate on Europe that Dominique Venner's Histoire et tradition des européennes: 30 000 ans d'identité (History and Tradition of the Europeans: 30,000 Years of Identity) is to be situated. Few living writers are better qualified than Venner to speak for the white men of the West. For five decades, on paper and on numerous battlefields, he has earned the right to do so. His first arena in service to the European cause was French Algeria, where he served as an elite paratrooper. Later, in the 1960's, after discovering that the cosmopolitan forces of international capital had captured all the seats of power, he fought on another front, playing a leading role in the period's far–Right campaigns. Besides getting to know more than one French prison, he helped launch the metapolitical career of the "European New Right"(or 'New Culture'), which has since become the chief ideological opponent of the Judeo–liberal forces allied with le parti Americain . But more than courage and integrity under fire, Venner is a favorite of the muses, having authored more than forty books and innumerable articles on the most diverse facets of the European experience.

In a Histoire et tradition des europeennes, this gifted European turns to his people's distant past to answer the great questions posed by their uncertain future.

II. Nihilism


Writing at the advent of the new millennium, Venner notes that for the first time in history, Europeans no longer dominate the land of their fathers, having lost control of their borders, their institutions, and the very means of reproducing themselves as a people. He characterizes the present period as one of cultural chaos and racial masochism. No fluke of fate, this dark age culminates a long period of spiritual upheaval, in which Europeans have been severed from their roots and forced to find themselves in all the wrong places, including the negation of themselves. The loss of meaning and purpose fostered by this upheaval in which traditional forms of identity have given way to false ones, Venner calls 'nihilism'.

For Nietzsche, the most prominent popularizer of the term, nihilism is a productof God's death, which undermines Christian belief and leaves the world without a sense of purpose. Venner sees it in somewhat broader terms, designating not simply the loss of religious belief, but the loss of the larger cultural heritage as nihilism's principal source. In this sense, nihilism subverts those transcendent references that formerly oriented the Occident, leaving modern man with a disenchanted world of materialist satisfactions and scientific certainties, but indifferent to 'all the higher values of life and personality'. Given its focus on the physical basis of existence, nihilism fosters a condition devoid of sense, form, or order and hence one deprived of those standards that might aid us in negotiating the great trials of our age. An especially dire consequence of this loss of transcendence is a civilizational crisis in which the survival of our race becomes a matter of general indifference. Venner traces nihilism's roots to the advent of Spengler's Faustian civilization, which began innocently enough when Saint Thomas introduced Aristotelian logic to Christian theology, privileging thereby the forces of rationality. Because Christianity held that there was a single truth and a single spiritual authority (the Church), reason in this Thomist makeover was made the principal means of accessing the divine. Once the Christian God became dependent on reason, He risked, however, eventually being reputed by it. This came with Descartes, the founder of modern philosophy, who turned reason into a purely instrumental and calculative faculty. In the form of science, technology, and industry, Cartesianism reduced everything to a mechanical causality, associating reason with the progressive mastery of nature, a belief in progress (soon to supplant the belief in Providence), and, ultimately, the rule of money.

Venner claims a desiccated mathematicized reason, no matter how technologically potent, is no substitute for transcendent references, for a disenchanted world governed by its principles is a world devoid of meaning and purpose. The on–going mechanization of human existence and the quantitative, economic priorities it privileges are, indeed, premised on the eradication of those transgenerational structures of history, tradition, and culture which inform all traditional belief systems. And once such structures give way to rationalism's anti–organic propositions, so too does the significance of those qualities distinguishing Europeans from other members of the human family. In this spirit, the world born of nihilism takes as its ideal an abstract, uniform, and coffee colored humanity indifferent to pre–rational life forms based on Europe's organic heritage.

The greater the barrenness of the encroaching nihilism, the greater, Venner contends, is the need to reconnect with the primordial sources of European being. This, however, is now possible only through research and reflection, for these sources have been largely extirpated from European life. In uncovering the principal tropes of Europe's history and tradition, Venner does not, then, propose a literal return to origins (which, in any case, is impossible), but rather a hermeneutical encounter that seeks out something of their creative impetus. From this perspective, Homer's Iliad,written 30 centuries ago, still has the capacity to empower us because it expresses something primordial in our racial soul, connecting us with who we were at the dawn of our history and with what we might be in the adventures that lie ahead. Whenever Europeans reconnect with these primordial sources, they take, thus, a step toward realizing an identity –– and a destiny –– that is distinctly their own.

 

III. Tradition


When Venner speaks of tradition he refers not to the customary rites and practices which anthropologists study; nor does he accept the utilitarian approach of Edmund Burke and Russell Kirk, who treat it as the accumulated wisdom of former ages; nor, finally, does he view it as that transhistorical body of principles undergirding the world's religions, as René Guenon and Julius Evola do. Tradition in his view is that which is immutable and perpetually reborn in a people's experience of its history, for it is rooted in a people's primordial substratum. It ought not, then, to be confused with the traditions or customs bequeathed by the past, but, instead, seen as the enduring essence of a particular historical community, constituting, as such, the infrastructural basis –– the cultural scaffolding –– of its spirit and vitality.

From this perspective, Europe was born not with the signing of certain free–trade agreements in the late 20th century, but from millennia of tradition. Nowhere is this clearer than in the themes linking the Iliad,the medieval epics, the Norse sagas, even the national poem of the Armenian Maherr, where we encounter the same warrior ethic that makes courage the ultimate test of a man's character, the same aristocratic notions of service and loyalty, the same chivalric codes whose standards are informed by beauty, justice, and harmony, the same defiance in face of unjust authority and ignoble sentiments, but, above all, the same metaphysical rebellion against an unexamined existence. From these Aryan themes, Venner claims the organic legacy that is Europe takes form.

The word itself –– 'Europe' –– is nearly three millennia old, coined by the Greeks to distinguish themselves from the peoples of Africa and Asia. Not coincidentally, Hellenic Europe was forged –– mythically in Homer, historically in the Persian wars –– in opposition to Asia. The roots of Europe's tradition reach back, though, beyond the Greeks, beyond even the Indo–Europeans, who shaped the linguistic and cultural structures of its root peoples. It begins 30,000 years, at the dawn of Cro–Magnon man, whose cultural imagery lingers in the extraordinary cave paintings of Chauvet (France) and Kapova(Ukraine), in that region stretching from the Pyrannies to the Urals, where, for nearly 20,000 years, until the last Ice Age arrived, the germ of European civilization took form, as race and culture fused in a uniquely brilliant synergy. Every subsequent era has passed on, reframed, and added to this traditional heritage –– every era, that is, except the present nihilist one, in which liberals and aliens dominate.

IV. History


Darwin may have been right in explaining the evolution of species, but, Venner insists, history operates irrespective of zoological or scientific laws. As such, history is less a rectilinear progression than a spiral, without beginning or end, with cycles of decay and rebirth intricate to its endless unfoldings. No single determinism or causality can thus conceivably grasp the complexity of its varied movements. Nor can any overarching cause explain them. Given, therefore, that a multitude of determinisms are at work in history, each having an open–ended effect, whose course and significance are decided by the historical actor, human freedom regains its rights. And as it does, history can no longer be seen as having an in–built teleology, as 'scientific' or ideological history writing, with its reductionist determinisms, presumes. This means there is nothing inevitable about the historical process –– for, at any moment, it can take an entirely newÜ Üdirection. What would the present be like, Venner asks, if Hitler had not survived the Battle of Ypres or if Lee had triumphed at Gettysburg? None of the great events of the past, in fact, respond to necessity, which is always an aposteriori invention.

In conditioning a people's growth, the existing heritage constitutes but one determinant among many. According to Venner, the existing heritage enters into endless combination with the forces of fortune(whose classic symbol is a woman precariously balanced on a spinning wheel) and virté (a Roman quality expressive of individual will, audacity, and energy) to produce a specific historical outcome. In this conjuncture of determinism and fortune, the virté of the historical actor becomes potentially decisive. Lenin, Hitler, Mussolini –– like Alexander, Ceasar, and Arminus before them –– or Frederick II, Peter, Napoleon –– were all men whose virté was of world historical magnitude. Without their interventions, in an arena organized by the heritage of the past and subject to the forces of chance, history might have taken a different course. This suggests that history is perpetually open. And open in the sense that its unfolding is continually affected by human consciousness. History's significance, therefore, is not to be found in the anonymous currents shaping its entropic movements, but in the meanings men impose upon them. For in face of the alleged determinisms justifying the existing order, it is the courage –– the virté –– of the historical actor that bends the historical" process in ways significant to who we are as a people.

In Venner's view, the European of history is best seen as a warrior bearing a sword, symbol of his will. The virté of this warrior is affirmed every time he imposes his cosmos(order) upon a world whose only order is that which he himself gives it. History, thus, is no immobilizing determinism, but a theater of the will, upon whose stage the great men of our people exert themselves. Both as intellectual discipline and individual act of will, it seems hardly coincidental that history is Europe's preeminent art form.

V. In Defense of Who We Are


Like history, life has no beginning or end, being is a process of struggle, an overcoming of obstacles, a combat, in which the actor's will is pivotal. While it inexorably ends in death and destruction, from its challenges all our greatness flows. The Hellenes enter history by refusing to be slaves. Bearing their sword against an Asiatic foe, they won the right to be who they were. If a single theme animates Venner's treatment of Europe's history and tradition, it is that Europeans surmounted the endless challenges to their existence only because they faced them with sword in hand –– forthrightly, with the knowledge that this was just not part of the human condition, but the way to prove that they were worthy of their fate. Thus, as classical Greece rose in struggle against the Persians, the Romans against the Carthagians, medieval and early modern Europe against Arab, then Turkish Islam, we too today have to stand on our borders, with sword in hand, to earn the right to be ourselves.

Europeans, Venner concludes, must look to their history and tradition ––especially to the honor, heroism, and heritage Homer immortalized –– to rediscover themselves. Otherwise, all that seeks the suppression of their spirit and the extinction of their blood will sweep them aside. The question thus looms: in the ethnocidal clash between the reigning nihilism and the white men of the West, who will prevail? From Venner's extraordinary book, in which the historian turns from the drama of the event to  the scene of our longue duré)À we are led to believe that this question will be answered in our favor only if we remain true to who we are, to what our forefathers have made of us, and to what Francis Parker Yockey, in the bleak years following the Second World War, called the primacy of the spirit.

Notes


1.Most of his books are works of historical popularization. His books on Vichy France, however, rank with the most important scholarly contributions to the field, as do his numerous books on firearms and hunting (one of which has been translated into English). His military history of the Red Army (Histoire de la Arme Rouge 1917–1924) won the coveted prize of the Academie Francaise. His Le couer rebel, a memoire of his years as a paratrooper in Algeria and a militant in the thick of Parisian nationalist politics during the 60s, I think is one of the finest works of its kind. Venner has also founded and edited several historical reviews, the latest being the Nouvelle Revue d'Histoire, whose web address is http://www.nrh.fr

Michael O'Meara, Ph.D., studied social thought at the Ecole des Hautes Etudes and modern European history at the University of California. He is the author of New Culture, New Right: Anti–Liberalism in Postmodern Europe.

 

[The Occidental Quarterly IV: 2 (Summer 2004)]

mardi, 23 mars 2010

Seconde moitié du 17ème: les Pays-Bas royaux entre Cromwell et Mazarin

Low_Countries.pngXVII° siècle: les Pays-Bas Royaux entre Cromwell et Mazarin

23 mars 1657: Mazarin s’allie à Cromwell contre les Pays-Bas Royaux ou Pays-Bas espagnols. L’état de guerre entre Londres et Bruxelles date de septembre 1655, quand les relations diplomatiques ont été rompues entre les deux capitales. Le motif de cette rupture est le fameux “Acte de Navigation”, énoncé par Cromwell le 9 octobre 1651: cet “Acte” réservait l’exclusivité du commerce avec les îles britanniques aux seuls navires anglais, à l’exclusion de tous les autres. Cette décision entraîne une guerre entre les deux puissances protestantes que sont les Provinces-Unies et l’Angleterre. Ipso facto, la lutte entre les Provinces-Unies et l’Angleterre va rapprocher les Pays-Bas Royaux, demeurés catholiques, de leurs frères séparés du Nord, sans que ce rapprochement n’ait été exploité politiquement, métapolitiquement et culturellement par les avocats contemporains de l’idée de Benelux ou de la fusion Flandre/Pays-Bas. La lutte connaîtra son maximum d’intensité en 1652, année où l’espace mosan des Pays-Bas Royaux est ravagé par les combats entre Condé, passé au service de la Couronne d’Espagne, et le Duc de Lorraine, d’une part, contre le Prince-Evêque de Liège, allié à Mazarin.

 

Il faudra attendre la « Paix de Tirlemont » (17 mars 1654) pour sanctionner la fin des hostilités contre la Principauté ecclésiastique de Liège, dirigée par un évêque bavarois, Maximilien-Henri de Bavière, accusé d’avoir voulu ouvrir la vallée mosane aux armées françaises. Par la « Paix de Tirlemont », la Principauté de Liège acquiert un statut de neutralité, accepté par l’Espagne. Le gouverneur espagnol de Bruxelles, Léopold-Guillaume, fils de l’Empereur germanique Ferdinand II, peut tourner ses forces contre Cromwell. L’état de guerre est proclamé en septembre 1655. Le futur Charles II, prétendant au trône d’Angleterre, forcé à l’exil par les puritains de Cromwell, est contraint de quitter la France, où il s’était réfugié, pour les Pays-Bas Royaux. Ce deuxième exil du roi déchu se précipite à l’instigation de Mazarin qui, en dépit de sa pourpre cardinalice, va s’allier aux pires ennemis des catholiques. Au même moment, Pieter Stockmans, docteur en droit de l’Université de Louvain, rédige un traité contestant aux légats pontificaux le droit d’intervenir dans les affaires politiques des Pays-Bas Royaux ! Au 17ème siècle, la césure catholiques/protestants n’est plus aussi nette qu’au siècle précédent.

 

Les Pays-Bas Royaux sont dès lors coincés entre la puissance maritime anglaise et la puissance continentale française, sans qu’interviennent les Provinces-Unies, ennemies de l’Angleterre cromwellienne. Henri de Turenne, en 1655, harcèle les Pays-Bas Royaux sur leur frontière méridionale et pénètre en force dans la « trouée de l’Oise », où il se heurte, victorieusement, aux commandants espagnols, Condé et Fuensaldana, assistés de troupes lorraines. Turenne grignote les franges méridionales du Hainaut mais ne parvient pas à atteindre Bruxelles. Entretemps, Charles II s’installe à Bruges, où il tient sa cour, directement face aux côtes anglaises. En 1656, la guerre se porte également sur mer : les bâtiments flamands d’Ostende et de Dunkerque, au service de l’Espagne, se heurtent aux Anglais en Mer du Nord, à proximité des côtes anglaises (Goodwind Sands). Le Capitaine ostendais Erasme de Brauwer couvre la retraite des bâtiments flamands dunkerquois et ostendais et soutient, avec 27 canons contre 36 canons anglais, le feu ennemi pendant treize heures, avant de couler. Don Juan, fils naturel de Philippe IV d’Espagne, devient gouverneur des Pays-Bas Royaux et réorganise l’armée, dont les effectifs, surtout la cavalerie, sont sérieusement étoffés. Cela n’empêchera pas les Français de prendre, le 5 août 1657, la forteresse de Montmédy, qui faisait alors partie du Duché du Luxembourg. Le commandant de la place, Jean de Malandry, refusera de se rendre et tiendra tête, avec 800 hommes, aux 20.000 soldats du Maréchal de la Ferté. Il faudra attendre la mort au combat de ce courageux capitaine, après six semaines de siège, pour que tombe la forteresse (qu’on peut visiter aujourd’hui).

 

Turenne qui assiège Dunkerque depuis 1656, prend la ville en 1658, après avoir battu aux Dunes l’armée de secours, commandée par Don Juan et Condé. Les Anglais entrent dans le port flamand et les Français prennent successivement Bergues, Furnes, Dixmude, Gravelines, Audenarde et Ypres. Don Juan est rappelé à Madrid. Son successeur est Don Luis de Benavides, Marquis de Caracena, général de cavalerie à la brillante carrière militaire. La mort de Cromwell, le 3 septembre 1658 met un terme aux hostilités. Sous l’impulsion de Jan De Witt, les Provinces-Unies suggèrent une Union entre elles et les Pays-Bas Royaux sur le modèle cantonal suisse. La guerre franco-espagnole s’achève par le Traité de Pyrénées, le 7 novembre 1659. En 1660, Charles II récupère la Couronne d’Angleterre. Le Prince de Ligne tentera bientôt de rappeler au nouveau monarque anglais l’hospitalité que lui avaient octroyée les Pays-Bas Royaux, dans l’espoir de lui faire renoncer à toute alliance qui leur serait hostile et écornerait leur intégrité territoriale. Les résultats de ses démarches diplomatiques ont été assez mitigés.   

 

 

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dimanche, 21 mars 2010

L'héritage des clans en Ecosse

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

L'héritage des Clans en Écosse

par Freiceadan nan Gaidheal

Grâce à Sir Walter Scott et à toute l'armée de ses héritiers, depuis la Reine Victoria jusqu'aux millionnaires texans du pétrole se réclamant d'une vague ascendance calédonienne, le système écossais des clans est généralement perçu aujourd'hui en termes de tartans, de kilts et de chefs vivant à Dallas. Mais le système des clans est davantage que tout ce folklore : il incarne l'idée d'un modèle de relations entre les hommes, entre égaux, entre les égaux et les chefs qu'ils se désignent et entre égaux et le pays qu'ils habitent et enrichissent. Cette idée de­meure aussi valable et pertinente aujourd'hui qu'il y a mille ans.

Car le clan écossais était davantage qu'une simple association d'hommes vêtus de plaid et partageant un même nom. Avant que les romantiques de l'ère victorienne ne l'imaginent, il n'existait rien de semblable au "tartan clanique". Le clan constituait une entité sociale très rare dans l'Europe d'alors : il était une association d'hommes libres, possédant leurs propres terres et élisant leurs chefs.

Les terres du clan n'étaient pas possédées par un seigneur, ou par le chef du clan, mais par la to­talité de ses membres. Seul le clan en tant que tout pouvait vendre ou céder les terres qui lui appartenaient. Ces terres étaient partagées entre tous les membres par l'assemblée du clan pour le bénéfice de toute la collectivité. Une partie était allouée au chef et à son administration ; une autre aux prêtres (d'abord païens, ensuite chrétiens de rite celtique) ; une autre partie était travaillée en commun et, enfin, une dernière partie était tenue en réserve pour subvenir aux besoins des pauvres, des vieillards et des infirmes. Le reste était partagé de façon telle que chaque membre du clan puisse disposer de son propre lopin à cultiver.

 

Solidarité clanique et éligibilité des rois

 

Chacun des membres du clan payait des impôts au clan de façon à soutenir la communauté et de soutenir les pauvres, les vieux, les malades et les orphelins. Lorsqu'un membre du clan tom­bait malade, il ou elle avait droit, légalement, à de la nourriture et un traitement médical gra­tuits, payés par le clan. Se doter de provisions pour le bien-être de tous les membres du clan, telle était la fonction même de l'institution cla­nique, codifiée dans l'ancienne loi écossaise.

Le chef du clan n'était pas un suzerain héréditaire mais un chef élu, choisi habituellement mais non nécessairement dans une famille de chefs, lors de l'assemblée de tout le clan. Le chef en titré nommait et formait généralement son successeur, le tanist (du gaélique tanaiste, « second »), qui n'était pas son fils aîné mais la personne qu'il jugeait la plus capable de lui succéder. L'assemblée du clan n'était pas tenue d'entériner ce choix.

Le même système de tanistry, ou de chefferie élective, se retrouvait à plus grande échelle dans le gouvernement de l'Écosse entière. Cha­cune des six provinces ou mhaorine (intendance) de l'Écosse du haut moyen-âge était gouvernée par un mormaer (mor-mhaer ou Grand Intendant) élu par les chefs des clans de sa province. Il était issu généralement d'une vieille famille d'intendants. Tous les chefs de clan du pays, conjointement aux mormaer et aux évêques de rite celtique, avaient le droit d'élire et de déposer le Ard Righ na h-Alba ou le Grand Roi d'Écosse au cours d'une grande assemblée tenue selon la coutume dans l'ancienne capitale Scone. Les Grands Rois étaient généralement choisis dans les maisons royales de Moray et Atholl mais la dignité de roi n'avait rien d'héréditaire et ne se transmettait pas de père à fils aîné.

Les hommes et les femmes d'un clan, même humbles, n'étaient nullement serfs et leur chef n'était jamais un despote féodal. Chaque membre du clan avait son mot à dire dans l'élection du chef et détenait une part de propriété dans les terres collectives du clan. Il ou elle disposait de droits clairement définis par l'ancienne et complexe loi celtique. Les querelles étaient réglées par arbitrage devant un breithaemh professionnel, un juge. La peine de mort était rarement prononcée et, le cas échéant, uniquement pour des crimes monstrueux. Les femmes ne l'encouraient jamais. Les jugements barbares par ordalie, les punitions entraînant des mutilations, pratiquées dans toute l'Europe avec la bénédiction de l'Église officielle, étaient inconnues dans la vieille Écosse. La punition la plus terrible et la plus crainte était le bannissement.

 

Le christianisme sape le système clanique

 

Les femmes détenaient une place élevée dans la société clanique, contrairement à la position subordonnée (« bien meuble » ou « instrument ») que leur assignait l'idéologie chrétienne domi­nante. Toute femme pouvait être élue chef de clan et même conduire son clan à la bataille. Elle demeurait propriétaire de tous les biens qu'elle avait amenés lors de son mariage. Elle pouvait exercer une fonction à égalité avec un homme et elle jouissait de nombreux droits non octroyés ailleurs dans le « monde chrétien ».

Ce système celtique, unique en son genre, atteignit son apogée vers la moitié du XIème siècle, sous le règne sage et éclairé de MacBeth MacFindlaech, mis en scène plus tard par Shakespeare. La chute de MacBeth en 1057, dont la position fut usurpée par le roi­marionnette Malcolm Canmore, mis sur le trône d'Écosse par une armée anglaise, enclencha le processus de déclin des clans.

Ce déclin a eu pour base l'Église chrétienne. Tout comme en Scandinavie, en Écosse, l'Église apporta dans le sillage de ses missions la fin de la liberté et la mort des anciennes et vénérables traditions, apanages d'une nation fière et indépendante. L'Église imposa à l'esprit des hommes une tyrannie totalitaire, à l'ombre du chevalet de torture et des bûchers. L'Église détestait le système clanique parce qu'il interdisait la transmission de terres aux ecclésiastiques et parce qu'il subordonnait la hiérarchie ecclésiale à sa structure propre, chaque espace clanique devant constituer un diocèse dont les membres intervenaient dans la nomination des évêques. Rome suspectait ainsi l'Église celtique d'Écosse de servir de havre à des idées indépendantes et « hérétiques ».

En Écosse, l'Église, comme une calamité, s'abattit sur le peuple par les intrigues de Mar­garet, l'épouse fanatique et religieuse de Mal­colm Canmore, le roi laquais des Anglais. Ses fils continuèrent son travail de sape. Trois d'entre eux régnèrent sur l'Écosse. Ils importèrent des prêtres et des moines anglais, ce qui contribua à mettre l'Église celtique à genoux.

Des conceptions étrangères à l'Écosse, comme la primogéniture (l'hérédité du pouvoir et des terres par le fils aîné, indépendamment de ses compétences) et, surtout, l'idée que les terres ne sont pas un héritage collectif inaliénable, appartenant au peuple dans son ensemble, mais une simple propriété qui peut être vendue ou achetée. Dans cette conception, les hommes ne sont plus eux-mêmes que des « biens meubles » et doivent être traités en conséquence (servage et féodalisme). Voilà quelques-uns des principes pervers que l'Église a imposé à la vieille Écosse.

 

Les Highlands restent libres...

 

Sous le règne des fils de Margaret (et surtout sous David Ier), qui s'emparèrent du pouvoir illégalement, soit par « héritage » tout en déposant le roi élu Donald Ban, des chevaliers normands furent introduits dans le pays pour défendre le roi contre le peuple. Ceux-ci reçurent en octroi des terres écossaises en remerciement de leurs services. Le Roi, selon la loi traditionnelle, n'avait pas le droit de les donner...

Dans la partie méridionale de l'Écosse, la culture autochtone celtique, avec son système de clan, fut annihilée par une religion étrangère, un système politique étranger, des soldats étrangers et une langue étrangère. L'Église encouragea l'usage de l'anglais à la place du gaélique parce que cette langue était celle des « hérétiques » du rite celtique. L'ère des hommes libres, régis par des lois correctes, fut supplantée par la domination âpre de seigneurs en armures et à cheval, de prêtres étrangers en robe soutenus par une police tonsurée des esprits, sur leurs serfs.

Seuls les Highlands demeurèrent libres. En 1411, sur le champ sanglant de Red Harlaw, les Highlanders furent sur le point de libérer l'Écosse entière. Hélas, ils connurent l'échec. Un jour humide d'avril 1746, les Highlands finirent par ployer le genou. Les derniers restes du système clanique succombèrent avec eux. La loi étrangère et féodale de la possession personnelle des terres fut imposée au Nord, transformant les chefs de clan en seigneurs héréditaires et leurs clansmen en manants.

Les mérites des deux systèmes sociaux peuvent se jauger à la lumière de ce qui se passa après. Comme le Dr. Johnson put le prévoir avec justesse, la nouvelle loi transforma les chefs patriarcaux en seigneurs rapaces. Pendant plus de mille ans, sous l'ancien système, les clansmen des Highlands avaient vécu en toute sécurité sur la terre de leurs ancêtres. Après moins de cent ans sous la nouvelle loi, les collines étaient désertées de leurs habitants, chassés par les héritiers non élus de leurs anciens chefs, de façon à faire de la place pour les moutons, décrétés « plus rentables ». Le lien immémorial entre la terre et le peuple venait de se briser. L'ancienne culture et l'ancienne langue furent houspillés, au bord de l'annihilation.

 

Freiceadan nan Gaidheal (article tiré de la revue The Dragon, n°1, 1987, éditée par Julie O'Loughlin, adresse : BM-IONA, London WCIN 3XX).

 

vendredi, 19 mars 2010

"British" link to Beslan child massacre

 

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Archives: Oct./8/2004 http://ca.altermedia.info/

“British” link to Beslan child massacre

 



A terrorist amongst the group responsible for the Beslan school massacre last month, in which 300 people, half of them children, died turns out to be a British citizen who attended the infamous Finsbury Park mosque in north London where Abu Hamza used to preach.

 

Two other members of the group, loyal to Chechen warlord and terrorist Shamil Basayev, are also believed to have been active at the mosque until less than three years ago.

Algerians

Russian security sources described Kamel Rabat Bouralha, 46 years old, as an aide of Basayev. The three men, all Algerian-born immigrants given asylum in Britain, travelled to Chechnya from London to take part in fighting there in 2001.

Russian authorities have identified most of the 33 men who occupied the school in Beslan last month and they include two Algerians in their mid-30s called Osman Larussi and Yacine Benalia, both based in London until recently. Like Bouralha, they too attended Finsbury Park mosque and joined the network of groups loyal to Basayev on arrival in Chechnya.

Firing range uncovered

Former associates in London confirmed that Bouralha had been a frequent visitor at Finsbury Park mosque where Abu Hamza preached from around 2000. This is the same mosque where the Metropolitan Police discovered a firing range and ammunition beneath the floors in a cellar.

 

According to Russian security sources, there are up to 300 Arab mercenaries operating with rebel formations in Chechnya. This fact defeats the lie used by the ‘ apologists for terror ‘ like Vanessa Redgrave, a celebrity Marxist and leading light in the Islamo-Soviet front in Britain, who insists that the war in Chechnya is a “defensive” one by Chechens against Russia and not part of a global jihad (or holy war). Vanessa Redgrave in her role as an apologist for terror guaranteed the £50,000 bail of Akhmed Zakayev, an Chechen warlord wanted by Russia, until he was given asylum in Britain by Jack Straw even though he was implicated in scores of murders in Russia and Chechnya.

London’s role as centre of terror web

It is to Britain’s shame that thousands of Afghanistan trained ex-Taliban, Algerian terrorists, Chechen warlords and other various murderous bandits from around the world have turned London into “Londonistan"; the centre of terror-recruiting and now the terror-exporting capital of the world.

 

Under both Labour and Tory governments the open borders of Britain and the insane asylum system have been used to wage war against the innocent of the world. Britain’s MI5 and MI6 estimate that at least seven to ten thousand Afghanistan trained Islamic terrorists are resident in Britain. These are the many thousand “ticking bombs” in our towns and cities waiting for the right time to wage war upon us in our own homes and streets.

 

 

jeudi, 18 mars 2010

Une analyse dissonante de la décennie postsoviétique

Une analyse dissonante de la décennie postsoviétique


Je vous traduis ci-dessous un texte de Sublime Oblivion, l'étude est très intéressante et va bien à l'encontre des aprioris que nos médias nous donnent sur l'espace Eurasien.

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Cela fait 20 ans que l'URSS a disparue et que les pays de l'ex bloc de l'est sont devenues des acteurs à part entière de l'économie de marché. Cela fait 20 ans que l'on nous présente ses pays divisés en 3 groupes principaux, ceux qui ont parfaitement réussis leur transition démocratique et libérale (les tigres Baltes), et les autres, soit des états qui seraient des états socialistes de marché (Biélorussie) et ceux qui seraient des économies fondées uniquement sur les matières premières (Russie).

Sublime Oblivion a utilisé de nombreuses sources (les statistiques de Angus Madison, les chiffres de la CIA et les projections du FMIpour 2010 afin de créer un nouvel indice : "Indice post soviétique de l'analyse de l'évolution du produit intérieur brut annuel par habitant, en parité de pouvoir d'achat (PPA)", cet indice est basé sur une référence départ de "100" pour l'année 1989 (chute du mur). 
De façon "surprenante", la Biélorussie, nation décriée et que l'on nous fait passer pour une économie 1/3 mondiste et une dictature politique, cette économie socialiste de marché est plus productive qu'elle ne l'était en 1989 et devance largement ses pairs de l'espace post soviétique. En outre, la Biélorussie reste un des états les plus "équilibrés socialement" du monde. Après le chaos des années 90 (suite à la chute du mur) l'économie Biélorusse s'est bien redressée (bénéficiant certes de ressources pétrolières à bas prix par le voisin et ami Russe) mais également sachant parfaitement développer une industrie assez efficace (tracteurs, frigidaires, camions, réfrigérateurs, produits électroniques ..) dont la production est écoulée dans tout l'espace Eurasiatique. Evidemment, l'évolution part d'assez bas, la Biélorussie était un des états les plus pauvres du monde industrialisé et si le pays est attractif pour les retraités et les pensionnaires (les pensions y sont par exemple plus élevées qu'en Russie) ce n'est pas (encore?) un état jugé attractif pour les jeunes européens.
Les tigres Baltes ont subi une très forte croissance dans les années 2000 et cela jusqu'en aout 2008. Ces états que l'on nous présentait comme des modèles de stabilité et de démocratie (sauf pour les 30% de citoyens Russophones) ont en effet attirés les investissements financiers étrangers et finalisés et réussis leur intégration dans l'UE. Et puis dès le début de la crise, les investisseurs ont pris peur et les crédits ont été retirés du pays. Dès lors le château de cartes d'est effondré. Les états Baltes ont été de loin les états les plus touchés en Europe par la crise économique. Leur totale fragilité et l'illusoire solidité économique est alors apparue au grand jour. Aujourd'hui les pronostics les plus optimistes envisagent un retour à la situation de 2007 au mieux 2014 (!). D'ici la il est plausible que les états subissent une grosse émigration de population, tout comme l'Ukraine, vers l'ouest mais aussi vers la Russie ce qui à terme renforcerait le poids politique / économique de la Russie dans ces différents pays.
La Russie justement, à de loin la plus importante économie de la région post soviétique.  Suite à cela, on peut différencier 2 périodes différentes :1989 - 1999 : un tzar faible (Eltsine) était soumis à de puissants Boyards (les Oligarques) qui défendaient chacun leurs intérêts (personnels) mais surtout une vision politique (en partie dictée de l'étranger) : ne pas permettre de retour à un pouvoir politique fort (qui les auraient empêcher de piller le pays) et surtout empêcher le retour des communistes au pouvoir (afin de pouvoir se présenter comme rempart contre ces derniers devant l'Occident et ainsi justifier leur existence).
2000 -..... : un tzar fort a repris le pouvoir et inversé les tendances. Grâce à un retour en force du politique et en bénéficiant du prix élevés des matières premières, ce tzar fort (poutine) a relancé la machine économique et transformé les boyards insoumis en servants dociles ou en les neutralisant complètement.
Bien sur la performance économique de la Russie est insuffisante encore aujourd'hui mais c'est le pays qui revient du plus loin et la décennie Poutine à sauvé le pays du néant et de la catastrophe, ce qui aurait déstabilisé tous les pays voisins. En outre la Russie, comme les pays Baltes était déjà relativement industrialisée et n'a donc pas pu bénéficier d'une croissance ultra forte comme les pays Baltes (investissements financiers bien plus faible) ou la Biélorussie (croissance par une industrialisation forte).  les lecteurs doivent bien comprendre que pendant la première partie de son règne, le pouvoir Russe n'a pas pu se focaliser sur le développement économique mais sur empêcher l'implosion du pays. Il est relativement accepté aujourd'hui que Poutine a empêché l'effondrement mais que c'est Medvedev qui va désormais guider la barque et se charger de la modernisation du pays.

Il a été dit partout que la Russie allait s'effondrer et que la crise allait la frapper de plein fouet. Pourtant j'ai répété ci et la que la crise a touché la Russie "avant" les pays Occidentaux, les sorties de capitaux (poussés par les Américains dès la crise en Georgie) et la baisse des matières premières, ainsi que l'effondrement boursier ayant commencé dès le mois d'aout 2008. Il n'est pas secret non plus que la très grande majorité des gros groupes Russes (d'état notamment) avaient concocté des crédits auprès de banques et d'organismes de crédits Occidentaux et Américains et que les marchés émergents ont été les premiers touchés par les "coupures" de crédits par ces mêmes organismes lorsque la crise a commencé a réellement se faire sentir. Dès lors les coup bas des spéculateurs ont contribué à affaiblir la Russie. Pourtant la Russie se trouve aujourd'hui dans une situation bien meilleure que ses voisins et tous les pronostics sérieux envisagent une sortie de crise pour ce premier trimestre, voir une croissance relativement fortepour l'année 2010 en Russie. Sa solidité politique et ses énormes réserves de change (les 3ièmes au monde) sont en effet deux atouts majeurs pour les années qui viennent (lire à ce sujet cette analyse sur la crise en Russie).
La pire performance de l'espace post soviétique vient de l'Ukraine que l'on nous montre depuis 2005 comme éventuel futur membre de l'UE (!). Pourtant, jusque dans les années 2004, 2005 ce pays était dans la situation de la Biélorussie et recevait autant de gaz à très bas prix que la Biélorussie. Sa position proche de l'UE (via la Pologne marché en plein développement) est également un "plus" non négligeable. En outre le pays à depuis 2005 les faveurs de l'UE et des Occidentaux (Américains en tête, surtout depuis la révolution Orange), alors comment se fait il que ce pays soit moins dynamique que ses voisins ?La raison essentielle est que l'Ukraine n'a jamais réellement décollé ni quitté ses réflexes désastreux des années 90. Cet problème grave d'identité qui frappe le peuple (tiraillé entre son est orthodoxe et son Ouest "uniate") à de graves conséquences. Tout d'abord il enlève toute légitimité (à hauteur de 50%) à tous les politiques (d'ou la faiblesse du Tzar Ukrainien de l'après chute du mur). Cette absence de stabilité politique empêche tout investissement étranger, notamment dans sa partie pauvre et Occidentale, pro Européenne, alors que son est riche et industriel bénéficie lui des crédits et des investissements Russes. C'est une des raisons de l'échec des Orangistes, qui en plus totalement fait cesser la croissance (jusque la pourtant à 2 chiffres), d'avoir ruiné l'état en tentant d'appliquer des réformes libérales sous forme d'un copié collé archaïque, ont laissé une corruption "bien plus" endémique qu'en Russie ou dans les autres états de l'espace post Soviétique, tout en coupant une partie de population de ses racines et de liens amicaux avec son créditeur le plus puissant et le mieux disposé : la Russie. Peut être que l'élection de Ianoukovitch est la meilleure chose qui puisse arriver à ce pays, a savoir un nouveau tzar (moins faible) car adoubé par et l'est et l'ouest et qui tente de replacer l'Ukraine la ou elle doit être, hors de l'OTAN, hors d'une UE ruinée et en décomposition, et dans le nouvel espace douanier Eurasiatique en construction.

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Ci dessous un schéma des autres principales économies (moins développées) d'ex URSS.
L'Azerbaijan est en tête de ces pays, principalement grâce au développement de sa production pétrolière, qui a été multipliée par cinq depuis le début des années 2000. L'utilisation des revenus de ces matières premières à largement contribué à la hausse des revenus / habitants. Une explication identique prévaut pour le Kazakhstan, dont l'évolution de 1991 à 2010 est une croissance supérieure à la Russie (la production de pétrole du Kazakhstan à été multipliée par 4 entre 1991 et 2008). 
En comparaison, la Russie ne produit que 22.6% d'énergie combustible de plus en 2008 que en 1992. La production de pétrole a atteint son apogée en 1998 (11,5 millions de barrels) et à baissé en 1992 (7,8 millions de barrels) pour remonter en 2008 (9,8 millions de barrels).  Des facteurs géologiques mais également politiques (affaire Youkos) ont contribué à ce fait. Depuis le milieu des années 2000, la croissance repose grandement sur une croissance intérieure stimulée par la grande distribution, les transports, la production et la finance ..).

L'Arménie a également connu une croissance relativement forte malgré l'absence de ressources naturelles et une situation géographique difficile notamment un voisinage Turque hostile, un conflit militaire avec un autre voisin hostile, l'Azerbaïdjan, une frontière avec une Georgie s'éloignant de la Russie et au sud l'Iran. (Il est facile d'imaginer que la très forte diaspora Arménienne à travers le monde a contribué à financer l'économie nationale et cela un peu sur le modèle Chypriote ou Libanais).
La Georgie n'a pas de résultats très probants. Le dynamisme de la révolution des roses a été un peu plus fort que après la révolution Orange en Ukraine mais le résultat est très faible pour une nation partant de très bas. Le comparatif avec l'Arménie est sans pitié, et la Georgie ne peut que se contenter d'un mieux que la Moldavie, qui n'est pas une référence en soi. Selon l'analyse de Irakli Rukhadze and Mark Hauf, la Georgie depuis 2003 a en effet été victime d'une émigration massive, d'une hausse de la pauvreté conséquente, accompagnée et poussée par une désindustrialisation violente. La corruption d'état y règne selon les auteurs, le gouvernement faisant payer les business indépendants (de l'état) pour leur éviter toutes poursuites. Cette pression politique n'est pas le fait de la Georgie, elle est relativement présente dans l'ex espace soviétique, néanmoins concernant la Georgie on peut se poser la question de l'image qu'on souhaite en donner dans les médias Occidentaux et la réalité du terrain.
Enfin l'Ouzbékistan a connu une croissance et une évolution bien meilleure que le Tajikistan. L'Ouzbékistan est pourtant une économie non réformée, autoritaire (bien plus que la Biélorussie) mais qui part vraiment de très bas. Le Tadjikistan a lui subi une terrible guerre civile dans les années 1990 (entre communistes et Islamistes) qui a tué près de 100.000 personnes et aujourd'hui c'est le pays le moins avancé de l'espace post soviétique en ce qui concerne la transition démographique (revenu utilisé / nouveau né). Le Kyzgyzstan se situe entre l'Ouzbékistan et le Tajikistan, les résultats du Turkménistan sont eux du niveau de l'Ouzbékistan, je rappelle à mes lecteurs que le Turkménistan est un régime politique très autoritaire et stable qui base ses revenus sur le pétrole et le gaz (5ème producteur au monde) mais également le coton.
L'avenir ?
La Russie a un plan de modernisation, et le ressources financières, administratives et humaines pour le mener à bien, ainsi que la volonté politique nécessaire. Il est plausible que si le pouvoir se maintient dans ces états, la Russie, la Biélorussie et le Kazakhstan continueront à connaître des taux de croissances élevés et un fort développement économique. Ces états ont un fort capital humain et semblent travailler en commun, comme le démontre la récente union douanière. Il est plausible et même certain que l'Ukraine rejoigne cet ensemble Eurasien dans les prochaines années.

mercredi, 17 mars 2010

L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)

Mac.gifQui était le géopoliticien britannique Mackinder, génial concepteur de l'opposition entre thalassocraties et puissances océaniques? Un livre a tenté de répondre à cette question: Mackinder, Geography as an Aid to Statecraft, par W.H. Parker. Né dans le Lin-colnshire en 1861, Sir Halford John Mackinder s'est interessé aux voyages, à l'histoire et aux grands événements internationaux dès son enfance. Plus tard, à Oxford, il étu-diera l'histoire et la géologie. Ensuite, il entamera une brillante carrière universitaire au cours de laquelle il deviendra l'impulseur principal d'institutions d'enseignement de la géographie. De 1900 à 1947, il vivra à Londres, au coeur de l'Empire Britannique. Sa préoccupation essentielle était le salut et la préservation de cet Empire face à la montée de l'Allemagne, de la Russie et des Etats-Unis. Au cours de ces cinq décennies, Mackinder sera très proche du monde poli-tique britannique; il dispensera ses conseils d'abord aux "Libéraux-Impérialistes" (les "Limps") de Rosebery, Haldane, Grey et Asquith, ensuite aux Conservateurs regroupés derrière Chamberlain et décidés à aban-donner le principe du libre échange au profit des tarifs préférentiels au sein de l'Empire. La Grande-Bretagne choisissait une économie en circuit fermé, tentait de construire une économie autarcique à l'échelle de l'Empire. Dès 1903, Mackinder classe ses notes de cours, fait confectionner des cartes historiques et stratégiques sur verre destinées à être projetées sur écran. Une oeuvre magistrale naissait.

 

Une idée fondamentale traversera toute l'oeuvre de Mackinder: celle de la confrontation permanente entre la "Terre du Milieu" (Heartland) et l'"Ile du Monde" (World Island). Cette confrontation incessante est en fait la toile de fond de tous les événe-ments politiques, stratégiques, militaires et économiques majeurs de ce siècle. Pour son biographe Parker, Mackinder, souvent cité avec les autres géopoliticiens américains et européens tels Mahan, Kjellen, Ratzel, Spykman et de Seversky, a, comme eux, appliqué les théories darwiniennes à la géographie politique. Doit-on de ce fait rejetter les thèses géopolitiques parce que "fatalistes"? Pour Parker, elles ne sont nullement fatalistes car elles détiennent un aspect franchement subjectif: en effet, elles justifient des actions précises ou attaquent des prises de position adverses en proposant des alternatives. Elles appellent ainsi les vo-lontés à modifier les statu quo et à refuser les déterminismes.

 

L'intérêt qu'a porté Mackinder aux questions géopolitiques date de 1887, année où il pro-nonça une allocution devant un auditoire de la Royal Geographical Society qui contenait notamment la phrase prémonitoire suivante: "Il y a aujourd'hui deux types de conqué-rants: les loups de terre et les loups de mer". Cette allégorie avait pour arrière-plan historique concret la rivalité anglo-russe en Asie Centrale. Mais le théoricien de l'anta-gonisme Terre/Mer se révélera pleinement en 1904, lors de la parution d'un papier inti-tulé "The Geographical Pivot of History" (= le pivot géographique de l'histoire). Pour Mackinder, à cette époque, l'Europe vivait la fin de l'Age Colombien, qui avait vu l'ex-pansion européenne généralisée sans résistan-ce de la part des autres peuples. A cette ère d'expansion succédera l'Age Postcolom-bien, caractérisé par un monde fait d'un système politique fermé dans lequel "chaque explosion de forces sociales, au lieu d'être dissipée dans un circuit périphérique d'espa-ces inconnus, marqués du chaos du barba-risme, se répercutera avec violence depuis les coins les plus reculés du globe et les éléments les plus faibles au sein des orga-nismes politiques du monde seront ébranlés en conséquence". Ce jugement de Mackinder est proche finalement des prophéties énoncées par Toynbee dans sa monumentale "Stu-dy of History". Comme Toynbee et Spengler, Mackinder demandait à ses lecteurs de se débarrasser de leur européocentrisme et de considérer que toute l'histoire européenne dépendait de l'histoire des immensités conti-nentales asiatiques. La perspective historique de demain, écrivait-il, sera "eurasienne" et non plus confinée à la seule histoire des espaces carolingien et britannique.

 

Pour étayer son argumentation, Mackinder esquisse une géographie physique de la Rus-sie et raisonne une fois de plus comme Toynbee: l'histoire russe est déterminée, écrit-il, par deux types de végétations, la steppe et la forêt. Les Slaves ont élu domi-cile dans les forêts tandis que des peuples de cavaliers nomades règnaient sur les espa-ces déboisés des steppes centre-asiatiques. A cette mobilité des cavaliers, se déployant sur un axe est-ouest, s'ajoute une mobilité nord-sud, prenant pour pivots les fleuves de la Russie dite d'Europe. Ces fleuves seront empruntés par les guerriers et les marchands scandinaves qui créeront l'Empire russe et donneront leur nom au pays. La steppe cen-tre-asiatique, matrice des mouvements des peuples-cavaliers, est la "terre du milieu", entourée de deux zones en "croissant": le croissant intérieur qui la jouxte territo-rialement et le croissant extérieur, constitué d'îles de diverses grandeurs. Ces "croissants" sont caractérisés par une forte densité de population, au contraire de la Terre du Mi-lieu. L'Inde, la Chine, le Japon et l'Europe sont des parties du croissant intérieur qui, à certains moments de l'histoire, subissent la pression des nomades cavaliers venus des steppes de la Terre du Milieu. Telle a été la dynamique de l'histoire eurasienne à l'ère pré-colombienne et partiellement aussi à l'ère colombienne où les Russes ont pro-gressé en Asie Centrale.

 

Cette dynamique perd de sa vigueur au moment où les peuples européens se dotent d'une mobilité navale, inaugurant ainsi la période proprement "colombienne". Les ter-res des peuples insulaires comme les Anglais et les Japonais et celles des peuples des "nouvelles Europes" d'Amérique, d'Afrique Australe et d'Australie deviennent des bastions de la puissance navale inaccessibles aux coups des cavaliers de la steppe. Deux mobilités vont dès lors s'affronter, mais pas immédiatement: en effet, au moment où l'Angleterre, sous les Tudor, amorce la con-quête des océans, la Russie s'étend inexo-rablement en Sibérie. A cause des diffé-rences entre ces deux mouvements, un fossé idéologique et technologique va se creuser entre l'Est et l'Ouest, dit Mackinder. Son jugement rejoint sous bien des aspects celui de Dostoïevsky, de Niekisch et de Moeller van den Bruck. Il écrit: "C'est sans doute l'une des coïncidences les plus frappantes de l'histoire européenne, que la double expansion continentale et maritime de cette Europe recoupe, en un certain sens, l'antique opposition entre Rome et la Grèce... Le Germain a été civilisé et christianisé par le Romain; le Slave l'a été principalement par le Grec. Le Romano-Germain, plus tard, s'est embarqué sur l'océan; le Greco-Slave, lui, a parcouru les steppes à cheval et a conquis le pays touranien. En conséquence, la puissance continentale moderne diffère de la puissance maritime non seulement sur le plan de ses idéaux mais aussi sur le plan matériel, celui des moyens de mobilité".

 

Pour Mackinder, l'histoire européenne est bel et bien un avatar du schisme entre l'Empire d'Occident et l'Empire d'Orient (an 395), ré-pété en 1054 lors du Grand Schisme op-posant Rome et Byzance. La dernière croi-sade fut menée contre Constantinople et non contre le Turc. Quand celui-ci s'empare en 1453 de Constantinople, Moscou reprend le flambeau de la chrétienté orthodoxe. De là, l'anti-occidentalisme des Russes. Dès le XVIIème siècle, un certain Kridjanitch glo-rifie l'âme russe supérieure à l'âme cor-rompue des Occidentaux et rappelle avec beaucoup d'insistance que jamais la Russie n'a courbé le chef devant les aigles ro-maines. Cet antagonisme religieux fera pla-ce, au XXème siècle, à l'antagonisme entre capitalisme et communisme. La Russie opte-ra pour le communisme car cette doctrine correspond à la notion orthodoxe de fra-ternité qui s'est exprimée dans le "mir", la communauté villageoise du paysannat slave. L'Occident était prédestiné, ajoute Mac-kinder, à choisir le capitalisme car ses reli-gions évoquent sans cesse le salut individuel (un autre Britannique, Tawney, présentera également une typologie semblable).

 

Le chemin de fer accélerera le transport sur terre, écrit Mackinder, et permettra à la Russie, maîtresse de la Terre du Milieu si-bérienne, de développer un empire industriel entièrement autonome, fermé au commerce des nations thalassocratiques. L'antagonisme Terre/Mer, héritier de l'antagonisme reli-gieux et philosophique entre Rome et Byzan-ce, risque alors de basculer en faveur de la Terre, russe en l'occurence. Quand Staline annonce la mise en chantier de son plan quinquennal en 1928, Mackinder croit voir que sa prédiction se réalise. Depuis la Révo-lution d'Octobre, les Soviétiques ont en ef-fet construit plus de 70.000 km de voies ferrées et ont en projet la construction du BAM, train à voie large et à grande vitesse. Depuis 70 ans, la problématique reste identi-que. Les diplomaties occidentales (et surtout anglo-saxonnes) savent pertinemment bien que toute autonomisation économique de l'espace centre-asiatique impliquerait auto-matiquement une fermeture de cet espace au commerce américain et susciterait une réorganisation des flux d'échanges, le "crois-sant interne" ou "rimland" constitué de la Chine, de l'Inde et de l'Europe ayant intérêt alors à maximiser ses relations commerciales avec le centre (la "Terre du Milieu" proprement dite). Le monde assisterait à un quasi retour de la situation pré-colombienne, avec une mise entre parenthèses du Nouveau Monde.

 

Pour Mackinder, cette évolution historique était inéluctable. Si Russes et Allemands conjuguaient leurs efforts d'une part, Chinois et Japonais les leurs d'autre part, cela signifierait la fin de l'Empire Britannique et la marginalisation politique des Etats-Unis. Pourtant, Mackinder agira politiquement dans le sens contraire de ce qu'il croyait être la fatalité historique. Pendant la guerre civile russe et au moment de Rapallo (1922), il soutiendra Denikine et l'obligera à concéder l'indépendance aux marges occidentales de l'Empire des Tsars en pleine dissolution; puis, avec Lord Curzon, il tentera de construire un cordon sanitaire, regroupé au-tour de la Pologne qui, avec l'aide française (Weygand), venait de repousser les armées de Trotsky. Ce cordon sanitaire poursuivait deux objectifs: séparer au maximum les Allemands des Russes, de façon à ce qu'ils ne puissent unir leurs efforts et limiter la puissance de l'URSS, détentrice incontestée des masses continentales centre-asiatiques. Corollaire de ce second projet: affaiblir le potentiel russe de façon à ce qu'il ne puisse pas exercer une trop forte pression sur la Perse et sur les Indes, clef de voûte du système impérial britannique. Cette stratégie d'affaiblissement envisageait l'indépendance de l'Ukraine, de manière à soustraire les zones industrielles du Don et du Donetz et les greniers à blé au nouveau pouvoir bolchévique, résolument anti-occidental.

 

Plus tard, Mackinder se rendra compte que le cordon sanitaire ne constituait nullement un barrage contre l'URSS ou contre l'ex-pansion économique allemande et que son idée première, l'inéluctabilité de l'unité eurasienne (sous n'importe quel régime ou mode juridique, centralisé ou confédératif), était la bonne. Le cordon sanitaire polono-centré ne fut finalement qu'un vide, où Allemands et Russes se sont engouffrés en septembre 1939, avant de s'en disputer les reliefs. Les Russes ont eu le dessus et ont absorbé le cordon pour en faire un glacis protecteur. Mackinder est incontestablement l'artisan d'une diplomatie occidentale et conservatrice, mais il a toujours agi sans illusions. Ses successeurs reprendront ses ca-tégories pour élaborer la stratégie du "con-tainment", concrétisée par la constitution d'alliances sur les "rimlands" (OTAN, OTASE, CENTO, ANZUS).

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En Allemagne, Haushofer, contre la volonté d'Hitler, avait suggéré inlassablement le rapprochement entre Japonais, Chinois, Rus-ses et Allemands, de façon à faire pièce aux thalassocraties anglo-saxonnes. Pour étayer son plaidoyer, Haushofer avait repris les arguments de Mackinder mais avait inversé sa praxis. La postérité intellectuelle de Mackinder, décédé en 1947, n'a guère été "médiatisée". Si la stratégie du "contain-ment", reprise depuis 1980 par Reagan avec davantage de publicité, est directement inspirée de ses écrits, de ceux de l'Amiral Mahan et de son disciple Spykman, les journaux, revues, radios et télévision n'ont guère honoré sa mémoire et le grand public cultivé ignore largement son nom... C'est là une situation orwellienne: on semble tenir les évidences sous le boisseau. La vérité serait-elle l'erreur?

 

Robert STEUCKERS.

 

W.H. PARKER, Mackinder. Geography as an Aid to Statecraft, Clarendon Press, Oxford, 1982, 295 p., £ 17.50.  

 

mardi, 16 mars 2010

Dossier d'ARCHEOLOGIE: les Indo-Européens

Dossier d'Archéologie: les Indo-Européens

Nous vous recommandons vivement l'excellent bimensuel "Dossiers d'archéologie" (présentation ofup, 9€50, 96 p., éd. Faton, prix très raisonnable au vu de la qualité des articles de vulgarisation par des spécialistes) sorti en kiosque (articles fouillés, cartes agréables, visuels bien choisis). Abonnement 59 € au lieu de 75 (sur le site). Vous pouvez aussi commander à l'unité ce numéro soit via le site soit sur un site vente-presse.


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ARTICLES

Nos ancêtres les Indo-Européens ? : La question des Indo-Européens est très simple à formuler. Elle n’a pourtant jamais reçu de réponse globale et définitive, et ce numéro des Dossiers d’Archéologie a pour ambition d’expliquer aux lecteurs l’état actuel des recherches, au croisement de la linguistique, de l’archéologie, de l’histoire des religions et de la biologie.


Deux siècles à la recherche des Indo-Européens : L’idée de l’origine des langues et du langage a hanté de tous temps les sociétés humaines, et leurs mythologies en témoignent. Chacun connaît l’histoire de la tour de Babel, destinée à expliquer la diversité des langues humaines. Avec le temps, les linguistes ont pu regrouper en grandes familles les 6.000 langues humaines connues. Mais c’est à la famille dite indo-européenne que les savants européens ont évidemment porté le plus d’attention, tâchant de retracer son histoire et son origine.


La langue des Indo-Européens ? : Si l’existence d’une civilisation « indo-européenne » demeure un sujet de discussions et de discordes, la langue, qui la justifie, paraît incontestable. Bien qu’il n’en existe aucun témoignage scriptural, ce proto-indo-européen (PIE), reconstruit à partir des correspondances entre les langues de la famille indo-européenne, a dû forcément exister. Reste à savoir de quelle manière.


George Dumézil, un archéologue de l'imaginaire indo-européen : L’archéologie à laquelle Georges Dumézil a consacré son œuvre ne ressemble pas à celles que l’on a coutume d’appeler de ce nom. En effet, son domaine est celui de l’imaginaire préhistorique des Indo-Européens qu’il a tenté d’atteindre par la comparaison des mythes et des épopées que leurs lointains successeurs, Indiens, Celtes, Germains, Romains, Grecs, etc., ont composés plusieurs siècles voire plusieurs millénaires plus tard.


L'hypothèse de steppes : L’hypothèse des steppes constitue la solution la plus généralement admise au problème du foyer original des Indo-Européens. Cette théorie propose de faire remonter l’origine des Indo-Européens aux steppes et steppes boisées d’Ukraine et de Russie méridionale. Cette hypothèse semble être la plus en accord, à la fois avec les conditions linguistiques requises et avec les données archéologiques, même si elle est loin de répondre à toutes les questions.


La diffusion préhistorique des langues indo-européennes : Comprendre la diffusion d’une langue implique dans un premier temps de comprendre les dynamiques sociales et économiques des sociétés qui la véhiculent. Une langue représente en effet la production secondaire d’une organisation sociale, et ce sont des changements sociaux tels que des migrations, des conquêtes, des voyages ou encore des échanges commerciaux qui sont susceptibles d’entraîner un changement linguistique.

Le problème indo-européen et l'hypothèse anatolienne : La question indo-européenne a souvent été mal interprétée et a engendré un certain nombre de théories fantaisistes sur la « religion indo-européenne », ou la « société indo-européenne ». En réalité, le terme « indo-européen » est purement linguistique, et fait référence à un ensemble bien défini de langues. Cet article propose une solution alternative au mythe démodé des guerriers à cheval nomades et défend la théorie selon laquelle les premières langues indo-européennes étaient originaires d’Anatolie (actuelle Turquie), et se diffusèrent en Europe au moment de la première expansion agricole.

Les migrations aryennes en Inde : Au cours du IIe millénaire av. J.-C., des peuplades aryennes auraient migré depuis l’Asie centrale vers les plaines de l’Indus puis du Gange, répandant en Inde leur langue sanscrite, le Véda et leurs structures sociales. Pourtant, dans le contexte indien, après deux siècles de recherches linguistiques et archéologiques auxquelles se joignent aujourd’hui l’anthropologie et la génétique, aucune preuve n’est venue étayer cette hypothèse, qui semble même reculer sans cesse.

Indo-Européens et anthropologie biologique : Si de par le passé l’étude des squelettes a parfois été mise à contribution pour confirmer certaines théories, c’est la génétique des populations contemporaines qui a orienté les hypothèses plus récentes dont celle de C. Renfrew. Les études menées sur des populations actuelles d’Asie centrale suggèrent que la distribution d’un marqueur des lignées paternelles évoque une expansion depuis l’Europe centrale. Les travaux en ADN ancien confirment ce fait dans des populations de l’âge du Bronze de la culture d’Andronovo considérée par les archéologues comme indo-européenne.

De l'arbre généalogique à la saisie du contact des langues : Largement utilisée en linguistique dès le XIXe siècle avec le développement de la grammaire comparée et des études indo-européennes, l’image intuitive de l’arbre généalogique trouve sa force dans sa simplicité. Toutefois elle ne saurait à elle seule servir de modèle pour rendre compte de l’évolution des langues car elle ne retient pas les effets induits par le contact au sein des populations qui les pratiquent.

Les Indo-Européens, vers la solution ? : La solution de l’« énigme indo-européenne » proviendra un jour de l’interaction complexe entre les résultats convergents de la linguistique, de la génétique, de l’histoire des religions et de l’archéologie, entre autres. Il n’existe pas encore de consensus dans l’ensemble des champs concernés, et même au sein de chaque champ. Mais il est probable qu’un modèle satisfaisant sera beaucoup plus complexe que ce qui a été proposé jusqu’à présent.

vendredi, 12 mars 2010

Sindacalismo rivoluzionario - Dottrina comunitaria di lotta

Sindacalismo rivoluzionario.
Dottrina comunitaria di lotta

di Luca Leonello Rimbotti - Ex: http://www.ariannaeditrice.it/

ugo-spirito_fondo-magazine-336x450.jpgNella tradizione politica italiana la coniugazione dei termini popolo e nazione è stata un’eterna costante. La speciale idea di democrazia che si era fatta largo in epoca moderna non aveva nulla dell’oligarchismo parlamentarista di provenienza anglosassone e puritana. E neppure aveva nulla a che spartire con il millenarismo classista di Marx e con il suo elogio del progresso cosmopolita. Al contrario, almeno da Mazzini in poi, si ha da noi il convincimento che per democrazia debba intendersi la mobilitazione di tutto il popolo, oltre le classi e gli interessi, e il suo inserimento nel circuito decisionista attraverso il meccanismo delle appartenenze sociali entro la cornice nazionale. Come dire: il lavoro e la sua possibilità di uscire dalla gestione economica per entrare in quella politica. Il che significava la guida del popolo affidata alle sue aristocrazie politiche espresse dalla competenza tecnica. E in questo noi vediamo facilmente l’anticipazione di molto corporativismo, ad esempio nel senso di un Ugo Spirito. Il Sindacalismo Rivoluzionario nacque in questa prospettiva. E la storia del socialismo non marxista ne è la conferma. La mobilitazione morale, la promozione di una cultura politica popolare e la lotta contro il classismo furono tappe essenziali di quel movimento di liberazione delle energie davvero democratiche e davvero popolari che si presentò al crocevia storico del 1914 come il più vitale e il più attivo. Bloccato il socialismo riformista nelle sue derive fatalistiche, screditato quello massimalista e marxista dalla sua impotenza anche solo a concepire una via rivoluzionaria, in Italia gli unici versanti mobilitatori e innovativi, capaci di intendere la politica mondiale e le possibilità della storia, furono il Nazionalismo imperialista e il Sindacalismo Rivoluzionario.


Possiamo dire che quando, intorno al 1911, Angelo Oliviero Olivetti affermava che sindacalismo e nazionalismo si presentavano come “dottrine di energia e di volontà”, essendo le due uniche “tendenze aristocratiche” in un mondo già livellatore, e che insieme esprimevano “il culto dell’eroico che vogliono far rivivere in mezzo a una società di borsisti e di droghieri”, le fondamenta di un diverso modo di concepire la politica erano già gettate. Questa via politica, in realtà, più che nuova, era proprio rivoluzionaria rispetto alla tradizione ottocentesca legata agli schieramenti di classe, e lo era anche nei confronti della politica del Novecento, tutta di nuovo incentrata - dal marxismo al liberalismo - sulla concezione antagonista tra i ceti e gli interessi, che era tipica del classismo tanto di vertice (liberale) quanto di base (marxista). La percezione che il criterio dell’appartenenza è dato dal valore di legame culturale e bio-storico, anziché dal profitto e dal salario, fu un rovesciamento delle categorie mentali del borghesismo, rifiutate nel loro insieme, come brutale negazione dell’identità profonda, quella geo-storica. Ben più significante di quella superficiale, occasionale e mutevole che deriva dalla mera collocazione sociale.


L’aver scoperto che tra le masse e le oligarchie esiste uno spazio destinale che entrambe le ricomprende sotto il nome di popolo è il maggior titolo ideologico del Sindacalismo Rivoluzionario italiano.

Di fronte ai ricorrenti tentativi di sottrarre il Sindacalismo Rivoluzionario a questo suo destino ideologico - tentativi intesi soprattutto a sganciarlo dall’eredità fascista, presentata ogni volta come incongrua e manipolatoria, secondo le note mistificazioni di certa storiografia contemporanea - noi non possiamo che far parlare gli ideali, i progetti e le intuizioni di una classe dirigente sindacalrivoluzionaria che procedette diritto lungo un unico crinale: concezione organicistica della società, precedenza del fattore comunitario su quello individualistico e settario, sindacato come aggregazione più politica che economica, messa in valore della lotta e persino della guerra esterna come essenziali momenti di potenziamento del popolo, in quanto blocco unitario di volontà e più precisamente di volontà politica. E, non da ultimo, netta presa di coscienza che il rivoluzionamento degli assetti sociali liberali e conservatori lo si poteva ottenere non con rivendicazioni settorialistiche vetero-sindacali, ma con drammaturgie popolari ad alta intensità coinvolgente. In altre parole, con una cultura politica fortemente mobilitante, alla maniera del “mito” soreliano. Ciò che ai sindacalisti rivoluzionari fece riconoscere la Prima guerra mondiale per quello che era: l’occasione storica per abbattere l’oligarchia liberale e per dare avvìo alla coscienza popolare di massa, attivata attraverso la tragica compartecipazione al dramma collettivo di una crescita “spengleriana”, per così dire. Ottenuta cioè per mutazioni traumatiche, per scatti rivoluzionari: la guerra nazionale come azione rivoluzionaria di massa, appunto. Qualcosa di molto diverso dai blandi riformismi, che in regime liberale sono facilmente gestibili, al solito, dalle caste borghesi paternaliste.

Una concezione del mondo fondata sul riconoscimento del trauma epocale come punto di rottura e apertura degli spazi del rovesciamento: questa la virtù rivoluzionaria dei sindacalisti rivoluzionari, che nel riconoscere la Nazione in altro modo rispetto al patriottismo conservatore borghese, in modo popolare e sociale, riconobbero il valore politico del Novecento, cioè la comunità di popolo mobilitata attorno a simboli e traguardi di valore sociale, politico e metapolitico, non occasionali ma macrostorici.

La macrostoria è difatti lo scenario del Sindacalismo Rivoluzionario, più di quanto la rivendicazione salariale contrattata coi potentati industriali non fosse invece l’umile terreno del sindacalismo socialista, microstorico a dispetto dei suoi sogni palingenetici, e incapace, al momento buono, di interpretare i segni del cambiamento epocale. Come accadde puntualmente nel 1914, quando i gestori socialisti del “risentimento di classe” proletario consegnarono alla sconfitta storica proprio quelle masse operaie che avrebbero inteso condurre al riscatto, contrattando scaglie di paternalismo con il padronato, anziché verificare la possibilità di liquidare la casta al potere costruendo un’avanguardia aristocratica aperta non al popolo, ma a tutto il popolo.

Sia Georges Sorel che Arturo Labriola Labriola ebbero modo di notare che il sindacalismo socialista aveva una scarsa propensione alla lotta e che quasi quasi la borghesia, o per lo meno certi suoi settori, dimostravano negli anni precedenti la Prima guerra mondiale una capacità dinamica maggiore, un decisionismo più libero. La storia del sindacalismo socialista prima e socialcomunista poi è una storia di sottomissione al padronato capitalistico e di rassegnazione alla subalternità, di assenza di strategia e di semplice tattica di retroguardia. In questo ambito, il Sindacalismo Rivoluzionario presentava una ben maggiore capacità di verificare le possibilità della storia. E sua fu l’unica volontà massimalista davvero all’opera allora in Italia. Quando poi si attuò la saldatura tra coscienza di popolo e coscienza di nazione, l’Italia si trovò all’avanguardia europea di tutte le rivendicazioni: politiche, sociali e storiche. Fu in questo modo dimostrato che la vera politica sociale era quella della nazione e non quella della classe.

Come hanno dimostrato gli storici, c’erano settori dominanti del Sindacalismo Rivoluzionario in cui il nazionalismo non solo era distinto dal patriottismo di classe del borghesismo, ma era giudicato come lo strumento migliore per creare, con i vincoli di un’appartenenza ribadita come identità di rilievo mondiale, le condizioni per scuotere le oligarchie plutocratiche e per ottenere il risveglio delle masse: non secondo principi universali astratti, ma secondo principi territoriali realistici. Un popolo e il suo territorio, un popolo e i suoi diritti alla vita, un popolo e la sua determinazione a imporsi nella lotta mondiale: questa la scena della maggiore rivendicazione possibile. In uno scritto apparso sul foglio “L’internazionale” del luglio 1911, in occasione della polemica circa la guerra di Libia, ad esempio, troviamo sanciti in maniera straordinariamente chiara i contorni di una maturazione politica che allora e ancor più in seguito mancò del tutto sia al socialismo sia al socialcomunismo: il valore-nazione come strumento di liberazione dalla prigione della classe. Il parere di un operaio intellettualizzato, Agostino Gregori, era il seguente: il nazionalismo è il “fatto nuovo”, destinato a segnare una fase storica nel movimento politico ed economico del nostro paese. Potrebbe anche darsi che il proletariato debba a questo movimento lo scatto violento di tutte le sue energie che lo porterebbero alla conquista della propria emancipazione, alla rivendicazione di tutti i suoi diritti prima ancora di quanto noi pensiamo e speriamo.

Si faccia attenzione a come qui si parli di “tutti i diritti” del popolo lavoratore, e non solo di quelli sindacali o retributivi. “Tutti i diritti” significa che tramite il nazionalismo il proletariato accede anche alla “cultura borghese”, alla nazione, alla patria e alla guerra di classe internazionale: l’imperialismo. Affermazioni come questa sono tipiche di un sostrato rivoluzionario antimarxista e veramente popolare, cioè nazionale, ben vivo nel sottotraccia politico dell’epoca che incubò il Fascismo, e bene in grado di comprendere che una politica popolare di vertice era possibile svolgerla unicamente impossessandosi dei diritti del popolo usurpati dalla borghesia. Togliere dalle mani della borghesia la nazione e lo stesso imperialismo - come ad esempio faceva Corradini - significava sostituire alle oligarchie del denaro le aristocrazie di comando della politica, attinte dall’intero bacino del popolo. E queste, a differenza di quelle, provenivano da tutto il popolo, erano tutto il popolo, e non soltanto la sua minoranza capitalista o la sua minoranza operaista: l’una e l’altra, se prese isolatamente, ugualmente dedite all’esclusivo calcolo utilitario di classe.

Questo è il lontano antefatto di accadimenti di solito trascurati dalla storiografia, ma che sono centrali in un’analisi del valore storico dell’idea italiana di democrazia di popolo. Questo è il lontano antecedente, per fare un esempio, del fatto che durante la Repubblica Sociale si poté avere un ministro direttamente espresso non dalla cultura sindacalista, non dall’intellettualità borghese di nominale militanza filo-proletaria, non dalla nomenclatura di questo o quel partito, ma dalla fabbrica e dalla militanza di base: l’operaio Giuseppe Spinelli, ultimo Ministro del Lavoro della RSI.

Il passaggio dal Sindacalismo Rivoluzionario al sindacalismo nazionale non fu che la sintesi storica di un procedimento naturale e spontaneo. Una volta che si era riconosciuta la contiguità tra lotta di popolo e guerra rivoluzionaria, si erano anche stabilite le coordinate dell’organicismo. Se pensiamo ad esempio al comunalismo di un Alceste De Ambris, incentrato sulle identità ancestrali della territorialità locale, sulla tradizione e sulla consuetudine della comunità di villaggio, noi vediamo che è su questo punto che avverranno le più larghe convergenze proprio tra il Fascismo e questa ideologia della tradizione rivoluzionaria. Fu infatti proprio il Fascismo, per altri versi accentratore e “prefettizio”, il Fascismo “liberticida”, totalitario e politicamente “assolutista” che favorì, senza alcuna contraddizione nel far convivere l’assoluto del Centro con il relativo della periferia, quella straordinaria operazione di recupero della cultura popolare in epoca moderna che fu la rinascita fascista delle piccole patrie. Regioni, borghi, feste e associazionismi paesani, ataviche memorie condivise e realtà locali di antico prestigio sociale ebbero sanzione di sovrana autorità identitaria, convivendo entro la cornice della Nazione, che tutto questo comprendeva armonicamente. Questa singolare inquadratura di eguale sincronismo tra arcaismo e modernità seppe conferire alle identità locali quel respiro di integrazione nel più ampio quadro dell’identità nazionale, che non è mai esistito né nel comunismo - che è stato sempre violentemente ostile al tradizionalismo rurale e urbano - né nel liberalismo, per natura nemico dei radicamenti e favorevole agli universalismi.

Il Sindacalismo Rivoluzionario italiano, oltre che terreno di lotta sociale e politica nel nome del popolo emarginato, da ricondurre entro l’alveo nazionale con nuovi titoli di nobiltà sociale, è stato infatti anche e soprattutto strumento rivoluzionario-conservatore dell’identità. In esso, la modernità della società sviluppata e massificata veniva coniugata al riconoscimento che il nesso radicale tra uomo e suolo, tra lavoratore e identità geo-storica, tra ceppo ancestrale e luogo fisico della convivenza, è ineliminabile, è anzi da rafforzare contro ogni cosmopolitismo.
La risoluzione di riconoscere prima nella guerra coloniale del 1911-12 e poi in quella nazionale del 1915-18 una rivoluzionaria guerra di popolo di portata politica, sociale e identitaria decisiva, mostra che il Sindacalismo Rivoluzionario, affiancando il Nazionalismo nella lotta interventista, non ebbe nulla a che spartire con le logiche classiste liberali e marxiste, ma ne costituì l’esatto contraltare.

Quando, nel 1935, Arturo Labriola riconobbe nella guerra d’Africa davvero l’attesa pagina di riscatto popolare attraverso l’imperialismo contadino di un’intera nazione, mise un chiaro sigillo ideologico sull’intero movimento del sindacalismo politico. Questa sua finale ammissione dei titoli storici del Fascismo a interpretare i diritti del lavoro, fu una ben più centrata analisi che non quella operata dal “famoso” sindacalismo rivoluzionario parmense che, pur interventista nel 1914, volle nel 1922 sbagliare la sua diagnosi storica: volle vedere nello squadrismo non l’insurrezione armata del popolo, ma il braccio dell’Agraria, indotto in questo errore da coincidenze locali, da propagande reazionarie, da miopie di piccoli capi, mancando di coglierne il più vasto significato storico: che per la prima volta, in Italia, il popolo della campagna, quello del bracciantato, quello del sobborgo, quello dell’artigianato impoverito, quello minuto degli antichi centri storici urbani - insomma, proprio il popolo deambrisiano del comunalismo - prendeva le armi contro un’autorità massonica, oligarchica e reazionaria e portava al potere un suo capo. Prevalse dunque in quel caso un malconcepito afflato “libertarista” che non fu mai patrimonio del vero Sindacalismo Rivoluzionario, ma cascame anarco-repubblicano, “azionista” ante-litteram. Ma quella di Parma sindacalista che fece le barricate contro l’insurrezione squadristica - modesto episodio ostentato dalla storiografia di parte come l’unico trofeo antifascista del Sindacalismo Rivoluzionario, e che invece fu un chiaro attestato della retroguardia in cui si dibatteva tanta “sinistra” italiana dell’epoca - fu scheggia a sé, in nulla rappresentativa dell’intero movimento. Basti dire che il Sindacalismo Rivoluzionario fornì al Fascismo l’ossatura storica del suo sindacalismo e del suo corporativismo: Michele Bianchi, Edmondo Rossoni, Cesare Rossi, Massimo Rocca, Umberto Pasella, Ottavio Dinale, Paolo Orano, Agostino Lanzillo…e può bastare così. E che inoltre fornì, attraverso l’elaborazione del socialismo giuridico, la pietra d’angolo del regime sociale di massa gerarchico e popolare.

Ma il senso storico centrale del Sindacalismo Rivoluzionario è ancora un altro. E’ l’idea propriamente corporativa che l’associazionismo di popolo è la trama sociale su cui una nazione si regge, è il basamento su cui viene eretto un sistema aperto all’accesso dei migliori al potere, è l’organo vivo le cui cellule dinamiche sono attivate dalla partecipazione, dalla mobilità verso l’alto, dal decisionismo politico e da un solidarismo doppiamente efficace: quello di ordine sociale e quello di identità nazionale. Senza il Sindacalismo Rivoluzionario, il pensiero politico italiano non avrebbe conosciuto, ad esempio, il fenomeno del sindacalismo nazionale. Che può essere ben espresso da quanto Sergio Panunzio affermava circa l’organicismo sindacalista, anima di una “socializzazione dell’uomo” che avrebbe definitivamente desertificato il terreno su cui vigoreggiano i liberismi del profitto privato.

Il sindacato operaio può essere la risposta al solidarismo borghese solo in regime di spaccature liberali. Il sindacalismo operaio, in uno Stato organicista, svolge invece, come qualunque altro rango sociale o Stand - intellettuale, di mestiere, di professione, di servizio -, il ruolo di elemento politico di selezione dei migliori, attingendo da una base popolare che né il liberalismo né lo stesso bolscevismo considerarono mai come effettivo bacino dell’élite di comando: l’intera popolazione nazionale. Lo Stato sindacale non è, in questo senso, che il bastione di una conservazione rivoluzionaria, all’interno della quale la raccolta del lavoratore in associazione non solo economica, ma soprattutto politica, ha lo stesso arcaico sapore delle antiche corporazioni, delle antiche compagnie dei mestieri, delle fraglie artigiane, dei sodalizi di artieri. Storicamente, tutti questi momenti dell’ordinamento per ranghi di onore sociale sono luoghi in cui il solidarismo non è propaganda umanitaria e mondialista, né organismo di protezione economica di settori più o meno privilegiati, ma vita vissuta quotidianamente accanto a chi condivide il proprio spazio geo-storico e lotta per un medesimo destino.

jeudi, 11 mars 2010

Le réveil du Vieux Monde

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Le réveil du Vieux Monde

par Louis SOREL

 

L'édifice diplomatico-stratégique s'écroule et l'Etablissement politique et médiatique n'en finit pas de jouer les prolongations. Ainsi, Thierry de Montbrial, docteur de l'IFRI, prêche le statu quo quand celui-ci n'existe plus, et Jacques Attali, sous couvert de prospective, fait dans le millénarisme soft  (1). C'est donc avec bonheur que nous avons lu le dernier ouvrage de William Pfaff, Le réveil du Vieux Monde. Citoyen américain de souche rhénane, vivant à Paris, William Pfaff développe avec finesse et objectivité ses analyses sur l'ordre international de l'après-guerre. Son diagnostic est sévère et lucide: les héros (Etats-Unis et URSS) sont fatigués et les fissures du monde bipolaire laissent entrevoir un possible retour à la primauté pluriséculaire de l'Europe.

 

indexooooooo.jpgC'est à travers l'analyse de l'évolution conjointe des forces militaires et des ressources économiques des principaux Etats que Paul Kennedy affirme inéluctable le déclin américain (2). Refusant ce primat de l'économique, William Pfaff met en exergue la pluralité des facteurs à l'œuvre dans la genèse de toute configuration historique et l'importance qu'il accorde au substrat culturel l'amène à rejeter l'historicisme linéaire de l'idéologie dominante: «Elles (les sociétés non occidentales) se trouvent ailleurs et sont les héritières d'un passé différent. Et il n'est pas totalement déraisonnable de penser qu'elles puissent avoir un avenir différent». A l'égard de l'histoire la plus immédiate, l'auteur, s'il évoque l'éventuelle responsabilité de l'Allemagne dans le déclenchement de la guerre civile européenne, ne s'en tient pas à la condamnation morale d'un fascisme a-temporel. Le second conflit mondial ne saurait s'expliquer par l'irruption du Malin dans le monde, et si césure il y a, c'est en 1914 que l'Europe, jusqu'alors robe sans coutures, se déchire. En 1917, débarquent les troupes américaines alors que la révolution bolchévique, "traumatisme politique" initial, met fin à l'homogénéité d'une société internationale longtemps eurocentrée. Le système Est-Ouest émerge (dialectique du bolchévisme et de l'anti-bolchévisme), le stalinisme et l'hitlérisme, incarnations de la révolution et de la contre-révolution, recourant aux formes et au symbolisme du système de guerre. Le phénomène totalitaire s'enracinant dans cette époque particulière, anti-fascisme et anti-communisme n'apportent aujourd'hui aucun cadre d'analyse satisfaisant (3).

 

Le «siècle américain» n'a pas

duré cinquante ans...

 

Quarante-cinq années après la clôture de cette guerre de trente ans, la bi-hégémonie américano-soviétique est remise en cause. «Le siècle américain n'aura pas duré cinquante ans» et W. Pfaff fait de l'idéologie américaine la cause majeure des revers extérieurs. De l'isolationnisme de l'Age classique à l'internationalisme de l'après-guerre, la politique extérieure des Etats-Unis se fonde en effet sur la présomption de supériorité morale; qu'il s'agisse de se préserver de ce monde corrompu ou de le convertir, avec pour postulat tacite de Washington à Bush: «L'Amérique ne serait en lieu sûr dans le monde que le jour où le monde lui ressemblerait d'assez près» (4).

 

Ce messianisme à base de calvinisme et de libéralisme n'a cessé de se heurter à la force des choses. L'Amérique s'est enthousiasmée pour les «Etats-Unis d'Europe» mais depuis le guerre commerciale fait rage et l'insipide technocrate qu'est Jacques Delors se surprend à hausser le ton! L'Amérique a cru l'Asie plus docile et ouverte à son influence  mais elle n'en finit pas d'exorciser le spectre du Vietnam!

 

Et pourtant, le vieux vocabulaire de l'exceptionalisme américain persiste, faute d'autre philosophie politique: «Mise au défi de repenser la politique en Amérique centrale, la Commission Kissinger, groupe de réflexion à dominante conservatrice qui remit son rapport en 1984, ne trouva rien de mieux à proposer qu'un ambitieux programme d'assistance pour aider les populations centre-américaines à faire leur la vision de l'avenir que représentent nos idéaux».

 

Parallèlement, les anciennes sociétés culturellement autonomes d'Europe centrale et d'Eurasie auront survécu à la puissance soviétique et démontrent le caractère inéluctablement transitoire du communisme. Cette volonté de faire table rase du passé a généré la situation d'insécurité permanente de l'URSS.

 

Aujourd'hui l'Amérique souffre d'hypertrophie impériale et invoquer les mânes des Founding Fathers  ne conjurera pas le déclin. De même, le retour de Lénine prôné par Gorbatchev ne peut légitimer un système à bout de souffle (5). Ironie de l'histoire, «de cette révolution, il (Gorbatchev) pourrait bien être le Kérenski!». La rétraction des deux protagonistes du jeu politique mondial n'est pas sans risques, mais la fin du «siècle américain» débouche sur un nouveau «siècle européen». De fait, le thème récurrent du Pacifique, Méditerranée du XXIième siècle, a pu dominer l'orée des années 80, la remarquable réussite d'un Japon fondamentalement autre n'a pas valeur paradigmatique, W. Pfaff se montrant circonspect quant à l'éveil de la Chine, tant la vigueur des cultures de frontière fait défaut à la civilisation centrale (6). Demeure donc au centre du monde l'Europe, dont le partage était l'enjeu de la guerre froide, les Etats-Unis ne pouvant s'en abstraire sans renoncer à la puissance.

 

Quelles destinées pour

la Grande Europe...?

 

«Lorsque le maître de la mer dispose d'un pareil atterrage, écrit Georges Buis, il ne le lâche pas». De bon gré, ajouterions-nous. Un temps déclassée mais bénéficiant des plus formidables antécédents historiques, «l'Europe pourrait même à l'avenir compter davantage que les Etats-Unis». Ecrivant ces lignes avant le jeu de domino de l'automne 1989, l'auteur n'envisage alors que le seul sort de la CEE; avec la fermeture de la parenthèse soviétique, les destinées de la Grande Europe sont manifestement autres que celles des Etats-Unis.

 

«Depuis la fin de la guerre, le privilège de l'irresponsabilité a été la qualité saillante de la situation en Europe» et, après quarante années de statu quo, l'espace paneuropéen est à organiser, la question centrale étant l'avenir de l'URSS. Constatant que l'occupation du glacis centre-européen n'a pu assurer la sécurité de l'Etat soviétique, W. Pfaff estime possible et nécessaire un arrangement russo-européen fondé sur la claire conscience du coût prohibitif et de l'irrationalité politique de toute nouvelle guerre en Europe. A cette fin, il réhabilite le statut de la Finlande acquis à la pointe de l'épée et injustement dénigré. «La vieille peur de la Russie, consciente de sa faiblesse et de son arriération, a toujours été la peur de l'encerclement», la neutralisation de l'Europe centrale pourrait l'en affranchir.

 

La guerre froide terminée, W. Pfaff n'entonne pas pour autant un Te Deum.  Au terme d'une aventure politique et morale qui a commencé avec le voyage de Lénine dans un fourgon scellé, les étoiles sont mortes (intitulé du premier chapitre). «L'Amérique fut un empire éphémère» et l'Europe reste «le nœud de l'histoire contemporaine». L'histoire nous offre une page blanche: «L'aventure léniniste est terminée. La question capitale demeure: qu'est-ce qui a commencé?».

 

Louis SOREL.

 

William PFAFF, Le réveil du Vieux Monde. Vers un nouvel ordre international, Calmann-Lévy, 1990, 130 FF.

 

Notes

 

(1) Dans le Figaro  du 5 octobre 1989, Thierry de Montbrial prétend vouloir favoriser leur (les peuples de l'Europe de l'Est) affranchissement de l'impérialisme soviétique, mais «sans bouleverser l'équilibre européen, car nous ne serions certainement pas prêts à en assumer les risques». Jacques Attali, pseudo-futurologue, prédit dans Signes d'horizon  (Fayard, 1989) la fin de la crise par la généralisation de l'ordre marchand, un mode de vie universel, le triomphe de l'individu et du nomadisme...». Voir également John Naisbitt, Méga-tendances - 1990-2000 (éd. First).

(2) Cf. Paul Kennedy, Naissance et déclin des grandes puissances, Payot, Paris, 1989. Cfr. Vouloir  n°50/51. La version originale a suscité un important débat aux Etats-Unis.

(3) cf. Alain de Benoist, «Pensée politique: l'implosion», in Krisis,  n°1, 1989.

(4) Sur la politique extérieure des Etats-Unis, voir Bernard Boëne, «La stratégie générale des Etats-Unis ou le jeu sans fin (?) de l'idéologie et du réalisme», in Stratégique,  n°39/1988. Et l'essai de Michel Jobert, Les Américains  (Albin Michel, 1987).

La prégnance de l'American Creed  depuis deux siècles explique l'aspect "croisade messianique" et les caractères anti-clausewitziens des guerres américaines: les objectifs poursuivis  -la capitulation sans condition de l'adversaire-  et les moyens mis en œuvre sont disproportionnés par rapport aux enjeux initiaux.

(5) Contre la thèse aronienne du projet humanitaire dévoyé par Staline, lire Dominique Colas, Lénine et le léninisme,  PUF, 1987. L'auteur y démontre avec rigueur le caractère intrinsèquement totalitaire du léninisme.

(6) W. Pfaff se réfère à Arnold Toynbee dont l'ouvrage majeur, L'Histoire  (Bordas, 1981) a été recensé par Ange Sampieru dans Vouloir  n°50/51.

mercredi, 10 mars 2010

Les Germains contre Rome: cinq siècles de lutte ininterrompue

Les Germains contre Rome: cinq siècles de lutte ininterrompue

 

par Konrad HÖFINGER

 

arminius.jpgLes sources écrites majeures du monde antique sont romaines, rédigées en latin. Les textes nous livrent donc une vision romaine des cinq siècles de lutte qui ont opposé le long du Rhin, des limes et du Danube, les tribus germaniques à Rome. Konrad Höfinger, archéologue de l'école de Kossina, interroge les vestiges archéologiques pour tenter de voir l'histoire avec l'oeil de ces Germains, qui ont fini par vaincre. Ses conclusions: les tribus germaniques connaissaient une forme d'unité confédérale et ont toutes participé à la lutte, en fournissant hommes ou matériel. La stratégie de guerilla, de guerre d'usure, le long des frontières était planifiée en bonne et due forme, au départ d'un centre, située au milieu de la partie septentrionale de la Germanie libre. Nous reproduisons ci-dessus une première traduction française des conclusions que tire Konrad Höfinger après son enquête minutieuse.

 

Si nous résumons tous les faits et gestes du temps des Völkerwanderungen (migrations des peuples), nous constatons l'existence, sous des formes spécifiques, d'un Etat germanique, d'une culture germanique, renforcée par une conscience populaire cohérente.

 

1. Dès l'époque de César, c'est-à-dire dès leur première manifestation dans l'histoire, les Germains ont représenté une unité cohérente, opposée aux Romains; ceux-ci connaissaient les frontières germaniques non seulement celles de l'Ouest, le long du Rhin, mais aussi celles de l'Est.

2. La défense organisée par les Germains contre les attaques romaines au temps d'Auguste s'est déployée selon des plans cohérents, demeurés identiques pendant deux générations.

3. Après avoir repoussé les attaques romaines, les Germains ont fortifié la rive droite du Rhin et la rive gauche du Danube selon une stratégie cohérente et une tactique identique en tous points. Les appuis logistiques pour les troupes appelées à défendre cette ligne provenaient de toutes les régions de la Germanie antique.

4. Quand les Daces, sous la conduite de Decebalus, attaquent les Romains en l'an 100 de notre ère, les Quades passent à l'offensive sur le cours moyen du Danube et les Chattes attaquent le long du Rhin.

5. L'assaut lancé par les Quades et la Marcomans vers 160 a été entrepris simultanément aux tentatives des Alamans sur les bords du Rhin et des Goths sur le cours inférieur du Danube. Les troupes qui ont participé à ses manœuvres venaient de l'ensemble des pays germaniques.

6. A l'époque où se déclenche l'invasion gothique dans la région du Danube inférieur vers 250, les Alamans passent également à l'attaque et s'emparent des bastions romains entre Rhin et Danube.

7. A partir des premières années du IVième siècle, Rome s'arme de l'intérieur en vue d'emporter la décision finale contre les Germains. A partir de 350, les fortifications le long du Rhin et du Danube sont remises à neuf et des troupes, venues de tout l'Empire, y sont installées. Simultanément, sur le front germanique, on renforce aussi ses fortifications en tous points: ravitaillement, appuis, matériel et troupes proviennent, une nouvelle fois, de toute la Germanie, ce qu'attestent les sources historiques.

8. Sur aucun point du front, on ne trouve qu'une et une seule «tribu» (Stamm) ou un et un seul peuple (Volk), mais partout des représentants de toutes les régions germaniques.

9. Les attaques lancées par les Germains en 375 et 376 ne se sont pas seulement déclenchées avec une parfaite synchronisation, mais constituaient un ensemble de manœuvres militaires tactiquement justifiées, qui se complétaient les unes les autres, en chaque point du front. Le succès des Alamans en Alsace a ainsi conditionné la victoire gothique en Bessarabie.

10. La grande attaque, le long d'un front de plusieurs milliers de kilomètres, ne s'est pas effectuée en un coup mais à la suite de combats rudes et constants, qui ont parfois duré des années, ce qui implique une logistique et un apport en hommes rigoureusement planifiés.

11. Les combats isolés n'étaient pas engagés sans plan préalable, mais étaient mené avec une grande précision stratégique et avec clairvoyance, tant en ce qui concerne l'avance des troupes, la sécurisation des points enlevés et la chronométrie des manœuvres. Les sources romaines confirment ces faits par ailleurs.

12. Les événements qui se sont déroulés après la bataille d'Andrinople, entre 378 et 400, ont obligé l'Empereur Théodose à accepter un compromis avec l'ensemble des Germains. Ce compromis permettait à toutes les tribus germaniques, et non pas à une seule de ces tribus, d'occuper des territoires ayant été soumis à Rome.

13. La campagne menée par le Roi Alaric en Italie et la prise de Rome en 410, contrairement à l'acception encore courante, ne sont pas pensables comme des entreprises de pillage, perpétrées au gré des circonstances par une horde de barbares, mais bien plutôt comme un mouvement planifié de l'armée d'une grande puissance en territoire ennemi.

14. Ce ne sont pas seulement des Wisigoths qui ont marché sur Rome, mais, sous les ordres du «Général» Alaric, des représentants de toutes les régions de la Germanie.

15. L'occupation de l'Empire d'Occident s'est déroulée selon un plan d'ensemble unitaire; les diverses armées se sont mutuellement aidées au cours de l'opération.

16. L'armement et les manières de combattre de tous les Germains, le long du Rhin à l'Ouest, sur les rives de la Mer Noire à l'extrémité orientale du front, en Bretagne au Nord, ont été similaires et sont demeurées quasi identiques pendant tous les siècles qu'a duré cette longue guerre. Ils sont d'ailleurs restés les mêmes au cours des siècles suivants.

17. Enfin, la guerre qui a opposé Rome aux Germains a duré pendant quatre siècles complets, ce qui ne peut être possible qu'entre deux grandes unités politiques, égales en puissance. Cette longue guerre n'a pas été une suite d'escarmouches fortuites mais a provoqué, lentement, de façon constante, un renversement du jeu des forces: un accroissement de la puissance germanique et un déclin de la puissance romaine. Cette constance n'a été possible que parce qu'il existait une ferme volonté d'emporter la victoire chez les Germains; et cette volonté indique la présence implicite d'une forme d'unité et de conscience politiques.

 

Après la victoire germanique, à la fin du IVième siècle, se créent partout en Europe et en Afrique des Etats germaniques, qui, tous, furent édifiés selon les mêmes principes. Que ce soit en Bretagne avec les Angles, en Espagne avec les Alains, en Afrique avec les Vandales, en Gaule avec les Francs, en Italie avec les Goths ou les Lombards, toutes ces constructions étaient, sur les plans politique, économique et militaire, avec leurs avantages et leurs faiblesses, leur destin heureux ou malheureux, le produit d'une identité qu'on ne saurait méconnaître. Il saute aux yeux qu'il existait une spécificité propre à tous les Germains, comme on en rencontre que chez les peuples qui ont reçu une éducation solide au sein d'une culture bien typée, aux assises fermes et homogènes, si bien que leurs formes d'éducation politique et éthique accèdent à l'état de conscience selon un même mode, ciselé par les siècles. Nous avons toujours admiré, à juste titre d'ailleurs, l'homogénéité intérieure de la spécificité romaine, laquelle, en l'espace d'un millénaire, en tous les points du monde connu de l'époque et malgré les vicissitudes politiques mouvantes, est demeurée inchangée et, même, est restée inébranlable dans le déclin. Le monde germanique n'est pas moins admirable pour ce qui concerne l'unité, l'homogénéité et le caractère inébranlable de sa constance: dès qu'il est apparu sur la scène de l'histoire romaine, au Ier siècle avant notre ère, il est resté fidèle à lui-même et constant jusqu'à la fin de la «longue guerre».

 

Konrad HÖFINGER.

 

Konrad HÖFINGER, Germanen gegen Rom. Ein europäischer Schicksalskampf, Grabert-Verlag, Tübingen, 1986, 352 S., 32 Abb., DM 45.

    

lundi, 08 mars 2010

Archéologie de Haithabu, port viking

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

Archéologie de Haithabu, port viking

haithabu.jpgHaithabu, c'est un ancien port du Schleswig-Holstein qui fut un grand centre commercial à l'époque des Vikings. C'est aujourd'hui un site archéologique de première importance pour comprendre le fonctionnement global du commerce en Europe au cours du premier millénaire de notre ère. Haithabu, écrit Herbert Jankuhn, s'est constitué par le hasard de l'histoire, quand les relations commerciales en Europe du Nord et de l'Ouest se sont progressivement modifiées au contact d'un empire franc dont le poids venait de basculer vers l'Austrasie, autrement dit sa partie septentrionale largement germanisée.

 

Avec les Mérovingiens et les Carolingiens, le poids politique de l'ensemble franc se focalise donc sur la côte septentrionale de la Méditerrannée et l'arrière-pays provençal et rhodanien en bénéficie. Les côtes de la Mer du Nord, avoisinant, en Zélande, le delta des fleuves (Rhin, Meuse, Escaut), acquièrent une importance stratégique et économique qu'elles ne perdront plus. Dès la fin du VIème siècle, ce glissement vers le Nord finit par englober la Scandinavie. La presqu'île "cimbrique", c'est-à-dire le Jutland et le Slesvig, bénéficiera de cette évolution, en marche depuis les Romains. Les découvertes archéologiques démontrent que les Germains des côtes frisonnes (néerlandaise et allemande) ainsi que leurs congénères de l'arrière-pays entretenaient des relations commerciales suivies avec l'Empire romain. Les voies de pénétration de ces échanges sont 1) la mer et 2) les grands fleuves (Rhin, Weser, Elbe, Oder, Vistule).

 

En traversant l'isthme du Slesvig, le commerce germano-romain touche le bassin occidental de la Baltique. Par l'Oder et la Vistule, il accède au bassin oriental. Entre le cours inférieur de la Vistule et la côte septentrionale de la Mer Noire, les Germains commercent avec les établissements coloniaux grecs. Depuis la préhistoire et depuis les premiers mouvements des peuples indo-européens, ces axes fluviaux existent: avec l'Empire romain, le trafic s'y fait simplement plus intense. Les invasions hunniques, qui réduisent à néant le pouvoir conquis des Goths, établis entre la Baltique et la Mer Noire, éliminent toutes les possibilités d'échanges portées par cet axe fluvial oriental. Plus tard, l'axe central de l'Oder cessera, lui aussi, de fonctionner à cause des Huns. L'axe occidental, celui du cabotage le long des côtes de la Mer du Nord, sera le dernier à s'effondrer. A Vème siècle, le commerce avec la Scandinavie diminue pour connaître son intensité minimale à la fin du VIème siècle. Mais, à la même époque, avec Théodoric le Grand, Roi des Ostrogoths fixés en Italie, l'axe central reprend vigueur, tandis que la littérature épique germanique prend son envol.

 

Les produits échangés le long de ces axes fluviaux et maritimes sont essentiellement l'ambre et les fourrures. L'irruption des Avars dans l'espace danubien, vers 565, ruine une seconde fois ce réseau d'échange italo-baltique. Après les Avars, les tribus slaves s'emparent de l'Europe centrale, isolant la zone baltique et coupant les voies d'échange qui, depuis des siècles, voire un ou deux millénaires, reliaient la Baltique à la Méditerranée. Ce blocage par les Avars et les Slaves redonne vigueur à la région flamande-frisone centrée autour du delta des grands fleuves: l'Ile de Walcheren en Zélande (avec le port de Domburg) et Dorestad, au sud-ouest d'Utrecht, prennent, à cette occasion, une dimension nouvelle.

 

Ce va-et-vient continuel entre l'Est et l'Ouest, Herbert Jankuhn, auteur d'un ouvrage remarquable sur le site de Haithabu, révèle, finalement, l'importance des grands fleuves (Rhin, Meuse, Escaut) pour l'échange des marchandises entre le Nord scandinave et le Sud gaulois et méditerranéen.

 

Et Haithabu, port ouest-baltique, comment acquiert-il son importance? Quand l'ère viking s'amorce officiellement avec le pillage, le 8 juin 793, du monastère anglais de Lindisfarne, la Scandinavie a déjà, pourtant, un passé pluriséculaire, marqué de mouvements migratoires vers le midi. Le territoire de la Scandinavie ne peut accepter une démographie trop dense. Les côtes norvégiennes, ouvertes sur l'Atlantique, ne sont guère propres à l'agriculture intensifiée. La Suède, à l'époque couverte d'épaisses forêts, permet certes une colonisation intérieure, mais clairsemée. Le Danemark possède des terres fertiles à l'Est mais chiches à l'Ouest, où la côte ne permet, de surcroît, la construction d'aucune installation portuaire digne de ce nom.

 

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Avant César, dès la tragique aventure des Cimbres et des Teutons, ce sont des raisons identiques, d'ordre géographique et démographique, qui ont poussé les Scandinaves à émigrer vers le Sud. Aux VIIème et VIIIème siècles, une nouvelle émigration massive commence: d'abord vers les îles de la Mer du Nord, les Shetlands, les Orkneys et les Hébrides. Elles porteront les Scandinaves partout en Grande-Bretagne, en Irlande, en Normandie, en Sicile et dans les plaines russes.

 

 

 

C'est donc dans la foulée de ce mouvement migratoire, parfois violent, que Haithabu connaîtra son apogée. La localité est située au fond d'un "fjord" de plaine, sans falaises, situé sur la côte baltique du Slesvig. Le fond de cette baie, la Schlei, devenue navigable à partir du VIème siècle, constitue le prolongement le plus profond de la Baltique en direction de la Mer du Nord. D'Haithabu à celle-ci, la distance est la plus courte qui soit entre les deux mers nordiques sur l'ensemble territorial de la presqu'île du Jutland-Slesvig. Danois, Frisons, Saxons et Wendes/Obotrites (tribus slaves) se juxtaposent dans la région.

 

Stratégiquement, la région, depuis l'Eider, petite presqu'île s'élançant dans la Mer du Nord, en face d'Héligoland, en passant par le tracé de la rivière Treene, constituait, sans doute depuis, plusieurs siècles, la zone idéale pour transborder des marchandises et pour couper par voie terrestre, en évitant de contourner le Jutland sans port  -ce qui constitue un risque majeur en cas de tempête-  sur une mer qui, de surcroît, est dominée par de violents vents d'Ouest, provoquant énormément de nauvrages de voiliers.

 

Haithabu doit donc son existence au commerce entre la Rhénanie et le Delta friso-flamand et le Gotland suédois. Les Suédois, entretemps, ont pris pied en Finlande, dans les Pays Baltes et dans plusieurs territoires slaves. Des Suédois se fixent au Sud du Lac Ladoga, fondent Novgorod, puis Kiev, et ouvrent les voies du Dnieper et de la Volga, restaurant l'axe gothique perdu lors de l'invasion des Huns et contournant le verrou avar qui bloquait l'espace danubien. Par la maîtrise de ces fleuves, les Scandinaves entrent en contact avec Byzance et l'Islam. Le commerce nord-occidental en direction de ces régions passera dès lors par Haithabu. Du Danemark à Bagdad, s'inaugure une voie commerciale, aussi importante géopolitiquement, sans nul doute, que celle que voulut recréer Guillaume II, Empereur d'Allemagne, en construisant le chemin de fer Berlin-Bagdad. Le souvenir de la gloire d'Haithabu doit nous laisser entrevoir les potentialités d'une connexion du port de Hambourg, héritier d'Haithabu, avec le nouveau Transsibérien soviétique (Cf. VOULOIR no. 31).

 

Les sources arabes (Ibn Faldan) nous renseignent sur les modalités de transaction dans l'espace aujourd'hui russe, dominé jadis par les Varègues suédois. Les Scandinaves rencontrent les marchands arabes à Bolgar sur la Volga, capitale du Royaume des Bulgares, et leur fournissent notamment des fourrures qui seront ensuite transportées vers la Mésopotamie par les caravanes de chameaux organisées par les Khazars. A Bolgar aboutit également la route de la soie qui mène en Chine. Les pièces de soie retrouvées en Grande-Bretagne et aux Pays-Bas et datant de cette époque, proviennent de Chine, via Haithabu et Bolgar. L'âge d'or, pour Haithabu, sera le Xème siècle, celui de la domination varègue en Russie qui permit un intense commerce avec le Sud-Est islamique.

 

A partir de l'an 1000, où saute le verrou avar, le déclin commence pour Haithabu. La région perd son intérêt stratégique. De plus les tribus slaves du Holstein oriental s'emparent du site, le pillent et l'incendient. Puis, petit à petit, le nom d'Haithabu disparaît des chroniques. Le livre de Herbert Jankuhn retrace, avec minutie, cette évolution économique et politique, mais, bien sûr, cette relation captivante n'est pas le seul intérêt de son magnifique ouvrage. Il y décrit les fouilles en détail, y compris celles qui ont mis à jour les reliefs du "Danewerk", ce mur défensif érigé par le Roi des Danois entre Haithabu et le cours de la Treene, pour arrêter les poussées slaves. On acquiert, grâce au travail systématique de Jankuhn, une vue d'ensemble sur les types d'échanges commerciaux, le type d'habitation et d'entrepôts d'un port scandinave du Xème siècle, sur les monnaies, les habitants, etc.

 

Serge HERREMANS.

 

Herbert JANKUHN, Haithabu, Ein Handelsplatz der Wikingerzeit, Wachholtz Verlag, Neumünster, 1986, 260 S. (Format 21 x 25 cm), DM 48.

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dimanche, 07 mars 2010

Mai 68: du col Mao au Rotary?

Archives de "Synergies Européennes" - 1986

Mai 68: du col Mao au Rotary?

 

mariannede68.jpgOn n'a pas fini de parler de Mai 68, même s'il ne reste plus grand'chose de l'effervescence des campus de Berkeley, Berlin ou Paris. Le soixante-huitardisme s'est enlisé dans ses contradictions, s'est épuisé en discours stériles, malgré les fantastiques potentialités qu'il recelait. Examinons le phénomène de plus près, de concert avec quelques analystes français: d'une part Luc FERRY et Alain RENAUT, auteurs de La pensée 68, essai sur l'anti-humanisme contemporain (Gallimard, 1986) et, d'autre part, Guy HOCQUENGHEM, qui vient de sortir un petit bijou de satire: sa Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary  (Albin Michel, 1986). Pour RENAUT et FERRY, la pensée 68 comportait deux orientations possibles: la première était "humaniste"; la seconde était "anti-humaniste". L'humanisme soixante-huitard était anti-techniciste, anti-totalitaire, pour l'autonomie de l'individu, pour l'Eros marcusien contre la civilisation, pour le pansexualisme, pour l'effacement du politique, etc. Pour FERRY et RENAUT, ces valeurs-là sont positives; elles forment le meilleur de l'aventure soixante-huitarde. Pour nous, ce sont au contraire ces idéologèmes-là qui ont conduit aux farces actuelles des "nouveaux philosophes", à leur valorisation infra-philosophique des "droits de l'homme", au retour du fétichisme du "sujet", à la régression du dis-cours philosophique, à l'intérêt porté aux scandaleuses niaiseries d'un Yves MONTAND qui se prend pour un oracle parce qu'il est bon acteur... Ces farces, ces amu-sements stériles, ces assertions pareilles à des slogans publicitaires pour margarine ou yaourts ont permis le retour d'une praxis libérale, le néo-libéralisme, auquel ne croyait plus qu'une poignée d'aimables plaisantins presqu'octogénai-res. Ou encore, Madame Thatcher qui, selon les paroles officieuses de la Reine Elizabeth II, serait bel et bien restée "fille d'épicier" malgré son fard oxfordien. Ipso facto, le petit gauchisme de la pansexualité éroto-marcusienne, le baba-coolisme à la Club Med', le néo-obscurantisme talmudiste de BHL, les éloges tonitruants du cosmopolitisme à la SCARPETTA ou à la KONOPNICKI acquièrent une dimension "géopolitique": ils renforcent la main-mise américaine sur l'Europe occidentale et avalisent, avec une bienveillance très suspecte, les crimes de la machine de guerre sioniste. Décadentistes d'hier et traîneurs de sabre sans cervelle, illuminés moonistes et vieux défenseurs d'un "Occident chrétien", se retrouvent curieusement derrière les mêmes micros, prêchent les mêmes guerres: il n'y a que le vocabulaire de base qui change. L'effondrement du soixante-huitardisme dans ce que RENAUT et FERRY appellent "l'humanisme" s'est également exprimé à l'intérieur des partis de gauche: de l'Eurocommunisme à la trahison atlantiste du PSOE, au révisionnisme du PCI et au mittérandisme atlantiste: le cercle des rénégats est bouclé. HOCQUENGHEM trouve les mots durs qu'il faut: Montand? Un "loufiat râleur géostratège mégalo" (p.73); Simone Veil? Un "tas de suif" (p.73); Serge July? Un "parvenu" (pp. 108 et 109); Jack Lang? Il a la "fu-tilité des girouettes" (p.134); Régis De-bray? Un "ex-tiers-mondiste à revolver à bouchons" (p.129); BHL, alias, sous la plume d'HOCQUENGHEM, Sa Transcendance Béachelle? Un "aimable Torquemada d'une inquisition de théâtre" (p.159) qui ne tient qu'à l'applaudimètre (p.164); Glucksmann? "Tortueux" (p.179), "So-phiste et fier de l'être" (p.185), etc. HOCQUENGHEM fustige avec une délectable méchanceté et une adorable insolence tous les gourous mielleux, à fureurs atlantistes récurrentes, pourfendeurs de "pacifistes allemands gauchistes", que l'ère Mitterand a vomis sur nos écrans et dans les colonnes de nos gazettes. HOCQUENGHEM, comme presque personne en France, défend le pacifisme allemand que BHL et GLUCKSMANN abreuvent de leurs insultes de néo-théocrates et de leurs sarcasmes fielleux, parce que ce paci-fisme exprime la volonté d'un peuple de se maintenir hors de la tutelle yankee, de s'épanouir en dehors de l'hollywoodisme cher à SCARPETTA et à KONOPNICKI, par-ce que ce pacifisme est, malgré ses insuf-fisances, la seule idéologie d'Europe puis-samment hostile au duopole yaltaïque.

 

Voilà où mène l'humanisme post-soixante-huitard: aux reniements successifs, au vedettariat sans scrupules, comme si l'humanisme devait nécessairement me-ner à cette indulgence vis-à-vis des histrions, des pitres et bateleurs de la rive gauche. L'humanisme ainsi (mal) compris ne serait que tolérance à l'égard de ces ouistitis débraillés alors qu'un humanisme sainement compris exigerait la rigueur des autorités morales et poli-tiques (mais où sont-elles?) à l'encontre de ce ramassis d'incorrigibles saltimban-ques.

 

Heureusement pour la postérité, Mai 68 a aussi été autre chose: un anti-humanisme conséquent, une rénovation d'un héritage philosophique, un esprit pionnier dont on n'a pas fini d'exploiter les potentialités. RENAUT et FERRY, qui chantent le retour du "sujet" donc de la farce prétendument humaniste, signalent les œuvres d'ALTHUSSER, de FOUCAULT, de LACAN et de DERRIDA. Ils voient en eux les géniaux mais "dangereux" continuateurs des traditions hegelienne (Althusser) et nietzschéo-heidegerienne (Foucault, Derrida). Pour ces philosophes français dans la tradition allemande, le "sujet" est vidé, dépouillé de son autonomie. Cette auto-nomie est illusion, mystification. L'hom-me est "agi", disent-ils. Par quoi? Par les structures socio-économiques, diront les marxistes. Par des "appartenances" di-verses, dont l'appartenance au peuple historique qui l'a produit, dirions-nous. L'homme est ainsi "agi" par l'histoire de sa communauté et par les institutions que cette histoire a généré spontanément (il y a alors "harmonie") ou imposé par la force (il y alors "disharmonie").

 

Certes le langage de la "pensée 68" a été assez hermétique. C'est ce qui explique son isolement dans quelques cénacles universitaires, sa non-pénétration dans le peuple et aussi son échec politique, échec qui explique le retour d'un huma-nisme à slogans faciles qui détient la for-ce redoutable de se faire comprendre par un assez large public, fatigué des dis-cours compliqués.

 

Si l'avénement du fétiche "sujet" est récent (le XIXème dit FOUCAULT), il est contemporain de l'avènement du libéralisme économique dont les tares et les erreurs n'ont cessé d'être dénoncées. Et si la "pensée 68" s'est heurtée au "sujet", elle a également rejeté, au nom des spé-culations sur l'aliénation, la massification des collectivismes. La juxtaposition de ces deux rejets ne signifie par nécessairement l'existence de deux traditions, l'une "humaniste" et l'autre "anti-huma-niste". Une voie médiane était possible: celle de la valorisation des peuples, valo-risation qui aurait respecté simultané-ment la critique fondée des dangers re-présentés par le "sujet" (l'individu atomisé, isolé, improductif sur le plan historique) et les personnalités populaires. Aux "grands récits" abstraits, comme ce-lui de la raison (dénoncé par Foucault) à prétention universaliste, se seraient sub-stitués une multitude de récits, expri-mant chacun des potentialités particu-lières, des façons d'être originales. Quand les étudiants berlinois ou parisiens pre-naient fait et cause pour le peuple viet-namien, ils étaient très conséquents: cette lutte titanesque qui se jouait au Vietnam était la lutte d'un peuple particulier (cela aurait pu être un autre peuple) contre la puissance qui incarnait précisément l'idolâtrie du sujet, le chris-tianisme stérilisant, la non-productivité philosophique, le vide libéral, la vulgarité de l'ignorance et des loisirs de masse.

 

La "pensée 68" a oscillé entre le libé-ralisme à visage gauchiste (ce que RE-NAUT et FERRY appellent "l'humanisme") et l'innovation révolutionnaire (ce qu'ils appellent "l'anti-humanisme"). Elle a ou-blié un grand penseur de la fin du XVIIIème: HERDER. L'humanisme de ce dernier est un humanisme des peuples, non des individus. Le vocable "huma-nisme" est trop souvent utilisé pour dé-signer l'individualisme non pour désigner les créativités collectives et populaires. Or tous les anthropologues sérieux seront d'accord pour nous dire que l'homme n'est jamais seul, qu'il s'inscrit toujours dans une communauté familiale, villa-geoise, clanique, ethnique, etc. La "pensée 68", notamment celle de FOUCAULT, et la pensée d'un LEVY-STRAUSS nous ont dévoilé une "autre histoire", une histoire qui n'est plus celle du "grand récit de la raison". La raison, en tant qu'instance universelle, est une apostasie du réel. Le réel se déploie au départ d'instances multiples, sans ordre rationnel. FOUCAULT et LEVY-STRAUSS s'inscrivent ipso facto dans le sillage de HERDER qui estimait que l'historicité de l'homme se déployait au départ de sa faculté de par-ler une langue bien précise (Sprachlich-keit), donc au départ d'une spécificité inaliénable. Au "grand récit" abstrait de la raison, se substituait dès lors les merveilleux "petits récits" des peuples poètes. Ce sont ces récits-là que la "pen-sée 68", pour son malheur, n'a pas su re-découvrir; pourtant, avec Mircea ELIADE, Gilbert DURAND, Louis DUMONT, etc. les occasions ne manquaient pas.

 

Le philosophe allemand contemporain Walter FALK (Université de Marburg) a résolu le problème, sans encore avoir ac-quis la réputation qu'il mérite: si le "grand récit" rationaliste n'est plus cré-dible, si le structuralisme d'un LEVY-STRAUSS nous conduit à désespérer de l'histoire, parce que nous serions invo-lontairement "agis" par des "structures fixes et immobiles", le modèle de l'histoire ne sera plus "téléologique" (comme le christiano-rationalisme occidental et son dérivé marxiste) ni "structuralo-fixiste" (comme lorsque LEVY-STRAUSS chantait les vertus des "sociétés froides"). Le modèle de l'histoire sera "potentialiste", au-delà du néo-fixisme du "réarmement théologique" de BHL et au-delà des résidus de téléologie progressiste. Pour FALK, le potentialisme équivaut, en som-me, à deux pensées, que l'on ne met ja-mais en parallèle: celle des fulgurations phylogénétiques de Konrad LORENZ et celle de la pensée anticipative d'Ernst BLOCH. Comme chez FOUCAULT, les struc-tures qui agissent les hommes ne sont plus simplement stables mais aussi va-riables. FALK développe là une vision réellement tragique de l'histoire: l'huma-nité ne marche pas vers un télos para-disiaque ni ne vit au jour le jour, bercée par l'éternel retour du même, agie sans cesse par les mêmes structures échap-pant à son contrôle.

 

L'histoire est le théâtre où font irruption des potentialités diverses que le poète interprète selon ses sensibilités propres. Là réside ses libertés, ses libertés d'a-jouter quelques chose au capital de créa-tivité de son peuple. La "pensée 68" est entrée dans une double impasse: celle d'un "anti-humanisme", très riche en po-tentialités, enlisée dans un vocabulaire inaccessible au public cultivé moyen et celle d'un "humanisme" sans teneur phi-losophique. Le potentialisme de FALK et le retour des récits historiques des peu-ples ainsi que des récits mythologiques constitueront les axes d'une "troisième voie" politique, impliquant la libération de notre continent.

 

Vincent GOETHALS.

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