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jeudi, 11 octobre 2012

L’incubo orwelliano

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L’incubo orwelliano. Dalla letteratura distopica al totalitarismo contemporaneo

“Fahrenheit 451” di Bradbury, pubblicato nel 1953, pare debba il suo titolo al grado termico di combustione della carta. Nel futuro descritto dal romanzo la lettura è reato

Roberto Cozzolino

Ex: http://www.rinascita.eu/  

Nella letteratura classica dei secoli passati – ed in particolare sul versante filosofico – è stata designata come “utopia” la progettazione, puramente teorica, di una futura società ideale; una società dove sarebbe finalmente verificata l’armoniosa e pacifica convivenza degli individui, resa possibile, secondo i vari Autori, dal buon governo degli amministratori ovvero dal grado di emancipazione raggiunto dalle masse od anche dal progresso tecnologico che avrebbe definitivamente liberato l’uomo dalla schiavitù del lavoro.


L’etimologia del termine associato agli artefici delle opere riconducibili a tale filone letterario, derivante dal greco “ou” e “tópos” – letteralmente “non luogo” –, indica chiaramente per gli stessi l’ovvia consapevolezza di riferirsi a realizzazioni impensabili per la loro epoca; e che potevano semmai indicare una meta ideale verso la quale tendere, o avere valore di critica sferzante della struttura sociale dell’epoca in cui vivevano; da ciò deriva il concetto esteso di utopia come fantastica chimera, qualcosa cioè che risulta estremamente difficile, se non impossibile, realizzare nell’immediato.
 
Come è noto il termine fu adottato per la prima volta da Tommaso Moro nella sua celebre opera del 1516: “De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia”, in cui si descrive una comunità che risiede, priva di problemi, nell’isola di Utopia, dove vengono applicati metodi di governo d’ispirazione democratica e socialista; in verità il neologismo filologicamente corretto avrebbe dovuto essere “atopia” (senza luogo), con l’uso dell’alfa privativo associato al sostantivo, ma si sostiene da più parti che Moro intendesse consentire un’ambivalenza del termine, riconducibile sia ad “ou” e “tópos” (non luogo) che ad “èu” e “tópos” (luogo buono). Celeberrimo precursore di Moro fu Platone, che nella sua “Politéia” (390 a.C.) propose una forma di governo che tenterà - senza successo - di impostare presso la corte del tiranno Dionigi a Siracusa: una sorta di “comunismo” guidato da filosofi e con una società divisa in classi. Altra famosa opera utopica è “New Atlantis” di Francesco Bacone, del 1626; in essa le innovazioni tecnologiche possedute dagli abitanti dell’isola di Bensalem – fantasioso toponimo derivante dalla conflazione dei nomi di Betlemme e Gerusalemme - costituiscono un enorme supporto alla felicità degli uomini, per i quali la conoscenza diventa strumento di dominio sul mondo.

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Citiamo inoltre “La città del Sole” (1602) di Tommaso Campanella – uno stato teocratico retto secondo i principi della religione naturale e basato sulla proprietà comune, riecheggiante l’epopea degli heliopolìtai di Aristonico (131 a. C.) -; “Les aventures de Télémaque, fils d’Ulysse” (1696) di François Fénélon - un viaggio didattico attraverso diversi paesi e forme di governo dell’antichità -; “Voyage en Icarie” (1840) di Étienne Cabet - un sistema di stampo socialistico dove è chiara l’influenza del comunismo egualitario di Babeuf e Buonarroti -; “News from Nowhere” (1890) di William Morris – una delle più anarchiche descrizioni di una società futura -; “Erewhon” (1872) di Samuel Butler – utopia satirica della società vittoriana -; da notare che quest’ultimo titolo é un anagramma di “nowhere”, con chiaro riferimento, come quello dell’opera di Morris, al significato di “utopia”. In questa rapidissima ed incompleta elencazione dei massimi esponenti del pensiero utopico non possiamo tacere i nomi di Owen, Fourier, Saint-Simon, Enfantin e Considérant, ovvero i massimi esponenti del cosiddetto socialismo utopistico (così definito sprezzantemente dai marxisti ortodossi, in contrapposizione al socialismo scientifico), che proposero società ideali sostenute da precise teorie sociopolitiche e che in qualche caso, forti delle loro convinzioni, finirono col rovinarsi economicamente nei tentativi falliti di realizzare i loro sogni. In concomitanza con gli utopici sistemi di società future ebbe ampio sviluppo, sin dal medioevo ma soprattutto nel Rinascimento ed oltre – ed in particolare presso i socialisti utopistici - la progettazione di complessi urbani ideali, dove erano quindi preponderanti su tutti gli altri gli aspetti urbanistici ed architettonici; dal momento che le realizzazioni antropiche sono determinate dalle varie funzioni sociali umane; e queste ultime direttamente dipendenti da orientamenti squisitamente ideologici.

Si noti peraltro che lo stesso socialismo marxista – che rimproverava agli utopisti l’assenza di un rigoroso metodo scientifico nell’analisi della società, il mancato riconoscimento della funzione storica del proletariato ed una eccessiva fiducia nelle possibilità di un riformismo basato sulla solidarietà e la filantropia - può considerarsi una grande utopia; tra l’altro densa di evidenti analogie – oltre ad altrettanto evidenti motivi di conflitto - con molti aspetti delle religioni messianiche del ceppo abramitico, come è stato efficacemente analizzato da diversi autori: ideologia intesa come ortodossia fondamentalista, aspirazioni egualitaristiche, rigida gerarchia, controllo e censura delle “eresie”, presenza di dogmi e di testi sacri, interpretazione dicotomica del mondo e fideistica certezza nella futura affermazione della giustizia universale; al punto da suggerire a Berdjaev che “il comunismo è l’insoddisfazione per il cristianesimo non realizzato”.


Verso la fine del XIX e nel corso del XX secolo prende forma un nuovo genere letterario conosciuto come anti utopia (od anche distopia, pseudoutopia, utopia negativa, cacotopia), che presenta evidenti affinità col genere utopico ma mostra, rispetto a questo, una totale inversione di segno, costituendone quasi un aspetto speculare; se infatti il romanzo utopico prospettava la futura realizzazione di una società migliore, il romanzo distopico prefigura per l’avvenire scenari da incubo, con un’umanità schiavizzata e condannata all’infelicità perpetua sotto il dominio di governi dispotici. In realtà secondo alcuni critici il primo autorevole esempio di antiutopia si ebbe già nel 1726, con la pubblicazione dei “Gulliver’s Travels” di Jonathan Swift, in cui le società immaginate possono essere considerate una grottesca satira dell’ordine sociale esistente. Tra i “moderni” precursori del genere ricordiamo H. G. Wells, che con “The time machine” (1895) ci porta in un lontano futuro per mostrarci un’umanità divisa in due fazioni antagoniste di prede e cacciatori: gli Eloi, esseri fragili e gentili ma parassitari; ed i Morlock, esseri produttivi e mostruosi che vivono nelle viscere della terra, da cui escono per dare la caccia agli Eloi e cibarsene.

“Brave New World”, scritto nel 1932 da Aldous Huxley, descrive un prossimo mondo dove tutto è sacrificabile ad un malinteso mito del progresso in cambio di un apparente benessere, e l’esasperata evoluzione scientifica, gestita da un regime totalitario, ha completamente annullato la libertà individuale. Il bellissimo e troppo poco noto “Noi” di Evgenii Ivanovich Zamjatin, scritto in pieno regime comunista ed a causa del quale l’Autore fu costretto ad espatriare – con le proprie gambe grazie all’intervento di Maxim Gorky -, ci mostra un’antiutopia, scritta in forma di diario, ambientata in un mondo dove i personaggi non hanno un nome, ma al suo posto una sigla numerica e dove tutto è ferreamente regolamentato dall’onnipresente potere. “Fahrenheit 451” di Bradbury, pubblicato nel 1953 come estensione di un racconto apparso nel 1951 (“The Fireman”), pare debba il suo titolo al grado termico di combustione della carta, in quanto nel futuro descritto dal romanzo la lettura è reato e tutti i libri devono essere bruciati, essendo sufficiente, per l’educazione delle masse, il mezzo televisivo controllato dal sistema.

Qualcuno individua chiari elementi distopici anche ne “La leggenda del grande inquisitore” di Dostoevskij, inserita nel suo ultimo lavoro: “I Fratelli Karamazov” (1879) dal sommo romanziere russo. Ma l’opera che realizza l’utopia negativa per eccellenza è, senza dubbio, “Nineteen Eighty-four” di George Orwell, scritto nel 1948 (il titolo è ottenuto scambiando tra loro le ultime due cifre che compongono tale data), dove il Grande Fratello, a capo di una enorme gerarchia costituita dal partito, controlla non solo gli individui ma anche i loro pensieri; l’Autore aveva già dato alle stampe nel 1945 l’altrettanto celebre “Animal Farm”, una feroce satira dello stalinismo scritta sotto forma di favola che, pur essendo già ultimata nel 1943, non risultava politicamente corretto pubblicare prima, dal momento che criticava la forma di governo di una nazione alleata nel recente conflitto mondiale.

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In “1984” Winston Smith, il protagonista, membro subalterno del partito che lavora alla modifica di libri ed articoli di giornale pubblicati in passato, in modo che le previsioni fatte dal partito stesso risultino veritiere, non sopporta i condizionamenti della rigida e squallida struttura sociale entro la quale è costretto a vivere e ne infrange molte regole, instaurando tra l’altro un rapporto sentimentale con una compagna, in un mondo in cui è imposta per legge la castità ed il sesso è permesso solo a fini procreativi; nel momento in cui entrambi decidono di collaborare con un’organizzazione clandestina, proprio l’individuo che avrebbe dovuto costituire il contatto col movimento di resistenza si rivela essere invece un agente della psicopolizia che, dopo averli fatti arrestare, li sottopone ad orripilanti tecniche di rieducazione sociopolitica, in modo che si trasformino in individui perfettamente mansueti ed allineati con l’ortodossia del regime.

Il cinema ha tratto massiccia e costante ispirazione dalla letteratura distopica, che per sua natura si presta ottimamente alla trasposizione filmica, spesso contaminandone il genere con altri affini - in particolare quello fantascientifico e quello di fantascienza apocalittica e post-apocalittica. Ci sembra che esistano relativamente poche pellicole che si ispirano dichiaratamente ad una delle opere letterarie citate, rimanendo molto fedeli all’impianto narrativo originario. Ricordiamo tra queste: “Fahrenheit 451” (1966) di François Truffaut, dall’omonimo racconto di Bradbury; “Nel duemila non sorge il sole” (1956) di Michael Anderson ed “Orwell 1984” (1984) di Michael Radford, entrambi ispirati al romanzo di Orwell, come il precedente “1984” (1954), adattamento televisivo di Rudolph Cartier per la BBC; “The Time Machine” (1960) di George Pal, tratto da H. G. Wells e seguito da frequenti remake. Sono invece numerosissime le pellicole liberamente ispirate al “genere” nel suo complesso ma prive di riferimenti puntuali ad una singola opera. Rinunciando ovviamente alla completezza ed all’ordine cronologico ricordiamo alcune tra le più famose: l’intramontabile “Metropolis” (1927), di Fritz Lang; “L’uomo che fuggì dal futuro” (1971), primo lungometraggio di George Lucas; “Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution” (1965), insolita incursione di Jean-Luc Godard nella fantascienza; il visionario, satirico ed al contempo agghiacciante “Brazil” (1985), di Terry Gilliam, che avrebbe dovuto chiamarsi “1984 ½” per un duplice omaggio ad Orwell e Fellini; “Soylent Green” (1973), di Richard Fleischer, ambientato in un mondo invivibile dove l’eutanasia appare come estrema risorsa; “Zardoz” (1974), di John Boorman, manifesto contro l’utopia progressista; “Rollerball” (1975) di Norman Jewison, con remake (2002) di John Campbell McTiernan, nel quale lo sport violento elargito alle masse diventa strumento di potere; “1997 Escape from New York” (1981) di John Carpenter, dove troviamo l’intera isola di Manhattan trasformata in un enorme ghetto-prigione di massima sicurezza per criminali; del medesimo regista è ”They Live” (1988), dove il potere è detenuto da insospettati alieni; “Terminator” (1984) di James Cameron, primo film di una serie che vede le macchine in guerra con gli uomini; “Twelve Monkeys” (1995), ancora di Gilliam, in cui un viaggiatore del tempo indaga sulle cause di una trascorsa epidemia della razza umana; per finire col totalitarismo virtuale di “Matrix” (1999), spettacolare trilogia dei fratelli Wachowski.


Qualunque siano, ad ogni modo, le differenze tra i vari classici distopici letterari - e tra questi e le loro più o meno fedeli rielaborazioni cinematografiche -, esistono nelle varie visioni di un futuro apocalittico alcuni elementi ricorrenti che riteniamo interessante analizzare; per cercare di capire se i loro Autori fossero solo degli intellettuali disancorati dalla realtà - e pertanto folli “profeti di sciagure” - o, al contrario, individui provvisti di una profonda capacità di analisi ed eccezionalmente lungimiranti quando ammonivano che, se si fosse continuato a percorrere certe strade, si sarebbero realizzati i terribili scenari descritti nei loro romanzi. In effetti uno dei massimi esponenti della letteratura antiutopica, il già citato Aldous Huxley, ventisette anni dopo l’uscita del suo “Brave New World” riesaminava le sue profezie alla luce di avvenimenti recenti col saggio “Brave New World Revisited” (1959), giungendo ad una conclusione inquietante: alcuni elementi dell’utopia negativa che aveva immaginato meno di tre decenni prima erano già entrati a far parte della realtà. E’ stato del resto ampiamente documentato che cambiamenti strutturali anche drastici, che la popolazione rifiuterebbe istintivamente se fossero imposti all’improvviso, vengono invece docilmente accettati se iniettati a piccole dosi nel tessuto sociale ed accompagnati da martellanti campagne massmediatiche. Altra osservazione che merita particolare attenzione è che se quasi tutti – ma non tutti – gli Autori distopici guardavano con preoccupazione, nel momento in cui scrivevano, a varie forme coeve di totalitarismo, oggi invece possiamo individuare proprio nel mondo cosiddetto “libero e democratico” molti degli aspetti più oppressivi da loro denunciati.

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Uno di questi è la presenza di una gerarchia, basata prevalentemente sul potere economico, grazie alla quale le divisioni fra classi sociali sono rigide e quasi insormontabili. Si tratta di un’esagerazione? Forse, ma il costante impoverimento della classe media, il degrado della scuola pubblica ed i costi proibitivi dell’istruzione privata, la progressiva scomparsa dello stato sociale e dell’assistenza sanitaria, l’accesso al mondo del lavoro e – di conseguenza - ad una vita dignitosa presentati non come diritto acquisito ma come conquista individuale - uniti al disinvolto uso di clientelismo, raccomandazioni e tangenti da parte della casta che detiene le leve del controllo politico - vanno esattamente in tale direzione; a questo si accompagna la proliferazione di sterminate periferie degradate in tutte le grandi metropoli, a sottolineare - oggi più che nel passato - la separazione anche fisica tra le masse proletarie ed i pochi beneficiari dei vantaggi derivanti dal contatto col potere. Una immediata conseguenza è la scomparsa dei rapporti sociali come concepiti tradizionalmente dall’uomo: le relazioni umane sono dettate esclusivamente dal dogma del vantaggio individuale e del tornaconto personale.

Altro aspetto sicuramente individuabile come comune alla letteratura anti utopistica ed alla nostra società è il reiterato tentativo di soppressione del dissenso, visto come valore negativo in opposizione al conformismo dilagante; al di là dell’apparente pluralismo e libertà di espressione, peraltro sanciti da quasi tutte le costituzioni delle moderne democrazie, risulta chiaro a tutti che, tranne rarissime eccezioni, le coalizioni che si alternano alla guida dei governi, di qualunque colore appaiano, sono sempre espressione dei medesimi gruppi di potere. La propaganda di regime e tutto l’apparato educativo favorisce nella popolazione il culto del proprio sistema di governo, cercando di convincerla che è l’unico - e probabilmente il migliore – possibile. Le voci di reale dissenso presenti vengono o infiltrate dai “servizi” e sapientemente manipolate od emarginate limitando drasticamente, con tutti i mezzi individuabili, il loro raggio d’azione. Il sistema penale inoltre comprende spesso la tortura fisica e psicologica per tutti coloro che sono semplicemente sospettati di attività eversive. Sono consentiti anche gli omicidi mirati, purché, ovviamente, finalizzati al trionfo della “democrazia”.


In molti romanzi distopici la Storia viene continuamente riscritta in modo da risultare in linea con le previsioni ed i desideri del gruppo dominante; in “1984” è previsto un “nemico” che trama costantemente ai danni del governo e contro cui la popolazione è invitata quotidianamente a sfogare tutto il proprio risentimento; nella nostra epoca siamo ormai tristemente abituati a quegli episodi noti come tattica “false flag” od alle madornali ma sempre efficaci “bugie di guerra”, finalizzate ad ottenere il consenso della popolazione per aggredire altri Stati sovrani. Tali manovre sono spesso precedute ed accompagnate dalla minuziosa creazione del nemico da odiare, l’immagine del quale viene assemblata pazientemente, giorno dopo giorno, telegiornale dopo telegiornale, ospitando sui quotidiani e nei talk show di regime l’opinione di “esperti” e le accurate analisi politiche di sedicenti “gruppi dissidenti in esilio”; si arriva a negare – contro ogni evidenza - che il personaggio oggetto della campagna di demonizzazione sia mai stato considerato amico; si presentano come veri filmati realizzati da esperti cineasti dove alcune milizie, agli ordini diretti del novello despota, si abbandonano ad ogni sorta di violenze, tanto più odiose in quanto rivolte ad esseri indifesi quali donne, vecchi, neonati; la decisione di porre fine alla criminale attività del tiranno sarà salutata con entusiasmo crescente da tutta la popolazione. Tutto ciò è naturalmente reso possibile grazie anche alla solerte complicità di una agguerrita e ben remunerata schiera di pennivendoli e gazzettieri governativi, che diffondono come vere le notizie emesse direttamente dalle centrali di disinformazione. Le eventuali e sempre più rare voci contrarie che tentino una efficace controinformazione non hanno, in genere, i mezzi idonei per contrastare in tempo utile le menzogne ufficiali.

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Altro interessante – ed eccezionalmente significativo - punto di contatto tra la realtà attuale e la letteratura distopica riguarda il divieto di revisione storica da parte dei singoli ricercatori: tale aspetto, che tra l’altro nega alla Storia il suo carattere scientifico – in quanto questa verrebbe affidata al giudizio di un tribunale piuttosto che alla libera ricerca – denuncia la scellerata volontà del pensiero unico dominante, che introducendo lo psicoreato pretende non solo il dominio sul presente ed il futuro, ma anche sul passato, secondo il motto orwelliano: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”. Sempre ad Orwell è dovuta l’introduzione del concetto di “bispensiero”, ovvero la capacità di sostenere simultaneamente due opinioni palesemente contraddittorie e di accettarle entrambe come vere – sintetizzata nello slogan del partito: “la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza, la guerra è pace” -; grazie al bispensiero attuale assistiamo oggi a “guerre umanitarie” a seguito delle quali vengono massacrati migliaia di civili ed intere nazioni sono contaminate per molti decenni futuri con sostanze radioattive; ci indottrinano fino alla nausea con tematiche antirazziste ma dobbiamo tollerare come normale l’ingombrante e criminale presenza di una entità che fa del razzismo uno dei suoi elementi fondanti; alcune situazioni negative per la moderna sensibilità – arretratezza della condizione femminile, scarso rispetto delle minoranze, presenza della pena di morte – vengono denunciate ed aspramente contestate se riferibili al “nemico” di turno, tollerate, minimizzate e addirittura ignorate se presenti nel contesto socioculturale di un alleato.

In molti romanzi anti utopisti ed in moltissimi film riferibili a tale genere le agenzie governative paramilitari sono impegnate nella sorveglianza continua dei cittadini. In alcuni casi il controllo può essere sostituito o coadiuvato da potenti e sofisticate reti tecnologiche. Alla fine dell’Ottocento Jeremy Bentham ideò un sistema di carcere, il Panopticon, pensato come una struttura radiale che consentiva ad un unico guardiano – posizionato in una torretta centrale - di vedere, non visto, tutti i detenuti e divenne un modello nella successiva progettazione di molti istituti di pena. Analogamente i cittadini dell’incubo orwelliano sono continuamente spiati dal Grande Fratello, anche nell’intimità delle loro case (per analogia con tale attitudine è stato battezzato in Italia “Grande Fratello” un reality show dove la vita quotidiana dei protagonisti viene costantemente monitorata attraverso telecamere nascoste; risulta che la maggioranza degli adolescenti affezionati a tale demenziale spettacolo di diseducazione di massa ignori i motivi della scelta del titolo). Sembra che in quella che viene ritenuta “la più grande democrazia del mondo” sia imminente la realizzazione del progetto, spacciato come beneficio sanitario, finalizzato a dotare tutti i cittadini di un chip sottocutaneo che produrrà effetti fino ad oggi impensabili in termini di libertà personale. Sicuramente molti saranno indotti ad assecondare senza protestare questo piano criminale, perché efficacemente spaventati e resi insicuri dalla incombente crisi economica, dal terrorismo e dall’incremento della criminalità.


Ancora molto numerose ed indubbiamente interessanti sono le similitudini da individuare tra le apocalittiche visioni degli universi distopici e la moderna società sedicente democratica; lasciamo il piacere di ulteriori scoperte a chi voglia dedicarsi alla lettura di queste coinvolgenti e spesso profetiche opere letterarie, ricordando il monito che Orwell rivolgeva agli intellettuali e che deve essere fatto proprio da tutti gli uomini liberi del mondo: prendere posizione chiara contro ogni tipo di totalitarismo; soprattutto, aggiungiamo noi, quando si celi camaleonticamente sotto improbabili vesti democratiche per perseguire i propri inconfessabili fini.


A tale proposito – sebbene esuli dalle presenti note - è necessario spendere qualche parola sul concetto di stato totalitario, a nostro avviso oggi usato arbitrariamente - se per tale idealtipo si accettano le connotazioni eminentemente negative codificate da Hannah Arendt (“Le origini del totalitarismo”, 1951) -, soprattutto se riferito al periodo dell’Italia fascista, anche se l’aggettivo “totalitario” veniva disinvoltamente usato, naturalmente in una accezione positiva, da Giovanni Gentile e dallo stesso Mussolini, ad indicare che “… per il fascista … nulla … ha valore fuori dallo Stato …”; se è infatti innegabile che durante il ventennio prese forma un regime autoritario è comunque risibile la tesi secondo la quale tutti gli italiani si sarebbero trasformati all’improvviso in pavidi mentecatti ipnotizzati dal gruppo dirigente, peraltro sconfessata dalla nota e storicamente accertata presenza di diverse anime all’interno del movimento; alcune delle quali, autenticamente rivoluzionarie, emersero prepotentemente quando, con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, vennero definitivamente recisi i legami con le forze reazionarie che facevano capo alla Chiesa ed al troppo piccolo re fuggiasco e traditore.


Né ci convincono le smodate lodi dei glorificatori delle democrazie occidentali, dove chi (mal)governa - grazie alle sponsorizzazioni dei potentati economici che finanziano le campagne elettorali - lo fa col consenso di una percentuale infima della popolazione, vista la crescente disaffezione per le urne degli aventi diritto al voto. L’esigenza morale sentita da tutti deve essere quella di vigilare costantemente per denunciare con forza la deriva sociale verso sistemi disumanizzanti e privi di valori condivisibili e tentare di smascherare - e contrastare con ogni mezzo - le progressioni, anche se piccole ed apparentemente innocue, tendenti all’universo schiavizzante dei regimi effettivamente totalitari.


http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=16899

jeudi, 04 octobre 2012

Exposition: Céline et quelques autres...

mercredi, 03 octobre 2012

Cahier Nimier aux éditions de L'Herne

Vient de paraître:

Cahier Nimier aux éditions de L'Herne

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A partir de 1956, Roger Nimier entre en A partir de 1956, Roger Nimier entre en correspondance avec Céline en tant que conseiller éditorial pour la maison Gallimard. Les liens avec le reclus de Meudon ne cesseront de se resserrer. Au sommaire de ce 99è Cahier, plusieurs articles consacrés à Céline : Frédéric Vitoux « Le fantôme de Nimier à Meudon », les textes de Roger Nimier « Donnez à Céline le Prix Nobel ! », « Céline » (Bulletin de la NRF), des textes de Marcel Aymé et Marc Henrez et enfin une correspondance inédite Céline-Nimier. Consultez le sommaire complet ici.
 
Roger Nimier, L'Herne, 384 pages, 39 €, 2012.
Commande possible sur Amazon.fr.


Cinquante ans après, si déconcertant qu’ait été ce destin, le public et la critique n’en ont pas fini avec Roger Nimier. L’attestent son oeuvre au format de poche et plusieurs essais récents. Aucun livre, pourtant, ne met pleinement sous les yeux cette expérience singulière, vécue entre les années 1940 et 1960. Ce Cahier veut combler ce manque.
 
Il ambitionne ainsi de tenir le rôle de passeur auprès du lecteur actuel.

En 1948, Roger Nimier s’impose à l’âge de vingt-trois ans avec son premier roman, Les Épées. S’attaquant sans tarder à l’ordre intellectuel et moral instauré après la Libération, il se livre à des provocations qui lui valent bientôt des ennemis et une réputation de factieux. Mauriac, Julien Green et Marcel Aymé n’en désignent pas moins Le Hussard bleu en 1950 pour le Goncourt, avant que la revue de Jean-Paul Sartre fasse de ce roman l’emblème d’un groupe littéraire. Cinq autres titres ont déjà paru quand le hussard annonce en 1953 qu’il abandonne le roman pour longtemps. Rupture de ce silence, D’Artagnan amoureux présage à l’automne 1962 un retour, quand survient l’accident mortel.
 
Lancée à la face d’une époque jugée décevante, l’exigence de style qui caractérise Roger Nimier s’est exercée dès le début à la fois dans le roman, la chronique et la critique. Mais elle a aussi conduit l’écrivain à jouer un personnage. Ce Cahier en esquisse donc la mise en scène, avant de s’attacher successivement aux trois volets de l’oeuvre.

Entretien, journal poème, correspondances et autres formes, un matériau varié tente de rendre cette multiplicité à travers le temps.

Tout au long de ce volume, afin de restituer l’écrivain dans sa diversité, documents originaux et témoignages entrent dans une polyphonie de points de vue. Celle-ci s’oppose délibérément à une vision dont la cohérence serait dictée par la volonté de prouver, ou inspirée par le seul souci d’admirer.

Si l’oeuvre compte une quinzaine de volumes, ce Cahier étend la connaissance de l’auteur en rendant accessibles d’importants écrits encore dispersés, ou totalement inédits.
Pour l’interprétation, il apporte les analyses actuelles de critiques et d’écrivains, sans exclure la reprise d’articles significatifs ou fondateurs.

Ainsi se développe une réponse à la question que posent une oeuvre et une figure qui résistent incontestablement au temps. Ainsi surtout peut naître, on l’espère, la tentation de relire Roger Nimier, ou de le découvrir enfin.

 
Roger Nimier, L'Herne, 384 pages, 39 €, 2012.
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mercredi, 26 septembre 2012

Ezra Pound: L’ABC del leggere…

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Ezra Pound: L’ABC del leggere…

Ex: http://www.mirorenzaglia.org/2012/09/ezra-pound-labc-del-...

Leggere non è mai operazione indolore, costa fatica e dedizione. Leggere poesia poi è la cosa più ardua che un lettore possa immaginare di fare. Mi viene quasi da dire che leggere poesia è più duro che scriverla, ma mi astengo perché non sono poeta e posso giudicare solo per sentito dire.

Chi si accosta alla poesia non può mai farlo a cuor leggero, non può pensare di non dover pagare uno scotto e non può utilizzare nessuna scorciatoia. Per decifrarne il significato, per abbandonarsi al verso, per assaporare il ritmo non è sufficiente la buona predisposizione d’animo o una volontà ferrea. Ciò che è necessario è imparare a leggerla, piegandosi al duro percorso dell’apprendistato.

Niente nella poesia è pura casualità, niente può zampillare liberamente. Ogni impressione di levità e musicalità è frutto incessante e sfibrante basato su conoscenza, tecnica, esercizio. Il poeta è come il pugile che salta leggero sul ring schivando, roteando, danzando, incassando e colpendo con una naturalezza che naturale non è mai. È il frutto di una macerazione nelle spossanti sedute d’allenamento in cui, in compagnia soltanto di se stesso e del suo maestro apprende a scarnificare il suo corpo, piroettando con la sua ombra, fino ad apparire senza peso quando si esibisce di fronte alla folla dei tifosi.

Accostarsi alla lettura della poesia richiede la medesima consapevolezza. E sbigottiti di fronte al cammino da intraprendere, quando un sottile sentimento di paura ci assedia, la prima domanda che ci si rivolge è: “chi mi può insegnare?”. È per questo motivo che ho accolto con giubilo la ristampa che Garzanti ha deciso de L’ABC del leggere di Ezra Pound, lo zio Ezra che ancora una volta ci stupisce.

È un onore non da poco accostarsi alle pagine di questo manualetto, perché il (più?) grande poeta del Novecento decide di vestire i panni dell’educatore nel tentativo di concedere a noi lettori una chiave che ci permetta di aprire, magari solo per uno spiraglio, quella porta che ci divide dalla poesia.

1235647.jpgImpresa ardua insegnare a qualcuno come leggerla, ma Pound è grande non solo per le sue opere maggiori, ma per l’incessante, ingenua volontà di regalare aiuto a tutti coloro che ne facciano richiesta. Il suo intento è quello di «offrire un manuale leggibile, tanto per diletto come per profitto, a chi non frequenta più le scuole, a chi non è mai stato a scuola, o infine a quanti ai tempi della loro istruzione hanno dovuto soffrire quello che hanno sofferto molti della mia generazione».

Un approccio iniziale che potrebbe sembrare populista. La poesia spiegata a tutti, facile accesso a chi non ha struttura per leggerla. Niente di più sbagliato. Pound, che non ha mai concesso sconti, in primo luogo a se stesso, costruisce il suo percorso in un modo che potrebbe scoraggiare chiunque ed afferma che la poesia è, sì di tutti, ma di tutti coloro che intendo accostarla nell’unica maniera possibile, studiando, faticando, sudando, crescendo poco a poco in consapevolezza.

Pound non ha nessuna intenzione di dire che, per renderlo accessibile, un testo va svilito e portato al livello del lettore. Piuttosto pensa che sia il lettore a dover arrampicarsi con dolore al livello del testo e per questo si prende la briga di insegnarcelo. Sembrerebbe un cammino di spine e stenti, di noia e di professorale distacco. Niente di più falso anche questo.

Pound delinea una strada totalmente antiaccademica, sui generis, inorganica se non caotica ma ricca di un sentimento quasi struggente che si traduce nella parola amore. A partire da una semplice definizione «La letteratura è linguaggio carico di significato», il suo insegnamento si dipana attraverso una serie di raccomandazioni operative che tendono a dilatare il senso della lettura, così come della scrittura che diventano il rovescio della stessa medaglia.

È così che, tra gli esercizi indicati per il lettore, trova spazio un compito in apparenza facile «Descrivere un oggetto comune come un gatto o una mela». Cosa non facile se si presta attenzione all’aneddoto del pesce che Pound riporta nel suo libro e che gli fa dire «il metodo conveniente allo studio della poesia e delle buone letture è lo stesso del biologo contemporaneo: attenta e diretta osservazione dell’oggetto, e continuo raffronto tra vetrini o campioni».

È solo così che si può preservare la buona poesia, visto che «è indispensabile strappare le erbacce se il Giardino delle Muse deve restare un giardino». È solo attraverso questo metodo analitico che si possono selezionare le parole, limarle nel loro senso, parsimoniosamente dispensarle, per incastrarle nel verso e farle vibrare nel ritmo. E per poter imparare a leggere è indispensabile che gli allievi, una volta composto il loro testo, se lo scambino tra loro per trovare nel testo altrui quante parole inutili vi sono state inserite, quante di queste ne occultano il significato. Per imparare a capire se una frase è ambigua e se una parola collocata in posizione anomala rende la frase stessa più interessante o più dinamica.

Pagine indispensabili che fanno da parte operativa a quelle in cui vengono sondati i segreti del linguaggio, fondati sull’intreccio tra suono e vista e dove sono fissate alcune considerazioni vivificanti: «è convinzione dell’autore che la musica isterilisce se si allontana troppo dalla danza; che la poesia isterilisce se si separa troppo dalla musica; ma questo non implica che ogni buona musica è musica da balletto o che tutta la poesia è lirica. Bach e Mozart non sono mai molto distanti dal movimento fisico».

Si ha l’impressione di un ritorno alle origini assolute dell’arte, in cui una poesia non è mai un testo scritto o letto su un foglio di carta ma una vivida rappresentazione della vita, se non la vita stessa. La poesia, mi sembra di capire da Pound, non si legge (come non si scrive). La poesia, si guarda, si annusa, si gusta, si ascolta, in una parola si vive, con tutta quella fisicità che il termine implica.

In un manualetto breve, la seconda parte è un’antologia di poeti selezionati dal Poeta, si condensano tante di quelle considerazioni che lascio scoprire al lettore, memore anche di un’ulteriore considerazione di Pound che sembra proprio rivolta a me «l’incompetenza è denotata dall’uso di troppe parole».

Pound nella sua enorme lungimiranza aveva capito che non basta essere poeti sommi, è necessario al contorno far crescere una consapevolezza diffusa che permette un arricchimento necessario perché «se la letteratura di una nazione declina, la nazione si atrofizza e decade».

 Mario Grossi

lundi, 24 septembre 2012

Henry Bauchau a pris la route des rêves

L’écrivain belge Henry Bauchau a pris la route des rêves

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau
 tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

L’auteur d’«Œdipe sur la route» et de «L’Enfant bleu» s’est éteint à 99 ans. Il laisse une œuvre marquée par les mythes, l’humain et la psychanalyse

On s’apprêtait à fêter son centenaire et le voilà qui s’en va, à 99 ans, dans son sommeil, quelques mois avant son anniversaire. Henry Bauchau était né le 22 janvier 1913 à Malines. Il s’est éteint dans la nuit de jeudi à vendredi à Paris. Il a vécu en Belgique, en Suisse et en France. «Henry Bauchau a écrit jusqu’à son dernier jour. Il voulait, disait-il «mourir la plume à la main», note Myriam Watthee-Delmotte de l’Université de Louvain, l’une des meilleures spécialistes de Bauchau*.

Il laisse derrière lui une œuvre lumineuse, imperméable aux modes, marquée par son histoire personnelle, par les guerres, par la psychanalyse, impressionnée par la beauté du monde, traversée par les grands textes classiques. Les écrits d’Henry Bauchau portent l’écho des grands mythes, mais ne s’éloignent pas de l’homme d’aujourd’hui.

La reconnaissance sera tardive même si son premier recueil de poèmes, Géologie, publié en 1958 (réédité en 2009 par Gallimard) obtient le Prix Max Jacob. Il faudra attendre 2008 et un septième roman pour qu’il reçoive, en France, le Prix du livre Inter. En Belgique, il patiente jusqu’en 1991, lorsqu’il entre à l’Académie royale de langue et de littérature françaises – l’équivalent de l’Académie française. En 1997, son Antigone (Actes Sud), un succès de librairie, lui vaudra le Prix Rossel, le «Goncourt belge».

Toute sa vie, Henry Bauchau a travaillé. Comme avocat dans les années 1930, il a fait des études de droit en Belgique, tout en militant au sein de la jeunesse catholique. Après la guerre – il sera résistant – il s’installe à Paris. Il entreprend deux psychanalyses. La première, qui dure jusqu’en 1950 sous l’égide de la femme du poète Pierre Jean Jouve, Blanche Reverchon, qu’il dénomme la «Sybille», lui indique la voie de l’écriture. La seconde, de 1965 à 1968, auprès de Conrad Stein, fera de lui un thérapeute.

Mais il faut vivre. La poésie, la peinture et le dessin, qu’il pratique également, ne nourrissent pas. En 1951, il déménage en Suisse et ouvre à Gstaad l’Institut Montesano qui accueille notamment de riches et jeunes Américaines. Il enseigne la littérature et l’histoire de l’art. Il tisse des liens. Rencontre Philippe Jaccottet. Publie des livres aux Editions de l’Aire (La Pierre sans chagrin. Poèmes du Thoronet en 1966 ou Célébration en 1972), chez Pierre Castella (La Dogana. Poèmes vénitiens avec la photographe Henriette Grindat, 1967); il écrit dans la revue Ecriture.

En 1973, l’Institut Montesano ferme. C’est le retour à Paris et le début de ses activités de thérapeute. Il utilise l’expression artistique dans les cures qu’il mène auprès d’adolescents en rupture, puis comme psychanalyste. Il rencontre Lionel Douillet, «l’enfant bleu», un jeune aliéné avec lequel il expérimente les vertus de l’art comme thérapie. Il l’encourage à dessiner, le suit pendant une quinzaine d’années et le mène vers une forme d’épanouissement.

Les romans d’Henry Bauchau portent, tout au long de sa vie, la trace de ses interrogations existentielles. La Déchirure (Gallimard, 1966) rejoue ses relations avec sa mère; Le Régiment noir (1972) explore la vie rêvée de son père. Il puise dans les mythes tout en s’ouvrant sur la poésie, le monde et le trajet personnel de chacun: Œdipe sur la route (1990 chez Actes Sud qui l’édite depuis lors) ouvre un cycle œdipien dont fait partie son Antigone de 1997.

Les années 2000 seront marquées par ses souvenirs de jeunesse et ses expériences thérapeutiques: L’Enfant bleu (2004) retrace les relations d’une thérapeute et de son jeune patient; Le Boulevard périphérique (2008) est un trajet vers la mort où surgissent des souvenirs de guerre; Déluge (2010) raconte une libération par la peinture sur fond d’Arche de Noé; L’Enfant rieur (2011) est le récit d’une jeunesse rêvée. «Je pense, disait-il au site Remue.net à propos de ses textes, que c’est le fait de mon attention à la vie courante et en même temps la préoccupation spirituelle qui fait la qualité de mon œuvre, si jamais elle en a.»

* L’hommage de Myriam Watthee-Delmotte et une foule d’informations sur l’écrivain: bauchau.flter.uclac.be

La Lumière Antigone, livret d’Henry Bauchau, musique de Pierre Bartholomée, est donné ce week-end au Temple allemand à La Chaux-de-Fonds. Rens. www.abc-culture.ch

Lisibilité et idéologie, le cas du texte célinien

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/ 

Lisibilité et idéologie, le cas du texte célinien
par Danielle RACELLE-LATIN
 
 
« J'écris pour les rendre tous illisibles. »
L.-F. Céline.
 
celine-meudon-1959.jpgLe refus de souscrire aux codes linguistiques et culturels qui fondent la lisibilité du roman bourgeois caractérise l' « intentionnalité » des écrits céliniens. Nous plaçons le mot entre guillemets parce qu'il ne fait que renvoyer à l'appréciation de l'écrivain sur sa pratique littéraire. Sans augurer du niveau d'objectivité qu'elle manifeste, il nous faut d'entrée de jeu constater que cette évaluation fut corroborée par le public et sanctionnée par le désintérêt dans lequel sont tombées les dernières productions céliniennes : Guignols Band, Le Pont de Londres, D'un Château l'autre et plus encore Rigodon, Nord ou Féerie pour une autre fois sont actuellement des textes « illisibles ».
 
L'ostracisme dont cette production fait l'objet ne peut pas que tenir à la compromission de leur auteur vis-à-vis du national-socialisme et de l'antisémitisme à une époque qui précédait de peu la seconde guerre mondiale. Le fait est inhérent à la nature de la production elle-même, laquelle ne fait qu'accuser une altérité déjà présente, mais à titre latent, dans les deux premiers romans Voyage au bout de la nuit et Mort à crédit, tous deux cités en bonne place (relative) dans les ouvrages normatifs sur la littérature du xxe siècle.
 
On pourrait invoquer ici, à titre d'hypothèse explicative, la théorie du saut qualitatif. Les premiers textes de Céline contiendraient en eux des signes de différence quantitativement limités et donc latents, qui, en s'accroissant progressivement, auraient produit une brusque mutation qualitative, mutation que l'on peut assurément faire coïncider avec l'éclatement opéré dans la forme de communication antérieurement adoptée. Le passage du roman polémique au pamphlet, de la fiction à l'Histoire, manifeste chez l'écrivain un processus de réification des phantasmes et, au point de vue du lecteur, atteste la désagrégation d'une médiation littéraire acceptable antérieurement. La subversion idéologique du texte célinien restait lisible tant qu'elle s'accommodait d'une médiation littéraire conforme à la pratique idéologique de la lecture bourgeoise. Son caractère fondamental, l'incongruité, devenait par contre irrecevable à partir du moment où, poursuivant sur sa lancée anarchique, le texte projetait son altérité et sa duplicité jusqu'à la transgression du code « fiction littéraire » et faisait passer sans guillemets son discours fictionnel et délirant dans le champ de l'Histoire. La sanction d'une telle transgression est celle de la folie, ultime ostracisme de l'institution sociale.
 
L'exemple tend à illustrer que ce n'est pas le contenu idéologique explicite de la communication qui détermine l'acceptabilité ou la non-acceptabilité du discours littéraire, mais sa « forme idéologique » c'est-à-dire sa conformité ou sa non-conformité aux codes de la lisibilité littéraire. C'est le reniement jugé pathologique des codes de la littérarité qui condamne le discours célinien à ne plus être entendu. Les pamphlets eux-mêmes et leur délire de persécution antisémite fussent restés à la rigueur « lisibles » pour autant que le lecteur eût pu être convaincu, ainsi que Gide tenta de le dire, de leur caractère « poétique ».
 
La seule véritable transgression est celle qui porte sur la typologie des discours implicitement reconnue par l'idéologie. Un texte devient irrecevable du fait qu'il trahit le type de discours auquel ses caractéristiques linguistiques, rhétoriques et idéologiques le destinaient dans la conscience sociale. Le pamphlet célinien transgresse et violente irrémédiablement cette conscience sociale parce qu'il se donne à lire tout à la fois pour un discours politique (référentiel, didactique et performatif) et comme un pur jeu poétique, ballet verbal connotant ironiquement sa propre pratique. Eût-il été poème ou discours politique qu'il aurait été encore justiciable d'une appréciation idéologique — fût-elle négative — et donc « lisible ». Mais par son équivoque formelle il tombe hors de l'espace idéologique, dans la folie. Il ouvre un lieu d'ambiguïté insoluble, produit d'une double destruction : celle du discours politique par le poème, celle du poème par le discours politique. Fiction et Histoire sont renvoyées dos à dos dans une même dérision et le texte sort du sens parce qu'il a brouillé les clivages fondamentaux (discours politique/littéraire), autrement dit les codes de repérage idéologique de la signification.
 
Ce phénomène de transgression joue bien entendu également à l'intérieur d'un type de discours donné. Ici, en l'occurrence, le discours littéraire. Les « romans » céliniens nous en fournissent un bel exemple. On peut dire que les deux premiers romans, Voyage au bout de la nuit et Mort à crédit, bien que subversifs, sont « lisibles » tandis que les derniers, transgressifs, ne sont plus acceptables pour le lecteur-consommateur de romrans.
Le texte subversif est lisible parce qu'en dépit de ses écarts il continue à se conformer à une typologie générique particulière (ici celle du roman), tandis que le texte transgressif opère une destruction radicale du code générique régulateur.
La typologie de base du genre romanesque est bien connue. Disons pour résumer les choses schématiquement qu'il s'agit d'un discours principalement représentatif d'une fiction, laquelle représente à son tour une épreuve de la négativité assumée par un héros, cette crise étant réversible.
 
Le Voyage au bout de la nuit présente les signes certains d'une pratique transgressive des codes littéraires, mais s'exerçant dans les limites typologiques du discours romanesque. Aussi bien, en raison de cette visée romanesque avouée, cette transgression sera-t-elle récupérée esthétiquement comme forme signifiante d'une négativité purement fictionnelle.
Dans le Voyage, la subversion de la langue littéraire (langue écrite) par l'intrusion d'une oralité désublimante (vulgarismes, argot, incongruités, etc.) est le support d'une transgression idéologique (marques d'extranéité culturelle, vision du monde antihumaniste, critique radicale des valeurs sociales et morales...). Mais celle-ci, parce qu'elle s'inscrit dans le cadre d'une fiction romanesque (expérience fictive de la négativité) et, bien qu'elle soit le fait du narrateur et non du seul personnage, est renvoyée à la secondarité littéraire. La négativité idéologique de l'écriture devient « lisible » parce qu'elle prend valeur de forme signifiante connotant la négativité d'une fiction. De ce fait elle est récupérée et positivée : la subversion initiale du code « langue littéraire », inscrite dans la pratique de l'écriture célinienne, devient un code d'enrichissement de cette langue littéraire même. Nous voudrions succinctement illustrer ce processus.
 
 
Voyage au bout de la nuit - Manuscrit
 
La transposition de l'effet de parlé à la langue écrite constitue dans le Voyage un fait d'écriture dont la portée est effectivement transgressive : sa fonctionnalité vise en effet à renverser le code romanesque fondé sur la représentation d'une histoire vraisemblable pour lui substituer un texte. Mixte de langue parlée et de langue littéraire cette écriture brasse, pour les subvertir réciproquement, un nombre considérable de codes linguistiques et littéraires, lesquels renvoient à des signifiés ou des présupposés culturels : l'argot, la parlure populaire sont les codes linguistiques d'un niveau social et d'un ethos particulier (mythe social de la « mentalité populaire »). Par leur utilisation en contexte littéraire, ils acquièrent en sus la valeur de code esthétique : ils signifient un genre existant, celui du populisme. La langue écrite et soutenue quant à elle renvoie à des signifiés diamétralement opposés tant au niveau socio-linguistique que littéraire : pratique conforme au code de la bourgeoisie, elle ne marque dans le roman aucune socialité particulière et se donne à lire comme un langage du subjectif, du psychologique, comme un code adéquat à l'idéalité bourgeoise. L'écriture active est ici un jeu réellement dialectique dans la mesure où elle vise à brouiller la transparence de ces codes de lecture. Par sa fonction mimique (et non simplement mimétique), elle rend mobiles les signifiés par rapport aux codes qu'elle traverse et attaque leur taxinomie. Ainsi les signes de la langue parlée, populaire, y sont-ils déplacés de leur signifié social de telle sorte qu'ils prennent progressivement (au cours de ce qui serait une écriture-lecture) fonction de signifiants strictement textuels.
 
Pour nous limiter à un exemple simple, nous citerons le cas du rappel du pronom, tournure syntaxique utilisée systématiquement par la narration. Celle-ci se donne d'abord à lire, conformément au code, comme signe d'un usage populaire chargé du pouvoir de connoter la marginalité du locuteur par une intonation d'invective ou de ressentiment social. Innombrables sont les phrases du type : « Tu parles si ça a dû le faire jouir, la vache ! » / « Le jour on les aurait bien bousillés jusqu'aux essieux, ces salauds-là », qui se caractérisent par le rappel du pronom sujet ou complément ou de l'un et l'autre en combiné (« Je le connaissais le Robinson moi » / « C'est même ce jour-là, je m'en suis souvenu, depuis qu'il a pris l'habitude de la rencontrer dans ma salle d'attente, la vieille Henrouille, Robinson »).
 
Cette structure est cependant génératrice de tout un travail de déconstruction rationnelle de la phrase qui affecte tout aussi bien les registres de la langue écrite et littéraire que ceux de la langue parlée (populaire, trivial, familier). Un même schème de dénotation rythmique en perturbe la distinction :
 
« C'est un quartier qu'en est rempli d'or, un vrai miracle et même qu'on peut l'entendre le miracle à travers les portes avec son bruit de dollars qu'on froisse, lui toujours trop léger le Dollar, un vrai Saint-Esprit, plus précieux que du sang. »(1)
 
« Elle les tenait déjà d'ailleurs la misère au cou, au corps, les mignonnes, elles n'y couperaient pas. Au ventre, au souffle, qu'elle les tenait déjà la misère par toutes les ondes de leurs voix minces et fausses aussi... » (2)
 
Du registre populaire cette structure verbale se médiatise jusqu'à rejoindre enfin le style impressionniste des passages « littéraires » transcrits en style soutenu :
 
« Chaque fois, au départ, pour se mettre à la cadence, il leur faut du temps aux canotiers. La dispute. Un bout de pale à l'eau d'abord et puis deux ou trois hurlements cadencés et la forêt qui répond, des remous, ça glisse, deux rames puis trois, on se cherche encore, des vagues, des bafouillages, un regard en arrière vous ramène à la mer qui s'aplatit là-bas, s'éloigne et devant soi la longue étendue lisse contre laquelle on s'en va labourant, et puis Alcide encore un peu sur son embarcadère que je perçois loin presque repris déjà par les buées du fleuve, sous son énorme casque, en cloche, plus qu'un morceau de tête, petit fromage de figure et le reste d' Alcide en dessous à flotter dans sa tunique comme perdu déjà dans un drôle de souvenir en pantalon blanc. » (3)
 
Le clivage langue populaire /langue littéraire s'en trouve transgressé au profit d'une écriture qui n'est plus socialisable et qui ne codifie plus effectivement que les signifiés textuels fondamentaux : révolte et impuissance, chaos et relâchement, ballottement débile d'une déviance qui n'est plus celle d'un sujet « situable » dans l'espace social, mais celle de la société tout entière. L'écriture se fait ainsi métalangage poétique, compétence purement rythmique où se forment et se déforment dans un grand mouvement négateur de sac et de ressac les différentes physionomies sociales et culturelles de la performance linguistique qu'elle réduit à une équivalence symbolique dans la négativité.
 
La « parole » narrative issue de cette pratique subversive de la langue ne peut plus être mise au compte du personnage ou du narrateur fictif que si l'on se rend dupe du jeu de trompe-l'oeil qu'affiche pourtant la nature mimique de l'écriture. Par son allure populaire et argotique celle-ci motive bien en apparence la situation des héros dans l'espace socio-linguistique et socio-idéologique du monde fictionnel (personnages déclassés, argotiers, réfractaires à l'ordre social) ainsi que l'action narrative comme procès de déviance sociale. Mais cette illusion s'affiche comme illusion, le réalisme stylistique étant détruit par les inconséquences volontaires de la « parole » (attribution de parlure argotique ou vulgaire à des personnages bourgeois secondaires, registre tantôt populaire tantôt soutenu de la narration). En avouant sa fabrique artificielle l'écriture se montre sans cesse et tend à détruire l'illusion romanesque.
 
Louis-Ferdinand Céline - Voyage au bout de la nuit
Une relecture du texte permettrait par ailleurs de constater que bon nombre de séquences narratives ne sont effectivement que des métaphores discursives « objectivées » ironiquement dans l'espace diégétique. Ainsi par exemple la métaphore de la galère-société présente dans l'ouverture-programme du texte est-elle l'origine de la séquence fantastique de l'« Infanta Combitta », galère espagnole à laquelle Bardamu sera vendu par un prêtre africain pour être conduit dans le « nouveau monde ». Ici encore l'écriture pointe comme surdétermination ironique de la fiction. La subversion du genre et l'utilisation d'une intertextualité complexe dans le roman (conte, satire, picaresque fantastique) découle en droite ligne de la pratique démotique de l'écriture qui se fonde sur la transgression du code « langue littéraire ». De même que l'écriture se constitue par le mixage fantaisiste de niveaux incompatibles de la langue, de même le texte littéraire fonctionne comme confrontation incongrue des codes génériques propres à la langue littéraire. Et ce, afin d'attaquer la fonction de représentation de la littérature mais surtout, à travers elle, cette représentation même du monde qu'elle autorise.
 
On peut constater néanmoins que cette textualité n'a opéré qu'un blocage temporaire à la lisibilité du Voyage au bout de la nuit. La critique, un instant déroutée, eut tôt fait de récupérer cette incongruité « expressive » comme l'indice d'une nouvelle systématique formelle qui sauve la cohérence esthétique de « l'oeuvre » en même temps que sa lisibilité comme roman, c'est-à-dire comme langage médiat de la Valeur.
 
L'usage d'une parole narrative traversée par des discours incompatibles, les contradictions de l'oeuvre ainsi que son hétérogénéité du point de vue des genres peuvent en effet se fonder en « pertinence expressive » aux yeux de cette critique du fait que le roman représente un héros déclassé (populaire), engagé dans une épreuve de délaissement moral et social. Ainsi son univers de représentation ne peut-il être lui-même qu'un « chaos en suspens » (expression de Bardamu, le héros de l'aventure). C'est cette expressivité que l'esthétique du roman « représente » à son tour par le chaos des codes de la langue et de la littérature. La forme n'est là que pour confirmer à titre homologique le sens psychologique de la fiction, l'expérience d'une anomie individuelle, l'épreuve d'un « voyage au bout de la nuit ».
 
La narration ne fait que représenter la fiction. Le livre ne s'ouvre-t-il as sur une rupture de silence (« Ça a débuté comme ça. Moi j'avais jamais rien dit. Rien. ») pour se clôturer sur un retour au silence (« Et qu'on n'en parle plus ») identifiant donc acte de narration et de représentation, mais au profit de cette dernière évidemment ? Le travail de l'écriture est ramené aux dimensions de la « parole » du héros et c'est à travers le code populiste préexistant, en fonction de la marginalité sociale du personnage qu'il pose, que seront rationalisées les subversions textuelles. La lecture est de ce fait à nouveau permise. Le texte voit sa négativité effective récupérée au ciel de l'idéalité esthétique. La subversion des codes littéraires telle que la pratique le Voyage peut ne pas être comprise comme une remise en question de la lisibilité romanesque et de l'idéologie qu'elle présuppose. Le Voyage est bien un roman à forme originale qui « représente » la mise en question individuelle de l'ordre social par la « parole » d'un héros négative, et qui signifie cette négation fictionnelle selon la logique des codes littéraires : leur utilisation chaotique n'empêche pas qu'ils continuent de signifier (dialectiquement) l'ordre, le sens, la valeur. Bien au contraire puisque cette destruction ironique représente précisément dans l'oeuvre l'expérience d'une enténébration de ceux-ci.
 
 
Cette lisibilité du Voyage au bout de la nuit que nous retraçons succinctement, et de façon un peu sournoise, révèle la clôture idéologique de toute lecture. Elle laisse également supposer la nature réactionnaire du phénomène d'esthétisation.
Le processus d'esthétisation semble bien être proportionnel au travail de la subversion littéraire : plus le texte réalise dans sa pratique une destruction de la représentation du monde conforme à l'idéologie, plus cette négativité sera récupérée esthétiquement. Encore faut-il qu'il n'y ait pas transgression du code de lisibilité fondamental. Dans le cas du Voyage, la subversion des codes littéraires s'accommode bien, en effet, du type du discours romanesque puisque la parole s'y présente encore, fût-ce illusoirement, comme celle d'un personnage engagé dans une fiction ou dans le récit de cette fiction. Tel sera encore le cas pour Mort à crédit, en dépit de l'intensification des formes de la subversion verbale que cette seconde production manifeste (emploi systématique de l'effet de parlé, vulgarismes, argot, déconstruction rationnelle plus grande de la phrase linguistique et de la phrase narrative). Par contre, dans les dernières productions de Céline, la subversion, en accentuant encore davantage les écarts au genre romanesque, aboutit à une transgression visible; le support de la lisibilité fictionnelle, à savoir le personnage, disparaît : c'est l'écrivain Céline qui « parle » désormais et la « réalité » que le langage désintègre comme la négativité que cette destruction véhicule ne trouvent plus par conséquent leur code de médiation. La superposition chaotique des genres (épique, satirique, historique, fantastique, poétique, auto-biographique, romanesque...) y est systématisée au point qu'aucun de ces codes génériques ne peut plus être pris comme code de base ou comme type de discours régulateur d'une lisibilité acceptable. Le langage résiste ici comme phénomène irréductible. Que cette transgression soit le fait de la folie, du délire autistique ou d'un refus concerté de faire de la littérature autrement qu'en la déconstruisant, c'est là un problème de lecture critique qui ne concerne pas le lecteur-consommateur de sens, lequel se contente de sanctionner l'altérité de l'écriture en refermant le livre.
 
Dans les limites du discours littéraire, tout écrit est lisible pour autant qu'il se codifie conformément à un type générique. Les subversions apportées à ce type de base, si elles troublent la sécurité idéologique du lecteur, n'en sont pas moins récupérables esthétiquement, pour autant qu'elles n'attaquent pas sa norme d'interprétation.
Les formes subversives se déchiffrent dès lors comme connotations ou comme signifiants d'enrichissement du code fondamental et leur négativité vient renforcer le système de récupération de la lisibilité.
Les formes transgressives, par contre, parce qu'elles attaquent la lisibilité dans ses fondements, font sortir de l'idéologique. Elles sont historiques et dialectiques. Les formes subversives du discours romanesque ne sont lisibles que si elles sont computables, c'est-à-dire susceptibles de s'inscrire comme des célébrations ornementales dans le temps institutionnalisé de la fiction. Fiction qui ne reste omniprésente dans la lecture que parce qu'elle est le garant du caractère strictement individuel, accidentel, non historique de la négativité. Récemment Charles Grivel, dans son ouvrage sur La Production de l'intérêt romanesque, rappelait notamment, en termes peu suspects d'essentialisme, le caractère nécessairement mythique de la lecture comme recouvrement de l'origine à travers le temps du lire. Le plaisir de lire n'est là que pour permettre celui de la relecture. Le temps romanesque, comme chute ou émergence dans la négativité, n'est présenté que pour réactiver la force hypnotique du temps idéologique, temps antérieur et postérieur à la fiction lisible. La lecture comme pratique idéologique épouse donc la structure circulaire qui conduit le sens du même au même à travers un espace qui ne peut être que tracé d'avance.
Déplacée phantasmatiquement du réel historique à la fiction, la négativité— nous dirions plus volontiers l'Historicité, lieu de travail des formes et du sens — peut être ainsi reniée pour autoriser l'aveuglement mythique, l'obturation de la conscience historique en idéologie, temps du prototype, temps du code, origine, dirait Grivel.
La négativité, pour autant qu'elle se donne à lire dans le roman, fût-elle accusée en des termes particulièrement subversifs, n'empêche donc pas pour autant le lecteur de « danser en rond » c'est-à-dire d'opérer une récupération euphorique et limitatrice du texte en le délestant de son altérité effectivement dialectique. Et ce, en fonction du code générique lui-même, qui autorise, par le processus de récupération esthétique, la lisibilité idéologique des « oeuvres ».
 
Danielle RACELLE-LATIN
Littérature, n°12, 1973, pp.86-92.
 
 
 
 
Notes
1. Voyage au bout de la nuit, Paris, Éditions Balland, 1966, p. 142.
2. Ibid., p. 265.
3. Ibid., p. 120.

dimanche, 23 septembre 2012

Vintila Horia, l’esilio e il sogno di una grande patria europea

Vintila Horia, l’esilio e il sogno di una grande patria europea

La scrittore rumeno, autenticamente nazionalista, è tra i dannati della letteratura

Romano Guatta Caldini

Ex: http://rinascita.eu/

VintilaHoriaBustEC.jpgSono innumerevoli gli autori relegati nel limbo dell’editoria, un po’ perché le loro tesi sono considerate politicamente scorrette, dalla massa degli utili idioti che popolano il mondo della critica letteraria, un po’ perché questi scrittori vengono sempre etichettati come impresentabili, a causa dei loro percorsi esistenziali che non corrispondono al cliché dell’intellettuale “democratico”. Fra i dannati della letteratura, un posto di primo piano lo occupa sicuramente Vintila Horia, il déraciné per eccellenza.


Il tema dell’esilio – in Horia – è una costante. Lui, scrittore autenticamente di destra, è il simbolo di quella generazione di intellettuali che, dopo il tramonto dei fascismi e l’instaurarsi delle dittature comuniste nell’est Europa, passarono tutta la vita lontani dalla madre patria. Sebbene, durante la giovinezza, Horia non abbia mai contemplato l’ipotesi di tornare in Romania – il Paese d’origine che lo condannò ai lavori forzati con l’accusa di propaganda fascista – il richiamo della “terra dei padri” influì notevolmente sulla sua produzione letteraria. “Incominciò allora - scrive Horia - il mio vero esilio come un processo di anacoretismo, cioè come un processo di separazione da tutto quello che io ero stato”. Fra i suoi scritti ricordiamo: “Dio è nato in esilio”, “Gli impossibili”, “La rivolta degli scrittori sovietici”, “Il cavaliere della rassegnazione”, “La settima lettera” ed “Una donna per l’Apocalisse”.


Per un esiliato la vita è fatta di incessanti peregrinazioni, alla ricerca - forse inconsapevole - di un’Itaca perduta per sempre. Italia, Austria, Francia, Spagna: furono molte le mete toccate da Horia nel suo percorso di viandante, nell’Europa martoriata dal secondo conflitto mondiale prima e dalla guerra fredda poi. E sono proprio le persone incontrate sulla via i personaggi dei suoi romanzi, come Clara, la bella esule polacca co-protagonista – con Horia “Io narrante” - de “Gli impossibili”. Entrambi in fuga dal comunismo e dai fantasmi del passato, Vintila e Clara si incontrano a Losanna, città che ha dato da sempre rifugio ai perseguitati politici. “Due esiliati - scrive il curatore de Gli Impossibili, per le edizioni Il Borghese - due creature strappate dalla violenza della guerra e dalle aberrazioni della politica al loro Paese; ciascuno spera di ritrovare, nell’amore, la patria, cioè, la fine della solitudine”.


Clara entra nella vita di Horia come una cometa, come un bagliore sfuggente che illumina – per un brevissimo lasso di tempo, l’esistenza dello scrittore rumeno. Nella solitudine interiore di lei, Horia trova ristoro, nella sofferenza provocatale da un passato popolato di fantasmi, l’autore trova le proprie radici, un contatto, seppur effimero, con la lontana Romania. Ed è così, attraverso un viaggio a ritroso nel tempo che Horia ripercorre le tappe che lo hanno portato a Losanna. Un percorso angosciante che partendo dalla casa paterna - ormai spazzata via dal regime comunista – arriva fino all’avvenimento che segnò la svolta negli orientamenti politici dell’autore: l’assassinio, in mezzo alla folla, di tre legionari della Guardia di Ferro.


Come per i suoi connazionali, Emil Cioran e Mircea Eliade, anche per Horia il successo arriverà durante il suo soggiorno forzato all’estero. Nel “60, con la pubblicazione del suo capolavoro, “Dio è nato in esilio”, ad Horia venne assegnato il Premio Gouncourt, il più noto riconoscimento letterario di Francia. Eppure, anche questa volta, i fantasmi del passato tornarono a riscuotere il proprio tributo. Dopo la vittoria del Gouncort, Horia venne invitato a farsi fotografare con il funzionario, dell’ambasciata rumena a Parigi, addetto alle relazioni. Un tentativo, da parte del regime comunista, di riavvicinare lo scrittore. Horia, però, rifiutò l’esortazione e, a quel punto, dalle pagine de L’Humanité scattò una campagna stampa tendente a screditarlo. Il quotidiano marxista, imbeccato dall’inteligencja rumena, mise in atto un violento attacco che, ricordando i trascorsi fascisti dello scrittore, ebbe come risultato la restituzione del premio. “Se il libro di Vintila Horia meritava il Premio Goncourt - si legge nel retro di copertina della pubblicazione italiana del libro “Dio è nato in esilio” - perché i giudici, dopo averlo assegnato secondo tutte le regole, non seppero difendere la loro decisione? E se il libro non meritava il premio, perché gli fu assegnato? La Romania comunista ha cercato fino all’ultimo momento di recuperare Vintila Horia, che vive in esilio per non vivere in una Romania comunista. (…) Si ripeté per Vintila Horia la discriminazione già usata coi militari e gli intellettuali tedeschi: quelli che hanno aderito al comunismo sono illibati e stimabili, chi si rifiuta di farlo è reprobo”.

Aspetto poco conosciuto, dell’autore rumeno, è il suo stretto legame con l’Italia. Nel ‘39, infatti, appena ventiquattrenne ed in seguito alla laurea in giurisprudenza conseguita a Bucarest, Horia venne inviato a Roma, in qualità di addetto stampa della Legazione del Regno di Romania a Roma. Qui conoscerà Papini con cui, nel tempo, instaurerà un prolifico rapporto lavorativo, culturale e naturalmente, di amicizia. A Perugia lo scrittore avrà l’occasione di seguire i corsi di Letteratura e filosofia, almeno fino al suo trasferimento all’ambasciata di Vienna. Da qui, dopo la caduta del regime pro-Asse del Maresciallo Ion Antonescu e il conseguente instaurarsi - in Romania - di un governo filo-sovietico, venne rinchiuso in un campo di concentramento, per diplomatici del Terzo Reich, a Maria Pfarr, in Austria.


Liberato dagli inglesi, nel ‘45, Horia tornò in Italia, a Bologna. Ed è nel capoluogo emiliano che lo scrittore prese la decisione emotivamente più devastante della sua vita: non fare mai più ritorno in una Romania trasfigurata dal comunismo. Durante il periodo nel “bel paese”, lo scrittore collaborò a diverse riviste, come “L’Ultima” ed il “Perseo”, e ad alcuni quotidiani, tra cui “il Tempo” e “Roma”. Da menzionare sono i saggi - di Horia - sui pensatori anticonformisti italiani: l’amico Giovani Papini ed il Barone Julius Evola.


Moderno Ulisse, lo scrittore rumeno non smise mai di viaggiare, tenendo conferenze nelle università di Buenos Aires, Madrid, Parigi e Santiago del Chile. Come molti uomini legati ai fasti, dell’epopea rivoluzionaria nazionale dei regimi fascisti europei, anche Horia si trasferì in Argentina, più precisamente a Buenos Aires dove, grazie all’aiuto di Papini, poté trovare un’occupazione presso un’università locale. La morte lo colse in Spagna, dove aveva trovato rifugio, grazie al governo franchista.


Vintila Horia non tornò mai in Romania e, forse, fu proprio per la sua condizione di apolide che nel tempo sviluppò una sorta d’inter-nazionalismo di stampo europeista. Infatti, durante un’intervista rilasciata a Gianfranco De Turris, Horia dichiarò: “Mi considero uno scrittore europeo. Credo che la mia vera patria, e la patria di noi tutti, italiani, romeni, spagnoli o francesi, sia – in fondo – l’Europa”.


12 Settembre 2012  - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=16691

mercredi, 25 juillet 2012

Paganism & Vitalism in Knut Hamsun & D. H. Lawrence

Paganism & Vitalism in
Knut Hamsun & D. H. Lawrence

 

By Robert Steuckers 

[1]

Knut Hamsun

Ex. http://www.counter-currents.com

Part 1 of 2

Translated by Greg Johnson

The Hungarian philologist Akos Doma, educated in Germany and the United States, has published a work of literary interpretation comparing the works of Knut Hamsun and D. H. Lawrence: Die andere Moderne: Knut Hamsun, D. H. Lawrence und die lebensphilosophische Strömung des literarischen Modernismus [The Other Modernity: Knut Hamsun, D. H. Lawrence, and the Life-Philosophical Current of Literary Modernism] (Bonn: Bouvier, 1995). What they share is a “critique of civilization,” a concept that one must put in context.

Civilization is a positive process in the eyes of the “progressivists” who see history as a vector, for the adherents of the philosophy ofAufklärung [Enlightenment], and for the unconditional followers of a certain modernity aiming at simplification, geometrization, and cerebralization.

But civilization appears as a negative process for all those who intend to preserve the incommensurable fruitfulness of cultural matrices, for all those who observe, without being scandalized, that time is “plurimorphic,” i.e., the time of one culture is not that of another (whereas the believers of Aufklärung affirm that one monomorphic time applies to all peoples and cultures of the Earth). Thus to each people its own time. If modernity refuses to see this plurality of forms of time, it is illusion.

To a certain extent, Akos Doma explains, Hamsun and Lawrence were heirs of Jean-Jacques Rousseau. But which Rousseau? The one stigmatized by Maurras, Lasserre, and Muret, or the one who radically criticized the Enlightenment but without also thereby defending the Old Regime? For this Rousseau who was critical of the Aufklärung, this modern ideology is in reality that exact opposite of the ideal slogan that it intends to universalize though political activism: it is inegalitarian and hostile to freedom, even as it proclaims equality and freedom.

For Rousseau and his proto-Romantic followers, before the modernity of the 18th century, there was a “good community,” conviviality reigned among men, people were “good,” because nature was “good.” Later, in the Romantics, who were conservatives on the political plane, this concept of “goodness” was quite prominent, whereas today one attributes it only to activists or revolutionary thinkers. Thus the idea of “goodness” was present on “Right” as well as on “Left” of the political chessboard.

But for the English Romantic poet Wordsworth, nature is “the theater of all real experience” because man is really and immediately confronted by the elements, which implicitly leads us beyond good and evil. Wordsworth is certainly “perfectibilist”: man in his poetic vision reaches for excellence, perfection. But man, contrary to what was thought and imposed by the proponents of the Enlightenment, is not perfected solely by developing the faculties of his intellect. The perfection of man happens mainly through the ordeal of elemental nature.

For Novalis, nature is “the space of mystical experience, which allows us to see beyond contingencies of urban and artificial life.” For Joseph von Eichendorff, nature is freedom, and in this sense it is a transcendence, as it allows us to escape from the narrowness of conventions, of institutions.

With Wordsworth, Novalis, and Eichendorff, the themes of immediacy, of vital experience, the refusal of contingencies arising from the artificial conventions are in place. From Romanticism in Europe, especially in Northern Europe, developed a well thought out hostility to all forms of modern social life and economics. Thomas Carlyle, for example, praised heroism and disdained the “cash flow society.” This is the first critique of the rule of money. John Ruskin, with his plans for a more organic architecture and garden cities, aimed to beautify the cities and to repair the social and urban damage of the rationalism that had unfortunately arisen from Manchesterism. Tolstoy propagated an optimistic naturalism that owed nothing to Dostoevsky, the brilliant analyst and dramatist of the worst blacknesses of the human soul. Gauguin transplanted his ideal of human goodness in the islands of Polynesia, to Tahiti, among flowers and exotic beauties.

[2]

D. H. Lawrence

Hamsun and Lawrence, unlike Tolstoy or Gauguin, develop a vision of nature without teleology, without a “good end,” without marginal paradisal spaces: they have assimilated the double lesson of pessimism from Dostoevsky and Nietzsche. Nature, for them, is no longer an idyllic excursion, as in the English Lake District poets. It is not necessarily a space of adventure or violence, or posed a priori as such. Nature, for Hamsun and Lawrence, is above all the inwardness of man; it is his inner springs, his dispositions, his mind (brain and guts are inextricably linked together). Therefore, a priori, in Hamsun and Lawrence, the nature of man is neither demonic nor pure intellectuality. It is rather the real, as real as the Earth, as real as Gaia, the real source of life.

Before this source, modern alienation leaves us with two opposing human attitudes: (1) to put down roots, a source of vitality, (2) to fall into alienation, a source of disease and paralysis. It is between the two terms of this polarity that we can fit the two great works of Hamsun and Lawrence: Growth of the Soil for the Norwegian, The Rainbow for the Englishman.

In Hamsun’s Growth of the Soil, nature is the realm of existential work, where Man works in complete independence to feed and perpetuate himself. Nature is not idyllic, as in some pastoralist utopia. Work in not abolished. It is an unavoidable condition, a destiny, an essential element of humanity, whose loss would mean de-humanization. The main hero, the farmer Isak, is ugly in face and body. He is crude, simple, rustic, but unwavering. He is completely human in his finitude but also in his determination.

The natural space, the Wildnis, this space that sooner or later will receive the stamp of man, is not the realm of human time, that of clocks, but of the rhythm of the seasons, of periodic rotations. In that space, in that time, we do not ask questions, we work to survive, to participate in a rhythm that surpasses us. This destiny is hard. Sometimes very hard. But it gives us independence, autonomy; it allows a direct relationship with our work. Hence it gives meaning. So there is meaning. In Lawrence’s The Rainbow, a family lives on the land in complete independence on the fruits of its own crops.

Hamsun and Lawrence, in these two novels, leave us with the vision of a man rooted in a homeland (ein beheimateter Mensch), a man with a limited territorial base. The beheimateter Mensch needs no book learning, needs no preaching from the media; his practical knowledge is sufficient; thanks to it, he gives meaning to his actions, while allowing imagination and feeling. This immediate knowledge gives him unity with other beings participating in life.

In this perspective, alienation, a major theme of the 19th century, takes on another dimension. Generally, the problem of alienation is addressed from three different bodies of doctrine: (1) The Marxists and historicists locate alienation in the social sphere, whereas for Hamsun and Lawrence, it lies in the inner nature of man, regardless of social position or material wealth. (2) Alienation is addressed by theology and anthropology. (3) Alienation is seen as a social anomie.

For Hegel and Marx, the alienation of the people or the masses is a necessary step in the gradual process of narrowing the gap between reality and the absolute. In Hamsun and Lawrence, alienation is more fundamental; its causes are not socio-economic or political; they lie in our distance from the roots of nature (which to that extent is not “good”). One does not overcome alienation by creating a new socioeconomic order.

According to Doma, in Hamsun and Lawrence, the problem of the cut, of the caesura is essential. Social life has become uniform, tends toward uniformity, automation, excessive functionalization, while nature and work in the cycle of life are not uniform and constantly mobilize vital energies. There is immediacy, while everything in urban, industrial, modern life is mediated, filtered. Hamsun and Lawrence rebelled against this filter.

In “nature” the forces of interiority count, particularly for Hamsun, and to a lesser extent for Lawrence. With the advent of modernity, men are determined by factors external to them, such as conventions, political agitation, public opinion that gives them the illusion of freedom while it is in fact the realm of manipulation. In this context, communities are breaking up: each individual is content with his sphere of autonomous activity in competition with others. Then we arrive at anomie, isolation, the hostility of each against all.

The symptoms of this anomie are crazes for superficial things, for sophisticated garb (Hamsun), signs of a detestable fascination for what is external, for a form of dependence, itself a sign of inner emptiness. Man is torn by the effects of external stresses. These are all indications of loss of vitality in alienated man.

In the alienation of urban life, man finds no stability because life in the metropolis resists any form of stability. Such an alienated man cannot return to his community, his family of origin. For Lawrence, whose writing is more facile but more striking: “He was the eternal audience, the chorus, the spectator at the drama; in his own life he would have no drama.” “He scarcely existed except through other people.” “He had come to a stability of nullification.”

In Hamsun and Lawrence, EntwurzelungUnbehaustheit, rootlessness and homelessness, this way of being without hearth or home, is the great tragedy of humanity in the late 19th and early 20th centuries. To Hamsun, place is vital for humans. Every man should have his place. The location of his existence. One can not be cut off from one’s place without profound mutilation. This mutilation is primarily mental; it is hysteria, neurosis, imbalance. Hamsun is a psychologist. He tells us: self-consciousness from the start is a symptom of alienation.

Already Schiller, in his essay Über naive und sentimentalische Dichtung [On Naïve and Sentimental Poetry], noted that agreement between thought and feeling was tangible, real, interior for natural man, but it is now ideal and exterior in cultivated humans (“the concord between his feelings and his thoughts existed at the origin, but no longer exists except at the level of the ideal. This concord is no longer in man, but hovers somewhere outside of him; it is no more than an idea that has yet to be realized; it is no longer a fact of life”).

Schiller hoped for an Überwindung (overcoming) of this caesura, for a total mobilization of the individual to fill this caesura. Romanticism, for him, aimed at the reconciliation of Being (Sein) and consciousness (Bewußtsein), fighting the reduction of consciousness solely to rational understanding. Romanticism values, and even overvalues what is “other” to reason (das Andere der Vernunft): sensual perception, instinct, intuition, mystical experience, childhood, dreams, pastoral life.

The English Romantic Wordsworth deemed this desire for reconciliation between Being and consciousness “rose,” calling for the emergence of “a heart that watches and receives.” Dostoevsky abandoned this “rose” vision, developing in response a quite “black” vision, in which the intellect is always a source of evil that led the “possessed” to kill or commit suicide. In the same vein, in philosophical terms, G. E. Lessing and Ludwig Klages emulated this “black” vision of the intellect, while considerably refining naturalist Romanticism: to Klages, the mind is the enemy of the soul; to Lessing, the mind is the counterpart of life, born of necessity (“Geist ist das notgeborene Gegenspiel des Lebens”).

Lawrence, in some sense faithful to the English Romantic tradition of Wordsworth, believes in a new adequation of Being and consciousness. Hamsun, more pessimistic, more Dostoyevskian (hence his success in Russia and its impact on such ruralists writers as Belov and Rasputin), persisted in the belief that as soon as there is consciousness there is alienation. Once man begins to reflect on himself, he detaches himself from the natural continuum, in which he should normally be rooted.

In Hamsun’s theoretical writings, there is a reflection on literary modernism. Modern life, influences, processes, refine man to rescue him from his destiny, his destined place, his instincts which lie beyond good and evil. The literary development of the 19th century betrays a feverishness, an imbalance, a nervousness, an extreme complexity of human psychology. “The general (ambient) nervousness has gripped our fundamental being and has rubbed off on our feelings.” Hence the writer now defines himself on the model of Zola, as a “social doctor” who describes social evils to eliminate disease. The writer, the intellectual, and develops a missionary spirit aiming at a “political correctness.”

Against this intellectual vision of the writer, Hamsun replies that it is impossible to objectively define the reality of man, for an “objective man” would be a monstrosity (ein Unding), constructed in a mechanical manner. We cannot reduce man to a catalog of characteristics, for man is changing, ambiguous. Lawrence had the same attitude: “Now I absolutely flatly deny that I am a soul, or a body, or a mind, or an intelligence, or a brain, or a nervous system, or a bunch of glands, or any of the rest of these bits of me. The whole is greater than the part.” Hamsun and Lawrence illustrate in their works that it is impossible to theorize or absolutize a clear and distinct view of man. Thus man is not the vehicle of preconceived ideas.

Hamsun and Lawrence note that progress in self-awareness is not the process of spiritual emancipation, but rather a loss, a draining of vitality, of vital energy. In their novels, it is the characters who are still intact because they are unconscious (that is to say, embedded in their soil or site) who persevere, triumphing over the blows of fate and unfortunate circumstances.

There is no question, we repeat, of pastoralism or idyllism. The characters of Hamsun’s and Lawrence’s novels are traversed or solicited by modernity, hence their irreducible complexity: they may succumb, they suffer, they undergo a process of alienation but can also overcome it. This is where the Hamsun’s irony and Lawrence’s notion of the phoenix come in. Hamsun’s irony ridicules the abstract ideals of modern ideologies. In Lawrence, the recurrent theme of the phoenix indicates a certain degree of hope: there will be resurrection. Like the phoenix rising from the ashes.

Paganism & Vitalism in Knut Hamsun & D. H. Lawrence, Part 2


[1]

Ludwig Fahrenkrog, “The Holy FirePart 2 of 2

Translated by Greg Johnson

The Paganism of Hamsun and Lawrence

If Hamsun and Lawrence carry out their desire to return to a natural ontology by rejecting rationalist intellectualism, this also implies an in-depth contestation of the Christian message.

In Hamsun, we find the rejection of his family’s Puritanism (that of his uncle Hans Olsen), the rejection of the Protestant worship of the book and the text, i.e., an explicit rejection of a system of religious thought resting on the primacy of pure scripture against existential experience (in particular that of the autarkical peasant, whose model is that of Odalsbond of the Norwegian countryside).

The anti-Christianity of Hamsun is rather non-Christianity: it does not give rise to religious questioning in the mode of Kierkegaard. For him, the moralism of the Protestantism of the Victorian era (in Scandinavia, they called it the Oscarian era) is quite simply an expression of devitalisation. Hamsun does not recommend any mystical experience.

Above all, Lawrence is concerned with the caesura between man and the cosmic mystery. Christianity reinforces this wound, prevents it from clotting, prevents it from healing. However, European religiosity preserves a residue of this worship of the cosmic mystery: it is the liturgical year, the liturgical cycle (Easter, Pentecost, Midsummer, Halloween, Christmas, Epipany).

But these had been hit hard by the processes of disenchantment and desacralization, starting with the advent of the primitive Christian church, reinforced by Puritanism and Jansensim after the Reformation. The first Christians clearly wanted to tear man away from these cosmic cycles. The medieval church, however, sought adequation between man and cosmos, but the Reformation and Counter-Reformation both clearly expressed a return to the anti-cosmism of primitive Christianity. Lawrence writes:

But now, after almost three thousand years, now that we are almost abstracted entirely from the rhythmic life of the seasons, birth and death and fruition, now we realize that such abstraction is neither bliss nor liberation, but nullity. It brings null inertia.

This caesura is a property of the Christianity of urban civilizations, where there is longer an opening to the cosmos. Thus Christ is no longer a cosmic Christ, but a Christ reduced to the role of a social worker. Mircea Eliade spoke of a “cosmic Man,” open to the vastness of cosmos, the pillar of all the great religions. From Eliade’s perspective, the sacred is reality, power, the source of life and fertility. Eliade: “The desire of the religious man to live a life in the sacred is the desire to live in objective reality.”

The Ideological and Political Lessons of Hamsun and Lawrence

On the ideological and political plane, on the plane of Weltanschauungen, Hamsun and Lawrence had a rather considerable impact. Hamsun was read by everyone, beyond the polarity of Communism/Fascism. Lawrence was labeled “fascistic” on a purely posthumous basis, in particular by Bertrand Russell who spoke about his “madness” (“Lawrence was a suitable exponent of the Nazi cult of insanity”). This phrase is at the very least simple and concise.

According to Akos Doma, the works of Hamsun and Lawrence fall under four categories: the philosophy of life, the avatars of individualism, the vitalistic philosophical tradition, and anti-utopianism and irrationalism.

1. Life-philosophy (Lebensphilosophie) is a polemical term, opposing the “vivacity of real life” to the rigidity of conventions, the artificial games invented by urban civilization to try to give meaning to a totally disenchanted world. Life-philosophy appears under many guises in European thought and takes shape beginning with Nietzsche’s reflections on Leiblichkeit (corporeity).

2. Individualism. Hamsun’s anthropology postulates the absolute unicity of each individual, of each person, but refuses to isolate this individual or this person from any communal context, carnal or familiar: he always places the individual or the person in interaction, in a particular place. The absence of speculative introspection, consciousness, and abstract intellectualism make Hamsun’s individualism unlike the anthropology of the Enlightenment.

But, for Hamsun, one does not fight the individualism of the Enlightenment by preaching an ideologically contrived collectivism. The rebirth of the authentic man happens by a reactivation of the deepest wellsprings of his soul and body. Mechanical regimentation is a calamitous failure. Therefore, the charge of “fascism” does not hold for either Lawrence or Hamsun.

3. Vitalism takes account of all the facts of life and excludes any hierarchisation on the basis race, class, etc. The characteristic oppositions of the vitalist movement are: assertion of life/negation of life; healthy/unhealthy; mechanical/organic. Thus one cannot reduce them to social categories, parties, etc. Life is a fundamentally apolitical category, because it subsumes all men without distinction.

4. For Hamsun and Lawrence, the reproach of “irrationalism,” like their anti-utopianism, comes from their revolt against “feasibility” (Machbarkeit), against the idea of infinite perfectibility (which one finds in an “organic” form in the first generation of English Romantics). The idea of feasibility goes against the biological essence of nature. Thus the idea of feasibility is the essence of nihilism, according to the contemporary Italian philosopher Emanuele Severino.

For Severino, feasibility derives from a will to complete a world posited as being in becoming (but not an uncontrollable organic becoming). Once this process of completion is achieved, becoming inevitably ceases. Overall stability is necessary to the Earth, and this stability is described as a frozen “absolute good.”

In a literary manner, Hamsun and Lawrence have foreshadowed such contemporary philosophers as Emanuele Severino, Robert Spaemann (with his critique of functionalism), Ernst Behler (with his critique of “infinite perfectibility”), and Peter Koslowski. Outside of Germany or Italy, these philosophers are necessarily almost unknown to the public, especially when they criticize thoroughly the foundations of the dominant ideologies, which is rather frowned upon since the deployment of an underhanded inquisition against the politically incorrect. The cells of the “logocentrist conspiracy” are in place at all the publishers in order to reject translations, keep France in a state of philosophical “minority,” and prevent any effective challenge to the ideology of power.

Vitalistic or “anti-feasibilist” philosophers like Nietzsche, Hamsun, and Lawrence, insist on the ontological nature of human biology and are radically opposed to the nihilistic Western idea of the absolute feasibility of everything, which implies the ontological inexistence of all things, of all realities.

Many of them — certainly Hamsun and Lawrence — bring us back to the eternal present of our bodies, our corporeality (Leiblichkeit). But we can not fabricate a body, despite the wishes reflected in some science fiction (and certain projects from the crazy early years of the Soviet system).

Feasibilism is hubris carried to its height. It leads to restlessness, emptiness, silliness, solipsism, and isolation. From Heidegger to Severino, European philosophy has focused on the disaster of the desacralization of Being and the disenchantment of the world. If the deep and mysterious wellsprings of Earth and man are considered imperfections unworthy of the interest of the theologian or philosopher, if all that is thought abstractly or contrived beyond these (ontological) wellsprings is overvalued, then, indeed, the world loses its sacredness, all value.

Hamsun and Lawrence are writers who make us live with more intensity than those sometimes dry philosophers who deplore the wrong route taken centuries ago by Western philosophy. Heidegger and Severino in philosophy, Hamsun and Lawrence in creative writing aim to restore the sacredness of the natural world and to revalorize the forces that lurk inside man: in this sense, they are ecological thinkers in the deeper meaning of the term.

The oikos and he who works the oikos bear within them the sacred, the mysterious and uncontrollable forces, which are accepted as such, without fatalism and false humility. Hamsun and Lawrence have therefore heralded a “geophilosophical” dimension of thought, which has concerned us throughout this summer school. A succinct summary of their works, therefore, has a place in today’s curriculum.

Lecture at the Fourth Summer School of F.A.C.E., Lombardy, in July 1996.

Source: Vouloir, August 1997; online: http://www.centrostudilaruna.it/paganisme-et-philosophie-de-la-vie-chez-knut-hamsun-et-david-herbert-lawrence.html [2]

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/07/hamsun-and-lawrence-part-2/

samedi, 07 juillet 2012

Fabrice LUCHINI à propos de Louis-Ferdinand CÉLINE

 

Fabrice LUCHINI

à propos de Louis-Ferdinand CÉLINE

jeudi, 05 juillet 2012

Lovecraft und die Inszenierung der großen Niederlage

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„I Am Providence“ – Lovecraft und die Inszenierung der großen Niederlage. Mahnung und Forderung

 

   

Geschrieben von: Dietrich Müller  

 

Ex: http://www.blauenarzisse.de/

 

„I am Providence” – ich bin die Vorsehung. Diese Worte kann man auf dem Grabstein von Howard Phillips Lovecraft lesen. Es sind irgendwie trotzige Worte, sie wirken seltsam, wenn man sich die Photographien dieses Mannes betrachtet: Ein feminines, leicht verkniffenes Gesicht, das mehr auf unzufriedene Schüchternheit schließen lässt. Das Gesicht eines Hintergrundmenschen. Frei von Ausstrahlung oder zupackender Lebenskraft. Die Worte auf dem Grabstein klingen mehr nach einem Triumph, welchen wir scheinbar nicht entschlüsseln können.

Was für einen Sinn soll es haben, sich mit diesem Mann zu beschäftigen? Er hat eine reiche Korrespondenz hinterlassen und eine überschaubare Anzahl an Geschichten, die dem Horrorgenre zugerechnet werden – das nicht ganz zu Unrecht einen zweifelhaften Ruf genießt. Selbst für einen so früh verstorbenen Mann ist seine Biographie schrecklich mager, sie bietet kaum Höhepunkte, praktisch nichts Erzählenswertes. Geboren, geschrieben, gestorben. Lovecraft in drei Worten.

Was kann die Beschäftigung mit diesem Mann uns schon geben?

Ein Portrait dieses Mannes zu verfassen, scheitert am biographischen Zugriff. Es soll uns auch nur am Rande kümmern, wie er gelebt hat. Aber aus seinen Widersprüchen und seinen Fähigkeiten lässt sich ein Destillat erzeugen, aus dem sich einiges ziehen lässt und gerade dem kritischen Geist Nahrung liefert. Mehr als Fragment kann es freilich nicht sein, das hätte ihm wohl auch gefallen.

Kapitulation hat durchaus etwas Verführerisches. Hat man erst einmal alle Hoffnung persönlich negiert, kann man sich bequem am Leben vorbeidrücken. Widerstand ist anstrengend, nervenaufreibend. Wo man sich an den Zeiten und den Menschen offensiv abmühen muss, da geht es an die Nerven, an die Substanz und der Ausgang bleibt immer mehr als ungewiss. Dem vollendeten Pessimisten ist der Eskapismus nahe.

Beides trifft auf Lovecraft zu. Es ist eine Situation, welche die Kritiker heutiger Zeiten (und gerade die Konservativen und Reaktionäre) mit ihm teilen: Alles wird schlechter, die Entwicklungen werden zur Lawine, wir werden erdrückt. Fast könnte man neidisch werden auf die Kollaborateure und ihr zufriedenes Unzufriedensein zwischen Konsum und banalen Sorgen.

Das Verführerische an der Kapitulation

Viele kennen die Verführung, sich in die Schreibstube zurückzuziehen und abzuwarten, bis die Zeit einen dahinrafft. Diese leise Stimme, dass man sich umsonst abplackt und welch’ hoffnungsloser Irrsinn im dauernden Widerstand liegt. Lieber sich nicht mehr kümmern, nicht mehr teilnehmen. So sind wir doch Lovecrafts Kinder, wenn wir diese Verführung und diese Stimme kennen.

Allein: Das stellt den Zweifel nicht ab. Den Schrecken über soviel Unwissen und Dummheit. Das – durchaus auch wohlige Erschauern – beim Ausblick auf künftige Katastrophen. Man blickt aus dem Fenster und beschaut die lachend-dummen Gesichter und fragt sich, wie sie aussehen werden, wenn das Unheil zu ihnen kommt. Der Gedanke gefällt und beunruhigt uns, er zieht uns magisch an den Schreibtisch, denn ganz können wir es nicht unterlassen, uns doch mitzuteilen – und sei es auch nur dem Papier.

Nicht weil wir Erfolg wünschen oder Ruhm, sondern weil wir den Eselgesichtern einen Vorgeschmack geben wollen auf die bitteren Zeiten, welche sich für uns so klar abzeichnen. Man hat sich zwar versteckt, aber man kann den prophetischen Akt nicht unterlassen, auch weil man das falsche Glück durchschaut, welchem die Kleingeister da huldigen.

Sind wir neidisch auf die Gedankenlosen?

Halt! Moment! Wir wollten doch kapitulieren, uns nicht mehr einmischen! Uns der Passivität hingeben und alles verneinen. Wegducken und in Ruhe vergehen. Der Widerspruch nagt an uns. Sind wir neidisch? Ein unschöner Gedanke. Vielleicht so unschön wie wir und die anderen? Wir leben also weit weg vom prallen Leben. Die Menschen und ihr Alltag widern uns an. Unbegreiflich das dumme Tun und der Lauf der Zeit. Wir künden davon und werden alt. Auch aus der Ferne kann man das Schauen nicht unterlassen, die Gedanken nicht abstellen – die Qual sich zu äußern, die Frage, ob nicht alles anders sein könnte.

Schließlich knüppeln wir die Hoffnung in den Texten tot. Oder versuchen es zumindest. Nicht mehr nur wegen der anderen, viel mehr noch wegen uns selbst. Abfinden wollen wir uns mit dem Ekel und nicht aufbegehren. Die Welt ist uns unbegreiflich, aber wir uns auch. Was soll dieser Unsinn? Das Leben ist und bleibt ein Saustall und es widert uns an. Geht mir aus den Augen! Gehe mir selbst aus den Augen! Ich tue mir selbst furchtbares an, aber wir auch den anderen. Missgunst und Empathie lassen keine Ruhe aufkommen. Auch die Heimat wird Gefängnis.

Welch Verführung, welch Verschwendung! Also zehren wir uns auf

Wir werden alt im Zeitraffer. Und krank. Wir schämen uns einerseits ob des ausgewichenen Lebens und sind doch voller Vorfreude, wenn die Zeit uns endlich dahinrafft. Wir spucken auf das erbärmliche Geschenk dieses unnötigen Lebens. Nur auf die Haltung kommt es noch an, auf die letzten Meter, bevor man endlich diesem Scheißhaufen mit seinen Amöbenexistenzen entfliehen kann. Ob einfach nur ein schwarzer Vorhang fällt oder neue Welten, neue Schrecken sich auftun, ist uns egal. Nur weg! Haben wir doch geahnt (oder nur gemeint?), dass es den ganzen Wahn nicht wert ist.

Welche Verführung, welche Verschwendung! Also zehren wir uns auf: Uns rührt nicht die Frau, die wir nicht hatten, das Kind nicht, welches wir nie wollten, die Nachwelt nicht, welche wir ablehnen wie die Gegenwart. Wir haben ein Beispiel gegeben oder auch nicht. Das soll andere kümmern. Als uns das Sterben schließlich zerfrisst, blicken wir uns noch einmal delirisch um. Sicher war es alles nichts wert. Oder hoffen wir es nur?

Das ist jene drohende, zwiespältige Botschaft, welche Lovecraft, sein Leben und seine Schriften haben. Wir leben in diesem Widerspruch. Die „Fülle der Zeit“ (Gasset) wie im 19. Jahrhundert kennen wir nicht und sie kommt auch nicht wieder. In jedem Zweifler steckt auch ein Nihilist, die wegwerfende Geste, die durchaus auch großartig wirken kann. Dieser Widerspruch und diese Verführung machen uns zu Lovecrafts Kindern. Freilich: Man sollte nicht seinem Beispiel folgen. Der quälende Blick vor dem Ende muss furchtbar sein und ist eine Mahnung.

Auch die Glücklichen vergehen

Aber wenn wir schließlich in seine Texte schauen, wenn wir angenehm erschauern beim Blick in den irrsinnigen Abgrund dieser sirenenhaften Unfassbarkeit, dann spüren wir, wie nahe er uns gewesen ist. Der Ekel über den alltäglichen Menschen in seiner viehischen Zufriedenheit wird uns bestätigt und am Ende kommt das Böse zu allen und bleibt stark in seiner Unfassbarkeit. Auch die Glücklichen vergehen und ihr Sturz ist noch viel tiefer.

Das hilft über manch düstere Momente hinweg. Gerade diese missgünstige Ader, diese Lust am Unglück der Anderen befriedigt Lovecraft für uns. Deswegen redet man auch nicht gerne von ihm, vor allem in Deutschland. Aber auch in der internationalen Rezeption verschanzt man sich hinter schönen Worten oder böser Kritik.

Lovecraft hat der „Leere eine Farbe“ gegeben

Man sieht es nicht gerne, wenn der Menschenhasser und Katastrophenwünscher in jedem von uns bedient wird. Das literarische Establishment meidet seine Schriften und Visionen. Nicht alleine wegen der rassistischen Untertöne, sondern wegen der verführenden Wirkung und dieses unangenehmen Gefühls, beim eignen Widerspruch ertappt worden zu sein.

Er hat der „Leere eine Farbe“ gegeben (Camus), während er konsequent gegen sich selbst lebte. Er ist Verführung und Vergewaltigung zugleich. Destruktiv und autoaggressiv. Selbstbezogen und doch voller Empathie. Ein totaler Widerspruch. Aus der Zeit.

„I am Providence.” Alles hatte er überwunden und negiert. Und doch den Gedanken nicht unterlassen. Daran schließlich zerbrochen. Durch die Zeit hat er über diese und seine bescheidene Herkunft triumphiert, indem er seine Niederlage inszenierte. Und heute vernehmen wir vielleicht ein leises Echo eines boshaften Lachens, das möglicherweise von ihm stammt. Er war mehr als „nur“ Providence.

In unseren aktuellen Thesen-durch-Fakten-Anschlägen haben wir uns ebenfalls mit dem Thema Pessimismus auseinandergesetzt und dazu sechs Thesen formuliert: Pessimismus ist Feigheit!

mardi, 03 juillet 2012

Roman 20-50, revue d'étude du roman du XXè siècle

Roman 20-50, revue d'étude du roman du XXè siècle

 
La revue Roman 20-50, revue universitaire d'étude du roman du XXè et XXIè siècle publiée par l'équipe d'accueil « Analyses littéraires et histoire de la langue » et du Conseil Scientifique de l'Université Charles-de-Gaulle - Lille 3, a consacré son numéro 17 de juin 1994 à Louis-Ferdinand Céline. Sous la direction d'Yves Baudelle, ce numéro, toujours disponible, réunit une quinzaine d'études sur Voyage au bout de la nuit. Voici son sommaire :
 
DOSSIER CRITIQUE : Voyage au bout de la nuit de L.-F. Céline
Études réunies par Yves Baudelle
 
Henri GODARD
Céline à l'agrégation
 
Philippe MURAY
C'est tout le roman ce quelque chose
 
Jean-Pierre GIUSTO
Louis-Ferdinand Céline ou le dangereux voyage
 
Michel P. SCHMIDT
Un texte méchant
 
Gianfranco RUBINO
Le hasard, la quête, le temps dans le parcours du moi
 
Philippe BONNEFIS
Viles villes
 
Denise AEBERSOLD
Goétie de Céline
 
André DERVAL
La part du fantastique social dans Voyage au bout de la nuit : Mac Orlan et Céline
 
Judith KARAFIATH
Les héritiers indignes de Semmelweis : médecins et savants dans Voyage au bout de la nuit
 
Isabelle BLONDIAUX
La représentation de la pathologie psychique de guerre dans Voyage au bout de la nuit
 
Philippe DESTRUEL
Le logographe en délit
 
Yves BAUDELLE
L'onomastique carnavalesque de Voyage au bout de la nuit
 
Catherine ROUAYRENC
De certains "et" dans Voyage au bout de la nuit
 
Günther HOLTUS
Les concepts voyage et nuit dans le Voyage au bout de la nuit de L.-F. Céline
 
LECTURES ÉTRANGÈRES
Marc HANREZ
Céline, Sand, Shakespeare
 
ÉTUDE DE LA NOUVELLE
Marie BONOU
Histoire d'un crime : La Nuit hongroise
 
ROMAN 20/90
Yves REUTER
Construction/déconstruction du personnage dans Un homme qui dort de Georges Perec
 
COMPTE RENDU
Catherine DOUZOU

 

Commande (le numéro 15 € franco):
ROMAN 20-50
1, Bois du Vieux Mont
62580 VIMY
 

mardi, 26 juin 2012

Le Bulletin célinien n°342 - juin 2012

Le Bulletin célinien n°342 - juin 2012

 
Vient de paraître : Le Bulletin célinien n°342.

Au sommaire : 

- Marc Laudelout : Bloc-notes
- Juliette Demey : Lucette, ombre et lumière de Céline
- M. L. : Une soirée Céline aux Beaux-Arts
- Bernard Labbé : Dernier hommage à Claude Duneton
- M. L. : Céline et « Je suis Partout »
- M. L. : Gofman, le Marquis et les emmerdeuses
- René Miquel : En consultation chez le docteur Destouches [1933]
- M. L. : Le cinquantenaire vu par Jean-Paul Louis
- François Brigneau : Céline revient… Le retour de l’Aryen errant [1951]
 
Un numéro de 24 pages, 6 € franco.

Le Bulletin célinien, B. P. 70, Gare centrale, BE 1000 Bruxelles.

Le Bulletin célinien n°342 - Bloc-Notes

 
Mon ami Marc Hanrez estime que le terme « célinien » est souvent abusivement employé, y compris par le BC dans son titre. Est « célinien », selon lui, ce qui appartient à Céline. On parlera donc de l’univers célinien, du style célinien, des personnages céliniens, du comique célinien, etc. En revanche, dès lors qu’on traite, par exemple, des spécialistes de l’écrivain, il faudrait, selon lui, utiliser le terme « céliniste ». C’est ce que fit Philippe Alméras lorsque, répliquant à un confrère qui avait mis en cause son travail, il titra son droit de réponse : « Ne tirez pas sur le céliniste ! » – clin d’œil à un film célèbre oblige.
Alors, célinien ou céliniste ? Cela mérite discussion car si l’on dénomme ainsi les exégètes de l’œuvre, convient-il d’utiliser le même terme pour désigner ceux qui sont, tout simplement, des amateurs, éclairés ou non, de l’écrivain ? Dans sa liste des noms et adjectifs correspondant aux noms de personnes, le dictionnaire Le Robert ne retient, lui, que le terme « célinien ». Lequel rejoint ainsi la cohorte d’adjectifs dérivés de patronymes d’écrivains, tels « balzacien », « rimbaldien », « giralducien » ou encore « apollinarien ». Un autre ami… célinien, Christian Senn, s’est amusé à faire le relevé de tous les mots forgés autour de « Céline » tels qu’il les a récoltés au cours de ses lectures. Le mot « célineurasthénie », imaginé par un journaliste en 1933 (voir page 16), ne figure pas dans sa collecte. Mais il en a trouvé bien d’autres. Ainsi, pour désigner les fervents de l’écrivain, le choix ne se limite pas aux deux termes signalés puisqu’on trouve aussi : célinophile, célinomane, célinologue, célinialiste, célinomane, célinomaniste, célinolâtre, célinomaniaque, ... La liste n’est pas exhaustive. Pour désigner, non pas les personnes, mais la passion – ou l’ensemble des passionnés – que l’œuvre suscite, on trouve : célinie, célinerie, célinisme, célinite, etc. Sans oublier que l’écrivain lui-même a forgé des mots à partir de son nom : Célinegrad (Féerie pour une autre fois) ou Célineman [rabineux] (Bagatelles pour un massacre).
Voilà qui rappelle les travaux du regretté Alphonse Juilland (1923-2000) sur les néologismes de Céline. Ces livres, qu’il a lui-même édités, devraient figurer dans la bibliothèque de tout célinien (ou céliniste) digne de ce nom ¹. On déplore naturellement que cet éminent linguiste n’ait pu achever cette œuvre unique en son genre. Dommage aussi que Céline n’en ait rien vu alors même qu’il avait eu connaissance de cette initiative : « Pour ce jeune homme qui veut étudier mes livres, diantre, ils sont là ! Qu'il s'y plonge. De ma part dites-lui que lorsqu'il aura fini son étude je la lirai et lui donnerai mon avis ². » Au moins Cioran, vieil ami de Juilland, lui exprima-t-il son enthousiasme : « Tous ces mots, quelle nourriture ! Cela vous fortifie, vous libère du cafard, vous réconcilie avec tout ce que le quotidien comporte d'intolérable. Un stimulant ! Il faudrait que les psychiatres en proposent l'usage. » Et si cela ne suffisait pas, c’est également Alphonse Juilland qui a retrouvé la trace d’Elizabeth Craig. Sans lui, nous n’aurions pas ce témoignage bouleversant ³ sur Céline livré peu avant la mort de la dédicataire de Voyage au bout de la nuit
 
Marc LAUDELOUT 
 
 
1. Alphonse Juilland, Les Verbes de Céline, 4 vol. parus, 1 : Étude d’ensemble, 2 : Glossaire, A-D, 3 : Glossaire, E-L, 4 : Glossaire, M-P, Anma Libri [Saratoga], coll. « Stanford French and Italian Studies », 32, 1985. [vol. 1] ; Montparnasse Publications [Stanford], 1988, 1989 et 1990 [vol. 2-4] & Les adjectifs de Céline, vol. 1 [seul paru] : Glossaire, A-C, Montparnasse Publications [Stanford], 1992, 271 p. 
2. Lettre du 6 décembre 1950 in Pierre Monnier, Ferdinand furieux, L’Age d’Homme, 1979, p. 160.
3. Elizabeth et Louis. Elizabeth Craig parle de Louis-Ferdinand Céline, Gallimard, 1994, traduction Florence Vidal (le livre a initialement paru en langue anglaise)

dimanche, 24 juin 2012

Louis-Ferdinand Céline - Knut Hamsun

Louis-Ferdinand Céline - Knut Hamsun

par Marie-Laure Béraud

Ex: http://www.lepetitcelinien.com/

Dans Dialogues outre-ciel (Ed Manuella, 2010), Marie-Laure Béraud a imaginé différentes conversations entre personnalités aussi diverses que Marylin Monroe, Robert Walser, Barbara et Oscar Wilde. Voici le dialogue imaginaire entre Knut Hamsun (1859-1952), écrivain norvégien, Prix Nobel de Littérature en 1920 et Louis-Ferdinand Céline.
 

Louis- Ferdinand Céline, Knut Hamsun Louis Ferdinand râlait, trépignait, faisait les cent pas, jurait, crachait des mots qui cinglaient comme des lames acérées à tel point que les oreilles trop sensibles se ramassaient à la pelle, mais sans la moindre goutte de sang répandue. Dans cette immensité opaque et indéfinissable, il portait des habits de campagne, gros pull de laine, pantalon de velours élimé, une tenue assez négligée qui seyait parfaitement à son visage et ses cheveux en désordre. Lui les limbes il n’en avait rien à foutre il aurait préféré tout de suite aller griller en enfer. 

L F - Crénom de Dieu, tiens Dieu justement parlons-en ! C’est quoi toutes ces putains d’antichambres, ces inventions à la con ? Tous les crétins échoués ici et là, purgatoire, limbes etc… Ils n’ont toujours pas compris que leur sale cœur d’homme eh bien le bon Dieu il en a rien à foutre, qu’il les laisse choir ici pétris de leur cruauté et qu’il se marre de les avoir dupés, qu’il en pisse de rire même ! C’est un p’tit malin. Moi je m’en fous de l’espoir c’est mes clebs qui me manquent , mon perroquet et ses plumes, l'odeur de poil et de pluie mais y’avait un panneau interdit aux animaux à l’entrée et j'ai eu beau discuter avec le larbin, rien à faire, inflexible le gars, drôlement bien dressé. Du coup je suis marron enfin façon de parler puisqu’ici y’a ni odeurs ni couleurs, ils font dans la sobriété, triste à pleurer, nu, vide, gris, froid, chiant,et ces nuées d’anges qui passent et tentent de me toucher le crâne pour me refiler un peu de bonté, la juste esthétique et tout ce fatras de trucs, amidonnés, bien repassés, pile au format de l’étagère ! Eh bien non ! J'en veux pas !

Un homme au regard bleu perçant, très distingué, d’allure nordique, releva avec intérêt le mot format qui le mit en colère. Il en fit presque tomber son chapeau et ses lunettes, pris soudain de violentes convulsions. D'habitude de nature assez calme, ce qu'il venait d'entendre le fit littéralement bondir.

K- Quoi ! Encore cette histoire stupide de l’homme tel qu’en rêvent nos gouvernants ? Soumis, hagard, sans aucune histoire digne d’être révélée, juste humain par fatalité, par accident, qui se lève, qui se couche et recommence jusqu’à son dernier jour d’inconscience, sans fleurs, sans montagnes sans arbres, sans amour, sans rien qui vaille la peine. Non j’ai assez goûté les basses hésitations, les écritures sans talent, les prétentieux, les couards, les théoriciens de la vie, ceux qui pensaient avoir trouvé sans même avoir commencé à chercher, toute cette basse cour trépidant en vain. Les mots, ils n’en ont pas joui, ils en ont eu peur, une peur qui dépassait tout, aucun soubresaut sur la ligne parfaite de leur petite existence, à peine le début d’une mélodie médiocre. Mais ne seriez-vous pas Monsieur Céline ? Celui qui tant d’années après sa mort continue à déchaîner les haines et les passions ? Je me présente Knut Hamsun. Notre destin fut assez similaire savez-vous, écartés et conspués, de vraies maladies ambulantes !

L F- Oui je sais on a trinqué pour tout l'monde, mes congénères ne m’ont pas raté, la vie ne m’a rien épargné, la guerre non plus, ça vous change un homme, ensuite quand on en réchappe, on n’est plus jamais le même. Tant de cruauté ça vous fait partir l’âme en vrille, ça sèche sur pied, ça vous ôte tout sentiment de compassion, et Dieu sait que j’en ai eu de la compassion, tous ces gens misérables et malades que j’ai soignés, que j’ai même sauvés parfois, eh bien Dieu ne me l’a pas rendu, au contraire, il m’a mis au pilori. On m’a entôlé, exilé, faut dire que je l’avais cherché avec "Bagatelles" ça m’a mis dans de beaux draps cette histoire-là, d’écrire sur la haine inextinguible de l’homme pour l’homme, l’impossibilité d’aimer de ceux qui ne furent pas aimés, mais avant ça j’indisposais déjà avec mes écrits éclaboussant le rêve de tranquillité de ces bourgeois, de ces intellectuels  à la petite semaine, aux mains moites, aux mots enrobés de miel, à la langue plate et monotone. Déjà le Voyage avait fait des ravages, j’étais maudit dès le départ. Oui mes livres m’ont dévoré. Toute l’attention, la précision, la passion, le besoin que j’avais d’écrire phrases après phrases, tout cela m’a consumé peu à peu. Écrire m’a assassiné.
 
K- Oui je vous voyais d’ici même vous débattre avec les bêtes que vous aviez provoquées et dont il était impossible de calmer la colère. Puisque je suis votre aîné mais d’assez peu nous avons connu tous deux cette époque de tumulte où j’ai eu tort et vous aussi de croire à une grande Europe possible grâce à l’Allemagne tant je détestais ces britanniques, leur arrogance de colons, leur désir de commerce, d’usines, de fumées, cette gifle odieuse à la nature, ce bruit. Je n’avais pas saisi les desseins de ce petit homme à moustache que je trouvais stratège et fort et en qui je croyais voulant à tout prix échapper à cette emprise anglaise. Je n’y ai vu que du feu, je ne me doutais pas une seconde de ses projets meurtriers, de sa folie. On a eu vite fait de me taxer d'antisémite alors que j’ai passé des jours et des nuits à télégraphier pour tenter de sauver un maximum de personnes des exécutions quand j’aurais pu fuir mon pays pour être à l’abri, d’ailleurs les allemands ont fini par me voir d’un très mauvais œil. Vous c’est assez différent puisqu’il n’était pas seulement question de politique mais d’une haine pour les juifs, exacerbée par des humiliations que certaines personnes vous auraient fait subir dans votre jeunesse et pour lesquelles il vous fallait un coupable. Alors la puissance de cette haine s’est étendue à toute l’humanité, et tel un cyclone, a tout décimé.

L F- Oui c’est sûrement ce sentiment de frustration qui a tout déclenché, c’est souvent cela qui pousse au crime, cette faiblesse de l’homme, la sensation douloureuse qu’il n’est pas reconnu, accepté, le mépris dont il est victime rend la bonté qu’il y a pourtant en lui absolument invisible, muette, paralysée. J’ai baissé les bras, me suis résigné à la contemplation de ma déchéance consentie. Vous savez bien que toute révolte mouvante est liée à l’espoir, je n’avais pas d’espoir. L'espoir est malheureux puisqu'il espère et la prière aussi puisque c'est un cri qui monte et qui vous abandonne. Mais les blasphémateurs dont je suis ne sont-ils pas un peu croyants au fond ? Toutes mes pages, toutes ces phrases qui n'étaient qu'une seule et même question contribuèrent à l'édification de ma pierre tombale. J'ai trop crié ma rage, trop répandu mon désespoir, ils n'aimaient bien que les optimistes, ceux qui racontent des trucs dont on a rien à foutre, leurs petites affaires privées avec un beau brin de plume.

K- Certainement, et comme je vous comprends sur ce point. La révolte des êtres et des mots est vitale, il faut ouvrir la porte sur l'inconnu, ne pas accepter, inventer, explorer, et cela demande une vigilance de chaque instant, un travail immense pour que les mots incarnent les émotions, qu'ils ne fassent qu'un. Cette notion de labeur, de quête infinie a par exemple tout à fait échappé à la plupart des auteurs américains trop aveuglés par une morale inhibitrice menant à un rêve unique et commun, celui de la lumière au bout du tunnel. L'Amérique exactement comme vous m’a terriblement déçu, comme vous j’ai trouvé stupide cette façon de penser que la liberté est à gagner à tout prix selon des règles précises, qu’elle devient fanatique et despotique. Cette notion de liberté si puérile a détruit sur son passage tous les petits chemins de traverse menant à l’autonomie mentale. Ils sont partis ensemble sur la même route, à la conquête d'une chimère. Rien que de prononcer le mot anarchie les faisait frémir et se signer soudain comme s’il s’étaient trouvés face à face avec le diable. L’anarchie c’était de la dynamite là-bas, un mot à proscrire, un intrus dangereux, une véritable menace pour la tranquillité de leurs âmes, un mot pourtant dont ils ne connaissaient même pas la signification.

L F- Ah l'Amérique, New-York , Detroit , Ford, les ouvriers qui bossent comme des chiens et qu'on remplace à la moindre défaillance et tout ça pour gagner un petit coin de paradis sur terre, pour contribuer à l'effort de la nation, ben merde alors! Même les putes font l'même rêve, avoir du pognon pour s'payer des déshabillés affriolants et finir en déambulant dans une petite chaumière bien nickel avec deux ou trois bambins dans les pattes. Ça me rappelle Lola la garce, et puis Molly la douce, ça c'était le bon côté de l'affaire, un peu d'oubli entre les jambes que l'coeur faisait pulser, avant de repartir pour la vraie vie violente, dégradante, exigeante. Bon heureusement y'avait la danse aussi, la danse ça vous transcendait une femme, j'ai toujours été avec des danseuses, sans doute leur côté sucre impalpable, cette façon de se glisser et d'onduler tout en rêvant, de s'enrouler autour de vous avec cette volupté inouïe. De vraies femmes dans leur mission originelle. Sans compter qu'elles pouvaient penser aussi! Bon y'a eu les autres, les hygiéniques, partout, en Afrique surtout, mais pour là-bas on était pas équipés nous les blancs becs, il faisait trop chaud et on attrapait tout un tas de saloperies dans ces corps -là et puis y'avait les moustiques et les mouches et puis on était usé par ce qu'on y voyait, question de vous plomber un homme ils s'y connaissaient! ça crevait dans tous les coins!

K- Vous êtes décidément bien cynique ! Et alors que tout porte à croire en votre nihilisme je vois dans votre regard une grande tristesse, une grande amertume, une lumière presque éteinte et c'est la preuve que vous y avez cru un peu à la vie, sinon vous afficheriez une mine victorieuse et sereine. Vous avez été vaincu par votre conscience, cet animal sournois, qui vous a tourmenté sans cesse jusqu'ici, dont vous n'avez jamais pu vous débarrasser une fois pour toutes. Sombrer dans la folie eût été préférable et à l'heure qu'il est vous auriez peut-être obtenu l'oubli et le calme dans votre trajectoire. Moi on a essayé de me faire passer pour fou à quatre vingt six ans! Ça les arrangeait bien de me coller dans un asile, de m'écarter, s'ils avaient pu ils m'auraient liquidé mais ils ne pouvaient pas se le permettre avec un prix Nobel. Oui mon propre pays m'a dépouillé de tous mes biens, m'a ruiné. Accusé de défendre le national socialisme, je voulais simplement qu'on évite cette guerre, que les norvégiens arrêtent de combattre en pure perte et surtout qu'ils ne se soumettent pas aux anglais ni aux américains.

L F- Je vous approuve, pendant cette foutue guerre ça me déprimait de voir tous ces gens partir au casse-pipe. Et puis je sais de quoi j'parle, j'en ai vu des morts et des abimés des tout sanguinolents, suintant par tous les bouts, j'en ai entendu, des cris insupportables qui vous fichaient des frissons dans l'dos. Ma médaille pour 14 -18 j'me la suis foutue au cul. J'voulais pas que ça recommence ce cirque funèbre. J'voulais plus qu'on fasse la fête à ce stupide paradoxe qui consistait pour tous ces pauvres soldats en première ligne à vendre leur vie pour survivre, à mourir pour ne pas être éliminé par cette société qui prônait l'honneur, le patriotisme, valeurs que défendent rarement les macchabés.

K- Alors la mort est une délivrance. Vous, vous avez eu avec elle un long entretien, avez tenté de voir par quel côté elle arriverait, mais peu d'hommes ont eu comme vous la conscience de son omniprésence, le talent que vous aviez de lui parler comme à un interlocuteur essentiel. D'ailleurs vous étiez mort avant de mourir, elle et vous, aviez fini par être si proches! Amis en somme! Cela m'a beaucoup impressionné, votre courage à l'affronter et même à la désirer comme une ultime maîtresse, comme la dernière conquête possible.

L F- On m'a un peu forcé la main faut dire ! Du coup j'ai un peu moins de mérite, le harcèlement et la calomnie m'ont conduit à faire plus rapidement que quiconque sa connaissance approfondie. Malheureusement ce privilège a eu un prix, et ce plaisir à provoquer la tempête, à dire non et à faire mal avec mes mots pour leur remuer les neurones, pour leur faire voir que, oui, ils sont bien tout seuls et pour toujours, ça m'a coûté un max, une peine à perpèt c'était pareil !

K- Ma façon d'écrire ne leur a pas plu, ils voulaient de jolies phrases inoffensives et romantiques, quelque chose qui laisse l'esprit en paix, qui ne réveille rien, mais je n'ai jamais pu parler d'autre chose que de cette quête impossible d'un homme qui ne trouvera pas. La faim en est une parfaite illustration, cela a été peut-être le sommet de mon art, le récit d'un estomac vide, le mystère des nerfs dans un corps affamé, l'errance d'un homme seul ne voulant pas céder aux bassesses, quelque soit le prix à payer, la quête d'un homme honnête et orgueilleux. Ma vocation fut de prouver que j'étais vivant en cherchant sans cesse, et non pas d'écrire pour distraire mon prochain avec de pauvres histoires à faire pleurer dans les chaumières .Oui j'ai voulu faire de ma langue une langue étrangère, une nouvelle musique , la transcender. Tout comme vous j'étais possédé tout entier, brûlant intérieurement de cette nécessité d'écrire. Vous savez quelque chose m'a vraiment aidé et soulagé après le vacarme de l'Amérique, après toutes ces luttes, et cette chose merveilleuse fut l'Orient, cette manière qu'on les gens là-bas de se taire et de sourire. Plus je m'en approchais moins les hommes parlaient, ils avaient compris la majesté du silence et son éloquence incomparable.

L F- Vous vous êtes montré plus sage que moi, cela ne fait aucun doute, et si j'ai souvent cru que le silence fut préférable aux âneries, je n'ai pu m'empêcher de crier dans chacun de mes livres, de défendre bec et ongles l'esprit contre le poids, le pur sang contre le percheron. Mes livres étaient mon seul refuge possible, ma maison, et mes mots son architecture. La nature et son silence vous ont aidé, moi la nature je l'ai découverte au cimetière, pour vous dire! Ma vraie inspiratrice fut la mort, tapie et ronronnant dans mon sang, qui m'a transformé dès le départ en hérisson d'angoisse.

K- Vous n'avez plus rien à craindre ici! Le crépuscule permanent dont nous sommes entourés vous et moi écarte la laideur, efface la misère et l'horreur, change la poussière en ombre, comme une malédiction en bénédiction. Ici on ne pleure plus, on ne sourit plus, on contemple dans une sorte de béatitude les agitations terrestres et vaines, c'est tout. Nous ne sommes plus. Tous deux prirent place côte à côte, sans un mot, et plongèrent leur orbites vides et noirs sur le monde lointain, où ils pouvaient apercevoir la naissance et la mort des sourires sur le visage des hommes, heureux de n'en faire plus partie.

 

Marie-Laure BÉRAUD

 

Dialogues outre-ciel, Ed. Manuella, 2010.

 

 

 





Nous remercions l'auteur d'avoir bien voulu nous faire partager ce texte.

jeudi, 21 juin 2012

Jean Prévost, homme libre et rebelle

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Jean Prévost, homme libre et rebelle

par Pierre LE VIGAN

 

Qui connaît encore Jean Prévost ? Assurément plus grand monde. Cet oubli est de prime abord étonnant. Voici un écrivain français, intelligent bien qu’intellectuel, patriote sans être anti-allemand, anti-hitlérien sans être communiste, il fut aussi maquisard et fut tué dans le Vercors durant l’été 44.

 

La France d’après-guerre a fort peu honoré cet homme, non plus que la France actuelle. L’air du temps est à la contrition mais pas à l’admiration. Jean Prévost a pourtant des choses à nous dire : sur le courage et sur l’intelligence, et sur le premier au service de la seconde comme l’avait rappelé Jérôme Garcin (1).

 

Dominique Venner écrit de son côté : « Pamphlétaire, critique littéraire et romancier, Jean Prévost venait de la gauche pacifiste et plutôt germanophile. C’est le sort injuste imposé à l’Allemagne par les vainqueurs de 1918 qui avait fait de lui, à dix-huit ans, un révolté. Depuis l’École normale, Prévost était proche de Marcel Déat. Il fréquentait Alfred Fabre-Luce, Jean Luchaire, Ramon Fernandez. À la fin des années Trente, tous subirent plus ou moins l’attrait du fascisme. Tous allaient rêver d’une réconciliation franco-allemande. Tous devaient s’insurger contre la nouvelle guerre européenne que l’on voyait venir à l’horizon de 1938. Lui-même ne fut pas indifférent à cet « air du temps ». En 1933, tout en critiquant le « caractère déplaisant et brutal » du national-socialisme, il le créditait de certaines vertus : « le goût du dévouement, le sens du sacrifice, l’esprit chevaleresque, le sens de l’amitié, l’enthousiasme… (2) ». Une évolution logique pouvait le conduire, après 1940, comme ses amis, à devenir un partisan de l’Europe nouvelle et à tomber dans les illusions de la Collaboration. Mais avec lui, le principe de causalité se trouva infirmé. « Il avait choisi de se battre. Pour la beauté du geste peut-être plus que pour d’autres raisons. Il tomba en soldat, au débouché du Vercors, le 1er août 1944.  (3) ».

 

Jean Prévost est d’abord un inclassable : ni communiste, ni catholique, ni même communiste-catholique comme beaucoup, rationnel sans être rationaliste, progressiste sans être populiste au sens démagogique, patriote sans être nationaliste. Un intellectuel nuancé et, dans le même temps, un homme privé vif, tourmenté, sanguin, passionné, exigeant vis-à-vis de lui-même. Un aristocrate. Stendhal dont Prévost fut un bon spécialiste disait que le « vrai problème moral qui se pose à un homme comblé » est : « que faire pour s’estimer soi-même ? ». Jean Prévost fit sien ce problème. Pour y répondre, il « raturait sa vie plutôt que son œuvre ». Et il se « dispersait » dans une multiplicité de centres d’intérêt : critique littéraire, cosmologie et polémologie, philosophie du droit et architecture… En fait, Jean Prévost foisonnait. Sa pseudo-dispersion était profusion. « Jamais de ma vie je n’ai pu rester un jour sans travailler. »

 

Éloigné de tout dandysme, Jean Prévost veut savoir pour connaître. Son travail intellectuel est ainsi un « rassemblement » de lui-même, une mise en forme de son être, qui se manifeste par des prises de position rigoureuses et souvent lucides. Grand travailleur tout autant que grand sportif, Jean Prévost attend que le sport lui fournisse « ce bonheur où tendait autrefois l’effort spirituel ». C’est aussi pour lui un antidote à la civilisation moderne. « Les Grecs, écrit-il, s’entraînaient pour s’adapter à leur civilisation. Nous nous entraînons pour résister à la nôtre. »

 

Malgré la diversité de ses dons, Prévost évoque le mot de Stendhal sur ceux qui « tendent leur filet trop haut ». Il fait partie de ceux qui « pêchent par excès ». Mais c’est un moindre défaut car, comme Roger Vaillant le dit à propos de Saint-Exupéry, « l’action le simplifie ». Et Prévost est un homme d’action. Jean Prévost est aussi aidé par une idée simple et robuste de ses devoirs et de ce qui a du sens dans sa vie : le plaisir, l’amour de ses enfants, les amis, le souci de l’indépendance de son pays.

 

vercors-tombe-jean-prevost-img.jpgTrop païen pour ne pas trouver que la plus détestable des vertus – ou le pire des vices – est la « reconnaissance » envers autrui, trop français pour ne pas avoir le sens de l’humour, « décompliqué des nuances », mais plein de finesse et de saillies (en cela nietzschéen). Jean Prévost se caractérise aussi par la temporalité rapide de son écriture qui est celle du journalisme. C’est ce sens du temps présent qui l’amène (tout comme Brasillach, mais selon des modalités fort différentes), à l’engagement radical, c’est-à-dire, dans son cas, à la lutte armée contre les Allemands dans le maquis du Vercors. C’est là que cet homme, multiple, entier, solaire, trouva sa fin. Il avait écrit : « il manque aux dieux-hommes ce qu’il y a peut-être de plus grand dans le monde; et de plus beau dans Homère : d’être tranché dans sa fleur, de périr inachevé; de mourir jeune dans un combat militaire ».

 

Pierre Le Vigan

 

Notes

 

1 : Jérôme Garcin, Pour Jean Prévost, Gallimard, 1994.

 

2 : Idem.

 

3 : Dominique Venner, dans La Nouvelle Revue d’Histoire, n° 47, 2010.

 

• Publié initialement dans Cartouches, n° 8, été 1996, remanié pour Europe Maxima.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

mercredi, 20 juin 2012

Edgar Allan Poe – Meister der Dunkelheit

Edgar Allan Poe – Meister der Dunkelheit      
Geschrieben von: Christoph George   
Ex: http://www.blauenarzisse.de/

Es gibt Literaten, die man aufgrund ihres Stiles noch viele Jahre nach ihrem Ableben hoch schätzt. Der amerikanische Schriftsteller Edgar Allen Poe gehört unzweifelhaft zu eben jenen. Neben romantischen Erzählungen, Detektivgeschichten und anderen literarischen Gattungen prägte er vor allem die Horrorgeschichte wie wenige andere. Bis heute gilt er als kaum übertroffen.

Sprach der Rabe: „Nimmermehr.“ – Poe und die Horrorgeschichte

Edgar Poe wurde 1809 als Sohn eines Schauspielerehepaares in Boston geboren und schon in frühester Kindheit von schweren Schicksalsschlägen geprägt. Nachdem 1811 die Eltern verstarben, wurde er mit seinen beiden Geschwistern neuen Familien zugewiesen, die sich ihrer annahmen. Der junge Edgar kam zu den Allans, deren Nachnamen er von nun an zusätzlich trug. Sein Bruder William starb im Alter von nur 24 Jahren. Ebenso seine 14 Jahre jüngere Frau Virginia, seine Cousine, die er 1936 geheiratet hatte. Derlei tragische Schicksalsschläge verarbeitete Poe später in jenen Gruselgeschichten, für die er noch heute weltberühmt ist. Der Tod schöner junger Frauen, wie er in Der Untergang des Hauses Usher, Der schwarze Kater, Das ovale Portrait, Morella, oder auch in seinem bekanntesten Gedicht Der Rabe dargestellt wird, blieb nicht zuletzt deswegen ein sich ständig wiederholendes Motiv in Poes Werk.

Die innere Hölle

Die Beschäftigung mit den Grenzen des für den Menschen ertragbaren, die Konfrontation mit dem teils puren Grauen, ist typisch für diese Art der Literatur und beinhaltet den Kern ihrer Anziehungskraft. Das Beleuchten der dunklen Seite der Seele, nicht als bloßer Kitzel der Unterhaltung gedacht, sondern insbesondere als Vortasten an das heran, was man im 16. Jahrhundert noch die „innere Hölle“ nannte, macht gerade ihr eigentliches Vermögen aus. Poe beherrschte es in Perfektion, den Leser genau dorthin zu führen.

Nach seinem frühen Tode schnell vergessen

Der Autor selbst erlangte durch Publikationen seiner Arbeiten in mehreren Zeitschriften bereits zu Lebzeiten einige Bekanntschaft, wurde aber nach seinem mysteriösen Tod im Alter von nur 40 Jahren schnell vergessen. Zu dessen postumen Ruhm, welchem wir heute seine allgemeine Popularität verdanken, kam es erst, nachdem er in Europa entdeckt wurde. So erschien eine u.a. von Arthur Moeller van den Bruck herausgegebene ins Deutsche übersetzte 10 bändige Ausgabe seines Werkes am Anfang des 20. Jahrhunderts, welche half, den Schriftsteller einer breiten Öffentlichkeit vorzustellen. Erst später wurde er aufgrund dieser Popularität auch in seiner Heimat Amerika wiederentdeckt.

Eine Entdeckung wert

Gerechtfertigt ist seine allgemeine Bekanntschaft dabei in der Tat, verweist man auf die Intensität seiner erzählten Bilder. Kurzgeschichten wie Der Fall Valdemar sind es, die den Leser auch noch nach über 150 Jahren zum Erschauern bringen; die zu der Identifikation mit den literarischen Figuren einladen, um dann kurz und grausam ihren ganzen Schrecken zu entfalten. Trotz der die Gemüter vermeintlich abstumpfenden Horrorfilmindustrie, haben Poes Gruselgeschichten nach wie vor nichts an ihrer Faszination eingebüßt, und den Autor so zu einem zeitlosen Literaten gemacht, den es weiterhin zu entdecken lohnt.

(Bild: Daguerreotypie von Edgar Allan Poe 1848)

mardi, 19 juin 2012

Ray Bradbury. Le mille facce di un genio inafferrabile

Ray Bradbury. Le mille facce di un genio inafferrabile

Autore: Gianfranco de Turris

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Parlare di Ray Bradbury significa far correre subito il pensiero ai suoi due capolavori, Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1953), anche se lo scrittore, deceduto ieri a Los Angeles a quasi 92 anni (li avrebbe compiuti il 22 agosto), ha avuto una carriera più che settantennale (avendo esordito a 21 anni nel 1941, su Weird Tales) nel corso della quale ha pubblicato storie di tutti i generi, e non solo quel particolare tipo di fantascienza che a suo tempo si definì «umanistica», comunque tutte caratterizzate dal suo tocco personale, dal suo stile unico, evocativo, dalla singolare aggettivazione che avvolge il lettore senza che se ne accorga.

Con lui scompare uno degli ultimi rappresentanti (è ancora vivo Frederik Pohl, classe 1919) della grande e irripetibile «età d’oro della fantascienza». Pochi lo sapevano, ma negli ultimi anni era bloccato su una sedia a rotelle, però continuava a scrivere con regolarità pur se per interposta persona: ogni mattina per tre ore dettava telefonicamente alla figlia Alexandra, perché non poteva più usare la sua vecchia macchina da scrivere meccanica a causa di un malanno al braccio.

 

A suo tempo, negli anni Cinquanta-Settanta, ciò che colpì di Bradbury fu la visione malinconica e tragica del destino dell’uomo contemporaneo e futuro preda della massificazione totale, dello sradicamento dell’Io individuale e della sua personalità, succube di una macchinificazione della vita, intendendo con questo non solo i marchingegni meccanici e robotizzati, ma anche la virtualità che in America si stava già imponendo a metà del Novecento, mentre da noi ci si sarebbe accorti di tutto questo soltanto a partire dagli anni Ottanta con il moltiplicarsi dei canali televisivi. Non c’è dunque da meravigliarsi che lo scrittore nei suoi ultimi interventi pubblici se la sia presa con gli aggeggi elettronici che hanno invaso la nostra vita e la condizionano. «Abbiamo troppi telefonini. Troppo internet. Dobbiamo liberarci di quelle macchine», ha detto in un’intervista per il suo novantesimo compleanno al Los Angeles Times. Perché meravigliarsene, come fece a suo tempo qualcuno? È la logica conseguenza delle critiche che alle «macchine», anche se di altro genere, Bradbury ha fatto in tutte le sue opere e specialmente in Fahrenheit 451: anche cellulari, iPad, iPod, lettori elettronici, smartphone lo sono e producono conseguenze. Delle chat e di Facebook ha detto: «Perché tanta fatica per chiacchierare con un cretino col quale non vorremmo avere a che fare se fosse in casa nostra?». La sua crociata contro i deficienti e l’incultura risale ai primordi della sua carriera. Un precursore di certe critiche oggi comuni, insomma.

Tutto sta in quel capolavoro antiutopico che è appunto Fahrenheit 451. Un libro che è l’esaltazione dell’uomo e della cultura vera dell’uomo, quella trasmessa dai libri e non dalle finzioni virtuali della televisione. Già nel ’51-53 Bradbury immaginava schermi grandi come una parete e la vita falsa che trasmettevano tramite quelle che oggi si chiamano sitcom e vanno avanti per decenni quasi fosse una realtà parallela a quella del telespettatore, o reality show dove la gente comune diventa protagonista attiva (tema, questo, di molti suoi tragici racconti come il famoso La settima vittima). È contro la pandemia televisiva che lo scrittore si scaglia in difesa di un altro tipo di cultura che questa cercava di sommergere e annullare, e non aveva affatto di mira il senatore McCarthy o una specifica dittatura parafascista o paranazista, come volevano dare a intendere certi critici «impegnati» qui in Italia. Fu lo stesso scrittore, con grande delusione di certi suoi fans, a confermarlo: nel 2007, sempre in un’intervista al Los Angeles Times, affermò che il suo famoso romanzo non si doveva interpretare come una critica alla censura o specificatamente al senatore McCarthy, perché era piuttosto una critica alla televisione e al tipo di (in)cultura che essa trasmette. Insomma, Bradbury ce l’aveva e ce l’ha avuta sino all’ultimo, contro la pseudo-informazione, la pseudo-vita, gli pseudo-fatti, quelli che Gillo Dorfles ha battezzato «fattoidi», e che sono ormai la «normalità» delle tv di tutto il mondo, specie in Italia.

In un’altra intervista ha detto: «I libri e le biblioteche sono davvero una parte importante della mia vita, perciò l’idea di scrivere Fahrenheit 451 è stata naturale. Io sono una persona nata per vivere nelle biblioteche». Scoramento profondo, quindi, di tutti i suoi lettori e analizzatori progressisti: nessuna motivazione politica e/o ideologica dietro il famoso romanzo strumentalizzato in tal senso per decenni, anche se, leggendo bene quel che Bradbury scriveva, non era affatto impossibile afferrarlo. Tanto è vero che spesso, negli Stati Uniti, Bradbury si è platealmente irritato quando qualcuno gli voleva spiegare quel che aveva scritto, le sue intenzioni. Come si vede, la tanto apprezzata e semplicistica equivalenza fantascienza/progressista e fantastico/reazionario è una solenne sciocchezza, anche se purtroppo ancora qualcuno ci crede, magari forzando le tesi espresse dagli scrittori nelle loro opere. Bradbury è sempre stato sostenitore di una cultura umanistica e ci ha dato una fantascienza di questo genere con veri e propri capolavori: ma non sta scritto da nessuna parte che ciò sia sinonimo di progressismo ideologico e politico.

* * *

Tratto da Il Giornale del 7 giugno 2012.

Ray Bradbury ist tot – Chiffre 451

ray bradbury i.jpg

Götz Kubitschek:

Ray Bradbury ist tot – Chiffre 451

Ex: http://www.sezession.de/

Wer nach den berühmten Dystopien unserer Zeit gefragt wird, nennt George Orwells 1984, Aldois Huxleys Schöne Neue Welt, vielleicht Ernst Jüngers Gläserne Bienen, ganz sicher Das Heerlager der Heiligen von Jean Raspail (wenn er einer von uns ist!) und vor allem den Roman Fahrenheit 451 von Ray Bradbury. „451″ ist eine meiner Lieblingschiffren, und die Hauptfigur aus Bradburys Roman – der Feuerwehrmann Montag – ist Angehöriger der Division Antaios.

Bradbury – geboren 1920 – ist am 5. Juni verstorben. Fahrenheit 451 ist sein bekanntester Roman. In ihm werden Bücher nicht mehr gelesen, sondern verbrannt, wenn der Staat sie findet: Ihre Lektüre mache unglücklich, lenke vom Hier und Heute ab, bringe die Menschen gegeneinander auf. Vor allem berge jedes Stück Literatur etwas Unberechenbares, Freigegebenes, etwas, das plötzlich und an ganz unerwarteter Stelle zu einer Fanfare werden könne. In den Worten Bradburys: „Ein Buch im Haus nebenan ist wie ein scharfgeladenes Gewehr.“

Montag indes greift heimlich nach dem, was ihm gefährlich werden könnte. Er rettet ein paar Dutzend Bücher vor den Flammen, versteckt sie in seinem Haus und vor seiner an Konsum und Seifenopern verlorengegangenen Frau. Heimlich liest er, zweifelt, befreit sich und wird denunziert (von seiner eigenen, an den Konsum und die Indoktrination verlorengegangenen Frau); er kann fliehen und stößt in einem Waldstück auf ein Refugium der Bildung, auf eine sanfte, innerliche Widerstandsinsel, eine Traditionskompanie, eine Hundertschaft von Waldgängern: Leser wandeln auf und ab und lernen ein Werk auswendig, das ihnen besonders am Herzen liegt, um es ein Leben lang zu bewahren, selbst dann noch, wenn das letzte Exemplar verbrannt wäre.

Ich korrespondiere derzeit mit einem bald Achtzigjährigen, der insgesamt sieben Jahre im Gefängnis verbrachte und in dieser Zeit nichts für seinen Geist vorfand als das, was er darin schon mit sich trug. In Dunkelhaft war er allein mit den memorierten Gedichten, Dramenstücken, Prosafetzen, und er war dankbar für jede Zeile, die er in sich fand. Er kannte Fahrenheit 451 noch nicht und las begierig wie ein Student (wie er mir schrieb). Und er schrieb, daß er in Montags Waldstück keinen Prosatext verkörpern würde, wenn er dort wäre, sondern fünfhundert Gedichte – den Ewige Brunnen sozusagen.

Und Sie?

Ellen Kositza:

Nicht jeder kann Bradbury auswendig können

fhlg.jpgIch will direkt an Kubitscheks Bradbury-Text anknüpfen: Sein leicht verbrämter Aufruf, das Memorieren poetischer Texte einzuüben, kommt aus berufenem Munde. Kubitschek kann mehr Gedichte aufzusagen, als ich je gelesen habe, gar auf russisch, ohne daß er die Sprache beherrschte. Ein seltener Fleiß, ich werde mir keine Sorgen machen, wenn er mal ins Gefängnis muß.

In der zeitgenössischen Pädagogik ist vor lauter Selberdenkenmüssen das Auswendiglernen ja stark in den Hintertreffen geraten. Unsere Kinder tun sich nicht besonders schwer damit, es wird ihnen aber kaum – und stets nur minimal – abverlangt. Nun kam es hier im Hause kam  öfters vor, daß die müden Kinder inmitten des Abendgebets gähnen mußten; ein bekanntes Phänomen, das dem Nachlassen der Konzentration und weniger mangelnder Frömmigkeit anzulasten ist. Nun lernen wir seit einigen Monaten das Vaterunser in verschiedenen Sprachen, mühsam Zeile für Zeile zwar (so daß für jede Sprache mehrere Wochen benötigt werden), aber die abendliche Leistung zeigt Wirkung; kein Gähnen mehr.

Jetzt gibt es vermehrt Leute, die sich ihre Lieblingszeilen nicht so gut merken können. Es hat nicht jeder den Kopf dafür. Es gilt nicht mehr für gänzlich unzivilisiert, sich ein nettes Lebensmotto mit Farbe unter die Haut ritzen zu lassen. Dann kann man es stets nachlesen oder sich wenigstens vorlesen lassen. Bekanntermaßen hat sich Roman, der deutsche Kandidat des Europäisches Liederwettbewerb, ein gewichtiges Lebensmotto (samt Mikro!) auf die Brust stechen lassen: Never fearful, always hopeful. Eine hübsche, gleichsam allgemeingültige Ermunterung!

Internationale Sangesgrößen haben es ihm vorgemacht. Rihanna trägt die Weisheit never a failure, always a lesson auf der Haut, Katy Perry schürft noch tiefer und ließ sich (Sanskrit!!) Anungaccati Pravaha!, zu deutsch „Go with the flow!“ stechen, und der intellektuell unangefochtene Star des Pophimmels, Lady Gaga, uferte gar aus und verewigte ihren „Lieblingslyriker Rilke“ mit folgen Worten auf einem Körperteil:

“Prüfen Sie, ob er in der tiefsten Stelle Ihres Herzens seine Wurzeln ausstreckt, gestehen Sie sich ein, ob Sie sterben müßten, wenn es Ihnen versagt würde zu schreiben. Dieses vor allem: Fragen Sie sich in der stillsten Stunde Ihrer Nacht: Muss ich schreiben?“

Aber auch (noch) wenig prominente Zeitgenossen mögen es philosophisch-lyrisch. Jessica, Studentin und Trägerin der Playboy-Preises „Cybergirl des Monats“ läßt auf ihrer glatten Haut in wunderschön geschwungener Schrift das Cicero zugewiesene Motto Dum spiro spero blitzen, und jüngst kamen mir hier im wirklich ländlichen Landkreis zwei weitere tätowierte Kalligraphien unter´s Auge: Einmal in fetter Fraktur an strammer Männerwade unterhalb eines kahlrasierten Schädels Carpe Diem, andermal , als Schultertext: Mann muß Chaos in sich tragen, um einen tanzenden Stern zu gebären. Nietzsche hatte , glaub ich, „man“ geschrieben, aber er schrieb wohl mehr so für Männer, und der Spruchträger war tatsächlich männlichen Geschlechts, also hatte ja alles seine Richtigkeit.

Nun mag mancher Tätowierungen an sich für ein Zeichen von Asozialität halten. Wir mögen es mit Güte betrachten: Schlägt sich darin nicht eine Sehnsucht nach Dauer, nach Absolutheit, nach Schwur und Eid nieder? Nicht jeder hat Geld, Zeit, Fähigkeit und Phantasie, ein Haus zu bauen, einen Baum zu pflanzen, ein Kind zu zeugen. Wenn er schon die eigene Haut zu Markte tragen muß, dann wenigstens symbolisch aufgeladen! Nun fragt sich manche/r schlicht: womit bloß? Stellvertretend möchte ich “ Adrijanaa“ zitieren, die auf einem Forum namens gofeminin händeringend fragt:

Hallo zusammen!
Ich liebe Tattoos und möchte endlich selbst eins haben. Habe mich für ein Zitat auf dem Schulterblatt entschieden (so ähnlichw ie bei Megan Fox). Das Problem: Mir föllt keins ein. Es ist schon irgednwie blöd im Internet nach zu fragen, aber ich bin momentan einfach sowas von einfallslos. Ich lege in diesem Fall auch nicht viel Wert darauf, ob jemand diesen Spruch schon auf eienr Körperstelle besitzt oder nicht. Ein englischer Zitat wäre am besten. Es können Weisheiten, Zitate aus Songlyrics oder Filmen sein. Falls ihr ein paar Ideen habt, wäre ich sehr froh darüber, was von euch zu hören!

LG, Adi

Die Adi wurde dann von einigen „Mitusern“ nachdrücklich gefragt, ob sie denn nicht selbst auf ein paar fesche Zitate käme, die ihr aus der „Seele“ sprächen. Aber:

Ich überleg ja schon die ganze Zeit. . . Hab einige gute Lieder, die ich ganz gerne mag, aber die Texte sind manchmal zu primitiv für ein Tattoo. . . Es ist nicht so einfach

Dabei ist es eben doch ganz einfach! Es gibt bereits einige Netzseiten mit hübschen Sprüchen, die unter die Haut gehen könnten. In einem entsprechenden Ratgeberforum für tätowierbare Sprüche habe ich den hier gefunden:

Wer singt und lacht, braucht Therapie.
Alfred Adler

Das ist tiefsinnig, und mit etwas Mühe könnte man es sogar auswendig lernen – für den Fall, daß man das Zitat im Nacken oder auf dem Po unterbringen will.

mardi, 12 juin 2012

Recension: le livre de cécile Vanderpelen-Diagre sur la littérature catholique belge dans l’entre-deux-guerres

Recension: le livre de cécile Vanderpelen-Diagre sur la littérature catholique belge dans l’entre-deux-guerres

Script du présentation de l’ouvrage dans les Cercles de Bruxelles, Liège, Louvain, Metz, Lille et Genève

Recension : Cécile Vanderpelen-Diagre, Écrire en Belgique sous le regard de Dieu, éd. Complexe / CEGES, Bruxelles, 2004.

89714410.jpgDans son ouvrage majeur, qui dévoile à la communauté scientifique les thèmes principaux de la littérature catholique belge de l’entre-deux-guerres, Cécile Vanderpelen-Diagre aborde un continent jusqu’ici ignoré des historiens, plutôt refoulé depuis l’immédiat après-guerre, quand le monde catholique n’aimait plus se souvenir de son exigence d’éthique, dans le sillage du Cardinal Mercier ni surtout de ses liens, forts ou ténus, avec le rexisme qui avait choisi le camp des vaincus pendant la Seconde Guerre mondiale.

Pendant plusieurs décennies, la Belgique a vécu dans l’ignorance de ses propres productions littéraires et idéologiques, n’en a plus réactivé le contenu sous des formes actualisées et a, dès lors, sombré dans l’anomie totale et dans la déchéance politique : celle que nous vivons aujourd’hui. Plus aucune éthique ne structure l’action dans la Cité.

Le travail de C. Vanderpelen-Diagre pourrait s’envisager comme l’amorce d’une renaissance, comme une tentative de faire le tri, de rappeler des traditions culturelles oubliées ou refoulées, mais il nous semble qu’aucun optimisme ne soit de mise : le ressort est cassé, le peuple est avachi dans toutes ses composantes (à commencer par la tête...). Son travail risque bien de s’apparenter à celui de Schliemann : n’être qu’une belle œuvre d’archéologue. L’avenir nous dira si son livre réactivera la “virtù” politique, au sens que lui donnaient les Romains de l’antiquité ou celui qui entendait la réactiver, Nicolas Machiavel.

“Une littérature qui a déserté la mémoire collective”

Dès les premiers paragraphes de son livre, C. Vanderpelen-Diagre soulève le problème majeur : si la littérature catholique, qui exigeait un sens élevé de l’éthique entre 1890 et 1945, a cessé de mobiliser les volontés, c’est que ses thèmes “ont déserté la mémoire collective”. Le monde catholique belge (et surtout francophone) d’aujourd’hui s’est réduit comme une peau de chagrin et ce qu’il en reste se vautre dans la fange innommable d’un avatar lointain et dévoyé du maritainisme, d’un festivisme abject et d’un soixante-huitardisme d’une veulerie époustouflante. Aucun citoyen honnête, possédant un “trognon” éthique solide, ne peut se reconnaître dans ce pandémonium. Nous n’échappons pas à la règle : né au sein du pilier catholique parce que nos racines paysannes ne sont pas très loin et plongent, d’une part, dans le sol hesbignon-limbourgeois, et, d’autre part, dans ce bourg d’Aalter à cheval sur la Flandre occidentale et orientale et dans la région d’Ypres, comme d’autres naissent en Belgique dans le pilier socialiste, nous n’avons pas pu adhérer (un vrai “non possumus”), à l’adolescence, aux formes résiduaires et dévoyées du catholicisme des années 70 : c’est sans nul doute pourquoi, en quelque sorte orphelins, nous avons préféré le filon, alors en gestation, de la “nouvelle droite”.

L’époque de gloire du catholicisme belge (francophone) est oubliée, totalement oubliée, au profit du bric-à-brac gauchiste et pseudo-contestataire ou de parisianismes de diverses moutures (dont la “nouvelle droite” procédait, elle aussi, de son côté, nous devons bien en convenir, surtout quand elle a fini par se réduire à son seul gourou parisien et depuis que ses antennes intéressantes en dehors de la capitale française ont été normalisées, ignorées, marginalisées ou exclues). Cet oubli frappe essentiellement une “éthique” solide, reposant certes sur le thomisme, mais un thomisme ouvert à des innovations comme la doctrine de l’action de Maurice Blondel, le personnalisme dans ses aspects les plus positifs (avant les aggiornamenti de Maritain et Mounier), l’idéal de communauté. Cette “éthique” n’a plus pu ressusciter, malgré les efforts d’un Marcel De Corte, dans l’ambiance matérialiste, moderniste et américanisée des années 50, sous les assauts délétères du soixante-huitardisme des années 60 et 70 et, a fortiori, sous les coups du relativisme postmoderne et du néolibéralisme.

L’exigence éthique, pierre angulaire du pilier catholique de 1884 à 1945, n’a donc connu aucune résurgence. On ne la trouvait plus qu’en filigrane dans l’œuvre de Hergé, dans ses graphic novels, dans ses “romans graphiques” comme disent aujourd’hui les Anglais. Ce qui explique sans doute la rage des dévoyés sans éthique — viscéralement hostiles à toute forme d’exigence éthique — pour extirper les idéaux discrètement véhiculés par Tintin.

Les imitations serviles de modèles parisiens (ou anglo-saxons) ne sont finalement d’aucune utilité pour remodeler notre société malade. C. Vanderpelen-Diagre, qui fait œuvre d’historienne et non pas de guide spirituelle, a amorcé un véritable travail de bénédictin. Que nous allons immanquablement devoir poursuivre dans notre créneau, non pour jouer aux historiens mais pour appeler à la restauration d’une éthique, fût-elle inspirée d’autres sources (Mircea Eliade, Seyyed Hossein Nasr, Walter Otto, Karl Kerenyi, etc.). Il s’agit désormais d’analyser le contenu intellectuel des revues parues en nos provinces entre 1884 et 1945 au sein de toutes les familles politiques, de décortiquer la complexité idéologique qu’elles recèlent, de trouver en elles les joyaux, aussi modestes fussent-ils, qui relèvent de l’immortalité, de l’impassable, avec lesquels une “reconstruction” lente et tâtonnante sera possible au beau milieu des ruines (dirait Evola), en plein désert axiologique, où qui conforteront l’homme différencié (Evola) ou l’anarque (Jünger) pour (sur)vivre au milieu de l’horreur, dans le Château de Kafka, ou dans labyrinthe de son Procès.

Les travaux de Zeev Sternhell sur la France, surtout son Ni gauche, ni droite, nous induisaient à ne pas juger la complexité idéologique de cette période selon un schéma gauche/droite trop rigide et par là même inopérant. Dans le cadre de la Belgique, et à la suite de C. Vanderpelen-Diagre et de son homologue flamande Eva Schandervyl (cf. infra), c’est un mode de travail à appliquer : il donnera de bons résultats et contribuera à remettre en lumière ce qui, dans ce pays, a été refoulé pendant de trop nombreuses décennies.

La “Jeune Droite” d’Henry Carton de Wiart

de_wia10.jpgPour C. Vanderpelen-Diagre, les origines de la “révolution conservatrice” belge-francophone, essentiellement catholique, plus catholique que ses homologues dans la France républicaine, plus catholique que l’Action Française trop classiciste et pas assez baroque, se trouvent dans la Jeune Droite d’Henry Carton de Wiart (1869-1951), assisté de Paul Renkin et de l’historien arlonnais germanophile Godefroid Kurth, animateur du Deutscher Verein avant 1914 (le déclenchement de la Première Guerre mondiale et le viol de la neutralité belge l’ont forcé, dira-t-il, de « brûler ce qu’il a adoré » ; pour un historien qui s’est penché sur la figure de Clovis, cette parole a du poids...). La date de fondation de la Jeune Droite est 1891, 2 ans avant l’encyclique Rerum Novarum. La Jeune Droite n’est nullement un mouvement réactionnaire sur le plan social : il fait partie intégrante de la Ligue démocratique chrétienne. Il publie 2 revues : L’Avenir social et La Justice sociale. Les 2 publications s’opposent à la politique libéraliste extrême, prélude au néo-libéralisme actuel, préconisée par le ministre catholique Charles Woeste. Elles soutiennent aussi les revendications de l’Abbé Adolf Daens, héros d’un film belge homonyme qui a obtenu de nombreux prix et où l’Abbé, défenseur des pauvres, est incarné par le célèbre acteur flamand Jan Decleir.

Henry Carton de Wiart, alors jeune avocat, réclame une amélioration des conditions de travail, le repos dominical pour les ouvriers, s’insurge contre le travail des enfants, entend imposer une législation contre les accidents de travail. Il préconise également d’imiter les programmes sociaux post-bismarckiens, en versant des allocations familiales et défend l’existence des unions professionnelles. Très social, son programme n’est pourtant pas assimilable à celui des socialistes qui lui sont contemporains : Carton de Wiart ne réclame pas le suffrage universel pur et simple, et lui substitue la notion d’un suffrage proportionnel à partir de 25 ans, dans un système de représentation également proportionnelle.

En parallèle, Henry Carton de Wiart s’associe à d’autres figures oubliées de notre patrimoine littéraire et idéologique, Firmin Van den Bosch (1864-1949) et Maurice Dullaert (1865-1940). Le trio s’intéresse aux avant-gardes et réclame l’avènement, en Belgique, d’une littérature ouverte à la modernité. Deux autres revues serviront pour promouvoir cette politique littéraire : d’abord, en 1884, la jeune équipe tente de coloniser Le Magasin littéraire et artistique, ensuite, en 1894, 3 ans après la fondation de la Jeune Droite et un an après la proclamation de l’encyclique Rerum Novarum, nos 3 hommes fondent la revue Durandal qui paraîtra pendant 20 ans (jusqu’en 1914). Comme nous le verrons, le nom même de la revue fera date dans l’histoire du “mouvement éthique” (appellons-le ainsi...). Parmi les animateurs de cette nouvelle publication, citons, outre Henry Carton de Wiart lui-même, Pol Demade, médecin spécialisé en médecine sociale, et l’Abbé Henri Moeller (1852-1918). Ils seront vite rejoints par une solide équipe de talents : Firmin Van den Bosch, Pierre Nothomb (stagiaire auprès du cabinet d’avocat de Carton de Wiart), Victor Kinon (1873-1953), Maurice Dullaert, Georges Virrès (1869-1946), Arnold Goffin (1863-1934), Franz Ansel (1874-1937), Thomas Braun (1876-1961) et Adolphe Hardy (1868-1954).

Spiritualité et justice sociale

Leur but est de créer un “art pour Dieu” et leurs sources d’inspiration sont les auteurs et les artistes s’inspirant du “symbolisme wagnérien”, à l’instar des Français Léon Bloy, Villiers de l’Isle-Adam, Francis Jammes et Joris Karl Huysmans. Pour cette équipe, comme aussi pour Bloy, les catholiques sont une “minorité souffrante”, surtout en France à l’époque où sont édictées et appliquées les lois du “petit Père Combes”. Autres références françaises : les œuvres d’Ernest Psichari et de Paul Claudel. Le wagnérisme et le catholicisme doivent, en fusionnant dans les œuvres, générer une spiritualité offensive qui s’opposera au “matérialisme bourgeois” (dont celui de Woeste). La spiritualité et l’idée de justice sociale doivent donc marcher de concert. Le contexte belge est toutefois différent de celui de la France : les catholiques belges avaient gagné la bataille métapolitique, ils avaient engrangé une victoire électorale en 1884, à l’époque où Firmin Van den Bosch tentait de noyauter Le Magasin littéraire et artistique. Dans la guerre scolaire, les catholiques enregistrent également des victoires partielles : face aux libéraux, aux libéraux de gauche (alliés implicites des socialistes) et aux socialistes, il s’agit, pour la jeune équipe autour de Carton de Wiart et pour la rédaction de Durandal, de « gagner la bataille de la modernité ». À l’avant-garde socialiste (prestigieuse avec un architecte “Art Nouveau” comme Horta), il faut opposer une avant-garde catholique. La modernité ne doit pas être un apanage exclusif des libéraux et des socialistes. La différence entre ces catholiques qui se veulent modernistes (sûrement avec l’appui du Cardinal) et leurs homologues laïques, c’est qu’ils soutiennent la politique coloniale lancée par Léopold II en Afrique centrale. Le Congo est une terre de mission, une aire géographique où l’héroïsme pionnier ou missionnaire pourra donner le meilleur de lui-même.

Quelles valeurs va dès lors défendre Durandal ? Elle va essentiellement défendre ce que ses rédacteurs nommeront le “sentiment patrial”, présent au sein du peuple, toutes classes confondues. On retrouve cette idée dans le principal roman d’Henry Carton de Wiart, La Cité ardente, œuvre épique consacrée à la ville de Liège. La notion de “sentiment patrial”, nous la retrouvons surtout dans les textes annonciateurs de la “révolution conservatrice” dus à la plume de Hugo von Hofmannsthal, où l’écrivain allemand déplore la disparition des “liens” humains sous les assauts de la modernité et du libéralisme, qui brisent les communautés, forcent à l’exode rural, laissent l’individu totalement esseulé dans les nouveaux quartiers et faubourgs des grandes villes industrielles et engendrent des réflexes individualistes délétères dans la société, où les plaisirs hédonistes, furtifs ou constants selon la fortune matérielle, tiennent lieu d’Ersätze à la spiritualité et à la charité. Cette déchéance sociale appelle une “restauration créatrice”. Le sentiment d’Hofmannsthal sera partagé, mutatis mutandis, par des hommes comme Arthur Moeller van den Bruck et Max Hildebert Boehm.

L’idée “patriale” s’inscrit dans le projet du Chanoine Halflants, issu d’une famille tirlemontoise qui avait assuré le recrutement en Hesbaye de nombreux zouaves pontificaux, pour la guerre entre les États du Pape et l’Italie unitaire en gestation sous l’impulsion de Garibaldi. Avant 1910, le Chanoine Halflants préconisera tolérance et ouverture aux innovations littéraires. Après 1918, il prendra des positions plus “réactionnaires”, plus en phase avec la “bien-pensance” de l’époque et plus liées à l’idéal classique. Qu’est ce que cela veut dire ? Que le Chanoine entendait, dans un premier temps, faire figurer les œuvres littéraires modernes dans les anthologies scolaires, ainsi que la littérature belge (catholique qui adoptait de nouveaux canons stylistiques et des thématiques romanesques profanes). Il s’opposait dans ce combat aux Jésuites, qui n’entendaient faire étudier que des auteurs grecs et latins antiques. Halflants gagnera son combat : les Jésuites finiront par accepter l’introduction de nouveaux écrivains dans les curricula scolaires. De ces efforts naîtra une “anthologie des auteurs belges”. L’objectif, une fois de plus, est de ne pas abandonner les formes modernes d’art et de littérature aux forces libérales et socialistes qui, en épousant les formes multiples d’ “Art Nouveau” apparaissaient comme les pionniers d’une culture nouvelle et libératrice.

Bourgeoisie ethétisante et prêtres maurrassiens

Cette agitation de la Jeune Droite et de Durandal repose, mutatis mutandis, sur un clivage bien net, opposant une bourgeoisie industrielle et matérialiste à une bourgeoisie cultivée et esthétique, qui a le sens du Bien et du Beau que transmettent bien évidemment les humanités gréco-latines. La bourgeoisie matérialiste et industrielle est incarnée non seulement par les libéraux sans principes éthiques solides mais aussi par des catholiques qui se laissent séduire par cet esprit mercantile, contraire au “sentiment patrial”. Cette idée d’un clivage entre matérialistes et esthètes, on la retrouve déjà dans l’œuvre laïque et irreligieuse de Camille Lemonnier (édité en Allemagne, dans des éditions superbes, par Eugen Diederichs). La bourgeoisie affairiste provoque une décadence des mœurs que l’esthétisme de ceux de ses enfants, qui sont pieux et contestataires, doit endiguer. Pour enrayer les progrès de la décadence, il faut, selon les directives données antérieurement par Louis de Bonald en France, lutter contre le libéralisme politique.

C’est à partir du moment où certains jeunes catholiques belges, soucieux des questions sociales, entendent suivre les injonctions de Bonald, que la Jeune Droite et Durandal vont s’inspirer de Charles Maurras, en lui empruntant son vocabulaire combatif et opérant. Les catholiques belges de la Jeune Droite et les Français de l’Action française s’opposent donc de concert au libéralisme politique, en le fustigeant allègrement. Dans ce contexte émerge le phénomène des “prêtres maurrassiens”, avec, à Liège, Louis Humblet (1874-1949), à Mons, Valère Honnay (1883-1949) et, à Bruxelles, Ch. De Smet (1833-1911) et J. Deharveng (1867-1929). Ce maurrasisme est seulement stylistique dans une Belgique assez germanophile avant 1914. Les visions géopolitiques et anti-allemandes du filon maurrassien ne s’imposeront en Belgique qu’à partir de 1914. D’autres auteurs français influencent l’idéologie de Durandal, les 4 “B” : Barrès, Bourget, Bordeaux et Bazin.

C’est Bourget qui exerce l’influence la plus importante : il veut, en des termes finalement très peu révolutionnaires, une “humanité non dégradée”, reposant sur la famille, l’honneur conjugal et les fortes convictions (religieuses). Le poids de Bourget sera de longue durée : on verra que cette éthique très pieuse et très conventionnelle influencera le groupe de la “Capelle-aux-Champs” que fréquentera Hergé, le créateur de Tintin, et Franz Weyergans, le père de François Weyergans (qui répondra par un livre aux idéaux paternels, inspirés de Paul Bourget, livre qui lui a valu le “Grand Prix de la langue française” en 1997, ce qui l’amena plus tard à occuper un siège à l’Académie Française ; cf. : Franz et François, Grasset, 1997 ; pour comprendre l’apport de Bourget, tout à la fois à la modernisation du sentiment littéraire des catholiques et à la critique des œuvres contemporaines de Baudelaire, Stendhal, Taine, Renan et Flaubert, lire : Paul Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Plon, Paris, 1937).

La Première Guerre mondiale va bouleverser la scène politique et métapolitique d’une Belgique qui, de germanophile, virera à la francophilie, surtout dans les milieux catholiques. La Grande Guerre génère d’abord une littérature inspirée par les souffrances des soldats. Parmi les morts au combat : le jeune Louis Boumal, lecteur puis collaborateur belge de L’Action française. Autour de ce personnage se créera le “mythe de la jeunesse pure sacrifiée”, que Léon Degrelle, plus tard, reprendra à son compte. Mais c’est surtout son camarade de combat Lucien Christophe (1891-1975), qui a perdu son frère Léon pendant la guerre, qui défendra et illustrera la mémoire de Louis Boumal. Celui-ci, tout comme Christophe, était un disciple d’Ernest Psichari, chantre catholique de l’héroïsme et du dévouement guerriers. Les anciens combattants de l’Yser, Christophe en tête, déploreront l’ingratitude du pays à partir de 1918, l’absence de solidarité nationale une fois les hostilités terminées. Christophe et les autres combattants estiment dès lors que les journalistes et les écrivains doivent s’engager dans la Cité. Un écrivain ne peut pas rester dans sa tour d’ivoire. C’est ainsi que les anciens combattants rejettent l’idée d’un art pour l’art et ajoutent à l’idée d’un art pour Dieu, présent dans les rangs de la Jeune Droite avant 1914, celle d’un art social. Le catholicisme militant, social dans le sillage de Daens et de Rerum Novarum, national au nom du sacrifice de Louis Boumal et Léon Christophe, réclame, à l’instar d’autres idéologies, d’autres milieux sociaux ou habitus politiques, l’engagement.

ACJB et Cercle Rerum novarum

Lucien Christophe va donner l’éveil à une génération nouvelle, qui comptera de jeunes plumes dans ses rangs : Luc Hommel (1896-1960), Carlo de Mey (1895-1962), Camille Melloy (de son vrai nom Camille De Paepe, 1891-1941) et Léopold Levaux (1892-1956). C’est au départ de ce groupe, inspiré par Christophe plutôt que par Carton de Wiart, que se forme l’ACJB (Association Catholique de la Jeunesse Belge). Pierre Nothomb, qui entend préserver l’unité du bloc catholique, œuvrera pour que le groupe rassemblé au sein de la revue Durandal fusionne avec l’ACJB. Quant à la Jeune Droite de Carton de Wiart, avec ses aspirations à la justice sociale, elle fusionnera avec le Cercle Rerum Novarum, animé, entre autres personnalités, par Pierre Daye, futur sénateur rexiste en 1936. Daye a des liens avec les Français Marc Sangnier et l’Abbé Lugan, fondateurs d’une Action Catholique, hostile à l’Action française de Maurras et Pujo.

Le Cercle Rerum Novarum poursuivait les mêmes objectifs que ceux de la Jeune Droite de Carton de Wiart, dans la mesure où il s’opposait à toute politique économique libérale outrancière, comme celle d’un Charles Woeste pourtant ponte du parti catholique, entendait ensuite remobiliser les idéaux de l’Abbé Daens. Il n’était pas sur la même longueur d’onde que l’Action française, plus nationaliste que catholique et plus préoccupée de justifier la guerre contre l’Allemagne (même celle de la république laïcarde) que de réaliser en France, et pour les Français, des idéaux de justice sociale. En Belgique, nous constatons donc, avec C. Vanderpelen-Diagre, que les idéaux nationaux (surtout incarnés par Pierre Nothomb) sont intimement liés aux idéaux de justice sociale et que cette fusion demeurera intacte dans toutes les expressions du catholicisme idéologique belge jusqu’en 1945 (même dans des factions hostiles les unes aux autres, surtout après l’émergence du rexisme).

En 1918, Pierre Nothomb et Gaston Barbanson plaident tous deux pour une “Grande Belgique”, en préconisant l’annexion du Grand-Duché du Luxembourg, du Limbourg néerlandais et de la Flandre zélandaise. Ils prennent des positions radicalement anti-allemandes, rompant ainsi définitivement avec la traditionnelle germanophilie belge du XIXe siècle. Ces positions les rapprochent de l’Action française de Maurras et du maurrassisme implicite du Cardinal Mercier, hostile à l’Allemagne prussianisée et protestante comme il est hostile à l’éthique kantienne, pour lui trop subjectiviste, et, par voie de conséquence, hostile au mouvement flamand et à la flamandisation de l’enseignement supérieur, car ce serait là offrir un véhicule à la germanisation rampante de toute la Belgique, provinces romanes comprises.

Les annexionnistes sont en faveur d’une alliance militaire franco-belge, qui sera fait acquis dès 1920 mais que contesteront rapidement et l’aile gauche du parti socialiste et le mouvement flamand (cf. Dr. Guido Provoost, Vlaanderen en het militair-politiek beleid in België tussen de twee wereldoorlogen – Het Frans-Belgisch militair akkoord van 1920, Davidsfonds, Leuven, 1977). En adoptant cette démarche, les adeptes de la “Grande Belgique” quittent l’orbite du “démocratisme chrétien” qui avait été le leur et celui de leurs amis pour fonder une association nationaliste, le Comité de Politique Nationale (CPN), où se retrouvent Pierre Daye (qui n’est plus alors à proprement parler un “rerum-novarumiste” ou un “daensiste”), l’historien Jacques Pirenne (qui renie ses dettes intellectuelles à l’historiographie allemande), Léon Hennebicq, le leader socialiste et interventionniste Jules Destrée, ami des interventionnistes italiens regroupés autour de Mussolini et d’Annunzio, et un autre socialiste, Louis Piérard.

Les annexionnistes germanophobes et hostiles aux Pays-Bas réclament une occupation de l’Allemagne, son morcellement à l’instar de ce que venait de subir la grande masse territoriale de l’Empire austro-hongrois défunt ou l’Empire ottoman au Levant. Ils réclament également l’autonomisation de la Rhénanie et le renforcement de ses liens économiques (qui ont toujours été forts) avec la Belgique. Enfin, ils veulent récupérer le Limbourg devenu officiellement néerlandais en 1839 et la Flandre zélandaise afin de contrôler tout le cours de l’Escaut en aval d’Anvers. Ils veulent les cantons d’Eupen-Malmédy (qu’ils obtiendront) mais aussi 8 autres cantons rhénans qui resteront allemands. Le Roi Albert Ier refuse cette politique pour ne pas se mettre définitivement les Pays-Bas et le Luxembourg à dos et pour ne pas créer l’irréparable avec l’Allemagne. Les annexionnistes du CPN se trouveront ainsi en porte-à-faux par rapport à la personne royale, que leur option autoritariste cherchait à valoriser.

Le ressourcement italien de Pierre Nothomb

nothom10.jpgLe passage du démocratisme de la Jeune Droite au nationalisme du CPN s’accompagne d’un véritable engouement pour l’œuvre de Maurice Barrès. Plus tard, quand l’Action française, et, partant, toutes les formes de nationalisme français hostiles aux anciens empires d’Europe centrale, se retrouvera dans le collimateur du Vatican, le nouveau nationalisme belge de Nothomb et la frange du parti socialiste regroupée autour de Jules Destrée va plaider pour un “ressourcement italien”, suite au succès de la Marche sur Rome de Mussolini, que Destrée avait rencontré en Italie quand il allait, là-bas, soutenir les efforts des interventionnistes italiens avant 1915. Nothomb   [ci-contre] traduira ce nouvel engouement italophile, post-barrèsien et post-maurrassien, en un roman, Le Lion ailé, paru en 1926, la même année où la condamnation de l’Action française est proclamée à Rome. Le Lion ailé, écrit C. Vanderpelen-Diagre, est une ode à la nouvelle Italie fasciste. Celle-ci est posée comme un modèle à imiter : il faut, pense Nothomb, favoriser une “contagion romaine”, ce qui conduira inévitablement à un “rajeunissement national”, par l’émergence d’un “ordre vivant”. Jules Destrée, le leader socialiste séduit par l’Italie, celle de l’interventionnisme et celle de Mussolini, salue la parution de ce roman et en encourage la lecture. La réception d’éléments idéologiques fascistes n’est donc pas le propre d’une droite catholique et nationale : elle a animé également le pilier socialiste dans le chef d’un de ses animateurs les plus emblématiques.

Nothomb avait créé, comme pendant à son CPN, les Jeunesses nationales en 1924. Ce mouvement appelle à un renforcement de l’exécutif, à une organisation corporative de l’État, à l’émergence d’un racisme défensif et d’un anti-maçonnisme, tout en prônant un catholicisme intransigeant (ce qui n’était pas du tout le cas dans l’Italie de l’époque, les Accords du Latran n’ayant pas encore été signés). Le CPN et les Jeunesses nationales entendant, de concert, poser un “compromis entre la raison et l’aventure”. Ce message apparaît trop pauvre pour d’autres groupes en gestation, dont la Jeunesse nouvelle et le groupe royaliste Pour l’autorité. Ces 2 groupes, fidèles en ce sens à la volonté du Roi, refusent le programme de politique étrangère du CPN et des Jeunesses nationales : ils veulent maintenir des rapports normaux avec les Pays-Bas, le Luxembourg et l’Allemagne. Ils insistent aussi sur la nécessité d’imposer une “direction de l’âme et de l’esprit”. En réclamant une telle “direction”, ils enclenchent ce que l’on pourrait appeler, en un langage gramscien, une “bataille métapolitique”, qu’ils qualifiaient, en reprenant certaines paroles du Cardinal Mercier, d’“apostolat par la plume”. Ils s’alignent ainsi sur la volonté de Pie XI de promouvoir un “catholicisme plus intransigeant”, en dépit de l’hostilité du Pontife romain à l’endroit de la francophilie maurrassienne du Primat de Belgique. Enfin, les 2 nouveaux groupes sur l’échiquier politico-métapolitique belge entendent suivre les injonctions de l’encyclique Quas Primas de 1925, proclamant la « royauté du Christ », du « Christus Rex », induisant ainsi le vocable “Rex” dans le vocabulaire politique du pilier catholique, ce qui conduira, après de nombreux avatars, à l’émergence du mouvement rexiste de Léon Degrelle, quand celui-ci rompra les ponts avec ses anciens associés du parti catholique. Le « catholicisme plus intransigeant », réclamé par Pie XI, doit s’imposer aux sociétés par des moyens modernes, par des technologies de communication comme la “TSF” et l’édition de masse (ce à quoi s’emploiera Degrelle, sur ordre de la hiérarchie catholique la plus officielle, au début des années 30).

Beauté, intelligence, moralité

L’appareil de cette offensive métapolitique s’est mis en place, par la volonté du Cardinal Mercier, au moins dès 1921. Celui-ci préside à la fondation de La Revue catholique des idées et des faits (RCIF), revue plus philosophique que théologique, Mercier n’étant pas théologien mais philosophe. Le Cardinal confie la direction de cette publication à l’Abbé René-Gabriel Van den Hout (1886-1969), professeur à l’Institut Saint Louis de Bruxelles et animateur du futur quotidien La Libre Belgique dans la clandestinité pendant la Première Guerre mondiale. L’Abbé Van den Hout avait également servi d’intermédiaire entre Mercier et Maurras. Volontairement le Primat de Belgique et l’Abbé Van den Hout vont user d’un ton et d’une verve polémiques pour fustiger les adversaires de ce renouveau à la fois catholique et national (ton que Degrelle et son caricaturiste Jam pousseront plus tard jusqu’au paroxysme). En 1924, avant la condamnation de Maurras et de l’Action française par le Vatican, les Abbés Van den Hout et Norbert Wallez, flanqués du franciscain Omer Englebert, envisagent de fonder une Action belge (AB), pendant de ses homologues française et espagnole (sur l’Accion Española, cf. Raùl Morodo, Los origenes ideologicos del franquismo : Accion Española, Alianza Editorial, Madrid, 1985). On a pu parler ainsi du “maurrassisme des trois abbés”. Le programme intellectuel de la RCIF et de l’AB (qui restera finalement en jachère) est de lutter contre les formes de romantisme, mouvement littéraire accusé de véhiculer un “subjectivisme relativiste” (donc un individualisme), ou, comme le décrira Carl Schmitt en Allemagne, un “occasionalisme”. Les abbés et leurs journalistes plaideront pour le classicisme, reposant, lui, à leurs yeux, sur 3 critères : la beauté, l’intelligence et la moralité (le livre de référence pour ce “classicisme” demeure celui d’Adrien de Meeüs, Le coup de force de 1660, Nouvelle Société d’Édition, Bruxelles, 1935 ; à ce propos, voir plus bas notre article « Années 20 et 30 : la droite de l’établissement francophone en Belgique, la littérature flamande et le ‘nationalisme de complémentarité’ »).

Revenons maintenant à l’ACJB. En 1921 également, les abbés Brohée et Picard (celui-là même qui mettra Degrelle en selle 10 ans plus tard) entament, eux aussi, un combat métapolitique. Leur objectif ? “Guider les lectures” par le truchement d’un organe intitulé Revue des auteurs et des livres. Au départ, cet organe se veut avant-gardiste mais proposera finalement des lectures figées, déduites d’une littérature bien-pensante. L’ACJB a donc des objectifs culturels et non pas politiques. C’est cette option métapolitique qui provoque une rupture qui se concrétise par la fondation de la Jeunesse nouvelle, parallèle à l’éparpillement de l’équipe de Durandal, dont les membres ont tous été appelés à de hautes fonctions administratives ou politiques. La Jeunesse nouvelle se donne pour but de “régénérer la Cité”, en y introduisant des ferments d’ordre et d’autorité. Elle vise l’instauration d’une monarchie antiparlementaire et nationaliste. Elle réagit à l’instauration du “suffrage universel pur et simple”, imposé par les socialistes, car celui-ci exprimerait la “déchéance morale et politique” d’une société (sa fragmentation et son émiettement en autant de petites républiques individuelles – la “verkaveling” dit-on en néerlandais ; cf. l’ouvrage humoristique mais intellectuellement fort bien charpenté de Rik Vanwalleghem, België Absurdistan – Op zoek naar de bizarre kant van België, Lannoo, Tielt, 2006, livre qui met en exergue l’effet final et contemporain de l’individualisme et de la disparition de toute éthique). La Jeunesse nouvelle s’oppose aussi au nouveau système belge né des “accords de Lophem” de 1919 où les acteurs sociaux et les partis étaient convenus d’un “deal”, que l’on entendait pérenniser jusqu’à la fin des temps en excluant systématiquement tout challengeur survenu sur la piste par le biais d’élections. Ce “deal” repose sur un canevas politique donné une fois pour toutes, posé comme définitif et indépassable, avec des forces seules autorisées à agir sur l’échiquier politico-parlementaire.

L’organe de la Jeunesse nouvelle, soit La Revue de littérature et d’action devient La Revue d’action dès que l’option purement métapolitique cède à un désir de s’immiscer dans le fonctionnement de la Cité. La revue d’Action devient ainsi, de 1924 à 1934, la porte-paroles du mouvement Pour l’autorité, dont la cheville ouvrière sera un jeune historien en vue de la matière de Bourgogne, Luc Hommel. Pour celui-ci, la revue est un “laboratoire d’idées” visant une réforme de l’État, qui reposera sur un renforcement de l’exécutif, sur le corporatisme et le nationalisme (à références “bourguignonnes”) et sur le suffrage familial, appelé à corriger les effets jugés pervers du “suffrage universel pur et simple”, imposé par les socialistes dès le lendemain de la Première Guerre mondiale. Hommel et ses amis préconisent de rester au sein du Parti Catholique, d’y être un foyer jeune et rénovateur. Les adeptes des thèses de la La Revue d’action ne rejoindront pas Rex. Parmi eux : Etienne de la Vallée-Poussin (qui dirigera un moment Le Vingtième siècle fondé par l’Abbé Wallez), Daniel Ryelandt (qui témoignera contre Léon Degrelle dans le fameux film que lui consacrera Charlier et qui était destiné à l’ORTF mais qui ne passera pas sur antenne après pression diplomatique belge sur les autorités de tutelle françaises), Gaëtan Furquim d’Almeida, Charles d’Aspremont-Lynden, Paul Struye, Charles du Bus de Warnaffe. La revue et le groupe Pour l’autorité cesseront d’exister en 1935, quand Hommel deviendra chef de cabinet de Paul van Zeeland. Plusieurs protagonistes de Pour l’autorité œuvreront ensuite au Centre d’Études pour la Réforme de l’État (CERE), dont Hommel, de la Vallée-Poussin et Ryelandt. Ils s’opposeront farouchement Rex en dépit d’une volonté commune de renforcer l’exécutif autour de la personne du Roi. L’idéal d’un renforcement de l’exécutif est donc partagé entre adeptes et adversaires de Rex.

La “Troisième voie” de Raymond De Becker

raymon10.jpgLa période qui va de 1927 à 1939 est aussi celle d’une recherche fébrile de la “troisième voie”. C’est dans ce contexte qu’émergera une figure que l’on commence seulement à redécouvrir en Belgique, en ce début de deuxième décennie du XXIe siècle : Raymond De Becker. Contrairement à tous les mouvements que nous venons de citer, qui veulent demeurer au sein du pilier catholique, les hommes partis en quête d’une “troisième voie” cherchent à élargir l’horizon de leur engagement à toutes les forces sociales agissant dans la société. Ils ont pour point commun de rejeter le libéralisme (assimilé au “vieux monde”) et entendent valoriser toutes les doctrines exigeant une adhésion qu’ils apparentent à la foi : le catholicisme, le communisme, le fascisme, considérés comme seules forces d’avenir. C’est la démarche de ceux que Jean-Louis Loubet del Bayle nommera, dans son ouvrage de référence, les “non-conformistes des années 30”. Loubet del Bayle n’aborde que le paysage intellectuel français de l’époque. Qu’en est-il en Belgique ? Le cocktail que constituera la “troisième voie” ardemment espérée contiendra, francophonie oblige, bon nombre d’ingrédients français : Blondel (vu ses relations et son influence sur le Cardinal Mercier, sans oublier sa “doctrine de l’action”), Archambault, Mounier (le personnalisme), Gabriel Marcel (la distinction entre l’Être et l’Avoir), Maritain et Daniel-Rops. Après la condamnation de Maurras et de l’Action française par le Vatican, Jacques Maritain, que Paul Sérant classe comme un “dissident de l’Action française”, remplace, dès 1926, Maurras comme gourou de la jeunesse catholique et autoritaire en Belgique. R. de Becker et Henry Bauchau (toujours actif aujourd’hui, et qui nous livre un regard sur cette époque dans son tout récent récit autobiographique, L’enfant rieur, Actes Sud, 2011 ; R. De Becker y apparaît sous le prénom de “Raymond” ; voir surtout les pp. 157 à 166) sont les 2 hommes qui entretiendront une correspondance avec Maritain et participeront aux rencontres de Meudon. Du “nationalisme intégral de Maurras”, que voulait importer Nothomb, on passe à l’“humanisme intégral” de Maritain.

Le passage du maurrassisme au maritainisme implique une acceptation de la démocratie et de ses modes de fonctionnement, ainsi que du pluralisme qui en découle, et constate l’impossibilité de retrouver le pouvoir supratemporel du Saint Empire (vu de France, on peut effectivement affirmer que le Saint Empire, assassiné par Napoléon, ou l’Empire austro-hongrois, assassiné par Poincaré et Clemenceau, est une “forme morte” ; ailleurs, notamment en Autriche et en Hongrie, c’est moins évident... Il suffit d’évoquer les propositions très récentes du ministre hongrois Orban pour “resacraliser” l’État, notamment en le dépouillant du label de “république”). Par voie de conséquence, les maritainistes ne réclameront pas l’avènement d’une “Cité chrétienne”. En ce sens, ils vont plus loin que le Chanoine Jacques Leclercq (cf. infra) en Belgique, dont le souci, tout au long de son itinéraire, sera de maintenir une dose de divin et, subrepticement, un certain contrôle clérical sur la Cité, même aux temps d’après-guerre où le maritainisme débouchera partiellement sur la création et l’animation d’un parti politique “catho-communisant”, l’UDB (auquel adhèrera un William Ugeux, ancien journaliste au Vingtième Siècle et responsable de la “Sûreté de l’État” pour le compte du gouvernement Pierlot revenu de son exil londonien).

La Cité, rêvée par les adeptes d’une “troisième voie” d’inspiration maritainiste, est un “contrat entre fidèles et infidèles”, visant l’unité de la Cité, une unité minimale, certes, mais animée par l’amitié et la fraternité entre les hommes. Cette vision repose évidemment sur la définition “ouverte” que Maritain donne de l’humanisme. D’où la question que lui poseront finalement R. de Becker et Léon Degrelle : “Où sont les points d’appui ?”. En effet, l’idée d’une “humanité ouverte” ne permet pas de construire une Cité, qui, toujours, par la force des choses, aura des limites et/ou des frontières. Le maritainisme ne fera pas l’unité des anciens maurrassiens, des chercheurs de “troisièmes voies” voire des thomistes recyclés, modernisant leur discours, ou des “demanistes” socialistes non hostiles à la religion : le monde catholique se divisera en chapelles antagonistes qui le conduiront à l’implosion, à une sorte de guerre civile entre catholiques (surtout à partir de l’émergence de Rex) et à une sorte d’aggiornamento technocratique (qui, parti du technocratisme à l’américaine de Van Zeeland, donnera à terme la “plomberie” de Dehaene et son basculement dans les fiascos financiers postérieurs à l’automne 2008) ou à un discours assez hystérique et filandreux, évoquant justement le thème de l’humanisme maritainien, avec Joëlle Milquet qui abandonne l’appelation de Parti Social-Chrétien pour prendre celle de CdH (Centre Démocrate et Humaniste).

Marcel De Corte

mdecor10.jpg[En septembre 1975, Marcel De Corte accorde une entretien au Front de la jeunesse publié dans la rubrique "Europe-Jeunesse" du Nouvel Europe magazine (NEM)]

Quelles seront les expressions de l’humanisme intégral de Maritain en Belgique ? Il y aura notamment la Nouvelle équipe d’Yvan Lenain (1907-1965). Lenain est un philosophe thomiste de formation, qui veut “une Cité régénérée par la spiritualité”. Si, au départ, Lenain s’inscrit dans le sillage de Maritain, les évolutions et les aggiornamenti de ce dernier le contraindront à adopter une position thomiste plus traditionnelle. Par ailleurs, l’ouverture aux gens de gauche, les “infidèles” avec lesquels on aurait pu, le cas échéant, conclure un contrat, s’est avérée un échec. Le repli sur un thomisme plus classique est sans doute dû à l’influence d’une figure aujourd’hui oubliée, Marcel De Corte (1905-1994), professeur de philosophie à l’Université de Liège. De Corte, actif partout, notamment dans une revue peu suspecte de “catholicisme”, comme Hermès de Marc. Eemans et René Baert, est beaucoup plus ancré dans le catholicisme traditionnel (et aristotélo-thomiste) que ne l’était Lenain au départ : il rompra d’ailleurs avec Maritain en 1937, comme beaucoup d’autres auteurs belges, qui ne supportaient pas le soutien que l’humaniste intégral français apportait aux républicains espagnols (en Belgique, l’hostilité, y compris à gauche, à la République espagnole vient du fait que l’ambassadeur de Belgique, qui avait fait des locaux de l’ambassade du royaume un centre de la Croix Rouge, fut abattu par la police madrilène en 1936, laquelle vida ensuite le bâtiment de la légation de tous les réfugiés et éclopés qui s’y trouvaient et massacra les blessés dans la foulée). La pensée de De Corte, consignée dans 2 gros volumes parus dans les années 50, reste d’actualité : la notion de “dissociété”, qu’il a contribué à forger, est reprise aujourd’hui, même à gauche de l’échiquier politique français, notamment par le biais de l’ouvrage de Jacques Généreux, intitulé La dissociété (Seuil, 2006 ; pour se référer à De Corte directement, lire : Marcel De Corte, De la dissociété, éd. Remi Perrin, 2002).

Raymond De Becker : électron libre

Entre toutes les chapelles politico-littéraires de la Belgique francophone des années 30, R. De Becker va jouer le rôle d’intermédiaire, tout en demeurant un “électron libre”, comme le qualifie C. Vanderpelen-Diagre. De Becker, bien que catholique à l’époque (après la guerre, il ne le sera plus, lorsqu’il œuvrera, avec Louis Pauwels, dans le réseau Planète), ne plaide jamais pour une orthodoxie catholique : il incarne en effet un mysticisme très personnel, rétif à tout encadrement clérical. Dans ses efforts, il aura toujours l’appui de Maritain (avant la rupture suite aux événements d’Espagne) et du Chanoine Jacques Leclercq, qui fut d’abord un maritainiste plus ou mois conservateur avant de devenir, via les revues et associations qu’il animait, le fondateur du nouveau démocratisme chrétien, à tentations marxistes, de l’après-1945. De Becker va jouer aussi le rôle du relais entre les “non-conformistes” français et leurs homologues belges. En 1935, il se rend ainsi à la fameuse abbaye de Pontigny en Bourgogne, véritable laboratoire d’idées nouvelles où se rencontraient des hommes d’horizons différents soucieux de dépasser les clivages politiques en place. C’est à l’invitation de Paul Desjardins (2), qui organise en 1935 une rencontre sur le thème de l’ascétisme, que De Becker rencontre à Pontigny Nicolas Berdiaev, André Gide et Martin Buber.

Le reproche d’antisémitisme qu’on lui lancera à la tête, surtout dans le milieu assez abject des “tintinophobes” parisiens, ne tient pas, ne fût-ce qu’au regard de cette rencontre ; par ailleurs, les séminaires de Pontigny doivent être mis en parallèle avec leurs équivalents allemands organisés par le groupe de jeunesse Köngener Bund, auxquelles Buber participait également, aux côtés d’exposants communistes et nationaux-socialistes. En étudiant parallèlement de telles initiatives, on apprendra véritablement ce que fut le “non-conformisme” des années 30, dans le sillage de l’esprit de Locarno (sur l’impact intellectuel de Locarno : lire les 2 volumes publiés par le CNRS sous la direction de Hans Manfred Bock, Reinhart Meyer-Kalkus et Michel Trebitsch, Entre Locarno et Vichy – les relations culturelles franco-allemandes dans les années 30, CNRS éditions, 1993 ; cet ouvrage explore dans le détail les idéaux pacifistes, liés à l’idée européenne et au désir de sauvegarder le patrimoine de la civilisation européenne, dans le sillage d’Aristide Briand, du paneuropéisme à connnotations catholiques, de Friedrich Sieburg, des personnalistes de la revue L’Ordre nouveau, de Jean de Pange, des germanistes allemands Ernst Robert Curtius et Leo Spitzer, de la revue Europe, où officiera un Paul Colin, etc.).

De Becker, toujours soucieux de traduire dans les réalités politiques et culturelles belges les idées d’humanisme intégral de Maritain, accepte le constat de son maître-à-penser français : il n’est plus possible de rétablir l’harmonie du corporatisme médiéval dans les sociétés modernes ; il faut donc de nouvelles solutions et pour les promouvoir dans la société, il faut créer des organes : ce sera , d’une part, la Centrale politique de la jeunesse, présidée par André Mussche, dont le secrétaire sera De Becker, et, d’autre part, la revue L’esprit nouveau, où l’on retrouve l’ami de toujours, celui qui ne trahira jamais De Becker et refusera de le vouer aux gémonies, Henry Bauchau. Les objectifs que se fixent Mussche, De Becker et Bauchau sont simples : il faut traduire dans les faits la teneur des encycliques pontificales, en instaurant dans le pays une économie dirigée, anti-capitaliste, ou plus exactement anti-trust, qui garantira la justice sociale. Toujours dans l’esprit de Maritain, De Becker se fait le chantre d’une “nouvelle culture”, personnaliste, populaire et attrayante pour les non-croyants (comme on disait à l’époque). Il appellera cette culture nouvelle, la “culture communautaire”. Lors du Congrès de Malines de 1936, Bauchau se profile comme le théoricien et la cheville ouvrière de ce mouvement “communautaire” ; il est rédacteur depuis 1934 à La Cité chrétienne du Chanoine Leclercq, qui essaie de réimbriquer le christianisme (et, partant, le catholicisme) dans les soubresauts de la vie politique, animée par les totalitarismes souvent victorieux à l’époque, toujours challengeurs. Cette volonté de “ré-imbriquer” passe par des compromissions (qu’on espère passagères) avec l’esprit du temps (ouverture au socialisme voire au communisme).

“Communauté” et “Capelle-aux-Champs”

evany_pv182030.jpgEn 1937, les “communautaires” maritainiens créent l’École supérieure d’humanisme, établie au n°21 de la Rue des Deux Églises à Bruxelles. Cette école prodigue des cours de “formation de la personnalité”, comprenant des leçons de philosophie, d’esthétique et d’histoire de l’art et de la culture. Le corps académique de cette école est prestigieux : on y retrouve notamment le Professeur De Corte. Cette école dispose également de relais, dont l’auberge “Au Bon Larron” de Pepinghem, où l’Abbé Leclercq reçoit ses étudiants et disciples, le cercle “Communauté” à Louvain chez la mère de De Becker, où se rend régulièrement Louis Carette, le futur Félicien Marceau. Enfin, dernier relais à signaler : le groupe de la “Capelle-aux-Champs”, sous la houlette bienveillante du Père Bonaventure Feuillien et du peintre Evany [Eugène van Nijverseel] (ami d’Hergé). Le créateur de Tintin fréquentera ce groupe, qui est nettement moins politisé que les autres et où l’on ne pratique pas la haute voltige philosophique. Quelles autres figures ont-elles fréquenté le groupe de la “Capelle-aux-Champs” ? La “Capelle-aux-Champs” ou Kapelleveld se situe exactement à l’endroit du campus de Louvain-en-Woluwé et de l’hôpital universitaire Saint Luc. C’était avant guerre un lieu idyllique, comme en témoigne la fresque ornant la station de métro “Vandervelde” qui y donne accès aujourd’hui.

C’est donc là, au beau milieu de ce sable et de ces bouleaux, que se retrouvaient Marcel Dehaye (qui écrira dans la presse collaborationniste sous le pseudonyme plaisant de “Jean de la Lune”), Jean Libert (qui sera épuré), Franz Weyergans (le père de François Weyergans) et Jacques Biebuyck. L’idéal qui y règne est l’idéal scout (ce qui attire justement Hergé) ; on n’y cause pas politique, on vise simplement à donner à ses contemporains “un cœur simple et bon”. L’initiative a l’appui de Jacques Leclercq. En dépit de ses connotations catholiques, le groupe se reconnaît dans un refus général de l’esprit clérical et bondieusard (voilà sans doute pourquoi Tintin, héros créé par la presse catholique, n’exprime aucune religion dans ses aventures. Comme bon nombre d’avatars du maritainisme, les amis de la “Capelle-aux-Champs” manifestent une volonté d’ouverture sur l’“ailleurs”. Mais leurs recherches implicites ne sont pas tournées vers une réforme en profondeur de la Cité. Les thèmes sont plutôt moraux, au sens de la bienséance de l’époque : on y réfléchit sur le péché, l’adultère, un peu comme dans l’œuvre de François Mauriac, qui avait appelé à jeter « un regard franc sur un monde dénaturé ».

L’esprit de “Capelle-aux-Champs” est également, dans une certaine mesure, un avatar lointain et original de l’impact de Bourget sur la littérature catholique du début du siècle (pour saisir l’esprit de ce groupe, lire entre autres ouvrages : J. Libert, Capelle aux Champs, Les écrits, Bruxelles, 1941 [5°éd.] et Plénitude, Les écrits, 1941 ; J. Biebuyck, Le rire du cœur, Durandal, Bruxelles, [s. d., probablement après guerre] et Le serpent innocent, Casterman, Tournai, 1971 [préf. de F. Weyergans] ; Franz Weyergans, Enfants de ma patience, éd. Universitaires, Paris, 1964 et Raisons de vivre, Les écrits, 1944 ; cet ouvrage est un hommage de F. Weyergans à son propre père, exactement comme son fils François lui dédiera Franz et François en 1997).

Notons enfin que les éditions “Les Écrits” ont également publié de nombreuses traductions de romans scandinaves, finnois et allemands, comme le firent par ailleurs les fameuses éditions de “La Toison d’Or”, elles carrément collaborationnistes pendant la Seconde Guerre mondiale, dans le but de dégager l’opinion publique belge de toutes les formes de parisianismes et de l’ouvrir à d’autres mondes. Le traducteur des éditions “Les Écrits” fut-il le même que celui des éditions “La Toison d’Or”, soit l’Israélite estonien Sulev J. Kaja (alias Jacques Baruch, 1919-2002), condamné sévèrement par les tribunaux incultes de l’épuration et sauvé de la misère et de l’oubli par Hergé lors du lancement de l’hebdomadaire Tintin dès 1946 ? Le pays aurait bien besoin de quelques modestes traducteurs performants de la trempe d’un Sulev J. Kaja...) (2).

Revenons aux animateurs du groupe de la Capelle-aux-Champs. Il y a d’abord Marcel Dehaye (1907-1990) qui explore le monde de l’enfance, exalte la pureté et l’innocence et, avec son personnage Bob ou l’enfant nouveau campe un garçonnet « qui ne sera ni banquier ni docteur ni soldat ni député ». Pendant la Deuxième Guerre mondiale, Dehaye collabora au Soir et au Nouveau Journal sous le pseudonyme de “Jean de la Lune”, ce qui le sauvera sans nul doute des griffes de l’épuration : il aurait été en effet du plus haut grotesque de lire une manchette dans la presse signalant que « l’auditorat militaire a condamné Jean de la Lune à X années de prison et à l’indignité nationale ».

Jacques Biebuyck (1909-1993) est issu, lui, d’une famille riche, ruinée en 1929. Il a fait un séjour de 3 mois à la Trappe. Il a d’abord été fonctionnaire au ministère de l’intérieur puis journaliste. C’est un ami de Raymond De Becker. Il professe un anti-intellectualisme et prône de se fier à l’instinct. Pour lui, la jeunesse doit demeurer “vierge de toute corruption politique”. Biebuyck rejette la politique, qui se déploie dans un “monde de malhonnêtes”. Il renoue là avec un certain esprit de l’ACJB à ses débuts, où le souci culturel primait l’engagement proprement politique. L’illustrateur des œuvres de Biebuyck, et d’autres protagonistes de la Capelle-aux-Champs fut Pierre Ickx, ami d’Hergé et spécialisé dans les dessins de scouts idéalisés.

Jean Libert (1913-1981), lui, provient d’une famille qui s’était éloignée de la religion, parce qu’elle estimait que celle-ci avait basculé dans le “mercantilisme”. À 16 ans, Libert découvre le mouvement scout (comme Hergé auparavant). Ses options spirituelles partent d’une volonté de suivre les enseignements de Saint François d’Assise, comme le préconisait aussi le Père Bonaventure Feuillien. “Nono”, le héros de J. Libert dans son livre justement intitulé Capelle-aux-Champs (cf. supra), va incarner cette volonté. Il s’agit, pour l’auteur et son héros, de conduire l’homme vers une vie joyeuse et digne, héroïque et féconde. Libert se fait le chantre de l’innocence, de la spontanéité, de la pureté (des sentiments) et de l’instinct.

Jean Libert et la “mystique belge”

En 1938, avec Antoine Allard, Jean Libert opte pour l’attitude pacifiste et neutraliste, induite par le rejet des accords militaires franco-belges et la déclaration subséquente de neutralité qu’avait proclamée le Roi Léopold III en octobre 1936, tout en arguant qu’une conflagration qui embraserait toute l’Europe entraînerait le déclin irrémédiable du Vieux Continent (cf. les idées pacifistes de Maurice Blondel, à la fin de sa vie, consignée dans son ouvrage, Lutte pour la civilisation et philosopohie de la paix, Flammarion, 1939 ; cet ouvrage est rédigé dans le même esprit que le “manifeste neutraliste” et inspire, fort probablement, le discours royal aux belligérants dès septembre 1939). J. Libert signe donc ce fameux manifeste neutraliste des intellectuels, notamment patronné par Robert Poulet.

Parallèlement à cet engagement neutraliste, dépourvu de toute ambigüité, Libert plaide pour l’éclosion d’une “mystique belge” que d’autres, à la suite de l’engouement de Maeterlinck pour Ruusbroec l’Admirable au début du siècle, voudront à leur tour raviver. On pense ici à Marc. Eemans et René Baert, qui, outre Ruusbroec (non considéré comme hérétique par les catholiques sourcilleux car il refusera toujours de dédaigner les “œuvres”), réhabiliteront Sœur Hadewijch, Harphius, Denys le Chartreux et bien d’autres figures médiévales (cf. Marc. Eemans, Anthologie de la Mystique des Pays-Bas, éd. de la Phalange / J. Beernaerts, Bruxelles, s. d. ; il s’agit des textes sur les mystiques des Pays-Bas publiés dans les années 30 dans la revue Hermès). R. De Becker se penchera également sur la figure de Ruusbroec, notamment dans un article du Soir, le 11 mars 1943 (« Quand Ruysbroeck l’Admirable devenait prieur à Groenendael »). Comme dans le cas du mythe bourguignon, inauguré par Luc Hommel (cf. supra) et Paul Colin, le recours à la veine mystique médiévale participe d’une volonté de revenir à des valeurs nées du sol entre Somme et Rhin, pour échapper à toutes les folies idéologiques qui secouaient l’Europe, à commencer par le laïcisme républicain français, dont la nuisance n’a pas encore cessé d’être virulente, notamment par le filtre de la “nouvelle philosophie” d’un marchand de “prêt-à-penser” brutal et sans nuances comme Bernard-Henri Lévy (classé récemment par Pascal Boniface comme « l’intellectuel faussaire », le plus emblématique).

Fidèle à son double engagement neutraliste et mystique, Jean Libert voudra œuvrer au relèvement moral et physique de la jeunesse, en prolongeant l’effet bienfaisant qu’avait le scoutisme sur les adolescents. Au lendemain de la défaite de mai 1940, J. Libert rejoint les Volontaires du Travail, regroupés autour de Henry Bauchau, Théodore d’Oultremont et Conrad van der Bruggen. Ces Volontaires du travail devaient prester des travaux d’utilité publique, de terrassement et de déblaiement, dans tout le pays pour effacer les destructions dues à la campagne des 18 jours de mai 1940. C’était également une manière de soustraire des jeunes aux réquisitions de l’occupant allemand et de maintenir sous bonne influence “nationale” des équipes de jeunes appelés à redresser le pays, une fois la paix revenue. Pendant la guerre, J. Libert collaborera au Nouveau Journal de Robert Poulet, ce qui lui vaudra d’être épuré, au grand scandale d’Hergé qui estimait, à juste titre, que la répression tuait dans l’œuf les idéaux positifs d’innocence, de spontanéité et de pureté (le “cœur pur” de Tintin au Tibet). Jamais le pays n’a pu se redresser moralement, à cause de cette violence “officielle” qui effaçait les ressorts de tout sursaut éthique, à coup de décisions féroces prises par des juristes dépourvus de “Sittlichkeit” et de culture. On voit les résultats après plus de 6 décennies...

Franz Weyergans

Parmi les adeptes du groupe de la “Capelle-aux-Champs”, signalons encore Franz Weyergans (1912-1974), père de François Weyergans. Lui aussi s’inspire de Saint François d’Assise. Il sera d’abord journaliste radiophonique comme Biebuyck. La littérature, pour autant qu’elle ait retenu son nom, se rappellera de lui comme d’un défenseur doux mais intransigeant de la famille nombreuse et du mariage. Weyergans plaide pour une sexualité pure, en des termes qui apparaissent bien désuets aujourd’hui. Il fustige notamment, sans doute dans le cadre d’une campagne de l’Église, l’onanisme.

Franz Weyergans est revenu sous les feux de la rampe lorsque son fils François, publie chez Grasset Franz et François une sorte de dialogue post mortem avec son père. Le livre recevra un prix littéraire, le Grand Prix de la Langue Française (1997). Il constitue un très beau dialogue entre un père vertueux, au sens où l’entendait l’Église avant-guerre dans ses recommandations les plus cagotes à l’usage des tartufes les plus assomants, et un fils qui s’était joyeusement vautré dans une sexualité picaresque et truculente dès les années 50 qui annonçaient déjà la libération sexuelle de la décennie suivante (avec Françoise Sagan not.). Deux époques, deux rapports à la sexualité se télescopent dans Franz et François mais si François règle bien ses comptes avec Franz — et on imagine bien que l’affrontement entre le paternel et le fiston a dû être haut en couleurs dans les décennies passées — le livre est finalement un immense témoignage de tendresse du fils à l’égard de son père défunt.

L’angoisse profonde et terrible qui se saisit d’Hergé dès le moment où il rencontre celle qui deviendra sa seconde épouse, Fanny Vleminck, et lâche progressivement sa première femme Germain Kieckens, l’ancienne secrétaire de l’Abbé Wallez au journal Le Vingtième siècle, ne s’explique que si l’on se souvient du contexte très prude de la “Capelle-aux-Champs” ; de même, son recours à un psychanalyste disciple de Carl Gustav Jung à Zürich ne s’explique que par le tournant jungien qu’opèreront R. De Becker, futur collaborateur de la revue Planète de Louis Pauwels, et Henry Bauchau dès les années 50.

Biebuyck et Weyergans, même si nos contemporains trouveront leurs œuvres surannées, demeurent des écrivains, peut-être mineurs au regard des critères actuels, qui auront voulu, et parfois su, conférer une “dignité à l’ordinaire”, comme le rappelle C. Vanderpelen-Diagre. Jacques Biebuyck et Franz Weyergans, sans doute contrairement à Tintin (du moins dans une certaine mesure), ne visent ni le sublime ni l’épique : ils estiment que “la vie quotidienne est un pèlérinage ascétique”.

De l’ACJB à Rex

Mais dans toute cette effervescence, inégalée depuis lors, quelle a été la genèse de Rex, du mouvement rexiste de Léon Degrelle ? Les 29, 30 et 31 août 1931 se tient le congrès de l’ACJB, présidé par Léopold Levaux, auteur d’un ouvrage apologétique sur Léon Bloy (Léon Bloy, éd. Rex, Louvain, 1931). À la tribune : Monseigneur Ladeuze, Recteur magnifique de l’Université Catholique de Louvain, l’Abbé Jacques Leclercq et Léon Degrelle, alors directeur des Éditions Rex, fondées le 15 janvier 1931. Le futur fondateur du parti rexiste se trouvait donc à la fin de l’été 1931 aux côtés des plus hautes autorités ecclésiastiques du pays et du futur mentor de la démocratie chrétienne, qui finira par se situer très à gauche, très proche des communistes et du résistancialisme qu’ils promouvaient à la fin des années 40. L’organisation de ce congrès visait le couronnement d’une série d’activités apostoliques dans les milieux catholiques et, plus précisément, dans le monde de la presse et de l’édition, ordonnées très tôt, sans doute dès le lendemain de la Première Guerre mondiale, par le cardinal Mercier lui-même. L’année de sa mort, qui est aussi celle de la condamnation de l’Action française par le Vatican (1926), est suivie rapidement par la fameuse “substitution de gourou” dans les milieux catholiques belges : on passe de Maurras à Maritain, du nationalisme intégral à l’humanisme intégral. En cette fin des années 20 et ce début des années 30, Maritain n’a pas encore une connotation de gauche : il ne l’acquiert qu’après son option en faveur de la République espagnole.

C’est une époque où le futur Monseigneur Picard s’active, notamment dans le groupe La nouvelle équipe et dans les Cahiers de la jeunesse catholique. En août 1931, à la veille de la rentrée académique de Louvain, il s’agit de promouvoir les éditions Rex, sous la houlette de Degrelle (c’est pour cela qu’il est hissé sur le podium à côté du Recteur), de Robert du Bois de Vroylande (1907-1944) et de Pierre Nothomb. En 1932, l’équipe, dynamisée par Degrelle, lance l’hebdomadaire Soirées qui parle de littérature, de théâtre, de radio et de cinéma. Les catholiques, auparavant rétifs à toutes les formes de modernité même pratiques, arraisonnent pour la première fois, avec Degrelle, le secteur des loisirs. La forme, elle aussi, est moderne : elle fait usage des procédés typographiques américains, utilise en abondance la photographie, etc. La parution de Soirées, hebdomadaire en apparence profane, apporte une véritable innovation graphique dans le monde de la presse belge. Les éditions Rex ont été fondées “pour que les catholiques lisent”. L’objectif avait donc clairement pour but de lancer une offensive “métapolitique”.

L’équipe s’étoffe : autour de Léon Degrelle et de Robert du Bois de Vroylande, de nouvelles plumes s’ajoutent, dont celle d’Aman Géradin (1910-2000) et de José Streel (1911-1946), auteur de 2 thèses, l’une sur Péguy, l’autre sur Bergson. Plus tard, Pierre Daye, Joseph Mignolet et Henri-Pierre Faffin rejoignent les équipes des éditions Rex. Celles-ci doivent offrir aux masses catholiques des livres à prix réduit, par le truchement d’un système d’abonnement. C’est le pendant francophone du Davidsfonds catholique flamand (qui existe toujours et est devenu une maison d’édition prestigieuse). Cependant, l’épiscopat, autour des ecclésiastiques Picard et Ladeuze, n’a pas mis tous ses œufs dans le même panier. À côté de Rex, il patronne également les Éditions Durandal, sous la direction d’Edouard Ned (1873-1949). Celui-ci bénéficie de la collaboration du Chanoine Halflants, de Firmin Van den Bosch, de Georges Vaxelaire, de Thomas Braun, de Léopold Levaux et de Camille Melloy. L’épiscopat a donc créé une concurrence entre Rex et Durandal, entre Degrelle et Ned. C’était sans doute, de son point de vue, de bonne guerre. Les éditions Durandal, offrant des ouvrages pour la jeunesse, dont nous disposions à la bibliothèque de notre école primaire (vers 1964-67), continueront à publier, après la mort de Ned, jusqu’au début des années 60.

Degrelle rompt l’unité du parti catholique

rex-0410.jpgLéon Degrelle veut faire triompher son équipe jeune (celle de Ned est plus âgée et a fait ses premières armes du temps de la Jeune Droite de Carton de Wiart). Il multiplie les initiatives, ce qui donne une gestion hasardeuse. Les stocks d’invendus sont faramineux et les productions de Rex contiennent déjà, avant même la formation du parti du même nom, des polémiques trop politiques, ce qui, ne l’oublions pas, n’est pas l’objectif de l’ACJB, organisation plus culturelle et métapolitique que proprement politique et à laquelle les éditions Rex sont théoriquement inféodées. Degrelle est désavoué et Robert du Bois de Vroylande quitte le navire, en dénonçant vertement son ancien associé. Meurtri, accusé de malversations, Degrelle se venge par le fameux coup de Courtrai, où, en plein milieu d’un congrès du parti catholique, il fustige les “banksters”, c’est-à-dire les hommes politiques qui ont créé des caisses d’épargne et ont joué avec l’argent que leur avaient confié des petits épargnants pieux qui avaient cru en leurs promesses (comme aujourd’hui pour la BNP et Dexia, sauf que la disparition de toute éthique vivante au sein de la population n’a suscité aucune réaction musclée, comme en Islande ou en Grèce par ex.).

Degrelle, en déboulant avec ses “jeunes plumes” dans le congrès des “vieilles barbes”, a commis l’irréparable aux yeux de tous ceux qui voulaient maintenir l’unité du parti catholique, même si, parfois, ils entendaient l’infléchir vers une “voie italienne” (comme Nothomb avec son “Lion ailé”) ou vers un maritainisme plus à gauche sur l’échiquier politique, ouvert aux socialistes (notamment aux idées planistes de Henri De Man et pour mettre en selle des coalitions catholiques / socialistes) voire carrément aux idées marxistes (pour absorber une éventuelle contestation communiste). De l’équipe des éditions Rex, seuls Daye, Streel, Mignolet et Géradin resteront aux côtés de Degrelle : ils forment un parti concurrent, le parti rexiste qui remporte un formidable succès électoral en 1936, fragilisant du même coup l’épine dorsale de la Belgique d’après 1918, forgée lors des fameux accords de Lophem. Ceux-ci prévoyaient une démocratie réduite à une sorte de circuit fermé sur 3 formations politiques seulement : les catholiques, les libéraux et les socialistes, avec la bénédiction des “acteurs sociaux”, les syndicats et le patronat. Les Accords de Lophem ne prévoyaient aucune mutation politique, aucune irruption de nouveautés organisées dans l’enceinte des Chambres. Et voilà qu’en 1936, 3 partis, non prévus au programme de Lophem, entrent dans l’hémicycle du parlement : les nationalistes flamands du VNV, les rexistes et les communistes.

Toute innovation est assimilée à Rex et à la Collaboration

Les rexistes (en même temps que les nationalistes flamands et les communistes), en gagnant de nombreux sièges lors des élections de 1936, relativisent ipso facto les fameux accords de Lophem et fragilisent l’édifice étatique belge, dont les critères de fonctionnement avaient été définis à Lophem. Depuis lors, toute nouveauté, non prévue par les accords de Lophem, est assimilée à Rex ou au mouvement flamand. Fin des années 60 et lors des élections de 1970, des affiches anonymes, placardées dans tout Bruxelles, ne portaient qu’une seule mention : “FDF = REX”, alors que les préoccupations du parti de Lagasse n’avaient rien de commun avec celles du parti de Degrelle. Ce n’est pas le contenu idéologique qui compte, c’est le fait d’être simplement challengeur des accords de Lophem. Même scénario avec la Volksunie de Schiltz (qui, pour sauver son parti, fera son aggiornamento belgicain, lui permettant de se créer une niche nouvelle dans un scénario de Lophem à peine rénové). Et surtout même scénario dès 1991 avec le Vlaams Blok, assimilé non seulement à Rex mais à la collaboration et, partant, aux pires dérives prêtées au nazisme et au néo-nazisme, surtout par le cinéma américain et les élucubrations des intellectuels en chambre de la place de Paris.

Le choc provoqué par le rexisme entraîne également l’implosion du pilier catholique belge, jadis très puissant. Le voilà disloqué à jamais : une recomposition sur la double base de l’idéal d’action de Blondel (avec exigence éthique rigoureuse) et de l’idéal de justice sociale de Carton de Wiart et de l’Abbé Daens, s’est avérée impossible, en dépit des discours inlassablement répétés sur l’humanisme, le christianisme, les valeurs occidentales, la notion de justice sociale, la volonté d’être au “centre” (entre la gauche socialiste et la droite libérale), etc. Une telle recomposition, s’il elle avait été faite sur base de véritables valeurs et non sur des bricolages idéologiques à base de convictions plus sulpiciennes que chrétiennes, plus pharisiennes que mystiques, aurait permit de souder un bloc contre le libéralisme et contre toutes les formes, plus ou moins édulcorées ou plus ou moins radicales, de marxisme, un bloc qui aurait véritablement constitué un modèle européen et praticable de “Troisième Voie” dès le déclenchement de la guerre froide après le coup de Prague de 1948.

Cet idéal de “Troisième Voie”, avec des ingrédients plus aristotéliciens, grecs et romains, aurait pu épauler avec efficacité les tentatives ultérieures de Pierre Harmel, un ancien de l’ACJB, de rapprocher les petites puissances du Pacte de Varsovie et leurs homologues inféodées à l’OTAN (sur Harmel, lire : Vincent Dujardin, Pierre Harmel, Le Cri, Bruxelles, 2004). L’absence d’un pôle véritablement personnaliste (mais un personnalisme sans les aggiornamenti de Maritain et des personnalistes parisiens affectés d’un tropisme pro-communiste et craignant de subir les foudres du tandem Sartre-De Beauvoir) n’a pas permis de réaliser cette vision harmélienne d’une “Europe Totale” (probablement inspirée de Blondel, cf. supra), qui aurait parfaitement pu anticiper de 20 ans la “perestroïka” et la “glasnost” de Gorbatchev.

Une véritable implosion du bloc catholique

Le pilier catholique de l’après-guerre n’ose plus revendiquer expressis verbis un personnalisme éthique exigeant. Fragmenté, il erre entre plusieurs môles idéologiques contradictoires : celui d’un personnalisme devenu communisant avec l’UDB (où se retrouve un William Ugeux, ex-journaliste du Vingtième Siècle de l’Abbé Wallez, l’admirateur sans faille de Maurras et de Mussolini !), qui, après sa dissolution dans le désintérêt général, va générer toutes les variantes éphémères du “christianisme de gauche”, avec le MOC et en marge du MOC (Mouvement Ouvrier Chrétien) ; celui du technocratisme qui, comme toutes les autres formes de technocratisme, exclut la question des valeurs et de l’éthique de l’orbite politique et laisse libre cours à toutes les dérives du capitalisme et du libéralisme, provoquant à terme le passage de bon nombre d’anciens démocrates chrétiens du PSC, ceux qui confondent erronément “droite” et “libéralisme”, dans les rangs des PLP, PRL et MR libéraux ; le technocratisme fut d’abord importé en Belgique par Paul Van Zeeland, immédiatement dans la foulée de sa victoire contre Rex, lors des élections de 1937, provoquées par Degrelle qui espérait déclencher un nouveau raz-de-marée en faveur de son parti.

Van Zeeland avait besoin d’un justificatif idéologique en apparence neutre pour pouvoir diriger une coalition regroupant l’extrême-gauche communiste, les socialistes, les libéraux et les catholiques. Les avatars multiples du premier technocratisme zeelandien déboucheront, dans les années 90, sur la “plomberie” de Jean-Luc Dehaene, c’est-à-dire sur les bricolages politiciens et institutionnels, sur les expédiants de pure fabrication, menant d’abord à une Belgique sans personnalité aucune (et à une Flandre et à une Wallonie sans personnalité séduisante) puis sur une “absurdie”, un “Absurdistan”, tel que l’a décrit l’écrivain flamand Rik Vanwalleghem (cf. supra). Enfin, on a eu des formes populistes vulgaires dans les années 60 avec les “listes VDB” de Paul Van den Boeynants qui ont débouché au fil du temps dans le vaudeville, le stupre et la corruption. Autre résultat de la mise entre parenthèse des questions axiologiques ou éthiques...

De l’UDB au PSC et du PSC au CdH, l’évacuation de toutes les “valeurs” structurantes a été perpétrée parce que Degrelle avait justifié son “Coup de Courtrai”, son “Opération Balais” et ses éditoriaux au vitriol au nom de l’éthique, une éthique qu’il avait d’abord partagée avec bon nombre d’hommes politiques ou d’écrivains catholiques (qui ne deviendront ni rexistes ni collaborateurs). Toute référence à une éthique (catholique ou maritainiste au sens du premier Maritain) pourrait autoriser, chez les amateurs de théories du complot et les maniaques de l’amalgame, un rapprochement avec Rex, donc avec la collaboration, ce que l’on voulait éviter à tout prix, en même temps que les campagnes de presse diffamatoires, où l’adversaire est toujours, quoi qu’il fasse ou dise, un “fasciste”. Cette éthique pouvait certes indiquer une “proximité” avec Rex, sur le plan philosophique, mais non une identité, vu les différences notoires entre Rex et ses adversaires (catholiques) sur les réformes à promouvoir aux plans politique et institutionnel. Le fait que Degrelle ait justifié ses actions perturbantes de l’ordre établi à Lophem au nom d’une certaine éthique catholique, théorisée notamment par José Streel, qui lui ajoute des connotations populistes tirées de Péguy (“les petites et honnêtes gens”), n’exclut pas qu’un pays doit être structuré par une éthique née de son histoire, comme des auteurs aussi différents que Colin, Hommel, Streel, Libert, De Becker ou Bauchau l’ont réclamé dans les années 30.

En changeant de nom, le PSC devenu CdH (Centre démocrate et humaniste) optait pour un retour à l’universalisme gauchisant du dernier Maritain, s’ôtant par là même tout socle éthique et concret sous prétexte qu’on ne peut exiger de la rigueur au risque de froiser d’autres croyants ou des “incroyants” ; on se privait volontairement d’une éthique capable de redonner vigueur à la vie politique du royaume. L’idéologie vague du CdH, sans plus beaucoup de volonté affichée d’ancrage local en Wallonie et même sans plus aucun ancrage catholique visibilisé, laisse un pan (certes de plus en plus ténu en Wallonie mais qui se fortifie à Bruxelles grâce aux voix des immigrants subsahariens) de l’électorat ouvert à toutes les dérives du festivisme contemporain ou d’un utilitarisme libéral, néo-libéral et sans profondeur : la société marchande, la dictature des banquiers et des financiers, ne rencontre plus aucun obstacle dans l’intériorité même des citoyens. Cette fraction de l’électorat, que l’on juge, à tort, susceptible d’opposer un refus éthique, puisque “religieux” ou “humaniste”, à la dicature médiatique, festiviste et utilitariste dominante, est alors “neutralisé” et ne peut plus contribuer à redonner vigueur à la virtù de machiavélienne mémoire. De cette façon, on navigue de Charybde en Scylla. La spirale du déclin moral, physique et politique est en phase descendante et “catamorphique” sans remède apparent.

La théorie de Pitirim Sorokin pour théoriser la situation

Quel outil théorique pourrait-on utiliser pour saisir toute la problématique du catholicisme belge, où il y a eu d’abord exigence d’éthique dans le sillage du Cardinal Mercier, sous l’impulsion directe de celui-ci, puis déconstruction progressive de cette exigence éthique, après le paroxysme du début des années 30 (avec l’ouvrage de Monseigneur Picard, Le Christ-Roi, éd. Rex, Louvain, 1929). La condamnation de l’Action française par Rome en 1926, le remplacement de l’engouement pour l’Action Française par l’universalisme catholique de Maritain, qui deviendra vite vague et dépourvu de socle, la tentation personnaliste théorisée par Mounier, le choc du rexisme qui fait imploser le bloc catholique sont autant d’étapes dans cette recherche fébrile de nouveauté au cours des années 30 et 40.

Le sociologue russe blanc Pitirim Sorokin (1889-1968), émigré aux États-Unis après la révolution bolchevique, nous offre sans doute, à nos yeux, la meilleure clef interprétative pour comprendre ce double phénomène contradictoire d’exigence éthique, parfois véhémente, et de deconstruction frénétique de toute assise éthique, qui a travaillé le monde politico-culturel catholique de la Belgique entre 1884 et 1945 et même au-delà. P. Sorokin définit 3 types de mentalité à l’œuvre dans le monde, quand il s’agit de façonner les sociétés. Il y a la mentalité “ideational”, la mentalité “sensate” et la mentalité intermédiaire entre “ideational” et “sensate”, l’”idealistic”. Pour Sorokin, les hommes animés par la mentalité “ideational” sont mus par la foi, la mystique et/ou l’intuition. Ils créent les valeurs artistiques, esthétiques, suscitent le Beau par leurs actions. Certains sont ascètes. Ceux qui, en revanche, sont animés par la mentalité “sensate”, entendent dominer le monde matériel en usant d’artifices rationnels. Les “idealistic” détiennent des traits de caractère communs aux 2 types. La dynamique sociale repose sur la confrontation ou la coopération entre ces 3 types d’hommes, sur la disparition et le retour de ces types, selon des fluctuations que l’historien des idées ou de l’art doit repérer.

La civilisation grecque connaît ainsi une première phase “ideational” (quand émerge la “période axiale” selon Karl Jaspers ou Karen Armstrong), suivie d’une phase “idealistic” puis d’une phase de décadence “sensate”. De même, le Moyen Âge ouest-européen commence par une phase “ideational”, qui dure jusqu’au XIIe siècle, suivie d’une phase hybride de type “idealistic” et du commencement d’une nouvelle phase “sensate”, à partir de la fin du XVe siècle. Sorokin estimait que le début du XXe siècle était la phase terminale de la période “sensate” commencée fin du XVe siècle et qu’une nouvelle phase “ideational” était sur le point de faire irruption sur la scène mondiale. La vision du temps selon Sorokin n’est donc pas linéaire ; elle n’est pas davantage cyclique : elle est fluctuante et véhicule des valeurs toujours immortelles, toujours susceptibles de revenir à l’avant-plan, en dépit des retraits provisoires (le “withdrawal-and-return” de Toynbee), qui font croire à leur disparition. Une volonté bien présente dans un groupe d’hommes à la mentalité “ideational” peut faire revenir des valeurs non matérielles à la surface et amorcer ainsi une nouvelle période féconde dans l’histoire d’une civilisation (cf. Prof. Dr. S. Hofstra, « Pitirim Sorokin », in : Hoofdfiguren uit de sociologie, deel 1, Het Spectrum, coll. “Aula”, nr. 527, Utrecht / Antwerpen, 1974, pp. 202-220).

De l’”ideational” au “sensate”

La phase “ideational” est celle qui recèle encore la virtus politique romaine, ou la virtù selon Machiavel. Elle correspond au sentiment religieux de nos auteurs catholiques (rexisants ou non) et à leur volonté d’œuvrer au Beau et au Bien. Face à ceux-ci, les détenteurs de la mentalité “sensate” qui, dans une première phase, sont matérialistes ou technocratistes ; ils ne jugent pas la recherche du profit comme moralement indéfendable ; ils seront suivis par des “sensate” encore plus radicaux dans le sillage de mai 68 et du festivisme qui en découle puis dans la vague néo-libérale qui a conduit l’Europe à la ruine, surtout depuis l’automne 2008. Le bloc catholique en liquéfaction dans le paysage politique belge a d’abord été animé par une frange jeune, nettement perceptible comme “ideational”, une frange au sein de laquelle émergera un conflit virulent, celui qui opposera les adeptes et les adversaires de Rex.

Au départ, ces 2 factions “ideational” partageaient les mêmes aspirations éthiques et les mêmes vues politiques (renforcement de l’exécutif, etc.) : les uns feront des compromis avec les tenants des idéologies “sensate” pour ne pas être marginalisés ; les autres refuseront tout compromis et seront effectivement marginalisés. Les premiers se forceront à oublier leur passé “ideational” pour ne pas être confondus avec les seconds. Ces derniers seront mis au ban de la société après la défaite de l’Allemagne en 1945 et des mesures d’ordre judiciaire les empêcheront de s’exprimer aux tribunes habituelles d’une société démocratique (journalisme, enseignement, etc.). Toute forme d’expression politique de nature “ideational” sera réellement ou potentiellement assimilée à Rex (et à la collaboration). C’est ce que C. Vanderpelen-Diagre veut dire quand elle dit que les valeurs véhiculées par ces auteurs catholiques, les scriptores catholici, « ont déserté la mémoire collective ». On les a plutôt exilé de la mémoire collective...

Sa collègue de l’ULB, Bibiane Fréché, évoque, elle, l’émergence dans l’immédiat après-guerre d’une « littérature sous surveillance », bien encadrée par les institutions étatiques qui procurent subsides (souvent chiches) et sinécures à ceux qui veulent bien s’aligner en « ignorant le présent », « en se détachant des choses qui passent », bref en ne prenant jamais parti pour un mouvement social ou politique. On préconise la naissance d’une nouvelle littérature post-rexiste ou post-collaborationniste, et aussi post-communiste, qui serait détachée des réalités socio-politiques concrètes, des engagements tels qu’ils sont exaltés par les existentialistes français : bref, la littérature ne doit pas aider à créer les conditions d’une contestation des accords de Lophem. Il y a donc bien eu une tentative d’aligner la littérature sur des canons “gérables”, dès la fin de la Seconde Guerre mondiale (Bibiane Fréché, Littérature et société en Belgique francophone (1944-1960), Le Cri / CIEL-ULB-Ulg, Bruxelles, 2009). L’implosion du bloc catholique suite à la victoire de Rex en 1936 et la volonté de “normaliser” la littérature après 1945 créent une situation particulière, un blocage, qui empêche la restauration du politique au départ de toute initiative métapolitique. Les verrous ont été mis.

Quand un homme comme le Sénateur MR de Bruxelles, Alain Destexhe, entend, dans plusieurs de ses livres, “restaurer le politique” contre la déliquescence politicienne, il exprime un vœu impossible dans le climat actuel, héritier de cet envahissement du “sensate”, de cette inquisition répressive des auditorats militaires de l’après-guerre et de la volonté permanente et vigilante de “normalisation” voulue par les nouveaux pouvoirs : on ne peut restaurer ni le politique (au sens où l’entendaient Carl Schmitt et Julien Freund) ni la force dynamisante de la virtù selon Machiavel, sans recours à l’ “ideational” fondateur de valeurs qui puise ses forces dans le plus lointain passé, celui des périodes axiales de l’histoire (Jaspers, Armstrong). Pour revenir à Sorokin, la transition subie par la Belgique au cours du XXe siècle est celle qui l’a fait passer brutalement d’une période pétrie de valeurs “ideational” à une période entièrement dominée par les non valeurs “sensate”.

La réhabilitation tardive de Raymond De Becker

La récente réhabilitation de R. De Becker par les universités belges, exprimée par un long colloque de 3 jours au début avril 2012 dans les locaux des Facultés Universitaires Saint Louis de Bruxelles, est une chose dont il faut se féliciter car De Becker a d’abord été totalement ostracisé depuis sa condamnation à mort en 1946 suivie de sa grâce, sa longue détention sur la paille humide des cachots et le procès qu’il a intenté à l’État belge en 1954 et qu’il a gagné. Il est incontestablement l’homme qu’il ne fallait plus ni évoquer ni citer pour “chasser de la mémoire collective” une époque dont beaucoup refusaient de se souvenir. La fidélité que lui a conservée Bauchau a sans doute été fort précieuse pour décider le monde académique à réouvrir le dossier de cet homme-orchestre unique en son genre. L’intérêt intellectuel qu’il y avait à réhabiliter complètement De Becker vient justement de sa nature d’”électron libre” et de “passeur” qui allait et venait d’un cénacle à l’autre, correspondait avec d’innombrables homologues et surtout avec Jacques Maritain.

Cécile Vanderpelen-Diagre, dans un ouvrage rédigé avec le Professeur Paul Aron (Vérités et mensonges de la collaboration, éd. Labor, Loverval, 2006 ; sur De Becker, lire les pp. 13-36) souligne bien cette qualité d’homme-orchestre de De Becker et surtout l’importance de son ouvrage Le livre des vivants et des morts, où il retrace son itinéraire intellectuel (jusqu’en 1941). Elle reproche à De Becker, qui n’avait jamais été germanophile avant 1940-41, de s’octroyer dans cet ouvrage une certaine germanophilie dans l’air du temps. Ce reproche est sans nul doute fondé. Mais l’historienne des idées semble oublier que la conversion, somme toute assez superficielle, de De Becker à un certain germanisme (organique et charnel) vient de l’écrivain catholique Gustave Thibon, inspirateur de Jean Giono, qui avait rédigé sa thèse sur le philosophe païen et vitaliste Ludwig Klages, animateur en vue de la Bohème munichoise de Schwabing au début du siècle puis exilé en Suisse sous le national-socialisme mais inspirateur de certains protagonistes du mouvement anti-intellectualiste völkisch (folciste), dont certains s’étaient ralliés au nouveau régime.

Ubiquité de De Becker : personnalisme, socialisme demaniste + “Le Rouge et le Noir”

Vu l’ubiquité de De Becker dans le paysage intellectuel des années 30 en Belgique comme en France, et vu ses sympathies pour le socialisme éthique de Henri De Man, il est impossible de ne pas inclure, dans nos réflexions sur le devenir de notre espace politique, l’histoire des idées socialistes, notamment après analyse de l’ouvrage récent d’Eva Schandevyl, professeur à la VUB, qui vient de consacrer un volume particulièrement dense et bien charpenté sur l’histoire des gauches belges : Tussen revolutie en conformisme – Het engagement en de netwerken van linkse intellectuelen in België, 1918-1956 (ASP, Bruxelles, 2011). Sans omettre non plus l’histoire du mouvement et de la revue Le Rouge et le Noir, organe et tribune anarchiste-humaniste avant-guerre, dont l’un des protagonistes, Gabriel Figeys (alias Mil Zankin), se retrouvera sous l’occupation aux côtés de Louis Carette (le futur Félicien Marceau) à l’Institut National de Radiodiffusion (INR) et dont l’animateur principal, Pierre Fontaine, se retrouvera à la tête du seul hebdomadaire de droite anti-communiste après la guerre, l’Europe-Magazine (avant la reprise de ce titre par Émile Lecerf).

Les aléas du Rouge et Noir sont très bien décrits dans l’ouvrage de Jean-François Füeg (Le Rouge et le Noir : La tribune bruxelloise non-conformiste des années 30, Quorum, Ottignies / Louvain-la-Neuve, 1995). Füeg, professeur à l’ULB, montre très bien comment l’anti-communisme des libertaires non-conformistes, né comme celui d’Orwell dans le sillage de l’affontement entre anarcho-syndicalistes ibériques et communistes à Barcelone pendant la guerre civile espagnole, comment le neutralisme pacifiste des animateurs du Rouge et Noir a fini par accepter la politique royale de rupture de l’alliance privilégiée avec une France posée comme indécrottablement belliciste et première responsable des éventuelles guerres futures (Koestler mentionne cette attitude pour la critiquer dans ses mémoires), ce qui conduira, très logiquement, après l’effondrement de la structure que constituait “le rouge et le noir”, à redessiner, pendant la guerre et dans les années qui l’ont immédiatement suivie, un paysage intellectuel politisé très différent de celui des pays voisins. La lecture de ces itinéraires interdit toute lecture binaire de notre paysage intellectuel tel qu’il s’est déployé au cours du XXe siècle. Ce que nous avions toujours préconisé depuis la toute première conférence de l’EROE sur Henri De Man en septembre 1983, en présence de témoins directs, aujourd’hui tous décédés, tels Léo Moulin, Jean Vermeire (du Vingtième Siècle et puis du Pays Réel) et Edgard Delvo (sur Delvo, lire : Frans Van Campenhout, Edgard Delvo – Van marxist en demanist naar Vlaams-nationalist, chez l’auteur, Dilbeek, 2003 ; l’auteur est un spécialiste du mouvement “daensiste”).

Au-delà du clivage gauche/droite

Nos initiatives ont toujours voulu transcender le clivage gauche/droite, notamment en incluant dans nos réflexions les critiques précoces du néo-libéralisme par les auteurs des éditions “La Découverte” qui préconisaient le “régulationnisme”. C’était Ange Sampieru qui se faisait à l’époque le relais entre notre rédaction et l’éditeur parisien de gauche, tout en essuyant les critiques ineptes et les sabotages irrationnels d’un personnage tout à la fois bouffon et malfaisant, l’inénarrable et narcissique Alain de Benoist, qui s’empressera de se placer, 2 ou 3 ans plus tard, dans le sillage de Sampieru, qu’il ignorera par haine jalouse et complexe d’infériorité et qu’il évincera avant de l’imiter. Le “Pape de la ‘nouvelle droite’” ira flatter de manière ridiculemernt obséquieuse les animateurs du MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales), qui publiaient chez “la Découverte”, pour essuyer finalement, sur un ton goguenard, une fin de non recevoir et glâner une “lettre ouverte” moqueuse et bien tournée... Notre lecture de Nietzsche était également tributaire de ce refus, dans la mesure où nous n’avons jamais voulu le lire du seul point de vue de “droite” et que nous avons toujours inclu dans nos réflexions l’histoire de sa réception à gauche des échiquiers politiques, surtout en Allemagne.

Quant au catholicisme politique belge, il s’est suicidé et perpétue son suicide en basculant toujours davantage dans les fanges les plus écœurantes du festivisme (Milquet) ou de la corruption banksterienne (Dehaene), au nom d’une très hypothétique “efficacité politique” ou par veulerie électoraliste. Il est évident qu’il ne nous attirera plus, comme il ne nous a d’ailleurs jamais attiré. Il n’empêche que la Belgique, de même qu’une Flandre éventuellement indépendante et que la Wallonie, est le produit de la reconquête des Pays-Bas par les armées de Farnèse et de la Contre-Réforme, comme le disait déjà avant guerre le Professeur louvaniste Léon van der Essen et que cette reconquête est celle des iconodules pré-baroques qui reprennent le contrôle du pays après les exactions des iconoclastes, qui avaient ravagé le pays en 1566 (3) : un Martin Mosebach, étoile de la littérature allemande contemporaine, dirait qu’il s’agit d’une victoire de la forme sur la “Formlosigkeit”, tout comme l’installation des “sensate” dans les rouages de la politique et de l’État est, au contraire, une victoire de la “Formlosigkeit” sur les formes qu’avaient voulu sauver les “ideational” ou gentiment maintenir les “idealistic”.

Même si la foi a disparu sous les assauts du relativisme postmoderne ou par épuisement, 2 choses demeurent : le territoire sur lequel nous vivons est une part détachée de l’ancien Saint-Empire, dont la référence était catholique, et la philosophie qui doit nous animer est surtout, même chez les adversaires de Philippe II ralliés au Prince d’Orange ou à Marnix de Sainte-Aldegonde, celle d’Érasme, très liée à l’antiquité et très marquée par le meilleur des humanismes renaissancistes. Érasme n’a pas rejoint le camp de la Réforme non pas pour des raisons religieuses, mais parce qu’un retour au biblisme le plus littéral, hostile au recours de la Renaissance à l’Antiquité, le révulsait et suscitait ses moqueries : autre volonté sereine de maintenir les formes antiques, née à la période axiale de l’histoire et ravivée sous Auguste, contre la “Formlosigkeit” que constitue les autres formes, importées ou non. Nous devons donc rester, devant cet héritage du XXe siècle et devant les ruines qu’il a laissés, des érasmiens impériaux, bien conscients de la folie des hommes.

► Robert Steuckers (Forest-Flotzenberg, mai 2012).

Notes :

(1) Paul Desjardins inaugure un filon de la pensée qui apaise et fortifie les esprits tout à la fois. Dreyfusard au moment de l’”affaire”, il achète en 1906 l’Abbaye de Pontigny confisquée et vendue suite aux mesures du “P’tit Père Combes”. Dans cette vénérable bâtisse, il crée les Décades de Pontigny, périodes de chaque fois 10 jours de séminaires sur un thème donné. Elles commencent avant la Première Guerre mondiale et reprennent en 1922. Parallèlement à ces activités qui se tenaient dans le département de l’Yonne, P. Desjardins suit les Cours universitaires de Davos, en Suisse, où, de 1928 à 1931, des intellectuels français et allemands, flanqués d’homologues venus d’autres pays, se rencontreront en terrain neutre. En 1929, Heidegger, Gonzague de Reynold, Ernst Cassirer et le théologien catholique et folciste (völkisch) Erich Przywara y participent en tant que conférenciers. Parmi les étudiants invités, il y avait Norbert Elias, Karl Mannheim, Emmanuel Lévinas, Léo Strauss et Rudolf Carnap. L’axe des réflexions des congressistes est l’anti-totalitarisme. En 1930, on y trouve Henri De Man et Alfred Weber (le frère trop peu connu en dehors d’Allemagne de Max Weber, décédé en 1920). En 1931, on y retrouve l’Italien Guido Bartolotto, théoricien de la notion de “peuple jeune”, Marcel Déat, Hans Freyer et Ernst Michel (disciple de Carl Schmitt). On peut comparer mutatis mutandis ces activités intellectuelles de très haut niveau au projet lancé à l’époque par Karl Jaspers, visant à établir l’état intellectuel de la nation (allemande) dans une perspective pluraliste et constructive, initiative que Jürgen Habermas tentera, à sa façon, d’imiter à l’aube des années 80 du XXe siècle. P. Desjardins collabore également à la Revue politique et littéraire, plus connue sous le nom de Revue Bleue, vu la couleur de sa couverture. Sa fille Anne Desjardins, épouse Heurgon, poursuit l’œuvre de son père mais vend l’Abbaye de Pontigny pour acheter des locaux à Cerisy-la-Salle, où se tiendront de nombreux colloques philosophico-politiques.

Plus tard, surgit sur la scène française un auteur, apparemment sans lien de parenté avec P. Desjardins, qui porte le même patronyme, Arnaud Desjardins (1925-2011). Ce disciple de Gurdjieff, comme le sera aussi Louis Pauwels qui s’assurera pour Planète le concours de Raymond De Becker, influence également De Becker (et par le truchement de De Becker, Hergé) et infléchit les réflexions de ses lecteurs en direction du yoga et de la spiritualité indienne, dans le sillage de Swâmi Prâjnanpad. Son ouvrage Chemins de la sagesse influencera un grand nombre d’Occidentaux friands d’un “ailleurs” parce que leur civilisation, sombrant dans le matérialisme et la frénésie acquisitive, ne les satisfaisait plus. A. Desjardins participera à plusieurs expéditions, en minibus Volkswagen, en Afghanistan, dont il rapportera, à l’époque, des reportages cinématographiques époustouflants. Signalons également qu’A. Desjardins fut un animateur en vue du mouvement scout, auquel il voulait insuffler une vigueur nouvelle, plus aventureuse et plus friande de grands voyages, à la façon des Nerother allemands. Le scoutisme d’A. Desjardins participera à la résistance, notamment en facilitant l’évasion de personnes cherchant à fuir l’Europe contrôlée par l’Axe.

Le fils d’Arnaud, Emmanuel Desjardins, prend le relais, œuvre actuellement, et a notamment publié Prendre soin du monde – Survivre à l’effondrement des illusions (éd. Alphée / Jean-Paul Bernard, Monaco, 2009), où il dresse le bilan de la « crise du paradigme du progrès » inaugurant le « règne de l’illusion » suite au « déni du réel » et de la « dénégation du tragique ». Il analyse de manière critique l’”intransigeance idéaliste” (à laquelle un De Becker, par ex., avoue avoir succombé). E. Desjardins tente d’esquisser l’émergence d’un nouveau paradigme, où il faudra avoir le « sens du long terme » et « agir dans la complexité ». Il place ses espoirs dans une écologie politique bien comprise et dans la capacité des êtres de qualité à « se changer eux-mêmes » (par une certaine ascèse). Enfin, E. Desjardins appelle les hommes à « retrouver du sens au cœur du tragique » (donc du réel) en « renonçant au confort idéologique » et en « prenant de la hauteur ».

La trajectoire cohérente des 3 générations Desjardins est peut-être le véritable filon idéologique que cherchaient en tâtonnant, et dans une fébrilité “pré-zen”, ceux de nos rêveurs qui cherchaient une “troisième voie” spiritualisée et politique (qui devait spiritualiser la politique), surtout De Becker et Bauchau, dont les dernières parties du journal, édité par “Actes Sud”, recèlent d’innombrables questionnements mystiques, autour de Maître Eckart notamment. Hergé, très influencé par De Becker en toutes questions spirituelles, surtout le De Becker d’après-guerre, avait reconnu sa dette à l’endroit d’Arnaud Desjardins dans un article intitulé « Mes lectures » et reproduit 23 ans après sa mort dans un numéro spécial du Vif-L’Express et de Lire – Hors-Série, 12 déc. 2006. Hergé insiste surtout sur l’œuvre de Carl Gustav Jung et sur les travaux d’Alan Wilson Watts (1915-1973), ami d’A. Desjardins. Alan Watts est considéré comme le père d’une certaine “contre-culture” des années 50, 60 et 70, qui puise son inspiration dans les philosophies orientales.

(2) Sur Sulev J. Kaja, lire : Michel Fincœur, Sulev J. Kaja, un Estonien de cœur.

(3) Lire : Solange Deyon et Alain Lottin, Les casseurs de l’été 1566 : l’iconoclasme dans le Nord de la France, Hachette, 1981.

jeudi, 07 juin 2012

Ray Bradbury, R.I.P.

Ray Bradbury, R.I.P.

By John Morgan

Ex: http://www.counter-currents.com/  

Ray Bradbury, the writer best known for his novels The Martian Chronicles and Fahrenheit 451, as well as a hundreds of short stories, passed away on Tuesday, June 5 at the age of 91. With him we have lost not only one of America’s greatest writers, but also one of our last genuine writers.

However, I don’t use either of these words – genuine or writer – lightly. I say writer, because I most emphatically do believe that Bradbury, while certainly not one of the most “deep” or sophisticated writers of the past century, certainly came closer to capturing the Angst of our age better than just about anyone else.

I very deliberately did not call him a “science fiction writer,” either, since, as he himself once pointed out, the only one of his major works that could be accurately defined as science fiction is Fahrenheit 451, while the bulk of his work could be more accurately be described as fantasy or horror fiction, with some mainstream works, such as Dandelion Wine, included as well.

As for “genuine,” I used that word for several reasons. One is that Bradbury was part of a vanishing set of writers who learned how to write before America became a post-literate, “information” society that looked to television and, later, the Internet rather than books for entertainment and social commentary. Another is that Bradbury, by his own account, became a writer because of an innate need to write – both because he felt he had a calling for it, and because he quite literally depended on his writing for his livelihood.

I remember reading him recount how, back in 1949 when he was staying at the YMCA in New York and desperately attempting to find a publisher for his short stories about Mars, an editor at Doubleday advised him to turn the book into a novel instead, as novels tend to be more marketable than collections of stories. Bradbury then stayed up all night at the Y, adding a superstructure to his Mars stories modeled on Sherwood Anderson’s Winesburg, Ohio, and thus The Martian Chronicles was born.

That used to be the crucible in which great writers were born. Writers were made of equal parts inspiration and determination, prepared to risk everything in the hope, often bordering on insanity, that someone else would actually like what they were doing. These days in America, if someone decides he wants to be a writer, he usually ends up taking creative writing courses at a college or university, and then, if he’s really driven, he’ll continue on to graduate school and get a Master of Fine Arts degree, attending endless “workshops” where teachers of less-than-dazzling talent of their own try to teach him how to write in a style that will appeal to the editors of the prestigious literary magazines – magazines that only a few thousand people nationwide actually read, but which count for everything in the world of academic literary writing.

If he perseveres and actually manages to publish a few things, and is a bit lucky, he can then find a cozy tenure-track position at some school, teaching writing to other writing students, and giving him the leisure time to write books that will only ever be of interest to other MFA students and professors of writing, since the incestuous world of academic writing is the only world he’s ever lived in. With a few exceptions, that is the state of the field of literary writing in America today. The only living American writers I can think of off the top of my head who I would term “genuine” writers of the same caliber as Bradbury would be Cormac McCarthy, Don DeLillo, and Tito Perdue. They are a vanishing breed.

One might ask why Bradbury should matter to readers of Counter-Currents. One reason is that Bradbury was one of the few people still engaged in a process that is fast becoming a rarity – namely, the actual production of “Western culture,” rather than mere lamentation at its absence. He was very much a writer in the Western, and more specifically American, literary tradition. There is very little overt political content to his work, however, and apart from his public objections to Michael Moore stealing the name of his 2004 film, Fahrenheit 9/11, from his book without permission (a complaint which Bradbury insisted was not politically motivated), as far as I knew, he had never done anything political at all.

In looking over the coverage of Bradbury’s death in the online media, however, I came across a tribute in the National Review entitled “Ray Bradbury, a Great Conservative,” which describes how he was initially a staunch Democrat but started to become disillusioned with liberalism during Lyndon Johnson’s administration, and became more and more of a conservative after that. The article quoted Bradbury as saying in 2010, “I think our country is in need of a revolution. There is too much government today. We’ve got to remember the government should be by the people, of the people, and for the people.” That’s good to know, but I still view Bradbury as essentially an apolitical man.

For me personally, the most relevant thing in Bradbury’s work is his anti-modern spirit. This is why it’s ridiculous to try to classify him as a science fiction writer. Bradbury made his bones as a writer in the 1940s and ’50s, at a time when the vast majority of science fiction was about one-dimensional characters serving as chess pieces in a game of depicting futuristic technology or some fantastic alien world. This is the tradition into which today’s “hard” science fiction falls – stories which are more about being scientifically and technologically plausible than interesting as literature.

Bradbury was never a part of this school. If a rocket appears in a Bradbury story, it’s just a rocket – he assumes you know what one is, and leaves all the technical details to your imagination. This isn’t just laziness on his part – in truth, Bradbury saw advancing technology as a threatening thing, and in his own life he was actually a technophobe who never learned to drive and who apparently refused to fly for much of his life. In the final years of his life, to his credit, he also resisted allowing his works to be turned into e-books, claiming that American life had become too mechanized – although apparently, he changed his mind about this, since Fahrenheit 451 was released as a Kindle in 2010 (ironically enough).

The most important aspect of a Bradbury tale is the depth of feeling and passion felt by the characters, and the uncompromising demand they make to remain human in the face of technology and other popular trends of modernization. Bradbury’s best stories are about solitary men who sense that their souls are being threatened by forces driven by the massive engines of progress, and who then embark on an insane battle which they know they cannot win, but which they also know is preferable to continuing to live as one of the mindless herd.

The quintessential character of this type in Bradbury’s corpus is Guy Montag in 1953’s Fahrenheit 451. In this future America (as I recall he never states exactly when it takes place), all books have been banned for decades, television has taken on the character of what is now termed “virtual reality” and dominates most citizens’ lives, presidents are elected on the basis of their looks rather than their policies, actual communication between individuals never rises above the banal, suicide and drug addiction are rife, and personalities never develop beyond childish immaturity.

Montag is a firefighter, but now that all buildings are fireproof, their only job is to show up whenever books are discovered so that they can be promptly burned. Montag grows curious, however, and eventually starts to read some of the books, and discovers the world that has been denied to him. Once exposed to it, he can’t go back to the mindless world he knew before. He ends up conspiring to destroy the firemen, leaves his television-addicted wife, kills the Fire Chief, goes on the run, and ends up joining a small, underground sect of derelict literati in the countryside who have each committed a book to memory, so that they can preserve some of them without fear of arrest. The book ends as America is destroyed in a long-anticipated nuclear war, and Montag and his fellows begin to walk back toward the ruins of the cities, determined to use their knowledge to rebuild a genuine civilization once again.

This is incredibly radical stuff. These are Evola’s “men among the ruins,” doing their part to save something of a genuine tradition even when all seems lost, in the hope that, eventually, a new world will arise. It’s amazing that Fahrenheit 451 is often required reading in public school courses, when you think about it, even though the popular wisdom is that the book is about the “dangers of censorship” – which is rather like saying that Moby Dick is a story about a man who is chasing a whale. The world Bradbury depicts says much more about the dark side of modern life, and is much more horrifying than mere “censorship.” He is a poet for the man who stands by tradition while being at war with the modern world all around. One of my favorite passages of the book has Montag attempting to read the Book of Matthew on a commuter train, while an obnoxious commercial for toothpaste blares in the background, making it impossible to think. Such moments remain strikingly relevant and symbolic.

I’ve always been struck that George Orwell’s Nineteen-Eighty-Four is held up as the classic dystopian novel. While Nineteen-Eighty-Four has considerable merit in its own right, it is also quite obvious by comparing the two that Bradbury had a much greater understanding of the real dangers lurking in Western civilization in the mid-20th century, and of how they would end up playing out in our time. Orwell’s dystopia is about a crushing, all-powerful government that rules with an iron fist, something that seems quite dated today.

Bradbury’s dystopia really isn’t all that different from the America we now inhabit, where the soft touch of commercialization and materialism is used to enforce state power instead. It’s true that books haven’t actually been banned, although they have been rendered irrelevant.

Another classic Bradbury tale of a man rebelling against the spirit of his times is “Usher II,” which was included in The Martian Chronicles and is in part an homage to Edgar Allan Poe, Bradbury’s literary mentor. In this story, we learn that America has imposed moral laws on its citizens, and as a result, nothing deemed disturbing is permitted. A man named William Stendahl, frustrated with the lack of freedom on Earth, goes to the fledgling colony on Mars, where he builds a massive, automated haunted house based on Poe’s stories. Hearing of it, government officials named “Moral Climate Monitors” are dispatched to investigate its decency.

When they arrive, they immediately decide to have the house torn down, but Stendahl convinces them to go through the house once before passing judgment on it. He also reveals that he has had android doubles of all the officials made. As they walk through the house, the officials see the android versions of themselves being killed, one by one, in particularly gruesome fashion, as Stendahl condemns them for their efforts to sanitize the human experience. Finally, when he gets the Chief Inspector alone, Stendahl reveals that it is the real officials who have been getting killed, while the android doubles were looking on. Stendahl traps the Chief Inspector behind a wall in imitation of “The Cask of Amontillado,” and then whisks away by helicopter as the house collapses into the surrounding swamp.

Although perhaps the simplest version of his “man among the ruins” character is the one in his story “The Pedestrian” (1953), which is about life in 2053, when television has become so predominant that no one leaves their homes at night. Leonard Mead takes a walk through his city, enjoying the solitude he finds and wishing to differentiate himself from those who are forever huddled in front of their screens. Crime, we are told, has disappeared, since television keeps everyone constantly amused. He is finally stopped by a police car on his walk, and when he can’t offer any explanation for why he is walking, he is arrested and told that he will be taken to a psychiatric ward. The crowning dénouement comes when Mead is forced into the car and realizes that there are no police officers, and that it is completely automated.

From these examples, it should be clear that Bradbury nursed a hatred for the modern world that bordered on the violent, as evinced by the extreme reactions many of his characters have to it. The modern world for Bradbury, as it is for the traditionalists, is a place of soulless materialism, sterility, and stupidity divorced from anything authentic, as well as from the past.

My personal favorite since childhood among Bradbury’s rebellious characters, however, is Spender, in “And the Moon Be Still as Bright,” from The Martian Chronicles. In this story, following the disappearance of several earlier expeditions to Mars from Earth, a large and heavily-armed group of astronauts lands on Mars, only to discover that all of the Martians have recently died as a result of being exposed to chickenpox by the previous expeditions from Earth, and against which their immune systems had no defense.

Spender is enchanted by the remnants of the Martian civilization, but his colleagues are mostly contemptuous of it, breaking things and spending their time getting drunk. Spender disappears for several weeks, exploring the Martian ruins on his own, and then returns, lulling his colleagues into a false sense of security and then gunning down six of them. He flees into the hills, where he is pursued by the commander of the expedition, Captain Wilder, and a large force of armed men.

Wilder approaches Spender one last time before he attacks him, to try to talk him into surrendering. The conversation they have has always been among my favorite passages, and I think it’s worth quoting in full:

The captain considered his cigarette. “Why did you do it?”

Spender quietly laid his pistol at his feet. “Because I’ve seen that what these Martians had was just as good as anything we’ll ever hope to have. They stopped where we should have stopped a hundred years ago. I’ve walked in their cities and I know these people and I’d be glad to call them my ancestors.”

“They have a beautiful city there.” The captain nodded at one of several places.

“It’s not that alone. Yes, their cities are good. They knew how to blend art into their living. It’s always been a thing apart for Americans. Art was something you kept in the crazy son’s room upstairs. Art was something you took in Sunday doses, mixed with religion, perhaps. Well, these Martians have art and religion and everything.”

“You think they knew what it was all about, do you?”

“For my money.”

“And for that reason you started shooting people.”

“When I was a kid my folks took me to visit Mexico City. I’ll always remember the way my father acted – loud and big. And my mother didn’t like the people because they were dark and didn’t wash enough. And my sister wouldn’t talk to most of them. I was the only one really liked it. And I can see my mother and father coming to Mars and acting the same way here.

“Anything that’s strange is no good to the average American. If it doesn’t have Chicago plumbing, it’s nonsense. The thought of that! Oh God, the thought of that! And then – the war. You heard the congressional speeches before we left. If things work out they hope to establish three atomic research and atom bomb depots on Mars. That means Mars is finished; all this wonderful stuff gone. How would you feel if a Martian vomited stale liquor on the White House floor?”

The captain said nothing but listened.

Spender continued: “And then the other power interests coming up. The mineral men and the travel men. Do you remember what happened to Mexico when Cortez and his very fine good friends arrived from Spain? A whole civilization destroyed by greedy, righteous bigots. History will never forgive Cortez.”

“You haven’t acted ethically yourself today,” observed the captain.

“What could I do? Argue with you? It’s simply me against the whole crooked grinding greedy setup on Earth. They’ll be flopping their filthy atoms bombs up here, fighting for bases to have wars. Isn’t it enough they’ve ruined one planet, without ruining another; do they have to foul someone else’s manger? The simple-minded windbags. When I got up here I felt I was not only free of their so-called culture, I felt I was free of their ethics and their customs. I’m out of their frame of reference, I thought. All I have to do is kill you all off and live my own life.”

The captain nodded. “Tell me about your civilization here,” he said, waving his hand at the mountain towns.

“They knew how to live with nature and get along with nature. They didn’t try too hard to be all men and no animal. That’s the mistake we made when Darwin showed up. We embraced him and Huxley and Freud, all smiles. And then we discovered that Darwin and our religions didn’t mix. Or at least we didn’t think they did, We were fools. We tried to budge Darwin and Huxley and Freud. They wouldn’t move very well. So, like idiots, we tried knocking down religion.

“We succeeded pretty well. We lost our faith and went around wondering what life was for. If art was no more than a frustrated outflinging of desire, if religion was no more than self-delusion, what good was life? Faith had always given us answers to all things. But it all went down the drain with Freud and Darwin. We were and still are a lost people.”

“And these Martians are a found people?” inquired the captain.

“Yes. They knew how to combine science and religion so the two worked side by side, neither denying the other, each enriching the other.”

“That sounds ideal.”

 …

Spender led him over into a little Martian village built all of cool perfect marble. There were great friezes of beautiful animals, white-limbed cat things and yellow-limbed sun symbols, and statues of bull-like creatures and statues of men and women and huge fine-featured dogs.

“There’s your answer, Captain.”

“I don’t see.”

“The Martians discovered the secret of life among animals. The animal does not question life. It lives. Its very reason for living is life; it enjoys and relishes life. You see – the statuary, the animal symbols, again and again.”

“It looks pagan.”

“On the contrary, those are God symbols, symbols of life. Man had become too much man and not enough animal on Mars too. And the men of Mars realized that in order to survive they would have to forgo asking that one question any longer: Why live? Life was its own answer. Life was the propagation of more life and the living of as good a life is possible. The Martians realized that they asked the question ‘Why live at all?’ at the height of some period of war and despair, when there was no answer. But once the civilization calmed, quieted, and wars ceased, the question became senseless in a new way. Life was now good and needed no arguments.”

“It sounds as if the Martians were quite naïve.”

“Only when it paid to be naïve. They quit trying too hard to destroy everything, to humble everything. They blended religion and art and science because, at base, science is no more than an investigation of a miracle we can never explain, and art is an interpretation of that miracle. They never let science crush the aesthetic and the beautiful. It’s all simply a matter of degree. An Earth Man thinks: ‘In that picture, color does not exist, really. A scientist can prove that color is only the way the cells are placed in a certain material to reflect light. Therefore, color is not really an actual part of things I happen to see.’ A Martian, far cleverer, would say: “This is a fine picture. It came from the hand and the mind of a man inspired. Its idea and its color are from life. This thing is good.’”

There was a pause. Sitting in the afternoon sun, the captain looked curiously around at the little silent cool town.

“I’d like to live here,” he said.

“You may if you want.”

“You ask me that?”

“Will any of those men under you ever really understand all this? They’re professional cynics, and it’s too late for them. Why do you want to go back with them? So you can keep up with the Joneses? To buy a gyro just like Smith has? To listen to music with your pocketbook instead of your glands? There’s a little patio down here with a reel of Martian music in it at least fifty thousand years old. It still plays. Music you’ll never hear in your life. You could hear it. There are books. I’ve gotten on well in reading them already. You could sit and read.”

“It all sounds quite wonderful, Spender.”

“But you won’t stay?”

“No. Thanks, anyway.”

“And you certainly won’t let me stay without trouble. I’ll have to kill you all.”

“You’re optimistic.”

“I have something to fight for and live for; that makes me a better killer. I’ve got what amounts to a religion, now. It’s learning how to breathe all over again. And how to lie in the sun getting a tan, letting the sun work into you. And how to hear music and how to read a book. What does your civilization offer?”

This is the crux of the traditionalist argument in a nutshell. I would add, however, that while it can be beneficial for a Western traditionalist to look to the other traditional civilizations of old for instruction and inspiration, the past of our own civilization is just as alien to modern man as a Martian civilization would be. The real battle is not that of the “West” versus the intrusion of outside elements, because even the “West” of today is not really Western anymore. The battle of our time is, at essence, really about the traditional versus the modern. Everything else is just a manifestation of this basic struggle. And this is a war that is happening everywhere. And it begs the question: what, exactly, are we fighting for? For the traditionalist, at least, the fight must, and can only be for our souls.

Spender adopted the Breivik approach in his war for the traditional, sparking violence that had no chance of success (in the story, he is killed). We can understand the motives and frustrations that lead to such actions, but ultimately, they don’t get us anywhere. The more correct approach, however, is Montag’s – of going underground, and trying to preserve our traditions, until the moment arises when more is possible. As Evola put it, one must become one of “those who have kept watch during the long night [so that they] might greet those who will arrive with the new dawn.” I doubt whether Bradbury had ever heard of the traditionalists, but he was certainly one of them in spirit, if not in doctrine.

I’ll end a bit indulgently and mention the one time I met Bradbury face-to-face. It was in 1996, and he was on a book tour promoting his latest book (Quicker Than the Eye), and he made a stop at the Borders in Ann Arbor, which is where I was living at the time. He had been scheduled to give a reading followed by a book signing, but so many thousands of people came that the reading was abandoned and the poor man simply sat and signed books for seven hours. I got there early and only had to wait for three. When I finally got in front of him and plunked my stack of books down for him to sign, I could feel the air as if it were charged with electricity. I was standing in front of a man who had been as much a part of my childhood as my friends and relatives. Even though I must have been indistinguishable from the legions of other drooling fans to him, he was a perfect gentleman, and I was even able to engage him in conversation for a few moments. I admitted to him that, when I made my first attempts at writing as a teenager, many of my early stories were blatant imitations of his own themes and style. He just waved his hand and said, “That’s OK. All these years, I’ve just been ripping off H. G. Wells!” And he even wished me luck in my own writing career. That will always be how I’ll remember him – every bit as legendary as I had imagined he would be.

The thoughts and feelings which Bradbury’s work inspired in me as a youth have become part of the fabric that underlies my mental and emotional makeup to the point that I can’t even recognize it anymore. He helped to show me what is truly important in life, what is going wrong with the world and what needs to be done about it. Everything else I’ve done since then has just been a continuation of this crusade. There is a direct line between my reading of Bradbury’s works as a child and the urge that has led me to my present-day engagement with Arktos and Counter-Currents. I know that, whatever else happens, he will always be a part of my own being.

Thank you, Mr. Bradbury.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/06/ray-bradbury-r-i-p/

dimanche, 03 juin 2012

Intervista a Claudio Mutti

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Intervista a Claudio Mutti

La traduzione della tragedia “Ifigenia” di Mircea Eliade è pubblicata dalle Edizioni all’insegna del Veltro


Ultimamente fioccano le “censure di presentazione” di libri ritenuti - per lo più a torto - politicamente o culturalmente scorretti. Tutti lettori sanno qualcosa del recente divieto di presentazione del “Così parlò Zarathustra” edito da Ar. O della richiesta dell’associazione “Gherush” di sospendere l’insegnamento di Dante e della sua “Comoedia” perché... antisemita.


Ma c’è un altro precedente, forse ignoto, che riassumiamo in breve.
Un paio d’anni fa Claudio Mutti - il filologo di Parma tacciato di rossobrunismo e eresia - aveva tradotto e pubblicato in italiano una tragedia di Mircea Eliade, “Ifigenia”, che fu messa in scena un paio di volte in Romania (prima sotto Antonescu e poi sotto Ceausescu).
Alcuni mesi fa un regista teatrale, Gianpiero Borgia, ha letto il libro e gli è piaciuto. Così ha preparato un allestimento dell’Ifigenia di Eliade per il Teatro Festival di Napoli (12 giugno) e per la stagione teatrale del Teatro Stabile di Catania (26 giugno).


Qualche giorno fa, però ha ricevuto un diktat dall’erede dei diritti d’autore di Eliade, tale Sorin Alexandrescu, attivista liberale e fondatore di un Comitato per i diritti umani: la tragedia non deve essere rappresentata nella traduzione di Claudio Mutti, perché ha pubblicato tre saggi storici sul rapporto di Eliade con la Guardia di Ferro di Corneliu Codreanu. Proponiamo ai lettori di “Rinascita” un’intervista al professore fatta da un giovane studioso della lingua romena, che ha appena pubblicato un libro presso Aliberti un libro sul colpo di Stato del dicembre 1989.
 
Bistolfi:
Claudio Mutti, antichista, filologo, linguista, poliglotta, traduttore e molto altro: una delle Sue ultime fatiche è stata la traduzione della tragedia Ifigenia di Mircea Eliade, pubblicata dalle Edizioni all’insegna del Veltro. Lei ha così portato alla luce un testo pressoché sconosciuto dello studioso romeno. Quando ha scoperto questo lavoro? Di che cosa tratta?


Mutti: Sono debitore della prima lettura di Ifigenia al mio amico Ion Marii, che alcuni decenni fa mi donò un esemplare dell’ormai irreperibile edizione uscita grazie ai suoi sforzi nel 1951, quando era esule in Argentina. A tale proposito, Mircea Eliade scrisse nel dicembre di quell’anno su un periodico dell’emigrazione romena: “Talvolta arrivano degli operai dall’anima angelica e donano i loro averi affinché si possano stampare i versi e le prose dei nostri sognatori o dei nostri veglianti; è il caso di quell’operaio che sta in Argentina, Ion Marii, il quale ha donato all’editore di Cartea Pribegiei tutto quello che aveva risparmiato in un anno e mezzo di lavoro (Ion Marii, primo membro d’onore della Società degli Scrittori Romeni, quando ritorneremo a casa…)”. Norman Manea invece raccontò su “Les Temps Modernes” che Ifigenia venne pubblicata… dal proprietario “della stampa di destra argentina” (sic)!


Di che cosa si tratta? Ifigenia è una tragedia che riprende il mito trattato da Euripide nell’Ifigenia in Aulide, ma si caratterizza per il risalto attribuito al motivo del sacrificio, motivo di cui Eliade si occupò, in quegli stessi anni, nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole. La figlia di Agamennone accetta e sollecita il proprio sacrificio affinché la spedizione contro Troia possa compiersi con successo.
La tesi di Eliade è che Ifigenia, accettando e sollecitando il proprio sacrificio, acquisisce un “corpo di gloria” che consiste nel successo della spedizione bellica; essa vive nell’impresa degli Achei proprio come la moglie di Mastro Manole vive nel corpo di pietra e calce del monastero.
 
Nel mese di giugno il regista Gianpiero Borgia presenterà la versione italiana di Ifigenia, in prima assoluta per l’Italia, al Teatro Festival di Napoli e al Teatro Greco-Romano di Catania. Abbiamo però notato che il Suo nome non compare più nel cartellone. Si tratta di un “refuso” oppure c’è stato qualche problema “tecnico”?


L’erede di Mircea Eliade, suo nipote Sorin Alexandrescu, ha posto come condizione irrinunciabile per la concessione dei diritti che la rappresentazione dell’opera non si avvalesse della mia traduzione e che questa venisse sostituita dalla traduzione inedita di Horia Corneliu Cicortas. Il motivo di questo aut-aut dell’erede di Eliade è dovuto ad un puro e semplice pregiudizio ideologico. Infatti Sorin Alexandrescu, già fondatore di un comitato per i “diritti umani”, ritiene che oggi, “grazie al trionfo mondiale del liberalismo, noi comprendiamo più facilmente quello che molti intellettuali e cittadini non potevano comprendere allora [cioè nel periodo interbellico], ossia che la società liberale è la società meno imperfetta”. Ora, siccome lo zio non ebbe la possibilità di comprendere quello che invece è stato compreso dal nipote, quest’ultimo si trova in grande imbarazzo allorché il nome di Eliade viene associato alla cultura del tradizionalismo o, peggio ancora, al movimento legionario; perciò si sforza di dissociare Eliade da tutto ciò che è culturalmente e politicamente scorretto. Ai suoi occhi io ho commesso la grave colpa di pubblicare in più lingue alcuni studi che sine ira et studio documentano le liaisons dangereuses di Eliade sia col tradizionalismo (Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni) sia con il legionarismo (Mircea Eliade e la Guardia di Ferro e Le penne dell’Arcangelo). Di qui il diktat di Sorin Alexandrescu al regista italiano.
 
Leggendo Eliade si ha l’impressione che egli abbia rivelato di se stesso molto di più nei romanzi e, scopriamo oggi, in questa tragedia, che non nei diari e nella sua produzione saggistica. Qual è la Sua impressione a riguardo?


Credo di essere stato il primo, oltre una ventina d’anni fa, ad affermare che “sotto il velame” della narrazione romanzesca Eliade ha celato qualcosa che non poteva o non voleva dire esplicitamente in altra maniera: un qualcosa che aveva a che fare con il “culturalmente e politicamente scorretto” di cui ho detto poc’anzi. La mia convinzione è stata poi confermata da altri studiosi, i quali hanno scrutato le pagine della narrativa eliadiana cercando di mettere in luce quelli che Marcello De Martino definisce come i “non detti” e i “frammenti di un insegnamento sconosciuto”.
 
In Romania è mai stata rappresentata questa tragedia? Quali riscontri ha avuto?


Eliade si trovava all’estero allorché il 12 febbraio 1941 Ifigenia venne rappresentata per la prima volta al Teatro Comedia di Bucarest (il Teatro Nazionale era in restauro in seguito ad un terremoto). Una ventina di giorni prima, il generale Antonescu aveva espulso i legionari dal governo ed aveva instaurato una dittatura militare; dato il successo riscosso dalla prima dell’opera, la moglie di Eliade temeva che le autorità potessero vietare ulteriori rappresentazioni, perché, come si legge nel Diario di Petru Comarnescu, con la figura di Ifigenia “Eliade vuole ricordare Codreanu”. Col Diario di Comarnescu converge il Diario di Mihail Sebastian, il quale non si era recato alla prima di Ifigenia: “Avrei avuto l’impressione di assistere – annotò il drammaturgo ebreo – ad una seduta di cuib”, ossia ad una riunione legionaria. Dovette trascorrere una trentina d’anni, prima in Romania si potesse leggere di nuovo il testo di Ifigenia o assistere ad una rappresentazione della tragedia. Il testo fu pubblicato su “Manuscriptum”, una rivista culturale edita a Bucarest, nel 1974, nel quadro di un’operazione di “recupero” della produzione eliadiana da parte del regime nazionalcomunista. Negli anni Ottanta, la tragedia di Eliade venne rappresentata due o tre volte.
 
Qual è la percezione che oggi in Romania si ha dell’adesione di Eliade al Movimento legionario? E in Italia?


Per i Romeni che hanno un’opinione positiva del Movimento legionario, l’adesione di Eliade (così come quella della maggior parte dell’intellettualità romena dell’epoca) è motivo d’orgoglio. Per gli altri, a partire dall’erede dei diritti delle sue opere, è motivo d’imbarazzo. Quanto all’Italia, alcuni hanno demonizzato Eliade come un aguzzino che “consegnava alle SS gli ebrei romeni” (così scrisse testualmente “Repubblica”), mentre altri hanno cercato a lungo di sottacerne l’impegno legionario, poi si sono arrampicati sugli specchi per negarlo o minimizzarlo.


26 Maggio 2012 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=15103

vendredi, 25 mai 2012

Simon Leys, l’intempestif

 

Simon Leys, l’intempestif

 

Un des rares écrivains vivants que l’on devrait déclarer d’utilité publique

 

Ex: http://www.causeur.fr/

 

 

 

En ce temps-là, tout anticommuniste était un chien. Achat obligé en Chine sous peine de travaux forcés, le Petit Livre Rouge se vendait comme des petits pains à Saint-Germain-des-Prés. Philippe Sollers s’exaltait à traduire les poèmes du Grand Timonier dans Tel Quel. Et parce qu’il avait osé le premier un essai critique sur la Révolution culturelle avec Les Habits neufs du président Mao (1971), la sinologue maoïste Michelle Loi ne trouvait rien de plus honnête que de révéler le véritable patronyme de Simon Leys dès le titre de son libelle contre lui Pour Luxun. Réponse à Pierre Ryckmans (Simon Leys), espérant ainsi que celui-ci devienne persona non grata en Chine. Il est vrai que l’on ne s’en prenait pas comme ça à la « Révo. Cul. » et à ses laudateurs dont Jean-François Revel dirait plus tard que s’ils n’avaient pas de sang sur les mains, ils en avaient sur la plume.

 

Autant le négationnisme nazi arriva après le nazisme, autant le négationnisme stalinien et maoïste commença tout de suite, et non par le biais de quelques extrémistes délirants et isolés, du reste immédiatement exclus des thébaïdes intellectuelles mais bien par celui de l’ensemble des maîtres-censeurs du Flore et dont certains sont toujours honorés sur les plateaux de télévision, tel l’inoxydable Alain Badiou qui se donne encore le droit, comme le rappelle, mi-consterné mi-amusé, Leys, d’écrire à propos de Lénine, Staline, Mao, Guevara et autres bienfaiteurs du XXème siècle qu’ « il est capital de ne rien céder au contexte de criminalisation et d’anecdotes ébouriffantes dans lesquelles depuis toujours la réaction tente de les enclore et de les annuler. » Rien que pour cette piqûre de rappel, d’autant plus nécessaire que l’amnésie historique, partie intégrante du programme totalitaire, continue, comme l’a bien vu Frédéric Rouvillois, à être la règle auprès d’un grand nombre d’intellectuels, la lecture de ce Studio de l’inutilité devrait être déclarée d’utilité publique. En vérité, ce Belge qui résista aux tanks de l’intelligentsia des années 70 et suivantes, fut notre homme de Tian’anmen à nous.

 

Pour autant, l’intérêt de ce Studio n’est pas seulement d’ordre purgatif. Intempestif en politique, Simon Leys l’est tout autant en littérature – et c’est là que le plaisir commence. Esprit curieux, érudit toujours plaisant, il n’est jamais là où on l’attend. Peut-être est-ce dû à cette « belgitude » qui, comme chez Henri Michaux sur lequel s’ouvre ce recueil d’essais, est la marque d’une carence originelle, d’une « conscience diffuse d’un manque » que l’auteur de L’ange et le Cachalot va tenter de compenser par la singularité et le paradoxe – l’inadaptation étant toujours la chance de l’esprit libre. Et l’adaptation trop grande provoque la malchance de l’artiste – celle qui finira par toucher Michaux lui-même qui, en voulant, à la fin de sa vie, corriger son œuvre de sa spontanéité originelle, la gâchera en lui donnant un tour bien trop culturel pour être artistique. C’est qu’entre temps, Michaux sera pour sa gloire et son malheur devenu français – c’est-à-dire à l’époque un intellectuel de gauche se rangeant à l’opinion la plus avantageuse et la plus dépravée, au fond la plus utile, celle qui permet, écrit Simon Leys, de « délivrer des brevets de bonne conduite et des médailles récompensant l’effort méritant, qu’il s’agisse de la Chine de Mao ou du Japon d’après guerre » et qu’il se serait sans doute bien gardé de faire s’il était resté belge.

 

Se garder de tous les clichés de la « francitude », au risque de perdre les pouvoirs qu’elle donne, telle sera la probité de Simon Leys qui, à l’instar de Simone Weil qu’il admire, choisira toujours la justice plutôt que son camp. En plus de rester fidèle à ses goûts, ce qui dans notre pays où tout le monde aime ou déteste la même chose est aussi une preuve d’héroïsme. Ainsi, lorsqu’Antoine Gallimard et Jean Rouaud le contactent pour savoir quel est pour lui « le roman du XX ème siècle », il ne propose pas, comme tout un chacun, l’énième chef-d’œuvre de Céline, Proust ou Kafka, mais remet à l’honneur d’autres titres moins côtés quoique tout aussi importants, tels Le nommé Jeudi de Chesterton et L’agent secret de Conrad, deux romans qui mettent en scène terroristes et contre-terroristes et qui à leur manière parlent de cette possession révolutionnaire qui fut la marque abominable du XX ème siècle et qu’un Dostoïevski avait déjà anticipée dans ses Possédés. Paradoxe personnel de Leys dont on connaît l’amour de la mer mais qui choisit de Conrad, l’un des plus grands écrivains maritimes s’il en est, le roman le plus urbain, le moins épique, et qui en guise d’eau ne parle que de la pluie londonienne. Mais cohérence métaphysique de Leys qui voit dans cet Agent secret la volonté de Conrad, apatride comme lui, de décrire la terrifiante réalité européenne du début du siècle avec ses conspirations prométhéennes, son nihilisme délirant, sa future violence continentale.

 

A l’instar de René Girard et de Conrad, Leys est un romantique qui connaît mieux que personne les mensonges du romantisme que seul l’art romanesque peut dévoiler. Y compris ceux qui se mêlent justement de mer et de navigation, sa passion-répulsion. Car la mer réelle n’est pas celle qu’ont fantasmée nombre d’auteurs (et parmi les plus grands comme Baudelaire), en faisant une sorte d’évasion du quotidien, d’horizon paradisiaque, d’aventure féérique comme la rêvait le pauvre Marius dans la trilogie de Pagnol. Non, la vérité que seuls les marins savent mais taisent est que « la mer est invivable ». La mer est stupide, plate, monotone, stérile, cruelle. La mer rappelle que la Nature n’est pas cette bonne maman accueillante sur laquelle se sont pâmés Charles Trenet et Renaud mais bien cette marâtre qui traite sans pitié les hommes et les marins de surcroît. Le « rêve nautique » est plein de noyade, de scorbut, de discipline inhumaine – aussi faux et aussi mortifère que le rêve maoïste. Mais l’amnésie poétique a la vie aussi dure que l’amnésie idéologique. Que sait-on exactement de Magellan et de son voyage aussi héroïque qu’infernal (et qu’il ne termina pas, se faisant tuer à mi-route par des indigènes philippins) ? Au-delà de la performance, indiscutable pour l’époque, de ce premier tour du monde et qui allait changer la donne du monde, « ce que l’expédition démontra – faisant de Magellan l’involontaire ancêtre idéologique de la globalisation, c’est la circumnavigabilité du globe : tous les océans communiquent. »

 

A partir de Magellan, le monde ne sera en effet plus qu’une affaire de communication, commercialisation, médiatisation, aliénation – et mal de mer. Alors, certes, on peut toujours rêver d’une cité parfaite, comme celle qu’organisèrent pour un temps sur leur île les fameux « naufragés des Auckland » en 1865 (et qui inspirera à Jules Verne quelques années plus tard son Ile mystérieuse), on peut toujours rêver, à l’instar de Simon Leys lui-même, d’une université castalienne où professeurs et étudiants se retrouveraient pour la seule quête de la connaissance pure et de la vérité désintéressée (quoique, rajoute malicieusement l’auteur, « les étudiants constituent un élément important, mais pas toujours indispensable » !), l’on peut toujours imaginer une tour d’ivoire aristocratique dans laquelle se protéger du monde, le problème est que, comme le disait Flaubert, l’on ne pourra jamais éviter cette « marée de merde [qui] en bat les murs, à les faire crouler. » La merde de l’utile, évidemment.

 

Simon Leys, Le Studio de l’inutilité, Flammarion, 2012.

jeudi, 24 mai 2012

Le Dictionnaire des polémistes

Un nouveau Bouquin de Synthèse nationale :

Le Dictionnaire des polémistes,

d'Antoine de Rivarol à François Brigneau,

par Robert Spieler...

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Tout au long de l’année 2011, Robert Spieler a proposé aux lecteurs de Rivarol, l’hebdomadaire de l’opposition nationale et européenne, une série d’articles consacrés aux polémistes qui marquèrent l’histoire de la presse depuis la Révolution française, jusqu’au milieu du XXe siècle. Il reprend ainsi le travail effectué par Pierre Dominique dans son ouvrage publié au début des années 60 (et aujourd’hui épuisé) Les Polémistes français depuis 1789.

Ce Dictionnaire des polémistes rassemble tous ces articles. Vous retrouverez ici les grands noms qui, en leur temps, marquèrent les esprits. Ils n’hésitaient pas à dénoncer les puissants du moment. Beaucoup parmi eux payèrent très cher leur engagement.  Aujourd’hui, la liberté d’expression se heurte encore aux ukases du politiquement correct et, comme hier, des lois liberticides, beaucoup plus insidieuses sans doute, empêchent les vrais polémistes de s’exprimer…

Robert Spieler, ancien député, fondateur d’Alsace d’abord, Délégué général de la Nouvelle Droite Populaire, est aussi l’un des journalistes de l’hebdomadaire Rivarol. Chaque semaine il décortique avec délectation et cynisme l’actualité dans sa fameuse Chronique de la France asservie et résistante.

■ Commandez le Dictionnaire des Polémistes :

Règlement à la commande par chèque à l’ordre de Synthèse nationale à retourner à :

Synthèse nationale 116, rue de Charenton 75012 Paris

18, 00 € l’exemplaire (+ 3 € de port)

Bulletin de commande : cliquez ici

mardi, 22 mai 2012

Maurice Bardèche, Européen fidèle

Maurice Bardèche, Européen fidèle

par Georges FELTIN-TRACOL


I-Grande-6153-bardeche.net.jpgAprès avoir écrit pour la même collection la biographie condensée d’Henri Béraud, de Léon Daudet, de Henry de Monfreid, de Hergé et de Saint-Loup, Francis Bergeron évoque cette fois-ci la vie d’une personne qu’il a bien connue : Maurice Bardèche.

 

On sait que Bardèche fut l’exemple-type de la méritocratie républicaine hexagonale. Ce natif d’un village du Cher en 1907 montra très tôt de belles dispositions intellectuelles pour l’étude et la littérature. Excellent élève, ce boursier se retrouve à l’École normale supérieure (E.N.S.) où il allait côtoyer une équipe malicieuse constituée de José Lupin, de Jacques Talagrand (le futur Thierry Maulnier) et de Robert Brasillach, l’indéfectible ami. « Brasillach lui fait du thé, lui offre des gâteaux catalans. Mais la culture littéraire de Brasillach date un peu; Bardèche lui fait découvrir à son tour Proust, alors qu’il vient d’obtenir le prix Goncourt, Barrès, dont les funérailles nationales datent tout juste de deux ans, et Claudel, ancien de Louis-le-Grand, dont l’œuvre est déjà reconnue (p. 16). »

 

À l’E.N.S., Maulnier et Brasillach commencent à publier dans la presse tandis que « Bardèche […] se destine réellement à l’enseignement supérieur, et […] voit son avenir dans l’approfondissement de la connaissance des grands textes et des grands auteurs (p. 20) ». À côté de sa passion littéraire, Maurice Bardèche éprouve de tendres sentiments pour la sœur de son ami Robert, Suzanne Brasillach. Ils se marient en juillet 1934 et partent en voyage de noce pour l’Espagne en compagnie de Robert qui vivra avec eux jusqu’en 1944 ! Francis Bergeron raconte qu’au cours de ce voyage, Maurice Bardèche faillit mourir dans un accident de la route. Bardèche fut trépané et conserva sur le front un « enfoncement dans le crâne (p. 26) ».

 

On ne va pas paraphraser cet ouvrage sur le talentueux parcours universitaire de Bardèche qui suscita tant d’aigreurs et de jalousie. Sous l’Occupation, si Robert Brasillach travaille à Je suis partout, Bardèche préfère se tenir à l’écart des événements et se dévoue à Stendhal et à Balzac. Or le mois de septembre 1944 marque un tournant majeur dans la destinée du jeune professeur : il est arrêté, puis emprisonné. Il voit ensuite son cher beau-frère jugé, condamné à mort et exécuté le 6 février 1945. Dorénavant, « la vie et, plus encore, peut-être, le martyre et la mort de Robert [vont] occup[er] une place centrale tout au long de l’existence de Maurice (p. 43) ». Guère attiré jusque-là par la politique, Maurice Bardèche s’y investit pleinement et va produire une œuvre remarquable, de La lettre à François Mauriac (1947) à Sparte et les Sudistes (1969). En outre, afin de publier les œuvres complètes de Robert Brasillach, il fonde une maison d’édition courageuse et déjà dissidente, Les Sept Couleurs.

 

Le respectable spécialiste de littérature du XIXe siècle se mue en fasciste, terme qu’il endosse et qu’il revendique d’ailleurs fièrement dans Qu’est-ce que le fascisme ? (1961). Dès la fin des années 1940, il se met en relation avec d’autres réprouvés européens dont les militants du jeune M.S.I. (Mouvement social italien). En 1952, il participe au célèbre congrès de Malmö qui lance le Mouvement social européen dont le bulletin francophone est Défense de l’Occident (titre ô combien malvenu, car les positions qui y sont défendues ne rappellent pas l’occidentalisme délirant d’Henri Massis – il faut comprendre « Occident » au sens d’« Europe » et de « civilisation albo-européenne pluricontinentale »). Sorti en décembre 1952, ce titre est dirigé par Bardèche. Si le M.S.E. s’étiole rapidement, miné par des divergences internes et des scissions, Défense de l’Occident devient une revue qui accueille aussi bien les nationaux que les nationalistes, les nationalistes-révolutionnaires que les traditionalistes. La revue disparaîtra en novembre 1982. Francis Bergeron n’en cache pas l’ensemble inégal du fait, peut-être, d’une forte hétérogénéité thématique visible à la lecture de ses nombreux collaborateurs.

 

Par fascisme, Bardèche soutient une troisième voie hostile au capitalisme et au socialisme. Mais son fascisme, anhistorique et éthéré, cadre mal avec les réalités historiques du fascisme. Dès 1963 dans L’Esprit public, Jean Mabire rédigeait un article roboratif intitulé « L’impasse fasciste » repris successivement dans L’écrivain, la politique et l’espérance (1966), puis dans La torche et le glaive (1994). Au-delà des blessures vives de la Seconde Guerre mondiale, « Maît’Jean » esquissait de nouvelles perspectives européennes et authentiquement révolutionnaires.

 

Déjà marqué par son fascisme assumé, Maurice Bardèche accepte d’être un paria de l’histoire parce qu’il ose un avis révisionniste sur les événements contemporains. « Ses exercices de “ lecture à l’envers de l’histoire ”, comme il les appelle lui-même, font partie des points les plus détonants de son discours. Ils démontrent son courage tranquille, et ne peuvent que susciter l’admiration. Sur le fond, il y aurait certes beaucoup à dire, explique Bergeron. De toute façon, comme l’a rappelé Bardèche lui-même à Apostrophe, on ne peut plus s’exprimer librement sur ces questions (p. 87). » Saluons toutefois sa clairvoyance au sujet de la mise en place d’une justice internationale mondialiste. Déjà prévue dans l’abjecte traité de Versailles de 1919, cette pseudo-justice planétaire se réalise à Nuremberg et à Tokyo avant de réapparaître dans les décennies 1990 et 2000 à La Haye pour l’ex-Yougoslavie, à Arusha pour le Rwanda et avec l’ignominieuse Cour pénale internationale qui veut limiter la souveraineté des États.

 

Tout en étant fasciste et après avoir prévenu en 1958 le camp national du recours dangereux à De Gaulle, Maurice Bardèche n’hésite pas à vanter le caractère fascisant des régimes de Nasser et de Castro, et à faire preuve dans Défense de l’Occident d’une grande lucidité géopolitique. « Bardèche […] faisait bouger les lignes de la vision géopolitique de son camp (p. 67). » Cet anti-sioniste déterminé encourage le panarabisme et, dès l’automne 1962, appelle les activistes de l’Algérie française à délaisser leur nostalgie et à relever le défi de la nouvelle donne géopolitique. Il est l’un des rares à cette époque à prôner une entente euro-musulmane contre le condominium de Yalta.

 

1752.jpgC’est sur la question européenne que Maurice Bardèche a conservé toute sa pertinence. Quand on lit L’œuf de Christophe Colomb (1952) ou Sparte et les Sudistes, on se régale de ses fines analyses. Bardèche réfléchissait en nationaliste français et européen. À la fin de l’opuscule, avant l’habituelle étude astrologique de Marin de Charette et après les annexes biographiques, bibliographiques, de commentaires sur Bardèche et de quelques-unes de ses citations les plus marquantes, Francis Bergeron reproduit l’entretien que lui accorda Bardèche dans Rivarol du 5 avril 1979 (avec les parties supprimées ou modifiées par Bardèche lui-même). Cet entretien est lumineux ! « Devons-nous accepter […] de ne pas nous défendre contre la concurrence sauvage, déclare Bardèche, accepter le chômage, le démantèlement d’une partie de notre industrie, la dépendance à laquelle nous risquons d’être contraints ? » On croirait entendre un candidat à l’Élysée de 2012… Le sagace penseur de la rue Rataud estime que « l’Europe qu’on nous prépare ne sera qu’un bastion avancé d’un empire économique occidental dont les États-Unis seront le centre »… Il prévient qu’« il ne faut pas que l’Europe ne soit que le cadre agrandi de notre impuissance et de notre décadence », ce qu’elle est désormais. Il importe néanmoins de ne pas rejeter l’indispensable idée européenne comme le font les souverainistes nationaux. L’Europe demeure plus que jamais notre grande patrie civilisationnelle, identitaire et géopolitique. « L’Europe indépendante constitue un idéal ou plutôt un objectif », juge Bardèche avant d’ajouter, prophétique, que « la crise économique peut nous aider à la faire plus vite qu’on ne le croit ».

 

Ce nouveau « Qui suis-je ? » est bienvenu pour découvrir aux plus jeunes des nôtres l’immense figure de ce fidèle Européen de France, ce magnifique résistant au politiquement correct !

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Francis Bergeron, Bardèche, Pardès, coll. « Qui suis-je ? », (44, rue Wilson, 77880 Grez-sur-Loing), 2012, 123 p., 12 €.


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lundi, 21 mai 2012

Le Bulletin célinien n°341 - mai 2012

Le Bulletin célinien n°341 - mai 2012

 
Vient de paraître : Le Bulletin célinien n°341. Au sommaire :

- Marc Laudelout : Bloc-notes
- *** : Hommages à Claude Duneton
- Benoît Le Roux : Céline vu de Rennes en mars 1939
- Louis La Motte-Meurdel : Bagatelles pendant un massacre ou Céline à Rennes [1939]
- Paul Werrie : Entre Céline et Robert Poulet
- B. C. : Une version célinienne du mythe de Babel (2)

Un numéro de 24 pages, 6 € franco.

Le Bulletin célinien, B. P. 70, Gare centrale, BE 1000 Bruxelles.



Le Bulletin célinien n°341 - Bloc-Notes

Notre ami Claude Duneton nous a quittés le 21 mars. Coïncidence : c’est un 22 mars (1997) qu’il fut l’invité d’honneur de la « Journée Céline » organisée par le BC ¹. On lira dans ces pages un bouquet d’hommages rendus par ses confrères au chroniqueur de la langue française, à l’homme de théâtre et à l’écrivain

 

Il me revient peut-être de saluer ici le célinien émérite et pionnier. Sait-on qu’il fut l’un des premiers à adapter Céline au théâtre ? Cela se passait en novembre 1970 à Paris et il s’agissait – belle audace – d’une adaptation des Beaux draps ².  Éric Mazet s’en souvient : « Nous n’étions guère nombreux ! On avait l’air de conspirateurs. » Et d’ajouter : « Claude Duneton était un homme libre. D’une vive intelligence curieuse de tous les chemins de traverse, d’une grande culture voyageuse sans frontières et d’une malice dans le regard inoubliable ³. » Je souscris entièrement à ce point de vue en ajoutant, parmi d’autres qualités, sa grande modestie et ce courage tranquille qui lui faisait écrire des choses que la doxa feint d’ignorer. Ainsi rappelait-il volontiers que c’est l’anticommunisme, bien davantage que l’antisémitisme, que les épurateurs reprochaient à Céline après la guerre : « Jusqu’au milieu des années 1950, le sort des Juifs n’était pas vraiment détaché de celui des déportés de toutes catégories dans l’opinion des Français. Ce fut plus tard, presque dix ans après la défaite de l’Allemagne, qu’on se rendit compte, dans la foulée, du massacre distinctif – ethnique si l’on veut. (…) Céline est parti, in extremis, parce que les communistes étaient sur le point de lui faire la peau – et sans procès encore ! (…) Voilà la tare, la faute inexpiable : Céline était anticommuniste militant, et pire, antistalinien farouche, exactement, il l’avait crié à tous les échos. Mea culpa, Bagatelles, Les Beaux draps... 4 ». Outre ses préfaces pertinentes 5, on retiendra aussi de Duneton son « ode à Célne », Bal à Korsør 6,  publié en 1994 « à l’occasion de ses cent bougies ». Moins connu : son montage de textes, Appelez-moi Ferdinand, qu’il réalisa en 1980 pour la télévision française 7. Et il faudrait également citer ses chroniques langagières du Figaro qui firent souvent la part belle à Céline. Ainsi Claude Duneton n’a-t-il jamais cessé de se livrer à une défense et illustration de l’œuvre célinienne. Grâces lui en soient rendues.
 
Marc LAUDELOUT.

1. Les autres invités étaient Jean-Claude Albert-Weil, Éliane Bonabel, Nicole Debrie-Le Goullon et la Compagnie Catherine Sorba qui présenta des extraits de son adaptation de Guignol’s band.
2. Les Beaux draps. Adaptation scénique de Claude Duneton. Librairie-galerie « Les Anamorphoses », 68 rue de Vaugirard, Paris 6ème.  Mise en scène de Jean-Paul Wenzel. L’affiche du spectacle est reproduite dans le Catalogue de l’exposition Céline – Musée de l’Ancien Evêché de Lausanne, Edita, 1977.
3. Commentaire d’Éric Mazet au lendemain de la mort de Claude Duneton sur le blog « Le Petit Célinien », 22 mars 2012 [http://www.lepetitcelinien.com]
4. Préface de Claude Duneton à Céline au Danemark, 1945-1951 de David Alliot & François Marchetti, éditions du Rocher, 2008, pp. 9-13.
5. Signalons aussi ses préfaces au livre d’Éric Mazet & Pierre Pécastaing, Images d’exil. Louis-Ferdinand Céline 1945-1951 (Copenhague-Korsør (Du Lérot et La Sirène, 2004) et à la biographie de Gen Paul, un peintre maudit parmi les siens par Jacques Lambert (La Table ronde, 2007).
6. Bal à Korsör. Sur les traces de Louis-Ferdinand Céline, Grasset, Paris 1994, 122 p. Une deuxième édition a paru en 1996 dans « Le Livre de Poche » et fait l’objet, en 1999, d’une traduction danoise due à Svend Mogensen.
7. « Appelez-moi Ferdinand », montage illustré de textes de Céline (Guignol’s band et Nord) par Claude Duneton et Gérard Folin. Voix : Georges Mordillat et Jean-Pierre Sentier. Comédien : Jules Firmin Waroux. Antenne 2, 16 avril 1980.

jeudi, 17 mai 2012

Yukio Mishima: Man of Pure Action

Yukio Mishima: Man of Pure Action

In Action, Contemplation, and the Western Tradition, Julius Evola writes that action can take on the qualities of ‘Being’ only if the action is ‘pure.’ According to Evola, the pure act does not aim at “contingent and particular fruits, considering as the same happiness and calamity, good and evil, even victory and defeat, looking neither at the ‘I’ nor at the ‘you’, overcoming love as well as hatred and any other pair of opposites.”

Evola sees a man in the motion of a pure act as becoming truly free. In it, such a man breaks away from the bonds of individualism and everything that grounds him to the material order of things. Here, man can act from “the deep and in a way supra-individual core of being” and with a quality that “never varies, divides, or multiplies: they are a pure expression of the self,” as Evola writes in Ride the Tiger.

Evola explains that pure action is taken regardless of the pleasure or pain implied in one of its acts. This does not mean that pure action is devoid of pleasure, but rather it enjoys only heroic pleasure, or the superior pleasure derived from “decisive action that comes from ‘being’.” Evola considers in the realm of ‘heroic pleasure’ the type of pleasure that is derived from “action in its perfection” or actions that require training to the point of becoming an acquired skill.

A popular literary figure who lived and died embodying these principles is Yukio Mishima. Although in no way associated with the Traditionalist school and more of an intellectual than a strict metaphysician, Mishima sought the revival of the Samurai “Tradition” and attempted to live his life by the code and ethics described in the Hagakure, despite his living in an era far more decadent and removed from Tradition than the one Hagakure’s writer, Yamamoto Tsunetomo, lived in and sought to overcome.

Mishima famously committed suicide in the traditional Seppuku way after taking several capitalist governmental figures hostage. Mishima’s obsession with death and his suicide can be interpreted as conformance with the Hagakure’s dictate that the Samurai “decide to die” and the advice that it should probably be done before old age because by that time one would likely have little reason to continue living. Mishima’s suicide should also be seen as an expression of the pure act though.

Scorning modern man’s and Japan’s loss of tradition and contempt for the body, Mishima died not as a martyr for his cause and much less a savior for his people, but instead, he died in service to the pure idea. Mishima overcame petty individuality and in his act died as a Samurai. Mishima himself wrote that he wished to “achieve pure action that admitted of no imagination, either by the self or by others” in Sun and Steel. Mishima clearly acquired Being in its actual sense while making death his heroic pleasure.

Throughout Mishima’s text, other Traditional attitudes can be observed. Mishima explains that the “glorification of individual style in literature” is “no more than a beautiful ‘perversion of words’.” Here, Guenon’s observation that art is first reduced to Quantity through the introduction of “individuality” is seen.

Mishima also saw a universality in man from what was highest in him as opposed to the lowest. Despising the frailty of his youth, Mishima used body building to strip “my muscles of their unusualness and individuality.” Doing this, he realized “the triumph of knowing that one was the same as others.” Using both words and muscles, Mishima did not deny his individuality or being, but achieved the supra-individuality Evola referred to. He used both to “universalize my own individuality” and created a “general pattern in which individual differences ceased to exist.”

Mishima undoubtedly captures the spirit of the warrior in Sun and Steel, but he also has the powers of the spiritual/intellectual class as well. He would fit the mold of Evola’s conception of the early Brahmin. Mishima himself stated that contemplation to the point of discounting the body leads to a “steadily perverted and altered reality.” Instead, through an asceticism of strength, Mishima claimed to have found “a reality that rejected all attempts to make it abstract… that flatly rejected all expression of phenomena by resort to abstraction.”

Here, the problem of the modern notion of spirituality as abstract, renouncing, and soft is solved. Like Buddha, Mishima combated the infernal becoming of the Kali Yuga by developing a spirituality that sought direct contact with reality, overcoming what he saw as the nihilism of this state by living a philosophy of steel and pure action.