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vendredi, 20 février 2009

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/



Ci sono termini ed espressioni che hanno uno strano destino, soprattutto se si tratta di traduzioni. Una di queste è l’espressione latina “mos maiorum”. Purtroppo in ambito accademico i traduttori di opere greche e latine ci offrono spesso versioni letterali, orribili e – va detto! – “sbagliate”. Sbagliate non già sotto un aspetto prettamente semantico (la traduzione è, in fin dei conti, accettabile), ma perché non tengono conto di una più libera ma esatta equivalenza tra termini di lingue diverse e, soprattutto, eludono – per stanca e incolore prassi scientifico-accademica – il fattore estetico. Per rendere mos maiorum troverete, infatti, “usanze dei padri”, “costume degli antenati” e altre formulacce del genere. Al contrario, per tradurre esattamente il termine, esiste una e una precisa parola: Tradizione (in greco èthos). Che altro sono “i costumi dei padri” se non princìpi e valori verso i quali i membri di una comunità devono osservare venerazione ed emulazione? “Tradizione”. Punto.

Il mos maiorum è inoltre assolutamente necessario per comprendere veramente la Romanità: esso, infatti, era alla base e si manifestava in ogni aspetto (diritto, famiglia, politica, cultura, religione…) della vita comunitaria e privata dei cittadini romani.

Il diritto romano, anzitutto, fu da principio regolato unicamente dalla tradizione non scritta che gli avi trasmisero ai posteri: prima della codificazione delle leggi delle XII tavole non esisteva, infatti, legge (lex da lego, cioè che deve esser letta in quanto scritta). «La concezione romana rifiuta in linea di massima la codificazione e mostra una forte riluttanza nella emanazione di singole leggi. Il popolo del diritto non è il popolo della legge»: questa la celebre formula coniata da F. Schulz nei Prinzipien des römischen Rechts (Princìpi del Diritto romano). Da qui nasce, in ambito giuridico, la dicotomia/antitesi tra mos e lex, tra costume che viene dalla veneranda tradizione e la legge. Così Cicerone, nelle Catilinarie, invoca il mos maiorum contro la legge scritta per poter mettere a morte Catilina: secondo la Tradizione era possibile condannare a morte i nemici della Patria, non per le leges Valeriae-Semproniae che proibivano la pena capitale per un cittadino romano. Questo esempio mette in evidenza l’enorme potere che la Tradizione esercitava nel diritto romano, molto spesso superiore alla stessa legge.

La Tradizione era altresì fondamentale nella vita politica e, in particolar modo, per il Senato. I membri di quest’ultimo, infatti, erano i discendenti degli eroi che fecero grande Roma e, giacché secondo i Romani la virtus maiorum si trasmetteva di padre in figlio, la auctoritas e la legittimazione del potere dei senatori venivano direttamente dalla gloria dei loro antenati. Tale principio si manifestava al massimo grado nei funerali pubblici delle famiglie patrizie, in cui tutte le imagines degli antenati della gens (maschere di cera che riproducevano le fattezze degli avi) sfilavano in lunghi cortei che si concludevano con l’orazione celebrativa, nella quale si lodavano, oltre alle virtù del defunto, le gloriose gesta dei suoi progenitori. Era quindi obbligatorio per gli eredi delle grandi famiglie di Roma conoscere le imprese dei propri antenati, e l’educazione dei giovani nobili verteva eminentemente sulla trasmissione dei mores maiorum. È emblematica al riguardo l’immagine, lasciataci dalla letteratura antica, di Scipione Emiliano che ritrova vigore e propensione a grandiose gesta osservando le immagini dei suoi avi.

Ma tale culto della Tradizione non esisteva esclusivamente nelle autorevoli famiglie patrizie, ma era altresì venerata la gloria populi Romani, ossia la Tradizione comune a tutto il popolo di Roma.
Ogni cittadino romano ha dunque il dovere di mantenere e, possibilmente, di accrescere la gloria dei padri, praticando la via della virtus.

Parimenti in ambito militare e religioso il mos maiorum è un elemento inscindibile dall’essenza stessa della Romanità. Le virtù dei maiores, come ce le tramandano gli scrittori greci e romani, sono le seguenti:

- Fortitudo: capacità, coraggio;
- Fides: fedeltà (verso gli altri);
- Pietas: fedeltà (verso gli dèi, la Patria, la famiglia);
- Iustitia: senso della giustizia;
- Audacia: coraggio;
- Constantia: costanza;
- Magnitudo animi: nobiltà d’animo;
- Aequitas: equità;
- Probitas: probità;
- Auctoritas: autorità;
- Honestas: onestà;
- Temperantia: misura;
- Clementia: moderazione.

La tradizione romana si fondava, in ultima analisi, sugli exempla maiorum, ossia le eroiche gesta compiute dagli avi, le quali spingevano i giovani a rendere sempre più grande Roma: e questo proprio perché gli esempi di virtù degli antenati erano tali in quanto volti all’accrescimento della gloria dell’Urbe. Si capirà meglio, quindi, il motivo per il quale l’educazione dei fanciulli romani si basasse sugli exempla maiorum: non precetti ma esempi, giacché il precetto istruisce, ma è l’esempio che trascina e muove gli animi.

In conclusione, vediamo che sia gli antichi che i moderni ravvisarono nel culto della Tradizione (il mos maiorum) il segreto della grandezza di Roma; e tanto più i romani se ne discostavano, tanto più era lecito parlare di decadenza e degenerazione dei costumi.
Non a caso lo storico greco Polibio canta la gloria di Roma spiegando ai propri compatrioti che Roma ha conquistato il mondo grazie alle sue istituzioni e alla forza che le viene dall’osservanza della sua nobile Tradizione.

Ora, dunque, potremo comprendere più a fondo il celeberrimo verso del poeta Ennio che, scolpendo il suo esametro come solido marmo, cantò: Moribus antiquis res stat romana virisque, «Roma si fonda sulla Tradizione e sui suoi eroi»!

El viento divino o la muerte voluntaria

 

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EL VIENTO DIVINO O LA MUERTE VOLUNTARIA

ISIDRO JUAN PALACIOS

Nuestra sombría discusión fue interrumpida por la llegada de un automóvil negro que venía por la carretera, rodeado de las primeras sombras del crepúsculo".

Rikihei Inoguchi, oficial del estado mayor y asesor del grupo Aéreo 201 japonés, charlaba con el comandante Tamai sobre el giro adverso que había tomado la guerra. Aquel día, 19 de octubre de 1944, había brillado el Sol en Malacabat, un pequeño pueblo de la isla de Luzón, en unas Filipinas todavía ocupadas por los ejércitos de Su Majestad Imperial, Hiro-Hito. "Pronto -recuerda Inoguchi- reconocimos en el interior del coche al almirante Takijiro Ohnishi..." Era el nuevo comandante de la fuerzas aeronavales japonesas en aquel archipiélago. "He venido aquí -dijo Ohnishi- para discutir con ustedes algo de suma importancia. ¿Podemos ir al Cuartel General?"

El almirante, antes de comenzar a hablar, miró en silencio al rostro de los seis oficiales que se habían sentado alrededor de la mesa. "Como ustedes saben, la situación de la guerra es muy grave. La aparición de la escuadra americana en el Golfo de Leyte ha sido confirmada (...) Para frenarla -continuó Ohnishi- debemos alcanzar a los portaviones enemigos y mantenerlos neutralizados durante al menos una semana". Sin una mueca, sentados con la espalda recta, los militares de las fuerzas combinandas seguían el curso de las palabras del almirante. Y entones vino la sorpresa.

"En mi opinión, sólo hay una manera de asegurar la máxima eficiencia de nuestras escasas fuerzas: organizar unidades de ataque suicidas compuestas por cazas Zero armados con bombas de 250 kilogramos. Cada avión tendría que lanzarse en picado contra un portaviones enemigo... Espero su opinión al respecto".

Tamai tuvo que tomar la decisión. Fue así como el Grupo Aéreo 201 de las Filipinas se puso al frente de todo un contingente de pilotos que enseguida le seguirían, extendiéndose el gesto de Manila a las Marianas, de Borneo a Formosa, de Okinawa al resto de las islas del Imperio del Sol Naciente, el Dai Nippon, sin detenerse hasta el día de la rendición.

Tras celebrar una reunión con todos los jefes de escuadrilla, Tamai habló al resto de los hombres del Grupo Aéreo 201; veintitrés brazos jóvenes, adolescentes, "se alzaron al unísono anunciando un total acuerdo en un frenesí de emoción y de alegría". Eran los primeros de la muerte voluntaria. Pero, ¿quién les mandaría e iría con ellos a la cabeza, por el cielo, y caer sobre los objetivos en el mar? El teniente Yukio Seki, el más destacado, se ofreció al comandante Tamai para reclamar el honor. Aquel grupo inicial se dividiría en cuatro secciones bautizadas con nombres evocadores: "Shikishima" (apelación poética del Japón), "Yamato" (antigua designación del país), "Asahi" (Sol naciente) y "Yamazukura" (cerezo en flor de las montañas).

Configurado de este modo el Cuerpo de Ataque Especial, sólo restaba buscarle una identidad también muy especial, como indicó oportunamente Inoguchi; y fue así como se bautizó a la "Unidad Shimpu". Shimpu, una palabra repleta de la filosofía del Zen. En realidad no tiene ningún sentido, es una mera onomatopeya, pero es otra de las formas de leer los ideogramas que forman la palabra KAMIKAZE, "Viento de los Dioses".

"Está bien -asintió Tamai-. Después de todo, tenemos que poner en acción un Kamikaze". El comandante Tamai dio el nombre a las unidades suicidas japonesas, llamando a sus componentes los "pilotos del Viento Divino".

La escuadrilla Shikishima, al frente de la cual se hallaba el teniente Seki, salió, para ya no regresar, el 25 de octubre de 1944, desde Malacabat, a las siete y veinticinco de la mañana. Sobre las once del día, los cinco aparatos destinados divisaron al enemigo en las aguas de las Filipinas. El primero en entrar en picado y romperse súbitamente, como un cristal, fue el teniente Seki, seguido de otro kamikaze a corta distancia, hundiendo el portaviones "St.Lo", de la armada norteamericana. Ante los ojos incrédulos de los yanquis, los restantes tres pilotos se lanzaron a toda velocidad en su último vuelo, a 325 kilómetros por hora en un ángulo de 65 grados, hundiendo el portaviones "Kalinin Bay" y dejando fuera de combate los destructores "Kitkun" y "White Plains". Siguiendo su ejemplo, la unidad Yamato emprendió vuelo un día después, el 26 de octubre, al encuentro certero con la muerte, después de brindar con sake y entonar una canción guerrera por aquel entonces muy popular entre los soldados:

"Si voy al mar, volveré cadáver sobre las olas.

Si mi deber me llama a las montañas,

la hierba verde será mi mortaja .

Por mi emperador no quiero morir en la paz del hogar".

Tras el primer asombro, un soplo gélido de terror sacudió las almas del enemigo, los soldados de la Tierra del Dólar.

Lo asombroso del Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial no fue su novedad, ni siquiera durante la Segunda Guerra Mundial. Fue su especial espíritu y sus numerosísimos voluntarios lo que les distinguió de otras actitudes heroicas semejantes, de igual o superior valor. La invocación del nombre del Kamikaze despertaba en los japoneses la vieja alma del Shinto, los milenarios mitos inmortales anclados en la suprahistoria, y recordaba que cada hombre podía convertirse en un "Kami", un dios viviente, por la asunción enérgica de la muerte voluntaria como sacrificio, y alcanzar así la "vida que es más que la vida".

De hecho, la táctica del bombardeo suicida ("tai-atari") ya había sido utilizada por las escuadrillas navales en sus combates de impacto aéreo contra los grandes bombarderos norteamericanos. Pero aisladamente. Asímismo, otros casos singulares de enorme heroísmo encarando una muerte segura tuvieron lugar durante esa guerra. Yukio Mishima, en sus "Lecciones espirituales para los jóvenes samurai", nos narra una anécdota entre un millón que, por su particular belleza, merece ser aquí recordada. Y dice de este modo: "Se ha contado que durante la guerra uno de nuestros submarinos emergió frente a la costa australiana y se arrojó contra una nave enemiga desafiando el fuego de sus cañones. Mientras la Luna brillaba en la noche serena, se abrió la escotilla y apareció un oficial blandiendo su espada catana y que murió acribillado a balazos mientras se enfrentaba de este modo al poderoso enemigo".

Más lejos y mucho antes, también entre nosotros, tan acostumbrados a la tragedia de antaño, de siempre, en la España medieval, se produjo un caso parecido a este del Kamikaze, salvando, claro está, las distancias. Con los musulmanes dominando el sur de la Península, surgieron entre los cristianos mozárabes, sometidos al poder del Islam, unos que comenzaron a llamarse a sí mismos los "Iactatio Martirii", los "lanzados", los "arrojados al martirio", es decir, a la muerte. Los guiaba e inspiraba el santo Eulogio de Córdoba, y actuaron durante ocho años bajo el mandato de los califas, entre el año 851 y el 859. Su modo de proceder era el siguiente: penetraban en la mezquita de manera insolente, siempre de uno en uno, y entonces, a sabiendas de que con ello se granjeaban una muerte sin paliativos, abominaban del Islam e insultaban a Mahoma. No tardaban en morir por degollamiento. Hubo por este camino cuarenta y nueve muertes voluntarias. El sello lo puso Eulogio con la suya propia el último año.

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Tampoco se encuentra exenta la Naturaleza de brindarnos algún que otro ejemplo claro de lo que es un kamikaze. De ello, el símbolo concluyente es el de la abeja, ese insecto solar y regio que vive en y por las flores, las únicas que saben caer gloriosas y radiantes, jóvenes, en el esplendor de su belleza, apenas han comenzado a vivir por primavera. Igual que la abeja, que liba el néctar más dulce y está siempre dispuesta para morir, así actúa también el kamikaze, cayendo en a una muerte segura frente al intruso que pretende hollar las tierras del Dai Nippon. El marco tiene todos los ingredientes para encarnar el misterio litúrgico o el acto del sacrificio, del oficio sacro.

En "El pabellón de oro", Yukio Mishima describe una misión simbólica. Una abeja vela en torno a la rueda amarilla de un crisantemo de verano (el crisantemo, la flor simbólica del Imperio Japonés); en un determinado instante -escribe Mishima- "la abeja se arrojó a lo más profundo del corazón de la flor y se embadurnó de su polen, ahogándose en la embriaguez, y el crisantemo, que en su seno había acogido al insecto, se transformó, asimismo, en una abeja amarilla de suntuosa armadura, en la que pude contemplar frenéticos sobresaltos, como si ella intentase echarse a volar, lejos de su tallo". ¿Hay una imagen más perfecta para adivinar la creencia shintoísta de la transformación del guerrero, del artesano, del príncipe, del que se ofrenda en el seno del Emperador, a su vez fortalecido por el sacrificio de sus servidores? Desde hace más de dos mil seiscientos años, el Trono del Crisantemo (una línea jamás ininterrumpida) es de naturaleza divina: ellos son descendientes directos de la diosa del Sol, Amaterasu-omi-Kami; los "Tennos", los emperadores japoneses, son las primeras manifestaciones vivientes de los dioses invisibles creadores, en los orígenes, de las islas del Japón. No son los representantes de Dios, son dioses... por ello, Mishima, en su obra "Caballos desbocados", define así, con absoluta fidelidad a la moral shintoísta, el principio de la lealtad a la Vía Imperial (el "Kodo"): "Lealtad es abandono brusco de la vida en un acto de reverencia ante la Voluntad Imperial. Es el precipitarse en pleno núcleo de la Voluntad Imperial".

Corría el siglo XIII, segunda mitad. El budismo no había conseguido todavía apaciguar a los mongoles, cosa de lo que más tarde se ha ufanado. Kublai-Khan, el nieto de Temujin, conocido entre los suyos como Gengis-Khan, acababa de sumar el reino de Corea al Imperio del Medio. Sus planes incluían el Japón como próxima conquista. Por dos veces, una en 1274 y otra en 1281, Kublai-Khan intentó llegar a las tierras del Dai Nippon con poderosos navíos y extraordinarios efectos psíquicos y materiales; y por dos veces fue rechazado por fuerzas misteriosas sobrehumanas. Primero, una tempestad y después un tifón desencadenados por los kami deshicieron los planes del Emperador de los mongoles. Ningún japonés olvidaría en adelante aquel portentoso milagro, que fue recordado en la memoria colectiva con su propio nombre: "Kamikaze", viento de los kami, Viento Divino.

El descubrimiento del país de Yamato, al que Cristobal Colón llamaba Cipango, y que fue conocido así también por los portugueses y después por los jesuitas españoles, por los holandeses e ingleses que les siguieron en el siglo XVI, no fue del todo mal recibido por los shogunes del Japón. Sin embargo, un poco antes de mediados de la siguiente centuria, el shogunado de Tokugawa Ieyashu había empezado a desconfiar de los "bárbaros" occidentales, por lo que decide la expulsión de los extranjeros, impide las nuevas entradas y prohibe la salida de las islas a todos los súbditos del Japón. En 1647 se promulga el "Decreto de Reclusión", por el cual el Dai Nippon se convertiría de nuevo en un mundo interiorizado, en un país anacoreta. Japón se cerró al comercio exterior y a las influencias ideológicas de Occidente, ya tocado irreversiblemente por el espíritu de la modernidad. De esta forma es como se vivió en aquellas tierras hasta bien entrado el siglo XIX, de espaldas a los llamados "progresos". Japón ignorará también el nacimiento de una nueva nación que para su desgracia no tardará en ser, con el tiempo, la expresión más cabal de su destino fatídico, como le sucedería igualmente a otros pueblos de formación tradicional. La nueva nación se autodenominará "América", pretendiendo asumir para sí el destino de todo un continente. Intolerable le resultará al Congreso y al presidente Filemore la existencia de un pueblo insolente, fiel a sí mismo, obstinado en seguir cerrado por propia voluntad al comercio y a las "buenas relaciones". Japón debía ser abierto, y, si fuera preciso, a fuerza de cañonazos. Todo muy democráticamente. Todavía hoy, en el Japón moderno y americanizado, los barcos negros del almirante Perry son de infausta memoria.

Los estruendos de la pólvora y el hierro hicieron despertar bruscamente a muchos japoneses, para quienes la presencia norteamericana indicaba con claridad que la Tierra del Sol Naciente había descendido a los mismos niveles que las naciones decadentes, de los que antes estuvieron preservados. Muchos pensaron que la causa de tal desgracia le venía al Dai Nippon por haberse olvidado de los descendientes de Amaterasu, del Emperador, recluido desde hacía centurias en su palacio de Kioto. Por ello se alzó enseguida una revuelta a los gritos de "¡Joy, joy!" (¡fuera, fuera!, referido a los extranjeros) y de "¡Sonno Tenno!" (¡venerad al Emperador!). La restauración Meiji de 1868 se apuntaló bajo el lema del "fukko", el retorno al pasado. Pero la tierra de Yamato tuvo que aceptar por la fuerza la nueva situación y ponerse a rivalizar con el mundo moderno, pero sin perder de vista su espíritu invisible, al que siguió siendo fiel. Cuando Yukio Mishima escribe sobre esa época, piensa lo que otros también pensaron como él. Y, así, anota: "Si los hombres fuesen puros, reverenciarían al Emperador por encima de todo. El Viento Divino (el Kamikaze) se levantaría de inmediato, como ocurrió durante la invasión mongola, y los bárbaros serían expulsados".

Año de 1944. Mes de octubre. El Japón se encuentra en guerra frente a las potencias anglonorteamericanas. La escuadra yanqui está cercando las islas Filipinas, y en sus aguas orientales se aproxima, golpe tras golpe, hacia el mismo corazón del Imperio... El almirante Onhisi concibe la idea de lanzar a los pilotos kamikaze...

El mismo día en que el Emperador Hiro-Hito decide anunciar la rendición incondicional de las armas japonesas y se lo comunica al pueblo entero por radio (¡era la primera vez que un Tenno hablaba directamente!), el comandante supremo de la flota, vicealmirante Matome Ugaki, había ordenado preparar los aviones bombarderos de Oita con el fin de lanzarse en vuelo kamikaze sobre el enemigo anclado en Okinawa. Era el 15 de agosto de 1945. En su último informe, incluyó sus reflexiones finales...: "Sólo yo, Majestad, soy responsable de nuestro fracaso en defender la Patria y destruir al ensoberbecido enemigo. He decidido lanzarme en ataque sobre Okinawa, donde mis valerosos muchachos han caído como cerezos en flor. Allí embestiré y destruiré al engreído enemigo. Soy un bushi, mi alma es el reflejo del Bushido. Me lanzaré portando el kamikaze con firme convicción y fe en la eternidad del Japón Imperial. ¡Banzai!". Veintidós aviadores voluntarios salieron con él, sólo por seguirle en el ejemplo de su última ofrenda. No estaban obligados. La guerra había concluido. Pero... no obstante, tampoco podían desobedecer las órdenes del Emperador, que mandaba no golpear más al adversario. Se estrellaron en las mismas narices de los norteamericanos, que contemplaron atónitos un espectáculo que no podían comprender... Ugaki hablaba del Bushido -el código de honor de los guerreros japoneses-. ¿Acaso no es el kamikaze, por esencia y por sentencia, un samurai?

En los botones de sus uniformes, los aviadores suicidas llevaban impresas flores de cerezo de tres pétalos, conforme al sentido del viejo haiku (poema japonés de dieciséis sílabas) del poeta Karumatu:

"La flor por excelencia es la del cerezo,

el hombre perfecto es el caballero"

El cerezo es una flor simbólica en las tierras japonesas, nace antes que ninguna otra, antes de iniciarse la primavera, para, en la plenitud de su gloria, caer radiante; es la flor de más corta juventud, que muere en el frescor de su belleza. Siempre fue el distintivo de los samurai.

Al encenderse los motores, los pilotos kamikaze se ajustaban el "hashimaki", la banda de tela blanca que rodea la cabeza con el disco rojo del Sol Naciente impreso junto a algunas palabras caligrafiadas con pincel y tinta negra, al modo como antaño lo usaron los samurai antes de entrar en batalla, al modo como cayeron los últimos guerreros japoneses del siglo XIX con sus espadas catana siguiendo al caudillo Saigo Takamori frente a los "marines" del almirante Perry. En la mente fresca y clara, iluminada por el Sol, no había sitio para las turbulencias. Sobre todos, unos ideogramas se repetían hasta la saciedad: "Shichisei Hokoku" ("Siete vidas quisiera tener para darlas a la Patria"). Eran los mismos ideogramas que por primera vez puso sobre su frente Masashige Kusonoki cuando se lanzó a morir a caballo, en un combate sin esperanzas, allá por el siglo XIV; los mismos ideogramas que se colocó alrededor de la cabeza Yukio Mishima en el día de su muerte ritual.

Yukio Mishima, obsesionado por la muerte ya desde su niñez y adolescencia, estuvo a punto de ser enrolado en el Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial. Se deleitaba pensando románticamente que si un día se le diera la oportunidad se ser un soldado, pronto tendría una ocasión segura para morir. Sin embargo, cuando fue llamado a filas y se vio libre de ser incorporado al tomársele erróneamente por un enfermo de tuberculosis, el mejor escritor japonés de los tiempos modernos no hizo nada por deshacer el engaño del oficial médico, saliendo a la carrera de la oficina de reclutamiento. Aquello, pese a todo, le pareció a Mishima un acto de infamante cobardía, como lo confesará más tarde en repetidas ocasiones. El desprecio de su propia actitud fue uno de los factores de menor importancia en el día de su "seppuku" (el "hara-kiri", el suicidio ritual), pero que le llevó a meditar durante años sobre la condición interior del kamikaze. Para Mishima no cabía la menor duda: aquellos pilotos que hicieron ofrenda de sus vidas, con sus aparatos, eran verdaderos samurai. En "El loco morir", afirma que el kamikaze se encuentra religado al Hagakure, un texto escrito entre los siglos XVII y XVIII por Yocho Yamamoto, legendario samurai que tras la muerte de su señor se hizo ermitaño. El Hagakure llegó a ser el libro de cabecera de los samurai, el texto que sintetizó la esencia del Bushido. En cinco puntos finales, venía a decir:

- El Bushido es la muerte.

- Entre dos caminos, el samurai debe siempre elegir aquél en el que se

muere más deprisa.

- Desde el momento en que se ha elegido morir, no importa si la muerte

se produce o no en vano. La muerte nunca se produce en vano.

- La muerte sin causa y sin objeto llega a ser la más pura y segura,

porque si para morir necesitamos una causa poderosa, al lado

encontraremos otra tan fuerte y atractiva como ésta que nos impulse a vivir.

- La profesión del samurai es el misterio del morir.

Para el hombre que guarda la semilla de lo sagrado, la muerte es siempre el rito de paso hacia la trascendencia, hacia lo absoluto, hacia la Divinidad; por esa razón suenan, incluso hoy, sin extrañezas, las primeras palabras del almirante Ohnisi en su discurso de despedida al primer grupo de pilotos kamikaze constituido por el teniente Seki:

"Vosotros ya sois kami (dioses), sin deseos terrenales..."

Ya eran dioses vivientes, y como tales se les veneraba, aunque todavía "no hubieran muerto"; porque, sencillamente, "ya estaban muertos". Los resultados de sus acciones pasaban al último plano de las consideraciones a evaluar. No importaban demasiado... Aunque realmente los hubo: durante el año y medio que duraron los ataques kamikaze, fueron hundidos un total de 322 barcos aliados, entre portaviones, acorazados, destructores, cruceros, cargueros, torpederos, remolcadores, e, incluso, barcazas de desembarco; ¡la mitad de todos los barcos hundidos en la guerra!

Para Mishima, el caza Zero era semejante a una espada catana que descendía como un rayo desde el cielo azul, desde lo alto de las nubes blancas, desde el mismo corazón del Sol, todos ellos símbolos inequívocos de la muerte donde el hombre terreno, que respira, no puede vivir, y por los que paradójicamente todos esos hombres suspiran en ansias de vida inmortal, eterna. "Hi-Ri-Ho-Ken-Ten" fue la insignia de una unidad kamikaze de la base de Konoya. Era la forma abreviada de cuatro lemas engarzados: "La Injusticia no puede vencer al Principio. El Principio no puede vencer a la Ley. La Ley no puede vencer al Poder. El Poder no puede vencer al Cielo".

Aquel 15 de agosto de 1945, cuando el Japón se rendía al invasor, el almirante Takijiro Ohnishi se reunió por última vez con varios oficiales del Estado mayor, a quienes había invitado a su residencia oficial. ¿Una despedida? Los oficiales se retiraron hacia la medianoche. Ya a solas, en silencio, el inspirador principal del Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial se dirigió a su despacho, situado en el segundo piso de la casa. Allí se abrió el vientre conforme al ritual sagrado del seppuku. No tuvo a su lado un kaishakunin, el asistente encargado de dar el corte de gracia separándole la cabeza del cuerpo cuando el dolor se hace ya extremadamente insoportable... Al amanecer fue descubierto por su secretario, quien le encontró todavía con vida, sentado en la postura tradicional de la meditación Zen. Una sola mirada bastó para que el oficial permaneciera quieto y no hiciera nada para aliviar o aligerar su sufrimiento. Ohnishi permaneció, por propia voluntad, muriendo durante dieciocho horas de atroz agonía. Igonaki, Inoguchi y otros militares que le conocían que el almirante, desde el mismo instante en que concibiera la idea de los ataques kamikaze, había decidido darse la muerte voluntaria por sacrificio al estilo de los antiguos samurai, incluso aunque las fuerzas del Japón hubieses alcanzado finalmente la victoria. En la pared, colgaba un viejo haiku anónimo:

"La vida se asemeja a una flor de cerezo.

Su fragancia no puede perdurar en la eternidad".

Poco antes de la partida, los jóvenes kamikaze componían sus tradicionales poemas de abandono del mundo, emulando con ello a los antiguos guerreros samurai de las epopeyas tradicionales. La inmensa mayoría de ellos también enviaron cartas a sus padres, novias, familiares o amigos, despidiéndose pocas horas antes de la partida sin retorno. Ichiro Omi se dedicó, después de la guerra, a peregrinar de casa en casa, pidiendo leer aquellas cartas. su intención era publicar un libro que recogiese todo aquel material atesorado por las familias y los camaradas, y fue así como muchas de aquellas cartas salieron a la luz. Bastantes de éstas y otras fueron a parar a la base naval japonesa de Etaji. Allí también peregrinó Yukio Mishima, poco antes de practicarse el seppuku, releyéndolas y meditándolas. Una, sobre las otras, le conmovió, actuando en su interior como un verdadero koan (el "koan" es, en la práctica del budismo Zen, la meditación sobre una frase que logra desatar el "satori", la iluminación espiritual). Mishima tuvo la tentación de escribir una obra sobre los pilotos del Viento Divino, y así apareció su obra "Sol y Acero". Un breve párrafo de estas cartas y algunos otros de las tomadas por Omi son las fuentes de esta antología:

"En este momento estoy lleno de vida. Todo mi cuerpo desborda juventud y fuerza. Parece imposible que dentro de unas horas deba morir (...) La forma de vivir japonesa es realmente bella y de ello me siento orgullo, como también de la historia y de la mitología japonesas, que reflejan la pureza de nuestros antepasados y su creencia en el pasado, sea o no cierta esa creencia (...) Es un honor indescriptible el poder dar mi vida en defensa de todo en lo creo, de todas estas cosas tan bellas y eminentes. Padre, elevo mis plegarias para que tenga usted una larga y feliz vida. Estoy seguro que el Japón surgirá de nuevo".

Teruo Yamaguchi.

"Queridos padres: Les escribo desde Manila. Este es el último día de mi vida. Deben felicitarme. Seré un escudo para Su Majestad el Emperador y moriré limpiamente, junto con mis camaradas de escuadrilla. Volveré en espíritu. Espero con ansias sus visitas al santuario de Kishenai, donde coloquen una estela en mi memoria ".

Isao Matsuo.

"Elevándonos hacia los cielos de los Mares del Sur, nuestra gloriosa misión es morir como escudos de Su Majestad. Las flores del cerezo se abren, resplandecen y caen (...) Uno de los cadetes fue eliminado de la lista de los asignados para la salida del no-retorno. Siento mucha lástima por él. Esta es una situación donde se encuentran distintas emociones. El hombre es sólo mortal; la muerte, como la vida, es cuestión de probabilidad. Pero el destino también juega su papel. Estoy seguro de mi valor para la acción que debo realizar mañana, donde haré todo lo posible por estrellarme contra un barco de guerra enemigo, para así cumplir mi destino en defensa de la Patria. Ikao, querida mía, mi querida amante, recuérdame, tal como estoy ahora, en tus oraciones".

Yuso Nakanishi

"Ha llegado la hora de que mi amigo Nakanishi y yo partamos. No hay remordimiento. Cada hombre debe seguir su camino individualmente (...) En sus últimas instrucciones, el oficial de comando nos advirtió de no ser imprudentes a la hora de morir. Todo depende del Cielo. Estoy resuelto a perseguir la meta que el destino me ha trazado. Ustedes siempre han sido muy buenos conmigo y les estoy muy agradecido. Quince años de escuela y adiestramiento están a punto de rendir frutos. Siento una gran alegría por haber nacido en el Japón. No hay nada especial digno de mención, pero quiero que sepan que disfruto de buena salud en estos momentos. Los primeros aviones de mi grupo ya están en el aire. Espero que este último gesto de descargar un golpe sobre el enemigo sirva para compensar, en muy reducida medida, todo lo que ustedes han hecho por mí. La primavera ha llegado adelantada al sur de Kyushu. Aquí los capullos de las flores son muy bellos. Hay paz y tranquilidad en la base, en pleno campo de batalla incluso. Les suplico que se acuerden de mí cuando vayan al templo de Kyoto, donde reposan nuestros antepasados".

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mercredi, 18 février 2009

A. Dugin: Imperium antwortet!


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Imperium antwortet

Das Interview Dugins in der Zeitung "Westi", Riga

"Westi": Zum ersten Mal forderte man, dass Amerikaner ihre Stűtzpunkte aus Mittelasien wegschaffen. Bedeuten die Deklarationen der Schanghaier Organisation fűr Zusammenarbeit ein Ende der einpolaren Welt?

Alexander Dugin: Die Schanghaier Organisation ist noch ein Entwurf multipolarer Welt. Aber das ist ein ernster Schritt zur Begrenzung der amerikanischen Hegemonie. Zu diesem Schritt treiben Russland die Handlungen der USA in “Orangen-Revolutionen” an den Grenzen Russlands. Dafűr wirkte auch ein die Position der baltischen Republiken. Alle diese Handlungen richteten Russland in Umarmung Asiens.

Und die jetztige Zusammenarbeit in Astana der Fűhrer der Schanghaier Organisation – das ist ganz neue geschichtliche Erscheinung. Das ist der Anfang neuer Ordnung des planetarischen Raumes auf multipolaren Grundlage. Die Hauptrolle hier spielt China. Die Zusammenarbeit Irans, Pakistan, Indien – das ist auch sehr folgenreich.

"Westi": Sie sind Eurasier, aber mit gewisser Besorgtheit sagen: “Russland geht in Umarmung Asiens”. Ist das nicht das Ziel der eurasischen Bewegung? Oder meinen Sie die Zusammenarbeit Russlands mit islamischen Osten? Oder mit Indien und China?

 



Alexander Dugin: Ich meinte Indien auch. Aber mit China ist die Situation schwer. China ist schwer vereinbar mit Russland. Die eurasische Integration bedeutet die speziale Beziehungen Russlands mit Europa, mit Islam und mit Indien auch. China bedeutet in Schanghaier Organisation das Zweite Pol gegnűber kranken Russland. Die enge Zusammenarbeit mit China ist heute eine ausserordentliche Massnahme. Eurasientum gäbe China ein Rechtsstatus der neutralen Macht. Eher wurde vorausgesetzt die Annäherung an Pakistan und Tűrkei. Plus – mit Teil Europas, mit der Achse Frankreich-Deutschland. Nicht mit atlantischen Gesamteuropa, sondern mit kontinentalen Europa.

Wir sehen heute in Astana zwei Verschiedenheiten vom eurasischen Projekt. Hier gibt es kein Europa. Europa beginnt heute nochmals amerikanische Provinz zu sein. Das ist heute nicht mehr als ein Aufmarschraum fűr amerikanische Streitkräften. Heute kann die Schanghaier Organisation nicht vereinbar mit Europa sein.

"Westi": Sie meinen, den Europäern kann man die Erscheinung China hier nicht erklären?

Alexander Dugin: Ja. Heute ist in Schanghaier Organisation China ein Fűhrer. China sieht, dass Russland geht weg vom eurasischen Raum, aber diesen Platz werden Amerikaner behaupten. China arbeitet jetzt eng mit Mittelasien, mit Norden Eurasiens. Natűrlich bin ich froh, das diese Organisation entstanden ist. Aber ich bin besorgt. Ich dachte, dass die Beteiligung Chinas in dieser Organisation streng dosiert wird, dass Russland ein Fűhrer im eurasischen postsowjetischen Raum wird. Ich dachte auch, dass Europa mitwirken wird in diesem Prozess.

"Westi": Erst jetzt versuchen die Media Bund Russland-China-Indien begreifen…

Alexander Dugin: Ich bin gegen einpolaren Welt. Das, was wir heute mit Schanghaier Organisation bekommen, ist besser, als schwaches Russland unter USA.

"Westi": Was haben Russen hier bekommen, und was verloren?

Alexander Dugin: Dieser strategischer Bund mit China wird den Bilanz der Kräfte in Zentralasien verändern. Wenn China seine strategischen Interesse mit uns koordinieren wird, bekommen wir schon viel. China ist der beste Partner fűr Verkauf unserer Waffen. Und was verlieren wir? Wir werden zur Zone fűr demographischen Ausdehnung Chinesen. Das ist ein grosses Problem. Und wenn wir auf Bund mit China kommen, warum integrieren wir uns nicht mit Weissrussland und Kasachstan? Fűr uns sind Indien und Iran die ausgezeichneten Partner. Aber heute sehe ich, dass nichts besseres gibt fűr Russland, wo proamerikanische Elite regiert.

"Westi": Vor kurzem sagte man in einer amerikanischen Zeitung, dass die USA ein Fehler machten, indem sie Schewardnadse in Georgien beseitigten. Denn die Perspektive seines Schicksals hat asiatische Fűhrer erschreckt.

Alexander Dugin: Ich glaube, Amerika versteht, wovon die Rede ist. Sie versteht, dass Peking, Teheran und Bombay nicht Scherz treiben. Ich glaube, dass die USA diese Situation ernst nimmt. Und jetzt werden die USA auf Russland nicht sehr drűcken. Auf drohenden Geste Moskaus werden Amerikaner systematisch reagieren. Zum Beispiel, werden vorschlagen 2008 auf den Posten des Präsidenten Russlands einen Mann stellen, der die Politik Putins forttreiben wird. Kann sein, dass Amerika Newslin zurűckschicken wird, Sakaew Moskau gibt. Aber die ernsten Kompromisse, das kann leider jetzt nicht geschehen.

"Westi": Werden die Beziehungen Lettlands mit Russland besser?

Alexander Dugin: Nein. Baltische Länder sind ein aktivistischer Vektor atlantischen Politik. Hier sind keine Veränderungen denkbar. Europabund und baltische Länder forttreiben ihre antirussische Politik. Amerika wird seine Agente in Russland bremsen, aber Lettland… Baltische Länder sind ein Hinderniss in den Beziehungen zwischen Europa und Russland.

"Westi": Aber vor kurzem ist das Referendum in Frankreich gescheitert. Diese Prozesse in Europa schwächen Europabund.

Alexander Dugin: Das Scheitern der Europaverfassung ist ein komplizierter Prozess. Diese Verfassung war proamerikanisch und war gegen Frankreich und Deutschland gerichtet. Diese Verfassung war gegen die Achse Frankreich-Deutschland gerichtet. Aber Europa vereinigt sich jetzt nicht im amerikanischen Sinne, und es vereinigt nicht in franko-germanischen Sinne.

"Westi": Vielleicht ist Russland eine besondere Zivilisation?

Alexander Dugin: Russland hatte ein einziger richtiger Weg – eurasischen Raum integrieren. Integrieren sollte man mit Frankreich und Deutschland und mit Asien, zwischen Ost und West balanzieren, multipolaren Welt schaffen. Russland ist eine abgesonderte Zivilisation mit Interessen im Osten und im Westen. Wir műssen balanzieren. Aber das kann man nicht mit dieser korrupten Elite machen. Diese Elite hat keine Ethik, keine orthodoxe und keine protestantische, wie das Max Weber schilderte.

 

Lerisa Persikowa
Nika Persikova


 
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mardi, 10 février 2009

An European Pagan and Non Western Perspective

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An European Pagan and Non Western Perspective

Christopher Gerard

Dear Hindu Brothers and Sisters,

To begin with, I would like to pay tribute to Ram Swarup, a man of great importance to our Indian brothers as a sage of the Vedic renaissance, but also to me personally as a young European whom he welcomed so kindly.

To our Indian brethren I have nothing to teach about this remarkable man who played such an essential part in defending and explaining the Tradition. His friends have paid tribute to him with reverence: Sita Ram Goel (the courageous publisher of Voice of India, who ensured that the sage, who was ostracised for a time, could express his thought despite the censorship, hostility and indifference he faced), and David Frawley in his superb preface to the posthumously published work of Ram Swarup On Hinduism.(1) Your Prime Minister Atal Behari Vajpayee rightly said that he was "a representative of India¹s rishi tradition in the modern age".

As for me, I can never adequately express my debt to Ram Swarup whom I first met three years ago. We had corresponded before I came to India, and I had published a long interview with him (and Sita Ram Goel and K.R. Malkani) on Hindutva, which was undoubtedly the first special issue published in French with the participation of intellectuals of the Vedic renaissance (2). Ram Swarup approved of the approach of my journal Antaios, which deals with the awakening of the native ­ Pagan - religions of Europe, and with freedom from the dogma of the Semitic religions and materialism. The first thing he did when he saw me was to put his hand on my shoulder as a father would and say, his eyes sparkling with kindness: "Ah, you are young, so you will be able to fight for a long time". This remark, coming from the old combattant that he was, who had actively fought the major deceptions of the century (colonialism, Marxism, anti-Hindu secularism, Christian missions, islamophilia, etc.), was a compliment. He seemed to trust the young foreigner who had come to meet him. It was above all a call to lucidity, a call to battle. Not a battle to be waged exclusively with the outside world, but also a battle against the enemy within, for the old sage knew that our worst enemy is within us and that our internal enemy is the most difficult to conquer. In the course of our long subsequent discussions, I came to appreciate the immense breadth of his culture, his generosity, and also his sense of humour. To have met a man of such human value is a privilege for which I cannot thank the Gods enough. It was Ram Swarup who gave me my first lessons in Sanatana Dharma. He encouraged me on the difficult path of rediscovering my identity which had been repressed first by the imprint of centuries of Christianity then with the stamp of materialism. It was he who, on the last occasion we met and when the time came to say goodbye, was able to find the right words to encourage and advise me to practice mental yoga so as to face up to a hostile or at the least an indifferent world. His friendship was both deep and dispassionate, and for this his influence was all the more striking. I have dwelt on these very personal considerations to show you how important this man was and remains for all those who strive for the restoration of the Dharma. Ram Swarup is an example to be followed, a true spiritual guide.

As a result of the contacts we had with Ram Swarup, Sita Ram Goel and so many other Hindu friends, our European group came to understand that we were not alone, and that our work found its echo at the other end of the continent. Let us now make a brief overview of the work of the Polytheistic journal Antaios that I have been directing since 1993. Mircea Eliade, a specialist on India, founded the review in 1959. In the 1920s, he had been a disciple of Surendranath Dasgupta, the well-known historian of Indian philosophy, and the German writer Ernst Jünger (a disciple of Nietzsche among others) who said in 1959: "a free world can only be a spiritual world". The periodical was published in German until 1971. Its objective was to combat Western nihilism by a return to classical sources. In 1993, a small group of us revived Antaios with the blessing of the venerable German writer Jünger, who remained interested in our work until his death in 1998 at the age of 103. He was our oldest reader. We are also followers of another great example : Alain Daniélou, the French indologist, initiated to traditional Shaivism in Kashi where he lived more than 15 years. Danielou devoted his entire life to the defense of Hindu Dharma. He was himself a follower of Swami Karpatriji. He worked with Karpatriji, translated some of his texts in several languages (and also translated in Hindi texts of René Guénon, for instance in Karpatriji¹s journal Siddhanta). In his passionate autobiography The way of the Labyrinth, Daniélou wrote these lines : " I tried to offer an insight into the profound values of this extraordinary civilisation, the only one of all the great civilisations of the ancient world that has survived, whose contribution, were it better known, could revolutionize modern thinking and bring a new Renaissance. This was probably why people are so afraid of it " (3). When I red these lines fifteen years ago, it was a sort of revelation. Since then , I have never forgotten Daniélou¹s fundamental message.

From its beginnings, the orientation of Antaios has been clearly pagan: to restore in Europe ­ and on other continents ­ the polytheist and non-dualist wisdom of the eternal tradition, which you refer to as Sanatana Dharma. This is not a new philosophical direction in Europe. Since Antiquity, and despite the censorship of Christianity, there have always been more or less hidden dissidents. Today, the Church has lost the total power it previously possessed, and thus it has become possible to challenge secular cultural and spiritual self alienation and to reaffirm, finally, after centuries of being in hiding, Paganism - that is to say the restoration of non conversion-based beliefs, non dogmatic approach, self- and God-realization, and wisdom such as Vidya, the way of knowledge. All this, which still exists in India despite Muslim, Christian and materialistic aggressions, also existed in Europe. But in Europe, the work of the missionaries has been successfully achieved: temples have been burnt or converted to other uses; holy books have been consigned to the flames; priests (our ³Brahmins²) have been killed, and our beliefs have been ridiculed. In summary, a veritable spiritual genocide, like all the initiatives in favour of conversion on the five continents by the protagonists of the one and only deity, i.e. the jealous God of the Monotheists.

How was pagan thought able to survive the catastrophe caused by the christianisation of Europe? To reinforce its hold over the minds of the people, the Church needed the help of the stalwarts of pagan thought and rituals. Thus, it appropriated for its own use ­ often superficially - the philosophy of Plato, Aristotle and Plotinus, the old festivals, rituals and symbols. Despite this, scholarly Christian priests were fascinated by the very pagan wisdom that they had persecuted, but which lived on in their memories (and their libraries) as a living reproach.

For serious students of Greek philosophy, particularly of the Pre-Socratic philosophers (Pythagorus, Empedocles), the link with Brahmanic thought is obvious: transmigration of the soul, concept of eternal return, importance of harmonics and primordial sounds, ascetic way of life, vegetarianism, etc. As our beloved Ram Swarup reminds us so well in his spiritual legacy "the Greece of Pythagoras, Plato and Plotinus has more in common with Hindu India than with Christian Europe" (On Hinduism, p. 98). Books have been written about the links between Greece and India : for instance R.Baine Harris ed., Neoplatonism and Indian thought (Delhi 1992). Greece and India, and also the Celtic world (the Celtic Druids are the cousins of the Brahmins) may be distant in space but they are close in spirit. Their origins are identical, since the brilliant Vedic and Hellenic civilisations go back to a common pre-Vedic and pre-Hellenic source. This was probably a polar source, as Lokamanya Bal Gangâdhar Tilak has capably demonstrated in his book which should be essential reading (and was partly written in prison because of his involvement in the Indian liberation movement) The Arctic Home of the Vedas (1903). The polar source explains the common structure of the Indo-European languages, from Lithuanian to Sanskrit, as well as obvious relationships between the indo-european mythologies, and between the archaic roman religion and the Vedic religion. For example, the sacrifice of the horse, which took place in Rome each October in honour of the god Mars, corresponds to the Vedic asvamedha in honour of Indra. A similar ritual of the sacrifice of a horse can be found in pagan Ireland. Let us be clear; this does not represent an Indian influence over Rome or Ireland, or a Roman or Irish influence over India, but a relationship due to a common origin, and one which dates back in time to when our common Indo-European (the term ³Aryan² is awkward to use in Europe because of its nazi connotations) ancestors still formed a single tribe (4).

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In his famous book Shiva and Dionysus, Daniélou demonstrates that between Lord Shiva and the Greek Dionysus, the pre-aryan gods of ecstasy and ways to harmony with nature and cosmos, there is a common link, a 6000 years old way to unity with the divine (5).

Among the ordinary folk, the old traditions survived with a very thin veneer of Christianity. Christianity (mainly Catholicism, more than Protestantism) has retained many pre-Christian traditions (6). Good examples are the feasts of the Nativity and that of St John, which correspond to the winter and summer solstices respectively. The title of "pope" comes from the liturgy of the mysteries of Mithra, an indo-iranian God honoured by the armies of Rome. There are many similar examples, which demonstrate that Europe is not fundamentally Christian any more than India is fundamentally Muslim or China fundamentally Marxist. All these alien ideologies have been imposed from the outside, and as such their trace will be washed away with time, like a bad painting on the hull of a ship.

If ancient India and ancient Europe both have common roots, so modern India and modern Europe are both faced with common threats. Threats to the ecosystem, climate changes, and other threats that mankind must face up to. But there is another threat, which springs from the Judeo-Christian way of thinking and is thus alien to our not-dogmatic, non-proselytising and tolerant tradition: the phenomenon of conversions. Conversion to the single model, be it the one God, the single party system or the single market, or the supremacy of any socio-political institution over the entire society.

Conversion to the one God, in the tradition of the religions of Abraham. Conversions that Christian missionaries want to impose on Indians crudely or by more subtle means. To some, the advantages of egalitarianism, more preached than practiced by Christians, are extolled. For others the civilizing character of conversion and the possibility to forget their ancestral inheritance (thus betraying their ancestors) is put forward. Manipulation by suspect persons such as Mother Theresa, all the devices of systematic anti-Hindu propaganda, have managed to make a considerable number of Hindus, who for long have but weakly defended their traditions against these deceptions, feel guilty. Fortunately, this period of alienation seems to have ended with the coming to power of people prepared to defend Hinduism (7). Let us hope that the harmful role of the Christian missionaries will soon be neutralised, both in India and elsewhere. Besides, our group is following with interest the work of the Hindu Vivek Kendra to defend Hindu traditions against missionary aggression and hate-propaganda (8).

Today in Europe, the danger no longer comes from the Catholic Church, for it has run out of steam.

Since the Council of Vatican II in the sixties, the Church has openly proved its decline : the sacred language ­ Latin (our " perfect " language)- has been neglected and all the old mantras disappeared from the Catholic pujas. The Catholic priests now turn their back to their God, i.e. to the East, looking to the assistance (i.e. to the West), which is complete inversion. Christianity is an historical religion with a beginning and thus an end. For us, followers of Sanatana Dharma, Eternal Tradition, this is absurdŠ but their conception of time is linear, not cyclic. So it is logic to say that the Christain reign will finish one day, as it started 2000 years ago. This cycle is slowly but firmly closing. This does not mean that the Church is not a danger anymore : it is still (politically, financially) powerfull. The declarations of the Pope about the so-called conversion (i.e. spiritual agression) of India can be interpreted as a political error (he was invited by " uggly " Hindu fundamentalists and insulted the whole Indian people. Can we imagine an Indian President urging the Italians to become followers of Shiva or Vishnu ?) but also as a sort of escape, out of reality for in the West, churches are getting unoccupied, day after day. The Church is now unable to find priests and must import African priests, often ignorant. Contemporary Christians are really ignorant : most of them believe in reincarnation, astrology, ignore hell and paradise, in a word they ignore everything about theology but are fascinated by Pagan heritage. Rather the main danger comes from the colonisation of our countries by immigrant Muslim North-African populations. One of our friends, the writer and sociologist G. Faye published a controversial book on this phenomenon. It has already caused considerable scandal in France, although this has been kept from te readers by the ³right-thinking² press. The phenomenon is that of massive immigration into the country by populations from Africa and the Maghreb (coming from the lower levels of the social hierarchy) and through births in the immigrant population. This is combined with an assault on Europe by an aggressive form of Islam, supported by foreign powers such as Saudi Arabia and Pakistan (9). Our proximity to North Africa, where there is a rapid population increase, whilst in Europe the population is in decline, and the serious imbalance between the two sides of the Mediterranean, constitute serious threats and undermine Europe¹s cultural and ethnic homogeneity. Islamisation, particularly in France but also in Great Britain and Germany, goes hand in hand with this invasive immigration ­ and criticism of it is forbidden for fear of being accused of "racism" (a good example of cultural and political auto-alienation). Faye., who is also a Pagan, reminds us in his "shocking" book that Islam is "absolute and proselytising universalism with an imperative vocation to conquer the entire world". He is right. Islam, a religion born of the desert, is above all a religion that creates new mental, psychic and spiritual deserts; it is ethnically and politically imperialistic; and one which believes in universal conquest through violence, assisted by its ethics of exclusion and intolerance. We have seen this in IndiaŠ. But Europeans are not interested in the history of real India, Hindu India. Dazzled by Christian or Marxist ways of thinking, they prefer the fascination of Muslim India. A revealing example: the most popular French tourist guide to Delhi provides full information on the mosques in the capital, but practically nothing on the temples! Faye also reminds us that the Koran is above all a manual of subversive warfare, which nobody reads. Those who have read it know that the book justifies conquest in three stages:

1) Dar al Sulh: in this stage the Muslim community is a minority community and momentarily adopts a peaceful attitude all the better to dupe the infidel, who thus naively allows his soil to be proselytised. (According to Le Monde of 9.12.99, 50,000 French people have converted to Islam up till now). This is the position in Europe today.

2) Dar al Harb: the territory of the infidel becomes a war zone. Perhaps there is resistance to Islam, or perhaps the Muslim population has reached a critical mass. In Europe, we now see the first signs of a low-intensity civil war: ethnic disturbances (which are not reported in the press), and widespread rioting by the younger generations of North Africans (who foray out from their no-go areas).

3) Dar al Islam: Muslims dominate the population and infidels are at best tolerated (as dhimmis: " protected" and required to pay a special tax) and at worst expelled or massacred. This was visible in Algeria and Morocco following independence. And I will not insult you with an explanation on the situation in Pakistan and Bangladesh after partition and also the forcefull mass-conversion of defeated Hindus during 10th to 16th centuries in India.

Some imams have quite plainly stated that the objective, according to God¹s will, was to transform Europe into Dar al Islam. In all evidence, the coming century will see a second wave of Muslim expansion in the West. The first was successfully repulsed from the 8th century onwards. But to make such a statement in Europe today makes one liable to prosecution (and Faye has just been indicted). Politically correct dogma requires peaceful coexistence between cultures; this is an utopic view that a basic study of history (for example that of India) will destroy. A few months ago I had the pleasure of meeting a very brave man, Ibn Warraq, in Paris, on the occasion of the publication of the French version of his book: Why I am not a Muslim. The book is the first criticism of substance of Islam. The author confirmed the facts to me. Another author, Pierre Gallois, a French Air Force General, instigator of the French nuclear deterrent and a specialist of military strategy, has just published a book with an evocating title: Le soleil d¹Allah aveugle l¹Occident (The West is blinded by the sun of Allah) (10). These authors warn us against the utopia of pacifism, and of the danger of remaining totally blind to Islam as a deadly threat to secular traditions.

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Another friend of ours, a political scientist and a specialist in geopolitics, and a follower of General Gallois, has published a book which also created a furor among ³right-minded thinkers² (11). His name is A. del Valle and his book demonstrates in a highly credible fashion that, in Islam, faith is indissociable from political theocracy. He further states that agressive Islamism is not "heretical" for it represents an application of the dogma of jihad, a traditional and perfectly legitimate dogma for Muslims. Moreover, del Valle proves that Islam, aggressive and expanding from Europe to India, has found an ally as formidable as it is surprising: the United States. For, ever since the Russian invasion of Afghanistan, the Americans have armed and trained ­ often with the help of their Saudi ally ­ the toughest Islamic movements. Our friend also shows that Muslim fundamentalism cohabits perfectly with the most ferocious capitalism. In the scenario of a confrontation between civilisations predicted by a Pentagon analyst, S. Huntington, the USA would arm Islam against Europe, Russia and India. As a result of the Gulf War, the USA has total control over the oilwells of this strategic region. To justify their support to the state of Israel, they support for example the Muslims against the orthodox Slav block (Serbian war) in the Balkans. They approve the indiscriminate immigration of Muslims to Europe. They support the Turkish (neo-Ottoman) designs in Central Asia (against Moscow) and support Turkey in its bid to join the European Union. I will not lecture you on the role played by the Americans against Delhi in Pakistan, which America considers as one of its colonies: the aim, as in the case of Europe and Russia, is to weaken an emerging power, in this case India.

Conversion to the single party system, for example Marxism. The collapse of the USSR in recent history has clearly shown the limits of Marxism as a totalitarian doctrine, which cannot understand any other civilisation than its own. And yet, despite the human failures, the spiritual disasters, and the economic catastrophe it brought about, there are still many firm believers in Marxism whose theories continue to influence many people even in Europe. For instance, too many journalist or scholars are still infected with marxist dogmatism and intolerance. Marxism is clearly linked to Christianity : same premises (linear conception of time, refuge in outer worlds : celestial Jerusalem or communist paradise, totalitarian egalitarianism which condemns differences, inquisition and physicall elimination of any opposition, etc). Christian and marxist propaganda agree to demonize the old cast system, which preserved during centuries the identity of India against all exterior agressions. Due to this intellectual terrorism, it is now difficult to tell the truth about casts, which are an important part of India¹s genius. Authors like Daniélou or Dumont (in his book Homo hierarchicus) dare to say the truth : casts are inherent in human nature.

In today¹s context, the third form of conversion is, in my opinion, the most dangerous. It is the conversion to the single market which the media, as the agents of consumer propaganda, refer to as globalisation. Globalisation is not unavoidable, a sort of inevitable progress, which will bring peace and prosperity throughout the world as liberal propaganda maintains. Behind the concept of globalisation lies the United States of America¹s ambition to dominate the world economically, militarily and culturally. This is not "globalisation", but imperialism to colonise the world by any means. So-called "globalisation" means making the planet American. There is no such thing as "globalisation", which some represent as progress, others as fate, but an all-out offensive campaign run from Washington to impose North American models, which are but are universally-formatted specific characteristics, on the whole planet.

The mask of capitalism, today in full expansion, is what I would call humanitarian materialism. It dominates people¹s minds thanks to a gigantic mass violation of them. The media has become a propaganda machine using a clever mixture of stick and carrot to ³jam² the mind, and its purpose is to gain the acceptance in the mentally confused masses of the official credo: market democracy. As the American linguist Noam Chomsky describes it so well: "propaganda is to democracy what force is to a dictatorship, in effect its essence". And yet, there really is confrontation between different imaginary worlds; the North American realm of fancy against the other imaginary realms. This confrontation creates other tensions of a political and economic nature.

In this war of colonisation, Europe in the midst of political and economic unification, India in full expansion, and Russia in full decline, all constitute obstacles to America¹s hegemonistic strategy. In its overall strategy to weaken its opponents and gain overall control, Washington uses all available means: financial weapons (competition in the banking sector, rigged neotiations in the framework of the WTO), food resources (OGM), military pressure (Balkan War), espionage (Echelon network), cultural weapons (television, CNN, destabilising advertising: Coca Cola is more dangerous than the 6th Fleet). Humanitarian materialism postulates a necessary but fatal "freedom" of the individual from all his affiliations (race, class, profession, religion, and even sex with the exaltation of homosexuality) and turn him into a conditioned consumer, slave to the worst of masters, a faceless master: the market (12).

These three main threats, conquest by Islam, Christian missions and humanitarian materialism are all occurring simultaneously, and they are self-reinforcing. Protestant missions, whether in India or in South America or in Russia, prepare the coming of the American traders. Islamic networks are supported by Washington indirectly through its Sunni Saudi or Pakistani allies. The example of the oil kingdoms shows clearlyl that Muslim or Protestant fundamentalism is compatible with consumerism, as these ideologies postulate the tabula rasa or clean slate and consider all ancestral traditions as obstacles to be pushed aside.

What to do?

It would be silly to give up in despair, for the very fragile system described above - one based on illusion ­ Maya - (typical of the great dissolution of Kali Yuga), will only last for a short time. One of our masters, René Guénon, a traditionalist thinker, already said in 1927, in his famous The Crisis of the modern world : " confusion, error and darkness can win the day only apparently and in purely ephemeral wayŠ and nothing can ultimately prevail against the power of truth ". (13) Oscar Wilde once said that the United States had passed directly from a state of savagery to a state of decadence. For the successors of the great civilisations such as India and classical Europe, it is clear that our potential destiny of becoming an annex of the American market (Bible and Business) is unacceptable. Our work, and it is a noble task, is to restore the Dharma, each according to his own traditions.

In Belgium, Antaios is modestly working towards this end, as does Voice of India in Delhi and so many others (Hindu Vivek Kendra in Mumbai for instance). We have founded the Society of Polytheistic Studies to raise funds, support our journal Antaios and organise meetings. Our last meeting was in Paris with a lecture given by prof. Maffesoli, one of the most influent French sociologistŠ who is a Polytheist ! For the moment, we are just a minority, slowly growing, sometimes demonised or ignored by the press and the University (but in England there are some Pagan scholars). I myself plan to publish a Pagan manifesto in october : Parcours païen (Pagan Itinerary) (Ed. L¹Age d¹Homme, Lausanne) in the same publishing house than Ibn Warraq¹s book Why I am not a Muslim.

In Lithuania, the World Congree of Ethnic Religions has been created : it would be nice that Hindus become members of this association devoted to the defense of Paganism. WCER organises an annual meeting with people coming from Poland, Iceland, Russia, Belgium, France, etc. (www.wcer.org)

In France, a more radical movement (closer to RSS style) has started to be spoken about: Terre et Peuple. Its president, a professor of medieval history and a well-known indophile, has recently published a manifesto in which he calls upon Europeans to rid themselves of consumerism and nihilism, to rediscover their pagan origin (14), and to combat the development of Islam on the continent. These constitute the modest signs of a reaction to the deep crisis. There are others, much more important. The Seattle demonstrations; the coming to power, in the world¹s biggest democracy, of a party which openly dares to defend the Dharma; the still embryonic renaissance of native religions; and the interest in the environment worldwide: all these are signs of a reply to the disorder engendered by liberalism.

In the battle we find the same ennemy, our worse ennemy : our own weakness, our own ignorance and divisions.

We Resistance fighters all over the eurasiatic continent, from Ireland to India, need a large alliance against chaos and destruction, for the defense of Dharma, the noblest task for our generation.

Europeans can warn you against dangers of modernity and we can find in India an ally able to assist us in a return to our native culture ³out of the ruins of the West². Europe has to free itself from the West and re-discover its true identity, true to the Dharma. In this endeavour, the rediscovery of India and the ancient relatonship between the Vedic civilisation and the ancient Greek and Celtic civilisations will, for example, be of great assistance. As the philosopher Nietzsche said: "the man of the future will be the man with the longest memory". Ram Swarup, sage of the Vedic renaissance, says the same thing in his spiritual legacy. I shall quote it as my concluding remark: "The Ramayana and the Mahabharata can help in restoring this lost dimension". Let us follow in his footsteps and re-read the pre-Socratic Greek philosophers and the Upanishads of India to obtain our self-rediscovery.

We know that as we say in Latin " Vincit omnia veritas ". In your sacred language, you would say " Satyam eva jayate ". (15)

Thank you for your attention.

New Delhi, 22nd July 2000

The lecture was organised by Vishwa Adhyayan Kendra, held in Constitution Club, New Delhi, with prof L. Chandra and K.R. Malkani.

 

References:

(1) Ram Swarup, On Hinduism. Reviews and Reflections, Voice of India, Delhi 2000.

(2) Antaios X, Hindutva, Interviews with Ram Swarup and Sita Ram Goel (in French), Brussels 1996.

(3) A. Daniélou, The way of the Labyrint. Memories of East and West, New Directions Paperbook, New York 1987. First edition in 1981, in French.

(4) J. Haudry, The Indo-Europeans, Institut d¹Etudes Indo-Européennes, Lyon 1994. See also B. Oguibenine, Essays on Vedic and Indo-European Culture, Motilal Banarsidass, Delhi 1998.

(5) A. Daniélou, Shiva and Dionysus, Inner Traditions Intern., New York 1984

(6) R. Fletcher, The Conversion of Europe. From Paganism to Christianity 371-1386 AD, Harper Collins, London 1997. And the remarkable work of two Pagan scholars: P. Jones & N. Pennick, A History of Pagan Europe, Routledge, London 1995.

(7) K. Elst, Psychology of Prophetism. A Secular Look at the Bible, Voice of India, Delhi 1993. See also Sita Ram Goel, Jesus Christ. An Artifice for Aggression, Voice of India, Delhi 1994 and, Defense of Hindu Society, Voice of India, Delhi 1994.

(8) A.V. Chowgule, Christianity in India. The Hindutva Perspective, Hindu Vivek Kendra, Mumbai 1999.

(9) G. Faye, La Colonisation de l¹Europe. Discours vrai sur l¹immigration et l¹islam, Aencre, Paris 2000.

(10) Ibn Warraq, Pourquoi je ne suis pas Musulman, L¹Age d¹Homme, Lausanne 1999. See also P.M. Gallois, Le soleil d¹Allah aveugle l¹Occident, Age d¹Homme, Lausanne 1998.

(11) A. del Valle, Islamisme et Etats-Unis. Une alliance contre l¹Europe, Age d¹Homme, Lausanne 1997.

(12) See Le Monde diplomatique, mai 2000: " L¹Amérique dans les têtes ".

(13) R. Guénon, The Crisis of the Modern World, Indica Books, Benares 1999.

(14) P. Vial, Une Terre, un peuple, Ed. Terre et Peuple, Lyon 2000 email: terrepeuple@hotmail.com ).

(15) R. Guénon, The Crisis of the Modern World, op. cit., p. 142.

[Public speech held in July 2000 in India, taken from SYNERGON, 10th September 2000]

mardi, 03 février 2009

Gomez Davila ou la passion de la Réaction

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Gómez Dávila ou la passion de la Réaction

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Pour quelques jours de repos et de longues lectures (ou relectures avec le colossal Absalon, Absalon ! de Faulkner), je cède la parole à Luc-Olivier d'Algange qui m'a envoyé ce texte sur un auteur encore presque inconnu des lecteurs français, Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), dont on pourra toutefois se procurer Les Horreurs de la démocratie (le texte ci-dessous est consacré à ce livre) aux éditions du Rocher. Je rappelle que Philippe Billé est le responsable d'un livret d'une cinquantaine de pages sur cet auteur, riche d'une bibliographie, de traductions de scolies ainsi que de différents études et témoignages.

 

« Les deux ailes de l’intelligence sont l’érudition et l’amour ».

Nicolás Gómez Dávila

 

Nicolás Gómez Dávila est de ces rares auteurs qui tiennent leur lecteur en assez haute estime pour ne lui offrir que le meilleur d’eux-mêmes. Le véritable titre de ces formes brèves, qui ne sont ni des aphorismes, ni des sentences, rassemblées sous le titre Les Horreurs de la Démocratie (choix d’éditeur non dépourvu de roborative provocation) est « Escolios a un texto implicito », Scolies pour un texte implicite. Ces « scolies » ont pour règle de ne laisser apercevoir de la pensée que la fine pointe et pour vertu, la générosité de supposer au lecteur l’intelligence et l’art de déployer, à partir de ces fines pointes, un texte qui est à la fois absent et présent, implicite, c’est-à-dire donné, sans être pour autant révélé.

Toute œuvre digne que l’on s’y attarde ressemble à la part émergée de l’Iceberg : ce qu’elle dit n’est que le signe de ce qu’elle ne dit point. L’implicite est, plus généralement, le propre de la Contrelittérature ; ce qui la distingue de l’information, des sciences humaines et du bavardage où ce qui n’est pas dit vaut encore moins que ce qui est dit. Lorsque l’écrit s’élève au rang de parole, lorsque les pages sont comme la réverbération du Logos-Roi, le moindre scintillement témoigne du gouffre lumineux du Ciel. Ce qui est dit est comme soulevé par la puissance de ce qui n’est pas dit, comme le roulement de la vague accordée au magnétisme des marées. Or, cette puissance-là, l’éminente générosité de Nicolás Gómez Dávila est de l’accorder d’emblée à son lecteur, sans se soucier d’aucune autre qualification extérieure. Ce réputé « anti-démocrate » pose en a priori théorique à son œuvre, à sa « méthode »  (au sens où Valéry parle de la « méthode » de Léonard de Vinci) la possibilité pour tout homme soucieux d’une vie intérieure de le comprendre. « Les hommes sont moins égaux qu’ils ne le disent mais plus qu’ils ne le croient ». La logique est ici exactement inverse à celle du « démocrate » fondamentaliste qui affirme théoriquement l’égalité de tous non sans s’accorder le magistère de la définition de l’égalité et, par voie de conséquence, une supériorité absolue qui ne saurait se traduire, en Politique, que par la généralisation des méthodes policières. « L’Etat moderne réalisera son essence lorsque la police comme Dieu, sera témoin de tous les actes de l’homme ».

Les Scolies de Nicolás Gómez Dávila sont une œuvre de combat. Ce qui est en jeu n’est rien moins que la dignité et la liberté humaines, mais à la différence de tant d’autres qui mâchonnent les mots de « dignité » et de « liberté », Gómez Dávila ne pactise point avec les forces qui les galvaudent et les ruinent. Ne nous attardons pas sur les roquets-folliculaires qui furent lancés aux basques de ce livre magnifique : ils n’existent que pour en illustrer la pertinence : «  Le démocrate ne considère pas que les gens qui le critiquent se trompent, mais qu’ils blasphèment ». Cette figure du Moderne, que Gómez Dávila nomme le « démocrate »  (non, précise-t-il en tant que partisan d’un système politique mais comme défenseur d’une « perversion métaphysique ») peut, en effet, être définie ici comme fondamentaliste dans la mesure où elle ne louange le « débat », la « discussion », le « polémos » que sous l’impérative condition que ceux avec qui il est permis de débattre, discuter et polémiquer fussent déjà, de longtemps et notoirement, du même avis qu’elle ; et qu’ils le soient, par surcroît, avec le même vocabulaire, les mêmes rhétoriques, et si possible, avec les mêmes intonations, le même style ou, plus probablement, la même absence de style. Le démocrate fondamentaliste ne « raisonne » ainsi que dans les limites de sa folie procustéenne ; son amour de l’humanité « en général » ne s’accomplit qu’au mépris du particulier ; la liberté d’expression ne lui vaut que strictement réservée à ceux qui n’ont rien à dire ; la « dignité » humaine ne mérite à ses yeux d’être défendue qu’en faveur de ceux qui s’en moquent et s’avilissent à plaisir.

« Aux yeux d’un démocrate, qui ne s’avilit pas est suspect. » Il n’est point d’écrivain un peu libre qui ne fasse chaque jour l’expérience de cette suspicion. Quand bien même se tiendrait-il à l’écart des idées qui fâchent, une simple tournure, un mot pris dans une acception un peu ancienne, une vague nostalgie, ou le refus de considérer le monde contemporain comme le parangon de toutes les vertus et la source de tous les bienfaits suffisent à le désigner comme suspect. La critique littéraire qui devrait se situer entre la métaphysique et l’hédonisme, entre la sagesse et le plaisir, le vrai et le beau, se réduit tristement à des rodomontades moralisatrices ou de fastidieuses rhétoriques de procureur ou d’avocat, comme si l’on ne pouvait plus lire un roman ou un essai sans en instruire le procès, comme si tout sentiment de gratitude s’était évanoui des cœurs humains pour ne plus laisser place qu’à des maniaqueries de « Fouquier-Tinville » sans envergure ni courage. « Les individus, dans la société moderne, sont chaque jour plus semblables les uns aux autres et chaque jour plus étrangers les uns aux autres. Des monades identiques qui s’affrontent dans un individualisme féroce. »

Le critique moderne est un homme qui, pour exercer son office, ne doit connaître ni remord, ni merci, mais s’enticher éperdument de la scie procédurière à quoi se réduit désormais toute forme d’Eris. Transposée dans la mesquinerie, l’agressivité moderne prend le visage patelin de la bien-pensance, c’est-à-dire de la « pensance » collective, grégaire, aussi revêche, obtuse et obscurantiste dans le « village planétaire » qu’elle le fut dans les « villages » imaginés par des bourgeois libéraux, peuplés, comme de bien entendu, d’une paysannerie torve et cruelle et d’affreux chouans ennemis de la liberté.  Le Moderne lorsqu’il décrie son ennemi se décrit lui-même. Cet « archaïque », ce « superstitieux », cet « adversaire de la raison », c’est lui-même. Plus il se nomme « démocrate », et plus il méprise ce « peuple » auquel il n’accorde d’autre pouvoir que celui de l’état de fait, qu’il nomme « volonté générale », par pure tartufferie. « La volonté générale, c’est la fiction qui permet au démocrate de prétendre que pour s’incliner devant une majorité, il y a d’autres raisons que la pure et simple couardise. »

La composition pointilliste des Scolies, qui mêlent les aperçus éthiques, esthétiques et politiques, interdit que l’on traitât de chaque domaine comme d’une région séparée. Le bien, le beau et le vrai sont indissociables. L’esthète est toujours moraliste et politique. « Le monde moderne est un soulèvement contre Platon ». Il appartient donc au « réactionnaire » tel que le définit Nicolás Gómez Dávila (dont la vocation est d’être « l’asile de toutes les idées frappées d’ostracisme par l’ignominie moderne ») d’œuvrer à la recouvrance du platonisme, non en tant que système philosophique (à supposer qu’il existât un « système » platonicien hors des aides-mémoires de quelques pédagogues trop pressés d’enseigner ce qu’ils ne savent pas pour lire des Dialogues) mais en tant qu’expérience métaphysique fondamentale de la lecture (lecture du monde non moins que lecture des livres). « Derrière chaque vocable se lève le même vocable avec une majuscule : derrière l’amour, l’Amour, derrière la rencontre la Rencontre. L’univers s’évade de sa prison lorsque dans l’instance individuelle, nous percevons l’essence. »

Le Politique, pour Nicolás Gómez Dávila, n’est pas la fin de la pensée, ni même son commencement. Elle se tient dans une zone médiane, plus où moins fréquentable selon les époques, entre le métaphysique et le perceptible, entre la théorie et le goût. « Tout est banal si l’homme n’est pas engagé dans une aventure métaphysique. » Cette banalité toutefois n’est point banale, au sens où elle serait négligeable : elle est horrible. Elle nous livre à la servitude et à la laideur, pire à une servitude et une laideur toujours identiques à elles-mêmes, comme dans une catastrophe ou un cauchemar, sous couvert de « changement » et de « nouveauté ». « Le monde moderne est arrivé à institutionnaliser avec une telle astuce le changement, la révolution, l’anticonformisme que toute entreprise de libération est une routine inscrite dans le règlement de la prison ». Ce « changement », c’est-à-dire cette haine de la Tradition, qui est le propre du Moderne, ce culte de l’amnésie, cet oubli de l’oubli est tel qu’il en oublie sa propre identité avec lui-même. L’oubli de l’oubli est ce pur néant immobile qui se rêve comme un changement perpétuel, autrement dit comme un présent sans présence. Ainsi, « les démocrates décrivent un passé qui n’a jamais existé et prédisent un avenir qui ne se réalise jamais. »

La politique se détruisant elle-même dans la lâcheté, le Logos se profanant en propagande et publicité, l’alchimie à rebours transformant l’or du pur amour en plomb de « convivialité » obligatoire, nous tombons sous le joug de cette caste qui prétend n’en point être une et dont l’amour de l’humanité en général est le prétexte pour n’avoir personne à aimer en particulier, dont la « tolérance » abstraite est la ruse pour n’avoir jamais à pardonner une offense, et « l’ouverture aux autres » la condition première à se dispenser de toute magnanimité. L’idéologie « citoyenne » fait office d’indulgences, sans que les Pauvres n’en profitent le moins du monde.

Si pour Gómez Dávila la politique est impossible, c’est une raison supplémentaire pour s’y intéresser, mais seul. « La lutte contre le monde moderne doit être conduite dans la solitude. Lorsqu’on est deux, il y a déjà trahison ». On songe ici à la phrase de Montherlant : « Dès que les hommes se rassemblent, ils travaillent pour quelque erreur. » Il n’en demeure pas moins qu’il y eut des temps où l’ordre politique semblait destiné à nous éviter le pire, autant que possible. Le pire, c’est-à-dire, le nihilisme, le totalitarisme, la terreur. « La démocratie a la terreur pour moyen et le totalitarisme pour fin ». Toutefois, le « totalitarisme » et la « terreur » ne disent point l’entièreté du pire. Le démocrate ne cesse d’en parler, de s’en prétendre le rempart lorsqu’il s’en trouve être la condition, la prémisse. Le pire est ce que l’homme devient, ce que tous les hommes deviennent, lorsque la contemplation disparaît du monde, lorsque le commerce entre les hommes ne s’ordonne plus qu’à l’économie. « L’absence de vie contemplative fait de la vie active d’une société un grouillement de rats pestilentiels ». Ce par quoi le langage témoigne de la contemplation, et de cette joie profonde, ambrée et lumineuse du Logos-Roi, c’est peu dire que le Moderne ne veut plus en entendre parler. Son monde, il le veut sans faille, compact et massif, c’est-à-dire réduit à lui-même, à sa pure immanence, autrement dit à l’opinion que les plus sots et les plus irréfléchis se font de lui. « Le moderne se refuse à entendre le réactionnaire, non que ses objections lui paraissent irrecevables, mais parce qu’elles ne lui sont pas intelligibles ».

A mesure que s’étend cet espace de l’inintelligible, s’étend le malheur. La sagesse et la joie, la ferveur et la subtilité, les nuances et les gradations, reléguées aux marges de plus en plus lointaines, ou dans un secret de plus en plus profond, ne font plus signe qu’aux rares heureux dévoués à une règle d’art ou de religion. « Celui qui se respecte ne peut vivre aujourd’hui que dans les interstices de la société ». Mieux qu’une pensée « réactionnaire » au sens restreint du terme ( dont on doit cependant oser, de temps à autre, se faire un étendard, mais le bon), les Scolies de Nicolás Gómez Dávila rétablissent les droits immémoriaux d’une grande pensée libertaire et aristocratique, alliant, dans l’exigence de son style « la dureté de la pierre et le frémissement de la feuille ». Que dit cette dureté, qui n’est point dureté du cœur ? Elle nous dit que pour être, il nous faut résister à l’informe, aimer l’éclat, la justesse lapidaire, et peut-être encore la pierre qui triomphe de ce Goliath qu’est le monde moderne.

Gómez Dávila, cependant, n’envisage point une victoire temporelle. « Le réactionnaire n’argumente pas contre le monde moderne dans l’espoir de le vaincre, mais pour que les droits de l’âme ne se prescrivent jamais. ». Comme le texte, la victoire est implicite, secrète. Car si les droits de l’âme demeurent imprescriptibles, le Moderne est bel et bien vaincu et ses triomphes ne sont que nuées. A l’imprescriptibilité des droits de l’âme, le Moderne voulut opposer les « droits de l’homme », autre marché de dupe, car le droit de quelque chose de général et d’abstrait fait piètre figure face à la force, ce que savait déjà Démosthène. Or, le droit de l’âme est, en chaque instant, ce qui s’éprouve. A commencer dans le ressouvenir plus vaste que nous-mêmes : « L’âme cultivée, c’est celle où le vacarme des vivants n’étouffe pas la musique des morts. ». Au contraire des « droits de l’homme », les droits de l’âme, de cette âme qui emporte et allège, n’apportent aucune solution. « Les problèmes métaphysiques ne tourmentent pas l’homme afin qu’il les résolve, mais qu’il les vive. »

Sans doute y a t-il dans cette manie moderne à vouloir trouver des « solutions », à laisser les « problèmes » derrière soi, dans des époques révolues, à se croire plus avisé de ne s’intéresser à rien, une immense lassitude à vivre. Ce Moderne qui ne cesse de louanger la « vie » et le « corps » les réduit à bien peu de chose. Que lui est-elle cette « vie » s’il ne la voit comme le miroitement d’une gradation vers l’éternité, qu’est-ce que ce « corps » dont il a une si forte conscience, sinon un corps malade, et malade d’avoir oublié que ce n’est point l’âme qui est dans le corps mais bien le corps qui est dans l’âme ? Sous prétexte que certains crurent médiocrement en Dieu, nommant « Dieu » leur propre médiocrité, le Moderne ne veut plus croire qu’en « l’homme », mais « si le seul but de l’homme est l’homme, de ce principe dérive une vaine réciprocité, comme le double reflètement de deux miroirs vides ». C’est bien en vain que les Modernes et les anti-modernes cherchent en amont, dans l’histoire de la philosophie, de dignes précurseurs au monde moderne. Laissons Spinoza, Hegel, et même Voltaire où ils sont. Le véritable précurseur du monde moderne est, bien sûr, Monsieur de La Palice. Le Moderne n’est point panthéiste, dialecticien ou ironiste, il est « lapaliciste ». Sa philosophie est des plus claires : l’homme n’est que l’homme, la vie n’est que la vie, le corps n’est que le corps. Voilà bien cette pensée moderne dans toute sa splendeur qui exige de nous que nous brûlions, comme obsolètes et néfastes, toutes les philosophies, toutes les religions, tous les arts qui durant quelques millénaires, de par le monde, firent à l’humanité l’affront abominable de lui enseigner la complexité, les nuances, les relations, les rapports et les proportions, toutes choses vaines, en effet, pour qui ne veut que détruire.

Ces Scolies à un texte implicite, se donnent à lire ainsi, non seulement comme une suite d’aperçus lucides en forme d’exercices de désabusement, dans la lignée des meilleurs d’entre nos Moralistes, tels que Vauvenargues ou Rivarol, mais aussi, comme un Art de la guerre, un traité de combat contre les « lapalicistes ». « Est démocrate, celui qui attend du monde extérieur la définition de ses objectifs ». Contre la passivité des tautologies et contre le règne de la quantité qu’elle instaure, c’est à la seule vie intérieure, à la seule âme imprescriptible du lecteur qu’il appartient, dans cette solitude essentielle qui est la véritable communion, de nuancer d’un imprévisible ensoleillement, autrement dit, d’une espérance implicite mais prête à bondir dans le monde, ces Scolies qu’un inattentif regard ordonnerait au seul pessimisme. D’autant plus inquiétantes, roboratives et salubres, ces Scolies, que ce qu’elles ne disent pas chemine en nous à l’insu des censeurs ! « Seuls conspirent efficacement contre le monde actuel ceux qui propagent en secret l’admiration de la beauté. »

Ce qu’il en sera de cette beauté et de cette admiration, nous le savons déjà. « Il n’est jamais trop tard pour rien de vraiment important. » Nicolás Gómez Dávila opère ainsi à une sorte de renversement du pessimisme, celui-ci n’étant plus seulement la fine pointe de la lucidité, mais celle d’une audace reconquise sur le ressassement sans fin de la vanité de toute chose. Certes, nous sommes bien tard dans la nuit du monde, dans la trappe moderne (« tombés dans l’histoire moderne comme dans une trappe »), mais s’il n’est jamais trop tard pour rien de vraiment important, n’est-ce point à dire que toute l’espérance du monde peut se concentrer en un point ? « Un geste, un seul geste suffit parfois à justifier l’existence du monde ». Cette pensée guerroyante et savante, polémique et érudite, est avant tout une pensée amoureuse. Le combat contre l’uniformité, l’étude savante qui distingue et honore la diversité prodigieuse sont autant de sauvegardes de l’amour.

 « L’amour est l’organe avec lequel nous percevons l’irremplaçable individualité des êtres ». Or cette « irremplaçable individualité » n’est autre que la beauté. « La beauté de l’objet est sa véritable substance ». Celle-ci n’appartient pas à la durée, de même que la tradition n’appartient pas à la perpétuité, mais à l’instant.  « L’éternité de la vérité, comme l’éternité de l’œuvre d’art sont toutes deux filles de l’instant ». L’instant ne s’offre qu’à celui qui le saisit au vol, chasseur subtil, qui discerne dans le monde des rumeurs qui se font musique, en deçà ou par-delà le vacarme obligatoire (le monde moderne étant bruyant comme le sont les prisons). « Les choses ne sont pas muettes, seulement elles sélectionnent leurs auditeurs. » L’utopie du « tout pour tous » renversée en réalité du « rien pour personne » en vient alors à médire des choses elles-mêmes, muettes ou parlantes. La véritable bonté n’est jamais générale de même que « Dieu n’est pas le monde comme un rocher dans un paysage tangible mais comme la nostalgie dans le paysage d’un tableau. ». La véritable bonté advient dans l’imprévisible : « Pour éveiller un sourire sur un visage douloureux, je me sens capable de toutes les bassesses ».

De même que les Scolies sont les cimes du discours, leur « par-delà » salvateur, la véritable magnanimité est l’au-delà de la morale générale, le surgissement de la connaissance de l’Un dans l’instant lui-même, la fulgurance pure où la liberté absolue rejoint la soumission au Règne de Dieu. « Celui qui parle des régions extrêmes de l’âme doit vite avoir recours à un vocabulaire théologique ». Théologique, la pensée de Gómez Dávila n’en garde pas moins ses distances avec ce que Gustave Thibon nommait le « narcissisme religieux », cette inclination fatale à voir l’Eglise d’abord comme une communauté humaine, avec ses administrations, sa sociologie, et son opportunisme. « L’obéissance du catholique s’est  muée en une docilité infinie à tous les vents du monde ». Peu importe au demeurant : « Un seul concile  n’est rien de plus qu’une seule voix dans le véritable concile oecuménique de l’Eglise, lequel est son histoire totale ». Or, pour Gómez Dávila cette histoire totale inclut les dieux antérieurs. L’Iliade et Pythagore lui sont plus proches que cette Eglise  « qui serre dans ses bras la démocratie non parce qu’elle lui pardonne mais pour que la démocratie lui pardonne ».

Le sacré doit « jaillir comme une source dans la forêt et non pas  comme une fontaine publique sur une place ». Face au monde moderne « cette effrayante accoutumance au mal et à laideur », le discord entre paganisme et christianisme apparaît secondaire et artificieux.  « Le christianisme est une insolence que nous ne devons pas déguiser en amabilité ». Cette insolence, il ne sera pas interdit de la retourner contre les « représentants » du christianisme lui-même : « N’ayant pas obtenu que les hommes pratiquent ce qu’elle enseigne, l’Eglise  actuelle a décidé  d’enseigner ce qu’ils pratiquent. » Le monde grec apparaît alors comme « l’autre ancien Testament » auquel il n’est pas malvenu de recourir car « entre le monde divin et le monde profane, il y a le monde sacré ». Tout, alors, est bien une question de timbre et d’intonation. La justesse du scintillement d’écume est dans le mouvement antérieur de la vague. « La culture de l’écrivain ne doit pas se répandre dans sa prose mais ennoblir le timbre de sa phrase ». Ainsi faut-il également entendre le monde, comme l’œuvre d’un écrivain « qui nous invite à comprendre son langage, et non à le traduire dans le langage de nos équivalences ». Cette leçon d’humilité et d’orgueil, humilité face au monde et orgueil apparent face à l’arrogance moderne, nous invite à la seule aventure essentielle qui est d’être au monde, comme l’écriture même du monde, nous mêmes Scolies du texte implicite du monde qu’il nous appartient de déchiffrer.

Le monde, disent les Théologiens médiévaux, est « la grammaire de Dieu ». C’est ainsi que nous perdons ou gagnons en même temps Dieu et le monde, de même que nous perdons en même temps (ou gagnons) la compréhension d’Homère et des Evangiles. « Lorsque le bon goût et l’intelligence vont de pair, la prose ne semble pas écrite par l’auteur, mais par elle-même. » Que nous dit le texte implicite sinon notre propre secret qui est le secret du monde ? Tout se joue alors dans la voix, la voix unique, irremplaçable, celle de l’amour divin (« Nous ne sommes irremplaçables que pour Dieu ») ; la plus irrécusable preuve de l’Un étant que toute chose, tant que demeurent les droits imprescriptibles de l’âme, est unique. Point de feuille dont les nervures fussent exactement semblables à sa voisine. Le grand mythe moderne, au sens de mensonge, tient dans cette lâcheté, cette paresse face à l’interprétation qui sans fin hiérarchise les êtres et les choses du plus épais jusqu’au plus subtil. Le Moderne veut croire à tout prix que le monde est inintelligible pour pouvoir le saccager à sa guise. Le bonheur et le malheur est qu’il en est rien. Tout est écrit, et nous ne faisons qu’ajouter la ponctuation. «  Mes phrases concises sont les touches d’une composition pointilliste ». L’implicite ne serait alors que le non-encore ponctué. « Si l’univers est d’une lecture malaisée, ce n’est pas qu’il soit un texte hermétique, mais parce que c’est un texte sans ponctuation. Sans l’intonation adéquate, montante ou descendante, sa syntaxe ontologique est inintelligible. »

Il n’est point de question de sens qui ne soit une question de style, d’intonation. Or, les questions de sens sont sans solution, alors que les questions de style se prouvent à chaque instant. « Cohérence et évidence s’excluent ». Toute justesse ne saurait apparaître que sous les atours du paradoxe ou du scandale. Lorsque la pensée est justement ponctuée, elle heurte de front cette inclination unanimiste du démocrate pour qui seuls l’informe et l’indistinct sont aimables. « Maint philosophe croit penser parce qu’il ne sait pas écrire ». La quête de la juste ponctuation, de l’intonation adéquate dépasse non seulement l’opinion commune, et même l’opinion minoritaire, elle dépasse du même élan les idées, les théories, les systèmes. « Le malheur de celui qui n’est pas intelligent, c’est qu’il n’y a pas d’idées intelligentes. Des idées qu’il suffirait d’adopter pour se mettre à la hauteur de l’homme intelligent ».Le dessein de Gómez Dávila n’est pas de faire partager ses idées, de les mettre en circulation, comme une monnaie frappée à son effigie, mais de rendre possible une méditation sur la « cohérence » qui échappe à l’évidence, sur « l’implicite » que ses Scolies désignent et dissimulent. « Si l’on veut que l’idée la plus subtile devienne stupide, il n’est pas nécessaire qu’un imbécile l’expose, il suffit qu’il l’écoute. » Le silence autour du livre de Nicolás Gómez Dávila serait donc d’excellent aloi s’il ne préjugeait toutefois à l’excès de l’écoute des imbéciles et de la surdité des intelligents.

« Je ne suis pas un intellectuel moderne contestataire mais un paysan médiéval indigné ». Si le mot rebelle voulait encore dire quelque chose, l’exégète des Scolies pourrait en faire usage ; tel n’est pas le cas. Demeure à travers ce qui est dit la possibilité offerte de n’être pas soumis au temps, d’imaginer ou de se souvenir d’une cohérence du monde, mystérieuse et sensible à « l’intonation montante ou descendante ». L’implicite des Scolies est une mise en demeure à la recouvrance de l’histoire sacrée, c’est-à-dire d’une histoire qui ne se réduit pas à « l’incertitude de l’anecdote » ni à la « futilité des chiffres ». En ce sens, « les ennemis du mythe ne sont pas les amis de la réalité mais de la banalité », le mythe n’étant pas alors le mensonge, mais bien la réverbération du vrai, la beauté suspendue entre l’immanence ingénue de notre race et la transcendance universelle. Tout écrivain digne de ce nom récite une mythologie d’autant plus réelle, au sens platonicien, c’est-à-dire d’autant plus vraie, qu’elle lui est plus personnelle, se proposant à lui presque par inadvertance, comme une fatalité heureuse. « Les penseurs contemporains sont aussi différents les uns des autres que les hôtels internationaux dont la structure uniforme se pare superficiellement de motifs indigènes. Alors qu’en vérité seul est intéressant le particularisme qui s’exprime dans un langage cosmopolite. »

La meilleure façon de favoriser la haine fanatique des hommes entre eux est de favoriser leur ressemblance, de les confronter en autrui à l’image détestée d’eux-mêmes. L’universalisme, ce péché qui, selon le mot de Gustave Thibon, consiste « à vouloir faire l’Un trop vite » devient alors, faute d’adversaire loyal, le principe d’une catastrophe immense, de même que « la libération totale est le processus qui construit la prison parfaite ». Entre le principe universel du christianisme et l’héritage culturel, où bruissent encore les feuillages orphiques, les armes de l’Iliade et les écumes de l’Odyssée, les pensives sagesses pythagoriciennes ou la souveraineté intérieure de Marc-Aurèle, la liberté de Nicolás Gómez Dávila sera de ne pas choisir. « La structure des relations entre christianisme et culture doit être paradoxale. Tension dynamique des contraires. Non pas fusion où ils se dissolvent mutuellement, ni capitulation d’aucun des deux. » On aura compris que ce « réactionnaire », dont les « saints  patrons » sont Montaigne et Burckhardt, cet adversaire déclaré de la démocratie, en tant que « perversion métaphysique » est, par cela même, le contraire d’un fanatique. « Ne flattent le Peuple que ceux qui mijotent de lui vendre ou de lui voler quelque chose. » Face à la démagogie (« Démagogie est le mot qu’emploie les démocrates quand la démocratie leur fait peur »), il n’y a guère que l’aristocratie, celle-ci toutefois, étant définie, non en termes sociologiques, mais rigoureusement métaphysiques comme une possibilité universelle : « Le véritable aristocrate est celui qui a une vie intérieure. Quels que soient son origine, son rang ou sa fortune. L’aristocrate par excellence n’est pas le seigneur féodal dans son château, c’est le moine contemplatif dans se cellule. » Et ceci encore : « Au milieu de l’oppressante et ténébreuse bâtisse du monde, le cloître est le seul espace ouvert à l’air et au soleil ». Les Scolies apparaîtrons ainsi, à qui voudra bien en répondre, comme les signes de la présence de ces cloîtres détruits, de ces temples saccagés, mais dont les cryptes demeurent, textes implicites, de nos vie intérieures imprescriptibles.

 

lundi, 02 février 2009

De Reactie nam zijn aanvang bij het eerste betreuren

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De Reactie nam zijn aanvang bij het eerste betreuren

dimanche, 25 janvier 2009

El mito del rey perdido

El mito del rey perdido



ORIGEN DE LA FUNCION REAL

La etimología de la palabra "rey" es importante a la hora de determinar el concepto que el mundo antiguo se hacía de la función y del símbolo real. Se admite unánimemente que se trata de un término indo‑europeo cuya huella se encuentra desde el área extrema de expansión celta (Europa Occidental) hasta la india védica.

Siempre, en todas partes, se encuentra la raíz reg‑ que da lugar a las variaciones rex (latino), el raj (hindú) y el rix (galo), presentes en palabras y nombres como dirigere, Mahararajh, o Vercingetorix. En general la raíz reg‑ indica a "aquel que traza el camino", es decir, define la jefatura y el mando.

De esta misma raíz deriva la palabra y el concepto de derecho (trazar el camino implica, en definitiva, enunciar un derecho, promulgar una ley): right (en inglés), recht (irlandés antiguo), recht (alemán), y encontramos la misma simetría en la lengua latina entre rex y lex.
Al establecer que la función real era "trazar el camino", los pueblos indo‑europeos hacían algo más que calificar al jefe político‑militar.

De hecho la historia nos enseña que no fue sino en un período tardío cuando los monarcas asumieron la conducción militar de su pueblo, mientras que la política estaba delegada a la nobleza. El "dux" -palabra próxima a rex- indicaba a los caudillos militares que asumían el mando en momentos de crisis y en los que el rex delegaba la función guerrera. Luego, cuando se superaba la crisis, desaparecía el cargo de "dux bellorum", caudillo de las batallas, literalmente."Trazar el camino", guiar a su pueblo por las seis rutas del espacio definidas por la cruz tridimensional que marca las direcciones del espacio. El rex tenía el poder de guiar a su pueblo en todas estas direcciones.

La función real primitiva se justificaba en que reyes y dioses no eran sino una misma persona. En el Apocalipsis de Juan se encuentra un eco de este orden de ideas: "Aquel que se sienta sobre el trono" declara "Yo soy el Alfa y el Omega, el Principio y el Fin".

El rey era pues concebido como un punto de irradiación, no humano, encarnación directa de poderes trascendentes y, en tanto que tal, digno de ser obedecido; el mando, no era obtenido ni mediante elección, ni por aclamación, sino que procedía de un contacto tangible con entidades superiores, condición imprescindible para que los súbditos aceptaran la sumisión a su voluntad.



LA IDEA DE ORDEN

La prosperidad del reino, la victoria en las batallas y la justeza de sus decisiones, es decir, el Orden, eran muestra del origen divino y legítimo del poder. Si se producía un descalabro militar, una mala cosecha, si la injusticia se enseñoreaba, todo ello mostraba el debilitamiento del vínculo que unía el rey al supramundo y a los poderes trascendentes. Entonces sus súbditos podían destronarlo.

La vieja leyenda itálica del Rey de los Bosques de Nemi, cuenta que este rey está siempre en guardia bajo un árbol sagrado, y seguirá siendo rey hasta que un esclavo fugitivo consiga sorprenderlo y arrancar una rama del árbol que custodia. Por "esclavo fugitivo" hay que entender un hombre emancipado de los lazos de la materia y que ha logrado establecer un vínculo con la trascendencia.

El mismo símbolo del árbol es reiterativo, indica la fuente de un poder y se relaciona habitualmente en el universo simbólico indo‑europeo con la montaña, el centro, la isla, el jardín bienaventurado, etc. Todos estos símbolos suponen lugares inaccesibles, en los que reina el Orden, mientras que a su alrededor, todo fluye, es caos y dinamismo contingente. Residir o tener acceso a uno de estos símbolos supone conquistar la función real. La montaña del Grial, el castillo de Camelot, la isla de Avalon, el Roble del Destino, el Jardín de las Rosas, el Omphalos de Delfos, etc. pueden ser relacionados fácilmente con lo que decimos y constituyen centro de un período dorado para la humanidad.

Ahora bien, el hecho de que todo en el mundo tradicional indo‑europeo esté sometido a ciclos ‑ciclo de las estaciones, ciclos lunares, rotación sideral, vida humana‑ hace que la Edad Dorada no se prolongue hasta el infinito. El tiempo la va desgastando hasta que se produce una caida de nivel que registran todas las tradiciones. Sin embargo, el centro, la montaña, el jardín, o la misma función real no desaparecen, sino que entran en un estado de latencia; se vuelven inalcanzables para los hombres comunes y dejan de influir en los destinos contingentes del mundo. El Jardín del Edén, no desaparece tras la caída de Adán, simplemente se hace inaccesible; otro tanto ocurre con el castillo del Grial, solo visible para las almas puras; en el caso del Jardín de las Rosas del Rey Laurin -que todavía puede visitarse en Bolzano- un hilo de seda lo convierte en impenetrable. La idea es siempre la misma: algo visible, pasa a otra dimensión, no muere, sin embargo, solo se oculta temporalmente, "hasta que los tiempos estén prestos", es decir, hasta que una nueva renovación del cosmos, haga posible la manifestación del centro supremo. Y lo mismo ocurre con los monarcas.



EL REY PERDIDO, NO-MUERTO, AGUARDA SU HORA

En este contexto los pueblos indo‑europeos han tenido siempre muy arraigado en su estructura mental, el mito del Rey Perdido: un rey querido por todos, justo, amado por su pueblo, deseado, en un momento dado, desaparece; su pueblo se niega a creer en su muerte; no es posible que los dioses hayan abandonado a un ser tan noble y justo, se dicen, "no a muerto, está vivo en algún lugar, y un día regresará para ponerse al frente de sus fieles". Esta estructura se repite una y otra vez en las viejas tradiciones de las distintas ramas del tronco común indo‑europeo.

Podemos establecer que los últimos reflejos en estado puro de tal mito terminan con Federico I Barbarroja y, ya en una dimensión esotérica, con la marcha de los Rosacruces de Europa al inicio de la Guerra de los Treinta Años. Pero el mito, ha reaparecido insistentemente en la edad moderna e incluso contemporánea, mostrando la fuerza de su arraigo en la mentalidad indo‑europea.



EL GRAN MONARCA Y EL REY DEL MUNDO

Dos autores de singular personalidad han recuperado tradiciones relativas a este mito. De una parte Nostradamus en sus célebres "centurias" alude al "gran monarca", mientras que René Guenon, consagra uno de sus ensayos más esmerados al tema del "rey del mundo".

Nostradamus en una cuarteta de sus famosas "Centurias" se hace eco de tradiciones más antiguas sobre el "gran monarca" y las incorpora a sus profecías, donde el "gran príncipe" es llamado el "gran monarca". Su advenimiento se producirá después de una guerra de 27 años, que empezará en 1999, único año que se menciona con todos sus números y de forma explícita en las profecías de Nostradamus.

Esta leyenda tiene su origen en las décadas inmediatamente anteriores al año 1000, se trata pues, de un mito milenarista, de una promesa de renovación. Los primeros rastros de tal tema se encuentran en los escritos del abad Adson de Montier‑en‑Der (muerto en el 992). Pero Adson recoje fuentes anteriores, una de ellas el testimonio escrito de Isidoro de Sevilla (siglo VII) y otra, incluso anterior, debida a Cesario de Arles (siglo VI).

Es evidente que profecías de este tipo ganan fuerza justo en momentos de crisis y devastación. En el período posterior a las invasiones bárbaras, cuando los movimientos migratorios remiten, cobra fuerza la añoranza y el recuerdo del Imperio Romano, incluso entre los mismos pueblos germánicos invasores, la idea de que Roma representaba el Orden gana fuerza y se produce un sincretismo entre los mitos nórdico‑germánicos, aun con fuerza en esas razas, y los temas propios de la romanidad.

Esa añoranza del Imperio Romano se traduce en la aspiración a renovar el Imperio. Cuando Clovis (Crodoveo) es entronizado rey de los francos en el 496, recibe del Emperador de Oriente, la dignidad de Patricio y de César y, por este acto se considera renovado y regenerado el antiguo Imperio Romano. En siglos siguientes, a partir de Carlomagno y de los Hohenstaufen, la fórmula de consagración será calcada de la entronización de los Césares de Roma.

Pero la baja edad media supone una sucesión trepidante de convulsiones que crean en las poblaciones la sensación de que un ciclo está a punto de terminar. Los grandes príncipes son pocos y sus reinados breves, su recuerdo histórico se va diluyendo y entran vertiginosamente en el campo de la leyenda. Es en esa situación cuando se suceden las profecías, todas interpretando el mismo deseo subconsciente: un gran príncipe ‑el gran monarca‑ reunirá a todos los pueblos de Occidente para librar la última batalla contra las fuerzas del anticristo. Aquí podemos ver cristianizado el tema de la "orda salvaje" de Odín y de sus guerreros que esperan en el Walhalla la hora de la batalla contra las fuerzas del mal.

Ahora bien, en el tema del "gran monarca" existe un ápice de nacionalismo galo. El gran monarca nace en Francia, en Blois concretamente, y queda ligado indisolublemente a la corona de ese país; contrariamente, el tema del "rey del mundo" tiene un carácter más universal.



LA UNIVERSALIDAD DEL MITO

A principios de siglo dos relatos traen a Occidente el recuerdo aun vivo del "rey del mundo". Saint Yves d'Alveydre en su "Misión de la India" y Ferdinand Owsendowsky en "Bestias, Hombres y Dioses" hablan, respectivamente de un reino subterráneo, Agartha o Agarthi, al que se refieren tradiciones vivas de Mongolia y la India, transmitidas por monjes budistas, en el que moraría el "rey del mundo", el "chakravarti".

En la tradición budista el "chakravarti" es el "señor de la rueda", o si se quiere "el que hace girar la rueda". Guenon nos dice al respecto: <>. Esa rueda está habitualmente representada con la forma de una svástica, símbolo que ante todo, indica movimiento en torno a un centro inmóvil.

El "rey del mundo" no es un tema exclusivamente budista. La Biblia registra la misteriosa figura de Melkisedec, rey y sacerdote de Salem, señor de Paz y Justicia. Salem, es equivalente al Agartha y Melkisedec el "chakravarti" judeo-cristiano.

El lugar de acceso a ese centro del mundo aparece en distintas tradiciones: son muchas las leyendas de cavernas que dan acceso al centro del mundo, también montañas que tienen la misma función, islas, lugares marcados con monumentos megalíticos (menhires frecuentemente), lugares "Omphalos" (ombligos del mundo como el santuario de Delfos), todos estos puntos tienen como denominador común el constituir "centros espirituales", es decir, lugares en los que se favorece el tránsito entre el mundo físico y el metafísico, entre lo contingente y lo trascendente. Todos estos símbolos facilitan la entrada a otro nivel de la realidad, aquel que se ha hecho invisible para los hombres dada su impiedad o simplemente a causa de la involución cíclica del mundo. Entrado éste en la Edad Oscura (Kali Yuga, Edad del Hierro o Edad del Lobo), lo que antes era visible y accesible se convierte en secreto y oculto. No puede llegarse hasta él sino a través de pruebas iniciáticas y de un ascesis interior: tal es la temática de la conquista del Grial, de las grandes rutas de peregrinación, de temas masónicos como el de la "búsqueda de la palabra perdida", etc.

En esos lugares mora un rey supremo, indiscutible, acaparador del poder espiritual y del temporal, oculto e inaccesible, señor de paz y justicia: el rey del mundo, el rey perdido.



LA RENOVACION DEL MUNDO A TRAVES DEL REY PERDIDO

Existe una interferencia de temas entre los temas del Rey del Mundo y el Gran Monarca de un lado y los del Rey Perdido de otro. Este último es un gran monarca que ha desaparecido misteriosamente y al que sus súbditos se niegan a creer que haya muerto. Las tradiciones indo‑europeas, hablan de reyes que se ocultan en cavernas, o simplemente que desaparecen pero que no han muerto. Pues bien, este es el punto de interferencia entre una y otra tradición.

El tema del "rey perdido" alude a reyes históricos que la crónica ha revestido de contenidos míticos; por el contrario el tema del "rey del mundo" pertenece exclusivamente al úniverso mítico. Cuando un rey histórico no muere sino que desaparece, oculto en una cueva, en una montaña o en una isla, es que ha pasado al dominio del Rey del Mundo, ha establecido contacto con él y ha tenido acceso a ese reino latente que está oculto por culpa de la degeneración del mundo. En todas las tradiciones el "rey perdido", al desaparecer y entrar en contacto con el "rey del mundo", legitima su poder y alcanza un rango divino.

Ahora bien, esa situación no durará siempre. Finalizado el ciclo, la espada vengadora del "rey perdido" se manifestará de nuevo y, gracias al poder de su brazo, el mundo quedará renovado, habitualmente tras una gran batalla.

En el Tíbet solo los monjes budistas que han alcanzado un más alto grado de perfección, tienen acceso al reino oculto de Shambala, del cual el Dalai Lama es su delegado y embajador. Allí reside Gesar de Ling, rey histórico que vivió aproximadamente en el siglo XI y gobernó el Tíbet. Las leyendas locales afirman que Gesar no ha muerto sino que retornará de Shambala al mando de un ejército, para someter a las fuerzas del mal y renovar el mundo agotado y caduco.



ARTURO Y FEDERICO BARBARROJA EN LAS LEYENDAS MEDIEVALES

En la Edad Media europea, mientras tanto, aparece una leyenda que fue considerada como verdad histórica, la del Preste Juan, el Rey Pescador. En Oriente, en un lugar impreciso entre Abisinia e India, existía un reino inmenso gobernado por un avatar de Malkisedec, el Rey Pescador. En su castillo se alojó Perceval en el curso de su conquista del Grial y fue allí donde vió la preciada copa y donde le fueron formuladas las preguntas fatídicas que Perceval en ese momento no supo contestar. Robert de Boron llega a calificar a Perceval de sobrino del Rey Pescador.

En el terreno de la historia se sabe que el Emperador Federico I recibió tres regalos del Preste Juan, (un abrigo de piel de salamandra, que le permitía atravesar las llamas, un anillo de oro y un frasco de agua viva) que suponían un reconocimiento de la dignidad imperial de Federico I por parte del "Rey del Mundo". Así pues, el Rey del Mundo es aquel rey superior a los demás reyes y que los legitima para su misión.

En diversas ocasiones, monarcas europeos organizaron expediciones para establecer el contacto con el mítico reino del Preste Juan, que invariablemente se perdieron y jamás regresaron. Pero el tema subsistió en las leyendas del Grial.

Arturo, despues de la batalla contra las fuerzas del mal representadas por Mordred, se retira a la isla de Avalon. De Carlomagno se dirá lo mismo: que no está muerto, sino que, aguarda el tiempo en que sus súbditos vuelvan a necesitarlo. Federico I y su hijo Federio II, alcanzarán el mismo rasgo legendario, morando en el interior de montañas como el Odenberg o el Kyffhäuser, volverán cuando se produzca la irrupción de los pueblos de Gog y Magog, aquellos que Alejandro Magno ‑otro rey perdido‑ encerró con una muralla de hierro.

Es también en el período medieval en el que se establece la festividad de los Reyes Magos, personajes misteriosos que siguen a la estrella que marca el lugar de nacimiento de Cristo. Su triple imagen es un desdoblamiento de la figura de Melquisedec. Si en el rey de Salem está concentrado la triple función de "Señor de Justicia", "Sacerdote de justicia" y "Rey de Justicia", en los Reyes Magos, esta función está separada e individualizada en cada uno de ellos.



EL MITO DEL REY PERDIDO EN LA PENINSULA IBERICA

Sobre el suelo de la península ibérica florecieron también leyendas del mismo estilo. Jamás se encontró el cadáver de Roderic o Don Rodrigo, último rey godo; su recuerdo y el de la monarquía legítima animó a su portaespadas, Don Pelayo a iniciar la reconquista en su nombre nombre.

Más tarde, floreció el mito de Otger Khatalon, héreo epónimo de Cataluña; oriundo de Baviera, empuñaba como el Hércules mítico una pesada maza; liberó el valle de Arán y el valle de Aneu del dominio musulmán; una vez cumplida su obra desapareció, no está muerto, solo oculto, y solo volverá cuando se produzca una nueva crisis desintegradora.

Alfonso el Batallador y Don Sebastián de Portugal, desaparecido tras la batalla de Alcazalquivir, dejaron tras de sí un álito de misterio; años después todavía se creía que seguían vivos e incluso algunos impostores pretendieron usurpar su personalidad.



LAS ULTIMAS MANIFESTACIONES DEL MITO

A mediados del siglo XIX aun debía manifestarse el tema del rey perdido en Francia. La historiografía oficial no ha logrado desenmarañar el destino del Delfín de Francia, Luis XVII, desaparecido en la Torre del Temple de París tras el guillotinamiento de sus padres. Ni siquiera se sabe si el relojero holandés Naundorff, que llegó un día a París demostrando conocer con una precisión absoluta la infancia del Delfín, era el hijo de Luis XVI.

Setenta años después, algunos rusos blancos exiliados tras la Revolución Rusa, quisieron creer que la Gran Duquesa Anastasia jamás había muerto, sobrevivió a la masacre de Ekhaterinemburgo y daría continuidad a los Romanov.

Finalmente hubo muchos que se negaron a creer en la muerte de Hitler y durante años estuvo bien extendido la idea que había logrado sobrevivir al cerco ruso de Berlín y huir al Polo en donde prepararía el retorno y la venganza.

La fuerza de la leyenda tuvo aun un postrero coletazo en el "affaire" de Rennes le Chateau, cuyo tema central era la supervivencia de la dinastía merovingia y el hallazgo del "rey perdido" en la figura de un astrólogo y documentalista que decía ser gran maestre de un "Priorato de Sión". Postreros ecos en los que laa credulidad de las masas arraiga en un sustrato de la psicología profunda de los europeos. Y es que, en el fondo, el "rey perdido" no es sino el arquetipo simbólico de una calidad espiritual próxima a la trascendencia, latente en todos los hombres, olvidada, más no perdida.



A MODO DE CONCLUSION

Caudillo derrotado en ocasiones (Dagoberto, Arturo), en otras muerto, pero cuyo cadáver jamás se encuentra (Barbarroja, Rodrigo), o simplemente líder victorioso de un período áureo (Guesar de Ling), consciente de que los ciclos históricos han decaido y que decide pasar a un estado de latencia hasta que se produzca la renovación del tiempo (de la que él mismo será vehículo), este mito es transversal en el espacio y en el tiempo, reiterándose en todo el ciclo indo‑ario.

Siempre la morada de este rey perdido es un símbolo polar: una montaña inaccesible (Barbarroja), una isla dorada (el Avalon de Arturo), el "centro" de la tierra (Cheng Rezing, el "rey del mundo" extremo‑oriental), un castillo dorado (Otger Khatalon). El presentimiento de su existencia anima a otros a emprender gestar y hazañas imposibles (la reconquista de Don Pelayo en relación a Rodrigo, los atentados del "Wherwolff" en relación a Adolfo Hitler, la conquista del Grial por los caballeros del Arturo muerto en Avalon) o estar a la espera de la llamada del monarca para acudir a la última batalla (el tema del Räkna-rok y de la morada del Walhalla, el tema del último avatar de Buda y de Shambala).

Lo que se pretende en otros casos es tomar el mito del rey perdido de una forma utilitarista: sería él y sus presuntos descendientes los que garantizarían la legitimidad dinástica (los descendientes de Dagoberto II en el affaire de Rennes le Chateau, los partidarios de Naundorf en la cuestión del Delfín, los de Juan Orth en la dinastía austro‑húngara, incluso los de la gran duquesa Anastasia en el caso de la herencia de los Romanov, etc.).

El mito del Rey del Mundo, las leyendas de los reyes perdidos y de los monarcas que aguardan la batalla final rodeados de sus fieles guerreros, pertenece a nuestro pasado ancestral. Es una parte de nosotros mismos, algo que debemos conocer y encuadrar en un universo simbólico y mítico, hoy perdido, pero del cual no podemos prescindir si queremos conocer nuestro origen y nuestro destino.

(c) Ernesto Milá - infokrisis - infokrisis@blogia.com -http://infokrisis.blogia.com/

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lundi, 19 janvier 2009

The Legacy of a European Traditionalist: Julius Evola in Perspective

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The Legacy of a European Traditionalist: Julius Evola in Perspective

Guido Stucco

This article is a brief introduction to the life and central ideas of the controversial Italian thinker Julius Evola (1898-1974), one of the leading representatives of the European right and of the “Traditionalist movement” 1 in the twentieth century.  This movement, together with the Theosophical Society, played a leading role in promoting the study of ancient eastern wisdom, esoteric doctrines, and spirituality.  Unlike the Theosophical Society, which championed democratic and egalitarian views,2 an optimistic view of progress, and a belief in spiritual evolution, the Traditionalist movement adopted an elitist and antiegalitarian stance, a pessimistic view of ordinary life and of history, and an uncompromising rejection of the modern world.  The Traditionalist movement began with René Guénon (1886-1951), a French philosopher and mathematician who converted to Islam and moved to Cairo in 1931, following the death of his first wife.  Guénon revived interest in the concept of Tradition, i.e., the teachings and doctrines of ancient civilizations and religions, emphasizing its perennial value over and against the “modern world” and its offshoots: humanistic individualism, relativism, materialism, and scientism. Other important Traditionalists of the past century have included Ananda Coomaraswamy, Frithjof Schuon, and Julius Evola.

This article is addressed, first, to persons who claim to be conservative and of rightist persuasion.  It is my contention that Evola’s political views can help the American right to acquire a greater intellectual relevance and to overcome its provincialism and narrow horizons The criticism most frequently leveled by the European “New Right“ against American conservatives is that the ideological poverty of the American Right lies in its circling its wagons around a conservative agenda, in its inability to see the greater scheme of things.3 By disclosing to his readers the value and worth of the world of Tradition, Evola has shown that to be a rightist entails much more than taking a stance on civic and social issues, such as abortion, capital punishment, a strong military, free enterprise, less taxes, less government, fierce patriotism, and the right to bear arms, but rather assessing more crucial matters involving race, ethnicity, eugenics, immigration, and the nature of the nation-state.

Second, readers with an active interest in spiritual and metaphysical matters may find Evola’s thought insightful and his exposition of ancient esoteric techniques very helpful. Moreover, his views, though at times very discriminatory, have the potential of becoming a catalyst for personal transformation and spiritual growth.

To date, Evola’s work has been subjected to the silent treatment. When Evola is not ignored, he is usually vilified by leftist scholars and intellectuals, who demonize him as a bad teacher, racist, rabid anti-Semite, master mind of right-wing terrorism, fascist guru, or so filthy a racist even to touch him would be repugnant.  The writer Martin Lee, whose knowledge of Evola is of the most superficial sort, called him a “Nazi philosopher” and claimed that “Evola helped compose Italy’s belated racialist laws toward the end of the Fascist rule.4 Others have minimized his contribution altogether.  Walter Laqueur, in his Fascism: Past, Present, Future, did not hesitate to call him a “learned charlatan, an eclecticist, not an innovator,” and suggested “there were elements of pure nonsense also in his later work.”5 Umberto Eco sarcastically nicknamed Evola “Othelma, the Magician.”

The most valuable summaries to date of Evola’s life and work in the English language have been written by Thomas Sheehan and Richard Drake.6  Until either a biography of Evola or his autobiography becomes available to the English-speaking world, these articles remain the best reference sources for his life and work.  Both scholars are well versed in Italian culture, politics, and language.  Although not sympathetic to Evola’s ideas, they were the first to introduce the Italian thinker’s views to the American public.  Unfortunately, their interpretations of Evola’s work are very reductive. Sheehan and Drake succumb to the dominant leftist propaganda according to which Evola is a “bad teacher” because he allegedly supplied ideological justification for a bloody campaign by right wing terrorists in Italy during the 1980s.7  Regrettably, both authors have underestimated Evola’s spissitudo spiritualis as an esotericist and a Traditionalist, and have written about Evola merely as a case study in their fields of competence, i.e., philosophy and history, respectively.8

Despite his many detractors, Evola has enjoyed something of a revival in the past twenty years.  His works have been translated into French, German,9 Spanish, and English, as well as Portuguese, Hungarian, and Russian.  Conferences devoted to the study of this or that aspect of Evola’s thought are mushrooming everywhere in Europe.10 Thus, paraphrasing the title of Edward Albee’s play, we may want to ask: “Who’s afraid of Julius Evola?”  And, most important, why?
Evola’s Life

Julius Evola died of heart failure at his Rome apartment on June 11, 1974, at the age of seventy-six.  Before he died he asked to be seated at his desk in order to face the sun’s light streaming through the open window.  In accordance with his will, his body was cremated and the urn containing his ashes was buried in a crevasse on Monte Rosa, in the Italian Alps.

Evola’s writing career spanned more than half a century.  It is possible to distinguish three periods in his intellectual development.  First came an artistic period (1916-1922), during which he embraced dadaism and futurism, wrote poetry, and painted in the abstract style.  The reader may recall that dadaism was an avant-garde movement founded by Tristan Tzara, characterized by a yearning for absolute freedom and by a revolt against all prevalent logical, ethical, and aesthetic canons.

Evola turned next to the study of philosophy (1923-1927), developing an ingenuous perspective that could be characterized as “transidealistic,” or as a solipsistic development of mainstream idealism. After learning German in order to be able to read the original texts of the main idealist philosophers (Schelling, Fichte, and Hegel), Evola accepted their chief premise, that being is the product of thought. Yet he also attempted to overcome the passivity of the subject toward “reality” typical of idealist philosophy and of its Italian offshoots, represented by Giovanni Gentile and Benedetto Croce, by outlining the path leading to the “Absolute Individual,” to the status enjoyed by one who succeeds in becoming free (ab-solutus) from the conditionings of the empirical world.  During this period Evola wrote Saggi sull’idealismo magico (Essays on magical idealism), Teoria dell’individuo assoluto (Theory of the absolute individual), and Fenomenologia dell’individuo assoluto (Phenomenology of the absolute individual), a massive work in which he employs the values of freedom, will, and power to expound his philosophy of action.  As the Italian philosopher Marcello Veneziani wrote in his doctoral dissertation: “Evola’s absolute I is born out of the ashes of nihilism; with the help of insights derived from magic, theurgy, alchemy and esotericism, it ascends to the highest peaks of knowledge, in the quest for that wisdom that is found on the paths of initiatory doctrines.”11

In the third and final phase of his intellectual formation, Evola became involved in the study of esotericism and occultism (1927-1929).  During this period he cofounded and directed the so-called Ur group, which published monthly monographs devoted to the presentation of esoteric and initiative disciplines and teachings. “Ur” derives from the archaic root of the word “fire”; in German it also means “primordial” or “original.”  In 1955 these monographs were collected and published in three volumes under the title Introduzione alla magia quale scienza dell’Io.12  In the over twenty articles Evola wrote for the Ur group, under the pseudonym “EA” (Ea in ancient Akkadian mythology was the god of water and wisdom) and in the nine articles he wrote for Bylichnis (the name signifies a lamp with two wicks), an Italian Baptist periodical, Evola laid out the spiritual foundations of his world view.

During the 1930s and 1940s Evola wrote for a number of journals and published several books.  During the Fascist era he was somewhat sympathetic to Mussolini and to fascist ideology, but his fierce sense of independence and detachment from human affairs and institutions prevented him from becoming a card-carrying member of the Fascist party.  Because of his belief in the supremacy of ideas over politics and his aristocratic and anti-populist views, which at times conflicted with government policy—as in his opposition to the 1929 Concordat between the Italian state and Vatican and to the “demographic campaign” launched by Mussolini to increase Italy’s population—Evola fell out of favor with influential Fascists, who shut down La Torre (The tower), the biweekly periodical he had founded, after only ten issues (February-June 1930).13

Evola devoted four books to the subject of race, criticizing National Socialist biological racism and developing a doctrine of race on the basis of the teachings of Tradition: Il mito del sangue (The myth of blood); Sintesi di una dottrina della razza (Synthesis of a racial doctrine); Tre aspetti del problema ebraico (Three aspects of the Jewish question); Elementi di una educazione razziale (Elements of a racial education).  In these books the author outlined his tripartite anthropology of body, soul, and spirit.  The spirit is the principle that determines one’s attitude toward the sacred, destiny, life and death.  Thus, according to Evola, the cultivation of the “spiritual race” should take precedence over the selection of the somatic race, which is determined by the laws of genetics and with which the Nazis were obsessed.  Evola’s antimaterialistic and non-biological racial views won Mussolini’s enthusiastic endorsement.  The Nazis, for their part, were suspicious of and even critical of Evola’s “nebulous” theories, accusing him of watering down the empirical, biological element to promote an abstract, spiritualist, and semi-Catholic view of race.

Before and during World War II, Evola traveled and lectured in several European countries, practicing mountain climbing as a spiritual exercise in his spare time. After Mussolini was freed from his Italian captors in a daring German raid led by SS-Hauptsturmführer Otto Skorzeny, Evola was among a handful of faithful followers who met him at Hitler’s headquarters in Rastenburg, East Prussia, on September 14, 1943.  While sympathetic to the newly formed Fascist government in the north of Italy, which continued to fight on the Germans‘ side against the Allies, Evola rejected its republican and socialist agenda, its populist style, and its antimonarchical sentiments.

When the Allies entered Rome in June 1944, their secret services attempted to arrest Evola, who was living there at the time.  As his elderly mother stalled the MPs, Evola slipped out of the door undetected, and made his way to northern Italy, and then to Austria.  While in Vienna, he began to study secret archives confiscated from various European Masonic lodges by the Germans.

One day in 1945, as Evola was walking the deserted streets of the Austrian capital during a Soviet air attack, a bomb exploded a few yards away from him. The blast threw him against a wooden plank.  Evola fell on his back, and awoke in the hospital.  He had suffered a compression of the bone marrow, paralyzing him from the waist down.  Common sense tells one that walking a city’s deserted streets during aerial bombardments is madness, if not suicide.  But Evola was used to courting danger.  Or, as he once put it, to follow “the norm of not avoiding dangers, but on the contrary, to seek them out, [i]s an implicit way of questioning fate.”14 That is not to say that he believed in “blind” fate.  As he once wrote:
There is no question that one is born with certain tendencies, vocations and pre-dispositions, which at times are very obvious and specific, though at other times are hidden and likely to emerge only in particular circumstances or trials. We all have a margin of freedom in regard to this innate, differentiated element. 15

Evola was determined to question his fate, especially at a time when an entire era was coming to an end.16 But what he had anticipated during the air raid was either death or the attainment of a new perspective on life, not paralysis. He struggled for a long time with that particular outcome, trying to make sense of his “karma”:
Remembering why I had willed it [i.e., the paralysis] and to understand its deeper meaning was to me the only thing that ultimately mattered, something far more important than to “recover,“ to which I never really attributed much importance anyway.17

Evola had ventured outdoors during the air raid in order to test his fate, for he firmly believed in the Traditional, classical doctrine that all the major events that occur in our lives are not purely casual or the outcome of our efforts, but rather the deliberate result of a prenatal choice, something that has been willed by “us” before we were born.

Three years prior to his paralysis, Evola wrote:
Life here on earth cannot be viewed as a coincidence. Moreover, it should not be regarded as something we can either accept or reject at will, nor as a reality that imposes itself on us, before which we can only remain passive, or display an attitude of obtuse resignation. Rather, what arises in some people is the sensation that earthly life is something to which, prior to our becoming terrestrial beings, we have committed ourselves, both as an adventure and as a mission or a chosen task, undertaking a whole set of problematic and tragic elements as well.18

There followed a five-year period of inactivity.  First, Evola spent a year and a half in a Vienna hospital. In 1948, thanks to the intervention of a friend with the International Red Cross, he was sent back to Italy.  He stayed in a hospital in Bologna for at least another year, where he underwent an unsuccessful laminectomy (a surgical procedure in which part of a vertebra is removed in order to relieve pressure on the nerves of the spinal cord).  Evola returned to his Roman residence in 1949, where he lived as an invalid for the next twenty-five years.

While in Bologna, Evola was visited by his friend Clemente Rebora, a poet who became a Christian, and then a Catholic priest in the order of the Rosminian Fathers. After reading about their friendship in one of Evola’s works, in 1997 I visited the headquarters of the order and asked to talk to the person in charge of Rebora’s archives, in hopes of discovering a previously unknown correspondence between them.  No correspondence surfaced, but the priest in charge of the archive was kind enough to give me a copy of a couple of letters Rebora wrote to a friend concerning Evola. The following summary of those letters is revealing of Evola’s view of religion, and of Christianity in particular.19

In 1949 a fellow priest, Goffredo Pistoni, solicited Rebora to visit Evola.  Rebora asked permission of his provincial superior, and upon receiving it traveled from Rovereto to Evola's hospital in Bologna.  Rebora was animated by the desire to see Evola embrace the Christian faith and intended to be a good witness of the gospel.  In a letter to Pistoni, Rebora asked for his assistance so that he would not spoil the “most merciful ways of Infinite Love, and, if [my visit was to be] unhelpful, at least not [turn out to be] harmful.” On March 20, 1949, Rebora wrote to his friend Pistoni on the letterhead of the Salesian Institute of Bologna:
I have just returned from our Evola: we talked at great length and left each other in a brotherly mood, though I did not detect any visible change on his part which after all I could not expect. I have felt him to be like one yearning to “join the rest of the army,” as he said himself, waiting to see what will happen to him. . . .  I have sensed in him a thirst for the absolute, which nevertheless eludes Him who said:  “Let anyone who is thirsty come to me and drink.”20

Rebora’s frustration with Evola’s unwillingness to abandon his views and embrace the Christian faith is evident in the comment with which he closes the first half of his letter:
Let us pray that his previous books, which he is about to reprint, and a few new titles that will be published soon, may not chain him down, considering the success they have, and may not damage people’s souls, leading them astray in the direction of a false spirituality, as they “follow false images of the Good.” [Probably a quote from Dante’s Divine Comedy. —G.S.]

Rebora concluded his letter on May 12, 1949, adding:
Having returned to headquarters I am finally concluding this letter by telling you that a supernatural tenderness is growing in my heart for him. He [Evola] told me about an inner event that occurred to him during the bombing of Vienna, which, he added, is still mysterious to him, as he undergoes this present trial. On the contrary, I trust I am able to detect the providential and decisive meaning of this event for his soul.

Rebora wrote again to Evola, asking him if he was willing to travel to Lourdes on a special train on which Rebora served as a spiritual director.  Evola politely refused and the contact between the two eventually ended.  Evola never converted to Christianity. In a 1935 letter written to a friend of his, Girolamo Comi, another poet who had become a Christian, Evola claimed:
As far as I am concerned, in regard to the “conversion” that really matters, and not that which is based on feelings or on a religious faith, I have been all right since thirteen years ago [i.e., 1922, the transition year between the artistic and philosophical periods].21

René Guénon wrote to the convalescent Evola22 suggesting that the latter had been the victim of a curse or magical spell cast by some powerful enemy.  Evola replied that he considered that unlikely, for the circumstances to be summoned (e.g., the exact moment of the bomb’s landing, the place where Evola happened to be at that moment), would have required too powerful a spell.  Mircea Eliade, the renowned historian of religion, who corresponded with Evola throughout his life, once remarked to one of his own students: “Evola was wounded in the third chakra—and don’t you find that significant?”23 Since the corresponding affective forces of the third chakra are anger, violence, and pride, one may wonder whether Eliade meant that the wound sustained by Evola could have had a purifying effect on the Italian thinker, or whether it was the consequence of his hubris.  In any event, Evola rejected the idea that his paralysis was a sort of “punishment” for his “promethean” efforts in the spiritual domain. For the rest of his life he endured his condition with admirable stoicism, in rigorous coherence with his beliefs.24

For the next two decades Evola received visitors, friends, and young people who regarded themselves his disciples. According to Gianfranco de Turris, who met him for the first time in 1967, one could sense that he was a “person of high caliber,” though he did not show off or assume snobbish attitudes.  Evola would wear a monocle and rest his cheek on a clenched fist, observing his visitor with curiosity. He did not like the idea of having “disciples,” and jokingly referred to his admirers as “Evolomani” (“Evola maniacs”). In not seeking to recruit followers, he was probably mindful of Buddha’s injunction to proclaim the truth without attempting to persuade or dissuade: “One should know approval and one should know disapproval, and having known approval, having known disapproval, one should neither approve nor disapprove, one should simply teach dhamma.”25


Central Themes in Evola’s Thought

In Evola’s literary production it is possible to single out three major themes, which are strictly interwoven and mutually dependent.  These themes represent three facets of his philosophy of action.  I have designated these themes with terms borrowed from ancient Greek. The first theme is xeniteia, a word that refers to the condition of living abroad, or of being absent from one’s homeland.  In Evola’s works one can easily detect a sense of alienation, of not belonging to what he called the “modern world.”  According to ancient peoples, xeniteia was not an enviable condition.  To live surrounded by barbarous people and customs, away from one’s polis, when not the result of a personal choice was often the result of a judicial sentence.  We may recall that exile was often meted out to undesirable elements of an ancient society, e.g., the short-lived practice of ostracism in ancient Athens; the fate that befell many ancient Romans, including the Stoic philosopher Seneca; the deportation of entire families or populations, etc.

Throughout his life, Evola never really “fit in.” Whether during his artistic, philosophical, or esoteric phase, he always felt like a straggler, seeking to link up with “the rest of the ‘army.’”  The modern world he denounced in his masterpiece, Revolt against the Modern World, took its revenge on him: at the end of the war he was surrounded by a world of ruins, isolated, avoided, and reviled.  Yet he managed to retain a composed, dignified attitude and to continue in his self-appointed task of night-watchman.

The second theme is apoliteia, or abstention from active participation in the construction of the human polis.  Evola’s recommendation was that while living in exile from the world of Tradition and from the Golden Age, one should avoid the encroaching embrace of the multitudes and refrain from active participation in ordinary human affairs.  Apoliteia, according to Evola, refers essentially to an inner attitude of indifference and detachment, but it does not necessarily entail a practical abstention from politics, as long as one engages in it with a completely detached attitude:  “Apoliteia is the inner, irrevocable distance from this society and its ‘values’: it consists in not accepting being bound to society by any spiritual or moral bond.”26 This attitude is to be commended because, according to Evola, in this day and age there are no ideas, causes, and goals worthy of one’s commitment.

Finally, the third theme is autarkeia, or self-sufficiency.  The quest for spiritual independence led Evola far away from the busy crossroads of human interaction, in order to explore and expound paths of perfection and of asceticism.  He became a student of ancient esoteric and occult teachings on “liberation,” and published his findings in several books and articles.


Xeniteia


The following words, spoken by the Benevolent Spirit to the Destructive Spirit in the Yasna, a Zoroastrian collection of hymns and prayers, may serve to characterize Evola’s attitude toward the modern world: “Neither our thoughts, nor teachings, nor intentions, neither our preferences nor words, neither our actions nor conceptions nor our souls are in accord.”27 Throughout his entire life Evola lived in a consistent and coherent fashion that could be simplistically dismissed as intellectual snobbism or even misanthropy. But the reasons for Evola’s rejection of the socio-political order in which lived must be sought elsewhere, namely in a well-articulated Weltanschauung, or worldview.

To be sure, Evola’s sense of estrangement from the society in which he lived was reciprocated. Anyone who refuses to recognize the legitimacy of  “the System,” or to participate in the life of a community which he does not recognize as his own, professing instead a higher allegiance to and citizenship in another land, world, or ideology, is bound to live like a metic in ancient Greece, surrounded by suspicion and hostility.28  In order to understand the reasons for Evola’s uncompromising attitude, we need first to define the concepts of “Tradition” and “modern world” as employed by Evola in his works.

Generally speaking, the term tradition can be understood in several ways: (1) as an archetypal myth (some members of the political Right in Italy have rejected this view as an “incapacitating myth”); (2) as the way of life of a particular age, e.g., the Middle Ages, feudal Japan, the Roman Empire; (3) as the sum of three principles: “God, Country, Family”; (4) as anamnesis, or historical memory in general; and (5) as a body of religious teachings to be preserved and transmitted to future generations.  Evola understood tradition mainly as an archetypal myth, that is, as the presence of the Absolute in specific historical and political forms.  Evola’s Absolute is not a religious principle or a noumenon, much less the God of theism, but rather a mysterious domain, or dunamis, power.  Evola’s Tradition is characterized by “Being” and stability, while the modern world is characterized by “Becoming.”  In the world of tradition stable socio-political institutions were in place.  The world of Tradition, according to Evola, was exemplified by the ancient Roman, Greek, Indian, Chinese, and Japanese civilizations.  These civilizations upheld a strict caste system; they were ruled by warrior nobilities and waged wars to expand the boundaries of their imperiums.  In Evola’s words:
The traditional world knew divine kingship.  It knew the bridge between the two worlds, namely initiation.  It knew the two great ways of approach to the transcendent, namely heroic action and contemplation.  It knew the mediation, namely rites and faithfulness.  It knew the social foundation, namely the traditional law and the caste system. And it knew the political earthly symbol, namely the empire.29

Evola claims that the traditional world’s underlying belief was the “invisible”:
It held that mere physical existence, or “living,” is meaningless unless it approximates the higher world or that which is “more than life,” and unless one’s highest ambition consists in participating in hyperkosmia and in obtaining an active and final liberation from the bond represented by the human condition.30

Evola upheld a cyclical view of history, a philosophical and religious view with a rich cultural heritage.  Though one may reject it, this view deserves as much respect as the linear view of history upheld by theism, to which I subscribe, or as the progressive view championed by Engels’ “scientific materialism,” or as the hopeful and optimistic view typical of various New Age movements, according to which the universe is undergoing a constant and irreversible spiritual evolution.  According to the cyclical view of history espoused by Hinduism, which Evola adopted and modified to fit his views, we are living in the fourth age of a complete cycle, the so-called Kali-yuga, an era characterized by decadence and disruption. According to Evola, the most remarkable phases of this “Yuga” (era) included the emergence of pre-Socratic philosophy (characterized by rejection of myth and by overemphasis on reason); the birth of Christianity; the Renaissance; Humanism; the Protestant Reformation; the Enlightenment; the French Revolution; the European revolutions of 1848; the advent of the Industrial Revolution; and Bolshevism.  Thus, the “modern world” for Evola did not begin in the 1600s, but rather in the fourth century B.C.


Evola and Eliade

Evola’s rejection of the modern world can be contrasted with its acceptance, promoted by Mircea Eliade (1907-1986), the renowned historian of religion whom Evola met in person several times, and with whom he corresponded until his death in 1974.  The two men met for the first time in 1937.  By that time, Eliade had compiled an impressive academic record that included a bachelor’s degree in philosophy from the University of Bucharest and an M.A. and a Ph.D. in Sanskrit and Indian philosophy from the University of Calcutta.  Evola was already an accomplished writer and had published some of his most important works, such as The Hermetic Tradition (1931), Revolt against the Modern World (1934), and The Mystery of the Grail (1937).31

Eliade had read Evola’s early philosophical works during the 1920s and “admired his intelligence and, even more, the density and clarity of his prose.”32 An intellectual friendship developed between the young Romanian scholar and the Italian philosopher, who was nine years Eliade’s senior.  Their common interest in yoga led Evola to write L’uomo e la potenza (Man as power) in 1926 (revised in 1949 with the new title The Yoga of Power 33) and Eliade to write the acclaimed scholarly work Yoga: Immortality and Freedom (1933).  As Eliade recalls in his autobiographical journals:
I received letters from him when I was in Calcutta (1928-31) in which he instantly begged me not to speak to him of yoga, or of “magical powers” except to report precise facts to which I had personally been a witness.  In India I also received several publications from him, but I only remember a few issues of the journal Krur.34

Evola and Eliade’s first meeting was in Romania, in conjunction with a luncheon hosted by the philosopher Nae Ionescu. Evola was traveling through Europe at the time, establishing contacts, and giving lectures “in the attempt to coordinate those elements who could represent, to some degree, the [T]raditional thought on the political-cultural plane.”35 Eliade recalled the admiration that Evola expressed for Corneliu Codreanu (1899-1938), the founder of the Romanian nationalist and Christian movement known as the “Iron Guard.” Evola and Codreanu had met the morning of the luncheon.  Codreanu told Evola of the effects that incarceration had had on his soul, and of his discovery of contemplation in the solitude and silence of his prison cell.  In his autobiography Evola described Codreanu as “one of the worthiest and most spiritually oriented persons I ever met in the nationalist movements of that period.36 Eliade wrote that at the luncheon “Evola was still dazzled by him [Codreanu].  I vaguely remember the remarks he made then on the disappearance of contemplative disciplines in the political battle of the West.”37 But the two scholars’ focus was different indeed.  As Eliade wrote in his journal:
One day I received a rather bitter letter from him, in which he reproached me for never citing him, no more than did Guénon. I answered him as best as I could, and I must one day give reasons and explanations that that response called for.  My argument could not have been simpler.  The books I write are intended for today’s audience, and not for initiates.  Unlike Guénon and his emulators, I believe I have nothing to write that would be intended especially for them.38

I must conclude from Eliade’s remarks that he did not like, share, or care for Evola’s esoteric views and leanings.  I believe there are three reasons for Eliade’s aversion.  First, Evola, like all traditionalists, presumed the existence of a higher, solar, royal, and esoteric primordial tradition, and devoted his life to describing, studying, and celebrating it in its many forms and varieties.  He also set this tradition above and against what he dubbed “telluric” modern popular cultures and civilizations (such as Romania’s, to which Eliade belonged). In Revolt against the Modern World one can read many instances of this juxtaposition.

Eliade, for his part, rejected any emphasis on esotericism, because he thought it had a reductive effect on the human spirit.  Eliade claimed that to limit the value of European spiritual creations exclusively to their “esoteric meanings” repeated in reverse the reductionism of the materialistic approach adopted by Marx and Freud.  Nor did he believe in the existence of a primordial tradition: “I was suspicious of its artificial, ahistorical character,” he wrote.39 Second, Eliade rejected the negative or pessimistic view of the world and the human condition that characterized Guénon’s and Evola’s thought.  Unlike Evola, who believed in the ongoing “putrefaction” of contemporary Western culture, Eliade claimed:
[T]o the extent that I . . . believe in the creativity of the human spirit, I cannot despair: culture, even in a crepuscular era, is the only means of conveying certain values and of transmitting a certain spiritual message. In a new Noah’s Ark, by means of which the spiritual creation of the West could be saved, it is not enough for René Guénon’s L’esotérisme de Dante to be included; there must be also the poetic, historic, and philosophical understanding of The Divine Comedy.40

Finally, the socio-cultural milieu that Eliade celebrated was very different from the one favored by Evola.  As India regained its independence, Eliade came to believe that Asia was about to re-enter history and world politics and that his own people, the Romanians, “could fulfill a definite role in the coming dialogue between the [] West, Asia and cultures of the archaic folk type.”41 He celebrated the peasant roots of Romanian culture as they promoted universalism and pluralism, rather than nationalism and provincialism.  Eliade wrote:
It seemed to me that I was beginning to discern elements of unity in all peasant cultures, from China and South-East Asia to the Mediterranean and Portugal. I was finding everywhere what I later called “cosmic religiosity”: that is, the leading role played by symbols and images, the religious respect for earth and life, the belief that the sacred is manifested directly through the mystery of fecundity and cosmic repetition. . . .42

These conclusions could not have been more diametrically opposed to Evola’s views, especially as he formulated them in Revolt against the Modern World.  According to the latter’s doctrine, cosmic religiosity is an inferior and corrupt form of spirituality, or, as he called it, a “lunar spirituality” (the moon, unlike the sun, is not a source of light, and merely reflects the latter’s light, as “lunar spirituality” is contingent upon God, the All, or upon any other metaphysical version of the Absolute) characterized by mystical abandonment.

In his yet untranslated autobiography, Il cammino del cinabro (“The cinnabar’s journey”), Evola describes his spiritual and intellectual journey through alien landscapes: religious (Christianity, theism), philosophical (idealism, nihilism, realism), and political (democracy, Fascism, post-war Italy).  For readers who are not familiar with Hermeticism, we may recall that cinnabar is a red metal representing rubedo, or redness, which is the third and final stage of one’s inner transformation.  Evola explains at the beginning of his autobiography: “My natural sense of detachment from what is human in regard to many things that, especially in the affective domain, are usually regarded as `normal,‘ was manifested in me at a very tender age.”43


Autarkeia

Various religions and philosophies regard the human condition as highly problematic, likening it to a disease and setting forth a cure.  This disease is characterized by many features, including a certain spiritual “heaviness,” or gravitational pull, drawing us “downwards.”  Humans are prisoners of meaningless daily routines; of pernicious habits developed over years, e.g., drinking, smoking, gambling, workaholism, and sexual addictions, in response to external pressures; of an intellectual and spiritual laziness that prevents us from developing our powers and becoming living, vibrant beings; and of inconstancy, as is often painfully obvious from our ever-renewed “New Year’s resolutions.”  How often, when we commit ourselves to practice something on a daily basis over a period of time, does the day soon come that we forget, find an excuse to abandon our commitment, or simply quit!  This is not merely inconsistency or a lack of perseverance on our part: it is a symptom of our inability to master ourselves and our lives.

Moreover, we are by nature unable to keep our minds focused on any object of meditation. We are easily distracted and bored.  We spend our days talking about unimportant, meaningless details. Our conversations, for the most part, are not real dialogues, but rather exchanges of monologues.

We are busy at jobs we do not care about, and earning a living is our utmost concern. We feel bored, empty, and sexually frustrated by our own or our partners’ inability to deliver peak performance.  We want more: more money, more leisure, more “toys,” and more fulfillment, of which we get too little, too seldom.  We succumb to all sorts of indulgences and petty pleasures to soothe our dull and wounded consciousness.  And yet all these things are merely symptoms of the real problem that besets the human condition. Our real problem is not that we are deficient beings, but that we don’t know how to be, and don’t desire to be, different.  We embrace everyday life and call it “the real thing,” slowly but inexorably suffocating the yearning for transcendence buried deep within us.  In the end this proves to be our real undoing; we are not unlike smokers who, after being diagnosed with emphysema, keep on smoking to the bitter end.  The problem is that we deny there is a problem.  We are like a psychotic person who denies he is mentally ill, or like a sociopath who after committing a heinous crime insists that he really has a conscience, producing tears and remorse to prove it.

In the past, movements like Pythagoreanism, Gnosticism, Manichaeism, Mandaeanism, and medieval Catharism claimed that the problem beleaguering human beings is the body itself, or physical matter, to be precise.  These movements held that the soul or spirit is kept prisoner inside the cage of matter, waiting to be freed. (Evola rejected this interpretation as unsophisticated and as the product of a feminine and telluric worldview.)  Buddhism declared a “polluted” or “unenlightened mind” to be the real problem, developing in the course of the centuries a real science of the mind in an attempt to cure the disease at the roots.  Christian theism identified the root of human suffering and evil in sin.  As a remedy, Catholicism and Eastern Orthodoxy propose incorporation into the church through baptism and active participation in her liturgical life.  Many Protestants advocate, instead, a living and personal relationship with Jesus Christ as one’s Lord and Savior, to be cultivated through prayer, Bible studies, and church fellowship.

Evola regarded acceptance of the human condition as the real problem, and autarchy, or self-sufficiency, as the cure.  According to the ancient Cynics, autarkeia is the ability to lead a satisfactory, full life with the least amount of material goods and pleasures.  An autarchic being (the ideal man) is a person who is able to grow spiritually even in the absence of what others consider the necessities of life (e.g., health, wealth, and good human relationships).  The Stoics equated autarchy with virtue (arête, which they regarded as the only thing needed for happiness.  Even the Epicureans, led though they were by a quest for pleasure, regarded autarkeia as a “great good, not with the aim of always getting by with little, but that if much is lacking, we may be satisfied with little.”44

Evola endorsed the notion of autarkeia out of his rejection of the human condition and of the ordinary life that stems from it.  Like Nietzsche before him, Evola claimed that the human condition and everyday life should not be embraced, but overcome: our worth lies in being a “project” (in Latin projectum, “to be cast forward").  Thus, what truly matters for human beings is not who we are but what we can and should become.  Humans are enlightened or unenlightened according to whether or not they grasp this basic metaphysical truth.  It was not snobbism that led Evola to conclude that most human beings are “slaves” trapped in samsara like guinea pigs running on a wheel inside their cage.  According to Evola, sharing this state, among those one encounters each day, are not only persons with low paying jobs, but also one’s coworkers, family members, and especially persons without a formal education.  This is of course difficult to acknowledge.  Evola was consumed by a yearning for what the Germans call mehr als leben (“more than living”), which is unavoidably frustrated by the contingencies of human existence.  We read in a collection of Evola’s essays on the subject of mountain climbing:
At certain existential peaks, just as heat is transformed into light, life becomes free of itself; not in the sense of the death of individuality or some kind of mystical shipwreck, but in the sense of a transcendent affirmation of life, in which anxiety, endless craving, yearning and worrying, the quest for religious faith, human supports and goals, all give way to a dominating state of calm. There is something greater than life, within life itself, and not outside of it. This heroic experience is valuable and good in itself, whereas ordinary life is only driven by interests, external things and human conventions.45

According to Evola the human condition cannot and should not be embraced, but rather overcome. The cure does not consist in more money, more education, or moral uprightness, but in a radical and consistent commitment to pursue spiritual liberation.  The past offers several examples of the distinction between an “ordinary” life and a “differentiated” life.  The ancient Greeks referred to ordinary, material, physical life by the term bios, and used the term zoe to describe spiritual life. Buddhist and Hindu scriptures drew a distinction between samsara, or the life of needs, cravings, passions, and desires, and nirvana, a state, condition or extinction of suffering (dukka).  Christian scriptures distinguish between the “life according to the flesh” and the “life according to the Spirit.”  The Stoics distinguish between a “life according to nature” and a life dominated by passions.   Heidegger distinguished between authentic and inauthentic life.

Kierkegaard talked about the aesthetic life and the ethical life.  Zoroastrians distinguished between Good and Evil.  The Essenes divided mankind into two groups: the followers of the Truth and the followers of the Lie.

The authors who first introduced Evola to the notions of self-sufficiency and of the “absolute individual” (an ideal, unattainable state) were Nietzsche and Carlo Michelstaedter.  The latter was a twenty-three year old Jewish-Italian student who committed suicide in 1910, the day after completing his doctoral dissertation, which was first published in 1913 with the title La persuasione e la retorica (Persuasion and rhetoric).46 In his thesis, Michelstaedter claims that the human condition is dominated by remorse, melancholy, boredom, fear, anger, and suffering.  Man’s actions reveal that he is a passive being.  Because he attributes value to things, man is also distracted by them or by their pursuit.  Thus man seeks outside himself a stable reference point, but fails to find it, remaining the unfortunate prisoner of his illusory individuality.  The two possible ways to live the human condition, according to Michelstaedter, are the way of Persuasion and the way of Rhetoric.  Persuasion is an unachievable goal.  It consists in achieving possession of oneself totally and unconditionally, and in no longer needing anything else.  This amounts to having life in one’s self.  In Michelstaedter’s words:
The way of Persuasion, unlike a bus route, does not have signs that can be read, studied and communicated to others.  However, we all have within ourselves the need to find that; we all must blaze our own trail because each one of us is alone and cannot expect any help from the outside. The way of Persuasion has only this stipulation: do not settle for what has been given you.47

On the contrary, the way of Rhetoric designates the palliatives or substitutes that man adopts in lieu of an authentic Persuasion.  According to Evola, the path of Rhetoric is followed by “those who spurn an actual self-possession, leaning on other things, seeking other people, trusting in others to deliver them, according to a dark necessity and a ceaseless and indefinite yearning.”48  As Nietzsche wrote:
You crowd together with your neighbors and have beautiful words for it.  But I tell you: Your love of your neighbor is your bad love of yourselves. You flee to your neighbor away from yourselves and would like to make a virtue of it: but I see through your selflessness. . . .  I wish rather that you could not endure to be with any kind of neighbor or with your neighbor’s neighbor; then you would have to create your friend and his overflowing heart of yourselves.49

The goal of autarchy appears throughout Evola’s works.  In his quest for this privileged condition, he expounded the paths blazed by various movements in the past, such as Tantrism, Buddhism, Mithraism, and Hermeticism.

In the early 1920s, Decio Calvari, president of the Italian Independent Theosophical League, introduced Evola to the study of Tantrism.  Soon Evola began a correspondence with the learned British orientalist and divulger of Tantrism, Sir John Woodroffe (who also wrote with the pseudonym of “Arthur Avalon”), whose works and translations of Tantric texts he amply utilized.  While René Guénon celebrated Vedanta as the quintessence of Hindu wisdom in his L’homme et son devenir selon le Vedanta (Man and his becoming according to the Vedanta) (1925), upholding the primacy of contemplation or of knowledge over action, Evola adopted a different perspective .  Rejecting the view that spiritual authority is worthier than royal power, Evola wrote L’uomo come potenza (Man as power) in 1925.  In the third revised edition (1949), the title was changed to Lo yoga della potenza (The yoga of power).50  This book represents a link between his philosophical works and the rest of his literary production, which focuses on Traditional concerns.

The thesis of The Yoga of Power is that the spiritual and social conditions that characterize the Kali-yuga greatly decrease the effectiveness of purely intellectual, contemplative, and ritual paths.  In this age of decadence, the only way open to those who seek the “great liberation” is one of resolute action.51  Tantrism defined itself as a system based on practice, in which hatha-yoga and kundalini-yoga constitute the psychological and mental training of the followers of Tantrism in their quest for liberation.  While criticizing an old Western prejudice according to which Oriental spiritualities are characterized by an escapist attitude (as opposed to those of the West, which allegedly promote vitalism, activism, and the will to power), Evola reaffirmed his belief in the primacy of action by outlining the path followed in Tantrism.  Several decades later, a renowned member of the French Academy, Marguerite Yourcenar, paid homage to The Yoga of Power.  She wrote of “the immense benefit that a receptive reader may gain from an exposition such as Evola’s,”52 and concluded that “the study of The Yoga of Power is particularly beneficial in a time in which every form of discipline is naively discredited.”53

But Evola’s interest was not confined to yoga.  In 1943 he wrote The Doctrine of the Awakening, dealing with the teachings of early Buddhism.  He regarded Buddha’s original message as an Aryan ascetic path meant for spiritual “warriors” seeking liberation from the conditioned world.  In this book he emphasized the anti-theistic and anti-monistic insights of Buddha.  Buddha taught that devotion to this or that god or goddess, ritualism, and study of the Vedas were not conducive to enlightenment, nor was experience of the identity of one’s soul with the “cosmic All” named Brahman, since, according to Buddha, both “soul” and “Brahman” are figments of our deluded minds.

In The Doctrine of the Awakening Evola meticulously outlines the four “jhanas,” or meditative stages, that are experienced by a serious practitioner on the path leading to nirvana.  Most of the sources Evola drew from are Italian and German translations of the Sutta Pitaka, that part of the ancient Pali canon of Buddhist scriptures in which Buddha’s discourses are recorded.  While extolling the purity and faithfulness of early Buddhism to Buddha’s message, Evola characterized Mahayana Buddhism as a later deviation and corruption of Buddha’s teachings, though he celebrated Zen54 and the doctrine of emptiness (sunyata) as Mahayana’s greatest achievements.  In The Doctrine of the Awakening Evola extols the figure of the ahrat, one who has attained enlightenment.  Such a person is free from the cycle of rebirth, having successfully overcome samsaric existence.  The ahrat’s achievement, according to Evola, can be compared to that of the jivan-mukti of Tantrism, of the Mithraic initiate, of the Gnostic sage, and of the Taoist “immortal.”

This text was one of Evola’s finest.  Partly as a result of reading it, two British members of the OSS became Buddhist monks.  The first was H. G. Musson, who also translated Evola’s book from Italian into English.  The second was Osbert Moore, who became a distinguished scholar of Pali, translating a number of Buddhist texts into English.  On a personal note, I would like to add that Evola’s Doctrine of Awakening sparked my interest in Buddhism, leading me to read the Sutta Pitaka, to seek the company of Theravada monks, and to practice meditation.

In The Metaphysics of Sex (1958) Evola took issue with three views of human sexuality.  The first is naturalism.  According to naturalism the erotic life is conceived as an extension of animal instincts, or merely as a means to perpetuate the species.  This view has recently been advocated by the anthropologist Desmond Morris, both in his books and in his documentary The Human Animal.  The second view Evola called “bourgeois love”: it is characterized by respectability and sanctified by marriage.  The most important features of this type of sexuality are mutual commitment, love, feelings.  The third view of sex is hedonism.  Following this view, people seek pleasure as an end in itself.  This type of sexuality is hopelessly closed to transcendent possibilities intrinsic to sexual intercourse, and thus not worthy of being pursued.  Evola then went on to explain how sexual intercourse can become a path leading to spiritual achievements.


Apoliteia

In 1988 a passionate champion of free speech and democracy, the journalist and author I. F. Stone, wrote a provocative book entitled The Trial of Socrates.  In his book Stone argued that Socrates, contrary to what Xenophon and Plato claimed in their accounts of the life of their beloved teacher, was not unjustly put to death by a corrupt and evil democratic regime.  According to Stone, Socrates was guilty of several questionable attitudes that eventually brought about his own downfall.

First, Socrates personally refrained from, and discouraged others from pursuing, political involvement, in order to cultivate the “perfection of the soul.”  Stone finds this attitude reprehensible, since in a city all citizens have duties as well as rights.  By failing to live up to his civic responsibilities, Socrates was guilty of “civic bankruptcy,” especially during the dictatorship of the Thirty.  At that time, instead of joining the opposition, Socrates maintained a passive attitude: “The most talkative man in Athens fell silent when his voice was most needed.”55

Next, Socrates idealized Sparta, had aristocratic and pro-monarchical views, and despised Athenian democracy, spending a great deal of time in denigrating the common man.  Finally, Socrates might have been acquitted if only he had not antagonized his jury with his amused condescension and invoked the principle of free speech instead.

Evola resembles Socrates in the attitudes toward politics described by Stone.  Evola too professed “apoliteia.”56 He discouraged people from passionate involvement in politics.  He was never a member of a political party, refraining even from joining the Fascist party during its years in power.  Because of that he was turned down when he tried to enlist in the army at the outbreak of the World War II, although he had volunteered to serve on the front.  He also discouraged participation in the “agoric life.”  The ancient agora, or public square, was the place where free Athenians gathered to discuss politics, strike business deals, and cultivate social relationships. As Buddha said:
Indeed Ananda, it is not possible that a bikkhu [monk] who delights in company, who delights in society will ever enter upon and abide in either the deliverance of the mind that is temporary and delectable or in the deliverance of the mind that is perpetual and unshakeable. But it can be expected that when a bikkhu lives alone, withdrawn from society, he will enter upon and abide in the deliverance of mind that is temporal and delectable or in the deliverance of mind that is perpetual and unshakeable . . . . 57

Like Socrates, Evola celebrated the civic values, the spiritual and political achievements, and the metaphysical worth of ancient monarchies, warrior aristocracies, and traditional, non-democratic civilizations.  He had nothing but contempt for the ignorance of ordinary people, for the rebellious masses, for the insignificant common man.

Finally, like Socrates, Evola never appealed to such democratic values as “human rights,” “freedom of speech,” and “equality,” and was “sentenced” to what the Germans call “death by silence.”  In other words, he was relegated to academic oblivion.

Evola’s rejection of involvement in the socio-political arena must also be attributed to his philosophy of inequality.  Norberto Bobbio, an Italian senator and professor emeritus of the philosophy department of the University of Turin, has written a small book entitled Right and Left: The Significance of a Political Distinction.58 In it Bobbio, a committed leftist intellectual, attempts to identify the key element that differentiates the political Right from the Left (a dyad rendered in the non-ideological American political arena by the dichotomy “conservatives and liberal,” or “mainstream and extremist”).  After discussing several objections to the contemporary relevance of the Right-Left dyad following the decline and fall of the major political ideologies, Bobbio concludes that the juxtaposition of Right and Left is still a legitimate and viable one, though one day it will run its course, like other famous dyads of the past: “patricians and plebeians” in ancient Rome, “Guelphs and Ghibellines” during the Middle Ages, and “Crown and Parliament” in seventeenth century England.

At the end of his book Bobbio suggests that, “the main criterion to distinguish between Right and Left is the different attitude they have toward the ideal of equality.”59

Thus, according to Bobbio, the views of Right and Left on “liberty” and “brotherhood” (the other two values in the French revolutionary trio) are not as discordant as their positions on equality.  Bobbio explains:
We may properly call “egalitarians” those who, while being aware that human beings are both equal and unequal, give more relevance, when judging them and recognizing their rights and duties, to that which makes them equal rather than to what makes them un-equal; and “inegalitarians,” those who, starting from the same premise, give more importance to what makes them unequal rather than to what makes them equal.60

Evola, as a representative of the European Right, may be regarded as one of the leading antiegalitarian philosophers of the twentieth century.  Evola’s arguments transcend the age-old debate between those who claim that class, racial, educational, and gender differences between people are due to society’s structural injustices, and those who, on the other hand, believe that these differences are genetic.  According to Evola there are spiritual and ontological reasons that account for differences in people’s lot in life.  In Evola’s writings the social dichotomy is between initiates and “higher beings” on the one hand, and hoi polloi on the other.

The two works that best express Evola’s apoliteia are Men among Ruins (1953) and Riding the Tiger (1961).  In the former he expounds his views on the “organic” State, lamenting the emerging primacy of economics over politics in post-war Europe and America. Evola wrote this book to supply a point of reference for those who, having survived the war, did not hesitate to regard themselves as “reactionaries” deeply hostile to the emerging subversive intellectual and political forces that were re-shaping Europe:
Again, we can see that the various facets of the contemporary social and political chaos are interrelated and that it is impossible to effectively contrast them other than by returning to the origins.  To go back to the origins means, plain and simple, to reject everything that, in every domain, whether social, political and economic, is connected to the “immortal principles” of 1789 in the guise of libertarian, individualistic and egalitarian thought, and to oppose to it a hierarchical view.  It is only in the context of such a view that the value and freedom of man as a person are not mere words or pretexts for a work of destruction and subversion.61

Evola encourages his readers to remain passive spectators in the ongoing process of Europe’s reconstruction, and to seek their citizenship elsewhere:
The Idea, only the Idea must be our true homeland. It is not being born in the same country, speaking the same language or belonging to the same racial stock that matters; rather, sharing the same Idea must be the factor that unites us and differentiates us from everybody else.62

In Riding the Tiger, Evola outlines intellectual and existential strategies for coping with the modern world without being affected by it.  The title is borrowed from a Chinese saying, and it suggests that a way to prevent a tiger from devouring us is to jump on its back and ride it without being thrown off.  Evola argued that lack of involvement in the political and social construction of the human polis on the part of the “differentiated man” can be accompanied by a sense of sympathy toward those who, in various ways, live on the fringe of society, rejecting its dogmas and conventions.


The “differentiated person” feels like an outsider in this society and feels no moral obligation toward society’s request that he joins what he regards as an absurd system.  Such a person can understand not only those who live outside society’s parameters, but even those who are set against such (a) society, or better, this society.63

This is why, in his 1968 book L’arco e la clava (The bow and the club), Evola expressed some appreciation for the “beat generation” and the hippies, all the while arguing that they lacked a proper sense of transcendence as well as firm points of spiritual reference from which they could launch an effective inner, spiritual “revolt” against society.



Guido Stucco has an M.A. in Systematic Theology at Seaton Hall and a Ph.D. in Historical Theology at St. Louis University. He has translated five of Evola’s books into English.

 

End Notes

1. For a good introduction to this movement and its ideas, William Quinn, The Only Tradition, Albany: State University of New York Press, 1997.

2. The first of the Theosophical Society’s three declared objectives was to promote the brotherhood of all men, regardless of race, creed, nationality, and caste.

3. Tomislav Sunic, Against Democracy and Equality: The European New Right, New York: Peter Lang, 1991; Ian B. Warren’s interview with Alain de Benoist, “The European New Right: Defining and Defending Europe’s Heritage,” The Journal of Historical Review, Vol.13, no. 2, March-April 1994, pp. 28-37; and the special issue “The French New Right,” Telos, Winter 1993-Spring 1994.

4.  Martin Lee, The Beast Reawakens, Boston: Little, Brown, 1997.

5. Walter Laqueur, Fascism: Past, Present, Future, New York: Oxford University Press, 1996, pp. 97-98.  Despite his bad press in the U.S., Evola’s works have been favorably reviewed by Joscelyn Godwin, “Evola: Prophet against Modernity,” Gnosis Magazine, Summer 1996, pp. 64-65; and by Robin Waterfield, “Baron Julius Evola and the Hermetic Tradition,” Gnosis Magazine, Winter 1990, pp. 12-17.

6. The first to write about Evola in this country was Thomas Sheehan, in “Myth and Violence: The Fascism of Julius Evola and Alain de Benoist,” Social Research, Vol. 48, Spring 1981, pp. 45-73.  See also Richard Drake, “Julius Evola and the Ideological Origins of the Radical Right in Contemporary Italy,” in Peter Merkl (ed.), Political Violence and Terror: Motifs and Motivations, Berkeley: University of California Press, 1986, pp. 61-89;  “Julius Evola, Radical Fascism, and the Lateran Accords,” The Catholic Historical Review, Vol. 74, 1988, pp. 403-19; and the chapter “The Children of the Sun,” in The Revolutionary Mystique and Terrorism in Contemporary Italy, Bloomington: Indiana University Press, 1989, pp. 116-134.

7. Philip Rees, in his Biographical Dictionary of the Extreme Right since 1890, New York: Simon & Schuster, 1991, devotes a meager page and a half to Evola, and shamelessly concludes, without adducing a shred of evidence, that “ Evolian-inspired violence result[ed] in the Bologna station bombing of 2 August 1980.” Gianfranco De Turris, president of the Julius Evola Foundation in Rome and one of the leading Evola scholars, suggested that, in Evola’s case, rather than “bad teacher” one ought to talk about “bad pupils.”  See his Elogio e difesa di Julius Evola: il barone e i terroristi, Rome: Edizioni Mediterranee, 1997, in which he debunks the unfounded charge that Evola was responsible either directly or indirectly for acts of terrorism committed in Italy.

8. See for instance Sheehan’s convoluted article “Diventare Dio: Julius Evola and the Metaphysics of Fascism,” Stanford Italian Review, Vol. 6, 1986, pp. 279-92, in which he tries to demonstrate that Nietzsche and Evola mirror each other.  Sheehan should have rather spoken of an overcoming of Nietzsche’s philosophy on the part of Evola. The latter rejected Nietzsche’s notion of “Eternal Recurrence” as “nothing more than a myth”; his vitalism, because closed to transcendence and hopelessly immanentist; his “Will to Power” because: “Power in itself is amorphous and meaningless if it lacks the foundation of a given being, of an inner direction, of an essential unity” (Julius Evola, Cavalcare la tigre [Riding the tiger], Milan: Vanni Scheiwiller, 1971, p. 49); and, finally, Nietzsche’s nihilism, which Evola denounced as a project that had been implemented half-way.

9.  H.T. Hansen, a pseudonym adopted by T. Hakl, is an Austrian scholar who earned a law degree in 1970. He is a partner in the prestigious Swiss publishing house Ansata Verlag and one of the leading Evola scholars in German-speaking countries. Hakl has translated several works by Evola into German and supplied lengthy scholarly introductions to most of them.

10. See for instance the topics of a conference held in France on the occasion of the centenary of his birth: “Julius Evola 1898-1998: Eveil, destin et expériences de terres spirituelles,” on the web site http://perso.wanadoo.fr/collectif.ea/langues/anglais/acteesf.htm. 

11. Marcello Veneziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, Rome: Ciarrapico Editore, 1984, p. 110.

12. This work has been translated into French and German.  My translation of the first volume is scheduled to be published in December 2002 by Inner Traditions, with the title Introduction to Magic: Rituals and Practical Techniques for the Magus.

13. Marco Rossi, a leading Italian authority on Evola, wrote an article on Evola’s alleged antidemocratic anti-Fascism in Storia contemporanea, Vol. 20, 1989, pp. 5-42.

14. Julius Evola, Il cammino del cinabro, Milan: Vanni Scheiwiller, 1972 , p. 162.

15. Julius Evola, Etica aria, Arian ethics, Rome: Europa srl, 1987, p. 28.

16. When Evola and a few friends came to the realization that the war was lost for the Axis, they began to draft plans for the creation of a “Movement for the Rebirth of Italy.” This movement was supposed to organize a right-wing political party capable of stemming the post-war influence of the Left. Nothing came of it, though.

17. Julius Evola, Il Cammino del cinabro, p. 183.

18. Julius Evola, Etica aria, p. 24.

19. In the beginning of his autobiography Evola claimed that reading Nietzsche fostered his opposition to Christianity, a religion which never appealed to him.  He felt theories of sin and redemption, divine love, and grace as “foreign” to his spirit.

20. Rebora was imprecisely quoting from memory a saying by Jesus found in John 7:37.  The exact quote is “Let anyone who is thirsty come to me, and let the one who believes in me drink.” (Revised Standard Version.)

21. Julius Evola, Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi, 1934-1962, Rome: Fondazione Julius Evola, 1987, p. 17. In 1922 Evola was on the brink of suicide.  He had experimented with hallucinogenic drugs and was consumed by an intense desire for extinction.  In a letter dated July 2, 1921, Evola wrote to his friend Tristan Tzara: “I am in such a state of inner exhaustion that even thinking and holding a pen requires an effort which I am not often capable of. I live in a state of atony and of immobile stupor, in which every activity and act of the will freeze. . . . Every action repulses me. I endure these feelings like a disease. Also, I am terrified at the thought of time ahead of me, which I do not know how to utilize. In all things I perceive a process of decomposition, as things collapse inwardly, turning into wind and sand.” Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara, 1919-1923, Rome: Julius Evola Foundation, 1991, p. 40.  Evola was able to overcome this crisis after reading the Italian translation of the Buddhist text Majjhima-Nikayo, the so-called “middle length discourses of the Buddha.” In one of his discourses Buddha taught the importance of detachment from one’s sensory perceptions and feelings, including one’s yearning for personal extinction.

22. For a brief account of their correspondence, see Julius Evola, René Guénon: A Teacher for Modern Times, trans. by Guido Stucco, Edmonds, WA: Holmes Publishing Group, 1994.

23. Joscelyn Godwin, Arktos: The Polar Myth in Science, Symbolism, and Nazi Survival, Grand Rapids, MI: Phanes Press, 1993, p. 61.

24. In two letters to Comi, Evola wrote: “From a spiritual point of view my situation doesn’t mean more to me than a flat tire on my car”; and: “The small matter of my legs’ condition has only put some limitations on some profane activities, while on the intellectual and spiritual planes I am still following the same path and upholding the same views,” Lettere a Comi, pp. 18, 27.

25. The Middle Length Sayings, vol. III, trans. by I.B. Horner, London: Pali Text Society, 1959, p. 278.

26. Julius Evola, Cavalcare la tigre, p. 175.

27. Yuri Stoyanov, The Hidden Tradition in Europe, New York: Penguin, 1994, p. 8.

28. The Latin word hostis means both “guest” and “enemy.” This is revealing of how ancient Romans regarded foreigners in general.

29. Julius Evola, Revolt against the Modern World, Rochester, VT: Inner Traditions, 1995, p. 6.  The first part of the book deals with the concepts noted in the extract cited. The second part of the book deals with the modern world.

30. Ibid.

31. All of these works have been translated and published in English by Inner Traditions.

32. Mircea Eliade, , Exile’s Odyssey, Chicago: University of Chicago Press, 1988, p. 152.

33. Julius Evola, The Yoga of Power, trans. by Guido Stucco, Rochester, VT: Inner Traditions, 1992.

34. Mircea Eliade, Journal III, 1970-78, Chicago: University of Chicago Press, 1989, p. 161.

35. Julius Evola, Il cammino del cinabro, p. 139.

36. Ibid.

37. Eliade, Journal III,1970-78, p. 162.

38. Ibid., pp. 162-63.

39. Mircea Eliade, Exile’s Odyssey, pp. 152.  See also Alain de Benoist and quote him at length.

40. Ibid.  This criticism was reiterated by S. Nasr in an interview to the periodical Gnosis.

41. Mircea Eliade, Journey East, Journey West, San Francisco: Harper & Row, 1981-88, p. 204.

42. Eliade, Journey East, Journey West, p. 202.

43. Evola, Il cammino del cinabro, p. 12.

44. Epicurus, Letter to Menoeceus, p. 47.

45. Julius Evola, Meditations on the Peaks, trans. by Guido Stucco, Rochester, VT: Inner Traditions, 1998, p. 5.

46. Carlo Michelstaedter, La persuasione e la retorica, Milan: Adelphi Edizioni, 1990.

47. Ibid., p. 104.

48. Il cammino del cinabro, p. 46.

49. F. Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra, trans. by R.J. Hollingdale, London: Penguin Books, 1969, p. 86.

50. Evola, The Yoga of Power, trans. by Guido Stucco, Rochester, VT: Inner Traditions, 1992.

51. Evola would probably have liked Jesus’ saying (Luke 16:16): “The law and the prophets lasted until John; but from then on the kingdom of God is proclaimed and everyone who enters does so with violence.”

52. Marguerite Yourcenar, Le temps, ce grand sculpteur, Paris: Gallimard, 1983, p. 201.

53. Ibid., p. 204.

54. Julius Evola, The Doctrine of Awakening, Rochester, VT: Inner Traditions, 1995.

55. I. F. Stone, The Trial of Socrates, New York: Doubleday, 1988, p. 146.

56. Julius Evola, Cavalcare la tigre, pp. 174-78.

57. Mahajjima Nikayo, p. 122.

58. Norberto Bobbio, Destra e sinistra: ragioni e significati di una distinzione politica, Rome: Donzelli Editore, 1994. This book has been published in English as Left and Right: The Significance of a Political Distinction, Cambridge, England: Polity Press, 1996.

59. Ibid., p. 80.

60. Ibid., p. 74.

61. Julius Evola, Gli uomini e le rovine, Rome: Edizioni Settimo Sigillo, 1990, p. 64.

62. Ibid., p. 41.

63. Julius Evola, Cavalcare la tigre, p. 179.

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samedi, 17 janvier 2009

L'héritage de Sparte

Leonidas_in_Sparta.jpg

 

Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - CRITICON (Munich) - ORIENTATIONS (Bruxelles) - Février 1990

L'héritage de Sparte:

Hommage à la Prusse de la Grèce antique

par Gerd-Klaus KALTENBRUNNER,

Si la Prusse-Brandebourg fut le "pôle nord" et l'Autriche le "pôle sud" de l'histoire allemande mo-derne, la politique et la civilisation hellé-niques furent marquées pendant des siècles par l'opposition entre Athènes et Sparte. L'Autriche et la Prusse ne furent pas seulement des constructions étatiques: elles ont également in-carné une manière d'être, un état d'esprit, un style, une éthique. Il en est de même pour Athènes et Sparte. Ce dualisme resta d'ailleurs bien vivace longtemps après que les deux cités-Etats grecques eurent perdu leur puissance et même leur indépendance. A l'instar de l'ancien Empire allemand, qui comprenait une multitude d'Etats dont certains étaient de taille mi-cro-sco-pique, la Grèce antique ne formait pas une unité politique; c'était une mosaïque de villes et de confédé-rations, toutes jalouses de leur indépen-dance. Cer-taines de ces poleis  jouèrent, en leur temps, un rôle éminent, politiquement ou cultu-rellement. Citons par exemple les villes grecques d'Asie mineure, Ephèse, Milet et Smyrne, les colonies grecques de la Mer Noire, de Sicile ou d'Italie du Sud. Sur le continent hellénique, ce furent Corinthe et Thèbes, Argos et Némée, Eleusis et Delphes, sans oublier les nombreuses villes-Etats de la Mer Egée: la Crète, Chypre, Rhodes, Samos, Lesbos, Delos, Chios, etc...

Chacun de ces noms renvoie à une facette de l'"hel-lénité", incarne un aspect unique, irré-ductible, de la culture grecque. Pourtant, seules Athènes et Sparte ont acquis une dimension historique mondiale. C'est qu'elles furent, avant tout, des "idées" au sens plato-nicien, c'est-à-dire susceptibles, selon les circons-tances, de se réactualiser, de se réincarner sans cesse. Elles ne furent pas des concepts abstraits mais des modèles vivants d'existence historique pouvant à tout moment orienter l'histoire réelle. La Guerre du Pélo-ponnèse, cette "guerre mondiale grec-que" selon la formule magistrale de Thucydide, constitue l'épiphanie de cette opposition, où se résorbe l'insurmontable dualité Sparte-Athènes. Pour Platon mais aussi pour Rousseau et, plus récemment, pour Maurice Barrès, Sparte était l'archétype de l'"Etat vrai". Or, cet arché-type sert depuis longtemps de repoussoir à une politologie qui s'est dégradée en "science de la démocra-tie" au service de l'"esprit du temps".

Sparte ou Spartacus?

On peut, bien entendu, être spartakiste, puisque ce terme ne renvoie pas à un groupe d'extrême-droite mais à un mouvement communiste (le communisme passant déjà pour une forme de démocratie). Etre spartakiste, cela n'a plus rien de dégradant. Le sparta-kisme, c'est de gauche, donc c'est bien. Le mot n'évoque-t-il pas l'es-clave Spartacus, originaire, non de Sparte, mais de Thrace, qui avait organisé la révolte contre ses maîtres romains? Sparte, en revanche, voilà le diable. La "spartitude", c'est synonyme de ru-desse, de dureté, de vexations inutiles... Mais que valent les beaux discours sur la "démo-cratie" quand survient l'Ernstfall:  le cas d'ur-gen-ce, la situation périlleuse, exception-nelle? L'ins-tant où la question n'est plus de savoir si l'on va se permettre un peu plus ou un peu moins de confort "démocratique"? Où le défi existen-tiel se résume en deux mots: se battre ou dispa-raî-tre...

Combien pèsent, sur le plateau de la balance, les so-phismes libéraux-démocratiques le jour où les armées ennemies franchissent la frontière, saluées par des cin-quièmes colonnes qui déroulent joyeusement le drapeau de l'étranger et s'ali-gnent pour la collabora-tion? A ce moment-là, la seule alternative n'est-elle pas: Aut Spartiates aut Spartacus  (Etre Spartiate ou Spartakiste)?

Aujourd'hui, au nom de Sparte, qui se souvient du mythe d'Hélène, la plus belle femme du mon-de? Qui se souvient que Castor et Pollux, le cou-ple inséparable des deux frères héros qui recevra plus tard une patrie céleste en devenant la constellation zodiacale des Gé-meaux, étaient d'o-ri-gine spartiate et furent honorés à Sparte? On a oublié que Cythère, île fortunée dédiée à Aphro-dite, faisait partie du territoire de Sparte. Révolu est le temps où les écoliers découvraient, le coeur bat-tant, les légendes de l'Antiquité classi-que et s'enthousiasmaient de ce que Sparte, pour-tant située au centre de la plaine de l'Eurotas, ait renoncé, jusqu'à la période hellénistique, à se construire des remparts. Si les Spartiates n'ont pas voulu ériger des fortifica-tions artificielles et des forteresses, c'est parce qu'à Sparte, les hommes, c'était l'Etat. Ces hoplites, qui misaient sur la force de leurs poings et de leurs armes, savaient que chacun était une pierre d'un rempart vi-vant: l'esprit de défense de la Polis. Qui se rappelle en-fin ce que rapportaient Aris-tote, Plutarque et d'autres écrivains antiques: nulle part ailleurs, dans aucun autre Etat grec, la femme n'avait autant de droits civils et publics que dans cette cité dorienne qui exaltait comme nulle autre la fraternité virile?

La Gérousie

On oublie souvent, semble-t-il, que Sparte fut le pre-mier Etat au monde à posséder une sorte de tribunal constitutionnel. Il s'agit des cinq épho-res ou "gardiens des lois" qui pouvaient même traduire les rois (il y en avait toujours deux à la tête de la polis) devant leur ju-ridiction. Il faut rappeler que Sparte, justement parce que sa constitution était "spartiate", a toujours su étouf-fer dans l'oeuf l'émergence de tyrans populaires, ce qui ne fut pas le cas des autres cités-Etats grecques. Soucieux de donner une expression politique à la sa-gacité, à l'expérience et à la sa-gesse des Anciens, les Spartiates créèrent la Gé-rousie: aucune affaire impor-tante de l'Etat ne pouvait être tranchée sans l'assentiment préala-ble de ce Conseil des Anciens qui, avec les deux rois représentant le couple de Gémeaux mythologi-ques, Castor et Pollux, comprenait trente mem-bres au total. Pour siéger à la Gérousie, il fallait avoir au moins soixante ans. L'appartenance à ce corps, incarnation politique du principe de sénio-rité, était définitive: seule la mort pouvait y met-tre fin. Il ne fait guère de doute que la stabilité politique de Sparte, pendant des siècles, était due en partie à cette institu-tion, capable de dé-jouer à temps tous les projets préci-pités, les ini-tiatives inconsidérées ou les idées non mû-ries.

Mais ni la belle Hélène ni les dioscures siégeant au firmament étoilé ni la sagesse du Conseil des Anciens n'ont aujourd'hui droit de cité lorsqu'il est question de Sparte. Même le poète Tyrtée, qui vivait au VIIième siècle avant notre ère et dont les éloges de Sparte sont nombreux, paraît oublié. Et pourtant, Tyrtée était Athénien de naissance. On dit qu'il boitait et avait été maître d'école. Ce n'est que plus tard qu'il devint pa-né-gyriste de Lacédémone et citoyen spartiate. Plus de deux mille ans après, le Souabe Hegel allait bien à Berlin où il devint... philosophe de l'Etat prussien! C'est dans la guerre, disait Hegel, que se manifeste la cohésion de chacun avec l'ensemble. Et il ajoutait que la guerre était l'esprit et la forme où se focalisait l'essentiel de la sub-stance éthique d'un peuple ou d'une nation.

Quant à Tyrtée, j'hésite à le citer car, s'il vivait de nos jours, ses éloges de l'héroïsme spartiate lui vaudraient certainement d'être marqué du signe infamant d'"extrémiste de droite". Une de ses élégies, consa-crée aux héros de la deuxième guerre médique, paraî-trait presque obscène à des oreilles pacifistes, à l'instar du fameux vers d'Ho-race selon lequel "il est doux et honorable de mourir pour la patrie" (Carmina  III, 2, 13), ou encore de Hölderlin dont on s'obstine —sans suc-cès— à faire un Jacobin en puissance:

"Sois grande, ô ma patrie,

Et ne compte point les morts;

pour toi, ma bien-aimée

Aucun mort ne sera de trop!".

Le Romain Horace et l'Allemand Hölderlin sont en fait des fils posthumes de Tyrtée, Spartiate d'adoption, qui, dès le VIIième siècle avant no-tre ère, proclamait son mépris pour l'homme, fût-il par ailleurs de qualité ou de haut rang, qui ne fît pas ses preuves sur un champ de bataille. Voici les premiers vers d'une élégie à laquelle se réfère explicitement Platon dans son dia-logue Des Lois  (629, a-e):

"Je ne ferais nulle mention ni ne tiendrais compte d'un homme,

Quand il serait couronné à la course ou à la lutte,

Aurait la taille et la force d'un cyclope,

serait aussi rapide que le vent de Thrace,

Serait plus beau que Tithonos

Et plus riche que, jadis, Midas et Kinyras;

quand il serait de sang plus noble que Pélops, fils de Tantale,

et aurait la magie du verbe d'Adraste,

et serait grand en toutes choses,

s'il n'est pas grand dans la tourmente du combat!

Car il ne sera pas brave à la guerre

Celui qui ne supporte pas de regarder la tuerie sanglante

Et n'attaque pas l'adversaire

en l'affrontant de près.

C'est la vraie vertu, le plus beau et le meilleur des prix

Que le jeune sang puisse un jour conquérir (1)".

L'Etat guerrier

Les vers de Tyrtée, Spartiate d'adoption, nous rap-pel-lent sans équivoque possible que Sparte fut un Etat guerrier au sens le plus vrai du terme. Un Etat enca-serné, a-t-on pu dire, un Etat pratiquant l'élitisme eu-géniste et dont certains as-pects évoquent le commu-nisme de guerre. Le mo-dèle de la politeia  selon Pla-ton, aristocrate athénien mais spartanophile. Une synthèse appa-remment perverse entre prussianisme et so-cia-lisme. Et le cauchemar de tous les libéraux, de Wil-helm von Humboldt à Karl Popper et à Hen-ri Marrou.

Il ne faut pas s'illusionner: toutes ces descrip-tions, même exagérées dans les détails, même caricaturales (et caricaturées pour les besoins de la polémique) ont un fond de vérité. Athènes exceptée, aucun autre Etat antique ne nous est mieux connu que celui des Spar-tiates qui se nom-maient eux-mêmes Lacédémoniens (le Spartiate était l'homme libre, citoyen à part entière). Les anecdotes les plus effarantes reposent sur de so-lides témoignages. Il est hors de doute que Spar-te, même et surtout à une époque avancée de l'his-toire an-tique, était, comparée à Athènes, un Etat extrême-ment archaïque, rude et xénophobe. Et il est indéniable que jusqu'à la fin, cet Etat a veillé jalousement et or-gueilleusement à préser-ver cette différence-là. Inutile de broder sur l'orgueil ostentatoire, sur la morgue du Spartiate, fût-il citoyen ordinaire. Chaque Spartiate était moi-tié roi moitié brigand. Les textes authen-ti-ques de Tyrtée lui-même sont là pour infirmer toute tentative de banalisation. Tyrtée nous mon-tre sans conteste un Etat où le guerrier l'empor-tait sur le bel esprit et le marchand. Toute la cul-ture était axée sur la chose mi-litaire et l'idéal était le sous-officier d'active. Quand une mère avait perdu son fils à la bataille, elle refusait la-co-niquement (c'est le cas de le dire) toutes con-do--léances: "Je n'ignorais pas qu'il était mortel", et ce que proclame solennellement le choeur de la pièce de Schiller Die Braut von Messina:  "La vie n'est pas le bien suprême" (acte 4, scène 10), était, à Sparte, le b.a.-ba de la formation po-li-tique de n'importe quelle recrue. L'épigramme du lyrique Simonidès dédié aux Spartiates tom-bés aux Thermopyles exprime lapidai-rement ce que l'on attendait du soldat:

"Passant, va dire à Sparte

Que tu nous as trouvés, gisants

Conformément à ses lois".

Vouloir minimiser a posteriori la sévérité spar-tiate est une entreprise vouée à l'échec. La civi-lisation lacédé-monienne n'était guère littéraire mais très athlétique. A Sparte, la poésie fut un produit d'importation, comme en témoigne l'exem-ple des trois grands poètes, Tyrtée, Ter-pandros et Thaletas: le premier venait d'Athènes, le second d'Antissa (Ile de Lesbos), le troisième de Crète. Sparte les fit venir comme poètes offi-ciels, un peu comme la Prusse prendra à son service les Souabes Hegel et Schelling, le Baron de Stein, origi-naire de Nassau, le Hessois Sa-vigny et le Saxon Ranke. La cuisine était aus-tère, c'était le cauchemar des gosiers corinthiens, crétois ou sybarites. Les dis-tributions collectives de "soupe au sang" étaient considérées, hors de Sparte, comme un vomitif.

Un système d'éducation terrible

A sept ans révolus, les enfants appartenaient à l'Etat qui prenait en charge leur éducation. Les garçons, no-tamment, devaient gravir, échelon par échelon, les étapes de la hiérarchie dans les formations de la jeu-nesse d'Etat. La musique et la poésie étaient considé-rées comme des acces-soires de la pédagogie d'Etat. L'autonomie du sens et du goût esthétiques n'était guère prisée: la danse réduite à un exercice gymnique, la poé-sie au rôle d'auxiliaire de l'éducation politique et la musique à un instrument de drill et de dres-sage. Outre le chant choral, musique militaire et chansons de marche au son de la flûte (qui jouait dans l'Antiquité, on le sait, le rôle de nos tam-bours et trompettes): tel était le parnasse spar-tiate.

La vertu suprême était le patriotisme poussé jus-qu'au sacrifice et la subordination des intérêts in-dividuels au salut de l'Etat. Obéissance, endurcis-se-ment des corps et des âmes, frugalité et dis-cipline faisaient partie des règles de vie les plus na-turelles. La discipline, surtout, imprégnait et mo-delait toutes choses: celle des enfants et des adul-tes, discipline à l'école, discipline à table, discipline du corps et de l'esprit, de la concep-tion à la tombe: c'était l'art de gouverner à la spartiate. Est-il besoin de souligner que dans cet-te polis dorienne, la pédérastie, amours "inver-ses d'homme à homme", comme disait Hans Blü-her, était omniprésente? Force est de la considé-rer comme une devotio lacedaemonia,  spéci-fique d'un Etat organisé en Männerbund  (con-frérie virile). Dans ce domaine comme dans d'au-tres, n'enjolivons rien.

Le Taygète

Même observation à propos d'une loi que Plu-tarque fait remonter à Lycurgue, le législateur semi-légendaire de Lacédémone: à sa naissance, l'enfant est examiné par les Anciens du clan. S'il est jugé sain, bien fait et vigoureux, il est dé-claré digne d'être éduqué. Si en re-vanche, le Con-seil des Anciens le trouve malingre et mal constitué, l'enfant est "exposé" au fond d'un précipice rocailleux du Taygète. Car "ils pensaient que pour un être incapable, dès le début de sa vie, de se développer et de devenir sain et fort, il vaut mieux ne pas vivre du tout car il ne sera utile ni à lui-même ni à l'Etat" (Lycurgue, 16).

De l'eugénisme spartiate à l'avortement libéral

Cette loi est à mes yeux la seule dans la constitution de Sparte qui devrait trouver grâce auprès des tenants ac-tuels de l'ordre libéral-dé-mo-cratique, quoique pour des raisons opposées: les Lacédémoniens formés à l'école de Lycurgue avaient une pensée eugéniste alors que nos parasites obéissent à des motivations essentielle-ment individualistes et hédonistes: ce n'est pas pour "améliorer la race", c'est pour augmenter leurs chances d'"épanouissement personnel" qu'ils souscri-vent à l'adage selon lequel "être né ne confère aucun droit à la vie": de nos jours, le "citoyen adulte" ne se laisse nullement prescrire si l'enfant venu au monde doit vivre ou non. Le Conseil des Anciens, institution "réactionnaire", a été remplacé, en ce qui concerne le sort du nouveau-né ou du foetus, par l'auto-détermi-na-tion du "conseil parental" et, si ur-gence il y a, par le droit de la mère dans le sein de laquelle se développe, tel un abcès, le fruit de ses en-trailles. La possibilité, admise par la société, de prati-quer, comme à Sparte, l'"exposition" de l'enfant (à ce détail près que l'opération est chronologiquement avancée au stade du foetus) contraste favorablement avec les méthodes "barbares" de Sparte où la mort n'était même pas intra-utérine. L'avancement progres-sif du meurtre silencieux à une période comprise entre le premier et le si-xième mois de la grossesse, et son remplace-ment, au niveau du vocabulaire, par un doux eu-phémisme, l'"interruption de grossesse" (IVG), sont considérés comme des acquis d'une civili-sation qui paraît avoir définitivement surmonté Sparte. C'est ainsi qu'en Allemagne par exem-ple, on considère comme un "progrès" le meurtre d'enfants par le Ge-bärstreik  ou "grève des ventres" bien que cette grève-là fasse cha-que année mille fois plus de victimes en-fantines que n'en fit, en sept siècles d'histoire spartiate, l'exposition rituelle sur le Taygète...

 

La liberté de la femme

La sympathie du démocrate sincère est toujours allée à Athènes, jamais à Sparte. L'homme de par-ti, l'honnête homme respectueux de l'ordre libéral-démocratique, se voudrait Périclès, au moins en miniature. Personne, en revanche, ne souhaite passer pour un héritier ou un disciple de Lycurgue! Athènes est synonyme, on le sait, de Lumière, de Culture, de Démocratie et Périclès est la superstar de ces divinités éthérées. Par contre, la Sparte de Lycurgue passe pour avoir été pire que la Prusse frédéricienne, pres-que une préfiguration an-tique de l'Etat national-so-cialiste!

"Louons ce qui nous affaiblit et nous désarme! Mé-fions-nous de ceux qui nous parlent d'union, de force, de grandeur, de discipline, de cohésion! Ou nous ris-querions de glisser vers le fascisme —et Hitler de re-venir!". C'est à peu près le discours que tient, la main sur le coeur, l'Occident démocratiste et bien-pensant. L'objur-gation, tantôt articulée du bout des lèvres tantôt hurlée, se gonfle démesurément dans le bour-don-ne-ment des médias. Il existe donc bien ce que j'ap-pe-lerais une réaction émotionnelle antispar-tia-te. Elle nour-rit la lutte contre tout ce qui, de près ou de loin, pourrait évoquer l'ascèse, l'hé-roïsme ou la disci-pline. Se recommander de Spar-te, admirer Sparte comme paradigme d'éta-tici-té sévère, certes, mais puis-sante et capable, voilà qui, aujourd'hui, choque. Comme pou-vait choquer, voici cinq siècles, le fait de nier la tri-nité divine ou l'incarnation du Christ.

Et pourtant, sur les traces de Plutarque et de Platon, j'ai rassemblé ici quelques bons points en faveur de Sparte. Il faut tout d'abord signaler que dans cette Sparte au "conservatisme" rigide, les femmes pou-vaient faire tout ce qui leur était strictement interdit à Athènes-la-libérale. A La-cé-dé-mone, les femmes étaient beaucoup plus libres que les hommes. Non seulement en amour mais en affaires. Elles jouissaient de droits in-connus partout ailleurs. Au IIIième siècle, par exem-ple, les femmes spartiates possédaient plus de richesses (y compris des biens fonciers éten-dus) que leurs maris, leurs frères ou leurs amants (Plutarque, Agis,  5, 23, 29). Aristote, déjà, reprochait à Ly-curgue de n'avoir pas extir-pé le "dérèglement et le matriarcat" des femmes spartiates (Politique,  2, 1270a, 6). A l'étranger habitué à un strict et exclusif patriarcat, la ville de Sparte offrait presque le spectacle d'un Etat "exotique", dominé par les femmes (Plu-tarque, Numa,  25,3): "Les femmes spartiates ont sans doute été assez irrévérencieuses et se sont sans doute comportées de façon extrêmement virile, surtout à l'égard de leurs maris puisqu'à la maison, elles déte-naient un pouvoir sans partage et qu'à l'extérieur elles intervenaient en toute liberté dans les affaires d'Etat les plus impor-tantes". Et pourtant, elles n'avaient rien de spa-dassins hirsutes et grivois: leur charme un peu abrupt était proverbial dans toute l'Hellade. Leur li-berté semblait excessive même aux Athéniens les plus "progressistes" et les plus "éclairés".

La rigueur d'un Etat guerrier résolument viril était adoucie par la grâce souriante, la malice, l'élégance spontanée de ses jeunes femmes qui, contrairement à leurs soeurs d'Athènes, avaient accès aux exercices sportifs et gymniques. Com-me les hommes, les fem-mes lacédémo-nien-nes étaient célèbres pour leur sens de la répartie et leur laconisme (le mot, d'ailleurs, nous est resté: Sparte est située au centre de la Laco-nie). Plu-sieurs anecdotes témoignent de cette vivacité de l'esprit, de cette concision propres aux Spartia-tes. Comme une étrangère disait à Gorgo, épou-se de Léo-nidas, roi de Sparte: "Vous autres La-cédémoniennes êtes bien les seules à pouvoir dominer vos maris", Gorgo répliqua avec su-perbe: "Après tout, c'est nous, et nous seules, qui les mettons au monde!" (Plutarque, Lycur-gue,  14, conclusion).

Sans Sparte, pas d'Athènes

Mais concluons. Nous venons d'inscrire le nom de Léonidas. Nous avions, au début de ce texte, cité Si-mo-nidès célébrant les Lacédémoniens morts aux Ther-mopyles face à la supériorité numérique des Perses: "Voyageur, va dire à Spar-te...". Disons-le la-conique-ment: si l'on con-si-dère la civilisation grecque comme le fon-dement permanent de la culture euro-péenne, on ne peut ignorer Sparte. Toute la culture de la Grèce classique, que l'on identifie volontiers à Athènes, n'aurait jamais pu s'épanouir si un peuple de guerriers, comparativement prosaïque, discipliné, en odeur de quasi barbarie, n'avait pas combattu jusqu'à la mort, pour sauver l'Hel-lade, aux Thermopyles, à Sa-la-mine et à Platée. Les victoires militaires, qui ne fu-rent possibles que grâce à la présence spartiate, ont alors conquis, préservé et élargi cet espace où purent s'épanouir librement le théâtre grec, la philo-so-phie grecque, la science grecque et même la démocratie grec-que. C'est ce qu'il faut se garder d'oublier.

Regardons Sparte, presque étrangère dans sa rudesse. Cette société a pu pervertir jusqu'à la caricature des traits qui ont existé, à un degré moindre, dans toute polis grecque. Mais surtout, Sparte, qui incarnait au plus haut point toutes les potentialités de la polis, nous rappelle brutale-ment combien toute l'Antiquité clas-si-que nous apparaîtrait étrangère si nous cessions d'y pro-jeter notre propre humanisme. Sparte nous fait éga-lement saisir le sens du mot "politeia" à l'état chi-miquement pur: l'Etat, "le plus froid de tous les mons-tres froids", comme l'affirme le Zarathoustra de Nietzsche. On peut ne pas aimer Sparte. Mais qui-con-que se sent une attirance pour l'héritage grec doit se souvenir que toutes ces merveilles, toute cette splen-deur, tout ce qui, en nous, "parle" et nous en-thou-siasme (au sens étymologique du terme), que tout cela n'a pu s'épanouir et se déployer que dans un monde soustrait à la menace du despotisme oriental par le sacrifice suprême de quelques dizaines de milliers d'hommes.

Mais Sparte nous remet aussi en mémoire les fonde-ments de la culture européenne sur les-quels on fait si volontiers l'impasse aujourd'hui: l'espace où cette cul-tu-re a pu éclore n'était certes pas défendu par des déserteurs ou des objecteurs de conscience! Il était dé-fendu par des soldats résolus face à la supériorité nu-mérique écrasante de l'adversaire. Les meilleurs guer-riers, la plus belle discipline militaire, étaient à Lacé-démone. Après la victoire sur les Perses, aucun équi-libre harmonieux ne put s'établir entre les deux types de société grecque qu'incarnaient respective-ment Spar--te et Athènes. Peut-être fut-ce là la grande tragédie de la Grèce antique. Culturellement, Sparte fut une im-passe. Mais Athènes elle-même, la "voie" athénienne, nous le pres-sentons aujourd'hui, pouvait-elle se poursuivre en ligne droite jusqu'à nous?

Peut-être, après tout, la culture n'est-elle qu'un inter-mède, un gaspillage stérile d'énergie sur l'arrière-plan des espaces cosmiques infinis. Un certain défaitisme gagne autour de nous. Il déclare publiquement que l'orientalisation de l'Eu-rope, si elle s'était accomplie beaucoup plus tôt, nous aurait épargné bien des maux. Pour ce genre de discours, les victoires grecques sur les Perses ne signifient donc rien. Mais c'est déjà une autre histoire. Il reste que Sparte nous rap-pelera tou-jours, de façon lancinante, une vérité éternelle, large-ment occultée de nos jours: sans un certain degré de "spartitude", non seulement aucun Etat n'est possible, mais aucune civilisation ne peut vivre et… survivre.

Il faut redécouvrir notre héritage lacédémonien.

Gerd-Klaus KALTENBRUNNER.

(texte paru dans Criticón, n°100, März-Juni 1987; traduction française: Jean-Louis Pesteil; adresse de Criticón: Knöbelstraße 36/V, D-8000 München 22; prix de l'abonnement annuel (six numéros): DM 57; étudiants: DM 38).

Note

(1) Dans le dialogue de Platon, Clinias ajoute: "C'est un fait que (ces poèmes) sont venus jusque chez nous, im-portés de Lacédé-mone" (ndt).  

mercredi, 14 janvier 2009

Vers un nouveau récit du monde?

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Vers un nouveau récit du monde ?

 

http://www.europemaxima.com

dimanche 9 novembre 2008, par Noël Rivière


Le monde a toujours fait l’objet de lectures en termes de grands récits. Il s’agit de narrations du monde, de ses origines et de son sens. Très liés à la mythologie, les grands récits se sont partagés entre grands récits païens ou monothéistes. La Bible hébraïque est bien entendu un cas singulier. L’aspect de révélation est à bien des égards éclipsé par ce qui relève de la Loi dès l’origine du récit. Ce qui est bien est immédiatement distingué de ce qui est mal. De là le fondement très rationnel de la Bible hébraïque. « Le récit de l’Ancien Testament tranche par bien des traits sur d’autres récits de création, de fondLe monde a toujours fait l’objet de lectures en termes de grands récits. Il s’agit de narrations du monde, de ses origines et de son sens. Très liés à la mythologie, les grands récits se sont partagés entre grands récits païens ou monothéistes. La Bible hébraïque est bien entendu un cas singulier. L’aspect de révélation est à bien des égards éclipsé par ce qui relève de la Loi dés l’origine du récit. Ce qui est bien est immédiatement distingué de ce qui est mal. De là le fondement très rationnel de la Bible hébraïque. « Le récit de l’Ancien Testament tranche par bien des traits sur d’autres récits de création, de fondation ou… d’établissement de peuples » écrit Claude-Raphael Samama. Dans la Bible hébraïque mais aussi, à sa suite, dans le Nouveau Testament, l’homme est le but et la fin d’une création divine.

À l’inverse, les mythes grecs constituent une autre forme de grands récits. Dans ceux-ci se déploie le monde entre terre et ciel, et aussi ce qui permet son jeu, à savoir le vide, la béance ou encore le chaos, le « Grand Ouvert ». Il n’y alors pas de Loi qui soit donnée aux hommes.

Il y a d’autres grands récits comme celui de Vico au XVIIIe siècle qui fait de l’homme le narrateur de sa propre relation au monde. Vico fait se succéder l’âge des dieux, l’âge des héros, l’âge des hommes. Le sens de l’histoire est une appropriation par les hommes de leurs actes. Au final, les hommes obéissent à « la loi de la conscience, de la raison et du devoir ».

Avec Hegel, c’est un autre grand récit qui est élaboré et qui se veut la réalisation d’une essence, l’Esprit absolu. Marx prolonge cette ambition mais sous une forme matérialiste et dialectique, non essentialiste. À la suite de cela, Le Déclin de l’Occident de Spengler, malgré la puissance de ses intuitions ne débouche absolument pas sur une théorie du monde.

Nous sommes ainsi maintenant dans un certain vide où le seul grand récit qui a essayé de se mettre en place – en vain – a été celui de Fukuyama, à savoir celui de la fin de l’histoire (idée qu’il développe dés l’été 1989) par triomphe définitif de ce qu’on a appelé libéralisme mais qui est bien plutôt la démocratie soluble et liquéfiée dans le marché.

Un double scepticisme s’installe. Le premier est le scepticisme face aux récits du monde existants, et ce qui subsiste est moins le récit du Progrès (en faillite) que le récit du « il n’y a qu’une politique possible », hier le développement à outrance, maintenant ce que l’on appelle le « développement durable ». Le second scepticisme est celui qui doute même de la nécessité d’un récit du monde. Quand il n’y a plus d’idéaux à représenter et à faire vivre, il ne reste que la « bonne gouvernance » à exercer et l’humanitarisme impolitique du côté de la pseudo-société civile et de ses multiples associations d’autant plus stipendiées qu’elles ne représentent qu’elles-mêmes.

Dans cette situation, pourquoi ne pas se tourner vers le grand récit de la création qu’est le big bang ? Il a bel et bien une vertu de prédictivité puisque le rayonnement rouge a été confirmé par Arno Penzias et Robert Wilson. Il ne manque pas à ce grand récit non plus la dimension esthétique. Il obtient même un temps l’onction papale par Pie XII avant sa rétraction. Mais il manque quelque chose au grand récit du big bang : c’est de pouvoir servir de règle pour l’ordonnancement des attitudes, des mœurs, des comportements humains. Quelle est la place de l’homme dans le monde ? Et de quoi est-il responsable ? Voilà ce à quoi aucune théorie purement cosmologique ne peut répondre. Le big bang ne débouche ni sur une loi morale ni sur une éthique de l’homme face au monde.

Les grands récits non monothéistes qui unifient la vision de l’homme et du monde ne sont pas nombreux. La pensée romaine est l’un de ceux-là. Chez les Romains la culture agricole en fonction des états du ciel (Tempus) a toujours été liée à la nécessaire « culture de soi » (Cicéron). Les droits humains et les droits divins sont liés. Les humanités (Humanitas) sont à la fois une discipline, un effort de culture et l’apprentissage des douceurs. Enfin, la grandeur de la liberté s’inscrit toujours dans un héritage, une mémoire. Tempus fugit, non autem memoria. Ce sont là les signes d’un vrai grand récit. Aujourd’hui, face à l’extinction du pouvoir de création historique et d’enchantement des fabulations antérieures, notamment la fable du Progrès, il faut inventer de nouvelles grandes figures pour peupler la terre de signes, de sens, et de beauté. Il faut pour cela des poètes qui soient aussi des mages. Le monde est lui-même un poème qui se déploie entre les affects et le signes. Il est, comme écrit Jean-Pierre Luminet, « un Songe aux ailes rognées par le Chiffre ». Seuls des poètes qui soient aussi des mages et des oracles pourront donner du sens aux signes. N’oublions pas que l’oracle est la réponse et le lieu de la réponse. Face au nomadisme et à une civilisation du hors site, il restaure le topos. Peut-être l’exaltation de la pleine liberté créatrice de l’homo faber, à l’opposé des dispositifs de mécanicisation de l’homme peut elle être ce nouveau mythe de force et de joie. « En définitive, l’intelligence, envisagée dans ce qui en paraît être la démarche originelle, est la faculté de fabriquer les objets artificiels, en particulier des outils à faire des outils, et d’en varier indéfiniment la fabrication » écrivait Bergson (L’évolution créatrice, 1907). Indéfiniment, disait Bergson. Une conception de l’homo faber qui voit sa nature dans l’inventivité et non dans la répétitivité et la mécanisation monotone. Dans un ouvrage de Tchekhov, Gourov dit à Anna : « Nous allons bien trouver quelque chose ».

Cela va venir.

Noël Rivière

• Revue dirigé par Philippe Forget, L’Art du Comprendre, « Récits du monde, récits de l’homme », n° 17, juin 2008, 324 p., 23 €. Diffusion Vrin : 6 place de la Sorbonne, F - 75005 Paris.

 

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vendredi, 02 janvier 2009

Julius Evola: Idée d'Empire et universalisme

 

 

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - Avril 1991

Julius EVOLA: Idée d'Empire et universalisme

Quiconque s'interroge sérieusement sur le nouvel ordre européen perçoit de plus en plus nettement l'importance et la force révolutionnaire des idées de "grand-espace" (Grossraum) et d'"espace vital" (Lebensraum). Cependant, au lieu de "grand-espace", nous préférons ici parler d'"espace impérial", d'espace "reichisch", c'est-à-dire déterminé par l'idée de Reich, ou encore d'"espace de Reich". Il s'agit en effet de dissiper l'idée selon laquelle l'ordre nouveau serait essentiellement dicté par des facteurs matériels plutôt que par une idée ou par un droit supérieur qui fonde l'autorité. Bien entendu, l'"espace déterminé par l'idée de Reich" englobe aussi ce que nous appelons "l'espace vital"; mais il peut en dépasser les limites, soit en fonction de considérations militaro-stratégiques, soit en raison d'influences indirectes, de relations affinitaires ou de ces affinités électives qui poussent les petits peuples à se grouper autour d'un "peuple impérial".

Nous ne sonderons pas ici la notion générique de "grand-espace" ou d'espace "déterminé par l'idée de Reich" (reichisch). Nous nous pencherons plutôt sur un de ses aspects particuliers, qui dépasse à la fois le mythe nationaliste et le mythe universaliste.

En ce qui concerne le mythe nationaliste, il connaîtra dans l'avenir une double limitation: d'abord, aucun peuple ne peut assumer et exercer une fonction supérieure de direction s'il ne s'élève pas au dessus des intérêts et des allégeances de type particulariste. Ensuite, les petits peuples devront réapprendre qu'il existe une subordination qui, loin d'être un "esclavage", peut au contraire être source de fierté puisqu'elle permet l'intégration à une communauté culturelle plus vaste et la participation à une autorité plus haute et plus forte. On peut ici songer à des exemples historiques comme le Saint-Empire romain dont les souverains incarnaient une autorité et une fonction dissociées et distinctes de celles qu'ils détenaient en tant que princes d'un peuple particulier. Il pouvait même arriver que des peuples sollicitent d'eux-mêmes l'honneur d'être rattachés à une communauté qui était plus que nationale puisqu'elle se définissait par l'emblème impérial.

En ce qui concerne maintenant le second aspect, par lequel l'espace déterminé par l'idée de Reich apparaît comme le dépassement non seulement du nationalisme étriqué mais du mythe universaliste, il faut préciser que cet espace n'est pas un "espace impérial": il faudrait plutôt penser à des entités distinctes, caractérisées par des idées et des traditions spécifiques, mais agissant conjointement et solidairement. Seule, à l'évidence, cette idée peut dépasser l'universalisme, que ce soit sous sa forme utopique ("le royaume mondial") ou sous sa forme juridico-positiviste qui postule des principes rationnels, universellement valables et obligatoires.

Quant à l'"espace déterminé par l'idée de Reich", il ne faut pas y voir un assemblage plus ou moins lâche, mais un véritable organisme défini par des frontières précises et axé sur une idée centrale imprégnant toutes les forces qu'il rassemble.

Si l'espace déterminé par l'idée de Reich ne constitue pas un tout cohérent puisqu'il se présente sous la forme d'un ordre dynamique, il obéit cependant toujours à une certaine loi d'évolution et s'articule autour de valeurs fondamentales qui constituent son "principium individuationis":

Par son caractère organique, vivant, et par les conditions géopolitiques nécessaires qui sont les siennes, l'idée d'espace déterminé par l'idée de Reich s'oppose notamment à ce que nous appelerions "l'impérialisme qui se cherche" (vortastender Imperialismus) et dont le prototype est l'Angleterre. Pour des raison identiques, il s'oppose également à toute conception abstraite, "spiritualiste", du Reich, qui bien souvent n'est qu'un paravent de l'universalisme. or, en Italie, la compréhension de ce dernier point a été obscurcie par nombre d'idées fausses et de lieux communs désuets.

L'exemple de l'idée romaine

Le grand-espace dont l'Italie peut éventuellement se réclamer est essentiellement méditerranéen. A ce titre, sa référence "impériale" et supranationale ne peut être que l'idée romaine. Or, certains milieux développent à propos de Rome une rhétorique telle que l'on éprouve une sensation de lassitude chaque fois qu'il est question de Rome et de la romanité. Et pourtant, l'Italie n'a pas d'autre choix. Mussolini l'a dit: "Rome est notre point de départ et notre référence: c'est notre symbole et notre mythe".

La difficulté que nous venons de signaler provient de ce que, pour beaucoup, romanité et universalisme sont synonymes. L'"universalisme romain" est un slogan qui, visiblement, sert les ambitions douteuses de certains milieux. D'autres s'eforcent bien de faire une distinction entre le principe universel de Rome et l'universalisme de type démocrate, franc-maçon ou humanitariste, ou encore celui de l'Internationale communiste. Mais cela ne dissipe pas le malentendu.

Est universaliste tout principe qui prétend à la validité générale. Le rationalisme franc-maçon, la démocratie, l'internationalisme et le communisme sont, de fait, des idées qui se répandent dans le monde entier et qui pourraient donc effectivement devenir "universelles" –à condition de déraciner d'emblée et de niveler méthodiquement tous les peuples et toutes les cultures. On retrouve à peu près un projet identique dans les très controversés "Protocoles des Sages de Sion".

Le symbole de Rome –s'il ne s'épuise pas dans une rhétorique creuse– implique tout au contraire quelque chose de concret et de défini: nul ne songe sérieusement à unifier tous les continents et tous les peuples sous l'égide de Rom. Telle est pourtant l'intention des utopies antitraditionnelles, niveleuses et collectivistes. Rome, pour nous, peut effectivement signifier quelque chose et si ce "quelque chose" n'est pas "l'universalisme", ce sera l'idée fondamentale, la force qui met-en-forme, la loi inhérente à un certain "espace déterminé par l'idée de Reich"

D'ailleurs, il n'en allait pas autrement dans l'Antiquité, Rome était l'axe sacré d'une communauté soudée de peuples et de cultures, mais en dehors de laquelle il existait d'autres cultures, ce que traduit du reste l'expresion de "barbare" qui, à l'origine, n'avait aucune connotation péjorative et servait simplement à désigner l'étranger.

Dans l'Empire romain finissant, il a pu, certes, exister –dans les limites de cet espace où soufflait l'esprit d'empire– un certain "universalisme": on laissa s'introduire à Rome des éléments hétérogènes et des races inférieures dont on fit abusivement des "Romains". La ville du Tibre intégra sans difficulté des cultes et des mœurs allogènes dont le contraste avec la romanité des origines était parfois stupéfiante, comme le notait Tite-Live. C'est dans cet universalisme-là que réside l'une des pricnipales raisons de l'effondrement de Rome. Voir dans un tel universalisme une caractéristique propre au "principe romain" serait le plus grave des contresens. Le principe romain vrai, c'est-à-dire viril et hiérarchisé, celui qui a fondé notre grandeur, n'a absolument rien à voir avec cet universalisme de la Rome tardive et abâtardie.

Nous vivons une époque de rassemblement, d'organisation et de structuration de forces, où le discours universaliste abstrait n'a pas sa place. Une époque où la dimension spirituelle ne doit pas nous conduire à des déviations ni à des transgressions mais sublimer le sens des forces et des contraintes d'une réalité concrète. Que Rome ait fait don au nom de la "lumière de la culture", que l'esprit romain soit illimité, que tous les peuples doivent à Rome des éléments de culture, voilà qui est bien. Il reste cependant à tester la vitalité actuelle de cet héritage millénaire au regard d'entreprises moins poétiques mais plus précises. Pour celui qui ne se satisfait pas du verbiage, la moindre des choses à exiger de la force de l'idée romaine est qu'elle puisse faire naître, à partir des peuples que rassemblera notre grand-espace, un organisme véritablement déterminé par l'idée d'Empire, un "reichischer Organismus" doté d'une structure solide, d'un visage et d'une culture propre, ce que permettrait, par exemple, un recours à l'idée organique et hiérarchique du Moyen-Age aryen et combattant. Ce n'est que lorsque que cet exemple aura pris consistance que le prestige de l'idée romaine franchira de nouveau les limites de notre espace. Alors, d'autres pays se demanderont si ces idées fondamentales peuvent être adoptées et façonner le réel selon des formes propres au type d'humanité auquel ils appartiennent.

Julius Evola

(traduction: J.L.P.).

 

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dimanche, 21 décembre 2008

Breve glossario delnociano

BREVE GLOSSARIO DELNOCIANO

http://patriaeliberta.myblog.it

Breve glossario delnociano: conservazione, reazione e tradizione



Mi permetto di sottoporvi una breve nota terminologica a chiarimento ed esposizione dei concetti di conservazione, reazione e tradizione, tratta da A. Del Noce, I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo, vol. I. Lezioni sul marxismo (Giuffrè, Milano 1972). Secondo il filosofo torinese questi concetti vanno assolutamente mantenuti distinti.

 


 
Conservazione:
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«Al conservatorismo si giunge dottrinalmente attraverso la critica dell’Utopia […] e delle sue conseguenze pratiche, [e] viene fatta in nome dell’esperienza. Si arriva con ciò al principio generale che la durata di istituzioni in un determinato paese, è la prova della loro ragione di essere; che si potranno operare modificazioni e miglioramenti, ma sempre nel loro orizzonte. Questa genesi mostra come il conservatorismo sia generalmente legato a un empirismo di tipo scettico; talvolta però anche a uno storicismo di tipo idealistico, sulla base perciò di una identificazione di Dio con la storia» (pp. 17-18).
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Reazione:
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Rispetto al conservatorismo «completamente diversa è la struttura del pensiero reazionario […]. Mentre il conservatore è riconciliato con la realtà presente, il reazionario è totalmente insoddisfatto e vi vede una decadenza rispetto a una realtà storica passata. Vuole perciò tornare indietro nel tempo, a un momento in cui i germi di questa decadenza e dissoluzione non esistevano, o meglio, erano difficilmente percettibili. Al pensiero reazionario appartiene dunque il momento della forma archeologica dell’utopia, destinata «sempre» a cedere rispetto a una forma utopica rivoluzionaria. […] Il torto del pensiero reazionario è di confondere l’affermazione di principi soprastorici con l’immagine di una realtà storica realizzata, così da essere indotta a pensare che l’eternità di principi escluda la «novità dei problemi»; problemi che devono essere risolti in relazione a quei principi, ma dopo che siano stati riconosciuti nella loro «novità»; altrimenti si corre il rischio mortale di pensare come storici i principi stessi. Per questa apparenza si è detto che per il pensiero reazionario vale il «sic vos non vobis»; che cioè è destinato ad essere un momento di qualcos’altro, cioè del passaggio da una fase del pensiero progressista alla seconda» (pp. 19-20). «Ma in realtà il pensiero «puramente» reazionario non esiste. Esso è una commistione tra l’interpretazione soprastorica della permanenza dei principi e il pensiero utopistico spostato al passato, sembra cedere al pensiero rivoluzionario soltanto se lo si considera sotto questo secondo aspetto in cui il primo viene arbitrariamente del tutto inglobato» (pp. 21-22).
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Tradizione:
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«È […] di tutta evidenza che è il «valore» a fondare la tradizione e non l’inverso. Il significato dell’endiade «valori tradizionali» è perciò questo: esistono dei valori assoluti e soprastorici che «perciò» possono e devono venir «consegnati»; esiste un «ordine» che è immutabile, anche per Dio stesso. La sua «autorità» non è affatto imposizione «repressiva», perché si tratta di un ordine increato, oggetto di intuizione non sensibile; solo in questa accezione il termine «autorità» ritrova il suo significato etimologico (da augere, accrescere) e si può parlare di autorità liberatrice» (p. 22).
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È utile anche un accenno al concetto di Utopia:
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essa è la «possibilità che sia raggiunta una posizione mondana in cui tutte le contraddizioni siano risolte e si pervenga a una condizione in cui vi sia perfetto accordo tra virtù e felicità, così che la felicità possa realizzarsi senza sforzo e senza sacrificio; al limite, possiamo dire che l’idea dell’«universale felicità mondana» è l’essenza dell’utopia» (pp. 17-18). In questo senso Utopia non è concetto perfettamente sovrapponibile a quello di Rivoluzione, che «indica rottura di continuità: a un ordine se ne sostituisce un altro che non è semplice «sviluppo» del precedente» (p. 10).
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samedi, 20 décembre 2008

Noël, fête religieuse et familiale, non orgie consumériste

Noël, fête religieuse et familiale, pas orgie consumériste…

La période de Noël est un moment idéal pour tester la solidité de ses convictions et la cohérence de ses engagements politiques, notamment sur les questions de l’écologie et de l’anti-consumérisme.

« Dis moi ce que tu reçois et fais comme cadeaux, je te dirais quel type du militant tu es ! » pourrait être la devise planant au dessus des têtes de tous ceux qui prétendent avoir une conscience politique et sociale.
En effet, à l’heure où l’armada publicitaire est en ordre de marche pour tirer le maximum de bénéfices de la course aux jouets et aux gadgets qu’est devenu le mois de décembre dans les sociétés occidentales, l’attitude du militant identitaire doit être clairement et concrètement en rupture avec cette névrose matérialiste totalement vide de sens.

Loin des brillantes conférences et des articles enflammés, voici venu les jours qui offrent à chacun, à sa place et à sa mesure, l’occasion de mettre en application les principes de mesure, de frugalité, de souci environnemental et de simplicité volontaire.
Il ne s’agit nullement bien sûr de prôner un froid ascétisme mais d’en appeler au bon sens, au raisonnable et à l’éthique.
Dans notre approche des « cadeaux » (qui, rappelons-le, ne sont pas le « but » ni le « cœur » des fêtes de Noël mais simplement un agrément secondaire à celles-ci), un souci constant de cohérence et de morale doit nous accompagner et nous conduire fort loin des gadgets aux composants électroniques ultra polluants, des inutilités clinquantes et dispendieuses, des marques vestimentaires esclavagistes, des pseudo « nouveautés » imposées par le matraquage médiatique… Offrons au contraire du beau, de l’artisanal, de l’utile, du porteur de sens, du sain et de l’éthique. Nous poserons ainsi les actes, modestes mais impérieux, de notre cohérence qui est la première marche de la crédibilité.

Rappelons également que Noël est aussi le temps de la charité et de l’offrande et que très nombreux, des sans abris de SDF aux enfants serbes du Kosovo en passant par l’habitant du feu rouge qui tend la main le long des voitures indifférentes, sont ceux qui en ont besoin.

Identité, Solidarité, Action. Dans les petits gestes, comme dans les grands…

P.Chatov pour Novopress France

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mercredi, 19 novembre 2008

Quelques dates et quelques étapes dans le retour de la conscience païenne en Europe

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Quelques dates et quelques étapes dans le retour de la conscience païenne en Europe

 

 

Robert STEUCKERS

 

L'objectif de cette longue liste est de donner au lecteur et à l'éventuel mémorisant l'envie d'approfondir quelques aspects de l'aventure néo-païenne à l'œuvre en Europe depuis les humanistes italiens du XVième siècle. Cette liste n'est pas du tout exhausive. Nous sommes conscients de ses lacunes, mais nous avons d'abord voulu évoquer des étapes ou des événements peu connus, significatifs et non réductibles aux vulgates paganisantes ou anti-paganisantes qui tiennent le haut du pavé aujourd'hui. Nous n'avons pas repris les étapes de la redécouverte archéologique ou linguistique des faits indo-européens, indissociables toutefois de la reprise en compte de notre plus lointain passé. Nous avons arrêté nos investigations dans les années 20 de ce siècle.

 

1176: A Cardigan au Pays de Galles, se tient le premier Eisteddfod gallois en présence de Lord Rhys ap Grufydd.

 

1365- c. 1430: Christine de Pizan, qui préfigure le féminisme européen, commence son traité d'héraldique par une invocation directe à Minerve, déesse des facultés intellectuelles, de l'intelligence et des armes. Minerve remplace ainsi la figure abstraite de la Sapientia.

 

1422-1427: Découverte dans les milieux humanistes italiens du texte de Tacite, Germania. La redécouverte de ce texte ouvre la pensée européenne aux réalités non classiques de l'Europe du Nord.

 

1431: L'humaniste italien Lorenzo Valla publie De voluptate, tentant de concilier la ferveur spirituelle chrétienne et la fantaisie sensuelle des Epicuriens, en rejetant le filon stoïcien qui érigeait la frigidité au rang de vertu. La parution de ce texte est contemporaine de la représentation picturale de nombreuses Vénus, nymphes, grâces et muses. 

 

1450: A Rimini en Italie, Leon Battista Alberti construit en 1450 le Tempietto Malatestiano, en l'honneur du condottieri Sigismondo Malatesta, ennemi du Pape. Toutes les icônes de ce temple sont païennes, notamment un soleil faisant référence directe à Apollon. Pie II, en dépit de sa tolérance et de ses largesses de vue, condamne ce temple, comme expression du paganisme mais en réalité il le refuse car il est un “pied-de-nez” à l'institution pontificale, et excommunie Malatesta.

 

1450: Naissance à Schlettstadt (Sélestat) en Alsace de l'humaniste, juriste et théologien allemand Jakob Wimpfeling. Sur base de la  Germania de Tacite, réédité par Konrad Celtis en 1500, il développe les premières manifestations du nationalisme allemand. Les Germains de Tacite sont proches de la nature, simples et guerriers: tel est le modèle de la meilleure humanité (comme le disait aussi Machiavel en admirant et en préconisant le système des milices paysannes et guerrières suisses). Chez Wimpfeling toutefois, le modèle germanique ne doit pas uniquement conduire à exalter la guerre, mais à promouvoir d'autres vertus importantes en Europe du Nord et en Europe centrale: l'humanité, la magnanimité, le courage civique et l'hospitalité. Il défend farouchement la germanité naturelle de l'Alsace contre les premières manifestations de la francisation.Wimpfeling meurt dans sa ville natale en 1528.

 

1455: La ville de Pienza commande des travaux de réaménagement urbain à Federico de Montefelto. Parmi les innovations, celui-ci fait construire un temple dédié aux Muses (Tempietto delle Muse). L'iconographie païenne s'y juxtapose à l'iconographie chrétienne.

 

1459: Naissance à Wipfeld près de Schweinfurt de l'humaniste allemand Konrad Celtis (en réalité Konrad Bickel ou Pickel). Philosophe itinérant, poète récompensé en 1487 par l'Empereur Frédéric III, ami des humanistes italiens, fondateur des premières sociétés littéraires polonaise (Sodalitas Vistulana; Cracovie, 1489-91) et hongroise (Sodalitas literaria Hungerorum), ensuite de nombreuses sociétés littéraires allemandes (à Vienne et en Rhénanie). Konrad Celtis écrit en latin, mais un latin non académique, proche de la simplicité populaire. Il édite en 1487 les textes de Sénèque et en 1500 la Germania de Tacite. Quand il édite ce texte mineur de Tacite (mais combien important pour la prise de conscience nationale future des Allemands), ses intentions sont anti-cléricales et, à l'instar de du Bellay et Ronsard, de défendre la langue populaire contre un latin figé et les trop nombreux emprunts à l'italien. Celtis lance une idée qui fera son chemin: Tacite, dans Germania, nous enseigne les vertus de la simplicité et de la primitivité. Dans certains textes, il applique la méthode de Tacite aux Allemands de son siècle, en vantant les mérites de la simplicité scythe, à imiter. Celtis introduit ainsi les premiers linéaments de la russophilie des nationalistes et des conservateurs allemands. Konrad Celtis meurt à Vienne en 1508.

 

1472: Naissance à Ingstetten près de Justingen dans le Wurtemberg de l'humaniste et poète Heinrich Bebel, fils de paysan. Professeur de rhétorique à l'université de Tübingen, il est nommé “poeta laureatus” par l'Empereur Maximilien I en 1501. Bebel lutte contre la scolastique étouffante, développe les armes de la satire et de l'ironie dans sa rhétorique, revalorise les traditions populaires et le langage non frelaté de l'homme du peuple. Cette simplicité permet le politique, car elle a donné à l'antique Rome républicaine ses vertus de paysans-soldats frugaux, figures par excellence destinées à la gloire militaire et impériale. Or les Allemands du temps de Bebel doivent assurer la responsabilité de l'Empire. Ce n'est que sur base d'une simplicité, comparable à la frugalité romaine antique, que cette mission divine peut être assurée. Bebel meurt en 1518 à Tübingen.

 

1484: Le 5 décembre 1484, le Pape émet la Bulle “Summis desiderantes” contre les sorcières.

 

1486: Pic de la Mirandole prépare, pour l'assemblée d'humanistes et d'érudits qu'il a convoqués à Rome et qui sera interdite par le Pape, une De hominis dignitate oratio, où il définit la gloire de l'homme par sa capacité à changer, à adopter des comportements différents. L'espace où agit l'homme n'est pas clos comme celui des anges ou des animaux. Cette absence de fermeture lui permet de devenir ce qu'il veut devenir. L'homme peut végéter comme une plante, se démener comme une brute, danser comme un dieu, raisonner comme un ange ou se retirer dans l'antre de sa solitiude. “Qui hunc notrum chameleonta non admiretur?” (= Qui d'entre nous n'admirerait pas ce chaméléon?). Spécialiste de la redécouverte de la paganité hellénique pendant la renaissance italienne, l'historien anglais Edgard Wind écrit: «Dans cette poursuite aventureuse de sa propre auto-transformation, l'homme explore l'univers comme s'il s'explorait lui-même. Et plus il porte ses métamorphoses vers le lointain, plus il découvre que ces phases variées de son expérience sont transposables les unes dans les autres: car toutes reflètent en ultime instance l'Un, dont elles développent des aspects particuliers. Si l'homme ne sent pas l'unité transcendante du monde, il perdra également son inhérente diversité. Pic exprime cette idée de manière cryptée mais indubitable dans l'une de ses conclusiones orphiques: “Celui qui ne peut attirer Pan à lui, approchera Protée en vain”». Pic de la Mirandole fait l'équation entre Pan et le Tout, réintroduit dans la pensée européenne le polythéisme orphique, la vision renaissanciste d'un univers pluriel.

 

1486/87: Les dominicains et inquisiteurs allemands Jacob Sprenger (Bâle) et Heinrich Institoris (Schlettstadt/Sélestat) publient le Hexenhammer (Malleus maleficarum), manuel de l'inquisition contre les sorcières.

 

1496: Dans Practica Musice l'humaniste Luc Gafurius publie une image montrant l'harmonie divine, où ne figurent que les muses, les dieux et la cosmologie païenne.

 

1508-1511: Raphaël installe son Ecole d'Athènes dans le Vatican, ce qui banalise les images des dieux et des déesses païennes dans toute l'Europe.

 

1514: L'humaniste Justus Bebelius traite dans ses ouvrages de l'ancienne religion des Germains et des druides gaulois.

 

1520: A Piacenza en Italie, le juriste Gianfrancesco Ponzinibio s'insurge contre les procès en sorcellerie dans un réquisitoire imprimé et diffusé. En 1523, il doit répondre à l'inquisiteur de Spina.

 

1532: L'humaniste français Jean le Fèvre publie son ouvrage Les Fleurs et Antiquitez des Gaules, où il est traité des Anciens Philosophes Gaulois appellez Druides,  première approche de la religiosité celtique en France.

 

1556: L'humaniste français Picard reprend la mythologie imaginaire d'Annius de Viterbe (1498), du moins pour ce qui concerne les Gaulois.

 

1563: Le médecin du Duc de Clèves, d'obédience calviniste, Johannes Weyer (1516-1588) rédige un ouvrage pour dénoncer la folie des procès de sorcellerie et le dédie à l'Empereur Ferdinand I, frère de Charles-Quint (Über die Blendwerke der Dämonen, Zaubereien und Giftmischereien). L'Empereur le félicite mais l'ouvrage sera mis à l'index.

 

1567-1570: Le sculpteur Giovanni di Bologna installe des statues de bronze des divinités païennes dans la ville de Bologne (Hercule), dans les Jardins de Boboli (Oceanus) et à Florence (Neptune).

 

1579: Le juriste toulousain Forcadel, dans De Gallio Imperio et Philosophia reprend à son tour la vision d'Annius de Viterbe, mais y ajoute des paragraphes importants sur la fonction juridique des Druides. Forcadel entend ainsi, implicitement, revenir à un droit plus conforme au passé de la Gaule/France.

 

1582: L'humaniste écossais George Buchanan (1506-1582), dans son “Histoire de l'Ecosse”, jette les bases des études celtiques comparées. Il souligne la parenté des langues celtiques.

 

1585: L'humaniste français Noël Taillepied publie Histoire de l'estat et républiques des Druides, Eubages, Sarronides, Bardes, Vacies, anciens François, gouverneurs des pais de la Gaule, depuis le déluge universel, iusques à la venue de Jésus Christ en ce monde. Compris en deux livres, contenans leurs loix, police, ordonnances, tant en l'estat ecclésiastique, que séculier. Taillepied consacre vingt sections de cet ouvrage aux codes légaux et aux ordonnances des druides. Le retour à la Gaule chrétienne chez cet humaniste est lié à une volonté de retrouver un droit accordant au peuple davantage de libertés concrètes.

 

1592: Le prêtre catholique et théologien Cornelius Loos (ca. 1546-1595) est sommé de se rétracter: il avait protesté contre les exécutions de sorcières par le feu à Trêves où il était professeur. Le Nonce de Cologne Ottavio Mirto Frangipani l'avait fait enfermer dans l'abbaye de Saint-Maximin. Après sa rétractation, il dirige une paroisse à Bruxelles, mais continue de s'insurger contre les procès en sorcellerie. Il est à nouveau enfermé et meurt prisonnier.

 

1594: Une tentative échoue d'organiser un Eisteddfod au Pays de Galles.

 

1602: Adriaen de Vries, disciple du sculpteur Giovanni di Bologna, installe la première statue païenne hors d'Italie, à Augsburg en Bavière. Il s'agit d'une fontaine d'Hercule. Désormais, les figures du panthéon païen remplacent sur les fontaines les représentations médiévales de Saint-Georges.

 

1618: Le poète et dramaturge anglais John Fletcher, dans sa pièce consacrée à la figure de Bonduca (= le reine celtique Boadicée, résistante à la l'occupation romaine), fait apparaître sur scène des druides et des bardes dans une séquence dansée. La perspective de Fletcher est patriotique et renoue avec le passé celtique de l'Angleterre, exalté comme vierge de toute influence continentale.

 

1622: Le poète et humaniste anglais Michael Drayton (1563-1631) publie son long poème en alexandrins intitulé Polyolbion, où il conte les merveilles de la Britannia, mélangeant doux idyllisme et patriotisme. Dans ce poème, les druides apparaissent comme des “bardes sacrés” dont la connaissance des mystères de la nature a été la plus profonde jamais acquise par les hommes.

 

1623: L'humaniste et médecin Guenebault publie Le réveil de l'antique tombeau de Chyndonax, Prince des Vacies, druides celtiques, dijonnois,... Dans cet ouvrage, l'auteur insiste sur la fonction juridique des druides.

 

1627: Le Jésuite Adam Tanner (1572-1632), professeur à Ingolstadt, veut réintroduire le “Canon Episcopi”, selon lequel la sorcellerie n'est que superstition sans fondement. Puisqu'il n'y a pas de fondement, les tortures et les exécutions sont inutiles. L'Inquisition menace de lui faire subir la torture.

 

1631-1632: Le Jésuite allemand Friedrich von Spee (1591-1635) demande de limiter les procès en sorcellerie dans sa “Cautio criminalis”. Des pressions sont exercées sur le RP von Spee. La guerre de Trente Ans ruine ses efforts.

 

1635: Le luthérien de tendance piétiste Johannes Matthäus Meyfart (1590-1642) tente de reprendre le combat du Jésuite von Spee, cette fois dans les territoires protestants, mais se fait beaucoup d'ennemis.

 

1648: L'humaniste allemand Elias Schedius publis De Dis Germans  (= Des dieux des Germains), traitant de la religion des “anciens Germains, Gaulois, Bretons et Vandales”.

 

1660: Le roi d'Angleterre Charles II fait figurer sur les nouvelles pièces de monnaie anglaises la déesse Britannia, ce qui n'avait plus été fait depuis l'empire romain. L'Etat ou la nation sont désormais considérés comme des divinités. L'hymne patriotique anglais Rule, Britannia en est un autre témoignagne. En Allemagne, apparaît la déesse Virtembergia (= Wurtemberg), sur le sommet du Château Solitude près de Stuttgart en 1767.

 

1670: John Aubrey fonde l'association druidisante Mount Haemus Grove, dont l'inspiration dérive d'une société du même nom qu'aurait fondée à Oxford en 1245 le barde Philipp Bryddod.

 

1676: Aylett Sammes écrit dans sa Britannia Antiqua Illustrata, que les druides croyaient en l'immortalité de l'âme, ainsi qu'à la transmigration de celle-ci, à la façon de Pythagore. Les druides auraient supplanté des prêtres phéniciens en Bretagne, constituant de la sorte un “clergé” autochtone, plus en prise avec la spiritualité du peuple celtique-britannique.

 

1692: Le prêtre réformé néerlandais Balthasar Bekker (1634-1698) est destitué. Il avait étudié les superstitions relatives aux comètes, aux œuvres du Diable et aux fantômes, puis avait condamné les procès en sorcellerie au nom de la raison et du message des saintes écritures.

 

1703: Dans The Description of the Western Islands of Scotland, Martin Martin traite des cercles de pierres dressées dans les Orkneys et signale qu'ils étaient des lieux de cultes païens.

 

1703: L'abbé breton Pezron lance la vogue des études celtiques sur le continent (dans L'antiquité de la nation et la langue des Celtes). C'est lui qui donne au terme “celte” sa connotation actuelle.

 

1707: Le philologue gallois Edward Lhuyd collationne une quantité de matériaux écrits, oraux et chantés dans les pays celtiques pour en faire la base d'études comparées de celtologie dans le cadre de l'Université d'Oxford.

 

1717: John Toland, successeur de John Aubrey (cf. 1670), fonde l'Ancient Druid Order.

 

1718-1742: Le maître-jardinier Stephen Switzer énonce les règles pour installer des statues de divinités païennes dans les jardins publics et privés (cf. Ichonographica Rustica).

 

1720: Lord Cobham commande au sculpteur anglais John Michael Rysbrack de lui faire sept statues représentant les divinités saxonnes des jours, pour ses jardins de Stowe.

 

1720: L'Allemand Johann G. Keysler, dans Antiquitates Selectae Septentrionales et Celticae, publiées à Hannovre, décrit les résidus des anciens cultes païens en Allemagne, dans les Pays-Bas et en Grande-Bretagne.

 

1723: Le pasteur Henry Rowlands de l'île d'Anglesey publie Mona Antiqua Restaurata, où le druidisme n'est plus considéré comme diabolique mais comme l'expression d'une conscience de l'harmonie de la nature. Pour le reste, il les dénigre comme tenants d'un culte barbare et sanglant.

 

1740: Simon Pelloutier publie son Histoire des Celtes, cherchant, surtout dans la deuxième édition de 1770, à mettre sur pied d'égalité les religions celtique et germanique pour des motifs politiques.

 

1747: L'architecte anglais John Wood l'Ancien (1704-1754) énonce l'hypothèse que sa ville natale de Bath était à l'origine le lieu d'un culte druidique et apollinien. Wood s'intéresse ensuite au site de Stonehenge, dont il reproduit la géométrie sacrée pour une place de Bath, appelée “Circus”. Dans son ouvrage Choir Gaure, il associe directement Stonehenge aux cultes druidiques. Il jette ainsi les bases d'une renaissance druidique en Angleterre.

 

1750: Le prêtre catholique Hieronymus Tartarotti fait paraître à Venise un vigoureux plaidoyer contre les procès en sorcellerie.

 

1752-1766: Le Comte de Caylus, dans son grand Recueil des antiquités,  émet l'hypothèse que les mégalithes ouest-européens sont des sites cultuels pré-druidiques. A la fin de sa vie, il les qualifiera de “druidiques”.

 

1754: William Cooke publie An Enquiry into the Druidical and Patriarchal Religion.

 

1760-62-63: Le poète écossais James MacPherson de Kingussie publie des “traductions” (fictives) d'anciens manuscrits gaëliques d'Ecosse. Ils deviendront célèbres sous le nom d'Ossian. Il lance ainsi la vogue romantique pour le celtisme.

 

1763: Sir James Clerk fait ériger la statue d'un druide à l'entrée de son château, Penicuik House, à Midlothian en Ecosse.

 

1764: Le poète gallois Evan Evans publie Specimens of the Poetry of the Ancient Welsh Bards. En 1784, il publie Musical and Poetical Relics of the Welsh Bards.

 

1766: Le médecin personnel de l'Impératrice Marie-Thérèse d'Autriche, Reine de Hongrie, Gerhard van Swieten (1700-1772), transmet un mémoire visant à supprimer la torture et les exécutions en matières de sorcellerie, celle-ci n'étant que l'expression de la sottise, de la folie ou de la mélancolie. En 1768, le code de la pratique judiciaire impérial interdit la torture dans les procès de sorcellerie. Ainsi la Grande Impératrice Marie-Thérèse met un terme à la folie inquisitoriale de la West-Flandre à la Transylvanie.

 

1766: En Bavière, Don Ferdinand Sterzinger (1721-1786) et Eusebius Amort stigmatisent les procès en sorcellerie et portent un coup fatal à l'Inquisition dans leur pays.

 

1771: Fondation au Pays de Galles du mouvement celtisant et révolutionnaire, d'inspiration druidique, Cymdeithas Gwyneddigion, qui s'affirmera plus tard comme “radical” et “républicain”.

 

1779: Naissance à Vesterbro près de Copenhague du poète danois Adam Gottlob Oehlenschläger. Il deviendra le poète de la renaissance nationale danoise et puisera ses inspirations dans le patrimoine de la mythologie et des sagas scandinaves. Avec la notable exception d'une pièce sur Aladin et d'une interprétation des “Mille et une nuits”. Il meurt en 1850 à Copenhague.

 

1781: Henry Hurle fonde à Londres l'Ancient Order of Druids, une société ésotérique fonctionnant selon les règles de la maçonnerie.

 

1782: Naissance à Kyrkerud dans le Värmland du poète suédois Esaias Tegnér. La publication de son poème Svea en 1811 fait de lui le poète patriotique par excellence. Il aborde les mêmes thématiques patriotiques que la Ligue Gothique de Geijer. Les grandes lignes de force de son œuvre sont la fantaisie, le courage héroïque, l'enthousiasme, l'élégance ironique, la sensualité, exprimés dans une forme claire et classique. Il s'oppose au patriotisme réactionnaire et obscurantiste et estime que les thèmes de la mythologie scandinave doivent être mobilisés pour faire de la Suède un Etat d'avant-garde sur la scéne européenne. A partir de 1825, il sombre dans le pessimisme, la misanthropie et la mélancolie. Il meurt en 1846 à Östrabo près de Växjö.

 

1783: Naissance à Ransäter dans le Värmland de l'écrivain suédois Erik Gustav Geijer. Dans sa jeunesse, il est un adepte des Lumières mais se tournera rapidement vers le romantisme national. Il fonde la Ligue Gothique (Götiska Förbundet), expression de la conscience nationale suédoise, basée sur les vertus attribuées aux peuples sacandinaves. Iduna  (= nom de la déesse scandinave de la jeunesse) est la revue dans laquelle il exprime ce corpus idéologique. A la fin de sa vie, Geijer élabore une philosophie de la personnalité, qu'il oppose à celles de Hegel et Feuerbach, où apparaissent également des thèmes comme la joie de vivre dans la nature, le renoncement aux biens de consommation, l'ancrage dans l'existence. Geijer meurt en 1847 à Stockholm.

 

1786: L'Irlandais Joseph Walker publie Historical memoirs of the Irish Bards.

 

1787: Une pièce de monnaie de la Parys Mine Company de l'île d'Anglesey est ornée de la tête d'un druide, couronnée de feuilles de chêne. L'île est considérée dès cette époque comme le site majeur d'un culte druidique (cf. 1723).

 

1787: Thomas Taylor traduit l'“Hymne orphique à Pan”, induisant les poètes romantiques à redécouvrir l'âme de toutes choses.

 

1789: La poétesse irlandaise Charlotte Brooke publie Reliques of Irish Poetry.

 

1789: Thomas Jones de Crowen, agitateur politique gallois, réétablit la fête traditionnelle celtique de l'Eisteddfod (concours de chants et de poésies d'inspiration nationale et identitaire). Son compatriote, également membre du groupe identitaire et celtisant Gwyneddigion, Edward Williams, alias Iolo Morganwg, recrée la cérémonie druidique du Gorsedd.

 

1791: Fondation de l'“Association bretonne” par Armand de la Rouerie, afin de restaurer l'autonomie bretonne dans le respect des clauses du Traité de 1532. De la Rouerie prévoyait le recours aux armes pour rétablir la légitimité. Il avait soutenu la révolution française jusqu'à la suppression du Parlement de Bretagne par l'Assemblée nationale.

 

1792: Le premier Gorsedd est tenu publiquement au Pays de Galles, le 21 juin 1792. En octobre, Edward Williams/Iolo Morganwg célèbre une fête druidique de l'équinoxe en plein Londres.

 

1793: A Posen (Poznan), encore sous juridiction polonaise, deux femmes accusées de sorcellerie, sont brûlées sur le bûcher, avant l'arrivée des juges prussiens qui avaient interdit l'exécution et déclaré le procès nul et non avenu.

 

1796: Dans ses Origines gauloises, La Tour-d'Auvergne traite des dolmens et des alignements de pierres dressées en Grande-Bretagne et en Armorique.

 

1804: Edward Davies publie Celtic Researches, approfondissant ainsi l'étude du druidisme et des cultes païens celtiques.

 

1805: Fondation de l'académie celtique en Bretagne par l'érudit Jean-Francis Le Gonidec.

 

1805: Jacques Cambry publie Monuments celtiques, contribution importante à la redécouverte de la religiosité native dans les pays celtiques. Les monuments mégalithiques sont druidiques et ont une fonction astronomique, conclut-il.

 

1809: Edward Davies poursuit son œuvre (cf. 1804) et publie The Mythology and Rites of the British Druids.

 

1815: Samuel Rush Meyrick et Charles Hamilton Smith publient Costume of the Original Inhabitants of the British Islands.

 

1818: Le 22 janvier 1818, l'écrivain anglais Leigh Hunt écrit à Thomas Jefferson Hogg une lettre exprimant brièvement les sentiments des écrivains paganisants, après la chute de Napoléon. Pour guérir l'Europe du “christianisme et de l'industrialisation”, il faut rétablir, dit-il, la religio loci, symboliser l'éternité de la vie en décorant sa maison de branches de houx ou de sapin (comme rappels de l'éternelle verdeur de la vie), se souvenir du “grand dieu Pan”.

 

1819: La fête de l'Eisteddfod accepte d'inclure dans ces cérémoniaux le Gorsedd gallois et druidique.

 

1820: Une Société celtique se constitue en Ecosse, immédiatement après la dernière révolte républicaine contre l'union avec l'Angleterre.

 

1821: Dans une lettre à Thomas J. Hogg, le poète romantique anglais Percy Bysshe Shelley exprime sa dévotion à Pan.

 

1823: Le philologue et linguiste allemand Julius Klaproth utilise pour la première fois le terme “indogermanisch” dans son ouvrage publié à Paris Asia polyglotta.

 

1828: Le professeur de criminologie de l'Université de Berlin, Karl-Ernst Jarcke énonce l'hypothèse que les procès de sorcellerie visaient à éradiquer les tenants de l'ancienne religiosité germanique.

 

1831: James Hardiman, poète irlandais, publie un recueil de textes de ménestrels irlandais: Irish minstrelsy.

 

1831: A La Scala de Milan, on joue pour la première fois Norma de Bellini, qui contient un thème druidique, avec, lors de la première présentation publique, un décor de fond représentant Stonehenge. Cette pièce connaîtra un succès formidable en Angleterre.

 

1832: Mendelssohn achève son œuvre chorale Die Erste Walpurgisnacht, décrivant la fête païenne traditionnelle de la veille de Mai (30 avril), où les villageois en fête sont attaqués par les chrétiens, effraient ceux-ci et les mettent en déroute.

 

1836: Le poète et celtisant breton Théodore Hersart de la Villemarqué publie Barzaz Breiz: chants populaires de la Bretagne.

 

1837: Naissance à Valenciennes en Hainaut du poète celtisant Charles De Gaulle (oncle du général), chantre du pan-celtisme. Philologue bien écolé, bon connaisseur des langues galloise et gaëlique-irlandaise. Il devait son inspiration celtisante à une grand-mère maternelle, Marie-Angélique McCartan, descendante d'un officier irlandais de l'armée française. Le Barzaz Breiz  de Hersart de la Villemarqué a eu une grande influence sur lui.

 

1838: De la Villemarqué et Le Gonidec se rendent à la réunion galloise d'Abergavenny, organisée par Cymdeithas y Cymreigyddion y Fenni, nouant des relations étroites entre celtisants bretons et gallois. Cette visite inspire la résurrection de l'Association bretonne.

 

1839: L'archiviste allemand Franz-Joseph Mone de la ville de Bade énonce l'hypothèse que les éléments dionysiaques du culte sorcier, persécuté au moyen-âge et aux débuts de l'époque moderne, sont les résidus clandestins d'un culte né dans les colonies grecques de la zone pontique, amenés en Germanie par les Goths, chassés d'Ukraine par les Huns.

 

1842: L'historien breton Alexis-François Rio publie une étude intitulée La petite chouannerie, qui inspirera Charles de Gaulle, hostile au centralisme parisien et partisan de la légitimité et de l'autonomie bretonnes.

 

1844: Naissance à Brighton de l'écrivain socialiste et réformiste Edward Carpenter qui injectera le paganisme dans le mouvement socialiste anglais (Socialist League, Fellowship of the New Life dont est issue la fameuse Fabian Society). Pour Carpenter, le socialisme doit conduire les peuples à retrouver une vie libre, primitive, simple, saine, morale, basée sur les idées de Whitman, Thoreau et Tolstoï. En 1883, Carpenter fonde une “communauté auto-suffisante” à Millthorpe entre Sheffield et Chesterfield. Son ouvrage principal date de 1889 (et s'intitule: Civilisation: Its Cause and Cure). Il y réclame notamment le retour des divinités féminines et apaisantes (Astarté, Diana, Isis, etc.). Carpenter meurt en 1929, après avoir exercé une influence durable sur les mouvements socialistes et pré-écologiques.

 

1848: Jacques d'Omalius d'Halloy défend devant l'Académie Royale de Bruxelles pour la première fois l'hypothèse d'une origine européenne des civilisations avestique (Perse) et védique (Inde). Près de vingt ans plus tard, il défendra la même thèse devant la Société d'Anthropologie de Paris.

 

1850: Naissance de la philosophe anglaise Jane Ellen Harrison, qui, dans ses recherches, a démontré le “substrat primitif” de la religion olympienne et investigué les pratiques populaires sous-jacentes de l'art et de la rationalité grecs. Elle a montré que les structures intellectuelles les plus élaborées dérivaient en fin de compte de “pratiques vernaculaires” simples, courantes dans le paysannat. Pour Jane Ellen Harrison, ce processus consistait à purger la religion de la peur. Elle s'intéressait plus particulièrement au mysticisme orphique, qu'elle considérait comme la purification et l'édulcoration de rites dionysiaques antérieurs, plus sanglants.

 

1853: Sur base des travaux de l'abbé Pezron (cf. 1703), le philologue allemand Johann Caspar Zeuss publie sa Grammatica Celtica, base de toutes les études philologiques contemporaines sur les langues celtiques.

 

1854: Ernest Renan publie son fameux Essai sur la poésie des races celtiques (deuxième édition en 1859).

 

1854: Naissance de James Frazer, futur fondateur de l'école de Cambridge, qui a cherché à démontrer que le christianisme exprimait un mythe universel, celui du jeune dieu qui meurt et ressuscite, repérable dès le mythe babylonien de Tammuz. Il sera l'auteur de The Golden Bough, publié en deux éditions entre 1890 et 1915. Cet épais ouvrage est une mine d'information sur les rites, les croyances et les traces de ce culte.

 

1858: Le pouvoir parisien fait interdire l'Association Bretonne, porte-voix de la légitimité en Bretagne. Elle continue cependant à fonctionner dans la clandestinité.

 

1859-1863: Adolphe Pictet (1799-1875) publie Les origines indo-européennes ou les Aryas primitifs. Essai de paléontologie linguistique.

 

1864: Parution dans la Revue de Bretagne d'un long article de Charles de Gaulle. Cette publication, dirigée par Arthur de la Borderie, était d'inspiration royaliste et catholique. De Gaulle y plaide pour l'auto-détermination des régions celtophones, Bretagne comprise. Il se réfère à Tacite, par ailleurs inspirateur antique des filons germanisants en Italie, en Allemagne et chez Montesquieu, qui disait, à l'adresse des Romains qui entraient en décadence: «La langue du conquérant dans le bouche du conquis est toujours la langue de l'esclavage». Cette maxime a inspiré les nationalismes à fondement linguistique, sans doute aussi la pensée de Herder et initié les mouvements de libération, se servant de la langue comme levier. De Gaulle appelait aussi les peuples celtiques à émigrer uniquement en Patagonie, afin de ne pas se disperser au milieu d'allophones (anglophones, hispanophones, lusophones ou francophones au Québec). De Gaulle s'aligne ainsi sur le projet similaire d'un Gallois, Michael D. Jones, qui nommait la Patagonie “Y Wladfa”. De Gaulle plaidait en même temps pour le droit des Araucaniens, habitants aborigènes de la Patagonie, à qui les colons celtes devaient accorder des droits culturels et politiques. A la fin de l'année, cet article, considérablement étoffé, parait à Paris et à Nantes sous le titre de Les Celtes au dix-neuvième siècle - appel aux représentants actuels de la race Celtique.

 

1865: Naissance à Rothbach en Alsace du philosophe, poète et écrivain allemand Friedrich Lienhard, grand défenseur des arts et artisanats régionaux. Il s'oppose au naturalisme et à la littérature issue des grandes villes, au profit d'un néo-romantisme et d'un ruralisme, exprimant le fond-du-peuple. Dans son roman Oberlin, il plaide en faveur d'une religion populaire. Entre 1896 et 1900, il publie une trilogie sur Till Eulenspiegel  et, en 1900, un ouvrage sur le roi Arthur (König Arthur). Lienhard meurt en 1929 à Weimar.

 

1866: Michael D. Jones fonde la colonie galloise de Patagonie.

 

1867: Sous l'impulsion des propositions de Charles De Gaulle, l'idée panceltique a fait son chemin en Irlande et en Grande-Bretagne. Les philologues joignent leurs efforts pour créer des chaires de langues celtiques dans les universités. En 1867, le poète anglais Matthew Arnold prononce quatre leçons publiques intitulées On the Study of Celtic Literature; elles sont publiées dans le Cornhill Magazine, puis sous forme de livre. Arnold ne plaide pas pour un retour des langues celtiques dans la vie quotidienne. Il réclame l'avènement de l'anglais dans la pratique, mais, simultanément, l'étude approfondie du patrimoine celtique à l'université. Les matières du fond celtique doivent être utilisées “pour rendre les Anglais plus intelligents, grâcieux et humains”. Plus tard, Yeats, dont la dette à l'égard d'Arnold est indubitable, considèrera la tradition celtique comme un trésor à exploiter pour enrichir la culture et la littérature anglaises.

 

1869: Nicolas Dimmer installe un appendice de l'United Ancient Order of Druids à Paris. Le druidisme prend pied en France.

 

1869: Les “libres penseurs” italiens organisent un congrès international à Naples. Pour Erich Fromm, qui a étudié l'impact dans le socialisme européen de la libre pensée, les participants de ce congrès formaient l'aile radicale de ce “nouvel humanisme” qui se constituait au XIXième siècle. Les Freidenker  allemands Ronge et Uhlich y prennent part. L'orientation politique est nettement à gauche: les “libres penseurs” veulent l'émancipation, l'égalité, les droits de l'Homme, etc. Mais le dépassement du christianisme institutionalisé est déjà à l'ordre du jour.

 

1869: Naissance à Maulburg en Pays de Bade de l'écrivain et peintre allemand Hermann Burte. Il a été un précurseur de l'expressionnisme, mais d'un expressionnisme national, tourné vers l'exaltation de la germanité. Son roman Wiltfeber   (1912) est inspiré de Nietzsche et stigmatise les phénomènes de décadence qui frappent l'Europe à la fin du XIXième et à la Belle Epoque. Son conservatisme axiologique (= conservateur des valeurs traditionnelles du peuple) prend pour thèmes principaux la nature, le paysage et l'amour. Burte est l'auteur notamment de sonnets érotiques, inspirés de la tradition littéraire shakespearienne et du patrimoine régional alémanique, riche en proverbes, contes et contines érotiques et sensuels. Burte traduisait aussi beaucoup de poèmes français, notamment ceux de Voltaire. Wiltfeber  a connu un large succès dans le mouvement de jeunesse Wandervogel. Burte visait une germanisation de la religion en Allemagne, corollaire d'un retour universel des lois du sol et du peuple dans la pratique religieuse.

 

1870: Dans son essai intitulé La science des religions,  Emile Burnouf tente de définir les lois qui président à l'éclosion des grandes religions du monde. Disciple de Renan, Burnouf estime que les peuples européens font montre d'une tendance au polythéisme, tandis que les peuples sémitiques d'une tendance au monothéisme. C'est cela qui explique le monothéisme de surface de la pratique religieuse dans l'Europe médiévale et moderne. Notamment la doctrine catholique de l'incarnation (du Christ dans l'humanité ou dans une partie de l'humanité) est typiquement d'origine hellénistique. Dieu s'incarne et connaît de multiples hypostases, ce qui rétablit en quelque sorte le polythéisme implicite des peuples européens (Grecs, Perses, Indiens). Cette part de la théologie chrétienne est dérivée d'une matrice indo-européenne, à la fois grecque, perse et indienne. Le judaïsme n'est pas exempt non plus d'influences européennes. La notion de “douceur naturelle”, d'amour des choses de ce monde, est également un leg paléo-européen. De même, le culte de la Lumière, très net dans l'Iran antique, dans l'art gothique et dans le culte de Saint-Michel.

 

1873: Lancement de la Revue Celtique, d'inspiration pan-celtique, sous la direction d'un ami de Charles De Gaulle, Henri Gaidoz.

 

1873: Sir Henry Thompson propose l'abolition des lois britanniques interdisant la crémation des morts. Le clergé s'y oppose. Le druide Dr. William Price de Llantrisant (1800-1893) défie les conventions établies en pratiquant la crémation de son enfant mort à cinq mois en 1884. Il est jugé à Cardiff et acquitté. En 1893, à sa mort, il est à son tour brûlé, lors d'une cérémonie funéraire accompagnée de rites païens, mais cette fois en toute légalité, car les lois se sont adaptées, sous la pression d'un druide païen, pour des motifs essentiellement religieux.

 

1873: Naissance à Farsø du romancier danois Johannes Vilhelm Jensen, qui s'inscrira pendant toute sa carrière sous l'enseigne du vitalisme. En 1901, dans Kongens Fald  (= La chute du roi), il déplore l'absence de vitalité des Danois. Son œuvre principale est une fresque intitulée Den lange Rejse  (= Le long voyage), brossant l'histoire de l'humanité et se voulant un “pendant darwinien de l'Ancien Testament”. De nombreux éléments mythologiques européens et des thématiques issues des sagas norroises étoffent cette fresque. Jensen doit beaucoup à Heine, Whitman et Kipling. Il théorise à la fin de sa vie la vision d'une “expansion gothique”, où la Scandinavie est considérée comme la base de départ de la civilisation européenne et américaine (Den gothiske Renæssance/La renaissance gothique, 1901). En 1944, Jensen obtient le Prix Nobel de littérature. Il meurt à Copenhague en 1950.

 

1874: Naissance de l'architecte allemand Bernhard Hoetger qui exhorte ses collègues à respecter les genius loci des sites où ils élèvent leurs bâtiments ou monuments. En 1925, il utilise des éléments du paganisme germanique pour construire le “Worpsweder Café”. En 1927, il utilise ces mêmes éléments lors de l'exposition des artistes de Worpswede. Son œuvre principale est la Böttcherstraße de Brème (1923-1931), dont Ludwig Roselius fut le commanditaire. Dénommé “Haus Atlantis”, le bâtiment principal de la Böttcherstraße relevait de la haute technologie, avec pour matériel principal l'acier. Sur l'une des façades, figurait une statue d'Odin attaché à l'arbre, sur fond d'une roue de runes; c'est la seule des nombreuses statues de l'immeuble qui subsiste aujourd'hui, après les bombardements de la seconde guerre mondiale. Toutes les autres sculptures ont disparu dans la tourmente.

 

1875-1877: Parution d'un livre important de l'ethnologue W. Mannhardt, Wald- und Feldkulte  (= Cultes forestiers et champêtres). Ces ouvrages auront une forte incidence sur les mouvements fondés par Oskar Michel, Ernst Wachler et Wilhelm Schwaner en 1903-1904 ainsi que dans les pratiques du mouvement Wandervogel.

 

1875-1888: Parution continue de la revue Celtic Magazine, porte-voix du mouvement pan-celtique.

 

1878: Lors de l'Eisteddfod gallois de Pontypridd, l'archi-druide prie la divinité indienne Kali, introduisant un élément hindouiste dans les pratiques néo-païennes d'Europe occidentale.

 

1885: Le philologue et archéologue allemand Ludwig J. Daniel Wilser évoque l'origine européenne des cultes solaires en Egypte et en Mésopotamie dans Die Herkunft der Deutschen. Neue Forschungen über Urgeschichte, Abstammung und Verwandtschaftsverhältnisse unseres Volkes. Il réiterera sa thèse dans Herkunft und Urgeschichte der Arier,  une conférence prononcée à Stuttgart devant l'association des anthropologues du Wurtemberg le 11 février 1899.

 

1886: La Highland Land League écossaise se réunit en septembre 1886 à Bonar Bridge pour jeter les bases d'une coopération étroite entre les peuples celtiques. Les Ecossais, moins celtophones que les Irlandais ou les Gallois, sont considérés désormais comme partie prenante du mouvement pan-celtique. Le Gallois de Patagonie, Michael D. Jones, participe à cette manifestation.

 

1886: Naissance à Cambridge de la poétesse anglaise Frances Crofts Cornford, petite-fille de Charles Darwin. Elle dirigera le cercle des néo-païens de Cambridge à partir de 1911. Elle était une disciple de Jane Ellen Harrison (cf. 1850). Son fils Rupert John Cornford (né en 1915) s'est engagé dans les Brigades Internationales en Espagne, a défendu l'Université de Madrid et est tombé à Cordoba. Sa vision de la vie était vitaliste et activiste, proche de celles de Malraux ou Hemingway. Frances Cornford meurt en 1960.

 

1887: Naissance à Rugby du poète anglais Rupert Chawner Brooke. Il restera longtemps l'incarnation littéraire de la jeunesse et de la beauté. Il meurt sur un navire-hôpital dans l'Egée en 1915. Il fait partie de la génération des poètes anglais de la guerre comme Blunden, Sassoon, Owen et Rosenberg. Patriote et socialiste, il faisait partie de la Fabian Society et fondera à Cambridge le cercle des néo-païens en 1908.

 

1888: Naissance à New York du dramaturge américain Eugène Gladstone O'Neill. Il obtiendra le Prix Pulitzer en 1915 et le Prix Nobel en 1936. O'Neill modernise le théâtre américain en s'inspirant d'Ibsen, Shaw, Strindberg et Nietzsche ainsi que de ses compatriotes Mencken et Nathan. Ses personnages sont des marins, son style est expresionniste, son message est d'affirmer la vie. Après avoir frôlé un retour au catholicisme de sa jeunesse (cf. Days without End),  il retourne définitivement au naturalisme et au pessimisme, qui font la trame de son œuvre (cf. The Iceman Cometh, 1939). Le message que laisse O'Neill: l'acception créative et païenne de la vie. Il meurt en 1953.

 

1892: Salomon Reinach publie à Paris L'origine des Aryens. Histoire d'une controverse, où il prend position contre le “mythe de l'ex Oriente lux”. En 1893, dans un article de la revue L'Anthropologie (n°4/1893), significativement intitulé «Le mirage oriental», il exhorte les Européens à revaloriser leur passé et abandonné leur dépendance à l'égard d'un Orient qu'ils ont eux-même fécondé.

 

1893: Fondation de la revue The Celtic Monthly. Elle prend le relais du Celtic Magazine.

 

1894: Fondation du Deutschbund, première association religieuse de type “völkisch” par le rédacteur en chef de la Tägliche Rundschau, Friedrich Lange. Parmi les autres fondateurs: Gerstenhauer, conseiller ministériel et chef du mouvement “chrétien-allemand”; Adolf Bartels, principal historien et critique des littératures allemande et internationale à l'époque en Allemagne.

 

1895: En mars 1895, Lloyd George apporte son soutien à Sir Henry Dalziel, qui réclame l'auto-détermination des peuples celtiques dans le Royaume-Uni. Cette proposition de loi a failli passer. Il lui a manqué vingt-six voix.

 

1899: Fondation dans l'Ile de Man de l'Yn Cheshaght Ghailckagh (Société Celtique de l'Ile de Man).

 

1899: Lors de l'Eisteddfod gallois, le Breton Le Fustec, attaché à l'United Ancient Order of Druids de Paris est sacré druide. En 1900, il s'auto-proclame Premier Grand Druide de Bretagne, fondant une organisation qui existe toujours aujourd'hui.

 

1901: Fondation en Cornouailles de la Kowethas Kelto-Kernuack (Société Celtique des Cornouailles).

 

1901: Les Bretons instituent leur propre cérémonie du Gorsedd.

 

1903: Eugen Diederichs, éditeur à Iéna, publie le livre du théologien dissident Arthur Bonus, Religion als Schöpfung  (= La religion comme création), renouant avec le sens germanique du religieux, incarné dans la figure médiévale de Maître Eckehardt. Cette publication donne le coup d'envoi d'une collection de livres sur les grands courants mystiques du monde, qui existe encore aujourd'hui.

 

1903: Oskar Michel fonde le Deutschreligiöser Bund dans la forêt de Teutoburg, sous le monument érigé en l'honneur d'Arminius. Le mouvement se fondera plus tard dans la mouvance “chrétienne-allemande”.

 

1904: Le poète anglais Kenneth Grahame publie Pagan Papers. Ce recueil est un hymne doux et idyllique au Grand Pan. En 1908, dans The Wind in the Willows, il approfondit sa vision panique, sensuelle et vitaliste. Grahame voulait créer “une religion splendide, capable de tout embrasser, de faire émerger une hiérarchie d'hommes unissant en leur intériorité le prêtre et l'artiste, pour supplanter et détruire totalement l'âge commercial actuel”.

 

1905: Sous l'impulsion de l'éditeur Eugen Diederichs, la fête du solstice d'été au Lobedaburg est rehaussée par la présence de la chanteuse norvégienne Bokken Lasson, qui retrouvait des mélodies et des tonalités du plus ancien patrimoine musical scandinave.

 

1906: Toujours sous l'impuslion d'Eugen Diederichs, la Fête de Mai au Lobedaburg est organisée pour rendre hommage à Ellen Key, dont le “sermont sur la montagne” d'inspiration panthéiste, est rehaussé par le chant au soleil de François d'Assise et la récitation de poèmes de Goethe.

 

1907-1908: Le Professeur Ludwig Fahrenkrog  —qui fondera un mouvement religieux en 1913 (cf.)—  publie une série d'articles dans la revue de Wilhelms Schwaner (Der Volkserzieher), où il précise les fondements de la religiosité germanique, au-delà du clivage chrétien/païen: Dieu est en nous, la loi est en nous, la rédemption vient de nous-mêmes. Au cours de ces deux années, Fahrenkrog fonde également un Bund für Persönlichkeitskultur  (= Association pour la culture de la personnalité), appelé à consolider sa vision de la religiosité germanique, reposant sur le culte des fortes personnalités.

 

1907: Matthäus Much publie son livre Die Trugspiegelung orientalischer Kultur  (= Le mirage de la culture orientale), où il proclame l'autochtonité des cultures européennes, sans pour autant nier qu'elles aient reçu des apports de l'Orient.

 

1907: Grand solstice d'été organisé par Eugen Diederichs sur les Roches de Rothenstein. Des chanteurs y chantent des Minnelieder médiévaux; des agriculteurs de la région présentent des pièces de théâtre populaires en dialecte.

 

1908: Fondation à Cambridge, dans le sillage des artistes pré-raphaëlites, d'un groupe qui s'est dénommé les “Néo-Païens”. Y participaient l'artiste Gwen Raverat et le poète Rupert Brooke. En 1911, la poétesse Frances Cornford reprend ce groupe peu actif en mains, mais il ne connaîtra pas un grand avenir, en dépit de l'intérêt des œuvres de ses animateurs.

 

1908: Sir Winston Churchill est initié à l'Albion Lodge of the Ancient Order of Druids à Oxford.

 

1908: En mai 1908, un groupe d'étudiant d'Iéna fonde l'association “Jenaer Freie Studentenschaft”. L'éditeur Eugen Diederichs prend immédiatement contact avec eux pour organiser la fête du solstice d'été, le 21 juin. Cette fête marque le point de départ de l'association néo-païenne d'Eugen Diederichs, qu'on nommera le “Sera-Kreis” (le Cercle Sera).

 

1910: Eugen Diederichs soutient financièrement un groupe de théologiens protestants dissidents pour qu'ils participent au congrès des tenants de la freie Religion  à Munich.

 

1911: Au début de l'année 1911, Otto Sigfrid Reuter fonde un “Deutscher Orden” où il entend défendre les idées exposées dans son petit livre Sigfrid oder Christus?, paru en 1909. De ce “Deutscher Orden” émergera plus tard l'organisation “Deutschreligiöse Gemeinschaft” qui deviendra la “Deutschgläubige Gemeinschaft”.

 

1911: Parution dans la maison d'édition d'Eugen Diederichs du livre du théologien non confessionnel et anti-conformiste Arthur Bonus, intitulé Vom neuen Mythos, appel à l'éclosion en Allemagne d'une nouvelle mystique holiste, vitaliste et organique. Cette thématique influencera fortement le mouvement de jeunesse. En cette même année 1911, Bonus sort également son Zur Germanisierung des Christentums,  réclamant une germanisation du christianisme, c'est-à-dire une modulation de la pratique religieuse et de la foi sur la mystique médiévale de Maître Eckehardt.

 

1911-1912: Adolf Kroll et Ernst Wachler franchissent le pas, abandonnent le “christianisme germanique” pour adopter une “religiosité germanique” sans détour chrétien. Ils demandent que les “païens de religiosité germanique” se rassemblent autour des revues Hammer  et Heimdall.  Ils fondent également la Gesellschaft Wotan (= Société Wotan).

 

1913: Le professeur d'art Ludwig Fahrenkrog fonde la “Germanische Glaubensgemeinschaft”.

 

1917: Le théologien non chrétien Arthur Drews publie en 1917 son ouvrage Freie Religion. Vorschläge zur Weiterführung des Reformationsgedankens.  Il entendait débarrasser la religion de toute forme de “dogme”. Il déplorait que la “religion libre” (freie Religion)  n'avait été qu'un conglomérat confus de toutes sortes de fragments épars de religiosités anciennes ou conventionnelles: humanisme des Lumières, panthéisme goethéen, héroïsme nietzschéen, platitudes matérialistes. Drews plaidait pour un corpus plus sérieux et mieux étayé.

 

1919: Le préhistorien allemand Carl Schuchhardt publie son ouvrage Alteuropa. Dans ce livre, il parle de l'origine européenne des civilisations avestique et védique et de l'influence des peintures des grottes d'Altamira ainsi que des reliefs de Laussel sur les civilisations égyptienne et babylonienne. La culture égyptienne a donc des racines dans l'Europe occidentale mégalithique. Les obélisques solaires sont des avatars des menhirs mégalithiques. Les alignements de pierres dressées d'Europe occidentale sont devenus les allées de statues d'Abouzir ou les allées de sphynx de Karnak. Les mastabas de l'ancienne Egypte rappellent les dolmens de l'Europe du Nord.

 

1921: Jessie Weston, proche de l'école (néo-païenne) de Cambridge, spécialiste en littératures romanes et professeur à l'Université de Paris, commence ses recherches sur le Graal. Le mythe du Graal dérive des cultes celtiques de la fertilité, affirme-t-elle.

 

1928: Les Corniques instituent leur propre cérémonie du Gorsedd.

 

1971: Les trois cérémonies (galloise, bretonne et cornique) du Gorsedd joignent leurs efforts le 3 septembre 1971. L'objectif était d'unifier les rituels des trois communautés celtiques-brythoniques.

 

 

samedi, 25 octobre 2008

Destin

Destin

trouvé sur : http://metanoia.hautetfort.com

 

Beaucoup d'efforts, de déceptions, parfois de souffrances. Et pour quel objectif, pour quel espoir ? L'avenir sera guerre ou esclavage. Ou fuite - repli vers d'autres terres, colonisation d'un sol, amour de ma compagne et mes enfants. Amour et prospérité de mon sang. Participation à un projet plus vaste, y compris, si plus rien ne nous reste, au service d'un autre peuple demeuré digne. Un peuple d'hommes debout.
*
Car tout cela précisément, n'a rien d'un choix. Sinon celui de la force ou de la faiblesse pour qui peut plus, celui de l'affirmation de sa forme intérieure, de son type ou de son reniement. L'Histoire ne naît pas des débats d'idées, et sans doute, il faut compter sur l'Elémentaire et les puissances plus que sur les hommes pour assurer qu'elle soit encore ouverte. Que choisit-on ? De s'assumer ou de se plier, encore que Juda se soit contenté de jouer son rôle. Le traître non plus ne choisit pas, pas toujours. Les hommes n'agissent que par intérêt, ils n'agissent pour une cause qu'en tant qu'ils identifient cette cause à leur essence.
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026d6fbaeb1d8b2eef794c25ae2a30b8.jpgLutte des classes, lutte des idéologies, lutte des cultures, luttes des peuples, l'Histoire se résume aux rapports entre les identités, et principalement à leur lutte. Leur lutte à mort dès lors que les prétentions croissent et que l'espace se restreint. Le déconstructionisme ambiant lui-même tient du combat identitaire: la tentative d'extermination par un type humain particulier, d'un autre type humain. Car le multiculturalisme est tout sauf une idée. La théorie de la libre sélection des traditions et des repères n'est sécrétée qu'à posteriori, pour légitimer un penchant naturel qui ne tient pas du choix. Pour sacraliser la simple expression d'un organisme, un organisme faible; ce demos auquel les hiérarchies donnent un cadre et une forme. Nous assistons à l'affrontement mortel entre une humanité dont le propre est de ne pouvoir s'identifier à rien, de ne produire aucune haute culture, et pour qui le multiculturalisme n'est que la traduction intellectuelle d'une nécessité vitale - et le camp de ceux qui sont ou aspirent à être.
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Il ne s'agit pas d'une lutte idéologique, ou bien secondairement, par extension, mais d'abord d'une lutte des types au sein d'une même race. Entre ceux, d'un côté, inaptes à assumer leur Européanité, et ceux de l'autre, tout aussi inaptes, mais cette fois à renoncer à cette identité - car il en est à qui la médiocrité coûte. Non que les premiers soient dans ce cas supérieurs; ils sont bien au contraire de ceux qui, de tout temps, n'ont jamais mérité aucun droit d'expression dans les affaires de la Cité. La guerre des cultures n'est qu'une conséquence de cet affrontement interne, rendu possible par l'éloigement de la source de la Tradition, rendu possible par la révolte des 3e et 4e Etats - ceux de la Masse. Et en ce sens, la guerre des peuples, ou plus exactement des populations, n'est pas le fait d'une quelconque haine du camp identitaire, mais bien une extension du domaine de la lutte hors du simple cadre de notre sang et de notre Civilisation. Une extension souhaitée, théorisée, par le type humain en révolte du demos, de l'informe, contre tout ce qui est encore différencié. Contre ce qui en Europe peut encore se dire Européen. Et seul l'inconscience de constituer un type, c'est à dire d'être porteur d'une essence, de quelque chose qui détermine et échappe au choix, permet la naïveté des discours légitimant la colonisation de l'Europe. 
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Je conçois que ces rapides considérations puissent apparaître comme quelque chose de monstrueux aux yeux de nombreux européens. Monstrueux comme une pure abstraction extirpée de l'esprit pour être formulée et portée dans l'existence, comme quelque chose de tout simplement inconcevable. Mais je dois dire qu'il s'agit d'abord, et avant tout, d'une intuition - et j'ose penser qu'elle doit être laissée aussi libre qu'il est possible. L'intuition est l'instinct de l'esprit, elle surgit d'une profondeur, et cette profondeur ne peut être rien d'autre que la source, un espace incorruptible. Ceux qui sont les plus choqués par le propos comprendront tout simplement, a priori, instinctivement eux aussi, qu'il est un danger pour leur domination dans le monde. Sans souvent avoir l'intelligence nécessaire à la distance, ils attaqueront comme des animaux de la savane protégeant leurs petits. Ils réagiront comme le fait l'homme lorsque l'on touche sans fard à ses facultés vitales, par un élan lui-même vital, animal. Des espèces contre d'autres espèces, des groupes à jamais distincts dans la lutte, une loi universelle. S'il est vrai que la vie de l'esprit puisse entraver ou au contraire décupler les facultés somatiques, il est tout aussi évident que le bios possède sa part d'influence sur tout ce que l'homme est censé produire. N'a-t-on jamais remarqué que cette nouvelle génération d'européens voue une certaine détestation à tout ce qui, dans la tenue, peut inspirer la rigueur d'hommes individués au point qu'ils en recherchent une impersonnalité apparente ? Des organismes et des esprits dégénérés ne pourront jamais supporter le contraste dès lors qu'ils sont ceux d'une majorité de la population - et que le système politique entend précisément tirer sa légitimité d'elle.
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Mon propos, et je ne nie pas qu'il soit excessivement schématique ainsi succintement exposé, choquera d'abord tout ceux qui ont besoin de l'idée de choix pour supporter leur existence, c'est à dire tous ceux qui cherchent en dehors d'eux même ce qu'ils sont. Il est bien sur inutile de préciser que ceux-ci ne trouveront rien correspondant à leur nature propre, précisément parce qu'ils procèdent par inversion et confusion. Nous ne sommes pas notre existence, comme un navire n'est pas l'océan sur lequel il se meut. Ce fétichisme de l'existence révèle une crainte de l'essence, et cette recherche grotesque de soi hors de soi n'est le plus souvent pas autre chose qu'une fuite. Alors que les populations deviennent apatrides en fuyant la guerre, désertant les régions qui forgèrent âmes et corps, l'existentialiste ne s'habite pas lui-même parce qu'il n'y a rien à habiter: c'est le propre terrifiant d'un grand nombre d'individus - mais sans doute est-ce aussi l'un des traits de la Modernité - de ne pouvoir être autre chose que des apatrides, parce qu'ils n'ont tout simplement aucune forme intérieure. Ils constituent la Masse, un bout de bois vulgaire abîmé par les rochers qui surgissent à la surface du torrent. L'existence est pour eux un flux, très exactement, qui vient les occuper et parvient finalement à constituer ce que le fétichisme contemporain nomme abusivement une personnalité. Mais l'on ne peut pas dire pour autant que ces individus, ces atomes, soient faits par leur existence. Plus surement, ils deviennent l'existence, ils deviennent flux, s'identifient au devenir même, pour s'affaisser à mesure de la mort de leur organisme. C'est cela, qui s'oppose à ce que telle ou telle intuition puisse être partagée.
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Le choix est sans aucun doute une abstraction rassurante, en remplaçant toute essence par un devenir qui justifie que l'on ne se trouve jamais. Il est le meilleur garant de toute les irresponsabilités, de toutes les anarchies qui se répandent en son nom et en celui de la liberté individuelle. C'est à l'inverse un tempérament viril qui peut seul se résoudre à la découverte de sa forme propre, qui confère une mission pouvant parfaitement s'insérer dans le cadre d'une société organique et hiérarchisée; connaissant l'ordre. Le choix est l'adversaire du sens, il est par essence négativement nihiliste et se complaît dans le flot confus des sensations et actes illusoires - il détache totalement l'individu pour ne lui faire connaître que le présent suspendu. Il est l'attitude d'esprit de tous ceux qui ne peuvent se développer en l'absence d'injonctions venus d'en Haut, et qui n'ont de fait dans la vie d'autres activités que de marcher ou de jouir sur place. Choisir revient à ne participer à rien, de telle sorte que dans le système politique, cette disposition se traduit par un fort penchant collectiviste sensible aux césarismes et aux politiques de la perfusion; quand bien même ce collectivisme est-il atomiste et que la non-perception remplace la terreur. Au contraire, celui qui est dispose d'un point qu'il peut mouvoir dans l'existence afin de naviguer et de trancher en elle: il est comme un parachutiste et non pas comme une feuille morte que le vent ferait virevolter. Deux objets en chute, mais une chute qui pour l'un peut être transcendée, et devenir même un objectif.
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Parce qu'il ignore totalement la Mort, le choix ignore totalement la Vie. Il ignore tout de la nature tragique de l'Homme à laquelle il trouve cependant une illusion de réponse, à la manière d'une drogue: la suspension du temps, l'assimilation de cet état à la Vie et à la nature de l'Homme lui permettent de nier la réalité même de la Mort, en transformant la Vie elle même en un éternel instant sans aucune signification. Pourtant, tous meurent, et cela n'a rien d'un choix. Cela a tout d'un destin, et l'on ne peut que l'assumer si l'on entend être véritablement humain, si l'on entend véritablement être un peuple - car ce qui vaut sur un plan vaut pour l'autre.
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Si un Européen entend vivre dignement, s'il entend être selon sa forme intérieure, la première de ses nécessités vitales se nomme Europe. Cela non plus, n'est pas un choix, et si nous nous engageons aujourd'hui dans la défense de la Tradition sur notre continent, ce n'est rien d'autre qu'un ordre impérieux de l'organisme. Une communauté nous est nécessaire, et ceux qui nous combattent sentent que notre renouveau signifierait leur fin; la fin du règne de l'existence au profit d'une Vie pour laquelle ils seraient de pathétiques espèces inadaptées.  

 

mercredi, 08 octobre 2008

Révolte contre le monde moderne

James Hillman : la Psicologia Moderna y el Olvido del Alma

La Psicología Moderna y el Olvido del Alma

Ex : http:://nueva-escuela.blogspot.com
Entrevista a James Hillman *

Por Scott London

Scott London: Ud. ha escrito y dado clases acerca de la necesidad de revisar la psicoterapia a lo largo de más de tres décadas. Ahora, de improviso, el público parece receptivo a sus ideas: Ud. figura en las listas de bestsellers y en las charlas de TV. ¿Por qué cree que su obra imprevistamente ha tocado una cuerda?

James Hillman: Creo que está habiendo un cambio de paradigma en la cultura. La antigua psicología ya no funciona. Demasiada gente ha estado analizando su pasado, su niñez, sus recuerdos, sus padres, y dándose cuenta de que no hace nada.

SL: Ud. no es una figura muy popular dentro del mundo institucional de los terapeutas.

JH: No soy crítico con la gente que hace psicoterapia. Los terapeutas que están en primera línea tienen que hacer frente a un enorme caudal de los fracasos sociales, políticos y económicos del capitalismo. Son sinceros y trabajan duro con muy poca credibilidad, y el sistema y las compañías farmacéuticas intentan eliminarlos. De modo que realmente no intento atacarlos. Lo que ataco son las teorías de la psicoterapia. Uno no ataca a los heridos de Irak, sino a la teoría detrás de la guerra. No es error de nadie que haya luchado en esa guerra. La guerra misma era el error.

Lo mismo ocurre con la psicoterapia. Transforma todos los problemas en problemas subjetivos, internos. Y no es de allí de donde vienen los problemas. Provienen del entorno, las ciudades, la economía. Provienen de la arquitectura, de los sistemas de enseñanza, del capitalismo, de la explotación. Vienen de muchos sitios que la psicoterapia no trata. La teoría de la psicoterapia lo vuelve todo sobre ti: tú eres el que está mal. Lo que intento decir es que si un muchacho tiene problemas o está desanimado, el problema no está simplemente dentro del muchacho; también está en el sistema, en la sociedad.





SL: No se puede arreglar a la persona sin arreglar la sociedad.

JH: No lo creo. Pero no creo que nada cambie hasta que no cambien las ideas. El punto de vista corriente de los norteamericanos consiste en creer que algo está mal en la persona. Tratamos a las personas de la misma manera que tratamos a los coches. Llevamos el pobre muchacho al doctor y preguntamos "¿qué no funciona en él, cuánto costará y cuándo podemos pasar a buscarlo?". No podemos cambiar nada hasta que tengamos ideas frescas, hasta que empecemos a ver las cosas diferentemente. Mi objetivo es crear una terapia de las ideas, tratar de aportar nuevas ideas, de modo que podamos ver de modo diferente los mismos viejos problemas.

SL: Ud. ha afirmado que escribe a partir de "la rabia, el disgusto y la destrucción"

JH: Me he encontrado con que la psicología contemporánea me enfurece con sus ideas simplistas acerca de la vida humana, y también su vacío. En la cosmología que subyace en la psicología, no hay ninguna razón para que estemos aquí o hagamos algo. Nos vemos compelidos por los resultados del Big Bang, hace billones de años, que eventualmente produjo la vida, que eventualmente produjo a los seres humanos, y así sucesivamente. Pero ¿y yo? Soy un accidente, un resultado -y por consiguiente una víctima.

SL: ¿Una víctima?

JH: Bueno, si sólo soy un resultado de causas pasadas, soy una víctima de estas causas pasadas. No hay mayor significado detrás de las cosas que proporcione una razón para estar aquí. O, si lo considera desde una perspectiva sociológica, soy el resultado de la crianza, la clase, los prejuicios sociales y la economía. Nuevamente soy una víctima. Un resultado.

SL: ¿Y qué acerca de la idea de que nos hacemos a nosotros mismos, de que puesto que la vida es un accidente, tenemos la libertad de transformarnos en lo que queramos?

JH: Sí, adoramos la idea del hombre que se ha hecho a sí mismo, ¡de otro modo iríamos a la huelga en contra de que Bill Gates tenga todo ese montón de dinero! Es increíble, y sin embargo es parte de ese culto a la individualidad.

Pero la cultura está pasando por una depresión psicológica. Nos preocupa nuestro lugar en el mundo, ser competitivos: ¿tendrán mis hijos tanto como tengo yo? ¿Llegaré a tener mi casa propia? ¿Cómo puedo comprarme un coche nuevo? ¿Me quitarán los inmigrantes mi mundo blanco? Toda esta ansiedad y depresión arroja dudas acerca de si puedo lograrlo como un individuo heroico estilo John Wayne.

SL: En "El código del alma" Ud. habla acerca de "la teoría de la bellota". ¿Qué es eso?

JH: Bueno, es más un mito que una teoría. Es el mito de Platón de que uno llega al mundo con un destino, aunque él emplea la palabra "paradigma" o arquetipo en lugar de destino. La teoría de la bellota dice que existe una imagen individual que le pertenece a tu alma.

El mismo mito puede encontrarse en la kabbalah. Los mormones también lo tienen. Los africanos también lo tienen. Los hindúes y los budistas también lo tienen de diferente manera -lo vinculan más con la reencarnación y el karma-, pero aún así uno llega al mundo con un destino particular. Los indios norteamericanos también lo tienen, y muy fuerte. De modo que todas estas culturas a lo largo del mundo tienen esta comprensión básica de la existencia. Sólo la psicología occidental no la tiene.

SL: En nuestra cultura tendemos a pensar en la vocación en términos de "profesión" o "carrera".

JH: Sí, pero la vocación puede referirse no sólo a maneras de hacer -esto es, trabajo- sino también a maneras de ser. Por ejemplo ser amigo. Goethe decía que su amigo Eckermann había nacido para la amistad. Aristóteles hacía de la amistad una de las grandes virtudes. En su libro sobre ética, tres o cuatro capítulos están dedicados a la amistad. En el pasado, la amistad era algo inmenso. Pero para nosotros es difícil pensar en la amistad como una vocación, porque no es una profesión.

SL: La maternidad es otro ejemplo que viene a la cabeza. De las madres se espera que tengan una vocación, por encima y más allá de ser una madre.

JH: En efecto, no es suficiente sólo ser madre. No es sólo la presión social sobre las madres por parte de ciertos tipos de feminismo y otras fuentes. También hay presión económica. Es una terrible crueldad del capitalismo depredador: ambos padres tienen que trabajar ahora. La familia debe tener dos fuentes de ingreso a fin de comprar las cosas que son deseables en nuestra cultura. De modo que la degradación de la maternidad -el sentimiento de que la maternidad no es en sí misma una vocación- también surge por la presión económica.

SL: ¿Qué implicaciones tienen sus ideas para los padres?

JH: Creo que lo que digo debiera aliviarlos enormemente y hacerlos desear prestar más atención a sus hijos, este “extraño” que ha aterrizado en medio de nosotros. En lugar de decir "Este es mi hijo" deben preguntarse "¿Quién es este niño que es mío?" Entonces tendrán mucho más respeto por el niño y tratarán de tener abiertos los ojos para las ocasiones en que el destino del niño pudiera mostrarse -como en la resistencia en la escuela, por ejemplo, o un conjunto de síntomas raros en un año, o una obsesión con una cosa u otra. Quizás allí esté ocurriendo algo muy importante que los padres no habían advertido antes.

SL: Los síntomas son vistos usualmente como debilidades.

JH: En efecto, de modo que se busca algún tipo de programa médico o terapéutico para liberarse de ellos, cuando los síntomas podrían ser la parte más crucial del niño. En mi libro hay muchas historias que ilustran esto.

SL: Tuve una larga discusión sobre su libro con una amiga que es madre de una niña de seis años. Si bien acepta la idea de que su hija tiene un potencial único, acaso incluso un "código", está preocupada de lo que eso puede significar en la práctica. Teme que pudiera abrumar a la niña con muchas expectativas.

JH: Esa es una madre muy inteligente. Creo que la peor atmósfera para una criatura de seis años, es aquella en la que no hay ninguna expectativa. Esto es, es peor para el niño crecer en un vacío donde "lo que hagas está bien, estoy segura de que triunfarás". Esta es una manifestación de desinterés.





Dice: "Realmente no tengo ninguna fantasía para ti". Una madre debiera tener alguna fantasía sobre el futuro de su hijo. Por lo menos aumentará su interés en su hijo. No se trata de convertir la fantasía en un programa para que el niño vuele en avión a lo largo del país. Eso sería la satisfacción de los propios sueños de los padres. Eso es diferente. Tener una fantasía -la cual el niño intentará cumplir o contra la cual se rebelará furiosamente- da al menos al niño alguna expectativa que cumplir o que rechazar.

SL: ¿Y qué piensa de la idea de someter los niños a tests para determinar sus aptitudes?

JH: Las aptitudes pueden mostrar la vocación, pero no son el único indicador. Las ineptitudes o limitaciones pueden revelar aún más la vocación que el mismo talento, curiosamente. O puede haber una formación muy lenta del carácter.

SL: ¿Cuál es el primer paso para entender la propia vocación?

JH: Es muy importante preguntarse a sí mismo: "¿Cómo puedo ser útil a los demás? ¿Qué quiere la gente de mí?" Esto bien podría revelar para qué está uno aquí.

SL: Ud. ha escrito que "la gran tarea de cualquier cultura es mantener los invisibles en contacto". ¿Qué quiere decir con ello?

JH: Es una idea difícil de explicar sin abandonar la psicología e introducirse en la religión. No hablo sobre quiénes son los invisibles, o dónde viven o qué quieren. No hay teología en ello. Pero es el único modo en que los humanos podamos dejar de ser tan humano-céntricos: permanecer vinculados a algo otro que humano.

SL: ¿Dios?

JH: Sí.

SL: ¿Nuestra vocación?

JH: Creo que el primer paso es darse cuenta de que cada uno de nosotros Somos. Y luego debemos mirar hacia atrás en nuestras vidas y considerar algunos de los accidentes y curiosidades y rarezas y problemas y enfermedades y comenzar a ver más en estas cosas de lo que habíamos visto antes.

Plantear preguntas, de modo que cuando ocurren esos pequeños y peculiares accidentes, uno se pregunta si hay algo más en acción en nuestra vida. Es más una sensibilidad, tal como la que tendría una persona que viviera en una cultura tribal: el concepto de que hay otras fuerzas en acción. Un modo de vivir más reverencial.

SL: Recuerdo una charla pública que Ud. dio hace tiempo. La gente quería preguntarle todo tipo de cuestiones acerca de su visión del alma, y Ud. parecía un poco irritado con ellos.

JH: He estado luchando con estas cuestiones durante treinta y cinco años. A veces me irrito en una situación pública porque pienso, Oh Dios, no puede volver a eso de nuevo. No puedo poner eso en una respuesta de dos palabras. No puedo. Donde quiera que vaya, la gente dice "¿Puedo hacerle una pregunta rápida?" Siempre es "una pregunta rápida". Bueno, mis respuestas son lentas.

SL: Antes mencionó a Goethe. El observó que nuestra mayor felicidad reside en practicar un talento para el que fuimos hechos. ¿Somos tan desgraciados, como cultura, porque estamos disociados de nuestros talentos innatos, nuestro código del alma?

JH: Creo que somos desgraciados en parte porque tenemos solo un dios, y es el dinero. El dinero es un porteador de esclavos. Nadie tiene tiempo libre, nadie tiene tiempo para mirar más allá de su ego. Toda la cultura está bajo una presión terrible y fraguada de preocupaciones.

Esa es la situación dominante en todo el mundo.

mardi, 23 septembre 2008

Quand B. Croce sponsorisait Evola...

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Quand Benedetto Croce “sponsorisait” Evola...

 

Alessandro BARBERA

 

Le philosophe libéral et antifasciste a joué un rôle étrange, celui de “protecteur” d'Evola. Alessandro Barbera nous raconte l'histoire inédite d'une relation que personne ne soupçonnait...

 

Julius Evola et Benedetto Croce. En apparence, ce sont là deux penseurs très éloignés l'un de l'autre. Pourtant, à une certaine période de leur existence, ils ont été en contact. Et ce ne fut pas un épisode éphémère mais un lien de longue durée, s'étendant sur presque une décennie, de 1925 à 1933. Pour être plus précis, disons que Croce, dans cette relation, a joué le rôle du “protecteur” et Evola, celui du “protégé”. Cette relation commence quand Evola entre dans le prestigieux aréopage des auteurs de la maison d'édition Laterza de Bari.

 

Dans les années 30, Evola a publié plusieurs ouvrages chez Laterza, qui ont été réédités au cours de notre après-guerre. Or, aujourd'hui, on ne connaît toujours pas les détails de ces liens au sein de la maison d'édition. En fait, deux chercheurs, Daniela Coli et Marco Rossi, nous avaient déjà fourni dans le passé des renseignements sur la relation triangulaire entre Evola, Croce et la Maison d'édition Laterza. Daniela Coli avait abordé la question dans un ouvrage publié il y a une dizaine d'années chez Il Mulino (Croce, Laterza e la cultura europea, 1983). Marco Rossi, pour sa part, avait soulevé la question dans une série d'articles consacrés à l'itinéraire culturel de Julius Evola dans les années 30, et parus dans la revue de Renzo De Felice, Storia contemporanea (n°6, décembre 1991). Dans son autobiographie, Le chemin du Cinabre  (éd. it., Scheiwiller, 1963; éd. franç., Arke/Arktos, Milan/Carmagnole, 1982), Evola évoque les rapports qu'il a entretenus avec Croce mais nous en dit très peu de choses, finalement, beaucoup moins en tout cas que ce que l'on devine aujourd'hui. Evola écrit que Croce, dans une lettre, lui fait l'honneur de juger l'un de ses livres: «bien cadré et sous-tendu par un raisonnement tout d'exactitude». Et Evola ajoute qu'il connaît bien Croce, personnellement. L'enquête nous mène droit aux archives de la maison d'éditions de Bari, déposées actuellement auprès des archives d'Etat de cette ville, qui consentiront peut-être aujourd'hui à nous fournir des indices beaucoup plus détaillés quant aux rapports ayant uni les deux hommes.

 

La première lettre d'Evola que l'on retrouve dans les archives de la maison Laterza n'est pas datée mais doit remonter à la fin de juin 1925. Dans cette missive, le penseur traditionaliste répond à une réponse négative précédente, et plaide pour l'édition de sa Teoria dell'individuo assoluto.  Il écrit: «Ce n'est assurément pas une situation sympathique dans laquelle je me retrouve, moi, l'auteur, obligé d'insister et de réclamer votre attention sur le caractère sérieux et l'intérêt de cet ouvrage: je crois que la recommandation de Monsieur Croce est une garantie suffisante pour le prouver».

 

L'intérêt du philosophe libéral se confirme également dans une lettre adressée par la maison Laterza à Giovanni Preziosi, envoyée le 4 juin de la même année. L'éditeur y écrit: «J'ai sur mon bureau depuis plus de vingt jours les notes que m'a communiquées Monsieur Croce sur le livre de Julius Evola, Teoria dell'individuo assoluto,  et il m'en recommande la publication». En effet, Croce s'est rendu à Bari vers le 15 mai et c'est à cette occasion qu'il a transmis ses notes à Giovanni Laterza. Mais le livre sera publié chez Bocca en 1927. C'est là la première intervention, dans une longue série, du philosophe en faveur d'Evola.

 

Quelques années plus tard, Evola revient frapper à la porte de l'éditeur de Bari, pour promouvoir un autre de ses ouvrages. Dans une lettre envoyée le 23 juillet 1928, le traditionaliste propose à Laterza l'édition d'un travail sur l'hermétisme alchimique. A cette occasion, il rappelle à Laterza l'intercession de Croce pour son ouvrage de nature philosophique. Cette fois encore, Laterza répond par la négative. Deux années passent avant qu'Evola ne repropose le livre, ayant cette fois obtenu, pour la deuxième fois, l'appui de Croce. Le 13 mai 1930, Evola écrit: «Monsieur le Sénateur Benedetto Croce me communique que vous n'envisagez pas, par principe, la possibilité de publier un de mes ouvrages sur le tradition hermétique dans votre collection d'œuvres ésotériques». Mais cette fois, Laterza accepte la requête d'Evola sans opposer d'obstacle. Dans la correspondance de l'époque entre Croce et Laterza, que l'on retrouve dans les archives, il n'y a pas de références à ce livre d'Evola. C'est pourquoi il est permis de supposer qu'ils en ont parlé de vive voix dans la maison de Croce à Naples, où Giovanni Laterza s'était effectivement rendu quelques jours auparavant. En conclusion, cinq ans après sa première intervention, Croce réussit finalement à faire entrer Evola dans le catalogue de Laterza.

 

La troisième manifestation d'intérêt de la part de Croce a probablement germé à Naples et concerne la réédition du livre de Cesare della Riviera, Il mondo magico degli Heroi.  Dans les pourparlers relatifs à cette réédition, on trouve une première lettre du 20 janvier 1932, où Laterza se plaint auprès d'Evola de ne pas avoir réussi à trouver des notes sur ce livre. Un jour plus tard, Evola répond et demande qu'on lui procure une copie de la seconde édition originale, afin qu'il y jette un coup d'oeil. Entretemps, le 23 janvier, Croce écrit à Laterza: «J'ai vu dans les rayons de la Bibliothèque Nationale ce livre sur la magie de Riviera, c'est un bel exemplaire de ce que je crois être la première édition de Mantova, 1603. Il faudrait le rééditer, avec la dédicace et la préface». Le livre finira par être édité avec une préface d'Evola et sa transcription modernisée. La lecture de la correspondance nous permet d'émettre l'hypothèse suivante: Croce a suggéré à Laterza de confier ce travail à Evola. Celui-ci, dans une lettre à Laterza, datée du 11 février, donne son avis et juge que «la chose a été plus ennuyeuse qu'il ne l'avait pensé».

 

La quatrième tentative, qui ne fut pas menée à bon port, concerne une traduction d'écrits choisis de Bachofen. Dans une lettre du 7 avril 1933 à Laterza, Evola écrit: «Avec le Sénateur Croce, nous avions un jour évoqué l'intérêt que pourrait revêtir une traduction de passages choisis de Bachofen, un philosophe du mythe en grande vogue aujourd'hui en Allemagne. Si la chose vous intéresse (il pourrait éventuellement s'agir de la collection de “Culture moderne”), je pourrai vous dire de quoi il s'agit, en tenant compte aussi de l'avis du Sénateur Croce». En effet, Croce s'était préoccupé des thèses de Bachofen, comme le prouve l'un de ses articles de 1928. Le 12 avril, Laterza consulte le philosophe: «Evola m'écrit que vous lui avez parlé d'un volume qui compilerait des passages choisis de Bachofen. Est-ce un projet que nous devons prendre en considération?». Dans la réponse de Croce, datée du lendemain, il n'y a aucune référence à ce projet mais nous devons tenir compte d'un fait: la lettre n'a pas été conservée dans sa version originale.

 

Evola, en tout cas, n'a pas renoncé à l'idée de réaliser cette anthologie d'écrits de Bachofen. Dans une lettre du 2 mai, il annonce qu'il se propose «d'écrire au Sénateur Croce, afin de lui rappeller ce dont il a été fait allusion» dans une conversation entre eux. Dans une seconde lettre, datée du 23, Evola demande à Laterza s'il a demandé à son tour l'avis de Croce, tout en confirmant avoir écrit au philosophe. Deux jours plus tard, Laterza déclare ne pas «avoir demandé son avis à Croce», à propos de la traduction, parce que, ajoute-t-il, «il craint qu'il ne l'approu­ve». Il s'agit évidemment d'un mensonge. En effet, Laterza a de­man­dé l'avis de Croce, mais nous ne savons toujours pas quel a été cet avis ni ce qui a été décidé. L'anthologie des écrits choisis de Bachofen paraîtra finalement de nombreuses années plus tard, en 1949, chez Bocca. A partir de 1933, les liens entre Evola et Croce semblent prendre fin, du moins d'après ce que nous permettent de conclure les archives de la maison Laterza.

 

Pour retrouver la trace d'un nouveau rapprochement, il faut nous reporter à notre après-guerre, quand Croce et Evola faillirent se rencontrer une nou­velle fois dans le monde de l'édition, mais sans que le penseur tra­ditionaliste ne s'en rende compte. En 1948, le 10 décembre, Evola propose à Franco Laterza, qui vient de succéder à son père, de pu­blier une traduction du livre de Robert Reininger, Nietzsche e il senso de la vita.  Après avoir reçu le texte, le 17 février, Laterza écrit à Alda Croce, la fille du philosophe: «Je te joins à la présente un manuscrit sur Nietzsche, traduit par Evola. Cela semble être un bon travail; peux-tu voir si nous pouvons l'accepter dans le cadre de la “Bibliothèque de Culture moderne”». Le 27 du même mois, le philosophe répond. Croce estime que l'opération est possible, mais il émet toutefois quelques réserves. Il reporte sa décision au retour d'Alda, qui était pour quelques jours à Palerme. La décision finale a été prise à Naples, vers le 23 mars 1949, en la présence de Franco Laterza. L'avis de Croce est négatif, vraisemblablement sous l'influence d'Alda, sa fille. Le 1er avril, Laterza confirme à Evola que «le livre fut très apprécié (sans préciser par qui, ndlr) en raison de sa valeur», mais que, pour des raisons d'«opportunité», on avait décidé de ne pas le publier. La traduction sortira plus tard, en 1971, chez Volpe.

 

Ce refus de publication a intrigué Evola, qui ignorait les véritables tenants et aboutissants. Un an plus tard, dans quelques lettres, en remettant la question sur le tapis, Evola soulevait l'hypothèse d'une «épuration». Cette insinuation a irrité Laterza. A la suite de cette polémique, les rapports entre l'écrivain et la maison d'édition se sont rafraîchis. En fin de compte, nous pouvons conclure qu'Evola est entré chez Laterza grâce à l'intérêt que lui portait Croce. Il en est sorti à cause d'un avis négatif émis par la fille de Croce, Alda, sur l'une de ses propositions.

 

Alessandro BARBERA.

(trad. franç. : Robert Steuckers)

jeudi, 18 septembre 2008

J. Evola: Jünger et l'irruption de l'élémentaire dans l'espace bourgeois

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Julius EVOLA:

 

Jünger et l'irruption de l'élémentaire dans l'espace bourgeois

 

Il est visible et il nous paraît évident qu'à travers l'économie se sont réveillées des forces «élémentaires», qui, en de nombreux domaines, échappent au contrôle du bourgeois et, ainsi, deviennent le substrat d'une nouvelle unité, collective cette fois.

 

Ce constat nous amène effectivement à certains aspects de la crise du monde bourgeois et à les étudier; selon Jünger, il faut tourner notre attention vers quelques traits caractéristiques du bourgeois qui correspondent à son idéal de sécurité commode et d'exclusion de toute force élémentaire hors de sa vie.

 

Le concept d'élémentaire joue un rôle central dans le livre de Jünger. Comme chez d'autres auteurs allemands, le terme «élémentaire» n'est pas utilisé chez Jünger dans le sens de “primitif”; il désigne bien plutôt les puissances les plus profondes de la réalité qui échappent aux structures intellectuelles et moralistes et qui sont caractérisées par une transcendance, positive ou négative selon l'individu: c'est comme si l'on parlait des forces élémentaires de la nature. Dans le monde intérieur, il existe des puissance qui peuvent faire irruption dans la vie, tant la vie personnelle que la vie collective, en venant d'une strate psychique plus profonde. Quand Jünger parle de l'exclusion de l'élémentaire dans le monde bourgeois, il est évident qu'il s'associe à la polémique développée par plusieurs courants d'idées contemporains, depuis l'irrationalisme, l'intuitionnisme, la religion de la vie (ou vitaliste) jusqu'à la psychanalyse et à l'existentialisme; il s'insurge contre la vision rationaliste-moraliste de l'homme, prédominante hier encore. Mais nous allons voir que la position de Jünger est originale dans ce contexte, car il conçoit des formes actives, lucides, non régressives des rapports de l'homme à l'élémentaire, ce qui le distingue de l'orientation problématique, propre à la grande majorité des courants que nous venons de mentionner.

 

La préoccupation constante du monde bourgeois est donc «de fermer hermétiquement l'espace vital à tout irruption de l'élémentaire», de «se créer une ceinture de sécurité face à l'élémentaire». De ce fait, la sécurité dans la vie est donc l'exigence de ce monde, que devra consolider et légitimer le culte de la raison: une raison «pour laquelle tout ce qui est élémentaire équivaut à l'absurde et à l'insensé». Inclure l'élémentaire dans l'existence, avec tous les problèmes et les risques que cela peut impliquer, voilà ce qui apparaît inconcevable au bourgeois; pour lui, c'est une aberration qu'il faut prévenir par le truchement de techniques pédagogiques adéquates. Jünger écrit: «Le bourgeois ne se sent jamais assez hardi pour se mesurer au destin en luttant et en s'exposant aux dangers, parce que l'élémentaire réside en dehors de son monde idéal; pour lui, l'élémentaire est l'irrationnel voire l'immoral. Il cherchera donc à le tenir toujours à distance, que celui-ci lui apparaisse sous le mode de la puissance ou de la passion, ou se manifeste dans les forces de la nature, dans le feu, l'eau, la terre ou l'air. De ce point de vue, les grandes villes du début du siècle apparaissaient comme les citadelles de la sécurité, comme le triomphe des murs qui, à ce moment-là, cessaient d'être les murs antiques des enceintes fortifiées et se manifestaient désormais comme pierres, asphalte et vitres encerclant la vie, similaires à la structure des rayons d'une ruche, pénétrant jusqu'à la trame la plus intime de la vie. Dans ce sens, toute conquête de la technique est un triomphe de la commodité et toute apparition de l'élémentaire est régulée par l'économie».

 

Pour Jünger, le caractère anomal de l'ère bourgeoise ne réside pas tant dans la recherche de la commodité «que dans ce trait spécifique qui s'associe à ces tendances: c'est-à-dire dans le fait que l'élémentaire se présente comme l'absurde et, partant, que les murs d'enceinte de l'ordre bourgeois se présentent simultanément comme les murs d'enceinte de la rationalité». Tel est donc bien le point d'ancrage de la polémique anti-bourgeoise de Jünger. Il distingue bien la rationalité du culte de la raison et conteste l'idée qui veut qu'un ordre et une mise en forme rigoureuse de la vie soient possibles et concevables seulement selon le schéma rationaliste, partant d'une imperméabilisation de l'existence face à l'élémentaire. Parmi les tactiques utilisées par le bourgeois, il y a celle qui consiste à «présenter toute attaque contre le culte de la raison comme une attaque contre la raison en elle-même, afin de pouvoir bannir cette attaque dans l'aire de l'irrationnel». En vérité, toute attaque peut s'identifier à une autre, mais seulement selon la vision bourgeoise, c'est-à-dire seulement sur base de «la conception spécifiquement bourgeoise de la raison, caractérisée par une “inconciliabilité” avec l'élémentaire». Cette antithèse ne peut être retenue comme valide par un nouveau type humain: du reste, cette antithèse est dépassée de fait par des figures «comme, par exemple, celles du croyant, du guerrier, de l'artiste, du navigateur, du chasseur, du travailleur et, aussi, finalement, du délinquant»; pour toutes ces figures, à l'exception de la dernière, le bourgeois nourrit une aversion plus ou moins ouverte, parce que «pour ainsi dire, elles portent déjà à l'intérieur même des cités, par leurs apparences, l'odeur du danger, parce que déjà leur simple présence représentent une instance dirigée contre le culte de la raison».

 

Mais «pour le guerrier la bataille est un événement dans lequel se réalise un ordre suprême, pour le poète les conflits les plus tragiques sont des situations où le sens de la vie peut se condenser en un mode particulièrement net»; la délinquence elle-même peut être expliquée par une rationalité lucide; quant au croyant, «il participe à la sphère plus vaste d'une vie pleine de signification. Soit par le malheur ou le danger ou le miracle, le destin l'englobe directement dans un tissu d'événements plus puissants. Les dieux aiment se manifester dans les éléments, dans les astres enflammés et dans la foudre, dans les ronces que la flamme ne consume pas». L'élément décisif qu'il s'agit surtout de reconnaître ici est que «l'homme peut demeurer en rapport avec l'élément(aire) sur un plan supérieur ou sur un plan inférieur et qu'en conséquence, multiples sont les plans sur lesquels tant la sécurité que le danger retournent dans l'ordre. Au contraire, dans le bourgeois, on perçoit un homme qui ne reconnaît comme valeur suprême que la sécurité, et détermine sa conduite de vie sur base de cet idéal de sécurité». «Les conditions pour promouvoir cette sécurité, que le progrès cherche à réaliser, sont corollaires de la domination universelle de la raison bourgeoise, laquelle devrait non seulement limiter, mais, en bout de course, détruire, toutes les sources de danger. Et, comme à la lumière de cette raison, le danger est présenté comme étant l'irrationnel, on ôte à celui-ci tout droit de faire partie de la réalité. Il est fort important, dès lors, dans un tel mode de penser, de voir l'absurde dans tout danger: celui-ci semble éliminé dès le moment où, dans le miroir de la raison, il apparait comme une erreur».

 

«Dans les ordonnancements tant spirituels qu'objectifs du monde bourgeois, on peut constater tout cela», poursuit Jünger. «En grand, on peut le voir dans la tendance à concevoir l'Etat  —lequel, normalement, se base pour l'essentiel sur la hiérarchie, en termes de société—  comme une forme ayant pour principe fondamental l'égalité et se constituant par le truchement d'un acte de la raison. Cette vision révèle la volonté d'imposer une organisation complexe, un système de sécurité devant ventiler et atténuer toutes les formes de risques, non seulement dans le domaine de la politique intérieure et extérieure, mais aussi dans celui de la vie individuelle, ce qui constitue une tendance à dissoudre le destin par un calcul de probabilités. Cette vision révèle enfin, dans ses multiples et complexes tentatives de ramener la vie de l'âme à des rapports de cause à effet, dans sa volonté de transférer la vie de l'âme du domaine de l'imprévisible à celui du calculable, et puis de l'insérer dans la sphère “éclairée” de la conscience extérieure». Dans tous les domaines, la tendance est d'éviter les conflits et de démontrer leur “évitabilité”. Mais vu que les conflits surviennent malgré tout, pour le bourgeois, «l'important est de démontrer qu'ils sont une erreur que l'éducation et une pédagogie “éclairée” des esprits devront empêcher la répétition».

 

Mais un tel monde ne serait qu'un monde d'ombres, où l'idéologie des Lumières surévaluerait ses propres forces, en croyant qu'il puisse tenir vraiment debout. En réalité, «le danger est toujours présent; comme un élément de la nature, il cherche continuellement à briser la digue que l'ordre a construit pour l'enserrer; et, par l'effet des lois d'une mathématique occulte mais infaillible, il se fait d'autant plus menaçant et mortel que l'ordre cherche à l'exclure. En fait, le danger veut être non seulement un élément de cet ordre mais, en plus, le principe d'une sécurité supérieure, que jamais le bourgeois ne pourra connaître». En règle générale, si l'on peut exclure l'élémentaire dans un type donné d'existance, cette exclusion «doit être soumise à certaines lois, parce que l'élémentaire n'existe pas seulement dans le monde externe mais est aussi inséparable de la vie de chaque individu». L'homme vit dans l'“élémentarité” dans la mesure où il est un être naturel, un être mu spirituellement par des forces profondes. «Aucun syllogisme ne pourra jamais se substituer au battement du cœur ou à l'activité des reins; il n'existe aucune grandeur qui puisse naître de la seule raison, qui, de temps en temps, doit bien se soumettre aux passions, nobles ou ignobles». Enfin, se référant au monde économique, Jünger note que «s'il est beau le mode par lequel nous nous voyons imposer des calculs, et si l'unique résultat de ceux-ci doit être le bonheur, il restera toujours un résidu qui se soutraira à toute analyse et l'être humain aura le sentiment d'être appauvri, de vivre une désespérance croissante».

 

Mais l'élémentaire a une double source. «D'une part, il a sa source dans un monde qui est toujours dangereux, comme la mer recèle en elle le danger même quand elle n'est pas troublée par le moindre ventelet. D'autre part, il a d'autres sources dans l'âme humaine, qui a soif de jeu et d'aventure, d'amour et de haine, de triomphe et de chute, qui ressent tant le besoin du risque que de la sécurité; et donc, pour cette âme humaine, un Etat absolument sécurisé apparaît comme un Etat d'incomplétude». En prononçant d'aussi audacieuses paroles, Jünger se réfère implicitement à un type humain différent de celui véhiculé par le monde bourgeois, mais que ce monde génère malgré lui.

 

La domination des valeurs bourgeoises peut donc se mesurer «à la distance que l'élémentaire semble avoir prise en se retirant de l'existence». Jünger dit “semble”, parce que l'élémentaire se sert de multiples masques et trouve toujours un moyen de se nicher au centre même du monde bourgeois, pour en miner les ordonnancements rationalisants et émerger dès que survient une crise. Par exemple, Jünger rappelle comme déjà dans le passé, sous le signe de la Révolution française, quelles noces cruelles furent celles qui unirent la bourgeoisie et le pouvoir. Le dangereux et l'élémentaire se sont réaffirmés «face aux astuces les plus subtiles par lesquelles on a cherché à les circonvenir; ils s'introduisent de façon imprévue dans les rouages mêmes de ces astuces, en prennent les travestissements, ce qui fait que tout ce qui est civilisation [au sens bourgeois] présente un visage ambigu; nous connaissons tous les rapports qui existent entre les idéaux de fraternité universelle et les gibets, entre les droits de l'homme et les massacres». Non que ce soit le bourgeois lui-même qui veuille imposer de telles circonstances contradictoires: car quand il parle de rationalité et de moralité, il se prend terriblement au sérieux: «tout cela est plutôt un terrible rire sarcastique qu'adresse la nature aux masques se présentant sous le visage de la moralité, une exultation frénétique du sang dirigée contre l'intellect, après que se soit achevé le prélude des beaux discours». En revanche, ce qui mérite d'être remarqué, c'est «le jeu ingénieux des concepts par lequel le bourgeois cherche à faire ressortir ces vertus et à ôter aux mots tout ce qu'ils ont de dur et de nécessaire, afin que transparaisse seulement une moralité que tous sont tenus de reconnaître». Par exemple, cette attitude est bien visible sur le plan international, «quand on cherche à présenter la conquête d'une colonie comme étant une pénétration pacifique ou comme une opération civilisatrice, ou l'incorporation d'une province appartenant à un pays voisin comme un effet de la libre auto-décision des peuples, ou, enfin, les rapines perpétrées par les vainqueurs comme des réparations». Il est évident qu'à ces exemples avancés par Jünger on pourrait facilement ajouter des faits plus récents. Parmi les cas les plus typiques, nous pourrions ajouter les «nouvelles croisades», les tribunaux de vainqueurs, les «aides aux pays sous-développés», etc.

 

Dans ce même ordre d'idées, est exact ce que dit Jünger quand il relève que c'est justement à l'époque où se sont officiellement et bruyamment propagées les valeurs bourgeoises de “civilisation” que l'on a assisté à des événements que l'on n'aurait plus cru possibles dans un monde éclairé: des phénomènes de violence et de cruauté, de délinquence organisée, de déchaînements d'instincts, de massacres. Tous ces événements représentent «la réduction à l'absurde de l'utopie bourgeoise de la sécurité». En guise de bon exemple, Jünger signale les conséquences qu'a déjà eues le prohibitionnisme aux Etats-Unis: il constitue une tentative moralisatrice, promise par une littérature faite d'utopisme social, et qui semble avoir été conçue comme une mesure de sécurité; elle n'a cependant réussi qu'à attiser des forces élémentaires du plus bas niveau. Ainsi, l'Etat, en suivant rigidement le principe bourgeois, se réfère à des catégories abstraites, rationnelles et moralisantes, et exclut l'élémentaire; mais, en réalité, cet Etat fait en sorte que cet élémentaire s'active en dehors du cadre qu'il installe. «Le moral et le rationnel n'étant pas des liens primordiaux mais seulement des liens propres à l'esprit abstrait, dit Jünger, toute autorité ou tout pouvoir qui veulent se baser sur eux, ne seront qu'autorité ou pouvoir apparents, et, simultanément, la sécurité bourgeoise ne tardera pas à manifester son caractère utopique et éphémère». Il serait bien difficile de contester la réalité de cette dialectique, surtout dans la période qui a suivi la rédaction du Travailleur. C'est effectivement à cette dialectique que se rapportent, d'une part, l'un des facteurs principaux de la crise du monde bourgeois, et, d'autre part, cette autre face, informe, obscure et dangereuse des structures sociétaires modernes, ordonnées et régulées seulement en surface, mais privées tant d'un sens supérieur que de racines dans les strates psychiques les plus profondes.

 

Déjà au moment de la rédaction du Travailleur,  après la première guerre mondiale, il était clair qu'un phénomène analogue de contre-coup allait se produire quand on allait appliquer de tels principes, notamment celui qui se profile derrière le concept bourgeois de liberté abstraite: dans la mesure où l'on reconnaît au principe de la démocratrie nationale une validité universelle, sans opérer la moindre discrimination, on aboutit automatiquement à un état d'anarchie mondiale, suscitant de nouvelles causes de crise au sein de l'ordre ancien, telle la révolte des peuples colonisés et de toutes les forces auxquelles, en Europe et ailleurs, le principe d'auto-détermination des peuples a donné une souveraineté politique même quand il s'agissait de tribus ou de populations, explique Jünger, «dont le nom n'était pas connu de l'histoire politique mais seulement, à la rigueur, des manuels d'ethnologie. Cet état de choses a pour conséquence naturelle la pénétration dans l'espace politique de courants purement élémentaires, de forces appartenant moins à l'histoire qu'à l'histoire naturelle». Aujourd'hui, ce constat est encore plus exact qu'hier.

 

Pour nous, il est cependant plus important d'examiner la crise du système dans ses aspects spirituels. Jünger parle surtout de formes de défense et de compensation qui se sont déjà manifestées en marge de la société bourgeoise, avec le phénomène du romantisme. «Il y a des périodes où les relations de l'homme avec l'élémentaire se manifestent sous l'aspect de propensions au romantisme, lesquelles constituent déjà en soi un point de fracture. Selon les circonstances cette fracture se fera visible: on se perdra dans le lointain (l'exotique), dans l'ivresse, la folie, la misère ou la mort. Ce sont là toutes des formes de fuite où l'homme isolé, après avoir cherché en vain une voie de sortie dans tout l'espace du monde spirituel ou matériel, met bas les armes. Mais, en tant que telle, la capitulation, peut aussi revêtir les apparences d'une attaque, comme quand un navire de guerre, en sombrant, tire encore une ultime bordée à l'aveuglette».

 

«Nous avons su reconnaître la valeur de la sentinelle tombée sur sa position perdue, continue Jünger. Nombreuses sont les tragédies auxquelles se lient de grands noms, mais il y a aussi beaucoup de tragédies anonymes, où des groupes entiers, des strates sociales entières, qui subissent une raréfaction de l'air nécessaire à la vie, comme s'ils avaient été pris par un vent de gaz toxiques». Ce que Jünger ajoute ensuite a une base autobiographique et reflète ses propres expériences de jeunesse, dont nous avons déjà eu l'occasion de parler: «Le bourgeois a presque réussi à persuader le cœur aventureux que le danger n'existe pas, qu'une loi économique gouverne le monde et l'histoire. Mais les jeunes gens qui dans la nuit et le brouillard abandonnent la maison de leur père ont le sentiment intime de devoir aller très loin à la recherche du danger, au-delà de l'océan, en Amérique, à la Légion Etrangère, dans des pays où poussent les arbustes qui donnent le poivre. Mais surgissent aussi des figures qui n'auront pas le courage de s'exprimer dans ce langage propre et supérieur, comme celle du poète qui se sent pareil au pétrel dont les ailes puissantes, créées pour la tempête, ne deviennent, hélas, plus qu'un objet de curiosité inopportune dans un milieu étranger, sans vent, ou comme celle du guerrier né, qui semble n'être qu'un bon à rien, parce que la vie du marchand le remplit de dégoût».

 

Pour Jünger, le point décisif de fracture a eu lieu pendant la première guerre mondiale. «Dans la joie, les volontaires l'ont saluée (écrit Jünger en se souvenant visiblement de ce qu'il a lui-même vécu) parce qu'elle leur procurait un sentiment de libération des cœurs et que, d'un trait, se révélait à eux une vie nouvelle, plus dangereuse. Dans cette joie, se cachait aussi, tapie, une protestation révolutionnaire contre les valeurs anciennes, tombées irrémédiablement en désuétude. A partir de ce moment-là, dans tous les courants de pensée, dans tous les sentiments et dans tous les événements, s'est infusé une couleur nouvelle, élémentaire». L'important, ici, est de voir comment, par la force même des choses, un nouveau mode d'être a commencé à se différencier. Jünger relève aussi le rôle qu'ont joué dans la jeunesse combattante, entraînée dans la complexité de cette guerre, les enthousiasmes, les idéaux et les valeurs du patriotisme conventionnel lié au monde bourgeois. Mais, bien vite, il est apparu clairement que cette guerre réclamait des réserves de forces bien différentes de celles nourries à ces sources bourgeoises: et cette différence est celle qui distingue les sentiments d'enthousiasme des troupes quittant les gares, d'une part, et «leur action entre les cratères, sous le fer et le feu d'une bataille de matériel», d'autre part. Alors, dans cette épreuve du feu, disparait le contexte qui justifiait la protestation romantique. Cette protestation-là, écrit Jünger, «est condamnée au nihilisme, là où elle est fuite, simple polémique contre un monde qui sombre, or en tant que telle, elle reste conditionnée par lui. Elle ne devient force que quand elle donne lieu à un type spécial d'héroïsme». Là s'annonce le thème central du Travailleur:  traverser une zone de destruction sans être soi-même détruit. La même expérience aura des effets totalement opposés chez des hommes d'une même génération: «les uns se sont sentis déchirés par elle, les autres ont participé à un vécu jamais expérimenté auparavant, grâce à l'extrême proximité de la mort, avec le feu et le sang». La discordance découle de l'ambigüité d'avoir eu comme uniques béquilles les valeurs bourgeoises qui se basaient sur l'individu et sur l'exclusion de l'élémentaire, et d'avoir été capables de vivre une nouvelle liberté. S'il avait été déchiré, brisé, par la guerre, Jünger aurait pu se référer aux mots qu'Erich Maria Remarque a mis en exergue de son fameux livre A l'Ouest rien de nouveau:  «Ce livre ne veut ni accuser ni démontrer une thèse; il veut seulement dire quelle fut une génération, déchirée par la guerre même quand les obus l'ont épargnée». Mais comme Jünger est de ceux qui savent intimement qu'ils ont vécu une expérience unique, il voit en ses compagnons de combat ceux qui anticipativement ont constitué le «type»: c'est-à-dire un homme qui se tient debout parce qu'il veut se rendre capable d'un rapport actif avec l'élémentaire, et, parallèlement, développer des formes supérieures de lucidité, de conscience et de maîtrise de soi, parce qu'il veut se dés-individualiser et accepter un réalisme absolu, parce qu'il connaît le plaisir des prestations absolues, de la plénitude maximale de l'action, assortie d'un minimum de “pourquoi?” et de “dans quel but?”. C'est là que «les lignes de la force pure et celles de la mathématique se rencontrent»; dans l'aire d'une conscience accrue, «il est possible de potentialiser les moyens et les énergies premières de la vie, dans un sens inattendu, jamais encore expérimenté».

 

«Dans les centres occultes de la force, par laquelle on domine la sphère de la mort, on rencontre une humanité nouvelle, qui se forme par le biais d'exigences nouvelles», écrit Jünger. «Dans un tel paysage, on ne peut plus apercevoir l'individu qu'avec beaucoup de difficultés; le feu a calciné tout ce qui n'a pas un caractère objectif». Les processus en plein développement sont tels que toute tentative de la raccorder encore au romantisme et à l'idéalisme de l'individu finissent par sombrer irrémédiablement dans l'absurde. Pour dépasser victorieusement «quelques centaines de mètres où règne la mort mécanique», on n'a nul besoin des valeurs abstraites, morales ou spirituelles, de la libre volonté, de la culture, de l'enthousiasme ou de l'ivresse aveugle qui méprise le danger. Pour cela, il faut une énergie nouvelle et précise, tandis que «la force combattive du milieu dans son ensemble assume un caractère moins individuel que fonctionnel». En outre, on découvre des correspondances entre le point de destruction et l'apogée spirituelle d'une existence; c'est là que se déchaînent les prémisses de la personne absolue. Les rapports avec la mort se transforment et «la destruction peut surprendre l'homme singulier dans ces instants précieux où on lui demande un maximum d'engagement vital et spirituel». Alors, «à la fin, on peut aussi reconnaître la liberté la plus élevée». Tout cela devient, finalement, un part naturelle, voulue d'avance, d'un nouveau style de vie. Finalement se présentent «des figures d'une suprême discipline du cœur et des nerfs, indices d'une froideur quasi métallique, extrême et lucide, où la conscience héroïque se montre capable d'utiliser le corps comme un pur instrument, en lui imposant une série d'actions complexes, au-delà de l'instinct de conservation. Entre les flammes d'un avion touché, dans les chambres d'air d'un submersible qui coule, on accomplit encore un travail qui, au sens propre, transcende la sphère de la vie et dont jamais aucun communiqué ne signalera». Les deux termes qui s'unissent dans ce «type» sont donc l'élémentaire en acte, en soi et en dehors de soi, d'une part, et la discipline, l'extrême rationalité, l'extrême objectivité, c'est-à-dire un contrôle abstrait et absolu de l'activation totale de son être propre, d'autre part.

 

C'est ainsi, d'après Jünger, que déjà au cours de la première guerre mondiale, s'annonçait l'avènement d'une nouvelle «forme intérieure», et nous avons déjà eu l'occasion de dire qu'en elle, il voyait ce qui allait devenir décisif pour l'humanité en devenir, c'est-à-dire les culminations exceptionnelles, à l'image des extériorisations guerrières. La crise finale du monde bourgeois et de toutes les valeurs anciennes, pour Jünger, découle de la civilisation de la technique et de la machine, et de toutes les formes d'élémentarité qui leur sont consubstantielles. Et substantiellement identique serait le type d'homme qui, spirituellement, n'est pas le vaincu mais le vainqueur, que ce soit sur les champs de bataille modernes ou dans un monde absolument technicisé. Substantiellement identique serait le type de dépassement et de formation intérieure qui serait requis dans les deux cas. C'est ainsi que s'ébauche la figure de l'homme que Jünger nomme le “Travailleur”, qu'une continuité idéale unirait «au soldat vrai, invaincu, de la Grande Guerre».

 

Julius EVOLA.

(Chapitre extrait de L'«Operaio» nel pensiero di Ernst Jünger,  éd. Volpe, Rome, 1974; trad. franç.: Robert Steuckers).

Julius EVOLA

mardi, 16 septembre 2008

Les positions philosophiques d'Alexandre Douguine

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Denis CARPENTIER :

 

 

Les positions philosophiques d’Alexandre Douguine

 

Alexandre Douguine, qui avait pris la parole au colloque du GRECE en 1991, aux côtés d’Alain de Benoist, de Jacques Marlaud et de Charles Champetier, a fait un sacré bonhomme de chemin depuis lors. Incroyablement actif sur internet, écrivain très prolifique, homme orchestre de plusieurs média audio-visuels russes où on l’appele le “disk-jockey de la métaphysique”, il a creusé son trou dans l’entourage du Président Poutine et participe, intellectuellement, au réarmement moral et politique de sa patrie russe. Le Chilien Sergio Fritz, de la “Nueva Derecha Chilena”, et son ami italien Daniele Scalea, qui participe à son site “Eurazia”, ont brossé en quelques paragraphes clairs et succincts la pensée de ce Russe étonnant, sorti de la marginalité dissidente des années 80 pour se hisser, petit à petit, sans jamais se renier ou se dédouaner, aux plus hautes sphères du pouvoir russe actuel. Examinons en bref les idées qui l’animent depuis toujours:  

 

Dougine développe des idées géopolitiques “eurasiennes”, dans la mesure où il inverse la thèse énoncée par Mackinder en 1904, qui prévoyait l’endiguement et l’encerclement de la Russie; comme Carl Schmitt, il conçoit l’histoire comme l’affrontement éternel entre un “Léviathan” et un “Béhémoth”, soit entre la “Terre” et la “Mer”. L’Allemagne et la Russie sont, pour le juriste allemand d’hier comme pour le traditionaliste russe actuel, les forces de la Terre en lutte contre les forces malfaisantes et déliquescentes de la Mer, représentées aujourd’hui par les Etats-Unis.

 

Douguine s’inscrit dans la tradition de la “politique hermétique”: ce sont en effet des forces spirituelles qui guident le monde et l’ont toujours guidé. Originalité de sa position : le communisme russe, après l’éviction des comploteurs “atlanto-trotskistes” (selon sa terminologie), est devenu une sorte de “voie de la main gauche”. Cette expression un peu énigmatique est tirée de l’œuvre d’Evola et de la tradition indienne; elle signifie qu’une force en apparence anti-traditionnelle peut en réalité dissimuler une puissance active et positive qui va subrepticement dans le sens de la Tradition, donc de l’esprit de la “Terre” par opposition à celui de la “Mer”. On songe au tantrisme indien, en apparence débauché, mais poussant la débauche si loin qu’elle se mue en force rénovatrice et restauratrice.

 

Douguine se place tout naturellement dans le sillage de la “révolution conservatrice” allemande des années 20 et 30. Il est l’homme qui a réintroduit en Russie les thèses énoncées par le néo-nationalisme soldatique allemand d’après 1918, période de défaite pour Berlin, comme l’effondrement de l’URSS était, finalement, une période de défaite pour la puissance russe. Douguine est évidemment séduit par la russophilie des “révolutionnaires conservateurs”, dont la première source d’inspiration a été l’œuvre de Dostoïevski, traduite à l’époque en allemand par l’exposant principal de la “révolution conservatrice”, Arthur Moeller van den Bruck, dont toutes les idées politiques dérivent de l’oeuvre du grand romancier russe du 19ième siècle. La “révolution conservatrice” allemande est donc essentiellement “dostoïevskienne” pour le Russe Douguine. Il est donc naturel et licite de la ramener en Russie, où, espère-t-il, elle trouvera un terreau plus fécond.

 

Douguine a introduit ensuite la “pensée traditionaliste” en Russie en y vulgarisant, en y traduisant et en y publiant les œuvres de René Guénon et Julius Evola. Dans cette optique, Douguine n’adopte pas entièrement les mêmes positions que ses homologues ouest-européens. A l’influence des deux traditionalistes français et italien, il ajoute celle du Russe Constantin Leontiev pour qui la Tradition est ou bien othodoxe ou bien islamique. Pour Leontiev, le catholicisme et le protestantisme sont des voies résolument anti-traditionnelles, produits de l’”Occident dégénéré” (Leontiev, Danilevski). L’autre objectif de Douguine, en diffusant la pensée d’Evola et de Guénon, est de lutter contre toutes les entreprises de vulgarisation spirituelle du “New Age” californien, qui risquait fort bien de s’abattre sur une Russie déboussolée et tentée par toutes les expériences occidentales, dont cette confusion des genres, ce bazar de pseudo-spiritualités de pacotille qu’est ce “New Age”.

 

Douguine plaide en politique pour une “convergence des extrêmes”, à l’instar de l’activiste italien des années 70, Giorgio Freda, auquel les journalistes mal intentionnés avaient collé l’étiquette de “nazi-maoïste”. Les activistes et les militants considérés par les bien-pensants comme des “extrémistes” veulent tous, quelles que soient les étiquettes dont ils s’affublent, la “désintégration du système” (Freda). Il faut unir ces forces et non pas les maintenir en un état de division, où des antagonismes artificiels vont les faire s’exterminer mutuellement. La figure emblématique de cette “convergence des extrêmes” est l’irlando-argentin Che Guevara, que Jean Cau avait chanté en son temps, pourtant après sa rupture avec Sartre!

 

Douguine travaille certes dans l’entourage de l’actuelle présidence russe mais ce soutien apporté à Poutine n’est pas a-critique et inconditionnel. Pour Douguine, Poutine est pour le moment un “moindre mal” (explique-t-il dans un entretien accordé à Scalea pour le site et le journal Italia Sociale). Il reproche au Président russe d’avoir laissé tomber Chevarnadze en Géorgie et Yanoukovitch en Ukraine, ce qui pourrait inquiéter les présidences fidèles à Moscou en Biélorussie (Loukatchenko), au Kazakstan (Nazarbaïev) et ailleurs. Il préférerait voir l’ancien militaire Pavel Ivanov au pouvoir à Moscou mais Poutine, selon lui, a eu le mérite insigne de mettre fin à l’ère de totale déliquescence qu’avait provoquée le clan Eltsine. Pour Douguine, Poutine avance toutefois trop lentement : il n’est pas assez ferme contre les “oligarques”, il ne cherche pas à créer une élite alternative mentalement bien structurée, prête à prendre les rênes du pouvoir et à barrer la route à tous les charlatans sans cervelle et sans tripes que manipulent les services américains via les “révolutions colorées”, rose ou orange. Le risque de cette faiblesse chronique est de voir la Russie exposée à une “menace orange” en 2008, lors des prochaines présidentielles. Autre danger: la reconstitution tacite d’un cordon sanitaire autour de la Russie et la création d’antagonismes de pure fabrication pour susciter des conflits permanents, retardateurs, à l’intérieur même de l’espace eurasiatique, qui doit s’unir s’il veut rester libre. La stratégie du “divide ut impera”, pratiquée par Washington, implique dans un premier temps, par exemple, un soutien à Sakachvili en Géorgie contre la Russie, puis un soutien à Poutine contre Sakachvili, de façon à maintenir et à entretenir un désordre permanent dans la région, permettant toutes les politiques manipulatoires. Après la Géorgie et l’Ukraine, le scénario de “révolution spontanée” ou de “révolution colorée” se répète au Kirghizistan, où le président Akaïev, ni pro-russe ni pro-américain mais “eurasien”, est déstabilisé parce que l’US Army entend, à terme, utiliser le territoire kirghize comme base pour encercler la Chine. Alors qu’Akaïev voulait que son pays soit la plaque tournante des communications routières et ferroviaires entre la Russie, l’Inde et la Chine. Dès lors est-ce un hasard s’il est dans le collimateur... et tout d’un coup considéré comme “corrompu” par notre bonne presse...?

 

Suivre Douguine sur internet est captivant. La matière est vaste et apporte chaque jour son bon petit lot d’informations originales et explosives. En parfaite contradiction avec la pensée dominante, “politiquement correcte”.

 

Denis CARPENTIER. 

 

Bibliographie :

Sergio FRITZ, “Alexander Dughin o cuando la metafísica y la política se unen”, http://www.angelfire.com/zine/BLH/nueve1.html... .

Daniele SCALEA, “Le ‘rivoluzioni colorate’ mirano alla distruzione della Russia” – Intervista con Aleksandr Dugin, http://www.italiasociale.org/Geopolitica_articoli/geo2105... (30 mai 2005).

lundi, 15 septembre 2008

Klages e la mistica del primordiale

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La mistica del primordiale

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Tommaso Tuppini, <I>Ludwig Klages. L'immagine e la questione della distanza Credeva che l’Amore, forza cosmica ancestrale, fosse impersonale e assoluto. Che vagasse nell’etere, come un’energia che proveniva dai mondi della creazione. Klages non era un visionario. O almeno, non solo. Era un filosofo-poeta contro l’epoca moderna. Nella società della tecnica vedeva la negazione della vera identità dell’uomo, che secondo lui proveniva dalle leggi primitive dell’esistenza, da ciò che lui chiamava anima. Anima è l’origine, è il segreto della vita, è il sigillo che ogni uomo e ogni popolo si porta dietro come un simbolo. Anima è la fusione con la natura, è la voce silenziosa degli avi, che non sappiamo più percepire. Tipico dell’epoca moderna è il voler andare contro l’anima, il voler costruire ideali artificiali, rapporti sociali falsi, utopie ingannatrici. Contro la purezza originaria della vita e contro l’armonia primordiale degli uomini e delle cose è sorto un giorno quel vizio assurdo che è lo spirito, cioè la ragione, l’intelletto razionalista. Energia distruttrice delle radici cosmiche dell’uomo, lo spirito ha in ogni epoca edificato imposture: tra queste, la coscienza repressiva invece dell’anima libera, la volontà tirannica invece della libertà senza limiti di spazio, la storia invece del tempo senza tempo.

Si capisce subito che in Klages rintoccano alcune eco di Nietzsche: la celebrazione delle origini e delle radici, la nostalgia di un’epoca mitica - quella dei “Pelasgi” - in cui gli uomini erano potenze dell’universo prive di angosce e paure, padroni di se stessi e dei propri istinti sovrani.

Nostalgia per l’epoca in cui sorsero i miti delle antiche civiltà, quando l’intuito, l’inconscio e le percezioni sensitive non erano ancora stati repressi dalle armi di distruzione della perversa intelligenza: il concetto, il giudizio, il criticismo. Quella era la vera vita: liberazione degli istinti e delle sensazioni, senza complessi, senza colpe, senza nessuna idea del “peccato”. Questo dell’uomo razionalista è invece il trionfo dell’anti-vita artificiale, che crea i mostri della tecnica e del progresso materiale.

La vita come estasi. Se l’uomo fosse in grado di tornare alla magia dell’origine, potrebbe sbarazzarsi di tutti i fardelli angosciosi che impone la schiavitù della modernità, che ha robotizzato i cervelli e isterilito le anime. La libera psiche è Eros, amore cosmico, distacco romantico dai vuoti interessi terreni. Nel suo libro famoso Dell’Eros cosmogonico, risalente al 1922, Klages celebrò l’Amore totale, il magnete che attrae magicamente due poli anche lontani tra loro, al di là della semplice sessualità, come un moto unitario di natura e un legame di sangue: “Il compimento consiste nel destarsi dell’anima, ed il destarsi dell’anima è contemplazione, ma essa contempla la realtà delle immagini originarie; le immagini originarie sono anime del passato che appaiono; per apparire esse hanno bisogno del legame con il sangue di chi è ancora vivo ed ha ancora un corpo”. In questo “mistico sposalizio” tra anima e “demone generatore” si compie, alla maniera platonica, secondo Klages, la trasformazione del semplice uomo in uomo assoluto, cosmico.

Klages amava la cultura romantica, che pensava per simboli, e che assegnava ai sentimenti il primo posto nella scala dei valori. Ma amava anche Goethe, la sua ricerca dei fenomeni originari come manifestazione del divino. Goethe era poeta, romanziere, scienziato. Ma uno scienziato che credeva ai fenomeni intuitivi, alla magia che è in natura. Ad esempio, il suo romanzo sulle Affinità elettive - in cui rappresentò il caso di una gravidanza condizionata dalla forza psichica del pensiero d’amore, al di là delle normali leggi biologiche - piacque moltissimo a Klages, che giunse a considerare Goethe come un maestro di sapienza inconscia, un poeta delle possibilità magnetiche della psiche umana. Non dunque il solare, l’olimpico genio che siamo abituati a conoscere, ma una sorta di mago indagatore dei segreti dell’anima e dei poteri occulti racchiusi nelle energie di Madre Natura.

Ritroviamo questi temi nella recente traduzione italiana di un piccolo libro di Klages del 1932, Goethe come esploratore dell’anima (editore Mimesis), in cui Goethe diventa quasi un sacerdote neo-pagano. Egli, studiando ad esempio la metamorfosi delle piante, in realtà aveva penetrato il mondo delle segrete potenze primordiali: i mutamenti, le polarità, i magnetismi. Klages, con mentalità irrazionale e religiosa, vede dunque nel genio di Goethe non semplicemente un grande poeta o un grande romanziere, ma un uomo capace di avvicinarsi al cuore divino della vita. Scienziato mistico e non razionalista, Goethe diventa agli occhi di Klages il massimo profeta di un ritorno alla natura e alle sue leggi di attrazione tra simili e di differenziazione universale. Klages amò la natura, fu un “ecologista” ante-litteram, ma non così profano e banale come i “verdi” del nostro tempo materialista. Nel suo capolavoro del 1929, Lo spirito come avversario dell’anima - un tomo di oltre mille pagine che fece epoca - Klages scrisse che “chi distrugge il volto della terra, uccide il cuore della terra e priva della loro ’sede’ le potenze che ora si sono dileguate nell’etere”.

Gli dèi sono fuggiti dal mondo perché l’uomo ha profanato la terra e desacralizzato la natura. Ma attenzione: tutto questo non era soltanto letteratura. Era molto di più. Nella rivalutazione dell’irrazionale e dell’inconscio c’era una guerra dichiarata al mondo razionalista, indifferenziato, democratico, ateo, materialista. Giampiero Moretti ha scritto che nell’idea di Klages di coniugare Goethe con Nietzsche c’era inciso il destino dell’Europa, “forse fin dai suoi primi albori, ad esempio, fin dal momento in cui le figure del guerriero e del sacerdote-poeta presero due strade diverse, spesso in lotta tra loro”.

Ora tutto è più chiaro. Molto oltre la mediocrità della new-age attuale, e con tanta profondità culturale in più, Klages fece parte di quella ribellione tradizionalista al mondo moderno che fu pensata in Europa come un’arma di difesa della terra, del sangue, dell’istinto, dell’origine mitica, del simbolo ancestrale, dell’identità mistica di popoli e gruppi umani. Una cultura politicamente vinta e dispersa. Ma non abbastanza da non lasciarci immaginare che possa presto o tardi riemergere, proprio come una di quelle occulte leggi della vita studiate da Goethe.

* * *

LUDWIG KLAGES: L’IRRAZIONALISMO INNANZI TUTTO

Nato a Hannover nel 1872, filosofo, psicologo e grafologo, Klages visse e insegnò a Monaco, dove conobbe Stefan George - il maggior poeta tedesco dell’epoca - entrando nel George-Kreis, il famoso sodalizio di cui facevano parte molti intellettuali di valore (tra gli altri, Bertram, Wolfskehl, Kantorowicz, Gundolf). Collaborò alla prestigiosa rivista di George “Blätter für die Kunst“, alla cui ideologia romantico-estetizzante si formarono intere generazioni di giovani tedeschi. Nel 1899 formò un suo gruppo culturale, i Kosmiker, vicino alle idee dell’antichista Johann Jakob Bachofen e di Alfred Schuler, il visionario studioso di Nietzsche e di Roma antica. Distaccatosi nel 1904 da George, Klages fondò il “Seminario di Psicodiagnostica”, che gli dette la notorietà. Il senso ideologico di questo ambiente consisteva nel recupero dei valori “dionisiaci” e tellurici, con una rivalutazione dell’irrazionalismo e degli aspetti esoterici della vita e della persona umana. Autore prolifico e originale, durante il Terzo Reich fu nominato Senatore dell’Accademia Tedesca di Monaco ma, a partire dal 1938, rimase appartato per l’inimicizia che gli portarono Alfred Rosenberg e i seguaci dell’ideologia volontarista e virilmente eroica, egemone all’interno della cultura nazionalsocialista. Epurato nel 1945, morì nei pressi di Zurigo nel 1956. Tra le sue opere tradotte in italiano: L’anima e lo spirito (Bompiani, Milano 1940); Dell’Eros cosmogonico (Multhipla, Milano 1979); Perizie grafologiche su casi illustri (Adelphi, Milano 1994); Stefan George, in S.George-L.Klages, L’anima e la forma (Fazi, Lucca 1995); L’uomo e la terra (Mimesis, Milano 1998). Di prossima pubblicazione è la riedizione de I Pelasgi presso le Edizioni Herrenhaus di Seregno. Si tratta di un capitolo dell’opera principale di Klages, Der Geist als Wiedersacher der Seele (Lo spirito come avversario dell’anima), mai tradotta in italiano.

Tratto da Linea del 21.III.2004.


Luca Leonello Rimbotti

jeudi, 21 août 2008

Europa degli eroi - Europa dei mercanti

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Claudio Bonvecchio,

Europa degli eroi Europa dei mercanti

 

Settimo Sigillo, Roma 2004, pag. 94, euro 10.

Già il titolo di questo lavoro di Claudio Bonvecchio, professore di Filosofia Politica presso l’Università dell’Insubria e prolifico autore di saggi sul mito e sul simbolico, pone il lettore di fronte ad un’opzione. Europa degli eroi o Europa dei mercanti? L’interrogativo, che riprende la distinzione resa famosa da Werner Sombart, richiede una risposta perentoria e definitiva. L’autore non esita a darla, ponendosi dalla parte di chi crede in un risveglio europeo dal torpore del cosmopolitismo e del globalismo, che sembra aver precipitato il continente in una desolazione fino ad oggi sconosciuta. Ma cos’è l’Europa? Da buon studioso di simbolica politica, Bonvecchio utilizza strumenti a lui familiari per delinearne i contorni: è il mito, di cui viene ribadita l’efficacia conoscitiva e quella caratteristica di immediatezza che manca all’approccio logico-discorsivo, a venire riproposto quale chiave di lettura. Ed il mito racconta dell’unione fra la lunare Europa ed il solare Zeus, da cui nasceranno tre figli, Sarpedonte, Minosse e Radamanto, fondatore di città il primo, sovrani e legislatori i secondi. Un’unione che rappresenta, simbolicamente, una perfetta totalità, ove le diversità si armonizzano tra loro e il cui frutto richiama l’armonia e l’equilibrio. Funzione dell’Europa, racconta il mito, è l’essere punto di riferimento e appianatrice di conflitti e controversie. Ma l’Europa, e lo dimostrano i doni nuziali ricevuti da Zeus (un cane, un gigante, una lancia), è sempre bisognosa di difesa e ha nella vulnerabilità il suo tallone d’Achille. L’esegesi mitica termina quindi con un interrogativo irrisolto: da chi deve difendersi l’Europa? Da qualcun altro o da se stessa?

Per rispondere, Bonvecchio passa dalla fase mitica, alla base del sorgere dell’Europa, a quella del tramonto e della decadenza europea; si entra così nella storia che l’Europa sta vivendo: un presente, sotto gli occhi di tutti, in cui essa si abbrutisce in mancanza di punti di riferimento trascendenti, sostituiti dal culto del  profitto e del consumo. Un presente che la vede, nello scacchiere globale, assolutamente incapace di recitare un ruolo che non sia di comparsa. Non meno impietosa la diagnosi rispetto alle forme politiche che alimentano questa deriva: dalla statualità, frutto della modernità che ha finito per divorare se stessa, alla democrazia formale che si nutre di un egualitarismo acritico, produttivo di forme di raccolta del consenso sempre meno partecipative e sempre più funzionali ai poteri economici. L’Europa deve, quindi, la sua vulnerabilità all’incapacità di ritrovarsi: all’aver permesso che alla comunità, fondata sull’appartenenza e l’adesione a valori che trascendevano l’individuo, seguisse la società, in cui si sta insieme per interesse e l’individuo rimane solo con la propria sete di guadagno. Anche qui si recuperano le categorie rese famose da Tönnies per riproporle in una dimensione contemporanea e assolutamente attuale. A Bonvecchio, infatti, l’Europa dell’euro sembra il modello perfetto di una società di tipo geo-economico: c’è una banca, una moneta, persino un parlamento ma nessuna traccia di identità, nessuna radice nella quale rispecchiarsi. Eppure, afferma Bonvecchio, i possibili riferimenti identitari ci sarebbero e vanno cercati nella propria storia: ma a frenarne il riemergere ci pensa un senso di colpa e di timore che l’eredità della seconda guerra mondiale continua ad alimentare. Tutto ciò ha impedito all’Europa di resistere al modello etico, oltre che economico-politico, americano, che dimostra tutta la sua aggressività e l’incapacità di considerare il diverso da sé. A questo modello massificante ed omologante viene contrapposta la vocazione universalista di cui il Vecchio Continente è storicamente portatore.

Qui va fatta una precisazione. L’universalismo cui si riferisce Bonvecchio non può dissociarsi dall’idea di imperialità. E l’impero è concepito come l’unica forma politica e simbolica capace di unire le differenze, al tempo stesso preservandole. È inutile ricordare ai lettori di Diorama lo stesso riferimento presente nel de Benoist de L’impero interiore, che pure non perde occasione per criticare il concetto moderno di universalismo, considerato una corruzione dell’oggettività e un  grimaldello ideologico al servizio del pensiero dominante per annullare le identità e qualunque espressione di appartenenza in nome dell’astrazione più assoluta (si veda, da ultimo, il suo saggio Oltre i diritti dell’uomo). Ne sono figli la teorizzazione dei diritti umani, nonché l’idea dell’esportibilità di modelli politici quali la democrazia liberale. L’universalismo di Bonvecchio non può concepirsi se non in relazione al pluralismo culturale (si veda, a tal proposito, il volume di Chiodi, Europa. Universalità e pluralismo delle culture): esso è connesso all’idea di un’Europa quale casa comune, legata dalla spiritualità e dal sacro prima e dalla cultura poi, munita di una lingua, il latino, che oltre ad essere uno strumento di comunicazione era soprattutto l’espressione di un modo di vivere, pensare e ragionare essenzialmente europei. Questo riferimento al latino permette il raffronto con un'altra lingua, quella inglese, che pure oggi viene propugnata quale lingua universale, ma che qui viene liquidata come la lingua del commercio e della pratica del mercato, incapace di imprimere nell’anima di chi la adopera qualunque idea di appartenenza comune. L’inglese è infatti la lingua del particolarismo individualistico, di quel cosmopolitismo che per Bonvecchio è la vera malattia dell’Europa. È il cosmopolitismo a determinare il declino del Vecchio Continente: il suo momento centrale è individuato nella Rivoluzione Francese, che sostituirà alla centralità del sistema simbolico europeo, espressione di valori condivisi, il particolarismo ideologico ed il funzionalismo dello stato nazionale ad esso asservito. La chiave di volta non sarà più l’uomo, ma il denaro: l’Europa sceglierà i mercanti. Il frutto di questo processo sarà l’affermazione di un’identità cosmopolita che si pensa politicamente nella nazione ma economicamente nel mercato internazionale e mondiale: una contraddizione solo apparente, alimentata dal prevalere dell’economico sul politico, che sfocerà nei due conflitti mondiali che hanno messo in ginocchio l’Europa. La globalizzazione rappresenta, a tal proposito, la moderna forma di asservimento alla signoria del mercato, capace di avvalersi della formidabile gamma di apparati tecnici, sociali e amministrativi che deresponsabilizzano l’uomo e concorrono ad un’omologazione mortificante e massificante. Qualunque differenza e specificità viene stritolata in nome di una totalità virtuale, basata su valori troppo astratti per essere coesivi.

Come se ne esce? Bonvecchio non ha dubbi: l’Europa ha nella sua storia le armi dello spirito e della cultura che le permetterebbero, se solo volesse, di resistere. Si tratta di “passare al bosco”; l’espressione di Jünger, che la ha adottata ne Il trattato del ribelle, ben si presta alla scelta che spetta all’uomo europeo: ritrovare l’originaria partecipazione alla comunità che passa per un recupero della dignità perduta. Si devono scegliere gli eroi: viene tracciato così un’itinerario di ribellione, che da individuale si fa collettivo, e che passa per la riscoperta delle proprie radici spirituali, che affondano nel Sacro e nelle molteplici forme in cui esso si esprime, e che continua nella scelta politica di una grande Europa, imperiale, capace di riscoprire la ricchezza che proviene dall’essere differenti nell’unità. L’ultimo passo è il recupero di un’economia sociale piegata alle leggi del politico: il modello non può essere quello liberista, causa dello squilibrio che costringe l’uomo all’interno della schiavitù del mercato e della tirannia del consumo.

Volutamente provocatorio, al limite dell’utopico come lo stesso autore non ha remore ad ammettere, il testo di Bonvecchio non fa sconti al ‘politicamente corretto’. Questo ne rappresenta indubbiamente un punto di forza, a cui si accompagna una vis argomentativa altrettanto efficace, che permette più di uno spunto di riflessione. Segnaleremmo, tra questi, la riaffermazione della centralità e dell’efficacia del mito in un tempo che, di fronte ad interrogativi sempre più inquietanti,  sconta una paurosa carenza di risposte e in cui il pensiero è quasi costretto a presentarsi quale ‘debole’. Ma, soprattutto, il riferimento all’impero come forma politica ancora praticabile: già Carl Schmitt aveva rimarcato ne Le categorie del politico il carattere storico dello stato moderno, il cui declino era inevitabile; l’Europa degli stati e dei governi, quella di Bruxelles, finisce per essere l’espressione di una burocrazia e di una tecnocrazia economica e finanziaria che sfuggono ad ogni controllo e si avvalgono di un’assoluta deresponsabilizzazione. Si può convenire quindi, con Claudio Bonvecchio come con Alain de Benoist, che il modello imperiale rimane l’unica alternativa praticabile per una Europa delle culture e dei popoli.

Fabio Pagano          

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mercredi, 20 août 2008

Le concept d'aristocratie chez Nicolas Berdiaev

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Le concept d'aristocratie chez Nicolas Berdiaev

 

Pierre MAUGUÉ

 

Par son livre La philosophie de l'inégalité  (1), Berdiaev (2) s'inscrit dans la grande tradition des écrivains contre-révolution­naires. Bien qu'il ait été écrit dans le chaos de la révolution russe, et tout imprégné qu'il soit du mysticisme propre à l'orthodoxie, ce livre recèle en effet un message de portée universelle. Par delà le temps et le fossé culturel qui sépare l'Europe latine du monde slave orthodoxe, les analyses de Berdiaev rejoignent celles de Maistre et de Bonald; elles mettent non seulement en lumière les racines communes à la révolution jacobine et à la révolution bolchevique, mais concluent à la primauté des principes sur lesquels reposent les sociétés traditionnelles.

 

Comme Joseph de Maistre (3), Berdiaev voit dans la révolution une conséquence de l'incroyance et de la perte du centre or­ganique de la vie. «Une révolution, quelle qu'elle soit, est anti-religieuse de par sa nature même, et tenter de la justifier reli­gieusement est une bassesse... La révolution naît d'un dépérissement de la vie spirituelle, de son déclin, et non de sa cois­sance ni de son développement intérieur». Mais la révolution ne s'attaque pas seulement à la religion en tant qu'elle relie l'homme au sacré et à la transcendance, mais aussi dans la mesure où elle établit un lien entre les générations passées, pré­sentes et futures. Comme le note Berdiaev, «il existe non seulement une tradition sacrée de l'Eglise, mais encore une tradition sacrée de la culture. Sans la tradition, sans la succession héréditaire, la culture est impossible. Elle est issue du culte. Dans celle-ci, il y a toujours un lien sacré entre les vivants et les morts, entre le présent et le passé... La culture, à sa manière, cherche à affirmer l'éternité».

 

Berdiaev ne peut donc que s'insurger contre la prétention des révolutionnaires d'être des défenseurs de la culture. S'adressant à eux, il écrit: «Vous avec besoin de beaucoup d'outils culturels pour vos fins utilitaires. Mais l'âme de la culture vous est odieuse». Ce que Berdiaev leur reproche, c'est aussi leur mépris des œuvres du passé: «La grandeur des ancêtres vous est insupportable. Vous auriez aimé vous organiser et vous promener en liberté, sans passé, sans antécédents, sans relations», et il se voit obliger de rappeler que «la culture suppose l'action des deux principes, de la sauvegarde comme de la procréation».

 

Le principe conservateur dont Berdiaev se fait le héraut n'est donc pas opposé au développement, il exige seulement que celui-ci soit organique», que l'avenir ne détruise pas le passé mais continue à le faire croître». L'antimarxisme de Berdiaev n'en fait pas pour autant un défenseur inconditionnel du libéralisme. Bien qu'il reconnaisse, avec Tocqueville, qu'«il y a dans la liberté quelque chose d'aristocratique» et qu'il considère que «les racines de l'idée libérale ont une relation plus étroite avec le noyau ontologique de la vie que les idées démocratiques et socialistes», il n'en estime pas moins que, dans le monde actuel, le libé­ralisme «vit des miettes d'une certaine vérité obscurcie».

 

Berdiaev relève ainsi que l'individualisme libéral sape la réalité de la personne, à laquelle il entendait donner la première place, du fait qu'il détache l'individu de toutes les formations historiques organiques. «Pareil individualisme», dit-il, «dévaste en fait l'individu, il lui ôte le contenu super-individuel qu'il a reçu de l'histoire, de sa race et de sa patrie, de son Etat et de l'Eglise, de l'humanité et du cosmos». Quant au libéralisme économique, il lui paraît avoir plus d'affinités avec une certaine forme d'anarchisme qu'avec la liberté aristocratique. «L'individualisme économique effréné, qui soumet toute la vie écono­mique à la concurrence et à la lutte d'intérêts égoïstes, qui ne reconnait aucun principe régulateur, semble n'avoir aucun rap­port nécessaire avec le principe spirituel du libéralisme».

 

En définitive, Berdiaev considère que la philosophie de l'état et des droits naturels, prônée par les libéraux, est superficielle, car «il n'y a pas et il ne peut y avoir d'harmonie naturelle». Pour lui, «la foi libérale» n'est donc pas moins fausse que «la foi socialiste».

* *  *

La «philosophie de l'inégalité» se présente comme une suite de lettres traitant chacune d'un thème bien précis. Hormis la première lettre, qui traite de la révolution russe, toutes les autres lettres abordent des sujets qui ne sont pas spécifiquement liés à la situation de la Russie. Partant d'une analyse «des fondements ontologiques et religieux de la société», Berdiaev va nous parler de l'Etat, de la nation, du conservatisme, de l'aristocratie, du libéralisme, de la démocratie, du socialisme, de l'anarchie, de la guerre, de l'économie, de la culture, et, pour conclure, d'un sujet qui n'intéresse généralement pas les polito­logues: du royaume de Dieu.

 

La lettre sur l'aristocratie est peut-être celle qui retient le plus l'attention, car elle ose faire l'apologie d'un principe que, depuis deux siècles, l'on s'est plus non seulement à dévaloriser, mais à désigner à la vindicte populaire. Aujourd'hui, note Berdiaev, il est généralement considéré qu'«avoir des sympathies aristocratiques, c'est manifester soit un instinct de classe, soit un es­thétisme sans aucune importance pour la vie».

 

La vision réductrice de l'aristocratie que l'on a tout fait pour imposer depuis la Révolution française est battue en brèche par Berdiaev en partant d'un point de vue spirituel. Pour lui, l'aristocratie a un sens et des fondements plus profonds et plus essen­tiels. Alors que «le principe aristocratique est ontologique, organique, qualitatif», les «principes démocratiques, socialistes, anarchiques, sont formels, mécaniques, quantitatifs; ils sont indifférents aux réalités et aux qualités de l'être, au contenu de l'homme». La démocratie, dépourvue de bases ontologiques, n'a au fond qu'une nature “purement phénoménologique”; elle ne serait finalement rien d'autre que le régime politique correspondant au “règne de la quantité”, à l'“âge sombre”, dont parlent les représentants de la pensée traditionnelle, notamment René Guénon.

 

Mais Berdiaev ne met pas seulement en valeur la supériorité du principe aristocratique du point de vue spirituel. Comme Maurras, il voit en lui un élément fondamental de l'organisation rationnelle de la vie sociale; il rappelle que tout ordre vital est hiérarchique et a son aristocratie. «Seul un amas de décombres n'est pas hiérarchisé» et «tant que l'esprit de l'homme est en­core vivant et que son image qualitative n'est pas définitivement écrasée par la quantité, l'homme aspirera au règne des meil­leurs, à l'aristocratie authentique».

 

Berdiaev refuse de croire que la démocratie représentative ait, comme elle le prétend, la capacité d'assurer cette sélection des meilleurs et le règne de l'aristocratie véritable. «La démocratie», estime-t-il, «devient facilement un instrument formel pour l'organisation des intérêts. La recherche des meilleurs est remplacée par celle des gens qui correspondent le mieux aux intérêts donnés et qui les servent plus efficacement».

 

La démocratie, le pouvoir du peuple, ne sont pour Berdiaev qu'un trompe-l'oeil. «Ne vous laissez pas tromper par les appa­rences, ne cédez pas à des illusions trop indigentes. Depuis la création du monde, c'est toujours la minorité qui a gouverné, qui gouverne et qui gouvernera. Cela est vrai pour toutes les formes et tous les genres de gouvernement, pour la monarchie et pour la démocratie, pour les époques réactionnaires et pour les révolutionnaires». Cette vue de Berdiaev n'est pas sans rappe­ler Pareto et sa théorie de la circulation des élites. Mais à la question de savoir si c'est la minorité la meilleure ou la pire qui gouverne, berdiaev ne donne pas la même réponse que Pareto (4). Il considère en effet que «les gouvernements révolution­naires qui se prétendent populaires et démocratiques sont toujours la tyrannie d'une minorité, et bien rares ont été les cas où celle-ci était une sélection des meilleurs. La bureaucratie révolutionnaire est généralement d'une qualité encore plus basse que celle que la révolution a renversée».

 

Pour Berdiaev, la réalité est qu'«il n'y a que deux types de pouvoir: l'aristocratie et l'ochlocratie, le gouvernement des meil­leurs et celui des pires». Vue peut-être un peu trop manichéenne dans la mesure où la médiocratie, ou gouvernement des médiocres, paraît être aujourd'hui la forme de pouvoir la plus répandue, et qu'elle est d'autant plus forte qu'elle se trouve en accord quasi parfait avec l'esprit même du monde moderne.

 

L'aristocratie est quant à elle en porte-à-faux avec les idées modernes parce qu'elle suppose la sélection et la prise en compte du temps. Pour Berdiaev, l'aristocratie s'inscrit dans l'histoire, elle présuppose une filiation et le lien ancestral. «La formation sélective des traits nobles du caractère s'effectue avec lenteur, elle implique une transmission héréditaire et des coutumes familiales. C'est un processus organique».

 

Il faut, dit Berdiaev, qu'il y ait dans la société humaine des gens qui n'ont pas besoin de s'élever et que ne chargent pas les traits sans noblesse de l'arrivisme. Les droits de l'aristocratie sont inhérents, non procurés. Il faut qu'il y ait dans le monde des gens aux droits innés, un type psychique qui ne soit pas plongé dans l'atmosphère de la lutte pour l'obtention des droits».

 

Mais à ce privilège correspondent des devoirs qui ne peuvent précisément être remplis qu'en raison même de ce privilège originel. «L'aristocratie véritable peut servir les autres, l'homme et le monde, car elle ne se préoccupe pas de s'élever elle-même, elle est située suffisamment haut par nature, dès le départ, elle est sacrificielle». Vue extrêmement exigeante pour la­quelle «l'aristocratie doit avoir le sentiment que tout ce qui l'élève est reçu de Dieu et tout ce qui l'abaisse est l'effet de sa propre faute», alors que le propre de la psychologie plébéienne est de considérer «tout ce qui élève comme un bien acquis et tout ce qui abaisse comme une insulte et comme la faute d'autrui».

 

Du fait que «l'aristocrate est celui auquel il est donné davantage» et qu'il peut ainsi «partager son surcroît», il est appelé à jouer un rôle de médiateur entre le peuple et les valeurs supérieures. Berdiaev tient ainsi à rappeler que, dans toute l'histoire, «les masses populaires sortent de l'ombre et qu'elles communient avec la culture par l'intermédiaire de l'aristocratie qui s'en est distinguée et qui remplit sa tâche». C'est la raison pour laquelle les valeurs aristocratiques doivent demeurer prédominantes, car «c'est l'aristocratisation de la société et non pas sa démocratisation qui est spirituellement justifiée». Berdiaev tient d'ailleurs à rappeler que l'attitude méprisante envers le menu peuple n'est pas le fait de l'aristocratie, mais qu'«elle est le propre du goujat et du parvenu».

 

* *  *

 

Tout en affirmant les principes qui forment la trame des valeurs aristocratiques, Berdiaev n'ignore pas que, «dans l'histoire, l'aristocratie peut déchoir et dégénérer», qu'«elle peut facilement se cristalliser, se scléroser, se clore sur elle-même et se fermer aux mouvements créateurs de la vie». Elle trahit alors sa vocation et, «au lieu de servir, elle exige des privilèges». Pour Berdiaev, les conséquences qu'entraîne cette décadence sont les mêmes que celles qu'envisage Joseph de Maistre. «Lorsque les classes supérieures ont gravement failli à leur vocation et que leurs dégénérescence spirituelle est avancée, la révolution mûrit comme un juste châtiment pour les péchés de l'élite».

 

Mais quelle que soit la décadence qui peut frapper l'aristocratie, le principe qui est à son origine n'en garde pas moins une va­leur éternelle. La noblesse peut mourir en tant que classe, «elle demeure en tant que race, que type psychique, que forme plastique». Ainsi, la chevalerie, dont Berdiaev regrette l'absence dans l'histoire de la Russie, fut plus qu'une catégorie sociale et historique, elle est un principe spirituel, et «la mort définitive de l'esprit chevaleresque entrainerait une dégradation du type de l'homme, dont la dignité supérieure a été modelée par la chevalerie et par la noblesse, d'où elle s'est diffusée dans des cercles plus larges».

 

Si l'influence de la noblesse fut plus tardive en Russie, il serait injuste, estime Berdiaev, de méconnaître le rôle important qu'elle a joué dans le développement intellectuel de ce pays. «Elle a», dit-il, «été notre couche culturelle la plus avancée. C'est elle qui a créé notre grande littérature. Les gentilhommières ont constitué notre premier milieu culturel... Tout ce qui comptait dans la culture russe venait de l'aristocratie. Non seulement les héros de Léon Tolstoï, mais encore ceux de Dostoïevski, sont inconcevables en dehors de celle-ci... Tous nos grands auteurs ont été nourris par le milieu culturel de la noblesse».

 

Berdiaev, qui appartient à la noblesse, héréditaire, n'en reconnaît pas moins qu'«il n'y a pas seulement l'aristocratie historique où le niveau moyen se crée grâce à la sélection raciale et à la transmission héréditaire», mais qu'«il y a aussi l'aristocratie spirituelle, principe éternel, indépendant de la succession des groupes sociaux et des époques». Cette aristocratie spirituelle, qui se forme selon l'ordre de la grâce personnelle, n'a pas un rapport nécessaire avec un groupe social donné, elle n'est pas fonction d'une sélection naturelle. «On n'hérite pas plus du génie que de la sainteté». Mais cette «aristocratie spirituelle a la même nature que l'aristocratie sociale, historique; c'est toujours une race privilégiée qui a reçu en don ses avantages».

 

Opposer la démocratie à l'aristocratie n'est pas concevable pour Berdiaev. «Ce sont là des notions incommensurables, de qualités complètement différentes». Il voit d'ailleurs dans le triomphe de la métaphysique, de la morale et de l'esthétique dé­mocratiques «le plus grave péril pour le progrès humain, pour l'élévation qualitative de la nature humaine». «Vous niez», dit-il, «les fondements biologiques de l'aristocratisme, ses bases raciales, ainsi que celles de la grâce et de l'esprit. Vous condam­nez l'homme à une existence grise, sans qualités». Quant à la volonté affirmée de porter une masse énorme de l'humanité à un niveau supérieur, elle résulte, selon Berdiaev, non pas d'un amour de ce haut niveau, mais avant tout d'un désir d'égalitarisme, d'un refus de toute distinction et de toute élévation.

 

Se plaçant délibérément à contre-courant des idées qui ont cours à son époque et qui ont aujourd'hui acquis une valeur de dogme, Berdiaev s'adresse en ces termes aux grands-prêtres de l'idée démocratique: «Ce qui vous intéresse par-dessus tout, ce n'est pas d'élever, c'est d'abaisser. Le mystère de l'histoire vous est inaccessible, votre conscience y reste à jamais aveugle. Le mystère de l'histoire est un mystère aristocratique. Il s'accomplit par la minorité».

 

Pierre MAUGUÉ.

(décembre 1993).

 

Notes:

(1) La philosophie de l'inégalité, écrite en 1918, a été publiée à Berlin en 1923. Sous le titre De l'inégalité, une traduction en fran­çais a été éditée en 1976, à Lausanne, par les Editions L'Age d'Homme.

(2) NIcolas Berdiaev est né à Kiev en 1874 et mort à Clamart en 1948. Sa mère était une princesse Koudachev, apparentée à la famille Choiseul. Professeur de philosophie à l'Université de Moscou, Berdiaev, que l'on a parfois qualifié d'existentialiste chré­tien, s'oppose à toutes les formes modernes de matérialisme. Expulsé d'Union Soviétique en 1922, il s'établira en France, où il demeurera jusqu'à sa mort.

(3) Cf. Considérations sur la France. Cette œuvre a récemment été rééditée par “Les Editions des Grands Classiques” (ELP) (37, rue d'Amsterdam, F-75.008 Paris).

(4) Cf. Vilfredo Pareto, Traité de sociologie générale.

jeudi, 07 août 2008

Intervista a G. Sessa su "Il Barone e la generazione '78"

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Il Barone e la generazione '78: intervista a Giovanni Sessa
di
Marco Cossu

Uno come Giovanni Sessa è facile annoverarlo nella schiera dei giovani delusi dal Movimento sociale italiano negli anni Settanta… e infatti "poi mi sono avvicinato ai gruppi che nascevano ai margini e al-di-fuori dell'ambiente strettamente legato al Msi: per esempio, nel periodo universitario ero vicino a Lotta popolare (movimento attivo soprattutto a Roma tra il 1974 e il 1976 guidato da Paolo Sgrò, Carlo Alberto Guida e Paolo Signorelli, N.d.R.)"

Lei come è arrivato ad Evola?
Il mio interesse per Evola è nato dalle discussioni che una volta si tenevano nelle sedi dei partiti - nella fattispecie il Msi. Il primo libro, Rivolta contro il mondo moderno, lo lessi a 15 anni; nel periodo universitario ho conosciuto l'Evola filosofo in senso stretto: Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e Fenomenologia dell'individuo assoluto… che proprio in quegli anni venivano ripubblicati dalle Edizioni Mediterranee. Va considerato che la mia lettura di Evola si sviluppa soprattutto negli anni Settanta, che dal punto di vista editoriale sono gli anni del maggior successo: sia perché c'era un movimento giovanile molto sensibile alle tematiche evoliane, sia perché Evola rappresentava l'unico autore che aveva dato una visione a tuttotondo di un uomo "altro" rispetto a quello che la situazione culturale dell'epoca proponeva.

Come era visto Evola nell'ambiente della destra giovanile?
Era un punto di riferimento assai importante… almeno per quei giovani che facevano della propria scelta politica una scelta di vita e non soltanto una scelta partitica. In quegli anni maturò anche un progetto critico nei confronti di Evola: negli ambienti della cosiddetta Nuova destra - non tanto in quella francese quanto quella italiana, che faceva riferimento a Marco Tarchi - nacque l'idea di come la deriva di un tradizionalismo di tipo dogmatico avesse portato questo ambiente ad una sorta di paralisi politica. In questo senso molti cominciarono a guardare con interesse più all'Evola filosofo in senso stretto e non al tradizionalismo… al quale peraltro Evola giunge più tardi, attraverso René Guénon.

Evola è ancora oggi uno degli autori più letti dai giovani di destra, tuttavia vi è una sorta di demonizzazione nei suoi confronti. Perché?
C'è una duplice ragione: da un lato un'incapacità degli ambienti evoliani di rendere Evola per quello che effettivamente è stato, dall'altro una sorta di congiura politica di coloro che invece dovrebbero ascoltarlo. Non credo che Evola sia letto soltanto dai giovani di destra; soprattutto l'artista d'avanguardia e il filosofo, è un Evola apprezzato anche a sinistra… sia per alcune pubblicazioni che lo hanno fatto conoscere meglio, sia per l'interesse accademico che prima non c'era. Credo che Evola possa interessare tutti coloro che sono critici rispetto allo stato delle cose contemporaneo, quindi è chiaro che anche un giovane di sinistra può essere interessato ad Evola.

Però c'è ancora una pregiudiziale antifascista…
Evola è qualcosa molto di più del fascismo. Lo si può collocare probabilmente all'interno di quel vasto movimento di pensiero a volte impropriamente definito "rivoluzione conservatrice", quindi al fianco di altri pensatori che come lui hanno lambito ambienti del fascismo ma non sono definibili fascisti in senso stretto. Probabilmente Evola da un punto di vista esistenziale non era né fascista né antifascista, era un a-fascista rispetto al regime.

Molti hanno accostato Cavalcare la tigre al terrorismo di destra…
Per quello che hanno fatto i presunti o reali terroristi di destra, non può essere certo accusato Evola. Le distanze che egli prese dalle cosiddette interpretazioni nazimaoiste sono state molto chiare. Se qualcuno ha pensato di realizzare il pensiero evoliano con atti di terrorismo, credo si sia fortemente sbagliato.

Se un evoliano fosse presidente dell'Unione europea, cosa farebbe?
Certamente stilare un manifesto che metta in luce come gli aspetti economicistici e monetaristici fini a se stessi non abbiano nulla a che fare con l'Europa. Avrebbe qualcosa da ridire anche sulle radici cristiane: per un evoliano la vera tradizione europea è quella pre-cristiana.

Cosa possono recepire i giovani del XXI secolo del messaggio evoliano?
Dovrebbero recepirlo come un richiamo a realizzare nelle condizioni storiche attuali quello che chiamiamo Tradizione, che in Evola di fatto vive nell'"individuo assoluto". Non certamente come un tentativo di volgersi con lo sguardo semplicemente al passato ma come un'incitazione a realizzare nel presente queste realtà. Attraverso una loro personale valorizzazione… perché Evola parla ai singoli, parla alle coscienze dei singoli perché questi agiscano poi politicamente. Evola è un autore che può parlare ancora oggi a tutti.

Giovanni Sessa è docente di Storia delle Idee all'Università degli Studi di Cassino ( n.d.r. )

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vendredi, 25 juillet 2008

Sur Karl Anton Rohan

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Note sur le Prince Karl Anton Rohan, catholique, fédéraliste, européiste et national-socialiste

 

Né le 9 septembre 1898 à Albrechtsberg et décédé le 17 mars 1975 à Salzbourg, le Prince Karl Anton Rohan fut un écrivain et un propagandiste de l'idée européenne. Jeune aristocrate, ce sont les traditions "noires et jaunes" (c'est-à-dire impériales) de la vieille Autriche des familles de la toute haute noblesse qui le fascinent, lui, issu, côté paternel, d'une famille illustre originaire de Bretagne et, côté maternel, de la Maison des Auersperg. Il a grandi à Sichrow dans le Nord-est de la Bohème. Marqué par la guerre de 1914, par les expériences de la révolution bolchevique à l'Est et de l'effondrement de la monarchie pluriethnique, Rohan décide d'œuvrer pour que se comprennent les différentes élites nationales d'Europe, pour qu'elles puissent se rapprocher et faire front commun contre le bolchevisme et le libéralisme.

 

Après la fondation d'un "Kulturbund" à Vienne en 1922, Rohan s'efforcera, en suivant un conseil de J. Redlich, de prendre des contacts avec la France victorieuse. Après la fondation d'un "comité français" au début de l'année 1923, se constitue à Paris en 1924 une "Fédération des Unions Intellectuelles". Son objectif était de favoriser un rassemblement européen, Grande-Bretagne et Russie comprises sur le plan culturel. Dans chaque pays, la société et les forces de l'esprit devaient se rassembler au-delà des clivages usuels entre nations, classes, races, appartenances politiques et confessionnelles. Sur base de l'autonomie des nations, lesquelles constituaient les piliers porteurs, et sur base des structures étatiques, devant constituer les chapiteaux, des "Etats-Unis d'Europe" devaient émerger, comme grande coupole surplombant la diversité européenne.

 

Rohan considérait que le catholicisme sous-tendait le grand œcoumène spirituel de l'Europe. Il défendait l'idée d'un "Abendland", d'un "Ponant", qu'il opposait à l'idée de "Paneurope" de son compatriote Richard Coudenhove-Kalergi. Jusqu'en 1934, le Kulturbund de Rohan est resté intact et des filiales ont émergé dans presque toutes les capitales européennes.

 

Aux colloques annuels impulsés par Rohan (Paris en 1924, Milan en 1925, Vienne en 1926, Heidelberg et Francfort en 1927, Prague en 1928, Barcelone en 1929, Cracovie en 1930, Zurich en 1932 et Budapest en 1934), de 25 à 300 personnes ont pris part. Les nombreuses conférences et allocutions de ces colloques, fournies par les groupes de chaque pays, duraient parfois pendant toute une semaine. Elles ont été organisées en Autriche jusqu'en 1938. Dans ce pays, ces initiatives du Kulturbund recevaient surtout le soutien du Comte P. von Thun-Hohenstein, d'Ignaz Seipel et de Hugo von Hofmannsthal, qui a inauguré le colloque de Vienne en 1926 et l'a présidé. Les principaux représentants français de ce courant étaient Ch. Hayet, Paul Valéry, P. Langevin et Paul Painlevé. En Italie, c'était surtout des représentants universitaires et intellectuels du courant fasciste qui participaient à ces initiatives. Côté allemand, on a surtout remarqué la présence d'Alfred Weber, A. Bergsträsser, L. Curtius, Lilly von Schnitzler, le Comte Hermann von Keyserling, R. von Kühlmann et d'importants industriels comme G. von Schnitzler, R. Bosch, O. Wolff, R. Merton, E. Mayrisch et F. von Mendelssohn.

 

Rohan peut être considéré comme l'un des principaux représentants catholiques et centre-européens de la "Révolution conservatrice"; il jette les bases de ses idées sur le papier dans une brochure programmatique intitulée Europa et publiée en 1923/24. C'est lui également qui lance la publication Europäische Revue, qu'il a ensuite éditée de 1925 à 1936. Depuis 1923, Rohan était véritablement fasciné par le fascisme italien. A partir de 1933, il va sympathiser avec les nationaux-socialistes allemands, mais sans abandonner l'idée d'une autonomie de l'Autriche et en soulignant la nécessité du rôle dirigeant de cette Autriche dans le Sud-est de l'Europe. A partir de 1935, il deviendra membre de la NSDAP et des SA. En 1938, après l' Anschluß, Rohan prend en charge le département des affaires extérieures dans le gouvernement local national-socialiste autrichien, dirigé par J. Leopold. En 1937, il s'était fait le propagandiste d'une alliance entre un catholicisme rénové et le national-socialisme contre le bolchevisme et le libéralisme, alliance qui devait consacrer ses efforts à éviter une nouvelle guerre mondiale. Beau-fils d'un homme politique hongrois, le Comte A. Apponyi, il travaille intensément à partir de 1934 à organiser une coopération entre l'Autriche, l'Allemagne et la Hongrie.

 

Après avoir dû fuir devant l'avance de l'armée rouge en 1945, Rohan est emprisonné pendant deux ans par les Américains. Après sa libération, Rohan ne pourra plus jamais participer à des activités publiques, sauf à quelques activités occasionnelles des associations de réfugiés du Pays des Sudètes, qui lui accorderont un prix de littérature en 1974.

 

L'importance de Rohan réside dans ses efforts, commencés immédiatement avant la première guerre mondiale, pour unir l'Europe sur base de ses Etats nationaux. Très consciemment, Rohan a placé au centre de son idée européenne l'unité des expériences historiques et culturelles de l'Est, du Centre et de l'Ouest de l'Europe. Cette unité se retrouvait également dans l'idée de "Reich", dans la monarchie pluriethnique des Habsbourgs et dans l'universalisme catholique de l'idée d'Occident ("Abendland", que nous traduirions plus volontiers par "Ponant", ndt). Les besoins d'ordre culturel, spirituel, religieux et éthique devaient être respectés et valorisés au-delà de l'économie et de la politique (politicienne). Cet aristocrate, solitaire et original, que fut Rohan, était ancré dans les obligations de son environnement social élitiste et exclusif tout en demeurant parfaitement ouvert aux courants modernes de son époque. En sa personne, Rohan incarnait tout à la fois la vieille Autriche, l'Allemand et l'Européen de souche française.

 

Dr. Guido MÜLLER.

 

(entrée parue dans: Caspar von SCHRENCK-NOTZING (Hrsg.), Lexikon des Konservatismus, L. Stocker, Graz, 1996, ISBN 3-7020-0760-1; trad. franç.: Robert Steuckers).