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lundi, 23 février 2015

Yukio Mishima: nazionalista, genio e morte perfetta

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Yukio Mishima: nazionalista, genio e morte perfetta

di Lee Jay Walker

Ex: http://chronachelodigiane.net

Yukio Mishima afferma: “Se valutiamo così altamente la dignità della vita, come possiamo non valutare anche la dignità della morte? Nessuna morte può essere definita futile“. Questo osservazione è scioccante per molte persone che non hanno mai letto Mishima, o letto profondamente il suo lavoro. Poi la sua morte incombe sulla realtà o irrealtà, poiché in ultima analisi si liberò o si dedicò a una mera illusione?

In realtà, da dove iniziare quando si scrive su Mishima? Inoltre, un critico deve affermare che conosce l’argomento dal lavoro interiore dell’individuo di cui scrive? Oppure immagini e riflessioni avrebbero maggiore profondità, grazie alle immagini degli ultimi momenti di Mishima? Dopo tutto, milioni di buddisti e cristiani hanno letto i libri sacri, ma la storia ci dice che il Buddismo Zen ha sostenuto il nazionalismo fino in fondo in Giappone, negli anni 30 e 40. Pertanto, i templi buddisti di Kyoto nel secolo scorso salutarono il massacro di cinesi inermi. Allo stesso modo, gli aborigeni in Australia si chiedono dove siano l’amore e la pace cristiani? Adolf Hitler rispettava l’Islam in quanto Muhammad avviò la schiavizzazione dei non-musulmani nella jihad, imponendo il potere dalla legge islamica Sharia e della dhimmitudine. Secondo Hitler, il cristianesimo era debole, mentre l’Islam era forte perché questa fede giustificava le guerre sante con il Corano e gli Hadith, radicati nella realtà della guerra e della concentrazione del potere. Quindi, forse è meglio guardare le istantanee e poi formulare le idee; perché Mishima certamente fece così. Dopo tutto, il nazionalismo come tutte le ideologie e o modelli di pensiero si basa su miti, ma con elementi di verità. Se la verità esiste veramente. Detto ciò, la mia istantanea di Mishima è la sua morte, perché le istantanee della storia fluivano nel suo sangue, ma finendo con l’arrampicarsi sugli specchi. Dopo tutto, la morte di Mishima non ha mutato il Giappone o riportato il Paese all’età di Edo, quando il senso di un Giappone isolato non esisteva pienamente per via del complesso sistema daimyo. Sì, un Giappone isolato esisteva, in certa misura, ma era un mito perché il daimyo Shimazu commerciò ed invase Ryukyu (Okinawa). Allo stesso tempo, la completa nipponizzazione del nord era in corso e presto gli Ainu si dissolsero nella schiatta e nella realtà coloniale linguistica giapponese. Pertanto, i momenti finali di Mishima furono un dramma totale, perché le sue azioni furono inutili. Tuttavia, dicendo ciò, Mishima morì di morte desiderata, nonostante i momenti finali siano una realtà che non si può pienamente percepire. Presumo che per quei fugaci minuti e secondi prima del decesso autoindotto, mente e spirito di Mishima fossero in estasi perché parte della sua fantasia divenne la realtà desiderata. Ma ben presto un articolato nazionalista non sarebbe stato, al dunque, per nulla impressionato da Mishima. perché l’occidentalizzazione continua a venare la psiche giapponese.


Nella breve memoria di Mishima, “Sole e Acciaio”, è chiara la sua ossessione degli ultimi dieci anni per la scrittura e un culturismo estremo. Questo libro fu pubblicato nel 1968 e riflette la psiche di Mishima che fuse la penna con l’allenamento fisico e i concetti sul “nuovo Giappone” che tradiva il “vecchio e glorificato Giappone”. Sole e Acciaio parla di come Mishima si sbarazza del suo precedente romanzo “Confessioni di una maschera”, perché ora Mishima costruiva l’uomo forte. In altre parole, l'”Ubermensch” di Nietzsche nasceva nell’io e nello spirito di Mishima. Mishima ora puntava ad allontanarsi dal suo genio letterario e a sprofondare nel mondo del “corpo e dell’azione”. Tuttavia se, come sostenuto, desiderava liberarsi e abbandonare il “potere della parola”, formandosi da “guerriero” nella sua visione del mondo, allora non ci riuscì. Gli ultimi giorni struggenti della sua vita si basarono sul “potere delle parole” e delle “idee”, derivanti dalla passione interiore in cui confusione, nazionalismo, ricerca dell’attenzione e uomo d’acciaio si fusero nella morte che l’ha glorificato. Mishima evidenziò anche la dualità con cui costantemente lottò, quando afferma: “Molte persone esprimono incredulità che un simile processo possa già essere al lavoro fin dai primi anni di una persona. Ma, senza ombra di dubbio, è ciò che mi è successo, gettando così le basi di tendenze contraddittorie in me, nella determinazione ad andare avanti lealmente, nella funzione corrosiva delle parole, svolgendo il lavoro della mia vita. E il desiderio d’incontrare la realtà in qualche campo in cui le parole non giochino alcun ruolo”. E’ chiaro che la dualità di Mishima deve avergli causato enorme ansia, insieme allo sviluppo di un forte ego basato su potere e forza. Dopo tutto, se si guarda il filmato della sua “rivolta illusoria”, allora si può vedere una passione e uno spirito difficile da trovare nell’ego altrui. Forse Mishima semplicemente combatteva contro se stesso? O forse l’ego ha superato la realtà o forse “la droga della vita” si fuse nella “droga di una morte glorificata?” Qualunque cosa stesse realmente accadendo nella sua mente, certamente credeva in se stesso, perché la trama nazionalista desiderata veniva ignorata dalle masse. Mishima aveva una natura complessa, perché aveva poco tempo per i cosiddetti intellettuali, venerando gli uomini d’azione. Nella sua mente s’identificava con samurai famosi, forti capi militari e persone che si sacrificarono. Ciò trascinò la sua anima, perché vedeva l’abilità letteraria come debolezza, ma come poteva Mishima esprimersi ed ispirare gli altri senza le “parole della passione?” L’allenamento fisico ossessivo di Mishima indicava la creazione del sé guerriero, ma i guerrieri che si sacrificarono avevano qualcosa da sacrificare. Mishima non aveva nulla da sacrificare, perché le sue azioni non furono solo inutili, ma dovute al mondo illusorio che si era creato. La maggior parte delle cricca letteraria del Giappone, negli anni ’60, era di sinistra, e i suoi libri erano incentrati su modelli di pensiero militaristi e nazionalisti. Mishima quindi si fissò sul Bunburyodo e una morte che facesse appello al suo ego. “Il mare della fertilità”, scritto da Mishima in quel periodo era una raccolta di quattro libri molto intriganti. L’anno successivo iniziò l’addestramento in una base militare e formò il suo esercito privato. Mishima era ormai negli ultimi anni di vita ed era intento alla fine nobile desiderata. Mishima nel 1969 su Runaway Horses affermava: “In che situazione strana tende a ritrovarsi un uomo all’età di trentotto anni! La sua giovinezza appartiene al lontano passato. Tuttavia, il periodo della memoria inizia con la fine della giovinezza e ad oggi non ha una singola vivida impressione. Quindi persiste nel sentire che nulla più che una barriera fragile lo separa dalla giovinezza. Ascoltando sempre con la massima chiarezza i suoni di questo dominio vicino, ma senza poterne penetrare la barriera“.


sun_and_steel.jpegMishima, nato nel 1925, era molto giovane durante la Seconda Guerra Mondiale ma poté partecipare all’ultimo anno di guerra; era scusato. All’epoca deve esser stato ossessionato dall'”uomo d’acciaio”, perché il suo amico Hasuda, collega scrittore, afferma: “Credo che si debba morire giovani, alla sua età”. Hasuda fu fedele alla parola, perché si suicidò. Sembra che l’omosessualità possa anche aver tormentato Mishima, poiché in Confessioni di una maschera (1949) si occupa di emozioni interiori e passioni. Tuttavia, se Mishima conosceva bene la storia di molti samurai, allora avrebbe creduto che l’omosessualità fosse la forma più pura di sesso. Inoltre, molti leader del Giappone nel periodo pre-Edo ed Edo ebbero concubini maschi. Pertanto, Mishima si vergognò dell’etica cristiana arrivata in Giappone con la Restaurazione Meiji (1868)? Se no, allora molti “uomini d’acciaio” del vecchio Giappone ebbero relazioni omosessuali e questo andava inteso alla luce della realtà. Dopo tutto, la lealtà nel vecchio Giappone era per il sovrano daimyo e i compagni samurai. Pertanto, la compassione era ritenuta cosa per deboli, a causa della natura della vita. Non sorprende che forti legami maschili prendessero piede nella psiche dei samurai e tale realtà culturale sia all’opposto dell’immagine dell’omosessualità nel Giappone moderno, percepita per deboli. Il Wakashudo aveva diversi modi di avviare i ragazzi nel “vecchio Giappone” e nella mentalità dei samurai, le donne venivano viste femminilizzare gli uomini indebolendone lo spirito. Il sistema Wakashudo fu spesso abusato dal clero buddista per proprie gratificazioni sessuali, in passato. Tuttavia, il sistema dei samurai si basava sulla creazione di “un processo di apprendimento secondo un codice etico” impiantando lealtà e forti legami per cui, in tempi di difficoltà, i samurai rimasero attaccati all’istruzione ricevuta. Mishima, gonfiando i muscoli e dalle competenze marziali ben levigate, divenne l'”uomo d’acciaio”. Tuttavia, fu contaminato dalle pose femminili fusesi nel suo martirio. Posò volentieri di fronte alle telecamere e le immagini di San Sebastiano ucciso da molte frecce o del samurai che invoca il suicidio rituale, giocarono la sua psiche e il suo essere. Il mondo di Mishima era reale e surreale, perché potere e forza si fusero, ma avendo una natura femminile seppellita nell’anima. Mishima dichiarò: “Il tipo più appropriato di vita quotidiana, per me, fu la quotidiana distruzione mondiale; la pace è il più duro e anormale modo di vivere”. Pertanto, il 25 novembre 1970, si avverò ciò che Mishima era divenuto. Tale realtà si basava su visioni suicide, quindi il suo mondo illusorio sfociò in un fine violenta. Tuttavia, la verità di Mishima fu la fine violenta e caotica entro una realtà struttura. Dopo tutto, Mishima stilò dei piani successivi alla morte. Inoltre, Mishima si dedicò per tale giorno da anni, ma ora il tempo della recitazione era finito, in parte, perché ancora si agitava nel mondo dell'”ego”. Nel suo mondo illusorio il “sé” avrebbe agito collettivamente con forza, a sua volta generando “uno spirito” tratto dal sogno di Mishima di morte glorificata. Eppure, non era un soldato, dopo tutto aveva mentito, non avendo combattuto per il Giappone; quindi, la retorica nazionalista fu proprio tale e il 25 novembre fu più una”redenzione personale” che pose fine alla “dualità della sua anima”. L’uomo delle parole sarebbe morto nel “paradiso dell’estremo dolore”, perché l’ultima sciabolata che lo decapitò non fu netta, furono necessari diversi tentativi. Dopo tutto, non era un soldato, non era un samurai e lo non erano neanche i suoi fedeli seguaci. L’atto finale è la prova che i “sognatori” sono proprio ciò; quindi, il finale non fu una bella immagine di serenità, ma una scena “infernale stupida e di follia autoindotta”. Il mondo illusorio di Mishima non poteva cambiare nulla, perché non riusciva a riscrivere la storia. Sì, dopo di lui si poté riscrivere la storia e forse questa era cui Mishima anelava?


Nonostante ciò, Mishima è un genio letterario e aveva più spirito ed ego della maggior parte delle persone. Il suo potere poggiava sui “demoni interni con cui lottava” e su una cultura che glorificava il sacrificio di sé. Tuttavia, Mishima non aveva nulla da sacrificare, perché l’ultimo evento della sua vita non scosse il Giappone, essendo più che altro “egoismo” nato dall'”irrealtà”. Eppure, l’opera di Mishima è molto particolare e nel XX secolo affianca i più grandi scrittori internazionali. Pertanto, il ragazzo di Tokyo fu enigmatico e dalla cruda passione. Purtroppo la passione di Mishima manca oggi e forse è qui che il suo “genio risiede”. In Mishima si può immaginare l’energia del passato e il visionario. Pertanto, le mancanze nella sua vita furono le mancanze di tutti; ma ciò va trascurato, perché ignorare gli scritti di Mishima significa ignorare una forza potente nell’energia letteraria del Giappone. Mishima, a differenza della maggior parte degli scrittori, trascese la nazione a cui apparteneva, perché la sua scrittura colpisce un nervo scoperto nell'”animo interiore”.

Fonte: aurorasito

jeudi, 19 février 2015

Brummell, Barbey, Baudelaire : dandysme et magnificence tragique

Brummell, Barbey, Baudelaire : dandysme et magnificence tragique

brurecline.jpgIl serait parfaitement inconséquent de restreindre le dandysme – né en Angleterre au XVIIe siècle et dont l’âge d’or pourrait se situer entre les XVIIIe et XIXe siècles – à une simple mode vestimentaire maniériste reconnue pour sa préciosité. Bien plus, il faut y voir l’expression d’une identité paradoxale, d’un attribut psychologique. Entre vice et vertu, grandeur aristocratique et décrépitude, la singulière ambivalence du dandy promet un portrait riche en enseignements.

Le dandysme ramasse, selon le mot d’Oscar Wilde, « toute la passion romantique et toute la perfection de l’esprit grec » au service d’une « grandeur sans convictions » pour reprendre le très élégant titre d’un Essai sur le dandysme écrit par Marie-Christine Natta. Il y a, en effet, de la grandeur chez le dandy, de la noblesse d’âme, le sens de la distinction et la culture de l’excellence : une sonorité aristocratique vibrante. Si le dandysme a effectivement vu le jour sous la restauration de la monarchie anglaise, sa matrice procède d’une dilection plus ou moins palpable, à cette époque, pour les mœurs française (en rupture avec le puritanisme), et particulièrement pour l’aspect frivole d’une noblesse de cour délaissant la dévotion, autrement plus grave, d’une certaine noblesse de robe. Pourtant, le dandy est grave également, d’une gravité presque cénobitique aux relents tragiques.

Chez George Brummell – père des dandys – la coquetterie s’impose sans rémission mais, aussi et surtout, sans se fourvoyer dans l’excentricité. L’excentrique est bien trop outré pour satisfaire cette légèreté mêlée d’aplomb propre au dandy anglais. « pour être bien mis, il ne faut pas être remarqué », voici en quelques mots « l’axiome de toilette » brummellien. L’élégance n’est pas autre chose que l’art de la discrétion. Il faut se faire remarquer, se distinguer par son originalité vestimentaire et verbale, sans trop bousculer l’ordre établi. En effet le dandy, à l’inverse de l’excentrique, défie la règle (le communément admis) sans jamais l’outrepasser ; son oisiveté n’a pas d’autre fond qu’une promotion de l’indépendance : « absorbé par le culte de lui-même, il n’a rien à donner et rien à recevoir » (Marie-Christine Natta). S’il a besoin des autres par vanité, il ne peut réellement les aimer par crainte d’une dépendance affective, et le travail bourgeois l’obligerait à courber l’échine devant la crasse utilitaire – chose douloureuse pour qui a fait de sa vie une œuvre d’art, autrement dit l’éloge de l’inutile.

Barbey d’Aurevilly insiste lui aussi sur ce culte de l’indépendance qu’il relève chez le beau Brummell : « son indolence ne lui permettait pas d’avoir de la verve, parce qu’avoir de la verve, c’est se passionner ; se passionner, c’est tenir à quelque chose, et tenir à quelque chose, c’est se montrer inférieur » (en effet, Brummell préférait conserver la distance par le mordant du « trait d’esprit »). Il s’ensuit assez logiquement un mépris de l’argent dans sa conception bourgeoise, à savoir celle d’une vie assise sur le confort matériel et moral. Tout au contraire, si le dandy convoite un tel bien c’est uniquement « parce que l’argent est indispensable aux gens qui se font un culte de leurs passions » sans jamais aspirer « à l’argent comme à une chose essentielle ; un crédit indéfini pourrait lui suffire ; il abandonne cette grossière passion aux mortels vulgaires » (Baudelaire, Le peintre et la vie moderne). Il n’est ni un homme d’action, ni un homme de pouvoir ; si il agit « il choisira de préférence les causes perdues » (On pense à Lord Byron dans sa lutte mortelle au côté des insurgés grecs) : « elles ont l’avantage de ne pas rallier les foules » (Marie-Christine Natta). Le dandy aime déplaire, s’évertue à s’éloigner du commun ; non par devoir mais pour plaire davantage en suscitant l’incompréhension.

Au fond, le dandysme nous apparaît comme un « résidu » aristocratique, non seulement en décalage avec l’époque et ses valeurs bourgeoises, mais également déchiré entre la volatilité de ses mœurs et la noblesse de sa prestance. Il se pose, en réalité, comme une réaction déviante de type aristocratique. Réaction déviante en un point fondamental : le remplacement du Bien par le Beau ou le passage d’une distinction assise sur l’excellence éthique à une distinction fondée sur une singularité d’ordre esthétique ; mais réaction également conforme à son origine noble par le rejet massif de la laideur utilitaire et de l’« hédonisme vulgaire », c’est-à-dire un hédonisme qui ne serait pas corrigé par un versant ascétique et impérieux. Illustration d’une grandeur sans conviction, autrement dit d’un esprit aristocratique n’ayant plus que son ego comme objet – réclusion dans la présence intemporelle à soi comme œuvre d’art (en faisant de l’art un moyen d’expression ou d’invention). Toute la particularité du dandy réside dans la grandeur d’une âme en quête de perfectionnement et de rigueur (rigueur sportive pour les dandy anglais comme Lord Seymour ou Byron ; discipline dans l’art de la toilette, dans la perfection plastique poussée à un rare degré d’exigence et dans la création artistique ou littéraire – une esthétique de l’esprit) dissipée par des mœurs déviantes, soit par excès d’austérité, soit par une trop grande légèreté (le libertinage de Byron ou de Wilde par exemple, la chasteté de Baudelaire, les dettes de jeu et les excès de boissons alcoolisées chez Brummell, etc). En somme, il s’agit d’une « forme dégradée de l’ascèse ». Le dandy recrée la soumission à partir de lui-même sous les traits incertains d’une transcendance déchue au service de l’artifice. Une grandeur sans conviction : une hauteur sans Dieu ou la hauteur toute relative de l’homme-Dieu. Le but du dandy, nous dit Camus, « n’était alors que d’égaler Dieu, et de se maintenir à son niveau » ; « l’art est sa morale ».

Aussi est-il souvent perméable à la contagion vertigineuse des sentiments – esquisse du caractère douloureusement vulnérable de l’homme reclus. Stoïque, il ne connaît pas la reddition d’un moi presque déifié ; il est beau d’une beauté crépusculaire, celle de l’astre déclinant, « superbe, sans chaleur et plein de mélancolie » selon l’émouvante expression de Baudelaire (Le peintre de la vie moderne). La beauté d’une aristocratie tombante ; non pas le déchirement d’un drame mais la grandeur altière d’une certaine forme de résignation tragique : « un dandy peut-être un homme blasé, peut-être un homme souffrant ; mais, dans ce dernier cas, il sourira comme le Lacédémonien sous la morsure du renard ». Un cœur tragique comme celui de la jeune Germaine décrit par Georges Bernanos (Sous le soleil de Satan) : « Tel semblait né pour une vie paisible, qu’un destin tragique attend. Fait surprenant, dit-on, imprévisible… Mais les faits ne sont rien : le tragique était dans son cœur ». Si le dandy est beau c’est parce qu’il est tragique (ou l’inverse) ; aussi, il est seul, mais seul comme personne : il est l’unique à son degré de conscience le plus élevé (et il a pourtant encore besoin des autres pour être admiré – comme on admire une belle sculpture – et satisfaire sa vanité qui toujours suppose une certaine dose d’humilité).

Résignation au culte de soi jusqu’à la mort de soi, jusqu’au mourir blanchotien (aussi paradoxale que cela puisse paraître, une érection de l’ego persiste dans la dépossession de l’absence à soi, dans l’impersonnel ou le neutre de l’ œuvre d’art – comme chez Blanchot, pour qui l’art de l’écriture marque l’instant de sa mort, le dandy, sculpteur d’individualité, s’épuise dans son œuvre : ne participe-t-il pas, pour Sartre, à un « club de suicidés » ?). Le dandysme se définit finalement par cette espèce « de culte de soi-même, qui peut survivre à la recherche du bonheur à trouver dans autrui » ou, pour Daniel Salvatore Schiffer, à travers une « esthétique de la disparition » déclinée sous la plume d’André Glucksmann qui, dans Une rage d’enfant, fait du dandysme «l’assomption narcissique » d’une autodestruction entendue « comme la forme éminente de la coïncidence avec soi : dans un seul et même élan je me fais et je me défais ». L’hypertrophie et la disparition du moi – deux faces oxymoriques d’une même médaille – soulignent une forme de mystique dévoyée et doloriste très éloignée de l’absolu plotinien. « le Bien, nous dit Plotin, est plein de douceur, de bienveillance et de délicatesse. Il est toujours à la disposition de qui le désire. Mais le beau provoque terreur, également, et plaisir mêlé de douleur. Il entraîne loin du Bien ceux qui ne savent pas ce qu’est le Bien, comme l’objet aimé peut entraîner loin du Père ». L’élan passablement mystique du dandy ne délivre pas. Le Beau seul n’est que création (chez le dandy il s’agit d’une ultime création : une création de soi) et donc – malgré les efforts pour s’oublier dans cette création – déréliction. Seul le Bien permet l’abandon ; seul le Bien conduit au renouement originel.

beau-brummell-m.jpgDe ce qui précède, nous ne pouvons ignorer la place de choix qu’occupe, au sein du dandysme, la sensibilité romantique – Albert Camus ne s’y est pas trompé lorsqu’il fait du dandy un « héros romantique ». Dandysme et beylisme s’accorde majestueusement. D’après Léon Blum « nous trouvons (…) au fond du beylisme ce qui peut-être l’essence de la sensibilité romantique : la persistance vers un but qui, d’avance, est connu comme intangible, l’acharnement vers un idéal, c’est-à-dire vers l’impossible, la dépense consciente de soi-même en pure perte, sans espoir quelconque de récompense ou de retour. Car les âmes assez exigeantes pour aspirer à ce bonheur parfait, ou même surhumain, le sont trop pour accepter en échange les compensations atténuées qui font le lot commun des hommes. La mélancolie romantique est issue de ces thèmes élémentaires : les seuls bonheurs accessibles à l’homme font sa bassesse ; sa noblesse fait sa souffrance ; une fatalité maligne a posé devant lui ce dilemme : la vulgarité innocente qui le ravale à la brute, l’aspiration anxieuse et condamnée qui le hausse vers un ciel inaccessible… ». Cette jolie citation nous rappelle que l’esthétique de soi dévoile un thème propre à la fois au dandysme et au romantisme (Stendhal, Byron et surtout Baudelaire symbolisent la fusion parfaite de ces deux aspects). Qui a mieux exalté que Baudelaire la friction permanente entre le don de soi dans l’art poétique et la transpiration mélancolique ? L’auteur des Fleurs du mal pour qui « le malheur est à la fois une noble distinction et un critère esthétique » (Marie-Christine Natta) a écrit ces mots extraordinaires dans sa lettre à jules Janin : « Vous êtes un homme heureux. Je vous plains, monsieur, d’être si facilement heureux. Faut-il croire qu’un homme soit tombé bas pour se croire heureux ! (…) Je vous plains, et j’estime ma mauvaise humeur plus distinguée que votre béatitude » ; ou encore dans Fusée : « je ne prétends pas que la Joie ne puisse pas s’associer à la Beauté, mais je dis que la Joie (en) est un des ornements les plus vulgaires ; – tandis que la Mélancolie en est pour ainsi dire l’illustre compagne, à ce point que je ne conçois guère (mon cerveau serait-il un miroir ensorcelé ?) un type de Beauté où il n’y ait du Malheur ».

Il faut ici souligner à quel point la rhétorique baudelairienne du clair-obscur explore admirablement ce mélange inextricable de bien et de mal chez le dandy – signe irrévocable d’une primauté, déjà soulignée, du Beau sur le Bien – et saisit avec justesse son élan décadent. « Le dandysme apparaît surtout aux époques transitoires où la démocratie n’est que partiellement chancelante et avilie ». Baudelaire ajoute ensuite : « dans le trouble de ces époques quelques hommes déclassés, dégoûtés, désœuvrés, mais tous riches de force native, peuvent concevoir le projet de fonder une espèce nouvelle d’aristocratie (…) le dandysme est le dernier éclat d’héroïsme dans les décadences ». Nous voyons ici que la décadence, contrairement à une certaine idée de la médiocrité, suppose un dernier éclat ou les vestiges d’une grandeur irréconciliable – du moins dans ses anciennes formes – avec les changements d’un nouveau monde en construction. Les époques de transition (et le XIXe siècle en est une) offrent une sensibilité remarquable à l’idée de décadence. Aussi, à cette période transitoire de notre histoire (XIXe siècle), la fièvre émancipatrice n’a pas encore transformée la tolérance en demande de reconnaissance dont le moteur est évidemment ce désir exécrable d’indistinction porté par les passions relativistes (relativisme qui, par ailleurs, ne s’étend plus aux ennemis du relativisme quant à eux sévèrement jugés). Cette tolérance mal comprise, ou consciencieusement niée au profit de la reconnaissance, se déroule ainsi : je ne souhaite plus seulement que ma différence soit tolérée mais reconnue, c’est-à-dire, précisément, niée en tant que différence, mise à égalité, noyée dans l’indistinction.

bru_CIN91254_038.jpgCe court détour pour rappeler que le dandysme, comme l’a aussi montré Camus, évolue sur le mode de la révolte et non de la révolution. Sartre, dans son Baudelaire, expose le sens de cette nuance : « le révolutionnaire veut changer le monde, il le dépasse vers l’avenir, vers un ordre de valeur qu’il invente ; le révolté à soin de maintenir intacts les abus dont il souffre pour pouvoir se révolter contre eux (…) Il ne veut ni détruire ni dépasser, mais seulement se dresser contre l’ordre. Plus il l’attaque, plus il le respecte obscurément ». Si le dandy a pu pénétrer les milieux aristocratiques les mieux conservés de son temps sans éveiller le moindre rejet (Brummell, par exemple, était membre du cercle du prince George), c’est parce qu’il a su, à la fois, embellir ses déviances et, surtout, ne jamais les revendiquer comme un modèle à suivre : il n’a jamais agité son droit à la reconnaissance et s’est toujours contenté d’une franche indépendance (liberté de de rien vouloir et, par conséquent, de ne rien demander). Le dandy possède cette faculté de transformer un « crime » en vice, une déviance difficilement tolérable (à tort ou à raison) en une fantaisie séduisante ; sa force fut, à la fois, de greffer son cortège de vices sur une nature exceptionnellement distinguée (par son degré d’exigence plastique, intellectuelle et artistique) mais aussi de se maintenir à distance du pouvoir et des revendications politiques, loin, très loin, des lumières criardes de l’ostension révolutionnaire. Peut-être faudrait-il veiller à ne pas oublier cette citation de Benjamin Disraeli : « ce qui est un crime pour le grand nombre n’est qu’un vice pour quelques-uns ». Compte tenu de la nature pécheresse de l’homme, l’harmonie sociale est à ce prix.

mercredi, 18 février 2015

Yeats’ Pagan Second Coming

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Yeats’ Pagan Second Coming

By Greg Johnson 

Spanish translation here [2]

William Butler Yeats penned his most famous poem, “The Second Coming,” in 1919, in the days of the Great War and the Bolshevik Revolution, when things truly were “falling apart,” European civilization chief among them. The title refers, of course, to the Second Coming of Christ. But as I read it, the poem rejects the idea that the literal Second Coming of Christ is at hand. Instead, it affirms two non-Christian senses of Second Coming. First, there is the metaphorical sense of the end of the present world and the revelation of something radically new. Second, there is the sense of the Second Coming not of Christ, but of the paganism displaced by Christianity. Yeats heralds a pagan Second Coming.

The poem reads:

Turning and turning in the widening gyre,
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the center cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
are full of passionate intensity.

Surely some revelation is at hand;
Surely the Second Coming is at hand.
The Second Coming! Hardly are those words out
When a vast image out of Spiritus Mundi
Troubles my sight: somewhere in the sands of the desert
A shape with lion body and the head of a man,
A gaze blank and pitiless as the sun,
Is moving its slow thighs, while all about it
Reel shadows of the indignant desert birds.
A darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle
And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?

If one reads this poem as an allegory of modern nihilism, quite a lot falls into place. “Turning and turning in the widening gyre.” Picture here a falcon, perhaps with a long tether attached to one of its legs, flying in an ever-widening spiral trajectory as more and more of the tether is played out. At the center of the gyre, holding the tether, is the falconer, the falcon’s master. As the tether plays out and the gyre widens, there comes a point at which “the falcon cannot hear the falconer.”

Presumably, what the falcon cannot hear is the falconer calling the bird back to his arm. No longer able to hear the falconer’s voice, the falcon continues to push outwards. At some point, though, his tether will run out, at which point his flight will either end with a violent jerk, and he will plummet earthward–or the falconer will release the tether and the falcon will continue his flight outward.

But without the tether to the center — a literal tether, or just his master’s voice — the falcon’s flight path will lose its spiral structure, which is constituted by the tether between the falcon and the falconer, and the falcon will have to determine his flight path on his own, a path that will no doubt zig and zag with the currents of the air and the falcon’s passing desires, but will not display any intelligible structure–except, maybe, some decayed echoes of its original spiral.

william-butler-yeats-by-reemerv[162091].jpgThe falcon is modern man. The motive force of the falcon’s flight is human desire, pride, spiritedness, and Faustian striving. The spiral structure of the flight is the intelligible measure–the moderation and moralization of human desire and action–imposed by the moral center of our civilization, represented by the falconer, the falcon’s master, our master, which I interpret in Nietzschean terms as the highest values of our culture. The tether that holds us to the center and allows it to impose measure on our flight is the “voice of God,” i.e., the claim of the values of our civilization upon us; the ability of our civilization’s values to move us.

We, the falcon, have, however, spiraled out too far to hear our master’s voice calling us back to the center, so we spiral onward, our motion growing progressively more eccentric (un-centered), our desires and actions progressively less measured . . .

Thus, “Things fall apart. The center cannot hold.” When the moral center of civilization no longer has a hold, things fall apart. This falling apart has at least two senses. It refers to disintegration but also to things falling away from one another because they are also falling away from their common center. It refers to the breakdown of community and civilization, the breakdown of the government of human desire by morality and law, hence . . .

“Mere anarchy is loosed upon the world.” Anarchy, meaning the lack of arche: the Greek for origin, principle, and cause; metaphorically, the lack of center. But what is “mere” about anarchy? Anarchy is not “mere” because it is innocuous and unthreatening. In this context, “mere anarchy” means anarchy in an unqualified sense, anarchy plain and simple. Thus:

The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.

Why would nihilism make the best lack all conviction and fill the worst with passionate intensity? I think that here Yeats is offering us his version of Nietzsche’s distinction between active and passive nihilism. The passive nihilist–because he identifies on some level with the core values of his culture–experiences the devaluation of these values as an enervating loss of meaning, as the defeat of life, as the loss of all convictions. By contrast, the active nihilist–because he experiences the core values of his culture as constraints and impediments to the free play of his imagination and desires–experiences the devaluation of these values as liberating, as the freedom to posit values of his own, thus nihilism fills him with a passionate creative–or destructive–intensity.

This characterization of active and passive nihilism captures the struggle between conservatives and the Left. Conservatives are the “best” who lack all conviction. They are the best, because they are attached to the core values of the West. They lack all conviction, because they no longer believe in them. Thus they lose every time when faced by the passionate intensity of the Left, who experience nihilism as invigorating.

The second stanza of Yeats’s poem indicates precisely which core values have been devalued. The apocalyptic anxiety of the first stanza leads one to think that perhaps the Apocalypse, the Second Coming, is at hand:

Surely some revelation is at hand;
Surely the Second Coming is at hand.

But this is followed by the exclamation, “The Second Coming!” which I interpret as equivalent to “The Second Coming? Ha! Quite the opposite.” And the opposite is then revealed, not by the Christian God, but by the pagan Spiritus Mundi (world spirit):

Hardly are those words out
When a vast image out of Spiritus Mundi
Troubles my sight: somewhere in the sands of the desert
A shape with lion body and the head of a man,
A gaze blank and pitiless as the sun,
Is moving its slow thighs, while all about it
Reel shadows of the indignant desert birds.
A darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle
And what rough beast, it hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?

Two images are conjoined here. First, the shape with the body of a lion, the head of a man, and a blank, pitiless stare is an Egyptian sphinx–perhaps the Great Sphinx at Giza, perhaps one of the many small sphinxes scattered over Egypt. Second, there is the nativity, the birth of Christ in Bethlehem. The connection between Bethlehem and Egypt is the so-called “flight into Egypt [3].” After the birth of Jesus, the holy family fled to Egypt to escape King Herod’s massacre of newborn boys.

Yeats is not the first artist to conjoin the images of the sphinx and the nativity. For instance, there is a painting by a 19th-century French artist, Luc Olivier Merson, entitled “Rest on the Flight into Eqypt,” which portrays a night “twenty centuries” ago in which Mary and the infant Jesus are asleep, cradled between the paws of a small sphinx.

This painting was so popular in its time that the artist made three versions of it, and one of them, in the Boston Museum of Fine Arts, is so popular that reproductions of it as framed prints, jigsaw puzzles, and Christmas cards can be purchased today.

I do not know if Yeats was thinking about this specific painting. But he was thinking about the flight into Egypt. And the poem seems to indicate a reversal of that flight, and a reversal of the birth of Christ. Could Mary, resting on the flight into Egypt, rocking Jesus cradled between the paws of a sphinx, have vexed the stony beast to nightmare? Could it have finally stirred from its troubled sleep, its womb heavy with the prophet of a new age, and begun the search for an appropriate place to give birth? “And what rough beast, its hour come round at last, slouches towards Bethlehem to be born?” And what better place than Bethlehem, not to repeat but to reverse the birth of Christ and inaugurate a post-Christian age.

One can ask, however, if the poem ends on a note of horror or of hope. As I read it, there are three distinct stages to Yeats’ narrative. The first is the age when Christian values were the unchallenged core of Western civilization. This was a vital, flourishing civilization, but now it is over. The second stage is nihilism, both active and passive, occasioned by the loss of these core values. This is the present-day for Yeats and ourselves.

The third stage, which is yet to come, will follow the birth of the “rough beast.” Just as the birth of Jesus inaugurated Christian civilization, the rough beast will inaugurate a new pagan civilization. Its core values will be different than Christian values, which, of course, horrifies Christians, who hope to revive their religion. But the new pagan values, unlike Christian ones, will actually be believed, bringing the reign of nihilism to its end and creating a new, vital civilization. For pagans, this is a message of hope.

 


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[3] flight into Egypt: http://en.wikipedia.org/wiki/Flight_into_Egypt

mardi, 17 février 2015

Soumission de Michel Houellebecq: l’illusion d’un renouveau spirituel

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Soumission de Michel Houellebecq: l’illusion d’un renouveau spirituel

Dans Soumission, Michel Houellebecq imagine la victoire d’un parti musulman face au Front national au second tour de la présidentielle française. Perçu par beaucoup comme islamophobe, raciste et comme s’inscrivant dans le sillage des idées d’Éric Zemmour, le roman de Houellebecq n’est pourtant pas réductible à ces caricatures : tout en critiquant la médiocrité du monde moderne, individualiste et démocratique, il annonce l’impasse dans laquelle s’engouffrent les mouvements identitaires et  islamiques qui entendent œuvrer à un prétendu renouveau spirituel.

Michel Houellebecq est un romancier important bien qu’inégal. Depuis son premier roman paru il y a vingt ans, le remarquable Extension du domaine de la lutte, Houellebecq s’est contenté de coucher ses états d’âme libidineux sur le papier, en les agrémentant de diverses divagations philosophiques plus ou moins intéressantes sur son époque. Soumission n’échappe pas à la règle. De plus, Houellebecq ne se démarque pas de ce style « moyen », caractéristique de la littérature contemporaine : les phrases sont plates et simples et évoquent la prose chargée de métaphores stéréotypées que l’on rencontre dans les magazines.

Pourtant, le personnage principal, que Houellebecq fait évoluer dans le milieu universitaire parisien, apparaît lui-même comme le défenseur d’une certaine idée de la littérature. Passionné par l’œuvre de Huysmans, hostile à Bloy, « prototype du catholique mauvais, dont la foi et l’enthousiasme ne s’exaltent vraiment que lorsqu’il peut considérer ses interlocuteurs comme damnés », son intérêt pour la fin du XIXe siècle met en évidence la parenté de l’époque décadentiste et de la nôtre. Ainsi, ce n’est pas sans ironie qu’il évoque ces « différents cercles catho-royalistes de gauche, qui divinis[ent] Bloy et Bernanos », croyant retrouver chez ces auteurs la source d’inspiration nécessaire au renouveau spirituel en ce début de XIXe siècle. À travers ses portraits d’enseignants enthousiastes et ses considérations – discutables mais renseignées – sur les auteurs chrétiens, Houellebecq démontre qu’il se tient parfaitement au fait des modes philosophiques les plus récentes, tout comme il maîtrise les références aux marques de plats surgelés, à Rutube et à Youporn, et à tout cet arrière-plan culturel de notre époque. Là où nombre d’écrivains prétendûment modernes s’émerveillent encore en 2015 de l’essor des télécommunications.

Houellebecq ne traite absolument pas de politique

Le véritable mérite de Houellebecq réside donc dans cette faculté à saisir son époque. Très rapidement, la lecture de Soumission devient jubilatoire pour peu que l’on accepte de laisser de côté toute exigence stylistique. Encore faut-il, contrairement à ce que s’acharnent à faire les critiques épouvantés par un racisme pourtant radicalement absent du livre, laisser également de côté toute prétention politique. La mise en scène de personnalités, comme François Bayrou, David Pujadas ou Marine Le Pen, constitue une formalité purement narrative, parfois amusante, mais dénuée de signification. Soumission ne traite pas de politique, mais des grandes forces idéologiques qui parcourent notre époque – et, une fois de plus, Houellebecq fait preuve d’un esprit d’analyse extrêmement lucide.

L’un des personnages déclare ainsi, sur un ton spontané et naturel : « Le véritable agenda de l’UMP, comme celui du PS, c’est la disparition de la France, son intégration dans un ensemble fédéral européen. Ses électeurs, évidemment, n’approuvent pas cet objectif ; mais les dirigeants parviennent, depuis des années, à passer le sujet sous silence. » Plus loin, on fait allusion à ces « ultimes soixantehuitards, momies progressistes mourantes, sociologiquement exsangues mais réfugiés dans des citadelles médiatiques d’où ils demeuraient capables de lancer des imprécations sur le malheur des temps et l’ambiance nauséabonde qui se répandait dans le pays ». Ce décor romanesque, d’un réalisme saisissant, et nécessairement déplaisant pour les journalistes qui se reconnaissent dans la description peu gracieuse que Houellebecq livre d’eux, c’est bel et bien celui du XIXe siècle. Dans l’imagination de Houellebecq, la Fraternité musulmane ne parvient à faire campagne sur les thèmes de la famille et de l’autorité que grâce aux médias, pour qui ces sujets ne sont réactionnaires et dangereux que lorsqu’ils sont abordés par la droite, alors qualifiée d’extrême.

Le seul véritable enjeu : le XIXe siècle sera spirituel ou ne sera pas

houell4194413539.2.jpegTout le paradoxe de la France de 2022 telle que présentée par Houellebecq réside dans cet affrontement entre le Front national et la Fraternité musulmane, autrement dit entre l’islam et les identitaires. A priori diamétralement opposés, ces deux courants de pensée apparaissent pourtant comme similaires puisqu’ils revendiquent des valeurs comme l’enracinement et la famille. Tous deux entendent répondre au vide laissé par la parenthèse si courte ouverte en 1789, c’est-à-dire à cet « humanisme athée » plein « d’orgueil et d’arrogance » et caractérisé par « l’opposition entre le communisme – disons, la variante hard de l’humanisme – et la démocratie libérale – sa variante molle ». Tous deux entendent œuvrer au retour du spirituel. Le fascinant personnage de Rediger, professeur d’université ayant fréquenté les mouvements identitaires avant de se convertir à l’islam et de devenir finalement ministre, symbolise à lui seul cette aspiration incessante que ni le libéralisme, ni la démocratie, ni l’athéisme ne seront parvenus à éteindre. D’abord convaincu qu’une renaissance de la chrétienté était possible, il comprend finalement que « cette Europe qui était le sommet de la civilisation humaine s’est bel et bien suicidée, en l’espace de quelques décennies » en 1914. Qu’importe alors si le vecteur du renouveau spirituel ne se fait plus au nom des Évangiles mais du Coran. Pourvu que l’essentiel demeure.

Et c’est justement dans les ultimes lignes du roman que tout lecteur honnête devrait percevoir la véritable charge subversive de Soumission, qui provoque bien davantage les croyances effrayées en un « Grand Remplacement » que les musulmans eux-mêmes, fussent-ils fanatiques. Le personnage principal accepte finalement de se convertir – notamment convaincu par Rediger et son exaltation au sujet de l’islam – mais sa vie ne s’en trouve pas pour autant bouleversée. Bien au contraire, il se voit offrir la possibilité de prendre plusieurs épouses en vertu du mariage polygame récemment mis en place, et peut désormais travailler à la publication des œuvres de Huysmans dans la collection de la Pléiade. Ce qui importe le plus à ses yeux en tant qu’individu moderne sera préservé : il pourra écrire et baiser. Car au fond, le renouveau spirituel porté par l’islam s’avère de la même teneur que la régénérescence de l’Europe chrétienne tant désirée par les identitaires : c’est un renouveau superficiel, qui contraint les magasins Jennyfer à fermer tout en autorisant les hommes à épouser des jeunes filles de quinze ans, qui appose un croissant islamique au fronton de la Sorbonne en ouvrant son capital aux pétrodollars du Golfe, et qui engage une profonde réforme économique du pays en le maintenant cependant indéfectiblement au sein d’une Union européenne plus forte que jamais, et désormais étendue à l’Égypte et au Liban.

Le personnage principal ne s’y trompe pas : « Je n’aurais rien à regretter », conclut-il sobrement, comprenant que, tout comme celles de Huysmans en son temps, son histoire et celle de sa civilisation s’achèvent sur un échec.

lundi, 16 février 2015

Ernst Jünger e ‘La battaglia come esperienza interiore’

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Ernst Jünger e ‘La battaglia come esperienza interiore’

Jünger sconquassa l'anima del lettore, lo cattura con la sua scrittura; lo tiene inchiodato al libro pagina dopo pagina, in una stretta mortale dalla quale non potrà districarsi facilmente. Questo è un libro per anime in tempesta, per cuori d'acciaio, scritto con il sangue degli eroi.
 

di Valerio Alberto Menga

Ex: http://www.lintellettualedissidente.it

“Meglio morire come una meteora effervescente che spegnersi tremolando”.

E. Jünger

In occasione del centenario della Prima guerra mondiale tante sono state le pubblicazioni in memoria del grande e catastrofico evento. Si segnalano, di passata, per la saggistica Mondadori e Laterza, i saggi dello storico Emilio Gentile L’Apocalisse della Modernità e Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo. Due titoli straordinari per l’efficacia che ha avuto l’autore nell’interpretare il primo confilitto mondale e la sproporzione delle conseguenze seguite all’attentato di Sarajevo del 1914. A distanza di 92 anni dalla sua originaria apparizione, e per la prima volta in italiano, è stato pubblicato per le edizioni Piano B (e magistralmente tradotto da Simone Butazzi, che si ringrazia) quella che era stata, a torto, considerata un’opera minore nella bibliografia di Enrst Jünger: La battaglia come esperienza interiore.

Fu un’innovazione quella che portò Jünger alla letteratura di guerra. Embelatici erano, e rimangono tutt’ora, Il fuoco di Barbusse e Niente di nuovo sul fronte occientale di Remarque. Questi due autori furono le due principali voci di un atteggiamento di sconforto, di orrore, di paura, di delusione, e di disfattismo davanti alla guerra.  Lo stesso atteggiamento che portò Louis-Ferdinand Céline, volontario nell’esercito francese, a riflessioni come quelle che compaiono nel suo Viaggio al termine della notte: “Per quanto lontano cercassi nella memoria, gli avevo fatto niente io, ai tedeschi. Ero sempre stato molto gentile ed educato con loro. Li conoscevo un po’ i tedeschi, ero persino stato a scuola da loro, quando ero piccolo, dalle parti di Hannover. Avevo parlato la loro lingua. Allora erano una massa di cretinetti caciaroni con occhi pallidi e furtivi come quelli dei lupi […] ma da lì adesso a tirarci nella colombarda, senza neanche venire a parlarci prima e nel bel mezzo della strada, ce ne correva parecchio, un abisso. Troppa differenza. La guerra insomma era tutto quello che non si capiva”. Jünger invece – come giustamente sottolinea Rodolfo Sideri nel suo Inquieto Novecento- è interprete di un atteggiamento “volto a lasciare che la guerra tempri l’uomo nella sua dimensione interiore”.

Ma che cosa è stato esattamente Ernst Jünger? Qual è la sua maggiore peculiarità? E’ stato uno scrittore? Un soldato? Un filosofo? Nacque in Germania, ad Heidelberg, nel 1895. E morì nel 1998 a Riedlingen, avendo sorpassato la soglia dei cento anni, dopo aver visto morire il fratello, i figli e la prima moglie. Per la lunga durata della sua vita fu indubbiamente il prezioso testimone di un’epoca. È stato anche un entomologo. Non deve certo stupire se un grande carattere del Novecento come lui si sia interessato allo studio e alla collezione di scarafaggi e scarabei. Ai suoi occhi guerrieri, essi apparivano un po’ come animali con una corazza naturale che, talvolta, riflettono i colori della guerra: il rosso e il grigio. Piccoli soldati di Madre Natura.

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Il rosso e il grigio, quindi. Ecco i colori che attraverso lo sguardo del grande scrittore tedesco hanno determinato la Grande Guerra. E Le rouge et le gris –in onore a Stendhal- doveva essere il titolo originale del grande diario di guerra Nelle tempeste d’acciaio che gli valse, di diritto, un posto nel pantheon dei grandi scrittori europei del Novecento. Tuttavia optò per il secondo titolo, ispirato ad una poesia islandese, che meglio definiva “l’eternità tombale” della vita in trincea durante la guerra. Rosso come il sangue; grigio come le divise dei soldati, come l’acciaio delle armi e dei proiettili, come l’umore in trincea, come la terra devastata dai colpi, come il cielo oscurato dalla battaglia.

Incuriosisce il fatto che La battaglia come esperienza interiore era stato concepito dall’autore come un’opera che avrebbe dovuto fare da pendant al precedente Nelle tempeste d’acciaio, il cui punto di vista si riferiva agli avvenimenti puri e semplici. In quest’opera, invece, si può trovare tutto ciò che nelle “Tempeste” si era cercato invano.
Nelle tempeste d’acciaio ha il merito di descrivere nel titolo, e in due parole, la guerra di trincea.  Interpreta il primo conflitto mondiale in chiave nichilistica (come “lotta dei materiali”), osservando la realtà con sguardo oggettivo. Il difetto maggiore che però la caratterizza è la mancanza dello spazio concesso alle emozioni e al sentimento. La battaglia come esperienza interiore colma questo vuoto. E può annoverarsi senza dubbio tra le grandi opere di Jünger, grazie alla sua prosa alta e inarrivabile.Prima di aprire questo libro bisogna preparare il lettore ad entrare psicologicamente in trincea. Bisogna essere pronti a ricevere lo schizzo del sangue nemico dritto in faccia. Se invece siete tra coloro che non sopportano di guardare la realtà negli occhi, allora lasciate in pace questo libro.

Stosstruppen_rappresentazione.jpg“La battaglia rientra nelle grandi passioni. [...] E’ un canto antico e tremendo, che risale all’alba dell’uomo: nessuno avrebbe mai pensato che fosse ancora così vivo in noi”.  In questo scritto di guerra non manca nulla: il sangue, l’orrore, la trincea, l’eros, il coraggio, il fuoco, la paura… Questo per dare un’idea di ciò che aspetta il lettore che abbia il coraggio e la maturità di affrontare quest’opera rovente, che di certo non poteva non piacere ad un giovane nazional-socialista dei tempi. Perché Jünger è stato considerato, e forse è considerato ancora, un nazista. E’ vero che Hitler disse “Jünger non si tocca!” e lo protesse per ben due volte dalle grinfie di Göring che voleva la sua testa. Ma furono il rispetto per il soldato e lo scrittore di guerra che, con tutta probabilità, spinsero il Führer a perdonare a Jünger il suo comportamento. Ci si riferisce al suo antinazismo allegorico, aleggiante nel romanzo Sulle scogliere di marmo, e alla sua parte nella congiura capitanata da Stauffenberg che sfumò nel fallito attentato a Hitler, ben narrato nel film di Bryan Singer Operazione Valchiria. Scrisse un romanzo antinazista e partecipò all’attentato a Hitler, che mirava ad ucciderlo. Anche se in lui l’idea dell’uccisione del tiranno era indicice di mentalità rozza. Queste due cose stanno ben a sottolineare il fantomatico nazismo di cui fu accusato. Ma agli occhi stanchi e superficiali dei molti faciloni, è apparso così per molto tempo. È vero invece che i nazisti trassero, a piene mani, buona parte della loro cultura da alcuni scritti del grande soldato tedesco. Solo in seguito al premio Goethe, ottenuto nell’82, venne riabilitato ufficialmente come scrittore.

Davanti ad un uomo come lui è difficile dire se sia l’opera a superare la grandezza della vita dell’autore o viceversa. Jünger visse più di cento anni, giovanissimo si arruolò nella Legione Straniera per andare a combattere, per poi essere ripescato e rimpatriato dal padre. Fu un eroe decorato con la medaglia Pour le mérite dopo esser stato ferito quattordici volte nella Grande Guerra; vide due volte la cometa Halley (cha ha un ciclo di 76 anni); fu amico di Martin Heidegger e Carl Schmitt, e con essi scrisse alcune opere. Ha incontrato molti grandi del suo tempo, e in tutta la sua opera ha analizzato e affrontato il nichilismo, che è il tratto peculiare del suo e del nostro tempo. Da entomologo ha scoperto due nuove specie di coleotteri che oggi portano il suo nome: il Carabus saphyrinus juengeri e la Cicindera juengeri juengerorum. Da scrittore, invece, ha incantato il mondo e continua ad incantare, ad accendere le passioni e il pensiero.

La battaglia come esperienza interiore è un’opera scritta da un giovane inquieto che vuole conciliare il pensiero con l’azione. Qui vi si ritrova uno Jünger intriso di letture nietzscheane che, con la sua prosa alta e viscerale, scava nel profondo dei più indicibili sentimenti che hanno portato l’uomo moderno a scontrarsi, a riversare la propria Volontà di potenza nel campo di battaglia. Per il lettore che ama sottolineare i tratti più salienti, quest’opera, strage di carne e materia, sarà anche una strage di grafite. E si spera che, quindi, chi leggerà queste righe, perdonerà a chi scrive se si è fatto ampio uso di doverose citazioni. Lo stile dello scrittore-soldato porta lo spirito del lettore a vette così alte che il ritorno alla terra scavata dalle trincee è un vero e proprio schianto del cuore. Sconquassa l’anima del lettore, lo cattura con la sua scrittura; lo tiene inchiodato al libro pagina dopo pagina, in una stretta mortale dalla quale non potrà districarsi facilmente. Questo è un libro per anime in tempesta, per cuori d’acciaio, scritto con il sangue degli eroi.

Solitario tra i solitari, Jünger mostra il volto del gelido vento della morte, riscaldato dall’alito di fuoco di quella fornace che è la guerra. La figura romantica del soldato Jünger che legge l’Orlando furioso piegato sulle ginocchia, in trincea, rende bene l’idea del sentimento che lo portò ad arruolarsi volontario in guerra. L’odio per la comoda vita borghese è ben descritto in queste righe: “Ogni senso di reputazione borghese era rimasto indietro, a distanze siderali. Cos’era la buona salute? Utile, semmai, a persone che contano di vivere a lungo”. Nota è ormai la massima jungeriana per cui è meglio essere un delinquente che essere un borghese. Un giovane inquieto come lui, in Italia, in seguito dirà che “Borghese è colui che sta bene ed è vile” (Benito Mussolini).  Questo libro breve ma intenso potrebbe essere preso a ragione come il Manifesto degli interventisti o dei militaristi. Per l’autore è la guerra a fare gli uomini, essa è “madre di tutte le cose”, siamo noi a modellare il mondo, non il contrario. La guerra, aggiunge, non è solo nostra madre, ma anche nostra figlia. L’abbiamo cresciuta così come ha fatto con noi. “Noi siamo fabbri e acciaio sfavillante allo stesso tempo, martiri di noi stessi spinti da intime pulsioni[...] La guerra è umana quanto l’istinto sessuale: è legge di natura, perciò non ci sottrarremo mal al suo fascino. Non possiamo negarla, altrimenti finiremo divorati.”

Qui di seguito ecco alcuni passaggi che meglio sottolineano le ragioni e le passioni che portarono Jünger, come altri uomini, a provare loro stessi sul campo di battaglia, in quel particolare frangente della Storia. Molte erano le aspettative di coloro che si arruolarono volontari negli eserciti delle grandi nazioni europee: “La guerra è una grande scuola, e l’uomo nuovo apparterrà alla nostra schiatta”. E poi, scriverà: “Il punto di cristallizzazione pareva raggiunto, il superuomo in procinto di arrivare[...] Tutto questo sembrò chiaro quando la guerra lacerò la compagine europea”. Queste le parole dello Jünger soldato, filosofo e scrittore. Egli incarna le pulsioni e i turbamenti dell’uomo del Novecento che si affaccia con volto risoluto alla Modernità. E si scontra. Se il Novecento è stato il grande secolo delle ideologie e della politica, così come dei grandi conflitti, vale allora la formula di Clausewitz per cui la guerra è la semplice continuazione della politica con altri mezzi, che nasce in seguito alla “frizione”. Arriva, cioè, laddove la diplomazia non è riuscita. E per gli appassionati della polemologia questa è una lettura consigliata. Molte le passioni e i sentimenti che scaturiscono in queste pagine, ma vi è anche spazio per la riflessione. Un giusto equilibrio tra ragione e sentimento.

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“Ognuno può rapportarsi alla guerra come vuole, ma non la può negare. Quindi io m’impegno, in questo libro nel quale mi voglio rassegnare alla guerra, a osservarla come qualcosa che è stato ed è ancora in noi, a privarla di ogni preconcetto e a descriverla per quello che è.” E poi ancora: “La guerra è il più potente incontro tra i popoli. Mentre nel commercio e per le trattative, nelle gare sportive e ai congressi si muovono solo le personalità di punta, in guerra l’intera squadra conosce un solo obiettivo: il nemico”. Non è possibile la guerra senza l’uomo. Né l’uomo senza la guerra. Questa assumerà di volta in volta il volto e il nome che l’occasione le suggerirà: battaglia, lotta, lo scontro, frizione, incidente diplomatico…


Il coraggio è un sentimento, fulcro della guerra per Jünger: “Un soldato senza coraggio è come un Cristo senza fede. Ecco perché in un esercito il coraggio deve essere quanto di più sacro”. Nelle “Tempeste d’acciaio” si leggono parole di riconoscimento del valore e del rispetto del nemico: “Durante la guerra mi sforzai sempre di considerare l’avversario senza odio, di apprezzarlo secondo la misura del suo coraggio. In battaglia cercai di individuarlo per ucciderlo, senza attendere da lui cosa diversa”. Nessun odio verso i nemici. I Francesi? “Sono dei gran viveurs, loro. Gente gradevole, davvero. Io non li odio mica.” E poi: “Chi saremmo noi senza questi vicini audaci e senza scrupoli che ogni cinquant’anni ci puliscono la ruggine dalle lame?”.

Al nemico viene riconosciuto il valore del suo coraggio. E ne La battaglia come esperienza interiore scrive: “I cuori coraggiosi riconoscono istintivamente la vera grandezza. Il coraggio riconosce il coraggio”. Ecco una delle sue massime maggiori: “Il mondo potrà anche ribaltarsi, ma un cuore coraggioso sarà sempre saldo”. L’uomo di Heidelberg è figlio della guerra, figlio ed interprete acuto del suo tempo. Lui è l’uomo nato dalla guerra, nella guerra e per la guerra. Lui, cuore coraggioso, anima in tempesta. Come egli stesso sottolinea, lo spirito di un’epoca si concentra sempre in pochi individui solitari. In questo libro si può carpire lo spirito guerriero che forgiò l’Uomo nuovo della Grande Guerra. E lui è uno di quegli individui solitari, voce di un’epoca in radicale mutamento. Importante è anche il rapporto con la Donna, nelle opere di guerra di Jünger. In un altro scritto dello stesso genere, intitolato Il tenente Sturm, la donna viene definita dall’autore come “ministra del grande mistero”. E la donna non ama la guerra, ma ama i guerrieri. Curzio Malaparte disse: “Amo la guerra perché sono un uomo”. E Jünger coerentemente afferma: ” Esiste un solo punto di vista per contemplare il fulcro della guerra, ed è quello mascolino”. In uno dei capitoli più belli della Battaglia viene affrontato il rapporto uomo/donna guerra, ed in merito a ciò sottolinea: “Bisognava che anche le donne fossero d’acciaio, per non finire schiacciate nel tumulto”. Il racconto che invece viene accennato, con infinita poesia, nel capitolo Eros, riporta alla memoria l’immagine di uno studente tedesco (in cui possiamo facilmente riconoscere il giovane Ernst) e una contadina piccarda che fanno l’amore nel bel mezzo della guerra, nell’imperversare della tempesta, essi, “centrifugati su una scogliera bellica”, sono “due cuori accesi in un mondo ghiacciato”. E con queste immagini e magnifiche parole conclude il capitolo: “Due labbra accarezzavano l’orecchio dell’uomo, impegnate più che mai a versarvi tutta la melodia di una lingua straniera[...] Poi finivi sotto la grandine dei proiettili con i baci ancora tra i capelli. La morte ti veniva incontro come un’amica. Tu, chicco di grano maturo che cadi sotto la falce”. Questo è Jünger.

Per il grande scrittore di Heidelberg sembra valere il precetto di Julius Evola per cui “la patria è là dove si combatte”. E la guerra è una donna da possedere, almeno finché infuria la battaglia. L’uomo, la guerra e la donna: fili intrecciati di un inestricabile destino, di un ciclo infinito: Vita Amore e Morte. Oggi gli animi dei molti pacifisti che popolano il mondo postmoderno irriderebbero il romanticismo di cui talvolta sono impregnati gli scritti di guerra. Non potrebbero però evitare di rimanere colpiti e affascinati dallo stile di uno scrittore immenso come quello che oggi si è voluto ricordare.

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Si vuol concludere ora con due stralci tratti, rispettivamente, dalle opere Il tenente Sturm e con la conclusione de La battaglia come esperienza interiore che spiegano bene la complessità della guerra nel pensiero di Enrst Jünger: “Laggiù una stirpe nuova dava vita a una nuova interpretazione del mondo, passando attraverso un’esperienza antichissima. La guerra era una nebbia originaria di possibilità psichiche, carica di sviluppi; chi tra i suoi effetti riconosceva solo l’elemento rozzo, barbarico coglieva, di un complesso gigantesco, un solo attributo, con l’identico arbitrio ideologico di chi vedeva soltanto il carattere eroico e patriottico”.

“Ma chi in questa guerra vede solo negazione e sofferenza e non l’affermazione, il massimo dinamismo, allora avrà vissuto da schiavo. Costui avrà avuto solo un’esperienza esteriore, non un’esperienza interiore.”

Horreur et endettement chez Lovecraft

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Horreur et endettement chez Lovecraft

Ex: http://www.philitt.fr

La littérature d’horreur dit-elle quelque chose du monde ? Un auteur qui ne s’intéresse ni à l’argent ni au sexe peut-il avoir un message radical sur ce qui lie l’économie à la reproduction ? En somme, Le Cauchemar d’Innsmouth de Howard Phillips Lovecraft a-t-il pour sujet la crise de 29 ?

Le Cauchemar d’Innsmouth est l’une des nouvelles les plus connues de Lovecraft. Elle figure parmi les titres réputés « canoniques » du « Mythe de Cthulhu » pour user d’un vocable qui appartient sans doute, désormais, à un état passé de la critique. En tout cas, nul, parmi les amateurs de Lovecraft, ne nie que ce texte soit l’un des plus importants d’une œuvre qui a marqué l’histoire de la littérature d’horreur. De même, la fécondité des images évoquées par ce récit est évidente aujourd’hui, que ce soit dans les romans, les bandes dessinées, les films.

Le schéma narratif est tout simple : un jeune homme est obligé de passer la nuit dans un village côtier de Nouvelle-Angleterre. L’activité halieutique, si prospère auparavant, semble désormais marginale. Les quais sont abandonnés, les maisons dans un état de décrépitude avancée, la population semble dégénérée. Après avoir rencontré un vieil homme qui lui dévoile les secrets d’Innsmouth, le narrateur réussit, non sans mal, à s’enfuir d’une ville dont la population lui est désormais hostile.

Ce récit a inspiré bien des réflexions et des analyses. La moins incontestable repose sur la plus choquante des révélations faites par Zadok Allen : Innsmouth a été le lieu de l’accouplement infâme de ses habitants avec des créatures venues des profondeurs des océans. Depuis, ces hybrides, déterminés par leur hérédité et leurs intérêts, conspirent à l’éradication de l’humanité. La logique de l’horreur dans ce récit tient donc au métissage. Or, comme la critique l’a justement fait remarquer, l’auteur lui-même, dans sa vision du monde et ses opinions politiques, était tout sauf indifférent à cette question. C’est parce que Lovecraft rejetait le métissage dans la vie réelle qu’il en a fait un objet d’horreur dans la fiction, voilà toute la thèse.

Lovecraft et l’argent

Il n’est nullement dans notre intention, ici, de nous écarter de cette interprétation dominante que nous croyons avoir par ailleurs renforcée, en faisant le parallèle avec les événements de Malaga Island que Lovecraft ne pouvait ignorer. Le métissage était pour Lovecraft un objet d’horreur sociale et littéraire. Il reste cependant à interroger les mécanismes qui rendent le métissage inéluctable et malheureux ; à révéler les ruses de l’abâtardissement et à démontrer en quoi le métissage est non seulement un ressort de l’horreur lovecraftienne mais ce qui en fait la spécificité et qui lui donne sa dimension cosmique.

En effet, s’arrêter à l’argument classique qui résume et explique tout par le racisme nous semble très insatisfaisant. Le racisme est une idée et les idées ne sont jamais premières dans l’ordre de la causalité. Le racisme est la conceptualisation, parfois pathologique, de la prise de conscience de la fragilité des liens biologiques et culturels qui lient l’homme à ses ancêtres, rien de plus. Rien de plus, mais rien de moins et la question de l’hérédité et de l’héritage, en somme, celle de Lovecraft comme héritier doit être posée.

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Il est commun de noter que Lovecraft n’avait d’intérêt ni pour l’argent, ni pour le sexe. Or, son œuvre, de par la question de la filiation, partout présente, met le sexe en avant. Non pas le sexe comme idée théorisant le plaisir — sous les formes jumelles de l’amour ou de la perversion — mais le sexe comme réalité biologique dont le plaisir n’est qu’une ruse, c’est-à-dire le mécanisme de transmission des caractères héréditaires. Qu’en est-il, alors, de l’argent ? N’est-il pas, lui aussi, chose qui s’hérite ?

Le mépris notoire de Lovecraft pour tout ce qui est vénal ne fait pas de lui un homme qui méprise l’argent. C’est un luxe que la gêne lui refuse. Cet homme incapable (délibérément incapable) d’exiger ce qui lui est dû, n’est en rien un inconscient. L’éthique n’est pas chez lui l’alibi de la faiblesse. Ce gentleman généreux et magnanime sait vivre chichement, voilà tout. Il sait épargner aux autres ses propres fragilités, fussent-elles innocentes. Tout au long de sa vie, il s’est montré économe. Il mangeait peu et mal ; il n’achetait pas tous les livres qu’il désirait ; il ne voyageait que quand il le pouvait et toujours par les moyens les plus modestes.

Robert Olmstead, le héros du Cauchemar d’Innsmouth, parcourt la Nouvelle-Angleterre en « amateur d’antiquité et de généalogie » en « choisissant toujours le trajet le plus économique ». Le personnage et son auteur ont en commun de voyager pour les mêmes raisons et avec les mêmes contraintes. C’est l’obligation de ne pas trop dépenser qui amène le protagoniste de ce théâtre de l’horreur à prendre le misérable bus d’Innsmouth et c’est sa curiosité pour les antiquités et la généalogie qui le pousse à quitter son « île de placide ignorance. » En effet, les personnages de Lovecraft, comme Lovecraft lui-même, ne sont animés ni par la libido sentiendi (le sexe), ni par la libido dominandi (le pouvoir que seul donne l’argent dans les sociétés modernes), mais par la libido sciendi, (la volonté de savoir). Robert Olmstead ne déroge pas à la règle : il veut tout savoir sur le monde et il finira par tout savoir de lui-même, y compris le pire.

Le cauchemar de 1929

Cependant, l’argent et, plus largement, la question économique ne sont pas un simple ressort de l’intrigue. Ils en sont le cœur. Le tableau qui est fait d’Innsmouth est tout de contraste. Aux couleurs chatoyantes de l’opulence passée s’opposent celles, délavées, de la décrépitude présente. « Il reste plus de maisons vides que de gens », mais ce sont les belles et dignes maisons de l’aristocratie commerçante qui sont, aujourd’hui, délabrées. De même, les vastes entrepôts de briques rouges le long des quais sont à l’abandon. Quant à l’église et à la salle de réunion maçonnique, on y rend un autre culte désormais. Lovecraft, lecteur de Spengler, décrit là une parfaite pseudomorphose : les structures minérales sont toujours là, mais ceux qui les peuplent et, de ce fait, leur nature elle-même, sont radicalement altérés.

Jadis le commerce, la pêche et les conserveries de poisson avaient enrichi Innsmouth. Aujourd’hui, sans que rien ne le justifie, la ville n’est plus que l’ombre d’elle-même. L’angoisse première naît de cette ruine inexplicable. Cependant, l’affinerie Marsh, elle, semble encore en activité. N’est-ce point paradoxal alors qu’il n’y a plus ni commerce ni navires au long cours pour ramener des métaux précieux ? En tout cas, ce noyau d’activité au sein d’une ville rongée et ruinée ne paraît en rien freiner le déclin général. À croire que les bénéfices, s’il y en a, ne profitent à personne…

Quand Lovecraft écrit Le Cauchemar d’Innsmouth, l’Amérique est au début de la Grande Dépression. Pour beaucoup d’Américains, le Krach de 1929 a été une surprise totale et les événements qui ont suivi sont apparus comme dépourvus de toute logique. Les rares esprits assez lucides pour en comprendre la rationalité y ont vu la conséquence nécessaire de l’excès de crédit. Il y a eu un pacte trompeur entre l’espoir et le prêt. L’espoir a déçu, le prêt s’est réduit à la dette et les hommes ne furent plus rien qu’esclaves de la dette. Voilà ce que disaient certains contemporains. Mais, n’est-ce point de cela qu’il s’agit dans la nouvelle de Lovecraft ?

Que dit le vieux Zadok Allen à Robert Olmstead ? Que les plus riches et les plus aventureux des voyageurs et des commerçants d’Innsmouth ont conclu, dans les îles des mers du Sud, un marché avec une race amphibie très ancienne. La situation économique n’était pas bonne au lendemain de la guerre de 1812. Que demandaient-ils, au fond, ces hommes aux visages de poisson, en échange de leur or ? Qu’on expédie quelques Canaques à la mer pour qu’ils les offrent à leurs dieux ? La belle affaire ! Ce n’est pas cher payé ! Et pour le reliquat, il serait toujours temps de voir.

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Per usura n’ont les hommes de lignées pures

Mais les créatures venues de la mer avaient bien plus à vendre que leur or. Elles voulaient autre chose et étaient prêtes à donner bien plus en contrepartie. Que vos fils et nos filles s’accouplent et leur progéniture sera immortelle, dirent-elles ! Passant leurs réticences premières, non sans déchirement, non sans violence, les habitants d’Innsmouth l’acceptèrent. C’est une façon trop tentante de régler ses dettes que de les reporter sur la génération suivante et puis doit-elle se plaindre ? Elle ne sera plus humaine, certes, elle sera, par ses épousailles, éternellement liée à Dagon et à jamais tributaire de forces par nature hostiles à l’Homme puisqu’en concurrence avec lui dans le struggle for life cosmique, mais elle sera, aussi, à tout jamais libérée de la finitude humaine.

Alors, « les gens ont commencé a pus rien faire », à quoi bon ? L’or venait de la mer et achetait les complaisances ; le poisson abondait et permettait de nourrir des hommes désormais à demi-poisson ; le temps n’était plus à craindre ; l’attente n’aboutissait plus à la mort ; la vie n’était qu’un lent glissement vers le fond des océans et vers une autre façon de vivre, de rire, de tuer. Tout au plus fallait-il prêter l’oreille à la musique des abysses dans l’impatience du retour de Celui qui n’est pas mort. Car, le païen Lovecraft fait d’Innsmouth le lieu d’une attente messianique, celle d’un grand nettoyage, suivi du remplacement de la race humaine par une autre à la fois plus ancienne et plus radicalement tournée vers ce futur qui verra le retour des Grands Anciens.

Cependant, le lecteur sait depuis le début que cette échéance eschatologique sera reculée. Le narrateur échappe à la ville et dénonce ce qui s’y passe à un gouvernement qui n’hésite pas à renoncer un instant à être un État de droit en recourant à l’état d’exception.

Ce que Lovecraft décrit dans sa nouvelle, il le voit sous ses yeux. L’Italie et l’Allemagne en Europe, les États-Unis du New Deal sous ses yeux lui montrent que la crise de 1929 et, au-delà du symptôme, que la modernité ne sont pas inéluctables. Comme chez beaucoup de conservateurs, l’espérance dans l’État (dans sa violence) se substitue au pessimisme politique. Le socialisme comme organisation de l’économie apparaît, aux yeux de ces hommes, comme un moyen de préservation de l’ordre ancien — non dans sa lettre, mais dans son esprit.

Le cauchemar d’Innsmouth est celui de la dette et de son corollaire, l’abâtardissement. Seul le réveil de l’État peut nous en sauver (provisoirement), y est-il suggéré. Comment ? Par l’état d’exception, par la déportation, par l’extermination. Le massacre final n’est rien d’autre que la vision fantasmagorique d’un New Deal musclé, d’un fascisme à l’américaine. L’horreur romanesque ou politique n’a d’autre issue, pour Lovecraft, que dans cette ultime violence retardatrice et seulement retardatrice. Car le gentleman de Providence sait aussi cette profonde vérité : tout passe.

 

dimanche, 15 février 2015

Io, Limonov. Noi siamo l’Europa. E l’Ucraina è un’invenzione

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Io, Limonov. Noi siamo l’Europa. E l’Ucraina è un’invenzione

di Paolo Valentino

Fonte: Corriere della Sera

«Nell’ultimo anno la società russa è cambiata radicalmente. Abbiamo vissuto più di due decenni di umiliazioni, come Paese e come popolo. Abbiamo subìto sconfitta dopo sconfitta. Il Paese che i russi avevano costruito, l’Unione Sovietica, si è suicidato. È stato un suicidio assistito da stranieri interessati. Per 23 anni siamo stati in piena depressione collettiva. Il popolo di un grande Paese ha un costante bisogno di vittorie, non necessariamente militari, ma deve vedersi vincente. La riunione della Crimea alla Russia è stata vista dai russi come la vittoria che ci era mancata per così tanto tempo. Finalmente. È stata qualcosa di paragonabile alla Reconquista spagnola».

vol07.jpgÈ stato tutto nella sua vita, Eduard Veniaminovich Savenko, alias Eduard Limonov. Teppista di periferia, giornalista, forse agente del Kgb, mendicante, vagabondo, maggiordomo di un nababbo progressista americano, poeta, scrittore à la page nei salon parigini, dissidente, irresistibile seduttore, cecchino nelle Tigri di Arkan durante la decomposizione della Jugoslavia, leader politico, fondatore del Partito nazional-bolscevico, prima di vederlo sciolto e di creare L’Altra Russia.

Ma Limonov, aspro come l’agrume da cui viene il suo pseudonimo, è soprattutto un antieroe, un esteta del gesto, un outsider che ha sempre scelto di proposito la parte sbagliata, senza mai essere un perdente. Al fondo, Eduard Limonov è un grande esibizionista, che però non ha mai avuto paura di rischiare e di pagare prezzi anche molto alti, per tutti i due anni di prigionia, culminati nel 2003 nei due mesi trascorsi nella colonia penale numero 13, nelle steppe intorno a Saratov. Può quindi sembrare paradossale che, per la prima volta nella sua vita spericolata, il personaggio reso celebre dall’omonimo libro di Emmanuel Carrère si ritrovi non più ai margini, non più nelle catacombe della conversazione nazionale russa, eccentrico carismatico in grado di appassionare poche decine di desperados, ma sia in pieno mainstream, aedo dell’afflato nazionalista, che i fatti d’Ucraina e la reazione dei Paesi occidentali hanno acceso nello spirito collettivo della nazione.

Limonov riceve «la Lettura» nel suo piccolo appartamento nel centro di Mosca, non lontano dalla Piazza Majakovskij. Un giovane alto e robusto viene a prenderci per strada, accompagnandoci su per le scale. Un altro marcantonio ci apre la porta blindata. Sono i suoi militanti, che gli fanno da guardie del corpo. Avrà anche 71 anni, ma a parte i capelli argentei, ne dimostra venti di meno. Magro, il volto affilato, il famoso pizzo, l’orecchino, è tutto vestito di nero, pantaloni attillati e giubbotto senza maniche su golf a collo alto. Parla con una voce sottile, leggermente stridula. Ha modi molto miti e gentili, totalmente fuori tema con i furori che hanno segnato la sua vita. «Voi occidentali non state capendo nulla », esordisce, mentre offre una tazza di tè.

Che cosa non capiamo?
«Che il Donbass è popolato da russi. E che non c’è alcuna differenza con i russi che abitano nelle regioni sud-occidentali della Federazione, come Krasnodar o Stavropol: stesso popolo, stesso dialetto, stessa storia. Putin sbaglia a non dirlo chiaramente agli Usa e all’Europa. È nel nostro interesse nazionale».

Quindi l’Ucraina per lei è Russia?
«Non tutta. L’Ucraina è un piccolo impero, è composta dai territori presi alla Russia e da quelli presi a Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Ungheria. I suoi confini sono le frontiere amministrative della Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina. Non sono mai esistiti. È territorio immaginario che, ripeto, esisteva solo a scopi burocratici. Prenda Leopoli, cosiddetta capitale del nazionalismo ucraino: lo sapeva che l’Ucraina l’ha ricevuta nel 1939 per effetto della firma del Patto Molotov-Ribbentrop? In quel momento il 57% della popolazione era polacca, il resto erano ebrei. Di ucraini poche tracce. Il Sud del Paese poi venne dato all’Ucraina dopo essere stato conquistato dall’Armata Rossa. Questa è la storia. Ma quando l’Ucraina ha lasciato l’Urss non ha restituito quei territori, a cominciare dalla Crimea ovviamente, che le era stata regalata da Krusciov nel 1954. Non capisco perché Putin abbia ancora paura di dire che Donbass e Russia sono la stessa cosa».

Forse perché ci sono confini riconosciuti a livello internazionale.
«A nessuno fregò nulla dei confini internazionalmente riconosciuti nel 1991, quando l’Unione Sovietica fu sciolta. Qualcuno disse qualcosa? No. Questa è la mia accusa all’Occidente: applica due standard alle relazioni internazionali, uno per i Paesi come la Russia e uno per se stesso. Non ci sarà pace in Ucraina fin quando non lascerà libere le colonie, intendo il Donbass. L’errore di Putin è non dirlo apertamente».

Forse Putin fa così perché non vuole annettere il Donbass come ha fatto con la Crimea, perché sono solo problemi.
«Forse lei ha ragione. Forse non avrebbe voluto neppure la Crimea. Ma il problema è suo, gli piaccia o meno. È il capo di Stato della Russia. E rischia la reputazione».

Non si direbbe, a giudicare dalla sua popolarità, che rimane superiore all’80%.
«È ancora l’effetto inerziale della Crimea. Ma se abbandonasse il Donbass al suo destino, lasciandolo a Kiev, con migliaia di volontari russi sicuramente destinati a essere uccisi, la sua popolarità si scioglierebbe come neve al sole. Non sembra, ma Putin è in un angolo».

Che cosa farà, secondo lei?
«Reagisce bene. Si sta radicalizzando. Ha capito che gli accordi di Minsk sono una balla, aiutano solo il presidente ucraino Poroshenko. Anche se controvoglia, dovrà agire. Quando un anno fa emerse il problema della Crimea, Putin era preso dall’Olimpiade di Sochi, che considerava l’impresa della vita. Era felice. Ma fu obbligato a usare i piani operativi dell’esercito russo, che ovviamente esistevano da tempo. Certo la Crimea è stata la sua vittoria, anche se malgré lui. Il Donbass non era affatto nel suo orizzonte. In Occidente tutti lo accusano di volerlo annettere, in realtà è molto esitante».

Limonov-mes-prisons.jpegDopo l’Ucraina quale sarà il prossimo territorio da riconquistare, i Paesi baltici?
«Intanto non penso che i Paesi baltici abbiano nulla a che fare con la Russia. Quanto all’Ucraina, credo che dovrebbe esistere come Stato, composto dalle nove province occidentali che possono essere considerate ucraine. Non sarò io a negare la loro cultura eccezionale e la loro bella lingua. Ma, ripeto, lascino i territori russi».

Lei lo ha attaccato molto in passato: Putin è o no il leader giusto per la Russia?
«Siamo un regime autoritario. E Putin è il leader che ci ritroviamo. Non c’è alcuna possibilità di mandarlo via. Ma c’è una differenza tra il Putin dei due primi mandati e quello di oggi. Il primo fu pessimo, soprattutto impegnato a gestire il suo complesso d’inferiorità del piccolo ufficiale del Kgb. Gli piaceva la compagnia dei leader internazionali, Bush junior, Schröder, Berlusconi. Ma nel tempo ha imparato. È migliorato. Ha detto addio alle luci del varietà e si è messo al lavoro sul serio. Vive tempi difficili, ma fa ciò che è necessario. E non è possibile oggi chiedergli di non essere autoritario».

Ma la Russia può non essere un Paese autoritario?
«Se Obama continua a dire che ci devono punire, ci costringe a darci dei leader autoritari».

Che cos’è per lei la Russia?
«La più grande nazione europea. Siamo il doppio dei tedeschi. A dirla tutta, noi siamo l’Europa. La parte occidentale è una piccola appendice, non solo in termini di territorio, ma anche di ricchezze».

Per la verità l’Ue è la prima potenza commerciale al mondo.
«Ci sono cose più importanti del commercio e dei mercati».

Ma se siete la più grande potenza europea, perché siete così nazionalisti?
«Non siamo più nazionalisti di francesi o tedeschi. Siamo una potenza più imperiale che nazionalista. Le ricordo che in Russia vivono più di 20 milioni di musulmani, ma non sono immigrati, sono qui da sempre. Noi siamo anti-separatisti. Certo, in Russia c’è anche un nazionalismo etnico, per fortuna minoritario, ma per noi significa soltanto guai. Io non sono un nazionalista russo, non lo sono mai stato. Mi considero un imperialista, voglio un Paese con tante diversità ma riunito sotto la civiltà, la cultura e la storia russe. La Russia può esistere solo come mosaico».

Ma siete o no parte del mondo occidentale?
«Non è importante. È una questione dogmatica, senza significato reale. La Corea del Sud è parte del mondo occidentale? No, eppure viene considerata come tale. Dov’è la frontiera dell’Occidente? Non è rilevante per i russi».

Che cosa contraddistingue l’identità russa?
«La nostra storia. Noi non siamo migliori degli altri, ma non siamo neppure peggiori. Non accettiamo di essere trattati come inferiori, snobbati o peggio umiliati. Questo ci fa molto arrabbiare. È il nostro stato d’animo attuale».

Ma, per esempio, l’Occidente si richiama ai valori della Rivoluzione francese, democrazia, divisione dei poteri, diritti umani. La democrazia è parte dei vostri valori?
«Per i russi la nozione più importante e fondamentale è quella di spravedlivost, che significa giustizia, nel senso di giustizia sociale, equità, avversione alle disuguaglianze. Penso che la nostra spravedlivost sia molto vicina a quella che voi chiamate democrazia».

Le sanzioni e la crisi economica possono minacciare il consenso di Putin?
«Penso che l’economia nel mondo di oggi sia sopravvalutata. Il motore della storia sono le passioni. Alle pressioni economiche si può resistere. E resisteremo. Certo Putin deve fare la sua parte in Donbass. Guardi alla nostra storia: l’assedio di Leningrado, la battaglia di Stalingrado. Possiamo farcela. In molti hanno provato a colpirci, da Napoleone a Hitler. Ma l’orgoglio nazionale russo pesa più delle politiche economiche e credo di conoscere bene il carattere del mio popolo».


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David Herbert Lawrence: vers un paganisme solaire

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David Herbert Lawrence: vers un paganisme solaire

Un auteur maudit?

par Jean-Christophe Mathelin

Ex: http://www.archiveseroe.eu

L’écrivain — et peintre — britannique David Herbert Lawrence (1885-1930), que l’on ne confondra pas avec son compatriote et contemporain T.E. Lawrence, alias Lawrence d’Arabie, est essentiellement connu des lecteurs de langue française pour deux romans : L’Amant de Lady Chatterley et Le Serpent à plumes. Le premier participa aux émois de quelques générations d’adolescents (j’en suis !) qui l’empruntaient clandestinement dans la bibliothèque de leurs parents. Ajoutons que le film de J. Jaeckin (1981) avec Sylvia Christel (Emmanuelle) dans le rôle de lady Chatterley renforçait l’impression du grand public selon laquelle D.H. Lawrence n’était qu’un auteur érotique (1). Pourtant le public cultivé savait que cet écrivain “osé”, dont certaines œuvres furent interdites dans son pays, avait aussi écrit Le Serpent à plumes, du nom de la divinité aztèque Quetzalcoatl. Ce roman d’aventures mexicaines connut un grand succès de librairie dans les années 50, et passa même en épisodes quotidiens radiodiffusés sur France Culture, à l’occasion du cinquantenaire de sa publication, en 1976. D.H. Lawrence a écrit, outre une douzaine de romans, à peu près autant d’essais, 70 nouvelles, quatre pièces de théâtre et quatre recueils de poèmes.

Compte tenu de sa mort relativement précoce — il avait 45 ans —, l’œuvre est donc considérable. Lorsque l’on s’y plonge, on découvre que l’aspect sensuel de Lawrence n’est qu’une des composantes de sa conception philosophico-religieuse, beaucoup plus vaste, “païenne”, c’est-à-dire traditionnelle et cosmique.

En effet, Lawrence ne renoue-t-il pas avec l’idéal grec antique lorsqu’il affirme : « la vie n’est supportable que quand le corps et l’esprit sont en harmonie, qu’un équilibre naturel s’établit entre eux et que chacun des deux a pour l’autre un respect naturel ». Selon lui, « l’amour physique (…) permet de renouer avec les forces instinctives et naturelles de l’existence », forces éteintes dans l’homme occidental par le mode de vie moderne. De même, il reproche au Christianisme (dans lequel il a été élevé) d’être dépourvu du sens vital, d’être, comme l’avait vu Nietzsche, une religion du ressentiment collectif. À l’inverse, la sacralisation de la sexualité par le Paganisme permettait, en reconnaissant à l’homme et à la femme leur complémentarité, par-delà leurs différences, de participer à l’Ordre du Monde (2). Lawrence, pour qui la sexualité n’est pas synonyme d’orgies, écrit : « La communion des deux fleuves de sang de l’homme et de la femme, dans le sacrement du mariage, parachève la création : elle complète le rayonnement du Soleil et le rutilement des étoiles ».

Dans le présent article, nous nous intéresserons particulièrement à l’aspect païen et surtout solaire de l’écrivain car dans la conception cosmique flamboyante de Lawrence, le Soleil occupe une place centrale, comme nous le verrons à travers quelques-uns de ses ouvrages.

Un roman païen : “Le Serpent à plumes”

dhl2268068633.jpgCette fresque mystico-politique a été écrite dans un village du Nouveau-Mexique en 1925. L’action se passe au Mexique, riche de son passé, mais usé, décadent, vidé de sa substance par les trois grands maux apportés par l’homme blanc, qui sont (selon Lawrence) le Christianisme, l’américanisme, le socialisme. Un homme est particulièrement conscient de cette déchéance, c’est l’archéologue-historien Don Ramon. Cet aristocrate de l’esprit sait pourtant qu’une chose pourra sauver son pays : le retour, aux anciennes valeurs, incarnées par le Dieu Quetzalcoatl, fils du Soleil, Seigneur de la Sagesse et de l’étoile du matin. Don Ramon ne se dissimule pas les difficultés de l’entreprise : pour amener le Mexique à renouer avec ses traditions glorieuses, il lui faudra combattre à la fois l’amour universel de la religion trompeuse, le culte du dollar et la classe politique corrompue. Tâche immense dans laquelle il sera aidé par Don Cipriano, un général auquel ses hommes ont voué leur vie pour rétablir le culte de Huitzilopochtli, Dieu du Soleil et de la guerre. Unis par un idéal commun et une amitié sans faille, « l’homme de Quetzalcoatl » (Ramon l’Européen) et « l’homme de Huirzilopochtli » (Cipriano l’indien) mènent une sorte de croisade païenne, qui connaît un succès croissant auprès du peuple. Celui-ci est en effet sensible aux beaux hymnes de Ramon, qui annoncent que Jésus ayant fait son temps, les anciens Dieux vont renaître. Une Irlandaise, Kate, se joint à eux. Fascinée par ce retour d’un pays à sa culture ancestrale, déçue par la société moderne, elle ira jusqu’à épouser Cipriano (bien qu’il lui reste toujours étranger) et devenir ainsi Malitzi, la Déesse de la végétation. Mais le jour où la religion de Quetzalcoatl sera déclarée religion officielle du Mexique, Kate repartira vers l’Europe. Don Ramon la charge d’une mission : « Dites aux gens de votre Irlande de faire comme nous ici ». C’est là que le livre de Lawrence prend tour son sens. À travers Ramon, c’est aux Européens que Lawrence s’adresse, car, malgré ses errances aux quatre bouts du monde (motivées par les persécutions subies en Angleterre), il n’a jamais cessé de penser au salut de l’Europe. Ramon, bâtisseur d’une nouvelle histoire, jette un pont entre le plus lointain passé et le plus lointain futur, là où l’homme atteindra à la plus grande vie. À l’opposé du cosmopolitisme uniformisant, il souhaite que chaque peuple retrouve ses racines spirituelles, chacun invoquant son Hermès, son Wotan ou son Mithra.

La solarité au féminin : “L’Amazone fugitive”

Deux ans après Le Serpent à plumes, paraissait ce recueil de nouvelles, du titre de la plus longue et de la plus connue d’entre les nouvelles. L’Amazone fugitive est inspirée, elle aussi, du séjour de Lawrence au Nouveau-Mexique, et de son admiration pour ces Indiens Pueblos, adeptes du culte solaire (3). Lawrence met à nouveau en scène une femme blanche au Mexique. Comme Kate, elle est désillusionnée par une vie terne. Elle décide un jour d’abandonner le ranch de son mari et ses enfants pour rejoindre une mystérieuse tribu indienne, censée avoir conservé l’antique religion aztèque. Au terme de son périple, l’amazone fugitive rencontre trois Indiens qui la conduisent enfin dans la fameuse tribu.

« Il dit : Pourquoi a-t-elle quitté sa maison et les hommes blancs ? Veut-elle apporter le Dieu de l’homme blanc aux Chilchuis ? Non, répliqua-t-elle avec témérité. J’ai quitté moi-même le Dieu de l’homme blanc. Je suis venue chercher le Dieu des Chilchuis. (…) Il demande si vous avez apporté votre cœur aux Dieux des Chilchuis, traduisit le Jeune Indien. Dites-lui que oui, répondit-elle automatiquement. »

Traitée avec égard par ses hôtes, dont elle est néanmoins prisonnière, elle découvre peu à peu l’importance fondamentale du culte solaire pour ces Indiens. Elle réalise ainsi le sens inconscient de sa fuite : venir s’offrir en sacrifice au Dieu-Soleil. Même si cette idée lui fait parfois horreur, elle comprend qu’elle doit aller jusqu’au bout de sa quête, sans regrets :

«  Faut-il que je meure et que je sois livrée au Soleil ? demanda-t-elle.

- Un jour, dit-il avec un sourire évasif. Un jour ou l’autre nous mourrons tous. »

Nous trouvons ici un autre thème lawrencien : plutôt une mort glorieuse et volontairement choisie (on pense ici aux kamikaze) que de vivre en mort-vivant , comme la société moderne nous l’impose. Pendant les mois précédant le solstice d’hiver, où elle sera sacrifiée, elle sentira se développer en elle les mille liens la reliant à l’Univers. Lawrence est un animiste et un panthéiste convaincu ; il décrit admirablement « ce sentiment exquis (…) de se fondre dans la beauté et l’harmonie des choses » : 

« Alors elle entendit les grandes étoiles, qu’elle voyait au ciel dans l’encadrement de sa porte ouverte, parler par leur mouvement et leur éclat, faire des confidences au Cosmos tandis qu’elles dansaient en formant de parfaites figures pareilles à des clochettes au firmament et se croisaient et se groupaient dans la danse éternelle, séparées par des espaces sombres. Et, les jours froids et nuageux, elle entendait les flocons de neige qui gazouillaient et sifflaient timidement dans le ciel comme des oiseaux qui s’assemblent et s’envolent en automne, puis brusquement poussaient un cri d’adieu vers la lune invisible et s’esquivaient des plaines de l’air en dégageant une douce chaleur. Elle-même criait à la Lune invisible de ne plus être en colère, de refaire la paix avec le Soleil invisible comme une femme qui cesse d’être irritée dans sa maison. Et elle sentait que la Lune se radoucissait pour le Soleil dans le ciel hivernal quand la neige tombait avec un abandon languissant et glacé, tandis que la paix du Soleil se mêlait dans une sorte d’unisson à la paix de la Lune ».

dhl214.jpgEt le jour venu, c’est sans état d’âme qu’elle accomplira son destin. Une autre nouvelle du même recueil, intitulée Soleil, reprend encore ce thème de la femme mûre insatisfaite de son existence, mais il est traité de manière beaucoup plus pacifique, comme un conte naturiste. Juliette quitte les États-Unis, où elle dépérit, pour le Soleil de la Méditerranée. Là commencera pour elle une nouvelle existence à travers un face à face quotidien avec l’Astre divin (évoquant l’expérience d’Anna de Noailles [4]). Elle s’épanouira enfin sous ses rayons qui harmonisent à la fois le corps et l’âme :

« À sa connaissance du Soleil, à la certitude que le Soleil la connaissait dans le sens cosmique et charnel du mot, s’ajoutait une impression de détachement et un certain mépris pour tous les êtres humains. Ils étaient si loin des éléments primordiaux, si privés de Soleil. Ils étaient pareils aux vers des cimetières. »

Le jugement très dur de Lawrence sur ses contemporains résulte de sa conception selon laquelle « la seule raison de vivre est d’être pleinement vivant ». Or Lawrence reproche à la civilisation moderne de tuer l’étincelle divine dans l’individu, qui apparaît, dès lors, comme incomplet, endormi. Seul l’homme “primitif”, qu’il a rencontré notamment chez les Indiens, est pleinement humain car il se fie à son instinct. Cet homme a de plus à ses yeux l’immense avantage « d’avoir conservé avec l’Univers des liens mystérieux ».

Le nouveau Discours sur Hélios-Roi : “Apocalypse”

dhl19613.jpgCette pensée, que Lawrence exprime de manière allégorique dans ses romans et nouvelles, sera explicite dans son dernier ouvrage, paru un an après sa mort, et qui représente son testament spirituel. Apocalypse est l’étude fouillée du texte de Jean de Patmos, qui clôt le Nouveau Testament. Si la notion même d’apocalypse lui répugne, à cause de cet « ignoble désir de fin du monde », Lawrence s’intéresse à cet écrit car il y découvre deux influences opposées. Tout d’abord, le message de ceux qui « ne peuvent même pas supporter l’existence de la Lune et du Soleil », mais par-delà la strate judéo-chrétienne, il y trouve une strate païenne. Car pour faire passer de manière frappante cette vision apocalyptique, le ou les auteurs ont eu recours à un langage, à une symbolique cosmiques, donc païens (5). L’étude de l’Apocalypse est ainsi pour Lawrence prétexte à comparer entre elles ces deux conceptions du monde antagonistes :

« Ne nous figurons pas que nous voyons le Soleil comme le voyaient les civilisations anciennes. Nous ne voyons qu’un petit luminaire scientifique, réduit à un ballon de gaz enflammé. Dans les siècles précédant Ézéchiel et Jean, le Soleil était encore une réalité magnifique. Les hommes en tiraient force et splendeur, et lui rendaient hommage, lustre et remerciements. À l’époque de Jésus, les hommes ont fait du ciel une machine de destin et de fatalité, une prison. Les chrétiens s’évadaient de cette prison en reniant radicalement le corps. Mais hélas, quelles petites évasions, ces évasions par reniement ! — ce sont les plus fatales des évasions. La chrétienté et notre civilisation idéaliste n’ont été qu’une longue évasion, cause de stagnation infinie et de misère — la misère que les gens connaissent aujourd’hui, qui ne vient pas d’un manque physique, mais d’une façon plus mortifère, d’un manque de désir vital. Mieux vaut manquer de pain que manquer de vie — grande évasion dont le seul fruit est la machine ! »

Lawrence développe sa vision d’un Paganisme solaire, qui rejoint l’expérience des grands mystiques et anticipe l’inconscient jungien :

« Et certaines des grandes images de l’Apocalypse remuent en nous d’étranges profondeurs, nous procurent une étrange et sauvage vibration pour la liberté, la vraie liberté : fuite vers quelque chose et non fuite vers nulle part. Fuir la petite cage exiguë de notre univers, exiguë car elle n’est qu’une extension à sens unique, une suite morne sans aucune signification ; la fuite vers le Cosmos vital, vers un Soleil à la vie grande et sauvage, qui abaisse ses regards pour nous raffermir, ou bien, foudroyant, merveilleux, passe son chemin. Qui dit que le Soleil ne peut pas me parler ! Le Soleil a une vaste conscience flamboyante, moi j’en ai une petite. Quand j’arrive à me débarrasser de mon fatras d’idées et de sentiments personnels, et à descendre jusqu’à mon être solaire dépouillé (6), alors le Soleil et moi pouvons nous entretenir sur l’heure, échange flamboyant, il me donne vie, Soleil de vie, et je lui envoie un peu d’une vivacité nouvelle venue d’un monde au sang vif — le grand Soleil (…) aime le sang rouge et vif de la vie, et peut l’enrichir à l’infini si nous savons comment le recevoir.  »

Ce Paganisme solaire est naturellement complémentaire d’un Paganisme lunaire :

« Et nous avons perdu la Lune, la Lune fraîche, brillante et changeante. C’est elle qui peut toucher nos nerfs, les polir de son rayonnement soyeux et les policer par sa fraîche présence. Car la Lune est la maîtresse et la mère de nos corps aquatiques, le corps pâle de notre conscience nerveuse et de notre chair moite. La Lune pourrait nous apaiser et nous guérir entre ses bras comme une grande et fraîche Artémis. Mais nous l’avons perdue, nous l’ignorons dans notre stupidité, et rageuse, elle nous fixe et nous cingle de coups de fouet nerveux. Oh ! prenons garde à la coléreuse Artémis des cieux nocturnes, prenons garde à la rancune et au croissant d’Astarté.  »

Mais attention, prévient Lawrence, le culte solaire n’a rien à voir avec la moderne “bronzette” :

«  Nous ne pouvons nous assimiler le Soleil en nous couchant tout nus comme des cochons sur une plage. Le Soleil lui-même qui nous bronze nous désagrège du dedans (…) il ne peur que fondre sur nous et nous détruire (…) dragon de destruction et non plus faiseur de vie. (…) Nous ne pouvons nous assimiler le Soleil que par une sorte de culte, de même avec la Lune — en décrétant un culte au Soleil ».

Il s’agit d’un état de conscience et d’un vitalisme (7) :

« Il y a une éternelle correspondance vitale entre notre sang et le Soleil : il y a éternelle correspondance vitale entre nos nerfs et la Lune. Si nous perdons le contact et l’harmonie avec la Lune et le Soleil, tous deux se retournent contre nous comme deux grands dragons de destruction. Le Soleil est une source de vitalité sanguine, il rayonne de force à notre égard. Mais si une fois nous lui résistons en disant : ce n’est qu’un ballon de gaz ! — alors la vraie vitalité rayonnante de sa lumière se change en subtile force désagrégeante et nous défait. Même chose pour la Lune, les planètes, les grandes étoiles. Ce sont nos producteurs ou nos destructeurs, il n’y a pas d’échappatoire. »

Ce Paganisme est aussi un panthéisme (8) :

« Le Cosmos et nous-mêmes ne faisons qu’un. Le Cosmos est un grand organisme vivant dont nous faisons toujours partie. Le Soleil est un grand cœur dont les pulsations parcourent jusqu’à nos veines les plus fines. La Lune est un grand centre nerveux étincelant d’où nous vibrons sans cesse. Qui peut dire le pouvoir que Saturne a sur nous, ou Vénus ? C’est un pouvoir vital, ondoiement extrême qui nous traverse sans interruption. Et si nous renions Aldébaran, Aldébaran nous transperce d’infinis coups de poignards. Celui qui n’est pas avec nous est contre moi ! — c’est la loi cosmique. Et tout ceci est vrai à la lettre, comme le savaient les hommes du temps passé, et comme ils le sauront à nouveau ».

Malheureusement, le lien cosmique s’est dégradé depuis l’Antiquité jusqu’à nos jours :

« Or la connexion en nous est rompue, les centres sont morts. Notre Soleil, tellement plus banal, est tout autre chose que le Soleil cosmique des Anciens. Nous pouvons voir ce que nous appelons Soleil, mais nous avons perdu Hélios pour toujours, et plus encore le grand globe des Chaldéens. Nous avons perdu le Cosmos, nous en avons déconnecté notre sensibilité, c’est notre principale tragédie. Qu’est-ce que notre minable petit amour de la nature — la Nature — comparé à une ancienne et magnifique vie commune avec le Cosmos, honorée du Cosmos ! (…) Le Soleil ne nous nourrit plus, ni la Lune. En langage mystique, la Lune s’est obscurcie et le Soleil est devenu noir. Quand j’entends des gens modernes se plaindre d’être seuls, je sais ce qui est arrivé. Ils ont perdu le Cosmos ».

Il nous faut donc retrouver une sensibilité, une conscience cosmiques :

«  Nous ne manquons ni d’humanité ni de subjectivité ; ce dont nous manquons, c’est de vie cosmique, du Soleil en nous et de la Lune en nous. (…) Maintenant, il nous faut retrouver le Cosmos, et ça ne s’obtient pas par un tour de passe-passe mental. Il nous faut revivre tous les réflexes de réponse qui sont morts en nous. Les tuer nous a pris deux mille ans. Qui sait combien de temps il faudra pour les ranimer ?  »

Nous avons ici l’ouvrage capital de la pensée lawrentienne, qui expose dans un style éblouissant son Paganisme panthéiste et solaire. Un des plus beaux discours sur Hélios-Roi depuis celui de l’Empereur Julien ! On peut considérer cet écrit inclassable (9), mais sublime, comme le successeur du Zarathoustra de Nietzsche, auquel il s’apparente par le style et la recherche de valeurs supérieures (10).

Les poèmes solaires de Pensées

Parues également à titre posthume, quelques années après Apocalypse, on retrouve dans ce recueil les différentes facettes de l’auteur. Le Soleil y est omniprésent, comme dans le charmant poème « Femmes solaires  », qui rejoint totalement le personnage de Juliette :

« Comme ce serait étrange si des femmes s’avançaient et disaient :

Nous sommes les femmes solaires !
Nous n’appartenons ni aux hommes ni à nos enfants ni à nous-mêmes
Mais au Soleil.
Ah ! quel délice de sentir le Soleil sur moi !
Quel délice de s’ouvrir comme une fleur
Lorsqu’un homme vient et vous regarde
Le visage plein de lumière, de sorte qu’une femme
Ne peut que s’ouvrir comme une fleur
Percée par les rayons étincelants ».

Les préoccupations sociales de Lawrence apparaissent dans le poème « Les classes moyennes », où il proclame son mépris pour la bourgeoisie :

« Les classes moyennes
Sont sans Soleil.
Elles n’ont que deux étalons,
L’homme et l’argent,
Elles n’ont absolument aucune parenté avec le Soleil. »

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En politique, sa conception aristocratique l’amène à se situer en dehors des partis classiques. Il s’en exprime dans « Démocratie » :

« Je suis démocrate dans la mesure où j’aime dans l’homme sa liberté solaire.
Je suis aristocrate dans la mesure où je hais l’étroit esprit de possession.
J’adore le Soleil en tous les hommes
Lorsque je vois briller sur un front
Clair et sans peur, si petit soit-il.
Mais lorsque je vois ces ternes hommes qui arrivent à la puissance
Si laids, pareils à des cadavres, absolument privés de Soleil
Et qui se dandinent machinalement
Comme de gros esclaves victorieux,
Alors je suis plus que radical,
J’ai envie d’amener la guillotine.
Et lorsque je vois des travailleurs
Pâles, vils, semblables à des insectes
Machinalement affairés
Qui vivent comme des poux sur une maigre pitance
Et ne regardent jamais plus haut,
Alors je voudrais, comme Tibère, que la foule n’eût qu’une tête
Pour que je pusse la trancher.
Lorsque les êtres sont totalement dépourvus de Soleil
Ils ne devraient pas exister »

Dans « l’Espace » reparaissent les conceptions panthéistes d’Apocalypse :

« L’espace, bien sûr, est vivant,
C’est pourquoi il bouge ;
Et c’est ce qui le rend éternellement spacieux et aéré.
Quelque part en lui est un cœur sauvage
Dont les battements me transpercent
Et je l’appelle le Soleil ;
Et je me sens aristocrate, plein de noblesse,
Lorsqu’un battement me traverse
Venant du cœur sauvage de l’espace, que je nomme Soleil suprême. »

Pour Lawrence comme pour Nietzsche, la morale chrétienne n’est qu’une morale d’esclaves, avec sa comptabilité anxieuse du péché. La vraie immoralité est pour lui très différente, ainsi qu’il l’a exprimée dans le poème du même nom :

« Il est immoral
D’être mort-vivant,
Éteindre en soi le Soleil
Et l’éteindre dans les autres »

Lawrence, héraut du Soleil

Initié, visionnaire, Lawrence l’a certes été. Comme tous les prophètes, il fut d’abord incompris, à commencer dans son propre pays. Précurseur de la révolution sexuelle, il avait aussi dénoncé les dangereux mirages de la société industrielle. En cette fin de millénaire, où l’homme occidental met toute la planète en danger, où nos systèmes sans âme génèrent toutes sortes de pathologies abjectes, combien les faits ont abondé dans son sens ! Sa vie illustre parfaitement les mots de Teilhard de Chardin : « Ceux qui ont raison trop tôt s’exposent à finir en hérétiques ». Lawrence avait aussi prévu la renaissance du Paganisme, ce qui lui fut reproché. Cette renaissance païenne, aujourd’hui évidente, est pour nous indissociable d’un réveil de la solarité, auquel nous travaillons. Lawrence, chantre du Soleil, nous montre la voie : par la hauteur de ses visions, par la force de son art, il doit être considéré comme l’un des grands représentants de la solarité du XXe siècle.

► Jean-Christophe Mathelin, Antaios n°14, 1999.

Docteur en géologie, JC Mathelin est professeur. Depuis 1992, il anime la revue Solaria et le Cercle de Recherches sur les Cultes Solaires. Il prépare une anthologie des hymnes et prières au Soleil.

Notes :

  • (1) Le génie littéraire de D.H. Lawrence est aujourd’hui largement reconnu et ses audaces érotiques ont été dépassées depuis, par des auteurs qui n’ont pas son talent.
  • (2) A. Maupertuis, Le sexe et le plaisir avant le christianisme : L’érotisme sacré, Retz, Paris 1977.
  • 3) Voir à ce sujet C.G. Jung, Ma vie, Gallimard, 1962.
  • 4) Notamment les poèmes « La Prière au Soleil » et « L’Accueil au Soleil » : cf. Solaria n°7.
  • 5) Le succès historique de la Bible auprès des populations européennes, a priori peu réceptives aux religions du désert, pourrait entre autres s’expliquer par le fait qu’elles y auraient reconnu des éléments indo-européens : un message apollinien dans l’Évangile de Jean (le Prologue par ex.), une eschatologie iranienne dans l’Apocalypse, etc.
  • 6) Pour Jung, lorsque le mystique descend au fond de son âme, il y trouve le « Soleil de l’au-delà ». Voir C.G. Jung, Métamorphoses de l’âme et ses symboles, Librairie de l’Université - Georg et Cie, Genève, 1983.
  • 7) La théorie du vitalisme solaire fut soutenue notamment par le stoïcien Posidonius. Voir F. Cumont, La Théologie solaire du paganisme romain, Mémoires présentés à l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres de l’Institut de France, II, 2, Paris, 1913.
  • 8) Vieille théorie stoïcienne. Voir l’article « Panthéisme » dans l’Encyclopaedia Universalis.
  • 9) Osons une comparaison avec Citadelle de Saint-Exupéry, livre posthume et philosophique, un peu décousu, mais profond et poétique.
  • (10) Notamment le très solaire Prologue.


A lire :

  • Le Serpent à plumes, Stock, 1957, (Londres, 1926).
  • L’Amazone fugitive, Stock, 1976, (Londres 1928).
  • Apocalypse, Balland, 1978, (Londres 1931).
  • Matinées mexicaines - Pensées, Stock, 1986 (Londres 1935).

Geneviève Dormann: les jeux de l’amour et des hussards

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Geneviève Dormann: les jeux de l’amour et des hussards
 
Mais dites-moi, elle n’était pas un peu insolente, Geneviève Dormann?
 
Journaliste et écrivain
Il a présidé la Bibliothèque de France et a publié plus d'une vingtaine de romans et d'essais. Co-fondateur de Boulevard Voltaire, il en est le Directeur de la Publication
Ex: http://www.bvoltaire.fr

dodo82253058168-T.jpgMais dites-moi, elle n’était pas un peu insolente, Geneviève Dormann ? Un peu insolente, vous plaisantez ? Elle était l’insolence en personne. Elle toisait du même regard bleu comme l’acier à la fois froid et rigolard, elle méprisait et elle bravait avec la même assurance, elle rejetait avec le même haussement d’épaule les bienséances, les conventions, les ridicules, les hiérarchies, les lâches, les complaisants, les décorations, les promotions, les récompenses, le politiquement correct et la pensée inique, le qu’en-dira-t-on, le qu’en-pensera-t-on. Elle était libre, Max, dans sa vie privée comme dans ses propos publics, dans ses jugements, dans ses indulgences comme dans ses éreintements, elle assumait avec une imperturbable assurance ses partis pris, et était prête à se faire hacher menu pour ceux qu’elle aimait comme à mordre jusqu’à les déchiqueter ceux dont la tête ou le comportement ne lui revenaient pas. Fidèle comme un dogue, féroce comme un pitbull, elle était la première à rire du surnom de « Dobermann » que lui avaient valu ses excès de franchise et de pugnacité. Ses ennemis, nombreux (je me souviens que nous étions tombés d’accord pour voir dans le proverbe espagnol « Beaucoup d’ennemis, beaucoup d’honneur » la plus belle devise dont puisse s’orner le blason d’un journaliste ou d’un écrivain), ne mettaient systématiquement en avant son caractère bien trempé que pour n’avoir pas à reconnaître le talent qu’elle avait mis dans les romans où elle laissait caracoler sa plume allègre et désinvolte, à la hussarde. C’était une cavale sauvage.

Les hussards, c’étaient ses dieux, et elle ne cessait de maudire le hasard qui l’avait fait naître trop tard, dans un monde trop vieux, vingt ans après ses quatre idoles – Nimier, Laurent, Blondin, Déon – dans la compagnie desquels elle aurait tant aimé être le cinquième mousquetaire. Fumant comme un sapeur, buvant comme un Polonais, jurant comme un cuirassier de la belle voix rauque et sensuelle que le tabac fait à certaines femmes, elle imitait ces modèles jusque dans leurs travers. Garçon manqué ? Mais non, femme réussie, entière, passionnée et qui, bien au-dessus de l’argent, de la gloire, de la famille et même de la littérature, mettait l’amour et l’amitié.

Elle se faisait du tort à plaisir et avec fierté. Il y eut une brève période où la radio et la télévision faisaient fréquemment appel, pour pimenter certaines émissions, à Geneviève Dormann, à cause de son insolence. C’est à cause de cette insolence même qu’elle disparut progressivement de l’antenne et de l’écran. On s’étonna de lui voir cosigner avec Régine Deforges un petit ouvrage sur le point de croix, qui tenait plus du canular que de la profession de foi. Ces dernières années, la maladie l’avait réduite au silence.

Adieu, Geneviève…

vendredi, 13 février 2015

Unterwerfung als Option

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Unterwerfung als Option

von Felix Menzel

Ex: http://www.blauenarzisse.de

2001 sagte der Bestsellerautor Michel Houellebecq: „Die dümmste Religion ist doch der Islam.“ Ist sein Mitte Januar auf Deutsch erschienener Roman „Unterwerfung“ folglich ein Anti-​Islam-​Pamphlet?

Um es gleich vorwegzunehmen: Nein, das ist er nicht. Vielmehr überrascht der Franzose Houellebecq mit einem recht positiven Bild des Islam. Im Gegensatz zur atheistischen, toleranten und weltoffenen Gesellschaft bewundern viele Figuren in Unterwerfung diesen Glauben für seine religiöse Stärke. Er habe die Fähigkeit, der Gesellschaft eine klare, einfach zu verstehende Ordnung zu geben.

Warum „Unterwerfung“ Islam-​Hasser enttäuschen wird

Insofern hat Houellebecq seine Meinung zum Islam überhaupt nicht geändert: Gerade das „Dumme“, das Antiliberale und tendenziell Totalitäre machen diese Religion so attraktiv. Das ist auch der Grund, warum es vielen Muslimen schwer fällt, sich von religiösen Fanatikern zu distanzieren. Denn das Vereinfachende gehört zu den Grundprinzipien des Islam.

Houllebecqs Buch erschien auch in Frankreich genau zum richtigen Zeitpunkt: Anfang des Jahres griffen Islamisten die französische Satirezeitschrift Charlie Hebdo an und brachten 17 Menschen um. Damit trugen sie den Terror endgültig nach Europa. Und es war sofort klar, daß Unterwerfung zum ersten großen Buchereignis des Jahres 2015 werden mußte. Sowohl in Deutschland als auch Frankreich stand das Buch umgehend auf dem ersten Platz der Amazon-​Bestsellerliste. Es spielt dabei keine Rolle, daß dieser Roman definitiv nicht sein bester ist. Houellebecq hat nach Die Möglichkeit einer Inselseinen Zenit überschritten. Und er weiß das auch.

Relativ am Anfang des Romans läßt Houellebecq seine Hauptfigur, den Literaturwissenschaftler François, referieren, wie der Schriftsteller Joris-​Karl Huysmans mit dem Verfall seiner eigenen Leistungsfähigkeit umgegangen ist. Er habe einfach einen enttäuschenden Roman über eine Enttäuschung geschrieben und so doch noch einen „ästhetischen Sieg“ davon getragen. Da nun Houellebecq schon immer über Enttäuschungen geschrieben hat, entfiel für ihn diese Strategie.

Politische Literatur: Fast immer schlecht

Er hat aber eine andere Lösung für dieses Dilemma gefunden und einfach einen politischen Roman geschrieben. In dem wird ein Szenario beschrieben, das sich nah an der Realität bewegt. Mit Michael Klonovsky könnte man nun einwenden: „Wenn Literatur politisch wird, ist sie fast immer schlecht.“ Das stimmt auch. Betrachtet man einzig die literarische Qualität, ist Unterwerfung im Vergleich zu den früheren Romanen von Houellebecq wirklich schlecht.

Aber was hätte Houellebecq, der seinen eigenen Verfall als Person regelrecht inszeniert, denn tun sollen? Nichts mehr schreiben? Nein, natürlich nicht! Er hat – wieder einmal – alles richtig gemacht. Frankreich, Deutschland und Europa haben einen Roman wie Unterwerfung gebraucht, um über die eigene Dekadenz und das mögliche Ende des modern-​aufklärerischen Zeitalters debattieren zu können.

Islamisierung, die Houellebecq in seinem Roman skizziert, läuft dabei anders ab, als sich dies die üblichen Islam-​Hasser so denken. Nach einem Bürgerkrieg zwischen Islamisten auf der einen Seite sowie Rechtsradikalen und Identitärenauf der anderen gelangt der charismatische Muslimbruder Mohammed Ben Abbes an die Macht. Denn alle etablierten Parteien wollen verhindern, daß der Front National in Zukunft das Sagen hat. Abbes ist ein Visionär, der das Gravitationszentrum Europas nach Süden verschieben will. Er strebt eine eine Mittelmeer-​Union mit arabischen Staaten an. Sein Vorbild ist dabei das Römische Reich.

Ein Islamisch-​Römisches Reich: Alptraum oder Zukunftsvision?

Innenpolitisch gelingt es ihm, eine neue soziale Solidarität durch die Kraft des Religiösen zu stiften. Das fällt Abbes deshalb so leicht, weil vor seiner Herrschaft die offene Gesellschaft daran gearbeitet hatte, die Familie als Kernstruktur jeder Gemeinschaftsbildung zu zersetzen. Wenn man so will, macht Houellebecq also darauf aufmerksam, daß die Vorstellungen der Muslime und der Rechten zur Bewahrung traditioneller Werte und Gemeinschaftsstrukturen sehr ähnlich sind – mit dem feinen Unterschied freilich, daß der Islam die Polygamie erlaubt.

Die Rechten – so könnte man seinen Gedankengang weiterspinnen – haben jedoch das Problem, daß von den christlichen Institutionen kein Impuls zur bewahrenden Erneuerung ausgehen wird. Das europäische Christentum könnte von der aufklärerischen Moderne dermaßen vergiftet worden sein, daß es unfähig ist, der Unterwerfung durch den Islam überhaupt etwas entgegensetzen zu wollen.

Ohne Religion überleben wir nicht

Wie geht es also weiter? Der Roman gibt keine klare Prognose ab. Im Gespräch mit der ZEITsagt Houellebecq, ein Happy-​End habe es nicht geben können. Denn sein Verlag hätte ihm keine Recherchereise nach Israel ermöglicht. Und ansonsten? „Eine Gesellschaft ohne Religion ist nicht überlebensfähig. Der Laizismus, der Rationalismus und die Aufklärung, deren Grundprinzip die Abkehr vom Glauben ist, haben keine Zukunft“, betont Houellebecq. Er könne sich vorstellen, in einem moderaten islamischen Staat zu leben.

Ist das nur Provokation? Vielleicht. Vielleicht bereitet uns Houellebecq aber auch nur darauf vor, daß es mit dem Christentum sowieso nichts mehr wird. Auch das ist die zentrale, bittere Botschaft von Unterwerfung.

Michel Houellebecq: Unterwerfung. Roman. Köln: Dumont 2015. Hardcover. 280 Seiten. 22,99 Euro.

Anm. d. Red.: Hier geht es zu unserem nach Michel Houellebecq benannten Jugendkulturpreis. Es gab fast 300 Einsendungen junger Nachwuchskünstler.

dimanche, 08 février 2015

Houellebecq’s SOUMISSION: Would Nietzche Say Islam Can Redeem Europe?

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Houellebecq’s SOUMISSION: Would Nietzche Say Islam Can Redeem Europe?

 

vendredi, 06 février 2015

L'insolence des anarchistes de droite

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L'insolence des anarchistes de droite

par Dominique Venner

Ex: http://zentropa.info

Les anarchistes de droite me semblent la contribution française la plus authentique et la plus talentueuse à une certaine rébellion insolente de l’esprit européen face à la « modernité », autrement dit l’hypocrisie bourgeoise de gauche et de droite. Leur saint patron pourrait être Barbey d’Aurévilly (Les Diaboliques), à moins que ce ne soit Molière (Tartuffe). Caractéristique dominante : en politique, ils n’appartiennent jamais à la droite modérée et honnissent les politiciens défenseurs du portefeuille et de la morale. C’est pourquoi l’on rencontre dans leur cohorte indocile des écrivains que l’on pourrait dire de gauche, comme Marcel Aymé, ou qu’il serait impossible d’étiqueter, comme Jean Anouilh. Ils ont en commun un talent railleur et un goût du panache dont témoignent Antoine Blondin (Monsieur Jadis), Roger Nimier (Le Hussard bleu), Jean Dutourd (Les Taxis de la Marne) ou Jean Cau (Croquis de mémoire). A la façon de Georges Bernanos, ils se sont souvent querellés avec leurs maîtres à penser. On les retrouve encore, hautins, farceurs et féroces, derrière la caméra de Georges Lautner (Les Tontons flingueurs ou Le Professionnel), avec les dialogues de Michel Audiard, qui est à lui seul un archétype.

Deux parmi ces anarchistes de la plume ont dominé en leur temps le roman noir. Sous un régime d’épais conformisme, ils firent de leurs romans sombres ou rigolards les ultimes refuges de la liberté de penser. Ces deux-là ont été dans les années 1980 les pères du nouveau polar français. On les a dit enfants de Mai 68. L’un par la main gauche, l’autre par la main droite. Passant au crible le monde hautement immoral dans lequel il leur fallait vivre, ils ont tiré à vue sur les pantins et parfois même sur leur copains.

manchette-jean.jpgÀ quelques années de distances, tous les deux sont nés un 19 décembre. L’un s’appelait Jean-Patrick Manchette. Il avait commencé comme traducteur de polars américains. Pour l’état civil, l’autre était Alain Fournier, un nom un peu difficile à porter quand on veut faire carrière en littérature. Il choisit donc un pseudonyme qui avait le mérite de la nouveauté : ADG. Ces initiales ne voulaient strictement rien dire, mais elles étaient faciles à mémoriser.

"En 1971, sans se connaître, Manchette et son cadet ADG ont publié leur premier roman dans la Série Noire. Ce fut comme une petite révolution. D’emblée, ils venaient de donner un terrible coup de vieux à tout un pan du polar à la française. Fini les truands corses et les durs de Pigalle. Fini le code de l’honneur à la Gabin. Avec eux, le roman noir se projetait dans les tortueux méandres de la nouvelle République. L’un traitait son affaire sur le mode ténébreux, et l’autre dans un registre ironique. Impossible après eux d’écrire comme avant. On dit qu’ils avaient pris des leçons chez Chandler ou Hammett. Mais ils n’avaient surtout pas oublié de lire Céline, Michel Audiard et peut-être aussi Paul Morand. Écriture sèche, efficace comme une rafale bien expédiée. Plus riche en trouvailles et en calembours chez ADG, plus aride chez Manchette.

product_9782070408184_195x320.jpgNé en 1942, mort en 1996, Jean-Patrick Manchette publia en 1971 L’affaire N’Gustro directement inspirée de l’affaire Ben Barka (opposant marocain enlevé et liquidé en 1965 avec la complicité active du pouvoir et des basses polices). Sa connaissance des milieux gauchistes de sa folle jeunesse accoucha d’un tableau véridique et impitoyable. Féministes freudiennes et nymphos, intellos débiles et militants paumés. Une galerie complète des laissés pour compte de Mai 68, auxquels Manchette ajoutait quelques portraits hilarants de révolutionnaires tropicaux. Le personnage le moins antipathique était le tueur, ancien de l’OAS, qui se foutait complètement des fantasmes de ses complices occasionnels. C’était un cynique plutôt fréquentable, mais il n’était pas de taille face aux grands requins qui tiraient les ficelles. Il fut donc dévoré.

Ce premier roman, comme tous ceux qu’écrivit Manchette, était d’un pessimisme intégral. Il y démontait la mécanique du monde réel. Derrière le décor, régnaient les trois divinités de l’époque : le fric, le sexe et le pouvoir.

Au fil de ses propres polars, ADG montra qu’il était lui aussi un auteur au parfum, appréciant les allusions historiques musclées. Tour cela dans un style bien identifiable, charpenté de calembours, écrivant « ouisquie » comme Jacques Perret, l’auteur inoubliable et provisoirement oublié deBande à part.

Si l’on ne devait lire d’ADG qu’un seul roman, ce serait Pour venger Pépère (Gallimard), un petit chef d’œuvre. Sous une forme ramassée, la palette adégienne y est la plus gouailleuse. Perfection en tout, scénario rond comme un œuf, ironie décapante, brin de poésie légère, irrespect pour les « valeurs » avariées d’une époque corrompue.

L’histoire est celle d’une magnifique vengeance qui a pour cadre la Touraine, patrie de l’auteur. On y voit Maître Pascal Delcroix, jeune avocat costaud et désargenté, se lancer dans une petite guerre téméraire contre les puissants barons de la politique locale. Hormis sa belle inconscience, il a pour soutien un copain nommé « Machin  », journaliste droitier d’origine russe, passablement porté sur la bouteille, et « droit comme un tirebouchon ». On s’initie au passage à la dégustation de quelques crus de Touraine, le petit blanc clair et odorant de Montlouis, ou le Turquant coulant comme velours.

Point de départ, l’assassinat fortuit du grand-père de l’avocat. Un grand-père comme on voudrait tous en avoir, ouvrier retraité et communiste à la mode de 1870, aimant le son du clairon et plus encore la pêche au gardon. Fier et pas dégonflé avec çà, ce qui lui vaut d’être tué par des malfrats dûment protégés. A partir de là on entre dans le vif du sujet, c’est à dire dans le ventre puant d’un système faisandé, face nocturne d’un pays jadis noble et galant, dont une certaine Sophie, blonde et gracieuse jeunes fille, semble comme le dernier jardin ensoleillé. Rien de lugubre pourtant, contrairement aux romans de Manchettes. Au contraire, grâce à une insolence joyeuse et un mépris libérateur.

Au lendemain de sa mort (1er novembre 2004), ADG fit un retour inattendu avec J’ai déjà donné, roman salué par toute la critique. Héritier de quelques siècles de gouaille gauloise, insolente et frondeuse,ADG avait planté entre-temps dans la panse d’une république peu recommandable les banderilles les plus jubilatoires de l’anarchisme de droite.”

Article de Dominique Venner dans Le Spectacle du Monde de décembre 2011.

mercredi, 04 février 2015

À propos de « Nouveaux cathares pour Monségur » de Saint-Loup

À propos de « Nouveaux cathares pour Monségur » de Saint-Loup

par Rüdiger NON CONFORME

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

nvxcath2956457755.jpgJ’ai comme l’impression qu’on ne lit plus beaucoup Saint-Loup (nom de plume de Marc Augier) aujourd’hui, ce que je ne peux que déplorer. Aussi, si ces quelques considérations sur l’un de ses ouvrages phares pouvaient donner à d’aucuns l’envie de se plonger dans l’œuvre de ce grand écrivain, j’en serais ravi.

 

Grand écrivain, oui, c’est indéniable. Et même si l’homme était avant tout un écrivain de combat aux idées bien trempées, il mérite d’être (re)découvert tant son talent peut séduire au-delà du lecteur typique de notre mouvance. Comme le savent ses lecteurs, Saint-Loup mettait énormément de lui-même dans ses livres et mêlait à ses convictions des thèmes chers qui avaient beaucoup compté dans son parcours personnel : la noblesse de comportement devant la vie, le dépassement de soi par le sport (ou la guerre) ou encore la joie de la camaraderie telle qu’on la pratiquait dans les Auberges de Jeunesse avant la Seconde Guerre mondiale.

 

Nouveaux cathares pour Monségur, premier volume du cycle des « Patries charnelles », entraîne le lecteur dans l’Occitanie de la fin des années 1930 à la fin des années 1960 et prend comme fil directeur le combat identitaire occitan. L’Occitanie étant l’une de ces nombreuses patries charnelles constituant l’Europe voulue par Saint-Loup, une Europe fédérale respectueuse de toutes ses identités régionales. Ce combat « régionaliste » est ainsi illustré dans ce roman datant de 1968 par une galerie de personnages bien différents dont les opinions (tant politiques que religieuses), les choix devant l’histoire de leur temps, les évolutions et les divergences apportent l’essentiel de la matière ici développée.

 

L’ombre de la croisade contre les Albigeois plane sur le récit et, pour bien des protagonistes de l’histoire, c’est la déclaration de guerre faite à l’Occitanie par la France du Nord au XIIIe siècle. En effet, pour Roger Barbaïra, héros du livre, « la France n’est pas la terre de mes pères », c’est « une patrie qui n’a d’autres contours qu’idéologiques ». Partant de ce postulat que la France écrase l’Occitanie depuis le Moyen Âge et que celle-ci se doit d’être libérée, Roger Barbaïra et sa bande de compagnons issue des Auberges de Jeunesse  vont tout faire pour lutter contre cette domination vue comme étrangère. Et c’est là que la plume de Saint-Loup s’exprime, à mon sens, le mieux. Quelle stratégie adopter à l’aube de la Seconde Guerre mondiale pour ces jeunes gens bien différents, tant dans la personnalité que dans les opinions politiques, mais unis par le combat identitaire ? Certains choisiront Vichy, d’autres le maquis communiste; Barbaïra choisira la S.S. Ils en viendront à s’entretuer ou à s’entraider, dépassés par les événements de la grande guerre civile européenne. Le combat continuera ensuite après la guerre, pour ceux qui y auront survécu et qui seront restés fidèles, avec d’autres moyens.

 

Comme dans beaucoup de livres de Saint-Loup, on retrouve l’idée de la dureté de l’engagement. Celui qui s’engage pour une cause fait face à de multiples difficultés et la guerre vécue par les différents acteurs de cette fresque occitane en sera la meilleure illustration : combattre ou s’engager au sens large, ce n’est pas aller dans le sens de la facilité, bien au contraire. Les péripéties de ceux qui auront choisi le mauvais camp et qui deviendront des « maudits » illustrent cela à merveille : ils seront traqués, torturés et tués par ceux qui prétendaient combattre pour la « paix », la « dignité » et les « droits de l’homme » et qui sont toujours adulés et loués de nos jours puisque, dans le monde moderne, il y a des persistances qui ont la vie dure.

 

sl380539376.jpgAu-delà de la question identitaire, Nouveaux cathares pour Monségur est un voyage en Occitanie, dans ses châteaux, ses montagnes, ses légendes. C’est l’occasion aussi pour Saint-Loup de traiter de religion et en particulier du catharisme. Cette foi est ainsi celle de ce mystique personnage qu’est Auda Isarn (dont le nom a été repris par une célèbre maison d’édition). Membre de la bande d’amis de Roger Barbaïra, sa beauté froide la rend désirable à bien des hommes qui s’opposeront pour l’avoir mais une telle femme, dotée d’une telle foi, peut-elle réellement appartenir à un homme et lui dévouer sa vie? Auda Isarn fait partie de ces femmes un peu mystérieuses voire insaisissables que l’on retrouve dans l’œuvre de l’auteur, telle la fameuse Morigane de Plus de pardons pour les Bretons, et est résolument le personnage le plus énigmatique de l’histoire.

 

Saint-Loup profite de son récit pour y fondre différents éléments ésotériques. C’est ainsi la rencontre entre Otto Rahn, l’auteur de Croisade contre le Graal et de La cour de Lucifer, d’une part et Roger Barbaïra et ses amis d’autre part qui donnera à ces derniers le goût du combat pour leur identité. C’est encore Otto Rahn qui mettra Barbaïra sur la piste des « vérités éternelles » par sa recherche du Graal dans les grottes proches de Monségur. Ce Graal, sous la plume de Saint-Loup, n’est plus la coupe qui recueillit le sang du Christ mais les tables de lois des Aryens « en écriture païenne enchevêtrée » dont la redécouverte changerait la face du monde moderne, ce qui explique les recherches menées par Rahn, en mission spéciale en 1938, puis par une section de l’Ahnenerbe à laquelle Barbaïra prêtera main forte durant la guerre avant de s’engager dans la Waffen S.S. Cet engagement s’explique par le fait que Barbaïra veut donner à l’Occitanie une place digne de ce nom dans l’Europe nouvelle et c’est seulement par le sang versé à la guerre qu’elle l’aura selon lui. De plus, il n’est plus, à l’aube de son départ sur le front de l’Est, qu’un simple combattant régionaliste. Il sait que ce combat fait partie d’un mouvement plus vaste, d’une conception totale du monde, d’une Weltanschauung où l’élément spirituel se mêle à l’élément biologique.

 

Qui sont ces nouveaux cathares évoqués par le titre du livre ? Vous le découvrirez avec cet ouvrage passionnant et extrêmement bien écrit, doté d’une interprétation très personnelle de l’histoire de l’Occitanie. Nouveaux cathares pour Monségur recèle de multiples richesses qui en font un très grand roman et un ouvrage absolument indispensable pour qui veut comprendre ou découvrir Saint-Loup.

 

Rüdiger Non Conforme

 

• Saint-Loup, Nouveaux cathares pour Monségur, Presses de la Cité, 1968; réédition Avalon, 1986.

 

• D’abord mis en ligne sur Cercle non conforme, le 17 novembre 2014.


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dimanche, 01 février 2015

"Bérézina" de Sylvain Tesson

En octobre 1812, piégé dans Moscou en flammes, Napoléon replie la Grande Armée vers la France. Commence La retraite de Russie, l’une des plus tragiques épopées de l’Histoire humaine.
La Retraite est une course à la mort, une marche des fous, une échappée d’enfer.Deux cents ans plus tard, je décide de répéter l’itinéraire de l’armée agonisante, de ces cavaliers désarçonnés, de ces fantassins squelettiques, de ces hommes à plumets qui avaient préjugé de l’invincibilité de l’Aigle. Il ne s’agit pas d’une commémoration (commémore-ton l’horreur ?), encore moins d’une célébration, il s’agit de saluer par-delà les siècles et les verstes, ces Français de l’an XII aveuglés par le soleil corse et fracassés sur les récifs du cauchemar.Le géographe Cédric Gras, le photographe Thomas Goisque et deux amis russes, Vassili et Vitaly, sont de la partie. Pour l’aventure, nous enfourchons des side-cars soviétiques de marque Oural. Ces motocyclettes redéfinissent en permanence les lois élémentaires de la mécanique. Rien ne saurait les arrêter (pas même leurs freins). Notre escouade se compose de trois Oural, chargées ras la gueule de pièces détachées et de livres d’Histoire.Au long de quatre mille kilomètres, en plein hiver, nous allons dérouler le fil de la mémoire entre Moscou et Paris où l’Empereur arrivera le 15 XII 1812, laissant derrière lui son armée en lambeaux.Le jour, les mains luisantes de cambouis, nous lisons les Mémoires du général de Caulaincourt. Le soir, nous nous assommons de vodka pour éloigner les fantômes.À l’aube, nous remettons les gaz vers une nouvelle étape du chemin de croix. Smolensk, Minsk, Berezina, Vilnius : les stèles de la souffrance défilent à cinquante à l’heure. Partout, nous rencontrons des Russes qui ne tiennent aucune rigueur à l’Empereur à bicorne.Sous nos casques crénelés de stalactites, nous prenons la mesure des tourments des soldats et nous menons grand train ce débat intérieur : Napoléon était-il un antéchrist qui précipita l’Europe dans l’abîme ou bien un visionnaire génial dont le seul tort fut de croire qu’il suffisait de vouloir pour triompher, et que les contingences se pliaient toujours aux rêves ?Mais très vite, nous devons abandonner ces questions métaphysiques car un cylindre vient de rendre l’âme, la nuit tombe sur la Biélorussie et trois foutus camions polonais sont déjà en travers de la route.
L’AUTEURSylvain Tesson est un écrivain voyageur. Il est le fils de Marie-Claude et Philippe Tesson. Géographe de formation, il effectue en 1991 sa première expédition en Islande, suivie en 1993 d’un tour du monde à vélo avec Alexandre Poussin. C’est là, le début de sa vie d’aventurier. Il traverse également les steppes d’Asie centrale à cheval avec l’exploratrice Priscilla Telmon. Il publie alors L’immensité du monde. En 2004, il reprend l’itinéraire des évadés du goulag et publie L’Axe du Loup, un périple qui l’emmène de la Sibérie jusqu’en Inde à pied. Avec Une vie à coucher dehors, Petit traité sur l’immensité du monde, Dans les forêts de Sibérie (Prix Médicis essai 2011) et un recueil de nouvelles S’abandonner à vivre, font de Sylvain Tesson un auteur reconnu par la critique et apprécié par le public.

"Bérézina" de Sylvain Tesson

Ex: http://zentropa.info

En octobre 1812, piégé dans Moscou en flammes, Napoléon replie la Grande Armée vers la France. Commence La retraite de Russie, l’une des plus tragiques épopées de l’Histoire humaine.

La Retraite est une course à la mort, une marche des fous, une échappée d’enfer.
Deux cents ans plus tard, je décide de répéter l’itinéraire de l’armée agonisante, de ces cavaliers désarçonnés, de ces fantassins squelettiques, de ces hommes à plumets qui avaient préjugé de l’invincibilité de l’Aigle. Il ne s’agit pas d’une commémoration (commémore-ton l’horreur ?), encore moins d’une célébration, il s’agit de saluer par-delà les siècles et les verstes, ces Français de l’an XII aveuglés par le soleil corse et fracassés sur les récifs du cauchemar.

Le géographe Cédric Gras, le photographe Thomas Goisque et deux amis russes, Vassili et Vitaly, sont de la partie. Pour l’aventure, nous enfourchons des side-cars soviétiques de marque Oural. Ces motocyclettes redéfinissent en permanence les lois élémentaires de la mécanique. Rien ne saurait les arrêter (pas même leurs freins). Notre escouade se compose de trois Oural, chargées ras la gueule de pièces détachées et de livres d’Histoire.
Au long de quatre mille kilomètres, en plein hiver, nous allons dérouler le fil de la mémoire entre Moscou et Paris où l’Empereur arrivera le 15 XII 1812, laissant derrière lui son armée en lambeaux.

Le jour, les mains luisantes de cambouis, nous lisons les Mémoires du général de Caulaincourt. Le soir, nous nous assommons de vodka pour éloigner les fantômes.
À l’aube, nous remettons les gaz vers une nouvelle étape du chemin de croix. Smolensk, Minsk, Berezina, Vilnius : les stèles de la souffrance défilent à cinquante à l’heure. Partout, nous rencontrons des Russes qui ne tiennent aucune rigueur à l’Empereur à bicorne.
Sous nos casques crénelés de stalactites, nous prenons la mesure des tourments des soldats et nous menons grand train ce débat intérieur : Napoléon était-il un antéchrist qui précipita l’Europe dans l’abîme ou bien un visionnaire génial dont le seul tort fut de croire qu’il suffisait de vouloir pour triompher, et que les contingences se pliaient toujours aux rêves ?
Mais très vite, nous devons abandonner ces questions métaphysiques car un cylindre vient de rendre l’âme, la nuit tombe sur la Biélorussie et trois foutus camions polonais sont déjà en travers de la route.

L’AUTEUR
Sylvain Tesson est un écrivain voyageur. Il est le fils de Marie-Claude et Philippe Tesson. Géographe de formation, il effectue en 1991 sa première expédition en Islande, suivie en 1993 d’un tour du monde à vélo avec Alexandre Poussin. C’est là, le début de sa vie d’aventurier. Il traverse également les steppes d’Asie centrale à cheval avec l’exploratrice Priscilla Telmon. Il publie alors L’immensité du monde. En 2004, il reprend l’itinéraire des évadés du goulag et publie L’Axe du Loup, un périple qui l’emmène de la Sibérie jusqu’en Inde à pied. Avec Une vie à coucher dehors, Petit traité sur l’immensité du monde, Dans les forêts de Sibérie (Prix Médicis essai 2011) et un recueil de nouvelles S’abandonner à vivre, font de Sylvain Tesson un auteur reconnu par la critique et apprécié par le public.

jeudi, 29 janvier 2015

Livr'Arbitres, 6 février, Paris

mardi, 27 janvier 2015

Culture and “engagement”: French and English perspectives

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Culture and “engagement”: French and English perspectives

by Adrian Davies

Ex: http://www.traditionalbritain.org

Adrian Davies critiques artistic and cultural involvement on the Right in England and France.

 

A talk by Adrian Davies to the Traditional Britain Group on 18th October 2014

This morning I shall talk to you about differing perspectives upon the involvement of artists and writers in politics in France and England. Why France and England? Partly because it is necessary to keep this talk in some bounds, partly because I know a little more about the relationship between high culture and low politics in France than in Germany or Italy or Spain, and will stick to what I know, often a prudent course.

The concept of “engagement”

Jean-Paul Sartre is at first blush an odd choice to cite at a rightist meeting, but on further consideration, he is a strange hero for the left. After 1940, he did not merely accommodate himself to prevailing circumstances, which might be unheroic, but very human, rather he appears thoroughly to have enjoyed himself: “We were never so free as under the occupation.” Not a sentiment that would have endeared him to post-war bien pensant opinion.

But I am not here to discuss Sartre’s life, his works, his politics or even his philosophy in general, interesting though all those subjects might be, but only his idea of engagement, which I shall loosely but not I think inaccurately translate as commitment.

Engagement as a philosophy suggests that the exponents of high culture, whether in literature, music or the visual arts should by no means think themselves above and hold themselves aloof from politics.

This is not an universally accepted view. Théophile Gautier, famous for advocating l’art pour l’art, art for art’s sake, vividly expressed the contrary view in the preface to his story Mademoiselle de Maupin: «Il n’y a de vraiment beau que ce qui ne peut servir à rien, tout ce qui est utile est laid.» “Only that which has no practical purpose can be truly beautiful. Whatever is useful is [also] ugly”.

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Les Néréides de Théophile Gautier

But while I greatly admire Gautier as a literary figure, he was exaggerating, perhaps for effect, perhaps in reaction to the romantic movement, which had been much preoccupied with political questions.

The romantics were caught up in the nationalist movement that transformed European politics in the nineteenth century, moving away from earlier dynastic and denominational models of the state to the ideal of the nation state, about which I have to say that I am less enthusiastic now than once I was. The reasons why would involve a digression that I must resist with a thirty minute slot, though as we mark the centenary of the horrors of 1914, they are not so difficult to guess, and I shall touch upon them briefly when I speak about one of the great French literary exponents of engagement in the early part of the 20th century, Maurice Barrès.

The arch-romantic, Victor Hugo, certainly demonstrated how different French thought is from Anglo-Saxon liberalism, which has for too long placed the liberty of the individual above the common good, in the immortal words of the hero of Les Misérables, Enjolras: citoyen, ma mère, c’est la république! “Citizen, the state is my mother”.

I do not think that Randians would applaud this sentiment, but then I sometimes think that for the English classical liberal, Ezra Pound’s reproach to the business class in the closing lines of the famous 38th Canto “faire passer ses affaires avant celles de la nation” “putting your own interests before those of the nation” appears to be not blameworthy, but a natural right.

The Parnassians returned to classical models in reaction to romanticism, but in this respect their classicism scarcely reflects the ancient world, where Virgil and Horace were fulsome in their praise of Augustus’ vision of Rome, echoing a time long before them, when Simonides, who was not a Spartan, launched the cult of things Lacadaeomian with his epitaph upon the Spartan dead at Thermopylae.

Indeed, they themselves were the exponents of an ideology of a kind:

«Le culte du travail est l’un des éléments fondamentaux du parnasse. Il est souvent comparé au sculpteur ou au laboureur qui doit transformer une matière difficile, le langage, en beau par et grâce à un patient travail.

«Chez Lemerre, on observe la vignette d’un paysan avec inscrit au-dessus : «Fac et Spera », ce qui signifie : « agis et espère ». Cela témoigne de la volonté d’atteindre la perfection, en remettant vingt fois sur le métier son ouvrage, atteindre la perfection grâce à un patient et long travail.»

“The cult of work is an essential element of what it means to be a Parnassian writer. The writer is often compared with the sculptor or craftsman, who has to transform a difficult raw material, language into something beautiful by patient work.

“Lemerre made a vignette of a peasant inscribed fac et spera, which means, ‘act and hope’. It bears witness to the will to attain perfection by essaying the work in hand twenty times over so as to attain perfection by a long, patient effort.”

We are much indebted to the heretical Italian Communist Gramsci for the valuable idea of hegemony and the mastery of discourse in the world of ideas.

Gramsci may have been a hideously ugly, grotesquely misshapen dwarf, but when he expired in one of Mussolini’s insalubrious gaols, the world lost an original thinker, who, rather ironically, would most certainly have suffered a similar or worse fate in the Gulag, had he succeeded in fleeing to the Soviet Union.

For all its supposed love of non-conformity, the world of high culture is no less susceptible to fashion and to hegemonistic discourse than low politics.

By way of example, I well recall seeing the marvellous retrospective on Jean-Léon Gérome at the Getty Centre in Los Angeles 2010 - as the cataloguist frankly admitted, a far more gifted painter than most of the impressionists but long neglected because his extreme neo-classicism in both style and subject matter did not conform to the vogue for the impressionists that had become received thinking in the art world by the end of the 19th century.

Naturally this tendency is redoubled when art serves a political cause outside the narrow parameters of permitted debate under totalitarian liberalism, which is not a contradiction in terms, but a correct description of the soft tyranny under which we live.

A very vivid example that I remember was the astonishing exhibition called Art and power: Europe under the dictators at the Hayward Gallery so long ago, I shudder to realise (tempus fugit!) as 1995. Much of the art then on display has merit, but it is not generally shown, because it served ideologies that differ from bourgeois liberalism, and is condemned on that account, regardless of its intrinsic merit, which of course involves a tacit denial of the concept of intrinsic merit.

Nor is it only Fascist or National Socialist art that has disappeared down the memory hole, or at least been veiled from public view except on special occasions, such as the Hayward exhibition.

The official art of the Soviet Union is not viewed with favour in the West to-day, because it followed the representative tradition, which has been derided by self-styled cognoscenti since the days of the Impressionists, as I have noted.

Yet Socialist Realism in art and literature had many merits. Even Joseph Stalin was not wrong about everything. Modern western commentators generally assume not only that Stalin was wrong to interfere with artistic freedom by compelling Shostakovich to recant his atonalist tendencies and return to a more classical style of composition, and more fundamentally that Stalin’s criticisms of the score of Lady Macbeth of the Mtsensk District (1934) betray a lack of taste on the Vozhd’s part. Yet Stalin had watched the opera with careful attention, and his criticisms of the music are not lightly to be dismissed.

For myself, whatever Stalin’s terrible crimes, amongst the very worst of all times, still I am with the Vozhd on that question, and generally approve of the conservative tendencies in art, literature and music that were increasingly manifest under his rule.

More damaging even than the liberal hegemony of aesthetics is the liberal hegemony of discourse that would, if it only could, altogether exclude from the literary canon the great writers of the twentieth century in support of the lying fable that artists, writers and intellectuals are predominantly if not exclusively of the left.

barr281028232.pngThis lie is manifestly not sustainable for French literature, where engagement in politics was as common on the right as on the left. The names of Maurice Barrès and Charles Maurras will certainly live for so long as there is a French nation. Both attained the highest levels of literary aesthetic, though neither is nor should be immune from criticism. Maurice Barrès’s desire to see his native Lorraine returned to France led him to impassioned public support of the bloodshed of the First World War that won him the terrible sobriquet of le rossignol des carnages (the nightingale of carnage), and was not an advert for nationalism, while Maurras wished to see an end to the Republic, but failed to provide decisive leadership at a crucial moment in February 1934, when the conjunction of political circumstances was favourable to his wishes, so demonstrating that he was not the man of destiny that his followers thought him.

I need say no more about the literature of collaboration than to observe that some of the greatest writers of the time were committed collaborators. Some, such as Brasillach, who was executed, and Drieu La Rochelle, who succumbed to depression and committed suicide, paid for their engagement with their lives, others, such as Céline, whose extremism embarrassed even the Germans, were capriciously amnestied and continued with their writing after the Second World War, quite unrepentant.

But it would be a mistake to think that writers and artists of the right were not to be found in England and the English speaking world.

Wyndham Lewis

Of Canadian and American parentage, Wyndham Lewis studied art in Paris in the early years of the 20th century. He was one of the leaders of the so-called Vorticist movement in art, and served with honour in the First World War as an artillery officer, seeing action in the third battle of Ypres and amongst his Canadian compatriots on the Vimy ridge. He was made an official war artist and stayed in the front line to sketch out what would become his canvasses.

Happily he survived the war less traumatised than many, and combined painting with writing in the interwar years.

It is certainly remarkable that just as Wyndham Lewis reached the peak of his creativity and success as a portraitist, he also became a force to be reckoned with in literature, notably with his satirical novel, The Apes of God, mocking the Bloomsbury Set to which he had at first been attracted, but with which he had eventually broken.

There was a strong, even strident political theme in his writing. He vehemently opposed the left wing orthodoxy that already dominated intellectual circles in the 1930s. Probably his best novel, The Revenge for Love (1937) set in the period leading up to the Spanish Civil War, expressed utter loathing for the Communists in Spain and profound contempt for their British and fellow-travellers, while his painting the Surrender of Barcelona celebrates the nationalist victory, not a politically correct theme at all.

He thought little of post-war Britain, his last major work entitled Rotting Hill "the capital of a dying empire." That was 1952. What he would think of the degenerate stew of modern London passes even my imagining.

Roy Campbell

roycampbell.jpgWhile undoubtedly the Republican side in the Spanish Civil War attracted more writers and artists than did the cause of national Spain, there were some notable supporters of the Francoist cause. Unsurprisingly Ezra Pound was parti pris on the right side. Pound merits a whole talk of his own and I will not attempt the hopeless task of precising his life and work in the time available to me this afternoon. I will however mention Roy Campbell.

Campbell, a South African poet and sometime friend of Laurie Lee of Cider with Rosie fame. Campbell, a Catholic convert, was one of the few literary figures strongly engaged on the Nationalist side. Methuen published his long poem, the Flowering Rifle, the author’s foreword to which would certainly not be published by any main stream publisher to-day, so much less free is the England of 2014 than the England of 1939.

“Humanitarianism invariably sides where there is most room for sentimental self-indulgence in the filth or famine of others. It sides automatically with the Dog against the Man, the Jew against the Christian, the black against the white, the servant against the master, the criminal against the judge. It is a form of moral perversion due to overdomestication, protestantism (sic) gone bad”.

Just in case you have not got the picture, the foreword concludes ¡Viva Franco! ¡Arriba España!

Interestingly, Laurie Lee was visiting Campbell in Toledo when the war in Spain broke out. Lee, shocked by the poverty of the Andalusian peasantry, fought in the International Brigades, but Campbell, horrified by the Communist massacres of the clergy of Toledo, made propaganda for Franco. In such ways do the same events affect even friends differently.

Campbell was a staunch anti-Nazi, who went on to fight in the British Army in the Second World War, but still could not work his passage back into literary London afterwards. “It made no difference that one fought as willingly against Fascism as one had done against Bolshevism previously” he complained. “Even if you killed ten times as many Fascists as you had previously killed Bolsheviks in self-defence, you still remained a Fascist”.

Given the tone of the foreword to the Flowering Rifle, it is surprising that he thought that he might be forgiven in the post-1945 climate.

Henry Williamson

lettres,lettres françaises,lettres anglaises,littérature,littérature française,littérature anglaiseHenry Williamson was another author who was deeply politically engaged in the most controversial way, but whose reputation has been somewhat sanitised by excessive focus on his nature writing, especially his great success, Tarka the Otter, rather than his deeply political and semi-autobiographical cycle of novels A Chronicle of Ancient Sunlight. It tells the story of his South London boyhood, his experiences at the front in the First World War veteran, and his progressive evolution into that apparent contradiction in terms, a pacifiist and a fascist, and his complex relationship with Sir Oswald Mosley, an idealised version of whom appears as Sir Hereward Birkin, the leader of the Imperial Socialist Party, based on the British Union of Fascists.

Williamson is a curious example of a green fascist, but he was not the first: that distinction surely belongs to William Henry Hudson, born in Argentina of British stock, who went on to become the most significant English language writer on South America, the first to espouse green issues, almost a century before Silent Spring.

Hudson was also an unrepentant apologist for the proto-fascist and archetype of the charismatic caudillo, General Rosas, who ruled Argentina with an iron hand for nineteen years, and is, with his twentieth century equivalent, General Peron, still dear to the hearts of the common people of that far away land, unlike most of their rulers.

But the story of the proto-green and the great caudillo is too long and too interesting to tell in the short time remaining, so I will tell it another day.

Content on the Traditional Britain Blog and Journal does not necessarily reflect the opinions of The Traditional Britain Group

dimanche, 25 janvier 2015

Ernst Jünger: vivre par les armes et les mots

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Ernst Jünger: vivre par les armes et les mots

La guerre est synonyme de souffrance et de désolation et les hommes de 14 sont les victimes de la barbarie moderne. Cent ans ont passé depuis le début de la Grande Guerre et cette opinion est aujourd’hui largement partagée ; elle anime l’esprit des discours et les cérémonies de commémoration. En Allemagne comme en France, Ernst Jünger incarne tout ce que notre Europe moderne et pacifiée ne souhaite plus voir et rejette, tout ce qu’elle a en horreur : un soldat, incarnation de cette culture martiale européenne aujourd’hui disparue, un guerrier devenu écrivain dont une grande partie de l’œuvre puise son inspiration dans les quatre années passées dans la boue et la fureur des tranchées du nord de la France.

L’œuvre de Jünger est vaste ; elle parcourt le XXème siècle, ses tourments et ses drames. Elle interroge sur les forces nihilistes à l’œuvre chez l’homme et dont l’écrivain ressentit le caractère destructeur au plus profond de sa chair, lui le guerrier blessé quatorze fois au front. Après quatre années de guerre, il est l’officier le plus décoré de l’armée allemande. Dans son premier livre, Orages d’acier, écrit dès son retour à la vie civile, il relate cette expérience inouïe de l’homme plongé au cœur de masses destructrices. À sa lecture, on s’immerge dans ce quotidien des tranchées, où alternent morne routine et actes de guerre effarants. La description des combats est précise, sans état d’âme, dépassionnée et parfois, presque esthétisante. Loin du pacifisme d’Erich Maria Remarque dans À l’ouest, rien de nouveau, l’auteur semble vivre cette guerre comme une opportunité unique de vivre ses rêves de gloire et d’aventure, forgé par une enfance bercée de héros mythologiques grecs et germaniques. Face à la fureur du feu, Jünger pour ne pas subir son destin, livré aux hasards de la guerre moderne, décide d’en devenir le maître. Par instinct de survie, pour ne pas être tué, il décide de devenir, lui même, un tueur, mais cette mort, il la veut sans haine, dans le respect de l’adversaire.

À l’heure du pacifisme béat contemporain, les soldats de la Grande Guerre sont aujourd’hui considérés comme les tristes victimes de l’histoire et du nationalisme ; des pantins craintifs envoyés à l’abattoir par des généraux ivres de sang et par des nations avides de guerre. L’expérience militaire de Jünger nous offre une vision en miroir contraire. Il y apparaît maître de son destin, attaché à la noblesse du soldat, fier du combat qu’il mène avec un cœur irrigué par un patriotisme ardent. Malgré ses horreurs, la guerre devient à ses yeux l’aventure épique au sein de laquelle l’homme peut découvrir une voie vers l’élévation, et non pas seulement une mort abjecte dénuée de sens. La guerre devient alors une expérience intérieure presque mystique, et ce, malgré l’effondrement de la conscience qu’elle engendre au cœur des combats : « La grande bataille marqua aussi un tournant dans ma vie intérieure, et non pas seulement parce que désormais je tins notre défaite pour possible. La formidable concentration des forces, à l’heure du destin où s’engageait la lutte pour un lointain avenir, et le déchaînement qui la suivait de façon si surprenante, si écrasante, m’avaient conduit pour la première fois jusqu’aux abîmes de forces étrangères, supérieures à l’individu. C’était autre chose que mes expériences précédentes ; c’était une initiation, qui n’ouvrait pas seulement les repaires brûlants de l’épouvante. »

Jünger est à la fois horrifié et fasciné par cette guerre sans nulle autre pareille alors, mais son abjection lui apparaît comme un des reflets de l’âme humaine. Il prend conscience d’être à la charnière de deux mondes, de vivre un point de non-retour. « On ressentait (…) l’inéluctable engloutissement d’une civilisation, et l’on prenait conscience en frissonnant d’être entraîné dans le maelstrom. » Le monde bourgeois qu’il a connu jusqu’alors vole en éclats et son tempérament l’amène à vouloir œuvrer à l’élaboration du nouveau monde qui va le remplacer. Cette guerre devient la matrice de ce siècle encore neuf où, malgré le chaos ambiant, l’avenir est à conquérir et une nouvelle société à construire.

D’une guerre à l’autre

Il sort de cette guerre en héros, couvert de gloire dans une Allemagne affligée par la honte d’une défaite incomprise. Le jeune officier, qu’il est alors, devient alors une des nombreuses figures de la révolution conservatrice ; ce mouvement intellectuel né dans le foisonnement culturel de la République de Weimar axé sur une critique de la modernité, un rejet du système démocratique assorti d’une franche hostilité à la société capitaliste et à certaines de ses manifestations comme l’urbanisation, l’industrialisation, le matérialisme et la perte de spiritualité. On peut voir dans ce mouvement un terreau intellectuel au fascisme, qui en partage certaines valeurs, même si la plupart de ses figures éminentes se démarqueront du mouvement nazi.

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 Ainsi, la submersion hitlérienne ne suscite pas l’adhésion de ce patriote réfractaire à toutes formes d’idéologie. Il exècre en effet l’amoralité, la vulgarité et l’antisémitisme du régime nazi et entre alors dans une opposition passive : cette émigration intérieure théorisée par Franck Thiess. Hitler développe pourtant quant à lui une fascination pour Jünger, incarnation superbe du guerrier germanique fantasmé par la plupart des hiérarques du nouveau régime.

Fort de cette admiration qui le protège face à la Gestapo et la censure, il se permet l’audace de publier en 1939 Sur les falaises de marbre, un roman allégorique mettant en scène un monde imaginaire paisible et raffiné, submergé par le Grand Forestier, incarnation du mal brisant un monde d’harmonie. On y perçoit alors une condamnation du totalitarisme hitlérien. L’ouvrage devient alors un pamphlet antinazi pour de nombreux Européens même si ce livre présente une dimension intemporelle comme le souligne Julien Gracq : « Livre de tous les temps de catastrophe possible et passée. »

La guerre n’en a cependant pas fini avec lui. L’Europe s’embrase à nouveau et le contraint à revêtir l’uniforme pour une nouvelle guerre et pour un homme auquel il ne croit pas. Il est incorporé au sein des troupes d’occupation basées à Paris où il fréquente l’élite intellectuelle française. Le héros des tranchées exècre ce nouveau conflit et pense même à la désertion ou au suicide. Cette guerre ne lui apparaît plus comme source de gloire mais comme une tache qui ternit l’uniforme allemand d’une teinte de honte. Entre le jeune soldat avide de gloire de la Grande Guerre et l’officier mûr et assagi, stationné à Paris en 1940, le temps a modifié le regard. Il écrit alors : « le même uniforme, le même grade, mais un homme différent. »

La guerre comme élément naturel

Après 1945, son œuvre devient sinueuse et prolifique. Il théorise alors des concepts développés déjà avant-guerre. Il devient ainsi le théoricien d’une forme d’anarchisme propre à sa vision du monde. Jünger se passionne également pour l’entomologie et développe une pensée écologiste d’avant-garde mais loin d’entrer en contradiction avec sa pensée belliciste, celle-ci au contraire l’y conforte. Pour lui, la guerre s’inscrit entièrement dans l’ordre naturel, elle est gravée dans les gènes de l’humanité. C’est une utopie de s’y opposer car elle s’inscrit dans l’équilibre du monde : « La guerre n’est pas instituée par l’homme, pas plus que l’instinct sexuel ; elle est la loi de la nature. C’est pourquoi nous ne pourrons jamais nous soustraire à son empire. Nous ne saurions la nier sous peine d’être englouti par elle. »

Jünger traverse ce XXème siècle et atteint l’âge canonique de 102 ans pour s’éteindre après la réunification des deux Allemagne en 1998. Peu avant sa mort, l’homme suscite la polémique dans cette Allemagne entièrement pacifiste vouée à expier ce militarisme germanique, source pour de nombreux Européens de toutes les catastrophes du siècle. Pour ces raisons, il subit tout au long de ses ultimes années, l’attaque de la gauche et des verts allemands qui ne lui pardonnent pas son œuvre conservatrice et belliciste. En effet, dans une Europe en paix et démocratique, dont le poids sur les affaires internationales et la place dans l’histoire du monde s’atténuent toujours un peu plus, Jünger et son œuvre apparaissent comme vestiges d’un temps disparu et oublié, un temps où la guerre était acceptée comme inhérente aux affaires humaines et à la vie des nations.

jeudi, 22 janvier 2015

Schriftsteller Claude Cueni über die Schweiz

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Schriftsteller Claude Cueni über die Schweiz

«Es wird das Drama des verwöhnten Kindes»

Ex: http://www.blick.ch

Lasst uns über die Schweiz reden. Den Anfang macht Claude Cueni. Der Schriftsteller, todkrank, über Wohlstands-Verwahrlosung, verwöhnte Schweizer und die Angst der EU.

BLICK: Herr Cueni, Sie leben im Zwischenraum von Leben und Tod. Wie geht es Ihnen?
Claude Cueni: Gut, aber auf tiefem Niveau. Meine Blut- und Lungenwerte sind seit zwei Monaten stabil. Aber für weitere Organabstossungen gibt es nicht mehr viel Spielraum.

Bereiten Sie sich auf das Ende vor?
Ich liebe das Leben. Es gibt viele Dinge, die ich noch lernen möchte. Es gibt Romane, die ich noch schreiben will.

Exit ist kein Thema für Sie?
Ich habe mit Sterbehilfeorganisationen Gespräche geführt. Die Gewissheit, dass man im Notfall alles sofort beenden kann, ist eine grosse Erleichterung und hilft, den Alltag zu geniessen. Aber das ist zurzeit kein Thema.

cueni1,204,203,200_.jpgVerfolgen Sie noch die gesellschaftspolitische Entwicklung in unserem Land? Ecopop, Gold-Initiative und so fort? Oder wird einem dies in Ihrem Zustand egal?
Ich lese meistens ab Mitternacht auf dem iPad diverse Zeitungen, von nationalen Medien über Nachrichtenmagazine bis zur «South China Morning Post».

Reden wir über die Schweiz. Auch unser Land befindet sich in einem Zwischenraum: zwischen Masseneinwanderung und Nationalratswahlen 2015. Wo stehen wir?
Die Zahl der Wutbürger hat zugenommen. Viele Menschen sind verärgert, dass Abstimmungsresultate uminterpretiert und nicht umgesetzt werden.

Sie reden vom Vertrauensverlust gegenüber der Politik?
Genau. Doris Leuthard forderte kürzlich Vertrauen in die Politik. Aber Vertrauen muss man sich verdienen. Viele Politiker erwecken den Eindruck, sie hätten nur ein Ziel: die eigene Wiederwahl. Dafür versprechen sie den Wählern Leistungen, die man nur mit neuen Schulden finanzieren kann – seit 1971 der Ursprung aller Finanzkrisen.

Wie bitte?
Damals löste Nixon die Goldanbindung des Dollars, um den Vietnamkrieg mit neuem Papiergeld zu finanzieren. Später warfen linke und rechte Regierungen abwechselnd die Notenpresse an. Der Wähler bezahlt diese Geschenke teuer, weil die hemmungslose Verschuldung und Gelddruckerei seine Kaufkraft mindert, sein Altersguthaben schmelzen lässt. Jetzt spielt Brüssel, das Versailles von heute, mit der Papierpresse.

Das heisst, die politischen Eliten haben die Führungsfähigkeit der Gesellschaft verloren?
Die Verantwortung gegenüber dem Volk und dem Volksvermögen hat abgenommen. Viele Politiker denken wie François Hollande. Er sagte: «Das kostet nichts, das bezahlt der Staat.»

Früher gab es in der Schweiz moralische Autoritäten. Einen Max Frisch etwa oder einen Friedrich Dürrenmatt. In der Politik einen Willy Ritschard, einen Ulrich Bremi. Wo sind diese Köpfe heute?
Ich weiss es nicht. Ich bin aber sicher, dass es sie wieder geben wird.

cueni_henker.jpgDie Lebenskraft der Schweiz erlahmt?
Wir befinden uns seit Jahren in einem schleichenden Wirtschafts- und Währungskrieg. Die USA greifen die Schweizer Steueroase an und verteidigen gleichzeitig die Steueroase in Delaware, wo über eine Million Firmen Steuern sparen. Aber der Druck kommt nicht nur aus dem Ausland. Es ist nicht ganz frei von Ironie, dass ausgerechnet die Leute, die bisher am wenigsten zum Wohlstand der Schweiz beigetragen haben, bestrebt sind, die Vorteile der Schweiz ausser Kraft zu setzen.

An wen denken Sie konkret?
An die möglicherweise gut gemeinten, aber für die Schweiz destruktiven Initiativen, die wir derzeit erleben.

Eine Art Wohlstandsverwahrlosung?
Es ist das Drama des verwöhnten Kindes. Wir werden von der Geburt bis zum Tod betreut, bevormundet, infanti­lisiert und im Glauben gelassen, wir hätten ein Anrecht auf das absolute Glück in einem Fünf­sterne-Hotel. Müsste ich den Begriff Wohlstandsverwahrlosung mit einem Bild dokumentieren, würde ich das Foto nehmen, das die vergnügten Initianten des bedingungslosen Grundeinkommens auf einem Berg von Fünfräpplern zeigt. Wenn junge, gesunde Menschen Geld ohne Leistung fordern, ist das aus meiner Sicht eine Bankrotterklärung. Wenn Geldverdienen fast zum Offizialdelikt wird, hat der Sinkflug begonnen.

Sie haben international erfolgreiche Historienromane geschrieben. Stellen Sie sich vor, Sie schreiben im Jahr 2100 das Buch «Akte Schweiz – Ein Nachruf». Was stünde da drin?
Die Schweiz wird es auch im Jahre 2100 geben. Aber es wird keine AHV in der jetzigen Form mehr geben, und die Sozialsysteme werden verschwunden sein. Der niederländische König Willem-Alexander sagte, dass der Sozialstaat am Ende sei, alle müssten nun die Schulden der Vergangenheit abtragen. Erinnern Sie sich an den deutschen Sozialminister Norbert Blüm? Der lachte auf Litfasssäulen: «Die Renten sind ­sicher.» Kürzlich sagte er, die Renten seien doch nicht sicher.

Die EU beschäftigt die grösste Ansammlung von Politikern auf dem alten Kontinent. Worauf müssten wir uns hier einstellen?
Auf mehr Bürokratie, Verschwendung von Steuergeldern und weniger Demokratie. Sollte die EU im Jahre 2100 in der jetzigen Form noch bestehen, wird die Schweiz wohl Mitglied und wie jeder anfängliche Nettozahler auf EU-Niveau pulverisiert sein.

Und sonst?
Ich würde schreiben, dass die offizielle Schweiz in den letzten Jahrzehnten nicht mehr den Willen hatte, ihre Errungenschaften zu verteidigen, und diese deshalb verloren hat.

Sie sind 1956 im französischen Jura geboren. Erzählen Sie uns die Geschichte der Schweiz in der Gegenperspektive: Die reiche Schweiz und die letzten 50 Jahre auf dem Weg ins 21. Jahrhundert. Was fällt Ihnen dazu ein?
Geboren bin ich in Basel, aber ich habe die ersten Babyjahre im Jura verbracht. Die 68er-Bewegung hat die Gesellschaft nachhaltig umgekrempelt, aber die Freiheit, die man als Jugendlicher in den 70er-Jahren hatte, ist vorbei. Aids hat die sexuelle Revolution beendet, und ausgerechnet die einst so freiheitsliebenden 68er wollen heute die Gesellschaft mit einer Flut von Verboten und einer neuen Political Correctness umerziehen. Gesellschaftliche Regeln werden nach Gutdünken ausgelegt.

cueni-das_grosse_spiel.jpgDer politisch prägendste Kopf im Land, Christoph Blocher, pflegt die Schweizer Mythen wie kein Zweiter und bespielt die Illusion der totalen Unabhängigkeit. Was fällt Ihnen ein, wenn Sie über Schweizer Mythen von Tell, Morgarten oder Rütli nachdenken?
Wilhelm Tell ist ja aus nordischen Sagen entlehnt. Ich habe die Figur nie gemocht, denn als Vater würde ich nie im Leben meinem Sohn einen Apfel vom Kopf schiessen. Winkelried gefällt mir schon besser, weil sich jemand aufopfert für das Wohl der anderen. Vielleicht werden eines Tages Historiker schreiben, dass die Schweiz auf dem Gebiet der Einwanderung in Europa eine Winkelried-Funktion ausgeübt hat. Sie musste viele Diffamierungen einstecken, und heute diskutieren alle westeuropäischen Länder Varianten einer regulierten Zuwanderung. Irgendwann endet jede Ideologie und Romantik an den Grenzen der Realität.

Reden wir über den Islam. Eine Bedrohung für die westliche Welt? Ist die freiheitliche Welt zu faul, ihre Errungenschaften zu verteidigen?
Peter Scholl-Latour sagte, er fürchte nicht die Stärke des Islams, sondern die Schwäche des Westens. So ist es. Wir verkaufen unsere Schwäche als Toleranz, weil wir mehr zu verlieren haben als die IS-Terroristen.

Erleben wir die schöpferische Zerstörung der Schweiz?
Die Schweiz schafft sich ab, das könnte auch der Titel eines schweizerischen Bestsellers sein. Ich bin ja überzeugter Europäer, und 70 Prozent meiner Bekannten sind Ausländer, aber ich halte die EU für ein ehrenwertes politisches Konzept der Nachkriegsgeneration, das aber an der gemeinsamen Währung scheitern muss. Es ist unmöglich, eine Diät zu finden, die sowohl Magersüchtigen als auch Übergewichtigen hilft. Die Südländer gehen daran zugrunde, da sie keine nationale Währung mehr haben, die sie abwerten können. Ich wäre nicht erstaunt, wenn in den nächsten fünf Jahren das erste EU-Land aus dem Euro aussteigt.

Die Staatshörigkeit nimmt auch bei uns zu. Vollkasko-Mentalität?
Mag sein, dass dies eine der negativen Spätfolgen der 68er-Bewegung ist. Hotel Mama ist jetzt Papa Staat. Man ist für nichts mehr verantwortlich. Alleiniges Kriterium ist das narzisstische Wohlbefinden. Die Anspruchshaltung gegenüber Papa Staat ist mittlerweile enorm.

cueni.jpgAlso kein Happy End?
Es gibt nie ein Ende. Alles ist in Bewegung, Aufstieg und Fall von Kulturen und Nationen sind in der Geschichte alltägliche Prozesse. Ich sehe aber auch, dass ein Teil der Jugend sich gegen die momentane Entwicklung sträubt. Auch die Secondos sind eine Chance für die Schweiz. Als meine philippinische Ehefrau vor fünf Jahren erstmals in die Schweiz kam, war sie sprachlos. Sie konnte kaum fassen, dass es ein Land gibt, das derart gut organisiert ist, ein Land, das Eigentumsrechte und Meinungsfreiheit schützt, das Rechtssicherheit, Altersfürsorge und ein funktionierendes Gesundheitssystem garantiert. Als ich einmal am Küchentisch die Stimmzettel ausfüllte, konnte sie kaum glauben, dass jeder einzelne Bürger mehrmals im Jahr über Vorlagen mitentscheiden darf. 500 Millionen Europäer und die übrige Welt beneiden uns um die direkte Demokratie, aber Brüssel fürchtet sich davor.

Secondos als Medizin für depressive Schweizer Ureinwohner?
Durch die Augen der Secondos kann mancher Schweizer erkennen, wie gut unser Land, im Vergleich zu anderen Ländern, aufgestellt ist. Vergleicht man die wirtschaftlichen, sozialen und politischen Parameter, gehört die Schweiz weltweit zur Spitze. Von daher ist es für mich nicht ganz nachvollziehbar, wieso sich einige Gruppierungen an den Rockzipfel der hoch verschuldeten EU hängen wollen. Wenn erst mal das Bargeld in Europa limitiert oder ganz abgeschafft ist, wird es für Brüssel ein Leichtes sein, 500 Millionen Europäer übers Wochenende per Mausklick zu enteignen.

Zypern und Spanien waren Versuchsballone. Es hat funk­tioniert. Die Verschuldungskrise ist nur noch durch eine Teil­enteignung des Volkes lösbar. Und ich möchte nicht, dass mein mühsam Erspartes in die Taschen von Politikern fliesst, deren Länder sich durch Korrup­tion und Disziplinlosigkeit im Haushalt auszeichnen.

Wo wäre der Ausweg?
Jede Bewegung löst eine Gegenbewegung aus. Ich sehe das Ganze nicht so pessimistisch. Ich hoffe, dass es eine neue Art der Aufklärung geben wird. Denn alle linken und rechten Ideologien sind in und an der Realität gescheitert. Solange wir uns aber gegenseitig mit Schlagworten und reflexartigen Diffamierungen einen Maulkorb umhängen, wird es keinen Fortschritt geben. Für eine neue Aufklärung braucht es offene Diskussionen ohne Tabus.

Seit 1989, dem Mauerfall, dem Zusammenbruch der Sowjetunion, haben wir Globalisierung. Überfordert sie uns?
Der Kalte Krieg war im Nach­hinein ein grösserer Garant für den Frieden in Europa als das heutige Vakuum. José Manuel Barroso, Ex-Präsident der EU-Kommission, nannte einmal die EU ein Imperium, aber jedes Imperium versucht, seine Aussengrenzen zu schützen, indem es die Grenzen ausweitet. An der Grösse sind nicht nur das römische Imperium und das napoleonische Imperium gescheitert. Jedes Imperium erreicht eines Tages seinen Zenit und beginnt den Sinkflug. Ich glaube nicht, dass die Globalisierung die Schweiz überfordert, aber man müsste die Globalisierung bei der Schulbildung stärker berücksichtigen. Zum Beispiel müsste Englisch landesweit die Zweitsprache sein. Englisch ist eine Voraussetzung, um global erfolgreich zu sein. Das gilt sogar für Schriftsteller.

Wann hat die Schweiz ihre Mitte verloren?
Mitte des 19. Jahrhunderts arbeiteten die Menschen noch bis zu 16 Stunden täglich in unbelüfteten Fabriken, auch Kinder mussten arbeiten, viele Menschen wurden krank, es herrschte ein rücksichtsloser Kapitalismus. In dieser Zeit wäre ich bestimmt Kommunist geworden. Nach dem Krieg haben Sozialisten und Sozialdemokratie wichtige gesellschaftliche Verbesserungen im sozialen Bereich erzielt. Aber was will man einem mittlerweile verwöhnten Kind heute noch bieten?

Gute Frage.
Den ausgebeuteten Fabrikarbeiter des 19. Jahrhunderts gibt es nicht mehr. Also versucht man die Klientschaft mit immer unsinnigeren Dienstleistungen zu ködern. Mit der durchaus edlen Absicht, die absolute Gerechtigkeit zu etablieren, hat man einen gigantischen bürokratischen Apparat errichtet, der die Gesellschaft in immer kleinere Gruppen dividiert, die man nun einzeln pflegen muss. Wir haben die Verhältnismässigkeit verloren.

Nehmen wir an, Sie könnten für ­einen Roman nur aktuell lebende einheimische Figuren verwenden – wen könnten Sie brauchen?
Christoph Blocher und Cédric Wermuth wären gesetzt. Vielleicht eine dramatische Vater-Sohn-Beziehung. Cédric gebe ich Natalie Rickli zur Freundin, eine Amour fou, aber getrübt von ideologischen Differenzen. Vielleicht Peach Weber als Guest-Star. Dann brauche ich eine starke weibliche Rolle mit Migrationshintergrund, sonst gibts keine Filmförderung.

Wäre ein neuer Roman möglich? Wie viel Zeit bleibt Ihnen?
Mein Zustand ist wie gesagt stabil, aber das kann sich von Woche zu Woche ändern. Mit dieser Unsicherheit muss ich leben. Im Frühjahr erscheint mein historischer Roman «Giganten». Ich hatte ihn bereits vor zwei Jahren beendet, aber zugunsten von «Script Avenue» zurückbehalten. «Script Avenue» ist mit Abstand mein bestes und wichtigstes Buch. Zurzeit arbeite ich an einem neuen Roman.

Aus einer solchen Heimat Abschied nehmen zu müssen – ist das schmerzhaft?
Die Dankbarkeit überwiegt den Schmerz. Ich bin dankbar, dass ich in der Schweiz geboren bin. Ich bin dankbar, dass die Hämatologie des Unispitals Basel seit fünf Jahren alles unternimmt, damit ich meinen Humor nicht ganz verliere. Ich denke auch an den anonymen Knochenmarkspender, der ohne Aussicht auf Dank oder Entgelt einem wildfremden Menschen mit seinen Blutstammzellen das Leben verlängert hat. Wenn ich nachts Schmerzen habe, schaue ich mir oft die DVD «Swissview» an, den lautlosen Flug über die schweizerische Berg- und Gletscherwelt, und staune und bin sehr berührt von der Schönheit der Natur. In solchen Nächten ist es nicht einfach. Dann setze ich mich an den Computer und tauche in meine Geschichten ab. Dort gibts meistens viel zu lachen, denn dort bin ich der Chef.

PENSAMIETOS Y PERSPECTIVAS TOLKIEN

PENSAMIETOS Y PERSPECTIVAS TOLKIEN

Estimados amigos, 

 
A continuación os adjunto el vídeo de la presentación del libro "TOLKIEN: Redescubriendo el lenguaje del mito y la aventura", del cual soy co-autor, espero que sea de vuestro agrado.
 
 
Recibid un afectuosos saludo, 
 
Manuel Quesada
Editorial EAS - editorialeas@gmail.com 

mercredi, 21 janvier 2015

Houellebecq: interview pour "La Nacion"

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MICHEL HOUELLEBECQ : «L’ISLAMOPHOBIE N’EST PAS UNE FORME DE RACISME»
 
Interview pour La Nación, Buenos Aires

Sylvain Bourmeau
Ex: http://metamag.fr

L’auteur des “particules élémentaires” a, de nouveau, mis le doigt dans la plaie, avec un livre de fiction qui aborde le futur de la France et le rôle de l’Islam. Soumission, son sixième roman, se déroule en 2022. La France vit dans la peur. Le pays est agité à cause de mystérieux problèmes. Les médias, volontairement, occultent la violence urbaine quotidienne. Tout est étouffé, le public est laissé dans l’obscurité et, en quelques mois, le chef d’un parti musulman récemment crée est élu président. La nuit du 5 juin, lors d’une segonde élection, la première ayant été annulée pour fraude caractérisée, Mohammed Ben Abbes sort vainqueur face à Marine Le Pen grâce à l’appui tant de la gauche que de la droiteLe lendemain, les femmes abandonnent les vêtements occidentaux. La majorité commence par utiliser de grandes tuniques de coton au-dessus de leurs pantalons ; réagissant positivement aux indications du gouvernement, elles quittent massivement leurs emplois. Le chômage masculin baisse rapidement du jour au lendemain. Dans les quartiers autrefois dangereux les crimes deviennent rares. Les universités adoptent la référence islamique. Les professeurs qui ne se convertissent pas en signe de soumission au nouveau régime n’ont d’autre possibilité que la retraite anticipée. 

La Naciòn : Pourquoi l’avez vous écrit ?

Michel Houellebecq :Pour diverses raisons. En premier lieu, c’est tout simplement mon travail, quoique le mot ne me plaise pas. J’ai observé de grands changements lorsque je suis revenu m’installer en France, quoique ces changements ne soient pas spécifiquement français mais occidentaux en général. La seconde raison est que mon athéisme n’a pas survécu à la quantité de morts auxquels j’ai été confronté. De fait, cela a commencé à me paraître insoutenable. 

La mort de votre chien, de vos parents ?

Oui, ce furent beaucoup de choses en peu de temps. Un élément est peut-être que, contrairement à ce que je pensais, jamais je ne fus totalement athée. J’étais agnostique. Normalement, ce qualificatif sert de paravent à l’athéisme, mais cela ne me paraît pas être exact dans mon cas. Au vu de tout ce que je sais aujourd’hui, lorsque je réexamine la question de l’existence ou non d’un créateur, d’un ordre cosmique, ce genre de choses, je me rends compte que ma seule certitude est de ne pas avoir de réponse.

Comment définiriez-vous ce roman ? 

L’expression de politique fiction n’est pas mal. Je ne pense pas avoir lu beaucoup de romans du même type, parfois j’en ai lu, mais plus dans la littérature anglaise que française.

A quelles œuvres pensez-vous ?

A certains livres de Conrad ou de John Buchan. A des ouvrages plus récents aussi, des thrillers, mais pas aussi bons. Un thriller peut se dérouler dans un cadre politique, pas seulement dans le monde des affaires. Mais il existe une troisième raison à la rédaction de ce roman : j’aimais la manière dont il débutait. J’écrivis la première partie, jusqu’à la page 26, d’un trait. Je la trouvais très convaincante, car il m’est très facile d’imaginer un étudiant rencontrant un ami dans le personnage de Huysmans auquel il dédie alors sa vie. Cela ne m’est pas arrivé. J’ai lu Huysmans beaucoup plus tard, lorsque j’avais quasiment 35 ans je crois, mais vraiment il m’aurait beaucoup plu de le lire. Je crois qu’il aurait été pour moi un véritable ami. De sorte qu’après avoir rédigé ces 26 pages, je n’ai plus rien fait de quelques temps. C’était en janvier 2013 et j’ai repris le texte cet été. Mais à l’origine le projet était différent. Il n’allait pas s’appeler Soumission ; le premier titre était La Conversion. Dans le projet originel, le narrateur se convertissait aussi mais au Catholicisme. Ce qui signifie qu’un siècle après Huysmans, il suivait la même voie, puisque Huysmans abandonne le naturalisme pour devenir catholique. Mais j’ai été incapable de réaliser le projet. 

Pourquoi ?

Ça ne collait pas. Selon moi, la scène essentielle du livre se trouve au moment où le narrateur jette un œil à la Vierge Noire de Rocamadour, ressent un pouvoir spirituel, un peu comme des vagues, et soudain elle disparaît dans le passé et lui retourne au parking, seul et désespéré.


Le livre est-il un roman satirique ?

Non. Sincèrement, il est possible qu’une petite partie du livre se moque des journalistes politiques et des hommes politiques aussi. Mais les personnages principaux ne sont pas ridiculisés. 

D’où tenez-vous l’idée d’une élection présidentielle en 2022 dont les protagonistes seraient Marine Le Pen et le chef d’un parti musulman ?

Marine Le Pen me paraît une candidate plausible pour 2022 et peut-être même pour 2017. Le parti musulman c’est différent. Là se trouve le noyau dur du problème, là se trouve la vérité. J’ai essayé de me placer du point de vue d’un musulman et me suis rendu compte qu’ils étaient dans une situation totalement schizophrénique. En général, les musulmans ne s’intéressent pas aux thèmes économiques. Leurs préoccupations sont plutôt sociétales. Sur ces questions ils se situent très loin de la gauche et des verts. Il suffit de penser au mariage homosexuel pour comprendre ce que je veux dire. Mais cela s’applique à une grande quantité d’autres thèmes. On ne voit pas non plus de raisons pour qu’ils votent en faveur de la droite, ou de l’extrême droite qui n’en veut pas. Aussi, lorsqu’un musulman veut voter, qu’est-il censé devoir faire ? La vérité est qu’il se trouve dans une situation impossible. Il n’a aucune représentation. Ce serait une erreur de dire que sa religion n’a aucune conséquence politique. En réalité il y en a. Il y en a aussi pour les catholiques même si ces derniers ont été plus ou moins marginalisés. Pour toutes ces raisons il me paraît que l’idée d’un parti musulman est très réaliste. 


Mais de là à imaginer qu’un parti de ce type puisse être en mesure de gagner des élections présidentielles dans 7 ans…

Je suis d’accord, ce n’est pas très réaliste. Pour deux raisons, en réalité. D’abord, et cela est le plus difficile à imaginer, les musulmans devraient apprendre à s’entendre entre eux. Pour cela, il faudrait quelqu’un d’extrêmement intelligent et doté d’un immense talent politique, qualités que je prête à mon personnage Ben Abbes. Mais un talent extraordinaire, par définition, est rare. Et même en supposant que ce personnage existât et que le parti montât en puissance, cela demanderait plus de 7 ans. Si on observe l’action des frères musulmans, on constate des réseaux régionaux, des œuvres sociales, des centres culturels, des lieux de prière, des centres de vacances, des services de soins, quelque chose qui ressemble à ce qu’avait fait le parti communiste. Je dirais que dans un pays où la pauvreté se répand, ce parti pourrait attirer des gens au-delà du musulman “moyen” si je peux l’appeler ainsi, puisqu’en réalité il n’existe pas aujourd’hui de musulman moyen depuis qu’on observe la conversion à l’Islam de personnes qui ne sont pas d’origine nord-africaine. Mais un processus de ce type demanderait plusieurs décennies. Le sensationalisme des médias joue en réalité un rôle négatif. Par exemple, ils ont aimé l’histoire du "type" qui vivait dans un village de Normandie, qui était “de souche”, qui ne venait pas d’une famille décomposée et qui s’est converti puis est parti en Syrie pour participer à la guerre sainte. Il est raisonnable de penser que pour chaque "type" qui se comporte ainsi il s’en trouve des douzaines d’autres qui ne font rien de semblable. Après tout, on ne fait pas la guerre sainte pour s’amuser, cela ne concerne que les individus qui sont suffisamment motivés pour exercer la violence, ce qui signifie qu’il s’agit simplement d’une minorité.

 
On pourrait aussi prétendre que ce qui les intéresse n’est pas la conversion mais le fait d’aller en Syrie. 

Je ne suis pas d’accord. Je crois qu’un Dieu est nécessaire et que le retour de la religion n’est pas un slogan mais une réalité qui progresse clairement.

 
Cette hypothèse est fondamentale pour le livre, mais on sait que de nombreux “chercheurs” la dédaignent depuis des années, affirmant avoir démontré que nous assistons en réalité a une sécularisation progressive de l’Islam et que la violence et la radicalisation doivent s’analyser comme les derniers instants de l’islamisme. C’est le type d’affirmation que l’on trouve chez Olivier Roy et chez d’autres individus qui s’intéressent à cette question depuis plus de 20 ans. 

Ce n’est pas ce que j’ai observé, quoi qu’en Amérique du Nord et du Sud l’islam ait moins prospéré que les sectes évangélistes. Ce n’est pas un phénomène français, c’est global. Je ne connais pas le cas de l’Asie, mais celui de l’Afrique est intéressant car il y a là deux puissantes religions en progrés : le christianisme évangélique et l’islam. Sur beaucoup de points je reste un disciple d’Auguste Comte et ne crois pas qu’une société puisse survivre sans religion. 

Mais pourquoi avoir pris la décision de raconter ces choses d’une manière dramatique tant exagérée tout en reconnaissant que la thèse d’un président musulman en 2022 est peu réaliste  ? 

Cela doit être mon côté production pour un marché de masses, ma dimension Thriller.


Vous ne l’appelleriez-pas votre côté Eric Zemmour ?

Je ne sais pas, je n’ai pas lu son livre


Lui et quelques autres écrivains se recoupent, malgré leurs différences, et décrivent une France contemporaine qui me paraît fantaisiste, dans laquelle la menace de l’Islam se resserre sur la société française. Cela constitue aussi un de vos principaux éléments. La trame de votre roman, me semble-t-il, l’accepte comme hypothèse et promeut une description de la France contemporaine semblable à celle qui ressort du travail de ces intellectuels.

 Je ne sais pas, je connais seulement le titre du livre de Zemmour [ Le Suicide français ] et cela ne correspond pas du tout à ma manière de voir. Je ne crois pas que l’on assiste au suicide de la France. Je crois que ce à quoi l’on assiste est pratiquement le contraire. L’Europe se suicide mais, au milieu de l’Europe, la France tente désespérément de survivre. C’est quasi l’unique pays qui lutte pour survivre, le seul dont la démographie lui permette de survivre. Le suicide a une cause démographique. C’est la meilleure manière de se suicider et la plus efficace. Justement, la France ne se suicide absolument pas. Je dirai même que la conversion est un signal d’espérance, et non une menace. Cela dit, il ne me semble pas que les personnes se convertissent pour des raisons sociales ; les raisons de se convertir sont plus profondes, y compris le fait que mon livre me contredise légèrement, puisque Huysmans reste le paradigme de l’homme qui se convertit pour des raisons purement esthétiques. En réalité, les questions qui préoccupent Pascal laissent Huysmans de marbre. Il ne les mentionne jamais. Cela me coûte même d’imaginer un esthète de ce type. Pour lui, la beauté était la preuve. La beauté d’une rime, d’un tableau, de la musique prouvait l’existence de Dieu. 

Cela nous ramène à la question du suicide, étant donné que Baudelaire a déclaré à propos de Hysmans que le seul choix à sa portée était le suicide ou la conversion.

Non, celui qui a émis ce commentaire est Barbey d’Aurevilly, et cela avait du sens, surtout après avoir lu À rebours. Je l’ai relu avec attention et, finalement, si, il est chrétien. C’est troublant. 

Pour reprendre le problème de vos exagérations peu réalistes, vous décrivez dans le roman, sous une forme vague et floue, divers phénomènes mondiaux, cependant le lecteur ne sait jamais exactement ce qu’ils sont. Cela nous entraîne dans le monde de la fantaisie, n’est-ce-pas ? vers la politique de la terreur. 

Oui, peut-être. Oui, le livre possède un côté terrible. J’utilise les tactiques de l’angoisse. 

Comme celle qui consiste à imaginer une situation où l’Islam s’empare du pays ?

En réalité, on ne sait pas avec clarté de quoi on devrait avoir peur, si ce sont des autochtones ou des musulmans. J’ai laissé la question ouverte.


Est-ce que vous vous êtes demandé quel pourrait être l’effet d’un roman construit sur cette hypothèse ? 

Néant. Absolument aucun effet.


Vous ne croyez pas qu’il va conforter l’image d’une France que je viens de décrire, celle où l’islam est suspendu sur notre tête comme une épée de Damoclés, comme la possibilité la plus horrible?

De toutes manières les médias ne parlent pas d’autres choses, ils ne pourraient pas en parler plus. Il est impossible de parler de cela plus qu’ils ne le font, de telle sorte que mon livre n’aura aucun effet. 

Vous n’avez pas envie d’écrire sur un autre thème afin de ne pas vous joindre à la meute ?

Non, une partie de mon travail consiste à parler de ce dont tout le monde parle, objectivement. J’appartiens à mon époque. 

Vous prétendez dans votre roman que les intellectuels français cherchent à éviter de se sentir responsables, mais vous êtes-vous demandé quelle était votre responsabilité comme écrivain ? 

Mais je ne suis pas un intellectuel. Je ne prends pas parti et ne défends aucun régime. Je renonce à quelque responsabilité que ce soit, je réclame l’irresponsabilité totale, sauf lorsque je donne mon opinion sur la littérature, alors oui je m’engage comme critique littéraire. Mais ce sont les essais qui changent le monde.


Les romans non ?

Bien sûr que non. Quoique je soupçonne le livre de Zemmour d’être réellement trop long. Je crois que le Capital de Marx est bien trop long. En réalité, ce qui s’est lu et a changé le monde, c’est le Manifeste Communiste. Rousseau a changé le monde, parfois il sait comment toucher directement les points clefs. C’est simple. Si vous voulez changer le monde, il faut dire comment il est réellement et ce qu’il convient de faire pour le changer. On ne peut se perdre en considérations romanesques. C’est inefficace.


Mais il ne manquerait plus que je dise comment utiliser un roman en tant qu’instrument épistémologique. Ce fut le thème de “La carte et le territoire”. Dans ce livre vous avez adopté des catégories pour décrire, des oppositions, qui sont plus que douteuses. C’est le type de catégories employées par les éditeurs de Causeur, par Alain Finkielkraut, Eric Zemmour ou Renaud Camus. Par exemple, l’opposition entre l’antiracisme et le sécularisme.

On ne peut nier qu’il y ait là une contradiction.


Je ne la vois pas. Au contraire, les mêmes personnes sont souvent à la fois antiracistes militantes et ferventes défenseurs du sécularisme, les deux plongeant leurs racines dans les lumières.

Voyez, les lumières sont mortes, qu’elles reposent en paix. Un exemple parlant ? La candidate de gauche du parti de Besancenot portait le voile. Voilà une contradiction. Mais seuls les musulmans sont en réalité dans une situation schizophrénique. Au niveau des valeurs, les musulmans ont plus de point commun avec la droite qu’avec la gauche. L’opposition est bien plus fondamentale entre un musulman et un athée qu’entre un musulman et un catholique. Cela me paraît évident. 

Mais je ne comprends pas le lien avec le racisme.

Tout simplement parce qu’il n’y en a pas. Si on parle objectivement, il n’y en a pas. Quand je suis passé en jugement pour racisme et que finalement j’ai été acquitté, il y a maintenant une dizaine d’années, le juge a correctement conclus que la religion musulmane n’est pas un attribut racial. Cela, aujourd’hui, est devenu plus évident. De telle sorte que la portée du mot racisme a été étendue pour inventer le délit d’islamophobie. 

Peut-être le mot était-il mal choisi, mais il existe des manières de stigmatiser des groupes ou des catégories de personnes, qui sont des formes de racisme.

Non, l’islamophobie n’est pas une forme de racisme. Si quelque chose est devenu évident aujourd’hui, c’est bien cela.


L’islamophobie sert d’écran à un type de racisme qui ne peut plus s’exprimer aujourd’hui à cause de la loi.

 Je crois que c’est faux. Tout simplement. Je ne suis pas d’accord. 

Vous utilisez une autre dichotomie douteuse, l’opposition entre l’antisémitisme et le racisme, quand en réalité nous pouvons déceler diverses époques durant lesquelles les deux choses étaient liées. 

Je crois que l’antisémitisme n’a rien à voir avec le racisme. Il se trouve que je cherche à comprendre l’antisémitisme depuis longtemps. A première vue, on est tenté de le relier au racisme. Mais de quel racisme parlons-nous lorsqu’une personne ne peut pas deviner si quelqu’un est juif ou ne l’est pas parce que la différence est invisible ? Le racisme est plus élémentaire que tout cela, il s’agit d’une différence de couleur de peau. 

Non, parce que le racisme culturel existe depuis longtemps chez nous.

Mais alors vous demandez aux mots de signifier des choses qu’ils ne veulent pas dire. Le racisme est simplement le fait qu’une personne ne nous plaise pas parce qu’elle appartient à une autre race, parce qu’elle n’a pas la même couleur de peau, ou les mêmes traits, etc. On ne peut élargir le mot pour lui donner une autre signification. 

Mais puisque du point de vue biologique les races n’existent pas, le racisme est nécessairement culturel. 

Mais le racisme existe, apparemment, de partout. Il est évident qu’il a existé depuis le moment où les races ont commencé à se mélanger. Soyez honnête! Vous savez très bien qu’un raciste est quelqu’un qui n’apprécie pas une autre personne parce qu’elle a la peau noire ou une tête d’arabe. Le racisme c’est cela.


Ou à cause de ses valeurs ou de sa culture.

Non, c’est un problème différent. Désolé.


Parce qu’il est polygame par exemple.

Ah mais quelqu’un peut-être scandalisé par la polygamie sans être raciste du tout. Cela doit être le cas de beaucoup de gens qui ne sont pas du tout racistes. Mais revenons à l’antisémitisme car nous avons dévié. Puisque personne n’a jamais pu deviner si quelqu’un est juif à partir de son aspect ou de son mode de vie, étant donné que lorsque l’antisémitisme s’est développé, peu de juifs menaient une vie réellement juive, que pourrait signifier l’antisémitisme? Ce n’est pas une forme de racisme. Tout ce qu’il faut faire, c’est lire les textes pour se rendre compte que l’antisémitisme n’est rien de plus qu’une théorie de la conspiration : des gens dans la coulisse sont responsables de toutes les difficultés du monde, ils conspirent contre nous, il y a un intrus parmi nous. Si le monde va mal c’est à cause des juifs, à cause des banques juives. C’est une théorie de la conspiration. 

Mais dans le roman Soumission, n’y-a-t-il pas une théorie de la conspiration, l’idée qu’une “grande substitution” est à l’œuvre, que les musulmans sont en voie de s’emparer du pouvoir ? 

Je ne connais pas bien cette théorie de “la grande substitution”, mais j’accepte qu’elle ait une relation avec la race. Alors que mon livre ne parle pas d’immigration. Ce n’est pas le thème.

Ce n’est pas nécessairement racial, cela peut être religieux. Dans ce cas, votre livre décrit le remplacement du catholicisme par l’Islam.

Non. Mon livre décrit la destruction de la philosophie héritée des lumières, qui n’a plus de sens pour personne, ou seulement pour une poignée. Le catholicisme cependant, ne va pas mal du tout. Je maintiens qu’une alliance entre les catholiques et les musulmans est possible. On l’a déjà vu dans le passé. Cela pourrait se répéter. 

Vous êtes devenu agnostique. Pouvez-vous observer ce qui se passe avec plaisir et voir comment est détruite la philosophie des Lumières?

Oui. Cela doit arriver un jour ou l’autre et il se pourrait bien que ce soit maintenant. En ce sens aussi je suis Comtien. Nous nous trouvons dans ce qu’il appelait l’étape métaphysique, laquelle a commencé au Moyen Âge, et son émergence a détruit la phase précédente. En elle même, la philosophie des Lumières ne peut rien produire, uniquement du vide et du malheur. De telle sorte que oui, je suis hostile à la philosophie des lumières, cela doit être bien clair. 

Pourquoi avez-vous choisi le monde universitaire comme cadre de votre roman? Parce qu’il incarne les Lumières ?

Je ne sais pas vraiment. La vérité est que je voulais qu’il existât une seconde histoire dans l’histoire, assez importante, et qui se pencherait sur Huysmans. Ainsi m’est venue l’idée de mettre en scène un universitaire.


Vous saviez, depuis le début, que vous écririez ce roman à la première personne ?

Oui, parce que c’était un jeu avec Huysmans. Il en fut ainsi depuis le début.


Une nouvelle fois, vous avez mis en scène un personnage qui est en partie un autoportrait. Pas totalement, bien sûr, mais on trouve par exemple la mort de vos parents. 

Oui, j’ai utilisé certains éléments, quoique les détails soient très différents. Mes personnages principaux ne sont jamais des autoportraits, mais toujours des projections. Par exemple : Si j’avais lu Huysmans jeune, et que j’eusse étudié la littérature et choisi la carrière de professeur? J’imagine des vies que je n’ai pas vécu. 

Tout en permettant que des faits réels s’insèrent dans les vies fictives.

.J’utilise des faits qui m’ont affecté dans la vie réelle, oui. Mais chaque fois je les transpose. Dans ce livre, ce qui reste de la réalité est l’élément théorique (la mort du père) mais tous les détails sont différents. Mon père était très différent du personnage du roman, sa mort n’est pas du tout survenue ainsi. La vie me donne seulement les idées de base.


En écrivant ce roman avez-vous eu la sensation d’être une Cassandre, un prophète de la catastrophe?

Réellement, ce livre ne peut être décrit comme étant une prédiction pessimiste. A la fin, les choses ne se terminent réellement pas si mal. 


Elles ne se terminent pas si mal pour les hommes, mais pas pour les femmes.

Oui, c’est un problème très différent. Cependant, je considère que le projet de reconstruire l’Empire romain n’est pas si stupide ; si cela réoriente l’Europe vers le Sud alors tout commence à acquérir un certain sens, même si en ce moment il n’y en a aucun. Politiquement, on peut même se réjouir de ce changement ; en réalité il n’y a aucune catastrophe. 

Cependant le roman apparaît particulièrement triste.

Oui, il y a une profonde tristesse sous-jacente. Mon opinion est que l’ambiguïté culmine dans la dernière phrase “il n’y aurait aucune raison pour garder le deuil”. En réalité, on pourrait terminer le livre en ressentant exactement le contraire. Le personnage a deux bonnes raisons pour garder le deuil : Myriam et la Vierge Noire. Mais finalement il ne les regrette pas. Le roman baigne dans la tristesse sous la forme d’une ambiance de résignation.


Comment situez-vous ce roman par rapport à vos autres livres ? 

On pourrait dire que j’ai réalisé des choses que je voulais faire depuis longtemps, des choses que je n’avais jamais réalisées avant. Par exemple, mettre en scène un personnage très important que jamais personne ne voit, comme Ben Abbes. Aussi, il me paraît que la fin de l’histoire d’amour est la plus triste que j’aie jamais écrite, quoique ce soit la plus banale : les yeux ne voient plus, le cœur ne sent plus rien. Ils avaient des sentiments. De manière générale, la sensation d’entropie est beaucoup plus forte que dans mes autres livres. On y trouve un côté sombre, crépusculaire qui explique la tristesse du ton. Par exemple, si le catholicisme ne fonctionne plus c’est parce qu’il a porté tous ses fruits, et paraît désormais lié au passé ; il s’est vaincu lui même. L’islam est une image du futur. Pourquoi l’idée de Nation s’est-elle épuisée? Parce qu’on a abusé d’elle durant trop de temps. 

On ne trouve là aucun trait de romantisme, et encore moins de lyrisme. Nous sommes entrés en décadence.

C’est exact. Le fait d’avoir commencé avec Huysmans doit avoir une relation avec cela. Huysmans ne pouvait pas revenir au romantisme, mais il lui restait la possibilité de se convertir au catholicisme. Le point de contact le plus clair avec mes autres livres est que la religion, quelle qu’elle soit, est nécessaire. Cette idée apparaît dans beaucoup de mes livres. Dans celui-ci aussi sauf que cette fois il s’agit d’une religion existante.


Quelle est la place de l’humour dans ce livre ? 

On trouve des personnages comiques par-ci par-là. Je dirais qu’en réalité c’est comme d’habitude, on y trouve le même nombre de personnages ridicules. 

Nous n’avons pas beaucoup parlé des femmes. Une de fois de plus, vous serez critiqué sur ce point. 

Evidemment, le livre ne plaira pas à une féministe. Mais je ne peux rien y faire.


Cependant, vous fûtes surpris que les lecteurs eussent qualifié de misogyne “Extension du domaine de la lutte”. Votre nouveau roman ne va pas améliorer les choses. 

Je continue de penser que je ne suis pas misogyne. De toutes manières, je dirais que cela n’a aucune importance. Il se peut cependant que les gens ne soient pas content de ma démonstration, puisque je montre que le féminisme est condamné par la démographie. De sorte que l’idée sous-jacente, qui pourrait vraiment déplaire, est que l’idéologie importe peu face à la démographie. 

Ce livre ne prétend donc pas être une provocation ?

 Il accélère l’histoire; mais non, on ne peut pas dire qu’il soit une provocation, si ce terme signifie que l’on dit des choses considérées comme incertaines seulement pour énerver les gens. Je condense une évolution qui me paraît réaliste.


Pendant que vous écriviez ou relisiez le livre, avez-vous anticipé quelques réactions possibles lors de sa publication ?

 Je suis totalement incapable de prévoir ces choses là.


Certains pourraient être surpris de votre nouvelle orientation puisque le livre précédent fut accueilli triomphalement ce qui réduisit au silence vos critiques. 

La réponse correcte est que, franchement, je ne l’ai pas choisie. Le livre commença avec une conversion au catholicisme qui eut dû se faire mais ne se fit pas. 


N’y-a-t-il pas quelque chose de désespéré dans ce processus, que vous n’avez pas réellement choisi?

 Le désespoir provient du fait que l’on abandonne une civilisation très ancienne. Mais finalement le Coran me semble meilleur que ce que je pensais, maintenant que je l’ai relu - ou plutôt lu - La conclusion évidente est que les djihadistes sont de mauvais musulmans. Obligatoirement, comme dans tout livre religieux, une certaine latitude est laissée à l’interprétation. Mais une lecture honnête devrait conclure qu’en général l’agression par la guerre sainte n’est pas approuvée, seule la prière est valide. On peut donc dire que j’ai changé d’opinion. Pour cela je ne sens pas que j’écris à partir d’une peur. Je sens plutôt que l’on peut se préparer peu à peu. Les féministes ne pourront pas le faire, s’il faut absolument être honnête. Mais moi et beaucoup d’autres si, nous pourrons. 

On pourrait remplacer le mot féministes pour celui de femmes, non ? 

Non, on ne peut pas remplacer le mot féministes par celui de femmes. Vraiment pas. Je montre clairement que les femmes aussi peuvent se convertir.


Texte traduit par notre collaborateur Auran Derien

mardi, 20 janvier 2015

« Soumission » de Michel Houellebecq

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«Soumission» de Michel Houellebecq

 
par Francis Richard
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Le mot d'islam veut dire soumission. Le titre du dernier roman de Michel Houellebecq n'est donc pas choisi par hasard. Car il est effectivement question d'islam dans Soumission et de... soumission.

Nous sommes en 2022. En 2017, François Hollande a été réélu et son deuxième quinquennat a été aussi médiocre que le premier. L'histoire débute au moment du premier tour des élections présidentielles qui lui donneront un successeur.

Le narrateur, François, aura bientôt 44 ans. Pendant sept ans il a fait une thèse sur Karl-Joris Huysmans, qu'il a soutenue en juin 2007 et qui lui a valu les félicitations du jury à l'unanimité. C'est une thèse de poids - sept cent quatre-vingt huit pages -, devenue depuis lors un ouvrage de référence.

Sa voie était toute tracée: "Les études universitaires dans le domaine des lettres ne conduisent comme on le sait à peu près à rien, sinon pour les étudiants les plus doués à une carrière d'enseignement universitaire dans le domaine des lettres - on a en somme la situation plutôt cocasse d'un système n'ayant d'autre objectif que sa propre reproduction, assorti d'un déchet supérieur à 95%."

Il est parmi les plus doués. Il deviendra donc professeur de lettres à l'Université Paris III, qui est juste un cran en-dessous de Paris IV...

Jeune, François n'a pas eu d'ambition matrimoniale, et considère qu'à son âge il est maintenant trop tard pour y songer. A ses relations amoureuses annuelles et épisodiques d'étudiant avec une de ses petites camarades d'études ont succédé des relations amoureuses annuelles tout aussi épisodiques de professeur avec une de ses étudiantes. Il fait la jonction estivale avec des escort girls...

Pendant la soirée électorale du premier tour des élections présidentielles, la candidate du Front national, Marine Le Pen, étant arrivée largement en tête avec 34,1 % des voix et celui de la droite traditionnelle étant éliminé avec 12,1% des voix, il faut attendre minuit pour départager le candidat qui lui sera opposé au second tour: celui du PS ou celui de la Fraternité musulmane, parti créé cinq ans plus tôt. C'est ce dernier candidat, Mohammed Ben Abbes, qui finit par l'emporter, dans un mouchoir, avec 22,3% des voix contre 21,9%.

La relation de François avec Myriam, 22 ans, qui ne semble pas l'avoir remplacé, serait-elle plus sérieuse que les autres? Voire. En tout cas il lui est reconnaissant pour tout le plaisir qu'elle lui a donné... Myriam vit chez papa maman. Or, ces derniers sont inquiets de la tournure que prennent les événements en France et décident de partir en famille pour Israël, Myriam comprise, laquelle est bien triste de quitter François, mais lui donne, en guise de cadeaux d'adieu, des plaisirs que de bons musulmans pourraient considérer comme des dépravations... François, pas rassuré non plus - les Universités ont été fermées sine die -, quitte Paris par la route et rejoint Martel dans le Lot...

Dans l'entre-deux tours des troubles éclatent. Il est bien difficile de savoir s'il faut les attribuer à des groupes djihadistes ou à des groupes identitaires. Le jour même du second tour, des bureaux de vote sont saccagés, ce qui va conduire à son invalidation et en reporter la tenue à une date ultérieure. Entretemps l'UMP, l'UDI, le PS se rallient à Mohammed Ben Abbes, musulman modéré, pour faire échec au Front national et obtenir des ministères dans le futur gouvernement, qui sera présidé par François Bayrou... Avec ces ralliements les jeux sont faits et l'élection ne se sera finalement pas faite sur l'économie mais sur les valeurs...

Avec l'élection de Mohammed Ben Abbes, qui s'avère être un président fort habile et qui ambitionne de reconstruire l'Empire romain en négociant l'entrée dans l'Union européenne du Maroc et de la Turquie, les choses évoluent, mais en douceur, grâce à la participation au pouvoir de tous les partis à l'exception du Front national, c'est-à-dire grâce à leur soumission: la délinquance baisse, le chômage itou ("C'était dû à la sortie massive des femmes du marché du travail - elle-même liée à la revalorisation considérable des allocations familiales"), de même que les dépenses sociales, dont la réduction de 85% est prévue sur trois ans.

D'autres changements majeurs interviennent, dans les domaines de l'éducation et de l'économie. La scolarité obligatoire s'arrête à la fin de l'école primaire. Le financement de l'enseignement secondaire et supérieur devient entièrement privé. La Sorbonne, par exemple, Paris III et Paris IV, est désormais financée par les Saoudiens et ne pourront y enseigner que des musulmans. Mohammed Ben Abbes a choisi en matière économique le distributivisme, troisième voie entre le capitalisme et le communisme. Il se traduit, dans la pratique, par la suppression des aides de l'Etat aux grands groupes industriels, par l'adoption de mesures fiscales en faveur des artisans et des auto-entrepreneurs.

Absent de Paris pendant plus d'un mois, François a été démis d'office de ses fonctions de professeur d'université. Il touchera en compensation la retraite qu'il aurait touchée à soixante-cinq ans. Cette démission est regrettée par le nouveau président de Paris III, Robert Rediger, qui va employer les grands moyens pour qu'il revienne enseigner dans son université.

A cette fin, dans un premier temps, il lui fait proposer par Gallimard de s'occuper de l'édition des oeuvres de Huysmans dans la Pléiade, en qualité de spécialiste reconnu; dans un deuxième temps, il le reçoit chez lui dans son hôtel particulier de la rue des Arènes à Paris où ils ont tous deux une longue discussion sur la religion et la philosophie - Robert s'est converti à l'islam et François fait chez lui la connaissance de ses deux épouses -, et il lui offre un ouvrage de vulgarisation de son cru, Dix questions sur l'islam.

Lors d'une réception, Robert explique à François pourquoi il convient de rejeter aussi bien l'athéisme que l'humanisme (là il n'a pas de mal à le convaincre parce que ce mot seul fait vomir François) et lui vante la nécessaire soumission de la femme - les marieuses existent pour trouver aux hommes les épouses qui leur conviennent -, et le retour au patriarcat. Il ne reste plus à François qu'à se convertir, c'est-à-dire à faire soumission aux lois du Créateur, s'il veut meilleur traitement, ne pas avoir à se préoccuper de trouver celles qui partageront sa couche et trouver le bonheur.

Ce livre est une fiction qui pourrait pourtant bien se produire un jour en France, pour des raisons purement démographiques (2022 est peut-être une échéance un peu trop proche toutefois pour être plausible). Dans cette hypothèse, Michel Houellebecq construit un scénario on ne peut plus probable, compte tenu de ce qu'on peut savoir des pays dirigés par des musulmans, qui ne sont de loin pas des islamistes radicaux.

A lire ce livre superbement écrit, qui a la vertu de le faire rire par moments ("le confit de canard ne paraissait pas compatible avec la guerre civile"), le lecteur ressent cependant un malaise, parce qu'il ne sait pas très bien où l'auteur veut en venir avec ce récit. Mais le sait-il lui-même? Il semble que cette histoire, à partir du moment où il en avait posé les prémices, lui ait échappé et acquis son autonomie de créature littéraire. Quoi qu'il en soit, elle donne matière à réflexion.

Son  narrateur de personnage, incapable de vivre pour lui-même, se sent, dit-il au début, "aussi politisé qu'une serviette de toilette". Il semble surtout, ce qui n'est pas incompatible, au contraire, vouloir saisir sa chance quand elle se présente et il n'est pas mécontent, après tout, avec ce changement paisible de régime, d'appartenir à la gent masculine, ce qui est bien confortable et lui permettra d'oublier Myriam...

Francis Richard, 8 janvier 2015

Soumission, Michel Houellebecq, 304 pages, Flammarion

Publication commune lesobservateurs.ch et Le blog de Francis Richard

lundi, 19 janvier 2015

Le roman de Houellebecq: le roman de l’homme indifférent

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Javier Portella

 

Le roman de Houellebecq:

 

le roman de l’homme indifférent

 

Quelle est la faute ? La soumission à l’islam, parbleu !

Ex: http://www.bvoltaire.fr

« Je n’aurais rien à regretter. » C’est par de tels mots – mis comme en exergue, seuls, perdus au début d’une page toute blanche – que prend fin le roman dont la sortie a éveillé la plus grande expectation, sans doute, de tous les temps.

Pas de remords, rien à regretter. Une faute, sans doute, a été commise. Mais elle doit être bien légère – tout est léger, sans poids, dans le monde de Houellebecq – si les regrets ne sont pas de mise. Quelle est la faute ? La soumission à l’islam, parbleu !

La soumission de tous et du protagoniste en particulier, lorsque la Fraternité musulmane prend le pouvoir en 2022. Chassé de la nouvelle université islamique Paris-Sorbonne, le « héros » du roman finit par regagner son poste et se convertir à la soumission (telle est, on le sait, la traduction du mot arabe « islam »). Tous s’y soumettent… à l’exception, faut-il supposer, des identitaires et du Front national : acteurs secondaires d’un roman qui traite avec indifférence le dernier, déverse son hostilité sur les premiers… et ignore jusqu’à la signification même de mots tels que révolte ou rébellion. Elles n’ont pas de place dans un monde où tout se passe en douceur, dans l’indifférence, avec un léger haussement d’épaules, comme si de rien n’était.

On en reste époustouflé. Malgré la dénonciation évidente de l’emprise de l’islam, Houellebecq se serait-il donc finalement rangé ? Oui et non à la fois. La plus grande ambiguïté plane sur tout le roman. Tout y est tellement subtil qu’on ne sait jamais ce qu’il faut prendre au premier, au second… ou au énième degré. C’est là toute la grandeur littéraire d’une œuvre (moi aussi, je deviens ambigu !) qui n’est pas un essai, encore moins un pamphlet. C’est un roman. Et il ne peut l’être, il ne peut être du grand art, qu’à la condition d’embrasser toute la multiplicité contradictoire du réel.

Une multiplicité dans laquelle l’islam n’est pas, cependant, la cible première. C’est nous qui sommes visés en tout premier lieu. C’est notre décadence qui est, à juste titre, pourfendue : celle d’un monde peuplé d’atomes isolés, où la famille s’estompe, les liens s’effritent, l’identité se perd, le sens disparaît, le sacré s’évanouit. L’idéologie des Lumières – l’homme pris pour seul centre du monde – a fait faillite. Son échec est manifeste, et on ne peut jusque-là qu’applaudir Houellebecq des deux mains. On ne peut que le suivre… pour nous en écarter, ébahis, lorsqu’il prétend que c’est justement l’islam qui pourrait venir charpenter de nouveau le monde, lui redonner le souffle sacré qu’il a perdu.

C’est écrit noir sur blanc. Mais le prétend-il plus ou moins sérieusement ? Ou est-ce là une provocation, une sorte de dérision extrême, pour mieux nous mettre face à notre déchéance ? Ce n’est pas clair. Une seule chose est manifeste : l’islam n’est envisagé, au pire, que comme une sorte de moindre mal face auquel il nous faudrait baisser la tête. Mais il n’y a là, évidemment, nulle adhésion à la religion qui était jadis considérée comme « la plus conne de toutes ». Rien n’est plus étranger que l’adhésion chez quelqu’un qui n’adhère à rien, qui ne prend parti pour rien, son protagoniste évoquant, par exemple, « l’uniforme laideur de l’art religieux contemporain » pour ajouter aussitôt que cette laideur… « me laissait à peu près indifférent ».

L’homme révolté, disait Camus (Albert, mais l’autre – Renaud – le dit aussi dans son combat contre le Grand Remplacement). L’homme indifférent, dit par contre Houellebecq. Voilà son « héros » : l’homme qui hausse les épaules, qui reste de marbre face à des malheurs dont il est pourtant d’une lucidité sans faille. Pire : il semble faire mine, pour en sortir, d’accepter un malheur bien plus effroyable encore. Mais il s’en contrefiche, au fond. Il n’est concerné par rien, il ne combat rien, l’homme indifférent : l’homme du cynisme accompli.

dimanche, 18 janvier 2015

Jean Raspail: "Dans notre système, il ne manque plus que le communautarisme français..."

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dimanche, 11 janvier 2015

Michel Houellebecq, le miroir de notre époque ?...

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Michel Houellebecq, le miroir de notre époque ?...

par Solange Bied-Charreton

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue de Solange Bied-Charreton, cueilli sur Figaro Vox et consacré au sens de l’œuvre de Michel Houellebecq. Ecrivain et chroniqueuse, Solange Bied-Charreton a publié en 2013, chez Stock, un excellent roman intitulé Nous sommes jeunes et fiers, dont nous ne pouvons que vous recommander la lecture.

Michel Houellebecq, le miroir de notre époque

«C'est un esprit d'une sécheresse supérieure parmi les Secs, une intelligence toute en surface, n'ayant ni sentiment, ni passion, ni enthousiasme, ni idéal, ni aperçu, ni réflexion, ni profondeur, et d'un talent presque physique, comme celui, par exemple, du gaufreur ou du dessinateur à l'emporte-pièce, ou encore celui de l'enlumineur de cartes de géographie.» D'aucuns jugeraient que ces mots, écrits par Jules Barbey à propos de Flaubert, pourraient s'appliquer au romancier Houellebecq, dont la plus grande faute et la plus grande adresse sont d'avoir su endosser le rôle du «peintre de la vie moderne». L'expression baudelairienne s'étend jusqu'à la littérature romanesque, car c'est la visée même du romancier réaliste, qui entend rendre compte des mœurs de son temps, des tensions historiques, esthétiques et sociales de l'espace qu'il traverse.

Romancier «important» pour certains, «génie» pour d'autres, «faussaire» pour quelques-uns, Michel Houellebecq est au centre de ce qu'il reste du paysage littéraire français. Il y mérite sa place, plus que beaucoup de ses congénères. Cela ne nous renseigne pas directement sur le talent de l'écrivain, davantage sur l'état de cette littérature, dévastée depuis un demi-siècle par le Nouveau Roman, l'autofiction, l'émotion, la psychanalyse ou tout cela ensemble (l'idéal est toujours de s'illustrer dans ces champs respectifs par un seul ouvrage). Ainsi, il reste précisément trop peu de romanciers réalistes, trop peu de romanciers tout court, pour que nous ignorions le nom de Houellebecq, qui en est un.

Que fait Michel Houellebecq? Il peint ce qu'il voit, ce qu'il a sous les yeux. Souvent, il anticipe, alors il utilise le réel pour l'aggraver légèrement. Du libéralisme sexuel dans Extension du domaine de la lutte à l'effacement de l'identité française dans Soumission, des manipulations sur le vivant à la muséification des vieilles nations, en passant par l'échec de l'idéologie soixante-huitarde dans Les Particules élémentaires, il a simplement montré, depuis une vingtaine d'années, tout ce que notre regard capte chaque jour, quand ce n'est pas seulement la menace qui pèse sur notre société. C'est un reportage souvent cru et parfois trivial. Il y est question d'argent, de sexe, d'entreprises et de dépression, de résidences et de télévision. Si ce n'est pas du génie, c'est pourtant essentiel, tant il est essentiel qu'un écrivain s'échine à nous montrer ce que nous ne voyons plus, parce que nous le voyons trop.

Romancier sans compassion, car «descripteur» à la suite de Flaubert, toujours lui, dont Sainte-Beuve affirmait qu'il tenait «la plume comme d'autres un scalpel», ce digne héritier sans joie tend un miroir très froid à l'Occident. Il montre mais il ne dit pas. Beaucoup aimeraient le faire dire, mais ce n'est pas ce qu'il fait. Michel Houellebecq n'est pas un essayiste. Et même lorsque nous avons l'impression qu'il produit un discours, ce n'est pas lui qui le prononce, c'est son personnage. Et ce discours s'insère dans la forme romanesque. Davantage contemplateur que contempteur du nihilisme contemporain, Houellebecq ne donne pas son avis. On a toujours tort de prêter une opinion à un fabuliste.

Des controverses découlent de ce statut particulier, hors du monde. Notre romancier est-il pour ou contre les conversions à l'Islam en France? Pour ou contre le tourisme sexuel? Où le situer? La défiance du commun pour le statut de l'artiste n'est pas nouvelle. Plus largement, la métaphore permise par l'art est toujours regardée d'un mauvais œil. «Les femmes n'ont pas les cheveux mauves», déplorent les Verdurin devant la peinture d'Elstir, chez Proust. Dans le cas du réalisme, nous sommes sous le coup de la double contrainte: c'est l'art, mais l'art du réel. Nous devenons schizophrène: c'est vrai mais c'est faux. C'est dit mais c'est raconté. C'est Houellebecq comme personnage, dans La Carte et le territoire, mais c'est Houellebecq qui écrit.

Où est l'art? On a accusé Houellebecq d'avoir recopié des notices de Wikipedia et de les avoir insérées dans La Carte et le territoire. Ce «collage», ready-made scriptural, justifié comme procédé littéraire, pose néanmoins la question de la littérarité de l'œuvre de Houellebecq et vient en souligner la profonde carence prosodique, la tragique platitude. A trop vouloir rendre le réel il serait à craindre d'en être le fruit plus que le descripteur. Mais une écriture blanche, clinique et qui fait l'économie d'un raffinage stylistique est aussi un parti pris. Houellebecq est un produit du temps: écrivain de l'après-mort du roman, il arrive à la suite de sa déconstruction, il danse sur les ruines.

Michel Houellebecq est le nom de l'époque. Plus précisément, le nom de la littérature de l'époque. Mais cette époque n'aime pas la littérature, elle préfère ce qui est utile et rentable: que Michel Houellebecq soit son plus grand romancier en dit beaucoup sur elle et sur ses démissions. Sur sa capacité à mépriser le Beau, sur sa fascination pour la technique, son absence de transcendance, ses succès et ses vanités, son très grand désespoir.

Solange Bied-Charreton (Figaro Vox, 6 janvier 2015)

 

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samedi, 03 janvier 2015

Ernst Jünger's The Glass Bees

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Ernst Jünger's The Glass Bees

Matthew Gordon

(From Synthesis)

& http://www.wermodandwermod.com

Ernst Jünger
Louise Bogan & Elizabeth Mayer (transl.)
The Glass Bees
New York Review Books, 2000

THE Glass Bees is an introspective novel about a quiet but dignified cavalry officer called Richard. Unable to adjust to life after war and needing money, he applies for a security job at the headquarters of the mysterious oligarch Zapparoni. Confronted with mechanical and psychological trials, the dream becomes a nightmare, and Richard is forced to contemplate his place in the modern world and the nature of reality itself.

Although philosophical and lyrical, this book is nonetheless a tense page-turner with all the qualities of great sci-fi drama. The poetic imagery is highly expressive, but there are times when the sentences are clumsy and over-long, the meaning of a passage can be lost over a seemingly unnecessary paragraph break. Whether this is down to Jünger's original German or the fault of translation I couldn't possibly say. Nonetheless Ernst Jünger stands among the most lucid and skilful of continental modern writers.

Jünger's vision of the future isn't the ultra-Jacobin "boot stamping on a human face" of Nineteen-Eighty-Four - it is a subtler, more Western dystopia. Jünger is amazingly prescient in this, although he is rarely given credit for it; he predicts that the media and entertainment will rule the psyches of men, that miniaturisation and hyperreal gratification will become our new Faustian obsession and that for all the wonders and benefits of technology it is ultimately dehumanising and alienating. The new world won't be ruled by crude and brutal tyrants like Hitler, Stalin or Kim Jong Ill, but by benevolent and private businessmen, like Rupert Murdoch. We won’t be dominated by the authoritarian father-ego of Freud, but by the hedonistic-pervert of Lacan. Jünger anticipates the theory of hyperreality formulated by Baudrillard, and it is interesting that this book was published before theories on post-modernism and deconstruction became vogue.

Faced with this less than perfect future, Jünger's doesn't try to incite revolution or political struggle – his message remains the same throughout his work – but to inspire individual autonomy. Despite all outward constraints, uprightedness and self-reliance is real freedom. Jünger depicts a superficial and spiritually bankrupt future, but if he is to be believed, the potential for man to be his true self is always the same.