Luca Leonello Rimbotti è nato a Milano nel 1951. Laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea, in special modo tedesca. È autore – tra gli altri – dei volumi Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona (Settimo Sigillo, 1989), Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, 1992), Globalizzazione (Settimo Sigillo, 2003) e La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme (Ar, 2006). Ha collaborato con le riviste «Elementi», «Italicum», «Margini», «Linea», «Diorama letterario», «Trasgressioni».
Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?
Il Sovrumanismo di Nietzsche e Stirner, ma anche le individualità letterarie per così dire «eroiche» del tipo di Byron o William Blake, il Romanticismo anglo-tedesco, certe personalità che incarnano la lotta contro il proprio tempo e hanno il tratto del solitario e visionario precursore – da Herder a Oriani, per intenderci – fino ad ambienti del ribellismo storico, ad esempio l’anarco-squadrismo antemarcia. Poi ci metterei il classicismo dorico, l’estetica pre-raffaellita e in genere il figurativismo ottocentesco, da Friedrich ai Simbolisti al Futurismo... poi hanno avuto grande incidenza sulla mia formazione certi ambiti musicali della mia generazione, legati alla musica hard-rock e heavy-metal, coi loro immaginari rivoltosi e i loro rimandi ai valori tradizionali vissuti come opposizione anti-borghese... ma si potrebbe continuare.Che cos’è stato sinteticamente il Fascismo, in che modo il suo insegnamento può essere ancora valido oggi, e in che senso te ne senti continuatore?
Il punto a mio vedere di gran lunga più importante del Fascismo è stato il tentativo storico di coniugare la tradizione popolare con la modernità: una nuova considerazione delle masse come soggetto politico, una concezione dinamica della vita e della socialità, un potente mito aggregante e identitario, una volontà di futuro che si sposava senza tante incrinature con la rivendicazione delle più lontane appartenenze, coi simboli antichi, col culto della terra dei padri, con la sacralizzazione della comunità di popolo, etc. Trovo che tutto questo proprio oggi rappresenti qualcosa di vivo, giudico che sia un’ideologia generosa di affratellamento e di fierezza, per cui ogni popolo dovrebbe riunirsi attorno ai propri patrimoni ereditati, così da offrire la maggiore resistenza contro il tentativo in atto di distruggere i legami nazionali a favore di un cosmopolitismo privo di identità e negatore delle differenze. Personalmente, mi sento un modesto ma tenace continuatore di tali valori: e da quarant’anni (da quando pubblicai il mio primo articolo) batto e ribatto sul medesimo tasto di una tenuta strenua sui significati di legame e di identità, poiché penso che, perduti questi, non si avranno più uomini e popoli, ognuno con la propria storia e la propria cultura, ma soltanto individui degradati e popolazioni ammassate a casaccio.
Quali sono gli storici che hanno contribuito secondo te ad una più oggettiva e disinteressata interpretazione del Fascismo?Quelli classici. De Felice, Nolte, Mosse, poi Acquarone, Salvatorelli, Santarelli, sui quali mi sono formato. Ad essi si sono aggiunti Emilio Gentile, Settembrini, Sternhell, Parlato e pochi altri: ma nessuno di essi ha dato interpretazioni «disinteressate». Molti, anzi tutti, erano e sono in varia misura ostili al fascismo. Ciò non toglie che spunti, idee, metodi siano stati per me di insegnamento. Quando mi laureai, il mio professore mi disse che potevo, anzi dovevo avanzare giudizi di valore: da allora così faccio in ogni mio scritto e diffido di chi si proclama super partes. Non avere opinione su ciò che si scrive – essere dunque disinteressati – non è buona cosa per uno storico...
Quali sono, a tuo parere, le più profonde affinità e differenze tra il Fascismo italiano e il Nazionalsocialismo tedesco?
Sono stati movimenti storici molto più affini che differenti. Entrambi intesi a operare quella unione tra modernità e tradizione di cui dicevamo, entrambi basati su sistemi affini di mobilitazione popolare, su una struttura di partito e poi di Stato molto simile. La differenza sta nelle rispettive caratteristiche nazionali: l’antisemitismo, ad esempio, blando e solo di matrice cattolica in Italia, era in Germania diffuso a livello popolare. La maggiore somiglianza risiede, più che nei sistemi sociali o partitici, a mio parere, nella eguale volontà di operare una rivoluzione antropologica, creando un tipo nuovo di uomo che rompesse la tradizione progressista occidentale e si ricollegasse al mito eroico indoeuropeo: la Romanità e il Germanesimo ebbero questa funzione.
In cosa, secondo te, il Fascismo fu il legittimo erede di Roma antica? La Roma fascista fu veramente la Terza Roma?
Penso di sì. Se furono legittimi altri richiami alla Roma antica – pensiamo ai giacobini, ammiratori della Roma repubblicana, o a Mazzini, o ai poeti risorgimentali... – lo fu a maggior ragione il fascismo, che sui temi della fedeltà alla stirpe, la sacralizzazione della tradizione, l’imperialismo colonizzatore, la socialità corporativa, la gerarchia di rango, il senso del destino, etc. ci impiantò un moderno Stato nazionale. Dopo la Roma antica e quella papalina, davvero quella fascista avrebbe dovuto essere la Terza Roma, per dichiarazione esplicita dei suoi protagonisti: che fosse di cartapesta, grottesca o imbelle come ama dire la storiografia, non saprei. Dopotutto, a parte le gravissime deficienze umane, organizzative, etc. del fascismo, alla coalizione mondiale nemica occorsero diversi anni di guerra totale per abbattere un tale disegno politico... di cartone: o sbaglio? E, a giudicare da quanto se ne scrive ancora oggi, tutto questo ha lasciato una certa traccia nella storia.
Gentile era uno dei pochi intellettuali italiani conosciuti a livello internazionale: e altri di questa categoria, come ad es. Pirandello o Marinetti, furono del pari fascisti. Ma il fascismo di Gentile fu piuttosto un liberalismo nazionale radicale. Anche se, dobbiamo dire, la socialità gentiliana aveva un tono non solo conservatore: l’umanesimo del lavoro aveva una sua nobiltà e una sua grandezza, e la sua concezione dell’Io come essere comunitario, la sua indicazione che la comunità nazionale non consiste nella mera cittadinanza, ma nell’unità spirituale, costituiscono un’ideologia di forte presa identitaria. La civiltà del lavoro come compiuta realizzazione dell’Idea ha una sua logica e sul finire Gentile – mi riferisco specialmente a Genesi e struttura della società, del 1943 – colse i rapporti tra liberalismo e anarchismo, rifiutandoli nel nome di una marcata funzione sociale dello Stato. Personalmente ho un po’ rivalutato Gentile per alcuni di questi aspetti: non vedeva il partito rivoluzionario, vedeva lo Stato, d’accordo, ma alla fine fece spazio – da buon hegeliano – a una concezione organica non certo di «destra». Sua fu poi, insieme a Mussolini, la visione del fascismo non come semplice movimento politico, ma come religione, forza dello spirito.
Quali furono i pregi e i difetti del «Fascismo di sinistra»?
I pregi? La volontà politica di eliminare i condizionamenti capitalistici senza distruggere il capitale, che è ricchezza del popolo, l’idea di dare al lavoro il protagonismo sociale, la determinazione di farne un elemento della decisione e non della sola esecuzione della volontà politica. Considerare un’unica classe: il popolo. E dare soltanto a chi vive del suo lavoro – che sia in basso o in alto – dignità e onore sociale. La competenza poi (ad es. in Bottai) era giudicata centrale, quindi niente retorica operaista, ma coscienza che senza gerarchia si fa la fine che ha fatto il comunismo, e che fecero le comuni ottocentesche. Al posto dell’utopia, la concreta concezione dello Stato organico: ognuno al suo posto e tutti a remare dalla stessa parte. I difetti? Non avere avuto una potente referente nel partito. Dopo l’accantonamento di Rossoni (1928) non si ha più un leader del fascismo corporativo. Mussolini si barcamena tra capitalisti, monarchia e Chiesa. La Carta del Lavoro era un buon punto di partenza, poi le corporazioni del 1934 rimasero sulla carta. La Camera dei Fasci e delle Corporazioni poteva essere un ottimo strumento per istituzionalizzare il fascismo social-progressista... ma è del 1939, non ebbe tempo per incidere.
Berto Ricci è stato uno degli intellettuali più brillanti e vivaci della «nuova generazione». Qual è il valore della sua opera? Quale lezione ne possiamo trarre oggi?
La sua lotta contro il borghesismo e la concezione individualistica della società, che è tipica della cultura italiana, trovo che sia ancora oggi un messaggio vivo e un modello estremamente valido. Il suo battersi, insieme a tanti altri giovani dell’epoca, per un’idea di «aristocrazia di comando» che desse ai migliori, ai più efficienti e ai più disinteressati, le leve del potere, eliminando la corruzione, il clientelismo e la tradizionale pratica italiana di stare dalla parte del più forte. L’avvento di una generazione di uomini liberi da condizionamenti, che avesse in mente il riscatto dell’onore e della dignità del popolo, e che fosse per questo in grado di toccare gli interessi privati avendo come sponda il fulcro centrale del potere: il partito e Mussolini. Che, invece, rimasero troppo spesso prigionieri dei poteri forti pre-fascisti, alla fine – grazie alle vicende mondiali – risultati vincenti.
La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?La volontà di considerare la vita degna di essere vissuta soltanto se spesa servendo ideali nobili di offerta di sé. Considero la Scuola di Mistica un vero sacerdozio, un ambiente che con taglio propriamente religioso giudicava il sacrificio – persino della propria vita – un fine luminoso cui aspirare, una meta con la quale la persona umana si completa, diventando qualcosa di sovrumano. La dimensione trascendente, innestata su una fede fanatica – non dissimile dalla fede dei santi e dei martiri – è una via difficile e dolorosa, tanto più ardua da intraprendere se concepita come offerta spontanea, persino gioiosa e sorridente nello sforzo di superare i limiti della nostra natura di uomini: si tratta di apici esistenziali difficilmente comprensibili dall’uomo normale, specialmente in un’epoca come la nostra, che premia il furbo, il dissacratore, l’arrivista... cioè i valori opposti a quelli di una visione mistica e sacrale della vita.
In cosa risiede la portata rivoluzionaria del Corporativismo e della Socializzazione delle imprese?
La conciliazione delle classi, il superamento della conflittualità interna al corpo sociale: questo il dato sovvertitore. Il fatto che può essere un partito egemone e addiririttura uno Stato illuminato a guidare il processo di liquidazione del predominio degli interessi privati su quelli comunitari. L’idea che il popolo è un’unità organica, una comunità unita da un medesimo destino e non un insieme di interessi divergenti, legati alla categoria di lavoro cui si appartiene. Pur con certe differenze, talora marcate, tra il sindacalismo integrale e il corporativismo vero e proprio, si nota un comune intendimento di pervenire al concetto di organicità dell’economia. Progetti come quello della corporazione proprietaria di Spirito – in un contesto di maggiore forza politica – avrebbero rivoluzionato gli assetti sociali dalle fondamenta: la proprietà, la gestione e gli utili d’impresa spartiti tra i membri della produzione, gli esecutivi come i direttivi. Ma anche il corporativismo «di regime», pur attuato poco e male, aveva un’ideale nobile: proprietà dei mezzi produttivi inalterata, ma verifica che non avesse a prevalere l’interesse del capitalista sull’interesse della produzione nazionale. La socializzazione, poi, che dava al lavoro la cointeressenza sugli utili, spingeva tale ottica rivoluzionaria a un punto radicale: la stessa gestione è appannaggio delle categorie del lavoro, e il ricavato viene suddiviso tra chi lavora, e non elargito dal capitalista in qualità di salario. Antioperaismo, anticapitalismo e produttivismo organico: non c’è nulla, in questa concezione, che non possa essere ancora oggi pienamente ripreso da un movimento politico inteso a superare le micidiali derive della gestione multinazionale dell’impresa e soprattutto a spezzare il predominio della finanza sull’economia e quello dell’economia sulla politica. Molto modestamente e con tutti i limiti del caso, il sottoscritto è stato il primo ad occuparsi specificamente del «fascismo di sinistra», anticipato solo dal breve saggio di Silvio Lanaro che comparve sulla rivista «Belfagor» nel 1975: lo stesso Settembrini – che nel suo libro Parlato, pur citandomi, dice essere stato il primo – mi seguì di due anni. Rivendico questa modesta primogenitura e confesso che non mi sono mai distaccato dalle mie giovanili convinzioni, che il fascismo avesse una forte spinta rivoluzionaria anche in senso sociale.
Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?
La sua forza è stata nella rara capacità di evocare miti viventi. Di fare di alcuni simboli e di alcuni mondi culturali l’antefatto immediato di una presa di coscienza politica che potesse essere ancora attuale. Il suo talento nell’affrescare valori storici e significati tradizionali imprime indubbiamente un’energia ideologica animatrice, che rimane indelebile in chi ha avuto i suoi libri tra gli elementi formativi. Certo, non comprese appieno il fascismo e la sua epoca. Non ebbe i mezzi culturali per apprezzare uno sforzo di tale portata, inteso a innestare i motivi tradizionali nella modernità, facendone cultura di popolo ed estraendoli dalle chiuse stanze degli eruditi. Similmente ai circoli nazionalconservatori tedeschi, era assente in Evola la sensibilità politica atta ad apprezzare il disegno di portata epocale di combinare l’arcaicità col futuro. Mancanza impolitica non da poco, che tuttavia non ne compromette il retaggio sotto il punto di vista del valore culturale e ideologico.
Quali sono stati, a tuo parere, i gruppi organizzati e le fucine di pensiero più importanti e validi del neofascismo dal dopoguerra ad oggi?Penso che soltanto l’ambiente di Ordine Nuovo sia stato, ai tempi e per un breve periodo, un vero laboratorio di pensiero politico. Agganciato a Evola – pur coi difetti di costui di cui si è detto – quel sodalizio ebbe la capacità di sollevare argomenti, miti, inquadrature con ricadute sul politico, insomma un’ideologia in sé coerente, una vera concezione del mondo. Personalmente poi ho partecipato per lunghi anni all’esperienza della cosiddetta «Nuova Destra»: qui veramente si ebbero incisivi segnali di uno svecchiamento della cultura politica, nuovi temi affiorarono, antichi complessi venivano abbandonati. De Benoist per un periodo importante è stato un maestro di elaborazione nuova, un intellettuale creativo e fertile, che ha aperto spazi e indicato metodi. In maniera non dissimile, Marco Tarchi ha impresso in tanti di noi la capacità di vedere le cose più da lontano, con ottica libera, cercando nuovi collegamenti. Purtroppo il progetto metapolitico della Nuova Destra, isolata in modo crescente, non ha sfondato: e i suoi paladini hanno finito con l’essere attirati di nuovo dal magnete delle loro culture di provenienza. Così molti oggi sono tra le gambe del potere, altri sono rifluiti allo studio del fascismo e dintorni. Marco lotta ancora da solo e con qualche giovane nella sua trincea. Ma l’esperienza – parlo per me – non è stata infeconda, i suoi semi hanno in qualche modo fruttificato, anche se solo a livello individuale.
Anni di piombo. Quali i miti da sfatare, le logiche ed i protagonisti occulti di quel periodo?
Confesso che l’intero capitolo degli «anni di piombo» non mi ha mai interessato. L’ho sempre visto come un ginepraio di loschi traffici, atteggiamenti ambigui, idealismi mal riposti e oscene compromissioni. Ho un istintivo distacco per tutto quanto non è limpido e aperto. Dico soltanto che provo umana comprensione per tutti coloro che, senza colpe, sono stati travolti dalla logica dura del potere, e ne hanno sofferto.
Si parla spesso di «identità», o con richiami puramente retorici oppure con invocazioni ideologiche al meticciato: che senso ha questa parola? Il melting pot è, secondo te, un pericolo o una possibilità?
Identità è l’esser se stessi: ciò vale per un singolo uomo come per un singolo popolo. Tutto ciò che non attiene all’esser se stessi è evidentemente estraneo o addirittura nemico dell’identità, mirando a sfigurare un volto e a renderlo irriconoscibile. Gettare masse delle più disparate provenienze all’interno di un popolo significa volerne annientare la forma e la caratteristica storica, bella o brutta che sia. Tanto l’immigrante quanto chi subisce l’immigrazione perde qualcosa di sostanziale: la propria tradizione, il proprio passato, la propria cultura, il proprio onore di uomo, che non consiste solo nell’individualità, ma anche nell’appartenere a una cultura storica, sia pure la più umile del pianeta. Che, in quanto tale, merita anch’essa rispetto e protezione: che c’è di positivo in questo voler annientare i legami di storia e di cultura? In nome di cosa, poi? La cittadinanza universale?
Che cosa pensi del processo di unificazione europea? Meglio un’unione “inquinata” da derive liberalcapitalistiche, oppure un rafforzamento delle sovranità nazionali?
L’attuale unificazione europea è a gestione bancaria, lo vede anche un cieco. I popoli europei – del resto quasi mai consultati in proposito e, quando consultati, espressisi negativamente – non c’entrano niente. Un rafforzamento identitario a tutti i livelli, oggi che il vecchio nazionalismo è superato da due guerre civili, sarebbe auspicabile in vista di un’Europa unita. I regionalismi, in questo senso, li giudico positivamente, come ogni fenomeno di rinsaldamento identitario. Lo stesso nazionalismo non esclude né il regionalismo né l’europeismo, anzi li presuppone: gli imperi da sempre sono innestati sulle piccole appartenenze. Di solito si obietta che il nazionalismo porta alla guerra. Direi che non è vero. È solo quando il nazionalismo viene forzato dall’interesse economico imperialista che diventa un elemento infiammabile, altrimenti l’amare il proprio popolo non prevede affatto l’odiare quelli altrui, al contrario. Le recenti faide balcaniche sono state causate da precedenti motivi di internazionalismo comunista: popoli a forte identità mescolati a forza dal pregiudizio anti-nazionale, e che hanno scatenato l’odio reciproco che si crea dalla fusione coatta. Mi risulta poi che la liberaldemocrazia sia in grado di scatenare guerre perfettamente distruttive, senza avanzare la minima rivendicazione nazionale, ma anzi proprio nel nome di quelle utopie internazionaliste che vengono gestite da liberali e neo-giacobini (la «destra» e la «sinistra») in assoluta concordia.

Qui était le géopoliticien britannique Mackinder, génial concepteur de l'opposition entre thalassocraties et puissances océaniques? Un livre a tenté de répondre à cette question: Mackinder, Geography as an Aid to Statecraft, par W.H. Parker. Né dans le Lin-colnshire en 1861, Sir Halford John Mackinder s'est interessé aux voyages, à l'histoire et aux grands événements internationaux dès son enfance. Plus tard, à Oxford, il étu-diera l'histoire et la géologie. Ensuite, il entamera une brillante carrière universitaire au cours de laquelle il deviendra l'impulseur principal d'institutions d'enseignement de la géographie. De 1900 à 1947, il vivra à Londres, au coeur de l'Empire Britannique. Sa préoccupation essentielle était le salut et la préservation de cet Empire face à la montée de l'Allemagne, de la Russie et des Etats-Unis. Au cours de ces cinq décennies, Mackinder sera très proche du monde poli-tique britannique; il dispensera ses conseils d'abord aux "Libéraux-Impérialistes" (les "Limps") de Rosebery, Haldane, Grey et Asquith, ensuite aux Conservateurs regroupés derrière Chamberlain et décidés à aban-donner le principe du libre échange au profit des tarifs préférentiels au sein de l'Empire. La Grande-Bretagne choisissait une économie en circuit fermé, tentait de construire une économie autarcique à l'échelle de l'Empire. Dès 1903, Mackinder classe ses notes de cours, fait confectionner des cartes historiques et stratégiques sur verre destinées à être projetées sur écran. Une oeuvre magistrale naissait.

del.icio.us
Digg
Nella tradizione politica italiana la coniugazione dei termini popolo e nazione è stata un’eterna costante. La speciale idea di democrazia che si era fatta largo in epoca moderna non aveva nulla dell’oligarchismo parlamentarista di provenienza anglosassone e puritana. E neppure aveva nulla a che spartire con il millenarismo classista di Marx e con il suo elogio del progresso cosmopolita. Al contrario, almeno da Mazzini in poi, si ha da noi il convincimento che per democrazia debba intendersi la mobilitazione di tutto il popolo, oltre le classi e gli interessi, e il suo inserimento nel circuito decisionista attraverso il meccanismo delle appartenenze sociali entro la cornice nazionale. Come dire: il lavoro e la sua possibilità di uscire dalla gestione economica per entrare in quella politica. Il che significava la guida del popolo affidata alle sue aristocrazie politiche espresse dalla competenza tecnica. E in questo noi vediamo facilmente l’anticipazione di molto corporativismo, ad esempio nel senso di un Ugo Spirito. Il Sindacalismo Rivoluzionario nacque in questa prospettiva. E la storia del socialismo non marxista ne è la conferma. La mobilitazione morale, la promozione di una cultura politica popolare e la lotta contro il classismo furono tappe essenziali di quel movimento di liberazione delle energie davvero democratiche e davvero popolari che si presentò al crocevia storico del 1914 come il più vitale e il più attivo. Bloccato il socialismo riformista nelle sue derive fatalistiche, screditato quello massimalista e marxista dalla sua impotenza anche solo a concepire una via rivoluzionaria, in Italia gli unici versanti mobilitatori e innovativi, capaci di intendere la politica mondiale e le possibilità della storia, furono il Nazionalismo imperialista e il Sindacalismo Rivoluzionario.
C'est à travers l'analyse de l'évolution conjointe des forces militaires et des ressources économiques des principaux Etats que Paul Kennedy affirme inéluctable le déclin américain (2). Refusant ce primat de l'économique, William Pfaff met en exergue la pluralité des facteurs à l'œuvre dans la genèse de toute configuration historique et l'importance qu'il accorde au substrat culturel l'amène à rejeter l'historicisme linéaire de l'idéologie dominante: «Elles (les sociétés non occidentales) se trouvent ailleurs et sont les héritières d'un passé différent. Et il n'est pas totalement déraisonnable de penser qu'elles puissent avoir un avenir différent». A l'égard de l'histoire la plus immédiate, l'auteur, s'il évoque l'éventuelle responsabilité de l'Allemagne dans le déclenchement de la guerre civile européenne, ne s'en tient pas à la condamnation morale d'un fascisme a-temporel. Le second conflit mondial ne saurait s'expliquer par l'irruption du Malin dans le monde, et si césure il y a, c'est en 1914 que l'Europe, jusqu'alors robe sans coutures, se déchire. En 1917, débarquent les troupes américaines alors que la révolution bolchévique, "traumatisme politique" initial, met fin à l'homogénéité d'une société internationale longtemps eurocentrée. Le système Est-Ouest émerge (dialectique du bolchévisme et de l'anti-bolchévisme), le stalinisme et l'hitlérisme, incarnations de la révolution et de la contre-révolution, recourant aux formes et au symbolisme du système de guerre. Le phénomène totalitaire s'enracinant dans cette époque particulière, anti-fascisme et anti-communisme n'apportent aujourd'hui aucun cadre d'analyse satisfaisant (3).
Les sources écrites majeures du monde antique sont romaines, rédigées en latin. Les textes nous livrent donc une vision romaine des cinq siècles de lutte qui ont opposé le long du Rhin, des limes et du Danube, les tribus germaniques à Rome. Konrad Höfinger, archéologue de l'école de Kossina, interroge les vestiges archéologiques pour tenter de voir l'histoire avec l'oeil de ces Germains, qui ont fini par vaincre. Ses conclusions: les tribus germaniques connaissaient une forme d'unité confédérale et ont toutes participé à la lutte, en fournissant hommes ou matériel. La stratégie de guerilla, de guerre d'usure, le long des frontières était planifiée en bonne et due forme, au départ d'un centre, située au milieu de la partie septentrionale de la Germanie libre. Nous reproduisons ci-dessus une première traduction française des conclusions que tire Konrad Höfinger après son enquête minutieuse.
Haithabu, c'est un ancien port du Schleswig-Holstein qui fut un grand centre commercial à l'époque des Vikings. C'est aujourd'hui un site archéologique de première importance pour comprendre le fonctionnement global du commerce en Europe au cours du premier millénaire de notre ère. Haithabu, écrit Herbert Jankuhn, s'est constitué par le hasard de l'histoire, quand les relations commerciales en Europe du Nord et de l'Ouest se sont progressivement modifiées au contact d'un empire franc dont le poids venait de basculer vers l'Austrasie, autrement dit sa partie septentrionale largement germanisée.
On n'a pas fini de parler de Mai 68, même s'il ne reste plus grand'chose de l'effervescence des campus de Berkeley, Berlin ou Paris. Le soixante-huitardisme s'est enlisé dans ses contradictions, s'est épuisé en discours stériles, malgré les fantastiques potentialités qu'il recelait. Examinons le phénomène de plus près, de concert avec quelques analystes français: d'une part Luc FERRY et Alain RENAUT, auteurs de La pensée 68, essai sur l'anti-humanisme contemporain (Gallimard, 1986) et, d'autre part, Guy HOCQUENGHEM, qui vient de sortir un petit bijou de satire: sa Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary
L'histoire récente de notre pays montrait que telle était notre situation. Le jour où sous la pression d'événements intérieurs ou extérieurs l'Etat libéral unitaire créé en 1830 par la bourgeoisie d'expression française s'écroulerait, l'organisation étatique appelée à lui succéder devrait non seulement posséder une nouvelle structure institutionnelle, mais intégrer le courant qui au cours d'un siècle a créé une conscience flamande nationale. Considérer la question flamande comme une simple "question linguistique" était l'expédient dont la démocratie pouvait se contenter, mais qui était depuis longtemps dépassé. Le phénomène flamand avait atteint un degré de complexité tel qu'il ne pouvait trouver sa place dans les cadres de l'Etat unitaire; s'il n'avait été qu'une simple querelle linguistique, il aurait été résorbé assez rapidement par la voie d'une législation assez satisfaisante sur l'emploi des langues. La surenchère électorale ne l'aurait pas empêché d'aller tout doucement en s'atténuant; il aurait perdu sinon en ampleur, au moins en virulence. Or, il n'en était rien. Chaque "concession" de l'Etat unitaire au mouvement flamand ne faisait que renforcer celui-ci au lieu de l'apaiser. Manifestement, on se trouvait en face d'un phénomène d'un dynamisme historique incoercible qui ne pouvait prendre place dans les limites d'une formule étatique conçue en d'autres temps et pour d'autres temps; fatalement, il devait faire craquer ces limites et créer une nouvelle forme d'Etat, conforme à son contenu populaire. Ceux qui, dès 1936, ou même avant, avaient reconnu la nature réelle de ce phénomène voyaient combien il était dangereux de solidariser le patriotisme ou le fait politique belge avec des formes étatiques désuètes et condamnées par l'évolution. De cette solidarité, il ne pouvait naître que des équivoques effroyables et lourdes de périls, que les efforts de quelques esprits lucides et authentiquement patriotes ne pouvaient réussir à conjurer.
De origen humilde, nacido en 1918 en la provincia de Asiut, Egipto, Gamal Abdel Nasser ingresó en la Academia Militar en 1938, en plena guerra de resistencia.
Riparte all’Università di Teramo il “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”. Nel 2007 era stato chiuso per la nota vicenda Faurisson, per due anni è continuato a Roma sotto l’egida dello Iemasvo, Istituto Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”, e adesso è di nuovo nell’Ateneo dove era stato inaugurato nel febbraio 2006 con una prolusione di Giulio Andreotti su Enrico Mattei.

Ceux qui écoutent et ingurgitent, béats, sans émettre la moindre critique, les discours médiatiques, généralement fabriqués de toutes pièces outre-Atlantique, imagineront sans doute que l’identité iranienne correspond au fondamentalisme islamique qui y règne depuis 1979. Rien n’est plus faux. L’identité iranienne est une identité impériale, indo-européenne et perse. En effet, tous les historiens de l’Iran s’accordent à dire que, dès les dynasties bouyides et samanides (du 9ème au 11ème siècle), l’islamisation a dû composer avec de multiples recours au passé impérial irano-perse. L’identité iranienne se situe entièrement dans l’œuvre du poète Ferdowsi et du philosophe mystique Sohrawardi. Il faudra la catastrophe des invasions mongoles d’un Tamerlan pour réduire cette merveilleuse synthèse civilisationnelle à néant, pour précipiter l’Iran dans le déclin, du moins jusqu’à l’avènement des Séfévides. Les iranologues contemporains se divisent quant à savoir si la reprise en main de l’impérialité perse par les Séfévides a été ou non un bienfait pour l’Iran : les uns affirment que cet avènement dégage l’Iran de la cangue islamique sunnite, de la double emprise arabe et ottomane ; les autres disent qu’en privilégiant le chiisme, en en faisant une religion d’Etat, les Séfévides ont réduit à la marginalité le zoroastrisme, expression identitaire iranienne plurimillénaire qui avait survécu vaille que vaille sous l’islam pré-séfévide. Trancher dans cette querelle d’historiens n’est pas notre propos ici, mais d’examiner comment le fondamentalisme de l’Ayatollah Khomeiny s’est imposé dans un Etat impérial qui entendait s’inscrire dans d’autres traditions, dans des traditions de plus grande profondeur temporelle.
A Najaf, la pensée de Khomeiny va prendre les contours précis que nous lui connaissons depuis 1978. On parle à son propos d’une « renaissance théologique ». L’Ayatollah en exil va briser d’abord la dualité Shah/clergé qui avait caractérisé l’Iran chiite depuis les Séfévides. Il déclare en effet que la monarchie est incompatible avec l’islam ; cela implique que tant que l’Iman ou le Mahdi restent cachés, seuls les clercs ont droit au pouvoir (« velayet-e faqih »). Il réhabilite le culte du martyr, refoulé par le quiétisme dominant avant sa « renaissance théologique » : si l’on meurt en combattant le Shah, désormais totalement délégitimé et ramené à la figure négative d’un « Yazid », on acquiert automatiquement le statut de martyr. Les théologiens parlent à ce propos
Ali Shariati, théoricien d’une « révolution socialiste chiite », formule une idéologie contestatrice plus « moderne », que l’on peut classer parmi les « messianismes du tiers-monde », comme on les désignait à l’époque où la décolonisation venait de se dérouler à grande échelle sur le globe. Il appelle 1) à rejeter le quiétisme, à l’instar des religieux adeptes de Khomeiny ; 2) il réclame le droit à la parole pour les intellectuels non cléricaux qui s’inscrivent dans le cadre du chiisme (il élargit ainsi la notion de « clercs » et flanque ipso facto le clergé d’une caste militante d’intellectuels et d’écrivains chiites non affectés par le quiétisme et animés par la volonté de faire triompher la justice sur la Terre) ; 3) il opère une distinction entre le « chiisme des Séfévides » (et des Pahlevi), qu’il campe comme « corrompu » et le « chiisme d’Ali », chiisme pur des origines, impliquant tout à la fois un retour au prophète et à l’Imam Ali, tout en réclamant l’avènement permanent de la justice sociale, à l’instar des messies zoroastriens, manichéens ou mazdéens de l’histoire iranienne préislamique. Cette distinction postule une imitation active d’Ali, dans le quotidien politique, dans l’effervescence mondaine. La femme a un rôle primordial à jouer dans ce contexte : elle doit se montrer active sur le plan politique et religieux ; l’idéal qu’elle doit incarner rejette tout à la fois le modèle occidental de la femme émancipée et le modèle de la femme musulmane recluse. Ali Shariati développe là une idéologie contestatrice typiquement chiite et iranienne. Son anti-occidentalisme rejoint sur quelques points celui de Khomeiny ou d’autres militants islamistes (y compris sunnites). Ses sources d’inspiration sont : 1) l’écrivain Jalal Al-e Ahmad (1923-1969) qui avait théorisé la notion de « pays infecté » (« Gharb-zadegi »), infecté par l’Occident s’entend. Via les cercles de Shariati, l’idée d’un « empoisonnement occidental » ou d’une « infection occidentale » se répand dans les esprits ; 2) Shariati s’inspire de Franz Fanon, poète du tiers-monde, très en vogue dans les milieux contestataires de la planète dans les années 60. Fanon déclare qu’il est licite de « tuer les vecteurs de l’infection ». De là, l’idée d’une « violence désinfectante ». Ali Shariati s’inscrit dans le cadre de la gauche planétaire de son époque, dans la mesure où il véhicule une anthropologie optimiste de type rousseauiste : l’ « infection » ne vient pas de l’homme lui-même, comme le diraient les tenants de l’anthropologie pessimiste (Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt), elle vient de l’extérieur. L’homme est donc bon ; par la grâce de cette bonté, il peut commettre toutes les « violences désinfectantes » imaginables, y compris celles qui pourraient être clairement interprétées comme des crimes purs et simples, et peut donc tuer les « vecteurs d’infection » qu’il juge tels, indépendamment du fait que la personne ainsi visée soit « infectante » ou non, soit un ennemi conscient ou un quidam sans intention de nuire. Toute anthropologie optimiste peut ainsi conduire au carnage universel.
Archives de SYNERGIES EUROPENNES - 1987
A contrario
Ernst Niekisch n'est plus un inconnu: de nombreux ouvrages ont longuement évoqué son itinéraire et ses idées, un certain nombre lui ont été entièrement consacré (1). Le dernier en date, "Ernst Niekisch und der revolutionärer Nationalismus" d'Uwe Sauermann, ne concerne bien sûr qu'une période dans l'engagement intellectuel et politique d'Ernst Niekisch, la période nationaliste révolutionnaire (baptisée à tort "national-bolchévique") qui coïncide avec la période de parution de la revue "Widerstand" ("Résistance") que dirigeait Ernst Niekisch de 1926 à 1934). Ne sont pas concernées la période social-démocrate antérieure à 1926, évoquée dans l'ouvrage de Sauermann pour mémoire, et la période postérieure à la guerre (après 1945, Niekisch, devenu marxiste, occupera un poste d'enseignant à l'Université Humboldt de Berlin-Est).
De l'écheveau apparemment inextri-cable des actions menées et des thèmes développés par Niekisch et "Widerstand", Uwe Sauermann dégage un fil directeur: le nationalisme absolu, inconditionnel, (un-bedingt) professé par Niekisch dès les années 25-26.
L'idéologie de "Widerstand" se radica-lise encore dans les dernières années de la République de Weimar. De nouveaux thèmes apparaissent dans un article de Niekisch de septembre 1929 "Der ster-bende Osten" ("l'Est mourant") (p.229), et dans un article de mars 1930 de Werner Hennecke, pp. 231 à 233 (celui-ci, un col-laborateur du périodique "Blut und Boden", est proche du Mouvement Paysan). Ils se-ront repris et développés dans le pro-gramme politique de la résistance alle-mande en avril 1930 (pp. 234/235) (7). Niekisch et "Widerstand" préconisent alors :
Chile y la formación de su Estado-nación

Enrico Galmozzi est l'un des fondateurs du mouvement d'extrême-gauche “Prima Linea” (= Première Ligne), et aussi l'une des principales victimes des “années de plomb” en Italie. Son engagement lui a coûté treize années de prison. Dans les geôles de l'Etat italien, il a étudié la sociologie et obtenu son doctorat. Aujourd'hui, la passion du politique continue à l'animer, ce qui l'amène à une intense activité intellectuelle et à dépasser les limites de l'idéologie à laquelle il a spontanément adhérer dans ses plus jeunes années: il fréquente désormais des auteurs inhabituels pour un ancien “communiste combattant”. En effet, Enrico Galmozzi vient de publier un essai sur Gabriele d'Annunzio, Il soggetto senza limite, auprès de la Società Editrice Barbarossa à Milan en 1994. Ensuite, il a dirigé le dossier Pareto de la revue Origini, éditée par Synergies Européennes en Italie. Ce passage de l'extrême-gauche au dannunzisme réputé d'extrême-droite est effectivement une curiosité. C'est pourquoi nous sommes allés nous entretenir avec Enrico Galmozzi.
C'est vrai, mais Sombart est bien le seul. Au fond, c'est Evola qui devrait faire son auto-critique car il a mené le discours de la droite radicale dans une optique plus morale et plus spirituelle que scientifique. Par ailleurs, on ne peut plus prendre l'analyse économique du marxisme telle qu'elle a été; on ne peut plus reprendre tel quel son déterminisme économique, où il n'y a pas de place pour d'autres valeurs en dehors de celles qui sont exclusivement relatives à l'économie. Voilà pourquoi il est utile de procéder à cette analyse critique transversale dont je viens de vous parler. Il y a des périodes et des moments historiques qui doivent être complètement réévalués et revus car, jusqu'à nos jours, la critique dominante et surtout la critique de gauche n'ont montré que leur myopie et leur caractère manipulatoire. Par exemple, à Fiume, le subjectivisme volontariste de d'Annunzio convenait parfaitement aux sensibilités et aux revendications sociales émanant des syndicalistes révolutionnaires, en particulier de De Ambris. Cela les a conduit à rédiger une constitution comme la Carta del Carnaro, qui est absolument exemplaire. L'interventionnisme italien pendant la première guerre mondiale est également un phénomène sur lequel il faudra jetter un regard nouveau parce qu'il a été un mouvement absolument transversal qui est passé à travers toutes les formations politiques et qui est très riche en motivations de toutes provenances: du centre, de la droite et de la gauche, des milieux impérialistes et nationalistes comme des milieux socialistes et révolutionnaires. C'est le même cocktail d'éléments que l'on retrouvera quelques années plus tard dans l'arditisme et dans l'organisation des Fasci jusqu'au second congrès.


T.E. Lawrence’s book Seven Pillars of Wisdom is on the syllabus at the elite US army training college at Fort Leavenworth, Kansas. Seen as the man who “cracked fighting in the Middle East”, Lawrence is a “kind of poster boy” of how to do colonial rule, according to writer-presenter Rory Stewart, in The Legacy of Lawrence of Arabia (BBC2, Jan 16 and 23 2010).
Pour Hans Freyer (1887-1969),
In Dublin's Kilmainham Jail on 12th May 1916, a working class man born in Scotland was executed for his part in the Easter Rising, an attempt to liberate Ireland from 800 years of foreign occupation. Because his injuries aquired in the defeated insurrection were so severe that he was unable to stand, the British soldiers tied James Connolly to a chair in order that he could face the firing squad.