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samedi, 08 mai 2010

Il mito cosmogonico degli Indoeuropei

Il mito cosmogonico degli Indoeuropei

di Giorgio Locchi - 30/04/2010

Fonte: Centro Studi La Runa [scheda fonte]

«Ich sagte dir, ich muß hier warten, bis sie mich rufen»

(Oreste, in Elektra di Hugo von Hoffmanstahl)

Il Rig-Veda dell’India antica e l’Edda germanico-nordica presentano due grandi miti cosmogonici, che concordano tra loro a tal punto che vi si può vedere a giusto titolo una duplice derivazione di un mito indoeuropeo comune. Di tale mito delle origini è forse possibile trovare qualche eco presso i Greci. Roma, come vedremo, non ha mai perso il ricordo del “protagonista” di questo dramma sacro che era, per i nostri antenati indoeuropei, l’inizio del mondo. Ma il dramma stesso non ci è pervenuto, nella sua integralità, che tramite l’intermediazione dei germani e degli indoari, di cui scopriamo così che essi ebbero, almeno quando entrarono nella “storia scritta”, e più che ogni altro popolo europeo, la “memoria più lunga.

Grazie ai suoi ammirevoli lavori sulla ideologia trifunzionale, Georges Dumézil ha da lungo tempo messo in luce un aspetto fondamentale, assolutamente originale, della Weltanschauung e della religione degli indoeuropei. Non meno essenziale, non meno originale ci appare la credenza istintiva nel primato dell’uomo (e dell’umano) che testimonia il mito cosmogonico indoeuropeo “conservato” nel Rig-Veda e nell’Edda. Per l’indoeuropeo, in effetti, l’uomo è all’origine dell’universo. E’ da lui che procedono tutte le cose, gli dèi, la natura, i viventi, lui stesso infine in quanto essere storico. Tuttavia, come rimarca Anne-Marie Esnoul, «questo cominciare non è che un un cominciare relativo: esiste un principio eterno che crea il mondo, ma, dopo un periodo dato, lo riassorbe» (La naissance du monde, Seuil, Parigi 1959). L’uomo, presso gli indoeuropei, non è soltanto all’origine dell’universo: è l’origine dell’universo, in seno al quale l’umanità vive e diviene. Giacché all’inizio, dice il mito, vi era l’Uomo cosmico: Purusha nel Rig-Veda, Ymir nell’Edda, Mannus, citato da Tacito, presso i germani del continente (Manus, in quanto antenato degli uomini, essendo parimenti conosciuto presso gli indiani).

Nel decimo libro del Rig-Veda, il racconto dell’inizio del mondo si apre così:

«L’Uomo (Purusha) ha mille teste;

ha mille occhi, mille piedi.

Coprendo la terra da parte a parte

la oltrepassa ancora di dieci dita.

Purusha non è altro che quest’universo

Ciò che è passato, ciò che è a venire.

Egli è signore del dominio immortale,

perché cresce al di là del nutrimento».

E’ da Ymir, Uno indiviso anche lui, che procede la prima organizzazione del mondo. Il Grimnismál precisa:

«Della carne di Ymir fu fatta la terra,

il mare del suo sudore, delle sue ossa le montagne,

gli alberi furono dai suoi capelli,

e il cielo del suo cranio».

Le cose avvengono nello stesso modo nel Rig-Veda:

«La luna era nata dalla coscienza di Purusha,

dal suo sguardo è nato il sole,

dalla sua bocca Indra e Agni,

dal suo soffio è nato il vento.

Il dominio dell’aere è uscito dal suo ombelico,

dalla sua testa evolse il sole,

dai suoi piedi la terra, dal suo orecchio gli orienti;

così furono regolati i mondi».

Purusha è anche Prajapati, il «padre di tutte le creature». Giacché gli dèi stessi non costituiscono che un “quartiere” dell’Uomo cosmico. Ed è da lui solo che in ultima istanza proviene l’umanità. Si legge nel Rig-Veda:

«Con tre quartieri l’Uomo (Purusha) s’è elevato là in alto,

il quarto ha ripreso nascita quaggiù».

Essendo “Uno indiviso”, l’Uomo cosmico è uno Zwitter, uno Zwitterwesen, un essere asessuato o, più esattamente, potenzialmente androgino. Riunisce in sé due sessi, in maniera ancora confusa. La teologia indiana nota d’altronde che il “maschio” e la “femmina” sono nati dalla «suddivisione di Purusha», così come tutti gli altri “opposti complementari”. Ymir, quanto a lui, dormiva nei ghiacci dell’abisso spalancato (Ginungagap) tra il sud e il nord, quando due giganti, uno maschio e l’altro femmina, si sono formati come escrescenze sotto le sue ascelle. E’ parimenti da lui, o dal ghiaccio fecondato da lui, che è nata la prima coppia umana, Bur e Bestla, genitori dei primi Asi (o dèi sovrani), Wotan (Odhinn), Wili e We.

Nell’interpretazione di questi grandi miti cosmogonici non bisogna mai dimenticare che per la mentalità indoeuropea la generazione reciproca è un processo assolutamente normale: gli “opposti logici” sono sempre complementari e perfettamente equivalenti: si pongono mutualmente. E’ così che l’uomo dà nascita a, o tira da se stesso, gli dèi, mentre gli dèi a loro volta danno nascita agli uomini (o insufflano loro lo spirito e la vita). Secondo il racconto dell’Edda, più precisamente nella Voluspá:

«Tre Asi, forti e generosi,

arrivarono sulla spiaggia:

trovarono Ask e Embla,

(che erano ancora) privi di forza.

Senza destino, non avevano sensi,

né anima, né calor di vita, né un colore chiaro.

Odhinn donò il senso, Hoenir l’anima,

Lodur donò la vita e il colore fresco».

In tutta evidenza, in questo racconto, i tre Asi giocano il ruolo dei primi “eroi civilizzatori”. Ask (ovvero “frassino”) e Embla (ovvero “orma”) rappresentano un’umanità ancora “immersa nella natura”, interamente sottomessa alle leggi della specie, testimone di un’era trascorsa, quella di Bur. Se ci si pone al momento della società indoeuropea caratterizzata dalla tripartizione funzionale, ci si accorge d’altronde che le classi che assumono rispettivamente le tre funzioni appaiono come discendenti del dio Heimdal e di tre donne umane. Il Rigsmál racconta come Heimdal, avendo preso le sembianze di Rigr, generò Thrael, capostipite degli schiavi, con Ahne (“antenata”), Kerl, antenato capostipite dei contadini, con Emma (“nutrice”) e Jarl, capostipite dei nobili con “Madre”. Nel Rig-Veda, per contro, gli antenati delle classi sociali sorgono direttamente dall’Uomo cosmico primordiale:

«La bocca di Purusha divenne il brahmino,

il guerriero fu il prodotto delle sue braccia,

le sue coscie furono l’artigiano,

dai suoi piedi nacque il servo».

Così come la distribuzione delle classi è sufficiente a dimostrare, la “versione” del Rig-Veda è probabilmente la più fedele al racconto originale indoeuropeo. Non è escluso cionostante che la “versione” germanica si riallacci anch’essa ad una fonte molto antica. Heimdal, in effetti, è una figura tra le più misteriose. Dumézil ha messo ben in evidenza la particolarità essenziale di questo dio, corrispondente germanico dello Janus romano e del Vaju indiano. Cronologicamente, Heimdal è il primo degli Asi, il più vecchio degli dèi. E’ anche un dio che vede tutto: «ode l’erba spuntare sul prato, la lana crescere dalla pelle delle pecore, nulla sfugge al suo sguardo acuto», ed è questa la ragione per cui svolge il ruolo di guardiano di Asgard, la «dimora degli Asi». Dalui è proceduto l’inizio, da lui procederà anche la fine, il Ragnarok (o “crepuscolo degli dèi”) che annuncerà lui stesso dando fiato al corno. Heimdal riunisce dunque in sé tutti i caratteri dell’”Essere supremo”, oggetto di una più antica credenza che Raffaele Pestalozzi attribuiva all’umanità primitiva (cioè agli umani della fine del mesolitico), ma corresponde anche al “dio dimenticato” di cui parla Mircea Eliade, oscura reminiscenza in seno alle religioni “evolute” di una preesistente concezione della divinità. Il che lascia supporre che Heimdal non sia che una proiezione dell’”Essere supremo” degli antenati degli indoeuropei in seno alla società dei “nuovi dèi”, nello stesso modo in cui Ymir lo prolunga, in quanto “principio universale, a livello della cosmogonia (1). Una tale interpretazione è suscettibile di gettare una nuova luce sul “problema di Janus”, altra divinità misteriosa, di cui abbiamo detto che corrispondeva a Roma allo Heimdal germanico. Innumerevoli discussioni hanno avuto luogo sull’etimologia del nome “Janus”. Da qualche tempo, sembra che un accordo si stia formando nel senso di ricollegarlo alla radice indoeuropea *ya, che ha a che fare con l’idea di”passare”, di “andare”. Ma tale spiegazione non sembra molto convincente, e ci si può domandare se non vale la pena di mettere il nome “Janus” in relazione con le radici *yeu(m) o *yeu(n) (da cui il latino jungo, “congiungere”, “coniugare”), che esprimono l’idea di “unire”, di “accoppiare ciò che è separato”, dunque di “gemellare i contrari” (gli “opposti logici”). Ciò spiegherebbe bene il carattere ambiguo di questo deus bifrons, che è, come Ymir, uno Zwitter.

Si sa, del resto, che un antichissimo appellativo di Janus, di cui i romani dell’epoca di Augusto non comprendevano più esattamente il significato, è Cerus Manus, che si traduce come “buon creatore” (da *krer, “far crescere”, e da un ipotetico *man, “buono”). Noi pensiamo piuttosto che “Manus” non è che un fossile alto-indoeuropeo conservato nel latino antico, che rinvia perfettamente a “Mannus” e significa “uomo” come in germanico ed in sancrito. Il latino immanis non significa d’altronde affatto “cattivo”, “malvagio”, bensì “prodigioso”, “smisurato” (inumano: fuori dalla misura umana). Si comprende allora perché Janus, che è come Heimdal il dio dei prima (delle cose “cronologicamente prime”) è considerato, in quanto Cerus Manus, l’antenato delle popolazioni del Lazio, così come Mannus è l’antenato delle popolazioni germaniche.

Il rituale vedico, essenzialmente imperniato sulla nozione di sacrificio, fa precisamente dello smembramento, della “suddivisione” dell’Uomo cosmico (Purusha), il prototipo stesso del sacrificio. Ora, nei testi “speculativi”, questo sacrificio di Purusha ci è presentato sotto due aspetti: da un lato Purusha sacrifica se stesso, inventando così il «sacrificio imperituro»; dall’altro, sono gli dèi che sacrificano Purusha e lo “smembrano”. La questione si pone dunque di sapere se gli indiani hanno “interpretato” o se al contrario hanno conservato la tradizione indoeuropea in tutta la sua purezza. Questa ultima eventualità ci sembra la più verosimile, non fosse che per il fatto che all’origine ogni mito è al tempo stesso storia del rito e proiezione del rito stesso. D’altra parte, la medesima doppia immagine si ritrova nell’Edda. Allo “smembramento” di Purusha corrisponde, sotto una forma desacralizzata, ma sempre presente, lo “smembramento” di Ymir da parte degli Asi, figli di Bur. Quanto all’altro aspetto del sacrificio dell’Uomo cosmico, quello dell’autosacrificio, basta riportarsi alla Canzone delle Rune (Runatals-thattr) per trovarne una forma trasposta, quanto Wotan dichiara:

«Lo so: durante nove notti

sono rimasto appeso all’albero scosso dai venti

ferito dalla lancia, sacrificato a Wotan,

io stesso a me stesso sacrificato,

appeso al ramo dell’albero di cui non si può

vedere da quale radice cresca»

Odhinn-Wotan, dio sovrano, non è certo l’Uomo cosmico, e tanto meno ne gioca il ruolo in seno alla società degli dèi (2). Nondimeno, anche se non è all’origine dell’universo, Wotan è all’origine di un nuovo ordine dell’universo. Gli spetta dunque di inaugurare mercè il suo proprio sacrificio su Ygdrasil, l’albero-del-mondo, la “seconda epoca” dell’uomo (l’epoca propriamente storica). Odhinn-Wotan si sacrifica non più, come Purusha, per “suddividersi” e “liberare” così i contrari grazie ai quali l’universo deve acquisire la sua fisionomia, bensì per acquisire il sapere (il “segreto delle rune”) che gli permetterà di organizzare, o più esattamente di riorganizzare, l’universo. A dire il vero, questo “rimaneggiamento” del mito originale non sorprende: la Weltanschauung germanica ha sempre sottolineato e amplificato l’immaginazione storica degli indoeuropei, mettendo l’accento su un divenire ove sia il passato, sia il futuro, sono contenuti nel presente, pur venendone trasfigurati.

Per secoli il mito cosmogonico indoeuropeo non ha cessato di ispirare e di nutrire l’immaginazione degli indiani antichi. Forse la sua ricchezza non appare da nessuna parte, in tutto il suo splendore, meglio che nel magnifico poema di Kalidasa, il Kumarasambhava, in cui Purusha è Brahma, divina personificazione del sacrificio:

«Che tu sia venerato, o dio dalle tre forme

Tu che eri ancora unità assoluta, prima che la creazione fosse compiuta,

Tu che ti dividevi nei tre gunas, da cui hai ricevuto i tuoi tre appellativi.

O mai nato, il tuo seme non fu sterile allorché fu eietto nell’onda acquosa!

Tuo tramite l’universo sorse, che si agita e che è senza vita,

e di cui tu sei festeggiato nel canto come l’origine.

Tu hai dispiegato la tua potenza sotto tre forme.

Tu solo sei il principio della creazione di questo mondo,

ed anche la causa di ciò che esiste ancora e che alla fine crollerà.

Da te, che hai suddiviso il tuo proprio corpo per poter generare,

derivano l’uomo e la donna in quanto parte di te stesso.

Sono chiamati i genitori della creazione, che va moltiplicandosi.

Se, tu che hai separato il giorno e la notte secondo la misura del tuo proprio tempo,

se tu dormi, allora tutti muoiono, ma se vivi, allora tutti sorgono.

[...]

Con te stesso conosci il tuo proprio essere.

Tu ti crei da te stesso, ma anche ti perdi,

con il tuo te stesso conoscente, nel tuo proprio te stesso.

Sei il liquido, sei ciò che è solido, sei il grande e il piccolo,

il leggero e il pesante, il manifesto e l’occulto.

Ti si chiama Prakriti, ma sei conosciuto anche come Purusha

che in verità vede Prakriti, ma da lei non dipende.

Tu sei il padre dei padri, il dio degli dèi. Sei più alto del supremo.

Tu sei l’offerta in sacrificio, ed anche il signore del sacrificio.

Sei il sacrificato, ma anche il sacrificatore.

Tu sei ciò che si deve sapere, il saggio, il pensatore,

ma anche la cosa più alta che sia possibile pensare».

Questo inno di Kalidasa è uno degli apici della “riflessione poetica” indiana sulla tradizione dei Veda. Esplicita a meraviglia tutti i sottintesi del mito cosmogonico indoeuropeo, nello stesso tempo in cui riconduce ad unità le variazioni (successive o meno) del tema originario. L’opposizione di Purusha e Prakriti (che corrisponde, in qualche modo, alla natura naturans) è estremamente rivelatrice, soprattutto se la si mette in parallelo con quella di Purusha e dell’”onda indistinta” rappresentata da Ymir e dall’”abisso spalancato”. E’ per il fatto di «vedere Prakriti senza dipenderne» che l’Uomo cosmico è all’origine dell’universo. Giacché l’universo non è che un caos indistinto, sprovvisto di senso e di significato, da cui solo lo sguardo e la parola dell’uomo fanno sorgere la moltitudine degli esseri e delle cose, ivi compreso l’uomo stesso, alla fine realizzato. Il sacrificio di Purusha, se si preferisce, è il momento apollineo tramite cui si trova affermato il principium individuationis, «causa di ciò che esiste e che ancora esisterà», fino al momento in cui questo mondo «crollerà», ovvero sino al momento dionisiaco di una fine che è anche la condizione di un nuovo inizio.

In una Weltanschauung di questo tipo, gli dèi sono essi stessi un “quartiere” dell’Uomo cosmico. “Uomini superiori” nel senso nietzschano del termine, essi perpetuano in un certo modo il ricordo trasfigurato e trasfigurante dei primi “eroi civilizzatori”, di coloro che trassero l’umanità dal suo stato “precedente” (quello di Ask e di Embla), e fondarono davvero, ordinandola per mezzo delle tre funzioni, la società umana, la società degli uomini indoeuropei. Questi dèi non rappresentano il “Bene”. Non rappresentano neppure il Male. Sono al tempo stesso il Bene e il Male. Ciascuno di loro, di per ciò stesso, presenta un aspetto ambiguo (un aspetto umano), il che spiega perché, mano mano che l’immaginazione mitica ne svilupperà la rappresentazione, la loro personalità tenderà a sdoppiarsi: Mitra-Varuna, Jupiter-Dius Fidius, Odhinn/Wotan-Tyr, etc. In rapporto all’umanità presente, che essi hanno istituito in quanto tale, questi dèi corrispondono effettivamente agli “antenati”. Legislatori, inventori della tradizione sociale, e, in quanto tali, sempre presenti, sempre agenti, restano nondimeno assoggettati in ultima istanza al fatum, votati molto umanamente a una “fine”.

Si tratta, in conclusione, di dèi non creatori, ma creature; dèi umani, e tuttavia ordinatori del mondo e della società degli uomini; dèi ancestrali per l’”attuale” umanità: dèi, infine, “grandi nel bene come nel male” e che si situano essi stessi al di là di tali nozioni.

Ciò che chiamiamo il “popolo indoeuropeo” è in effetti una società risalente agli inizi del neolitico, il cui mito si è precisamente costruito a partire dalla nuova prospettiva inaugurata dalla “rivoluzione neolitica”, per mezzo di una riflessione sulle credenze del periodo precedente, riflessione che è alla fine sfociata in una formulazione rivoluzionaria dei temi della vecchia Weltanschauung.

Se, come pensa Raffaele Pestalozzi, autore di L’omniscience de dieu, la credenza in un “Essere supremo” (da non confondere con il dio unico dei monoteisti!) era propria all’”umanità primitiva”, cioè ai gruppi umani della fine del mesolitico, allora il mito cosmogonico indoeuropeo può effettivamente essere considerato come una formulazione rivoluzionaria in rapporto a tale credenza (o, se si preferisce, come un discorso che fa scoppiare, superandoli, il linguaggio e la “ragione” del periodo precedente). Giunti a questo punto, siamo in diritto di pensare che, per gli antenati “mesolitici” degli indoeuropei, l’”Essere supremo” non era forse che l’uomo stesso, o più esattamente la “proiezione cosmica” dell’uomo in quanto detentore del potere magico. Ugualmente, possiamo constatare al tempo stesso che questa idea di un Essere supremo, propria agli indoeuropei, non è affatto comune a tutti i gruppi umani usciti dal mesolitico, o, almeno, che essa non appare più tale ad altri gruppi di uomini ugualmente condotti dalla rivoluzione neolitica a “riflettere” sulle credenze antiche.

L’Oriente classico, ad esempio, ha “riflesso”, immaginato e interpretato le credenze “mesolitiche” in una direzione diametralmente opposta a quella presa dagli indoeuropei. La Bibbia ebraica, summa della Weltanschauung religiosa levantina, si situa, in effetti, agli antipodi della “visione” indoeuropea. Vi si ritrova purtuttavia, come antico tema offerto alla “riflessione”, l’idea di un Essere supremo confrontato, all’inizio del mondo, ad una «terra deserta e vuota, dalle tenebre plananti sull’abisso» (Genesi, I, 1). Questo “abisso spalancato”, è vero, è immediatamente presentato come risultante da una antecedente creazione di Elohim-Jahvé. Ora, Jahvé non ha tratto l’universo da una suddivisione e “smembramento” di sé. L’ha creato ex nihilo, a partire dal nulla. Non è affatto la coincidentia oppositorum, l’”Uno indiviso”, non è l’Essere e il Non-essere al tempo stesso. E’ l’Essere: «Io sono colui che è». Di conseguenza, e dal momento che l’universo creato non saprebbe essere l’uguale del dio creante, il mondo non ha essenza, ma soltanto un’esistenza, o, più esattamente, una sorta di “essere di grado inferiore”, di imperfezione. Mentre il politeismo degli indoeuropei è il “rovescio” complementare di ciò che si potrebbe chiamare il loro mono-umanismo (equivalente d’altronde a un pan-umanismo), il monoteismo ebraico appare come la conclusione di un processo di riassorbimento, come la riduzione all’unicità di Elohim-Jahvé di una molteplicità di dèi non umani, personificanti forze naturali (3), in breve come lo sbocco di una speculazione che ha anch’essa ricondotto la pluralità delle cose a un principio unico, che in tal caso non è l’uomo ma la materia e l’energia (la “natura”).

Per il fatto di essere un dio unico, non ambiguo, che non è per nulla il luogo in cui si risolvono e coincidono gli “opposti logici”, Jahvé rappresenta evidentemente il Bene assoluto. E’ dunque del tutto normale che si mostri sovente crudele, implacabile o geloso: il Bene assoluto non può non essere intransigente rispetto al Male. Ciò che è molto meno logico, per contro, è la concezione biblica del Male. Non potendo derivare dal Bene assoluto, il Male, in effetti, non dovrebbe esistere in un mondo creato, a partire dal nulla, da un dio “di una bontà infinita”. Ora, il Male esiste: il che pone un problema molto serio. La Bibbia prova a risolvere il problema facendo del Male la conseguenza accidentale della rivolta di certe creature, tra cui in primo luogo Lucifero, contro l’autorità di Jahvé. Il Male appare così come come il rifiuto manifestato da una creatura di giocare il ruolo che Jahvé le ha assegnato. La potenza di questo Male è considerevole (poiché deriva dalla ribellione di una creatura angelica, dunque privilegiata), ma, comparata alla potenza del Bene, ovvero di Jahvé, essa è praticamente pari a nulla. L’esito finale della lotta tra il Bene e il Male non è dunque minimamente in dubbio. Tutti i problemi, tutti i conflitti, sono risolti in anticipo. La storia è puro decadimento, effetto dell’accecamento di creature impotenti.

Così, sin dall’inizio, la storia si trova privata di qualsiasi senso. Il primo uomo (la prima umanità) ha commesso la colpa di cedere ad una suggestione di Satana. Egli ha, di conseguenza, ricusato il ruolo che Jahvé gli aveva assegnato. Ha voluto toccare il pomo proibito ed entrare nella storia.

Creatore dell’universo, Jahvé gioca ugualmente, in rapporto alla società umana “attuale”, un ruolo perfettamente antitetico a quello degli dèi sovrani indoeuropei. Jahvé è non l’”eroe civilizzatore” che inventa una tradizione sociale, ma l’onnipotenza che si oppone alla “colpa” di Adamo, cioè alla vita umana che questi ha voluto gustare, alla civilizzazione urbana, uscita dalla rivoluzione neolitica, a cui rinvia implicitamente il racconto della Genesi. Come sottolinea Paul Chalus in L’homme et la réligion, Jahvé non ha che odio per “coloro che cuociono i mattoni”. Quando li vede costruire Babele e la celebre torre, grida: «Se cominciano a fare ciò, nulla impedirà loro ormai di compiere ciò che avranno in progetto di fare. Andiamo, scendiamo a mettere confusione nel loro linguaggio, di modo che non si comprendano più l’un l’altro» (Genesi, XI, 6-7). Jahvé, aggiunge Paul Chalus, «li disperse da là su tutta la terra, ed essi smisero di costruire città». Ma già ben prima di questo evento Jahvé aveva rifiutato le primizie che gli offriva l’agricoltore Caino, e non aveva “guardato” che la pia offerta d’Abele. Il fatto è che Abele non era un allevatore, ma semplicemente un nomade che aveva abbandonato la caccia per la razzia, che prolungava la tradizione “mesolitica” in seno alla nuova civiltà uscita dalla rivoluzione neolitica, e che ne ricusava il modo di vivere. Ulteriormente, la missione di Abramo, il nomade che aveva disertato la città (Ur), e quella della sua discendenza, sarà di negare e ricusare dal di dentro ogni forma di civiltà “post-neolitica”, la cui esistenza stessa perpetua il ricordo d’una “rivolta” contro Jahvé.

L’uomo, in rapporto al “dio” della Bibbia, non è veramente un “figlio”. Non è che una creatura. Jahvé l’ha fabbricato, così come ogni altro essere vivente, nello stesso modo in cui un vasaio modella un vaso. L’ha fatto “a sua immagine e somiglianza” per farne il suo intendente sulla terra, il guardiano del Paradiso. Adamo, sedotto dal demonio, ha ricusato questo ruolo che il Signore voleva fargli giocare. Ma l’uomo resterà sempre il servo di Dio. «La superiorità dell’uomo sulla bestia è nulla, perché tutto è vanità», nota Paul Chalus. «Tutto va verso un identico luogo: tutto viene dalla polvere, e tutto ritorna alla polvere» (Ecclesiaste).

L’uomo, secondo l’insegnamento della Bibbia, non ha dunque che da rammentarsi perpetuamente che è polvere, che ogni Giobbe merità il destino che gli riserva il capriccio di Jahvé, e che l’esistenza storica non ha senso, se non quello che implicitamente gli si dà rifiutando attivamente di attribuirgliene uno. Con la loro voce terribile, i profeti di Israele ricorderanno sempre agli eletti di Jahvé la necessità imperiosa di questo rifiuto, così come gli eletti riconosceranno sempre, nelle loro disgrazie, la conseguenza e la giusta sanzione di una trasgressione (o di un semplice oblio) del comandamento supremo di Jahvé.

Il cristianesimo “romano”, nato dall’”arrangiamento costantiniano”, corrisponde sin dall’inizio al tentativo di stabilire, in seno al mondo “antico” trasformato da Roma in orbis politica, un compromesso tra le Weltanschauungen indoeuropee e una religione giudaica, che Gesù si sarebbe sforzato di adattare alla civilizzazione imperiale romana (4). Il dio unico è diventato, tramite il gioco di un “mistero” dogmatico, un dio “in tre persone”. Ha “integrato” la vecchia nozione di Trimurti, di “Trinità”, e le sue “persone” hanno grosso modo assunto le tre funzioni delle società indoeuropee, sotto una forma d’altronde “invertita” e spiritualizzata. Pur essendo creatore e sovrano, Jahvé continua nondimeno a ricusare il doppio aspetto: il Male è provincia esclusiva di Satana. Al vecchio nome che gli dà la Bibbia si è sostituito il nuovo nome di “deus pater“, il «padre eterno e divino» riverito dagli indoeuropei. Ma Jahvé non è davvero padre che della sua “seconda persona”, di questo figlio che ha inviato sulla terra per svolgervi un ruolo opposto a quello dell’”eroe fondatore”; di questo figlio che si è alienato a questo mondo per meglio rinviare all’oltremondo, e che, se rende a Cesare ciò che è di Cesare, non lo fa che perché ai suoi occhi ciò che appartiene a Cesare non riveste alcun valore; di questo figlio, infine, la cui funzione non è più di “fare la guerra”, ma di predicare una pace gelosa, di cui soli potranno beneficiare gli uomini “di buona volontà”, gli avversari di questo mondo, coloro a cui è riservato il solo nutrimento d’eternità che vi sia, la grazia amministrata dalla terza “persona”, lo Spirito Santo.

L’uomo, creatura e prodotto fabbricato, è il servo dei servi di Dio, «escremento» (stercus), come dirà così bene Agostino. Tuttavia, nello stesso tempo, è ora anche il fratello del figlio incarnato di Jahvé, il che fa di lui un “quasi-figlio” di Dio, a condizione che sappia volerlo e meritarlo, tutte cose che dipendono dalla grazia che amministra il creatore secondo criteri insondabili. Il giorno verrà dunque in cui l’umanità si dividerà definitivamente (per l’eternità) in santi e dannati. Giacché vi è ben un Valhalla biblico, il Paradiso celeste, ma è ormai riservato agli anti-eroi. L’Inferno, quando ad esso, appartiene agli altri.

Questo compromesso ha modellato per secoli la storia di ciò che viene chiamata la “civilizzazione occidentale”. Per secoli, secondo le loro affinità profonde, l’uomo “pagano” e l’uomo “levantino” hanno ciascuno potuto vedere nel dio “uno e trino” la loro propria divinità. Ciò spiega idee e confusioni ben numerose: a cominciare dall’assimilazione di Gesù, Sigfrido e Barbarossa da parte di un Wagner, o il “dio bianco delle cattedrali” caro a Drieu La Rochelle, e, d’altra parte, il Gesù di Ignazio di Loyola, il dio del prete-operaio e Jesus Christ Superstar.

Constatiamo oggi, e in modo certo, che l’”arrangiamento” costantiniano alla fine non arrangiò proprio nulla, e che la giornata dell’«In hoc signo vinces» fu un imbroglio, le cui conseguenze si esercitarono a detrimento del mondo greco-romano-germanico. Sino ad una data relativamente recente, la Chiesa di Roma e le chiese cristiane sono restate, in quanto potenze secolari organizzate, attaccate a tutte le apparenze del vecchio compromesso. Ma da tempo ormai hanno cominciato a riconoscere l’autentica essenza del cristianesimo. Ed ecco che l’irrappresentabile Jahvé, sbarazzato dalla maschera del Dio-Padre luminoso e celeste, è ritrovato e proclamato. Ben prima che le chiese ci arrivassero, tuttavia, il “cristianesimo profano” (demitizzato e secolarizzato), ovvero l’egualitarismo in tutte le sue forme, aveva a modo suo ritrovato la verità secondo la Bibbia. Il “rifiuto della storia”, la volontà proclamata di “uscire dalla storia” (per ritornarne alla natura), la tendenza riduzionista mirante a “riassorbire l’umano nel fisico-chimico”, tutti i materialismi deterministi, la condanna marcusiana di un’arte che tradirebbe la “verità” integrando l’uomo alla società, l’ideologia egualitaria infine che intende ridurre l’umanità al modello dell’anti-eroe, al modello dell’eletto ostile ad ogni civiltà concreta perché non vi vuole vedere che infelicità, miseria, sfruttamento (Marx); repressione (Freud); o inquinamento: tutto ciò non ha cessato di restituire ai nostri occhi, e continua ancora a restituire – nel momento stesso in cui una nuova rivoluzione tecnica invita a superare le “forme” che aveva imposto la rivoluzione precedente – l’immobile visione jahvaitica, visione “eterna” se mai ve ne furono, poiché se limita ad una negazione senza cessa ripetuta di ogni presente carico d’avvenire.

Il “Sì” da parte sua non può essere “eterno”. Essendo un “Sì” al divenire, diviene esso stesso. Nella storia che non cessa di ri-proporsi, per mezzo di nuove fondazioni, questo “Sì” deve a se stesso il fatto di assumere sempre una forma e un contenuto parimenti nuovi. Il “Sì” è creazione, opera d’arte. Il “No” non esiste che negando un valore a tale opera. In un mondo in cui il clamore di voci divenute innumerevoli tende a persuaderci del contrario il mito cosmogonico indoeuropeo ci ricorda che il “Sì” resta sempre possibile: che un nuovo Ymir-Purusha-Janus può ancora risvegliarsi dall’”onda indistinta” in cui giace addormentato; che appena ieri, forse, si è già risvegliato, si è già sacrificato a se stesso, che ha già dato vita a Bur e Bestla, e che presto dei nuovi Asi, dèi luminosi, verranno a loro volta alla vita e intraprenderanno allora, in un mondo differente, sorto dalle rovine caotiche del vecchio, la loro eterna missione di “eroi civilizzatori”, assumendo così, serenamente, lo splendido e tragico destino dell’uomo che crea se stesso, e che avendo dato nascita a se stesso accetta anche, nell’idea della propria fine, la condizione di ogni avventura storica, di ogni vita.

Note

(1) Di Purusha, corrispondente indoario di Ymir, il Rig-Veda del resto dice espressamente che ha «mille teste e mille occhi», cosa che mostra bene che all’origine l’Uomo cosmico era dotato di onniveggenza. Secondo Pestalozzi, l’onniveggenza era precisamente uno degli attributi dell’”Essere supremo” primitivo.

(2) Questo ruolo, come abbiamo visto, si trova parzialmente proiettato nel personaggio di Heimdal.

(3) Jahvé confessa d’altronde di essere «geloso» degli altri dèi. Il termne stesso di Elohim non è forse plurale (plurale storico, e non di maestà)?

(4) Non è evidentemente il caso qui di entrare nei dettagli di tale complessa questione, cui si accenna pertanto unicamente a grandi linee.


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mercredi, 05 mai 2010

L'ombre de la CIA sur Kiev

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SYNERGIES EUROPEENNES – BRUXELLES / ROME – décembre 2004

 

 

L’ombre de la CIA sur Kiev

 

Les Fondations Soros et Ford, la Freedom House et la CIA financent les “révolutions démocratiques” dans le monde

 

Le sort de la “révolution orange” en Ukraine, Monsieur James Woolsey y tient. Il ne peut en être autrement, puisqu’il est le directeur de la “Freedom House”, une organisation non gouvernementale américaine qui possède des sièges à Washington, New York, Budapest, Bucarest, Belgrade, Kiev et Varsovie. Elle se définit comme “une voix claire et forte qui veut la démocratie et la liberté pour le monde” et qui s’active “pour promouvoir les valeurs démocratiques et pour s’opposer aux dictatures”. Ce Monsieur James Woolsey dirige une brochette de politiciens, d’universitaires, d’industriels et d’intellectuels “transversaux”. Ce Monsieur James Woolsey a été, il y a quelques années, en 1995, le directeur de la CIA avant de s’occuper à “exporter la démocratie et la liberté dans le monde”. Grâce aux efforts d’innombrables activistes, issus de la “Freedom House”, et grâce à l’assistance économique, si charitable, d’autres organismes, comme ceux, bien connus, que sont les Fondations Soros et Ford, ce Monsieur James Woolsey  —dont les “honnêtes activités” s’étendent maintenant sur plus de soixante années—  peut désormais concentrer ses efforts dans “la lutte pour la liberté”, dans des pays meurtris et abrutis par une quelconque mélasse dictatoriale. Le palmarès de Woolsey et de ses amis est impressionnant : ils ont soutenu le “Plan Marshall” en Europe, favorisé la création de l’OTAN dans les années 40 et 50, multiplié leurs activités au Vietnam  pendant et après la guerre menée par ce peuple contre les Américains; ils ont financé Solidarnosc en Pologne et l’opposition “démocratique” aux Philippines dans les années 80.

 

Ce sont là les activités les plus médiatisées de cette “bonne” ONG et c’est sans compter les actions de “vigoureuse opposition aux dictatures” en Amérique centrale, au Chili, en Afrique du Sud ou durant le “Printemps de Prague”. Elle a aussi favorisé l’opposition à la présence soviétique en Afghanistan. Elle a excité les conflits inter-ethniques en Bosnie et au Rwanda. Elle s’est opposée à la “violation des droits de l’homme” à Cuba, au Myanmar, en Chine et en Irak. Elle s’est ensuite montrée hyper-active dans l’exportation de la “démocratie et de la liberté” dans les républiques de l’ex-URSS et dans l’ex-Yougoslavie post-titiste. C’est précisément dans cette ex-Yougoslavie, où le “mal” était personnifié par le Président Slobodan Milosevic, que notre ONG a peaufiné ses stratégies d’intervention, afin de les exporter ensuite en d’autres contrées, où le contexte est plus ou moins analogue. Notre bon Monsieur Woolsey a donc accueilli au sein de son organisation Stanko Lazendic et Aleksandar Maric, deux activistes serbes, peu connus de nos médias, mais qui ont joué un rôle-clef dans la chute de Milosevic. Ces deux personnages figurent parmi les fondateurs du mouvement étudiant “Optor” (= “Résistance”), aujourd’hui dissous, mais absorbé par le “Centre pour la révolution non violente” de Belgrade. Peu de temps avant la chute de Milosevic, le 5 octobre 2000, les militants d’Optor ont été invités en Hongrie, dans les salons de l’Hôtel Hilton de Budapest, où un certain Monsieur Robert Helvy leur a prodigué des cours intensifs sur les méthodes du combat non violent. Ce Monsieur Robert Helvy est un colonel à la retraite de l’armée américaine, vétéran du Vietnam. Robert Helvy a admis, face à la presse étrangère, avoir été, en son temps, engagé par l’Institut International Républicain, l’IRI, basé à Washington, afin de former les jeunes cadres militants d’Optor. Stanko Lazendic a révélé que le colonel était présent lors des séminaires : “Mais quand nous sommes allés là-bas, jamais nous n’avions pensé qu’il pouvait travailler pour la CIA. Ce qu’il a enseigné, nous l’avons appris d’autres personnes”.

 

Aujourd’hui, les méthodes qui ont été enseignées au tandem “Lazendic & Maric” pour le compte de la “Freedom House” sont en train d’être appliquées en Ukraine. Elles consistent à “exporter le Verbe démocratique” de maison en maison, d’université en université, de place publique en place publique. Un travail analogue s’effectue en Biélorussie, mais, dans ce pays, la mayonnaise ne semble pas prendre. En Ukraine, en revanche, les deux Serbes sont particulièrement actifs dans la formation et l’encadrement des militants et des cadres du mouvement “Pora” (= “C’est l’heure”), qui est inféodé à Iouchtchenko et a reçu la bénédiction de Madeleine Albright et de Richard Holbrooke, les deux stratèges de l’exportation de la “démocratie atlantiste”. La CIA, entre-temps, aide la “révolution orange” en marche depuis 2002 déjà, dès qu’elle a libéré 50.000 dollars pour créer la plate-forme internet de l’ONG qui s’oppose au duumvirat Kouchma-Yanoukovitch. Ensuite, elle a libéré 150.000 dollars pour créer un groupe de pression à l’intérieur du Parlement. Et encore 400.000 autres dollars pour former des candidats aux élections locales et des cadres syndicaux. Cette stratégie ressemble très fort à celle qui vient d’être appliquée en Géorgie, lors de la “révolution des roses”, où Washington à soutenu Saakashvili. Maric est arrivé mardi 30 novembre à l’aéroport de Kiev, sans donner d’explication quant à sa présence dans la capitale ukrainienne. Lazendic vient de confirmer, dans un interview, “que son compagnon n’avait pas été autorisé à entrer sur le territoire ukrainien”, “tant que ses papiers ne seraient pas tous en ordre”. La carrière ukrainienne de ce Monsieur Maric a donc été interrompue, en dépit de sa grande expérience de commis voyageur à la solde de Washington en Géorgie et en Biélorussie. Lazendic, lui, se vante d’avoir “fait des séjours démocratiques” en Bosnie et en Ukraine. Le mouvement “Pora”, “actif dans la diffusion des valeurs démocratiques et dans l’opposition aux dictatures”, est désormais privé des lumières du sieur Maric. Mais que l’on soit sans crainte, les “démocrates” peuvent toujours envoyer leur contribution financière au “mouvement orange”, via un compte de la “JP Morgan Bank” de Brooklyn, New York.

 

Siro ASINELLI,

Article paru dans “Rinascita”, Rome, 2 décembre 2004.

mardi, 04 mai 2010

L'Afrique du Sud, entre Noirs et Blancs

L'Afrique du Sud, entre Noirs et Blancs

La Nouvelle Revue d'Histoire est en kiosque (n°48, mai-juin 2010). Le dossier central revient sur l'histoire de l'Afrique du Sud, avec notamment plusieurs articles de Bernard Lugan, africaniste réputé. Un dossier qui permettra à ses lecteurs de ne pas gober passivement les âneries politiquement correctes que les journalistes chargés de couvrir ce pays à l'occasion de la Coupe du monde de football ne vont pas tarder à déverser à hautes doses sur les différentes antennes de radio et de télévision. On trouvera aussi deux entretiens, l'un avec Régis Boyer, le spécialiste des Vikings, et l'autre avec Aymeric Chauprade à propos de Realpolitik, son site d'analyse géopolitique. A noter, aussi, un hommage à Jean-Claude Valla.

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Une leçon d'histoire pour les donneurs de leçons de morale

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Une leçon d’histoire pour les donneurs de leçons de morale

 

uncle-samxxxx.jpgDepuis plus d’un siècle les Etats-Unis se sont arrogé le monopole de la vertu politique internationale, s’octroyant ainsi le privilège de mener leurs guerres impériales sous le couvert de la morale. Un dossier paru, ce mois de novembre 99, dans la revue Historia (n° 635 bis) consacré aux grandes manipulations de l’histoire, vient à propos rappeler que les Etats-Unis n’ont jamais cessé d’agir avec le plus parfait cynisme et la plus constante brutalité pour asseoir leur hégémonie mondiale. Leur domination est le fruit d’une technique éprouvée. Cette technique, assez grossière, n’en est pas moins d’une redoutable efficacité. Elle se décline en quatre temps :

 

Le premier temps est celui où l’ennemi à abattre est choisi en fonction des priorités d’expansion économique du moment.

Le second temps est celui où l’ennemi est diabolisé aux yeux de l’opinion publique.

Le troisième temps vise à créer les conditions qui acculeront l’ennemi à la faute, si possible à l’agression directe contre les Etats-Unis ou l’un de ses alliés. Dans l’hypothèse où cette agression ne se produirait pas, une opération de désinformation est systématiquement organisée pour faire croire à cette agression.

Le quatrième temps est celui de la guerre totale. L’ennemi doit non seulement être détruit mais ses dirigeants remplacés par des hommes de paille.

 

Le scénario est exposé. Il convient, maintenant, de le vérifier à l’aune de la politique de conquête poursuivie par les Etats-Unis depuis la guerre de Sécession. On peut, en effet, affirmer que c’est à partir de l’expérience acquise lors de ce conflit que (1861-1865) l’élite du Nord des Etats-Unis a mis en place la machinerie idéologique et militaire qui allait lui assurer l’accès à la suprématie planétaire.

 

En 1861, l’Union américaine était divisée en deux zones – pour schématiser le Nord et le Sud – aux intérêts antagonistes. Le Nord était industriel et le Sud agricole. Dans les Etats du Nord, l’esclavage (*) avait été aboli, non par générosité d’âme, mais pour créer une main d’œuvre mobile, disponible, servile, et à bon marché. Le Nord était protectionniste, tourné vers son marché intérieur et animé par l’égalitarisme distillé par les loges maçonniques. Le Sud était quant à lui libre-échangiste, orienté vers l’Europe – c’était là sans doute sa plus grave faute – mû par un esprit de tradition. La confrontation était inévitable. Les élites du Nord étaient toutefois bridées dans leur volonté de domination du Sud, par le droit de sécession que prévoyait la constitution fédérale. La guerre ne pouvant se faire au nom du droit se ferait donc au nom de la morale. Les manœuvres contre le Sud commencèrent dès 1832. Cette année là, le Congrès fédéral (dominé par le Nord) imposa unilatéralement à la Caroline du Sud un nouveau tarif douanier, qui menaçait tous les équilibres fondamentaux de son économie.

 

(*) L’auteur tient à signaler que ce développement a pour seul but d’éclairer le lecteur sur la politique impériale américaine. Il n’est ni d’une manière directe, indirecte, inconsciente ou subluminale, une apologie de l’esclavage, ce qui est cohérent avec sa position de refus de l’asservissement des peuples, européens en particulier, aux idées reçues et son refus de toute forme d’avilissement.

 

La Case de l’Oncle Tom : instrument de propagande

 

Cet Etat tenta de s’opposer au tarif douanier en question, mais dut finalement se soumettre devant la menace d’une intervention armée des troupes fédérales, brandie par le président Jackson. Le galop d’essai était un succès. Le scénario de la provocation/répression/soumission était rodé. Mais il fallait encore préparer les consciences à la guerre civile. Tel fut le rôle « confié » à certains intellectuels, dont Harriet Beetcher-Stowe faisait partie. Son ouvrage La case de l’oncle Tom (1852), fut l’un des premiers ouvrages de propagande de l’ère moderne et produisit l’émotion voulue. Dans les années suivantes, le parti Républicain (créé en 1854) sous l’influence du lobby industriel, fit du thème de l’abolition de l’esclavage son unique discours politique. Celui-ci était ostensiblement orienté contre les Etats du Sud. En novembre 1860, l’élection du candidat républicain Abraham Lincoln fut donc vécue par les Etats du Sud comme une véritable déclaration de guerre. En effet, ce président très minoritaire, élu avec seulement avec 39,8% des voix, n’avait pas l’intention d’abandonner son programme qui condamnait dans la pratique toute la structure politique, économique, culturelle et sociale des Etats du Sud. Face à ce péril, la Caroline du Sud, le Mississippi, la Floride, le Texas, La Géorgie, le Texas, la Louisiane, se retirèrent – conformément à leur droit – de l’Union et formèrent le 8 février 1861 un nouvel Etat baptisé « Les Etats confédérés d’Amérique ». Cet Etat voulut naturellement exercer sa sou­veraineté sur un certain nombre de places fortes fédérales situées sur son territoire : Sumter à Charleston (Ca­roline du Sud) et Pickens  à Pensacola (Floride), ce à quoi leurs commandants fédéraux s’opposèrent. De­vant ce refus, les troupes confédérales organisèrent leur siège. C’est alors que Lincoln saisit l’opportunité po­li­tique et stratégique que son parti avait réussi à créer et se décida à engager la guerre civile, fort de sa posture d’agressé. La suite est connue. La leçon tirée du conflit par les dirigeants du Nord fut inestimable : les foules ai­maient être ébahies par la propagande humanitaire et le sentiment du bon droit (*). Elles allaient être servies.

 

1898 : Ecraser l’Espagne !

 

A la fin du siècle dernier, les Etats-Unis se donnèrent de nouveaux objectifs impériaux : le contrôle exclusif de l’accès à l’Amérique du Sud, et la percée dans le Pacifique. Une puissance s’opposait à ce dessein : l’Espagne. Cependant, l’éloignement et l’expérience diplomatique du nouvel ennemi rendaient les tentatives de manipulation difficiles. Pour pallier l’absence d’agression espagnole, les Etats-Unis allaient exploiter l’ex­plo­sion accidentelle du cuirassier Maine (1898) au large de Cuba, et faire croire, à leur opinion publique, qu’il s’agissait d’une attaque surprise de l’Armada espagnole. Sur la base de ce motif, inventé de toutes pièces, les hostilités furent ouvertes. Après de courtes batailles navales, les Etats-Unis remportèrent une victoire totale et acquirent, en retour, la mainmise sur Porto Rico, Cuba, les Philippines et l’île de Guam. Tout cela n’était pas très moral, mais les formes (mensongères) y étaient.

 

(*) A ceux qui douteraient que la propagande abolitionniste du Nord n’était que poudre aux yeux,  il est rappelé les faits suivants : presque tous les noirs libérés de l’esclavage se retrouvèrent aux lendemains  de la guerre dans une situation de misère insoutenable. L’économie ruinée du Sud ne pouvant plus leur fournir d’emplois, ils émigrèrent vers le nord où ils furent employés à vil prix et dans des conditions souvent plus déplorables que leur ancien esclavage. Bien que libérés, ils durent attendre un siècle pour obtenir leurs droits politiques. Quant aux Indiens, les seuls véritables américains, ils durent attendre 1918 pour recevoir... la nationalité américaine.

 

La seconde guerre mondiale allait donner l’occasion aux Etats-Unis de décliner le scénario décrit plus haut sur une  grande échelle. L’ennemi cette fois était le Japon qui menaçait les fruits de la victoire sur l’Espagne (Philippines et Guam) et qui était en passe de devenir une superpuissance mondiale par son industrie et ses conquêtes asiatiques. A partir de ce moment, le conflit était inéluctable. Il débute le 28 juillet 1941, par la décision de Roosevelt de geler les avoirs du Japon aux Etats-Unis et d’étendre l’embargo aux livraisons du pétrole à destination du Japon. Cette décision accule les Japonais à l’intervention militaire. Mais cette intervention militaire est diligentée par les services secrets américains, dont on a aujourd’hui (cf. dossier du magazine Historia) la certitude qu’ils en suivaient pas à pas les préparatifs. Ainsi, l’intervention japonaise sur Pearl Harbor était non seulement connue dans ses détails mais désirée pour créer l’électrochoc qui permettrait de mobiliser tout un peuple dans une guerre totale contre un autre, déclaré perfide et immoral, bon à réduire en poussières atomisées.

 

La seconde guerre mondiale à peine achevée les Etats-Unis se donnent un nouvel objectif stratégique : évincer les Européens de l’Ouest – ceux de l’Est ont été donnés par Roosevelt en pâture à Staline - de leurs colonies pour s’emparer de leurs ressources. Dans cette logique, les Etats-Unis arment le Viêt-cong et le F.L.N. en Algérie contre les Français Au Viêt-nam, leur objectif est atteint, mais le résultat de leur action est mitigé par l’existence d’un Etat communiste hostile au nord. L’opinion publique américaine est selon sa tradition hostile à une intervention sans motif. Qu’à cela ne tienne l’administration de Lyndon Johnson va, en 1963, lui en tailler un sur mesure en accusant la marine Nord Vietnamienne d’avoir attaqué leur destroyer l’USS Maddox dans le golfe du Tonkin. Ce qui était là aussi un pur mensonge, mais un mensonge suffisant pour justifier une intervention directe.

 

La démonisation de Noriega 

 

La défaite contre les Vietnamiens allait refroidir quelque temps l’expansionnisme américain. Il n’allait, toutefois, pas tarder à se réchauffer et à employer les bonnes vieilles recettes du succès. D’abord contre le Panama, où la venue au pouvoir d’un certain Général Noriega (face d’Ananas selon l’expression américaine) avait tout pour déplaire à Washington. L’homme s’opposait à la fois au FMI, critiquait l’action de la CIA aux côtés des Contras au Nicaragua, et menaçait de réviser les clauses du traité régissant les droits octroyés aux Etats-Unis sur le Canal de Panama. La réaction américaine fut foudroyante. Une campagne de presse fut savamment organisée dans laquelle Noriega était présenté à la fois comme le grand organisateur du trafic mondial de la drogue, un être satanique, et l’adorateur d’Adolf Hitler. L’opinion publique américaine soigneusement mijotée, Georges Bush put sans résistance interne lancer, le 20 décembre 1989, son opération militaire contre Panama, dénommée « Juste cause » - tout un programme. Cette intervention effectuée en violation totale du droit international, ne suscita que quelques rodomontades diplomatiques sans conséquence sur l’influence américaine dans la zone. En 1991, l’ennemi suivant était l’Irak, une proie pétrolifère de choix. Cette fois la recette fut cuisinée avec un degré de raffinement jamais atteint. D’un côté les autorités américaines pressaient les Koweïtiens de mettre le couteau sur la gorge des Irakiens en les incitant à leur refuser l’aménagement de la dette contractée à leur égard, de l’autre ils faisaient savoir à Saddam Hussein, par la voix de leur ambassadrice à Bagdad, que dans l’éventualité où l’Irak attaquerait le Koweït ils observeraient une bienveillante neutralité.

 

L’Europe, rivale éternelle…

 

Le piège était tendu il allait fonctionner à merveille. La préparation concoctée par les services secrets était si subtile que pour la première fois la potion morale américaine allait se marier au droit international Les dupes européennes qui suivirent l’empire sans barguigner en furent pour leurs frais. La potion était plus amère que le fumet de pétrole qui s’en échappait. Malgré leur aide inconditionnelle et benoîte, les puissances européennes perdaient pied dans la région et dans le même temps la sécurité de leurs approvisionnements en hydrocarbures. On aurait pu penser que la tempête du désert une fois passée, les élites qui nous gouvernent auraient recouvré un peu d’esprit critique. Que nenni ! Inlassablement elles demandent à être resservie du même brouet infâme, aussi furent-elles comblées avec le Kosovo, où la CIA grande manipulatrice de l’UCK parvint à pousser Milosevic à la faute qui justifierait sa nouvelle campagne morale contre le droit. Quel était l’objectif stratégique de cette guerre ? Mais voyons toujours le même : l’Europe, le rival éternel, la civilisation à abattre.

 

J’allais oublier un détail : la recette impériale américaine ne produit tous ses effets qu’avec le bombardement des populations civiles : celles de Tokyo, de Hiroshima, de Nagasaki, de Dresde, de Hanoi, de Hué, de Phnom Penh, Panama, de Bagdad et de Belgrade. Juste quelques petits millions de morts et de carbonisés. Pas de quoi émouvoir, une conscience humanitaire bien trempée.

(© Charles Magne – Novembre 99).

samedi, 01 mai 2010

19ème siècle: les guerres américaines contre le Mexique et contre l'Espagne

Mansur KHAN :

19ème siècle : les guerres américaines contre le Mexique et contre l’Espagne

 

Mapa_Mexico_1845.pngLorsque le Texas s’est séparé du Mexique en 1819, les Etats-Unis ont immédiatement revendiqué ce territoire immense. Dans le cas précis du Texas, Washington eut recours à la tactique de l’infiltration. En fin de compte, le Mexique interdit en 1830 l’installation de colons américains au Texas, qui n’avait jamais cessé de se développer (1). En 1835, les colons américains du Texas se rebellent contre l’autorité mexicaine (2) et des unités de milice américaines s’emparent des bâtiments de la garnison mexicaine près d’Anahuac et provoquent d’autres conflits. « Pendant l’été 1836, des troupes américaines occupent Nacogdoches au Texas » (3). Le Mexique proteste et menace de faire la guerre au cas où les Etats-Unis annexeraient la région (4). Pendant de longues années, une suite ininterrompue de provocations de la part des Etats-Unis conduisirent à la fameuse bataille de Fort Alamo. Quand, en 1845, l’annexion du Texas à l’Union paraissait imminente, le Mexique s’est déclaré prêt à reconnaître l’existence de la République du Texas, à condition que les Etats-Unis ne l’annexent pas (5). La colonisation du pays par des immigrants américains s’est toutefois poursuivie.

 

La guerre contre le Mexique (1846-1848)

 

Pour provoquer la guerre, « les Texans ont réclamé, pour leur nouvel Etat, des frontières qui, au regard de l’histoire, étaient totalement injustifiables » (6). Le nouveau tracé des frontières, qu’ils envisageaient, incluait des territoires fertiles et riche en minerais d’or et d’argent (7). Pour provoquer le déclenchement des hostilités, le Président américain Polk donna l’ordre au Général Zachary Taylor d’avancer plus loin vers le Sud. En mars 1846, il se trouvait à proximité de Corpus Christi sur le sol texan, c’est-à-dire sur le territoire mexicain. Polk réclamait expressément, lors de sa campagne électorale, l’annexion du Texas et l’occupation de toute la région de l’Oregon. L’idée de mener une telle guerre n’était guère populaire dans les Etats de l’Union : ce fut la raison qui poussa Polk à mener une campagne de diffamation contre le Mexique (8).

 

Le 25 avril, les premières escarmouches ont lieu, lorsque les soldats de Taylor essuient le feu de militaires mexicains (9). Enfin, Washington pouvait affirmer que les Mexicains avaient tiré les premiers coupes de fusil, alors qu’en réalité, ils n’avaient fait que se défendre, puisque les soldats américains se trouvaient sur le territoire du Mexique. Polk déclare la guerre au Mexique en 1846, en sachant très bien quelle allait en être l’issue (10). Le Général américain Ulysses Grant écrivit plus tard ces quelques lignes sur la provocation américaine : « La présence de troupes américaines aux confins du territoire contesté, loin de toute région peuplée de Mexicains, ne suffisait pas à déclencher des hostilités. Nous fûmes envoyés en avant, afin de provoquer un combat, mais il était important que les Mexicains tirassent les premiers. On peut douter du fait que le Congrès aurait déclaré la guerre. Mais si le Mexique attaquait nos troupes, l’Exécutif seul pouvait déclarer la guerre » (11).

 

Polk justifia l’envoi de troupes américaines comme une mesure défensive nécessaire. L’auteur américain John Schroeder défend un point de vue tout à fait différent dans son livre Mr. Polk’s War. Schroeder écrit : « En réalité ce fut le contraire : le Président Polk avait tout fait pour provoquer la guerre, en envoyant des soldats américains dans une région contestée qui, historiquement parlant, avait toujours été peuplée et administrée par des Mexicains » (12). A la suite de la guerre contre le Mexique, les Etats-Unis annexèrent d’un coup un territoire aux dimensions énormes, correspondant aux Etats actuels de l’Union que sont le Texas, l’Arizona, la Californie, le Nevada, l’Utah et de vastes portions du Nouveau Mexique, du Kansas, du Colorado et du Wyoming, soit un territoire cinq fois aussi grand que l’actuelle République Fédérale d’Allemagne. Par cette conquête injustifiable, les Etats-Unis ont augmenté leur territoire de 40%, tandis que le Mexique perdait la moitié de son territoire national (13).

 

Mais les Etats-Unis ne se sont pas contentés de ce gigantesque accroissement territorial. Entre 1861 et 1865, la guerre civile fit rage aux Etats-Unis ; elle exigea un lourd tribut de 600.000 vies humaines et provoqua d’effroyables destructions, surtout dans les Etats du Sud. Cependant, l’industrie de l’armement profita considérablement de ces quatre années d’effusion de sang.

 

La guerre hispano-américaine de 1898

 

Cuba était au 19ème siècle la principale colonie de plantations de l’Espagne. Le commerce américain avec Cuba générait 50 millions de dollars et l’élite au pouvoir à Washington s’était depuis un certain temps déjà intéressée à ce marché. Pour pouvoir prendre Cuba, le gouvernement américain commença par déclencher une guerre commerciale. De 1893 à 1898, les Etats-Unis ont connu une récession. Il fallait absolument trouver des débouchés nouveaux pour le surplus de produits américains. La guerre contre Cuba, dont le dessein était de s’emparer de l’île, avait été concoctée depuis longtemps mais la colonie espagnole ne céda à aucune provocation. Lorsque les propriétaires de journaux Pulitzer et Hearst apprirent de leur correspondant en place à Cuba que tout y était calme, Pulitzer voulut immédiatement rappeler son homme. Hearst lui envoya tout de suite un télégramme en guise de réponse, qui en dit long : « Restez, je vous prie. Livrez matériel imagé. Je fournirai la guerre » (14).

 

Cuba1898.jpgHearst concrétisa rapidement sa promesse et le gouvernement de Washington put se réjouir d’un événement « formidable » : le 15 février 1898, le navire de guerre américain « Maine » explose dans le port de La Havane. Immédiatement, le gouvernement américain affirme que les Espagnols sont responsables de cette explosion. L’auteur américain Eustace Mullins a affirmé ultérieurement que ce sont au contraire les Américains qui ont provoqué l’explosion et a avancé des preuves tangibles pour étayer le soupçon ; ce serait la « National City Bank » de New York qui aurait fait sauter le navire pour s’emparer de l’industrie cubaine du sucre, ce qui fut effectivement acquis après la guerre. Lorsque les Espagnols ont réclamé la constitution d’une commission d’expertise indépendante pour enquêter sur l’explosion, Washington eut un comportement étrange : le « Maine » et tout ce qu’il contenait et pouvait apporter des preuves fut coulé en un tournemain.

 

L’Espagne fit tout pour éviter une guerre avec les Etats-Unis. Ceux-ci ont joué alors sur deux tableaux : d’une part, le gouvernement américain annonça sa volonté de faire la paix. Le Général Woodford câbla depuis Madrid qu’il pourrait encore, avant le 1 août 1898, « obtenir de l’Espagne l’indépendance de Cuba voire son annexion aux Etats-Unis ». Mais le Président McKinley craignait par dessus tout de prendre Cuba sans guerre et déclara la guerre, un jour après avoir reçu le télégramme de Woodford. Ce fut « une formidable petite guerre », selon le ministre américain des affaires étrangères Hays. Les troupes américaines ne se bornèrent pas à occuper Cuba mais débarquèrent également aux Philippines, occupèrent Puerto Rico et Manille. La guerre des Philippines fut menée avec une brutalité inouïe. Mais sur ce théâtre-là aussi les motifs d’ordre économique ont donné le ton. En une nuit, les Etats-Unis étaient devenus une puissance coloniale (15).

 

Mansur KHAN.

 

Notes :

(1) Carl N. DEGLER, Out of Our Past – The Forces that shaped Modern America, New York, 1984, pp. 6 et ss.

(2) Richard Bruce WINDERS, Mr. Polk’s Army – The American Military Experience in the Mexican War, Texas A & M University Press, Texas, 1997, p. 6 ; Carl N. DEGLER, op. cit., p. 117.

(3) Jerald A. COMBS, The History of American Foreign Policy, New York, 1986, p. 78 ; Richard Bruce WINDERS, op. cit., pp. 6 et ss., cité d’après Mansur KHAN, Die geheime Geschichte der amerikanischen Kriege. Verschwörung und Krieg in der US-Aussenpolitik, Grabert, Tübingen, 2003 (3ième éd.), pp. 40 et ss.

(4) Friedrich HERTNECK, Kampf um Texas, Goldmann, Leipzig, 1941, p. 237.

(5) Carl N. DEGLER, Out of Our Past, op. cit., pp. 117 et ss.

(6) Friedrich HERTNECK, Kampf um Texas, op. cit., pp. 233 et ss.

(7) Helmut GORDON, Zions Griff zur Weltherrschaft – Amerikas unbekannte Aussenpolitik 1789-1975, Druffel, Leoni am Starnberger See, 1985, pp. 55 et 68.

(8) Karlheinz DESCHNER, Der Moloch – Eine kritische Geschichte der USA, Heyne, München, 1994, p. 243.

(9) Howard ZINN, A People’s History of the United States, 1492-Present, Harper Perennial, New York, 1995, pp. 147 et ss.

(10)                    Karlheinz DESCHNER, Der Moloch…, op. cit., pp. 100 et 102.

(11)                     Jack ANDERSON / George CLIFFORD, The Anderson Papers, Ballantine Books, New York, 1974, p. 256.

(12)                    Howard ZINN, A People’s History…., op. cit., pp. 149 et ss.

(13)                    Noam CHOMSKY / Joel BEININ, Die Neue Weltordnung und der Golfkrieg, Trotzdem, Grafenau, 1992, pp. 46 et ss.

(14)                    Mansur KHAN, Die geheime Geschichte…, op. cit., pp. 90-93.

(15)                    Mansur KHAN, Ibid., pp. 94-105.

Edmund Burke et la Révolution française

edmund-burke.jpgArchives de SYNERGIES EUROPÉENNES - 1988

 

Edmond Burke et la Révolution Française

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Les Réflexions sur la Révolution en France,  publiées à Londres le 1er novembre 1790 par Edmund Burke, célèbre parlementaire irlandais, n'ont cessé depuis lors d'irriter la longue suite de nos dirigeants politiques épris de niaiseries démagogiques et accoutumés à endormir l'opinion de mascarades égalitaires dans l'imposture généralisée des "Droits de l'homme et du citoyen".

 

A la veille du Bicentenaire dont les fastes dispendieux et grotesques vont encore ajouter au trou sans fond de la Sécurité Sociale et crever un peu plus la misérable vache à lait électorale saignée à blanc par les criminels irresponsables qui, au nom de l'Etat et pour le bonheur du peuple, osent encore exhiber le bonnet phrygien et se réclamer de la "Carmagnole", la lecture de Burke, telle une cure d'altitude, est un merveilleux contrepoison.

 

Félicitons comme ils le méritent le jeune historien Yves Chiron (auquel l'Académie vient de décerner le Prix d'Histoire Eugène Colas) et son éditeur qui ren-dent enfin accessible au public un ouvrage depuis long-temps introuvable, un auteur dont la liberté d'ex-pression, la vigueur de pensée, la puissance évocatrice et prophétique toujours intacte, réduisent à son abjection et à son néant  l'"Evénement" dont on nous somme sans répit de célébrer la générosité sublime, la gloire sans pareille, et une grandeur que le monde entier, jusqu'au dernier Botocudo, jusqu'à l'ultime survivant de la terre de Feu et de Rarotonga, ne cesse de nous envier frénétiquement.

 

Cependant, Yves Chiron note à juste titre dans son étude que "ce qui se passe en 1789-1790 n'est pas un évènement localisé et spécifiquement français: c'est le premier pas vers un désordre généralisé où se profilent la vacance du pouvoir, la disparition des hiérarchies sociales, la remise en question de la propriété – la fin de toute société.

 

Plus précisément, c'est la date du 6 octobre 1789 que Burke, contemporain, retient comme signe fatal et révélateur, marqué par le glissement irréversible dans la boue et le sang. "Dans une nation de ga-lan-terie, dans une nation com-posée d'hommes d'honneur et de chevalerie, je crois que dix mille épées seraient sorties de leurs fourreaux pour la venger (la Rei-ne) même d'un regard qui l'aurait menacée d'une insulte! Mais le siècle de la chevalerie est passé. Celui des sophistes, des économistes et des calculateurs lui a succédé: et la gloire de l'Europe est à jamais éteinte".

 

Burke fut le premier à dénoncer l'imposture des "droits de l'homme"

 

Or, par une sinistre ironie de l'Histoire, il se trouve que la France s'est précipitée dans cet interminable bourbier au moment précis où son prestige était le plus éclatant, son économie en pleine ascension, la qualité de sa civilisation reconnue partout sans con-teste. Ainsi que le souligne Yves Chiron, Burke note que les "droits de l'homme" flattent l'égoïsme de l'individu et sont ainsi négateurs, à terme, de la vie sociale. Dans un discours au Parlement (britannique), en février 1790, il s'élève avec violence contre ces droits de l'homme tout juste bons, dit-il, "à inculquer dans l'esprit du peuple un système de destruction en mettant sous sa hache toutes les autorités et en lui remettant le sceptre de l'opinion". L'abstraction et la prétention à l'universalisme de ces droits, poursuit Chiron, contredisent trop en Burke l'historien qui n'apprécie rien tant que le respect du particulier, la différence ordonnée et le rela-ti-visme qu'enseigne l'Histoire. Il n'aura pas de mots assez durs pour stigmatiser Jean-Jacques Rousseau, "ami du genre humain" dans ses écrits, "théoricien" de la bonne nature de l'homme et qui abandonne les enfants qu'il a eu de sa concubine: "la bienveillance envers l'espèce entière d'une part, et de l'autre le manque absolu d'entrailles pour ceux qui les touchent de près, voilà le caractère des modernes philosophes… ami du genre humain, ennemi de ses propres enfants".

 

Un autre paradoxe, et non des moindres, a voulu que les sociétés de pensée, l'anglomanie aveugle et ridicule qui sévissait partout en France alors même que la plupart de nos distingués bonimenteurs de salon ne comprenait un traître mot d'anglais, aient pu répandre l'idée que les changements qui se préparaient seraient à l'image de cette liberté magnifique qui s'offrait Outre-Manche à la vue courte, superficielle et enivrée, d'un peuple d'aristocrates honteux, de sophistes à prétention philosophiques, de concierges donneurs de leçons et de canailles arrogantes.

 

Logorrhée révolutionnaire et pragmatisme britannique

 

Nul ne s'avisait dans le tumulte emphatique qui rem-plissait ces pauvres cervelles de débiles et de gre-dins, de ces "liaisons secrètes" que Chateaubriand a si bien perçu par la suite entre égalité et dictature, et qui la rendent parfaitement incompatible avec la liberté. L'Angleterre, pays de gens pratiques, ne pouvait qu'être aux antipodes de l'imitation "améliorée" que l'on croyait en faire, et ses grands seigneurs, accourus pour acheter à vil prix le mobilier et les trésors de la Nation vendus à l'encan, n'en revenaient pas de ce vertige de crétinisme et de l'hystérie collective et criminelle emportant follement le malheureux peuple de France vers l'esclavage, la ruine et l'effacement de la scène du monde, au nom de fumées et d'abstractions extravagantes, mensongères et pitoyables". Quant à la masse du peuple, dit Burke, quand une fois ce malheureux troupeau s'est dispersé, quand ces pauvres brebis se sont soustraites, ne di-sons pas à la contrainte mais à la protection de l'autorité naturelle et de la subordination légitime, leur sort inévitable est de devenir la proie des impos-teurs. Je ne peux concevoir, dit-il encore, comment aucun homme peut parvenir à un degré si élevé de présomption que son pays ne lui semble plus qu'une carte blanche sur laquelle il peut griffonner à plai-sir… Un vrai politique considérera toujours quel est le meilleur parti que l'on puisse tirer des matériaux existants dans sa patrie. Penchant à conserver, talent d'améliorer, voilà les deux qualités qui me feraient ju-ger de la qualité d'un homme d'Etat.

 

Burke, écrit Chiron, "ne conteste pas que la France d'avant 1789 n'ait eu besoin de réformes, mais était-il d'une nécessité absolue de renverser de fond en comble tout l'édifice et d'en balayer tous les décombres, pour exécuter sur le même sol les plans théo-riques d'un édifice expérimental? Toute la France était d'une opinion différente au commencement de l'année 1789". En effet. Et, comme l'exprime si jus-tement la sagesse populaire anglaise, "l'enfant est parti avec l'eau du bain". L'énigmatique "kunsan-kimpur" que nos marmots ont obligation d'ânonner dans nos écoles avec les couplets de l'amphigourique et grotesque "Marseillaise" n'abreuve depuis lurette le plus petit sillon de notre exsangue et ratatiné pré carré. Seuls des politicens que le sens du ridicule n'étouffe pas vibrent encore de la paupière et des cor-des vocales tandis que de leur groin frémissant s'échappe indéfiniment, telle une bave infecte, la creu-se et mensongère devise de notre constitution criblée d'emplâtres: "Liberté, égalité, fraternité".

 

Céline décrit le résultat...

 

Céline, si lucide et si imperméable à la rémoulade d'abstractions humanitaires dont résonnent sans trève nos grands tamtams médiatiques, et qui savait son Histoire comme on ne l'enseigne nulle part, a dé-crit la situation une fois pour toutes dans une des pages les plus saisissantes du Voyage.  "Ecoutez-moi bien, camarade, et ne le laissez plus passer sans bien vous pénétrer de son importance, ce signe ca-pi-tal dont resplendissent toutes les hypocrisies meurtrières de notre société; "L'attendrissement sur le sort du miteux…! C'est le signe… Il est infaillible. C'est par l'affection que ça commence… Autrefois, la mode fanatique, c'était "Vive Jésus! Au bûcher les hérétiques!" mais rares et volontaires, après tout, les hérétiques. Tandis que désormais… les hommes qui ne veulent ni découdre, ni assassiner personne, les Pacifiques puants, qu'on s'en empare et qu'on les écartèle afin que la Patrie en devienne plus aimée, plus joyeuse et plus douce! Et s'il y en a là dedans des immondes qui se refusent à comprendre ces choses sublimes, ils n'ont qu'à aller s'enterrer tout de suite avec les autres, pas tout à fait cependant, mais au fin bout du cimetière sous l'épithète infâmante des lâches sans idéal, car ils auront perdu, ces ignobles, le droit magnifique à un petit bout d'ombre du monument adjudicataire et communal élevé pour les morts convenables dans l'allée du centre, et puis aussi perdu le droit de recueillir un peu de l'écho du Ministre qui viendra ce dimanche encore uriner chez le Préfet et frémir de la gueule au-dessus des tombes après le déjeuner".

 

Que l'on me pardonne cette citation un peu longue et d'ailleurs incomplète, mais elle m'a paru comme un prolongement naturel des Réflexions  de Burke, tout en évoquant irrésistiblement l'Auguste Président, grand amateur de cimetières, panthéons et nécropoles, qui s'apprête à commémorer en grande pompe et dans l'extase universelle le Bicentenaire de l'incomparable Révolution Française.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Yves CHIRON, Edmond Burke et la Révolution Française,  Editions Téqui, Paris, 1988, 185 pages (54 FF).

 

 

vendredi, 30 avril 2010

1812: les Etats-Unis face à l'Angleterre

Mansur KHAN:

1812: les Etats-Unis face à l’Angleterre

 

War%201812.jpgLa guerre anglo-américaine de 1812 a eu notamment pour cause l’avancée continue de nouveaux colons américains dans la région située entre l’Ohio et le Mississippi. Ce territoire était contesté entre les deux puissances : Britanniques et Américains le convoitaient. Le Président Jefferson avait déjà formulé des menaces en 1807 : « Si l’Angleterre ne nous donne pas satisfaction, comme nous le souhaitons, nous prendrons le Canada qui pourra alors entrer dans l’Union » (1). La clique gouvernementale au pouvoir à Washington à l’époque prévoyait déjà, en cas de guerre avec l’Angleterre, de prendre possession de la Floride orientale et occidentale qui appartenaient encore à l’Espagne (2).

 

Lorsque la guerre de 1812 fut ultérieurement soumise à une analyse objective, Henry Adams découvrit « … que Timothy Pickering et que les éléments les plus radicaux du parti fédéraliste hostile à la guerre jouèrent un rôle clef dans le scénario, en encourageant les Anglais à poursuivre leur politique commerciale agressive, laquelle, par ricochet, permit aux fauteurs de guerre américains, les « warhawks », les faucons, de mener le pays au conflit ouvert : ils ont manipulé et interprété la politique commerciale et maritime de Jefferson d’une manière perverse et traîtresse … Irving Brant a montré dans sa remarquable biographie de Madison que celui-ci n’avait pas été poussé à la guerre contre ses vues personnelles par Clay, Calhoun et les « warhawks » mais qu’il en avait pris la décision sur base de ses convictions propres » (3).

 

Les bellicistes ont justifié leur engagement à l’époque par l’argument suivant : il fallait favoriser les exportations de tabac, de coton et d’autres surplus de la production. Mais Washington ne s’est pas contenté dans l’histoire d’écouler ses seuls surplus…

 

Mansur KHAN.

 

NOTES :

(1) Gert RAITHEL, Geschichte der Nordamerikanischen Kultur – Vom Puritanismus bis zum Bürgerkrieg 1600-1870, Bd. 1, Zweitausendeins, Frankfurt/M., 1997, p. 264.

(2) Mansur KHAN, Die Geheime Geschichte der amerikanischen Kriege. Verschwörung und Krieg in der US-Aussenpolitik, Grabert, Tübingen, 2003 (3ième éd.), pp. 1994-223.

(3) Harry Elmer BARNES (éd.), Entlarvte Heuchelei (Ewig Krieg für Ewigen Frieden) – Revision der amerikanischen Geschichtsschreibung, Karl Priester, Wiesbaden, 1961, p. 2 ss.

Jean Vermeire est mort...

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Jean Vermeire est mort...

 

 

Réflexions après le décès de Jean Vermeire, un ancien du “Vingtième Siècle”, du “Petit Vingtième” et de la “Légion Wallonie”

 

Ex: http://intansigeants.wordpress.com/

 

Par l’intermédiaire d’un communiqué du groupe “anti-fasciste” “Resistances.be”, la presse belge a appris que Jean Vermeire était décédé dans les Baléares le 21 septembre 2009, des suites d’une attaque cérébrale. Qui était Jean Vermeire? Un ancien journaliste et dessinateur du “Vingtième siècle” (de 1938 à 1940) puis du “Pays réel”; il s’engage dans les rangs de la “Légion Wallonie” et y gagne ses galons de capitaine; condamné à mort puis gracié, il entame une carrière commerciale et industrielle qui lui procure une existence confortable, sans qu’il n’oublie pour autant les soldats de sa Légion, pour qui il créera un service d’entraide ainsi qu’une amicale qui existe toujours.

 

Pour les piètres critères actuels, le communiqué de “Résistances.be” est relativement correct. On a vu pire, sauf qu’il contient, bien entendu, les approximations habituelles et les conclusions hâtives d’individus qui n’ont pas le feeling adéquat pour juger l’histoire et surtout pour appréhender ses complexités (j’y reviens!). Jean Vermeire était l’un des innombrables représentants de cette complexité que notre époque n’est plus capable de mettre en cartes, d’aborder avec sérénité et impartialité. Triste signe des temps: le communiqué des pauvres sycophantes de “Résistances.be” a été repris tel quel, sans le moindre recul critique, sans la moindre tentative d’étoffer l’information, par la presse entière, avec, en tête, “La Libre Belgique” qu’on a connue mieux inspirée.

 

Trop jeune, je n’ai guère connu Jean Vermeire ni a fortiori ses grandes heures de célébrité, et nos relations se sont bornées à une ou deux conversations, notamment dans un café à l’angle de la rue du Haut-Pont et de la rue Franz Merjay (*), et à quelques (longs) coups de téléphone pour demander l’une ou l’autre précision historique. Je m’empresse d’ajouter que ces conversations ont toutes été enrichissantes et m’ont aidé à mieux comprendre les sentiments de nos aînés, ceux qui ont vécu les années 30 et 40.

 

Outre dans un ouvrage de Saint-Loup consacré aux volontaires belges de l’armée allemande, paru en 1975 aux “Presses de la Cité”, j’ai appris l’existence de Jean Vermeire par les émissions de Maurice De Wilde à la BRT (ancêtre de la VRT). Jean Vermeire y avait défendu son point de vue et insisté sur l’extrême jeunesse des protagonistes du rexisme et des volontaires de la Légion Wallonie pendant la deuxième guerre mondiale. Dérapages éventuels ou outrances attestées étaient, affirmait-il devant le micro de De Wilde, à mettre sur le compte d’une juvénilité trop ardente.

 

L’Hôtel des 100.000 briques

 

Personnellement, j’ai connu Jean Vermeire par l’intermédiaire du regretté Jean van der Taelen, qui l’avait connu entre les murailles grises de la prison de Saint-Gilles. Jean Vermeire y croupissait pour son engagement à la “Légion Wallonie”. Jean van der Taelen, qui n’avait eu aucune activité collaborationniste, y avait été jeté pour avoir créé, après septembre 1944, un réseau d’évasion pour proscrits, à commencer par un ami de jeunesse qu’il avait perdu de vue depuis de longues années. Parmi les prisonniers célèbres, que les deux Jean y ont côtoyés, il y avait également Paul Jamain, alias le caricaturiste “Jam” du “Pays réel” et le futur caricaturiste “Alidor” de “Pan”. Paul Jamain avait fait un dessin de Jean van der Taelen, posé en “Saint-Martin” avec une lourde cape rouge sur les épaules parce qu’il s’occupait à Saint-Gilles du service social à ses co-détenus, un Saint-Martin incarcéré injustement à “l’Hôtel des 100.000 briques”, comme “Jam” se plaisait à nommer sa nouvelle résidence forcée (**). L’amitié qui liait nos deux Jean remontait à l’époque de cet embastillement. Ils se voyaient régulièrement, non pas pour comploter contre la démocratie, comme l’allègueront sans doute nos sycophantes obsessionnels, mais tout simplement pour deviser du quotidien. Jean van der Taelen, on le sait, adorait organiser conférences, causeries et autres colloques. Pour lui, il n’y en avait jamais assez. Il multipliait les casquettes, les associations, les clubs pour en organiser plus encore. Un jour, le voilà qu’il invite le professeur Jean Van Welkenhuyzen dans les locaux de l’Hôtel Delta, bien entendu, en même temps que Jean Vermeire.

 

C’est donc après l’exposé, clair et brillant, de Van Welkenhuyzen, que je me suis retrouvé avec un futur assistant de Paul Aron, à cette table de café, à Ixelles, comme je viens de le dire. Jean Vermeire, intarissable, nous a tenu une conférence deux fois plus longue que celle de Van Welkenhuyzen. Face aux événements de la guerre, sans renier ses engagements ou ses motivations juvéniles, Jean Vermeire parlait d’un “gigantesque cafouillage”, qui a affecté les armées nationales-socialistes et soviétiques sur le front russe. L’immensité des steppes russes et ukrainiennes ou des régions marécageuses du Pripet entraînait des problèmes logistiques insurmontables. L’hiver russe et le dégel qui s’ensuit, avec sa boue gluante, que l’on nomme en russe la “raspoutitsa”, sont des phénomènes naturels d’une ampleur inconnue en Europe occidentale et centrale. Les effets de la “raspoutitsa” n’avaient pas été prévus par les responsables militaires allemands: Jean Vermeire se rappelait des monceaux de petites charrettes à deux roues, destinées à porter les impedimenta des fantassins de la Wehrmacht; elles s’amoncelaient, inutiles, aux abords des gares russes car leurs roues étaient trop près de leur caisse, elles accumulaient tant de boue de la “raspoutitsa” qu’elles ne pouvaient plus rouler: entre elles et la caisse, un amas de terre mouillée s’intercalait et bloquait tout.

 

Ensuite, autre exemple de cafouillage, que citait Jean Vermeire: les chars de la Wehrmacht, notamment les “Panther” et les “Tiger”, excellents sur le plan technique, véritables fortins sur chenilles, étaient des véhicules de luxe, avec des sièges recouverts de cuir sur rembourrage en crin de cheval. Chaque revêtement de cuir était cloué sur le bois de chaque siège à l’aide d’une centaine de petits clous de laiton! Ce luxe freinait la production: les Soviétiques, eux, laissaient nu le bois du siège de leurs tankistes, qui pliaient leurs manteaux pour se donner un minimum de confort. Moralité: quantitativement parlant, la production soviétique était supérieure à la production allemande, une supériorité qui était la clef de la victoire.

 

Aux sources du rexisme: les moqueries goliardes

 

Ce soir-là, et dans d’autres rencontres entre deux portes, Jean Vermeire évoquait le goût de la farce qui avait animé les milieux étudiants de Louvain et où Léon Degrelle avait excellé avant de se lancer dans la politique. Pour lui, comme pour d’autres, c’était ce goût pour les pieds-de-nez et les polissonneries qui fut le moteur de l’ACJB puis de Rex. L’itinéraire du caricaturiste Jam est à ce titre emblématique, de même que les moqueries goliardes de Degrelle dans son récit de la débâcle de 1940  (“La Cohue de 40”). Jam est d’ailleurs mort à sa table de dessin, fignolant sans doute une caricature féroce de l’un ou l’autre politicard belge.

 

A ce propos, Jean Vermeire nous avait confié une anecdote: Paul Jamain et lui, non encore grâciés et enfermés dans l’aile des condamnés à mort de la prison de Saint-Gilles, voyaient défiler des “touristes”, écoliers et membres d’associations patriotiques, dans leur aile où se trouvait aussi la cellule qu’avait occupée la malheureuse Gabrielle Petit, condamnée à mort pendant la première guerre mondiale pour espionnage en faveur des Alliés. La cellule de la jeune femme avait été laissée telle quelle, avec, sur le pauvre meuble servant de table de chevet, un livre de Charles Péguy. Parmi les “touristes”, il y avait eu sans doute un de ses collectionneurs impénitents, prêts à tout et ne respectant rien, qui avait subtilisé l’ouvrage de Péguy. Le gardien était affolé, craignait une sanction voire un congédiement pour faute grave parce qu’il n’avait pas ouvert l’oeil, et le bon, et avait laissé un malhonnête s’échapper, le livre de Péguy dans la poche de son pardessus. Nos deux larrons avaient pris ce gardien en pitié: Jean Vermeire l’a consolé et lui a dit qu’il possédait un exemplaire de ce livre de Péguy, qu’il demanderait à sa mère de le lui faire parvenir car, ajouta-t-il, “comme je vais être fusillé, je n’en aurais plus besoin”. Face à une  mort qu’ils pouvaient imaginer imminente, Vermeire et Jamain demeuraient deux garnements bruxellois qui, en dépit de la situation tragique dans laquelle ils se trouvaient, gardaient encore la force extraordinaire de tourner leur sort en dérision et de prendre en pitié un pauvre gardien, apeuré, lui, à l’idée de perdre sa maigre gamelle de maton. Le plus drôle, précisait Vermeire, en riant comme un collégien, c’était que son édition de Péguy datait de 1923... Mais, enfin, le gardien n’a pas été grondé ni chassé et personne n’a eu l’idée d’aller vérifier la date de l’édition du livre de Péguy exposé dans l’ancienne cellule de Gabrielle Petit...

 

Rétrospectivement, bien sûr, le séjour à Saint-Gilles ne fut pas toujours une sinécure, ne donnait pas tous les jours matière à rire. Vermeire, fataliste mais lucide, voyait bon nombre de ses co-détenus sombrer dans la routine des jeux de cartes ou dans des bondieuseries ridicules. D’autres imaginaient monter des plaidoyers en défense imparables, en se montant le col et en affirmant tout de go: “Je vais leur montrer, leur mettre le nez dans leur c... Ils l’auront dans le c..!”. Vermeire, sachant que les verdicts étaient prêts d’avance, tentait de les ramener à la raison: “Mais, vieux, tu as perdu la guerre!”. La défaite militaire annulait le droit des vaincus à une défense normale. Pire: il ne fallait pas laisser parler ceux qui connaissaient certains rouages de la “politique de présence”, préconisée en haut lieu, pour le cas où le Reich remporterait tout de même l’ultime victoire...

 

L’arrestation en pays mosellan

 

Vermeire, un jour, a conté son arrestation en Allemagne, dans la région mosellane. Maîtrisant l’allemand, il n’avait eu aucune difficulté à “plonger”. Il s’était retrouvé dans le château d’un vigneron mosellan, où il passait pour un employé du vignoble. Les semaines avaient passé et, un jour, des soldats polonais de l’armée britannique s’approchent du château à pas de Sioux, comme si, des fenêtres et du toit, des tireurs embusqués allaient les canarder. Jean Vermeire, debout, ne perdant rien du spectacle, dit à un civil allemand qui se trouvait à ses côtés: “Guck mal, die Polen, die üben!” (“Regarde, les Polonais sont à l’exercice”). Ils venaient pour le cueillir et le livrer à la justice belge. Amené devant un jeune lieutenant qui le reçoit poliment, Jean Vermeire voit son interlocuteur s’absenter quelques instants, alors que la porte donnant sur l’extérieur est restée ouverte. S’échapper? Et si c’était un piège? Pour l’abattre alors qu’il s’évade? Jean Vermeire est resté rivé sur sa chaise. A Bruxelles, devant l’auditeur militaire, on lui présente des photos de lui en uniforme: “Est-ce vous, là, sur cette photo?”, lui demande-t-on sur un ton rude. “Oui, bien sûr”. Regard abasourdi du magistrat: “Ah, bon, vous ne niez pas?”. “Mais que voulez-vous que je vous dise? Que c’est mon frère? Je n’ai pas de frère!”. La plupart des prévenus niaient. Vermeire avouait, persistait et signait.

 

Depuis la mort de Jean van der Taelen, en janvier 1996, je n’ai plus eu l’occasion de revoir encore souvent Jean Vermeire. Lors des obsèques de Jean van der Taelen, dans la magnifique église de la Cambre, dont le choeur est orné du plus beau vitrail moderne représentant la Sainte Trinité que j’ai jamais vu, Jean Vermeire m’a conté l’ultime visite du défunt chez lui, peu avant Noël. Ce dernier savait que la mort allait très vite l’emporter. Cette leucémie et les transfusions de sang, qu’elle requérait, avaient fait de van der Taelen un véritable spectre: “Je retrouve ma taille de jeune homme”, ironisait-il. En décembre 1995, il a pris Jean Vermeire dans ses bras et lui a dit: “Adieu Jean, tu ne me reverras plus vivant, on se retrouvera au ciel!”. Avec le recul, Vermeire en était tout ému, alors que ni l’un ni l’autre ne supportaient les bondieuseries.

 

Après une visite au “Musée Hergé”

 

Mes contacts ultérieurs ont été essentiellement téléphoniques. J’appelais pour demander une précision historique, pour demander rendez-vous avec l’un ou l’autre étudiant de l’UCL ou d’une université allemande en train de rédiger un mémoire sur la Belgique des années 30. Ou pour un éditeur qui cherchait des témoignages pour des chaînes de télévision allemandes. Rien de tout cela ne s’est concrétisé. La dernière fois, c’était le 3 ou le 4 août 2009. Je venais de visiter le tout nouveau musée Hergé à Louvain-la-Neuve et j’avais retrouvé un mémoire qui traitait, entre autres choses, de Pierre Daye. Je voulais demander des précisions pour parfaire notre savoir sur Hergé après les conférences de notre rédacteur en chef à Genève en février 2008, et que nous souhaitons refaire en d’autres villes. Je lui ai tout de suite annoncé que le musée de Louvain-la-Neuve n’avait ni omis un hommage discret à l’Abbé Wallez, en présentant une belle photographie de cet ecclésiastique de choc, ni à Victor Meulenijzer, le compagnon d’Hergé, le condisciple de Saint Boniface et le camarade de la troupe scoute du même nom, fusillé en 1946; le Musée Hergé expose son article sur le rôle métapolitique (on ne connaissait pas encore le mot!) des bandes dessinées et du dessin animé: il fallait, expliquait Meulenijzer, à l’Europe ou plutôt au conservatisme catholique européen une industrie du dessin animée pareille à l’entreprise de Walt Disney aux Etats-Unis. La conversation avec Vermeire est alors bien vite partie dans tous les sens. Avec une très grande tendresse dans la voix, Vermeire m’a déclaré que ses souvenirs de l’Abbé Wallez, de Hergé et de sa première épouse Germaine Kiekens, restaient gravés en son coeur comme quelque chose de “sacré”, d’intangible, qu’il ne souhaitait jamais oublier. Ces souvenirs sont ceux de l’époque 1937-1940, où il oeuvrait au “Vingtième siècle”, le journal que l’Abbé avait tenu à bouts de bras pendant près de vingt ans, avant de céder la place à de la Vallée-Poussin puis aux frères Ugeux, qui deviendront, eux, des “Londoniens”. William Ugeux, en effet, rejoindra le gouvernement belge en exil dans la métropole britannique.

 

Hergé au “Soir”, “JiVé” dans le maelström de la guerre à l’Est

 

XXsiècle.jpgJean Vermeire avait récemment fait un voyage à Paris, où on lui avait demandé d’intervenir en tant qu’expert pour déclarer vrai ou faux un dessin attribué à Hergé. Vermeire m’a expliqué que Hergé “arrangeait” d’une certaine façon les simples plumes “ballon” à sa disposition pour créer son propre trait dit de “ligne claire”. Le dessin, qu’on lui a soumis à Paris, portait bien cette marque de Hergé, que Vermeire, dans les mois qui ont précédé le désastre de mai 1940, connaissait, puisqu’il avait été pressenti pour travailler avec le créateur de Tintin, pour devenir son principal adjoint. Vermeire était lui-même dessinateur et caricaturiste, créateur de petites bandes dessinées éphémères, sous le pseudonyme de “JiVé”. La guerre mettra fin à la coopération Hergé/JiVé et le “Vingtième siècle”, avec son supplément jeunesse “Le Petit Vingtième”, cessera de paraître. Hergé et JiVé se retrouvent sur le carreau. JiVé décide de rejoindre Jam, devenu dès 1936 caricaturiste au “Pays réel” de Degrelle. Hergé, plus méfiant, refuse de rejoindre l’équipe du “Pays réel” et de créer pour le quotidien rexiste un supplément pour la jeunesse, appelé à remplacer le “Petit Vingtième”. Le journal lui paraît trop politisé et ses tirages trop faibles (12.000 exemplaires). Il rejoindra le “Soir”, qui n’est pas l’organe d’un parti et dont les tirages sont impressionnants (329.000 exemplaires). Raymond De Becker, personnaliste catholique attiré par les régimes dits “d’Ordre Nouveau”, prendra la direction du principal quotidien bruxellois, avec la ferme volonté de maintenir une “politique de présence”, comme on disait à l’époque. La “politique de présence” signifiait défendre des positions belges, plaider pour l’indépendance d’une Belgique au sein d’une Europe dominée par l’Axe. Cette “politique de présence” impliquait aussi d’honorer la personne du Roi Léopold III. C’est donc dans ce nouveau “Soir” qu’Hergé recevra une tribune et pourra continuer à faire vivre son héros Tintin.

 

On connait la suite: Tintin se maintient et conquiert un plus vaste public qu’au temps du “Vingtième siècle”. Hergé ne fait pas de politique: il conte, il narre, il dessine. “JiVé”, lui, est emporté par le maelström de l’époque. Du “Pays réel”, il passera à la “Légion Wallonie” et participera aux combats de cette unité sur le front russe, avant de représenter et son journal et son chef politique à Berlin, où, expliquait-il inlassablement, il cherchait aussi à maintenir une sorte de “politique de présence”, non plus d’une Belgique conventionnelle, mais d’une sorte de “Westreich” marqué par le souvenir des Ducs de Bourgogne (***). L’épopée de “JiVé” à la “Légion Wallonie” a été narrée en long et en large par Jean Mabire et Eric Lefèvre, dans plusieurs ouvrages publiés notamment chez Fayard et chez Grancher. Ce n’est pas à moi de revenir sur ces faits et péripéties dans cet article d’hommage.

 

L’univers inexploré du “Vingtième Siècle”

 

legWall.jpgCertes, c’est l’épopée russe et berlinoise de Jean Vermeire qui intéresse le plus les lecteurs de base d’éditeurs comme Fayard, Grancher ou les Presses de la Cité et, en général, de tous les ouvrages que l’on peut ranger dans la catégorie de “militaria”. Raison pour laquelle elle a été traitée en abondance dans les livres de Saint-Loup ou de Mabire ou a fait l’objet de livres de souvenirs, souvent poignants (Philippet, Terlin, K. Gruber, etc.). Néanmoins, ce que les historiens n’ont pas encore eu l’occasion de révéler au grand public, c’est un compte-rendu  précis, honnête et objectif des faits et des mouvements d’idées dans la période de transition entre l’époque du “Vingtième Siècle” et les aventures personnelles des garçons de cet univers catholique et conservateur belge pendant la seconde guerre mondiale (où il y eut des “Berlinois” et des “Londoniens”, tout comme, bien sûr, des adeptes de la “politique de présence”). Le chassé-croisé entre ces différents cénacles, les petits espaces de transition, aussi ténus soient-ils, les  relations entre personnes au-delà des clivages partisans devraient faire l’objet d’une recherche attentive, même si recueillir des témoignages personnels, comme ceux qu’aurait pu encore livrer Jean Vermeire, est devenu impossible. La Grande Faucheuse a fait son oeuvre.

 

L’idéologie du “Vingtième Siècle”, dont on sait qu’elle doit beaucoup à Maurice Blondel, au Cardinal Mercier, à l’Institut Supérieur de Philosophie de l’Université de Louvain, à Péguy, a su maintenir pendant deux décennies un niveau de journalisme inédit dans le royaume, jamais égalé depuis. Au contraire, la qualité journalistique de la presse francophone belge a sombré définitivement: pour le constater, il suffit de prendre en mains une copie du “Soir”, d’y lire les délires conventionnels des éditorialistes, les coupés-collés inspirés par la plus plate des “rectitudes politiques” ou par des pseudo-philosophes médiatisés à la Bernard-Henry Lévy (un “pompeux cornichon” ne cesse de proclamer le sympathique lanceur de tartes Noël Godin), à la Haarscher ou à la Comte-Sponville, ou les “quarts d’heure de la haine” contre tout ce qui relève de la Flandre, rendant le journal souvent plus caricatural que le fameux “Ministère de la Vérité” dans le “1984” de George Orwell. Le “Vingtième Siècle” a donc été un laboratoire idéologique de premier plan dans l’entre-deux-guerres belge. L’étude de son contenu est donc un impératif, de même que la vulgarisation, dans une perspective métapolitique, des recherches qui lui auront été consacrées.

 

Ceux qui sont devenus “Londoniens” pendant la deuxième grande conflagration inter-européenne du 20ème siècle ont encore eu un impact dans la vie politique belge après 1945, un impact qui s’est amenuisé au fil du temps, au fur et à mesure où la Belgique, toutes parties confondues, sombrait dans le “non Etre” des modes consuméristes, festivistes et idéologiques nées pendant les années 50, 60 et 70, où l’on a troqué la gloire des Ducs de Bourgogne, les héros sublimes du journal “Tintin”, les chromos Artis ou Historia contre les Beatles, le hash, le gauchisme de stade pipi-caca, les slogans politiquement corrects, le porno au quintal ou les trognes vulgaires d’Elvis Presley, de John Travolta ou de Michael Jackson. La trajectoire de ce corpus que fut le “Vingtième Siècle” part donc des lendemains de la première guerre mondiale pour nous conduire aux ultimes soubresauts d’intelligence politique des dernières décennies du 20ème siècle. Le journal de l’Abbé Wallez a joué en Belgique un rôle aussi important que l’Action française de Maurras en France  —même si le correspondant privilégié des maurrassiens en Belgique a été Fernand Neuray, directeur de “La Nation Belge”—  ou que l’ “Accion espagnola” à Madrid. Les deux mouvement, le français et l’espagnol, ont fait l’objet d’études critiques de haut niveau. Pourquoi ne serait-ce pas le cas pour le “Vingtième Siècle”?

 

En attendant, Jean Vermeire, témoin privilégié des deux ou trois dernières années du journal, a quitté la Terre, sans doute au son des tambours de lansquenets du “Mouvement légionnaire”, nous laissant orphelins de bon nombre de révélations importantes. Nous aimons penser qu’il y a rejoint le cher Jean van der Taelen, qui lui avait donné rendez-vous au “Ciel” quelques jours à peine avant qu’il ne parte pour le grand voyage.

 

Adieu, cher ami, cher capitaine, cher humoriste, nous regretterons votre Verbe et votre gouaille, votre rire et vos moqueries parfois cruelles, un Verbe, une gouaille, un rire et des moqueries bien rexistes, il faut le dire, mais qui appartiennent aussi à un certain esprit bruxellois ou liégeois, en train de disparaître corps et bien dans des villes livrées à tout sauf à elles-mêmes. Comme au héros d’ “Orange mécanique”, on a ôté à Bruxelles et à Liège (“Jam” était un “Lîdjeux” devenu “Bruss’leir”) leur verve et leur causticité, sous prétexte qu’elles sont politiquement incorrectes, trop insolentes pour les pontifes du “nouvel esprit” ou du “nouvel humanisme (?)”. On leur a ôté leur âme, leur créativité. Vous en étiez un bon morceau, une pièce de choix. Et vous voilà parti, vous aussi...

 

Jean KAERELMANS.

 

Notes:

(*) J’étais accompagné d’un futur chercheur de l’ULB, futur compagnon de route de l’excellent Prof. Paul Aron et spécialisé dans la presse et l’édition collaborationnistes, qui a glané moults informations chez Jean Vermeire et chez beaucoup d’autres, mais n’a sans doute jamais révélé ses sources à son nouveau patron... Le galopin s’est taillé, depuis, un beau palmarès de trahisons et de lâchetés, en tournant le dos à tous ceux qui l’avaient aidés..., poussant parfois la plaisanterie plus loin, en montant des cabbales et en semant des peaux de banane. La morale de cette histoire, c’est que les lâches sont souvent des traîtres emblématiques et que la trouille, qui  leur tenaille les tripes, provoque, outre des sudations surabondantes ou des rougeurs qui s’ajoutent à une couperose d’oenologue immodéré, des flots logorrhiques de justifications boîteuses qui suscitent involontairement des effets du plus haut comique.

 

(**) Jean van der Taelen avait accroché ce dessin, dûment encadré, au-dessus de la porte d’entrée de son appartement, boulevard Général Jacques, et me l’a montré deux ou trois fois, notamment après le décès de Paul Jamain, en me répétant que c’était là l’objet auquel il tenait le plus. Qu’est devenu ce tableau, non pas une caricature mais une peinture?

 

(***) L’étude du “mythe bourguignon” en Belgique reste à faire. Il n’a nullement été une spécialité rexiste. On le retrouve chez des auteurs comme Luc Hommel, Léon van der Essen, Jo Gérard, Gaston Compère, Drion du Chapois, etc. Une telle étude mérite de devenir un “chantier”...

Moi, l'interprète de Staline

Staline.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Moi, l'inteprète de Staline

Valentin M. BERESCHKOW, Ich war Stalins Dolmetscher. Hinter den Kulis­sen der politischen Weltbühne, Univer­sitas, München, 1991, 517 S., DM 48, ISBN 3-8004-1228-4.

Parues dès 1949 sous le titre de Statist auf diplo­matischer Bühne  (Figurant sur la scène diplo­matique), les mémoires de l'interprète de Hitler, le Dr. Paul Schmidt constituent un ouvrage de référence majeur sur l'histoire du IIIième Reich et de sa politique étrangère, un ouvrage qui défie les années. On ne peut en dire autant des mé­moires que vient de publier l'interprète de Sta­line, Valentin M. Bereschkow (en graphie fran­­cisée: Berechkov). Celui-ci, né en 1916, est l'un des derniers survivants de l'entourage im­médiat du dictateur soviétique. Les pages qu'il consacre à son enfance et à sa jeunesse, ses étu­des et son service militaire dans l'armée rouge, sont pourtant très intéressantes et riches en in­formations de toutes sortes.

Par l'intermédiaire de ses supérieurs hiérar­chiques à l'armée, Berechkov est entré de plein pied dans le saint des saints de la grande poli­tique soviétique. Grâce à ses connaissances lin­­guistiques de très grande qualité, il est rapi­dement devenu l'un des collaborateurs les plus proches de Staline. Ce qu'il nous raconte à pro­pos du dictateur géorgien relève de la «pers­pec­tive du valet de chambre». Berechkov s'efforce en effet de présenter Staline comme un homme aimable, bon compagnon de tous les jours, in­ca­pable de faire le moindre mal à une mouche en privé. Berechkov confesse qu'il n'en croyait pas ses oreilles quand le pouvoir sovié­tique se mit à dénoncer les crimes de Staline à partir de 1956. C'est bien ce qui distingue l'ouvrage de Berech­kov des mémoires de Krouchtchev et de toutes les biographies conven­tionnelles de Staline...

Le livre de Berechkov nous révèle des anecdotes ou des secrets de première importance lorsqu'il aborde les tractations engagées par Staline avec Ribbentrop, Churchill ou Roosevelt. En fait, rien de tout cela n'est bien neuf mais est replacé sous un jour nouveau. Ce qui intéressera le lecteur en premier lieu sont évidemment les passages qui traitent du rapport entre Staline et l'Allemagne. Berechkov tient absolument à blanchir Staline; pour l'interprète, le dictateur soviétique ne sa­vait rien des préparatifs allemands d'envahir l'URSS à l'été 1941. Staline refusait d'ajouter foi aux avertissements dans ce sens. Quand l'atta­que s'est déclenchée, il en fut si choqué qu'il se retira du monde pendant dix jours, in­capable de prendre les décisions politiques et mi­litaires qui s'imposaient.

Berechkov défend donc Staline avec véhémence et insistance, ce qui est d'autant plus suspect que plus d'une analyse politique récente démontre que Staline avait en toute conscience adopté une «stratégie sur le long terme» (Ernst Topitsch), visant à faire basculer l'Union Soviétique dans la guerre. Berechkov cherche donc, selon toute vrai­semblance, à dépeindre un Staline «sau­veur de la Russie» dans la «grande guerre pa­trio­tique» quoique criminel sur le plan inté­rieur. Pour savoir ce qu'il en est exactement, il faudra attendre que soient enfin ouvertes au pu­blic les archives soviétiques. En attendant, les assertions de Berechkov doivent être accueillies avec circonspection.

Hans Cornelius.

(recension parue dans Junge Freiheit, März 1991).

 

Moi, l'interprète de Staline

Staline.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Moi, l'inteprète de Staline

Valentin M. BERESCHKOW, Ich war Stalins Dolmetscher. Hinter den Kulis­sen der politischen Weltbühne, Univer­sitas, München, 1991, 517 S., DM 48, ISBN 3-8004-1228-4.

Parues dès 1949 sous le titre de Statist auf diplo­matischer Bühne  (Figurant sur la scène diplo­matique), les mémoires de l'interprète de Hitler, le Dr. Paul Schmidt constituent un ouvrage de référence majeur sur l'histoire du IIIième Reich et de sa politique étrangère, un ouvrage qui défie les années. On ne peut en dire autant des mé­moires que vient de publier l'interprète de Sta­line, Valentin M. Bereschkow (en graphie fran­­cisée: Berechkov). Celui-ci, né en 1916, est l'un des derniers survivants de l'entourage im­médiat du dictateur soviétique. Les pages qu'il consacre à son enfance et à sa jeunesse, ses étu­des et son service militaire dans l'armée rouge, sont pourtant très intéressantes et riches en in­formations de toutes sortes.

Par l'intermédiaire de ses supérieurs hiérar­chiques à l'armée, Berechkov est entré de plein pied dans le saint des saints de la grande poli­tique soviétique. Grâce à ses connaissances lin­­guistiques de très grande qualité, il est rapi­dement devenu l'un des collaborateurs les plus proches de Staline. Ce qu'il nous raconte à pro­pos du dictateur géorgien relève de la «pers­pec­tive du valet de chambre». Berechkov s'efforce en effet de présenter Staline comme un homme aimable, bon compagnon de tous les jours, in­ca­pable de faire le moindre mal à une mouche en privé. Berechkov confesse qu'il n'en croyait pas ses oreilles quand le pouvoir sovié­tique se mit à dénoncer les crimes de Staline à partir de 1956. C'est bien ce qui distingue l'ouvrage de Berech­kov des mémoires de Krouchtchev et de toutes les biographies conven­tionnelles de Staline...

Le livre de Berechkov nous révèle des anecdotes ou des secrets de première importance lorsqu'il aborde les tractations engagées par Staline avec Ribbentrop, Churchill ou Roosevelt. En fait, rien de tout cela n'est bien neuf mais est replacé sous un jour nouveau. Ce qui intéressera le lecteur en premier lieu sont évidemment les passages qui traitent du rapport entre Staline et l'Allemagne. Berechkov tient absolument à blanchir Staline; pour l'interprète, le dictateur soviétique ne sa­vait rien des préparatifs allemands d'envahir l'URSS à l'été 1941. Staline refusait d'ajouter foi aux avertissements dans ce sens. Quand l'atta­que s'est déclenchée, il en fut si choqué qu'il se retira du monde pendant dix jours, in­capable de prendre les décisions politiques et mi­litaires qui s'imposaient.

Berechkov défend donc Staline avec véhémence et insistance, ce qui est d'autant plus suspect que plus d'une analyse politique récente démontre que Staline avait en toute conscience adopté une «stratégie sur le long terme» (Ernst Topitsch), visant à faire basculer l'Union Soviétique dans la guerre. Berechkov cherche donc, selon toute vrai­semblance, à dépeindre un Staline «sau­veur de la Russie» dans la «grande guerre pa­trio­tique» quoique criminel sur le plan inté­rieur. Pour savoir ce qu'il en est exactement, il faudra attendre que soient enfin ouvertes au pu­blic les archives soviétiques. En attendant, les assertions de Berechkov doivent être accueillies avec circonspection.

Hans Cornelius.

(recension parue dans Junge Freiheit, März 1991).

 

samedi, 24 avril 2010

Il crollo degli imperi

Il crollo degli imperi

di Paolo Macry

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]


Da tempo sono consapevole di quanto anomali siamo nel mondo moderno L' imperatore Francesco Giuseppe (1916)Ma a vincere fu soprattutto la realpolitik più che un' autentica spinta nazionalista

http://www.kaiserjaeger.com/Foto%20Austriache/Saluto_al_Kaiser_FJ.jpg

La sequenza cronologica che porta dal collasso dell' impero al trionfo dello stato nazionale sembrava scritta nelle tavole della storia. Nel 1918, quando dai domini asburgici erano nati quattro nuovi Paesi, a vincere non era stato soltanto il wilsonismo, ma anche una sorta di senso comune ben diffuso in Occidente. E perfino i massimi simboli della tradizione imperiale erano finiti rapidamente nell' oblìo. L' 11 novembre di quell' anno, il giorno dopo la rinuncia al trono, Carlo d' Asburgo aveva abbandonato la residenza di Schönbrunn in una serata piena di nebbia, stando ben attento a evitare l' uscita principale del castello, perché la polizia aveva avvertito del pericolo di dimostrazioni popolari. Ma si era trattato di un falso allarme. Ad assistere alla fine di sei secoli di storia non c' era nessuno, né operai con la coccarda rossa, né curiosi. L' euforia era esplosa altrove, tra le élite dei nuovi Stati nazionali o tra gli italiani che avevano conquistato le «terre irredente». Il giovane Carlo, di fatto, era uscito di scena in perfetta solitudine. Già negli anni che avevano preceduto il 1914, in un contesto internazionale sempre più competitivo, le classi dirigenti degli imperi continentali erano sembrate afflitte dai peggiori incubi. «Andiamo verso il collasso e lo smembramento», aveva scritto un influente diplomatico viennese, mentre i Romanov apparivano preoccupati dal pan-islamismo e guardavano con ansia a quegli Ottomani che stavano cedendo pezzi di sovranità alle minoranze interne e alle grandi potenze. Temevano - loro, e non di meno degli Asburgo - di fare la stessa fine. «Dopo la Turchia, tocca all' Austria: è questo lo slogan che circola in Europa», aveva scritto qualcuno. Innumerevoli volte, a carico dei domini di Pietrogrado, Vienna e Istanbul, l' opinione pubblica occidentale aveva emesso una sentenza di morte. Erano i «grandi malati», le «prigioni dei popoli», la negazione del principio di nazionalità. Accuse che corrispondevano del resto alla coscienza inquieta delle élite imperiali. «Da molto tempo sono consapevole di quanto anomali siamo nel mondo moderno», avrebbe confessato nel 1916 Francesco Giuseppe. La stessa decisione d' imbarcarsi nella guerra era nata da un simile pessimismo. «Non vogliamo finire ai margini della storia» - aveva dichiarato un funzionario viennese alla vigilia del conflitto - allora è meglio essere distrutti subito». Con una tipica miscela di vittimizzazione e aggressività, quei circoli politici scivolavano nella retorica del «fare o perire». E fare significava fare la guerra. Fin dal tardo Ottocento, gli imperi sembravano aver perso la loro partita con gli Stati nazionali. Rispetto a una forma istituzionale ben radicata nell' Europa più moderna, era fatale che apparissero come residui del passato. Agli occhi di quell' Europa, lo Stato nazionale era il destino dell' impero, una sorta di nemesi delle sue molte «colpe storiche»: le dimensioni territoriali eccessive, il carattere multietnico, il debole controllo sulle periferie, l' inefficacia del governo e della governance. L' impero appariva sconfitto dallo Stato nazionale perché non ne aveva il mastice identitario e culturale, né dunque la forza di mobilitazione comunitaria. Il che in parte è vero, in parte è la classica profezia che si autorealizza. Ci sono storici che hanno sostenuto con buoni argomenti come, allo scoppio della Grande Guerra, i domini dei Romanov fossero economicamente e culturalmente in pieno sviluppo. E quelli asburgici godessero di ottima salute. Delle centinaia di migliaia di militari fatti prigionieri sul Piave, nel novembre 1918, gli austriaci sarebbero stati appena un terzo, mentre il grosso era composto da cechi, slavi del sud, polacchi, italiani. Come dire che, sebbene multinazionale, l' esercito di Vienna aveva tenuto fino all' ultimo. Forse non è il caso di sopravvalutare la spinta delle nazionalità. Significativamente, gli Stati emersi dal crollo asburgico avrebbero avuto in comune gravi squilibri politici, derive autoritarie, conflitti etnici. E questo dimostra come, al loro interno, la coesione nazionale restasse debole e come i nuovi governanti fossero poco radicati tra le rispettive popolazioni e avessero conquistato il potere - più che per la forza dei movimenti nazionali - grazie alla realpolitik degli Alleati, i quali, com' è noto, avevano legittimato le nazionalità dei domini asburgici in chiave antitedesca. Ma Francia e Inghilterra erano state incerte fino all' ultimo sulla sistemazione geopolitica da dare a quei territori: per l' esattezza, fino ai clamorosi errori politici e diplomatici commessi da Carlo d' Asburgo nel 1918. Il che suggerisce che la storia gioca le proprie carte, come insegnano i libri, ma ha sempre altre carte di riserva da giocare. E questo vale anche per la grande partita tra imperi e nazionalità. Le catene cronologiche sono molto meno fatali di quanto non appaiano a cose fatte.


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Falso socialismo y verdadero socialismo

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SINERGIES EUROPEAS – BRUXELLES / BARCELONA – 12/2004

Falso socialismo y verdadero socialismo


Robert Steuckers

¿Por qué preguntarse sobre el pasado y la evolución del socialismo, a la hora en que retrocede electoralmente en Europa, donde no tiene ya ni proyecto político coherente ni un brazo armado protector soviético, en un momento en el que un individualismo extremo, causante de grandes catástrofes sociales, toma el relevo en las mentalidades postmodernas del "primer mundo", donde se pasa del entusiasmo yuppy al burrowing del ciudadano conectado en su pequeño mundo virtual?

Porque el socialismo, se quiera o no, permanece como un reflejo de una aspiración comunitaria. Rechazando un discurso tan banal como irreal, el hombre no es un ser centrado exclusivamente en sí mismo, en su propio egoísmo. Él es hijo de unos padres, es también nieto o nieta, hermano o hermana, padre o madre, primo, vecino, colega. En ese sentido, puede desear el bien de su grupo o los grupos en el seno de los cuales vive y actúa, y privilegiar este bien común sobre su bienestar individual. Como lo destacaron todas las grandes religiones y también los adeptos del humanismo clásico, un hombre puede sacrificar su bienestar por sus hijos, por una causa, por toda clase de motivos que superan el puro egoísmo. Su inteligencia y su memoria instintiva (dos cualidades que no son necesariamente heterogéneas e incompatibles) pueden pues postular sacrificios a futuro. El hombre no actúa solo en una perspectiva presentista, sino a menudo también a largo plazo, sobre la previsión, apuesta por un futuro propio. Al enunciar estos aspectos, que los antropólogos y los sociólogos conocen demasiado bien, nuestro objetivo es indicar lo erroneo de las teorías filosóficas o económicas que postulan, testarudas, un individualismo metodológico y que pretenden imponer en todas partes la manía contemporánea de lo politicamente correcto.

Mientras que una corriente de la ideología de las Luces, a partir del siglo XVIII, intentará introducir en la práctica política diaria este "individualismo metodologico"; otra sentará las bases de una política social, a menudo siguiendo los pasos de los "despotas ilustrados" y otras figuras más positivas de las Luces que los ideólogos a la Destutt de Tracy o los filósofos de los salones parisinos. Otros más, siguiendo a Herder y el movimiento del Sturm und Drang, propondrán una emancipación de los hombres y almas haciendo referencia a las culturas, de las emergencias culturales y literarias, donde la identidad se trasluce en toda su originalidad y su bella ingenuidad. Al criticar al individualismo metodologico de una parte del Aufklärung europeo, no obstante no rechazan todas las facetas de este Aufklärung, sino solamente las que conocieron una evolución desenfrenada, que causo una cantidad de disfunciones e impuso una ideología diagramática, que sirvio de base a un "lenguaje de algodon" (Huyghe), a un discurso que rechaza todo debate y que, finalmente, fue un precedesor de la actual "political correctness". El "lenguaje de algodon" es una concretización del Newspeak que Orwell criticó en su famosa novela "1984". Al contrario, pensamos que un doble recurso a las facetas del Aufklärung, descuidadas por el discurso dominante, permitiría recomenzar el debate y proponer a nuestros contemporáneos que están en un callejón sin salida, políticas realmente alternativas.

Las disfunciones del Aufklärung se observan en varios niveles en la historia europea de estos ultimos doscientos años:

1. En las ideologías derivadas de la "metafora del reloj", o de la "métafora dela maquina", que postulan una visión mécanicista de las relaciones sociales y politicas, donde se percibe a cada individuo como un simple mecanismo aíslado, yuxtaponible a otros mecanismos, sin filiación; el filón individualista del Aufklärung se adhèrera a esta visión metafórica y diagramática de las relaciones políticas y sociales, al rechazar la otra metáfora, emergente en la época: la del árbol, preludio del romanticismo y de las filosofías politícas orgánicas, que se impuso naturalmente según el principio de la generación;
2. En las medidas votadas por la Asamblea nacional francesa contra los sistemas corporativos, los derechos de asociación, etc; la organización hypercentralista de la nueva República, donde los alcaldes representan a París y no a las comunidades urbanas o campesinas; la introducción de un derecho individualista en toda Europa por medio de los ejércitos napoléonicos; medidas que conducirán a algunas franjas de la contrarrevolución a convertirse en los campeones de la justicia social, contrariamente a lo que afirma historiografía convencional contemporánea;
3. La llegada de la revolución industrial protegida por un derecho individualista en Inglaterra y en el conjunto del continente;
4. La elaboración de teorías económicas mécanicistas e individualistas;
5. La aparición de un "socialismo" que derivo philoso-phico-idéologicamente de un pensamiento "científico" mécanicista e individualista.

Este quíntuplo de hechos llevo al socialismo, organizado en la segunda Internacional, luego el comunismo en la tercera Internacional y finalmente el trotskismo en la cuarta Internacional, sin contar sus múltiples escisiones y disidencias, a adoptar las ideas del Aufklärung más mécanicista, maquinista y antiorgánico y a rechazar como "contra-révolucionarios" los otros lineamentos, más pragmáticos, más orgánicos o más culturales del Aufklärung emancipador. Si el socialismo se hundió, es precisamente porque cultivó una verdadera fe en esta religión mécanicista, que se creía "cientifica" y fue abatida por los golpes de la ciencia física, a partir de 1875, con el descubrimiento del segundo principio de la termodinámica, con la física cuántica, la llegada de las ciencias biológicas, etc. El socialismo sobrevivió un centenar de años al hundimiento de su "epistémologia" mécanicista.

Si el socialismo, como movimiento politico afianzado en la historia europea, se hubiere basado inmediatamente en las metáforas organicistas del pensamiento de Herder y del Romanticismo, estaría aún vivo hoy. Toda práctica política que rechace verdaderamente el individualismo metodologico debe romper con los paradigmas mécanicistas, ilustrados del siglo XVIII por las "métaforas del reloj o la maquina".

En efecto, una apuesta desde la "métafora del arbol" habría sido más democrática: porque el agente motriz de la máquina es exterior a la máquina como el déspota es exterior al pueblo a quien controla y administra. El principio motriz del árbol, su fuente de energía, su primer impulso, reside en su propia interioridad. El árbol se controla a sí mismo, su existencia vital no se debe a un agente exterior que impulsa una clave o un sistema de engranajes para hacerle moverse o "vivir". Del mismo modo, un socialismo orgánico, y no mecánico, se habría enrraizado en la historia del pueblo a quien habría controlado y habría protegido. La historia nos enseña que las oligarquías socialistas cometieron el error de separarse del pueblo, o controlar a pueblos diferentes en nombre de una muy hipotetica "solidaridad internacional", sin entender las necesidades cada pueblo. Las criticas de un Roberto Michels del Verbürgerlichung, Verbonzung und Verkalkung (aburguesamiento, hegemonía progresiva de los burocratas del partido, esclerosis) y la sátira cruel de un George Orwell en Animal Farm, donde unos cerdos se vuelven en más iguales que otros, son elocuentes a ese respecto y demuestran que los socialistas y los socialdemócratas son propensos a ese tipo de politica, es decir, que consiste en adoptar una ideología sin profundidad que los pone al margen de la mayoria de la población, relativizando automáticamente el socialismo que declaran en el discurso y que solo realizan torpemente en la práctica. La oligarquización de los partidos socialistas es un riesgo permanente que acecha al socialismo, a causa precisamente de la negativa de los "burocratas" a sumergirse en la comunidad popular, a la que declaran ineluctablemente irracional por naturaleza, pero que escapa muy a menudo al esquematismo de la razón razonante que han inscrito ellos en su bandera.

En la actualidad, los socialismos de distintas variedades se declaran herederos de la Revolución Francesa. Ahora bien, fue la revolución francesa la que suprimio los derechos de las asociaciones de artesanos, obreros, aprendices, así como de los gremios de oficio. Hizo triunfar un derecho puramente individualista contra los derechos colectivos y los enfoques diferenciados del hecho social. A lo largo del siglo XIX, los obreros intentarán restablecer las asociaciones tradicionales por medio del sindicalismo o, en Inglaterra, de una forma comunitaria de socialismo, el guild-socialism. Pero los oligarcas de los partidos socialistas existentes defendieron una ideología, sin embargo, contraria al socialismo de fachada que declaraban por otra parte. Las rupturas sucesivas, las escisiones, los cambios múltiples del discurso de las izquierdas tienen, básicamente, como motivo profundo, la negación del mécanicismo individualista de la ideología illuminista y "revolucionaria". En la actualidad, precisamente, cuando los oligarcas de los partidos, los "burocratas" de Roberto Michels, hacen muestra de un comportamiento insatisfactorio, o incluso de una complicidad con algunas redes mafiosas (como en Italia con Craxi o en Bélgica con el escandalo Cools), el malestar se traduce en una deserción del electorado de las bases y, en la cumbre, en los intelectuales, que cambian de paradigmas y, a menudo, por un retorno a la inerradicable nostalgia de la comunidad. En la actualidad, se vuelve a hablar en los cenáculos de la izquierda pensante, incluso en los Estados Unidos, de "comunitarismo".
Discurso que obliga a redescubrir vínculos, ideas y valores que solamente los "contra-révolucionarios" del tiempo de la revolución francesa y de la aventura bonapartista habían analizado y/o defendido.

Generalmente, las fuentes historiograficas relativas a la contrarrevolución solo mencionan, en los autores contrarevolucionarios, una apologia del antiguo régimen y el deseo de restaurar los privilegios y a las élites administrativas y aristocráticas destronadas por la revolución. Ahora bien, son los autores considerados como "contra-révolucionarios", los que quieren restaurar las libertades y las autonomías de los trabajadores, criticando la individualización extrema de la propiedad en el derecho burgués, que triunfa a partir de 1789 y se ve finalmente codificado, lo que nunca no se había atrevido a hacer el antiguo régimen, aunque una lenta erosión de las tradiciones de solidaridad habia empezado hace cerca de dos siglos. En Francia, la desaparición de autonomías de todo tipo fue más precoz que en otras partes de Europa. Sin embargo, vario según las provincias: en el Oeste, la fiscalidad feudal es pesada, mientras que en Lyon, el Mediodía y la región parisina, prácticamente desaparecio. A vísperas de la revolución, el campesinado que constituye la mayoria del pueblo puesto que la revolución industrial aún no ha empezado y los obreros que son poco numerosos cuantitativamente en Francia, se oponen a la fiscalidad demasiado elevada del clero y el rey, pero hacen hincapié por todas partes en el mantenimiento de los bienes comunales, a libre disposición de toda la comunidad campesina. Si hay motines antes de 1789, es contra los portadores de "títulos feudales" y contra los que tienen una propiedad privada instalada sobre una antigua tierra comunal. Se podría creer pues que el campesinado francés, hostil a los privilegios de los señores feudales que usurpan las tierras comunales, simpatizo por las ideas republicanas. Pero el abanico de sus pretensiones se reitera después de la gran convulsión que sacudio a Francia: las asambleas revolucionarias prorrogan e incluso les sobrecargan de impuestos, instauran una fiscalidad de la propiedad de la tierra más pesada que bajo el antiguo régimen (noviembre de 1790). Asisten, ha escrito el historiador Hervé Luxardo, a una revolución en la revolución: la burguesía invierte el antiguo régimen en las ciudades, instala su poder que choca contra un campesinado que, poco a poco, olvida su hostilidad a los nobles porque los burgueses que se han convertido en los proprietarios de los antiguos bienes comunales, odiando a los nuevos propietarios, los "foutus bourgeois", como los llamaba un campesino rebelde de Dordogne en 1791. La rebelión de las campiñas no distingue un noble, partidario del Rey, de un burgués, adepto de las teorías de la revolución.  Cuando el Estado revolucionario vende los bienes de la Iglesia, calificados de "bienes nacionales", a particulares en vez de redistribuirlos a los campesinos, los espíritus se calientan y el Oeste del país se enciende: será la insurección vendeana y bretona.

Lo peor estaria por venir, nos indica Hervé Luxardo, en diciembre de 1789, los Constituyentes suprimen las últimas asambleas populares donde votaban todos los jefes de familia para sustituirlas por municipios elegidos por los únicos ciudadanos activos, es decir, los más ricos! Esta medida habría debido poner fin a la leyenda de una revolución francesa "democrática". A partir de ese momento, estos notables, distintos de un pueblo que ya no tiene derecho a la palabra, regulan a su manera los derechos colectivos, aunque el 28 de septiembre de 1791, el poder establece un "código rural" que reduce prácticamente a nada el derecho a beneficiarse de las tierras, prados y bosques colectivos. Éstos servíran para enfrentar posibles escaseces y para satisfacer las necesidades de los propietarios privados, sobre todo en período invernal. René Sédillot, otro historiador francés crítico respecto a la revolución ha escrito: "ahora ya no está permitido a los ancianos, a las viudas, a los niños, a los enfermos, a los pobres, tomar las espigas después de la cosecha, aprovecharse de las cosechas, de recoger la paja para hacer literas, las uvas después de la vendimia, raices de las hierbas después de la henificación (...) ya no está permitido al ganado tener libre acceso a las campos". Resumidamente, los Constituyentes burgueses eliminan la única seguridad social que esas clases desamparadas tenían. Esto hará de las clases pobres, "clases peligrosas", según la terminología policial. Las campiñas ya no pueden alimentar más a todos los campesinos, causando un éxodo hacia las ciudades o hacia las colonias, provocando más tarde el nacimiento de un socialismo desesperado, agresivo.

En las ciudades, los oficios se organizaban en hermandades (maestros y compañeros) y en gremios de comercio. Los gremios de comercio organizan la solidaridad de los compañeros y hacen huelga si sus demandas no son satisfechas. El constituyente Isaac Le Chapelier prohibe el derecho a nombrar síndicos, por lo tanto de formar sindicatos, prohibiendo al mismo tiempo toda forma de asociación de los asalariados. Sédillot escribe: "La ley Le Chapelier del 14 de junio de 1791, pone fin a todo lo que quedaba de las libertades de los trabajadoress". Más tarde, el Código civil ignora la legislación laboral. El Consul de Bonaparte instaura el control policial de los obreros imponiéndoles la "libreta". Ninguna izquierda puede ser creíble si pretende simultáneamente ser heredera de la Revolución Francesa, partidaria de su ideología anti-obrera, y defensora de la clase obrera. El PS valón ignora la esencia del socialismo y de la solidaridad social cuando  sus maximos representantes como Philippe Moureaux y Valmy Féaux exaltan a la "grrrrran révolución" y glorifican sin vergüenza las innombrables villanías cometidas por los sans-culottes.
Toda la lucha social del siglo XIX es en realidad una protesta y un rechazo de esta ley  de Le Chapelier . En términos filosóficos, la ideología mécanicista de la República Francesa de la era revolucionaria es inapropiada para garantizar las solidaridades e implica una formidable regresión social.

Los acontecimientos de la revolución francesa y la llegada de la revolución industrial en Inglaterra inducen un nuevo pensamiento económico de tipo aritmético-matématico, cuyos ejemplo mas notorio son las teorias de Ricardo. Ningún contexto ni histórico ni geográfico se tiene en cuenta y será necesario esperar el filón de la "escuela histórica" alemana, del Kathedersozialismus y el institucionalismo (en particular, americano) para reintroducir parámetros circunstanciales, históricos o geográficos, en el pensamiento económico, arruinando al mismo tiempo la idea absurda de que una única ciencia económica pueda universalmente regir y funcionar en todas las economías presentes sobre la Tierra.

En consecuencia, el socialismo es una reacción contra el Aufklärung, tal como fue interpretado por la Revolución Francesa y sobre todo por Constituyentes como Le Chapelier. En este sentido, el socialismo, en los sentimientos que le animaban al principio de su trayectoria histórica, es básicamente conservador de las libertades orgánicas, de los bienes comunales y de los métodos de organización fraternales. Este sentimiento es justo (exactamente deriva de ius, derecho). Pero si el socialismo que conocemos actualmente es un fracaso o una injusticia o una estafa, es porque traicionó los sentimientos del pueblo, de la misma forma que los revolucionarios franceses traicionaron a sus campesinos.
Un socialismo motivado por un sentido histórico y orgánico, acoplado a una doctrina económica heredera de la "escuela histórica" y del Kathedersozialismus, debe tomar el relevo de un falso socialismo, descontextualizado y mecánico, liderado por doctrinas económicas aritmético-mathématicas y por una ideología francorevolucionaria.

Bibliografía

- F.M. BARNARD, Herder's Social and Political Thought. From Enlightenment to Nationalism,  Clarendon Press, Oxford, 1965.
- Michel BOUVIER, L'Etat sans politiqque. Tradition et modernité, Librairie générale de Droit et de Jurisprudence, Paris, 1986.
- Louis-Marie CLÉNET, La contre-révollution, Presses universitaires de France, Paris, 1992.
- Bernard DEMOTZ & Jean HAUDRY (Hrsgg.), Révolution et contre-révolution, Ed. Porte-Glaive, Paris, 1989.
- Jean EHRARD, L'idée de nature en Frrance à l'aube des Lumières, Flammarion, Paris, 1970.
- Georges GUSDORF, La conscience révoolutionnaire. Les idéologues, Payot, Paris, 1978.
- Georges GUSDORF, L'homme romantiquee, Payot, Paris, 1984.
- Panajotis KONDYLIS, Die Aufklärung im Rahmen des neuzeitlichen Rationalismus, DTV/Klett-Cotta, München/Stuttgart, 1986.
- Panajotis KONDYLIS, Konservativismuus. Geschichtlicher Gehalt und Untergang, Klett-Cotta, Stuttgart, 1986.
- Jean-Jacques LANGENDORF, Pamphletissten und Theoretiker der Gegenrevolution 1789-1799, Matthes & Seitz, München, 1989.
- Hervé LUXARDO, Rase campagne. La fiin des communautés paysannes, Aubier, Paris, 1984.
- Hervé LUXARDO, Les paysans. Les réppubliques villageoises, 10°-19° siècles, Aubier, Paris, 1981.
- Stéphane RIALS, Révolution et contrre-révolution au XIX° siècle, DUC/Albatros, Paris, 1987.
- Antonio SANTUCCI (Hrsg.), Interprettazioni dell'illuminismo, Il Mulino, Bologna, 1979 [in dieser Anthologie: cf. Furio DIAZ, "Tra libertà e assolutismo illuminato"; Alexandre KOYRÉ, "Il significato della sintesi newtoniana"; Yvon BELAVAL, "La geometrizzazione dell'universo e la filosofia dei lumi"; Lucien GOLDMANN, "Illuminismo e società borghese"; Ira O. WADE, "Le origini dell'illuminismo francese"].
- René SÉDILLOT, Le coût de la révoluution française, Librairie académique Perrin, Paris, 1987.
- Barbara STOLLBERG-RILINGER, Der Staaat als Maschine. Zur politischen Metaphorik des absoluten Fürstenstaats, Duncker & Humblot, Berlin, 1986.
- Raymond WILLIAMS, Culture and Society 1780-1950, Penguin, Harmondsworth, 1961-76.
 

dimanche, 18 avril 2010

L'insegnamento della Costituzione di Fiume

Scritto da Giorgio Emili

http://www.area-online.it/  

Dannunzio_ingressa_Fiume.jpgLa politica si spezza il cuore a forza di predicozzi e buoni sentimenti, nell’era del conflitto sociale.
La Costituzione dovrebbe fare da collante e i valori in essa contenuti dovrebbero essere totalmente condivisi. La realtà, come bene abbiano visto, è un’altra: addirittura opposta. Lo scontro è aperto, i valori non sono condivisi, aleggia da decenni l’idea non dichiarata di una parte giusta che ha vinto e che reca in sé tutto il bene possibile.

La Costituzione italiana – serve parlar chiaro -  in molte parti nasconde questa realtà.
Per molti aspetti continua a essere la Costituzione del dissenso, prodotta da una frattura della storia italiana.
Le istituzione cercano, giustamente, di evidenziare le note concilianti, il sapore pieno di salvaguardia della democrazia e dei valori innati. L’evidenza dei fatti e la scarsa considerazione, da parte dei comuni cittadini, del tessuto della nostra Costituzione (certo, quanti la conoscono realmente?, quanti hanno approfondito le sue norme?) testimoniano che il passo decisivo verso la reale distensione degli animi non è ancora compiuto. Del resto perché tanti tentativi di riforma, perché tante dichiarazioni sulla necessità di un suo adeguamento?
La fiducia nella Costituzione ha, da sempre, sopito il conflitto, rasserenato gli animi, colmato i buchi di ogni possibile deriva. Questo però, a quanto pare, non basta. Fiducia cieca nella Costituzione, ci mancherebbe, ma è bello ricordare che esiste (è esistito) un modello costituzionale diverso (e per certi versi controverso) che ha un filo conduttore invidiabile.
Da uno scritto di Achille Chiappetti abbiamo scoperto una felice ricostruzione della Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume.
«Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro, promulgato l’8 settembre del 1920, costituisce da sempre – scrive Chiappetti - un angolo oscuro quasi perduto della coscienza costituzionale del nostro Paese. Il suo testo predisposto dal socialista rivoluzionario Alceste De Ambris rappresenta infatti un insieme di estrema modernità e di inventiva anticipatoria di quelli che sarebbero stati i successivi sviluppi dell’organizzazione economica dello Stato fascista e delle democrazie moderne. Il suo impianto – spiega - fondato sul sistema corporativo e sul valore del lavoro produttivo, come fondamento dell’eguaglianza e della libertà, nonché sul non riconoscimento della proprietà se non come funzione sociale, costituisce un modello che e stato troppo spesso dimenticato». Ma la parte più affascinante di quelle considerazioni sullo statuto fiumano riguarda l’analisi di singole norme, soprattutto se confrontate con le attuali della nostra Costituzione.
«La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini  - dice lo Statuto -, senza distinzione di sesso, di stirpe, di lingue, di classe, di religione». «Amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori». Ancora: «La Reggenza si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezione e di menzogne». Si respira  - chiosa Achille Chiappetti - «un aria di positività e di concordia quasi da costituzione statunitense e non il clima di tensione e scontro che risuona nelle prime parole della nostra Carta repubblicana».
Le conclusioni hanno forte sapore dannunziano e meritano di essere segnalate. Si innalza, infatti, su tutti l’articolo XIV della Carta del Carnaro: «La vita è bella e degna che veramente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà».
«È nello Statuto fiumano, dunque, che e possibile trovare l’ispirazione per un concetto di socialità posto in maniera differente e del tutto a-conflittuale che meriterebbe di essere ripreso per dare forza ad un nuovo risorgimento italiano».
Ecco. La felicita nella nostra Costituzione non c’è – dice Chiappetti - . E non solo lui.

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La Carta del Carnero - Une constituzione scomoda

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La carta del Carnaro. Una costituzione scomoda

Scritto da Andrea Venanzoni

http://ideodromocasapound.org/   

Uscita formalmente vincitrice dal primo conflitto mondiale, l’Italia si presenta in realtà come una nazione economicamente e socialmente allo sbando; un sistema produttivo prevalentemente a base rurale rimasto inerte e cristallizzato durante i lunghi anni del logoramento bellico, inflazione, disoccupazione, un certo tasso di arretratezza politica considerata dalla popolazione al pari di immobilismo e incapacità decisionale, i primi fermenti rivoluzionari portati dalla eco sempre più vicina della Rivoluzione d’Ottobre e dello spartachismo tedesco(1), danno un quadro desolato e raggelante di un paese sulla soglia della agitazione rivoluzionaria.
In questa composita situazione, si leva alto al cielo il grido dannunziano della vittoria mutilata; fortemente ostile alla linea filo-alleati e alla politica estera di Orlando e del suo Ministro degli Esteri Sonnino (accusati di non saper gestire le delicate trattative di Versailles, soprattutto in tema di annessione della ricca città di Fiume), ancorata questa alle direttive del Presidente americano Wilson (col quale pure si registrano degli screzi , screzi originanti da una condotta scorretta del Wilson stesso che in sprezzante violazione dei principii elementari della politica internazionale si rivolge direttamente in un discorso al popolo italiano invitandolo ad accettare ciò che Orlando non sembra voler accettare, ovvero la rinuncia ai territori giuliani e dalmati),
il Vate raduna una eterogenea pattuglia di militari, ex Arditi, sindacalisti rivoluzionari, artisti, anarchici e avventurieri e alla loro testa si insedia a Fiume per lavare quella che è vissuta a tutti gli effetti come una tragica onta.
Siamo nel Settembre 1919(2).

Fiume rappresenta all’epoca una realtà decisamente particolare; alla fine del secolo XVIII l'imperatrice Maria Teresa aveva concesso alla città lo status speciale di corpus separatum, garantendo una non indifferente autonomia amministrativa e finanziaria.
La particolare posizione geografica poi e lo speciale statuto giuridico avevano favorito lo sviluppo di Fiume non solo come centro commerciale, ma pure come città cosmopolita, intellettualmente vivace. All’interno della città la componente etnica italiana era divenuta nel corso degli anni maggioritaria, tanto che la locale comunità italiana costituitasi in Consiglio Nazionale immediatamente dopo la vittoria nel primo conflitto mondiale aveva unilateralmente proclamato l’annessione all’Italia.
Per quanto possa apparire paradossale, considerato lo stato d’assedio permanente(3) e la ristrettezza geomorfologica dell’enclave, l’area fiumana diventa subito uno straordinario laboratorio socio-giuridico; sul motivo o sui motivi che hanno reso possibile ciò si è scritto in abbondanza(4), quel che preme sottolineare è naturalmente la straordinaria capacità di mediazione operata da D’Annunzio, il quale riesce sin dall’inizio in forza del suo indubitabile carisma a ricomporre le disarmonie e le fratture intellettuali registratesi tra l’anima anarco-libertaria e quella più prettamente nazionalistica.

Il primo problema da affrontare è la denominazione stessa della enclave; lungi dal rivestire solo una importanza nominalistica, la questione è invece prettamente e squisitamente politica. Mentre i nazionalisti e gli Arditi spingono affinchè Fiume divenga Reggenza e quindi estensione sulla costa giuliano-dalmata del territorio italiano, sposando quindi in pieno le tesi degli Irredentisti confluiti nel Consiglio Nazionale, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici e l’anima operaista preferiscono di gran lunga sancire un’autonomia formale e sostanziale dall’Italia utilizzando la denominazione di Repubblica.
A quanto sembra, su questo punto si consuma uno degli scontri intellettuali più intensi tra il Vate e Alceste de Ambris(5); il sindacalista rivoluzionario italiano, amico fraterno di Filippo Corridoni(6), nominato Capo di Gabinetto nel Comando Fiumano dal gennaio 1920 avrebbe senza dubbio alcuno preferito lasciare sullo sfondo le istanze meramente irredentiste e annessioniste per concentrarsi maggiormente sulla riorganizzazione amministrativa e sociale dello Stato fiumano (o della “città libera di Fiume” come si diceva ricorrendo a suggestioni anarchiche). Di questa larvata tensione dialettica tra D’Annunzio e De Ambris sarà dato trovare traccia lungo tutto il testo della Carta.

Ad ogni modo, in considerazione del non secondario fatto che l’ala militare dei Fiumani è decisamente schierata su posizioni nazionaliste e che del Consiglio Nazionale ormai fanno parte anche iscritti ai Fasci di Combattimento mussoliniani, De Ambris accetta la denominazione di Reggenza, preferendo ottenere riconoscimenti di stampo sociale nella normazione dedicata al lavoro e al sistema rappresentativo.
La stesura della Carta nasce da un imperativo eminentemente organizzativo; vi è necessità di sottoporre l’enclave ad una sia pur minimale forma di controllo e di governo, nella speranza che l’Italia nittiana smetta di temporeggiare e proceda alla tanto aspirata annessione. Quindi più che una vera e propria Costituzione, uno Statuto amministrativo legato in modo specifico alla amministrazione delle Finanze e al reperimento dei fondi di cui la eterogenea pattuglia dannunziana abbisogna(7).
Per capire lungo quale tortuoso percorso logico, giuridico e culturale quello che sarebbe dovuto essere un mero Statuto di carattere effimero si trasforma in una vera e propria Costituzione diventa imprescindibile analizzare lo staff chiamato alla operazione di studio e di redazione della Carta stessa. Operazione che tra l’altro presenta il non secondario merito di spazzare via alcune ombre di mero folklore che aleggiano ancora oggi sulla impresa, sulla Reggenza e sulla Carta fiumana.
Quando infatti ci si riferisce alla Carta del Carnaro si è soliti ritenerla frutto del genio estemporaneo del Vate e si tende a mettere in risalto solo gli aspetti più prettamente letterari (come ad esempio l’incardinamento della Musica in un testo normativo) e si dimenticano tutti quei tecnici, giuristi, economisti, sindacalisti che misero il loro impegno al servizio della redazione di uno dei testi costituzionali più innovativi dell’epoca (e che conserva notevoli accenti di modernità ancor oggi).
D’Annunzio, come detto, deve reperire dei fondi e far gestire il Ministero dell’Economia da un tecnico; inizia una ricognizione di personalità accademiche ed istituzionali che lo possano aiutare sia nella gestione delle finanze sia nell’affrontare i problemi concettuali legati alla sfera delle imposizioni fiscali. Per dirigere l’economia fiumana il Vate quindi cerca, nel marzo del 1920, di attirare a Fiume anzitutto Giuseppe Toeplitz, consigliere delegato della Banca Commerciale, che però rifiuta.
Risposta negativa il Comandante riceve anche da Giuseppe Volpi, altro grande finanziere(8).
Inaspettatamente ad accettare è una personalità che, in apparenza, non potrebbe esser più distante dai governanti fiumani; il grande economista Maffeo Pantaleoni.
Sulle motivazioni che spingono Pantaleoni ad accettare l’incarico sembra prevalere il nazionalismo dello studioso, ammesso da lui stesso nel carteggio intercorso con D’Annunzio(9). L’esponente di punta, assieme a Vilfredo Pareto, del filone italico della corrente teorica denominata marginalismo ebbe modo di percorrere durante la sua esistenza una parabola non solo teorica e di studio ma anche esistenziale che lo condusse da una acceso liberalismo individualista ad una fiducia assoluta nella forza e nel potere di equilibrio espletato dallo Stato. Tanto che Pantaleoni, nella introduzione di un suo volume, arriverà a scrivere “il più grande, il più perfetto, il più splendido nazionalista che la guerra abbia rivelato presso di noi è Gabriele D’Annunzio. Molto l’Italia deve a quest’uomo, il più straordinario per intensità di sentimento e ricchezza di pensiero”(10).

In realtà l’idillio non dura molto; quando Pantaleoni arriva a Fiume, oltre alla tenuta del Ministero a cui è stato preposto viene chiamato a collaborare al documento costituzionale ed iniziano allora feroci scontri con le anime più libertarie ed intransigenti dell’Impresa. Effettivamente conciliare la posizione rigidamente statualista (quasi statolatrica) dell’economista con quelle autonomiste, microfederaliste dei vari De Ambris e Keller o con quelle eroico-futuriste di altri personaggi diventa un gioco di ardimento equilibristico. Lo scontro più violento, ed insanabile, però si consuma con i fautori del corporativismo, dottrina questa che Pantaleoni non può e non vuole culturalmente accettare.
Il corporativismo, come noto, non conosce una sua intrinseca univocità strutturale; ne è esistita una corrente di stampo cattolico(11), una più prettamente anarco-socialista (slegata quindi, in ottica di puro mutualismo proudhoniano, da ogni intervento dello Stato(12)) ed un corporativismo statualista che sfocerà poi in quello di stampo fascista.
Per i fautori di questa corrente e per la sua immissione nella carta costituzionale il corporativismo deve essere inteso come la collaborazione delle forze economiche di una Nazione, coordinate dallo Stato, secondo principi produttivistici, al fine di proteggere le economie nazionali dai tentativi egemonici di carattere monetario e politico operati da varie consorterie internazionali. In realtà mentre per lo stesso De Ambris l’intervento statuale può essere in qualche misura limitato, per altri Fiumani, esso deve comunque essere presente.
Per Pantaleoni, il corporativismo rischia di portare con sé il germe del particolarismo economico, fenomeni di lobbying, stratificazioni sociali non più controllabili dallo Stato. Una disarmonia generalizzata ai limiti dell’anarchia.
Dopo incontri, gruppi di studio, proposte accettate, cassate, smussate e lavorate più o meno finemente di cesello, si giunge l’8 Settembre del 1920 alla Promulgazione della Carta. Un testo certamente particolare, sia per alcuni profili di radicale innovazione dell’assetto statuale sia per l’inserimento, del tutto inusuale per un testo giuridico, di licenze poetiche, passi letterari (soprattutto nella considerazione della musica come cardine dello Stato) e palesi contraddizioni di cui si darà conto successivamente, avvertendo sin da ora che aporie e contraddizioni non sarebbero mai potute mancare stante la diversità culturale (ai limiti della irriducibilità ad unità) dei contributi proposti.
Il testo della Carta viene fatto precedere da un preambolo dal sapore puramente storico-letterario, ai limiti della mitopoiesi, significativamente titolato “Della perpetua volontà popolare”, in cui si ricostruisce il valore simbolico della città libera e si fa promessa di consegnarne la gloria imperitura all’Italia (a cui tuttavia non si manca di muovere critica per l’immobilismo, con le parole “la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria vittoria” tipizzando in certa misura lo spettro della vittoria mutilata); già da questa parte della Carta si comprende chiaramente la sua differenza formale con un qualunque testo costituzionale, poiché D’Annunzio afferma ex professo di voler andare oltre il mero status di corpus separatum e di voler far entrare in vigore la Costituzione come forma di controllo temporaneo sull’area in attesa dell’annessione.

Con l’art I si radica la sovranità (non a caso gli articoli dal I al XIV vanno sotto la rubrica di “dei fondamenti”), sia a livello rappresentativo sia a livello geografico (nel testo del medesimo articolo, sempre il I si assiste al passaggio di livello logico tra radicamento della sovranità nella libera audoterminazione del popolo e dato morfologico del confine orientale da difendere...). Particolarmente significativo il disposto dell’art IV(13); si sancisce in modo inequivoco un criterio di uguaglianza sostanziale, mirandosi a superare ogni forma di discriminazione per motivi di sesso, razza, convincimento ideologico, ceto, per poi passare ad una elevazione del diritto del produttore sopra ogni altro diritto, con frasi che echeggiano i principii proudhoniani. Principii proudhoniani che tornano, sia pure giocati sul delicato crinale di libertà individuale e mantenimento dell’ordine sociale, nell’articolo V laddove si fa riferimento alla tensione verso la giustizia e alla liberazione dai vincoli e dalla soggezione.
Anche l’elencazione dei cd diritti civili e politici lascia sbalorditi per l’assoluta modernità; dopo aver stabilito in modo chiaro l’uguaglianza tra i sessi, la Carta si premura di eliminare in radice qualunque ipotesi di coartazione delle libertà individuali, soprattutto quando queste investono la delicata sfera della credenza religiosa. Unico limite, lascia chiaramente intendere l’art. VII, la contrarietà al bene comune e alla stabilità, limite che verrà normativizzato in apposite leggi (le quali comunque non potranno essere equivoche, fumose, in tanto delicata materia).
Dopo aver stabilito il diritto all’educazione come diritto imprescindibile della persona umana, si arriva ad uno degli articoli certo più significativi dell’impalcatura normativa; il IX, che recita “lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la piú utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale.”
Si tratta di una innovazione lungimirante e sociologicamente parlando di grande brillantezza; la funzionalizzazione sociale della proprietà (che avrà vasta eco nei lavori del Costituente repubblicano, tanto poi da finire ad esempio nel secondo comma dell’art 41) e la sua riconduzione nell’alveo del lavoro individuale sono frutto di una visione analitica estremamente precisa, proiettata nel futuro e senza dubbio disancorata dal dato sociale di una Italia in cui la proprietà è all’epoca quasi esclusivamente fondiaria ed in cui l’occupazione della terra costituisce risorsa primaria.
Questa concezione della proprietà rappresenta una evidente rottura con schemi ottocenteschi, che consideravano in senso deteriore qualunque intervento statale in materia di traffici interprivatistici; si pensi alla notissima frase del giurista francese Portalis, uno dei massimi ispiratori del Code Civil del 1804, secondo cui ai privati compete la proprietà, al Sovrano l’impero, sancendo concettualmente l’esistenza di due sfere che avrebbero fatto meglio ad ignorarsi a vicenda.
L’eco della impostazione borghese e napoleonica si era pesantemente riverberata nel codice civile italiano del 1865; si pensi all’articolo 436 che definiva la proprietà come “diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”, si tratta in tutta evidenza di una norma ispirata da profondo egoismo mercantilistico, in cui l’unica accezione negativa di cui può connotarsi la proprietà è quando essa arriva a minacciare l’ordine pubblico o la struttura del consesso, non rilevando quindi la mera speculazione o la distonia sociale che essa dovesse determinare. Piuttosto curioso che, nonostante come detto gli articoli 41 e 42 della costituzione repubblicana tendano ad affermare (più su carta che non nella sostanza) una funzione sociale della proprietà poi sopravvivano norme come quella dell’art 841 del codice civile, norma che ancora oggi sancisce una assolutezza dei diritti del proprietario (nel caso di specie, del proprietario del fondo).

Allo stesso modo rileva l’art. XIII in cui per la prima volta nel testo compaiono le Corporazioni, qui al pari di Cittadini e Comuni considerate forze che concorrono al moto e alla formazione universitaria e sociale. Il lavoro torna in quella che è una delle norme più singolari dell’intera Carta, l’art. XIV; formalmente dedicato ai principii religiosi, di sapore estetizzante e con una smaccata aura nietzschana (soprattutto nella definizione dell’ “uomo intiero”) vede comparire ancora una volta il lavoro, vero motore non tanto invisibile della compagine statuale fiumana.
Con l’art XVIII si entra nel delicato ambito della organizzazione corporativa; ambito delicato perché la struttura corporativa può sottendere tanto ad una ricerca esasperata della democrazia diretta, tesa alla rappresentatività cetuale e dei produttori, quanto ad un controllo capillare di schietta ispirazione organicistica o totalitaria da parte dello Stato. Detto articolo viene a prevedere le corporazioni in numero di dieci, con simbologia presa dal Comune (quindi ricorrendo direttamente ai mitemi medievali) e con proprio Statuto regolamentare interno. Il successivo articolo XIX passa in rassegna la morfologia e le caratteristiche delle varie corporazioni; merita accennare la più particolare di queste, la decima, chiamata a dare rappresentanza “ alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. E' quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all'apparizione dell'uomo novissimo, alle trasfigurazioni
ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l'ànsito penoso e il sudore di sangue. E' rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta un'antica parola toscana dell'epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: "Fatica senza fatica ".”(14)
Non a caso l’ultima corporazione è innominata ed eminentemente priva di fisiologia; essa finisce con l’incarnare lo spirito costruttore che deve informare l’azione delle precedenti nove corporazioni(15). D’altronde uno spirito-guida finisce con l’essere indispensabile se si pensa che alle Corporazioni la Carta assegna un altissimo grado di autonomia decisionale e funzionale; esse svolgono fini di mutualità sociale, mettono in piedi strutture assicurative e previdenziali, si autogovernano, impongono ai loro aderenti dei tributi per l’autofinanziamento. Vedono riconosciuta la personalità giuridica di diritto pubblico.

Il raccordo con il potere centrale, la Reggenza, è determinato dall’articolo XXI secondo un criterio di autonomia e di collaborazione, in previsione del fine ultimo; non a caso si fa esplicito parallelismo con il riconoscimento delle autonomie locali, i Comuni.
E proprio il dettato normativo concernente i Comuni (articoli da XXII a XXVI) rappresenta una delle innovazioni più radicali, riconoscimento pieno ed esplicito dell’autonomia locale al massimo grado. Si pensi invece alla situazione italiana, dall’entrata in vigore dello Statuto albertino (che tra l’altro riconosce gli enti locali ma li normativizza in modo incidentale e limitato) sino agli anni venti; gli enti locali sono organizzati secondo il modello di accentramento francese, con dei Prefetti scelti dal potere centrale e dipendenti dal Ministero degli Interni operanti nella provincia e chiamati a rappresentare il Governo e ad essere al tempo stesso organi di vertice dell’amministrazione locale, coi Comuni governati da un Sindaco scelto dal Governo (tra i consiglieri comunali) e con una serie di controlli pervasivi esperiti dal Governo stesso, controlli che non investono solo la sfera della legittimità ma anche quella del merito(16).
Ai Comuni si riconosce il potere di stipulare trattati e accordi, di comporre le fratture sociali che si dovessero riscontrare al loro interno (a meno che queste non si facciano insanabili e non debba intervenire il potere centrale della Reggenza), in caso di contrasto tra le finalità perseguite dal Comune e la Reggenza una valutazione sarà data dalla Corte della Ragione (giudice delle leggi, sorta di Corte Costituzionale antesignana) attraverso un giudizio di conflitto di attribuzioni.

Per quel che invece concerne il potere legislativo, anche qui si riscontrano delle novità significative e delle concettualizzazioni ardite e moderne; aldilà dell’aspetto nominalistico, per cui si prevedono due Camere, il Consiglio degli Ottimi e quello dei Provvisori, bisogna mettere in luce il riconoscimento del suffragio universale tout- court con estensione dell’elettorato attivo (e passivo; posto che per essere eletti nel Consiglio degli Ottimi è sufficiente il requisito del poter votare, mentre nel caso del Consiglio dei Provvisori, che è espressione delle Corporazioni, si deve appartenere alla Corporazione di riferimento) anche alle donne. L’età per votare è fissata a venti anni.
Anche qui si colgono chiaramente delle nette differenze con la normativa costituzionale italiana dell’epoca; pur rimanendo anche nel caso fiumano la legge elettorale fuori dall’alveo costituzionale (pur se l’articolo XXXI, limitatamente al Consiglio dei Provvisori, parla esplicitamente di criterio della rappresentanza proporzionale), le età per essere eletti divergono in modo inequivoco (trenta anni in Italia, venti a Fiume; si veda l’art 40 dello Statuto albertino a tale proposito). Inoltre in Italia si prevedevano requisiti censitari sconosciuti alla Carta del Carnaro.

Le due Camere, o Consigli, hanno attribuzioni radicalmente differenziate, in forza della loro diversa composizione; il potere legislativo compete al Consiglio degli Ottimi che lo esercita nella stesura del Codice penale e civile, nella organizzazione della Polizia, della Difesa nazionale, della Istruzione pubblica secondaria, delle Arti belle, dei Rapporti fra lo Stato e i Comuni. Al contrario il Consiglio dei Provvisori, espressione delle categorie corporative, ha potestà legislativa in materia di diritto commerciale, diritto della navigazione, diritto del lavoro e quelle che oggi potremmo definire relazioni industriali, diritto tributario e bancario.
Le decisioni più rilevanti, come ad esempio i trattati internazionali e la riforma del testo costituzionale, competono al cd Arengo del Carnaro (anche noto come Consiglio Nazionale), ovvero i due Consigli di cui si è detto sopra, riuniti in seduta comune.

Il potere esecutivo conosce la sua sistemazione in due articoli, il XXXV e il XXXVI; si tratta di due norme eminentemente descrittive, che passano in rassegna la struttura dei Rettori, equivalenti dei Ministri. Essi sono raccolti in un ufficio, un organo collegiale assimilabile in qualche misura al Consiglio dei Ministri in cui il primo Rettore svolge la sua funzione di coordinamento e di apertura del dibattito, come “primus inter pares”.

Una delle novità più rilevanti è situata anche nell’ordinamento giudiziario cui la Carta dedica una cospicua mole di norme; esercizio migliore non potrebbe esservi di una lettura sinottica di queste norme e delle corrispondenti che lo Statuto albertino dedica all’argomento. Salta subito all’occhio quanto scarne siano le norme previste dalla costituzione italiana vigente in quegli anni, gli articoli dal 68 al 73; articoli che rimandano prevalentemente alla legge settoriale occupandosi poco della morfologia giudiziaria e del processo.
Al contrario la Carta del Carnaro all’articolo XXXVII delinea una lunga serie di organi giudiziari, alcuni dei quali di sorprendente modernità; essi sono i Buoni uomini, i Giudici del Lavoro, i Giudici togati, i Giudici del Maleficio, la Corte della Ragione. Gli articoli successivi si dilungano in maniera organica a delineare la funzione peculiare e specifica di questi giudici.
I buoni uomini potrebbero essere considerati antesignani dei nostri giudici di pace, con competenza esclusivamente su materie civili aventi un valore non superiore alle cinquemila lire, ed una residuale competenza in sede penale per quei reati che potremmo definire bagattellari, con pena non superiore all’anno di reclusione.
L’articolo XXXIX si dilunga in maniera articolata per delineare le caratteristiche della magistratura del Lavoro, e non potrebbe essere altrimenti se si pensa l’importanza che il lavoro riveste nella Carta. Si tratta di una norma di grandissima finezza giuridica, in cui al giudice del lavoro sono rimesse le cause lavorative e legate alle dinamiche corporative, materie tecniche e come tali ben conoscibili da esperti del settore che saranno appunto nominati giudici dalle varie Corporazioni; non solo, il Costituente fiumano prevede anche, per garantire celerità e speditezza nel rendere giustizia, la creazione di sezioni specializzate, le quali saranno chiamate a riunirsi nel caso di proposizione di appello.
Vi sono poi giudici togati, giurisperiti chiamati in via residuale a decidere sulle cause che non appartengano alla giurisdizione di buoni uomini o tribunale del lavoro.
Questi giudici, in organo collegiale definito Tribunale, costituiscono giudice d’appello per quel che concerne le cause proposte davanti ai Buoni Uomini.
L’articolo XLI prevede l’istituzione del cd Tribunale del Maleficio, composto da sette cittadini-giurati e da un giudice togato con funzioni di presidente. Si tratta di una sorta di Corte d’Assise penale, competente inoltre a decidere sui reati a sfondo politico.
Vi è poi l’istituzione della Corte della Ragione, supremo giudice delle leggi (e dei provvedimenti dell’esecutivo), organo chiamato a giudicare anche dei conflitti di attribuzione tra legislatore ed enti locali(17).
Si tratta in tutta evidenza di una costituzionalizzazione della funzione giudiziaria eminentemente diversificata rispetto a quella accolta dalle carti costituzionali ispirate ai criteri francesi, in cui la magistratura è un ordine con garanzie formali e sostanziali di indipendenza rispetto agli altri poteri; certamente permane grado di autonomia, in quanto non vi è soggezione del giusdicente rispetto agli altri poteri dello Stato però allo stesso tempo non esiste nemmeno una magistratura in senso tecnico.Anzi, gran parte dei cittadini chiamati a far valere la funzione giudiziaria sono diretta emanazione di interessi corporativi, con l’eccezione dei togati e dei dottori in legge nominati a comporre la Corte della Ragione.
D’altronde basta scorrere la normativa italiana, pre e post-unitaria, in tema di ordinamento giudiziario per comprendere come la magistratura di carriera, costituita in autonoma classe specializzata, fosse divenuta a tutti gli effetti un corpo più o meno separato dall’esecutivo (più o meno perché ad esempio la legge Cortese, r.d. 2626/1865 ancorava in modo abbastanza netto la nomina dei magistrati a seguito di concorso indetto dall’esecutivo e soprattutto ne delineava lo status in termini non prettamente di indipendenza; nemmeno le modifiche intervenute successivamente, fino al 1890, andavano nel senso di una autonomizzazione, autonomizzazione che si palesò al’orizzonte solo con la legge organica Zanardelli, la l. 6878/1890 e con la legge Orlando, l. 438/1908...tuttavia nel 1920, quando la Carta del Carnaro viene promulgata la magistratura italiana gode di una piena autonomia, con tanto dell’avvenuta creazione del CSM e inamovibilità dei pretori, ed una sempre più evidente tecnicizzazione della funzione.). Nella Reggenza di Fiume a rigore non esiste una vera magistratura, non si prevedono contrappesi e bilanciamenti tra le funzioni, tanto che le Corporazioni, che appartengono a tutti gli effetti al novero dei corpi sociali e che esprimono anche una loro funzione legislativa (a mezzo di nomina di cittadini che finiranno nel Consiglio dei Provvisori), sono anche chiamate ad esprimere dei “magistrati” tecnici per il processo del Lavoro e per altre Corti.
Questa curiosa commistione di differenti livelli logici troverà una sua peculiare eco nell’ordinamento Grandi; per fare un esempio che sia chiarificatore basta leggere il paragrafo ventinovesimo della Relazione del Guardasigilli al Re, paragrafo in cui si esprime chiaramente una visione etica dello Stato e della funzione giudiziaria che deve permanere indipendente solo per non vedere turbare il giudizio del magistrato (nonostante poi il magistrato stesso debba essere “responsabilizzato” verso il raggiungimento del bene supremo della comunità statuale). Certo una nozione curiosa di indipendenza.

Consci della effimera consistenza della Reggenza, o quantomeno del suo essere minacciata dall’esercito italiano, i costituenti decidono tuttavia di costituzionalizzare la figura del Comandante, ricalcata palesemente sulla figura del “dittatore” del diritto pubblico romano; figura necessariamente transitoria, chiamata a risolvere casi di eccezionale gravità, il Comandante assomma tutti i poteri. La durata del suo incarico è stabilita dal Consiglio Nazionale, che è pure competente alla sua nomina.
La difesa nazionale, strettamente interrelata alla figura del Comandante, viene affidata al “popolo in armi”, e tanto gli uomini quanto le donne devono prendere parte alle attività militari, i primi come combattenti le seconde come ausiliarie.
L’art XLIX contiene una disposizione piuttosto oscura, prevedendo che “in tempo di pace e di sicurezza, la Reggenza non mantiene l'esercito armato; ma tutta la nazione resta armata, nei modi prescritti dall'apposita legge, e allena con sagace sobrietà le sue forze di terra e di mare”. Si tratta indubbiamente del tentativo di configurare una vera e propria milizia di popolo, sulla scia di suggestioni rivoluzionarie riprese dalla esperienza sovietica. Una conferma a questa impostazione ci arriva da uno scritto di De Ambris(18), in cui si mette in luce l’analogia intercorrente tra bolscevismo e fascismo (almeno il primo fascismo, quello cui lo stesso De Ambris aveva inizialmente abbracciato); non a caso nella temperie fiumana si tenterà la sintesi tra nazionalismo e istanze rivoluzionarie sociali, attingendo al patrimonio culturale dei cd teorici della violenza rivoluzionaria, come Blanqui e Sorel, che come noto furono tra le letture di formazione pure del giovane Mussolini.
L’oscurità della norma adombra in realtà una contraddizione; il non mantenimento dell’esercito in armi cozza decisamente con il concetto di una nazione che resta comunque armata. E per quanto, come tenta di precisare il resto della disposizione, si operi una differenza tra servizio militare attivo e istruzione militare vi è da dire che la norma non si chiarifica, se non nel senso di una enunciazione di principio che vuole appunto la determinazione di una milizia popolare.
Per rimanere in tema di spirito popolare e di democrazia diretta, alcune norme si premurano di garantire al cittadino la possibilità di partecipare, sia pur in modo limitato e mediato, al processo legislativo.

A norma dell’art LV “ogni sette anni il grande Consiglio nazionale si aduna in assemblea straordinaria per la riforma della Costituzione. Ma la Costituzione può essere riformata in ogni tempo quando sia chiesta dal terzo dei cittadini in diritto di voto. Hanno facoltà di proporre emendamenti al testo della Costituzione i membri del Consiglio nazionale le rappresentanze dei Comuni la Corte della Ragione le Corporazion.”. Invece per l’art LVI, “tutti i cittadini appartenenti ai corpi elettorali hanno il diritto d'iniziare proposte di leggi che riguardino le materie riservate all'opera dell'uno o dell'altro Consiglio, rispettivamente. Ma l'iniziativa non è valida se almeno il quarto degli elettori, per l'uno o per l'altro Consiglio, non la promuova e non la sostenga.”.
La carta costituzionale disciplina anche l’istituto della riprova, ovvero un referendum da leggersi sia in chiave propositiva quanto abrogativa.
Estremamente moderno, e attuale, l’art LIX, il quale stabilisce che “nessun cittadino può esercitare piú di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo”.
Abbiamo visto come la Carta sia un testo estremamente moderno, persino ardito in alcune parti; non mancano, come si accennava più sopra, delle contraddizioni e delle aporie soprattutto dettate dal tono generale di enunciazione solenne, persino meta- letteraria. E così, se da un lato sono comprensibili il mancato raccordo concettuale tra istanze socialisteggianti e quelle più smaccatamente nazionalistiche e statolatriche, diventa invece più arduo comprendere come in tema culturale la Carta si affretti a sancire l’uguaglianza di tutte le lingue salvo poi specificare che la lingua superiore a tutte, per retaggio storico e missione universale è quella italiana. Partizione comprensibile in termini di opportunità politica, meno in una prospettiva giuridica e costituzionale.

La Carta tuttavia non ha modo di essere messa alla prova; promulgata l’8 Settembre del 1920, quindi al crepuscolo dell’esperienza fiumana (che sarebbe definitivamente finita col cd Natale di sangue in quello stesso anno), essa si appresta quindi a passare alla storia come uno di quei documenti di altissimo valore simbolico, come la Costituzione della Repubblica romana, priva però di una reale messa in pratica.
Al Fascismo quel documento risulterà pressocchè inservibile(19) dal punto di vista pratico-organizzativo (ma non certamente da quello culturale); gli unici studiosi fascisti che si interesseranno ad essa saranno gli analisti del pensiero corporativo, come Menegazzi, Peteani, Ugo Spirito(20) ma la loro visione del corporativismo sarà decisamente differenziata rispetto a quella sussunta nel dato normativo della Carta.
Piuttosto il Fascismo riprenderà la visione del lavoro fiumana e la tipizzerà nella Carta del Lavoro, cercando di dare un seguito, mediante il Ministero delle Corporazioni, alla piena collaborazione armonica tra le classi per il superiore bene della Nazione. Ma ciò che soprattutto il Fascismo riprenderà sarà il sostrato culturale sotteso alla esperienza fiumana, anche se la funzionalizzazione sociale della proprietà sarà raggiunta soltanto nel sudario di sangue e fuoco della Repubblica Sociale.

Note

  1. Una cui anticipazione poteva essere vista su suolo italico nella cd “settimana rossa” consumatasi nel 1914, e che aveva portato alla costituzione delle prime squadre di autodifesa organizzate da industriali ed agrari per arginare le contestazioni violente delle Leghe socialiste. La fenomenologia dei moti insurrezionali e delle violenze politiche pre e post-belliche è ricostruita, nel generale quadro ricostruttivo delle origini del Fascismo, dalle teoria di Chabod, Tasca e Nenni, secondo i quali si potrebbe parlare di una “periodizzazione del fascismo”, ovvero di fasi storiche in cui il fascismo sarebbe stato presente sia pure in nuce.
  2. In realtà Orlando, suggestionato da questo clima e preoccupato che potessero nascere moti insurrezionali, anziché cercare un compromesso, resta fermo nelle pretese sulla Dalmazia ed aggiunge la richiesta di annessione di Fiume all'Italia, ordinando anche, in risposta all'appello del Consiglio Nazionale fiumano, lo sbarco di alcuni reparti militari a Fiume.
  3. La scarsa incisività diplomatica di Orlando, tornato in Italia stanco e sfiduciato, costa cara al giurista; la Camera difatti gli vota contro ed il suo posto viene preso da Nitti. Il quale Nitti si dimostra decisamente ancor meno benevolo nei confronti della ipotesi di annettere Fiume all’Italia.
  4. Vedasi ex multis, Renzo De Felice: “La Carta del Carnaro”, Bologna, Il Mulino, 1973 , Renzo De Felice: “D’Annunzio politico (1918-1928)”, Roma-Bari, Laterza, 1978 , G. Negri e S. Simoni: “Le Costituzioni inattuali”, Roma, Ed. Colombo, 1990; soprattutto il De Felice, nel suo “la Carta del Carnaro”, op. cit., p. 10, mette in luce un dato estremamente importante; D’Annunzio si trova alla guida di una pattuglia certo eterogenea per aspirazioni e idealità, ma omogenea nella tensione verso la creazione di una compagine organizzativa nuova, soprattutto omogenea nel dato sociale, cetuale e culturale. Mentre al contrario l’Italia era divisa e frammentata da divisioni sociali, culturali di grande rilevanza.
  5. C. Salaris, “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume”, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 100 .
  6. I due tra l’altro, conosciutisi nel 1908, collaboreranno per breve tempo al giornale sindacalista L’Internazionale, inoltre la sorella di Corridoni sposerà il fratello di De Ambris, Amilcare.
  7. Tanto che i Marinai fiumani vengono denominati Uscocchi, riprendendo l’antico nome dei Pirati dalmati; e la pirateria marittima non viene esclusa dal novero dei mezzi di approvvigionamento. Addirittura l’anarco-futurista Guido Keller organizza un Ufficio Colpi di Mano, la cui sezione marittima altro non fa che atti di pirateria, catturando navi mercantili e portandone i carichi a Fiume.
  8. C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, op. cit. p. 137.
  9. A. Cardini, “Il nazionalismo di Maffeo Pantaleoni e il suo carteggio con Gabriele d’Annunzio (1919-1922)”, «Studi Senesi», Supplemento alla centesima annata, Volume Secondo, 1988, pp. 806-834 e R. De Felice, “Il carteggio fiumano d’Annunzio-Pantaleoni”, «Clio», anno X, n. 3/4, luglio-dicembre 1974, pp. 519-551
  10. M. Pantaleoni “Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra”, Bari, Laterza, 1917, pp. VII-VIII.
  11. Leone XIII, Enciclica Humanum Genus, 20 aprile 1884; in quesa enclichica il Pontefice auspica di far risorgere, adattate ai tempi, strutture corporative, simili, per qualche aspetto, a quelle distrutte dai sostenitori di aride leggi economiche, contrastanti con i principii di valorizzazione e di collaborazione che da secoli la Chiesa Cattolica perfezionava e indicava ai popoli. Si pensi pure alla Rerum Novarum. E’ comunque evidente che il corporativismo cattolico è totalmente orientato su coordinate anti-statali.
  12. Come noto per Proudhon il fine ultimo cui deve tendere l’individuo è la giustizia, una giustizia che sarebbe negata dalla presenza stessa dell’autorità, sia essa metafisica o pubblicistica; applicato alla sfera lavorativa questo principio si traduce nel mutualismo, attraverso cui i lavoratori, in quanto produttori, si scambiano i prodotti, in modo da costruire un tutto armonico. In questa nuova forma di società lo Stato e le sue leggi finiscono per scomparire e la loro funzione può essere assolta da contratti liberamente stipulati, volti a risolvere i problemi della convivenza. Questo specifico aspetto dell’anarchismo proudhoniano sarà recepito anche da altri teorici dell’anarchismo, come tra gli altri Kropotkin. Non a caso il lavoratore a Fiume è considerato un produttore.
  13. La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed inalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori; abolisce o riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e gli officii, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre vigorosa e piú ricca la vita comune.
  14. La tensione verso l’orizzonte sovra-umano delle idee, un aroma nietzcshano diffuso, sottendono chiaramente in tutto il testo costituzionale dei lineamenti che potremmo definire di “costituzione-indirizzo”, intendendosi con tale espressione una normativizzazione che vuole essere sprone al cittadino affinchè si senta parte di una comunità in cammino protesa verso il raggiungimento di un fine superiore. Sul punto vedasi M. Fioravanti, Appunti di Storia delle costituzioni moderne- le libertà fondamentali”, Giappichelli, 1995, p. 99 .
  15. L’accenno ad una “mitologia del lavoro” non può passare inosservato; richiama esplicitamente quelle figure immani che saranno poi rievocate dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo. Si pensi per tutti all’operaio jungeriano.
  16. Il microfederalismo di matrice socialnazionale può essere colto in maniera esplicita laddove si confronti questa normazione con la corrispondente normativa italiana in tema di autonomie locali; il Testo Unico degli Enti Locali (d lgs 267/2000) che all’art 1, comma 3, sancisce un quadro imperativo di limiti per le autonomie stesse. Clamoroso da questo punto di vista anche l’articolo 3. Sul punto, vedasi “L’ordinamento degli Enti Locali”, a cura di Mario Bertolissi, Il Mulino, 2002, specialmente pagine 51-69; per una ricostruzione storica del sistema delle autonomie locali, G. Melis “Storia dell’amministrazione italiana”, il Mulino, p. 76
  17. XLII. Eletta dal Consiglio nazionale, la Corte della Ragione si compone di cinque membri effettivi e di due supplenti. Dei membri effettivi almeno tre, dei supplenti almeno uno saranno scelti fra i dottori di legge. La Corte della Ragione giudica degli atti e decreti emanati dal Potere legislativo e dal Potere esecutivo, per accertarli conformi alla Costituzione; di ogni conflitto statutario fra il Potere legislativo e il Potere esecutivo, fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune, fra la Reggenza e le Corporazioni, fra la Reggenza e i privati, fra i Comuni e le Corporazioni, fra i Comuni e i privati; dei casi di alto tradimento contro la Reggenza per opera di cittadini partecipi del Potere legislativo e dell'esecutivo; degli attentati al diritto delle genti; delle contestazioni civili fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune; delle trasgressioni commesse da partecipi dei poteri; delle questioni riguardanti i diritti di cittadinanza e i privi di patria; delle questioni di competenza fra i vari magistrati giudiciali. La Corte della Ragione rivede in ultima istanza le sentenze, e nomina per concorso i Giudici togati. Ai cittadini costituiti in Corte della Ragione è fatto divieto di tenere alcun altro officio, sia nella sede sia in altro Comune. Né possono essi esercitare professione o Industria o mestiere per tutta la durata della carica. L'’istituzione di un giudice delle leggi è una innovazione enorme, che precede addirittura la polemica giuridica sul “custode della costituzione” intercorsa tra Carl Schmitt e Hans Kelsen.
  18. A. De Ambris, “Dopo il trionfo fascista – Le due facce di una sola medaglia”, citato in R. De Felice, Le Interpretazioni del Fascismo, Laterza, 1989
  19. Sulla concezione e sull’ordinamento sindacale e corporativo fascista, in una prospettiva giuridica, vedasi M. Di Simone, “Il Regno di Sardegna e l’Italia Unita”, Giappichelli, 2007, p. 336-339, e A. Grilli “L’Italia dal 1865 al 1942; dal mito al declino della codificazione”, in M. Ascheri “Codificazioni Moderne”, Giappichelli, 2007, p. 238-247
  20. Spirito è probabilmente l’unico intellettuale tecnico, in polemica col corporativismo cattolico, in grado di rileggere e ricontestualizzare in cornice fascista l’esperienza costituzionale fiumana.

Tsarigrad ou le rêve brisé

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

Trouvé sur : http://www.polemia.com/campagne.php?cat_id=31&iddoc=664
[Visitez souvent le site de l’association “Polemia” de Jean-Yves Le Gallou!!]

Fabien de STENAY :

Tsarigrad ou le rêve brisé

"Je me répète lentement, pour bien m'en pénétrer, cette phrase mélancolique d'un vieux prince Bibesco : « La chute de Constantinople est un malheur personnel qui nous est arrivé la semaine dernière »." Com­me le montre la fin amère du fameux roman de Jean Raspail « Le Camp des Saints », la chute de Constan­tinople reste dans l'imaginaire européen symbole de fatalité, de perte irréversible et d'autant plus dou­loureuse. Pourtant, avec le reflux de l'Empire ottoman à partir du XVIIIe siècle, il s'en fallut de peu pour que la Seconde Rome revînt aux mains des Européens. Mais, comme souvent, ce fut la division de ceux-ci qui ruina tous les espoirs.

 

Dans l'Europe restaurée du Congrès de Vienne et de la Sainte Alliance, la Russie s'était assignée la mission de garantir l'ordre sur le continent.

 

Dès le début de son règne, le tsar Nicolas Ier (1825-1855) fit du contrôle des détroits - « les clefs de la maison » - le second objectif de sa diplomatie pour des raisons au moins autant mystiques que straté­gi­ques. La politique de grande fermeté qui suivit vis-à-vis de la Sublime Porte déboucha en 1828 sur une guerre. L'armée russe fut victorieuse, et l'avantageux traité d'Andrinople fut conclu le 14 septembre 1829 : la Russie obtenait les bouches du Danube, des territoires caucasiens, ainsi que le libre passage à travers les détroits pour ses navires marchands. Enfin, les provinces de Moldavie et de Valachie obte­naient leur autonomie et leur placement sous protectorat russe (tout en restant officiellement rattachées à l'Empire ottoman). Les armées du tsar approchaient des Balkans.

 

Toutefois, les principes arrêtés par Alexandre Ier restaient de vigueur : on se contentait d'affaiblir l'Em­pire ottoman, tout en maintenant son intégrité territoriale. Dès le début des années 1830, cette politi­que relativement modérée porta ses fruits : le sultan demanda en 1833 l'aide russe contre le soulèvement du pacha d'Egypte Mehmet Ali. En retour, un traité d'assistance mutuelle fut signé entre les deux Empi­res; une clause secrète interdisait à l'Empire ottoman d'ouvrir les Dardanelles aux bâtiments de guerre étrangers.

 

Les grandes puissances européennes, en premier lieu l'Angleterre, contestèrent le privilège accordé aux Russes, et un nouveau conflit turco-égyptien donna l'occasion d'un nouveau traité : la convention des Dé­troits, entre l'Autriche, la France, la Grande-Bretagne, la Prusse et la Russie, par laquelle les Britanniques obtinrent que les détroits soient interdits, en temps de paix, à tout navire autre que turc.

 

La Russie conservait toutefois des droits sur les populations chrétiennes de l'Empire ottoman, en parti­culier dans les Balkans.

 

Aussi, quand, en 1852, Napoléon III obtint la restitution de douze lieux saints de Palestine à l'Eglise ca­tholique qui les avait perdus en 1808 au profit de l'Eglise orthodoxe, la diplomatie russe perçut le succès français comme une menace. Au début de l'année suivante, le tsar proposa donc au gouvernement bri­tannique un plan de partage de l'Empire ottoman excluant Napoléon III : l'Egypte reviendrait à l'Angleterre tandis que la Russie obtiendrait les Principautés roumaines, la Serbie, la Bulgarie ainsi que le contrôle des détroits. Mais le projet ne pouvait qu'échouer : le tsar négligeait la force des ambitions françaises, et surtout l'hostilité des Anglais comme des Autrichiens à l'avancée russe dans les Balkans. Après une nouvelle guerre russo-turque et la destruction de la flotte ottomane le 30 novembre 1853 à Sinope, la France et l'Angleterre entrèrent en guerre contre le tsar. La guerre de Crimée se poursuivit pendant plus de deux ans et aboutit à une débâcle russe. Le nouveau tsar Alexandre II, à la tête d'une Russie en net recul, con­sacra alors une bonne partie de son énergie à réformer son Empire, et renonça pour le moment à son expansion balkanique.

 

Le climat des années 1870 renoua en partie avec celui qui suivit le Congrès de Vienne : en 1873, une al­liance des trois empereurs (Allemagne, Autriche-Hongrie, Russie) ayant pour but de préserver l'équilibre européen semblait rejouer la Sainte-Alliance.

 

Mais pour le tsar, cette place qui lui était donnée devait servir de tremplin à une nouvelle politique bal­kanique conforme à la poussée du nationalisme et du panslavisme dans l'opinion russe. Celle-ci avait en ef­fet commencé à s'engager passionnément dans la « question d'Orient » au nom de la cause panslave. Mos­cou, « troisième Rome », devait non seulement défendre les intérêts des minorités slaves et orthodoxes de l'Empire ottoman, mais aussi libérer ceux-ci du joug turc et reprendre pied à Constantinople. De plus en plus, la cité du Bosphore était désignée dans la langue russe sous le nom fortement connoté de Tsarigrad, « la ville des empereurs ». Des comités panslaves se formèrent dans les grandes villes (Mos­cou, Saint-Pétersbourg, Kiev, Odessa…), et nourrissaient leur idéologie par les écrits de plumes presti­gieuses, comme Danilevski ou Dostoïevski. Ce dernier écrivait par exemple dans le « Journal d'un écri­vain » : « Le chemin du salut exige que la Russie, et pour son propre compte, s'empare de Constantinople, car la Russie seule a le droit de dire qu'elle est à la hauteur de la tâche ». Certes, le gouvernement russe se méfiait de cette surenchère, mais elle contribua néanmoins au renforcement de l'engagement russe dans les Balkans, au moment même où les minorités orthodoxes de l'Empire ottoman se révoltèrent.

 

Le mouvement lancé en juillet 1875 par les paysans orthodoxes de Bosnie contre leurs seigneurs musul­mans se généralisa en effet à l'ensemble des Balkans.

 

Devant la féroce répression turque et l'entrée en guerre de la Serbie et du Monténégro, la Russie tint na­turellement à intervenir. Prudente, elle attendit la garantie de la neutralité autrichienne pour déclarer la guerre aux Ottomans, en avril 1877. L'engagement russe fut massif et, malgré la vive résistance tur­que, les troupes du Tsar entrèrent dans Andrinople, à 200 Km de Constantinople, en janvier 1878. Le 3 mars suivant, le traité de San Stefano entérinait la victoire de la Russie, qui obtenait de plus des terri­toires arméniens et roumains. L'Empire ottoman dut reconnaître formellement l'indépendance de la Ser­bie, du Monténégro, de la Roumanie, et accepter l'autonomie d'une grande Bulgarie englobant la Ma­cédoine.

 

Toutefois, ce traité bilatéral russo-turc, bien qu'il témoignât du dynamisme retrouvé de la politique bal­kanique russe, se heurta à l'hostilité des diplomaties autrichienne et anglaise qui voyaient d'un mauvais œil cette grande Bulgarie, vaste Etat slave client de la Russie. Les autorités russes durent bientôt ac­cepter le principe d'une conférence internationale; celle-ci se déroula à Berlin en juin et juillet 1878, sous l'égide du chancelier Bismarck et en présence des dirigeants européens de tout premier plan. La Russie dut renoncer à l'autonomie de la Grande Bulgarie et accepter que la Bosnie-Herzégovine fût occupée par l'Autriche-Hongrie. Malgré le dynamisme de la politique balkanique d'Alexandre II, la fin de son règne fut donc marquée par l'opposition virulente des Autrichiens et des Anglais, bientôt rejoints par l'Allemagne : en 1879, une nouvelle alliance, la Duplice, réunissait les Empires autrichien et allemand face à la Russie.

 

Le combat pour Tsarigrad restait toutefois une préoccupation au moins inconsciente de l'impérialisme russe. « Ce damné mirage de Constantinople », comme fait dire Soljénitsyne à l'un des personnages de «Novembre Seize», allait jouer un rôle dans les négociations qui menèrent à la Première Guerre Mon­diale et qui la rythmèrent.

 

En 1912, lors des guerres menées contre la Turquie par les Etats balkaniques, la Russie soutint ces der­niers en faisant bien comprendre à tous que la question constantinopolitaine était un domaine réservé du Tsar. Mais surtout, la mise en place de la Triple Entente impliquait un accord entre Saint-Pétersbourg et Londres : en 1905, la France avait en effet refusé de suivre les cousins Guillaume II et Nicolas II dans leur projet de grande alliance continentale, concocté à Björkö. Après cet échec, le réarmement naval de l'Allemagne inquiéta la Russie, qui, en 1907, n'eut d'autre choix que de suivre la France dans son alliance avec l'Angleterre, bien que cette dernière eût soutenu le Japon dans la guerre de 1904-1905. Mais malgré l'accord tacite de ses alliés à l'enlèvement de Constantinople aux Turcs, la Russie savait qu'elle ne pourrait faire admettre celui-ci aux Autrichiens qu'à la faveur d'une guerre victorieuse.

 

C'est donc après le déclenchement du conflit européen en août 1914 (la Russie ne déclara la guerre à la Turquie qu'en novembre) que commencèrent les manœuvres, militaires comme diplomatiques, autour de la Ville de Constantin.

 

En 1915, Anglais et Français montèrent l'opération des Dardanelles, en vue d'occuper Constantinople et de négocier sa remise à la Russie. Mais devant la résistance menée par Mustafa Kemal et le général allemand Liman von Sanders, l'offensive fut abandonnée après plusieurs mois meurtriers, et ce malgré l'épuisement imminent de l'armement turc: le retrait de l'amiral anglais De Robeck, commandant en chef de l'opéra­tion, stupéfia les Turcs qui ne pensaient pas pouvoir tenir plus longtemps ; il n'est pas impossible que la victoire ait été délibérément évitée. Mais ce n'est pas la dernière occasion manquée dans cette affaire.

 

À partir de la fin de 1916, des négociations secrètes furent ouvertes entre Vienne et Paris, par l'in­termédiaire des princes de Bourbon-Parme, frères de l'impératrice Zita et officiers dans l'armée belge. En février 1917, Charles Ier d'Autriche fit savoir qu'il était prêt à accepter, non seulement la restitution à la France de l'Alsace-Moselle (et même des places enlevées au second traité de Paris en 1815), au sujet de laquelle il fallait encore convaincre Guillaume II, ignorant tout de ces tractations, mais aussi la souve­raineté russe sur Constantinople : sans le soutien autrichien dans les Balkans, il était impossible aux Turcs de résister à une offensive de la Russie et de ses alliés. Le 24 mars, Charles Ier mit ses propo­sitions par écrit, celles-ci restant toutefois encore secrètes.

 

Mais le 31 mars 1917, Clemenceau convainquit le nouveau ministre des Affaires étrangères Ribot de rom­pre les pourparlers engagés par son prédécesseur Briand. Entre-temps, la révolution avait éclaté en Rus­sie, et celle-ci allait bientôt se retirer du conflit ; pendant que Lénine et Trotsky s'activaient en secret, Ribot trahissait les engagements de la France en révélant, aux Italiens d'abord, puis à tous, les propo­sitions autrichiennes. Les révolutionnaires de Petrograd et les radicaux de Paris mettaient fin à un vieux rêve en passe de s'accomplir.

 

Seuls de rares rêveurs espèrent encore que la Seconde Rome et Sainte-Sophie seront un jour libérées. En­core cet espoir n'est-il souvent guère plus qu'une illusion romantique.

 

Toutefois, il n'est pas exclu qu'un jour, peut-être plus proche qu'on ne l'imagine, l'Europe enfin unie ou tout du moins solidaire puisse récupérer l'antique cité fondée au VIIe siècle A.C. par les Grecs de Mégare, élevée au rang de capitale impériale par Constantin le Grand et phare de l'Europe orientale pendant un millénaire. Car si Nietzsche nous apprend que la volonté de puissance est un moteur de l'histoire, n'oublions pas pour autant combien peut être grande la puissance de la volonté.

 

Fabien de STENAY,

(10/10/2003 - © POLEMIA).

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samedi, 17 avril 2010

La "Première Rome" a abdiqué

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

La “Première Rome” a abdiqué...

Plaidoyer italien pour l’Union et l’Idée eurasistes

ex: http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/

chute-de-l-empire-romain.jpgChers amis, En Italie, indubitablement, nous trouvons les meilleurs textes en matières politi­ques. Le mouvement “Eurasien” y a pris pied. La preuve? Les  pages sur la grande toile : http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/; le texte de Francesco Boco, que nous  vous présentons ici, nous rappelle quelques faits  bien réels : nous ne sommes pas indépendants, les élites poli­tiques ont failli, sont totalement incapables de comprendre les nouvelles dynamiques géopoli­tiques à l’œuvre dans le monde. Boco propose une Union Eurasienne, en tant que bloc géostra­tégique contre la tentative américaine de contrôler le globe. Pour ce  qui concerne l’Eurasie, n’oublions pas qu’ici, à Bruxelles, la section de l’émigration russe blanche a connu des ten­dances eurasistes (voir à ce propos le  livre du Prof. Wim COUDENYS, Leven voor de Tsaar. Rus­sische ballingen, samenzweerders en collaborateurs in België, Davidsfonds, Leuven, 2004, ISBN 90-5826-252-9).

Nous nous trouvons au beau milieu d’une époque de grands bouleversements. Aux peuples d’Europe et du monde s’ouvrent des perspectives de longue haleine et de diverses sortes, que l’on peut résumer, en substance, à deux positions principales : les pays collaborateurs seront absorbés par la puissance océanique, afin de former un bloc —la seconde possibilité— contre les pays “non alignés”, c’est-à-dire contre les pays qui cherchent à se soustraire au joug américain et choisissent la voie de l’indépendance.

Depuis quelque temps, face à cette perspective, on parle de la Russie comme de la puissance potentielle capable de guider la résurrection européenne et eurasiatique. Les dernières élections russes donne bon espoir pour l’avenir. Mais il vaut quand même mieux dire que la politique et la géopolitique ne se fondent pas sur des espérances mais sur des faits.

La dure réalité nous contraint de dire, effectivement, que, si, à l’Est la “Troisième Rome” reprend du poil de la bête et que l’ours russe se remet à rugir, le “Première Rome”, elle, la vraie Rome, a abandonné depuis fort longtemps le rôle qui lui revient de droit et qu’elle ne semble plus vouloir assumer.

Un processus d’unification stratégique de l’Eurasie

Le problème, dont question, se pose surtout dans la perspective des scenarii politiques qui se manifesteront dans les prochaines décennies. Inexorablement, l’effondrement du capitalisme est prévisible, prévu par divers observateurs comme inéluctable. Nous devons dès lors prendre conscience de la situation : si, avant que cet effondrement ne soit effectif, nous ne sommes pas prêts, en tant qu’Européens et qu’Italiens, et si nous ne sommes pas suffisamment indépendants des Etats-Unis sur le plan économique, alors nous risquons de subir une crise très dure, aux aléas peu clairs. Acquérir cette nécessaire indépendance économique ne peut venir que d’une alliance territoriale, économique et militaire avec la Russie et ses satellites, c’est-à-dire amorcer le processus d’unification stratégique de l’Eurasie. Depuis longtemps déjà les Etats-Unis entreprennent d’encercler le territoire de la Russie, mais, indépendamment de cette stratégie, nous devons prendre en considération le cas de l’Italie, tel qu’il se présente à l’heure actuelle, et tel qu’il se développera à coup sûr, et avec une intensité accrue, dans le futur.

En admettant qu’il faille d’ores et déjà envisager la possibilité concrète de former le continent-Eurasie, nous devons nous demander quels seront, dans ce contexte, le rôle et la fonction de l’Italie, nous demander si nous sommes prêts ou non pour ce grand bouleversement épocal.

Vu la situation qui prévaut aujourd’hui, la réponse à ces questions est évidemment négative sur toute la ligne.

Si, soudain, le bloc eurasiatique, dont nous espérons l’avènement, venait à se former, l’Italie serait en état d’impréparation totale, surtout à cause de l’absence d’une classe dirigeante qui serait en mesure de devenir un interlocuteur valable pour la Russie et qui pourrait faire valoir les droits et les intérêts de la “Première Rome”. Depuis plusieurs décennies, l’Italie est un pays asservi. Et le restera très probable­ment même si le “patron” change, à la suite de toute une série de circonstances fortuites.

L’unique alternative possible...

Le fait majeur qui nous préoccupe est double : d’une part, le projet eurasien est l’unique alternative possible pour échapper à la domination de la puissance d’Outre Atlantique; d’autre part, on s’est jusqu’ici bien trop peu préoccupé de savoir qui devra prendre les rênes du pouvoir dans notre pays quand et si le changement survient. Nous pourrions tenir le même discours en changeant d’échelle, en passant au niveau européen...

Le “Mouvement Panrusse Eurasia” est puissant et influent en Russie; il est devenu un lobby proprement dit, un centre d’influence politique et culturel; il suffit de se rappeler qu’Alexandre Douguine, Président du Mouvement, dirige aujourd’hui une université où les idées eurasistes trouvent un très large écho.

Dans notre pays, nous devons déplorer l’absence d’un lobby eurasiste, d’un groupe de pression qui, au moment opportun, pourra s’imposer par l’action d’une classe dirigeante préparée, capable de mettre en valeur le rôle de l’Italie, un pays dont l’importance est fondamentale pour nouer des contacts avec les pays de la Méditerranée et pour jouer le rôle de médiateur incontournable dans les rapports avec les pays arabes.

Cependant les idées eurasistes en Italie ont pris pied depuis quelques années; elles ont connu une diffusion plutôt satisfaisante, si bien que, désormais, le concept d’”Eurasie” n’est plus inconnu. Toutefois, la lacune que présenterait l’Italie résiderait dans l’absence d’une classe dirigeante qui pourrait devenir un allié valable, et non une caste servile, pour la nouvelle Russie impériale.

Donner vie à un mouvement eurasiste

Il existe des maisons d’éditions et des intellectuels italiens qui diffusent inlassablement le message eurasiste; leur présence s’avère fondamentale pour notre avenir, mais elle est évidemment insuffisante. Le problème se pose donc en Italie: il faut donner vie à un Mouvement Eurasiste hypothétique, prêt à coopérer avec un mouvement analogue basé à Moscou, et capable de coordonner les ambitions d’unifi­cation continentale, par le biais d’une activité de propagande bien capillarisée et bien ajustée.

Or, aujourd’hui, le problème premier est de former les futurs cadres dirigeants de ce mouvement appelé à garantir le destin grand-continental de notre peuple et de tous les peuples d’Europe. Le milieu, que l’on qualifie à tort ou à raison de “néo-fasciste”, est, qu’on le veuille ou non, le premier à avoir pris cons­cience de l’importance du projet “Eurasie” et des potentialités qu’il représente.

La création d’un centre d’influence, d’inspiration eurasiste, passe nécessairement par l’union des forces de tous ceux qui, indépendamment de leur formation politique, se sentent proches des positions eurasistes; mais chez la frange “anti-système” de la nébuleuse dite “néo-fasciste” qui représente, de fait, le principal réservoir d’hommes, d’esprits et de moyen pour réaliser cette tâche de rassemblement général.

Soyons toutefois bien clairs : dans l’appel à l’union que nous formulons ici, nous utilisons l’expression consacrée de “néo-fascisme” surtout pour identifier une aire politico-culturelle qui, finalement, s’avère vaste et variée, où se bousculent des conceptions politiques très diverses, mais que les médiats classent sous cette étiquette, qu’ils veulent infâmante et qu’ils assimilent systématiquement à des dérapages ta­pageurs, bien visibilisés et mis en scène par les services de désinformation ou de provocations en tous genres. Nous ne prendrons, dans cette aire politico-culturelle, que les éléments de fonds, indispensables à la formation des futures élites eurasistes, c’est-à-dire :

-          Il faut que ces milieux abandonnent tout nostalgisme absurde, cessent de cultiver les clichés incapacitants et mettent en terme à toutes les “führerites” personnelles.

-          Sans renoncer à leur passé politique, sans renoncer aux devoirs qu’ils impliquent, ces milieux devront nécessairement regarder vers l’avenir et se préparer en permanence à comprendre les dynamiques géopolitiques qui animeront la planète demain et après-demain.

-          En premier lieu, il s’agit de consolider le sincère sentiment européiste présent dans ces milieux (ndt :  depuis Drieu La Rochelle) et de le hisser à la dimension supérieure, c’est-à-dire à la dimension “eurasiste”; en Italie, cet européisme et ce passage à l’eurasisme devra s’allier à la conscience que notre pays est le réceptacle de la “Première Rome” et que ce statut l’empêchera d’accepter un rôle servile dans la nouvelle donne, c’est-à-dire dans l’hypothétique union eurasiatique.

Une lutte radicale contre le néo-libéralisme

-          Ces milieux devront développer les axes idéologiques d’une lutte radicale contre le capitalisme et le néo-libéralisme, que génère toute “démocratie” à la sauce américaine, et qui constituent des menaces mortelles pour tous les peuples d’Europe, car le message politique, historique et génétique, qu’ont légué au fil des siècles, les peuples d’Europe, est celui d’une fusion entre l’idéal communautaire et l’idéal impérial.

-          Si nous concevons l’aire dite “néo-fasciste” dans cette perspective, et si nous nous adressons à elle, parce qu’elle est la plus idoine pour réceptionner notre message eurasiste, alors, en bout de course, le processus d’union continental euro-russe s’en trouvera facilité et accéléré.

-          Dans le cas où, dans le processus de formation du bloc eurasiatique, l’Italie ne se serait pas préparée à la nouvelle donne, et si les élites, dont nous entendons favoriser l’avènement, auraient été contrecarrées dans leurs desseins, rien ne changera, ou quasi rien, par rapport à la situation actuelle, comme toujours dans notre pays, la classe dirigeante sera formée d’opportunistes serviles, obséquieux devant le patron du jour, indignes d’assumer la fonction qu’ils occupent, installés au pouvoir par pur intérêt personnel.

-          Nous devons nous rappeler, ici, les enseignements de Machiavel, qui nous disait que l’aide des armes d’autrui est utile en soi, mais calamiteuse dans ses conséquences, “parce que, si l’on perd, on reste vaincu, si l’on gagne, on demeure leur prisonnier”. Dans les conditions actuelles, donc, qui découlent de la victoire américaine de 1945 en Europe, nous ne pouvons espérer être libres un jour, sauf si nous conquerrons le pouvoir à l’aide de nos seules forces et de notre détermination; nous ne le serons que si nous obtenons une Europe souveraine, indépendante et armée, prélude à une Eurasie impériale, fédérale et armée.

-          L’Union avec la “Troisième Rome” ne signifie pas une soumission servile aux volontés de Moscou, au contraire, elle signifie la réaffirmation des valeurs et de l’importance de la “Première Rome”  —et pas seulement sur le plan géopolitique— une “Première Rome” dont nous devons nous enorgueillir d’appartenir et dont nous devons nous faire les nouveaux hérauts.

-          L’Eurasie est un destin, une union continentale à laquelle l’Europe et la Russie ont toujours secrètement aspiré, comme soutenues par un esprit, un moteur invisible. Dans le passé, cette union a échoué. Cet échec nous enjoint à ne plus commettre les erreurs du passé, à nous préparer pour les bouleversements de l’avenir.

Francesco BOCO, Belluno, 30 décembre 2003.

vendredi, 16 avril 2010

Le Général Sikorski: un "trouble-fête têtu" selon ses alliés anglo-saxons

Alfred SCHICKEL:

Le Général polonais Wladyslaw Sikorski: “un trouble-fête têtu” selon ses “alliés” anglo-saxons

 

Une conversation téléphonique entre Churchill et Roosevelt révèle les causes véritables de la mort « accidentelle » du Premier Ministre polonais en exil pendant la seconde guerre mondiale

 

sikorski-bio.pngLe 25 novembre 2008, on a ouvert la crypte de la Cathédrale de Cracovie qui servait de tombeau à Wladyslaw Sikorski, premier ministre du gouvernement polonais en exil (de 1939 à 1943). Le procureur de la République de Pologne a ordonné d’exhumer le corps de Sikorski pour faire définitivement la lumière, à l’aide des méthodes techniques les plus modernes employées actuellement par la criminologie, sur les causes véritables de la mort du général et homme politique polonais, ôté à la vie, il y a plus de soixante-cinq ans lors de la chute de son avion dans la mer au large de Gibraltar. La nouvelle de la mort « accidentelle » du chef du gouvernement polonais Sikorski avait à peine été divulguée, le 4 juillet 1943, que les premiers doutes quant à la vérité de cette nouvelle étaient émis. Les experts en aéronautique et les observateurs critiques, à l’époque, ont jugé peu crédible, pour diverses raisons, la version d’un « accident d’avion ayant entrainé la mort ». La première chose qui les a frappés, c’est que lors de la chute de l’appareil utilisé par Sikorski tous les passagers n’ont pas trouvé la mort mais seulement une partie de ceux-ci, comme si certains d’entre eux avaient été « ciblés ». Par ailleurs, personne n’a pu dissimuler que le premier ministre polonais était tombé en disgrâce profonde chez Staline.

 

La peur de l’imprévisibilité d’Uncle Joe

 

On sait que Sikorski considérait que les officiers polonais assassinés, et dont les corps furent découverts par les Allemands à Katyn en avril 1943, avaient été les victimes des services secrets soviétiques. Staline a feint l’indignation face au soupçon qu’émettait Sikorski et s’en est servi comme prétexte pour rompre avec le gouvernement polonais en exil à Londres et pour répandre la rumeur que Sikorski était « un collaborateur d’Hitler ». Le président des Etats-Unis, Franklin D. Roosevelt, et le premier ministre britannique Winston Churchill, qui partageaient en secret les présomptions de Sikorski, ont fini par considérer les soupçons contre Staline, émis et réitérés par le premier ministre polonais, comme une entrave à la bonne entente au sein de l’alliance forgée entre les puissances anglo-saxonnes et le bolchevisme soviétique. Roosevelt et Churchill ont donc cherché une « solution », d’autant plus qu’ils étaient tous deux entrés en conflit avec Sikorski sur le tracé futur de la frontière polono-soviétique. Dans ce contexte, Roosevelt et Churchill soutenaient les revendications soviétiques qui réclamaient le retour à l’URSS des régions d’Ukraine et de Biélorussie occidentales, annexées par la Pologne en 1921, ce qui impliquait automatiquement de reconnaître la « Ligne Curzon » comme future frontière orientale de la Pologne. Sikorski, en revanche, voulait que ces régions demeurassent polonaises et qu’on ne tint aucun compte de la « Ligne Ribbentrop-Molotov ». Si Sikorski disparaissait de la scène politique, raisonnait-on à Londres, à Washington et à Moscou, la coalition antihitlérienne gardait toutes ses chances de survivre et de se renforcer.

 

A Londres et à Washington, on craignait par dessus tout que l’URSS sorte de cette coalition et ne fasse plus cause commune contre l’Allemagne ; c’est ce que prouve un extrait de conversation téléphonique entre Churchill et Roosevelt, daté du 29 juillet 1943, qui se trouve aujourd’hui dans les archives du « Centre de Recherches en Histoire Contemporaine » d’Ingolstadt (« Zeitgeschichtliche Forschungsstelle Ingolstadt »). Au cours de cette conversation, le premier ministre britannique dit au président des Etats-Unis « qu’Uncle Joe (le surnom donné à Staline) a entrepris des rapprochements inopportuns avec les Nazis dans le but d’un règlement négocié ». Prendre parti pour Sikorski aurait dès lors contribué à renforcer cette tendance chez Staline à vouloir s’arranger séparément avec Hitler et créer ainsi la surprise comme le Pacte Hitler/Staline d’août 1939 avait créé, lui aussi, la surprise. Roosevelt pensait également que Sikorski était un « trouble-fête têtu » qu’il fallait éliminer.

 

Finalement, Churchill s’est également exprimé expressis verbis en faveur d’une « élimination de Sikorski » : « Ces choses-là, aussi désagréables soient-elles, doivent être pourtant faites, tout simplement dans l’intérêt de la cause commune » et, dans la foulée, Churchill entraine Roosevelt avec lui dans la responsabilité de la « mort accidentelle » du premier ministre du gouvernement polonais en exil : « Je ne peux pas m’imaginer que vous ayez oublié nos entretiens personnels justement sur ce sujet-là, lors de mon dernier séjour à Washington. Cela s’est passé il y a juste deux mois. Vos vues sur la question correspondaient presque exactement aux miennes ».

 

Churchill a même durci sa position, à propos du soupçon qui pesait sur les seuls Britanniques, en répondant, piqué au vif, à Roosevelt qui cherchait à se dégager de toute responsabilité dans la mort de Sikorski parce qu’il devait tenir compte des électeurs américains d’origine polonaise. Churchill, dans la conversation téléphonique que nous évoquons, déclare sans détours à Roosevelt : « Vous savez très bien que nous avons discuté du cas Sikorski jusque dans les moindres détails et vous savez aussi que vous étiez entièrement d’accord avec la solution que je proposais. Vous ne pouvez nullement contester le fait que vous saviez et que vous êtes coresponsable. Je ne pourrai pas l’accepter ». Roosevelt a alors répondu sur un ton abrupt : « Vous devrez pourtant l’accepter. Je répète que je n’ai eu aucune connaissance préalable » ; ensuite, dur, il a adressé les paroles suivantes à Churchill : « L’un de mes plus fidèles conseillers m’a dit, quand il a appris l’accident, que trop de gens, qui n’étaient pas d’accord avec vous, avaient des accidents d’avion mortels ».

 

Roosevelt, en poursuivant la conversation avec son allié, met ensuite l’accent sur l’importance capitale de sa présidence et fait la leçon au Britannique : « Si je ne suis pas nominé, je ne pourrai pas être élu. Comprenez-vous cela ? Et si je ne suis pas élu, mon adversaire probable, que tiennent les réactionnaires et les cercles d’affaires, ne sera pas aussi coopératif et amical à l’égard de vous tous, et surtout pas à l’égard d’Uncle Joe. Si je tombe, l’alliance pourrait bien vaciller et vous aussi vous vacillerez. L’Uncle Joe pourrait alors conclure une paix séparée avec Hitler, et qu’arrivera-t-il alors à l’Angleterre ? Hitler pourrait dans ce cas tourner toute sa colère et toute son aviation contre vous pour se venger de certaines de vos actions comme le dernier raid contre Hambourg » ; Roosevelt faisant ici une allusion directe à l’ « Opération Gomorrhe » lancée deux jours auparavant par la RAF et qui a coûté la vie à 35.000 civils.

 

Révélations compromettantes sur le comportement des alliés occidentaux

 

L’incident démontre en toute clarté que les Etats-Unis ont délibérément étalé leur puissance et humilié simultanément, et de manière assez cruelle, l’Empire britannique, jadis si puissant et dont Churchill prétendait être l’intendant, responsable de son destin présent et futur. Apparemment sans en avoir eu l’intention, le président Roosevelt a contribué, par cette conversation téléphonique vespérale du 29 juillet 1943, à nous éclairer sur bon nombre d’événements peu élucidés de notre histoire contemporaine. De même, cette querelle au téléphone entre l’ « Amiral Q » et le « Colonel Warden »  —selon les pseudonymes qu’utilisaient toujours Churchill et Roosevelt à fins de camouflage, lorsqu’ils s’annonçaient sur la ligne spéciale qui les reliait et qui était mise à leur disposition par l’ « American Telephone & Telegraph » de New York  et la « British Post » de Londres—  révèle quels ont été, pendant l’été 1943, les rapports réels entre les puissances occidentales et l’Union Soviétique. En tant que source concrète de notre histoire contemporaine, cette conversation téléphonique peut se révéler explosive par son contenu, vu le débat qui secoue aujourd’hui la Pologne pour savoir quelles ont été les véritables circonstances de la mort de Wladyslaw Sikorski.

 

Prof. Alfred SCHICKEL.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°51/2008 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

 

mardi, 13 avril 2010

Bardèche's Six Postulates of Fasciste Socialism

Bardèche’s Six Postulates of Fascist Socialism

bardecheTranslator’s Note: When liberalism becomes “a foul tyranny masking an evil and anonymous dictature of money” (the basis of Jewish supremacy), everything is inverted and perverted, so that even our word “socialism” is tarnished, associated as it now is with Washington’s Judeo-Negro regime. I thought it appropriate, therefore, to post something that reminds readers of how we once defined this term.  The following is a short excerpt from Maurice Bardèche’s Socialisme fasciste (Waterloo, 1991). — Michael O’Meara

“Socialisme fasciste” is the title of an essay by Drieu La Rochelle. Fascist socialism, though, has been largely symbolic, since it is more an idea than a record of actual achievement.

At certain points, all fascist movements had to come to terms with socialism. And all took inspiration from it: Hitler’s party was the National Socialist German Workers Party, Mussolini was a socialist school teacher, José-Antonio Primo de Rivera was a symbol of national-syndicalist socialism, Codreanu’s Iron Guard was a movement of students and peasants, Mosley in England had been a Labour Minister, Doriot in France was a former Communist and his PPF emerged from a Communist cell in Saint-Denis.

Historically, fascist movements were liberation movements opposing the confiscation of power by cosmopolitan capitalism and by the inherent dishonesty of democratic regimes, which systematically deprive the people of their right to participate [in government].

With the exception of Peron’s Argentina, circumstances have always been such as to prevent the realization of fascism’s socialist vocation.

Those fascist movements that succeeded in taking power were compelled, thus, to reconstitute an economy ruined by demagogues, to re-establish an order undermined by anarchy, to create ways of overcoming the chaos besetting their lands or to repel external threats. These urgent and indispensable tasks required a total national mobilization and dictated certain priorities.

Circumstances, in a word, everywhere prevented fascists from realizing the synthesis of socialism and nationalism, for their socialist project was necessarily subordinated to the imperative of ensuring the nation’s survival.

These circumstances were further exacerbated by another difficulty: Fascist movements were generally reluctant to destroy the structure of capitalist society.

Given that their enemy was plutocracy, foreign capital, and the usurpers of national sovereignty, the immediate objective of these movements was to put the national interest above capitalist interest and to establish a regalian state capable of protecting the nation, as kings had once done against the feudal powers.

This [fascist] policy of conserving ancient structures may have transformed the prevailing consciousness and shifted power, but it did not entail a revolutionary destruction of the old order.

Fascist nostalgia for the old regime has, indeed, been so profound that it routinely reappears [today] in neo-fascist movements that are national-revolutionary more in word than in deed.

This phenomenon is evident throughout Europe, in Italy and Germany, in Spain, in France . . .

Is it, then, a contradiction distinct to neo-fascism that it has been unable to combine the conservation of hierarchical structures upon which Western Civilization rests with measures specifically socialist?  Or do neo-fascists simply — unconsciously — express the impossibility of grafting measures of social justice onto a civilization profoundly foreign to their ideal . . . ?

We need at this point to turn to [first] principles.

Every new vision of social relations rejecting Marxism rests on a certain number of postulates, which, I believe, are common to all radical oppositional movements.

1. The first of these condemns political and economic liberalism, which is the instrument of plutocratic domination. Only an authoritarian regime can ensure that the nation’s interest is respected.

2. The second postulate rejects class struggle. Class struggle is native to Marxism and [inevitably] leads to the sabotage of the nation’s economy and to a bureaucratic dictatorship, while true prosperity benefits everyone and can be obtained only through a loyal collaboration and a fair distribution.

3. The third protects the nation’s “capital” (understood as the union of capital and labor) and represents all who participate in the productive process . . . It is a function of the [fascist] state, thus to promote labor-capital collaboration and to do so in a way that does not put labor at the mercies of capital.

4. Given that the nation’s economy is a factor crucial to the nation’s independence, it, along with the Army and other national institutions, are to be protected from all forms of foreign interference.

5. Since modern nations have become political-economic enterprises whose power resides in those who control the economy as much as it does in those who make political decisions, the nation must play a leading role in the economic as well as the political systems. The instrument appropriate to such participation in the nation’s life have, however, yet to be invented. . . .

6. Above all, the nation’s interest must take priority over every particular interest. . . .

There is nothing specifically “socialist,” as this term is understood today, in these principles, since contemporary socialism is nothing other than a form of social war whose inevitable culmination is the rule of those bureaucratic entities claiming to represent the workers [i.e., national union federations].

Nevertheless, these principles accord with another conception of socialism — one that favors a fair distribution to all who participate in the productive process. This is not the underlying idea, but the consequence thereof, inspiring our postulates.

A fair distribution, however, will never result from sporadic, recurring struggles challenging the present degradations of money. Instead, it is obtainable only through the authority of a strong state able to impose conditions it considers equitable.

vendredi, 09 avril 2010

Ernst Niekisch: un rivoluzionario tedesco (1889-1967)

ERNST NIEKISCH

UN RIVOLUZIONARIO TEDESCO (1889-1967)

di Josè Cuadrado Costa

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Niekischthumb_.jpgErnst Niekisch è la figura più rappresentativa del complesso e multiforme panorama che offre il movimento nazional-bolscevico tedesco degli anni 1918-1933. In lui si incarnano con chiarezza le caratteristiche - e le contraddizioni - evocate dal termine nazional-bolscevico e che rispondono molto più ad uno stato d'animo, ad una disposizione attivista, che ad una ideologia dai contorni precisi o ad una unità organizzativa, poiché questo movimento era composto da una infinità di piccoli circoli, gruppi, riviste ecc. senza che ci fosse mai stato un partito che si fosse qualificato nazional-bolscevico. E’ curioso constatare come nessuno di questi gruppi o persone usò questo appellativo (se escludiamo la rivista di Karl Otto Paetel, "Die Sozialistische Nation") bensì che l’aggettivo fu impiegato in modo dispregiativo, non scevro di sensazionalismo, dalla stampa e dai partiti sostenitori della Repubblica di Weimar, dei quali tutti i nazional-bolscevichi furono feroci nemici non essendoci sotto questo punto di vista differenze fra gruppi d’origine comunista che assimilarono l’idea nazionale ed i gruppi nazionalisti disposti a perseguire scambi economici radicali e l’alleanza con l'URSS per distruggere l'odiato sistema nato dal Diktat di Versailles. Ernst Niekisch nacque il 23 maggio 1889 a Trebnitz (Slesia). Era figlio di un limatore che si trasferì a Nordlingen im Reis (Baviera-Svevia) nel 1891. Niekisch frequenta gli studi di magistero, che termina nel 1907, esercitando poi a Ries e Augsburg. Non era frequente nella Germania guglielmina - quello Stato in cui si era realizzata la vittoria del borghese sul soldato secondo Carl Schmitt - che il figlio di un operaio studiasse, per cui Niekisch dovette soffrire le burle e l’ostilità dei suoi compagni di scuola. Già in quel periodo era avido di sapere ("Una vita da nullità è insopportabile", dirà) e divorato da un interiore fuoco rivoluzionario; legge Hauptmann, Ibsen, Nietzsche, Schopenhauer, Kant, Hegel e Macchiavelli, alla cui influenza si aggiungerà quella di Marx, a partire dal 1915. Arruolato nell’esercito nel 1914, seri problemi alla vista gli impediscono di giungere al fronte, per cui eserciterà, sino al febbraio del 1917, funzioni di istruttore di reclute ad Augsburg. Nell’ottobre del 1917 entra nel Partito Socialdemocratico (SPD) e si sente fortemente attratto dalla rivoluzione bolscevica. E' di quell’epoca il suo primo scritto politico, oggi perso, intitolato significativamente Licht aus dem osten (Luce dall’Est), nel quale già formulava ciò che sarà una costante della sua azione politica: l’idea della "Ostorientierung". La diffusione di questo foglio sarà sabotata dallo stesso SPD al cui periodico di Augsburg "Schwabischen Volkszeitung" collaborava Niekisch. Il 7 novembre 1918 Eisner, a Monaco, proclama la Repubblica. Niekisch fonda il Consiglio degli Operai e Soldati di Augsburg e ne diviene il presidente, dopo esserlo già stato del Consiglio Centrale degli Operai, Contadini e Soldati di Monaco nel febbraio e nel marzo del 1919. Egli è l’unico membro del Comitato Centrale che vota contro la proclamazione della prima Repubblica sovietica in Baviera, poiché considera che questa, in ragione del suo carattere agrario, sia la provincia tedesca meno idonea a realizzare l’esperimento. Malgrado ciò, con l’entrata dei Freikorps a Monaco, Niekisch viene arrestato il 5 maggio - giorno in cui passa dal SPD al Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD). lI 22 giugno viene condannato a due anni di fortezza per la sua attività nel Consiglio degli Operai e Soldati, per quanto non abbia avuto nulla a che vedere con i crimini della Repubblica sovietica bavarese. Niekisch sconta integralmente la sua pena, e nonostante l’elezione al parlamento bavarese nelle liste della USPD non sarà liberato fino all’agosto del 1921. Frattanto, si ritrova nel SPD per effetto della riunificazione dello stesso con la USPD (la scissione si era determinata durante la guerra mondiale). Niekisch non è assolutamente d’accordo con la politica condiscendente dell’SPD - per temperamento era incapace di sopportare le mezze tinte o i compromessi - ed a questa situazione di sdegno si aggiungevano le minacce contro di lui e la sua famiglia (si era sposato nel 1915 ed aveva un figlio); così rinuncia al suo mandato parlamentare e si trasferisce a Berlino, dove entra nella direzione della segreteria giovanile del grande sindacato dei tessili, un lavoro burocratico che non troverà di suo gradimento. I suoi rapporti con L'SPD si deteriorano progressivamente, per il fatto che Niekisch si oppone al pagamento dei danni di guerra alla Francia e al Belgio e appoggia la resistenza nazionale quando la Francia occupa il bacino della Ruhr, nel gennaio del 1923. Dal 1924 si oppone anche al Piano Dawes, che regola il pagamento dei danni di guerra imposto alla Germania a Versailles. Niekisch attaccò frontalmente la posizione dell’SPD di accettazione del Piano Dawes in una conferenza di sindacalisti e socialdemocratici scontrandosi con Franz Hilferding, principale rappresentante della linea ufficiale.

NeI 1925 Niekisch, che è redattore capo della rivista socialista Firn (Il nevaio), pubblica i due primi lavori giunti fino a noi: Der Weg der deutschen Arbeiterschaft zum Staat e Grundfragen deutscher Aussenpolitik. Entrambe le opere testimoniano una influenza di Lassalle molto maggiore di quella di Marx/Engels, un aspetto che fa somigliare queste prime prese di posizione di Niekisch a quelle assunte nell’immediato dopoguerra dai comunisti di Amburgo, che si separarono dal Partito Comunista Tedesco (KPD) per fondare il Partito Comunista Operaio Tedesco (KAPD), guidato da Laufenberg e Wolffheim, che era un accanito partigiano della lotta di liberazione contro Versailles (questo partito, che giunse a disporre di una base abbastanza ampia, occupa un posto importante nella storia del nazionalbolscevismo). Nei suoi scritti del 1925, Niekisch propone che l'SPD si faccia portavoce dello spirito di resistenza del popolo tedesco contro l'imperialismo capitalista delle potenze dell’Intesa, ed allo stesso tempo sostiene che la liberazione sociale delle masse proletarie ha come presupposto inevitabile la liberazione nazionale. Queste idee, unite alla sua opposizione alla politica estera filofrancese dell’SPD ed alla sua lotta contro il Piano Dawes, gli attirano la sfiducia dei vertici socialdemocratici. Il celebre Eduard Bernstein lo attaccherà per suoi atteggiamenti nazionalistici sulla rivista "Glocke". In realtà, Niekisch non fu mai marxista nel senso ortodosso della parola: concedeva al marxismo valore di critica sociale, ma non di WeItanschauung, ed immaginava lo Stato socialista al di sopra di qualsiasi interesse di classe, come esecutore testamentario di Weimar e Königsberg (cioè di Goethe e Kant). Si comprende facilmente come questo genere di idee non fossero gradite all'imborghesita direzione dell’SPD... Ma Niekisch non era isolato in seno al movimento socialista, poiché manteneva stretti rapporti con il Circolo Hofgeismar della Gioventù Socialista, che ne rappresentava l’ala nazionalista fortemente influenzata dalla Rivoluzione conservatrice. Niekisch scrisse spesso su "Rundbrief", la rivista di questo circolo, dal quale usciranno fedeli collaboratori quando avrà inizio l’epoca di "Widerstand": fra essi Benedikt Qbermayr, che lavorerà con Darré nel Reichsmährstand. Poco a poco l’SPD comincia a disfarsi di Niekisch: per le pressioni del suo primo presidente, Niekisch fu escluso dal suo posto nel sindacato dei tessili, e nel luglio del 1925 anticipò con le dimissioni dall'SPD il provvedimento di espulsione avviato contro di lui, ed il cui risultato non dava adito a dubbi. Inizia ora il periodo che riserverà a Niekisch un posto nella storia delle idee rivoluzionarie del XX secolo: considerando molto problematico lo schema "destra-centro-sinistra", egli si sforza di raggruppare le migliori forze della destra e della sinistra (conformemente alla celebre immagine del ferro di cavallo, in cui gli estremi si trovano più vicini fra loro di quanto non lo siano con il centro) per la lotta contro un nemico che definisce chiaramente: all’esterno l’Occidente liberale ed il Trattato di Versailles; all’interno il liberalismo di Weimar. Nel luglio del 1926 pubblica il primo numero della rivista Widerstand ("Resistenza"), e riesce ad attirare frazioni importanti - per numero ed attivismo - dell’antico Freikorps "Bund Oberland" mentre aderisce all'Altsozialdemokratische Partei (ASP) della Sassonia, cercando di utilizzarlo come piattaforma per i suoi programmi di unificazione delle forze rivoluzionarie. Per questa ragione si trasferisce a Dresda, dove dirige il periodico dell’ASP ("Der Volkstaat"), conducendo una dura lotta contro la politica filo-occidentale di Stresemann, opponendo al trattato di Locarno, con il quale la Germania riconosceva come definitive le sue frontiere occidentali ed il suo impegno a pagare i danni di guerra, lo spirito del trattato di Rapallo (1922), con il quale la Russia sovietica e la Germania sconfitta - i due paria d'Europa - strinsero le loro relazioni solidarizzando contro le potenze vincitrici. L'esperienza con l’ASP termina quando questo partito è sconfitto nelle elezioni del 1928, e ridotto ad entità insignificante. Questo insuccesso non significa assolutamente che Niekisch abbandoni la lotta scoraggiato. Al contrario, è in questo periodo che scriverà le sue opere fondamentali: Gedanken über deutsche Politik, Politik und idee (entrambe del 1929), Entscheidung (1930: il suo capolavoro), Der Politische Raum deutschen Widerstandes (1931) e Politik deutschen Widerstandes (1932). Parallelamente a questa attività pubblicistica, continua a pubblicare la rivista "Widerstand", fonda la casa editrice che porta lo stesso nome nel 1928 e viaggia in tutti gli angoli della Germania come conferenziere. Il solo elenco delle personalità con le quali ha rapporti è impressionante (dal maggio 1929 si trasferisce definitivamente a Berlino): il filosofo Alfred Baeumler gli presenta Ernst e Georg Jünger, con i quali avvia una stretta collaborazione; mantiene rapporti con la sinistra del NSDAP. il conte Ernst zu Reventlow, Gregor Strasser (che gli offrirà di diventare redattore capo dei "Voelkischer Beobachter") e Goebbels, che è uno dei più convinti ammiratori del suo libro Entscheidung (Decisione). E’ pure determinante la sua amicizia con Carl Schmitt. Nell'ottobre del 1929, Niekisch è l’animatore dell’azione giovanile contro il Piano Young (un altro piano di "riparazioni"), pubblicando sul periodico "Die Kommenden", il 28 febbraio del 1930, un ardente appello contro questo piano, sottoscritto da quasi tutte le associazioni giovanili tedesche - fra le quali la Lega degli Studenti Nazionalsocialisti e la Gioventù Hitleriana -, e che fu appoggiato da manifestazioni di massa. I simpatizzanti della sua rivista furono organizzati in "Circoli Widerstand" che celebrarono tre congressi nazionali negli anni 1930-1932. Nell'autunno del '32 Niekisch va in URSS, partecipando ad un viaggio organizzato dalla ARPLAN (Associazione per lo studio del Piano Quinquennale sovietico, fondata dal professor Friedrich Lenz, altra figura di spicco del nazional-bolscevismo). Questi dati biografici erano indispensabili per presentare un uomo come Niekisch, che è praticamente uno sconosciuto; e per poter comprendere le sue idee, idee che, d'altra parte, egli non espose mai sistematicamente - era un rivoluzionario ed uno scrittore da battaglia -, ne tenteremo una ricostruzione. Dal 1919 Niekisch era un attento lettore di Spengler (cosa che non deve sorprendere in un socialista di quell' epoca, nella quale esisteva a livello intellettuale e politico una compenetrazione tra destra e sinistra, quasi una osmosi, impensabile nelle attuali circostanze), del quale assimilerà soprattutto la famosa opposizione fra "Kultur" e "Zivilisation". Ma la sua concezione politica fu notevolmente segnata dalla lettura di un articolo di Dostoevskij che ebbe una grande influenza nella Rivoluzione conservatrice tramite il Thomas Mann delle Considerazioni di un apolitico, e di Moeller van den Bruck con Germania, potenza protestante (dal Diario di uno scrittore, maggio/giugno 1877, cap. III). Il termine "protestante" non ha nessuna connotazione religiosa, ma allude al fatto che la Germania, da Arminio ad oggi, ha sempre "protestato" contro le pretese romane di dominio universale, riprese dalla Chiesa cattolica e dalle idee della Rivoluzione francese, prolungandosi, come segnalerà Thomas Mann, sino agli obiettivi dell' Intesa che lottò contro la Germania nella Prima Guerra Mondiale. Da questo momento, l’odio verso il mondo romano diventa un aspetto essenziale del pensiero di Niekisch, e le idee espresse in questo articolo di Dostoevskij rafforzano le sue concezioni. Niekisch fa risalire la decadenza del germanesimo ai tempi in cui Carlomagno compì il massacro della nobiltà sassone ed obbligò i sopravvissuti a convertirsi al cristianesimo: cristianesimo che per i popoli germanici fu un veleno mortale, il cui scopo è stato quello di addomesticare il germanesimo eroico al fine di renderlo maturo per la schiavitù romana. Niekisch non esita a proclamare che tutti i popoli che dovevano difendere la propria libertà contro l’imperialismo occidentale erano obbligati a rompere con il cristianesimo per sopravvivere. Il disprezzo per il cattolicesimo si univa in Niekisch all’esaltazione del protestantesimo tedesco, non in quanto confessione religiosa (Niekisch censurava aspramente il protestantesimo ufficiale, che accusava di riconciliarsi con Roma nella comune lotta antirivoluzionaria), ma in quanto presa di coscienza orgogliosa dell’essere tedesco e attitudine aristocratica opposta agli stati d’animo delle masse cattoliche: una posizione molto simile a quella di Rosenberg, visto che difendevano entrambi la libertà di coscienza contro l’oscurantismo dogmatico (Niekisch commentò sulla sua rivista lo scritto di Rosenberg "il mito del XX secolo").Questa attitudine ostile dell'imperialismo romano verso la Germania è continuata attraverso i secoli, poiché "ebrei", gesuiti e massoni sono da secoli coloro che hanno voluto schiavizzare ed addomesticare i barbari germanici. L’accordo del mondo intero contro la Germania che si manifesta soprattutto quando questa si è dotata di uno Stato forte, si rivelò con particolare chiarezza durante la Prima Guerra Mondiale, dopo la quale le potenze vincitrici imposero alla Germania la democrazia (vista da Niekisch come un fenomeno di infiltrazione straniera) per distruggerla definitivamente. Il Primato del politico sull' economico fu sempre un principio fondamentale del pensiero di Niekisch.

Niekisch_-_Der_politische_Raum.jpgFortemente influenzato da Carl Schmitt, e partendo da questa base, Niekisch doveva vedere come nemico irriducibile il liberalismo borghese, che valorizza soprattutto i principi economici e considera l'uomo soltanto isolatamente, come unità alla ricerca del suo esclusivo profitto. l'individualismo borghese (con i conseguenti Stato liberale di diritto, libertà individuali, considerazioni dello Stato come un male) e materialismo nel pensiero di Niekisch appaiono come caratteristiche essenziali della democrazia borghese. Nello stesso tempo, Niekisch sviluppa una critica non originale, ma efficace e sincera, del sistema capitalista come sistema il cui motore è l’utile privato e non il soddisfacimento delle necessità individuali e collettive; e che, per di più, genera continuamente disoccupazione. In questo modo la borghesia viene qualificata come nemico interno che collabora con gli Stati occidentali borghesi all’oppressione della Germania. Il sistema di Weimar (incarnato da democratici, socialisti e clericali) rappresentava l’opposto dello spirito e della volontà statale dei tedeschi, ed era il nemico contro il quale si doveva organizzare la “Resistenza". Quello di "Resistenza" è un'altro concetto fondamentale dell'opera di Niekisch. La rivista dallo stesso nome recava, oltre al sottotitolo (prima "Blätter für sozialistische und nationalrevolutionäre Politik", quindi "Zeitschrift für nationalrevolutionäre Politik") una significativa frase di Clausewitz: "La resistenza è un'attività mediante la quale devono essere distrutte tante forze del nemico da indurlo a rinunciare ai suoi propositi". Se Niekisch considerava possibile questa attitudine di resistenza è perché credeva che la situazione di decadenza della Germania fosse passeggera, non irreversibile; e per quanto a volte sottolineasse che il suo pessimismo era “illimitato", si devono considerare le sue dichiarazioni in questo senso come semplici espedienti retorici, poiché la sua continua attività rivoluzionaria è la prova migliore che in nessun momento cedette al pessimismo ed allo sconforto. Abbiamo visto qual era il nemico contro cui dover organizzare la resistenza: “La democrazia parlamentare ed il liberalismo, il modo di vivere francese e l’americanismo". Con la stessa esattezza Niekisch definisce gli obiettivi della resistenza: l’indipendenza e la libertà della Germania, la più alta valorizzazione dello Stato, il recupero di tutti i tedeschi che si trovavano sorto il dominio straniero. Coerente col suo rifiuto dei valori economici, Niekisch non contrappone a questo nemico una forma migliore di distribuzione dei beni materiali, né il conseguimento di una società del benessere: ciò che Niekisch cercava era il superamento del mondo borghese, i cui beni si devono “detestare asceticamente". Il programma di "Resistenza" dell’aprile del 1930 non lascia dubbi da questo punto di vista: nello stesso si chiede il rifiuto deciso di tutti i beni che l’Europa vagheggia (punto 7a), il ritiro dall'economia internazionale (punto 7b), la riduzione della popolazione urbana e la ricostituzione delle possibilità di vita contadina (7c-d), la volontà di povertà ed un modo di vita semplice che deve opporsi orgogliosamente alla vita raffinata delle potenze imperialiste occidentali (7f) e, finalmente, la rinuncia al principio della proprietà privata nel senso del diritto romano, poiché “agli occhi dell’opposizione nazionale, la proprietà non ha senso né diritto al di fuori del servizio al popolo ed allo Stato”. Per realizzare i suoi obiettivi, che Uwe Sauermann definisce con precisione identici a quelli dei nazionalisti, anche se le strade e gli strumenti per conseguirli sono nuovi, Niekisch cerca le forze rivoluzionarie adeguate. Non può sorprendere che un uomo proveniente dalla sinistra come lui si diriga in primo luogo al movimento operaio. Niekisch constata che l’abuso che la borghesia ha fatto del concetto "nazionale", impiegato come copertura dei suoi interessi economici e di classe, ha provocato nel lavoratore l’identificazione fra "nazionale" e "socialreazionario", fatto che ha portato il proletariato a separarsi troppo dai legami nazionali per crearsi un proprio Stato. E per quanto questo atteggiamento dell’insieme del movimento operaio sia parzialmente giustificato, non sfugge a Niekisch il fatto che il lavoratore in quanto tale è solo appena diverso da un "borghese frustrato” senz’altra aspirazione che quella di conseguire un benessere economico ed un modo di vivere identico a quello della borghesia. Questa era una conseguenza necessaria al fatto che il marxismo è un ideologia borghese, nata nello stesso terreno del liberalismo e tale da condividere con questo una valorizzazione della vita in termini esclusivamente economici.La responsabilità di questa situazione ricade in gran parte sulla socialdemocrazia che "è soltanto liberalismo popolarizzato e che ha spinto il lavoratore nel suo egoismo di classe, cercando di farne un borghese". Questa attitudine del SPD è quella che ha portato, dopo il 1918, non alla realizzazione della indispensabile rivoluzione nazionale e sociale, bensì "alla ricerca di cariche per i suoi dirigenti” ed alla conversione in una opposizione all'interno del sistema capitalista, anziché in un partito rivoluzionario: L’SPD è un partito liberale e capitalista che impiega una terminologia socialrivoluzionaria per ingannare i lavoratori. Questa analisi è quella che porta Niekisch a dire che tutte le forme di socialismo basate su considerazioni umanitarie sono "tendenze corruttrici che dissolvono la sostanza della volontà guerriera del popolo tedesco". Influenzata molto dal “decisionismo" di Cari Schmitt, l’attitudine di Niekisch verso il KPD è molto più sfumata. Prima di tutto, ed in opposizione al SPD, fermamente basato su concezioni borghesi, il comunismo si regge “su istinti elementari". Del KPD Niekisch apprezza in modo particolare la “struttura autocratica”, la “approvazione a voce alta della dittatura”. Queste caratteristiche renderebbero possibile utilizzare il comunismo come “mezzo” ed il percorrere insieme una parte della strada. Niekisch accolse con speranza il "Programma di Liberazione Nazionale e Sociale" del KPD (24 agosto 1930) in cui si dichiarava la lotta totale contro le riparazioni di guerra e l’ordine dì Versailles, ma quando ciò si rivelò solo una tattica - diretta a frenare i crescenti successi del NSDAP-, cosi come lo era stata la "linea Schlagater" nei 1923, Niekisch denunciò la malafede dei comunisti sul problema nazionale e li qualificò come incapaci di realizzare il compito al quale lui aspirava poiché erano "solo socialrivoluzionari" e per di più poco rivoluzionari. Il ruolo dirigente nel partito rivoluzionario avrebbe quindi dovuto essere ricoperto da un "nazionalista" di nuovo stampo, senza legami con il vecchio nazionalismo (è significativo che Niekisch considerasse il partito tradizionale dei nazionalisti, il DNVP, incapace di conseguire la resurrezione tedesca perché orientato verso l'epoca guglielmina, definitivamente scomparsa). Il nuovo nazionalismo doveva essere socialrivoluzionario, non condizionato, disposto a distruggere tutto quanto potesse ostacolare l’indipendenza tedesca, ed il nuovo nazionalista, fra i cui compiti c’era quello di utilizzare l’operaio comunista rivoluzionario, doveva avere la caratteristica fondamentale di volersi sacrificare e voler servire. Secondo una bella immagine di Niekisch, il comunismo non sarebbe altro che “il fumo che inevitabilmente sale dove un mondo comincia a bruciare”.Si è vista l’immagine offerta da Niekisch della secolare decadenza tedesca, ma nel passato tedesco non tutto è oscuro; c’è un modello al quale Niekisch guarderà costantemente: la vecchia Prussia o, come egli dice, l'idea di Potsdam, una Prussia che con l'apporto di sangue slavo possa essere l’antidoto contro la Germania romanizzata.E così che esigerà, fin dai primi numeri di "Widerstand", la resurrezione di "una Germania prussiana, disciplinata e barbara, più preoccupata del potere che delle cose dello spirito". Cosa significa esattamente la Prussia per Niekisch? O.E. Schüddekopf lo ha indicato esattamente quando dice che nella "idea di Potsdam" Niekisch vedeva tutte le premesse del suo nazional-bolscevismo: "Lo Stato totale, l’economia pianificata, l’alleanza con la Russia, una condizione spirituale antiromana, la difesa contro l'Ovest, contro l'Occidente, l'incondizionato Stato guerriero, la povertà...". Nell'idea prussiana di sovranità Niekisch riconosce l'idea di cui hanno bisogno i tedeschi: quella dello "Stato totale", necessario in quanto la Germania, minacciata dall'ostilità dei vicini per la sua condizione geografica, ha bisogno di diventare uno Stato militare. Questo Stato totale deve essere lo strumento di lotta cui deve essere tutto subordinato - l'economia come la cultura e la scienza - affinchè il popolo tedesco possa ottenere la sua libertà. E’ evidente, per Niekisch - ed in questo occorre ricercare una delle ragioni più profonde del suo nazional-bolscevismo -, che lo Stato non può dipendere da un’economia capitalista in cui offerta e domanda determinino il mercato; al contrario, l’economia deve essere subordinata allo Stato ed alle sue necessità. Per qualche tempo, Niekisch ebbe fiducia in determinati settori della Reichswehr (pronunciò molte delle sue conferenze in questo ambiente militare) per realizzare l’"idea di Potsdam”, ma agli inizi del 1933 si allontanò dalla concezione di una "dittatura della Reichswehr" perché essa non gli appariva sufficientemente "pura" e "prussiana" tanto da farsi portatrice della "dittatura nazionale", e ciò era dovuto, sicuramente, ai suoi legami con le potenze economiche. Un'altro degli aspetti chiave del pensiero di Niekisch è il primato riconosciuto alla politica estera (l'unica vera politica per Spengler) su quella interna. Le sue concezioni al riguardo sono marcatamente influenzate da Macchiavelli (del quale Niekisch era grande ammiratore, tanto da firmare alcuni suoi articoli con lo pseudonimo di Niccolò) e dal suo amico Karl Haushofer. Del primo, Niekisch conserverà sempre la Realpolitik, la sua convinzione che la vera essenza della politica è sempre la lotta fra Stati per il potere e la supremazia, dal secondo apprenderà a pensare secondo dimensioni geopolitiche, considerando che nella situazione di allora - ed a maggior ragione in quella attuale - hanno un peso nella politica mondiale solamente gli Stati costruiti su grandi spazi, e siccome nel 1930 l'Europa centrale di per sè non avrebbe potuto essere altro che una colonia americana, sottomessa non solo allo sfruttamento economico, ma "alla banalità, alla nullità, al deserto, alla vacuità della spiritualità americana", Niekisch propone un grande stato "da Vladivostok sino a Vlessingen", cioè un blocco germano-slavo dominato dallo spirito prussiano con l'imperio dell'unico collettivismo che possa sopportare l'orgoglio umano: quello militare. Accettando con decisione il concetto di "popoli proletari" (come avrebbero fatto i fascisti di sinistra), il nazionalismo di Niekisch era un nazionalismo di liberazione, privo di sciovinismo, i cui obbiettivi dovevano essere la distruzione dell'ordine europeo sorto da Versailles e la liquidazione della Società delle Nazioni, strumento delle potenze vincitrici. Agli inizi del suo pensiero, Niekisch sognava un "gioco in comune" della Germania con i due Paesi che avevano saputo respingere la "struttura intellettuale" occidentale: la Russia bolscevica e l'Italia fascista (è un'altra coincidenza, tra le molte, fra il pensiero di Niekisch e quello di Ramiro Ledesma). Nel suo programma dell'aprile del 1930, Niekisch chiedeva "relazioni pubbliche o segrete con tutti i popoli che soffrono, come il popolo tedesco, sotto l'oppressione delle potenze imperialiste occidentali". Fra questi popoli annoverava l'URSS ed i popoli coloniali dell'Asia e dell'Africa. Più avanti vedremo la sua evoluzione in relazione al Fascismo, mentre ci occuperemo dell'immagine che Niekisch aveva della Russia sovietica. Prima di tutto dobbiamo dire che quest' immagine non era esclusiva di Niekisch, ma che era patrimonio comune di quasi tutti gli esponenti della Rivoluzione Conservatrice e del nazional-bolscevismo, a partire da Moeller van den Bruck, e lo saranno anche i più lucidi fascisti di sinistra: Ramiro Ledesma Ramos e Drieu la Rochelle. Perchè, in effetti, Niekisch considerava la rivoluzione russa del 1917 prima di tutto come una rivoluzione nazionale, più che come una rivoluzione sociale. La Russia, che si trovava in pericolo di morte a causa dell'infiltrazione dei valori occidentali estranei alla sua essenza, "incendiò di nuovo Mosca" per farla finita con i suoi invasori, impiegando il marxismo come combustibile. Con parole dello stesso Niekisch: "Questo fu il senso della Rivoluzione bolscevica: la Russia, in pericolo di morte, ricorse all'idea di Potsdam, la portò sino alle estreme conseguenze, quasi oltre ogni misura, e creò questo Stato assolutista di guerrieri che sottomette la stessa vita quotidiana alla disciplina militare, i cui cittadini sanno sopportare la fame quando c'è da battersi, la cui vita è tutta carica, fino all'esplosione, di volontà di resistenza". Kerenski era stato solo una testa di legno dell' Occidente che voleva introdurre la democrazia borghese in Russia (Kerenski era, chiaramente, l’uomo nel quale avevano fiducia le potenze dell’Intesa perché la Russia continuasse al loro fianco la guerra contro la Germania); la rivoluzione bolscevica era stata diretta contro gli Stati imperialisti dell’Occidente e contro la borghesia interna favorevole allo straniero ed antinazionale. Coerente con questa interpretazione, Niekisch definirà il leninismo come "ciò che rimane del marxismo quando un uomo di Stato geniale lo utilizza per finalità di politica nazionale", e citerà con frequenza la celebre frase di Lenin che sarebbe diventata il leit-motiv di tutti i nazional-bolscevichi: "Fate della causa del popolo la causa della Nazione e la causa della Nazione diventerà la causa del popolo". Nelle lotte per il potere che ebbero luogo ai vertici sovietici dopo la morte di Lenin, le simpatie di Niekisch erano dirette a Stalin, e la sua ostilità verso Trotzskij (atteggiamento condiviso, fra molti altri, anche da Ernst Jünger e dagli Strasser). Trotzskij ed i suoi seguaci, incarnavano, agli occhi di Niekisch, le forze occidentali, il veleno dell’Ovest, le forze di una decomposizione ostile a un ordine nazionale in Russia. Per questo motivo Niekisch accolse con soddisfazione la vittoria di Stalin e dette al suo regime la qualifica di "organizzazione della difesa nazionale che libera gli istinti virili e combattenti". Il Primo Piano Quinquennale, in corso quando Niekisch scriveva, era "Un prodigioso sforzo morale e nazionale destinato a conseguire l’autarchia". Era quindi l’aspetto politico-militare della pianificazione ciò che affascinava Niekisch, gli aspetti socio-economici (come nel caso della sua valutazione del KDP) lo interessavano appena. Fu in questo modo che poté coniare la formula: "collettivismo + pianificazione = militarizzazione del popolo". Quanto Niekisch apprezzava della Russia è esattamente il contrario di quanto ha attratto gli intellettuali marxisti degenerati: “La violenta volontà di produzione per rendere forte e difendere lo Stato, l’imbarbarimento cosciente dell’esistenza... l’attitudine guerriera, autocratica, dell’élite dirigente che governa dittatorialmente, l’esercizio per praticare l’ascesi di un popolo...”. Era logico che Niekisch vedesse nell’Unione Sovietica il compagno ideale di un’alleanza con la Germania, poiché incarnava i valori antioccidentali cui Niekisch aspirava. Inoltre, occorre tener presente che in quell’epoca l’URSS era uno Stato isolato, visto con sospetto dai paesi occidentali ed escluso da ogni tipo di alleanza, per non dire circondato da Stati ostili che erano praticamente satelliti della Francia e dell’Inghilterra (Stati baltici, Polonia, Romania); a questo bisogna poi aggiungere che fino a ben oltre gli inizi degli anni ‘30, l’URSS non faceva parte della Società delle Nazioni né aveva rapporti diplomatici con gli USA. Niekisch riteneva che un'alleanza Russia-Germania fosse necessaria anche per la prima, poiché "la Russia deve temere l'Asia", e solo un blocco dall'Atlantico al Pacifico poteva contenere "la marea gialla", allo stesso modo in cui solo con la collaborazione tedesca la Russia avrebbe potuto sfruttare le immense risorse della Siberia. Abbiamo visto per quali ragioni la Russia appariva a Niekisch come un modello. Ma per la Germania non si trattava di copiare l'idea bolscevica, di accettarla in quanto tale. La Germania - e su questo punto Niekisch condivide l'opinione di tutti i nazionalisti - deve cercare le sue proprie idee e forme, e se la Russia veniva portata ad esempio, la ragione era che aveva organizzato uno Stato seguendo la "legge di Potsdam" che avrebbe dovuto ispirare anche la Germania. Organizzando uno Stato assolutamente antioccidentale, la Germania non avrebbe imitato la Russia, ma avrebbe recuperato la propria specificità, alienata nel corso di tutti quegli anni di sottomissione allo straniero e che si era incarnata nello Stato russo. Per quanto gli accordi con la Polonia e la Francia sondati dalla Russia saranno osservati con inquietudine da Niekisch, che difenderà appassionatamente l'Unione Sovietica contro le minacce di intervento e contro le campagne condotte a sue discapito dalle confessioni religiose. Inoltre, per Niekisch "una partecipazione della Germania alla crociata contro la Russia significherebbe... un suicidio". Questo sarà il rimprovero più importante - e convincente - di Niekisch al nazionalsocialismo, e con ciò giungiamo ad un punto che non cessa di provocare una certa perplessità: l'atteggiamento di Niekisch verso il nazionalsocialismo. Questa perplessità non è solo nostra; durante l'epoca che studiamo, Niekisch era visto dai suoi contemporanei più o meno come un "nazi". Certamente, la rivista paracomunista "Aufbruch" lo accomunava a Hitler nel 1932; più specifica, la rivista sovietica "Moskauer Rundschau" (30 novembre 1930), qualificava il suo "Entscheidung" come "l'opera di un romantico che ha ripreso da Nietzsche la sua scala di valori". Per dei critici moderni come Armin Mohler "molto di quanto Niekisch aveva chiesto per anni sarà realizzato da Hitler", e Faye segnala che la polemica contro i nazionalsocialisti, per il linguaggio che usa "lo colloca nel campo degli stessi". Cosa fu dunque ciò che portò Niekisch ad opporsi al nazionalsocialismo? Da un'ottica retrospettiva, Niekisch considera il NSDAP fino al 1923 come un "movimento nazional-rivoluzionario genuinamente tedesco", ma dalla rifondazione del Partito, nel 1925, pronuncia un'altro giudizio, nello stesso modo in cui modificherà il suo precedente giudizio sul fascismo italiano. Troviamo l'essenziale delle critiche di Niekisch al nazionalsocialismo in un opuscolo del 1932: "Hitler - ein deutsches Verhängnis" (Hitler, una fatalità tedesca) che apparve illustrato con impressionanti disegni di un artista di valore: A. Paul Weber. Dupeux segnala con esattezza che queste critiche non sono fatte dal punto di vista dell'umanitarismo e della democrazia, com'è usuale ai nostri giorni, e Sauermann lo qualifica come un "avversario in fondo essenzialmente rassomigliante". Niekisch considerava "cattolico", "romano" e "fascista" il fatto di dirigersi alle masse e giunse ad esprimere "l'assurdo" (Dupeux) che: "che è nazista, presto sarà cattolico". In questa critica occorre vedere, per cercare di comprenderla, la manifestazione di un atteggiamento molto comune fra tutti gli autori della Rivoluzione conservatrice, che disprezzavano come "demagogia" qualsiasi lavoro fra le masse, ed occorre ricordare, anche, che Niekisch non fu mai un tattico né un "politico pratico". Allo stesso tempo occorre mettere in relazione la sfiducia verso il nazionalsocialismo con le origini austriache e bavaresi dello stesso, poiché abbiamo già visto che Niekisch guardava con diffidenza ai tedeschi del sud e dell'ovest, come influenzati dalla romanizzazione. D'altra parte, Niekisch rimprovera al nazionalsocialismo la sua "democraticità" alla Rousseau e la sua fede nel popolo. Per Niekisch l'essenziale è lo Stato: egli sviluppò sempre un vero "culto dello Stato", perfino nella sua epoca socialdemocratica, per cui risulta per lo meno grottesco qualificarlo come un "sindacalista anarchico" (sic). Niekisch commise gravi errori nella sua valutazione del nazionalsocialismo, come il prendere sul serio il "giuramento di legalità" pronunciato da Hitler nel corso del processo al tenente Scheringer, senza sospettare che si trattava di mera tattica (con parole di Lenin, un rivoluzionario deve saper utilizzare tutte le risorse, legali ed illegali, servirsi di tutti i mezzi secondo la situazione, e questo Hitler lo realizzò alla perfezione), e ritenere che Hitler si trovasse molto lontano dal potere...nel gennaio del 1933. Questi errori possono spiegarsi facilmente, come ha fatto Sauermann, con il fatto che Niekisch giudicava il NSDAP più basandosi sulla propaganda elettorale che sullo studio della vera essenza di questo movimento. Tuttavia, il rimprovero fondamentale concerne la politica estera. Per Niekisch, la disponibilità - espressa nel "Mein Kampf" - di Hitler ad un'intesa con Italia ed Inghilterra e l'ostilità verso la Russia erano gli errori fondamentali del nazionalsocialismo, poiché questo orientamento avrebbe fatto della Germania un "gendarme dell'Occidente". Questa critica è molto più coerente delle anteriori. L'assurda fiducia di Hitler di poter giungere ad un accordo con l'Inghilterra gli avrebbe fatto commettere gravi errori (Dunkerque, per citarne uno); sulla sua alleanza con l'Italia, determinata dal sentimento e non dagli interessi - ciò che è funesto in politica - egli stesso si sarebbe espresso ripetutamente e con amarezza. Per quanto riguarda l'URSS, fra i collaboratori di Hitler Goebbels fu sempre del parere che si dovesse giungere ad un intesa, e perfino ad un'alleanza con essa, e ciò non solo nel periodo della sua collaborazione con gli Strasser, ma sino alla fine del III Reich, come ha dimostrato inequivocabilmente il suo ultimo addetto stampa Wilfred von Owen nel suo diario ("Finale furioso. Con Goebbels sino alla fine"), edito per la prima volta - in tedesco - a Buenos Aires (1950) e proibito in Germania sino al 1974, data in cui fu pubblicato dalla prestigiosa Grabert-Verlag di Tübingen, alla faccia degli antisovietici e filo-occidentali di professione. La denuncia, sostenuta da Niekisch, di qualsiasi crociata contro la Russia, assunse toni profetici quando evocò in un' immagine angosciosa "le ombre del momento in cui le forze...della Germania diretta verso l'Est, sperperate, eccessivamente tese, esploderanno...Resterà un popolo esausto, senza speranza, e l'ordine di Versailles sarà più forte che mai". Indubbiamente Ernst Niekisch esercitò, negli anni dal 1926 al 1933, una influenza reale nella politica tedesca, mediante la diffusione e l'accettazione dei suoi scritti negli ambienti nazional-rivoluzionari che lottavano contro il sistema di Weimar. Questa influenza non deve essere valutata, certamente in termini quantitativi: l'attività di Niekisch non si orientò mai verso la conquista delle masse, né il carattere delle sue idee era il più adeguato a questo fine. Per fornire alcune cifre, diremo che la sua rivista "Widerstand" aveva una tiratura che oscillava fra le 3.000 e le 4.500 copie, fatto che è lungi dall'essere disprezzabile per l'epoca, ed in più trattandosi di una rivista ben presentata e di alto livello intellettuale; i circoli "Resistenza" raggruppavano circa 5.000 simpatizzanti, dei quali circa 500 erano politicamente attivi. Non è molto a paragone dei grandi partiti di massa, ma l'influenza delle idee di Niekisch dev'essere valutata considerando le sue conferenze, il giro delle sue amicizie (di cui abbiamo già parlato), i suoi rapporti con gli ambienti militari, la sua attività editoriale, e soprattutto, la speciale atmosfera della Germania in quegli anni, in cui le idee trasmesse da "Widerstand" trovavano un ambiente molto ricettivo nelle Leghe paramilitari, nel Movimento Giovanile, fra le innumerevoli riviste affini ed anche in grandi raggruppamenti come il NSDAP, lo Stahlhelm, ed un certo settore di militanti del KPD (come si sa, il passaggio di militanti del KPD nel NSDAP, e viceversa, fu un fenomeno molto comune negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, anche se gli storici moderni ammettono che vi fu una percentuale maggiore di rivoluzionari che percorsero il primo tipo di tragitto, ancor prima dell'arrivo di Hitler al potere). Queste brevi osservazioni possono a ragione far ritenere che l'influenza di Niekisch fu molto più ampia di quanto potrebbe far pensare il numero dei suoi simpatizzanti. Il 9 marzo del 1933 Niekisch è arrestato da un gruppo di SA ed il suo domicilio perquisito. Viene posto in libertà immediatamente, ma la rivista "Entscheidung", fondata nell'autunno del 1932, viene sospesa. "Widerstand", al contrario, continuerà ad apparire sino al dicembre del 1934, e la casa editrice dallo stesso nome pubblica libri sino al 1936 inoltrato. Dal 1934 Niekisch viaggia per quasi tutti i paesi d'Europa, nei quali sembra abbia avuto contatti con i circoli dell'emigrazione. Nel 1935, nel corso di una visita a Roma, viene ricevuto da Mussolini. Non si può fare a meno di commuoversi nell'immaginare questo incontro, disteso e cordiale, fra due grandi uomini che avevano iniziato la loro carriera politica nelle file del socialismo rivoluzionario. Alla domanda di Mussolini su che cosa aveva contro Hitler, Niekisch rispose:"Faccio mie le vostre parole sui popoli proletari". Mussolini rispose."E' quanto dico sempre a Hitler". (Va ricordato che questi scrisse una lettera a Mussolini - il 6 marzo 1940 - in cui gli spiegava il suo accordo con la Russia, perché "ciò che ha portato il nazionalsocialismo all'ostilità contro il comunismo è solo la posizione - unilaterale - giudaico-internazionale, e non, al contrario, l'ideologia dello Stato stalinista-russo-nazionalista". Durante la guerra, Hitler esprimerà ripetutamente la sua ammirazione per Stalin, in contrasto con l'assoluto disprezzo che provava per Roosevelt e Churchill). Nel marzo del 1937 Niekisch è arrestato con 70 dei suoi militanti (un gran numero di membri dei circoli "Resistenza" aveva cessato la propria attività, significativamente, nel constatare che Hitler stava portando avanti realmente la demolizione del Diktat di Versailles che anch'essi avevano tanto combattuto). Nel gennaio del 1939 è processato davanti al Tribunale Popolare, accusato di alto tradimento ed infrazione sulla legge sulla fondazione di nuovi partiti, e condannato all'ergastolo. Sembra che le accuse che più pesarono contro di lui furono i manoscritti trovati nella sua casa, nei quali criticava Hitler ed altri dirigenti del III Reich. Fu incarcerato nella prigione di Brandenburg sino al 27 aprile del 1945, giorno in cui viene liberato dalle truppe sovietiche, quasi completamente cieco e semiparalitico. Nell'estate del 1945 entra nel KPD che, dopo la fusione nella zona sovietica con l'SPD, nel 1946 si denominerà Partito Socialista Unificato di Germania (SED) e viene eletto al Congresso Popolare come delegato della Lega Culturale. Da questo posto difende una via tedesca al socialismo e si oppone dal 1948 alle tendenze di una divisione permanete della Germania. Nel 1947 viene nominato professore all'Università Humboldt di Berlino, e nel 1949 è direttore dell' "Istituto di Ricerche sull'Imperialismo"; in quell'anno pubblica uno studio sul problema delle élites in Ortega y Gasset. Niekisch non era, ovviamente, un "collaborazionista" servile: dal 1950 si rende conto che i russi non vogliono un "via tedesca" al socialismo, ma solo avere un satellite docile (come gli americani nella Germania federale). Coerentemente con il suo modo di essere, fa apertamente le sue critiche e lentamente cade in disgrazia; nel 1951 il suo corso è sospeso e l'Istituto chiuso. Nel 1952 ha luogo la sua scomunica definitiva, effettuata dall'organo ufficiale del Comitato Centrale del SED a proposito del suo libro del 1952 "Europäische Bilanz". Niekisch è accusato di "...giungere a erronee conclusioni pessimistiche perché, malgrado l'occasionale impiego della terminologia marxista, non impiega il metodo marxista...la sua concezione della storia è essenzialmente idealista...". Il colpo finale è dato dagli avvenimenti del 17 giugno del 1953 a Berlino, che Niekisch considera come una legittima rivolta popolare. La conseguente repressione distrugge le sue ultime speranze nella Germania democratica e lo induce a ritirarsi dalla politica. Da questo momento Niekisch, vecchio e malato, si dedica a scrivere le sue memorie cercando di dare al suo antico atteggiamento di "Resistenza" un significato di opposizione a Hitler, nel tentativo di cancellare le orme della sua opposizione al liberalismo. In ciò fu aiutato dalla ristretta cerchia dei vecchi amici sopravvissuti. Il più influente fra loro fu il suo antico luogotenente, Josef Drexel, vecchio membro del Bund Oberland e divenuto, nel secondo dopoguerra, magnate della stampa in Franconia. Questo tentativo può spiegarsi, oltre che con il già menzionato stato di salute di Niekisch, con la sua richiesta di ottenere dalla Repubblica Federale (viveva a Berlino Ovest) una pensione per i suoi anni di carcere. Questa pensione gli fu sempre negata, attraverso una interminabile serie di processi. I tribunali basarono il rifiuto su due punti: Niekisch aveva fatto parte di una setta nazionalsocialista (sic) ed aveva collaborato in seguito al consolidamento di un'altro totalitarismo: quello della Germania democratica. Cosa bisogna pensare di questi tentativi di rendere innocuo Niekisch si deduce da quanto fin qui esposto. La storiografia più recente li ha smentiti del tutto. Il 23 maggio del 1967, praticamente dimenticato, Niekisch moriva a Berlino. Malgrado sia quasi impossibile trovare le sue opere anteriori al 1933, in parte perché non ripubblicate ed in parte perché scomparse dalle biblioteche, A. Mohler ha segnalato che Niekisch torna farsi virulento, e fotocopie dei suoi scritti circolano di mano in mano fra i giovani tedeschi disillusi dal neo-marxismo (Marcuse, Suola di Frankfurt). La critica storica gli riconosce sempre maggiore importanza. DI quest'uomo, che si oppone a tutti i regimi presenti nella Germania del XX secolo, bisogna dire che mai operò mosso dall'opportunismo. I suoi cambi di orientamento furono sempre il prodotto della sua incessante ricerca di uno Stato che potesse garantire la liberazione della Germania e dello strumento idoneo a raggiungere questo obiettivo. Le sue sofferenze - reali - meritano il rispetto dovuto a quanti mantengono coerentemente le proprie idee. Niekisch avrebbe potuto seguire una carriera burocratica nell'SPD, accettare lo splendido posto offertogli da Gregor Strasser, esiliarsi nel 1933, tacere nella Germania democratica...Ma sempre fu fedele al suo ideale ed operò come credeva di dover fare senza tener conto delle conseguenze personali che avrebbero potuto derivargli. La sua collaborazione con il SED è comprensibile, ed ancor più il modo in cui si concluse. Oggi che l'Europa è sottomessa agli pseudovalori dell'Occidente americanizzato, le sue idee e la sua lotta continuano ad avere un valore esemplare. E' quanto compresero i nazional-rivoluzionari di "Sache del Volches" quando, nel 1976, apposero una targa sulla vecchia casa di Niekisch, con la frase: "O siamo un popolo rivoluzionario o cessiamo definitivamente di essere un popolo libero".

Josè Cuadrado Costa

Articolo tratto dai numeri 56 e 57 di Orion

Per l'approfondimento dell'argomento si consigliano:
- AA.VV., Nazionalcomunismo. Prospettive per un blocco eurasiatico. Ed. Barbarossa 1996
- Origini n°2, L'opposizione nazionalrivoluzionaria al Terzo Reich 1988
- E. Niekisch, Est & Ovest. Considerazioni in ordine sparso. Ed. Barbarossa 2000
- E. Niekisch, Il regno dei demoni. Panorama del Terzo Reich. Feltrinelli Editore 1959
- A. Mohler, La Rivoluzione Conservatrice. Ed. Akropolis 1990

 

jeudi, 08 avril 2010

L'expédition allemande au Tibet de 1938-39

Synergies européennes – Bruxelles/Munich/Tübingen – Novembre 2006

 

Detlev ROSE :

L’expédition allemande au Tibet de 1938-39

Voyage scientifique ou quête de traces à motivation idéologique ?

 

Ernst_Schaefer.jpgLe 20 avril 1938 cinq jeunes scientifiques allemands montent à bord, dans le port de Gènes, sur le « Gneisenau », un navire rapide qui fait la liaison avec l’Extrême-Orient. Le but de leur voyage : le haut plateau du Tibet, entouré d’une nuée de mystères, le « Toit du monde ». Sous la direction du biologiste Ernst Schäfer, s’embarquent pour une aventure hors du commun pour les critères de l’époque, Bruno Beger (anthropologue et géographe), Karl Wienert (géophysicien et météorologue), Edmund Geer (en charge de la logistique et directeur technique de l’expédition) et Ernst Krause (entomologiste, cameraman et photographe).

 

Tous les participants à cette expédition étaient membres des « échelons de protection » (SS), mais ce fait justifie-t-il d’étiqueter cette expédition d’ « expédition SS », comme on le lit trop souvent dans maints ouvrages ? Cette étiquette fait penser qu’il s’agissait d’une expédition officielle du Troisième Reich. Est-ce exact ? Les SS avaient-il vraiment quelque chose à voir avec ce voyage de recherche vers cette lointaine contrée de l’Asie ? Quel intérêt les dirigeants nationaux-socialistes pouvaient-ils bien avoir au Tibet ? Comment cette expédition a-t-elle été montée ; quels étaient ses objectifs, ses motifs ? A quoi a-t-elle finalement abouti ? Beaucoup de questions, qui ont conduit à des études sérieuses mais aussi à l’éclosion de mythomanies, de légendes.

 

Des sources non encore étudiées…

 

« On a raconté et écrit beaucoup de sottises sur cette expédition au Tibet après la guerre », disait le dernier survivant Bruno Beger (1). Cela s’explique surtout par la rareté des sources, qui rend l’accès à ce thème fort malaisé. Il existe certes des travaux à prétention scientifique sur ce sujet, mais, jusqu’il y a peu de temps, nous ne disposions d’aucune analyse complète et détaillée sur les recherches tibétaines entreprises sous le Troisième Reich. Cette lacune est désormais comblée, grâce à une thèse de doctorat de Peter Mierau, un historien issu de l’Université de Würzburg (2). Le thème de ses recherches était la « politique nationale socialiste des expéditions ». Dans le cadre de cette recherche générale, il aborde de manière fort complète cette expédition allemande au Tibet de 1938-39. Mierau a découvert des sources qui n’avaient pas encore été étudiées (ou à peine) jusqu’ici. Certes, ce travail ne répond pas encore à toutes les questions mais, quoi qu’il en soit, les connaissances actuellement disponibles sur cette mystérieuse expédition se sont considérablement élargies.

 

Cette remarque vaut surtout pour les prolégomènes de cette entreprise aventureuse. Le biologiste et ornithologue Ernst Schäfer s’était taillé une bonne réputation en Allemagne, comme spécialiste du Tibet. Deux fois déjà, il avait participé, en 1931-32 et de 1934 à 1936, aux expéditions américaines de Brooke Dolan au Tibet oriental et central. En 1937, Himmler, Reichsführer SS, avait remarqué ce jeune scientifique prometteur et dynamique. Il prit contact avec lui. Schäfer était en train de préparer une nouvelle expédition. Himmler voulait simplement profiter du prestige acquis par le jeune savant. Il voulait inclure l’expédition dans le cadre de l’ « Ahnenerbe », la structure « Héritage des Ancêtres » qu’il avait créée en 1935, et, ainsi, placer l’expédition sous patronage SS (3). Le spécialiste du Tibet était certes déjà membre des SS à ce moment-là, mais il aurait préféré placer son expédition sous le patronage du département culturel des affaires étrangères ou de la très officielle DFG (« Communauté scientifique allemande ») et avait effectué des démarches en ce sens (4).

 

En l’état actuel des connaissances, il n’est donc pas possible d’affirmer ou d’infirmer clairement que les préparatifs de l’expédition aient été entièrement effectués sous la houlette des SS ou de l’Ahnenerbe (5). Le nom officiel de l’expédition était le suivant : « Expédition allemande Ernst Schäfer au Tibet » (= « Deutsche Tibetexpedition Ernst Schäfer »). Himmler eut droit au titre de « patron » de l’expédition et avait tenu à connaître personnellement tous les participants avant qu’ils ne partent et de donner le titre de SS à deux des scientifiques qui ne l’avaient pas encore (Krause et Wienert). Dans les articles des journaux, l’entreprise était souvent citée comme « Expédition SS ». Schäfer lui-même a utilisé cette dénomination à plusieurs reprises (6).

 

Le rôle très restreint de l’Ahnenerbe

 

Il a été question de faire de l’Ahnenerbe, la communauté scientifique fondée par les SS, l’un des commanditaires de cette expédition. On peut le prouver par l’existence d’un programme de travail provisoire intitulé « Ziele und Pläne der unter Leitung des SS-Obersturmführer Dr. Schäfer stehenden Tibet-Expedition der Gemeinschaft « Das Ahnenerbe » (Erster Kurator : Der Reichsführer SS)“ (= Objectifs et plans de l’expédition au Tibet de la Communauté „Héritage des Ancêtres » sous la direction du Dr. Schäfer, Obersturmführer des SS (Premier curateur : le Reichsführer SS) ». Muni de ce document, le département d’aide économique de l’état-major personnel du Reichsführer SS a appuyé le dossier de Schäfer auprès de la DFG (7). Après cette démarche, l’Ahnenerbe n’a plus joué aucun rôle officiel dans les préparatifs et la tenue de l’expédition. L’historien canadien Michael H. Kater, dans son ouvrage de référence sur la question, note que cette « vague institution », aux contours flous, a causé bien des tensions entre Schäfer et les dirigeants de l’Ahnenerbe Wolfram Sievers et Walter Wüst. De plus, l’Ahnenerbe ne semblait pas en mesure de financer quoi que ce soit relevant de l’expédition (8).

 

Ce qui est certain, en revanche, c’est que l’expédition a été financée par des cercles ou initiatives privées. Bruno Beger dit qu’Ernst Schäfer a été en mesure de rassembler quelque 70.000 Reichsmark, dont 30.000 provenaient du « conseil publicitaire » des cercles économiques allemands ; 20.000 RM de la DFG (qui s’appelait jusqu’en 1935 : « Notgemeinschaft Deutscher Wissenschaft ») ; 15.000 RM sont entrés dans les caisses grâce à l’entremise du père de Schäfer, qui était à l’époque le directeur de la fabrique de produits de caoutchouc Phoenix à Hambourg-Harburg ; les 5.000 RM restants ont été offerts par le « Frankfurter Zeitung » (9). Ces donateurs enthousiastes et généreux avaient été séduits par la passion et l’engagement des participants, surtout d’Ernst Schäfer. Beger se souvient encore : « Les instruments scientifiques, les appareils, les équipements photographiques, cinématographiques, sanitaires, presque tout nous a été prêté et même donné » (10).

 

Himmler, pour sa part, s’adressa à Göring pour que celui-ci mette 30.000 RM en devises à la disposition des explorateurs. Il fit verser cette somme à l’avance. Ce n’était pas une maigre somme car il fallait que l’expédition puisse disposer de toutes les sommes nécessaires en devises, pour qu’elle soit tout simplement possible (11).

 

Les premiers Allemands dans la « Cité interdite »

 

Ernst Schäfer s’occupa seul des préparatifs politiques et diplomatiques du voyage scientifique. Vu la situation internationale à l’époque, le chemin vers le Tibet ne pouvait se faire qu’au départ de l’Inde sous domination britannique : il fallait donc obtenir l’autorisation de la Grande-Bretagne. L’adhésion au projet de Britanniques en vue, Schäfer l’obtint grâce à son habilité diplomatique. Il s’embarqua lui-même pour l’Angleterre et en revint avec bon nombre de lettres de recommandation. Les participants à l’expédition ne savaient pas s’il allait être possible d’entrer dans le Tibet, alors indépendant, ni au début de leur voyage ni pendant les premiers mois de leur séjour, qu’ils passèrent pour l’essentiel dans la province septentrionale de l’Inde britannique, le Sikkim. Ce n’est qu’en novembre 1938, après de longues négociations et grâce aux bons travaux préparatoires, que leur parvint une invitation du gouvernement tibétain, comprenant également une autorisation à séjourner dans la « Cité interdite » de Lhassa. Au départ, cette autorisation de séjourner à Lhassa ne devait durer que deux semaines, mais elle a sans cesse été prolongée, si bien que les chercheurs allemands finirent par y rester deux mois. Ils étaient en outre les premiers Allemands à avoir pu pénétrer dans Lhassa.

 

Ce résultat, impressionnant vu les difficultés de l’époque, est dû principalement au travail et à la persévérance personnelle d’Ernst Schäfer et de ses compagnons plutôt qu’à l’action hypothétique des SS et de l’Ahnenerbe. Ernst Schäfer, quand il a organisé cette expédition, a toujours mis l’accent sur son indépendance, sur ses initiatives personnelles ; il a toujours voulu mettre cette entreprise en branle de ses propres forces, pour autant que cela ait été possible. Dans ces démarches, il jouait aussi, bien sûr, la carte de ses contacts SS, les utilisait et les mobilisaient, tant que cela pouvait lui être utile ou se révélait nécessaire (12). Mais en ce qui concerne les préparatifs et le financement (mis à part l’octroi des 30.000 RM en devises), le rôle des SS est finalement fort limité, d’après les nouvelles sources découvertes et exploitées par nos nouveaux historiens.

 

Mais cette modestie s’avère-t-elle pertinente aussi quand il s’est agi de déterminer les buts de l’expédition ? Quels étaient en fait les objectifs que s’était assignés Schäfer en préparant sa troisième expédition au Tibet ? Et que voulait Himmler ? Cette dernière question est bien évidemment la plus captivante, mais aussi celle à laquelle il est le plus difficile d’apporter une réponse précise ; les sources ne nous révèlent rien de bien substantiel. Il n’y a aucune déclaration ni aucun commentaire écrit du Reichsführer SS à propos de cette expédition. Seuls quelques indices existent. Ainsi, Schäfer rapporte, dans ses mémoires non encore publiées, une conversation qu’il a eue avec Himmler et quelques-uns de ses intimes. Himmler lui aurait demandé, lors de cette rencontre, « s’il avait vu au Tibet des hommes aux cheveux blonds et aux yeux bleus ». Schäfer aurait répondu non puis aurait explicité, à l’assemblée réduite des intimes de Himmler, tout son savoir sur l’histoire phylogénétique des hommes de là-bas. Himmler se serait révélé à l’explorateur, ce jour-là, comme un adepte de la « doctrine des âges de glace de Hanns Hörbiger ». Il aurait également fait part à Schäfer qu’il supposait qu’au Tibet « l’on pourrait trouver les vestiges de la haute culture de l’Atlantide immergée » (13). Ernst Schäfer n’a pas cédé : son expédition avait des buts essentiellement scientifiques et aucun autre. Schäfer n’a pas accepté l’exigence première de Himmler d’adjoindre à l’équipe un « runologue », un préhistorien et un chercheur ès-questions religieuses. Il n’a pas davantage accepté de rencontrer l’éminence grise de Himmler, Karl Maria Wiligut pour que celui-ci fasse part de ses théories aux membres de l’expédition (14). Schäfer ne voulait apparemment rien entendre des théories et doctrines occultistes et mythologisantes de Himmler et n’a jamais omis de le faire entendre et savoir (15).

 

Les thèses de Christopher Hale

 

Pourtant, on n’hésite pas à affirmer encore et toujours que cette expédition allemande au Tibet avait un but idéologique. Ainsi, dans un film documentaire de 2004, intitulé « Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn » (= Les expéditions des nazis. Aventure et folie racialiste) (16), cette rengaine est réitérée. Le témoignage magistral que sortent les producteurs de ce documentaire de leur chapeau est un certain Christopher Hale, journaliste britannique de son état, qui venait de publier un livre sur la question et s’était par conséquent  recommandé comme « expert » (17). La voix off commence par dire dans l’introduction : « Déjà vers la moitié des années 30, les chercheurs SS recherchaient dans le monde entier les traces d’une race des seigneurs évanouie ». Cette recherche aurait été motivée par la « doctrine des âges de glace », déjà évoquée ici, et théorisée par l’Autrichien Hanns Hörbiger. Hale ajoute alors qu’il est parfaitement absurde d’aller chercher des lointains parents des « Aryens » en Asie, sur le « Toit du monde ». Or, c’est ce que voulait, affirme Hale, l’expédition allemande au Tibet. La raison, pour Hale, réside tout entière dans les théories qui veulent que, dans une période très éloignée dans le temps, une civilisation nordique ou aryenne, supérieure à toutes les autres, ait existé et régné sur un gigantesque empire s’étendant de l’Europe au Japon. Cet empire se serait ensuite effondré à cause du mélange entre ses porteurs nordiques et les « races inférieures ». Il aurait cependant laissé des traces, même dans les coins les plus reculés de la Terre. Au Tibet, auraient affirmé ces théories selon l’expert Hale, de telles traces se retrouveraient dans l’aristocratie. Voilà en gros ce que ce Hale a tenté de démontrer. En même temps, il a essayé implicitement de prouver que les SS et l’Ahnenerbe auraient eu un grand rôle dans la préparation et l’exécution de l’expédition.

 

Cette interprétation, proposée par Hale, cadre sans doute fort bien avec les théories occultistes du Reichsführer SS, telles que les décrit Schäfer dans ses souvenirs. La « doctrine des âges de glace », la « doctrine secrète » de Madame Blavatsky et le livre paru en 1923 de l’occultiste russe Ferdinand Ossendowski (« Bêtes, hommes et dieux ») auraient donc été les principales sources d’inspiration de Himmler. La conception qu’évoque Christopher Hale d’un « grand empire aryen » remontant à la nuit des temps nous rappelle aussi les doctrines dualistes et racialistes de ceux que l’on nommait les « Ariosophes ». C’est plus particulièrement Jörg Lanz von Liebenfels qui présentait l’effondrement des anciens aryens comme la conséquence d’un mélange interracial. Les adeptes de ces théories, que l’on pose un peu arbitrairement comme les précurseurs occultes du national socialisme (18), ne voulaient absolument rien entendre d’une raciologie et d’une anthropologie scientifiques, comme celles de E. von Eickstedt et de H. F. K. Günther.

 

Une démarche rigoureusement scientifique

 

Le documentaire « Les expéditions des nazis » suggère donc que les vues bizarres de Himmler, qui sont sans aucun doute attestées, ont influencé les objectifs de l’expédition au Tibet. Ce serait aussi vrai que deux et deux font quatre, alors que les documents préparatoires de l’expédition ne prouvent rien qui aille dans ce sens (19) ! Himmler aurait certes aimé convaincre Schäfer d’aller rechercher au Tibet les traces d’une antique haute culture aryenne disparue. Mais il n’y est pas parvenu. Les membres de l’expédition se posaient tous comme des scientifiques et comme rien d’autre. Ainsi, par exemple, quand Bruno Beger a photographié et pris les mesures anthropomorphiques, crânologiques et chirologiques, ainsi que les empreintes digitales, de sujets appartenant à divers peuples du Sikkim ou du Tibet, quand il a examiné leurs yeux et leurs cheveux, quand il a procédé à une quantité d’interviews, il a toujours agi en scientifique, en respectant les critères médicaux et biologiques de l’époque, appliqués à l’anthropologie et à la raciologie, sans jamais faire intervenir des considérations fumeuses ou des spéculations farfelues.

 

Nous pouvons parfaitement étayer cela en nous référant à un essai de Beger, sur l’imagerie raciale des Tibétains, parue en 1944 dans la revue « Asienberichte » (20). Dans cet essai, Beger nous révèle les connaissances scientifiques gagnées lors de l’expédition. D’après le résultat de ses recherches, les Tibétains sont le produit d’un mélange entre diverses races de la grande race mongoloïde (ou race centre-asiatique ou « sinide »). On peut certes repérer quelques rares éléments de races europoïdes. Ce sont surtout celles-ci, écrit Beger : « Haute stature, couplée à un crâne long (ndt : dolichocéphalie), à un visage étroit, avec retrait des maxillaires, avec nez plus proéminent, plus droit ou légèrement plus incurvé avec dos plus élevé ; les cheveux sont lisses ; l’attitude et le maintien sont dominateurs, indice d’une forte conscience de soi » (21). Il explique la présence de ces éléments europoïdes, qu’il a découverts, par des migrations et des mélanges ; il évoque ensuite plusieurs hypothèses possibles pour expliquer « les rapports culturels et interraciaux entre éléments mongoloïdes et races europoïdes, surtout celles présentes au Proche-Orient ». Il a remarqué, à sa surprise, la présence « de plusieurs personnes aux yeux bleus, des enfants aux cheveux blonds foncés et quelques types aux traits europoïdes marqués » (22) (ndt : cette présence est sans doute due aux reflux des civilisations et royaumes indo-européens d’Asie centrale et de culture bouddhiste après les invasions turco-mongoles, quand les polities tokhariennes ont cessé d’exister ; cette présence est actuellement attestée par les recherches autour des fameuses momies du Tarim). Les remarques formulées par Beger s’inscrivent entièrement dans le cadre de l’anthropologie de son époque ; son essai ne contient aucune de ces allusions ou conclusions « mythologiques », contraire aux critères scientifiques ; Beger n’emploie jamais les vocables typiques de l’ère nationale socialiste tels « Aryens », « nordique » ou « race supérieure » ou « race des seigneurs » (23).

 

Ernst Schäfer a explicité les buts de son expédition

 

Dans le même numéro d’ « Asienberichte », Ernst Schäfer publie, lui aussi, un essai, sous le titre de « Forschungsraum Innerasien » (= « Espace de recherche : Asie intérieure) (24), dans lequel il explique quelles ont été les motifs de son expédition. Après les recherches pionnières effectuées dans le cœur du continent asiatique, lors des premières expéditions qui y furent menées, il a voulu procéder à des recherches plus systématiques en certains domaines et fournir par là même une synthèse des résultats obtenus en diverses disciplines. « Tel était l’objectif de ma dernière expédition au Tibet en 1938-39 ; … elle visait à obtenir une vue d’ensemble, après avoir tâté la réalité sur le terrain à l’aide de diverses disciplines scientifiques, ce qui constitue la condition première et factuelle pour que des spécialistes en divers domaines puissent travailler main dans la main, en s’explicitant les uns aux autres les matières traitées, de façon à compléter leurs savoirs respectifs ; toujours dans le but de faire apparaître plus clairement les tenants et aboutissants de toutes choses ». La tâche principale, qu’il s’agissait de réaliser, était la suivante : « Saisir de manière holiste l’espace écologique exploré », raison pour laquelle « la géologie, la flore, la faune et les hommes ont constitué les objets de nos recherches » (25).

 

Obtenir une synthèse globale et scientifique de ce qu’est le Tibet dans sa totalité, tel a donc été le but de l’expédition allemande au Tibet en 1938-39. Il n’existe aucun indice quant à d’autres motivations ou objectifs dans les rapports rédigés par les membres de l’expédition, qui décrivent leurs faits et gestes au Tibet de manière exhaustive et détaillée (26). L’image qu’ils donnent du Tibet se termine par un résumé des résultats obtenus par leurs recherches, accompagné d’une liste méticuleuse de toutes leurs activités et des échantillons prélevés, ainsi que le texte d’un exposé, prononcé par Schäfer à Calcutta. Parmi les résultats, nous trouvons des rapports sur le magnétisme tellurique, sur les températures, sur la salinité des lacs, sur les plans des bâtiments visités, sur la cartographie relative aux structures géologiques, sur les échantillons de pierres et de minéraux, sur les fossiles découverts, sur les squelettes d’animaux, sur les reptiles, les papillons et les oiseaux, sur les plantes séchées, les graines de fleurs, de céréales et de fruits, auxquels s’ajoutent divers objets à l’attention des ethnologues tels des outils et des pièces d’étoffe. A tout cela s’ajoutent 20.000 photographies en noir et blanc et 2000 photographies en couleurs, ainsi que 18.000 mètres de films (27), dont les explorateurs ont tiré, après leur retour, un documentaire officiel (28).

 

Aucun indice pour justifier les hypothèses occultistes

 

Le livre de Hale ne résiste pas, comme nous venons de le démontrer, à une analyse critique sérieuse. Cette faiblesse s’avère encore plus patente quand il s’agit d’analyser les thèses aberrantes de l’auteur, qui cherche à expliquer l’avènement du Troisième Reich par les effets directs ou indirects de toutes sortes de thèses et théories occultistes ou conspirationnistes. L’historien Peter Mierau l’explique fort bien dans sa thèse de doctorat : « Dans les années qui viennent de s’écouler, la double thématique du national socialisme et du Tibet a été dans le vent dans plusieurs types de cénacles. Les activités de chercheur de Schäfer, dans l’entourage de Heinrich Himmler, sont mises en rapport avec des théories occultistes, ésotéristes de droite, sur l’émergence du monde, avec des mythes germaniques et des conceptions bouddhistes ou lamaïstes de l’au-delà. Pour étayer ces thèses, on ne trouve aucun indice ou argument dans les sources écrites disponibles » (29).

 

Les occultistes endurcis ne se sentent nullement dérangés par ce constat scientifique. Ils affirment alors, tout simplement, que le caractère officiel d’une telle entreprise n’est que façade, pour dissimuler la nature de la « mission secrète » et les « motifs véritables ». Quand on sort ce type d’argument (?), inutile d’insister : ces spéculations ne sont ni prouvables ni réfutables.

 

Tant les tenants des thèses occultistes les plus hasardeuses que les dénonciateurs inscrits dans le cadre de la « correction politique » contemporaine, ne trouveront, dans les sources disponibles sur l’expédition allemande au Tibet de 1938-39, aucun élément pour renforcer leurs positions. Même si les explorateurs ont appartenu aux SS et s’ils ont eu des rapports étroits, dès leur retour en août 1939, avec l’Ahnenerbe (dans le département des recherches sur l’Asie intérieure), l’expédition proprement dite ne poursuivait aucun objectif d’ordre idéologique, comme l’ont affirmé les participants eux-mêmes. Bruno Beger, dans son rapport (30), écrit : « Tous les objectifs et toutes les tâches effectuées dans le cadre de nos recherches ont été déterminés et fixés par les participants à l’expédition, sous la direction de Schäfer. Objectifs et tâches à accomplir avaient tous un caractère scientifique sur base des connaissances acquises dans les années 30 ». Certes, les SS espéraient que les résultats scientifiques de l’expédition permettraient une exploitation d’ordre idéologique, mais cela, c’est une autre histoire ; Himmler espérait sans nul doute que les explorateurs découvrissent au Tibet des preuves capables d’étayer ses théories. Par conséquent, la leçon à tirer de cette expédition allemande au Tibet en 1938-39 est la suivante : elle constitue un exemple évident que même dans un Etat totalitaire, comme voulait l’être l’appareil national socialiste et le « Führerstaat », où le parti et la volonté du chef auraient compénétré ou oblitéré l’ensemble des activités des citoyens, le doigté et l’habilité personnelles, chez un homme comme Schäfer, permettaient malgré tout de se donner une marge de manœuvre autonome et des espaces de liberté.

 

Detlev ROSE.

(Article tiré de la revue « Deutschland in Geschichte und Gegenwart », n°3/2006).

 

Notes:

(1)     Bruno BEGER, Mit der deutschen Tibetexpedition Ernst Schäfer 1938/39 nach Lhasa, Wiesbaden, 1998, page 6. Ce livre récapitule les notes du journal de voyage de Beger, réadaptées pour publication. Il n’a été tiré qu’à une cinquantaine d’exemplaires.

(2)     Peter MIERAU, Nationalsozialistische Expeditionspolitik. Deutsche Asien-Expeditionen 1933-1945, Munich, 2006 (cet ouvrage est également une thèse de doctorat de l’Université de Munich, présentée en 2003). On y trouve une vue synoptique des sources et de l’état des recherches en ce domaine aux pages 27 à 34. Les expéditions de Schäfer sont décrites de la page 311 à la page 363.

(3)     Michael H. KATER, Das Ahnenerbe der SS 1935-45. Ein Beitrag zur Kulturpolitik im Nationalsozialismus, Stuttgart, 1974, page 79.

(4)     MIERAU, op. cit., p. 327, note 2.

(5)     Ibidem, p. 329.

(6)     Ibidem. Les participants auraient marqué leur désaccord quant à la qualification de leur expédition. Cette révélation a été faite à l’auteur de ces lignes par Bruno Beger, via une lettre à son fils Friedrich (6 août 2006).

(7)     MIERAU, op.  cit., p. 332, note 2.

(8)     KATER, op.  cit., p. 79, note 3.

(9)     Communication de Bruno Beger dans une lettre de Friedrich Beger à l’auteur (27 mars 2006). Kater estime que la totalité des frais s’élève à 60.000 RM (p. 79 et ss.). Dans le documentaire « Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn » (MDR, ZDF Enterprises & Polarfilm, 2004), on prétend que les frais totaux se seraient élevés à plus de 112.000 RM. Le documentaire produit un document, mais le narrateur du film n’en dit pas davantage. Pour en savoir plus sur le financement, cf. MIERAU, op.  cit., p. 329 et ss., note 2.

(10)  Bruno BEGER, op. cit., p. 8, note 1.

(11)  MIERAU, p. 330, note 2. On trouve également un indice dans un discours tenu par Schäfer, peu avant le vol de retour, le 25 juillet 1939, à la tribune de l’Himalaya Club de Calcutta, une association de tourisme et d’alpinisme. Dans ce discours, Schäfer dit avoir reçu le soutien d’Himmler et de Goering ; cf. « Lecture to be given on the 25.7.39 by Dr. Ernst Schäfer at the Himalaya Club », page 4, Bundesarchiv R135/30, 12). Bruno Beger souligne lui aussi l’importance des devises (voir note 6).

(12)  MIERAU, ibidem, p. 331.

(13)  Ernst SCHÄFER, Aus meinem Forscherleben (autobiographie non publiée), 1994, p. 168 et ss. Voir également MIERAU, op. cit., p. 334 et ss. Cf. Rüdiger SÜNNER, Schwarze Sonne. Entfesselung und Missbrauch der Mythen in Nationalsozialismus und rechter Esoterik, Fribourg, 1999, p. 48. 

(14)  SÜNNER, ibidem, pp. 49 à 53. MIERAU, pp. 335-342; l’auteur y évoque de manière exhaustive les idées que se faisait Himmler sur le Tibet et leurs sources.

(15)  KATER, op. cit., p. 79. SÜNNER, ibidem, p. 49 et ss. BEGER (voir note 9): « Le caractère de Schäfer était tel, qu’il ne permettait pas qu’on lui donne des instructions pour organiser ses voyages et pour lui en dicter les missions ; cela valait aussi pour Himmler ».

(16)  Documentaire sur DVD, Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn, MDR, ZDF Enterprises & Polarfilm, 2004.

(17)  Christopher HALE, Himmler’s Crusade. The True Story of the 1938 Nazi Expedition into Tibet, Londres, 2003.

(18)  Pour comprendre cet univers complexe, voir Nicholas GOODRICK-CLARKE, Die okkulten Wurzeln des Nationalsozialismus, Graz, 1997.

(19)  MIERAU, p. 342, note 2, note en bas de page 1120.

(20)  Bruno BEGER, « Das Rassenbild des Tibeters in seiner Stellung zum mongoliden und europiden Rassenkreis », in : Asienberichte. Vierteljahresschrift für asiatische Geschichte und Kultur, n°21, Avril 1944, pp. 29-53.

(21)  Ibid., p. 45.

(22)  Ibidem, p. 47.

(23)  Rüdiger SÜNNER, op. cit. (note 13). R. Sünner se trompe lui aussi, lorsqu’il écrit que Beger “est allé indirectement à l’encontre des fantaisies himmlériennes sur l’Atlantide » (p. 51). « J’avais reçu une invitation pour participer à un débat sur la doctrine des âges de glace en 1937. Je n’ai pu que secouer la tête devant le caractère abscons des opinions qui y ont été exprimées. Mes camarades de l’expédition, y compris Schäfer, riaient bien fort des thèmes qui y avaient été débattus » : c’est en ces mots que Friedrich Beger reprend les paroles de son père (lettre à l’auteur en date du 22 juin 2006).

(24)  Ernst SCHÄFER, « Forschungsraum Innerasien », in : Asienberichte. Vierteljahresschrift für asiatische Geschichte und Kultur, n°21, avril 1944, pages 3 à 6.

(25)  Ibidem, page 4. Cette présentation correspond à la teneur de la conférence tenue par Schäfer à Calcutta, voir note 11, pages 3 et ss.

(26)  Ernst SCHÄFER, Geheimnis Tibet. Erster Bericht der Deutschen Tibet-Expedition Ernst Schäfer 1938-39, Schirmherr: Reichsführer SS, München 1943. En outre, se référer aux notes de Bruno Beger, voir note 1.

(27)  Cf. Lecture…. (voir note 11), page 6 et ss.

(28)  Ce film est actuellement disponible grâce aux efforts de Marco Dolcetta qui l’a réédité en 1994. A ce propos, cf. H. T. HAKL, « Nationalsozialismus und Okkultismus », in : N. GOODRICK-CLARKE (voir note 18), pp. 194-217, ici p. 204. Hakl, lui aussi, souligne le caractère strictement scientifique de l’expédition, en s’appuyant notamment sur l’essai de Reinhard Greve, „Tibetforschung im SS-Ahnenerbe“, paru dans l’ouvrage collectif, édité par Thomas HAUSCHILD, Lebenslust und Fremdenfurcht. Ethnologie im Dritten Reich, Francfort sur le Main, 1995, pp. 168-209.

(29)  MIERAU, op. cit., p.28. L’auteur vise ici tout particulièrement le roman de Russell McCloud, intitulé, dans sa version allemande, Die Schwarze Sonne von Tashi Lhunpo, paru à Vilsbiburg en 1991. Dans ce roman, un ancien SS explique à l’un des protagonistes que l’histoire mondiale est le produit d’une lutte entre deux puissances occultes (pp. 144 à 173).

(30)  BEGER, op.  cit., p. 278 (voir note 1). Je remercie du fond du coeur monsieur Bruno Beger et son fils Friedrich Beger pour m’avoir permis de consulter notes et documents, pour avoir répondu avec patience à mes nombreuses questions, pour avoir mis à ma dispositions les photographies qui illustrent mon article. A ce propos, je remercie également Monsieur Dieter Schwarz.

 

mercredi, 07 avril 2010

La geopolitica di Karl Haushofer ha ancora qualcosa da insegnare al mondo attuale?

La geopolitica di Karl Haushofer ha ancora qualcosa da insegnare al mondo attuale?
di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]


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È giusto buttare via il bambino insieme all’acqua sporca?
Dal momento che la geopolitica ha un’origine in gran parte tedesca, e poiché è servita a razionalizzare, in parte, gli obiettivi di guerra della Germania nelle due guerre mondiali, la cultura liberaldemocratica oggi dominante l’ha sdegnosamente rigettata, insieme ai vecchi e lugubri armamentari del nazismo.
Tuttavia, a parte il fatto che le potenze liberaldemocratiche - Stati Uniti e Gran Bretagna in testa - perseguono, con altri nomi e sotto alte maschere, un obiettivo strategico globale molto simile a quello che la geopolitica, tedesca e  non, indicava come proprio oggetto di studi, ci sembra che molta confusione ipocrita e molta voluta ambiguità siano alla radice di questa operazione di rifiuto e di radicale rimozione dal salotto buono della cultura odierna.
Fra parentesi, osserviamo che si tratta della stessa confusione ipocrita e della stessa voluta ambiguità che hanno presieduto all’abbandono degli studi geopolitici in Italia, dopo che essi avevano ricevuto un impulso originale fra il 1939 e il 1942, ad opera della omonima rivista e degli studiosi Giorgio Roletto ed Ernesto Massi dell’Università di Trieste. Caduto il fascismo, anche la geopolitica italiana è stata gettata nel cestino della storia, come un lontano cugino impresentabile, di cui doversi vergognare tra la gente “per bene”.
Dunque: in primo luogo, la geopolitica non è solo di origine tedesca, ma anche inglese e americana; anzi, a fondarla è stato uno studioso svedese, Rudolf Kjellen,  nel 1904. E la sua idea fondamentale, ossia la contesa naturale ed incessante fra le potenze marittime o talassocratiche e quelle continentali, deriva dal libro di uno studioso inglese, Sir Halford Mackinder, «The Geographical Pivot of History».
In secondo luogo, anche la geopolitica tedesca non è affatto un prodotto del nazismo e la si può benissimo immaginare anche senza Hitler. Il terreno è stato preparato dalla geografia politica di Friedrich Ratzel (1844-1904) e il suo massimo esponente è stato Karl Haushofer (1869-1946) che non era nazista, anzi che ebbe un figlio giustiziati dai nazisti, ma era piuttosto un militare conservatore della vecchia scuola, le cui idee fondamentali si concretizzarono fra due eventi che precedettero entrambi l’avvento del nazismo: da un lato il “Drang nach Osten”, la “marcia verso Oriente” della Germania guglielmina, che sembrò concretizzarsi con la costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad; dall’altro la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale e il fortissimo sentimento di frustrazione nazionale che si impadronì allora della Germania, sotto il peso del punitivo trattato di Versailles.
La Germania è una potenza continentale e sempre i suoi governi hanno ragionato in termini di politica continentale. La corsa all’accaparramento delle colonie, nel 1884, fu una eccezione alla regola, concessa da Bismarck per dare un contentino agli ambienti della Marina e a taluni settori industriali e finanziari; ma la rivendicazione delle colonie perdute non sarebbe stato che un elemento del tutto secondario nel disegno rivendicazionista di Hitler.
Viceversa, la Gran Bretagna è sempre stata una potenza marittima il cui obiettivo è quello di impedire che, sul continente europeo, si affermi una potenza egemone, ciò che metterebbe in forse i suoi interessi commerciali e strategici; per questo essa ha sempre profuso grandi somme di denaro per armare delle coalizioni contro la potenza egemone del momento, che fosse la Francia di Luigi XIV o di Napoleone, oppure la Germania di Guglielmo II e, poi, di Hitler.
Altrettanto evidente che, per Mackinder, il potere talassocratico fosse di segno positivo, mentre per Haushofer era quello continentale a rappresentare il “bene”: ciascuno vede la verità secondo il proprio specifico angolo visuale. Le potenze marittime sono isole e arcipelaghi (Gran Bretagna, Giappone) o penisole (Italia); quelle continentali sono al centro dei continenti (Germania) o, spingendosi da una costa all’altra, appaiono in grado di unificarli (Russia, poi Unione Sovietica; Stati Uniti; e, oggi, anche la Cina).
Per questo la Gran Bretagna non voleva né poteva rinunciare a Gibilterra, a Suez, ad Aden, a Singapore e Hong Kong, a Città del Capo e alle Isole Falkland: perché solo per mezzo di quelle basi strategiche avrebbe potuto stringere in una morsa le potenze continentali. E per questo la Germania, in entrambe le guerre mondiali, ha puntato a est, al grano dell’Ucraina, al petrolio della Romania e poi del Caucaso, al ferro della Svezia, alle immense steppe dell’Asia centrale: perché solo così avrebbe potuto spezzare l’accerchiamento marittimo e l’inevitabile strangolamento economico cui, con il dominio inglese dei mari, era inevitabilmente esposta.
Ma una cosa è certa: che, mentre per la Gran Bretagna la posta in gioco era la conservazione dell’impero coloniale e, quindi, del benessere legato allo sfruttamento di immense risorse mondiali e alla penetrazione commerciale nei più lontani mercati, per la Germania invece (o, prima di essa, per la Francia e, dopo di essa, per l’Unione Sovietica) la posta in gioco era, in un certo senso, la pura e semplice sopravvivenza. Perciò, a dispetto di tutte la apparenze, le guerre di Napoleone contro le varie coalizioni finanziate dall’Inghilterra erano essenzialmente difensive, come lo furono quelle di Hitler, ivi compreso l’attacco all’Unione Sovietica, spada continentale dei banchieri della City Londinese (e di Wall Street); mentre le guerre condotte e soprattutto finanziate dalla Gran Bretagna, nel corso di oltre due secoli, contro la potenza continentale di turno, a partire dalla Guerra dei Sette anni (1756-63), furono guerre prettamente offensive.
Entrambe le guerre mondiali possono essere considerate come un gigantesco scontro geopolitico fra le potenze talassocratiche e quelle continentali.
Nella prima, la potenza marittima egemone (Gran Bretagna), alleata con due potenze continentali marginali dell’area euroasiatica (Francia e Russia) e con due potenze extraeuropee, una continentale ed una marittima (Stati Uniti e Giappone), nonché con una potenza marittima europea (Italia), ha avuto la meglio sulle due potenze continentali europee (Germania e Austria-Ungheria) e su una potenza continentale marginale (Impero Ottomano).
Nella seconda, una potenza continentale e due potenze marittime dell’area euroasiatica (Germania, Italia e Giappone) hanno tentato, fallendo, di spezzare l’accerchiamento del maggiore potenziale integrato, marittimo e terrestre, che esistesse a livello mondiale (Gran Bretagna e Stati Uniti), alleato - per l’occasione - con l’altra potenza continentale (Unione Sovietica; la Francia essendo stata eliminata già nelle primissime fasi del conflitto).
Insomma, si arriva sempre alla medesima conclusione: che il dominio dei mari, alla lunga, assicura la vittoria, perché consente lo sfruttamento delle maggiori fonti di ricchezza mondiali; ma che le potenze marittime, per strappare la decisione finale, devono o allearsi con delle potenze terrestri, di cui si servono come di altrettante spade continentali, oppure devono trasformarsi esse stesse anche in potenze continentali: come è stato il caso della Gran Bretagna, che, attraverso colonie-continenti come l’Australia, ha decentrato i propri gangli vitali; tanto che è stato osservato come neppure l’invasione tedesca dell’Inghilterra, nel 1940, l’avrebbe costretta alla resa, poiché essa avrebbe potuto benissimo continuare la lotta trasferendo il proprio governo nel Canada e potendo contare sull’appoggio sempre più deciso degli Stati Uniti.
Infine potremmo dire che, negli ultimi decenni, la superpotenza americana (continentale, ma divenuta anche marittima per le necessità della sua politica imperiale), dopo aver avuto la meglio sulla superpotenza sovietica (anch’essa continentale, e anzi bicontinentale, improvvisatasi marittima per ragioni strategiche globali), deve ora fronteggiare l’ascesa irresistibile di una potenza squisitamente continentale, la Cina - e, in prospettiva, anche l’India - divenuta erede dello slogan panasiatico lanciato dai Giapponesi durante la guerra del Pacifico.
Ma sarà bene delineare, adesso, un rapido profilo della figura e dell’opera del controverso “padre” della geopolitica, Karl Haushofer, servendoci della penna di un valente studioso italiano.
Ha scritto Alessandro Corneli, esperto di relazioni internazionali e strategia, nel suo volume «Geopolitica è. Leggere il mondo per disegnare scenari futuri» (Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2006, pp. 123-27):

«Karl Haushofer (1869-1946) è il pensatore geopolitico tedesco per eccellenza, ma il suo nome è Anche legato alla parabola nazista. Ufficiale di carriera senza particolari meriti, in missione diplomatica in Estremo Oriente Giappone e Manciuria, scrive le sue impressioni, restando particolarmente colpito dalla corsa alla modernizzazione dell’Impero del Sol Levante. Durante la partecipazione alla prima guerra mondiale legge “Lo Stato come organismo” dello svedese Kjellén e apprende il significato della geopolitica: scienza dello Stato in quanto organismo geografico, così come si manifesta nello spazio; lo Stato inteso come Paese, come territorio, e come impero. Convinto che la guerra in corso sia una guerra di annientamento della Germania, vuole che il suo paese sia una potenza mondiale. Così, all’indomani della sconfitta, ormai cinquantenne, fa il professore , il conferenziere, e dà vita alla “Rivista di geopolitica”, imponendosi come un’autorità intellettuale.
Nel 1919 aveva conosciuto il giovane Rudolf Hess (1894-1987). Hess, volontario nella prima guerra mondiale, si era arruolato nel reggimento List, in cui combatteva anche un ancora oscuro caporale di origine austriaca, Adolf Hitler, che lo convinse a entrare in politica, nel 1920, abbandonando l’università di Monaco dove stava per laurearsi in filosofia.  Stretta amicizia con Hermann Göring (1893-1946, che durante la guerra aveva acquistato fama di grande aviatore e fu poi il creatore della’armata aerea tedesca, anche se fallì l’impresa contro la Royal Air Force inglese nella Battaglia d’Inghilterra), Hess partecipò al fallito putsch nazista di Monaco nel 1923, e fu arrestato insieme a Hitler. In carcere, Hess aiutò il futuro Führer a scrivere il “Mein Kampf” (“La mia battaglia”), opera destinata a diventare il testo sacro del nazismo. Da quel momento egli divenne uno dei più stretti collaboratori di Hitler, tanto da esserne considerato il suo delfino (che in gergo politico indica il successore alla guida di un partito). Hess, ma non era il solo, coltivava studi esoterici. Per il tramite di Hess,  Haushofer incontrò Hitler almeno una dozzina di volte tra il 1922 e il 1938, ma non ne resta traccia documentaria. E soprattutto nasce il suo rapporto ambiguo con il nazismo. Dapprima, almeno fino al 1939, lo studioso riconosce al Führer il merito di avere ristabilito l’ordine, di avere unificato tutti i tedeschi in un solo Stato (Reich), di avere rimediato alle ingiustizie che il trattato di Versailles aveva imposto alla Germania vinta, considerata anche colpevole di avere scatenato la guerra. Ma la sua natura d’intellettuale un po’ distaccato dalla realtà, in difficoltà a capire i politici e i loro giochi tortuosi, di strenuo difensore della coerenza delle sue teorie,  non gli permise di integrarsi nel sistema, tanto è vero che non ebbe mai la tessera del partito. In fiondo, egli era rimasto un nazionalista conservatore, un esponente della società tedesca guglielmina, aristocratica e gerarchica, , di cui erano espressione le alte cariche dell’esercito, diffidente nei confronti dei “parvenus” un po’ plebei che affollavano il mondo nazista.  Nel 1939 ci fu anche uno screzio profondo: nel libro “Le frontiere “ aveva sollevato la questione della popolazione tedesca del Tirolo meridionale, annesso all’Italia nel 1919, e la cosa doveva turbare i rapporti tra Hitler e il suo principale alleato, Benito Mussolini,.
L’inizio della guerra fece registrare un progressivo isolamento di Haushofer.  La moglie, di discendenza non ariana, era stata salvata per amicizia politica; uno dei figli, Albrecht, si trovò implicato, nell’aprile 1941q, in un complotto per arrivare a una pace separata; il 10 maggio dello stesso anno, il suo amico e protettore, Hess,  compì il misterioso volo in Inghilterra e venne catturato dagli inglesi; la “Rivista di geopolitica” si dibatteva tra molte difficoltà, tra la necessità di giustificare la politica hitleriana e il pensiero del suo fondatore, che nell’ottobre 1945 dichiarerà che dopo il 1933, cioè dopo l’ascesa di Hitler al potere, la rivista stessa era sempre stata “sotto pressione”. Dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, Haushofer venne sospettato e incarcerato: il figlio Albrecht era stato già giustiziato in aprile. Arrestato dagli americani dopo la resa della Germania (8 maggio 1945), Haushofer fu ascoltato come testimone durante il processo di Norimberga: messo a confronto con Hess, questi dichiarò di non conoscerlo. Il 10 maggio 1946 Haushofer e la moglie si suicidarono.
Affrontiamo adesso gli elementi fondamentali del suo pensiero geopolitico, dicendo anzitutto che è figlio della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale: il problema era a quel punto di andare oltre la conoscenza di sé, chiesta da Ratzel, e di fondare un progetto politico ricavandolo dalla geopolitici, perché la geopolitica, come affermava Haushofer, rappresenta il ponte tra il sapere e il potere, una specie di autocoscienza che conduce alla decisione.
Il lavoro dei precedenti studiosi viene utilizzato a fondo. Anzitutto la nozione di spazio vitale aggravato dalle ingiustizie del trattato di Versailles. In secondo luogo, e questo è un suo contributo originale, l’insistenza sulle idee globali o “pan-idee”, come il pangermanesimo, il panslavismo o il panasiatismo.  Sono queste idee in grado di costruire vasti consensi, al di là di quelli che si possono costruire intorno a un piccolo stato, e anzi sono, rispetto ai confini statali, transfrontaliere, disegnando grandi complessi continentali. L’Impero Britannico, secondo Haushofer, è destinato a essere stritolato da queste pan-idee: l’India, per esempio, non si riconoscerà in un pan-britannismo.  L’Unione Sovietica, invece, potrà far leva, data la sua estensione su due continenti, sulle idee panasiatica ed euroasiatica; gli Stati Uniti, a loro volta, sulle idee panamericana e pan pacifica.
Bisogna riconoscere a Haushofer una fantasia non priva d’illuminazioni anticipatrici, , anche se egli generalizza l’dea di alcuni fatti concreti, quali l’idea di “sfera di coprosperità asiatica” con cui il Giappone giustificava il proprio espansionismo o addirittura l’idea  di una Comunità Economica Europea lanciata, tra il 1940 e il 1944, dal ministero dell’economia e presidente della Reichsbank e sostenuta dal mondo industriale tedesco: una comunità, beninteso, di cui la Germania sarebbe stata il fulcro. Ma non è ciò che sta accadendo adesso per via pacifica?
Ciò che i geopolitici tedeschi aborrivano sopra ogni altra cosa  era il modello imperiale britannico e, accanto a coloro che sostenevano la possibilità di distruggerlo con una guerra vittoriosa,  c’erano altri che pensavano di aggirarlo e in qualche modo disgregarlo.  La seconda strada, per esempio, era alla base del progetto della ferrovia  che, iniziata nel 1903, avrebbe dovuto collegare Berlino con Baghdad  passando per Istanbul e che doveva coronare il sogno orientale di Guglielmo II, protagonista di un celebre viaggio a Gerusalemme e di un incontro con il gran muftì., al quale l’imperatore aveva promesso tutto il suo appoggio contro il sionismo, considerato lo strumento di penetrazione della Gran Bretagna in Medio oriente. Se il disegno fosse riuscito, analogamente alla spedizione di Napoleone in Egitto, , sarebbe stato spezzato l’accerchiamento britannico che andava dall’Africa (Gibilterra) all’Asia del sud-est (Singapore, Hong Kong).
Molte di queste idee sono proliferate dopo la seconda guerra mondiale. A patte la linea antisionista, antiamericana e antiamericana ben radicata in tutto il mondo islamico, specie nel Medio Oriente, idee come “l’Asia agli asiatici” o “l’Africa agli africani”, e lo stesso movimento dei “non allineati” o terzomondisti, e recentemente l’opposizione alla globalizzazione, considerata il nuovo strumento di dominio mondiale da parte degli anglo-americani, trovano molti spunti nell’opera dei geopolitici tedeschi e in particolare di Haushofer.
Quando la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin firmarono il patto Molotov Ribbentrop (23 agosto 1939), che prevedeva la spartizione della Polonia e quindi l’inizio della guerra tedesca per la conquista a est della spazio vitale, Hashofer vide che l’incubo di Mackinder, cioè la concentrazione dell’Heartland a spese delle potenze marittime, si era realizzato e definì quel’evento il più grande e importante cambiamento nella politica mondiale. Entusiasmo prematuro, non solo perché il Giappone non condivideva l’alleanza russo-tedesca, mirando a erodere la presenza russa in Asia, ma soprattutto perché a meno di due anni da quella firma la Germania attaccò l’Unione Sovietica.
Un Paese inoltre Haushofer sottovalutò, come del resto Hitler: gli Stati Uniti, , considerati come una potenza che si era chiusa nell’isolazionismo, gelosa del proprio benessere (nonostante la crisi devastante del 1929), soprattutto una società così impregnata di individualismo che non sarebbe stata in gradi di esprimere una forte volontà. Secondo Hitler una plutocrazia giudeizzata, concentrata sugli affari, priva di virtù guerriere, non era portata per la guerra.  Un abbaglio reso possibile dai pregiudizi, come spesso accade.  Eppure, proprio gli Stati Uniti avevano a loro vantaggio, a guerra scoppiata,  fattori determinanti: la sicurezza del loro territorio,  una straordinaria capacità industriale, produttiva e organizzativa, e poi due alleati all’interno dello stesso Heartland che la Germania aveva pensato di avere posto sotto il proprio controllo: la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica.»

L’obiezione più forte che i moderni studiosi di tendenza  liberaldemocratica muovono all’idea stessa della geopolitica è che, nelle condizioni proprie seguite alla seconda guerra mondiale e alla fine della “guerra fredda”, è anacronistico pensare ancora la politica come lotta per l’espansione territoriale, dato che i sistemi democratici non punterebbero all’ingrandimento del proprio territorio, ma all’espansione di pacifiche relazioni commerciali e alla libertà dei mari.
Tutte queste buone intenzioni sono state compendiate nella cosiddetta Carta Atlantica, sottoscritta dal capo del governo inglese Churchill e dal presidente statunitense Roosevelt nel 1941 (quando, si noti, gli Stati Uniti d’America e i governi dell’Asse non erano ancora formalmente in stato di guerra gli uni contro gli altri).
Tuttavia, vi sono pochi dubbi sul fatto che dietro quelle formule si celava, da un lato, la tenace, rancorosa volontà di Churchill di punire la Germania e l’Italia e di conservare a ogni costo l’Impero britannico, l’India specialmente (anche se, poi, le cose sono andate altrimenti); e, dall’altro lato, la determinazione americana di rilanciare la propria economia - mai uscita dalla crisi del 1929, nonostante l’apparato propagandistico del New Deal - ed anche il proprio ruolo politico mondiale,  mediante la colonizzazione finanziaria del mondo intero.
C’è, poi, bisogno di notare che molte idee, e persino molti uomini, della geopolitica nazista, sono passati, quatti quatti, proprio nei meccanismi strategici del Pentagono dopo il 1945, tanto che si può parlare di una autentica ripresa di quei temi e di quelle concezioni in chiave liberaldemocratica? Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, su questo stesso sito (intitolato «Da Hitler a Bush, ovvero come si passa dal Terzo al Quarto Reich», pubblicato in data 01/02/2008), per cui rimandiamo il lettore  a quelle riflessioni.
È davvero insopportabile l’ipocrisia del totalitarismo democratico: il quale, mentre respinge con orrore tutto ciò che la cultura politica tedesca (e italiana) ha prodotto negli anni del fascismo, contemporaneamente si serve di gran parte del suo armamentario ideologico, rivisto e riverniciato, per perseguire sempre più spregiudicatamente i propri disegni di dominio mondiale.



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lundi, 05 avril 2010

Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

dimanche, 04 avril 2010

Quand le Togo et le Cameroun étaient des protectorats allemands

Erich KÖRNER-LAKATOS :

Quand le Togo et le Cameroun étaient des protectorats allemands

 

Deutschen_Schutzgebiete.gifPendant longtemps le Grand Electeur Frédéric-Guillaume de Prusse n’a connu aucun succès dans ses ambitions d’outre-mer. L’entreprise, qui a consisté à mettre sur pied une société à l’image de la Compagnie néerlandaise des Indes orientales, a échoué face aux réticences anglaises.

 

En 1682, Frédéric-Guillaume fonde dans le port maritime d’Emden la « Compagnie commerciale brandebourgeoise et africaine » (= « Brandeburgisch-afrikanische Handelskompagnie »). Une fort modeste expédition prend alors la mer, composée de deux navires avec, à leurs bords, à peine une centaine de matelots, quelques scientifiques et trois douzaines de fantassins.

 

Le jour du Nouvel An de 1683, les Prussiens débarquent au Cap des Trois Pointes sur la Côte d’Or de l’Afrique occidentale, dans le Ghana actuel. Von der Gröben hisse alors le drapeau frappé de l’aigle rouge sur fond blanc, pose la première pierre de la toute première colonie du Prince Electeur, qui est baptisée Gross-Friedrichsburg. Un traité de protection est signé, le « Tractat zwischen Seiner Churfürstlichen Durchlaut von Brandenburg Afrikanischer Compagnie und den Cabusiers von Capo tris Puntas », soit le « Traité entre la Compagnie africaine de son Excellence le Prince Electeur de Brandebourg et les Cabusiers du Cap des Trois Pointes ». Il règle les rapports entre les représentants du Prince Electeur et les chefs indigènes. Le commerce des esclaves, de l’or et de l’ivoire s’avère tout de suite florissant.

 

Mais des pirates français et des expéditions anglaises, venues de l’intérieur du pays, harcèlent les Prussiens qui, de surcroît, sont minés par les fièvres propres au climat des lieux et par la maladie du sommeil, transmise par la mouche tsétsé.

 

En 1708, le fortin n’est plus occupé que par sept Européens et quelques indigènes. Berlin en a assez des tracas que lui procure sa base africaine et le Roi Frédéric I (la Prusse est devenue un royaume en 1701) négocie pendant plusieurs années avec les Hollandais. En 1720, tout est réglé : ceux-ci reprennent à leur compte, pour la modique somme de 7200 ducats et pour quelques douzaines d’esclaves, les misérables reliquats de la première possession prussienne d’outre-mer.

 

Il faudra attendre plus d’un siècle et demi pour que quelques maisons de commerce allemandes se fixent à nouveau dans la région, sur la côte de la Guinée. Les Hanséatiques, qui cultivent l’honneur commercial et entendent baser leurs activités sur le principe de la parole donnée, sont confrontés à une concurrence anglaise, qui ne cesse d’évoquer le libre-échange et la « fairness » mais tisse des intrigues et brandit sans cesse la menace. En 1884, les marchands allemands demandent la protection de leur nouvel Empire et le Chancelier Bismarck envoie en Afrique le Consul Gustav Nachtigal, avec le titre de plénipotentionnaire, à bord du SMS Möve.

 

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Drapeau du Togo à l'époque du protectorat allemand

Lorsque Nachtigal aborde les côtes du Togo, le roi local Mlapa demande un accord de protection au Reich, en songeant bien entendu à se protéger contre ses rivaux de l’arrière-pays. Aussitôt dit, aussitôt fait. A partir du 5 juillet 1884, le Togo est un protectorat allemand et, à Lomé (aujourd’hui capitale du pays), on hisse le drapeau du nouveau Reich en ponctuant la cérémonie de salves d’honneur. Une semaine plus tard, Nachtigal jette l’ancre devant les côtes du Cameroun et signe un traité de protection au cours de la deuxième semaine de juillet avec les chefs King Bell et King Aqua. C’est une malchance pour les envoyés de Londres qui n’arrivent que quelques jours après la conclusion de cet accord et ne peuvent donc plus revendiquer la région pour l’Empire britannique.

 

Dans les décennies qui précédèrent la première guerre mondiale, ce sera surtout le Togo qui deviendra la colonie modèle de l’Allemagne wilhelminienne. Ses principales denrées d’exportation sont le cacao, le coton, les oléagineux, les cacahuètes et le mais. La présence allemande se limite à quelques factoreries et missions sur le littoral togolais ; en 1913, seuls trois cents Allemands vivent au Togo, dont quatre-vingt fonctionnaires coloniaux et cela pour un pays de la taille de l’Autriche actuelle. Les communications avec le Reich sont assurées par la grande station de radio de Kamina, construite en 1914.

 

Pendant l’été 1914, le Togo sera le théâtre d’une lutte brève mais acharnée. 560 soldats de la police indigène et deux cents volontaires européens tenteront de défendre le Togo allemand coincé entre les Anglais qui avancent à partir de l’Ouest, c’est-à-dire à partir du Ghana actuel, et les Français qui progressent en venant de l’Est, du Dahomey, c’est-à-dire du Bénin d’aujourd’hui. Sur la rivière Chra, les soldats de la police indigène togolaise se lancent contre une colonne franco-anglaise et contraignent les attaquants à se replier : les pertes sont lourdes toutefois dans les deux camps. Le sacrifice des Togolais a été inutile : l’ennemi est très supérieur en nombre. Les Allemands font sauter la station radio de Kamina et le gouverneur, le Duc Adolf Friedrich de Mecklembourg, capitule le 26 août. Anglais et Français se partagent le pays.

 

La situation est différente au Cameroun, dix fois plus vaste. Au Nord, le Cameroun est une savane herbeuse et, au Sud, une forêt vierge impénétrable. Les denrées d’exportation sont la banane, le cacao, le tabac, le caoutchouc et les métaux précieux. En 1913, le pays compte quatre millions d’indigènes et seulement 2000 Allemands. L’administration est assurée par quatre cents fonctionnaires. Le nombre de femmes et d’enfants européens est insignifiant, vu le climat très difficile à supporter pour les Blancs, si bien qu’il n’y avait pas une seule école pour les enfants d’Européens.

 

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Drapeau du Cameroun à l'époque du protectorat allemand

Dans ce Cameroun alors fort inhospitalier, les Alliés occidentaux auront de grosses difficultés à maîtriser la situation. La troupe de protection de la colonie comprend 43 compagnies, avec 1460 Allemands et 6550 indigènes. Les puissances de l’Entente leur opposaient, au début de la première guerre mondiale, un millier de soldats blancs et 15.000 colorés, parmi lesquels un régiment disciplinaire indien. Les défenseurs de la colonie allemande durent lutter sur trois fronts : au Sud, les Français entendent gagner du terrain au départ du Gabon, au Nord, les Britanniques pénètrent au Cameroun en partant de leur colonie du Nigéria. Plus tard, les Belges enverront une force de trois mille hommes, venus du Congo à l’Est.

Askaris%20zum%20Appell+.jpgLa troupe de protection allemande fut rapidement coupée de toute voie d’approvisionnement et, devant des forces ennemies supérieures en nombre, est obligée de se replier progressivement sur les hauts plateaux du pays, autour de l’actuelle capitale Yaoundé. Les combats acharnés durent jusqu’au début de l’année 1916. A ce moment-là, Allemands et Camerounais n’ont plus de munitions. Les Askaris de l’Empereur Guillaume II engagent le combat contre l’ennemi uniquement avec leurs baïonnettes. A la mi-février, le gros de la troupe de protection gagne un territoire neutre, la colonie espagnole de Rio Muni au Sud du Cameroun. Des dizaines de milliers d’indigènes, fidèles au Reich allemand, les suivent dans cet exil. Dans le Nord du protectorat du Cameroun, à proximité du Lac Tchad, la forteresse de montagne de Maroua tient sans fléchir sous les ordres du capitaine von Raben, grièvement blessé. 

 

Il ne rendra les armes  —mais ses soldats n’ont plus une seule cartouche !—  que lorsqu’il apprendra que le gros de la troupe de protection, invaincue, était en sécurité sur territoire espagnol. La dernière citadelle allemande du Cameroun était tombée. La présence allemande dans ce pays africain appartenait désormais au passé.

 

Erich KÖRNER-LAKATOS.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°50/2005 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

Evola e la "notte dei lunghi coltelli"

Evola e la ”notte dei lunghi coltelli”

     

di: Luigi Carlo Schiavone

Ex: http://www.rinascita.eu/

evola.jpgIn un articolo del marzo 1935 dal titolo “Il nazismo sulla via di Mosca?” apparso sul quotidiano “Lo Stato”, Julius Evola, allora umile pensatore ai margini del fascismo italiano, prendendo spunto dalle vicende occorse il 30 giugno del 1934 in Germania storicamente note come “Notte dei lunghi coltelli” e cioè la decapitazione sanguinosa, da parte della “destra” hitleriana, delle S.A., le Squadre di Assalto di Roehm e di Strasser che volevano – conquistato il potere – che la rivoluzione nazionalsocialista mettesse in opera il programma sociale, la cosiddetta “seconda rivoluzione” - muove una profonda critica alle posizioni espresse da Carl Dryssen nella sua opera “Fascismo nazionalsocialismo, prussianesimo”, considerato da Evola come il testo guida delle volontà dei rivoluzionari delle SA, facenti capo ad Ernst Röhm, nel quale si rintracciava la linea che essi volevano imporre al movimento nazionalsocialista.
Dryssen, partendo da considerazioni di carattere prettamente politico- economico, delinea due mondi contrapposti, l’Oriente e l’Occidente, che, oltre a risultar divisi da un punto di vista ideologico, trovano in Dryssen anche una frontiera naturale rappresentata dalla linea del Reno.
Il mondo dell’ “Occidente”, in cui Dryssen inquadrava gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna, è identificato come la patria del liberalismo, della democrazia, dell’internazionalismo e del capitalismo, fondamenta del libero commercio e dell’imperialismo finanziario. Un mondo in cui, secondo Dryssen, vigevano due principi: quello dell’individualismo che ne regolava i rapporti in ambito interno e quello dell’imperialismo su cui venivano fondati i rapporti verso l’esterno a servizio di un liberalismo “ipocrita”, generatore di un’azione egemonica o distruttrice a danno di altri popoli.
Radicalmente opposti risultavano essere, nella visione del Dryssen, i tratti caratterizzanti il mondo orientale. Nell’ “Oriente”, identificato territorialmente nella Germania, vigeva un diverso tipo di Stato caratterizzato da un ampio spirito sociale ed essenzialmente agrario sorretto da un’economia di consumo fondata, principalmente, sulla relazione del “Blut und Boden” (sangue e suolo); un’impostazione, questa, totalmente diversa dall’economia imperialistica ed internazionalistica tipica dello Stato Occidentale.
È in forza di suddette considerazioni che Dryssen fornisce una versione della prima guerra mondiale vista, dall’autore, come un’aggressione dell’Occidente ai danni dell’Oriente dettata da una volontà individualista-capitalistica di piegare l’unica parte d’Europa che ancora le resisteva. Dal caos ideologico scaturito nel dopoguerra, inoltre, Dryssen vede il sorgere di due visioni contrapposte che identifica nella corrente riformistica-romana, incarnatasi nel fascismo, e nella corrente germanico-rivoluzionaria, propria del movimento nazionalsocialista.
Secondo Dryssen, infatti, il movimento fascista, sebbene caratterizzato da originari tratti rivoluzionari e socialistici, non avrebbe avuto la forza di travolgere l’antico sistema di marca romana, base del sistema occidentale, ma vi avrebbe apportato solo delle modeste correzioni identificabili nell’instaurazione di un “capitalismo autoritario” sottoposto al controllo dello Stato, evitando così la rivoluzione. Un’altra motivazione, caratterizzante la volontà del movimento fascista di non rivoluzionare ma solo di riformare l’antico sistema, è da trovarsi, secondo l’autore tedesco, nel mantenimento dell’imperialismo. Questa nuova Roma, quindi, considerata da Dryssen come “salvatrice del capitalismo occidentale” viene avvertita come un nuovo ostacolo per la tradizione anticapitalista e socialistica tedesca; compito del nazionalsocialismo, quindi, era quello di dar vita ad una rivoluzione “social prussiana” che, rifacendosi al motto di luterana memoria, Los von Rom! (via da Roma!) avrebbe tutelato la tradizione germanica dalla minaccia occidentale e capitalistica e da Roma, ultimo baluardo di un mondo ormai agonizzante. Ad Adolf Hitler, innalzato da Dryssen a novello Vidukind, (il duce sassone che si oppose a Carlo Magno) il compito di orientare la Germania verso il socialismo nazionale e improntarla su una visione “eroica” e non prettamente economica dell’esistenza. […]
In merito al fascismo, invece, sono altri gli elementi che Evola cita per smantellare l’impostazione di Dryssen: dall’ “educazione guerriera” impartita alle nuove generazioni, ai processi di agrarizzazione e alla lotta contro l’urbanizzazione oltre alla concezione del diritto di proprietà del fascismo, che trasforma il detto, di proudhoniana memoria, “la proprietà è un furto” in la “proprietà è un dovere”.
La proprietà in Evola assume, quindi, una caratterizzazione differente rispetto alla considerazione che se ne ha nella visione “occidentale” data da Dryssen; considerata come una delle condizioni materiali imprescindibili per la dignità e l’autonomia della persona è opportunamente ridimensionata in un sistema, come quello fascista, non asservito al capitalismo e che mira a capovolgere la dipendenza della politica all’economia subordinando nuovamente quest’ultima alla prima in forza di un’idea superiore rappresentata in un primo momento dalla Nazione e successivamente dall’Impero.
Un ulteriore errore da parte di Dryssen, e di alcuni esponenti di spicco dello N.S.D.A.P., è da rintracciarsi, secondo Julius Evola, nell’errata considerazione del binomio individualismo-personalità. Se è lecito, secondo Evola, opporsi all’individualismo, concezione maturata in seno al liberalismo, non alla stessa stregua deve essere considerata la personalità, elemento essenziale per il recupero di buona parte dei valori indoeuropei. Se il socialismo e l’individualismo possono essere considerati come due facce della stessa medaglia in quanto figlie di un’unica decadenza materialistica, antiqualitativa e livellatrice, infatti, diversi sono i tratti tipici del pensiero indoeuropeo miranti alla realizzazione di realtà organiche e gerarchiche che, caratterizzate proprio dall’ideale di personalità libere, virili e differenziate, mirino, ciascuna nel proprio ambito, ad assegnare ad ogni cittadino una propria funzione e una propria dignità. Un ideale, questo, che Evola considera superiore sia al liberalismo che al socialismo, che si è protratto nel tempo approdando dalla comune matrice indoeuropea alla tradizione classica prima e alla tradizione classico-germanica poi, per consolidarsi, infine, nella tradizione romano-germanica medioevale.
Per quel che concerne l’antiromanità professata da Dryssen, essa è da considerarsi, secondo Evola, come diretta emanazione di quel processo di allontanamento della Germania che, come già citato, ebbe inizio con Lutero e che in quel determinato periodo storico favoriva esclusivamente un riposizionamento della stessa a favore della Russia, che a detta dello stesso Dryssen, era l’unica grande potenza ad essersi elevata contro l’Occidente e contro Roma oltre che al capitalismo. L’assenza di reali frontiere spirituali fra l’Elba e gli Urali avrebbe favorito, inoltre, una maggior unione fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo. La fusione dell’antico sistema tedesco dell’Almende e del Mir slavo avrebbe finito, secondo Dryssen, per patrocinare una nuova forma di collettivismo che, in Russia come in Germania, sarebbe stato tutelato da uno Stato agrario socializzato ed armato. Nella visione di Dryssen, inoltre, Evola rintraccia un ulteriore parallelismo tra l’ateismo sovietico e la riforma luterana.
L’ateismo sovietico, infatti, mutuerebbe dalla riforma luterana la volontà di battersi contro una religiosità ufficiale, mondanizzata, legata alle ricchezze e romanizzata; solo dalla rivolta, pertanto, sarebbero potute nascere nuove religioni interiori e a favore del popolo al pari degli effetti che Lutero anelava dalla sua riforma.
A favore di suddetta visione, che porterebbe la Germania all’accordo con la Russia, Dryssen evoca più volte, secondo Evola, lo spauracchio dell’imperialismo italiano quasi come se esso fosse una tendenza esclusivamente romana e non riscontrabile presso altri popoli. Dimenticando, quindi, il primo verso dell’inno tedesco (Deutschland Deutschland über alles, über alles in der Welt) e ponendosi negativamente contro l’universalità romana Dryssen, secondo Evola, accettava implicitamente l’internazionalismo bolscevico all’interno del quale, ricorda il filosofo tradizionalista, scarso posto trovavano i concetti di Patria e di Nazione e ancor meno quello di tradizione nel senso più ampio del termine, tutti e tre più volte ripresi dallo stesso Dryssen. […]
Antiromanità, antiaristocrazia, antitradizione, sono gli elementi che si trovano alla base della visione di quanti, secondo Evola, volevano che il Reich volgesse lo sguardo verso la Russia e concludendo il suo articolo auspicava invece che l’Italia fascista tracciasse una propria strada che si trovasse ad egual distanza dall’Occidente delineato da Dryssen che dalla Russia bolscevica.
Che ci si ritrovi maggiormente nelle posizioni di Carl Dryssen o in quelle espresse da Julius Evola, è indubbio lo stupore di fronte a simili analisi volte ad individuare, tramite profonde riflessioni e ricerche, le soluzioni migliori per l’attuazione di piani politici volti a cesellare, come si trattasse di statue antiche, i tratti ed i caratteri di interi popoli. Uno stupore che si fa ancora più grave se si pensa che tali analisi vennero svolte in quell’epoca che tutti additano come la più oscura d’Europa mentre oggi, nell’epoca delle libertà, si è costretti ad assistere ad ignominiosi spettacoli nei quali, oltre ad essere ripetuti costantemente i medesimi mantra salvifici, l’individuo, sempre più asservito alla tecnocrazia di jungeriana memoria, non è più essere da formare ma tifoso da consolidare.

The Germanization of Early Medieval Christianity

OS_namen_klein.jpgEUROPEAN SYNERGIES – MANAGERS’ SCHOOL / BRUSSELS/LIEGE –
OCTOBER 2004 – BIBLIOGRAPHICAL INFORMATION

The Germanization of Early Medieval Christianity: A Sociohistorical Approach to Religious Transformation

by James C. Russell

Price: US
$25.00
Product Details

*    Paperback: 272 pages ; Dimensions (in inches): 0.72 x 9.16 x 6.08
*    Publisher: Oxford University Press; Reprint edition (June 1, 1996)
*    ISBN: 0195104668

 

Editorial Reviews

Synopsis
While historians of Christianity have generally acknowledged some degree of Germanic influence in the development of early medieval Christianity, this work argues for a fundamental Germanic reinterpretation of Christianity. This treatment of the subject follows an interdisciplinary approach, applying to the early medieval period a sociohistorical method similar to that which has already proven fruitful in explicating the history of Early Christianity and Late Antiquity. The encounter of the Germanic peoples with Christianity is studied from within the larger context of the encounter of a predominantly "world-accepting" Indo-European folk-religiosity with predominantly "world-rejecting" religious movements. While the first part of the book develops a general model of religious transformation for such encounters, the second part applies this model to the Germano-Christian scenario. Russell shows how a Christian missionary policy of temporary accommodation inadvertently contributed to a reciprocal Germanization of Christianity.

Ingram
While historians of Christianity have generally acknowledged some degree of Germanic influence in the development of early medieval Christianity, Russell goes further, arguing for a fundamental Germanic reinterpretation of Christianity. He utilizes recent developments in sociobiology, anthropology, and psychology to help explain this pivotal transformation of the West. This book will interest all who wish to further their understanding of Christianity and Western civilization.


Reviewer: Elliot Bougis "coxson" (Taichung, Taiwan)  
I stumbled upon this book while researching for a study of the conjoined paganization/Christianization of Medieval literature. What a find! As the reviewer above mentioned, Russell's strength lies in the amazing range of his scholarship. This intellectual breadth, however, does not detract from Russell's more focused, balanced, and lucid examination of key points (e.g., anomie as a factor in social religious conversion, fundamental worldview clashes between Christianity and Germanic converts, etc.). Russell covers a lot of ground in a mere 200+ pages. Moreover, his final assertions are modest enough to be credible, and yet daring enough to remain highly interesting. Plus, from a research perspective, the bibliography alone is worth a handful of other books. This book has been normative in my decisions about the contours of any future scholarship I pursue. Alas, I was left hungering for a continuation of many of the themes, to which Russell often just alludes (e.g, the imbibed Germanic ethos as the animus for the "Christian" Crusades, the contemporary implications of urban anomie for our globalizing world, etc.). Of course, such stellar scholarship cannot be rushed. Surely Russell's next inquiry is worth the wait!


Brilliant and innovative study of Germanic religiosity
, September 2, 1999
Reviewer:
A reader
Scholar James Russell has given us an important work with this detailed study. Subtitled "A sociohistorical approach to religious transformation," it is an exceedingly well-researched and documented analysis of the conversion of the Germanic tribes to the imported and fundamentally alien religion of Christianity during the period of 376-754 of the Common Era. Russell's work is all the more dynamic as he does not limit his inquiry simply to one field of study, but rather utilizes insights from sources as varied as modern sociobiological understanding of kinship behaviors, theological models on the nature of religious conversion, and comparative Indo-European religious research. Dexterously culling relevant evidence from such disparate disciplines, he then interprets a vast array of documentary material from the period of European history in question. The end result is a convincing book that offers a wealth of food for thought-not just in regards to historical conceptions of the past, but with far-reaching implications which relate directly to the tide of spiritual malaise currently at a high water mark in the collective European psyche. The first half of Russell's work provides an in-depth examination of various aspects of conversion, Christianization and Germanization, allowing him to arrive at a functional definition of religious transformation which he then applies to the more straightforward historical research material in the latter sections of the book. Along the way he presents a lucid exploration of ancient Germanic religiosity and social structure, placed appropriately in the wider context of a much older Indo-European religious tradition. Russell completes the study by tracing the parallel events of Germanization and Christianization in the central European tribal territories. He marshals a convincing array of historical, linguistic and other evidence to demonstrate his major thesis, asserting that during the process of the large European conversions Christianity was significantly "Germanicized" as a consequence of its adoption by the tribal peoples, while at the same time the latter were often "Christianized" only in a quite perfunctory and tenuous sense. Contrary to simplistic models put forth by some past historians, this book illustrates that conversion was not any sort of linear "one-way street"; a testament to the fundamental power of indigenous Indo-European and Germanic religiosity lies in the evidence that it was never fully or substantially eradicated by the faith which succeeded it. As Russell shows, a more accurate scenario was that of native spirituality and folk-tradition sublimated into a Christian framework, which in this altered form then became the predominant spiritual system for Europe. Russell's Germanization of Early Medieval Christianity is wide-ranging yet commanding in its contentions, and academia could do well with encouraging more scholars of this calibre and fortitude who are able to avoid the pitfall of over-specialization and produce works of great scope and lasting relevance. Make no doubt about it, this is a demanding and complex book, but for those willing to invest the effort, the benefits of understanding its content will be amply rewarding, and of imperative relevance for anyone who wishes to apprehend the past, present and future of genuine European religiosity.