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mercredi, 11 janvier 2012

Julius Evola e la metafisica del sesso. Alcune osservazioni per una lettura attualizzata del pensiero del filosofo romano

Julius Evola e la metafisica del sesso. Alcune osservazioni per una lettura attualizzata del pensiero del filosofo romano

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La mia intenzione non è quella di scrivere una recensione della Metafisica del Sesso di Julius Evola (peraltro ampiamente commentato e recensito nel susseguirsi delle varie edizioni), quanto piuttosto di mettere a fuoco alcuni aspetti salienti del suo pensiero in tema di sessualità e confrontarli con le esigenze ed i problemi dell’uomo del XXI secolo. Tale approccio si inserisce in un disegno più ampio, volto a confrontare il pensiero evoliano con la contemporaneità, per verificarne l’attualità.

Un primo aspetto da analizzare riguarda quella che il pensatore chiama la “Pandemìa del sesso” nell’epoca moderna. Evola evidenzia come – anche attraverso la pubblicità, l’influenza dei media e della televisione – il sesso sia divenuto una vera manìa, un’ossessione pervasiva, nel mentre se ne è perduto il significato profondo, realizzativo nel senso dell’“uomo integrale” nel quadro di quello che egli chiama il “mondo della Tradizione”. Tale fenomeno può leggersi come una reazione smodata al clima moralistico di estrazione cattolico-borghese, alla sessuofobia tipica di una certa educazione di matrice cattolica ma anche in opposizione al puritanesimo tipico di una certa cultura protestante. Dallo squilibrio di una educazione sessuofoba si passa all’eccesso di una manìa, entrambi i fenomeni avendo però in comune lo smarrimento del senso profondo del sesso e dell’amore, come superamento del senso dell’ego, integrazione delle complementarietà e riaccostamento a quel senso dell’unità primordiale adombrata nel mito dell’androgine riportato da Platone nel Simposio ed ampiamente citato da Evola nella sua opera. Peraltro tale ossessione banalizza il sesso ed attenua l’attrazione, poiché la fisicità femminile ed il nudo femminile divengono qualcosa di così ordinario ed abituale da perdere quella carica sottile di magnetismo, di fascinazione che sono fondamentali nell’attrazione fra i sessi.

Orbene, se confrontiamo questa analisi evoliana con la realtà contemporanea (ricordiamo che Metafisica del Sesso fu pubblicato, per la prima volta, nel 1957), notiamo che il fenomeno dell’ossessione del sesso si sia accentuato, anche per effetto della diffusione della telematica, della estrema libertà di pubblicazione che esiste su Internet e quindi della possibilità agevole per gli utenti di accedervi.

Peraltro si osserva nei rapporti fra i sessi una superficialità diffusa, una incapacità di comunicare su temi di fondo, una banalizzazione dei rapporti che coinvolge lo stesso momento sessuale, visto come una pratica scissa da qualsiasi aspetto profondo, di autentica comunione animica fra i sessi.

In ciò può cogliersi una vera e propria paura di fondo, la paura dell’uomo di entrare in contatto reale con se stesso e con gli altri, di doversi guardare dentro, di doversi magari mettere in discussione. L’uomo contemporaneo – come tendenza prevalente – rifugge dall’autoosservazione ed ha sempre più bisogno di “droghe” in senso lato, di evasioni, dal caos della metropoli a certe forme di musica che abbiano un effetto di stordimento, dal “rito”degli esodi di massa nei periodi di vacanza e nei fine-settimana alla dimensione di massa che hanno anche le villeggiature balneari, in una trasposizione automatica della dimensione della metropoli che risponde ad un bisogno di stordirsi e di perdersi comunque.

L’analisi evoliana, sotto questo aspetto, è pienamente attuale, presentandosi dunque come lungimirante nel momento in cui, oltre 50 anni orsono, veniva elaborata. La crisi dei rapporti fra i sessi e del senso stesso del sesso si inquadra così nel contesto generale della crisi del mondo moderno, del suo essere, rispetto ai significati ed ai valori della Tradizione, un processo involutivo, una vera e propria anomalìa. E qui veniamo ad un ulteriore aspetto fondamentale da considerare.

La metafisica del sesso evoliana può essere adeguatamente compresa solo nel quadro della morfologia delle civiltà e della filosofia complessiva della storia che il pensatore romano elaborò e sistematizzò nella sua opera principale, Rivolta contro il mondo moderno, peraltro preceduta e preparata con vari saggi di morfologia delle civiltà pubblicati, in età giovanile, su varie riviste, come, ad esempio, il famoso saggio Americanismo e bolscevismo, pubblicato sulla rivista Nuova Antologia nel 1929. Senza questo riferimento generale e complessivo, senza questa visione d’insieme, non si comprende il punto di vista evoliano nell’approccio alla tematica della sessualità, approccio lontano sia da impostazioni di tipo moralistico-borghese, sia da forme esasperate di “pandemìa del sesso”.

Centrale è quindi il significato che Evola conferisce a quello che chiama “mondo della Tradizione”, intendendo con questo termine un insieme di civiltà orientate “dall’alto e verso l’alto”, per citare una tipica espressione evoliana; si tratta di tutte quelle civiltà che, pur nella varietà delle loro forme non solo religiose ma soprattutto misteriche (cioé iniziatiche), hanno in comune una orientazione sacrale, nel senso che esse sono ispirate dal sacro e tendono verso il sacro, inteso e vissuto come dimensione trascendente e, al tempo stesso, immanente, ossia una sacralità che entra nella storia e nell’umano, che permea di sé i vari aspetti della vita individuale e sociale di una determinata civiltà. Ogni aspetto della vita, dall’amore al sesso alle arti ed ai mestieri, diviene, in questo particolare “tono” una occasione, una possibilità di aprire la comunicazione con il Divino, quindi una opportunità di elevazione e miglioramento personale.

In questo senso il mondo moderno, come mondo desacralizzato e materialistico, rappresenta un’anomalìa, peraltro denunciata da René Guénon ancor prima di Evola (illuminanti sono, al riguardo, le pagine di apertura del libro Simboli della Scienza Sacra, ripubblicato da Adelphi) , come anche da altri Maestri della Tradizione, come Arturo Reghini in Italia e da Rudolf Steiner nella Mitteleuropa del primo Novecento.

Il concetto di un tipo di società orientata dal terreno e verso il terreno, relegante alla fede privata individuale tutto ciò che possa avere il vago sentore di un anelito spirituale, è qualcosa che appartiene esclusivamente all’epoca moderna più recente, pressappoco da Cartesio in poi e soprattutto dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese in avanti. Fino al Medio Evo l’orientazione sacrale della vita e della società era un dato centrale e normale, mentre ora prevale la secolarizzazione, l’essere immersi in modo esclusivo nel terreno e nella storia.

Sotto questo aspetto il conflitto fra mondo islamico e mondo occidentale, al di là di certe forme esasperate e terroristiche di antagonismo culminate con l’attacco dell’11 settembre 2001– che sono soltanto un aspetto del mondo islamico – è emblematico di un diverso modo di concepire la vita e il mondo e rappresenta la piena conferma del carattere anomalo del mondo moderno laico e secolarizzato.

In questo contesto “tradizionale” si colloca la concezione evoliana del sesso e dell’amore. Centrale è il riferimento al Simposio di Platone, quindi alla visione della polarità fra i sessi – maschile e femminile – come anelito, spesso inconsapevole, alla reintegrazione dell’unità primordiale dell’androgino, poi scissa nella dualità dei sessi. In origine, secondo il mito, esisteva una specie di essere che riassumeva in sé i due sessi, che poi si scinde nelle due sessualità che noi conosciamo come distinte e separate. L’amore e l’incontro sessuale è visto quindi come superamento dei limiti individuali, come completamento e superamento del senso dell’ego, come capacità di dono di sé, di apertura all’altro, di integrazione con l’altro e nell’altro.

Fondamentale è anche il riferimento all’archetipo di Afrodite, vista nei suoi vari aspetti e nei suoi vari gradi; L’Afrodite Celeste e l’Afrodite Pandémia simboleggiano due stati e gradi dell’amore, quello spirituale e quello sensuale, quest’ultimo essendo visto come un primo grado di approssimazione esperienziale all’amore in senso alto, come Amore per il divino, come slancio fervido e raccolto verso la nostra origine spirituale. E’ importante notare come, nella visione evoliana, non vi sia scissione fra i due piani, ma come essi rappresentino, in realtà, due fasi di un unico iter ascensionale, poiché il divino non è un quid lontano dal mondo, ma si manifesta nel mondo, pur non riducendosi ad esso. A tale riguardo, si può ricordare la concezione indiana della Shakti, ossia l’aspetto “potenza” e manifestazione del divino, cioé il suo aspetto femminile, dinamico che, non a caso, è definito nei test tantrici la “splendente veste di potenza del divino” su cui l’orientalista Filippani-Ronconi ha scritto pagine illuminanti nella sua opera Le Vie del Buddhismo. Non è marginale osservare che nello shivaismo del Kashmir, ossia nelle forme del culto di Shiva tipiche di quella regione dell’India nord-occidentale, la considerazione dell’aspetto shaktico del divino si riflette nella valorizzazione sociale della donna concepita come l’incarnazione terrena di quest’aspetto shaktico e, come tale, degna di rispetto e dotata di una sua dignità spirituale secondo le vedute delle scuole shivaite kashmire. Su questo punto si rinvia il lettore alle pagine molto illuminanti di Filippani Ronconi nel suo libro VAK. La parola primordiale dove l’Autore illustra un aspetto poco noto di alcune civiltà tradizionali, che Evola descrive sempre in chiave virile-solare e patriarcale.

Altro mito platonico cui il filosofo romano si richiama è quello di Poros e Penia, che spiega l’amore come perenne insufficienza, come continua privazione. E’ l’amore inteso come “sete inesausta”, come desiderio mai del tutto soddisfatto, come continuo anelito verso un completamento di sé mai del tutto realizzato e quindi fonte di perenne e nuovo desiderio. Qui si può cogliere il nesso fra lo stato esistenziale cui questo mito allude e l’amore sensuale, come tale sempre bramoso e sempre insoddisfatto.

L’insegnamento che la sacerdotessa Diotima (iniziata ai Misteri di Eleusi) tramanda a Socrate nel Simposio, in alcune pagine che sono fra le più belle del testo – l’essere cioé l’amore sensuale solo un primo grado per poi ascendere a forme più alte di amore secondo una scala ascensionale che ha una sua continuità di gradi di perfezionamento – ci offre la cognizione di un mondo che non demonizza il sesso ma lo valorizza nel quadro di una visione ascendente della vita umana in cui la sensualità ha una sua funzione ed un suo valore, perché è il primo momento di accostamento al bello, colto nelle sue manifestazioni fisiche più agevolmente percepibili per poi ascendere, gradualmente, al bello ideale e spirituale, all’idea del bello in sé secondo la filosofia platonica che, in realtà, riprende e sistematizza, sul piano speculativo, più antichi insegnamenti misterici, com’è dimostrato dalla connotazione sacerdotale e misterica di Diotima, non a caso introdotta ai Misteri di Demetra e Persefone-Kore, che sono i misteri della femminilità e della terra, della fecondità fisica e spirituale insieme.

Possono allora comprendersi certe forme cultuali del mondo antico inconcepibili secondo la visuale cristiana, quali, ad esempio, la prostituzione sacra, presente nel culto di Venus Erycina ed in quello di Venere Cupria. La sacerdotessa, quale incarnazione di una potenza sacra, si univa sessualmente con l’uomo devoto a quel culto, perché così il fedele entrava in contatto con la sacralità della dea Venus. L’atto sessuale era quindi un veicolo di comunicazione con il divino, un sentiero di contatto e di unione con la trascendenza. Si comprende allora anche la sacralizzazione del fallo, testimoniato dall’iconografia e dal culto del dio Priapo e dalle processioni in onore di Dioniso (le falloforie), dove si portavano in mostra le rappresentazioni falliche quali epifanie del dio, presenti del resto nella religione egizia, quali ierofanie di Osiride, nel quadro dei Misteri egizi isiaci ed osiridei. Ancora oggi, in Giappone, si celebra annualmente una ricorrenza religiosa in cui le rappresentazioni falliche come oggetti sacri sono portate in processione.

La sessualità era quindi vista come una manifestazione della potenza del divino, una irruzione della trascendenza nell’immanenza della vita terrena, un segno delle possibilità più alte presenti nell’uomo. Non è certo un caso che il neoplatonismo rinascimentale e, in particolare, Marsilio Ficino (nel suo Commento al Simposio di Platone), si sia richiamato a questa visione sacrale dell’amore, sebbene rimarcando un più netto iato fra materia e spirito, per effetto dell’influenza cristiana, ma comunque accogliendo l’idea generale di un accostamento per gradi al Bello, da quello fisico a quello spirituale.

Particolare attenzione è data dal pensatore romano alla sessualità nei Misteri antichi e, in particolare, in quelli di Eleusi, alle forme rituali di ierogamìa, di unione sessuale sacra fra un uomo e una donna nel quadro sacerdotale misterico così come molta attenzione è data alle forme ed alle procedure della magia sesssuale, soprattutto con riferimento alle scuole tantriche induiste e buddhiste, nelle quali la sessualità viene utilizzata, con diversità di metodiche fra una scuola e l’altra, per attivare una superiore integrazione della coscienza e quindi uno stato di illuminazione interiore che si desta nel momento in cui si ha il contatto reale con il Sacro. Evola avverte anche sui pericoli insiti in alcune metodiche tantriche e mette in guardia il lettore da certi atteggiamenti superficiali di imitazione di pratiche che si collocavano in un contesto ambientale e culturale molto diverso, anche sotto il profilo della carica energetica presente in certe confraternite antiche.

Il problema di fondo che si pone è se e come tale visione sacrale del sesso possa essere praticata e realizzata nel quadro del mondo moderno e post-moderno, nell’era della rivoluzione tecnologica, informatica e telematica, in un ambiente desacralizzato e laicizzato. Certe forme cultuali e rituali (ierogamie, procedure tantriche) presupponevano l’esistenza dei Misteri, dei collegi misterici, dei sacerdoti e dei maestri spirituali, che sono del tutto assenti nell’età oscura, nel kali-yuga dei testi indù.

Si ripropone quindi, in tema di sessualità, lo stesso problema che si presenta in linea generale per le possibilità di realizzazione spirituale che sono offerte nel mondo moderno ed in quello contemporaneo (distinguiamo i due termini perché il post-moderno si presenta come un’epoca con caratteri già diversi da quelli della modernità industriale dell’800 e del ’900), alla luce del processo di solidificazione materialistica che si è svolto , con ritmi sempre più accelerati, nell’uomo e nel mondo e di cui Guénon ci ha parlato nella sua opera Il regno della quantità ed i segni dei tempi.

Credo che occorra partire da un dato: venuti meno i supporti rituali e misterici delle civiltà antiche, con l’affermazione del cristianesimo in una chiave di esclusivismo fideistico, e con lo sviluppo scientifico e tecnico che parte da una visione materialistica del mondo, si sono avute tre conseguenze che così possiamo brevemente schematizzare:

  1. l’uomo è rimesso a sé stesso perché non ha più supporti per la sua realizzazione in senso esoterico;
  2. l’uomo percepisce se stesso come coscienza individuale e non più come parte di un tutto. L’uomo di una gens antica, per intenderci, o il giurista del diritto romano ancora in età imperiale, percepiva se stesso come parte integrante di una gens o di una tradizione religiosa e culturale; la sua percezione di sé era allargata ad un insieme sovraindividuale. Oggi prevale invece una autopercezione atomistica dell’uomo;
  3. il “mentale” dell’uomo moderno è molto più forte rispetto a quello dell’uomo delle civiltà tradizionali, in cui prevaleva uno stile di pensiero sintetico-intuitivo che si rifletteva anche nella maggiore concisione linguistica, come è il caso del latino, lingua celebre per la sua efficace capacità di sintesi. Ciò vuol dire che l’uomo tradizionale, col suo “astrale”, cioé col mondo delle emozioni, entrava in contatto col dominio spirituale senza la mediazione del mentale, o almeno tale mediazione era molto più attenuata, essendo la mente una mente immaginativa, cioé sintetico-intutiva.

In questo contesto e con tali condizioni, l’iniziazione, oggi, può essere solo una iniziazione moderna, ossia praticabile in forme adatte alle condizioni dell’epoca.

Una realizzazione spirituale può essere attualmente solo un percorso di consapevolezza, una via dell’anima cosciente, imperniata sulla disciplina e la semplificazione della mente e sull’armonia mente-cuore.

Un approccio di tipo ritualistico non sembra adatto alle condizioni del nostro tempo, o quantomeno quell’approccio può avere un senso solo se preceduto e seguito da un continuum di operatività interiore consapevole, di azione modificatrice su se stessi e in se stessi.

Il campo della sessualità si colloca nel medesimo ordine di idee. Al sesso banalizzato e brutalizzato o alla sessuofobia di certe tendenze religiose va posta come alternativa la sessualità vissuta come consapevolezza del suo senso pieno e profondo, quindi preparata, propiziata e integrata da determinate pratiche meditative di cui ci parla ampiamente l’esoterista Massimo Scaligero nella sua opera Manuale pratico di meditazione e che risentono chiaramente dell’influenza di certe forme meditative indiane e yogiche adattate alla mentalità occidentale, sulla base degli insegnamenti della “scienza dello spirito” tramandata e rielaborata da Rudolf Steiner.

La lezione evoliana apre orizzonti profondi sulla sessualità nel mondo della Tradizione e consente di prendere coscienza delle regressioni e dei limiti che, anche in questo campo, si sono verificati nel mondo moderno. Crediamo, però, che tale lezione vada affiancata e integrata dagli interventi di altri Maestri, per maturare in sé la prospettiva pragmatica e concreta di una via dell’anima cosciente.

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal mensile Fenix, n°38, dicembre 2011, pagg. 86-90.


Stefano Arcella

jeudi, 05 janvier 2012

Der sakrale Charakter des Königtums

Der sakrale Charakter des Königtums

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Jede große “traditionelle” Kulturform war durch das Vorhandensein von Wesen charakterisiert, die durch ihre “Göttlichkeit”, d.h. durch eine angeborene oder erworbene Überlegenheit über die menschlichen und natürlichen Bedingungen, fähig erschienen, die lebendige und wirksame Gegenwart des metaphysischen Prinzips im Schoße der zeitlichen Ordnung zu vertreten. Von solcher Art war, dem tieferen Sinn seiner Etymologie und dem ursprünglichen Wert seiner Funktion nach, der Pontifex, der “Brücken-” oder “Wege-Bauer” zwischen dem Natürlichen und dem Übernatürlichen. Weiter identifizierte sich der Pontifex überlieferungsgemäß mit dem Rex, entsprechend dem herrschenden Begriff einer königlichen Göttlichkeit und eines priesterlichen Königtums [Vgl. Servius, Ad Aened., III 268: "Majorum haec consuetudo at rex esset etiam sacerdos et pontifex". Dasselbe läßt sich – wie bekannt – für die urnordischen Stämme sagen.]. Die “göttlichen” Könige verkörperten also im Dauerzustand jenes Leben, welches “jenseits des Lebens” ist. Durch ihr Vorhandensein, vermöge ihrer “pontifikalen” Vermittlung, durch die Kraft der ihrer Macht anvertrauten Riten und der Institutionen, deren Urheber oder Stützen sie waren, strahlten geistige Einflüsse auf die Welt der Menschen aus, die deren Gedanken, Absichten und Handlungen durchdrangen, die einen Schutzwall bildeten gegen die dunklen Kräfte der inferioren Natur; die dem gesamten Leben eine Ordnung gaben, welche es geeignet machte, als fruchtbare Basis für die Verwirklichungen von Höherem zu dienen; die infolgedessen die allgemeinen Voraussetzungen schufen für “Gedeihen”, für “Wohlfahrt”, für “Glück”.

Die Grundlagen der Autorität von Königen und Herrschern, das, wofür sie verehrt, gefürchtet und verherrlicht wurden, war im antiken Weltbild im Wesentlichen diese ihre heilige und übermenschliche Eigenschaft, nicht als leere Redensart verstanden, sondern als Wirklichkeit. Wie man das Unsichtbare als vorausgehendes und höheres Prinzip gegenüber dem Sichtbaren und Zeitlichen empfand, dementsprechend erkannte man solchen Naturen unmittelbar den Vorrang über alle und das natürliche und absolute Herrscherrecht zu. Was allen traditionellen Kulturen fehlt und erst Sache eines darauffolgenden und schon absteigenden Zeitabschnittes wird, ist die laienhafte, weltliche, lediglich politische Idee des Königtums und deshalb auch die eines Vorrangs, der gegründet ist, sei es auf Gewalt und Ehrgeiz, sei es auf natürliche und weltliche Eigenschaften, wie Intelligenz, Stärke, Geschicklichkeit, Mut, Weisheit, Sorge für das materielle Allgemeinwohl und so weiter. Noch fremder ist der Überlieferung die Idee, daß die Macht dem König von denen übertragen werde, die er regiert; daß seine Gesetze und seine Autorität Ausdruck des Volksbewußtseins seien und dessen Billigung unterstellt. An der Wurzel jeder zeitlichen Macht fand sich vielmehr die geistige Autorität eines gleichsam “göttlichen Wesens in Menschengestalt” [Im Mânavadharmçastra (VII, 8) wird der König als "große Gottheit in Menschengestalt" bezeichnet. Der ägyptische König galt als Manifestation von Râ und von Horus. Die Könige von Alba und von Rom personifizierten Jupiter, die urnordischen Odin und Tiuz, die assyrischen Baal, die iranischen den Gott des Lichtes, und so fort. Die Idee einer göttlichen oder himmlischen – wie wir sehen werden, vor allem einer solaren – Abstammung ist allen vormodernen Königstraditionen gemein.]. Bâsileis ieroí: der König – mehr als ein Mensch, ein heiliges kosmisches Wesen – verfügt über die transzendente Kraft, die ihn von jedem Sterblichen distanziert, indem sie ihn befähigt, seinen Untertanen Gaben zu spenden, die außerhalb der menschlichen Reichweite liegen, und ihn imstande setzt, den überlieferungsgemäßen rituellen Handlungen zur Wirksamkeit zu verhelfen, auf die er, wie wir sagten, das Vorrecht besitzt und in denen man die Glieder des wahren “Regierens” und die übernatürlichen Stützen des gesamten traditionsgebundenen Lebens erkannte [Umgekehrt konnte der König in Griechenland und Rom nicht mehr König sein, wenn er sich des Priesteramtes als unwürdig erwies, um dessenwillen er rex sacrorum war. Erster und höchster Vollzieher der Riten für diejenige Wesenheit, deren gleichzeitiger Temporalfall er war.]. Deshalb herrschte das Königtum und wurde für natürlich gehalten. Materielle Macht hatte es nicht nötig. Es zwang sich zuerst und unwiderstehlich durch den Geist auf. “Herrlich ist die Würde eines Gottes auf Erden”, steht in einem arischen Text, “aber für die Unzulänglichen schwer zu erlangen: würdig, König zu sein, ist lediglich der, dessen Sinn sich zu solcher Höhe erhebt”.

In der Überlieferung entsprach der königlichen Göttlichkeit wesentlich das Sonnen-Symbol. Man erkannte dem König denselben “Ruhm” zu, der der Sonne und dem Lichte gehört – Symbolen der höheren Natur –, wenn sie allmorgendlich über die Finsternis triumphieren. “Als König steigt er des Horus (der Sonne) Thron der Lebenden empor, gleich seinem Vater Râ, jeglichen Tag”; “Ich habe bestimmt, daß du dich als König des Südens und des Nordens auf dem Throne des Horus erhebst, gleich der Sonne, ewiglich” – das sind Wendungen, die sich auf das altägyptische Königtum beziehen. Sie stimmen übrigens genau mit den iranischen überein, wo vom König gesagt wird, er sei “vom selben Geschlecht wie die Götter”, er “hat denselben Thron wie Mithra, er steigt mit der Sonne empor”, und wo er particeps siderum genannt wird, “Herr des Friedens, Heil der Menschen, ewiger Mensch, Sieger, der mit der Sonne emporsteigt”.

Dieser solare “Ruhm” oder “Sieg”, der also die Königsnatur und ihr Recht von oben bestimmte, beschränkte sich übrigens nicht auf ein bloßes Symbol, sondern identifizierte sich mit einer realen und schaffenden Kraft, als deren Träger der König als solcher angesehen wurde. Im alten Ägypten wurde der König auch “kämpfender Horus” – hor âhâ – genannt, um diesen Charakter des Siegs oder Ruhms des im König verkörperten solaren Prinzips zu bezeichnen: der König war in Ägypten nicht nur “göttlicher Herkunft”, sondern wurde auch als solcher “eingesetzt” und dann periodisch durch Riten beglaubigt, die eben den Sieg des Sonnengottes Horus über Typhon-Seth, den Dämon des inferioren Bereiches, darstellten. Solchen Riten schrieb man übrigens die Macht zu, eine “Kraft” und ein “Leben” an sich zu ziehen, die auf übernatürlichem Wege die Fähigkeiten des Königs “umschlangen”. Aber das Ideogramm uas, “Kraft”, ist das Zepter, das die Götter und die Könige tragen, ein Ideogramm, das in den älteren Texten für ein anderes Zepter in Zackenform steht, in welchem man den Zickzack des Blitzes erkennt. Die königliche “Kraft” erscheint so als eine Manifestation der himmlischen Blitzeskraft; und die Vereinigung der Zeichen “Leben-Kraft”, ânshûs, bildet ein Wort, das auch die “Flammenmilch” bezeichnet, von der sich die Unsterblichen nähren, seinerseits nicht ohne Beziehung zum uraeus, der göttlichen Flamme, die bald lebenserweckend, bald zerstörerisch wirkt und deren Symbol das Haupt des ägyptischen Königs umgibt. Die verschiedenen Elemente konvergieren also ausschließlich in der Idee einer “nicht irdischen” Macht (oder Fluidums) – sa – , die die sieghafte Sonnenatur des Königs weiht und beglaubigt und die von einem König zum anderen “schnellt” – sotpu – , die ununterbrochene “goldene” Kette des “Königsgeschlechts” bildend, das zum Regieren bestimmt ist [Einer der Namen der ägyptischen Könige ist "Horus aus Gold gemacht", wo das Gold das "solare" Fluidum bezeichnet, aus dem der "unverwesliche Leib" der Unsterblichen entsteht: gleichzusetzen der obengenannten "Flammenmilch" und der "Blitzeskraft", die beide sich ebenfalls an der Sonnenflamme stärken und sich auf den König beziehen. Nicht uninteressant ist der Hinweis, daß der Ruhm in der christlichen Überlieferung als Attribut Gottes figuriert – gloria in excelsis deo – und daß nach der mystischen Theologie in der "Glorie" sich die Vision der "Seligpreisung" erfüllt. Die christliche Ikonographie pflegt sie als Aureole um das Haupt der Heiligen zu breiten, die den Sinn den königlichen ägyptischen uraeus und der Strahlenkrone des iranisch-römischen Königtums wiedergibt.].

Nach der Überlieferung des Fernen Ostens hat der König, der “Sohn des Himmels” – t’ien – tze – , d.h., der nicht nach den Gesetzen der Sterblichen Geborene, den “himmlischen Auftrag” – t’ien – ming – , der gleichfalls die Idee einer übernatürlichen realen Kraft mit einbegreift. Die Art dieser Kraft “vom Himmel” ist nach der Bezeichnung des Lao-tze Tun – ohne – Tun (wei – wu – wei) oder immaterielle Tat durch Gegenwart. Sie ist unsichtbar wie der Wind und hat gleichwohl das Unwiderstehliche einer Naturgewalt: die Kräfte des gewöhnlichen Menschen – sagt Meng-tze – biegen sich darunter wie sich die Halme unter dem Wind biegen [Über die Art der "Tugend", deren Inhaber der König ist, vgl. Dschung-yung, XXXIII, 6, wo es heißt, daß die geheimen Aktionen des "Himmels" den äußersten Grad des Immateriellen erreichen – "sie haben weder Klang noch Geruch", sie sind zart "wie die leichteste Feder". Zum Tun – ohne – Tun vgl. ebd. XXVI, 5 – 6: "Es gleichen sich die im höchsten Grade vollkommenen Menschen durch die Weite und die Tiefe ihrer Tugend der Erde an; durch die Höhe und den Glanz derselben gleichen sie sich dem Himmel an; durch die Ausdehnung und die Dauer gleichen sie sich dem Raum und der Zeit an, die ohne Grenzen sind. Der, welcher in dieser herrlichen Vollkommenheit lebt, er zeigt sich nicht und dennoch offenbart er sich, wie die Erde, durch seine Wohltätigkeit; er bewegt sich nicht und dennoch bewirkt er, wie der Himmel, vielfachen Wandel; er handelt nicht und dennoch bringt er, wie Raum und Zeit, seine Werke zur letzten Vollendung". Weiter unten – XXXI, 1 – wird gesagt, daß nur ein solcher Mensch "würdig ist, die höchste Autorität zu besitzen und den Menschen zu befehlen."]. In dieser Kraft oder “Tugend” verankert, bildete der Herrscher im alten China tatsächlich das Zentrum einer jeden anderen Sache oder Energie. Man war überzeugt, daß von seinem Verhalten insgeheim nicht nur Glanz oder Elend seines Reiches abhing (es ist die “Tugend” – te’ – des Herrschers, weniger sein Beispiel, wodurch das Betragen seines Volkes gut oder böse wird), sondern auch der geregelte und günstige Verlauf der Naturereignisse selbst. Seine Funktion als Mittelpunkt implizierte sein Verharren in jener innerlichen, “sieghaften” Seinsart, von der die Rede war und der hier der Sinn des bekannten Ausdrucks “Unveränderlichkeit in der Mitte” entsprechen mag. Aber wenn dem so ist, kann keine Macht gegen seine “Tugend” aufkommen, um den überlieferungsgemäß geordneten Verlauf der menschlichen und selbst der natürlichen Dinge zu stören. Bei jedem normalen Ereignis mußte also der Herrscher die letzte Ursache und die geheime Verantwortung dafür in sich selbst suchen.

Allgemeiner gesagt, die Idee von heiligen Eingriffen, durch die der Mensch mit seinen verborgenen Kräften die natürliche Ordnung aufrecht erhält und sozusagen das Leben der Natur erneuert, gehört einer frühesten Überlieferung an und interferiert sehr häufig mit der Königsidee selbst. Daß die erste und wesentlichste Funktion des Königs im Vollzug jener rituellen und sakrifikalen Handlungen besteht, die den Schwerpunkt des Lebens in der traditionsgebundenen Welt darstellten, ist jedenfalls eine Idee, die in allen regulären Formen der Überlieferung fortdauert, bis zu den griechischen Städten und bis auf Rom [Aristoteles (Pol. VI, 5, 11; vgl. III, 9) sagt: "Die Könige haben diese ihre Würde dadurch, daß sie Priester eines gemeinschaftlichen Kultes sind." Die wichtigste Handlung, die dem König von Sparta zukam, war die Darbringung von Opfern; und dasselbe ließe sich von den ersten römischen Königen sagen und dann auch von den Herrschern der Kaiserzeit.], indem sie die schon erwähnte Untrennbarkeit der königlichen Würde von den sakrifikalen und pontifikalen erzeugt. Der König, mit nichtirdischen Kräften versehen, ein göttliches Wesen, erschien auf natürlichem Wege als der, welcher unmittelbar fähig ist, die Macht der Riten zur Entfaltung zu bringen und die Wege zur höheren Welt zu erschließen. In jenen Formen der Überlieferung, in denen eine besondere Priesterkaste erscheint, gehört deshalb der König, wenn er seiner ursprünglichen Würde und Funktion entspricht, ihr an, und zwar als ihr Oberhaupt, pontifex maximus. Wenn wir, umgekehrt, bei gewissen Völkern den Brauch vorfinden, beim Eintritt eines Versagens das Oberhaupt abzusetzen oder zu beseitigen – denn dieses Versagen galt ihnen als ein Verfallszeichen der mystischen Kraft des “Glücks”, derentwegen man das Recht hatte, Oberhaupt zu sein – , so haben wir hier den Widerhall von etwas, das, wenn auch in Formen materialistischer Entartung, uns auf dieselbe Ideenfolge zurückführt. Und bei den nordischen Völkern, bis zur Zeit der Goten, wo das Prinzip der königlichen Göttlichkeit zwar unangetastet blieb (der König wurde hier Ases genannt, der Eigenname einer bestimmten skandinavischen Götterkategorie), galt als ein unglückliches Ereignis, wie z.B. eine Hungersnot, eine Seuche oder eine Mißernte, wenn auch nicht gerade als das Fehlen der an den König gebundenen mystischen Macht des “Glücks”, so doch als der Effekt von etwas, das der König begangen haben mußte, und das die objektive Wirksamkeit seiner Macht unterband.

Man verlangte deshalb vom König, daß er die symbolische und solare Eigenschaft des invictussol invictus, élios aníketos – bewahre und damit den Zustand einer unerschütterlichen und übermenschlichen Zentralität aufrecht erhalte, die genau der Idee des Fernen Ostens von der “Unerschütterlichkeit in der Mitte” entspricht. Andernfalls ging die Kraft, und mit ihr die Funktion, auf denjenigen über, der bewies, daß er sie besser an sich zu ziehen verstand. Schon hier kann man auf einen der Fälle hinweisen, in denen die Vorstellung vom “Sieg” zum Knotenpunkt verschiedener Bedeutungen wird. Wer sie richtig versteht, für den ist in dieser Beziehung höchst bedeutungsvoll die Legende vom König der Wälder von Nemi, dessen Würde in einer Zeit des König – und Priestertums auf den überging, dem es gelungen wäre, ihn zu überraschen und zu “töten” – und bekannt ist auch Frazers Versuch, mannigfache Überlieferungen gleichen Typs, die es so ziemlich überall auf der Welt gibt, auf eben diese Legende zurückzuführen. Natürlich ist hier die “Probe” als körperlicher Kampf – sollte er auch in Wirklichkeit nie stattgefunden haben – nur die materialistische Reduktion von etwas, dem eine höhere Bedeutung innewohnt. Um den tieferen Sinn erfassen zu können, der sich in der Legende des Priester-Königs von Nemi verbirgt, muß man sich erinnern, daß nach der Überlieferung den Rex Nemorensis zu stellen nur ein “entflohener Sklave” berechtigt war (d.h. esoterisch verstanden, ein den Fesseln der inferioren Natur entflohenes Wesen), nachdem er zuvor in den Besitz eines Zweiges der heiligen Eiche gelangt ist. Aber die Eiche ist gleichwertig mit dem “Baum der Welt” vieler anderer Überlieferungen und ein ziemlich gebräuchliches Symbol, um die Urkraft des Lebens zu bezeichnen; womit ausgedrückt wird, daß nur ein Wesen, das an dieser Kraft teilhaben will, danach trachten kann, dem Rex Nemorensis die Würde zu entreißen. Was diese Würde anbelangt, ist daran zu erinnern, daß die Eiche und auch das Gehölz, dessen “rex” der Priester – König von Nemi war, in Beziehung zu Diana stand und daß Diana sogar die “Buhlerin” des Königs der Wälder war. Die großen asiatischen Göttinnen der Natur wurden in den alten Überlieferungen des orientalischen Mittelstandes oftmals durch heilige Bäume symbolisiert: worin wir, unter den Symbolen, die Idee von einem Königtum entdecken, das sich herleitet von der Vermählung oder Paarung mit dieser mystischen “Lebens”-Kraft – die auch die der transzendenten Weisheit und der Unsterblichkeit ist – , verkörpert sowohl in der Göttin als auch im Baum. So bekommt die Sage von Nemi die allgemeine Bedeutung, die wir in vielen anderen Mythen und Legenden der Überlieferung finden, nämlich die eines “Siegers” oder “Helden”, der als solcher an Stelle des rex in den Besitz einer Frau oder Göttin gelangt, die in anderen Überlieferungen in der indirekten Bedeutung einer Hüterin von Früchten der Unsterblichkeit auftritt (die Frauengestalten in Beziehung zum symbolischen Baum in den Mythen von Herakles, Jason, Gilgamesch usw.) oder in der direkten Bedeutung einer Personifikation der geheimen Kräfte der Welt und des Lebens oder des übermenschlichen Wissens [Vgl. J. Evola, La tradizione ermetica, Bari 1931, S. 13 – 25. Einige alte Überlieferungen, in Bezug auf einen "weiblichen" Ursprung der Königsmacht, lassen sich zuweilen nach dieser Maßgabe auslegen. Ihre Bedeutung ist dann genau die entgegengesetzte von jener, die der "gynäkokratischen" Anschauung eignet, auf die wir vielleicht bei anderer Gelegenheit zurückkommen werden. – Über den Zusammenhang zwischen göttlichem Weib, Baum und sakralem Königtum vgl. auch die Wendungen im Zohar (III, 50b., III, 51a – auch II, 144b, 145a, mit Bezugnahme auf Moses als Gemahl der "Matrone"), wo es heißt, daß "der Weg, der zum großen Lebensbaum führt, die große Matrone ist" und daß "alle Macht des Königs in der Matrone wohnt", da die "Matrone" die "weibliche" und der Gottheit immanente Form ist; jene, der später bei den Gnostikern, als "heiligem Geist", oftmals wieder ein weibliches Sinnbild entspricht (die Jungfrau Sophia). In der japanischen Überlieferung , die bis heute unverändert fortbesteht, wird der Ursprung der Kaisermacht auf eine Sonnengöttin zurückgeführt – Amaterasu Omikami –, und der Kernpunkt der Zeremonie für den Aufstieg zur Macht – dajo sai – ist durch die Beziehung gegeben, die der König mit ihr durch die "Darreichung der neuen Speise" anknüpft. – Was den "Baum" anbelangt, ist der Hinweis nicht uninteressant, daß er auch in den mittelalterlichen Sagen in Beziehung zur Kaiseridee bleibt: der letzte Kaiser wird vor seinem Tode Zepter, Krone und Schwert am "dürren Baume" aufhängen, der sich gewöhnlich in der symbolischen Region des Presbyters Johannes befindet, genau wie der sterbende Roland sein unzerbrechliches Schwert am "Baume" aufhängt. Weitere Übereinstimmung: Frazer hat auf die Beziehung hingewiesen zwischen dem Zweig, den der entflohene Sklave von der heiligen Eiche der Nemi brechen muß, um mit dem König der Wälder kämpfen zu können, und dem Goldenen Zweig, der Aeneas erlaubt, als Lebender in die Unterwelt hinunterzusteigen, d.h. als Lebender in das Unsichtbare eingeweiht zu werden zu können. Nun wird aber eines der Geschenke, die Kaiser Friedrich II. von dem Presbyter empfängt, gerade ein Ring sein, der "unsichtbar" macht (d.h. in der Unsterblichkeit und ins Unsichtbare versetzt: in den griechischen Überlieferungen ist die Unsterblichkeit des Helden oft ein Synonym für ihren Übergang zum unsterblichen Leben) und der den "Sieg" verschafft: genau wie Siegfried in den Nibelungen durch die symbolische Tugend des Sich-unsichtbar-machens die "göttliche" Brunhild bezwingt und zum königlichen Hochzeitslager führt. ].

Reste von Überlieferungen, in denen die in der archaischen Sage vom König der Wälder enthaltenen Themen wiederkehren, bleiben übrigens bis zum Ende des Mittelalters, wenn nicht noch länger, erhalten und sind stets mit dem antiken Gedanken verknüpft, daß das rechtmäßige Königtum die Neigung hat, auch in spezifischer und konkreter, wir möchten sagen “experimenteller” Weise untrügliche Zeichen seiner übernatürlichen Natur zu bekunden. Ein einziges Beispiel: vor Ausbruch des Dreißigjährigen Krieges verlangte Venedig von Philipp von Valois, daß er sein tatsächliches Recht, die Königskrone zu tragen, durch eines der folgenden Mittel beweise. Das erste, das der Sieg über seinen Widersacher ist, mit dem er auf dem Turnierplatz hätte kämpfen müssen, bringt uns in der Tat auf den Rex Nemorensis und auf die mystische Beglaubigung eines jeden “Sieges” zurück [Bei anderer Gelegenheit werden wir die Auffassung noch besser erhellen, die uns hier – wie, allgemeiner, in der "Waffenprobe" bestimmten mittelalterlichen Rittertums – eigentlich nur in grob materialistischer Form entgegentritt. Der Überlieferung nach war der Sieger nur insofern ein solcher, als sich in ihm eine übermenschliche Energie verkörperte; und eine übermenschliche Energie verkörperte sich in ihm, insofern er Sieger wurde: zwei Momente in einem einzigen Akte, das Zusammentreffen eines "Abstieges" mit einem "Aufstieg".]. Über die beiden anderen Mittel liest man in einem Texte der Zeit: “Wenn Philipp von Valois, wie er behauptet, wahrer König von Frankreich ist, soll er es dadurch zeigen, daß er sich hungrigen Löwen aussetzt, denn die Löwen verwunden nie einen wirklichen König; oder aber er vollbringe das Wunder der Heilung von Kranken, wie es die anderen wahren Könige zu vollbringen pflegen… Im Falle des Mißerfolges würde man ihn seiner Krone als unwürdig erachten.”

Die übernatürliche Macht, die sich im Sieg oder in der thaumaturgischen Tugend offenbart, läßt sich also auch in Zeiten, welche wie die Philipp von Valois schon in die “moderne” Ära fallen, nicht trennen von der Idee, die man traditionsgemäß vom wahren und rechtmäßigen Königtum hatte [Die thaumaturgische Tugend wird von der Überlieferung auch den römischen Kaisern Hadrian und Vespasian bestätigt (Tacitus, Hist., IV, 81; Sueton, Vespas., VII). Bei den Karolingern finden wir Spuren einer Idee, derzufolge sich die soterische Kraft gleichsam materiell bis in die Königsgewänder auswirkt. Angefangen von Robert dem Frommen, über die Könige von Frankreich, und von Eduard dem Bekenner über jene von England, bis zum Zeitalter der Revolutionen, überträgt sich sodann auf dynastischem Wege die thaumaturgische Macht, die sich zunächst auf die Heilung aller Krankheiten erstreckt, sich später auf einige von ihnen beschränkt und sich in tausenden von Fällen erprobt hat, so sehr, daß sie nach einem Wort von Pierre Mathieu "als einziges Wunder von Dauer in der Religion der Christen" erscheint. Zu den geistigen Einflüssen, die sich in den Helden auswirkten, deren Kult man in Griechenland feierte, zählte man außer den prophetischen oft auch die soterische Tugend.]. Und sieht man auch ab von der tatsächlichen Angleichung der einzelnen Personen an sie, so bleibt doch die Idee bestehen, daß “das, was die Könige in solche Verehrung gebracht hat, hauptsächlich die göttlichen Tugenden und Kräfte gewesen sind, die nur in ihnen vorhanden waren und nicht auch in anderen Menschen”. Joseph de Maistre schreibt: “Gott setzt die Könige buchstäblich ein. Er bereitet die Königsgeschlechter vor; er läßt sie in einer Wolke gedeihen, die ihren Ursprung verhüllt. Endlich treten sie hervor, mit Ruhm und Ehre gekrönt; sie setzen sich ein, und das ist das größte Zeichen ihrer Rechtmäßigkeit. Sie steigen von selbst empor, ohne Gewalt von der einen Seite und ohne ausdrückliche Verhandlung von der anderen. Hier herrscht eine gewisse großartige Ruhe, die nicht leicht zu beschreiben ist. Rechtmäßige Usurpation – das schiene mir der treffendste Ausdruck (wäre er nicht zu kühn), um diese Art von Ursprung zu bezeichnen, dem die Zeit dann bald ihre Weihe erteilt.” [Auch in der iranischen Überlieferung herrschte die Ansicht, daß die Natur eines königlichen Wesens sich früher oder später unweigerlich durchsetzen müsse. Der Stelle von De Maistre entnimmt man den Brauch des symbolischen Verhüllens mit einer Wolke, den man traditionsgemäß, in Griechenland vor allem, auf die geraubten und unsterblich gemachten "Helden" anwandte; außerdem wird hier die alte mystische Idee des Sieges ersichtlich, insofern das "Sich-Einsetzen" nach De Maistre das "größte Zeichen für die Rechtmäßigkeit" der Könige ist.]

(Veröffentlichung in: Deutsches Adelsblatt, 04.03.1933)

mardi, 03 janvier 2012

Mircea Eliade, il genio

Mircea Eliade, il genio

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Il 13 marzo di cent’anni fa nasceva a Bucarest Mircea Eliade. Fin dall’infanzia i genitori spostano il compleanno al 9 marzo. Al suo nome di battesimo non corrispondeva infatti alcun patrono nel calendario ortodosso, sicché la famiglia decise di festeggiare il giorno 9, che non era consacrato a nessun santo particolare bensì ai Quaranta Martiri uccisi a Sebaste durante le persecuzioni di Luciano.

Studioso del mito e delle religioni, esperto di yoga e sciamanesimo, di occultismo ed esoterismo, romanziere fecondo, saggista dall’erudizione prodigiosa e a suo agio in otto lingue, Eliade è stato tra le intelligenze più acute e versatili del Novecento. Ma l’intelligenza è un dono di dèi invidiosi, un dono avvelenato: il confine che la separa dall’ottusità è mobile.

«Che uomo straordinario sono!», annota il trentaquattrenne intellettuale nel suo Jurnalul din Portugalia, l’inedito diario dei cinque anni, dal 1941 al 1945, trascorsi come consigliere culturale all’ambasciata rumena di Lisbona (in Italia sarà pubblicato da Bollati Boringhieri). Il giovane Eliade, all’epoca ancora sconosciuto al grande pubblico europeo, passa parte delle sue giornate a rileggere alcune sue pagine e si paragona ai grandi della letteratura: «La mia capacità di comprendere e percepire tutto ciò che appartiene alla sfera culturale è illimitata … Comunque sia, i miei orizzonti intellettuali sono più vasti di quelli di Goethe». Il 15 luglio 1943 annota con ineffabile disinvoltura: «Mi rendo conto che dopo Eminescu [il poeta nazionale rumeno], la nostra razza non ha mai più conosciuto una personalità tanto (…) potente e tanto dotata quanto la mia».

I diari integrali saranno desecretati solo nel 2018, ma tutto fa pensare che l’autocritica non appartenesse al pur vastissimo repertorio di Eliade. Né che egli sia mai guarito dalla megalomania di cui evidentemente andava affetto. A quattordici anni aveva già pubblicato il suo primo racconto: Come ho scoperto la pietra filosofale. In un successivo Romanzo dell’adolescente miope (1923) elabora la quasi umiliante scoperta della propria sessualità. Qualche anno dopo, in Gaudeamus (1928), entrano in scena la femminilità e l’amore, e per converso il concetto di «virilità», mutuato dall’adorato Papini, autore di Maschilità. Il suo io è superalimentato dall’ambizione e da una «religione della volontà» fatta di astinenza e disciplina (dormiva cinque ore per non sottrarre tempo allo studio).

Iscrittosi nel 1925 a Lettere e Filosofia dell’università di Bucarest, emerge come leader della giovane «Generazione», un gruppo di intellettuali anticonformisti che aspira a rinnovare la tradizione rumena. Tra gli altri «latini d’Oriente» ci sono Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi superbi Exercises d’admiration), Ionesco, Costantin Noica e Mihail Sebastian, un ebreo a lui molto caro.

Nel 1927 e 1928 visita l’Italia, avendo alle spalle una serie di letture rapaci che mettono le ali alla sua passione per nostra cultura (documentata esaurientemente da Roberto Scagno per Jaca Book). Su tutti Papini ed Evola, a proposito del quale scriverà un testo, Il fatto magico, andato perduto. Dopo la laurea su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, alla fine del 1928, parte alla volta dell’India per studiare la filosofia orientale con Surendranath Dasgupta. Vi rimane fino al dicembre del 1931, imparando il sanscrito e raccogliendo materiali, conoscenze ed esperienze che lo segnano profondamente. C´è anche una storia d’amore con Maitreyi, la figlia di Dasgupta, nella cui casa a Calcutta era andato ad abitare. La ragazza è la protagonista dell’omonimo romanzo, che Eliade pubblica in Romania nel 1933. Sarà un grande successo, che trasfigura Maitreyi in un simbolo dell’immaginario rumeno.

Incrinatisi i rapporti con Dasgupta, viaggia nellHimalaya occidentale soggiornando nell’ashram di Shivananda e facendosi iniziare allo yoga. Nel contempo lavora alla tesi di dottorato, che discute a Bucarest nel ‘33 e pubblica a Parigi nel ‘36 con il titolo Yoga, saggio sulle origini della mistica indiana. Un libro che lo lancerà come autore di culto quando lo yoga si diffonderà in Occidente.

Dal 1933 al 1940 è di nuovo a Bucarest come assistente di Nae Ionescu, il leggendario maestro della giovane Generazione. Ionescu lo avvicina alla Guardia di Ferro, l’organizzazione di estrema destra capeggiata da Codreanu. Costui era convinto, tra l’altro, che gli ebrei cospirassero per fondare una nuova Palestina tra il Mal Baltico e il Mar Nero, e il suo vice, Ion Mota, aveva tradotto in rumeno I protocolli dei Savi di Sion. Eliade non era antisemita, ma all’epoca si lasciò intruppare. Il diario che l’amico ebreo Sebastian tenne fra il 1935 e il 1944, pubblicato nel 1996, è un’accorato lamento per il comportamento ambiguo di Eliade. Che è tutto preso dalle sue carte: pubblica vari saggi (tra cui Oceanografia e Il mito della reintegrazione), romanzi (tra cui Ritorno dal Paradiso, La luce che si spegne, i due volumi Huliganii), un’importante rivista di studi mitologici, Zalmoxis, che richiamerà l’attenzione di Carl Schmitt ed Ernst Jünger.

Alla fine della guerra si trasferisce a Parigi dove, aiutato da Dumézil, insegna all’Ecole des Hautes Etudes. Il Trattato di storia delle religioni (1949) lo consacra come massimo studioso del fenomeno religioso su scala mondiale. Ostile al metodo positivistico e storicista, Eliade riprende la prospettiva aperta da Rudolf Otto e sviluppa uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, le «ierofanie». La sua non è una storia bensì una morfologia del sacro, le cui forme appaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», riattualizzando miti primordiali. Per lui il mito non è affatto arcaico né fuori gioco. Si è piuttosto ritirato negli interstizi della modernità, dove si tratta di scovarlo. Contro la presunta superiorità dell’uomo moderno sui «primitivi».

Nel 1950 è invitato da C.G. Jung al primo incontro di «Eranos» ad Ascona. Nel 1956 passa a insegnare alla Divinity School di Chicago, dove rimarrà fino alla morte (avvenuta il 22 aprile 1986 per un ictus). Dal 1960 al 1972 dirige con Ernst Jünger una straordinaria rivista di storia delle religioni, Antaios. Intanto seguita a pubblicare a ritmo martellante un’infinità di lavori, culminati nella grande Storia delle credenze e delle idee religiose (1976-1983). È anche candidato al Nobel per la letteratura.

Purtroppo, un dettaglio ne stoppa l’apoteosi, e gli schizza addosso una macchia infamante. Un dettaglio biografico, sul quale la sua intelligenza si incaglia e si rovescia in ottusità.

Nel 1972 lo storico Theodor Lavi (pseudonimo di Lowenstein), in base al diario ancora inedito di Sebastian e ad altre testimonianze, rivela su Toladot, una piccola rivista dell’emigrazione rumena in Israele, che Eliade era stato vicino alla Guardia di ferro. Eliade fa finta di nulla, cerca di sbarazzarsi del suo passato come un serpente della sua pelle. Ma la notizia fa il giro del mondo, in Italia è ripresa da Furio Jesi. Un suo viaggio a Gerusalemme nella primavera del 1973 dev’essere annullato in extremis, tra lo sconcerto dell’amico Gershom Scholem. Nei suoi diari, silenzio.

Da quel momento Eliade adopera la sua intelligenza per dissimulare e insabbiare. Cerca coperture, si stringe ad amici insospettabili, come Paul Ricoeur e lo scrittore ebreo Saul Bellow. Quest’ultimo diventa suo intimo, ma nel romanzo Ravelstein inscena il dubbio che lo tormenta. Il protagonista, alias Allan Bloom, mette in guardia l’amico narratore da Radu Grielescu, alias Eliade: è stato «un seguace di Nae Ionescu che fondò la Guardia di Ferro», avverte, un jew-hater che denunciò «la sifilide ebraica che contagiava la raffinata civiltà balcanica», «ti strumentalizza» per «rifarsi una verginità». Il tarlo del sospetto non soffocherà la compassione, e ai funerali di Eliade Bellow prenderà la parola per dire il suo dolore e la sua compassione.

È difficile giudicare del caso Eliade. Come è difficile giudicare di Heidegger, Carl Schmitt o Céline. Certo, la loro opera non può più essere letta solo in chiave scientifica o letteraria, separandola dalla biografia. Eppure, la loro vita mediocre non basta a oscurare la grandezza dell’opera che ha generato. Ci chiediamo: perché intellettuali di tale statura si sono ostinati a tacere il loro passato? La verità è che gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono, e molto più di quello che pensano.

È probabilmente questa saggezza che ha indotto perfino il regista Francis Coppola a rendere omaggio a Eliade. Il suo nuovo film, Youth without Youth, prende spunto da un omonimo racconto di Eliade (Tinerete fara tinerete): un settantenne professore, colpito da un fulmine, diventa più giovane anziché più vecchio, attirando l’attenzione dei servizi segreti. Il professore deve scappare attraverso vari paesi fino in India… Anche questa singolare fortuna è un dettaglio in cui si nasconde il buon Dio, e ci avverte che l’opera di Eliade rimane un capitolo inevitabile della storia intellettuale del Novecento, un passaggio obbligato per capirne le convulsioni.

* * *

Tratto da Repubblica del 12 marzo 2007.

samedi, 31 décembre 2011

La metaphysique de la guerre

La métaphysique de la guerre

par Kerry Bolton

Ex: http://www.counter-currents.com/

medium_chevalier.jpgIl y a un fond commun à toutes les civilisations basées sur la tradition, remontant à des siècles dans le passé et incluant géographiquement les civilisations nées en Asie, en Europe, et même jusqu’en Amérique centrale et en Amérique du Sud. La base de la civilisation traditionnelle est la création de l’ordre à partir du chaos, comme manifestation cosmique et divine. C’est pourquoi la civilisation elle-même était un produit du cosmique, et tous ses aspects avaient une signification métaphysique. Le « droit divin » des rois plaçait la  souveraineté bien au-dessus de la simple politique au sens moderne : le souverain représentait le point central autour duquel gravitaient les parties les plus lointaines des empires. Une autre marque de la civilisation traditionnelle était l’institution des castes qui étaient également  ordonnées d’une manière divine et cosmique : car la caste de quelqu’un représentait sa condition spirituelle, qui avait été pré-ordonnée avant sa naissance physique. Franchir la limite de sa caste revenait à devenir littéralement un « hors caste » ou paria, inférieur même à l’esclave.

La caste guerrière était la plus estimée du point de vue cosmique, car le guerrier était davantage qu’un « soldat » au sens moderne du mot ; il était un guerrier cosmique dont le devoir dharmique (pour utiliser un mot hindou qui a sa contrepartie dans toutes les civilisations traditionnelles) reflétait l’action des dieux eux-mêmes puisque le guerrier  établissait l’ordre dans le royaume terrestre, de même que les dieux avaient triomphé des forces du chaos et établi l’« ordre » en créant le cosmos.

Guerre sainte

Avec cette analogie ésotérique entre le guerrier terrestre et le héros divin, la guerre devenait la guerre sainte, une action transcendant le terrestre et transformant magiquement le guerrier en un être spirituel. La guerre devenait ainsi « la voie du divin ». La caste guerrière avait ses propres rites religieux. Les samouraïs japonais, par exemple, étaient inspirés par le Zen. Les guerriers nordiques étaient dévoués à Odin, Thor ou Tyr. Les guerriers perses et plus tard romains étaient dévoués à Mithra. Krishna enseigna à Arjuna la doctrine guerrière de la violence détachée, qui transforme la bataille en guerre sainte et Arjuna en guerrier divin.

Pour le guerrier des civilisations traditionnelles, la spiritualité de la guerre garantissait la bénédiction de la divinité. Le guerrier qui était tué à la bataille atteignait souvent lui-même l’état divin, ou atteignait du moins la demeure des dieux, pour habiter parmi eux en tant que guerrier divin. Pour les Aztèques, le plus haut siège d’immortalité, la « Maison du Soleil », était le lieu de résidence non seulement des rois mais aussi des héros. Le guerrier hellénique atteignait l’Olympe en tant que héros divin, alors que les autres allaient dans la pénombre de l’Hadès. De même, les guerriers nordiques tués à la bataille continuaient à combattre et à festoyer avec les dieux Ases au Walhalla, pendant que les autres habitaient dans Hel. Le guerrier islamique dont l’âme était purifiée par le djihad habitait au paradis, de même que leurs homologues européens, les chevaliers des Croisades.

Chevalerie

A travers la guerre, les pulsions humaines et chaotiques du guerrier ainsi que son attachement aux choses matérielles étaient transcendés, et son âme était purifiée. C’est le thème commun de l’éthique spirituelle et guerrière de tous les ordres de chevalerie, dans toutes les civilisations traditionnelles. La guerre était la grande initiation, le rite sacré transcendant la condition humaine inférieure.

Le djihad était appelé le Sentier d’Allah. Le Coran dit : « Que ceux qui veulent échanger la vie contre l’Au-delà combattent pour la cause d’Allah ; qu’ils meurent ou qu’ils vainquent, Nous leur donnerons une riche récompense ». Et aussi : « Vous avez l’obligation de combattre, même si cela vous déplaît ». Le détachement personnel conseillé par le Coran est précisément celui que Krishna enseigne à Arjuna, le chef de la caste des kshatriyas : « Offre-moi toutes tes actions et repose ton esprit sur le Suprême ; libéré des vains espoirs et des pensées égoïstes, délivré du doute, jette-toi dans le combat ».

Deux formes de chevalerie se rencontrèrent au Moyen Orient, représentant la même éthique. Pour les Croisés, il ne s’agissait pas d’un combat politique mais d’une guerre sainte qui transcenda bientôt les résultats matériels et les rivalités nationales et politiques, unissant les Européens en un bloc unitaire que l’Occident n’avait pas connu depuis l’Empire romain. De nouveau, la guerre sacrée devenait un moyen d’initiation intérieure, de transcendance ésotérique. A l’époque, la Croisade était décrite en termes métaphysiques analogues à ceux de l’islam et de l’hindouisme : « Une purification qui est presque un feu du purgatoire, qu’on connaît avant la mort ». Saint Bernard fit l’éloge de la gloire de gagner sur le champ de bataille « une couronne immortelle ». Jérusalem était une cité céleste, un point central de la civilisation de l’Occident, de même que toutes les civilisations et tous les empires traditionnels avaient eu un centre. L’éthique spirituelle et guerrière des Croisades s’exprimait dans des maximes comme « Le paradis est à l’ombre des épées » ; et « le sang des guerriers est plus proche de Dieu que l’encre des savants et les prières des dévots ».

Eclipse de la chevalerie

Aujourd’hui, la civilisation occidentale est entrée dans sa phase de mort. Ce n’est pas une civilisation au sens traditionnel ; c’est pourquoi l’éthique spirituelle de la guerre a disparu. La Première Guerre Mondiale, en dépit de la mécanisation de masse et des motifs économiques bassement matérialistes, fut la dernière guerre à présenter des vestiges de chevalerie traditionnelle dans les deux camps ; ces vestiges se manifestèrent par la fraternisation entre combattants ennemis le Jour de Noël, et plus symboliquement par les honneurs rendus aux aviateurs ennemis tués au combat.

La Seconde Guerre Mondiale refléta la nature vile et non-chevaleresque de la guerre non-traditionnelle par excellence : les bombardements de saturation des Alliés sur des villes comme Dresde ; et une motivation purement basée sur une vengeance talmudique étrangère, se manifestant par l’exécution des chefs politiques et militaires des nations vaincues, à Nuremberg [1] et dans des procès similaires.

Dans une certaine mesure, la Waffen SS peut se comparer aux ordres de chevalerie des Croisades ; ce fut la seule formation militaire de la guerre dont l’éthique était fondée sur l’honneur (« Notre honneur s’appelle fidélité »), et en particulier sur le sens de la guerre « sainte » qui transcenda les frontières nationales et attira des volontaires venant de toute l’Europe, tout comme les Croisades l’avaient fait (on pourrait arguer que, dans un sens totalement différent, certains Juifs la considérèrent aussi comme une « guerre sainte »). Si la Waffen SS fut le dernier vestige de la caste guerrière traditionnelle à se manifester dans la civilisation occidentale [2], alors l’incarnation même de la décadence de l’Occident fut sûrement les GI’s américains paradant à travers l’Europe, pillant les trésors culturels [3], violant, détruisant au marteau les sculptures d’Arno Breker qui avaient décoré les jardins publics d’Allemagne, puis se retirant du Vietnam dans l’humiliation et la stupeur des drogués un demi-siècle plus tard.

Notes du traducteur

1. Les chefs nazis furent pendus en octobre 1946, pendant la période de la fête juive de Sukkot (Fête des Cabanes) ; en mars 1953, six ans et demi plus tard, Staline connut une mort suspecte (et opportune) pendant la fête juive de Pourim…

2. Deux réflexions à ce sujet : « Il ne resta aux survivants que la persécution et la répression. Mais on peut parler d’un échec très relatif, et celui qui connaît le sens de la Guerre Sainte sait à quoi nous faisons allusion… » (Ernesto Milà, Nazisme et ésotérisme, 1990). Et aussi : « C’était le prix à payer, le prix du passage » (Jean-Paul Bourre, Le Graal et l’Ordre Noir, Déterna 1999).

3. Plus récemment les GI’s firent la même chose, en pire, avec les trésors archéologiques de l’Irak. En outre ils passèrent au bulldozer la tombe de Michel Aflak, le fondateur (chrétien !) du parti Baas, et mirent à leur tableau de chasse un nombre exceptionnel de journalistes.

Article paru dans le magazine néo-zélandais The Nexus, n° 8, mai 1997.

Lectures conseillees

– Bhagavad-Gita (si possible la traduction d’Anna Kamensky, une des meilleures)

Métaphysique de la guerre (Julius Evola, brochure)

La doctrine aryenne du combat et de la victoire (Julius Evola, brochure)

 


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lundi, 26 décembre 2011

Spiritualità cosmica nell’Ellade arcaica

Spiritualità cosmica nell’Ellade arcaica

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La religione ellenica si presenta come un insieme di culti e di riti che intendono trasmettere nella storia e nella vita quotidiana lo stesso impulso spirituale personificato dalla complessa varietà delle figurazioni divine. La sua rappresentazione religiosa è usualmente costituita dalla mitologia, ossia da un complesso di narrazioni di vicende divine che intendono “spiegare” in una prospettiva mito-poetica il significato del mondo o di singoli momenti di esso. I vari cicli mitologici non sono altro che proiezioni drammatizzate di quegli impulsi spirituali, una loro formulazione plastica che tende a restituire una visione “teologica” all’esperienza che i vari aedi, cantori, indovini o estatici hanno contemplato contemporaneamente come vita cosmica e ritmo divino.

 

Questo particolare carattere mitico-rituale ha comportato l’inesistenza di un qualsiasi Fondatore divino dal quale possa essersi originata la religione ellenica o che abbia in qualche modo “riformato” alcuni suoi caratteri fondamenti. Da ciò anche il fatto che la vasta rappresentazione mitologica e il complesso dei rituali non si trovano codificati in un insieme di testi sacri da cui poter sviluppare una dottrina religiosa o presso i quali tale dottrina potesse essere custodita e trasmessa senza alterazione. Tale assenza di libri rivelati ha poi permesso che si sviluppasse nell’Ellade la particolare funzione dei poeti i quali nelle loro opere hanno sostituito ciò che altrove veniva esplicato dagli scribi, esaltando particolarmente ciò che si potrebbe chiamare la “visione mitica” a detrimento di una qualsiasi rivelazione divina che potesse essere codificata e, appunto, “scritta”. Questo carattere fa sì che la religione ellenica si presenti non come un corpus dottrinale al quale aderire o al limite convertirsi, ma come una forma spirituale connaturata naturalmente a quel popolo, una “forma formante” che si invera nelle varie  espressioni di vita e dalla quale si può evadere non con un rifiuto, ma cambiando la stessa identità nazionale.

 

Come ulteriore conseguenza tutto ciò ha comportato il tipico atteggiamento di perpetuazione di usi, costumi e rituali ancestrali, di conservazione di un patrimonio religioso che viene trasmesso come elemento di identità e di custodia di un ordine la cui origine si confonde con quella stessa del popolo ellenico. Da ciò anche il carattere fondamentalmente conservatore di questa religione, presso cui l’aderenza alla tradizione esprimeva l’unico criterio di ortodossia e che rendeva “attuale” e “storica” la lotta per l’ordine tradizionale contro ogni forma di disordine. Questa storicità è una delle peculiarità della religione ellenica ed è determinata dallo stesso scenario mitologico tradizionale. Qui, infatti, la nascita del popolo ellenico va a confondersi con la stessa religione. Le origini nazionali non sono altro che un momento dello svolgimento della genealogia divina, una sua modalità di determinazione storica che ad un certo punto, come sembra indicare in modo specifico il mitologema di Hellenos sul quale torneremo, ha visto il “trapasso” del divino nell’umano di una particolare essenza divina, per di più tesa ad esplicitare la funzione di un ordine cosmico che il nuovo ciclo aperto da Deucalione dovrà realizzare.

 

La funzione del mito all’interno della spiritualità ellenica appare fondamentale. Il termine mythos si ritrova con significati vari all’interno della storia religiosa ellenica con utilizzazioni diverse e spesso persino opposte. Secondo molti esegeti diventa meno evidente rispetto a quanto ritenevano i classicisti dell’Ottocento una derivazione semantica di mythos da myēo, anche se ovviamente tale derivazione continua ad avere una sua forza dimostrativa di non poco rilievo e di forte persuasione. Ultimamente, però, alcuni studiosi appoggiandosi a diverse giustificazioni linguistico-formali, hanno pensato che si possa risalire ad un radicale indoeuropeo *mēudh-, *mudh- col significato speciale di “ricordarsi”, “aspirare a”, “riflettere”. Si avrebbe perciò il mythos quale “pensiero”, ma non riferito al pensare meramente cerebrale che si determina in un discorso logico-esplicativo, quanto piuttosto ad un “pensiero che si rivela”, che viene comunicato da una dimensione superiore a quella del tempo nella quale si consuma la vita umana. In particolare, sarà Omero che in entrambi i suoi poemi ci darà un “pensiero” (= mythos) che viene elaborato, un’idea, un “principio” che deve essere svelato.  Si entra così in un’area sacrale che vede il mito in rapporto strettissimo con il rito, con la dimensione “narrativo-esplicativa” di una condizione spirituale che è possibile esperire nell’atto rituale o nell’ispirazione estatica. E’ l’esperienza del veggente omerico che svela ciò che “ha visto con meraviglia”, quando lo spettatore, la cosa contemplata e l’atto del vedere diventano una thēoria, una “visione” la cui condizione l’aedo omerico esprime sì con la parola (è uno dei significato di mythos), ma con una parola che recita e “rappresenta” l’essere del mondo, tesa più ad incantare l’ascoltatore trasportandolo nel pieno dell’età eroica che a “raccontare” fatti, cosa che dà significato non transeunte all’uso ellenico di recitare brani di Omero durante alcune rappresentazioni rituali.

 

Fra i tanti mitologhemi più antichi dell’Ellade un interesse particolare può avere la constatazione che assieme ad Helios, quali figlie di Iperion e di Tia (“la divina”) troviamo anche Selene ed Eos, l’Aurora celeste. Va detto subito che i miti relativi ad Helios sono giunti in modo frammentario a tal punto che si è autorizzati a pensare che ci si trovi di fronte a cicli diversi intersecantisi e confusi l’un l’altro. Tale per es. la curiosa storia riportata da Ateneo che raccontava del viaggio di Helios fatto al tramonto in una coppa d’oro fino a raggiungere la mitica Etiopia. Quello che può interessare è che etimologicamente “etiopia” deriva dalla radice *aith- col significato di “bruciare” e di ”risplendere”, dato che qui tale radice include il senso di “fuoco che brucia” e perciò “risplende”. Si allude perciò ad una terra dove sì la luce risplende, ma di uno splendore di tipo vespertino, occidentale, evidenziato dal fatto che il viaggio di Helios si svolge al tramonto e che il popolo etiope era ritenuto essere non di razza nera, ma rossa, posta dal simbolismo tradizionale sempre ad occidente, al crepuscolo del percorso del sole.

 

Ancora più ricco di significati è il mito riportato da Omero nell’Odissea, là dove si fa menzione delle due figlie di Helios: Lampetia, “colei che illumina” e Faetusa, “colei che risplende”, le due divinità che custodiscono i 350 buoi del sole nell’isola di Trinacria. Secondo Bâl G. Tilak qui si ha una precisa allusione ad un antico anno di 350 giorni che verosimilmente doveva essere seguito da una notte cosmica di 10 giorni, ossia la durata dell’anno propria ad alcune regioni circumpolari, “là dove si compiono le rivoluzioni del sole”, ricorda ancora Omero (Od. XV, 403 e sgg.). E l’ipotesi acquista maggiore luce ove si consideri che queste due figlie di Helios presentate da Omero come le custodi dell’anno artico, personificano rispettivamente la luce che ne “illumina” l’inizio e la luce che “risplende” al suo compimento, ossia la luce dei due solstizi, quello estivo e quello invernale. Nel mitologhema le due sorelle si trovano ad esplicare la loro funzione di custodia nell’isola di Trinacria che è stata sempre concepita come la proiezione della mitica “terra del sole”. Persino lo stesso simbolo del triskel che graficamente la definisce, secondo le pittografie studiate da Dechélette, non esprime altro che lo stesso movimento del sole considerato nella prospettiva del suo rivelarsi secondo modalità cicliche che si srotolano attorno ad una divisione triadrica dell’anno che ha sostituito quella binaria risalente ad epoche molto più antiche, e ancora non si è stabilizzato nella divisione quaternaria, quella propria all’anno del periodo “classico” dell’Ellade. In un suo aspetto la Trinacria appare come il simbolo della potenza cosmica creativa che si dispiega nel tempo, la sua forza di manifestazione, perciò come uno dei simboli stessi che rivelano come tale potenza si sia inverata in una “terra primordiale”, una “terra originaria”, “solare”.

 

I miti relativi ad Eos, l”’Aurora” o la “luce aurorale”, sono molto più poveri e già risentono dell’influsso della leggenda eroica. Un altro nome della dèa dell’aurora fu Emera, “il Giorno”, che forse vuole esprimere l’idea di un’intera epoca umana. E sono note le storie di questa dèa della luce aurorale in connessione alla Syria, “la terra del sole” di Omero, oppure quelle relative ai suoi rapporti con Kephalonia, “la terra del centro” dove Kephalos, il Caput celeste, il “punto” cosmico di orientamento di una carta stellare molto antica (e comunque precedente  i rivolgimenti celesti cui accennava Aristotele per spiegare il passaggio del sole dal suo primordiale percorso sulla Via Lattea a quello attuale), si era “sposato” con l’Orsa celeste. Secondo questi miti alle origini gli sposi Kephalos e la Grande Orsa (con i suoi septem triones che trascinano il Grande Carro e lo fanno girare perpetuamente attorno al “perno” del cielo, il polo) si trovavano congiunti nello stesso quadrante cosmico secondo una direttrice che doveva risultare perpendicolare all’asse dell’osservatore allocato nella Kephalonia.

 

Dalle confraternite degli aedi itineranti, dei thēologoi e dei cosmologi arcaici, quelli che Aristotele radunava sotto la dizione di prōtoi thēologesantes (“i primordiali thēologoi”), probabilmente sono emerse tutti quei veggenti che si esprimevano attraverso il canto e la poesia sacra e, dunque, anche i due massimi cantori dell’antica Ellade, Omero ed Esiodo. Il caso di Esiodo è molto particolare. Non solo trasmette tutta una serie di elementi mitologici di un passato che rimanda ad epoche difficili da determinare, ma il personaggio appare pienamente consapevole del proprio ruolo di Aedo sacro, un cantore ispirato al quale era stato concesso il dono della poesia (= sapienza) che lo scettro d’oro donatogli dalle Muse sembra aver sanzionato in modo definitivo, dato che è detto che sono proprio loro che gli hanno insegnato “uno splendido canto, mentre pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona”, e addirittura in una gara poetica vince l’insegna dell’ispirazione apollinea, il sacro tripode che egli poi dedicherà alle Muse. E’ tutto un mondo che può essere ricondotto a forme di conoscenza ispirate che permettono di risalire oltre il transeunte, al “principio”, là dove le varie figurazioni divine hanno preso forma.

 

Lo stesso Omero può darci indicazioni importanti in questa direzione. Il suo nome, infatti, nel dialetto eolico cumano fu spesso interpretato come “il cieco” e rimanda più che ad un epiteto individuale, ad una attività più generale legata alle ispirazioni divine e alle estasi arcaiche. “Omero” personifica la funzione sacra dell’archegeta delle confraternite degli Aedi, colui che ha ricevuto la capacità di “vedere” oltre i limiti delle apparenze e, come gli indovini guardano al futuro, egli sotto l’ispirazione del dio canta il tempo passato, l’età eroica, “creandone” le espressioni, le gesta, lo scenario. La sua attività rimanda ad una funzione demiurgica tesa ad ordinare la visione ricevuta in uno stato di ispirazione divina e la rivela agli uomini, esattamente come hanno fatto gli Omeridi dell’isola di Chio, quella straordinaria confraternita di cantori la cui fisionomia rimanda agli aedi ispirati che hanno percorso la Grecia in ogni tempo e la cui qualificazione più importante era quella di essere “discendenti” di Omero, più esattamente gli eredi della tradizione dei veggenti omerici.

 

Esiodo ha conservato anche altri mitologhemi che possono essere fuorusciti da una cosmologia arcaica. Nell’enunciazione delle ère che descrivono il processo di impoverimento che dalla pienezza della spiritualità primordiale conclude nell’età del ferro, egli ci dà il senso di un loro rapporto non meramente cronologico, di successione temporale, ma quale espressione di “qualità” storiche, quali cicli che per la loro completezza, per il loro riflettere un determinato tipo di spiritualità rivelatasi in un tempo preciso, “storico”, in sé non sono legati ai cicli successivi. Questo fondamentale disegno unitario delle ère esiodee è rilevabile anche da un altro punto di vista che riconduce il mito riportato da Esiodo alle più arcaiche speculazioni indoeuropee sulle origini del cosmo. Se, infatti, si considera la successione delle età e delle varie razze che incarnano via via i valori spirituali delle singole ère, avremo il seguente quadro. Prima di tutto si avrà la razza aurea caratterizzata da una pienezza biologica propria al tipo di spiritualità di quel “tempo-fuori-del-tempo”, a-cronico, che in sé delinea la condizione di perfezione originaria cui devono tendere tutte le altre razze da lui individuate come specifiche dei diversi cicli temporali che si svilupperanno dopo la scomparsa della razza aurea. Questa razza primordiale appare perciò come una “totalità” all’interno della quale si realizza l’armonia e la giustizia, mentre la sua perfezione  in modo eminente consente l’espressione piena delle tre attribuzioni classificate da Georges Dumézil come funzioni cosmico-sociali [sacerdozio, forza guerriera e fecondità] che nella prospettiva esiodea sintetizzano ogni gerarchia sociale: gli uomini dell’età aurea saranno “buoni”, “guardiani giusti” e “dispensatori di ricchezza” (Erga, vv. 123-126).

 

Dopo la fine dell’età aurea e della razza che ne aveva incarnato l’essenza di luce, si succedono altre ère in una progressione che scivola sempre più verso il disordine e una onnipervadente empietà. Dall’età argentea a quella ferrea si ha perciò la delineazione di uno svolgimento progressivo che inizia da uno stato fanciullesco e puerile, poi diventa una dura e spietata giovinezza (gli uomini dell’età del bronzo nascevano “con una grande forza e mani invincibili spuntavano dagli omeri al loro corpo gagliardo”; Erga, vv. 143-149), si stabilizza per un po’ come l’equilibrata maturità degli Eroi e si conclude infine con l’età del ferro, l’èra della vecchiaia (“quando verranno al mondo gli uomini con le tempie candide fin dalla nascita”; v. 181), il crepuscolo del tempo cosmico ed umano. Dall’alba al tramonto dell’essere cosmico. La figura delineata appare quella di un Macrantropo, il prototipo mitico dell’esistenza che in sé contiene in principio le varie possibilità che si svilupperanno nel corso del tempo. Dal suo sacrificio rituale, ossia dalla sua “scomposizione” in ère cosmiche, si determina l’essere del mondo e degli uomini, mentre le razze che secondo Esiodo si susseguono l’una all’altra appaiono come le modalità diversificate di un tutto unitario, le “membra” dell’essere cosmico che si distende nel tempo e i suoi quattro stadi di esistenza.

 

La concezione di Esiodo non deve essere considerata una sua creazione originale ed individuale, ma va collocata all’interno di teorie cicliche di grande importanza e variamente articolate. La tradizione ellenica, infatti, ci parla di tre successivi cataclismi relativi alla sparizione di Ogygia, al diluvio di Deucalione e a quello di Dardano che avrebbero via via distrutto terre o continenti sui quali regnava l’empietà più profonda. Prescindendo da quelli di Ogygia e di Dardano sui quali ci siamo intrattenuti altrove, qui interessa soffermarci sul diluvio di Deucalione per gli accostamenti e gli sviluppi cui può dar luogo. Esso, infatti, ci riporta al ciclo dei titani per il semplice fatto che Deucalione risulta essere il figlio di Prometeo il quale, a sua volta, era stato concepito dal titano Giapeto e dall’oceanina Climene. Da questa unione era nato anche un secondo figlio di Giapeto, un fratello di Prometeo,  il famoso Atlante considerato il padre delle Esperidi, di Maia e della Plèiadi, ossia tutto un gruppo di esseri divini che si appoggiavano a precise costellazioni celesti poste sempre ad Occidente, mentre la tradizione ci dice che Zeus, a chiusura del ciclo spirituale precedente, pose entrambi i fratelli a presiedere i due poli opposti del mondo. Atlante presidiava l’Occidente e Prometeo l’Oriente, secondo un asse equinoziale che sostituisce il più antico asse solstiziale nord-sud e costituisce una precisa indicazione sull’esistenza nell’Ellade arcaica di dottrine sui cicli cosmici formulate secondo una narrazione che interpretava in termini mito-poetici un’antica tradizione sacra sulla strutturazione dei movimenti celesti.

 

Alla fine dell’età del bronzo, a causa della tracotanza ed empietà di quella razza Zeus volle un diluvio che ne cancellasse ogni traccia. Su consiglio del padre Deucalione e sua moglie Pirrha costruirono un’arca nella quale posero ciò che doveva essere salvato dal diluvio. Dopo nove giorni e nove notti durante i quali il diluvio distrusse la civiltà della razza bronzea, approdarono finalmente sul Parnaso dove finalmente sacrificarono a Zeus e così diedero inizio ad un nuovo ciclo. La titanessa Themis, la stessa che sarà soppiantata da Apollo a Delfi, enuncia in forma di enigma un oracolo che, avveratosi, costituirà l’origine stessa del genere umano. Gli elementi fondamentali del mito si possono considerare:

 

  1. L’arca che custodisce i germi della sapienza dei cicli spirituali precedenti;
  2. Deucalione e Pirrha che per la loro genealogia perpetuano in qualche modo anche aspetti importanti dell’età primordiale e perciò impediscono che ci sia una vera e propria rottura col mondo precedente;
  3. Il sacrificio a Zeus sul monte, l’axis mundi che diventa il luogo originario della nuova civiltà;
  4. L’oracolo di Themis, che permetterà la nascita del genere umano;
  5. La forma di enigma dell’oracolo.

 

Secondo la forma più conosciuta del mito, il figlio della coppia Deucalione-Pirrha (= il “Bianco” e la “Rossa”) scampata al diluvio sarà Hellenos il cui nome etimologicamente può essere ricondotto a “splendere”, “luce”, che secondo Jean Haudry darà come significato “colui che ha il viso solare” e perciò la sua discendenza, quella che formerà il nucleo essenziale delle diverse tribù greche, sarà propriamente il “popolo del sole”. Se ora poniamo mente al fatto che Helios è spesso rappresentato con sette raggi e che in India il settimo Aditya è Surya, il sole, ci si accorgerà che il parallelismo India-Ellade arcaica ha più di un punto di contatto e trova la sua ragione d’essere probabilmente nelle condizioni spirituali originarie dalle quale ha preso forma l’Ellade come noi la conosciamo in piena epoca del ferro.

 

Nell’ambito di questi cicli mitologici antichissimi può porsi anche l’orfismo la cui struttura misteriosofica ricalca forme di spiritualità cosmica del tipo che è possibile rinvenire per es. anche nell’India vedica o in certi aspetti della soteriologia tantrica. Le dottrine orfiche appaiono strutturate già a partire dal VII-VI sec., quando il bìos orphikòs costituirà un riferimento costante nel patrimonio speculativo dei filosofi e persino dei molti ciarlatani, ed è facile trovare quei thēologoi e quegli orfeotelesti accennati da Platone che ci documentano una massiccia presenza orfica nel mondo religioso e nella società dell’Ellade storica.

 

Una versione delle tante cosmogonie orfiche ci presenta quale entità primordiale la Notte dalla quale scaturiscono gli esseri divini, perciò in qualche modo una sorta di originaria scaturigine del tutto. E’ da questo principio che procede l’Uovo cosmico che, simile al Brahmanda indù, col suo scomporsi rende manifesti il cielo e la terra e, soprattutto, Phanes, l’Essere Primordiale “luminoso”, lo “splendente”, l’archetipo universale da cui promana ogni esistente, il Protogonos colui che contiene in sé la stesso i germi della manifestazione universale. Lo straordinario di questa struttura teo-cosmogonica estremamente arcaica è il fatto che tali concezioni furono concepite come supporti di una elaborata misteriosofia che affascinò personaggi come Platone e che appare piuttosto distante dalle usuali convinzioni elleniche sugli dèi olimpici e sulla relativa loro vita rituale. Ma c’è di più. Un’antica testimonianza riportata da Otto Kern (fr. 21a) e sviluppata nelle sue implicazioni escatologiche da Richard Reitzenstein, ci dice che secondo gli orfici l’universo era ritenuto il “corpo visibile” di Zeus, il quale perciò era ritenuto l’inizio, il mezzo e il fine del cosmo. Tale figurazione orfica di Zeus (che evidentemente non ha nulla dello Zeus olimpico) è contemporaneamente “uomo e donna”, un principio androginico dal quale si origina autonomamente per autogenesi il cielo, la terra e gli elementi fondamentali della vita cosmica, il vento, l’acqua, il fuoco, il sole, la luna. Come ha fatto notare Ugo Bianchi, questa concezione deve riflettere idee molto antiche se ancora nel VII sec. Terpandro testimonia la loro vitalità, forse come idee scaturite da forme rituali da riferirsi addirittura al passato indoeuropeo ove si accetti l’ipotesi di Anders Olerud, poi sviluppata da Geo Widengren nel capitolo sul panteismo del suo poderoso manuale di fenomenologia religiosa, sull’arcaicità dell’idea di microcosmo e di macrocosmo e sulla corrispondenza simbolica di queste due sfere in una struttura formale che abbia ben chiari i diversi stati molteplici dell’essere.

 

E’ la dottrina del Macrantropo dal cui sacrificio rituale si origina il cosmo, la stessa che abbiamo visto serpeggiare anche nella visione esiodea dei cicli cosmici e che, formulata in vario modo, si ritrova nelle cosmogonie e nelle dottrine sacrificali di molti popoli indoeuropei. Ma questo è un altro discorso che si intende riprendere in un apposito studio.

 

Per approfondire:

 

F. Vian, La guèrre des Geants. Le mythe avant l’èpoque hellènistique, Paris 1952.

 

N. D’Anna, Da Orfeo a Pitagora. Dalle estasi arcaiche all’armonia cosmica, Simmetria, Roma 2011.

 

N. D’Anna, Il Gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Mediterranee, Roma 2006.

 

[Tratto, col gentile consenso dell’Autore, da “Atrium” 2/2011].

samedi, 03 décembre 2011

Evola frente al fatalismo

Evola frente al fatalismo

Eduard Alcántara

Ex: http://septentrionis.wordpress.com/

 

INTRODUCCIÓN

Retrato de Julius Evola.jpgUna rígida interpretación de la Doctrina de las 4 Edades podría comportar predeterminismo atentatorio contra el principio Tradicional de la Libertad inalienable del Hombre Reintegrado a su esencia metafísica. Julius Evola mostró esa especial y añadida dosis de ´sensibilidad´ y de poder de interpretación que le posibilitaron el no estancarse en una visión rígida de los diferentes textos Sapienciales y Sagrados del mundo de la Tradición cuando éstos nos hablan de la doctrina de Las Cuatro Edades, pues el proceso de decadencia que ésta nos expone no es irreversible ni está impregnado de un fatalismo contra el que nada pueda oponer el Hombre. El maestro italiano le dio una especial relevancia a la idea de que la involución podía ser frenada e incluso eliminada antes de que aconteciera el final de un ciclo cósmico; esto es, antes del ocaso del kali-yuga. Y sostuvo firme y ocurrentemente esta idea porque creía en la libertad absoluta del Hombre. Porque creía que el Hombre -así en mayúscula-, aparte de tener la clara potestad necesaria para conseguir su total Despertar interior, también tenía en sus manos la posibilidad de devolver a sus escindidas y desacralizadas comunidades los atributos y la esencia que siempre fueron propios del Mundo Tradicional. Porque Evola creía, en definitiva, en el Hombre Superior o Absoluto, Señor de sí mismo. Igualmente creía que la pasividad fatalista del hombre podría prolongar el fin de una etapa. Para los tiempos crepusculares Evola barajaba la posibilidad de acelerar el fin del kali-yuga cabalgando el tigre: acelerando los procesos disolventes que se dan en estos tiempos deletéreos.

DESARROLLO

A la pregunta de ¿qué tipo de hombre es el que puede aspirar a su Reintegración interior y a encauzar a su comunidad por el camino de la Tradición?, se debe responder que no es otro que aquél que es capaz de dominarse a sí mismo, de autogobernarse y (echando mano del taoísmo) de ´ser señor de sí mismo´. Sólo el autarca, del que nos había hablado Evola durante los años ´20 del pasado siglo -durante la que ha sido definida como su etapa filosófica (que ya apuntaba claramente hacia su definitiva etapa Tradicionalista)-, sólo, decíamos, el autarca que no depende del otro, de lo otro, del exterior ni del tú porque no hay circunstancia, ni condicionamiento externo a él, que lo pueda mediatizar y hacer dependiente, sólo él puede, tras haber conseguido gobernarse a sí mismo, ser apto para gobernar a su comunidad. Hablamos, en definitiva, del Iniciado: de aquél que se empezó sometiendo a rigurosos, metódicos y arduos ejercicios/prácticas de autocontrol y descondicionamiento frente a lo exterior (acabamos de hacer alusión a ello) e interno (con respecto a emociones, sentimientos exacerbados, pulsiones e instintos primarios) y que, tras lo cual, ha preparado su alma/mente, en primera instancia, para que sea apta para captar otras realidades (sutiles) que se hallan más allá de las que pueden aprehender los sentidos y para que, más tarde (y tras este último y difícil logro) pueda, asimismo, llegar al Conocimiento de Aquello que se halla más allá, incluso, del mundo sutil y, en definitiva, de cualquier modo de manifestación y que se encuentra, además, en el origen del cosmos. Hablamos, pues, del Conocimiento del Principio Primero o Supremo Eterno, Incondicionado e Indefinible y, hablamos, por otro lado, de la Identificación ontológica del Iniciado con dicho Principio.

El iniciado o (echando mano del léxico budista) Despertado plasmará en sí la Imperturbabilidad del Principio Primero que ha desarrollado en su interior y dicha Imperturbabilidad e Identificación con lo Permanente y Eterno le hará inmune a cualquier tentación hacia lo caduco y superfluo y le hará, por ende, idóneo para dirigir a su comunidad hacia las metas que enfocan hacia lo Alto, Sacro, Estable y Permanente y le alejarán de cualquier veleidad que tienda hacia lo bajo, lo materialista, lo transitorio, lo inestable y lo perecedero.

¿Es posible que se afirme este tipo de Hombre Superior en medio del marasmo vermicular y disoluto por el que discurre el hombre del mundo moderno? ¿Es posible esto en el cenagal de la etapa crepuscular de la Edad oscura –Kali-yuga o Edad de Hierro- por la que atravesamos? El Tradicionalismo, especialmente en boca de Julius Evola, nos responde afirmativamente, aun consciente de lo enormemente complicado que puede resultar. Pero complicado no equivale a imposible. No existe nada imposible para el hombre que se lo proponga. El hombre que opta transitar por las vías de la Tradición no encuentra fatalismos: no encuentra determinismos que no pueda superar.

Para la Tradición el Hombre Absoluto e Integrado no es una quimera, sino, al contrario, una posibilidad que alberga el hombre y que ha pasado de potencia a acto. Si es posible Despertar la semilla de la Eternidad que anida en nuestro fuero es porque la Tradición concibe que somos portadores de ella. Si es posible Espiritualizar nuestra alma, psyché o mens es porque el Espíritu, atman o nous (eso sí, en forma aletargada) también se halla en nosotros gracias a que procedemos, por emanación, del Principio Primero cuya manifestación dio lugar a la formación del cosmos. Somos, pues, portadores de dicho Principio Superior e Imperecedero del que emanamos y tenemos la posibilidad de emprender la tarea heroica de Despertarlo en nuestro interior.

Si el emanacionismo o emanatismo como certidumbre defendida por la Tradición abre las puertas a la consecución del Hombre Reintegrado no ocurre lo mismo con las creencias propias de religiosidades que han de ser enmarcadas en la cuesta abajo propia del mundo moderno. Religiosidades de corte lunar que no conciben el que el hombre comparta esencia ( ni aunque sea en estado quasi larvario que deba ser activada) con el Principio Supremo sino que, por el contrario, afirman que el hombre fue creado (creacionismo) ex nihilo (de la nada) por Dios y que, al no emanar de Él, no comparte nada de Su divinidad. No admiten, por tanto, la Iniciación y la consecuente posibilidad del hombre de transmutarse interiormente (metanoia) y aspirar a Ser Más que hombre: a ser Hombre Trascendente.

Las religiosidades de tipo lunar están por el creacionismo, pues de la misma manera que la luna carece de luz propia y la luminosidad que de ella nos llega no es más que un reflejo de la solar, de la misma manera, decíamos, en este tipo de religiosidad no nos arriba de lo Alto más que un reflejo o aproximación mental que no es otro que el aportado por la única herramienta de encaro del hecho Trascendente que la religiosidad lunar pone al alcance del hombre: la simple fe, la creencia y la devoción. Por lo cual niega la posibilidad de la Gnosis de lo Absoluto y la posibilidad del hombre de llegar a Ser uno con la dicha Trascendencia. Y la niega, repetimos, aduciendo que el hombre no comparte esencia con lo Trascendente y no puede, pues, actualizarlo en sí; aduciéndolo, recuérdese, por sostener que no emana de Él y que en la naturaleza de dicho hombre no se esconde el Espíritu en potencia.

La convicción Tradicional del hombre como portador de Atman o Espíritu hace concebir la esperanza de su Despertar y del heroico cometido de aspirar a culminar la Restauración del Orden Tradicional mediante lo que, etimológicamente, comporta la auténtica Revolución, en el sentido de Re-volvere; esto es, de volver a recuperar la cosmovisión, los principios y los valores que siempre han caracterizado al Mundo Tradicional y que se hallan en las antípodas de la desacralización, del materialismo, del positivismo, del hedonismo, del consumismo y del gregarismo despersonalizado propios de este mundo moderno.

Por el contrario, el hombre concebido por las religiones lunares-creacionistas (aparte de no ser apto para emprender intentos de Restauración de la Tradición) será la antesala de posteriores procesos de decadencia aun mayores, pues al habérsele amputado su dimensión sacro-espiritual se le ha rebajado de nivel ontológico. Ya no podrá entender más sobre lo Trascendente, tal como en la Tradición sí le era posible gracias a lo que él poseía de más que humano; de Sobrehumano, diríamos. Sin Espíritu únicamente le queda el alma, la psyqué o mens para vivir “en orden” con su/s dios/es. Es decir, que ya sólo cuenta con medios meramente humanos para mirar a lo divino y que no son otros que aquéllos que su mente pone a su disposición, a través de la fe y la creencia. Por esto habrá de contentarse con no ser más que un fiel devoto de su/s divinidad/es. E irremediablemente cuando el hombre ha sido obligado a descender a este plano –sin más- humano, cuando la mente ocupa la cúpula en su jerarquía constitutiva, nadie podrá extrañarse que la facultad racional que en ella (en la mente) se halla inmersa se atrofie y pueda dudar de la existencia de cualquier realidad no sensible; como lo es una Realidad Trascendente (más que humana) que no podrá aprehender con sus tan solo humanas herramientas (el método discursivo, el especulativo,…). Nos hallaremos, pues, en los albores del racionalismo, del posterior relativismo para el que no existen Verdades Absolutas y todo plano de la realidad (aun el Superior) puede ser cuestionado y nos hallaremos asimismo, como consecución lógica posterior, en la antesala del agnosticismo y del materialismo.

Las religiosidades de carácter lunar, propias del mundo moderno, fueron segregando un tipo de hombre inclinado, irremisiblemente, a posturas evasionistas con respecto a la posibilidad de búsqueda del Espíritu y con respecto a la posibilidad de actuar sobre el medio circundante con la intención de modificarlo y, más aun, rectificarlo. Frente a ellas se alza un tipo de Espiritualidad Solar y activa (la Tradicional) para la que el fatalismo no existe y para la que el hombre debe trazar su camino (recordando una adecuada imagen aportada por el mismo Evola) tal cual el río circula por el cauce que él mismo ha socavado.

Si el creacionismo excreta un hiato ontológico insalvable entre Creador y criaturas no debe extrañar que de religiones que a esta convicción se adhieren (como las conocidas como religiones del Libro) surgiera un maniqueísmo que dejó, de manera extrema, sin solución de continuidad a Dios y al hombre y que estimó como creaciones del Mal todo el contenido de la manifestación cósmica. Tal aconteció con excrecencias como el catarismo que despreciaban al cuerpo en particular y al mundo físico en general por considerarlos obras del ángel rebelde y caído (Lucifer) y no, como sí consideró siempre la Tradición, como emanaciones del Principio Primero Inmanifestado. El Mundo Tradicional observó y trató siempre al cuerpo humano como el templo del Espíritu, mientras que, p. ej., el judeocristianismo lo contempló como la mazmorra que impedía la liberación del alma (entiéndase, del Espíritu); asimismo la vida terrenal en la que este encarcelamiento tenía lugar la definió como un valle de lágrimas.

Las también conocidas como Religiones del Desierto no conciben la posibilidad del Retorno de la Tradición gracias al accionar del Hombre, pues para ellas el hombre no atesora semilla divina que poder despertar y poderle, así, hacerle apto para revertir los procesos disolventes por los que pueda atravesar el mundo que le circunda, sino que estas Religiones del Desierto provocan una espera pasiva ante el fin de los tiempos, ante la venida de un Salvador o Mesías o ante la Parusía (la vuelta de Cristo) para que la humanidad pueda ser salvada, suba a los cielos, reciba el premio del Paraíso Terrenal (la Tierra Prometida) o para que acontezca la resurrección de la carne.

En la misma línea –y como fiel reflejo de estas Religiones del Libro- el protestantismo representa una vuelta de tuerca más y un intento de corrección de un catolicismo que había adoptado muchas improntas y posturas de espiritualidades precristianas que se situaban muy en la órbita de la Tradición. El protestantismo afirma que es la fe y no las obras las que permiten la Salvación. De este modo cierra las puertas a cualquier aspiración a la Transustanciación de la persona mediante la acción interior (Iniciación), pues accionar no es más que obrar.

El catolicismo o helenocristianismo (opuesto al judeocristianismo) se hallaría en una situación de superioridad frente a otra de las Religiones del Libro como lo es el islamismo, ya que el concepto trinitario defendido por el primero reconoce la posibilidad de divinización del hombre (su palingénesis o segundo nacimiento: a la Realidad del Espíritu) al considerar a la divinidad también en su expresión humana de Hijo. Nada de esto ocurre con (en palabras de Marcos Ghio) el árido monoteísmo semita postulado por un Islam en el que la diferencia de esencia entre Dios (Allah) y el hombre es abisal e insalvable y en la que, por este motivo, a éste se le cierran las puertas de su entronización Espiritual y, en consecuencia, de la posibilidad de ser señor de sí mismo y de trazar su destino y el de sus comunidades.

Quizás, también, no estaría de más realizar algún distingo entre los libros vestotestamentarios y los del Nuevo Testamento, pues hay quien afirma que evangelios como el de San Juan contienen vetas de esoterismo; y no hay que olvidar que este último se afana en la búsqueda y Conocimiento de la Verdad (de la Realidad Suprasensible) y en la consecución de un tipo de Hombre Descondicionado y Diferenciado apto, entre otras cosas, para no dejarse arrastrar por las corrientes disolutorias dominantes en el mundo moderno.

En la misma línea acorde con la Tradición se hallarían todas aquellas manifestaciones que en el entorno de la Cristiandad se reflejaron ya en la Saga Artúrica alrededor de un Ciclo del Grial que se prolongó en el Medievo asociado a órdenes ascético-militares como la de unos templarios que practicaban la Iniciación y cuya veta esotérica también fue consustancial a organizaciones como la de los Fieles de Amor (a la que, p. ej., perteneció un Dante) o la de los Rosacruces. Y en la misma línea Tradicional, dentro también del contexto del mundo cristiano, se hallaría el Sacro Imperio Romano Germánico, cuya cúspide jerárquica, en la figura del Emperador, aunaba las funciones sacra y temporal (política) como es propio de cualquier ordenamiento Tradicional en el que, por este motivo, el gobernante también ejerce de Pontifex o ´hacedor de puentes´ entre lo terrestre y lo celestial; entre sus súbditos y la Trascendencia.

Pero no en esta línea Tradicional se hallaría el misticismo cristiano, pues si la Iniciación prepara al adepto para descondicionarlo mediante prácticas y ejercicios metódicos y convertirlo en Hombre Diferenciado que pueda acceder al Conocimiento de lo Absoluto el misticismo, por contra, no lo prepara para ello sino que se detiene en el cumplimiento de la fe, la devoción y la piedad, siendo por ello que con estos medios mentales (y por ello humanos) no podrá acceder nunca a la Gnosis de lo Superior, sino que, a mucho estirar, se tendrá que conformar con recibir de lo Alto (como si se tratase de una especie de dádiva en agradecimiento por la devoción mostrada) una especie de fogonazo cegador que tan sólo le dará una idea poco aproximativa y muy difusa de lo que se halla más allá de la realidad sensitiva. Esto acontecerá en el mejor de los casos, ya que en muchos de ellos dicho fogonazo no será, en realidad, más que una especie de alucinación provocada en el místico por sus ayunos extremos enajenantes, por la repetición hasta la saciedad -extenuante- de letanías y/o por su actitud mental obsesiva hacia lo divino.

El árido monoteísmo semita al que citábamos más arriba encuentra también fiel reflejo en el judaísmo. Ya hemos hecho alusión párrafos atrás, al mito inmovilizante y fatalista de la resurrección de la carne y del Paraíso Terrenal que sólo acontecerá con la venida del Mesías, pero podríamos reforzar esta ausencia de posibilidad de transustanciación del hombre y de posibilidad de hacer frente a los procesos deletéreos con los que se encuentra, recordando cómo hay muchos judíos ultraortodoxos (como los de la organización Naturei Karta) que consideran al Estado de Israel actual como una impostura que atenta contra sus convicciones religiosas, por cuanto ellos creen que la Tierra Prometida que -más que aproximadamente desde el punto de vista geográfico- se halla en el territorio de dicho Estado sólo les pertenecerá legítimamente tras la venida del Mesías libertador; la cual, obviamente, todavía está por acontecer. No cabe aquí, pues, lucha que llevar a cabo sino la espera pasiva y resignada más absoluta que pueda caber.

Este pasivo dejarse llevar por un movimiento de inercia hacia adelante, esta ausencia de posibilidad de modificar este rumbo no supone más que una especie de caída libre en el vacío que no puede ser cortocircuitada por la acción del hombre y que responde a una cosmovisión de naturaleza lineal, ante la cual se levanta una totalmente disímil que es la propia de la Tradición y que es de orden circular o, como en ocasiones se la ha preferido denominar, de orden esférico.

En su momento hablamos con profundidad de estos dos tipos contrapuestos de manera de concebir la vida y la existencia: la lineal propia del mundo moderno y la circular propia del Tradicional (1). No vamos, pues, a extendernos en este capítulo ya por nosotros trabajado. Tan sólo vamos a apuntar que la cosmovisión lineal no sólo atañe al hecho religioso (de carácter lunar y pasivo) sino también a las excrecencias que ha originado su secularización. Así pues el liberalismo apunta a un camino marcado por una suerte de fatalismo, irremisible como tal y “superior” a las potencialidades del hombre, que está marcado por el progreso continuo (progresismo) y conducirá a una suerte de paraíso terreno atestado de bienes de consumo inacabables, de abundancia ilimitada y, por tanto, de total “felicidad” (vacuna, añadimos nosotros). Y en la misma línea el marxismo trazó otra línea inalterable que conduciría al ideal del comunismo y de su sociedad sin clases sociales y sin superestructuras de ningún tipo: ni Estados, ni ejércitos,…

Ya en su momento hemos apuntado el porqué en lugar de hablarse de cosmovisión cíclica, como propia de la Tradición, en ocasiones se ha preferido hablar de cosmovisión esférica, ya que en una esfera se pueden trazar infinidad de circunferencias que corresponderían a las diversas concretizaciones que el hombre (haciendo uso de su libertad y poder de trazar su destino) puede hacer de las cuatro edades de las que, según diferentes textos Sapienciales Tradicionales, consta un ciclo cósmico humano.

Igualmente en otras ocasiones (2) hemos señalado la posibilidad que tiene el hombre de provocar una especie de cortocircuito en la dinámica propia de la sucesión de las cuatro edades (de Oro, de Plata, de Bronce y de Hierro), poniendo freno al proceso involutivo en lo que la Tradición ha denominado como Ciclos Heroicos, que suponen la Restauración de la Tradición Primordial (Edad de Oro perdida).

De hecho el hombre, haciendo buen uso de la libertad que posee en el sentido de poder marcar su propio camino superando determinismos y condicionantes que pueden parecer fatalmente insalvables, el hombre, decíamos, tiene en sus manos el que el final de la etapa crepuscular del Kali-yuga o Edad de Hierro, porque atraviesa, acontezca antes y, dé, en consecuencia, paso, a una nueva Edad de Oro o Satya-yuga dentro de un nuevo ciclo humano o manvântara o, por el contrario, el que (como consecuencia de posturas pasivas, conformistas, alienadas o marcadas por determinismos varios) dicho final pueda prolongarse más allá de lo que las dinámicas cósmicas podrían hacer indicar.

Pocos como Evola nos han hecho con más nitidez ver cuál es el camino más apropiado para que el hombre sea capaz de llegar a su Integralidad y emprender, después, la tarea de Reconstrucción Tradicional de su derrumbadas sociedades. Este camino, nos dice el maestro italiano, no es otro que el de la vía de la acción, ya sea ésta interna, buscando el desapego y transformación interiores, o ya sea externa, luchando por intentar demoler el deletéreo edificio en ruinas en el que vivimos, con el objetivo de construir, en su lugar, un Orden cimentado en valores imperecederos y en principios inmutables.

Es acción interior lo que se precisa a lo largo de todos estos procesos conocidos con el nombre de Iniciación. El ascesis no es otra cosa que ejercicio interno. La necesaria e imprescindible práctica interior es, en definitiva, acción. Y es por todo esto por lo que la vía más apropiada para completar el arduo y metódico proceso iniciático es, repetimos, aquella conocida como ´vía de la acción´ o ´vía del guerrero´ o shatriya.

Las sociedades Tradicionales estaban constituidas, en su organización jerarquizada, por una élite sacro-guerrero-dirigente, bajo la cual se hallaba la casta guerrera y por debajo de la cual se situaban los estamentos cuya actividad vocacional tenía su eje en las actividades económico-productivas (comerciantes y maestros de talleres, por un lado, y mano de obra por el otro). Con la degradación sufrida en los estertores del Mundo Tradicional las funciones regia o dirigente y sacra se escinden y ya no estarán representadas por aquella élite; dándose paso, por ello, ya en el seno del mundo moderno, a sociedades divididas en las siguientes castas –no representativas del Mundo Tradicional-: brahmanes o sacerdotes, shatriyas o guerreros, viashias o mercaderes y sudras o mano de obra.

En tal estado de cosas la casta a la cual le resulta consustancial la vía de la acción es la más capacitada para emprender la gesta heroica de Restauración de la Tradición. Y así ocurrió a lo largo de las edades que sucedieron al Mundo de la Tradición Primordial o Edad de oro (Satya o Krita-yuga): así ocurrió, pues, en diferentes períodos -Ciclos Heroicos- de la Edad de Plata o Treta-yuga, de la Edad de Bronce o Dvâpara-yuga y de la Edad de Hierro o kali-yuga. Ciclos Heroicos como los protagonizados por héroes como aquéllos que nos refiere la mitología griega al hablarnos de unos Heracles, Aquiles, Ulises o Perseo que se elevan desde su condición de guerreros a la de la Inmortalidad (o, para hablar con más propiedad, Eternidad) a la que les ha llevado, sin duda, un proceso de transustanciación interior. Las polis en que ellos reinen recibirán la impronta sagrada de estos reyes sacros y volverán -aunque sea por un tiempo- a la Edad de Oro perdida: así en la Ítaca de Ulises o en la Atenas de Perseo.

Igual Ciclo Heroico ocurre en buena parte del discurrir de la Antigua Roma, muestra de lo cual es la unión en una misma persona de aquellas dos funciones o atributos que en el Mundo de la Tradición siempre había estado aunados, no sólo en una única persona sino también en la aristocracia a la que aquélla pertenecía; así, la función sagrada (Pontifex) y la función dirigente (como Imperator o jefe de los ejércitos y como Princeps o principal rector político) se unifican en la figura de los emperadores romanos. Su carácter sacro se hace patente por la condición de Iniciados en diferentes ritos -como los de Eleusis o de Mitra- que tuvieron muchos de los emperadores de la Antigua Roma, tales como Octavio Augusto, Tiberio, Marco Aurelio o Juliano.

También, con anterioridad a estos párrafos, hemos mencionado otros Ciclos Heroicos que igualmente se suceden en los momentos menos propicios (Edad de Hierro o, acorde con la ciclología mítica nórdica, Edad del Lobo) para enfrentar una tarea de Revolución (recuérdese: de re-volvere) Tradicional. Ciclos Heroicos como los que rodean la Saga Artúrica y el misterio del Grial o como el que representa el Sacro Imperio Romano Germánico en buena parte de la Edad Media. En este último caso el Emperador es un Ser Iniciado y así lo explicarían, entre otras evidencias, los poderes taumatúrgicos que poseía y que representarían una consecuencia sutil de su condición Sobrenatural. Además se trata de una figura que aúna el poder sacro y el temporal como sucedía en la Edad de Oro. El poder religioso del Papado, en esta etapa, se halla por debajo del sacro ostentado por el Emperador y así quedaba reflejado en la ceremonia de coronación de los Emperadores oficiada por los Papas y que sellaba el reconocimiento, por parte de éstos, de la superior competencia Espiritual del Emperador. En ocasiones algunos emperadores retrasaron en años dicha ceremonia o murieron sin que ella se hubiera realizado y esto aconteció como síntoma de que el Emperador no necesitaba de la acción papal para que su legitimidad fuera reconocida.

Cuando el Papado se negó a reconocer la superioridad Espiritual del Emperador se iniciaron, a raíz de las Querellas de las Investiduras, las guerras entre gibelinos y güelfos. Los primeros reconocían dicha Superior legitimidad del Emperador y los segundos eran partidarios de desposeer al Emperador de su competencia sacra y otorgársela en exclusiva al Papa. El que en una época poco propicia (avanzando el Kali-yuga) estas querellas se fueran decantando del lado güelfo-papal no resulta extraño. La consecuencia de ello es doble: por un lado se desacraliza paulatinamente el poder temporal (representado por el Emperador) y, por ende, poco a poco se desacraliza la misma sociedad y por otro lado se empieza a atomizar Europa en repúblicas (como las italianas) y en reinos que irán dando al traste con cualquier tipo de aspiración unitaria Transnacional (el Imperium) basada en principios Superiores y que tiene la función de representar en la Tierra (el microcosmos) el Ordo reinante en el macrocosmos. (3)

Los Ciclos Heroicos relacionados son un ejemplo más que representativo de la posibilidad real que el hombre posee de trazar su rumbo al margen de las adversidades que pueda encontrar en su periplo vital, destruyéndose, así, cualquier visión del mundo y de la existencia marcada por el fatalismo.

El Héroe, pues, no puede surgir -contrariamente a la opinión de algunos autores tradicionalistas- a partir de la casta sacerdotal o brahmana sino de la guerrera o shatriya, pues con la simple fe (actitud pasiva) del sacerdote es imposible operar transmutaciones en el interior del hombre, pero, en cambio, a través de la vía activa consustancial al guerrero sí es más factible pensar en procesos internos (que deben ser activos) de Liberación Espiritual del hombre.

La primera tarea (la interior) que debe, pues, emprender el hombre es la que puede llevarle a Ser Hombre Diferenciado y Absoluto gracias al Despertar, en su fuero interno, de esa Trascendencia pura e Imperecedera de la que la esencia humana no es ajena. Y para ese fin hay que empezar por derrotar a aquellas fuerzas (tamas, echando mano del tantrismo) que, desplegadas en el mundo manifestado, arrastran hacia lo bajo, hacia lo primario, lo pulsional y lo pasional.

Recalquemos que el Héroe es un Iniciado y que, por tanto, si en el terreno del hecho Trascendente se destierra la Iniciación sólo queda la perspectiva religiosa. Sólo quedan, pues, la fe y las creencias en que todos los píos, creyentes, devotos y cumplidores de una serie de dogmas y preceptos religioso-morales (establecidos pensando en las posibilidades de cumplimiento de la mayoría de los mortales) alcanzarán la salvación, en una suerte de democratismo espiritual marcado por la accesibilidad de la masa a la vida celestial, cuando, por el contrario, el Despertar al que va asociada la Iniciación es un logro que sólo una minoría apta y voluntariosa puede alcanzar. Según la perspectiva religiosa no cabe acción transfiguradora interior y la consecuencia de esto es la promoción de un evasionismo en el plano de lo interno que, por lógica consecuencia, acabará afectando al plano externo del individuo conduciéndole a la inacción exterior y a su pasividad ante la posibilidad de cambiar los signos deletéreos de los tiempos.

Hemos ya indicado el porqué, con Evola, sostenemos que debe ser a través del guerrero -y de su arquetipo- mediante quien se pueden operar los actos heroicos Reintegradores. Y lo hemos sostenido negándole esta posibilidad a la figura sacerdotal. Un signo más de esta no aptitud del brahmana para la transustanciación interna vendría dado por un dato básico que ilegitimiza su misma existencia social y que, sencillamente, es el de que esta casta no existía en el Mundo Tradicional sino que su aparición viene directamente ligada con los procesos involutivos que desembocaron en el mundo moderno, al separarse las funciones espiritual y temporal que antes estaban encarnadas por la aristocracia sacro-guerrera-dirigente. Podemos comprobar cómo en civilizaciones como la de la China o el Japón Tradicionales no existía casta sacerdotal o cómo en la antigua Roma tampoco. En ésta los ritos sacros eran oficiados por la élite de un patriciado cuya función dirigente y guerrera también le eran propias; así lo vemos, p. ej., en un Julio César como flamen dialis u oficiante de los ritos sacros consagrados al dios Júpiter. También “en la antigua India aparecen, como proceso involutivo, los brahmanes (a partir de los purohitas, que eran sacerdotes que dependían del rey sacro y cuyo origen hay que buscarlo en cultos dravídicos anteriores a las invasiones de pueblos indoeuropeos) y se convierten en casta dominante. Casta, por tanto, inexistente en el mundo Tradicional, en cuya pirámide social encontramos en primer lugar, en su cúspide, la casta regioguerrera y aristocrática de atributos sagrados, en segundo lugar, por debajo de ella, la guerrera propiamente dicha y en tercer puesto, en su base, la de todos aquellos que se dedican a actividades de tipo económico: comerciantes, artesanos, agricultores, campesinos,…” (4)

En la misma línea señalábamos en su día que “…Sin duda las formas espirituales precristianas –el mal llamado paganismo- habían entrado, desde hacía ya tiempo, en un proceso de decadencia que, por ejemplo, en buena parte del mundo celta había dado pie a la aparición y hegemonía de la casta sacerdotal de los druidas. La irrupción de esta casta coincide con una cierta deriva matriarcal en el seno de muchos pueblos celtas. Antes de darse este declive, el patriarcado del mundo celta corría paralelo al hecho de que los ritos sagrados eran ejercidos por la aristocracia dirigente.” (5)

Por estas razones si nos colocásemos en la problemática que se vivió en el Medievo y que llevó a los enfrentamientos entre gibelinos y güelfos o a la eliminación de la Orden del Temple (que se selló, definitivamente, con la quema en la hoguera de su último Gran Maestre Jacques de Molay, en 1.314, en la îlle des juifs del río Sena, en París) por decisión de unas jerarquías eclesiásticas (personificadas en la figura de Clemente V) que abominaban de todo lo que fuera esoterismo e Iniciación y por decisión, asimismo, de un Estado francés (en la figura de Felipe el hermoso) que quería asentar su poder en forma omnímoda y opuesta a cualquier ideal Imperial como el del Sacro Imperio Romano Germánico al cual los templarios siempre habían apoyado, si nos colocásemos, decíamos, en tal problemática y la enfocáramos desde el punto de vista Tradicional, aplicado a la estructuración social que debe tener cualquier sociedad Tradicional que se precie de ser tal, deberíamos situar en la legítima cúspide de la pirámide social al Emperador y a la élite sacroguerrera que representarían órdenes ascético-militares como la de los templarios. Bajo este primer estamento se hallaría el meramente guerrero y por último el económico-productivo. Siendo de esta manera no cabe, pues, el Papado en un ordenamiento Tradicional ni caben los eclesiásticos (cardenales, arzobispos, obispos, monjes, sacerdotes,…) por representar, todos ellos, un tipo de religiosidad lunar y pasiva.

La adecuada interpretación de la Tradición es la que debería llevar a las certidumbres que estamos sosteniendo. Y las sostenemos por haber visto en Evola el más adecuado intérprete de los parámetros esenciales en que sustenta el Mundo Tradición. Así, p. ej., lo supo también ver un encriptado grupo de personas que allá por los años ´70 de la pasada centuria redactaron una serie de interesantes escritos que bebían del legado Tradicional transmitido por Julius Evola. Se dieron a conocer como los dioscuros (así eran conocidos los hermanos Cástor y Pólux de los que nos habla la mitología griega) y nos dejaron sentencias y reflexiones muy ilustrativas al respecto de las ideas que pretendemos transmitir con el presente trabajo. Algunas de estas sentencias y reflexiones las relacionamos a continuación:

“…ni se llegue a un compromiso consigo mismos fingiendo encerrarse en una torre de marfil en la cual se espera el último derrumbe, el dicho justo sea en vez ´si cae el mundo un Nuevo Orden ya está listo´”.

“´Existe quien no tiene armas, pero el que las tiene que combata. No hay un Dios que combata por aquellos que no están en armas´. Tal es la invitación a la lucha dirigida por el maestro pagano Plotino”.

“Sólo del hombre y exclusivamente de él dependerán las elecciones futuras”.

“No hay justificación o comprensión, sino inexorable condena hacia aquellos que, teniendo las posibilidades no combaten y que por inercia se dejan abandonar en forma masoquista a un perezoso fatalismo”.

“Preparar silenciosamente las escuadras de los combatientes del espíritu para que, si y cuando los tiempos se tornen favorables, este tipo de civilización pueda ser destruida en sus raíces y ser sustituida con una civilización normal. Recordando siempre al respecto que los tiempos pueden ser convertidos en favorables y que el hombre es el artífice del propio destino”.

“No existe una condición externa en la cual no se pueda sin embargo estar activos por sí y para los otros”.

“Ha habido una indulgencia en femeninas perezas permaneciendo en la espera de lo que debe acontecer, casi como si se tratara de un buen espectáculo televisivo en el cual el espectador no está directamente implicado”.

“La espera pasiva y mesiánica no pertenece al alma occidental”.

“Verdad tradicional que justamente en la edad oscura son preparadas las semillas de las cuales surgirá el Árbol del ciclo áureo futuro, por lo que nunca, ni siquiera en la época férrea, la acción tradicional se perderá”

“El prejuicio materialista remite las causas de los acontecimientos únicamente a fenómenos de carácter natural. A tal obtusa concepción nosotros oponemos resueltamente la enseñanza según la cual cada pensamiento viviente es un mundo en preparación y cada acto real es un pensamiento manifestado”.

“Nosotros encendemos tal llama, en conformidad con el precepto ariya de que sea hecho lo que debe ser hecho, con espíritu clásico que no se abandona ni a vana esperanza ni a tétrico descorazonamiento.” (6)

El hombre de alma pasiva y mesiánica (del que hablaban los dioscuros) aceptará con bíblica resignación el destino que le ha impuesto su dios y, a diferencia del Héroe Solar, nunca pensará en rebelarse contra sistemas políticos antitradicionales, injustos, alienantes y explotadores.

El Hombre de la Tradición, por contra, más que amilanarse por la tremenda dificultad de encontrar el Norte que supone el vivir en la etapa crepuscular de la Edad Sombría o Kali-yuga, más que amilanarse verá en ello una oportunidad de arribar más Alto que, tal vez, donde hubiera podido llegar en otras edades no tan abisales del discurrir del hombre por la existencia terrena, pues al encontrarse en las ciénagas más espesas necesita de un mayor impulso para salir de ellas y este mayor impulso le puede catapultar mucho más Arriba: a la actualización del Principio Eterno que aletarga en su fuero interno.

La Tradición concibe que el Hombre Diferenciado puede entrar en las moradas celestiales dando una patada en las puertas del Cielo, sin complejos de inferioridad, mirando cara a cara a la divinidad, de tú a tú. Y, más aun, puede aspirar a superar la esencia de los mismos dioses o numens (como parte de la manifestación que éstos son) para pasar a Ser uno con el Principio Primero que se halla por encima y más allá del mundo manifestado.

En contraste con el Héroe Olímpico que nunca supo ni sabe de complejos de inferioridad ni de ineptitudes cuando miraba y mira a la Trascendencia encontramos al hombrecillo producto del mundo moderno alicorto e incapaz de arribar al Despertar a la Realidad Metafísica. Hombrecillo al que, p. ej., ya vemos cómo en la antigua Roma los Libros Sibilinos (7) obligan a practicar la genuflexión dentro del contexto representado por el alejamiento del mundo romano con respecto al Ciclo Heroico que le fue propio.

Hemos tratado en otro lugar de la Doctrina de las Cuatro Edades (8) y de la posibilidad heroica de ponerle freno a la espiral desintegradora e involutiva que ella nos explica. Autores como René Guénon nos han hablado (9), a partir del estudio de los textos Sapienciales del hinduismo, de la duración de cada una de las cuatro edades de que consta un Manvântara o ´ciclo de humanidad´, diciéndonos que la Edad de Oro, Satya-yuga o Krita-yuga tiene una duración de 25.920 años, la Edad de Plata o Trêta-yuga 19.920, la Edad de Bronce o Dvâpara-yuga 12.960 y la Edad de Hierro, del Lobo o kali-yuga 6.480. Igualmente afirma el Tradicionalista francés que nos hallamos en una fase avanzada del kali-yuga. Nótese que la duración de cada edad sigue una proporción de 4, 3, 2, 1, lo cual nos hace comprender que cada edad dura menos que la anterior en cuanto comporta un mayor nivel de decadencia, tal cual acontece con la bola de nieve que a medida que va bajando por la pendiente de la montaña se va haciendo mayor al igual que la velocidad que va tomando: su aceleración acaba resultando ciertamente vertiginosa. Si la Edad de Oro equivale al Mundo de la Tradición Primordial y puede ser calificada como la Edad del Ser y de la Estabilidad (de ahí su mayor duración) las restantes edades comportan la irrupción de un mundo moderno que puede, a su vez, ser denominado como mundo del devenir y del cambio (de ahí la cada vez menor duración de sus sucesivas edades). En verdad, no en balde, se puede constatar que en los últimos 50 años la vida y las costumbres han cambiado mucho más de lo que habían cambiado en los 500 años anteriores. Los traumáticos conflictos generacionales que se sufren, hoy en día, entre padres e hijos no se habían dado nunca en épocas anteriores (al menos con esta intensidad) debido a que los cambios en gustos, aficiones, hábitos y costumbres se sucedían con más lentitud. Los cambios bruscos, frenéticos y continuos propios de nuestros tiempos han dado lugar a lo que Evola definió como el hombre fugaz. Hombre fugaz que es el propio de la fase crepuscular por la que atraviesa la presente Edad de Hierro, caracterizada (esta fase) no ya por la hegemonía del Tercer ni del Cuarto Estado o casta (léase burguesía y proletariado) sino por la del que, con sagacidad premonitaria, Evola había previsto, pese a no haber vivido, como preponderancia del Quinto Estado o del financiero o especulador propio del presente mundo globalizado, gregario y sin referentes de ningún tipo. Este sujeto hegemónico en el Quinto Estado equivaldría al paria de las sociedades hindúes que no es más que aquél que ha sido infiel, innoble y disgresor para con su casta y ha sido expulsado del Sistema de Castas para convertirse en alguien descastado y sin tradición ni referentes. El hombre fugaz no se siente jamás satisfecho, vive en continua inquietud y convulsión. Su vacío existencial es inmenso y nada le llena. Intenta distraer dicho vacío con superficialidades, por ello su principal objetivo es poseer, tener y consumir compulsivamente. Cuando consigue poseer algo enseguida se siente insatisfecho porque ansía poseer otra cosa diferente, de más valor económico o de mayor apariencia para así poder impresionar a los demás. Y es que el mundo moderno es el mundo del tener y aparentar, en oposición del Mundo Tradicional que lo es del Ser. Este hombre fugaz se mueve por el aquí y ahora, pues lo que desea lo desea inmediatamente, no puede esperar. Su agitación no le permite pensar en el mañana.

El politólogo Samuel Huntington habló del fin de las ideologías (la llamada postmodernidad), bien que pensando que con el fin del comunismo en el poder, escenificado con la Caída del Muro de Berlín, se rendía el orbe a las excelencias del capitalismo liberal. Aunque más bien el mundo caía en manos de los caprichos del capitalismo financiero, alma de la globalización. Las ideologías que surgieron como consecuencia de los efectos nefastos que acarreó la Revolución Francesa habían quedado relegadas a un muy segundo lugar. Un cierto altruismo que aún conservaban los adalides del liberalismo y del marxismo cuando más que pensar en sus satisfacciones personales pensaban en un futuro (al que más que probablemente ellos no llegarían a conocer) de paraíso liberal (con provisión ilimitada de bienes de consumo) o comunista (con el triunfo definitivo del proletariado y la desaparición de cualquier superestructura), ese cierto altruismo, decíamos, quedaba defenestrado con el fin de las ideologías y el advenimiento del Quinto Estado con la hegemonía del hombre fugaz egoísta e individualista por antonomasia. (10)

Ante este desolador panorama actual sin duda resulta más difícil derrotar a los fantasmas del fatalismo e insuflar la convicción de que se puede voltear semejante emponzoñado estado de cosas.

Un cierto determinismo expele el posicionamiento de quienes interpretando los datos aportados por Guénon se han aventurado a datar los inicios y finales de cada una de las Cuatro Edades de que consta un manvântara. Así tenemos que se ha escrito que la Edad de Oro habría empezado el año 62.800 a. C. para acabar el 36.880 a. C. La Edad de Plata habría, lógicamente, comenzado con el fin de la anterior y se habría alargado hasta el año 17.440 a. C. Tras acabar ésta se habría dado paso a una Edad de Bronce que habría concluido en el 4.480 a C. Finalmente este último año sería cuando se habría iniciado la actual Edad de Hierro; la cual concluiría el año 2.000 d. C…

En otros sitios se puede observar cierta variación en cuanto a la datación de las Cuatro Edades, situando el comienzo del Kali-yuga el año 3.012 a. C., su mitad el año 582 a. C., el inicio de su crepúsculo el año 1.939 d. C. y en el 2.442 d. C. el final de la Edad de kali (esa especie de demonio de piel oscura de la que nos habla el Bhagavad Purana) o de la que ya los textos Sacros de la Tradición hinduista denominaron era de la riña y de la hipocresía.

Contrariamente a Guénon, Evola nunca habló de la duración de cada yuga o edad, porque para el gran intérprete romano (aunque siciliano de nacimiento) de la Tradición ello suponía un cierto tic fatalista de no poca consideración. Datar el año exacto de inicio y fin de una Edad comporta no creer en que el hombre, si se lo propone, puede convertirse en protagonista de su andadura existencial y de la andadura de sus comunidades. Pues el hombre es libre para Despertar al igual que lo es para condenarse. Sin duda la duración de cada yuga que hemos visto, párrafos atrás, en Guénon anda en relación directa con las dinámicas propias de las fuerzas sutiles que forman el entramado del Cosmos y que pueden adoptar un cariz disolvente para el hombre o, por contra, reintegrador de su Unidad perdida. De estas dinámicas nos habla el I Ching o Libro de las Mutaciones y entiende, asimismo, una deriva del mismo cual es el Tao-tê-king de Lao-tsé. Según estas enseñanzas aportadas por ambas fuentes Tradicionales de Ciencia Sagrada llega un momento en el que la expansión de ciertas fuerzas catagógicas o alienantes llega a tal punto que deberá detenerse, para después retroceder y dejar que el espacio que habían ocupado pase a ser enseñoreado por fuerzas de índole anagógica o Elevadora. Se habría, de esta manera, puesto punto y final al kali-yuga para dar paso a otro nuevo ciclo humano o manvântara con el inicio de una nueva Edad de Oro o Satya-yuga (Edad de Sat -Ser, en sánscrito). Sin duda en la mentalidad de Evola datar con exactitud cuándo estos cambios cósmicos acontecen significaba anular el protagonismo y la libertad del hombre a la hora de trazar el cauce de su andadura. Para el maestro italiano se trataba de aprovechar los estertores del predominio de las fuerzas catagógicas para ponerle fin a su hegemonía cuanto antes mejor. Y se trataba, asimismo, de acabar con la pasividad fatalista del hombre moderno con el objeto de que dichos estertores no se alargaran más allá de lo que los textos Tradicionales habían calculado (sin duda, de modo aproximativo). Por otro lado, volvemos a reincidir en el tema clave de este ensayo en el sentido de que incluso en pleno auge hegemónico de fuerzas disolventes el hombre no debe renunciar a la gesta Heroica de Reconstituir en sí mismo la Unidad perdida y de Restaurar el Ordo Tradicional (sea, eso es otro cantar, de manera más o menos duradera).

En una de las dataciones que hemos aportado hemos indicado que la mitad de la Edad de Hierro tendría lugar el año 582 a. C. Vamos a aprovechar esta fecha por tratarse de un s. VI a. C. sobre el que Guénon vertió una serie de reflexiones dignas de comentar. Para éste, no obstante, la mitad del kali-yuga había acaecido antes. Se queja el Tradicionalista francés (12) de las conclusiones vertidas por la historiografía al uso por haber catalogado como de oscurantista todo lo acontecido antes de ese siglo y porque dicha historiografía oficial hace comenzar en el transcurso de dicha centuria la etapa de “civilización” del mundo clásico cuando, en cambio, según su parecer (el de Guénon) existe una continuidad con los siglos anteriores y más concretamente con las vetas de Tradición que aún existían. Así pues, para él la aparición del pitagorismo en aquel siglo, en Grecia, no supone ningún punto de inflexión en ningún sentido sino que representa una readaptación del orfismo. La irrupción del segundo Zaratrusta (este nombre equivaldría más a una función que a una persona) en Persia también supondría una adecuación del mazdeísmo. La elaboración del Confucionismo (siempre durante el mismo siglo) en China sería el aporte ideal de códigos sociales y éticos destinados a una mayoría no apta para aprehender las Verdades Metafísicas que ofrecía el taoísmo para una minoría metafísicamente apta. Sí, como primera excepción a lo dicho, contempla Guénon un punto de inflexión en la aparición de la filosofía en Grecia, pues a su loable motivo de aparición (inscrito etimológicamente en el mismo vocablo filosofía: amor a la sabiduría) le sucede la problemática de la adopción de herramientas humanas (los métodos especulativo y discursivo) para intentar comprender Realidades Suprahumanas como lo son las Realidades Metafísicas (11); sin obviar la deriva posterior que, en cuanto a los fines de sus elucubraciones, protagonizaron muchos filósofos y muchas escuelas filosóficas (cada vez en mayor número a medida que discurría el tiempo). Y como segunda excepción considera Guénon que la aparición del budismo en el s. VI a. C. supone una caída con respecto al hinduismo imperante en la India, pues opina que el budismo estaría atentando contra la jerarquía consustancial a cualquier sociedad Tradicional al abrírsele la posibilidad de acceso a la Realidad Absoluta a cualquier hombre, independientemente de la casta a la que pertenezca, que tenga la aptitud y la voluntad para intentarlo; además de sopesar como de antitradicional el que quien sigue la vía del budismo abandona su pertenencia social a la casta en la que nació. Para Guénon, con toda seguridad, sólo el brahman o sacerdote podría aspirar al acceso al Plano de la Trascendencia. Para Guénon, tengámoslo en cuenta, sólo el brahman puede Restaurar la Tradición perdida.

Contrariamente a lo expuesto por Guénon, Evola no considera la aparición del budismo como un punto de involución con respecto al hinduismo sino como un punto de superación con respecto a un hinduismo que había caído en un ritualismo vacío y le había dado la espalda al esoterismo. El budismo, además, es fundado por Gautama Siddharta: un shatriya miembro de uno de los linajes guerreros más tradicionalmente valerosos de la India (Shankya). Para Evola, la formulación del budismo constituye, pues, un acto Heroico protagonizado por alguien perteneciente a la única casta capaz de emprender gestas de Reconstitución de la Tradición. Para Evola el budismo no atenta contra la jerarquización social Tradicional y no lo hace por dos motivos: uno, porque la estratificación social de la India de entonces no se puede definir como de Tradicional, ya que las funciones sacra y guerrero-dirigente se hallan divididas entre brahmanes (que profesan, además, un tipo de religiosidad lunar) y shatriyas y no se encuentran, como correspondería a un Ordenamiento Tradicional, encarnadas en una misma élite. Y el otro motivo por el que el budismo, en opinión de Evola, no atenta contra la jerarquización social del Mundo Tradicional es que para el Hombre Superior -y tan solo para este tipo de Hombre- no deben existir normas, morales ni reglamentos (entre ellos los que exige cumplir una casta para con sus miembros) que puedan ejercer el papel de cortapisas y obstáculos para aquél que pretende elevarse más allá de su condición humana con el fin de acceder a una de tipo Suprahumano. Sí, en cambio -como no podía ser de otro modo- en el parecer de Evola el resto de personas (que no tienen la capacidad y/o la voluntad de encarar la praxis de las Realidades Suprasensibles) debe someterse al sistema Tradicional estamental que ayudará a gobernar sus vidas, ya que estas personas no son capaces de llegar a autogobernarse; a ser señores de sí mismos.

Si el Hombre de la Tradición es un Hombre que no conoce de fatalismos paralizantes huelga comentar que tampoco concibe de la existencia de determinismos inmovilizantes con respecto a la aspiración de emprender cualquier empresa Superior:

-Ni determinismos de casta, por más que los miembros de unas (guerreros) sean más propicios para emprender actos Heroicos que los de las restantes o resulten más aptos para llegar a estados de conciencia más sutiles de la Realidad Suprasensible; o para llegar, incluso, más allá de cualquier Realidad sutil.

-Ni determinismos históricos (el determinismo histórico que, de acuerdo a los postulados del materialismo dialéctico, postula que la historia se hace a sí misma: tesis más antítesis= nueva tesis; o igual a cambios y nueva etapa histórica). El historicismo considera al hombre como sujeto pasivo, sin posibilidad de escribir la historia por sí mismo; sin posibilidad de hacer historia. Ésta última sería algo así como una entidad con vida autónoma cuyas nuevas manifestaciones no serían más que la consecuencia de su misma dinámica interna y en las cuales el ser humano no tendría ningún papel activo. La dinámica económica, social, cultural y política de un período dado serían la lógica, fatal, e inevitable, consecuencia de la que aconteció en la etapa anterior.

-Ni determinismos religiosos concretados en un dios omnipotente que hace y deshace a su antojo y sin que, fatalmente, el hombre-criaturilla pueda hacer nada para marcar su propio rumbo.

-Ni determinismos ambiental-educativos que condicionen totalmente el camino a elegir y a seguir por el hombre.

-Ni determinismos cósmicos en la forma de un Destino que todo lo tiene irremisiblemente programado de antemano.

Y que para el Hombre Verdadero no existen determinismos cósmicos se cerciora si se tiene presente el que todas las doctrinas Sapienciales nos hablan de fuerzas (o numens) que interactúan armónicamente en el Cosmos. La dinámica de estas fuerzas cósmicas influye en la existencia de los hombres y en el devenir de los acontecimientos, pero no de manera fatalista e insoslayable. El Mundo Tradicional ofició, siempre, ritos sagrados que hacían posible el conocimiento de cuáles eran las dinámicas que, en un momento determinado, seguían o seguirían dichas fuerzas cósmicas, pero también ofició sacrificios (oficios o ritos sacros) que tenían como objetivo el poder influir –a favor propio- sobre estos numens para hacerlos propicios en momentos en que podían no serlos para los intereses personales o de la comunidad. Es por lo cual que con estos sacrificios el hombre podía labrarse su propio destino operando sobre determinadas dinámicas cósmicas que, en ciertos momentos, no les eran favorables.

Evola sabía que dichas dinámicas influían en el hombre (que comparte fuerzas sutiles con el Cosmos), pero también era consciente de que influir no significa fijar ni significa determinar irremisiblemente. Además, hay siempre que tener presente que el que ha elegido con éxito la vía de la transustanciación interior vence todas estas influencias porque se encuentra por encima de cualquier numen o fuerza cósmica: se halla por encima de cualquier atisbo (por muy sutil que éste sea) del mundo manifestado porque ha realizado en sí la Gran Liberación y el total descondicionamiento.

El Héroe se niega a ser arrastrado por la corriente porque está convencido de que nada puede a su voluntad y de que, por tanto, puede sobreponerse al accionar de las leyes cósmicas. Está convencido de que la libertad que ha conseguido en su interior (su descondicionamiento con respecto a cualquier atadura y determinismo) le ha hecho invulnerable a estas leyes cósmicas, a estos numens; en definitiva, al Destino.

El mundo nouménico constituido por todo un entramado de fuerzas sutiles explica la armonía y el dinamismo del cosmos. Y en consonancia y en armonía con ese mundo nouménico es como deben estar dinamizadas las fuerzas sutiles del ser humano, ya que si éstas no están armonizadas con sus análogas del resto del cosmos discurrirán a tal fuerte contracorriente que acabarán por desarmonizarse también entre ellas mismas (en nuestro interior). De aquí, pues, la importancia que en el Mundo de la Tradición se le dio siempre a la realización y correcta ejecución de los ritos sagrados. Ritos que tenían o bien la finalidad de hacer conocer a sus oficiantes cuál era la concreta dinámica cósmica de un momento dado, bien con tal de no actuar aquí abajo contrariamente a dicha dinámica (en batallas, empresas arriesgadas, en la elección del momento de la concepción de la propia descendencia o del momento más idóneo para contraer matrimonio o para coronar a un rey,…) o bien con tal de poder adoptar las medidas apropiadas para actuar a sabiendas de que se hará a contracorriente de ese mundo Superior. O bien estos ritos se efectuaban con la intención de que fuesen operativos, esto es, de que tuviesen el poder de actuar sobre ese mundo Superior para (en la medida en que fuera posible) modificar su dinámica y hacerla favorable –o menos antagónica- a las actuaciones que se quisieran llevar a cabo aquí abajo.

Hay quien se pregunta por las razones por las cuales hombres como el de origen indoeuropeo, que tan adecuadamente conoció de este tipo de ritos operativos y los ejecutó y que protagonizó siempre tantos Ciclos Heroicos, ha podido hundirse en simas tan profundas como en las que se halla a día de hoy. Seguramente ha sido el que más aceleración le ha impreso a su caída; cierto es que en el actual estado de globalización, por el que atraviesa todo el planeta, prácticamente todos los pueblos del orbe se han igualado en niveles de sometimiento a los dictados de la materia y de lo infrahumano.

Seguramente para encarar la respuesta a esa pregunta habría que empezar resaltando la evidencia de que el hombre indoeuropeo (antes de la postración en la que caído) siempre fue muy dado a la libertad, tanto en lo social, como en lo político y en lo Espiritual. Por ello siempre conformó sociedades de tipo comunal y orgánico unidas a entes políticos superiores (el Regnum y, mejor aun, el Imperium) por el mero principio de la Fides y no por la fuerza ejercida desde las altas jerarquías. Por ello, también, aspiró siempre a la suprema libertad: la libertad interior que se obtiene tras un duro, riguroso y metódico ascesis que no es otra cosa que la Iniciación y en cuyos estadios iniciales pugna por el descondicionamiento del Iniciado con respecto de todo aquello que lo mediatiza y esclaviza.

Siempre, repetimos, fueron muy propias del mundo indoeuropeo el tipo de sociedades orgánicas (como corresponde a cualquier sociedad que se precie de Tradicional) que no basan, por tanto, su cohesión a través de la fuerza material ejercida por los que detentan el poder sino que basan su unidad en la libre elección hecha (a través de la fides juramentada al Regnum o al Imperium) por los entes sociales o políticos que armónica y orgánicamente las componen.

Este hombre mostró muy a menudo su capacidad de ser señor de sí mismo (de autogobernarse y autodominar su mundo psíquico), sin que, por tanto, necesitase que le reglamentaran todos los aspectos de su vida cotidiana hasta el más ínfimo detalle; como, por el contrario, aconteció siempre –y acontece- con otros pueblos –pelásgicos, semitas,…- cuyas religiones ordenaron –y/u ordenan- hasta el extremo, mediante normas y dogmas, toda la existencia de sus miembros. Para la élite Espiritual de ese hombre indoeuropeo cualquier ligadura social y moral hubiera representado un obstáculo en medio de la vía de descondicionamiento que estaba recorriendo.

Pero, cuando dicho hombre se aleja de la Tradición y rompe, por tanto, con lo Alto no halla en su caída ni férreas morales ni dogmas ni reglamentaciones omnipresentes que atenúen dicha caída; morales y dogmas que, al modo de ataduras, si bien le hubieran impedido Ascender también le hubieran evitado el estrellarse, de forma tan estrepitosa y categórica, contra los abismos.

Aquí podemos encontrar las razones de esa caída libre que este hombre viene protagonizando. Caída libre no fatal ya que, no lo olvidemos, siempre puede ser frenada en acto heroico que, de realizarse, le puede volver a catapultar desde lo más bajo hacia lo más Elevado.

Hemos señalado, a lo largo de este escrito, ciertas discrepancias de enfoque habidas entre Julius Evola y René Guénon. Se trata de unas discrepancias que no afectan a las coincidencias básicas que ambos Tradicionalistas mostraron en sus disecciones del Mundo Tradicional y sus denuncias del mundo moderno, pero no está carente de relevancia el que sigamos mostrando alguna otra divergencia, por cuanto está íntimamente relacionado con el tema del presente trabajo. Se trata de una divergencia que ambos autores estuvieron, a finales de los años ´20 del s. XX, dirimiendo en forma epistolar y que ha sido agrupada bajo la cabecera de “Polémica sobre la metafísica hindú”. Evola denuncia algunos ciertos contenidos del libro de Guénon “El hombre y su devenir según el Vedânta” en el sentido de los peligros evasionistas a los que puede conducir el vedântismo (sobre todo el vedântismo advâita) que tuvo a bien exponer Guénon en dicha obra (13). Es así como Evola lo percibe cuando opina sobre esta interpretación de los Vedas que es el Vedânta. En tal línea el maestro italiano afirma que “el punto de vista del Vedânta es que el mundo, procedente de estados no manifestados, vuelve a sumergirse en ellos al final de cierto período, y ello recurrentemente. Al final de tal período, todos los seres, bon gré mal gré, serán por tanto liberados, ´restituidos´.” Evola nos advierte del fatalismo que envuelve a estas creencias y nos advierte de que si el hombre, junto a toda la manifestación, volverá a Reintegrarse en el Principio Supremo del que procede y será, así, restituido a lo Eterno e Inmutable no se hace necesaria ninguna acción: ni interna tendente a la Liberación ni externa que apunte a la Restauración del Orden Tradicional, ya que, tarde o temprano, toda la humanidad (así como todo el mundo manifestado) acabará Liberada cuando haya sido reabsorbida por el Principio Primero. Ni que decir tiene la pasividad a la que dichas creencias pueden llevar.

Igualmente nos advertía Evola de que considerar, tal como hace el Vedânta, al mundo manifestado como mera ensoñación (Mâya) puede abocar a posturas evasionistas con respecto al plano de la inmanencia. Puede llevar al refugio en el Mundo de la Trascendencia y a dar la espalda a una realidad sensible sobre la que el Hombre Tradicional debe tener muy claro que debe actuar para sacralizarla y convertirla en un reflejo de lo Alto (recuérdese el Imperium, en el microcosmos, como reflejo del Ordo macrocósmico). De no actuar en este sentido nos olvidaríamos -empleando terminología del hermetismo alquímico- del coagula que debe seguir al solve en todo proceso de metanoia o transformación interna; nos olvidaríamos, pues, de la materialización del Espíritu que debe seguir a la fase de Espiritualización de la materia propia de los procesos Iniciáticos.

No es nuestra intención la de resaltar desavenencias doctrinales entre Evola y Guénon sino la de hacerlo sólo si tienen una incidencia directa en el tema que estamos trabajando en este escrito. Pocos años después de haberse producido esta discrepancia epistolar, el mismo Evola reconocía, en un artículo intitulado “René Guénon, un maestro de los tiempos nuestros”, la alta competencia Tradicionalista de Guénon y lo imprescindible de su obra; opinión que no podemos por menos que compartir.

Pensamos que a lo largo de todas estas líneas ha quedado bien aclarada la postura existencial que defiende Evola como aquélla que debe adoptar cualquier persona que vea en la Tradición Perenne el faro y la luz que debe guiar su existencia. Esta postura ha quedado claro que es la de la vía de la acción (que puede convertirse en heroica) y la del rechazo a concepciones deterministas, fatalistas, evasionistas, pasivas e inmovilizantes. La lucha (interna y externa) debe ser el arma utilizada por el hombre que aspire a Restaurar lo Permanente y Estable frente a lo caduco y corrosivo del mundo moderno. La lucha externa le hará siempre concebir, a Evola, la esperanza de acabar con las manifestaciones políticas, económicas, sociales y culturales combatiéndolas en lid directa con el fin de abatirlas y hacer triunfar un nuevo Ciclo Heroico en plena Edad del Lobo. Esta esperanza y este objetivo son los que transmiten libros suyos que no son precisamente de los primeros que escribió en su definitiva etapa Tradicionalista: obras tales como “Orientaciones” (1.950) y “Los hombres y las ruinas” (1.953). Más adelante se apercibió de que pese a la inconsistencia interna de que hacía gala la modernidad los aparatos políticos que le eran propios a ésta se habían dotado de una fuerza represiva tan fuerte que resultaba casi ilusorio el aspirar a acabar con ella, por lo cual Evola creyó que antes que enfrentarse directamente con el Sistema que abanderaba los antivalores propios del mundo moderno se hacía más conveniente emplear otra táctica también extraída de las enseñanzas del Mundo Tradicional; concretamente de las enseñanzas extremoorientales. Y esta táctica no era otra que la de “Cabalgar el tigre” (14) y que nos transmitió en una obra homónima escrita por él el año 1.961. Para Evola ´cabalgar el tigre´ es adoptar tácticas como la de fomentar las contradicciones de nuestro degradante mundo moderno y del Establishment que lo sustenta y que a la vez es su consecuencia. Se trata de fomentar sus contradicciones y ponerlas de manifiesto y en evidencia. El desarrollo de sus contradicciones debe provocar tales tensiones, fricciones, desajustes y desequilibrios que acabe en el estallido de todo el entramado plutocrático materialista de este orbe globalizado (que Evola definió como el de la hegemonía del Quinto Estado) y que dé, en consecuencia, paso a una nueva Edad Áurea. Sin la acción heroica del hombre el final de esta etapa terminal de la Edad de Hierro podría prolongarse más de lo que las dinámicas cósmicas podrían indicar. ´Cabalgar el tigre´ que representa el mundo moderno hasta que éste se agote y llegue a su fin, en lugar de enfrentarlo directamente, pues, de este modo, el tigre nos destrozaría.

Evola contempla los procesos disolventes por los que se atraviesa y piensa que el principio de ´Cabalgar el tigre´ se puede, también, aplicar en el plano interno en el sentido de utilizar los venenos (como el sexo, el alcohol, las drogas, ciertos bailes/ritmos frenéticos,…) -que, por su naturaleza o por su omnipresencia, embriagan a la modernidad crepuscular- como medio de alterar el estado de conciencia ordinario y hacer más accesible el paso a otros estados de conciencia superiores. Sobra señalar lo peligroso de esta vía de la mano izquierda (como la definió el tantrismo), vía húmeda (en términos hermético-alquímicos) o vía dionisíaca por cuanto aquél que se aventura por el camino de la Iniciación y elija el tránsito por esta vía sin la preparación ardua de descondicionamiento previo seguramente se verá desgarrado y devorado por el tigre de estos venenos y convertido en adicto y en esclavo de ellos. Es por ello que sólo unos pocos hombres cualificados son aptos para aventurarse por semejante peligrosa vía de acceso a planos Superiores de la realidad.

Por otro lado se precisa no dejar de señalar que los tipos de más alta prestación Espiritual no necesitan de ayudas externas, en la forma de estos venenos, para que su conciencia pueda penetrar en la esencia de otro tipo de planos suprasensibles de la realidad, sino que será por su propia preparación metódica encarada al dominio y eliminación de su submundo emocional, pulsional e instintivo como habrá dado los primeros pasos para -tras aplicar otro tipo de rigurosas técnicas y de estrictos ejercicios de concentración, visualización,…- iniciar el acceso al conocimiento de otras realidades de orden metafísico y para hacer efectiva su progresiva transformación interior (la del Iniciado). Estaríamos hablando, ahora, de la vía de la mano derecha, vía seca o apolínea.

De aquel Hombre que es capaz de ´convertir el veneno en remedio´ también se pueden aplicar expresiones como aquélla que afirma que ´la espada que le puede matar, también le puede salvar´ o la que asevera que ´el suelo que le puede hacer caer, también le puede servir para apoyarse y levantarse´. Sin duda se trata de otra vía heroica adoptada por un Hombre para el que no existen situaciones -por muy irreversibles y fatales que puedan parecer- ante las que no se pueda actuar, ya sea luchando de frente o, como en este caso acabamos de explicar, cabalgando el tigre.

Ha quedado claro a lo largo de todo este escrito el que para el Hombre de la Tradición no existe fatalismo ninguno que le relegue a un vegetar pasivo y ovino a la espera de cambios predeterminados que le vendrán de fuera y cuyo cumplimiento le será totalmente ajeno a su voluntad. Ha quedado diáfana la idea de que las potencialidades Espirituales que anidan aletargadas en su seno interno pueden actualizarse y Liberarlo. Y no querríamos concluir este trabajo sin recurrir a una imagen sugerente que nos llega del hinduismo y que nos presenta a la diosa Shakti (símbolo de la fuerza sutil que se conoce con el mismo nombre: shakti) bailando alrededor del dios Siva (o Shiva: representación del Principio Supremo y Primero) y habiendo finalmente logrado, con su danza erótica, que el miembro viril de él se vigorice. Vigorización que no representa otra cosa que la de actualización del Espíritu dormido que, en potencia, albergamos en nuestro interior. No otra, sino ésta, es el gran reto heroico que debe acometer el hombre que aspire a convertirse en Hombre Diferenciado, para el que las adversidades son retos y no obstáculos impregnados de un fatalismo insalvable.

NOTAS:

(1) Consúltese nuestro escrito “Cosmovisiones cíclicas y cosmovisiones lineales”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/27/cosmovisiones-ciclicas-y-cosmovisiones-lineales/

(2) “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/los-ciclos-heroicos/

(3) Esta idea del Imperium fue desarrollada en nuestro ensayo “El Imperium a la luz de la Tradición”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/el-imperium-a-la-luz-de-la-tradicion/

(4) Aparecido en nuestro “Jerarquía y trifuncionalidad”: http://septentrionis.wordpress.com/2010/02/14/jerarquia-y-trifuncionalidad/

(5) Ídem.

(6) Pueden leerse estas reflexiones y sentencias, y otras más, en los volúmenes 1, 2 y 3 de “La magia como ciencia del Espíritu”, editados por Ediciones Heracles en 1.996.

(7) Para una profundización mayor en la problemática que la aparición de los Libros Sibilinos supuso en la antigua Roma se puede consultar el capítulo titulado “Los Libros Sibilinos” que forma parte de nuestro escrito “Evola y el judaísmo (Segunda parte)”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/28/evola-y-el-judaismo-2%c2%aa-parte/

(8) “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”. Op. cit.

(9) “Algunas observaciones sobre la doctrina de los ciclos cósmicos”, artículo de René Guénon editado por Ediciones Obelisco en 1.984, junto a otros textos, dentro del volumen “Formas tradicionales y ciclos cósmicos”.

(10) Para un mejor entendimiento de la Doctrina de la Regresión de las Castas volvemos a remitirnos a nuestro artículo “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”.

(11) Este tema fue estudiado en nuestro redactado “Ciencia sacra y conocimiento”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/05/ciencia-sacra-y-conocimiento/

(12) “La crisis del mundo moderno”. Capítulo I: “La Edad de sombra”. Editorial Obelisco. 1ª edición de 1.982 y 2ª edición de 1.988.

(13) Problemática tratada en nuestro “Críticas de Evola al Vedânta”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/09/criticas-de-evola-al-vedanta/

(14) Se puede consultar nuestro escrito “Cabalgar el tigre”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/28/cabalgar-el-tigre/

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mardi, 29 novembre 2011

El hombre de la Tradición

El hombre de la Tradición

EL HOMBRE DE LA TRADICIÓN
por
EDUARD ALCÁNTARA
 
Colección Hermética
Autor: Eduard Alcántara
Prólogo: Enrique Ravello
Páginas: 96
6 imágenes b/n
Tamaño: 20’5 x 13’5 cm
Edición en rústica (cosido) con solapas de 8 cm
P.V.P.:12 €
(Gastos de envío no incluidos)
Caja del Mediterraneo (CAM):
2090 3176 15 0100138381
 
INTRODUCCIÓN
(extracto)
 
En un mundo que ha llegado a las más altas cotas de disolución imaginables se hace imprescindible que el hombre que quiera sobrevivir en medio de tantas ruinas sepa qué actitudes existenciales debería seguir por tal de intentar no sucumbir en medio del marasmo envilecedor, desarraigante y desgarrador al que la modernidad y la postmodernidad lo quieren arrastrar. Sin duda son la actitudes propias del Hombre de la Tradición las que suponen el antídoto idóneo ante las dinámicas disolventes de los tiempos presentes.
Con esta convicción vamos a consagrar este libro a la aproximación a un retrato, lo más fiable posible, que plasme lo que representa este Hombre de la Tradición. Vamos, pues, a intentar caracterizarlo y lo haremos con la intención de que se erija en arquetipo en el que fijarse –y con el que orientarse– en esta era crepuscular. Si duda que el tenerlo siempre presente como patrón pulirá las cualidades internas de aquellos hombres que se niegan a caer en la sima profunda de la vulgaridad, de la ramplonería y del enfermizo apego a lo material de que es víctima el común de los mortales (el ‘hombre ordinario’).
En otras épocas no tan oscuras se hacía posible que un tipo de hombre diferenciado –portador, como tal, de una potencialidad espiritual especial y de una fuerza anímica tal de poder actualizar dicha potencialidad– pudiera hallar vías de transustanciación interna en el seno de organizaciones de carácter iniciático que remontaban su hilo dorado (sus orígenes) a illo tempore. Hoy en día esta posibilidad resulta muy remota, pues del proceso de embrutecimiento consustancial al mundo moderno tampoco se libra-ron dichas organizaciones y en caso de quedar alguna genuina y revestida de legitimidad Tradicional el dar con ella resultaría harto complicado; si no tarea casi imposible.
Ante esta constatación al hombre diferenciado sólo le queda la improbable (por resultar muy difícil) opción del tránsito autónomo por los caminos de la transformación interna. Y esta acentuada improbabilidad abocará a que el mirarse continuamente (hasta en las acciones más nimias, secundarias e intrascendentes) en el arquetipo configurado por el Hombre de la Tradición sea una de las pocas opciones de superación que le resten. De este modo irá forjando su carácter, cada vez más, en la templanza, en el control de sus acciones y pensamientos y en la prevalencia de objetivos alejados de la burda materialidad y de la instintividad más primaria y elemental que atenazan al hombre moderno. Y si no de una manera natural (como consecuencia de un descondicionamiento iniciático más que improbable a tiempos de hoy) sí como si de un automatismo se tratase (adquirido a base de rutina, hábito y práctica) podrá ser sujeto del recto obrar y podrá, seguramente, protagonizar su transustanciación en las experiencias que le siguen al post-mortem y/o a lo largo de otro tránsito terreno de su no vulgaris alma; posibilidades, éstas últimas, a las que no podrá acceder el ‘hombre común’ que en vida no haya hecho nada por dejar el lastre representado por su exagerado apego terrenal.

Eduard Alcántara

ÍNDICE
Prólogo de Enrique Ravello
Introducción
Capítulo I – Raíces
Capítulo II – La Naturaleza
Capítulo III – Intransigencia de la Idea
Capítulo IV – El Deber
Capítulo V – El Guerrero
Capítulo VI – El Silencio
Capítulo VII – La Raza del Alma
Capítulo VIII – El Descondicionamiento
Capítulo IX – La Muerte
Capítulo X – El Ariya
Capítulo XI – La Coagulación
Capítulo XII – El Asiento Peligroso
Epílogo
Bibliografía

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jeudi, 27 octobre 2011

L'importance des études indo-européennes par Jean Haudry

L'importance des études indo-européennes par Jean Haudry

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mercredi, 26 octobre 2011

La notion de tradition indo-européenne par Jean Haudry

La notion de tradition indo-européenne par Jean Haudry


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dimanche, 23 octobre 2011

Les rites d'initiation germaniques

 

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Les rites d'initiation germaniques

L'une des pratiques créatrices de société, les rites d'initiation destinés à faire entrer les jeunes dans la société des adultes, eut une très longue postérité en Europe : la chevalerie.
Le Beowulf donne des exemples de jeunes guerriers, porte-main du héros, de jeunes garçons livrés au seigneur par leurs parents. Les garçons sont nourris au sein jusqu'à l'âge de 3 ans, puis sevrés et laissés aux soins des femmes jusqu'à l'âge de 7 ans. Ils sont alors confiés à un père adoptif (fosterfaeder, “père efforceur”). En général, il est de la parenté de la mère, souvent son frère aîné, donc l'oncle maternel comme nous l'avons dit. Le fosterage consiste à éduquer un jeune de 7 à 14 ans, ce qui ne devait pas aller sans peine ; sinon, pourquoi le père adoptif eût-il été qualifié d'efforceur ? Parfois le jeune part en voyage. Sa formation achevée, a lieu la cérémonie de la taille de la première barbe ou de la chevelure. Pépin le Bref se vit ainsi couper les cheveux par le roi Liutprand vers 730 (Paul Diacre, HL, I, 23-24 et VI, 53). Reste l'affrontement avec le père adoubeur pour être un guerrier parfait. Là aussi, à 14 ans, âge de la majorité chez tous les rois francs et leurs successeurs, le passage vers l'homme accompli, le guerrier, est capital.
 
Le cérémonial existait dès l'époque mérovingienne, mais nous n'en avons de preuve certaine qu'avec Louis le Pieux. En 792, âgé de 14 ans, il est “ceint par l'épée” à Ratisbonne par son père Charlemagne, car il est “devenu adolescent”. En septembre 838, Charles le Chauve, âgé de 15 ans, reçoit arma et corona, c'est-à-dire l'épée avec le ceinturon et le baudrier, insignes de sa fonction (militia). En 841, le samedi Saint, Charles, après avoir pris un bain avec ses compagnons, voit arriver ses émissaires venus d'Aquitaine avec des vêtements neufs, une couronne, etc. C'est le plus ancien exemple d'adoubement chevaleresque que nous connaissions. Il eut lieu symboliquement le jour de pâques. D'ailleurs, à partir de 850, le mot latin caballarius ne signifie pas seulement “homme à cheval”, mais désigne un homme de la suite de tel ou tel grand personnage et prend le sens de “chevalier”.
 
 
Raban Maur précise : “On peut faire un cavalier avec un jeune garçon mais rarement avec un plus âgé.” La cavalerie a pris alors une importance décisive. “Aujourd'hui, les jeunes sont élevés dans les maisons des grands, écrit-il encore. Sauter sur le dos d'un cheval est un exercice qui fleurit spécialement chez les peuples francs.” Cela est vrai aussi dans le Midi romain, puisque Géraud d'Aurillac fait de même dans sa jeunesse. Nithard, fils illégitime d'une fille de Charlemagne, Berthe, historien laïc de grande précision, introduit dans ses écrits des années 841-843 des allusions continuelles aux armes et aux chevaux, aux jeux d'entraînement entre cavaliers expérimentés de haute noblesse saxons, gascons, austrasiens et bretons. Il insiste sur l'enracinement régional de la noblesse et sur ses idéaux : mourir dignement plutôt que trahir, rester solidaires entre frères et fidèle au seigneur jusqu'à la mort. Notker de Saint-Gall raconte, vers 885, l'histoire d'un jeune évêque récemment ordonné qui, au lieu de monter à cheval avec des étriers, un progrès récent qui donnait plus de dignité au cavalier, préféra sauter sur la croupe du destrier… ce dont Charlemagne, heureux d'avoir dans sa suite un homme que n'embarrassait pas son statut clérical, le félicita.
 
 
Initiation laïque et germanique, l'adoubement allait dans la perspective d'une violence guerrière déchaînée. Dubban, en vieil-haut-allemand, qui a donné “adoubement”, signifie “frapper”. En effet, le “vieux”, parrain du pied tendre, le faisait mettre à genoux et lui flanquait un grand coup de poing dans l'épaule pour voir s'il tiendrait le choc. Mais la christianisation du rite était déjà en route. En droit canon, le coupable d'un meurtre est privé de ses armes et ne peut plus monter à cheval. Halitgaire, évêque de Cambrai, introduit une distinction entre tuer à la guerre, ce qui est un péché nécessitant trois semaines de jeûne, et tuer dans une bataille soit pour se défendre, soit pour défendre sa parentèle ; dans ce cas, tuer est un péché sans pénitence. Après la bataille de Fontenay en 841, les évêques se réunirent et proclamèrent un jeûne de trois jours pour expier les morts de ce terrible combat dû à une guerre fratricide. En sens inverse, des chevaliers deviennent des soldats du Christ contre les Sarrasins et les païens (chapitre VIII). L'épopée du Ludwigslied, rédigée à chaud en vieil-haut-allemand le soir de la victoire de Louis III à Saucourt-en-Vimeu, confirme cet idéal et contient une oratio super militantes, prière pour les soldats, qui constitue la première manifestation d'une liturgie chevaleresque. Ainsi, à la fin du IXe siècle, la chevalerie était déjà un statut social. Le guerrier à cheval faisait preuve d'un entraînement professionnel d'adulte confirmé et chrétiennement légitimé.
 
 
Michel ROUCHE

samedi, 15 octobre 2011

Tacitus’ Germania

Tacitus’ Germania

By Andrew Hamilton

Ex: http://www.counter-currents.com/

Tacitus’ Germania, a short monograph on German ethnography written c. 98 AD, is of great historical significance. The transmission of the text to the present day, and certain adventures and tensions surrounding it, make for an interesting story.

Roman historian and aristocrat Cornelius Tacitus (c. 55–c. 117 AD) was the author of several works, more than half of which have been lost. What remains of his writings are divided into the so-called “major [long] works,” the Histories [2] and the Annals [2], jointly covering the period 14–96 AD, and the “minor [short] works”: The Dialogue on Orators, Agricola, [3]and [3] Germania [3]. Tacitus, a senator, is believed to have held the offices of quaestor in 79, praetor in 88, consul in 97, and proconsul or governor of the Roman provinces in “Asia” (western Turkey), from 112–13.

The Germania is a short work, not really a “book.” My copy, “Germany and Its Tribes,” is a mere 23 pages long—albeit in moderately small wartime print on thin paper containing no notes, annotations, maps, illustrations, or other editorial aids. It was translated from the Latin by Alfred Church and William Brodribb in 1876 and published in The Complete Work of Tacitus by Random House’s Modern Library in 1942.

The Agricola, about Roman Britain, is roughly the same length. Agricola, the general primarily responsible for the Roman conquest of Britain and governor of Britannia from 77–85 AD, was Tacitus’ father-in-law.

The Germania has been the most influential source for the early Germanic peoples since the Renaissance. Its reliable account of their ethnography, culture, institutions, and geography is the most thorough that has survived from ancient times, and to this day remains the preeminent classical text on the subject. The book signifies the emergence of the northern Europeans from the obscurity of archaeology, philology, and prehistory into the light of history half a millennium after the emergence of the southern Europeans in Homer and Herodotus.

Though Tacitus at times writes critically of the Germans, he also stresses their simplicity, bravery, honor, fidelity, and other virtues in contrast to corrupt Roman imperial society, fallen from the vigor of the Republic. (It has been said that no one in Tacitus is good except Agricola and the Germans.)

Tacitus’ book is based upon contemporaneous oral and written accounts. During the period knowledge of northern Europe increased rapidly. Roman commanders produced unpublished memoirs of their campaigns along the lines of Caesar’s Commentaries, which circulated in Roman literary circles. Diplomatic exchanges between Rome and Germanic tribes brought German leaders to Rome and Roman emissaries to barbarian courts. And Roman traders expanded traffic with the barbarians, generating, perhaps, more knowledge than the military men.

According to Jewish classicist Moses Hadas, Tacitus “never consciously sacrifices historical truth. He consulted good sources, memoirs, biographies, and official records, and he frequently implies that he had more than one source before him. He requested information of those in a position to know” and “exercises critical judgment.”

Other Ancient Accounts of the Germans

Prior to Tacitus’ narrative, a Syrian-born Hellenistic Greek polymath of the first century BC, Poseidonius, may have been the first to distinguish clearly between the Germans and the Celts, but only fragments of his writings survive.

Julius Caesar did not penetrate very far east of the Rhine, so his knowledge of the Germans, expressed in De Bello Gallico (On the Gallic War, c. 50 BC), was limited.

The Roman Pliny the Elder’s Bella Germaniae (German Wars, c. 60s–70s AD) probably contained the fullest account of the people up to Tacitus’ time, but it has been lost.

Pliny, the foremost authority on science in ancient Europe, had served in the army in Germany. When Mount Vesuvius destroyed Herculaneum and Pompeii, he was stationed near present-day Naples, in command of the western Roman fleet. Eager to study the volcano’s destructive effects firsthand, he sailed across the bay, where he was suffocated by vapors caused by the eruption.

Following the Germania, the most important ancient work discussing northern Europe was Ptolemy’s Geography, written in the 2nd century AD. Ptolemy is the Alexandrian astronomer best-known for positing the Ptolemaic System. The Geography named 69 tribes and 95 places, many mentioned by no other source, as well as major rivers and other natural features.

From late antiquity, no extensive study of the Germanic peoples has survived, if one was ever written, and no single writer treated the migrations in a coherent way.

Loss and Rediscovery

At some point during the collapse of classical civilization and the migrations of late antiquity the text of the Germania was lost for more than a thousand years. It resurfaced only briefly, in Fulda, Germany in the 860s, where it and the other short works were probably copied. A monk at Fulda quoted from it verbatim at the time. Subsequently it was lost again.

In 1425 rumors reached Italy that manuscripts of Tacitus survived in the library of Hersfeld Abbey near Fulda. One of these contained the shorter works. In 1451 or 1455 (sources differ) an emissary of Pope Nicholas V obtained the manuscript containing the lesser works and brought it to Rome. It is known as the Codex Hersfeldensis.

In Rome, Enea Silvio Piccolomini, later Pope Pius II, examined and analyzed the Germania, sparking interest in the work among German humanists, including Conrad Celtes, Johannes Aventinus, and Ulrich von Hutten.

Its first publication in central Europe occurred at Nuremberg in 1473–74; the first commentary on the text was written by Renaissance humanist Beatus Rhenanus in 1519.

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The first page of Germania, the Codex Aesinas

The Codex Hersfeldensis was then lost again for half a millennium. (This time, of course, the content survived in published form.) Then, in 1902, a portion of the Codex Hersfeldensis was rediscovered by priest-philologist Cesare Annibaldi in the possession of Italian Count Aurelio Balleani of Iesi (Italian: Jesi), a town located in the Marches of central Italy. The manuscript had been in the family’s possession since 1457. This single text, the oldest extant version, became known as the Codex Aesinas. (I.e., the Aesinas is believed to consist of portions of the lost manuscript from Hersfeld.

One scholar has summarized the tremendous impact the text’s rediscovery in 1455 has had on European history:

The rediscovery of the Germania in the late fifteenth century was a decisive event in the study of the ancient Germanic peoples. Renaissance scholarship endowed Roman literary texts with outstanding authority, as well as making them more widely available. At the same time, a rise in German national feeling led to heightened interest in ancient texts which illuminated the Germanic past. . . . The Germania . . . was used to cement a link between the Germans of Tacitus and the Germans of the early modern period. From about 1500 onward the Germania was rarely far from serious discussion of German national identity, German history and even German religion. Fresh impetus was given to it in the nineteenth century and, of course, the racial purity, valour and integrity of the Germans as portrayed by Tacitus had immense appeal to the National Socialist hierarchy in the 1920s and 1930s. (Malcolm Todd, The Early Germans, 2d ed., Oxford: Blackwell, 2004, p. 7)

Among others, the Germania influenced Frederick the Great, Johann Fichte, Johann Gottfried von Herder [5], and Jakob Grimm.

Key to the rediscovery, preservation, transmission, and social and racial influence of the Germania over the past 500 years have been Renaissance humanism, modern (pre-21st century) scholarship, the invention of printing, liberalism, nationalism, and racial science.

A Dangerous Book

Since the Renaissance, the Germania has provided the most significant historical evidence of the early Germanic peoples.

The inevitable identification of the ancient Germans with their descendants commenced soon after the book’s discovery. Historians, philologists, and archaeologists all added pieces to the mosaic, so that by the time unification occurred in 1871 the early history of the Germans was firmly grounded.

The Germania influenced at least one 20th century leader decisively. Young Heinrich Himmler in September 1924 read Tacitus during a train ride and was captivated. At the time he was personal assistant to Gregor Strasser, leader of the National Socialist Freedom Movement (Nationalsozialistische Freiheitsbewegung).

In contemporaneous notes, Himmler wrote that Tacitus captured “the glorious image of the loftiness, purity, and nobleness of our ancestors,” adding, “Thus shall we be again, or at least some among us.”

In 1936, the year of the Berlin Olympics, Hitler personally requested of Mussolini that possession of the Codex Aesinas be transferred to Germany. Mussolini agreed, but changed his mind when the proposition turned out to be unpopular among his people.

A facsimile copy was made for the Germans and Rudolph Till, chairman of the Department of Classical Philology and Historical Studies at the University of Munich, and a member of the Ahnenerbe (a racial think tank co-founded by Heinrich Himmler in 1935), studied the manuscript in Rome in the months prior to the war. The Ahnenerbe published Till’s findings as Palaeographical Studies of Tacitus’s Agricola and Germania Along with a Photocopy of the Codex Aesinas in 1943.

German ideologist Alfred Rosenberg [6] and SS chief Heinrich Himmler both retained intense interest in the Codex. Mussolini’s government fell in 1943. In July 1944 Himmler dispatched an SS commando team to rescue the manuscript. The unit searched three Balleani family residences in Italy without success.

The Codex was in fact stored in a wooden trunk bound with tin in the kitchen cellar of one of the residences, the Palazzo on the Piazza in Jesi. (There is a 1998 online newspaper account in German [7] about this affair that relies upon Jewish writer Simon Schama’s 1996 Landscape and Memory for its authority.)

[8]

Palazzo Balleani in Jesi

The upshot was that possession of the manuscript remained in the hands of the Baldeschi-Balleani [9] family. After the war the family stored the Codex Aesinas in a safe deposit box in the basement of the Banco di Sicilia in Florence, Italy. In November 1966, the River Arno experienced its worst flooding [10] since the 1550s, causing damage to the Codex. Monks at a monastery near Rome skilled in preserving manuscripts succeeded in saving it, though permanent water damage could not be eliminated.

The Codex was sold by the family to the Biblioteca Nazionale in Rome in 1994, where it is currently cataloged as the Codex Vittorio Emanuele 1631.

Suppress That Classic!

Since WWII, as ideological imperatives took precedence over dispassionate scholarship, the Germania‘s capacity to instill self-awareness and collective identity has deeply disturbed proponents of anti-white policies and ideologies. The historical record is problematic, too, in not depicting the Germans as irredeemably evil, possibly scheming, say, to vaporize the extensive Jewish populations of Rome and Persia in clay kilns.

One feint such ideologues employ is to insinuate that ancient Germans and modern northern Europeans possess no biological or historical kinship. Though nonsensical, it is as easy to argue as is the assertion that biological race does not exist, or dozens of other counter-factual dogmas.

But many would no doubt prefer to ban the book Communist-style, removing all copies from circulation and restricting access to unpulped copies to a handful of approved “scholars” on a carefully monitored basis.

As long ago as 1954 Jewish historian Arnaldo Momigliano declared before “an important international classical conference” that the Germania was one of the most dangerous books ever written. (In 1938 Momigliano lost his job as professor of Roman history at the University of Turin after passage of the Fascist racial law. He moved to England, where he taught for the rest of his life.)

Today, Harvard University’s Christopher Krebs, author of A Most Dangerous Book: Tacitus’s Germania From the Roman Empire to the Third Reich (2011), trumpets Momigliano’s view [11] of the ancient text’s “insidious” nature to the applause of academic peers, literary critics, and journalists.

Krebs’ insincere declaration—gambit, really—that “Tacitus did not write a most dangerous book, his readers made it so,” doesn’t fool anyone. In societies committed to the proposition that speech and ideas constitute “hate,” there is unanimous, or at least undissenting, agreement on how to treat “dangerous” books and ideas.

In an interview, Krebs says that he is half German and half Swedish. But “Krebs” can be a Jewish name—e.g., biochemist Hans Krebs, formulator of the Krebs cycle. Scanning random passages from the book, it is hard to think that the author is not Jewish or part Jewish. If white, he has mastered their psychology to great profit.

Adam Kirsch, a Jewish book reviewer for Slate, the Washington Post-owned online magazine, quotes Krebs approvingly: “‘Ideas are viruses. They depend on minds as their hosts . . . The Germania virus . . . after 350 years of incubation . . . progressed to a systemic infection culminating in the major crisis of the twentieth century.’” (Yes, he means the “Holocaust.”) The title of Kirsch’s article is “Ideas Are Viruses [12].”

This is a characteristically Jewish, and totalitarian, way of thinking.

[13]

Adam Kirsch

Kirsch, a child of privilege, is the son of author, attorney, and newspaper columnist Jonathan Kirsch. A 1997 graduate of Harvard, Adam Kirsch writes regularly for Slate, The New Yorker, The Times Literary Supplement, and other magazines.

Wishing that the Germania had been lost during the Middle Ages, Kirsch concludes, “If the last surviving manuscript had been eaten by rats in a monk’s library a thousand years ago, the world might have been better off.”

Ah, liberal enlightenment! The world can never get enough of it.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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vendredi, 14 octobre 2011

Questions à Raymond Abellio sur sa vision de l’Occident

Questions à Raymond Abellio sur sa vision de l’Occident

(Revue Question De. No 4. 1974)

Vers la fin d’un certain ésotérisme

Q. Quelle place accordez-vous à ce que chacun aujourd’hui nomme « l’ésotérisme » ? Voyez-vous dans l’ésotérisme une situation radicalement nouvelle de la vie sociale et religieuse, un signe de transformation de l’Histoire présente ? Est-ce une révolte, le dernier soubresaut d’un monde en train de disparaître ou l’annonce d’une renaissance spirituelle ? Vous avez d’ailleurs intitulé votre dernier ouvrage « la fin de l’ésotérisme ». Qu’entendez-vous par là ?

R. Bien entendu, j’ai choisi un titre provocant, la provocation étant un moyen de communication utile aujourd’hui. Il faut secouer les gens pour qu’ils s’éveillent. Il est bien évident que l’ésotérisme, de par son essence, ne peut pas avoir de fin, dans la mesure où l’on admet que la connaissance en soi est toujours inachevée et inachevable, étant donné que c’est une question d’intensité. Mais « fin » signifie aussi que nous sommes dans une période de désoccultation et qu’il convient de réagir contre une certaine tendance des ésotéristes traditionnels à s’enfermer dans ce qu’ils appellent le secret. Certes, l’ésotérisme, en tant que corps de connaissance, aura toujours une frange secrète, ou plutôt un noyau secret (puisqu’encore une fois il est d’une intensité inachevable) ; mais le secret, en tant que forme moralisatrice de protection d’un corps de doctrine dont on ne connaît d’ailleurs pas le développement, me paraît quelque chose de très dégradé comme conception. C’est contre cela, finalement, que j’ai voulu être provocant. Attaquer les ésotéristes qui se servent dans leurs livres de ces formules : « Je connais beaucoup de choses, mais je ne peux pas les dire », « Je ne veux pas les dire ». Mais qu’ils n’écrivent pas de livres, alors ! Ce qu’on sait, on le sait, et l’on doit le dire. Pourquoi craindre le danger ? Les mots « danger » et « décadence », je ne les emploie pas ou je les mets entre guillemets.

Q. Mais je pense que, pour les ésotéristes qui sont, je crois, beaucoup plus occultistes qu’ésotéristes, il s’agit d’intéresser à tout prix par un pseudo-secret, par des points d’interrogation, par des conditionnels en succession infinie. Alors on voit apparaître dans ce sens de nombreuses collections d’ouvrages qui sont effectivement  la fin d’un certain ésotérisme, qui sont l’extrême du vulgaire. Par contre, on peut entendre aussi la fin de l’ésotérisme comme étant son accomplissement.

R. Parfaitement. C’est ainsi que je l’entends, dans le sens supérieur. Quand je parle de désoccultation, il est certain que c’est d’un accomplissement qu’il s’agit. C’est le besoin qu’a tout être qui cherche la connaissance, d’être illuminé par elle, et il est incontestable que l’illumination est un accomplissement. C’est assurément une fin, fin toute relative, bien entendu, que vous ressentez comme un absolu et dont vous savez bien que vous retomberez, quitte ensuite à rechercher une intensité supérieure. Mais il est certain que, chez les ésotéristes dont nous parlons, se développe aujourd’hui une sorte de « décadence ». Par exemple, le mépris qu’ils témoignent à l’Occident, à l’effort scientifique de l’Occident, est quelque chose d’incompréhensible.

Q. Le mépris de René Guénon à l’égard de l’Occident en est le meilleur exemple.

R. Il est très provocant, injuste. Mais Guénon vivait à une époque où il était nécessaire de détruire le scientisme.

Q. Guénon ne pouvant se convertir à l’hindouisme, se convertit à l’islam. Tout plutôt que l’Occident ! Partant de là, il échafaude des théories qui sont en soi assez discutables, celles de la Tradition primordiale. Celle-ci est reléguée dans un temps historique indéterminé, où les hommes sont parfaits, purs et connaissants. Il énonce alors ses idées sur l’initiation. Qu’en pensez-vous ?

 

R. Les moyens de communication que ces hommes pouvaient avoir avec le monde supérieur, avec le monde invisible, les forces divines ? Je crois qu’il est préférable de ne pas en parler, parce qu’on ne peut pas en parler. Alors, faire de ces êtres du début des temps de la Tradition, des êtres purs, omniscients, etc., cela ne fait pas très sérieux.

Q. Non seulement cela ne fait pas très sérieux, mais on retrouve tout un courant qui est pris chez Saint-Yves d’Alveydre et chez quelques autres, et la tradition de l’Aggartha n’est pas de Guénon.

R. Enfin, ces yeux tournés vers le passé, vers une sorte d’âge d’or perdu, non ! Ce n’est pas conforme à la vocation de l’Occident.

Le rôle de l’initiation

 

Q. Comment vous situez-vous par rapport aux doctrines « initiatiques » ? Pensez-vous qu’il y ait une initiation possible pour l’homme, la réalisation du « passage », faire mourir le vieil homme et renaître à la vie transcendante ? Qu’est-ce que l’initiation pour vous, et que pensez-vous des ordres initiatiques ?

R. Il se peut très bien qu’à une certaine époque historique, mal déterminée, les rites aient été un mode de communication nécessaire et privilégié, dans la mesure où l’on n’en connaissait pas la signification exacte : une sorte de magie que l’on retrouve dans certaines peuplades d’Afrique. Je crois que les rites d’initiation, tels que les conçoit Guénon, ont eu leur nécessité en Occident à une époque où, justement, la conceptualisation n’avait pas atteint le degré de nécessité et de clarté qu’elle peut atteindre aujourd’hui : de même que, dans certaines peuplades d’Afrique noire, la magie joue un rôle que joue en Europe la science. Je me rappelle l’histoire que me racontait un de mes amis. Il avait été désigné par je ne sais quelle société savante américaine pour faire une enquête auprès de peuplades primitives. Il voit, un jour, une vieille femme qui était en train de regarder le feuillage d’un arbre qui bougeait. Il dit : « Qu’est-ce que vous faites ? » Elle répondit : « Je passe » un message à mon petit-fils qui est à l’école et à qui j’ai oublié de dire ce matin de me rapporter du café. Je lui passe un message par le vent des arbres. » Il s’étonna, bien qu’il fût là pour faire des études sur la télépathie. Il demanda des explications. La femme était très gênée ; elle disait : « Vous êtes très forts, vous êtes de grands magiciens, vous avez le téléphone. » Elle considérait le téléphone comme un instrument de magie plus perfectionné. Le rite est simplement un medium de magie, moins perfectionné que le medium scientifique. C’est tout. Et l’on comprend que, selon les époques, les besoins de rites d’initiation diffèrent.

Q. Ce qui semblerait indiquer qu’aujourd’hui, selon vous, les rites d’initiation, l’appartenance à des sociétés secrètes, choses tant prônées par les milieux ésotériques de la fin du siècle dernier, ne représentent plus que l’ultime chatoiement d’un monde en voie de disparition.

R. C’est en ce sens, d’ailleurs, que j’ai parlé de la fin de l’ésotérisme — la fin d’un certain ésotérisme.

Le Renouveau de l’Occident

 

Q. Votre recherche politique se fonde sur une double connaissance : connaissance du monde spirituel traditionnel et connaissance de la technocratie moderne. Dès après la Seconde Guerre mondiale, vous avez entrepris une pénétrante méditation sur le rôle de l’Europe dans la politique future.

R. Depuis la guerre, l’Europe ne joue plus de rôle politique, ou, si elle essaie d’en jouer un, vous voyez au milieu de quelles difficultés et à quel niveau inférieur ! Actuellement, l’Europe, par l’intermédiaire des sociétés multinationales, est colonisée par l’aire américano-russe. De même, sur le plan de la recherche intellectuelle, palle marxisme russe. Nous avons à présent une aire américano-russe occidentale et une aire tibéto-chinoise. C’est dans ce sens que je donne à l’absorption du Tibet par la Chine une signification sacrée. Il y a là une véritable « théophagie ». Et c’est cela qui donne toute son amplitude au conflit est-ouest maintenant. L’Orient apparaît, de nos jours, devant la dégénérescence des religions occidentales, comme le porteur d’une puissance spirituelle par la révolution culturelle. Mais ce n’est là qu’une vision profane.

Q. Alors, selon vous, la Chine ne pourrait pas nous apporter, à nous Occidentaux, un renouveau des forces ordonnées face à une évidente dégénérescence des croyances judéo-chrétiennes et à un retour brutal des formes les plus frustes du paganisme ?

R. Je ne crois pas. Je crois que la révolution culturelle chinoise est une révolution collectiviste. Il est incontestable qu’en Chine, par exemple, les problèmes de l’homme intérieur ne sont pas posés. Le problème du sexe, celui de l’art, le problème métaphysique de la mort et de la religion sont éludés par le marxisme chinois. Or ce sont ces problèmes-là qui, dans l’invisible, commandent l’activité de la « prêtrise » occidentale à venir.

Les nouveaux prêtres… et les hippies

Q. Cette « prêtrise » invisible est-elle la suite moderne de l’antique caste des brahmanes védiques ? Voyez-vous en cela un renouveau possible à l’idée de castes ?

R. Absolument pas. Les prêtres invisibles sont des hommes qui passent au-delà des castes. Alors que les hommes de connaissance, les brahmanes, veulent institutionnaliser la connaissance, c’est-à-dire l’enfermer dans des églises, les prêtres invisibles refusent de se laisser institutionnaliser. Eux seuls sont les prêtres de la fin des temps, les nouveaux prophètes.

Q. Il est bon alors de rappeler qu’aux trois castes le plus communément admises prêtres, guerriers, agriculteurs vous opposez une vision nettement plus équilibrée de la société avec une division en quatre castes. Ces quatre castes seraient sommairement ordonnées comme suit : hommes de connaissance, de puissance, de gestion, d’exécution. Mais se pose à nouveau aujourd’hui le problème des hors-castes, les hippies et autres contestataires modernes.

R. Vous avez raison, et je suis persuadé que la mauvaise conception actuelle des quatre castes conduit à une méconnaissance de la hors-caste : celle d’en-bas disons les hippies — mais également celle d’en haut, les prêtres invisibles. Il y a incontestablement la caste des hippies qui refusent justement d’être des hommes d’exécution, de travail, mais qui ne sont pas, bien entendu, des « brahmanes ». Ils sont dans une hors-caste indéfinissable, et je crois cependant que leur rôle est capital, car c’est là que germent, dans ce terreau d’humus indifférencié, les nouvelles générations de castes. De ce point de vue, on peut même imaginer toute une sorte de géographie sacrée qui préciserait les zones de l’hémisphère occidental où apparaissent ces castes.

La notion de géographie sacrée

Q. L’existence de certaines zones privilégiées, de régions chargées de forces, d’énergies particulières, c’est pour vous, je crois, la géographie sacrée ou, tout au moins, sa structure de base. Ainsi, dans cette conception du monde, vous accordez à la Californie un rôle déterminant dans l’évolution et le développement des nouvelles hors-castes.

R. Oui, pour moi, sur un plan symbolique, la Californie est une ligne qui marque la limite à l’extrême ouest de l’Occident. Elle s’oppose à l’Amérique ; la Californie n’est pas du tout l’Amérique. Et c’est justement ce qui m’a conduit à penser qu’il y avait un symbolisme considérable dans la révolte des étudiants de Berkeley en 1964, qui a été la première manifestation dans le monde de la révolte des étudiants.

Q. Si la Californie n’est pas l’Amérique, mais l’Extrême-Occident, l’Occident n’est pas l’Europe. Je crois même que vous faites une différence fondamentale qui est, en quelque sorte, l’assise de votre géographie sacrée.

R. La distinction entre l’Europe et l’Occident est, pour moi, fondamentale. Dans notre cycle de temps, nul lieu au monde n’eut plus que l’Europe l’illusion de faire naître l’Histoire. L’Europe s’est vue comme déterminant et écrivant l’Histoire tout entière du cycle terrestre actuellement en cours, et une Histoire de plus en plus dense et dramatique. Je fais de la distinction Europe-Occident une clef fondamentale. Ainsi, l’Europe est construite, l’Occident est constitué. L’Est est le support d’une infinité passée, l’Ouest celui d’une infinité à venir : l’Occident est, entre eux, celui d’une infinité présente. Mais c’est justement parce que l’homme européen est pris actuellement dans l’implication infinie des liaisons historiques, et qu’il y est pris seul, qu’il est, à l’état naissant, le porteur de l’être occidental capable de transcender l’Histoire, de la vider de ses événements isolés et passagers et de faire émerger, ici et maintenant, une nouvelle conscience dans le monde. L’Occident est d’abord vision absolue du monde et de lui-même par la découverte d’une structure absolue. L’Europe vit en mode d’ampleur, l’Occident en mode d’intensité. L’Europe veut progresser en mode de sédimentation, l’Occident se résout en mode de cristallisation.

Q. Quel sens donnez-vous à cette opposition ?

R. Un sens dialectique. Ainsi l’Europe se livre au temps tandis que l’Occident lui échappe. L’Europe paraît fixe dans l’espace, c’est-à-dire dans la géographie, tandis que l’Occident y est mobile et déplace son épicentre terrestre selon le mouvement des avant-gardes civilisées. L’Europe est provisoire, l’Occident est éternel. Un jour, l’Europe sera politiquement effacée des cartes, mais l’Occident vivra toujours. L’Occident est partout où la conscience devient majeure.

Révélation et illumination

Q. Vous accordez une importance fondamentale à la notion de révélation dans toute votre œuvre. Vous acceptez l’idée qu’une connaissance peut venir subitement, sans apport intellectuel ; cette connaissance résume alors des formes très diverses du savoir. Elle est la gnose à l’état pur, une réalité universelle qui, soudain, relie l’homme à l’infini.

R. Tous, autant que nous sommes, nous avons eu des moments où la certitude en nous se passait de preuves. Ma propre certitude, à certains moments de ma vie, a été totale, immédiate, fulgurante. C’est ainsi que je puis vous dire, et de façon très précise, que j’ai reçu la révélation de ma clef numérique de la Kabbale le 5 avril 1946 à dix heures du matin, le Vendredi saint de cette année-là. La liste des valeurs ésotériques des nombres m’est venue globalement, sans nuance. Elle m’est tombée dessus comme un coup de tonnerre, à tel point que, pendant trois heures, je suis resté paralysé, dans un état d’immobilité absolue. Je brûlais et j’avais l’impression que ma tête allait éclater. Quand j’ai enfin pu me déplacer, je suis allé me coucher sous une tente qui était au fond du jardin. Pendant ce repos, chaque fois que j’essayais de deviner le sens précis de ma révélation, j’avais l’impression que tout pouvait sauter en moi. Une idée de plus, et mon cerveau sautait ; c’était bien un court-circuit qui s’était produit entre deux univers, le mien, celui de l’homme, et l’autre, celui de la révélation, du savoir infini, de la gnose abrupte. La notion de choc dans la révélation est, pour moi, très importante ; car je l’ai reçue comme un coup de bâton, direct, sans pitié, sans faiblesse. Mais il est, je crois, bien inutile de vous dire qu’au moment où j’ai reçu cette connaissance subite, je n’avais qu’une idée très vague de ce que la révélation m’apportait. Disons que je venais d’accrocher l’idée centrale. Ensuite, j’ai dû procéder aux applications intellectuelles. La révélation est comme un objet brut ; le stade de l’exégèse intellectuelle est celui du raffinement.

Q. Considérez-vous la découverte abrupte, la révélation comme la vérité absolue ?

R. Pas nécessairement. La certitude, aussi forte soit-elle, n’est pas forcément la vérité, même si elle s’accompagne de phénomènes étranges qui s’apparentent à ce que communément l’on nomme « Révélation ». La révélation n’est pas, pour autant, un terrain vague, une certitude reçue à travers un voile, le donné abstrait à partir duquel on tirera des élucubrations plus ou moins confuses. Elle est, au contraire, parfaite et précise ; elle s’apparente totalement à la gnose, c’est vrai ; or la gnose, c’est le domaine de la certitude absolue, instantanée et totale, sinon celui de la vérité.

Q. Du reste, dès que l’on se situe à ce niveau de la perception spirituelle, le mot « vérité », tel qu’il est communément utilisé, ne veut plus rien dire. La révélation transmise à l’homme qui vit dans le temps, dans les dimensions de l’espace, se heurte évidemment à un mur, le mur du temps. La connaissance ou la certitude intemporelles sont récupérées par des êtres qui vivent dans le temps. Ce glissement de l’intemporel au temporel affaiblit sans doute la révélation, lui fait perdre cette force immédiate, totale, instantanée et infinie qu’elle possède en elle-même.

R. Vous avez raison. Mais c’est la force de la loi du progrès : la loi de l’homme. La loi étant historique, soumise à la succession du temps, nous n’avons pas la prétention de tout vivre, de tout assumer, de tout comprendre, même nos propres moments de certitude, de révélation. Nous vivons cependant à certains moments dans des rapports privilégiés avec l’étincelle éternelle, avec l’Un informel : c’est alors la réalisation de l’homme intérieur, l’homme intérieur qui est en assomption tout au long des siècles, une assomption qui trouve sa plénitude, sa pleine réalité à chaque instant éternel de la révélation.

***

MEDITATION POUR LES DERNIÈRES FOIS

Heureux celui qui sait ne pas donner de raisons vaniteuses à ses défaites. Et encore plus heureux celui qui sait qu’il n’est pas de défaites.

Partout où nous irons désormais nous porterons en nous ce monde horizontal. Il est celui des ténèbres extérieures.

Mais la grande nouveauté est celle-ci : Ce monde ne sera plus jamais trop grand pour nous, c’est nous qui sommes devenus trop grands pour lui. Jamais plus nous ne pourrons dire comme Moïse : Je verrai la terre promise et je mourrai.

Nous avons déjà vu toutes les terres promises et nous survivons.

Ce soir, je rêve d’Archimède, insensible au tumulte des guerres et traçant sur le sable, du bout de sa canne, les figures géométriques de son énigme intérieure, tandis que le soldat, irrité, l’interpelle et se prépare à le tuer. Nous sommes voués comme lui à une connaissance et une immobilité infinies. En elles se tiennent toute dévotion, tout amour, toute adoration, tout accomplissement, tout service.

Et même si le sens de ce dernier mot nous échappe car il englobe tous les sens, et si, plus encore qu’à nous, il échappe aux Barbares, que ces derniers au moins, quand ils viendront, nous trouvent d’abord attentifs à notre art.

Rien ne peut sauver les corps. Mais on peut rêver d’un regard si plein de connaissance humaine que les corps tout entiers se perdent dans ce regard. Un jour, en rencontrant les yeux de l’homme immobile, l’assassin le moins capable de retour sur soi saura que cet assassiné était plus grand que lui. Au cœur le plus sensible de l’Europe, à l’endroit d’où elle se croit le plus absente, s’accumulent ce comble de refus et ce comble d’attention qui, par la réversibilité mystérieuse du rachat, constituent au contraire sa vraie présence.

Le goût des formes et des bavardages, la hâte du présent et la déception du lendemain, les petits brigandages politiques, le cynisme sans risques, la vulgarité des riches et la soumission des pauvres, et, par-dessus tout, l’impuissante nostalgie d’une beauté qui se refuse et d’une vérité qui se perd, composent une sorte de cri profond qui monte des plaines d’Europe, mais qui stagne dessus comme un brouillard d’hiver.

Ce désordre est trop grand. Comment en démêler les fils ? On peut aujourd’hui donner une sorte de curiosité fraternelle à ceux qui veulent mettre de l’ordre dans ce qu’on appelle le monde, et qui se jettent dans la foule.

Mais il y a temps pour tout sous le soleil.

Aujourd’hui, ce n’est pas dans ce monde qu’il faut mettre de l’ordre, mais dans nos pensées. Nous avons fait dans le monde assez d’expériences, et ce n’est pas en vain que nous en avons traîné le poids si haut. Le monde est ici, pas ailleurs.

J’essaie d’imaginer ce que pourront être ces heures de la transfiguration, quand les guerriers se feront prêtres, et, n’ayant plus rien à défendre qui ne soit détruit, se découvriront les hommes les plus riches du monde.

Extrait de l’Assomption de l’Europe (Paris, Flammarion, 1953).

POUR MIEUX CONNAÎTRE RAYMOND ABELLIO

De son vrai nom Georges Soulès, Raymond Abellio est ne le 11 novembre 1907 d Toulouse.

De 1930 à 1932, il est élève de l’École des ponts et chaussées. Ingénieur enfin, il commence une carrière qui le conduit dans la Drôme. C’est là qu’il prend contact avec le monde politique. Des 1932, il est nommé secrétaire fédéral adjoint de la S.F.I.O. En 1935, il est un des dirigeants de la dissidence socialiste connue sous le nom de Gauche révolutionnaire. A Paris, en 1936, il entre au cabinet de Jules Much. A partir de 1937, il est un des dirigeants du Parti socialiste, tout en gardant très évidente son optique Gauche révolutionnaires, que développent encore ses études marxistes et trotskystes.

Au cours des combats de 1940, il est fait prisonnier à Calais et se retrouve, pour quelque temps, dans un camp d’internement en Allemagne. Cette triste période sera occupée par quantité de réflexions. Il se lie avec différents officiers cagoulards qui partagent la même captivité. Ses options politiques sont remises en cause. Le marxisme, qu’il considéra toujours comme valable du point de vue de l’analyse économique et comme philosophie réflexive, l’a déçu, au moment de la guerre d’Espagne et du pacte Staline-Laval.

Pendant la guerre

En 1941, il est libéré et rentre en France. Il s’inscrit au Mouvement social révolutionnaire de Deloncle, dont il devient l’adjoint. Les rapports avec l’occupant restent tendus, malgré l’apparente reconnaissance du Mouvement social révolutionnaire par le nazisme.

L’année suivante, en 1942, un fait va déterminer le cours de l’évolution intellectuelle de Georges Soulès : sa rencontre avec Pierre de Combas. Ce dernier a une connaissance remarquable des grandes philosophies et doctrines traditionnelles, du judaïsme à l’hindouisme. Il a étudié les mouvements occultes et ésotériques occidentaux par ailleurs, il possède une excellente documentation sur les différents mystiques.

C’est Pierre de Combas qui, notamment, déterminera son évolution critique en face de la pensée de René Guénon.

La découverte de Husserl

Georges Soulès est bien à la recherche de tout autre chose. Son but : découvrir le véritable cheminement qui irait de la Tradition jusqu’à l’exploitation de toutes les ouvertures scientifiques offertes par le monde moderne. C’est dans ce sens, la découverte de Husserl et de la phénoménologie, découverte qui restera un des premiers événements de sa vie spéculative. La tradition hébraïque lui apporte, avec la Kabbale, les éléments du savoir religieux initiatique, tandis que la phénoménologie lui permet d’acquérir une méthode prospective et une charpente méthodique qui manquent aux traditions étudiées comme telles.

Dès cette époque sont en gestation les thèmes fondamentaux qui formeront la trame philosophique de ses livres. Selon lui, le politicien moderne est loin de représenter une vision réelle de ce que devrait être la politique authentique. Celle-ci serait, selon Soulès, appuyée à la fois sur un organisme de sociétés secrètes recelant des connaissances traditionnelles et sur un développement scientifique des facultés métapsychiques, afin d’influer, sans autres moyens que la réalisation mentale, sur les foules. La géopolitique occupe également une place dans la construction de son système. Les différents États, les continents eux-mêmes sont, certes, des réalités évidentes. Mais celles-ci ne sont quand même que les jouets de forces cosmiques et telluriques dont une plus exacte connaissance serait indispensable, afin d’accéder à la parfaite réalisation d’un pouvoir à la fois occulte et politique.

Après la guerre

En 1944, sa position devient de plus en plus difficile. Bientôt, on le recherche, et il doit se cacher.

En 1945, ce sont les gaullistes qui, à leur tour, le poursuivent. Commence alors pour lui une vie de traqué et de vagabond. Enfin, il quitte la France A la fin de février 1947. La Suisse sera son lieu d’exil jusqu’en 1951, époque à laquelle, à la suite d’un non-lieu, il rentre à Paris.

Ses années de fuite et d’exil furent les plus fructueuses, spirituellement. Sa vision du monde atteint un aspect prophétique. En 1946, il fait paraître, sous le pseudonyme d’Abellio, son premier livre. C’est un roman, Heureux les pacifiques, qui sera suivi de Les yeux d’Ezéchiel sont ouverts ; enfin, beaucoup plus tard, de la Fosse de Babel. Ces trois livres forment une trilogie romanesque sur laquelle il fonde la partie la plus publique de son œuvre. Parallèlement, il développera des recherches, avec la Bible, document chiffré, Vers un nouveau prophétisme, Assomption de l’Europe et la Structure absolue (1965).

Ce dernier ouvrage, véritable somme philosophique, est une recherche fondée sur l’ésotérisme et la phénoménologie afin de cerner la clé universelle de l’être et du devenir, des situations et des mutations.

Le monde futur

Vers un nouveau prophétisme est un « essai sur le rôle du sacré et la situation de Lucifer dans le monde moderne ». L’Occident — et l’Europe en particulier — n’a pas terminé son rôle sur la grande scène de l’Histoire. L’ultime Occident est à naître, « quand les guerriers se feront prêtres et, n’ayant plus rien à défendre qui ne soit détruit, se découvriront les hommes les plus riches du monde » (Abellio, Assomption de l’Europe).

Abellio reconnaît que nous vivons la fin d’un cycle, les dernières saccades de l’agonie. Mais cette agonie est à la mesure de notre formidable destin luciférien. L’Europe accède à son assomption et le monde entier se développe et vit et meurt selon nos concepts, nos religions, nos hérésies et nos systèmes politiques.

Une situation retient tout particulièrement son attention : celle de la Chine, Abellio ne cache pas un certain pessimisme qui s’accompagne de visions apocalyptiques dans la Fosse de Babel.

OEUVRES DE RAYMOND ABELLIO

Aux éditions Flammarion :

« Heureux les. Pacifiques », roman

« Assomption de l’Europe », essai

« La fin de l’ésotérisme », essai

Aux éditions Gallimard :

« Les yeux d’Ezéchiel sont ouverts », roman

« Vers un nouveau prophétisme », essai

« La Bible, document chiffré », 2 vol., essai

« La fosse de Babel », roman

« La structure absolue », essai

« Ma dernière mémoire », récit, le tome I est, jusqu’à présent, seul paru

« Un faubourg de Toulouse »

Dans une âme et un corps », Journal de l’année 1971

L’Europe transfigurée de Raymond Abellio

L’Europe transfigurée de Raymond Abellio

par Daniel COLOGNE

assEurope.jpgEn 1978, l’éditorialiste du Figaro-Magazine constate la désuétude du clivage idéologique Droite-Gauche. Louis Pauwels appelle de ses vœux une « redistribution des cartes », une recomposition des familles de pensée selon des critères « métapolitiques ». Un de ces critères est la vision de l’histoire.

La même année, dans le sillage de son exact contemporain Mircea Eliade (1907 – 1986), Georges Soulès alias Raymond Abellio (1) observe que « les anciennes conceptions linéaires et progressistes de l’histoire font place à des conceptions cycliques » (2).

La représentation circulaire du mouvement historique se réfère à la géométrie plane. Du point de vue de la géométrie dans l’espace, c’est en toute rigueur la « sphéricité » qu’il convient d’opposer à la « linéarité » (p. 64).

Dans la vision abellienne de l’écoulement du devenir s’enchevêtrent deux spirales, l’une montante, l’autre descendante : « la double torsion du temps » (p. 342).

La spirale ascendante se caractérise par un passage de l’ampleur à l’intensité. L’intensification est synonyme de transfiguration. Elle est notamment illustrée, au VIe siècle av. J.C., par le prophétisme juif, auquel la « Latinité » sert de relais ultérieur. Abellio désigne les Latins comme les « successeurs des Juifs à l’extrême pointe de la fonction d’analyse » (p. 105), tout en plongeant les racines de sa réflexion philosophique dans le riche terreau de la pensée germanique : Maître Eckhart, Spinoza, Nietzsche, Husserl (3).

La « Latinité de Marie » (p. 340) appelle quelques réserves, même si les hauts lieux de culte de la Vierge s’échelonnent de Fatima à Banneux en passant par Lourdes et de Garabandal à Beauraing en passant par San Damiano. Il ne faut pas oublier Medzugorje ni Chestokowa, ni surtout l’importance de la mariologie dans toute l’Église orthodoxe d’Europe orientale.

On peut aussi regretter l’inachèvement d’une cyclologie sacramentale limitée au baptême et à la communion. Abellio allèche le lecteur en prétendant « fonder une symbolique historique des sacrements » (p. 13), mais elle reste malheureusement à l’état d’esquisse. Elle ouvre pourtant d’intéressantes perspectives. La décadence d’une civilisation pourrait correspondre au sacrement de l’extrême-onction, l’apogée de sa caste sacerdotale à celui de l’ordination.

Un ouvrage d’une rare densité

Assomption de l’Europe renferme 352 pages d’une rare densité. Un quart de siècle sépare la première mouture de la seconde édition. Celle-ci ne comporte cependant qu’onze notes infra-paginales. Il y est peu question de l’Islam, dont le réveil sonne un an plus tard avec la révolution iranienne (1979). Il était difficile à l’auteur de prévoir la décomposition du marxisme, dont il proclame la « perpétuité » (p. 261), la chute du Mur de Berlin et la réunification de l’Allemagne. Aussi cette dernière est-elle jugée politiquement « morte » (p. 7), au mieux « épuisée » (p. 9).

Plus clairvoyante s’avère la critique abellienne de l’américanisme et du soviétisme. L’un et l’autre sont renvoyés dos à dos comme de pitoyables dérives de théories économiques initialement européennes. L’Europe exporte vers l’Est « le socialisme libertaire et égalitaire » (p. 171) qui se « dénature » en « communisme dictatorial et niveleur » (p. 172). Elle propage vers l’Ouest « le capitalisme libéral et hiérarchisant » (p. 171) qui dévie « en productivisme monopoliste et planifié » (p. 172).

« Aux limites extrêmes de l’Ouest et de l’Est », Raymond Abellio discerne des « lieux d’évasion » (p. 187). La Californie et le Tibet sont comme des digues où « la vague d’activisme venue d’Europe » atteint son « maximum d’ampleur » (p. 145), se brise et épouse in fine un mouvement de « reflux » : le New Age et les révoltes étudiantes des années 60. Le Mai 68 de Paris est précédé par la contestation universitaire de Berkeley (1964). L’Europe tombe sous le charme d’un courant où se mêlent l’apologie de l’élan vital et l’éloge du lamaïsme d’Extrême-Asie (Ibid., note infra-paginale).

sem nome2.jpgMais remontons avec l’auteur à l’une des principales sources de « l’activisme européen » : la conquista des Amériques du Sud et centrale. Elle a vidé ces régions « de toute sève et de toute richesse pour en gorger l’Europe du moment, en sorte que les nations ibériques faillirent en mourir de pléthore et de paresse et furent même de ce fait écartées pour longtemps de l’activisme européen » (p. 233). A présent mûre pour un « futur engrossement » (p. 234), disponible pour accueillir une « migration du germe occidental » (p. 230), l’Amérique dite « latine » peut former avec l’Europe un des grands axes géopolitiques de demain, une sorte d’empire transocéanique reposant sur une puissante symbolique.

La direction Sud-Ouest correspond en effet à des moments clefs du cycle annuel et du cycle journalier. « Trois heures de l’après-midi », moment présumé de la Crucifixion de Jésus, « indique exactement l’heure du Sud-Ouest » (p. 232). Au cœur de l’été de l’hémisphère Nord, à mi-chemin entre le solstice de juin (Sud) et l’équinoxe de septembre (Ouest), dans le signe de feu du Lion que la tradition astrologique tient pour le domicile du Soleil, le calendrier festif catholique situe la Transfiguration (6 août) et l’Assomption (15 août). C’est un 6 août qu’explose la bombe atomique sur Hiroshima. L’humanité reçoit alors un « sacrement de sang » (p. 197).

Le destin spirituel de l’Europe

Dans ce genre d’évocation, l’écriture d’Abellio est saisie d’un lyrisme somptueux. « J’essaie d’imaginer ce que pourront être ces heures de la transfiguration, quand les guerriers se feront prêtres, et, n’ayant plus rien à défendre qui ne soit détruit, se découvriront les hommes les plus riches du monde » (p. 348, c’est nous qui soulignons).

Les Européens sont « des hommes qu’un siècle et demi de guerres a rejetés d’une aventure géante et pathétique » (p. 10). Quel destin leur convient-il ? Certes pas celui de « confédérés juridiques, bâtards de l’histoire » (Ibid.). Encore moins celui d’un pseudo-redressement qui se réduirait « à la réorganisation d’une maison de commerce mal tenue » (p. 11). Même « de l’Europe politique, il nous faut sortir » (p. 12), si la politique n’est plus que « dévergondage sentimental » de « boutiquiers » accoudés à leur « comptoir de chimères et de prébendes » (p. 11).

L’État de droit et l’économie de marché ne sont certes pas les apsides de « l’axe du bien », pour reprendre le sous-titre d’un livre récent. Une « politique de puissance » est-elle pour autant une judicieuse alternative ? L’auteur de cet ouvrage pense que non et estime opportun de rappeler que, pour l’Europe, « prendre conscience de son rôle sur la scène internationale » ne sera jamais « synonyme de projection de force ». L’actuelle Union européenne « a été fondée pour surmonter le jeu désastreux des politiques de puissance des États-nations. Elle ne pourrait donc pas, sans préjudice pour sa propre intégrité et pour la paix, mener à l’extérieur une politique contraire à sa nature même » (4).

La « nature » de l’Europe n’est ni marchande ni guerrière. L’Europe porte en elle le germe d’une révolution spirituelle, à condition de ne pas confondre la spiritualité avec le religieux ou le sacré. La nouvelle prêtrise évoquée par Abellio n’est pas un clergé de type médiéval ou une caste chamanique de mages ensorceleurs. C’est une aristocratie de savants dont la « longue mémoire » garantit la maîtrise de l’avenir, pour paraphraser Nietzsche. C’est une élite analogue à ces cosmographes chaldéens qui prétendaient détenir « des archives astrales s’étendant sur les 300.000 années écoulées » (p. 293).

L’Occident, devenir de l’Europe

Raymond Abellio nomme « Occident » ce germe spirituel enfermé au cœur de l’Europe. Dans l’acception abellienne du terme, l’Occident n’est donc nullement l’ensemble transatlantique euraméricain. Il ne s’identifie pas davantage à des États-Unis imbus de leur cocktail mercantiliste-belliciste, dont l’Europe devrait se distancier au nom du droit international ou de la primauté du spirituel. Pour Abellio, l’Europe doit devenir Occident pour se transfigurer. L’Occident, c’est l’Europe sublimée.

L’auteur d’Assomption de l’Europe avertit d’emblée : « Nous distinguerons fondamentalement l’Europe et l’Occident » (p. 29). Il confirme un peu plus loin : « L’Europe vit en mode d’ampleur, l’Occident en mode d’intensité » (p. 32). « Soumise au temps, c’est-à-dire à l’histoire », paraissant « fixe dans l’espace, c’est-à-dire dans la géographie » : telle est l’Europe. En revanche, l’Occident échappe au temps et à l’espace, il est méta-historique et méta-géographique, il est « mobile » et il « déplace son épicentre terrestre selon le mouvement d’avant-gardes civilisées » (p. 33). « Un jour l’Europe sera effacée des cartes, l’Occident vivra toujours » (Ibid.).

De préférence aux vocables « Orient » et « Occident » les dénominations « Est » et « Ouest » sont réservées au bloc communiste et aux États-Unis. Se référant aux travaux de l’astrologue André Barbault (5), Raymond Abellio écrit que « le couple Est-Ouest des U.S.A. et de Russie apparaît comme livré à la dialectique Uranus-Neptune » (p. 195). Certes, « les astrologues rattachent symboliquement Uranus aux U.S.A. » (Ibid., note infra-paginale) et à l’individualisme. Dans leur esprit, Uranus – « je cultive ma différence » – s’oppose à Neptune – « j’approfondis ma communion ». Pourtant, « ce fut toujours l’Est, le premier levé, qui défendit son originalité contre l’Ouest par des murailles de Chine ou des rideaux de fer » (p. 128). Derrière cette apparente contradiction se cache le secret de la « structure absolue » et une des clefs de la vision abellienne de l’histoire.

sem nome1.jpgLa « structure absolue » est l’inversion d’inversion en tant que processus intensificateur. Les valeurs symboliques des découvertes d’Uranus (1781) et de Neptune (1846) résident dans leur respective coïncidence avec les révolutions libérales bourgeoises et l’éclosion des mouvements ouvriers. Invertissant l’Ancien Régime, l’individualisme uranien est à son tour inverti par le collectivisme neptunien. Mais ce dernier intensifie le facteur Uranus sous la forme du culte de la personnalité propre à tous les régimes totalitaires : Führer, « père des peuples », « grand timonier », autant de variétés de l’archétype du « chef oriental » (p. 154).

Le collectivisme neptunien englobe une part d’Uranus (le culte du chef) tout comme l’aspiration uranienne « à commencer orgueilleusement l’avenir sans passé » (p. 121) renferme une part de Neptune (dieu des océans), qui réside peut-être dans l’utopisme démocratique des thalassocraties de l’Ouest. A l’opposé de celui-ci, l’Est « n’aspire qu’à recommencer vainement le passé sans avenir » (Ibid.). Le « fatalisme » de l’Est entre ainsi en rapport dialectique avec l’« optimisme » de l’Ouest. L’optimisme de l’Ouest n’est toutefois que « méconnaissance de sa folie ». Chaque principe porte en lui son contraire, à la manière du vieux symbole chinois de la non-dualité où la moitié blanche du yang entoure un petit point noir et la moitié noire du yin un petit point blanc.

Décadence de l’astrologie

Raymond Abellio ne se fait aucune illusion quant à l’astrologie « banale » et « vulgaire » (p. 292), dont il stigmatise « la diffusion croissante et charlatanesque » (p. 293). Mais il n’est guère plus complaisant envers les « savants profanes » aux « conceptions causalistes » qui, ignorant « l’implication indéfinie des corrélations » (p. 193), isolent le drame humain du drame cosmique, avec lequel il est pourtant en constante interaction. Depuis l’édit de Colbert (1666) et le Diktat de Marie-Thérèse d’Autriche (1756) expulsant l’astrologie des universités européennes, il ne subsiste plus, de l’antique art de la Muse Uranie, qu’une dérisoire parodie (contre-tradition) tout aussi ridiculement vilipendée par une « science moderne » (anti-tradition) limitée « depuis trois siècles » à une « quantification des faits » (p. 59). Rejoignant le diagnostic de René Guénon (1886-1951), Raymond Abellio condamne les « sciences européennes en crise » à « l’apprentissage sans fin de la multiplicité » (p. 31). Il place dans l’Europe transfigurée, qu’il nomme « Occident », l’espoir de « l’expérience unique de l’infinité » (Ibid., c’est nous qui soulignons).

L’Europe transfigurée en Occident suppose une révolution au niveau de la vision du monde. À « la durée linéaire et univoque des causes et des fins particulières » doit se substituer « la permanence sphérique d’une interaction globale dépourvue de cause et de fin » (p. 31). Ainsi tout « problème géopolitique » devient « un problème des hauteurs célestes » (p. 192).

Mais ailleurs, Raymond Abellio confesse que « jamais les situations célestes ne sont répétitives » (p. 62). Chassée par le grand portail du palais de la pensée, la « ligne du temps » rentre subrepticement par la porte de service, et l’on comprend pourquoi elle hante l’inspiration des Prix Nobel (Ilya Prigogine) et des académiciens (Jean d’Ormesson). La vision abellienne du monde est in fine non-dualiste. Elle illustre le propos de Leibniz, cité par René Guénon (6) : « Tout système est vrai en ce qu’il affirme et faux en ce qu’il nie ». Ainsi se résume peut-être l’essence de l’esprit européen.

Daniel Cologne

Notes

1 : Né à Toulouse en 1907, mort à Nice en 1986, Raymond Abellio est principalement connu pour son essai La Structure absolue, Paris, Gallimard, 1965.

2 : Assomption de l’Europe, Paris, Flammarion, 1978, p. 176. Toutes les citations suivies d’un numéro de page sont extraites de ce livre.

3 : Le Je transcendantal d’Edmund Husserl (1859-1938) est l’exemple – type d’intensification abellienne par rapport au Moi ordinaire.

4 : Louis Michel, Horizons. L’axe du bien, Bruxelles, Éditions Luc Pire, 2004, p. 72.

5 : André Barbault (né en 1920) a publié récemment un ouvrage de synthèse : Introduction à l’astrologie mondiale, Monaco, Éditions du Rocher, 2004.

6 : Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Paris, Gallimard, 1970.


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Il Dio di Ezra Pound

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Il Dio di Ezra Pound

di Luca Leonello Rimbotti


Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

 

 

Il contraltare di Evola, dal punto di vista di una lettura “pagana” del Fascismo, fu certamente Ezra Pound. Se il primo del regime mussoliniano intese fare un risultato moderno delle virtù guerriere ario-romane, un’epifania della potenza, il secondo ne scorse i connotati di religione agreste, la cui continuità sarebbe stata garantita – più che non ostacolata – da forme di cristianesimo non dogmatiche, legate alle credenze arcaiche relative alla sacralità della terra. Se Evola vide nel movimento dei fasci una rinascenza del fato di gloria, qualcosa dunque di “uranico”, Pound rimase colpito invece dalla natura tellurica, diremmo quasi Blut-und-Boden, del comunitarismo fascista del suolo e del seme. Il significato è comunque, nei due casi, quello di una continuità ininterrotta, ben rappresentata dal particolare tipo di imperialismo veicolato dal Fascismo, tutto incentrato sull’idea di redenzione del suolo, di lavoro dei campi, di civilizzazione attraverso la coltivazione e la valorizzazione della terra.

Ezra Pound è stato probabilmente il maggiore e più profondo cesellatore del ruralismo fascista, che giudicò elemento direttamente proveniente dagli arcaici riti latini legati alla fertilità e ai cicli di natura. La “battaglia del grano”, l’impresa delle bonifiche, la celebrazione del pane quale simbolo di vita santificato dalla fatica quotidiana, non sarebbero stati, per il poeta americano, che altrettanti momenti in cui gli antichi misteri pagani tornavano a parlare al popolo, e sotto la sollecitazione ideologica di un regime che fu allo stesso tempo quanto mai attento alla modernità. E che registrò il passaggio dell’Italia a nazione più industriale che agricola, con un numero di operai che per la prima volta nel 1937 superò quello dei contadini.

Questo doppio registro, tipico del Fascismo, di portare avanti insieme i due comparti, senza deprimerne uno a vantaggio dell’altro, questa simmetrica capacità di operare lo sviluppo industriale e quello agricolo, iniettando la modernizzazione nelle tecniche di coltura ma rinforzando l’attaccamento atavico al suolo, fu la formula adottata da Mussolini per promuovere il progresso senza intaccare – ma anzi rinsaldandolo – il patrimonio immaginale legato alla terra, e per di più abbinandolo ad un reale incremento della capacità produttiva, affidata alla scelta autarchica. Della terra, con costante perseveranza, si celebrò la sacralità, facendo del suolo patrio, quello da cui il popolo ricava la fonte di vita, una vera e propria religione di massa. Questa religione popolare fascista, riscoperta intatta dall’antichità e dotata di moderne applicazioni anti-utilitariste ed anti-speculative, ebbe in Pound un cantore geniale.

La recente uscita del libro di Andrea Colombo Il Dio di Ezra Pound. Cattolicesimo e religioni del mistero (Edizioni Ares) ce ne fornisce un nuovo attestato. In questo agile ma importante lavoro noi riscopriamo tutta la profondità di una concezione del mondo incentrata su ciò che Pound definitiva “economia sacra”. Come già fatto da Caterina Ricciardi nel 1991, nella sua antologia di scritti giornalistici di Pound, anche Colombo sottolinea questa impostazione del poeta che, forte della sua recisa ostilità al mondo liberista del profitto finanziario e nemico giurato dell’usura, vide nella sana e naturale economia fascista un preciso riverbero di ancestrali tendenze sacrali. In una serie di articoli pubblicati sul settimanale “Il Meridiano di Roma” fra il 1939 e il 1943, Pound andò indagando le origini italiche, perlustrandone la vena religiosa relativa ai misteri e ai riti di fertilità. In tal modo, «Roma è Venere, l’antica dea dell’amore che ritorna a restituire il sogno pagano agli uomini», realizzando il contatto vivente fra l’antichità e il presente moderno: «E Mussolini, il Duce della bonifica e della battaglia del grano, diventa per il poeta il riesumatore dell’antica cultura agraria, la religione fondata sul mistero sacro del grano, mistero di fertilità».

Entro questi grandi spazi ideologici di rinascita moderna delle logiche arcaiche, Pound ingaggiò la sua personale lotta contro quel mondo di speculatori, affaristi privi di scrupoli e autentici criminali da lui individuato nei governanti angloamericani, che in nome dell’usura finanziaria e dell’idolatria dell’oro non avevano esitato a scatenare contro i popoli a economia organica la più distruttiva delle guerre. Proveniente per nascita egli stesso dal pericoloso milieu presbiteriano, come Colombo ricorda, Pound ben presto se ne distaccò, avvicinandosi ad una interpretazione del cristianesimo come continuità pagana sotto specie devozionale ai santi locali, alle varie Madonne, alle processioni popolari d’impronta rurale. Convinto – e a ragione – di una netta presenza neoplatonica nella stessa teologia cattolica, Pound finì col considerare la religione di Cristo come una forma neopagana di accettazione del mistero della vita. Egli contestava alla radice la filiazione del cristianesimo dall’ebraismo, affermando che invece ciò che si doveva stabilirne era la continuità con l’ellenismo e con il politeismo in auge nell’Impero romano, al cui interno il cristianesimo poté inserirsi senza traumi particolari, in virtù della sua sostanza di religione dapprima solare, erede del mitraismo, poi anche tellurica, erede delle venerande liturgie agresti.

Pound conobbe gli scritti di Frazer e di Zielinski, allora famosi, ma noi possiamo aggiungere che questa lettura poundiana, tutt’altro che peregrina, ha trovato conferma in molti studiosi di religione anche molto importanti, da Cumont a Wind, da Seznec fino a Wartburg: il cristianesimo, ed ivi compreso talora anche il papato, veicolavano sostanziose dosi di neoplatonismo pagano. L’interesse di Pound per figure come Gemisto Pletone o Sigismondo Malatesta – esemplari del neopaganesimo rinascimentale – furono il lato filosofico di un mondo ammirato profondamente da Pound, quello dell’etica economica medievale e proto-moderna, coi suoi fustigatori dell’interesse e della speculazione: un San Bernardino, ad esempio, che combatté tutta la vita l’usura, in forme anche violente e non meno anticipatrici di certi argomenti moderni.

Pound nel paganesimo, e di nuovo nel cristianesimo francescano (notoriamente di ispirazione neoplatonica), vide l’antefatto di quella guerra aperta alla schiavitù dell’interesse che solo con il Fascismo, e con la sua ideologia corporativa del “giusto prezzo”, divenne movimento mondiale di lotta al disumano profitto liberista. Il prezzo della merce, quando stabilito dalla mano pubblica, dà garanzie di giustizia, è regolato dal potere politico, ha veste legale, è insomma pretium justum; quando invece è affidato al gioco incontrollato degli interessi privati, come accade nelle economie liberiste, fornisce l’evidenza di una guerra belluina fra speculatori, a tutto danno del popolo e del suo lavoro.

Questi concetti Pound li martellò in scritti e discorsi alla radio italiana durante la guerra, e sono massicciamente presenti anche nei Cantos. E questo gli costò, come noto, l’infamia della gabbia e del manicomio, cui lo destinarono i “democratici” vincitori. Questa di Pound fu una battaglia a difesa del lavoro onesto contro la bolgia degli speculatori. A difesa della sacralità dell’economia – che è lavoro del popolo – e contro quanti al denaro attribuiscono un demoniaco potere assoluto.

Pound era in prima fila, non faceva l’intellettuale ben ripagato e ben protetto, magari pronto a cambiare bandiera al primo vento contrario. Propagandava idee, lanciava fulmini e saette contro l’ingiustizia sociale e la speculazione, come un moderno Bernardino da Feltre ci metteva la faccia del predicatore intransigente e la parola infiammata del profeta che vede prossimo l’abisso. La sua condanna dell’usura e dell’usuraio ebbe aspetti di radicalismo medievale in piena guerra mondiale.

Quest’uomo vero fu pronto a pagare di persona, senza mai rinnegare una sola parola. Si esponeva senza remore. E parlava chiaro e forte. Come ad esempio in quella lettera – riportata da Colombo – indirizzata a don Calcagno (il sacerdote eresiarca fondatore di “Crociata Italica” durante la RSI e vicino a Farinacci) nell’ottobre 1944, in cui si scagliò contro la doppiezza vaticana di Pio XII: «Credete che un figlio d’usuraio, venduto e stipendiato, o indebitato agli ebrei sia la persona più adatta a “portare le anime a Cristo”? La Chiesa una volta condannava l’usura».

Ezra Pound non era un sognatore fuori dal mondo, e nemmeno un visionario ingenuo, come hanno cercato di farlo passare certi suoi non richiesti ammiratori antifascisti. Era un perfetto lettore della realtà e un geniale interprete dell’epoca in cui visse. Ebbe chiarissima davanti a sé l’entità della prova che si stava svolgendo con la Seconda guerra mondiale. Comprese come pochi che quella era la lotta decisiva fra l’usuraio e il contadino, e che difficilmente per il vinto ci sarebbe stata una rivincita. Quando la guerra piegò verso il trionfo degli usurai – allorché, come scrisse, «i fasci del littore sono spezzati» – partecipò fino in fondo all’esperienza tragica della Repubblica Sociale, consapevole di vivere, come dice Colombo, «l’età apocalittica della fine».

L’uomo europeo deve molto a Pound. Gli deve una grande passione ideale e una formidabile attrezzatura ideologica, che è grande poesia e a volte anche grande prosa. Proprio mentre l’usura universale sta facendo a pezzi un popolo dietro l’altro, proprio mentre infuria la volontà di scannare i popoli per arricchire piccole oligarchie di speculatori apolidi, quella di Pound appare come una gigantesca opera di profezia e di riscatto.


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mardi, 11 octobre 2011

Julius Evola’s Concept of Race: A Racism of Three Degrees

Julius Evola’s Concept of Race: A Racism of Three Degrees

By Michael Bell

Ex: http://www.toqonline.com/

COP_ORI_005.jpgSince the rise of physical anthropology, the definition of the term “race” has undergone several changes. In 1899, William Z. Ripley stated that, “Race, properly speaking, is responsible only for those peculiarities, mental or bodily, which are transmitted with constancy along the lines of direct physical descent.” 1 In 1916, Madison Grant described it as the “immutability of somatological or bodily characters, with which is closely associated the immutability of physical predispositions and impulses.”2 He was echoed a decade later by German anthropologist Hans F.K. Gunther, who in his Racial Elements of European History said, “A race shows itself in a human group which is marked off from every other human group through its own proper combination of bodily and mental characteristics, and in turn produces only its like.”3 According to the English-born Canadian evolutionary psychologist J. Philippe Rushton:

Each race (or variety) is characterized by a more or less distinct combination of inherited morphological, behavioral, physiological traits . . . Formation of a new race takes place when, over several generations, individuals in one group reproduce more frequently among themselves than they do with individuals in other groups. This process is most apparent when the individuals live in diverse geographic areas and therefore evolve unique, recognizable adaptations (such as skin color) that are advantageous in their specific environments.4

These examples indicate that, within the academic context (where those who still believe in “race” are fighting a losing battle with the hierophants of cultural anthropology), a race is simply a human group with distinct common physical and mental traits that are inherited.

Among white racialists, where race has more than a merely scientific importance, a deeper dimension was added to the concept: that of the spirit. In The Decline of the West, Oswald Spengler set forth the idea of the Apollinian, Faustian, and Magian “soul forms,” which can be understood as spiritual racial types.5 In this highly influential Spenglerian tome Imperium, Francis Parker Yockey elaborated this notion, asserting that while there are genetically related individuals within any particular human group, race itself is spiritual: it is a deeply felt sense of identity connected with a drive to perpetuate not just genes, but a whole way of life. “Race impels toward self-preservation, continuance of the cycle of generations, increase of power.”6 Spiritual race is a drive toward a collective destiny.

The spiritual side of race, however, was never systematically explained to the same extent as the physical. Its existence was, rather, merely suggested and taken for granted. It was only in the writings of the much overlooked Italian Radical Traditionalist and esotericist Julius Evola that the spiritual dimension was finally articulated in detail. One who has studied race from the biological, psychological, and social perspectives should turn to Evola’s writings for a culminating lesson on the subject. Evola’s writings provide a wealth of information that one cannot get elsewhere. Through a careful analysis of ancient literature and myths, along with anthropology, biology, history, and related subjects, Evola has pieced together a comprehensive explanation of the racial spirit.

My purpose here is simply to outline Evola’s doctrine of race. Since Evola’s life and career have been thoroughly examined elsewhere,7 the only biographical fact relevant here is that Evola’s thoughts on race were officially adopted as policy by Mussolini’s Fascist Party in 1942.8

Body and Mind

Evola’s precise definition of “race” is similar to Yockey’s: it is an inner essence that a person must “have”; this will be explained further below. In the meantime, a good starting point is Evola’s understanding of distinct human groups.

Evola agrees with the physical anthropologists that there are distinct groups with common physical traits produced by a common genotype: “the external form . . . which, from birth to birth, derives from the ‘gene’ . . . is called phenotype.”9 He refers to these groups as “races of the body,” and concurs with Gunther that suitable examples include the Nordic, Mediterranean, East Baltic, Orientalid, Negroid, and many others.10

Evola describes the “race of the soul” as the collective mental and behavioral traits of a human stock, and the outward “style” through which these are exhibited. Every race has essentially the same mental predispositions; all human peoples, for example, desire sexual satisfaction from a mate. However, each human stock manifests these inner instincts externally in a different way, and it is this “style,” as Evola terms it, which is the key component of the “race of the soul.”

To illustrate this point, compare the Spartan strategos (Nordic soul) to the Carthaginian shofet (Levantine soul)11: the Spartan considers it heroic to fight hand-to-hand with shield and spear and cowardly to attack from a distance with projectiles, whereas the Carthaginian finds it natural to employ elephants and grand siege equipment to utterly shock and scatter his enemies for an expedient victory.

The names of these races of the soul correspond to those of the body, hence a Nordic soul, a Mediterranean soul, Levantine soul, etc. Evola devotes an entire chapter in Men Among the Ruins to comparing the “Nordic” or “Aryo-Roman” soul to the “Mediterranean.” The Nordic soul is that of “‘the race of active man,’ of the man who feels that the world is presented to him as material for possession and attack.”12 It is the character of the quintessential “strong and silent type”:

Among them we should include self-control, an enlightened boldness, a concise speech and determined and coherent conduct, and a cold dominating attitude, exempt from personalism and vanity . . . The same style is characterized by deliberate actions, without grand gestures; a realism that is not materialism, but rather love for the essential . . . the readiness to unite, as free human beings and without losing one’s identity, in view of a higher goal or for an idea.13

Evola also quotes Helmuth Graf von Moltke (the Elder) on the Nordic ethos: “Talk little, do much, and be more than you appear to be.”14

The Mediterranean soul is the antithesis of the Nordic. This sort of person is a vain, noisy show-off who does things just to be noticed. Such a person might even do great deeds sometimes, but they are not done primarily for their positive value, but merely to draw attention. In addition, the Mediterranean makes sexuality the focal point of his existence.15 The resemblance of this picture to the average narcissistic, sex- and celebrity-obsessed American of today – whether genetically Nordic or Mediterranean – is striking. One need only watch American Idol or browse through the profiles of Myspace.com to see this.

Race of the Spirit

The deepest and therefore most complicated aspect of race for Evola is that of the “spirit.” He defines it as a human stock’s “varying attitude towards the spiritual, supra-human, and divine world, as expressed in the form of speculative systems, myths, and symbols, and the diversity of religious experience itself.”16 In other words, it is the manner in which different peoples interact with the gods as conveyed through their cultures; a “culture” would include rituals, temple architecture, the role of a priesthood (or complete lack thereof), social hierarchy, the status of women, religious symbolism, sexuality, art, etc. This culture, or worldview, is not simply the product of sociological causes, however. It is the product of something innate within a stock, a “meta-biological force, which conditions both the physical and the psychical structures” of its individual members.17

The “meta-biological force” in question has two different forms. The first corresponds to an id or a collective unconscious, a son of group mind-spirit that splinters off into individual spirits and enters a group member’s body upon birth. Evola describes it as “subpersonal” and belonging “to nature and the infernal world.”18 Most ancient peoples, as he explains, depicted this force symbolically in their myths and sagas; examples would include the animal totems of American aborigines, the ka of the Pharaonic Egyptians, or the lares of the Latin peoples. The “infernal” nature of the latter example was emphasized by the fact that the lares were believed to be ruled over by the underground deity named Mania.19 When a person died, this metaphysical element would be absorbed back into the collective from whence it came, only to be recycled into another body, but devoid of a recollection of its former life.

The second form, superior to the first, is one that does not exist in every stock naturally, or in every member of a given stock; it is an otherworldly force that must be drawn into the blood of a people through the practice of certain rites. This action corresponds to the Hindu notion of “realizing the Self,” or experiencing a oneness with the divine source of all existence and order (Brahman). Such a task can only be accomplished by a gifted few, who by making this divine connection undergo an inner transformation. They became aware of immutable principles, in the name of which they go on to forge their ethnic kin into holistic States – microcosmic versions of the transcendental principle of Order itself. Thus, the Brahmins and Kshatriyas of India, the patricians of Rome, and the samurai of Japan had a “race of the spirit,” which is essential to “having race” itself. Others may have the races of body and soul, but race of the spirit is race par excellence.

Transcendence is experienced differently by different ethnic groups. As a result, different understandings of the immutable arise across the world; from these differences emerge several “races of the spirit.” Evola focuses on two in particular. The first is the “telluric spirit” characterized by a deep “connection to the soul.” This race worships the Earth in its various cultural manifestations (Cybele, Gaia, Magna Mater, Ishtar, Inanna, etc.) and a consort of “demons.” Their view of the afterlife is fatalistic: the individual spirit is spawned from the Earth and the returns to the Earth, or to the infernal realm of Mania, upon death, with no possibility.20 Their society is matriarchal, with men often taking the last names of their mothers and familial descent being traced through the mother. In addition, women often serve as high priestesses. The priesthood, in fact, is given preeminence, whereas the aristocratic warrior element is subordinated, if it exists at all.

This race has had representatives in all the lands of Europe, Asia, and Africa that were first populated by pre-Aryans: the Iberians, Etruscans, Pelasgic-Minoans, Phoenicians, the Indus Valley peoples, and all others of Mediterranean, Oriental, and Negroid origin. The invasions of Aryan stock would introduce to these peoples a diametrically opposed racial spirit: the “Solar” or “Olympian” race.

The latter race worships the heavenly god of Order, manifested as Brahman, Ahura-Mazda, Tuisto (the antecedent of Odin), Chronos, Saturn, and the various sun deities from America to Japan. Its method of worship is not the self-prostration and humility practiced by Semites, or the ecstatic orgies of Mediterraneans, but heroic action (for the warriors) and meditative contemplation (for the priests), both of which establish a direct link with the divine. Olympian societies are hierarchical, with a priestly caste at the top, followed by a warrior caste, then a caste of tradesmen, and finally a laboring caste. The ruler himself assumes the dual role of priest and warrior, which demonstrates that the priesthood did not occupy the helm of society as they did among telluric peoples. Finally, the afterlife was not seen as an inescapable dissolution into nothingness, but as one of two potential conclusions of a test. Those who live according to the principles of their caste, without straying totally from the path, and who come to “realize the Self,” experience a oneness with God and enter a heavenly realm that is beyond death. Those who live a worthless, restless existence that places all emphasis on material and physical things, without ever realizing the presence of the divine Self within all life,, undergoes the “second death,”21 or the return to the collective racial mind-spirit mentioned earlier.

The Olympian race has appeared throughout history in the following forms: in America as the Incas; in Europe and Asia as the Indo-European speaking peoples; in Africa as the Egyptians, and in the Far East as the Japanese. Generally, this race of the spirit has been carried by waves of phenotypically Nordic peoples, which will be explained further below.

Racial Genesis

Of considerable importance to Evola’s racial worldview is his explanation of human history. Contrary to the views of most physical anthropologists and archaeologists, and even many intellectual white racialists, humanity did not evolve from a primitive, simian ancestor, and then branch off into different genetic populations. Evolution itself is a fallacy to Evola, who believed it to be rooted in the equally false ideology of progressivism: “We do not believe that man is derived from the ape by evolution. We belive that the ape is derived from man by involution. We agree with De Maistre that savage peoples are not primitive peoples, but rather the degenerating remnants of more ancient races that have disappeared.22

Evola argues in many of his works, like Bal Ganghadar Tilak and Rene Guenon before him, that the Aryan peoples of the world descend from a race that once inhabited the Arctic. In “distant prehistory” this land was the seat of a super-civilization – “super” not for its material attainments, but for its connection to the gods – that has been remembered by various peoples as Hyperborea, Airyana-Vaego, Mount Meru, Tullan, Eden, and other labels; Evola uses the Hellenic rendition “Hyperborea” more than the rest, probably to remain consistent and avoid confusion among his readers. The Hyperboreans themselves, as he explains, were the original bearers of the Olympian racial spirit.

Due to a horrific cataclysm, the primordial seat was destroyed, and the Hyperboreans were forced to migrate. A heavy concentration of refugees ended up at a now lost continent somewhere in the Atlantic, where they established a new civilization that corresponded to the “Atlantis” of Plato and the “Western land” of the Celts and other peoples. History repeated itself, and ultimately this seat was also destroyed, sending forth and Eastward-Westward wave of migrants. As Evola notes, this particular wave “[corresponded[ to Cro-Magnon man, who made his appearance toward the end of the glacial age in the Western part of Europe,"23 thus leading some historical evidence to his account. This "pure Aryan" stock would ultimately become the proto-Nordic race of Europe, which would then locally evolve into the multitude of Nordic stocks who traveled across the world and founded the grandest civilizations, from Incan Peru to Shintoist Japan.

Evola spends less time tracing the genesis of nonwhite peoples, which he consistently refers to as "autochthonous," "bestial," and "Southern" races." In his seminal work Revolt Against the Modern World, he says that the "proto-Mongoloid and Negroid races ... probably represented the last residues of the inhabitants of a second prehistoric continent, now lost, which was located in the South, and which some designated as Lemuria."24 In contrast to the superior Nordic-Olympians, these stocks were telluric worshippers of the Earth and its elemental demons. Semites and other mixed races, Evola asserts, are the products of miscegenation between Atlantean settlers and these Lemurian races. Civilizations such as those of the pre-Hellenes, Mohenjo-Daro, pre-dynastic Egyptians, and Phoenicians, among countless others, were founded by mixed peoples.

Racialism in Practice

Racialist movements from National Socialist Germany to contemporary America have tended to emphasize preserving physical racial types. While phenotypes were important to Evola, his foremost goal for racialism was to safeguard the Olympian racial spirit of European man. It was from this spirit that the greatest Indo-European civilizations received the source of their leadership, the principles around which they centered their lives, and thus the wellspring of their vitality. While de Gobineau, Grant, and Hitler argued that blood purity was the determining factor in the life of a civilization, Evola contended that "Only when a civilization's 'spiritual race' is worn out or broken does its decline set in."25 Any people who manages to maintain a physical racial ideal with no inner spiritual substance is a race of "very beautiful animals destined to work,"26 but not destined to produce a higher civilization.

The importance of phenotypes is described thusly: "The physical from is the instrument, expression, and symbol of the psychic form."27 Evola felt that it would only be possible to discover the desired spiritual type (Olympian) through a systematic examination of physical types. Even to Evola, a Sicilian born, the best place to look in this regard was the "Aryan or Nordic-Aryan body"; as he mentions on several occasions, it was, after all, this race that carried the Olympian Tradition across the world. He called this process of physical selection "racism of the first degree," which was the first of three stages.

Once the proper Nordic phenotype was identified, various "appropriate" tests comprising racism of the second and third degrees would be implemented to determine a person's racial soul and spirit.28 Evola never laid out a specific program for this, but makes allusions in his works to assessments in which a person's political and racial opinions would be taken into account. In his Elements of Racial Education, he asserts that "The one who says yes to racism is one in which race still lives," and that one who has race is intrinsically against democratic ideals. He also likens true racism to the "classical spirit," which is rooted in "exaltation of everything which has form, face, and individuation, as opposed to what is formless, vague, and undifferentiated."29 Keep in mind that for Evola, "having race" is synonymous with having the "Olympian race" of the spirit. Upon discovering a mentality that fits the criteria for soul and spirit, a subsequent education of "appropriate disciplines" would be carried out to ensure that the racial spirit within this person is "maintained and developed." Through such trials, conducted on a wide scale, a nation can determine those people within it who embody the racial ideal and the capacity for leadership.

Protecting and developing the Nordic-Olympians was primary for Evola, but his racialism had other goals. He sought to produce the "unified type," or a person in whom the races of body, soul, and spirit matched one another and worked together harmoniously. For example: "A soul which experiences the world as something before which it takes a stand actively, which regards the world as an object of attack and conquest, should have a face which reflects by determined and daring features this inner experience, a slim, tall, nervous, straight body - an Aryan or Nordic-Aryan body."30

This was because "it is not impossible that physical appearances peculiar to a given race may be accompanied by the psychic traits of a different race."31 To Evola, if people chose mates on the basis of physical features alone, there is a good chance that various mental and spiritual elements would become intermingled and generate a dangerous confusion; there would be Nordics with Semitic mental characteristics and Asiatic spiritual predispositions, Alpines with Nordic proclivities and fatalistic religious attitudes, and so on. Such a mixture was what Evola considered to be a mongrel type, in whom "cosmopolitan myths of equality" become manifested mentally, thus paving the way for the beasts of democracy and communism to permeate the nation and take hold.

Evola cared more about the aristocratic racial type, but he did not want the populace to become a bastardized mass: "We must commit ourselves to the task of applying to the nation as a whole the criteria of coherence and unity, of correspondence between outer and inner elements."32 If the aristocracy had as its subjects a blob of spiritless, internally broken people, the nation would have no hope. For the Fascist state, he promoted an educational campaign to ensure that the peoples of Italy selected their mates appropriately, looking for both appearances and behavior; non-Europeans would of course be excluded entirely. The school system would play its role, as would popular literature and films.33

Another way to develop the "inner race" is through combat. Not combat in the modern sense of pressing a button and instantly obliterating a hundred people, but combat as it unfolds in the trenches and on the battlefield, when it is man against man, as well as man against his inner demons. Evola writes, "the experience of war, and the instincts and currents of deep forces which emerge through such an experience, give the racial sense a right, fecund direction."34 Meanwhile, the comfortable bourgeois lifestyle and its pacifist worldview lead to the crippling of the inner race, which will ultimately become extinguished if external damage is thenceforth inflicted (via intermixing with inferior elements).

Conclusion

American racialists have much to gain from an introduction to Evola's thoughts on race. In the American context, racialism is virtually devoid of any higher, spiritual element; many racialists even take pride in this. There are, without a doubt, many racialists who consider themselves devout Catholics or Protestants, and they may even be so. However, the reality of race as a spiritual phenomenon is given little attention, if any at all. For whatever reason, American racialists are convinced that the greatness of Western civilization, evinced by its literature, architecture, discoveries, inventions, conquests, empires, political treatises, economic achievements, and the like, like solely in the mental characteristics of its people. For instance, the Romans erected the coliseum, the English invented capitalism, and the Greeks developed the Pythagorean theorem simply because they all had high IQs. When one compares the achievements of different Western peoples, and those of the West to the East, however, this explanation appears inadequate.

Intelligence alone cannot explain the different styles that are conveyed through the culture forms of different peoples; the Greeks' Corinthian order on the one hand, and the Arabs' mosques and minarets on the other, are not results of mere intellect. Sociological explanations do not work either; the Egyptians and Mayans lived in vastly different environments, yet both evoked their style through pyramids and hieroglyphs. The only explanation of these phenomena is that there is something deeper within a folk, something deeper and more powerful than bodily structures and mental predispositions. As Evola elucidates through his multitude of works - themselves the result of intense study of ancient and modern texts from every discipline imaginable - race has a "super-biological" aspect: a spiritual force. Ancient peoples understood this reality and conveyed it through their myths: the Romans used the lares; the Mayans used totemic animal symbols; the Persians used the fravashi, which were synonymous with the Nordic valkyries;35 the Egyptians used the ka; and the Hindus in the Bhagavad-Gita used Lord Krishna.

To better understand the spiritual side of race, the best place to look is Julius Evola. Through his works, which have greatly influenced the European New Right, Evola dissects and examines the concept of the Volksgeist, or racial spirit. It is the supernatural force that animates the bodies of a given race and stimulates the wiring in their brains. It is the substance from which cultures arise, and from which an aristocracy materializes to raise those cultures to higher civilizations. Without it, a race is simply a tribe of automatons that feed and copulate.

When the super biological element that is the center and the measure of true virility is lost, people can call themselves men, but in reality they are just eunuchs and their paternity simply reflects the quality of animals who, blinded by instinct, procreate randomly other animals, who in turn are mere vestiges of existence.36

Nowhere would Evola's racial ideas be more valuable than in the United States, a land in which the idea of transcendent realities is mocked, if not violently attacked. Even American racialists, who nostalgically look back to "better" times when people were more "traditional," are completely unaware of how the Aryan Tradition, in its purest form, understand the concept of race. Many of these people claim to be "Aryan" while simultaneously calling themselves "atheist" or "agnostic," although in ancient societies, one needed to practice the necessary religious rites and undergo certain trials before having the right to style oneself an Aryan. Hence the need for these "atheist Aryans" to become more familiar with Julius Evola.

Michael Bell writes about race and popular culture from a Radical Traditionalist point of view.

________________________________

[1] William Z. Ripley, The Races of Europe: A Sociological Study (New York: D. Appleton and Co., 1899), 1.
[2] Madison Grant, The Passing of the Great Race (North Stratford, NHL Ayer Company Publishers, Inc., 2000), xix.
[3] H.F.K. Gunther, The Racial Elements of European History, trans. G.C. Wheeler (Uckfield, Sussex, UK: Historical Review Press, 2007), 9.
[4] Philippe Rushton, “Statement on Race as a Biological Concept,” November 4, 1996, http://www.nationalistlibrary.com/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=1354.
[5] Oswald Spengler, The Decline of the West, 2 vols, trans. Charles Francis Atkinson (New York: Knopf, 1926 & 1928), vol. 1, chs. 6 and 9; cf. vol. 2, ch. 5, “Cities and Peoples. (B) Peoples, races, Tongues.”
[6] Francis Parker Yockey, Imperium (Newport Beach, Cal.: Noontide Press, 2000), 293.
[7] See the Introduction to Julius Evola, Men Among the Ruins, trans. Guido Stucco, (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 2002).
[8] Evola, Men Among the Ruins, 48.
[9] Julius Evola, The Elements of Racial Education, trans. Thompkins and Cariou (Thompkins & Cariou, 2005), 11.
[10] Evola, Elements of a Racial Education, 34-35.
[11] For more on the Levantine “race of the soul” see Elements of Racial Education, 35.
[12] Evola, Elements of Racial Education, 35.
[13] Evola, Men Among the Ruins, 259.
[14] Evola, Men Among the Ruins, 262.
[15] Evola, Men Among the Ruins, 260. Evola’s descriptions of Nordic and Mediterranean proclivities show the strong influence of Gunthers’s The Racial Elements of European History.
[16] Evola, Elements of Racial Education, 29.
[17] Julius Evola, Metaphysics of War: Battle, Victory, & Death in the World of Tradition, ed. John Morgan and Patrick Boch (Aarhus, Denmark: Integral Tradition Publishing, 2007), 63.
[18] Julius Evola, Revolt Against the Modern World, trans. Guido Stucco (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1995), 48.
[19] Evola, Revolt Against the Modern World, 48.
[20] Evola, Elements of Racial Education, 40.
[21] Evola, Revolt Against the Modern World, 48.
[22] Julius Evola, Eros and the Mysteries of Love, trans. anonymous (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1991, 9.
[23] Evola, Revolt Against the Modern World, 195.
[24] Evola, Revolt Against the Modern World, 197.
[25] Evola, Revolt Against the Modern World, 58.
[26] Evola, Revolt Against the Modern World, 170.
[27] Evola, Elements of Racial Education, 30.
[28] Julius Evola, “Race as a Builder of Leaders,” trans. Thompkins and Cariou, http://thompkins_cariou.tripod.com/id7.html.
[29] Evola, The Elements of Racial Education, 14, 15.
[30] Evola, The Elements of Racial Education, 31.
[31] Evola, “Race as a Builder of Leaders.”
[32] Evola, Elements of Racial Education, 33.
[33] Evola, Elements of Racial Education, 25.
[34] Evola, Metaphysics of War, 69
[35] Evola, Metaphysics of War, 34.
[36] Evola, Revolt Against the Modern World, 170.

lundi, 03 octobre 2011

Il neopaganesimo di Otto Rahn

Il neopaganesimo di Otto Rahn

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Otto Rahn (Michelstadt, 18 febbraio 1904 – Söll, 13 marzo 1939)

Otto Rahn (Michelstadt, 18 febbraio 1904 – Söll, 13 marzo 1939)

Il caso di Otto Rahn è ormai noto: è la storia di un giovane romantico, che insegue un sogno. Un giorno entra in contatto con un potere sensibile al mito – il Terzo Reich -, che lo lancia e lo valorizza: ciò che presto lo porta a credersi una specie di nuovo cavaliere templare. Il mito del Graal, quello di una società di puri e di idealisti, di un regno dello spirito, popolava il suo immaginario. Certo del legame storico tra l’eresia dei Catari e la poesia dei trovatori medievali, l’una è l’altra viste come sopravvivenza pagana sotto la scorza del cristianesimo ufficiale, Rahn si convinse che il fulcro di questa cultura si fosse trovato un tempo nel castello provenzale di Montségur, alle pendici dei Pirenei. Proprio il luogo dove, nel 1244, avvenne il finale sterminio dei Catari da parte della Chiesa. In questa zona, intorno al 1929, Rahn svolse ricerce, percorse grotte e camminamenti, rintracciò graffiti e interpretò simboli arcani. Alla fine raccolse il tutto e scrisse il celebre libro Crociata contro il Graal, pubblicato nel 1933. L’incontro fatale con Himmler, anch’egli interessato alla storia delle eresie e all’universo dei simboli pre-cristiani, il pronto arruolamento e la rapida ascesa nelle SS, portarono però Rahn a inciampare nel suo piccolo-grande segreto. Sembra infatti che una mal vissuta omosessualità sia stata all’origine delle sue dimissioni dall’Ordine Nero nel 1938 e infine del suo suicidio, avvenuto per congelamento tra le montagne del Tirolo, nel marzo del 1939. Rahn rimase vittima di un trauma, per esser stato coinvolto in un piccolo scandalo omoerotico? Non resse il clima ideologico delle SS? Venne forse spinto a quel gesto? O ci arrivò da solo, per evitare l’isolamento sociale e magari la persecuzione?

A queste domande cerca di fornire riposta un testo molto buono, da poco tradotto in italiano dalle Edizioni Settimo Sigillo: Otto Rahn e la ricerca del Graal. Biografia e fonti, di Hans-Jürgen Lange. Diciamo subito che questo libro, a differenza di altri usciti anni fa sul medesimo argomento, si segnala per serietà e credibilità storiografica. Una volta tanto, la materia viene lavorata non dal dilettante, ma dallo studioso. E a parlare non sono le sparate a sensazione, ma i documenti. Lange infatti dedica un’intera sezione del suo libro all’interessante e in gran parte inedita documentazione rinvenuta in vari archivi tedeschi. Eloquente quella relativa alla corrispondenza tra Rahn e lo scrittore Albert Rausch prima del 1933, in cui, insieme alla passione per il santo Graal, traspaiono chiari cenni all’omosessualità del giovane intellettuale. Inoltre, viene presentato al lettore italiano un corpus di lettere, appunti, lavori radiofonici, comunicazioni di Rahn con lo studioso Antonin Gadal, con le SS, con Himmler in persona e con Wiligut, il bizzarro collaboratore austriaco del Reichsführer in materia di esoterismo.

L’idea centrale da cui Rahn era tutto pervaso sin giovane era che l’eresia catara fosse un giacimento culturale risalente all’epoca pagana e che nella sua teologia nascondesse rimandi ai saperi sacrali pre-cristiani. Questo assunto, per la verità, è stato da tempo smentito in sede storica e lo stesso Lange non mostra di tenerlo in gran conto. Il catarismo era un’eresia manichea tutta incentrata sul rifiuto del mondo, sul disprezzo del corpo, sulla negazione della fertilità del matrimonio: una teologia cupa, che metteva l’uomo nella disperante condizione di vivere la vita con un senso di ostilità, solo aspirando alla morte liberatrice, ricercata volontariamente nel suicidio rituale chiamato endura. Come si vede, si tratta dell’esatto contrario dell’antico paganesimo, sia il greco-romano che il nordico, che al contrario attribuiva alla bellezza del corpo, alla vita, alla figura umana e alla discendenza nobilitazioni di sacra potenza. Tuttavia, qualcosa di pagano certamente filtrò presso quegli eretici: la loro quasi sicura provenienza orientale – identificata con il “bogomilismo” – unitamente a tratti di neo-platonismo, si intrecciava alla concezione manichea di una costante lotta cosmica tra i principi luminosi del bene e quelli tenebrosi del male. E di queste speculazioni era ricolma l’antica mitologia europea. Tutto preso dall’idea di essere stato eletto dal destino per portare al mondo la sua rivelazione, Rahn si diceva un predestinato. E dall’aver frequentato da ragazzo la zona di Ketzerbach (il “torrente dei Catari”) nei pressi di Marburgo, egli traeva sicuri indizi della sua missione: doveva rivelare ciò che la Chiesa aveva occultato, cioè il legame tra i catari e il paganesimo e quello tra gli eretici e i poeti trovatori del medioevo.

Rahn vedeva in Wolfram von Eschenbach, il famoso poeta cortese autore del Parzival, il terminale di una tradizione che si sarebbe tramandata dai Catari sino in Germania, diventando il patrimonio della cultura europea duecentesca, incentrata sull’asse provenzale-germanico. La stessa etimologia di Wolfram – argomentava Rahn – rimandava a quella di Trencavel, nome di una nobile famiglia della Linguadoca. Attraverso questi sottili legami, insomma, sarebbe avvenuto quel transfert culturale che aveva costruito nel cuore dell’Europa cristiana un’enclave neopagana, alla fine distrutta dalla crociata albigese guidata dalla Chiesa. Non è tanto l’entrare nel merito della questione, che qui ci interessa. La stessa nascita della poesia italiana in Sicilia e in Toscana, del resto, è stata da più parti giudicata come il frutto di legami europei che avevano al loro centro la Provenza, i suoi miti cavallereschi, il perdurare di tradizioni pagane sub specie cristiana. Ciò che interessa è invece verificare che la figura storica di quel singolare ricercatore che fu Rahn ha un suo spessore. Troppo spesso affidato a ricostruzioni improvvisate, infatti, Rahn si presenta come un intellettuale impegnato nella lotta per l’identità europea, ricco di spunti e non di rado affascinante. La sua è piuttosto una metastoria, una cripto-teologia, e non importa molto che venga o meno confermata dai fatti. Egli si muove nell’ambito della cerca mitica. E il mito ha bisogno di un alone di mistero. Lo sforzo di Rahn era quello di uscire dal dogma e di agitare un mito europeo. Di qui la sua rielaborazione della figura di Lucifero, l’angelo caduto, rivalutato ad annunciatore di un mondo buono fatto di luce: «Che cos’è Graal? Graal è la terra della luce, della purezza. Graal è il sogno più profondo dell’anima umana, che dalle angustie terrene aspira alla perfezione immacolata», scrive Lange.

E lo stesso Lange ricorda come, secondo Rahn, il Graal non fosse una coppa, ma piuttosto la pietra lucente che Lucifero recava sulla fronte, simbolo di purezza, di una ricerca che in antico si era espressa con l’immagine del Vello d’oro: qualcosa che solo a pochi eletti toccava in sorte di raggiungere. Rahn sosteneva che fu il trovatore Guiot di Provins a passare a Wolfram il tema di Parzival e quindi a dare vita a questo complesso poetico che sfuggiva alla teologia cristiana, presentandosi come un sapere alternativo. Un sapere arcaicissimo. Lange scrive assai bene che l’origine iranica della saga di Parsifal, intuita da Rahn, è stata recentemente comprovata dagli studiosi: ecco che dunque un concatenamento con il catarismo diverrebbe più credibile, dato che anche a quest’ultimo si danno origini legate all’Oriente. Rahn lavorava dunque su materiali mitici, ma non irrealistici. Tanto bastò per far drizzare le antenne a Himmler, avido di qualunque cosa richiamasse l’idea di “purezza” e di “elezione”, e che come capo delle SS andava setacciando ovunque nel mondo ogni sorta di tradizione arcaica, per vedere se non celasse tracce di antica sapienza ariana. Il contatto fu presto stabilito. Nel marzo del 1936 Rahn viene arruolato nelle SS col grado di Unterscharführer e subito entra nell’entourage di Himmler, per il quale compie ricerche genealogiche. È da notare che Rahn, che oggi spesso viene presentato come “nazista per caso” o peggio niente affatto nazista, ci tenne a far sapere che, quando era in Francia negli anni Venti, aveva compiuto studi che andavano nel senso dell’ideologia nazionalsocialista, prima ancora di sapere che la NSDAP esistesse: presentava se stesso come un precursore. Rahn era amico di Hans Peter des Coudres, curatore della biblioteca del “santuario” nazista di Wewelsburg, era in rapporti stretti con Kurt Eggers, editorialista dello “Schwarze Korps”, la rivista ufficiale delle SS, riceveva favorevoli recensioni da parte di Hermann Keyserling, famoso intellettuale vicino al regime, lavorava fianco a fianco con Wiligut, lo studioso di runologia e ideologo radicale dell’esoterismo nordicista, e alla fine venne promosso a Untersturmführer. Si può dire dunque che fosse perfettamente inserito nel sistema ideologico e di potere del Terzo Reich. Nel 1937 venne degradato per una storia tra omosessuali e temporaneamente spedito a Dachau per “rieducarsi”: doveva semplicemente addestrare le reclute. Presto reintegrato nei ranghi, Rahn entrò in una spirale psicotica. Cominciò a riempirsi di paure e di dubbi, gli cedettero i nervi: «egli stesso sapeva di non essere adeguato alle alte esigenze morali di questo Ordine a causa della sua omosessualità», commenta Lange. Chiese e ottenne le dimissioni dalle SS nel febbraio 1939, e nel marzo fu trovato morto tra i monti tirolesi. Ma nella sua biografia rimangono zone grigie. Non sappiamo veramente come andò il finale.

Ciò che viene chiarito è invece il forte attaccamento di Rahn per il mondo delle SS, in cui vedeva una specie di Ordine neo-medievale che gli appariva ideale per assecondare il suo disegno ideologico. La riedizione del suo libro del 1937 La corte di Lucifero – una sorta di viaggio europeo alla ricerca di testimonianze pagane – venne sollecitata dalle SS ancora nel 1943 in quanto testo ideologicamente importante ed ebbe vasto successo negli ambienti del radicalismo nordicista. E il suo suicidio venne celebrato dalle SS come un esempio di fedeltà nibelungica al senso germanico dell’onore. Lo stesso Karl Wolff, braccio destro di Himmler, vergò l’annuncio mortuario. Lange riporta che qualcuno ha testimoniato, molti anni dopo, che a Rahn fu lasciata la decisione tra il suicidio con onore e il campo di concentramento. Può essere. Pare però discutibile che il regime si volesse sbarazzare di un valido intellettuale ben allineato, solo per una piccola storia omosessuale, facilmente tacitabile. A certi livelli, si sa, le cose si accomodano. Non sarebbe stata la prima volta. Fu lo stesso Ordine Nero a dare disposizione che non si parlasse più delle debolezze di Rahn, ma solo del suo valore di studioso… Per altro, crediamo che le SS avessero i mezzi per mettere a tacere lo scandalo, se mai scandalo ci fu. Probabilmente, si è più vicini al vero se si ipotizza un crollo caratteriale: Rahn era un emotivo, forse – almeno da quanto si legge nella sua corrispondenza – anche un po’ immaturo e insicuro… un carattere diciamo non proprio adattissimo a stare nei ranghi delle SS. Alle quali teneva molto. Lo scrisse lui stesso direttamente a Himmler nel 1937: «Farò di tutto, nello svolgimento dei miei doveri in modo impeccabile… per riscattare, almeno in parte, il mio comportamento lesivo dell’onore delle SS…». Questa frase è una spia: sarà stato proprio la delusione inferta a se stesso e all’Ordine Nero a farlo crollare. E dunque possiamo dirlo: Rahn cercò la morte perchè dovette sentirsi colpevole di aver macchiato la purezza del santo Graal.

* * *

Tratto da Linea del 25 ottobre 2009.

vendredi, 30 septembre 2011

Wulf Grimsson’s Loki’s Way

A Band Apart:
Wulf Grimsson’s Loki’s Way

By James J. O'Meara

ex: http://www.counter-currents.com/

 

Wulf Grimsson
Loki’s Way: The Path of the Sorcerer in the Age of Iron [2]
Second Edition
Lulu.com, 2011

A few weeks ago I was privileged to receive this unsolicited manuscript, “the result of over 30 years of research, study and practice,” by Wulf Grimsson. I’ve been trying to read, and then review, the contents ever since, but found it difficult. Not because of the writing — Wulf is admirably clear and free of both “scholarly” stodginess and “occult” rigmarole — but precisely because of its dense content of interesting and important ideas. Almost every page gives one something to think about, a source to look up and perhaps reconsider, a inspiration to a new connection made for one’s self.

Why I should have been selected for this privilege is plain from the contents. Loki’s Way covers the whole range of topics we’ve explored on this blog, outside of the more pedestrian political and economic ones, from the Männerbund to mystery traditions to runes, from Nietzsche to Evola to Colin Wilson. I am above all grateful for Wulf’s freeing me from the mild guilt I have felt about all the topics I haven’t done to adequate length, as well as my regret that the late Alisdair Clarke did not live to produce a similar treatise from his path breaking blog, Aryan Futurism [3]. Constant Readers of this blog will find Loki’s Way to be essential reading.

But first let Wulf define his subject:

Loki’s Way is an adaptation of the Left Hand Path or sorcery for the Kali Yuga. This tradition has taken many forms throughout the centuries, in the modern age it must be updated to deal with new discoveries in science and psychology. [62]

The last part there also brings up another reason I’ve had trouble writing about this book. I have grave reservations about much of the material in the first third, and thus, as Wulf expresses it here, in a sense his whole project. I would prefer that he take Guénon’s advice and forget about “reconciling” science and Tradition and especially “updating“ the latter by the former. Not only should the process be reversed, judging Science by the timeless principles of Tradition, but the process is necessarily unending, as Science by contrast is the realm of the amorphous and ever-changing, requiring the “synthesis” (really, as Guénon would point out, syncretism) to be redone over and over — although I’m sure the publishers appreciate that!

In particular, I think that Wulf’s claim that “the esoteric is the physiological,” i.e. the “discovery” that what esoteric Tradition has been talking about in guarded language can “now be revealed” (as the New Age publishers would shout) as being techniques for manipulating the endocrine and other bodily systems, is really just a misreading of what Evola among others has described as the starting point that remains when all dogmas and theories have been tested and abandoned, in the alchemical abyss:

But then the individual finds himself confronting his body, which is the fundamental nexus of all the conditions of his state. The consideration of the connection between the ego principle in its double form of thought and deed and corporeality . . . and the transformation of said connection by means of well-defined, practical, and necessary acts, even though they are essentially interior, constitutes the essential core of the Royal Art of the hermetic masters.

Evola adds:

The latter will be directed first of all to the conquest of the principle of immortality, and then to the total stable nature, no longer transitory or deteriorating . . . by which the human manifestation is established within the realm of becoming. (The Hermetic Tradition, pp. 98-99)

Immortality! Yes, indeed:

Loki’s Way gives us the opportunity for individual immortality. It means using the very structures that are in place to satisfy the replicators and which sustain collective immortality for our own benefit. We are literally making a u-turn; the very things that sustain the immortality of the collective must be used against the norm to achieve a permanent, discrete and individual self.

This, of course, is extremely difficult and confronting and accordingly the path to immortality is one that only a few will attempt and less will achieve. It is hard to conceptualize just how radical such a process must be. The best way is to seriously consider that absolutely everything you believe, feel and think could be wrong. Your tastes, choices, preferences, likes and dislikes are all conditioned. Nothing about your life is authentically real. It is as though you were conditioned as a government agent and everything you believe to be true about yourself, your life, your career even your family is simply brainwashing. The truth about the human condition is really that terrifying. Most will find such a scenario so frightening and so personally confronting that it is easier to look away and find fault with this book than to wake up and smell the coffee. (p. 58)

What Evola calls alchemy or The Royal Art Wulf calls . . . sorcery:

What is sorcery? Sorcery is a means by which an individual is able to wretch control of the evolutionary processes to become individually aware and immortal. He or she becomes a discrete, isolate intelligence which exists beyond the confines of the collective processes of eternal re-occurrence. . . . Within Loki’s Way this change is the transformation of human to post human through the focusing of the Will. (p. 61)

The bit about the Will reminds us that Evola was compelled to treat Crowley with some respect, despite his deplorable life and personality, as someone who Knew Things. Wulf goes Evola one better and brings in Crowley explicitly.

Another thing he brings in explicitly, and much to my heart, is the Männerbund, which Evola only relatively briefly discusses. Wulf connects the dots between the historical Männerbund and the esoteric path to individual immortality followed by the elite — in contrast to the common fate in store for the followers of the Vedic “path of the fathers,” Evola’s realm of society beneath the State, my own contrast of Family Values and Wild Boys. For Wulf it’s replicators versus Sorcerers.

The Männerbund or Warrior Band is the origin of the esoteric path, because the latter is, au fond, a battle; which Wulf explains, typically, in equal parts Sufism and Dawkins:

Memetic eugenics is the process whereby we weed out unworthy memes and replace them with memes which will help us evolve. This is what Loki’s Way is all about. We dissolve conditioning and replace it with memes which are conducive to our own process of godmaking. This book is a meme, bringing esoteric traditions in line with science and hopefully awakening the small number of people with the potential to become more than what they are.

Sorcery is found in many ancient traditions. In the Norse we can see that the warrior ethic was an expression of the battle against the flawed aspects of the emotions and psyche to achieve a true Self which would enter Valhalla. The berserker or warrior is a great “type” of the seeker for the Overman. An even more intriguing example is in Sufism where the concept of Jihad is interpreted in a unique way. The outer form of Jihad is a just war but the inner form of Jihad, the more significant, is against the false and flawed aspects of the personality. This model of the internal battle where we wage a sacred war against genes, memes and frames to achieve a Self is an expressive and poetic way to represent our sacred quest. (p. 66)

So, paradoxically, only the Warrior Band, the Group, can provide the context for true individuation:

This is one of the reasons cell, unit or Männerbund work is so significant, it keeps you grounded and stops the fragments of the ego from influencing your worldview. A good group of fellow working sorcerers can bring you to earth quicksmart! (p. 95)

This warrior elite, devoted to realizing a higher principle, is the origin of the Traditional Aryan State, which is oriented to a transcendent principle, in contrast to the common herd and its promiscuous “wants” and “needs” (think: peasant frivolity vs. the Templars) and thus also the social stratification characteristic of Aryan society (p. 72):

The sorcerer and warrior both have the potential to become Overman via different means or by combining paths. Loki’s Way is the modern equivalent of [Georges Dumézil‘s] first function combined with a warrior ethic. It can be applied via the mode of the lone wolf, with a blood brother or in a Männerbund. The teaching level of the sorcerer and warrior is esoteric and left hand path. (p. 74)

At this point, the story takes a turn that may give the average reader a turn himself, but not our Constant Readers:

As organic and social memes are dissolved new forms of sexuality and emotional bonding needs to be created. Every man has androphilic potential, it just has to be activated and directed. Since the transition to the Overman is unnatural and works against the normal evolutionary process which favours reproduction then the focus must be on same-sex bonding. (p. 112)

I am not suggesting that every screaming queen or muscle-mary is a spiritual warrior or engaged in Platonic love. I am suggesting that to cultivate a unique form of androphile friendship based on esoteric ideas is the highest form of relationship and for the Overman naught else will do. (p. 109)

Which leads to chapters discussing both historical traditions from India to the Norsemen, and modern theorists from Edward Carpenter to Hans Blüher to Jack Malebranche. Especially important are his careful dissection of the various “models” of homosexuality that have gone into creating the modern notions of “homosexual” and “gay,” and analyzing their usefulness for the Left Hand Path.

The [Uranian] model was popularised by both Ulrichs and Hirschfeld and ultimately proves wanting. It confuses intersex and transgenderism with homosexuality. While this is not surprising due to the early period of their work it is still a view popular today. It seems an ongoing slur in a culture which devalues women and sees them as “less than men” to associate men who take the passive sexual role as female. It could be argued that this identification has its roots in misogyny and was later fed by Judeo Christian thinking. Many also believe that the idea of seeing a homosexual as a woman in a man’s body led to the medicalization of homosexuality which continued right through to the 1960s.

The Intermediate Sex model [Carpenter] is significant as the shaman, priest and androphile warrior existing outside the normal structures of the society. At the same time I think we need to be careful using the term third or intermediate sex as it infers a state which is not quite one or the other, rather than as one which is both. The masculinist model of Brand and others (it is also found represented in the work of Jack Malebranche today, Androphilia) is appealing and certainly relevant.

Personally I we think we need to develop a new model for our sexuality hence terms like Androphilia and the Männerbund need to be understood in a new way. This is especially significant since we are talking about same-sex relations in terms of a unique goal not as an everyday preference. For the Männerbund androphilia is a special form of “sacred” bond which is expressed between warriors; it is also initiatory.

All comrades have a male and female side and clearly since they are working to transcend human restrictions would have no problems exploring passive or active sex roles. The genders within us, so to speak, represent a great source of power and we may use cross dressing or passive techniques for Seidr work but also have no issue with being warriors for Galdr (active runic sorcery) or even in battle. (p. 129)

I think Wulf is on to something important here. All of the existing ‘scientific’ and especially “historical” models seem skewed against the correct understanding of the telos of esotericism being to transcend by uniting male and female, active and passive, etc.

[P]rohibitions against same-sex relations hence the fear of homosexuality comes from an alien desert religion and has little to do with our traditions. . . . Many of these same phobias were passed down into Christianity and Islam. Many traditions had a very different attitude to same-sex relations prior to their infection by Christianity. Japanese Buddhism had a strong homoerotic element as did the Samurai, it was only Christian missionaries that did away with such traditions. Sadly many of the Eddic references to same-sex relations are negative but that is to be expected considering they have come down through the hands of Christian scribes! (p. 219)

One could add here Daniélou’s similar comments on the importation of Victorian and modernist prejudices into Hinduism, as we have frequently quoted on our own blog.

A careful reading of Guénon would lead one to infer that all “Traditions” are products of the Kali Yuga, early, to be sure, but still of the Dark Age. Therefore one might well find some misunderstandings of the wisdom that was being recompiled after the chaos of the last cyclical turn. Combined with the necessarily elite and secret nature of the esoteric path, it should be no surprise that there should be no adequate understanding of male bonding publicly available even in Traditional sources. Here, at least, we find ourselves agreeing with Wulf’s project to “make anew” Tradition.

Each form of the modern world represents a degeneration of the Perennial Tradition . . . (p. 168)

And quoting Crowley:

Behold! the rituals of the old time are black. Let the evil ones be cast away; let the good ones be purged by the prophet! Then shall this Knowledge go aright. — Liber AL vel Legis II:5

In this verse we are given clear instructions about how to deal with the old schools of magic, esotericism and their formulae. The “old time” are the Older Aeons. These rituals are black, that is they should not be used until reassessed by New Aeon formula. Since most are based on the sacrificial image of the Dying God they must be purified and cleansed.

Those which cannot be changed will be disposed of, those that can be purified can be adapted. As discussed throughout this book, Traditional forms of spirituality must be radically re-examined both in terms of Loki’s Way. Old age fertility rites must be cast away, let the blood brotherhood of Set and Horus Reign!

A close reading of the passages in Evola’s Hermetic Tradition mentioning ‘androgyne’ would show that the process involves the male becoming and then dominating, becoming so as to dominate, the feminine energies, a process he gives the provocative name “philosophical incest.”

Also useful would be a reading of the essay from UR, “Serpentine Wisdom” reprinted in his Introduction to Magic in which Evola, under a pseudonym, mocks those with a “muscle-bound” understanding of power, and advising them to take on the “power of the feminine” (yes, Evola!).

Later chapters feature a fascinating discussion, new to me, of occult warfare via Aeonic Magick and Time Sorcery and the attempts of Evola, Crowley, and even H. P. Lovecraft to tap into eternal principles in order to literally re-create the conditions of the primordial state in our modern age.

The reader may find himself feeling a bit overwhelmed with all this somewhat theoretical discussion. The last third of the book balances this out with several chapters of “Sorcery in Practice,” the “many forms of sorcery and many models for recognizing the associations between our own inner world and that which is beyond” (p. 205) ranging from runes to sexual sorcery.

The reader must have realized by now that no mere blog review could do justice to the contents of this rich and important book. I hope they will have also realized that the solution is to get their hands on this book for themselves. It is essential reading for those in the modern world who would “decide whether to be a nithing or coward or nothing, a member of the herd or crowd or a hero, a warrior, a comrade of the Männerbund” (p. 240).

Source: http://jamesjomeara.blogspot.com/ [4]


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/09/a-band-apart/

mercredi, 28 septembre 2011

Absolute Woman: A Clarification of Evola’s Thoughts on Women

Absolute Woman:
A Clarification of Evola’s Thoughts on Women

By Amanda BRADLEY

Ex: http://www.counter-currents.com/

evola08.jpgOne of the central concepts of Julius Evola’s philosophy of gender is the distinction between absolute man and absolute woman. But he seldom gives explicit definitions of these terms. Absolute man and woman can be likened to Platonic Forms, thus defining them can be as difficult as defining Justice, Truth, or Love.

The term “absolute woman” inspires more controversy than “absolute man.” Since the male principle is associated with light, goodness, and activity, whereas the female principle is associated with darkness, evil, and passivity, feminists can easily claim that Evola’s views are inherently misogynist. Another point of controversy is Otto Weininger’s influence on Evola. Evola himself admits that Weininger must be read critically due to “his unconscious misogynous complex” (Julius Evola, Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex [Rochester, Vermont.: Inner Traditions, 1991], 157–58).

It is important to address Evola’s writings on women so that his views are correctly understood. Since he was opposed to the emerging feminism of his day, it would be easy for those unfamiliar with his ideas to infer that Evola also was anti-woman. By explaining his views and not glossing over any points that do in fact sound misogynistic (as is the case with some Evola devotees) the New Right can set the terms of discourse and accurately elucidate his position.

Evola on the Composition of Human Beings

The simplest definition of “absolute woman” is the female principle, the feminine force of the universe. Individual men and woman have varying degrees of the absolute man and woman, although the feminine principle usually is the underlying force in women.

In the modern world (the Kali Yuga) these forces appear in more degenerate forms and also do not always manifest properly. In fact, Evola said that “cases of full sexual development are seldom found. Almost every man bears some traces of femininity and every woman residues of masculinity . . . the traits that we deemed typical for the female psyche can be found in man as well as women, particularly in regressive phases of a civilization” (Eros, 169). In addition, these “manifest differently depending on the race and type of civilization” (Eros, 168).

To understand the influence of the “absolute woman,” it is first necessary to understand Evola’s conception of the human being. He held that humans are comprised of three parts:

  1. the outer individual (the personality, or ego).
  2. the level of profound being, the site of the principium individuationis. This is the true “face” of a person as opposed to the mask of the ego.
  3. the level of elementary forces that are “superior and prior to the individuation but acting as the ultimate seat of the individual.” (Eros, 36)

It is at the third level, that of elementary forces, where sexual attraction is aroused (Eros, 36). Thus it is here that the elementary forces that comprise the absolute man or woman are located. This matches Evola’s description of some modern women, who are able to develop “masculine” skills such as logic or intellectualism. He says they have done so “by way of a layer placed on top of [their] deepest nature” (Eros, 151–52). However, they have not succeeded in altering their fundamental nature, only their superficial personalities.

A Metaphysical Starting-Point for Male and Female

According to Traditional doctrines, the sexes were metaphysical forces before they manifested in the world. Absolute man and woman exist from the beginning of time, when the Universal One splits into a Dyad, which then causes the rest of creation. In most forms of Hinduism, Shiva, the male principle, is identified with pure Being. Shakti, the female principle, is identified with Becoming and Change. In a similar vein, Aristotle associated the male principle with form and the female with matter. According to Evola, form means “the power that determines and arouses the principle of motion, development, becoming” while matter means “the substance or power that, being devoid of form in itself, can take up any form, and which in itself is nothing but can become everything when it has been awakened and fecundated” (Eros, 118). In the Far Eastern tradition, yang (the male principle) is associates with heaven, while yin (the female principle) is associated with the earth (Julius Evola, Revolt Against the Modern World, trans. Guido Stucco [Rochester, Vermont: Inner Traditions: 1995], 157.).Thus, form and matter combined to create the manifested universe. And from the coitus of Shiva and Shakti “springs the world” (Eros, 122). (This is in contrast to Oswald Spengler, who believed that becoming was the essential element, rather than steadfast being.)

The male principle is associated with truth, light, the Sun, virility, activeness, and stability. Sometimes it is associated with the Universal One that existed before the Dyad. The female quality is associated with deception, changeability, the moon, the earth, darkness, wetness, passivity, and dependence on another. In Evola’s words:

What the Greeks called “heterity,” that is, being connected to another or being centered on someone other than oneself, is a characteristic proper to the cosmic female, whereas to have one’s own principle in oneself is proper to the pure male. . . . female life is almost always devoid of an individual value but is linked to someone else in her need, born of vanity, to be acknowledged, noticed, flattered, admired, and desired (this extroverted tendency is connected to that “looking outside” which on a metaphysical level has been attributed to Shakti). (Eros, 157)

These forces then manifest in actual men and women. But Evola is clear to maintain that absolute man and woman are not simply aspects of character. Instead, they are “objective elements working in individuals almost as impersonally as the chemical properties inherent in a particular substance” (Eros, 152). As Evola says:

before and besides existing in the body, sex exists in the soul and, to a certain extent, in the spirit itself. We are man or woman inwardly before being so externally; the primordial male or female quality penetrates and saturates the whole of our being visibly and invisibly . . . just as a color permeates a liquid. (Eros, 32)

As such, the absolute woman is not simply an idealized concept of woman. She is defined from the divine down to the human, and is not a human conception of something divine.

Evola’s Description of Absolute Woman

The absolute woman is the rod by which all women are to be measured. Evola writes, “the only thing we can do is establish the superiority or inferiority of a given woman on the basis of her being more of less close to the female type, to the pure and absolute woman, and the same thing applies to man as well” (Eros, 34). In addition, superiority is defined by how closely one realizes the absolute woman or man. “A woman who is perfectly woman is superior to a man who is imperfectly man, just as a farmer who is faithful to his land and performs his work perfectly is superior to a king who cannot do his own work,” says Evola (Eros, 34).

Many more characteristics are associated with the female principle than those described below; however, these are the primary ones highlighted by Evola in his writings on the subject.

The Waters and Changeability

The fundamental feminine characteristic is changeability. Thus, the female is associated with water, which is fluid, and adapts to whatever form it is put into, just as matter/Shakti is shaped by form/Shiva. Evola writes that woman “reflects the cosmic female according to its aspect as material receiving a form that is external to her and that she does not produce from within” (Eros, 153). This fits in with Carl Jung’s description of woman’s animus, which is not self-created, but instead is a subconscious collection of the thoughts of men.

This changeability is related to woman’s tendency to live for someone outside of herself, due to the fluidity and changeability of her nature. For Evola, this means following the path of a mother or lover, fixing herself to a virile force in order to obtain transcendence. In contrast, “modern woman in wanting to be for herself has destroyed herself” (Revolt, 165.). By believing that she is merely her personality, she loses her transcendent aspect.

This changeability is seen in the association of the female with water. According to Evola, water represents “undifferentiated life prior to and not yet fixed in form,” that “which runs or flows and is therefore unstable and changeable,” and “the principle of all fertility and growth according to the analogy of water’s fertilizing action on earth and soil” (Eros, 119).

Evola also describes the correct relationship between the principle of water and that of fire, associated with the male: “when the feminine principle, whose force is centrifugal, does no turn to fleeting objects but rather to a ‘virile’ stability in which she finds a limit to her ‘restlessness’” (Revolt, 158).

Evola assents that certain modern women may appear very unchangeable, but stresses that this is at an outer level of her being:

a possible rigidity may follow the reception of ideas due precisely to the passive way she has adopted them, which may appear under the guise of conformity and conservatism. In this way, we can explain the apparent contrast inherent in the fact that female nature is changeable, yet women mainly show conservative tendencies sociologically and a dislike for the new. This can be linked to their role in mythology as female figures of a Demeter or chthonic type who guard and avenge customs and the law—the law of blood and of the earth, but not the uranic law. (Eros, 153)

Thus, a woman may be quite unchanging in her beliefs about society, etiquette, and morality, but will lack an attachment to a transcendent truth. Many of women’s ideas regarding social truths such as honor and virtue are “not true ethics but mere habits,” Evola says (Eros, 155).

This changeability of women explains the notion that women are at the same time more compassionate and more cruel than men; as woman is associated with the earth, she expresses both the tenderness of the mother and the cruelty of nature. The best example of this duality is the Greek goddess Artemis, who was both the protector of wild animals and the huntress.

Woman’s Lack of Being or Soul

Perhaps the most controversial characteristic of Evola’s absolute woman, which he gets from Weininger, is a common conception throughout history: that woman has no soul, or being. Weininger states that woman has no ego, referring to the Transcendental Ego of Immanuel Kant, which Evola describes as “above the whole world of phenomena (in metaphysical terms one would say ‘above all manifestation,’ like the Hindu atman)” (Eros, 151). In some schools of Hinduism, the atman (or “higher self”) is identical with the Brahman, the infinite soul of the Universe. In other Hindu conceptions, the atman is the life-principle. As manifested existence would be impossible without the atman, this description of woman as lacking a Transcendental Ego should not be taken to mean that women are incapable of developing and solidifying this aspect, though they may be at a disadvantage to men. Also, in the Kali Yuga, all people are the furthest removed from the divine, so modern men and women are likely in the same starting position in terms of development of Being.

Evola expands on the notion, stating that if soul means “psyche” or “principle of life,” then “it should signify in fact that woman not only has a soul but is eminently ‘soul,’” whereas man is not a soul but a “spirit.” He continues: “the point we believe settled is that woman is a part of ‘nature’ (in a metaphysical sense she is a manifestation of the same principle as nature) and that she affirms nature, whereas man by virtue of birth in the masculine human form goes tendentially beyond nature” (Eros, 151).

Deception and a Connection to Truth

Another attribute of absolute woman is deceitfulness. In fact, Evola states that it is so essential that telling lies has been acknowledged as an essential characteristic in female nature “at all times and in all places by popular wisdom” (Eros, 155). According to Weininger, this tendency is due to her lack of being. With no fixed essence, most women (and modern men) are attached to no transcendent truth, and therefore there is nothing to lie against—Truth only exists when one has substance and values. In Evola’s words:

Weininger observed that nothing is more baffling for a man than a woman’s response when caught in a lie. When asked why she is lying, she is unable to understand the question, acts astonished, bursts out crying, or seeks to pacify him by smiling. She cannot understand the ethical and transcendent side of lying or the fact that a lie represents damage to being and, as was acknowledged in ancient Iran, constitutes a crime even worse than killing. . . . The truth, pure and simple, is that woman is prone to lie and to disguise her true self even when she has no need to do so; this is not a social trait acquired in the struggle for existence, but something linked to her deepest and most genuine nature. (Eros, 155)

This quality of deceitfulness, while springing from the fundamental makeup of women, should not imply that it must be accepted as a given trait of all women, as some of Weininger’s writings imply. For, just like man, the ultimate goal of a woman’s existence is to connect with and live by the transcendent, which requires a fixation that cannot accept deception.

Woman’s Intuition, Man’s Ethics and Logic

Another idea Evola gets from Weininger is the notion that absolute woman, since she lacks being, also lacks memory, logic, and ethics (Eros, 154). In order to explain this, Evola distinguishes between two kinds of logic: everyday logic, which women can use quite successfully (though sometimes like a “sophist”) and “logic as a love of pure truth and inward coherence” (Eros, 154). This distinction can most commonly be seen when women use logic in arguments as a means to personal ends, rather than to arrive at a truth beyond their desires. Evola writes that

woman, insofar as she is woman, will never know ethics in the categorical sense of pure inner law detached from every empirical, eudemonistic, sensitive, sentimental, and personal connection. Nothing in woman that may have an ethical character can be separated from instinct, sentiment, sexuality, of “life”; it can have no relationship with pure “being.”

Women’s primary tool of cognition is not logic but intuition and sensitivity (Eros, 154).

In explaining memory, Evola turns to Henri Bergson, who described two types of memory. One is more common in women: the memory connected to the subconscious, which may remember dreams, have premonitions, and unexpectedly recall forgotten experiences. The second type of memory, which women lack due to their fluid nature, is “determined, organized, and dominated by the intellect” (Eros, 154).

The Female Principle as Powerful, Sovereign, and Active

Generally the female principle is described as passive, and the male as active. According to Evola, this only is true on the outermost plane. On the subtle plane, he says, “it is the woman who is active and the man who is passive (the woman is ‘actively passive’ and the man ‘passively active’)” (Eros, 167–68). In Hindu terms the impassible spirit (purusa) is masculine, while the active matrix of every conditioned form (prakriti) is feminine (Revolt, 157). Thus, to use the creation of a child as an example, man gives his seed, but it is woman who actively creates and gives birth to the child.

Mythology supports the sovereign aspect of woman. Evola gives the examples of the Earth goddess Cybele drawn in a chariot led by two tame tigers, and the Hindu goddess Durga seated on a lion with reins in her hands (Eros, 167). Evola states that man knows of this sovereign quality in women, and “often owing to a neurotic unconscious overcompensation for his inferiority complex, he flaunts before woman an ostentatious manliness, indifference, or even brutality and disdain. But this secures him the advantage, on the contrary. The fact that woman often becomes a victim on an external, material, sentimental, or social level, giving rise to her instinctive ‘fear of loving,’ does not alter the fundamental structure of the situation” (Eros, 167).

 

Association with the Demonic and Aspiration

Another “negative” quality of the absolute woman is that of aspiration, in the sense of a sucking quality, which also is associated with the demonic. On a profane level, in a degenerate form, this could be the woman who is constantly demanding more from her husband and others—more time spent together, a better car, a bigger house, or more attention. Since she has no “soul” (as defined above), she must fill the void within herself by sucking the vital force from others in emotional, monetary, or temporal vampirism.

On a metaphysical level, this quality merely refers to the divine female, Shakti, pulling Shiva into the world of manifestation. Thus, it is not good or bad, except for Gnostics or other sects who believe the created world to be evil. As Evola states, woman “is oriented toward keeping that order which Gnosticism, in a dualistic background, called the ‘world of the Demiurge,’ the world of nature as opposed to that of the spirit” (Eros, 141). This demonic element is expressed in actual life when women draw men to the realm of earth, nature, and children. It is expressed in sex when man’s seed being draw into the woman, creating a child bound by nature. “Although ‘woman’ can give life,” Evola writes, “yet she shuts off or tends to shut off access to that which is beyond life” (Eros, 142).

In some Eastern thought, the man’s seed is thought to be the spiritual manhood—hence the formation of sects that teach men to retain this force to attain liberation rather than wasting it through ejaculation. Women properly trained are said to be able to capture this essence during sex, thus seducing the man into giving up his manhood.

The positive aspect of this trait lies in woman’s ability to overcome it, most often by following the path of the mother or lover. In the actions required by these paths (if following them in an attitude of self-sacrifice and not self-aggrandizement), she no longer drains others, but instead learns to build up a vital force within herself through renunciation of desires. By relinquishing the control of the ego/personality by instead being devoted to others, woman is able to fix herself to the transcendent.

Like the other qualities of absolute woman, that of aspiration also can be found in man, especially in the Kali Yuga. Evola refers to sexual practices found in Chinese Taoism, India, and Tibet, where the man sucks the vital female energy from a woman during sex, a technique he describes as bordering on “male ‘psychic’ vampirism” (Eros, 249).

 

The Value of Absolute Woman in the Modern World

In the Golden Age, we can imagine that the metaphysical elements comprising a person manifested in the proper way. In such a time, the highest classes gave birth to the highest people; race was indicative of a corresponding inner quality; beauty on the outside attested to an inner beauty; and physical gender aligned with the qualities of absolute man or woman.

But in the Kali Yuga, there are pariahs in the highest classes, men who act like women, and men of Aryan stock who do not embody any of the virtues attributed to their race. As Evola says, it is possible for a person to be a different sex in the body than they are in the soul. These cases are similar to those where individuals of one race “have the psychic and spiritual characteristics of another race”(Eros, 34).

Therefore, men today may not innately possess any virile seed, just as modern women do not necessarily express the absolute female principle. In reading Evola’s work, then, we must not mistakenly interpret what he says about absolute man or woman as corresponding with individual men and women of today. Modern men and women are almost completely removed from the deepest aspects of themselves, functioning only as personalities. Thus, a person’s sex or caste has little importance in determining vocations or social relations. What relevance, then, do Evola’s descriptions of absolute man and woman have in the modern world?

An answer is found in the existential Angst that defined the twentieth century. Martin Heidegger wrote of the inauthentic life, and Jean-Paul Sartre of bad faith; most people today still fit the description of mere personalities, lacking divine connections or the means to find them. In a world that has lost its values and connection to Tradition, discovering these principles in our innermost natures becomes even more important. By examining Evola’s work, and that of other Traditionalists, we can find our way back to our true selves, the true relation between the sexes, and a connection to the transcendent.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

jeudi, 18 août 2011

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

lundi, 15 août 2011

Apuntes sobre el Mitraismo

Apuntes sobre el Mitraismo

Enrique RAVELLO

Ex: http://identidadytradicion.blogia.com/

La historiografía utiliza el término de «cultos mistéricos» para todo el conjunto de formas religiosas que, procedentes de Oriente, irrumpen en el Imperio romano tardío. El engañoso término de cultos mistéricos podría hacernos pensar en una unidad interna de los mismos; nada más lejos de la realidad, poco tenían que ver entre sí los cultos a Attis, Cibeles, Serapis, Isis o Júpiter - Amón , pero si uno de ellos merece mención aparte es, sin duda, el culto a Mitra.

Es precisamente lo que le diferencia del resto lo que le hace interesante para nosotros y lo que motiva el sentido de este artículo: a diferencia del resto de divinidades «orientales» llegadas a la Urbs desde el cambio de Era, Mitra sólo tiene de «oriental» la procedencia geográfica: Persia, siendo una de las divinidades que los indoeuropeos de origen nordeuropeo (medos, persas, hindúes y mitanios) llevaron a Asia durante sus migraciones e invasiones de aquellas tierras. Divinidad indoeuropea que, como tal no podía ser extraña a los romanos, los que pronto la asimilaron con sus dioses solares; así Mitra no era uno más de los cultos de «religiosidad segunda» del Bajo imperio , sino que propuso una posibilidad de enderezamiento espiritual -siguiendo el concepto evoliano- en un momento en que la Tradición romana parecía haber entrado en una fase de crisis

Mitra y su ascesis son profundamente indoeuropeos :«Los misterios mitraicos nos llevan al seno de la gran tradición mágica occidental , a un mundo todo él de afirmaciones , todo de luz y de grandeza , de una espiritualidad que es realeza y de una realeza que es espiritualidad , a un mundo en el que todo lo que es huída de la realidad , ascesis , mortificación en humildad y devoción , pálida renuncia y abstracción contemplativa , no tienen ningún lugar . Es la vía de la acción de la potencia solar» (1).

 

MITRA : DEL MUNDO INDO-IRANIO A ROMA.

 

Mitra como divinidad ario-irania

 

Para determinar los orígenes de Mitra hay que remontarse a la religión preavéstica donde aparece junto a Varuna y Surya entre los dioses soberanos o de la primera función indoeuropea. Mitra preside las alianzas y asegura la soberanía de los persas en las tierras recientemente conquistadas, asegura también la feliz doma de animales (2). Es un dios común a los indo-arios de la India y Persia, pero entre estos últimos tiene una función más guerrera que entre los primeros. Su nombre significa a la vez «alianza» y «el amigo» (3) . Mitra aparece en el panteón de tres pueblos indoeuropeos étnicamente muy relacionados: indo-arios, iranios y mitanos, de los que todo hace pensar que se trató de una rama de los indo-arios que se desgajó hacia zonas más occidentales. Siempre aparece como divinidad de la primera función junto a Varuna con quien está en una relación de complementariedad, en todos los sentidos «si los principios conjuntos se consideran en su reciprocidad, el Dios manifestado es el poder masculino y la Divinidad no manifestada es el poder femenino, reserva inagotable de toda posibilidad incluida en la manifestación: es pues Mitra, quien fecunda a Varuna (PB XXX10,10)» (4).

 

Etimológicamente la raíz de su nombre sería la indoeuropea *mei/*moi- con la idea de intercambio, seguido del instrumental -tra. Ésta es al menos la opinión de Meillet y la que más consenso tiene entre los estudiosos. Así Mitra inicialmente habría sido el garante de los acuerdos, el orden del mundo y del orden social, en definitiva de la relación de los dioses con los hombres y de éstos entre ellos mismos. Mitra engloba los conceptos de amigo y de contrato, y, siguiendo a G Bonafonte la evolución conceptual habrá comenzado desde esa raíz *mei/* moi (intercambio)  -obligación mutua (por intercambio de bienes) -amigo, amistad - dios Mitra (5). Siendo el garante de la palabra dada, y, en definitiva, de las relaciones entre los dioses y los hombres y de éstos entre sí. Mitra es quien «sostiene el cielo y la tierra» (Rg Veda, 3, 59).

 

En el espacio temporal que va desde la época védica hasta la reforma zoroastriana, la figura de Mitra también experimentará ciertos cambios, más bien matices, en la naturaleza y función de su divinidad.

 

En el mundo védico, Mitra y Varuna son las dos caras complementarias (que no antitéticas) de la función soberana del panteón indoeuropeo, una relación semejante en el mundo latino sería la de Rómulo- Numa (6). El Mitra védico encarna los aspectos jurídico soberanos, luminosos, siendo un dios cercano al mundo y a los hombres «la función de este culto (el de Mitra) es por lo tanto la de orientar religiosamente y consolidar la cohesión familiar, de amistad, social y, por lo tanto, la red de relaciones interpersonales que constituyen el tejido constitutivo de la vida de una tribu, de un pueblo, de una etnia» (7). Por su parte, Varuna encarna el aspecto mágico, violento, invisible y lejano.

 

Para conocer la figura del Mitra del mundo iranio antiguo, tenemos una gran escasez de fuentes para el periodo más arcaico. Durante la predicación de Zaratustra , todos los dioses del panteón persa se subordinan a Ahura Mazda y, aunque el nombre de Mitra aparezca en el Avesta, donde se le dedica un himno , lo hace de forma casi ocasional , esto ha sido interpretado por los estudiosos como un «eclipse» de esta divinidad , «relegada» por Zaratustra a un papel secundario , aunque hay otro tipo de opiniones : «Los estudiosos occidentales han sacado la errónea conclusión de que Mitra había sido rechazado por Zaratustra sólo porque no es mencionado en los Gatha , como si Zaratustra no hubiese compuesto más que los himnos de fragmentario corpus que han llegado a nosotros» (8). Aparece en el décimo Yashts (cántico) del Avesta, y se enfatiza su aspecto guerrero, y su función de guardián de la moral (9).

 

A. Loisy confirma que el origen de Mitra se encuentra en la religión preavéstica , en la que es el mediador entre el mundo superior y luminoso donde impera Ahura Mazda y el inferior donde ejerce su influencia Arimán (10).En el Mitra -Yasht , un himno religioso en su honor fechado entre el siglo V y VI  a. C. aparece como el dios de la luz , de los guerreros , de los pactos y de la palabra dada, algo que protege muy especialmente y cuya alteración o incumplimiento queda determinado como un sacrilegio y una grave perturbación del orden social y cósmico. Está claramente relacionado con la luz y el sol. Es descrito como «el más victorioso de los dioses que marchan sobre esta tierra»,  «el más fuerte de los fuertes» y físicamente como «el dios de los cabellos blancos», siendo -como ya sabemos- muy frecuentes los elementos fenotípicamente nórdicos en las descripciones físicas de las divinidades indo-ario-persas.

 

Bajo el reinado de Aqueménida, es la divinidad principal con la diosa Anahita y Ahura Mazda, siendo al dios que invocan los reyes en sus testamentos y combates. La religión medo-persa no tenía imágenes, que llegaron con la helenización del Asia menor, a la divinidad que más afectó este proceso fue precisamente a Mitra, que desde estos momentos pasó a un primer plano. Además durante el Helenismo muchas divinidades son asimiladas a los dioses greco-latinos, Ahura Mazda lo será con Júpiter; Ahrimán se convertirá en Hades; mientras que Mitra, conservará su nombre, ya que no tiene correspondencia exacta con los dioses greco-latinos, y aunque durante el Helenismo es el segundo dios en importancia, sin duda es el más adorado.

 

F. Cumont pone de relieve la importancia y la admiración que se tuvo entre los griegos y los romanos hacia el Imperio aqueménida , y cómo muchas de sus instituciones fueron adoptadas por los emperadores romanos por ejemplo los amici Augusti, del mismo modo que llevar delante del César el fuego sagrado como emblema de la perennidad del poder (11) . Lo que ya es más difícil es seguir los caminos, bastante más ocultos, por los que se transmitieron las ideas de unos pueblos a otros. Parece cierto que  a comienzos de nuestra Era, determinadas concepciones mazdeas se habían difundido más allá de Asia. La conquista macedónica de Asia Menor puso a los griegos en contacto directo con el mazdeísmo y hubo un interés general entre los filósofos por su conocimiento. Así como la  «ciencia»  que se extendía entre las clases populares con el nombre de magia, tenía, como su propio nombre indica, en gran parte origen persa. Antes de la conquista de Asia por Roma, algunas instituciones persas ya habían hallado en el mundo greco-oriental imitadores y adeptos a sus creencias. Los más activos agentes de esta difusión parecen haber sido para el mazdeísmo -como, por otro lado también para el judaísmo -las colonias de fieles que habían emigrado lejos de la madre patria (12).

 

Aún así es conveniente recordar la opinión de Julius Evola respecto a la relación entre el culto de Mitra y la religión zoroástrica: «Emanación del antiguo mazdeísmo iránico, el mitraísmo retomaba el tema central de una lucha entre las potencias de la luz y las de las tinieblas y el mal. Podía tener también formas religiosas, exotéricas, pero su núcleo central estaba constituido por sus Misterios, o sea por una iniciación en el verdadero sentido. Ello constituía un límite, aunque así se hacía una forma tradicional más completa. Sucesivamente, se debía, sin embargo, asistir a una cada vez más decidida separación entre la religión y la iniciación» (13)

 

De Persia a Roma.

 

Fue F. Cumont el primero en afirmar la continuidad entre el Mitra iranio y el del culto de época romana, tesis admitida por la práctica totalidad de los estudiosos. S. Wikander negó esta identificación, pero su tesis es paradoxal e insostenible, otro en negarla más recientemente ha sido David Ulansey (14) en su libro, The Origins of the Mithraic Mysteries(15) quien centra exclusivamente su interpretación del mitraísmo como religión astrológica y la representación del Mitra tauróctono únicamente desde el punto de vista astrológico zodiacal, si bien los datos que aporta  sí son interesantes , la interpretación de fondo no deja de ser limitada por reduccionista.

 

En cuanto a la propagación propiamente dicha del mitraísmo en Occidente, data de la fecha de la anexión de Asia Menor y Siria. Y aunque parece haber existido ya en Roma , en la época de Pompeyo, una comunidad de adeptos, la auténtica difusión no comenzó hasta el tiempo de los Flavios, y fue cada vez más importante con los Antoninos y los Severos, para ser hasta finales del siglo IV el culto más importante del paganismo. Aunque hay que tener en cuenta que la influencia de Persia, no fue sólo religiosa, sobre todo desde el 88 d. C; con la llegada al poder de la dinastía Sasánida. En la propia corte de Diocleciano se adoptaron las genuflexiones ante el emperador, igualado a la divinidad. Así que la propagación de la religión mitraica, que siempre se proclamó orgullosamente persa, se vio acompañada de una influencia persa en la política, la cultura y el arte.

 

En cuanto al proceso concreto de llegada de Mitra desde Irán a la península itálica, tenemos una dramática ausencia de fuentes, dos líneas de Plutarco, y una referencia de un mediocre escolástico de Estancio, Lactancio Plácido. Ambos autores coinciden en situar en Asia Menor el origen de la religión irania que se difundió por Occidente, así el mitraísmo se había constituido, antes de que fuese descubierto por los romanos, en las monarquías anatólicas de épocas precedentes, allí llego en la época de dominio Aqueménida, donde los persas se convirtieron en la aristocracia dominante de Capadocia, Ponto o Armenia, y seguirían siendo los amos de la zona después de la muerte de Alejandro. Esta aristocracia militar y feudal propició a Mitríades Eupator, un buen número de oficiales que ayudaron a desafiar a Roma y a defender la independencia de Armenia. Estos guerreros adoraban a Mitra como genio militar de sus ejércitos, y es por esto por lo que siguió siendo siempre, incluso en el mundo latino, el dios «invencible», tutelar de los ejércitos y honrado, sobre todo, por los soldados. 

 

Paralelamente a esta nobleza, otra clase también persa se había establecido en Asia Menor, los «magos» estaban diseminados por todo el Levante y conservaron escrupulosamente sus ritos. Sería el máximo fundamento de la grandeza de los misterios de Mitra.

 

La religión mazdeísta fue a los ojos de los griegos puramente bárbara y no tuvo ningún eco entre los helenos, como sí pudo tener el culto de Isis y Serapis, los griegos jamás aceptaron una divinidad que viniera de sus eternos enemigos. Mitra pasó directamente al mundo latino, además la transmisión fue de una rapidez fulminante, pues los romanos nada más conocer la doctrina de los mazdeos, la adoptaron con entusiasmo. Y llevado hacia fines del siglo I por los soldados a todas las fronteras, el culto de Mitra llegó al Danubio, al Rin, Britania, fronteras del Sáhara y valles de Asturias. Mitra conquistó pronto el favor de los altos funcionarios y del propio emperador. A finales del siglo II, Cómodo se hizo iniciar en los misterios, cien años después su poder era tal que eclipsó a todos sus rivales en Occidente y en Oriente. En 307 Diocleciano, Galeno y Licio le consagraron como protector del Imperio, fautori Imperio sui.

 

MISTERIA MITRAE

 

Los mitreos

 

El de Mitra es un culto totalmente mistérico que celebraban los iniciados para sí. Las cofradías mitraicas admitían solamente a hombres. El primitivo lugar de adoración de Mitra debieron ser las grutas de las montañas, especie de cavernas, en la época que nos ocupa, eran ya los mitreos que consistían en una pequeña capilla, pero, en definitiva seguían siendo grutas, a los que los iniciados se referían como specus. La distribución de la nave parece un comedor, pues el rito principal consistía en una comida para los iniciados, «en efecto, el Mithraeum no es, como el templo greco-romano, la casa de dios, sino un lugar de comunión entre los hombres y los dioses» (16). Había en los mitreos una mesa de piedra en la que estaba representado Mitra matando al toro, montado sobre un eje y esculpida a ambos lados, donde se combinaban imágenes del sol. Este pequeño santuario representaba el mundo, además toda su decoración tenía un alto contenido simbólico, aunque difícil de interpretar por la ausencia de textos contemporáneos. El Mitra tauróctono representa el sacrificio del toro, el tauribolio, como principio de la vida bienaventurada prometida al iniciado.

 

El acceso al mitreo era por una sola puerta, para descender algunos escalones, la capacidad no excedía las 100-120 personas, el lugar sagrado estaba reservado a los iniciados, el resto estaba en salas adyacentes. La disposición interna es constante, la imagen de Mitra está siempre en el centro o en la pared del fondo y en las escenas representadas aparece matando al toro y rodeado de los dadóforos, bien visible está el altar o la mesa sobre las que se apoyan las ofrendas y los alimentos, a los lados los bancos para los sacerdotes, destacando siempre el podium para el pater que preside la asamblea. En el mitreo no hay ventanas, y, al ser las reuniones nocturnas, la luz constituía un elemento de suma importancia, siendo el reclamo al Sol. En el ingreso al mitreo había un zodiaco, representando al universo, en el centro se reúne y canta la comunidad iniciática, reforzando la solidaridad fraterna del grupo.

 

El culto a Mitra conocía la semana con consagración de los siete días a las siete esferas planetarias, santificándose especialmente el primer día dedicado al Sol. Había también fiestas estacionales, se cree que tuvo cierta importancia la del equinoccio de primavera, común a otras iniciaciones, pero sin duda la más importante fue la de la Natividad del Sol, fiesta del Sol Invictus, que se celebraba, coincidiendo con el solsticio de invierno, el 25 de Diciembre. Mitra nace entre un buey y una mula en una gruta, con dos pastores de testigos: Cautes y Cautópates, Cautes tiene una antorcha encendida hacia arriba (el día), Cautópates tiene una antorcha encendida hacia abajo (la noche).

 

 

Los grados iniciáticos

 

La religión de Mitra no era un conocimiento sagrado escrito y codificado, que se podía aprender leyendo, la verdad sobre la que se sustenta, la base de sus misterios, son transmitidos de boca a oído entre los fieles y adeptos de las distintas jerarquías internas.

 

Siete eran los grados por los que debía de pasar un iniciado que pretendiera llegar al grado supremo: el cuervo, el oculto, el soldado, el león, el persa, el mensajero del Sol, y el padre. Se piensa que se determinaron según los siete planetas y son las siete esferas planetarias que el alma tendría que atravesar hasta llegar a la morada de los bienaventurados. No ajeno a este concepto es la expresión aún hoy coloquial de «llegar al séptimo cielo», para hacerlo el iniciado mitraísta tenía que atravesar siete puertas anteriores:

 

La primera es de plomo y frente a Saturno, debe despojarse del peso del cuerpo y de su vinculación a la vida y la tierra.

 

Venus le espera en la segunda, hecha de estaño, y le exige el abandono de la belleza física y del placer sexual.

 

En la siguiente puerta, que es de bronce, se encontrará con Júpiter ante el que tendrá que despojarse de la seguridad personal y la confianza en sí mismo y su pequeño yo.

 

La cuarta es de hierro y Mercurio es quien la custodia, ya no sirven ni inteligencia ni cultura, tampoco la antorcha luminosa ilumina nada ante la verdadera luz que es dios.

 

Frente a la puerta de Marte - de bronce y hierro -  nada puede hacer la espada que es sustituida por la fuerza divina.

 

La Luna vela la puerta de plata donde se dejan orgullo, ambiciones y amor a sí mismo, amor que sólo merece dios.

 

La última puerta es de oro y la cuida el Sol, quién tiende la mano al adepto pidiéndose un último gesto, ir más allá de sí mismo aceptando la mano que el propio Sol le está ofreciendo .

 

También, cada uno de los siete grados estaba influenciado por una diferente esfera planetaria:

 

korax  (cuervo)                                      Mercurio

 

nymphus                                              Venus

 

miles (soldado)                                        Marte

 

leo (león)                                              Júpiter

 

perses (persa)                                      Luna

 

Heliodromus                                          Sol

 

Pater                                                    Saturno (17)

 

 

Según Porcino (18) los cuervos serían una especie de auxiliares de los misterios, puede que en algún tiempo fuesen niños.

 

Este primer grado toma su nombre del animal que en la tauroctonía lleva a Mitra el mensaje de dios en el que le ordena matar al toro. Así el iniciado que tiene este grado, protegido por Mercurio, «es portador de mensajes» (19). Téngase presente también la relación entre las aves y el «lenguaje simbólico». Según los restos que nos han llegado, especialmente del mitreo de Capua, sabemos que viste una capa blanca con bandas rojas. En las ceremonias tiene la función de servir los alimentos que él no puede probar, el sentido es desposeer al iniciado de primer grado de los restos de ego profano.

 

El segundo grado tiene dos nombres, el de cryphius y el de nimphos. El primero (el oculto) ha sido relacionado con el hecho de que permanece escondido, no aparece en los bajorrelieves, sólo se les mostraba una vez y parece que era una ceremonia especialmente solemne. Puede que primitivamente fueran adolescentes, antes de llegar a soldados, que vivían en un régimen de separación especial. Pero realmente si hay presencia de este grado en los restos arqueológicos, con lo que habrá que centrarse en su segundo nombre nimphus o nymphos para darle una interpretación correcta. Así mismo, nymphos puede tener dos significados, el de esposo o mejor prometido, que lo relacionaría con Venus, su esfera protectora, y el Amor (en sentido iniciático) que debe tener hacia Mitra. También puede significar ninfa-crisálida, haciéndose referencia a una especie de proceso metamórfico en el que « de gusano»  (= el ser ligado a lo terreno, a las pasiones y a los instintos), pasa al estado de «crisálida» (=el huevo, el estado de clausura de aislamiento y de preparación), para propiciar el nacimiento de esa abeja o «mariposa» (=la capacidad en acto del alma de alzar el vuelo, de desvincularse de las ataduras terrenas)» (20). En este grado viste un velo amarillo sobre su rostro -de ahí lo de oculto -y tiene como atributo una lámpara, símbolo de la luz  necesaria para la consagración de este grado,

 

El soldado, es un iniciado propiamente dicho. En la Antigüedad ya guerreros plenamente dedicados al combate y a la caza. Su iniciación era una especie de bautismo, con la imposición de una marca en la frente, similar al cristiano. Sus símbolos son la espada y la corona. Corona que, simbolizando el poder, se le ofrece y debe rechazar al grito de «Mitra es mi corona ». En los mitreos de Capua y Ostia aparece con una capa ornada en púrpura y un gorro frigio. Su misión es garantizar la justicia y el orden. En los ritos de iniciación es el «liberador» y en las asambleas el encargado de mantener el orden.

 

En la exaltación al grado de los leones, se vierte miel en vez de agua, sobre sus manos y se les invita a conservarlas puras de todo mal, mala acción y de toda mancha, también con la miel se les purifica la lengua de toda falta. La miel tiene una gran importancia en la tradición persa, se cree que es una sustancia celestial, llegada de la luna, es superior al agua en su virtud, y comparable desde el punto de vista místico al brebaje sagrado del haoma. En los restos arqueológicos aparece con una toga roja y un manto rojo, en algunas ocasiones con remates amarillos. Es importante hacer notar que, a diferencia de los grados inferiores, es ahora -como leo- cuando el adepto recibe un nuevo nombre. Para este grado -protegido por Júpiter-  su atributo simbólico es el rayo, símbolo presente en varias tradiciones indoeuropeas: Zeus, Odín, Indra y Varuna también lo tienen como iconografía propia. El rayo, símbolo de la luz y potencia, estaría aludiendo a una experiencia de iluminación interior, el paso a un estado superior de conciencia.

 

El nombre del persa, es una clara referencia a la patria de origen del dios Mitra. También se usa la miel en su consagración, pero con un simbolismo diferente, «es considerado como el guardián de los frutos en amplio sentido (incluidos los cereales) y en la Antigüedad la miel usada de azúcar fue símbolo de conservación» (21). En cierta medida representaría a Mitra en su relación con la vegetación y la fecundidad de la tierra.

 

Sin embargo mucho más interesante nos parece la interpelación de este grado y su relación con la Luna que hace Stefano Arcella en su libro, I Misteri del Sole, aplicando criterios tradicionales y evolianos donde otros autores positivistas se limitan a criterios racionalistas, arqueológicos e incluso artísticos con los que es imposible penetrar y descifrar el mito. Para Arcella la Luna sería su numen titular, al ser el astro que da luz durante la noche, leído interior y simbólicamente, se estaría dando a entender que el iniciado-durante esta fase- tendría que sumergirse en su propio mundo interior «sin luz»  -asimilado con la noche- tomar conciencia de él y ser capaz de dominarlo, ese viaje nocturno sólo podría hacerse bajo la protección de la Luna que ilumina las tinieblas. Así -intuye el autor italiano -habría que pensar que la iniciación de este grado sería durante la noche, y, posiblemente, las pruebas consistieran en cumplir determinadas encomiendas aun a pesar de la nocturnidad y la oscuridad, es decir «venciendo la noche». En las ceremonias del culto llevaba el traje persa y el gorro frigio que también llevaba Mitra.

 

Heliodromus es el corredor del Sol, Arcella también lo califica como «la puerta del Cielo». Se asimila al Sol, pues no corre delante del Sol, sino que sube con él en un carro, es el grado anterior al supremo, y se muestra al adepto sobre el carro del cielo, adonde le basta penetrar con Mitra para alcanzar la esfera de la divinidad. «Heliodromus está subordinado al Pater, como el Sol lo está a Mitra, verdadero Sol Invictus» (22).Viste túnica roja con cinturón amarillo y se le representa con una antorcha encendida. En este grado se le vuelve a ofrecer la corona -rechazada anteriormente-y esta vez la asume, porque ahora la corona no está simbolizado el  poder mundano sino que es la corona-rayo que simboliza los rayos solares y significa la apertura del iniciado a la Luz del Sol espiritual. La corona tiene siete rayos, cifra presente en varias tradiciones, por lo menos desde el Pitagorismo, según el cual cada planeta irradia una propia vibración sonora, siete son los planetas a los que están ligados los adeptos mitraicos, así como siete son los días de la semana. Sin duda el requisito para llegar a Heliodromus era ser capaz de dominar los impulsos concupiscibles e irascibles del alma «La iniciación al grado de Heliodromos sucedía, verosímilmente, cuando cantaba el gallo, a la primera luz del alba, ya que el iniciado debía entrar en sintonía con el sentido anímico de abrirse a la luz» (23). Durante los banquetes guía a los comensales y hace los honores de la casa.

 

El padre es el grado supremo, su dignidad corresponde a la de Mitra en el cielo. Son los perfectos iniciados que participan plenamente de Mitra. A su cabeza está el padre de los padres (24). Cumbre de la jerarquía, lleva un gorro frigio ornado con perlas y un manto púrpura sobre una túnica roja con bandas amarillas, lleva un anillo y en la mano derecha el bastón que simboliza mando y poder. Es el guía de la comunidad. Entre sus atributos estaba la hoz. El cetro del mago y el gorro de persa. En un mitreo encontrado en Mesopotamia los padres estaban representados con hábitos persas, sentados en tronos, el cetro del mago en la mano derecha y en la izquierda un pergamino, que simboliza su conocimiento de los textos rituales y su significado religioso. Eso, y la elección del vocablo Pater los relaciona con la tradición jurídica y religiosa romana, de la misma estirpe que la indo-aria.

 

Lejos de considerar el paso por los diferentes grados iniciáticos como una convención o algo parecido a una representación teatral para adeptos, hay que reflexionar sobre las indicaciones que, al respecto, da Evola: «Existe un nivel en el que resulta por evidencia inmediata que los mitos misteriosóficos son, esencialmente, transcripciones alusivas de una serie de estados de conciencia a lo largo de la autorrealización. Las diferentes gestas y las varias vivencias de los héroes míticos no son ficciones poéticas, sino realidades- son actos bien determinados del ser interior que relampaguean uniformemente en cualquiera que quiere avanzar en la dirección de la iniciación, esto es, en la dirección, de un cumplimiento más allá del estado humano de existencia» (25).

 

Iniciaciones y celebraciones.

 

Aunque se ignora cuál era el ritual de las iniciaciones, se sabe que entre las condiciones preliminares de admisibilidad a los distintos grados había «pruebas» bastante duras y que incluso el ritual de las iniciaciones, sobre todo para el soldado, mantenía cuanto menos un simulacro de luchas y peligros. A juzgar por los restos encontrados en los mitreos los sacrificios de animales debían ser numerosos.

 

Además existía la oblación del pan del brebaje sagrado, imitado luego por los cristianos, y en esta «comunión» se repetían las palabras «éste es mi cuerpo» y «ésta es mi sangre», pues representaban la sustancia del toro mítico y divino que era Mitra, entendido como Ser supremo. El líquido que se servía pudo ser agua o en ocasiones vino, aunque en su inicio era ahoma (el soma de la India védica), que se mantuvo en el ritual ascético, pero ante la imposibilidad de obtener la planta sagrada, se sustituyó el líquido aunque no el significado.

 

Las imágenes que tenemos de escenas iniciáticas corresponden a los frescos del mitreo de Capua, en todas vemos características comunes: el iniciado desnudo, vendado y/o arrodillado; el oficiante poniéndole una túnica blanca, el pater con un gorro y una capa roja.

 

En otro mitreo cercano a Roma, se han encontrado dos series de representaciones que corresponden a las procesiones de los leones; la primera serie está fechada en 202, en ambas los iniciados de cuarto grado, aparecen desfilando ante el Pater, al que le ofrecen algunos dones. En estos tipos de ritos mitraicos dos elementos son constantes y tienen una importante función simbólica; el incienso; común a varias tradiciones espirituales, siempre con un sentido de purificación; y el fuego , como símbolo de luz y vida, doblemente como símbolo de sacralidad solar, y como símbolo de la «cadena» que forman los iniciados en los misterios mitraicos, que-cada uno de ellos individualmente -una vez establecido el contacto con esa Luz son capaces de transformar y dominar su elemento telúrico- lunar- taurino, otro de los significados -y no el menos importante del simbolismo de la tauroctonía mitraica.

 

La comida sagrada, otra celebración importante para la comunidad mitraica, simbolizaba el encuentro entre Mitra y el Sol. El pan consagrado remitía a la unión mística del grupo que, ingiriéndolo se apropiaba de una determinada energía, que les transmutaba en algo diferente (el paralelismo con la eucaristía cristiana es más que evidente). También se consagraba el vino, que en el mitraísmo romano había sustituido definitivamente al ahoma iranio, que ya nadie sabía cómo lograr preparar. Para S. Arcella cabría otra lectura de este banquete: «...inherente a la realización individual: una vez vencida, sacrificada y transformada la propia componente "taurina", el iniciado se encuentra y se reúne con su Principio solar (en el símbolo: el banquete entre Mitra y el Sol): utiliza toda la energía de la naturaleza inferior, a favor de un empuje ascendente y de una estabilidad en la realización espiritual» (26).

 

En cuanto al aspecto de la autorrealización individual , y de la posibilidad de potenciar determinadas facultades innatas en sentido de lograr una identificación ontológica con la divinidad, tenemos pruebas documentales en el llamado Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París, en el que se habla claramente de un rito no comunitario sino individual, en el que el iniciado a los «misterios mayores»  -es decir grados superiores- entra en disposición de lograr un contacto unificador con el dios, venciendo el elemento «taurino-telúrico» y lo hace con la pronunciación de nuevo logos, que cada uno de ellos abre sucesivas puertas sutiles, produciéndose los correspondientes saltos de calidad ontológica . Estos logos serían parte de la técnica tradicional de la sonoridad ritual capaz de dar vibraciones «sutiles» que producen cambios a nivel interno y externo, es el mantra hindú.

 

 

Iconografía

 

Mitra nace de una piedra, y siempre -desde el momento de su nacimiento -es representado con un puñal en la mano derecha y una antorcha en la izquierda, los cabellos en forma de rayos solares. También existe otra versión menos extendida en la que el dios nace de un árbol o de la parte inferior del «huevo cósmico». La lectura desde el simbolismo tradicional infiere que el nacimiento de una roca alude a la materialidad que encierra un elemento luminoso y vivificar, que ahora -con el nacimiento- es capaz de regenerar su naturaleza anterior, si Mitra nace de la piedra, su cuerpo es el templo -no la cárcel- de su espíritu desde el cual puede manifestar todo su poder y luminosidad «la organización corpórea es el signo de un cierto núcleo de potencia cualificada, y la iniciación mágica no consiste en disolver tal núcleo en la indistinta fluctuación de la vida universal, al contrario, en potenciarlo, en integrarlo, en llevarlo no hacia atrás, sino adelante» (27) la piedra sería también símbolo de la incorruptibilidad, «estaríamos tentados de establecer una analogía entre esta génesis de Mitra y un tema del ciclo artúrico, en el que figura una espada que hay que extraer de una piedra que flota sobre las aguas» (28). El nacimiento de un árbol podría tener el mismo significado, el de la potencial sacralidad de la naturaleza, pero también podría relacionarse con la imagen del árbol como guardián y fuente de la sabiduría eterna, en paralelo con el caso de Wotan y el Yggdrasil. El nacimiento desde el Huevo Cósmico, símbolo de la potencialidad que origina la Manifestación Universal, remite a la fuerza espiritual parte de esta manifestación.

 

En varias escenas de su nacimiento, vemos que Mitra está acompañado por un grupo de pastores, interpretados por Evola como ciertas «superiores presencias espirituales » que ayudan en el nacimiento iniciático (29). En otras tantas, vemos que en su nacimiento,  Mitra está acompañado de dos personajes: Cautes y Cautópates, el primero, Cautes, lleva una antorcha con el fuego hacia arriba, representa la luz del Sol ascendiente, del día que crece: del solsticio de invierno al solsticio de verano, también el amanecer; la antorcha de Cautópates está hacia abajo representando la luz del Sol que decrece: del solsticio de verano al solsticio de invierno, también el atardecer.

 

 

Ética mitraica. La dexiosis.

 

F. Cumont se pregunta el porqué del éxito del mitraísmo. Según él esta religión, la última de las orientales en llegar a Roma, aporta una nueva idea: el dualismo. Se identificó el principio del Mal, rival del dios supremo; con este sistema, que proporcionaba una solución simple al problema de la existencia del mal-escollo para tantas teologías- sedujo tanto a mentes cultas como a las masas. Pero esta concepción dualista, no basta para que la gente se convirtiera a la nueva religión, además el mitraísmo ofrecía razones para creer, motivos para actuar y temas de esperanza, esta religión fue el fundamento de una ética y una moral muy eficaz y concreta, esto fue lo que en la sociedad romana de los siglos I y III, llena de insatisfechas aspiraciones hacia una justicia y una ética más perfecta, garantizó el éxito de los misterios mitraicos. Según el emperador Juliano, Mitra daba a sus iniciados entolai o mandamientos y recompensas en éste y en el otro mundo a su fiel cumplimento. Y así el mazdeísmo trajo una satisfacción largo tiempo esperada y los latinos vieron en ella una religión con eficacia práctica y que imponía unas reglas de conducta a los individuos que contribuían al bien del Estado.

 

Mitra, antiguo genio de la luz, se convirtió en el zoroastrismo y continuó siéndolo en Occidente, en el dios de la verdad y de la justicia. Fue siempre el dios de la palabra dada y que asegura estrictamente el cumplimiento de los acuerdos y pactos. En su culto, se exaltaba, la lealtad y sin duda se buscaba inspirar sentimientos muy similares a los de la moderna noción de honor. También se predicaba el respeto a la autoridad y la fraternidad, al considerarse los iniciados como hijos de un mismo padre, pero a diferencia de la «fraternidad cristiana» basada en la compasión o en la mansedumbre, la fraternidad de estos iniciados, que tomaban el nombre de soldados era más afín a la camaradería de un regimiento, y se basaba en aspectos viriles y guerreros.

 

En la religión de Mitra tiene gran importancia la lucha y la acción, es loable la resistencia a la sensualidad y la búsqueda de la virtud, pero para llegar a la pureza espiritual, hace falta algo más, es la lucha constante contra la obra del espíritu infernal, sus creaciones demoníacas salen constantemente de los abismos para errar por la superficie de la Tierra, se meten por todas partes y llevan la corrupción, la miseria y la muerte. Los guías celestiales y guardianes de la piedad deben impedir que triunfen. La lucha es continua y se refleja en el corazón y la conciencia del hombre, miniatura del universo, entre la divina ley del poder y las sugestiones de los espíritus perfectos. La vida es una guerra sin cuartel, una continua lucha. Los mitraístas no se perdían en misticismos contemplativos, su moral agonal, favorecía sobre todo la acción y en una época de anarquía y desconcierto los iniciados hallaban en sus preceptos un estímulo en consuelo y orgullo. El cielo se merece, se gana en la guerra, el mismo concepto lo tenemos en otro extremo del mundo indoeuropeo, entre los vikingos y su idea del Walhalla, como morada de los guerreros.

 

El italiano Tullio Ossana dedica la mayor parte de su libro La stretta di mano . Il contenuto etico della Religione di Mitra, -tras la correspondiente explicación de orígenes, difusión, estructura interna y ritos- precisamente a ese rasgo tan propio de la religión mitraica, sin duda una de sus principales activos a la hora de ganar adhesiones, que fue la elaboración de una ética propia de raíz guerrera. Esta ética tendría tres objetivos:

 

- Hacer del hombre un hombre consciente, maduro, comprometido, por lo tanto capaz de actuar según sus capacidades y de poner su vida en acción.

 

- El segundo objetivo sería entrar en armonía en el Cosmos y cumplir su gran misión de ser intermediario entre dioses y hombres, entre hombres y la creación.

 

-Ser parte del plan de Mitra, revelado a el por el Sol. Representar el orden divino allí donde esté presente, con las implicaciones escatológicas y de ultratumba que ello implicaría.

 

Habría, según F. Cumont (30) una especie de decálogo que la religión mitraíca trazaría para que cada uno de sus adeptos fuese capaz de llegar a cumplir los tres objetivos mencionados. Cumont no llega a explicitar dicho decálogo, pero Tulio Ossana sí que nos da pistas para poder hacernos una certera idea de en qué podría haber consistido.

 

-Ética de la luz. Indicando el aporte de la inteligencia a la acción, la sabiduría en toda realización y la fidelidad a la verdad y a la palabra dada.

 

 

- Ética de la espada, como símbolo trascendente de la fuerza física, de la que queda excluido su uso prepotente e irracional.

 

-Ética de la transformación -preferimos este término al de «progreso» utilizado por T. Ossana-. En la acción de Mitra y sus iniciados existe una evidente transformación cuyo objetivo final es la transformación y la gloria.

 

-Ética de la amistad. Que liga a los adeptos con Mitra -el amigo- y a los adeptos entre sí en una fraternidad guerrera: la militia Mithrae.

 

Ética del servicio. Mitra, ejemplo de sus adeptos, pone su superioridad al servicio de la lucha por el bien y el orden. Rechazando cualquier pasividad (auto)-contemplativa.

 

Ética de la salvación. El fiel, salvado por el conocimiento de Mitra, se empeña en la salvación de sus hermanos, como éstos debe entenderse sólo a los miembros de la militia Mithrae.

 

Ética de la acción. La ética mitraica despierta al hombre a la acción, que estará en relación con sus capacidades interiores innatas que ahora debe poner a actuar.

 

Ética de la lucha contra el mal. Recordemos la visión dualista del mitraismo y su implícita obligatoriedad para luchar activa y firmemente frente al mal representado por Ahrimán.

 

Ética de la jerarquía-también aquí preferimos este término que los utilizados por T Ossana: orden y obediencia-. Evidentemente se refiere a la obediencia de los grados inferiores hacia los superiores.

 

Si hay un gesto que resume visualmente todo el contenido ético del que estamos hablando es la destrarum iunctio o dexiosis que convierte a los mitraístas en syndexioi (literalmente «unidos por la mano derecha»). En las civilizaciones arcaicas la mano se considera como un centro de potencia y un punto de focalización de energía (31), especialmente la derecha se ha relacionado con las capacidades creativas y guerreras del hombre. En el zazen la derecha es considerada la mano masculina o yang, en el típico mudra que se utiliza durante la meditación, ésta protege a la izquierda considerada como la femenina o yin. Así el gesto de unir las manos derechas alude tanto a la comunidad de camaradería que era la milicia mitraica como al hecho de abrir circuitos sutiles de energía que circularían entre todos los miembros de la misma, no lejano es el simbolismo de la cadena de algunas sociedades medievales iniciáticas e incorporado-una vez «desactivado» como es típico de esta institución-por la masonería.

 

Siguiendo estos preceptos éticos el adepto mitraista alcanzaba una serie de virtudes que, al parecer realmente, fueron características propias de los miembros de la militia mitraica a lo largo de su existencia: coherencia interna y externa, fidelidad, disponibilidad, coraje, humildad y alegría, entendida como plenitud. Lo que ayudó mucho a que las autoridades romanas vieran en el mitraísmo una religión que aportaba buenos ciudadanos siempre dispuestos a la defensa del Imperio.

 

El dualismo también condicionó las creencias escatológicas de los mitraístas. La oposición entre cielo e infierno continuaba en la existencia de ultratumba. Mitra también es el antagonista de los poderes infernales y asegura la salvación de sus protegidos en el más allá. Según el profesor Gonzalo Fernández de Córdoba, el alma se someterá a un juicio presidido por Mitra si sus méritos pasados en la balanza del dios, son mayores que los fallos, él lo defenderá frente a los agentes de Ahrimán, que tratarán de llevarla a los abismos infernales. Las almas de los justos se van a habitar a la Luz infinita, que se extiende por encima de las estrellas, se despojan de toda sensualidad y codicia al pasar a través de las esferas planetarias y de este modo se convierten en tan puras como las de los dioses, que serán, en adelante, sus compañeros. Al final de los tiempos, resucitará a todos los hombres y dará a los buenos un maravilloso brebaje que les garantizará la inmortalidad definitiva, mientras que los malos serán aniquilados por el fuego junto al propio Ahrimán.

 

El mitraísmo fue el culto mistérico que ofreció un sistema más rico, fue el que alcanzó una mayor elevación espiritual y ética, ninguno de ellos atrajo tantas mentes ni tantos corazones. El mazdeísmo mitráico fue una especie de religión de Estado del Imperio romano en el siglo III, de ahí la conocida frase de Renán: «si el cristianismo se hubiese detenido en su crecimiento por alguna enfermedad mortal, el mundo hubiera sido mitraísta».

 

 

EL MITRAÍSMO EN EL IMPERIO ROMANO.

 

Expansión y relación con el poder.

 

Es en el siglo I d. C. cuando el mitraísmo se instala en la Urbs romana, desde un primer momento, lo hace en círculos cercanos al imperial. La representación más antigua del dios sacrificando al toro data del año 102 bajo el reinado de Trajano. Fuera del Lacio es Etruria meridional la zona con mayor número de mitreos, siendo Campania y la Cisalpina dos importantes zonas de penetración.

 

La difusión del rito mitraísta se manifiesta en Retia y especialmente en Nórica. En el reinado de Adriano, poco antes de 130, llega a Germania, y con Antonino Pío hasta la Panonia. Desde la época de Marco Aurelio hasta los Severos -es decir entre 161-235- los santuarios se suceden a ambos lados del Rin y en las provincias danubianas, siendo también frecuentes en Tracia y Dalmacia, mucho menos en Macedonia y Grecia, donde solo tenemos noticia de un mitreo cercano a Eleusis que había sido consagrado por legionarios claramente itálicos. El Asia helenizada fue muy refractaria a este culto. Por el contrario sí hay constatación de templos consagrados a Mitra en Capadocia, en el Ponto, en Frigia, en Lidia y en Cilicia, cerca del mar Negro hay restos arqueológicos en Crimea, donde habría penetrado desde Trevisonda. También se han encontrado en Siria y en el Eúfrates, casi siempre relacionados con campamentos de legionarios, lo mismo que en Egipto.

 

A finales del siglo II su culto alcanza la cúpula de la jerarquía militar imperial e incluso hay emperadores que se hacen iniciar en estos misterios. El caso de Nerón es aún dudoso, M. Yourcenar en sus célebres Memorias de Adriano, da el dato de este emperador hispano, pero del primer emperador que hay constancia cierta es de Cómodo que habilitó una dependencia subterránea de la residencia imperial de Ostia para la práctica de este culto. También es claro el caso de Séptimo Severo, por el contrario, el emperador oriental y orientalizante Caracalla tuvo como dios a Serapis. La primera mención clara, pública y oficial en la que Galeno, Diocleciano y Licinio, en 307 califican al dios de fautor imperii sui (protector de su poder), el primero de ellos fue, sin duda, adepto al culto de Mitra. Mucho se ha dicho, en este sentido, sobre Juliano el Apóstata, aunque la única prueba concreta de la que se tiene constancia es la mención a Mitra en su Banquete de los Césares, emperador que ha pasado a la historia con el sobrenombre despectivo del Apóstata, aunque otros, con mejor criterio se refieren a Juliano Flavio, como Juliano Emperador (32), «porque en rigor si alguien debe ser llamado "apóstata" debería ser el caso de los que abandonaron las tradiciones sacras y los cultos hacedores del alma y la grandeza de la Roma antigua(...) no debería ser, por el contrario, el caso de quien tuvo el coraje de ser tradicional y de intentar reafirmar el ideal "solar" y sacro del Imperio, como fue el intento de Juliano Flavio» (33).

 

Mitra tuvo numerosos fieles en el orden senatorial de la Urbs. El medio urbano es, a lo largo y  ancho de todo el Imperio, el más propicio para el culto mitraico y donde se encuentra a sus seguidores y adeptos, el medio rural, mucho más conservador, lo rechazó claramente, como posteriormente haría con el cristianismo (34). Socialmente vemos que está presente «en su fase más antigua, entre siervos y libertos, posteriormente, en el curso del siglo II, en el estamento militar. Se difunde, a lo largo del siglo III, en el ordo equester y en el siglo IV en el senatorial»(35). El hecho de que al principio fueran siervos y libertos habla claramente de la gran tolerancia religiosa del mundo romano y de sus clases dirigentes, otro ejemplo curioso es que está datada la existencia de un pater mitraísta que a la vez era sacerdos de la domus Augusta, evidenciando la postura oficial de tolerancia y reconocimiento hacia el culto mitraico. En general las inscripciones del siglo III-IV revelan la gran importancia que tuvo el componente militar en la composición de los adeptos de Mitra y en su difusión por el Imperio.

 

 

 

El culto a Mitra en Hispania

 

En cuanto a la presencia del mitraismo en la península ibérica, según García y Bellido es, de los cultos mistéricos practicados en la Antigüedad, el que menos representado está arqueológicamente. Hispania es el país de Europa occidental más pobre en restos mitraicos. La explicación es bastante sencilla, el culto a Mitra estuvo íntimamente relacionado con el movimiento y el asentamiento de las legiones, e Hispania en los siglos II y III, época de expansión y culto, vive una existencia bastante pacífica y al margen del movimiento de tropas, tan frecuente en otras partes del Imperio, y por tanto al margen de las vías de penetración del mitraísmo (36).

 

Testimonios arqueológicos de presencia mitraica hay en las antiguas tres provincias de la Hispania de época imperial, siempre en zonas periféricas de la Meseta. En el Tarraconense hay ejemplos en sus dos extremos: la zona noroeste y el territorio astur y centros urbanos del litoral mediterráneo, como Barcino, Tarraco, Cabrera del Mar y, en la Comunidad de Valencia hay atestiguada una inscripción encontrada en 1922, en la localidad de Benifayó, en un lugar donde se han encontrado varios restos romanos. El epígrafe allí encontrado, tiene 65 cm de altura y se conserva en el Museo Provincial de Valencia. El texto dice:

 

                    Invicto/Mithrae/Lucanus/Ser(vus)

 

En Lusitania los restos arqueológicos están esparcidos por todo el territorio, pero indudablemente el centro principal e irradiador del mitraísmo estuvo en Emerita Augusta. Para la Bética la zona de hallazgos corresponde a la zona interior: Itálica, Corduba, Munda e Igagrum (actual Capra), donde se encontró una gran estatua de Mitra tauróctono, con Mitra vestido con pantalón persa, túnica con mangas y gorro frigio (37), exceptuando algún dato en la ciudad portuaria de Malaca.

 

 

«En general, el material que disponemos, procede de capitales de provincias, conventus, de colonias y municipios, es decir de zonas fuertemente romanizadas, donde hubo arraigo municipal. Fueron al mismo tiempo ciudades portuarias, administrativas o militares, asiento de soldados y comerciantes que transportaron el culto en su bagaje» (38). Siendo indudablemente el elemento militar el numéricamente más importante entre los adeptos al mitraísmo y el que ejerce principalmente la función de difusor por el territorio hispano. Otra vía fueron los comerciantes llegados a puertos del Mediterráneo hispánico.

 

FINAL Y PERVIVENCIAS DE UN CULTO GUERRERO

 

El fin del mitraísmo.

 

Al no incluir mujeres entre sus adeptos el mitraísmo limitó su campo de crecimiento y se encontró en desventaja frente a otros cultos como por ejemplo el cristianismo. Su segundo problema fue que siempre conservó la «marca persa» y Persia nunca se integró en el imperio, siendo por el contrario, enemigo hereditario y amenaza constante.

 

Constantino, el primer emperador cristiano, manifestó una particular hostilidad hacia el mitraísmo, así en 324 prohibió expresamente el sacrificio a «ídolos» y la celebración de cultos mistéricos. El rito mitraico tenía circunstancias agravantes: el sacrificio terminaba con un banquete con el dios y los emperadores cristianos tenían presentes las palabras de Pablo en su I carta a los corintios: «No quiero que entréis en comunión con los demonios». La legislación se hace más dura en el siglo IV  cuando se prohíbe cualquier sacrificio nocturno, precisamente la hora del ritual mitraico. El culto mitraico está en decadencia cuando Constancio II en 357 llega a Roma, circunstancia que aprovecha la aristocracia senatorial para obligarle a recortar las «leyes antipaganas», el reinado de Juliano el Apóstata (361-363) reactiva los cultos paganos, y de forma muy clara al mitraico, pero esta tendencia dura poco, en 391 una ley prohíbe toda clase de culto o manifestación pagana, y en 394 el mitraísmo desaparecerá de la Urbs, en el resto del Imperio las dos últimas dedicatorias epigráficas a Mitra tendrían fecha de 325 y 367.


Influencias y permanencias mitraicas en el cristianismo.

 

Sin embargo hay testimonios que indican que, aún después de la destrucción de los mitreos, la vitalidad de culto permaneció durante largo tiempo. Es lógico inferir que continuó teniendo influencia en importantes capas de la sociedad, y que el cristianismo- nuevo culto dominante-recogió y adaptó muchos de sus temas e iconografías:

 

La influencia más evidente históricamente confirmadas del culto solar sobre el cristianismo en el Imperio tardío es la elección del 25 de Diciembre como la del nacimiento de Cristo, es decir la misma fecha que Aureliano consagró en 274 al Natalis Sol Invicti, fecha que también era celebrada por los mitraistas, que no dejaban de ser un culto solar particular.

 

Trascendente fue también el cambio del sábado al domingo como «día del Señor», lo que se explica al renunciar al calendario lunar semita y adoptar el solar en que el domingo (día del sol = Sunday en inglés, Sonntag en alemán) da comienzo a la semana.

 

También hubo influencia mitraica directa en los rituales comunitarios, es de resaltar la afinidad entre el ritual de consagración mitraica y los sacramentos cristianos del bautizo, comunión y confirmación, sacramentos que entre ellos no serán autónomos hasta el siglo XI. Según expresión de Santo Tomás de Aquino el bautizado se convierte en «soldado de Cristo» lo que nos recuerda claramente a la idea al adepto como miembro de la «milicia de Mitra», y en la comunión se da la idea espiritual de «luchar contra los enemigos de la fe», en el mismo sentido del culto mitraico.

 

Por otro lado resulta llamativo que los cristianos conservaran el nombre de pater para sus sacerdotes y que los obispos sigan llevando un gorro que recibe el nombre de mitra. No lo es menos la imagen del Arcángel San Miguel con la espada en la mano para matar al dragón que puede recordarnos a la imagen de Mitra, puñal en mano matando al toro; en ambos casos estaríamos ante la imagen de «la lucha victoriosa de una figura trascendente contra una bestia que primero es domada y luego sacrificada» (39).

 

Otra influencia irania y zoroástrica, aunque no es definitivo que sea también mitraica, es la adoración de los Reyes Magos. Herodoto define a los « magos» como una casta sacerdotal irania que ejercía su función primero entre los medas y luego entre los persas. Los regalos que le llevan tienen un claro simbolismo tradicional: el oro siempre ha sido símbolo del sol y, en consecuencia de la realeza, que es la representación en la tierra de lo que el sol es en el sistema solar, precisamente Melchor regala oro por tratarse de un rey, Gaspar incienso por ser un dios y Baltasar mirra por ser un hombre. Siguiendo con los Magos que visitan a Jesucristo recién nacido es obligatorio referirse a los cambios iconográficos que ha hecho la iglesia en su iconografía, mucho han variado desde la representación de los mosaicos de Rávena a la actualidad, en un primer momento son hombres de una misma edad e igualmente de raza blanca, es en el siglo XV cuando Petrus Natalibus establece arbitrariamente que Melchor tiene 60 años, Gaspar 40, y Baltasar 20. Durante la Edad media habían incorporado una iconografía alquímica, representando -por los atributos-cada uno de ellos una de las fases alquímicas: blanco/Melchor-rojo/Gaspar-negro/Baltasar/África, es desde esa fecha cuando se representa a Baltasar como un hombre «negro», en este caso nos negamos a decir: como un hombre «subsahariano».

 

¿Fue posible la supervivencia?

 

Es lógico pensar que una ley no fue suficiente para terminar de un plumazo con un culto tan extendido y con un gran número de adeptos cual fue el mitraísmo. Hay restos y testimonios dispersos que infieren la existencia de núcleos de resistencia mitraísta en el siglo V. En el siglo XX las obras de inspiración tradicional y evoliana se encargan de buscar restos aún vivos de tradiciones europeas precristianas, especialmente de la continuidad de la tradición romana y de pervivencias mitraicas. Así la revista Mos maiorum en un número de 1996(40) llega a afirmar que «el culto mistérico de Mitra, a consecuencia de la hostilidad del Estado, desaparece de la superficie de la historia, conservándose en una tradición oculta y operando invisiblemente sobre las grandes corrientes de la historia occidental. El resurgir de la sacralidad del Imperium en la tradición gibelina medieval, el trasfondo iniciático de los poemas épicos y caballerescos de la Edad Media, los vestigios de la tradición hermética hasta el Renacimiento y el renacimiento espiritual evidenciados en tiempos mucho más recientes, testimonian en modo vivo y concreto la continuidad de la fuerza de la herencia sapiencial pagana en Occidente».

 

También en Oriente se atestiguan presencia mitraica en épocas muy posteriores. En la tradición épica de Armenia hasta el siglo XIX se hace referencia a un gigante de nombre Mehr, cuya descripción y función nos recuerda llamativamente a la del dios Mitra.

 

Varios estudiosos - entre ellos Mircea Eliade (41) y Ellemire Zolla(42)-  han dado certezas de la continuidad del culto zoroástrico en Irán hasta, por lo menos, los años 70 del siglo XX . En este sentido conocido es el hecho de que en 1.964, Mary Boyce visitó una serie de pueblos y aldeas iraníes en los que pervivía la fe en Zaratustra, constatando que veneraban a un dios-héroe llamado Mihr, con enormes paralelismos con Mitra. No se sabe cuál es actualmente la situación de estos parsis bajo el régimen integrista de Teherán. Nos tememos que están atravesando tiempos difíciles que amenazan la perpetuación de su religión, mantenida durante milenios.

 

También conocida es la comunidad parsi de Bombay, es el mismo E. Zolla quien en su libro Aure nos narra su encuentro con un adepto al mitraismo de esta comunidad, que le habla-desde el conocimiento operativo- de los ritos de la llamada «Cámara del Consejo» en el palacio de Darío, así como del poder y la efectividad de la misteriosa secuencia vocálica («mántrica» podríamos decir) del Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París(43), que incluye técnicas sobre el dominio de las corrientes de la respiración -cálida y fría - que es necesario armonizar , en mismo modo a cómo las técnicas yóguicas lo determinan .

 

No quisiéramos cerrar este apartado sin hacer mención de una curiosa e interesante entrevista(44) aparecida en el número 4- solsticio de verano 1994 de la revista belga Antaios , número titulado precisamente «Mysteria Mithrae», el entrevistado, se identifica con el nombre de Corax (el cuervo) primer grado de iniciación mitraica, y se define a sí mismo como «joven universitario europeo, me definiría a riesgo de pasar por un provocador , como un seguidor de Mitra, un fiel del Sol Invictus, en la línea espiritual de Akenatón, y del emperador Juliano llamado el Apóstata. Al igual que ellos, mi toma de conciencia solar fue resultado del reencuentro con una tradición y una búsqueda personal», si bien deja claro que «No pretendemos en absoluto, contrariamente a ciertos druidas modernos, ninguna filiación iniciática (aunque hayamos buscado durante años en vano esos "testigos")».

 

Más allá de supervivencias reales, imaginadas o deseadas hemos querido dar las claves del culto mitraico que no hace más que repetir el mundo de valores indoeuropeos. Si pretendemos un verdadero enderezamiento espiritual tendremos necesariamente que recuperarlos y remitirnos a ellos, sea cual sea la forma religiosa exterior que los englobe.

 

Enrique Ravello

 

Notas

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1    J. Evola,  «La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra»(1926) en La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mitra (recop). Quaderni di Testi Evoliani, nº 4. Fundazione Julius Evola . Roma, p.5.

2     J Varenne, Zoroastro. El profeta del Avesta. Ed Edaf, Madrid 1989, p,23.

3      Ibídem, p, 56.

4      A.  Coomaraswamy, El Vedanta y la tradición occidental.

Ed. Siruela, Madrid 2001, p, 269.

5       Cfr: G Bonfante, «The Name of Mitra» en Etudes mitrhriaques (= Acta Iranica,17)-Teherán-Lieja,1978.p.47 y ss.

6        Sobre la realidad de la mitología romana como manifestación de la ideología indoeuropea, v. G Dumézil, Iupiter, Mars, Quirinus. Essai sur la conception indoeuropéene de la Societé et sur les origines de Rome, París 1944, y La religion romaine archaïque. París 1966.

7         S. Arcella I Misteridel Sole. Ed Controcorrente, Nápoles 2002, p.26.

8         S.S Hakim, «I misteri di Mitra visti da un zoroastriano», en Conoscenza religiosa  I 1976.

9          Ibídem, p.87.

10       A. Loisy; Los misterios paganos y el misterio cristiano. Ed Paidos Oriental, Barcelona 1990,p.119.

11        F. Cumont , Las religiones orientales y el paganismo romano. Ed. Akal universitaria. Madrid 1987 p.129.

12        Ibídem, p. 121.

13        J. Evola, «Note sui Misteridi Mithra» en op.cit. (recop) p.18.

14         David Ulansey, profesor de Filosofía y Religión en el Californian Institute of Integral Studies.

15         D. Ulansey, The Origins of the Mithraic Mysteries. Cosmology & Salvation in the Ancient World. Ed Oxford University Press. Nueva York 1989.

16         R. Turcan, op.cit, p.103.

17         Eliade, M y Couliano, I. P, Diccionario de las religiones. Circulo de lectores. Ed. Paidós, Barcelona 1997.

18        A. Loisy: op, cit, p.129

19        T. Ossana, La stretta di mano. Il contenuto etico della Religione di Mitra. Ed Borla, Nápoles 1988.

20        S. Arcella , I Misterio del Sole. Ed. Controcorrente, Nápoles2002,p.119.

21        R.Turcan, Mithra et le Mithriacisme .Ed. Les Belles Lettres . París 2000, p.119

22        R. Turcan.op.cit,p.90.

23        S. Arcella, op.cit,p.134.

24        A. Loisy, op.cit, p.129-135.

25        J. Evola,op.cit, p.5

26        S. Arcella,op.cit,p.102

27        J. Evola ,op.cit, p.7

28        J  Evola «Note sui Misteri di Mithra » (1950).op.cit (recop) p.19.

29        J  Evola ,«La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra» (1926).Recogido en op. cit (recop.) Fundazione Julius Evola. Roma.p.7

30         F. Cumont, Le religione orientali nel paganesimo romano, Bari 1967, p.183 y Les mystéres de Mitra, Bruselas 1919, p.141.

31        Técnicas autocurativas japonesas como el reiki o el katsugen se basan principalmente en esto.

32        Cfr: R. Prati en la traducción al italiano de los escritos de Juliano Imperador con el título: Sugli dei e sugli uomini.

33         J. Evola «Giuliano Imperatore» (1932) en op.cit. (recop.) p.15.

34         R. Turcan ,op. cit, pp.41-43

35         S. Arcella .«I collegi mithraici nella Roma imperiale», en Arthos nº 9 (nueva serie) , 2001.

36         A. García y Bellido. Les religiones orientales dan l Éspagne romaine. Leiden1967, p.21.

37         Cfr JL Jiménez y M. Martín- Bueno, La casa del Mithra, Capra-Córdoba. Ilmo.Ayto de Cabra 1992.

38          Mª Antonia de Francisco Casado, El culto de Mitra en Hispania. Ed Universidad de Granada. Granada 1989. p.64.

39          S. Arcella, op.cit p. 211.

40          Mos maiorum, Revista trimestrale di Studi tradizionali. Año II, nº4,1996,pp.34.

41          M. Eliade, Storia,  pp.338-344.

42          E. Zolla, Il Signore delle grotte, pp.64 y ss.

43          Para un mayor conocimiento sobre la realidad, potencialidad y operatividad del Gran Papiro Mágico de París, cfr: «Apathanatismos. Rituale Mithraico del Gran Papiro Magico di Parigi» en , Grupo UR, Introduzione alla Magia . Vol I . Ed Mediterranee, Roma 1971.pp.114-139.

44           «Corax, entretien avec un adepte du culte socaire» en Antaios nº4, solsticio de verano de 1994, Bruselas.

samedi, 13 août 2011

Julius Evola: Um pessimismo justificado?

Julius Evola: Um Pessimismo Justificado?

 
por Franco Rosados
Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/
MenAmongTheRuins.jpgFR: Você acredita que existe uma relação entre a filosofia e a política? Pode influenciar uma filosofia em uma iniciativa de reconstrução política nacional ou européia?
JE: Eu não creio que uma filosofia entendida em sentido estreitamente teórico possa influenciar na política. Para influenciar, necessita que encarne-se em uma ideologia ou em uma concepção do mundo. O que ocorreu, por exemplo, com a Ilustração, com o materialismo dialético marxista e com algumas concepções filosóficas que foram incorporadas à concepção de mundo do nacional-socialismo alemão. Em geral, a época dos grandes sistemas filosóficos conluiu-se; hoje não existem mais que filosofias bastardas e medíocres. Em uma de minhas obras passadas, de meu período filosófico, eu coloquei na dedicatória estas palavras de Jules Lachelier: "A filosofia, moderna, é uma reflexão que acabou por reconhecer a mesma impotência e a necessidade de uma ação que parta do interior." O domínio próprio de uma ação deste tipo tem um caráter metafilosófico. Daí, a transição que observa-se em meus livros, que não falam de "filosofia", senão de "metafísica", de visão do mundo e doutrinas tradicionais.
FR: Você pensa que moral e ética são sinonímicas e que tenham que possuir um fundamento filosófico?
JE: É possível estabelecer uma distinção, se por "moral" entende-se especificamente o costume e por "ética" uma disciplina filosófica (a chamada "filosofia moral"). Em minha opinião, qualquer ética ou qualquer moral que queira ter um fundamento filosófico de caráter absoluto, é ilusória. Sem referência a algo transcendente, a moral não pode ter mais que um alcance relativo, contingente, "social", e não pode resistir a uma crítica do individualismo, do existencialismo ou do niilismo. Eu demonstrei em meu livro Cavalgar o Tigre, no capítulo entitulado No mundo em que Deus morreu. Neste capítulo também abordei a problemática apresentada por Nietzsche e pelo existencialismo.
FR: Você crê que a influência do Cristianismo foi positiva para a civilização européia? Não pensa que ao ter adotado uma religião de origem semítica tenha desnaturalizado alguns valores europeus tradicionais?
JE: Falando de Cristianismo, muitas vezes usei a expressão "a religião que prevaleceu no Ocidente". Em efeito o maior milagre do Cristianismo é ter conseguido afirmar-se entre os povos europeus, inclusive tendo em conta a decadência em que caíram numerosas tradições destes povos. Não obstante, não faz falta esquecer os casos nos quais a cristianização do Ocidente foi exclusivamente exterior. Ademais, se o Cristianismo alterou, sem dúvida alguma, alguns valores europeus, também há casos nos quais estes valores ressurgiram do Cristianismo, retificando-o e modificando-o. De outro modo o catolicismo seria inconcebível em seus diferentes aspectos "romanos"; do mesmo modo seria inconcebível uma parte da civilização medieval com fenômenos como a aparição das grandes ordens cavalheirescas, do tomismo, certa mística de alto nível, por exemplo Mestre Eckhart, o espírito das Cruzadas, etcétera.
FR: Você considera que o conflito entre güelfos e guibelinos no curso da história européia seja algo mais que um simples episódio político e constituía um conflito entre duas formas de espiritualidade? Crê possível um recrudescimento do "guibelinismo"?
JE: A idéia de que as origens da luta entre o Império e a Igreja não foi somente uma rivalidade política, senão que esta luta traduziu a antinomia de dois tipos de espiritualidade, constitui o tema central de meu livro O Mistério do Graal e a tradição guibelina do Império. Este livro foi publicado em alemão e editar-se-á de pronto também em francês. No fundo, o "guibelinismo" atribuiu à autoridade imperial um fundamento de caráter sobrenatural e transcendente, algo que somente a Igreja pretendia possuir, o próprio Dante defende em parte a mesma tese. Assim, alguns teólogos guibelinos puderam falar de "religião real" e, em particular, atribuir um caráter sagrado aos descendentes dos Hohenstaufen. Naturalmente, com o império cristalizou um tipo de espiritualidade que não pode ser identificado com a espiritualidade cristã. Porém se estes são os dados do conflito güelfo-guibelino, está claro, então, que uma ressurreição do "guibelinismo" em nossa época é muito problemático. Onde encontrar, em efeito, as "referências superiores" para opor-se à Igreja, se isso não ocorre em nome de um Estado laico, secularizado, "democrático", ou "social", desprovido da concepção da autoridade procedente de cima? Já o "los von Rom" e o "Kulturkampf" do tempo de Bismarck tiveram somente um caráter político, para não falar das aberrações e da ficção de certo neopaganismo.
Evola-RAtMw.jpgFR: Em seu livro O Caminho do Cinabro, onde expõe a gênese de suas obras, admite que o principal defensor contemporâneo da concepção tradicional, René Guénon, exerceu certa influência sobre ela, ao ponto que definiram-te "o Guénon italiano". Existe uma correspondência perfeita entre seu pensamento e o de Guénon? E não crê, a propósito de Guénon, que certos entornos superestimam a filosofia oriental?
JE: Minha orientação não difere da de Guénon no que concerne ao valor atribuído ao Mundo da Tradição. Por Mundo da Tradição entende-se uma civilização orgânica e hierárquica na qual todas as atividades estão orientados pelo alto e para o alto e estão ligadas a valores que não são simplesmente valores humanos. Como Guénon, escrevi muitas obras sobre a sabedoria tradicional, estudando diretamente seus mananciais. A primeira parte de minha obra principal Revolta Contra o Mundo Moderno é precisamente uma "Morfologia do Mundo da Tradição". Também há correspondência entre Guénon e eu no que refere-se à crítica radical do mundo moderno. Sobre este ponto há não obstante divergências menores entre ele e eu. Dada sua "equação pessoal", na espiritualidade tradicional, Guénon assignou ao "conhecimento" e à "contemplação" a primazia sobre a "ação"; subordinou a majestade ao sacerdócio. Eu, ao contrário, esforcei-me em apresentar e valorizar a herança tradicional desde o ponto de vista de uma espiritualidade da "casta guerreira" e de ensinar as possibilidades igualmente oferecidas pela "via" da ação. Uma consequência destes pontos de vista diferentes é que, se Guénon assume como base para uma eventual reconstrução tradicional da Europa uma elite intelectual, eu, de minha parte, sou bastante propenso a falar de Ordem. Também divergem os juízos que Guénon e eu damos sobre o Catolicismo e a Maçonaria. Creio não obstante que a fórmula de Guénon não situa-se na linha do homem ocidental, que apesar de tudo, por sua natureza, está orientado especialmente para a ação.
Não pode-se falar aqui de "filosofia oriental", trata-se, em realidade, de uma modalidade de pensamento oriental que forma parte de um saber tradicional que, também no Oriente, manteve-se mais íntegro e mais puro que tomou o lugar da religião, porém que esteve difundido igualmente no Ocidente pré-moderno. Se estas modalidades de pensamento valorizam o que tem um conteúdo universal metafísico, não pode-se dizer que sejam superestimadas. Quando trata-se de concepção do mundo, faz falta guardar-se das simplificações superficiais. Oriente não compreende somente a Índia do Vedante, da doutrina do Maya, e da contemplação separada pelo mundo; também compreende à Índia que, com o Bhagavad Gita, deu uma justificativa sagrada para a guerra e para o dever do guerreiro; também inclui a concepção dualista e combativa da Pérsia antiga, a concepção imperial cosmocrática da antiga China, a civilização japonesa, tão distante por ser únicamente contemplativa e introvertida, onde uma fração esotérica do budismo deu nascimento à "filosofia" dos Samurais, etcétera.
Desgraçadamente, o que caracteriza o mundo europeu moderno não é a ação senão sua falsificação, quer dizer um ativismo sem fundamento, que limita-se ao domínio das realizações puramente materiais. "Está separada do céu com o pretexto de conquistar a terra", até não saber já o que é realmente a ação.
FR: Seu juízo sobre a ciência e sobre a técnica parece, em sua obra, negativo. Quais são as razões de sua posição? Não acredita que as conquistas materiais e a eliminação da fome e da miséria permitirão afrontar com mais energia os problemas espirituais?
JE: No que concerne o segundo tema que apresenta, dir-lhe-ei que, assim como existe um estado de embrutecimento devido à miséria, assim também existe um estado de embrutecimento devido ao bem-estar e à prosperidade. As "sociedades" do bem-estar, nas quais não pode-se falar de existência de fome e de miséria, estão longe de engendrar um aumento da verdadeira espiritualidade; mais bem, ali consta uma forma violenta e destrutiva de revolta das novas gerações contra o sistema em seu conjunto e contra uma existência desprovida de sentido, Estados Unidos-Inglaterra-Escandinávia. O problema consiste em fixar um limite justo, freando o frenesi de uma economia capitalista criadora de necessidades artificiais e liberando o indivíduo de sua crescente dependência da engrenagem social e produtiva. Faria falta estabelecer um equilíbrio. Até pouco tempo, o Japão deu o exemplo de um equilíbrio deste tipo; modernizou-se e não deixou-se distanciar do Ocidente nos domínios científicos e técnicos, inclusive salvaguardando suas tradições específicas. Porém hoje a situação é bem diferente.
yoga-power-julius-evola-paperback-cover-art.jpgHá um outro ponto fundamental a sublinhar: é difícil adotar a ciência e a técnica circunscrevendo-as dentro dos limites materiais e como instrumentos de uma civilização; ao revés, é praticamente inevitável que empapem-se da concepção do mundo sobre que baseia-se a moderna ciência profana, concepção praticamente inculcada em nossos espíritos pelos métodos de instrução habitual que tem, sobre o plano espiritual, um efeito destrutivo. O conceito mesmo do verdadeiro conhecimento vem assim a ser falseado totalmente.
FR: Você também falou de seu "racismo espiritual". Qual é o sentido exato dessa expressão?
JE: Em minha fase anterior, acredito necessário formular uma doutrina racial que teriam impedido que o racismo alemão e italiano concluíssem como uma forma de "materialismo biológico". Meu ponto de partida foi a concepção do homem como ser constituído de corpo, de alma e de espírito, com a primazia da parte espiritual sobre a parte corpórea. O problema da raça devia pois considerar cada um destes três elementos. Daí a possibilidade de falar de uma raça do espírito e da alma, ademais de uma raça biológica. A oportunidade desta formulação reside no fato de que uma raça pode degenerar, ainda permanecendo biologicamente pura, se a parte interior e espiritual morreu, minguou ou obscureceu,  se perdeu a própria força, como ocorre com alguns tipos nórdicos atuais. Ademais os cruzamentos, dos quais hoje poucas estirpes ficam fora podem ter como resultado que a um corpo de determinada raça estejam ligados em um indivíduo dado, o caráter e a orientação espiritual própria de outra raça, de onde deriva-se uma concepção mais complexa de mestiçagem. A "raça interior" manifesta-se pelo modo de ser, por um comportamento específico, pelo caráter, sem falar da maneira de conceber a realidade espiritual, os muitos tipos de religiões, de ética, de visões do mundo etcétera, podem expressar "raças interiores" bem ajustadas. Este ponto de vista permite superar muitas concepções unilaterais e ampliar o campo das investigações. Por exemplo, o judaísmo define-se acima de tudo nos termos de uma "raça" da alma, de uma conduta, única, observável em individuos que, desde o ponto de vista da raça do corpo, são muito diferentes. De outra parte, para dizer-se "ários", no sentido completo da palavra, não é necessário não possuir a mínima gota de sangue hebreu ou de uma raça de cor; faz falta acima de tudo examinar qual é a verdadeira "raça interior" ou seja o conjunto de qualidade que na origem corresponderam ao ideal do homem ariano. Tive ocasião de declarar que, hoje em dia, não deveria insistir-se demasiadamente no problema hebreu; em efeito, as qualidades que dominaram e dominam hoje em muitos tipos de judeus são, assim mesmo, evidentes em tipos "arianos", sem que nestes últimos possa-se invocar como atenuante a mínima circunstância hereditária.
FR: Na história da Europa, tem sido muitas as tentativas de formar um "Império Europeu": Carlos Magno, Frederico I e Frederico II, Carlos V, Napoleão, Hitler, porém ninguém logrou refazer, de maneira estável, o Império de Roma. Quais tem sido, segundo você, as causas destes fracassos? Pensa que hoje a reconstrução de um Império europeu seja possível? Se não, quais são as razões de seu pessimismo?
JE: Para responder, inclusive de maneira sumária, a esta pergunta, faria falta poder contar com um espaço maior que o de uma entrevista. Limitar-me-ei a dizer que os obstáculos principais, no caso do Sacro Império Romano, foi a oposição da Igreja, o início da revolta do Terceiro Estado, como no caso das Comunas italianas, o nacimento de Estados nacionais centralizados que não admitiam nenhuma autoridade superior e, por fim, a política, não imperial, senão imperialista da dinastia francesa. Eu não atribuiria, à  tentativa de Napoleão, um verdadeiro caráter imperial. Apesar de tudo, Napoleão foi o exportador das idéias da Revolução francesa, idéias que foram utilizadas contra a Europa dinástica e tradicional.
No que refere-se a Hitler, teria que fazer algumas reservar na medida em que sua concepção de Império baseou-se no mito do Povo, Volk = Povo-Raça, concepção que revestiu um aspecto de coletivização e exclusivismo nacionalista, etnocentrismo. Somente no último período do Terceiro Reich os pontos de vista estenderam-se, de uma parte graças à idéia de uma Ordem, defendida por alguns entornos da SS, de outra graças à unidade internacional das divisões européias de voluntários que combateram na frente oriental.
Pelo contrário, convém recordar o princípio de uma Ordem européia que existiu com a Santa Aliança, cuja decadência fiu imputável em grande parte à Inglaterra e também com o projeto chamado Drei Kaiserbund, nos tempos de Bismarck: a linha defensiva dos três imperadores que teria tido que englobar também à Itália, com a Tríplice Aliança e o Vaticano e opor-se às manobtas antieuropéias da Inglaterra e da própria América.
EvolaQSJ.jpgUm "Reich Europeu", não uma "Nação Européia", seria a única fórmula aceitável desde o ponto de vista tradicional para a realização de uma unificação autêntica e orgânica da Europa. Quanto à possibilidade de realizar a unidade européia desse modo, não posso não ser pessimista pelas mesmas razões que induziram-me a dizer que hoje, há pouco espaço para um renascimento do "guibelinismo": não há um ponto de referência superior, não existe um fundamento para dar solidez e legitimidade a um princípio de autoridade supranacional. Não pode-se em efeito descuidar deste ponto fundamental e conformar-se em recorrer à "solidariedade ativa" dos europeus contra as potências antieuropéias, passando por cima das divergências ideológicas. Inclusive quando chegara-se, com este método pragmático, a fazer da Europa uma unidade, sempre existiria o perigo de ver nascer, nesta Europa, novas contradições desagregadoras, em particular no que concerne às divergências ideológicas e e as causadas pela falta de um princípio de autoridade superior. Hoje é difícil falar de uma "cultura comum européia": a cultura moderna não conhece fronteiras; a Europa importa e exporta "bens culturais"; não somente no domínio da cultura, senão também no domínio do modo de vida, manifesta cada vez mais uma nivelação geral que, conjugada com a nivelação produzida pela ciência e pela técnica, providencia argumentos não aos que querem uma Europa unitária, senão aos que desejariam edificar um Estado mundial. Novamente, nos deparamos com o obstáculo constituído pela inexistência de uma verdadeira idéia superior diferenciadora, que deveria ser o núcleo do império europeu. Mais além de tudo isto, o clima geral é desfavorável: o estado espiritual de devoção, de heroísmo, de fidelidade, de honra na unidade, que deveria servir de cimento ao sistema orgânico de uma Ordem européia imperial é hoje, por assim dizer, inexistente. O primeiro a fazer deveria ser uma purificação sistemática dos espíritos, antidemocráta e antimarxista, nas nações européias. Sucessivamente, far-se-ia necessário poder sacudir as grandes massas de nossos povos com meios diferentes, seja recorrendo aos interesses materiais, seja com uma ação de caráter demagógico e fanático, que necessariamente, influiria na capa subpessoal e irracional do homem. Estes meios implicariam fatalmente certos riscos. Porém todos estes problemas são extremadamente difíceis de solucionar na prática; por outra parte, já tive ocasião de falar disso em um de meus livros, Homens Entre as Ruínas.

mercredi, 10 août 2011

Sun Worship

 

sollevant.jpg

Sun worship
(written by Dr. F. J. Los, reprinted from "The Northlaender")

Ex: http://freespeechproject.com/

 

The sun has been revered as a deity by a variety of peoples. However, it is clear that it was not only as a beneficial, but also as a dreaded and destructive power, that this heavenly body was adored in hot countries. So in ancient Egypt the sun god Rah (or Amon-Rah)was represented by a man bearing a sun disc on his head, which was surmounted by the Uraeus-snake. The reptile symbolizing the withering effect of the sun often has been used in the Near East. Quite different was the situation in Central and Northern Europe, where a sufficient amount of sunshine was essential for the ripening of crops. Here the sun was worshipped as a beneficial power as soon as agriculture became the principal means of support during the Neolithic period (+/- 4000 - 2000 BCI).

 

Consequently it was the ancient Indogermans, originally centered in the basin of the Danube, who spread its cult throughout Europe and even into other parts of the world. How firmly the befief in the creative power of the sun was rooted in the minds of these early Nordics becomes clear when we look at the ruins of the biggest megatithic monuments of Northern Europe, the sun sanctuary of Stonehenge.

 

Of course it is unnecessary here to desctibe in detail this gigantic monument the remains of which command, since prehistoric times, the Salisbury Plain in Southern England. The visitor wonders how it was possible to transport and set up the enormous blocks of stone the majority of which had been hewn, as modern research has proven, from the rocks of the Prescelly Chain in South Wales, a distance of 274 km measured along the overland route that was in all probability followed. What people erected this imposing monument and what was its purpose?

 

The scientific investigation of its ruins, which was carried through in recent times, has made it possible to answer both questions. The sanctuary was undoubtedly dedicated to the worship of the Sun as is proven by the fact that the line from the middle of the so-called "altar stone", lying in its center, to the "Hele Stone" at the entrance, is directed to the point in the NE where the sun rose on midsummer day.

 

According to the archaeologists there were three building periods, the first of which is dated by means of a radio-carbon test, at about 1840 BCI. Recently a number of drawings of Mycenean daggers and flanged axes were detected on some of the stones, and it is supposed that the final completion of the sanctuary, about 1700 BCI, took place under the direction of an architect from the Greek town of Mycenae.

 

However, its construction is ascribed to the so-called Bellbeaker Folk whose graves, known as the 'round barrows', abound in the vicinity of the monument.

 

This people whose original habitat lay in Central Spain spread over Europe at the beginning of the second millennium BCI, diffusing at the same time the knowledge of the first metals: copper and bronze. They reached Britain in two successive waves, the first coming from the Netherlands, the second from the western parts of Germany (about 1700 BCI).

 

In both countries they had mixed with elements of another people, the Indogermanic (Indo-European) Battle Axe People, whose original fatherland lay in Saxony and Thuringia. The amalgamation of both peoples makes understandable why the skeletons which have been unearthed from the round barrows belong partly to the Faelian, partly to the Nordic type, and why copper daggers as well as stone hammers were found in them.

 

That it was the Nordic element of the Beaker Folk that introduced the worship of the sun in Britain is admitted by one leading English archaeologist in the forllowing words: "So it was the strong Indo-European element infused into our Beaker culture by the Battle Axe Warriors which gave its religion this skyward trend. We are witnessing the triumph of a more barbaric Zeus over the ancient Earth Mother dear to the Neolithic peasantry, the goddess whom they had brought with them from the centers of her fertile power in the Mediterranean and the Near East. "

 

To make it clear that this replacement of one religion by another was the consequence, not of a gradual evolution, but of an invasion, we must cast a glance at the Scandinavia of the Bronze Age. There, on the rock engravings of Bohuslan in Southern Sweden, are to be seen ships bearing a sun disc and manned by men who swing battle axes; winged horses, concentric circles, spirals, wheel crosses and other symbols of the sun can also be seen.

 

The horses are destined to pull the sun chariot along the sky in day time, which reminds us of the ancient myth of Phaeton; a ship was thought to transport the sun through the underworld back to the East at night. A slightly different version of the same idea is well-known from the Norse legends.

 

To the same Nordic culture belong bronze razors adorned with a sun wheel or the head of a horse. From a later phase of the Bronze Age dates the famoussun chariot of Trundholm, a magnificent testimony to the artistic taste and professional skill of the old Nordics.

 

With all the Indogermanic peoples we find at the dawn of history the worship of heaven gods: Dyas piter with the Aryan Indians, Ahura mazda with the Persians, Papios with the Scythians, Zeus with the Germans and Dasjbog with the Slavs. However, the Greek Phoibos Apollo (i.e. "the radiant" Apollo), the Roman Sol invictus (the unconquered sun) and the Persian and Mitannian Mithra(s) remained genuine sun gods. The anthropomorphic (humanized) character these gods had assumed in the course of time is a late development which might be considered a degeneration.

 

How far the sun worship had spread during the Bronze Age becomes clear when we look at three countries that lie far apart: Peru, Egypt and Palestine. In the empire of the Inca's the sun was adored in the form of a golden disc, surrounded by beams. Its principal festival was that of the winter solstice, on June 21.

 

The Incas (which were an aristocratic leading class among the mongolian American Indians) are described by a Spanish author as of a white complexion with hair that was as blond as ripened wheat. Of one of their forbears, Vicacocha Inca, who was described as a blond and bearded man of white complexion, the first Spaniards were told that he had conquered the land coming from the North, and later fled overseas having suffered a crushing defeat. According to Thor Heyerdahl, he reached Polynesia where ancient legends speak of him as Kon-Tiki. All these facts and many more make it possible that sun worship was imported into Peru by immigrants from Europe.

 

We know today that not only the Vikings reached America before Columbus, but that also many years previous peoples from North Africa (ruled and occupied by a Nordic upper class) could cross the ocean in primitive but sea-worthy vessels.

 

With regard to Egypt it is generally known that the pharaoh Amenophis IV (1375-1358 BCI) tried to introduce a monotheistic religion by declaring the sun god Aten the only god, while he renamed himself Akhenaten (i.e. glory of the sun disc). The historians usually omit the fact that this pharaoh was in all probability, just as his father Amenophis III, the son of a Mitannian princess as in portraits he appears as a Nordic.

 

The Mitanni were ati Aryan people who had founded a mighty empire in Northern Syria. Also in this case the connection between culture and race is apparent. Another religious reform, but in the opposite direction, was carried through in 622 BC in the kingdom of Judah by King Josias. Among other cults, sun wlorship was suppressed by him in a barbaric and bloody manner. It is very remarkable when we read in II Kings 23:11 "And he took away the horses that the kings of Judah had given to the sun... and burned the chariot of the sun with fire". Does not this text remind us of the sun chariot of Trundholm?

 

Sun worship belongs to the sunken world of the Northern Bronze Age, the culture that was destroyed by the nature catastrophes of about 1220 BCI. With the Indogermanic religions of later times it has in common its character of nature worship. To the elrements of the former cult that submerged into christianization among the Teutons belong the feasts of the summer and winter solstices, but also a number of symbols such as the wheel cross and the swastika. It may be that the christian mode of praying with closed eyes is atso a relic of the religion of our forbears as it is impossible to look at the sun with your eyes fully open.

 

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mardi, 09 août 2011

Völsunga saga

Völsunga saga

“Ok nú er þat fram komit, er fyrir löngu var spát ok vér höfum dulizt við, en engi má við sköpum vinna” 

[1]

 

De Völsunga Saga is opgeschreven in de dertiende eeuw door een onbekende IJslandse auteur. Hoewel het een middeleeuws manuscript is, dateert een groot deel van het materiaal uit de vroege vierde of vijfde eeuw. In wezen is de Völsungensage een verhaal dat uit de Germaanse orale verteltraditie is gegroeid, met het Duitse Nibelungenlied als de bekendste variant. Richard Wagner, die de Nibelungensage omzette naar een opera, vertelde maar een fractie van de sage en dan nog in een zeer vrije versie. Het verhaal dat hieronder verteld wordt, is de IJslandse, en dus de meest volledige, versie. Deze sage bevat staat bol met mythologische en historische verwijzingen. Zo is ‘Atli’ niemand minder dan Atilla de Hun. Let vooral op de subtiele parallellen met andere mythes uit Europa, zoals de wispelturigheid van de goden wanneer ze tussenkomen in de wereldlijke affaires van het Völsungengeslacht. Dit is een vrije vertaalde versie, gebaseerd op het verhaal zoals opgetekend in het cd-boekje van ‘The Völsunga Saga’ (2006) van de Vlaamse muziekgroep Theudho.

Sigi was vermoedelijk de sterfelijke zoon van Odin, de machtigste der Goden. Op een dag ging hij jagen, vergezeld door een slaaf genaamd Bredi. Deze slaagde erin een betere partij te leveren dan Sigi en hij confronteerde de zoon van Odin met deze feiten. Sigi was woedend door zulke arrogantie, dat hij Bredi ter plekke doodsloeg. Hij trachtte diens lichaam te verbergen onder een hoop sneeuw, maar al snel genoeg werd Bredi’s lichaam ontdekt door andere dorpelingen. Als een gevolg hiervan werd Sigi verbannen van zijn dorp en werd hij ‘Varg í veum’ genoemd, ‘Wolf in het heiligdom’. Odin leidde Sigi naar verafgelegen landen waar hij een leger oprichtte en door talloze militaire campagnes veel geld en macht verwierf. Hij trouwde en kreeg een zoon die Rerir noemde.

 

Sigi veroverde het land van de Hunnen, maar werd op een verraderlijke manier vermoord door zijn schoonbroers. Zijn zoon Rerir zwoer op die dag wraak en zou niet rusten vooraleer hij de moordenaars van zijn vader zou straffen. Hij eiste de bezittingen van zijn vader op en sloeg er zelfs in diens weelde en macht te overtreffen. Naast het vele plunderen vond Rerir het geluk in de liefde en trouwde met een vrouw waarvan hij erg hield. Helaas bleef hun huwelijk kinderloos. Omdat de troon geen erfgenaam had, baden Rerir en zijn vrouw tot de Asen om een zoon. De Godin Frigga hoorde hun noodlottige aanroeping en, met Odins’ toestemming, zond zij de Walküre Ljod, dochter van de reus Hrimnir, naar Rerir. Zij droeg een betoverde appel met zich mee dat de felbegeerde wens van Rerir en zijn vrouw zou vervullen. De vrouw van Rerir geraakte vlug zwanger, maar het kind leek niet geboren te willen worden waardoor haar gezondheid fel achteruit ging. Omdat ze voelde dat ze vlug zou sterven eiste zij dat het kind uit haar lichaam gesneden zou worden en zo gebeurde het … Wanneer het kind eindelijk geboren was, was hij reeds groot en kuste zijn stervende moeder vaarwel. Het kind heette Völsung. Hoewel hij slechts een kind was toen zijn ouders stierven, heerste hij over het land van de Hunnen. Hij trouwde met de Walküre Ljod, waarmee hij tien sterke zonen en een prachtige dochter, genaamd Signy, kreeg. Völsung bouwde een adellijke hal rondom een monumentale eik, genaamd Branstock.

Siggeir, de koning van de Goten, vroeg permissie om de hand van Signy om ermee te trouwen. Völsung stemde toe, hoewel Signy niet tevreden was met het huwelijk. Tijdens het huwelijksfeest werd de toegang van de hal verduisterd door een grote, eenogige man in een hemelsblauwe mantel. Dit was niemand minder dan Odin. Zonder de aanwezige gezellen te begroeten wandelde hij zonder enige aarzeling richting de eik Branstock, trok zijn zwaard en stak hij het tot het gevest van het zwaard in de boomstam. Niemand kon het zwaard uit de boomstam halen tot Sigmund, Signy’s broer zijn krachten bundelde. Hij trok het zwaard uit de boomstam, wat het hart van Siggeir smartelijk vulde met nijd. Hij bood Sigmund aan het zwaard over te kopen, maar Sigmund weigerde. Dit beledigde Siggeir zo hard dat hij zwoer de Völsungen uit te roeien. Hij nodigde hen uit op zijn hof en lokte hen in een hinderlaag. Sigmund werd gedwongen het zwaard op te geven aan Siggeir, die de Völsungen veroordeelde tot een gruwelijke dood. Zij werden geketend aan een gevallen eik in het woud, zodat zij zouden sterven aan honger en dorst  – tenminste, als het wilde beest dat in de wouden rondzwierf hen niet zou opeten. Elke nacht kwam het beest een van Sigmunds’ broers opeten. Een voor een werden ze opgegeten door het beest, een wrede wolf, totdat enkel Sigmund overbleef. Heimelijk smeerde Signy honing op het gezicht van haar broer en in zijn mond. Dit zorgde ervoor dat de wolf Sigmunds’ gezicht likte in plaats van te bijten. Wanneer de wolf in Sigmunds’ mond trachtte te likken beet Sigmund diens tong eraf met zijn tanden, waardoor het beest jankend wegliep. Zo sloeg Sigmund erin te ontsnappen en leefde verborgen in het woud. Samen met zijn zus Signy zwoer hij Siggeir te doden.

Omdat Signy realiseerde dat enkel een volbloed Völsung hen zou helpen in hun wraak, vermomde zij zich in een heks. Zo spendeerde zij een nacht met haar broer, die dit niet wist en baarde een incestueuze zoon, Sinfjötli. Jaren later sloeg Siggeir erin Sigmund en Sinfjötli gevangen te nemen. De wrede Goot beval dat ze levend begraven zouden worden in een aardheuvel. Om hun lijden te verlengen, liet Siggeir Signy toe haar verwanten wat voedselvoorraden mee te geven. In plaats van voedsel, gaf ze hen het onbreekbare zwaard van Odin aan hen, waarmee ze ontsnapten. Om hun uiteindelijke wraak uit te voeren, staken Sinfjötli en Sigmund de hal van Siggeir in brand. Toen Siggeir en de Goten stierven in de brand werden de Völsungen eindelijk gewroken. Sigmund keerde terug naar zijn thuisland en eiste de troon opnieuw op waarop hij trouwde met Borghild. Zij was jaloers op Sigmunds’ zoon Sinfjötli en vergiftigde hem. Sigmund moest zijn eigen zoon naar het woud brengen waar hij een man ontmoette die het lichaam van Sinfjötli aan de andere kant van de fjord zou brengen. Wanneer de boot het midden van de fjord bereikte verdween deze. De schipper bleek niemand anders te zijn dan Odin, die Sinfjötli naar Walhalla bracht …

Als een straf voor haar misdaad verliet Sigmund Borghild en maakte een vrouw genaamd Hjordis tot koningin. Koning Lyngvi, die ook om Hjordis’ hand vroeg, werd zo woest dat hij een leger oprichtte en ten strijde trok tegen Sigmund. Hoewel Lyngvi’s leger superieur was, stapelden de doden rond Sigmund zich in ijltempo op. Niemand bleek op te kunnen tegen Sigmund, tot een eenogige krijger arriveerde die met een krachtige zwaai het zwaard van Sigmund vernielde. De held kon zich zelf niet verdedigen en viel neer door zijn fatale verwondingen. De stervende Sigmund beval Hjordis om de stukken van zijn gebroken zwaard te verzamelen en hen te geven aan hun ongeboren zoon. Op een dag zou het zwaard opnieuw gesmeed worden en de naam Gram krijgen. Enige tijd later gaf Hjordis geboorte aan de zoon van de gevallen Sigmund, die naar het hof van koning Hjalprek gezonden werd. Hij noemde deze zoon Sigurd en beval dat Regin de smid de taak als opvoeder zou opnemen. Geleid door Regin oefende Sigurd tot hij een bekwaam krijger werd, maar hij leerde ook de geheimen van de runen, vele talen, muziek en de kunst van welbespraaktheid. Toen Sigurd man werd vroeg hij aan Hjalprek om een paard. Hij reed naar de wouden en kwam een oude man tegen met een grijze lange baard. De oude man vertelde hem een bijzonder paard te kiezen, waarvan gezegd word dat deze een afstammeling van Sleipnir was, het achtbenige paard van Odin.

Sigurds’ opvoeder Regin hoopte dat Sigurd hem zou helpen in het verkrijgen van de schat van zijn broer. Hij vertelde Sigurd het verhaal van zijn broers Fafnir en Otter en zijn vader Hreidmar. Terwijl Regin een begenadigd smid was, was Otter een uitstekende visser. Overdag was hij in een otter veranderd en kon zo gigantische aantallen vis verzamelen die hij aan zijn vader leverde.  Op een dag passeerden Odin, Haenir en Loki langs een waterval. Otter had een zalm gevangen en at de vis op met gesloten ogen op de rivieroever. Niet wetende dat otter een gedaanteverwisselaar was, nam Loki een steen en gooide hem dood. Toen Hreidmar zijn zoon dood zag beval hij dat de Asen gevangen zou genomen worden. In ruil voor weergeld zou hij deze terug vrijlaten. Loki kon genoeg goud inzamelen om de huid van Otter te vullen. Hij leende het net van de godin Ran om de dwerg Andvari te vangen, die vaak in de rivier rondzwierf in de vorm van een snoek. Loki ving hem in zijn netten en Andvari was verplicht al zijn geld op te geven, inclusief een gouden ring die hij verborgen wilde houden. Hij vervloekte de ring, zwerende dat eenieder die het goud in bezitting nam, zou sterven. Hreidmar verkreeg de schat en de goden werden vrijgelaten. De vloek van Andvari werd snel werkelijkheid toen Fafnir zijn vader vermoorde. Het goud maakte Fafnir wreed en trok terug in de wildernis met zijn schat en veranderde uiteindelijk in een gruwelijke draak. Dit is hoe Regin zijn rechtmatige erfenis verloor.

 

Sigurd ging in op de vraag van Regin om de schat te verkrijgen die Fafnir bewaakte. Een goed zwaard zou hem in deze queeste kunnen helpen. Met al zijn talent smeedde Regin een zwaard die Sigurd echter op een aambeeld stuk sloeg. Hij gooide de stukken terug naar Regin en eiste hem een nieuw zwaard te smeden. Maar het tweede zwaard die Regin smeedde ging eveneens kapot. De woedende Sigurd verweet Regin even onbetrouwbaar te zijn als zijn verwanten. Sigurd ging nu naar zijn moeder en vroeg haar of de verhalen van het gebroken zwaard juist waren. Zijn moeder beaamde wat hij geleerd werd en gaf hem de stukken van het zwaard, terwijl zij meegaf dat nog vele heroïsche daden werden verwacht van hem. De heldhaftige krijger bracht het gebroken zwaard naar Regin, die het zwaard Gram terug herstelde. Met een machte houw doorklief Sigurd het vervloekte aambeeld. Daarna nam Sigurd het zwaard mee naar een rivier, plaatste het rechtop in een rivier en gooide een stuk wol in de rivier. Wanneer de wol botste met het zwaard werd zij in tweeën gesneden. Met vreugde in zijn hart keerde Sigurd terug naar Regin die hem herinnerde trouw te zijn aan zijn eed om Fafnir te doden. Sigurd zwoer de draak de doden, maar trok er eerst op uit om zijn vader te wreken.

Sigurd verzamelde een massief leger en zeilde aan het hoofd van de grootste drakkar richting het land van Hundings’ zonen. Na enkele dagen zeilen brak er een gewelddadige storm uit waardoor de zee leek te bestaan uit bloed in plaats van water. Wanneer de vloot langs een uitstekende rots kwam begroette een man de schepen vroeg wie de leiding had. Hij werd verteld dat Sigurd Sigmundarson de leiding had. De man, die zichzelf voorstelde als Hnikar vroeg om mee te zeilen en toen hij aan boord ging stak de wind opeens fel op. De vloot bereikte het rijk van Hundings’ en Sigurds’ leger trok erop uit om te plunderen en het vuur en het zwaard te laten spreken. In angst vluchtten velen naar het hof van Lyngvi en waarschuwden hem voor Sigurd. Lyngvi trok met zijn leger op zoek naar Sigurd en het duurde niet lang voor zij elkaar tegenkwamen. Sigurd baande zijn weg door de vijandelijke troepen en zijn armen werden helemaal bedekt met het bloed van zijn vijanden. Dan ontmoette hij Lyngvi op het slagveld en met een machtige houw doorkliefde hij diens helm, hoofd en borstplaat waarna hij diens  broer Hjörvard in tweeën hakte. Hij doodde de resterende zonen van Hunding en een groot deel van Lyngvi’s leger. Zwaar beladen met de plundergoederen keerde Sigurd terug naar huis. Hij rustte niet, want hij zou zijn eed aan Regin vervullen en hij trok erop uit om zichzelf met Fafnir te confronteren.

Regin en Sigurd reden naar het moeras waar zij een pad vonden waarlangs Fafnir vaak ging om te drinken van een nabijgelegen vijver. Regin beval Sigurd om een put te graven en te wachten op hem. Wanneer het serpent over het hol zou kruipen kon hij zijn hard doorboren. Nog voor de zon opging begon Sigurd aan het graven van deze put zoals gepland. Een oude man kwam langs en vroeg wat hij aan het doen was. Hij vond het idee vreselijk en raadde Sigurd aan om meer putten te graven om het bloed te verzamelen. Sigurd volgde zijn wijze raad en groef meer putten. Hij verstopte zichzelf in een van hem, bedekte zichzelf met zijn mantel en wachtte tot de draak over de put kwam gekropen. Kort na de dageraad verscheen Fafnir uit zijn schuilplaats om zijn dorst te lessen. Wanneer de draak langs de put kwam stak Sigurd zijn zwaard diep in de buik van Fafnir. Nu beval Regin dat Sigurd het hart van Fafnir zou braden als weergeld voor de dood van zijn broer. Veronderstellende dat het vlees zacht was, raakte Sigurd dit hart aan met zijn wijsvinger. Onwetende dat het hart reeds warm was, verbrandde hij zijn vinger en stopte het instinctievelijk in zijn mond om de pijn de verzachten. Zo proefde Sigurd het bloed van Fafnir. Nu verstond Sigurd de taal van de vogels, die vanuit een nabije boom vertelden over Regin’s nakende verraad en over de slapende Walküre Brynhild. Vooraleer hij op pad ging om de Walküre te zoeken, onthoofde Sigurd Regin en nam bezit van de schatten van Fafnir: de vervloekte ring Andvaranaut, het zwaard Hrotti, de helm van Afgunst en de Gouden Byrnie.

Gestraft door Odin voor haar ongehoorzaamheid, lag Brynhild te slapen in een ring van vuur totdat een sterfelijke man moedig genoeg was om deze te doorbreken. Sigurd reed van Hindfell naar het zuiden naar het land van de Franken toen hij een kasteel tegenkwam dat zich in het midden van vlammen bevond die richting de hemelen reikten. Hij sloeg erin de ring van vuur te doorbreken om Brynhild te bereiken en maakte haar wakker. Sigurd kon zich niet beschikbaar stellen en zwoer terug te keren. Hij plaatste de ring Andvaranaut rond haar vinger en zwoer om alleen van haar te houden. In het verloop van de daaropvolgende rondzwervingen kwam Sigurd in het land van de Niflungen, waar een permanente mist heerste. Koning Giuki en zijn koningin hadden drie zonen: Gunnar, Högni en Guttorum, en een dochter die Gudrun heette. Gudrun werd verliefd op Sigurd en liet hem een liefdesdrank drinken die hem zijn eed aan Brynhild deed vergeten. Hierna vroeg hij om Gudruns’ hand aan Giuki en trouwden ze. Snel daarna stierf Giuki en zijn oudste zoon Gunnar volgde hem op. Grimhild raadde hem aan een vrouw tot zich te nemen en suggereerde dat Brynhild waardig zou zijn. Dit gebeurde met de steun van Sigurd. Het was immers dankzij magie dat Sigurd en Gunnar van gedaante verwisselden zodat Sigurd als Gunnar door de vuurring kon gaan om Brynhilde (nogmaals) te verleiden. De escalerende jaloezie tussen Gudrun en Brynhild leidde echter tot een vroege dood van Sigurd door de handen van Guttom, op vraag van Gunnar. Overmand door verdriet naast het brandende grafvuur van Sigurd doodde Brynhild zichzelf en werd ze naast Sigurd geplaatst, een man van wie ze altijd is blijven houden.

Gudrun kon niet getroost worden na de dood van Sigurd. Samen met haar dochter vluchtte ze naar het hof van koning Alf en koningin Thora in Denemarken waar ze de rust vond waarnaar ze op zoek was. Die rust zou echter niet lang duren aangezien Atli, de koning van de Hunnen, naar het hof van Gunnar reisde om Gudruns’ hand te vragen. Omdat Gunnar vreesde dat een weigering zou resulteren in een invasie van zijn land door de Hunnen ging hij akkoord en reisde hij met een groot gevolg naar Denemarken om Gudrun te overtuigen. In eerste plaats kon zij niet overtuigd worden, maar het is haar moeder Grimhild met een betoverde drank dat Gudrun haar verdriet om Sigurd vergat dat zij toegaf aan de eis van Atli. Na het huwelijk keerden de herinneringen echter langzaam terug, ondanks het feit dat ze twee zonen baarde aan Atli. Atli leerde dat de schat van Sigurd aan Gudrun toebehoort en eiste aan Gunnar dat hij deze zou overdragen. Daarom nodigde hij Gunnar en zijn broer Högni uit op een feest in het land van de Hunnen. Gudrun wist wat Atli van plan was en trachtte haar broers te waarschuwen door een bericht in runen te sturen naar haar broers. Maar Vingi, de boodschapper van Atli, kon runenschrift lezen en veranderde de letters zodat de broers werden aangemaand snel te komen naar het hof van Atli. Maar Gunnar en Högni waren met reden achterdochtig. Zij dumpten de schatten van Sigurd in de Rijn en bezwoeren een eed om de locatie nooit te onthullen.

 

Toen de broers aankwamen overviel Atli de twee broers. Toen Gudrun haar verwanten in het gedrang zag nam zij een zwaard en vocht kloekmoedig aan de zijde van haar broers. Ondanks hun moed werden beide broers gevangen genomen. Geen van hen zou de locatie van de schat onthullen, maar bedreigd met martelingen zei Gunnar aan Atli dat hij wou toegeven, op voorwaarde dat Atli het hart van Högni zou uitsnijden zodat hij nooit zou weten dat zijn broer de eed had verbroken. Nu Högni dood was, was Gunnar de enige die het geheim wist. Toen hij realiseerde dat hij in de val was gelopen werd Gunnar vastgeknoopt en in een put vol slangen gegooid. Hij kon het onvermijdelijke vertragen door de slangen te sussen door harp te spelen met zijn tenen. Alle slangen waren daardoor betoverd, behalve een die Gunnar beet en zijn dood veroorzaakte. Dorstend naar wraak organiseerde Gudrun een begrafenisfeest ter ere van haar broers die stierven in de slachting aan het hof van Atli. Terwijl de feesten aan de gang waren doodde Gudrun de twee zonen die zij aan Atli gebaard had. Ze mengde hun bloed met de wijn en diende hun geroosterde harten op aan Atli en zijn gasten. Uiteindelijk vroeg Atli haar waar zijn zoons waren. Zij vertelde de grimmige waarheid en stak hem dood. Terwijl hij stierf moest Atli horen hoe zijn vrouw hem vertelde dat zij altijd van Sigurd was blijven houden. Ze stak de hal van Atli in brand en daarmee de rest van Atli’s gasten die te dronken waren om te vluchten.

Na deze tragische gebeurtenissen wilde Gudrun een einde maken aan haar leven. Koning Jonakr stopte Gudrun en trouwde met haar. Zij kregen drie kinderen: Hamdir, Sörli en Erp. Ook een dochter kwam voort uit dit huwelijk, genaamd Svanhild. Later geraakte Svanhild verwikkeld in een romantisch dispuut tussen koning Jörmunrek en zijn zoon Randver. Door de verraderlijke daden van de raadsman Bikki, verhing Jörmunrek zijn eigen zoon en werd Svanhild dood vertrappeld door wilde paarden. Gudrun moedigde haar zonen aan om hun zus te wreken. Gehuld in glimmend harnas dat hen ontastbaar maakte voor zwaarden, speren en pijlen vielen Hamdir en Sörli de weerloze Jörmunrek aan. De broers sneden zijn handen en voeten af. Ook Jörmunreks’ mannen stonden machteloos totdat Odin aan hen verscheen en hen adviseerde stenen te gebruiken, teneinde hun machteloosheid te doorbreken. In een regen van neervallende stenen ontmoetten Hamdir en Sörli hun ondergang. En zo eindigt de sage van de Völsungen!

P.

Les fondements du paganisme celtique et slave

SYNERGIES EUROPÉENNES
COMBAT PAÏEN
NOVEMBRE 1989

Les fondements du paganisme celtique et slave


beltaine.jpgCeltes et Slaves honoraient un dieu du ciel et nous en retrouvons les traces aujourd'hui encore dans des mythes, des noms de sites cultuels, des coutumes traditionnelles. Les mythes celtiques, après une christianisation superficielle, ont été transposés dans des littératures richissimes, qui continuent à nous enchanter. Les Slaves ont pu conserver sans trop de problèmes leurs propres mythes dans les coutumes de la religion orthodoxe, demeurée paysanne et enracinée. Mais certains mythes importants semblent manquer, ne pas avoir survécus: ce sont surtout les mythes cos-mogoniques. Cela ne signifient pas que Celtes et Slaves n'ont jamais eu de mythes cosmogoniques. Mais les divinités personnalisées, même quand elles sont au sommet du panthéon, comme Huga-darn/ Dagda et sa partenaire Ceridwen/Dana chez les Celtes, ne sont pas la cause ultime du cosmos mais ce rôle est dévolu à un esprit, le Gwarthawn, détenteur de la force vierge des origines, puissance toujours in-stable, jamais au repos. Son lieu de résidence est un monde originel, un Urwelt, où les catégories du temps et de l'espace sont absentes. C'est cet esprit informe et insaisissable qui, un jour, a décidé de puiser un homme et une femme du fond-de-monde, de ce magma profond et sombre, pour en faire les parents originels de l'humanité. Ces parents sont précisément le couple de dieux du sommet du panthéon: Hugadarn/Dagda dont le nom signifie "sagesse" et "donneur"; Cerid-wen/Dana dont le nom signifie "Sécurité/apaisement tellurique" et "protectrice". Ceridwen/Dana est la mère des "matrones".

Les oeuvres des matrones sont connues. La tradition nous les a transmises. Elles sont les trois filles du couple originel et détiennent une fonction d'ordre bio-génétique. Elles vivent dans les eaux et près des eaux. Le peuple les vénérait comme des forces favorisant la croissance et la fertilité. Il leur érigeait de modestes chapelles votives, objets d'une ferveur profonde, naïve et naturelle, le long des ruisseaux et rivières, près des sources. Ces trois femmes symbolisent le principe créateur qui se manifeste dans l'ensemble du vivant. Elles garantissent ce qui demeure stable dans le tour-billon vital du devenir et préservent les virtualités qui restent en jachère.

Les peuples slaves, comme les Perses de l'Antiquité, perçoivent l'opposition violente entre un principe de lumière, symbolisé par un être blanc, et un principe d'obscurité, symbolisé par un être noir. Cette polarité, que l'on retrouve sous des noms très divers chez la plupart des peuples de la plus lointaine antiquité indo-européenne, oppose un principe "constructeur" (qui laisse s'éclore nos virtualités) à un principe "destructeur" (qui empêche nos virtualités de s'éclore). Cette lutte, ce combat, est cosmogonique au sens strict du terme. Le principe blanc, principe de lumière, transforme et conserve tout à la fois: il s'oppose aux destructions, aux étouffements, aux ara-sements, aux blocages qu'impose le principe noir. Tout ce qui naît et croît, tout ce qui affirme la vie, pro-cède donc du  principe blanc.

Précisions sémantiques et étymologies:

Gwarthawn: cet esprit primordial, symbole du deve-nir, contient la racine celto-germanique "hawn", signifiant "frapper"; c'est donc par coups et violence que cet esprit fait jaillir la vie et la nouveauté. Dans l'iconographie païenne, on le symbolise souvent par un taureau, un bouc, un sanglier ou un cerf.

Ceridwen: en celtique, ce mot signifie "biche à la ra-mure de cerf". En celtique comme en italique (latin), la racine "cer-", que l'on retrouve dans "cervus" (= cerf), signifie souvent aussi "tête dure", "querelleur", etc.

Dagda et Dana: ces surnoms des deux parents origi-nels signifient "donateur", "veilleur", "protecteur".

Les "matrones": chez les Celtes, elles forment une triade de mères originelles donnant naissance à toute vie. Elles représentent la végétation, les matrices, les flux vitaux, et jouissent d'autant de prestige que les nornes ger-mano-scandinaves, les parques romaines et les moires grecques.

Source: Fritz LEY, Das Werden von Welt und Mensch in Mythos, Religion, Philosophie und Naturwissenschaft. Ein Beitrag zur Problematik des Gottesbegriffes,  Heimweg-Verlag, Neu-Isenburg, 1985.

samedi, 16 juillet 2011

Martin Heidegger en de traditie van het Westers denken

heidegger2.jpg

Martin Heidegger en de traditie van het Westers denken

door Marc. Eemans

Ex: http://marceemans.wordpress.com/

Zoals veel andere traditionele denkers uit het Westen, en hoewel hij graag verwijst naar een “hyperboreïsche” (Noordse) kijk op de “primordiale Traditie”, meent Julius Evola toch dat “het licht uit het Oosten komt: “ex Oriente lux”, daarbij menend dat de resten van deze traditie het best bewaard bleven in de Vedas en in de Avesta. Volgens hem – trouwens ook volgens veel andere traditionalistische denkers – begint de neergang van onze wereld zowat 7 of 8 eeuwen vóór onze tijdrekening, zodat we sindsdien leven in de cyklus van de “Kali-yuga” of ijzeren tijdperk, en dat àlles van langsom slechter gaat, terwijl alles wat onze Westerse beschaving kenmerkt slechts een gevolg van deze dekadentie is.

Door tenvolle bewust te worden van deze dekadentie wordt de “traditionele” mens ertoe geleid de problemen van onze tijd bewust tegemoet te treden en met kracht het onsamenhangende en nihilistische van onze wereld aan te klagen.

Vele van Evola’s geschriften behandelen dit onderwerp, zowel zijn hoofdwerk “Rivolta contra il mondo moderno” als twee bescheidener boeken “Gli uomini e le rovine”, en “Cavalcare la tigre”.

In dit laatste werk, waarin hij ondermeer diverse facetten van het Europese nihilisme behandelt, valt Evola ook het “aktief nihilisme” van Nietzsche aan en wijst ook – ons inziens op àl te oppervlakkige en onkorrekte wijze – “de impasse van het existentialisme” aan, tot wiens “ineenstorting” hij besluit.

Laten we het aan Evola over, de ongetwijfeld dekadente en onophoudelijk “gauchistische” ideeën van een Jean-Paul Sartre af te kraken, maar we verzetten ons tegen zijn bewering als zou de filosofie van een der grootste wijsgeren dezer eeuw, Martin Heidegger, dekadent zijn en niet traditionalistisch.

 

Na de snobs te hebben beschreven die het Saint-Germain-des-Prés van die dagen bevolken, vervolgt Evola: “De existentialistische wijsgeren zitten in een gelijkaardige toestand als Nietzsche: ze zijn ook “modern”, dus losgehaakt van de wereld der Traditie, ontberen elke kennis of begrip van deze wereld. Ze gebruiken de schemas van het “Westers denken”, wat zoveel betekent als profaan, abstrakt en ontworteld…”

Zonder in een wijsgerige diskussie te willen treden, wensen we toch te benadrukken, dat Evola hier getuigt van een totaal onbegrip tegenover de diepe denkwereld van Heidegger. Hij zit blijkbaar op een andere golflengte als de eenzaat, de “houthakker uit het Schwarzwald” zoals zijn leerlingen Martin Heidegger graag noemden.

Vergeten we niet dat Evola een Romein is, een Latijn dus, en zelfs al vindt hij zichzelf de “laatste der Gibellijnen” toch komt hij voor een donker, haast ondoordringbaar woud te staan, zodra hij gekonfronteerd wordt met een zo typisch “Germaans” denken als dat van Heidegger. Zeggen we vlakaf dat het absurd is, wijsgeren als Karl Jaspers en Heidegger onder hetzelfde hoedje te plaatsen als de gauchistische “filosoof” uit de kroegjes Saint-Germain. Evola zal wel niet geweten hebben, dat Heidegger in een vraaggesprek met de “Figaro littéraire”(4.11.50) verklaard had: “Sartre? Een goed schrijver, maar geen filosoof!”

 

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Overigens, zelfs als in elke korte historiek van de wijsbegeerte het werk van Heidegger wordt beschreven als een variante van het “ateïstisch existentialisme”, dan nog mag men bevestigen dat héél zijn wijsgerige “Werdegang” het “existentialistisch” etiket negeert dat men hem om reden van vulgarizatie wilde opkleven, evenzeer als het onjuist is bij hem over atheïsme te spreken: heel zijn geestelijke pelgrimstocht is verlicht door de zin voor het sakrale, wat niet hetzelfde is als religieus gevoelen, en evenmin het toetreden betekent tot eender welke religie.

Julius Evola lijkt ons wat àl te verblind door de luchtspiegeling van een “traditie” die we uiteindelijk maar kunnen aanvaarden als “mobielmakende myte” die heel wat kan verklaren over onze wereld-in-krisis, maar die niet in staat is àlles te verklaren of àlle vragen te beantwoorden. Wat ons vooral ergert is de illusie van het “ex Oriente lux” die zelfs sommige jonge traditionalisten ertoe brengt, de jongste omwenteling in Iran te begroeten als een zege van de Traditie op de “noodlottige gevolgen van de verwestelijking van dat land”, terwijl het hier toch duidelijk gaat om een omwenteling met regressief karakter.

Martin Heidegger, veel beter op de hoogte van de werkelijkheid der Westerse dekadentie dan Evola, aarzelde niet te schrijven “ik ben ervan overtuigd, dat een ommekeer maar kan geschieden vanuit het gebied waar de moderne technische wereld geboren werd. Dat kan niet door het aanvaarden van het Zen-boeddhisme of andere experimenten uit het Oosten. De ommekeer in de gedachten heeft de hulp nodig van de Europese traditie, met haar recentste aanwinsten. Gedachten worden slechts hervormd door gedachten met dezelfde oorsprong en hetzelfde doel.” (Vraaggesprek met “Der Spiegel” 3l.5.76).

Men bemerkt dat Heidegger, in tegenstelling tot Evola, zich op de Westerse traditie beroept, die voor hem niet louter een geesteskonstruktie is, een myte uit een ver Indoeuropees verleden, maar tastbare werkelijkheid, waarvan hij de stroom kan volgen vanuit de bron, bij de Griekse presokratische denkers. Weliswaar valt die tijd samen met de eerste tekenen van dekadentie – volgens Evola – en waarvan we nu de laatste stuiptrekkingen beleven Heidegger’s wijsbegeerte zou daarvan slechts een epifenomeen op het vlak van de gedachte betekenen…

Herinneren we er toch aan, dat wijsbegeerte een manier van denken is, eigen aan het Westen, dat ze in Griekenland ontstond en geen tegenhanger heeft in het Oosten – toch niet in de zin waarin ze begrepen wordt door onze metafysische traditie. Jazeker, in de Middeleeuwen hebben Arabische en Joodse denkers de Griekse wijsgerige traditie overgemaakt aan de denkers van de Westerse middeleeuwse wereld, maar zélf hebben ze slechts kommentaren geleverd op de werken der Griekse filozofen, zonder zelf nieuwe wijsgerige stelsels te scheppen. Véél later zullen Spinoza en Bergson zich in de Westerse wijsgerige traditie inwerken, er hier en daar een andere klank inbrengend.

In zijn rektorale rede besprak Heidegger de drie Indoeuropese basisfunkties, die we in de werken van Georges Dumézil uiteengezet vinden, maar hij plaatst ze in de aktuele Duitse kontekst “Arbeitsdienst – Wehrdienst – Wissensdienst”. Deze drie diensten passen niet alleen in de Duitse natie van dàn, maar in heel de Westerse traditie.

Wie zich aan één van deze diensten wijdt, zegt Heidegger tot zijn studenten, wijdt zich niet alleen aan het lot van ons Duitse vaderland, maar aan dat van gans het Westen (dit begrepen in zijn metafysische betekenis) . En Heidegger herinnert eraan, dat dit Westen op zijn grondslagen wankelt, wat noodzaakt dat eenieder zich aan zijn behoud en zijn heil toewijdt…

Wij ontlenen enkele gegevens aan het boek van Jean-Michel Palmier “Les écrits politiques de Heidegger” (Ed. L’Herne, 1968). Deze citeert Heidegger “Niemand vraagt ons of wij willen of afwijzen, op het ogenblik dat de geestelijke kracht van het Westen wegdeemstert, zijn bouwwerk wankelt, de dode schijnkultuur ineenzakt en elke energie wegzinkt in wanorde en waanzin.” Het Westen – zegt Palmier – is voor Heidegger het vertrekpunt van de Griekse wijsbegeerte.

In de mate dat wij nog steeds door deze wijsbegeerte geleid worden, identificeert de vraag naar de toekomst van het Westen zich met de vraag naar de toekomst der metafysica. Het is ook dat wat Heidegger bedoelt met de oorspronkelijke “breuk” waarmee en waardoor onze lotsbestemming aanving. En Palmier citeert: “Wij begrijpen tenvolle de schittering en de grootheid van het vertrekpunt dat breuk betekent, als we in onszelf de koelbloedigheid opbrengen, die de oude Griekse wijsheid formuleerde als “Alle Grösse steht im Sturm”.

In zijn “Cavalcare la Tigre” valt Evola het beperkte doorzicht van de existentialistische denkers tegenover de problemen  van het ogenblik aan: “Men kan moeilijk beter verwachten van mensen die, zoals alle “ernstige” extentialisten (dit integenstelling tot de nieuwe, reeds in de war geraakte generatie), professoren zijn, kamergeleerden die een leven leiden van perfekte kleinburgers. In hun konformistisch bestaan (behalve bij enkelen, met politieke opties van het liberale of kommunistische type) lijken ze nooit “verbrand” en evenmin overschrijden ze de grens van goed en kwaad. Het is vooral bij hen die in opstand komen tegen het chaotisch leven der grootsteden of bij hen die door stormen van vuur en staal, en door de verwoestingen van de totale oorlog gingen, of inde wereld der puinen gevormd werden, dat men de vereisten had kunnen verenigd vinden ter herovering van een hogere levensopvatting, en van een existentiële, wérkelijke en niet teoretische, overstijging van de problematiek der mensen-in-krisis. Men had vertrekpunten kunnen aanduiden, ook voor passende spekulatieve formuleringen…”

Het komt ons voor dat Evola, die men (zij het ten onrechte) “grijze eminentie van Mussolini” noemde, slecht geplaatst is om de existentialistische wijsgeren het verwijt “kamergeleerden” toe te sturen, als men Heidegger’s tragedie kent, sinds de opkomst van het nationaalsocialisme tot aan zijn dood: om beurten werd hij uitgekreten (door de fanaten van het Hitlerisme), en als Hitleriaan (door heel de horde van gauchisten aller schakeringen). Voegen we er het drama bij van twee zonen, krijgsgevangenen in Duitsland, en we kunnen besluiten dat de “kleinburgerlijke professor” Heidegger beslist niet gespaard werd door de oorlog.

Vatten we samen: zoals zoveel Duitsers, gehecht aan de grootheid van Duitsland, heeft hij zonder twijfel de opbloei van het nationaal-socialisme begroet als een heilzame gebeurtenis voor zijn vaderland, dat na vernedering van de nederlaag, het onrechtvaardig verdrag van Versailles en de chaos van de Weimar-republiek de ondergang tegemoet ging.

Op verzoek van zijn kollegas aan de Universiteit van Freiburg-in-Breisgau aanvaardde hij, in de lente van l933 het rektoraat, enkele maanden nadat Adolf Hitler rijkskanselier geworden was. Hij begon aan zijn opdracht met de vaste wil, in de mate van zijn mogelijkheden een apolitiek klimaat te doen heersen en dat op een ogenblik dat alle Duitse hogescholen overdreven gepolitiseerd raakten!

Zijn rektorale rede “Die Selbstbehauptung der deutschen Universität” is een echte “keure” van deze apolitieke bekommernis, maar weldra moest Heidegger het hoofd bieden aan allerlei politieke problemen, zoals de wegzending van twee fakulteitsdekens die hijzelf benoemd had, de professoren Erich Wolf en Von Möllendorf.

Geërgerd door de voortdurende inmenging van de politiek in universitaire aangelegenheden, bood Heidegger na zowat tien maand zijn ontslag aan, en werd opgevolgd door een serviele nationaal-socialist. In die (korte) periode had hij wél enkele toespraken gehouden en proklamaties gedaan die men terecht kan takseren als van nationaal-socialistische inspiratie.

We kunnen deze teksten hier niet ontleden en verwijzen terzake naar het boek van Palmier. Het ontslag van Heidegger betekent de inzet van een afbrekende kampanje tegen hem, vanwege de fanatici van het nieuwe regime geleid door Ernst Krieck en Alfred Baeumler(*), nationaalsocialistische rektoren van Heidelberg en Berlijn. Zijn kursussen werden bijgewoond door agenten van deze rektoren, die elke kritische opmerking tegen het regiem nauwkeurig noteerden.

Tenslotte werden zijn leergangen geschorst en Heidegger kende de vernedering te moeten arbeiden aan de verdedigingswerken van de Rijn en vervolgens in de Landsturm te moeten dienen. De droom van Ernst Krieck-Heidegger van de universiteit wegjagen – werd echter slechts door de gealliëerden verwezenlijkt.

Vanaf mei 1945 werd hij even ongenadig, even onrechtvaardig aangevallen, nu echter door de gauchisten.

Als échte wijsgeer liet Heidegger beide stormen onbewogen overtrekken, aan zijn vrienden de zorg overlatend hem te verdedigen. Eerst op 31 mei 1976 publiceerde “der Spiegel” een vraaggesprek dat Rudolf Augstein en Georg Wolff met Heidegger voerden, en dat zowat zijn enige zelfverdediging mag genoemd worden omtrent de korte periode van zijn rektoraat, “dat incident” zoals Jean Guitton eens schreef.

Keren we terug naar ons opzet, Heidegger te situeren binnen de Traditie, niet in die van een “primordiale traditie” maar in die van het Westers denken. Hij heeft zich als wijsgeer herbrond bij de presokratische wijsbegeerte enerzijds, en anderzijds bij de poëzie van enkele grote Duitse dichters – Holderlin vooral. Zijn filosofische aktiviteit volgt overigens het spoor van grote Duitse denkers als Meister Eckehart, Jacob Boehme, Leibniz, Kant, Schelling, Hegel, Schopenhauer en Nietzsche.

 

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Evola verweet Heidegger een typisch pessimistische wijsbegeerte te hebben opgezet, typisch – volgens hem – voor het eind van de cyklus van Kali-Yuga. Maar is juist deze pessimistische wijsbegeerte niet inherent aan de faustische traditie in de Duitse ziel?

In het boek dat Jean-Claude Riviére en zijn medewerkers aan Georges Dumézil wijdden (Ed. Copernic, 1979) vinden we enkele verhelderende zinnen in het hoofdstuk dat François-X. Dillmann, docent aan de universiteit van München, en auteur van diverse werken over de oude Germaanse beschaving, schrijft over “G. Dumézil et la religion germanique”. Hij herinnert er aan het boek van Hans Naumann “Germanischen Schicksalsglaube” (Jena, 1934) waarin deze germanist een parallel trekt tussen de pessimistische gedachte van god Odin tegen de naderende “Götterdämmerung” en de “Sorge”-filozofie, zoals Heidegger ze uiteenzette. Naumann blijft lang bij dit parallelisme stilstaan; met een perfekte kennis van zijn onderwerp, van de talloze interpretaties van Odin’s goddelijkheid en van Heidegger’s wijsbegeerte, onderstreept hij hoe diep de filosofie van de schrijver van “Holzwege” verankerd zit in de Germaanse psyche. “Verworteling” is overigens een heideggeriaans Leitmotiv. Hij is inderdaad een boer-wijsgeer, verankerd in zijn geboortegrond, wat trouwens één der redenen was, waarom hij een leerstoel aan de provinciale universiteit van Freiburg, hoofdplaats van zijn heimat, verkoos boven die welke hem in Berlijn werd aangeboden.

Uiteraard wekte deze tekst van Naumann (in 1934-35 rektor te Bonn) de toorn van rektor Krieck, die ooit tegen Heidegger deze betekenisvolle zin uitsprak “Galileeër, uw spraak heeft u verraden!”

Heidegger een Galileeër, dat is wat àl te belachelijk! Natuurlijk is het zo, dat zijn filosofie met haar vaak ingewikkelde formuleringen niet direkt binnen het bereik lag van de eerste de beste nazi, zelfs al was die toevallig rektor en één der officiële denkers van het regime.

In het “Spiegel”-vraaggesprek zei Heidegger: “Voor zover mij bekend, is al wat werkleijk essentieel en belangrijk is, maar kunnen gebeuren, doordat de mens een “Heimat” heeft en in een traditie verworteld is”. Nu kan men over de kwaliteit van deze traditie natuurlijk van mening verschillen, en vooropstellen dat die waarin de faustische Duitse psyche verankerd zit, in feite een emanatie is van de Kali-Yuga; en dan is alles gezegd…

Nee, niet alles is gezegd: in het bewuste vraaggesprek lezen we: “Al wat ik de laatste 30 jaren in mijn kursussen en seminaries vooropstelde, is niets anders geweest dan een interpretatie van de Westerse wijsbegeerte. Terugkeren naar de vertrekpunten van de geschiedenis ter gedachte, het geduld opbrengen de vraagstukken te overdenken die sinds de Griekse wijsbegeerte nog niet “uitgedacht” waren, betekent niet dat men zich van de traditie losmaakt. Maar ik stel voorop: de denkwijze van de metafysische traditie die met Nietzsche ten einde liep, is niet meer in staat de basisgegevens aan te duiden van het technisch tijdvak dat pas aangebroken is.”

En wat verder lezen we, over de taak van de wijsbegeerte en haar impakt op de ontwikkeling van een beschaving in de richting van een maatschappij die de Kali-Yuga  zou ontstijgen, deze zin: “Wij hoeven niet te wachten, tot de mens over 300 jaar eens een idee heeft; het komt erop aan, vertrekkend van basisgegevens die in de huidige tijd amper overdracht worden, vooruit te denken voor de komende eeuwen, zonder zich daarom profetische allures aan te meten. Denken is niét: niets doen, denken is – in zich – dialogeren met een, als noodlot vooropgestelde, wereld. Het komt me voor, dat het onderscheid (van metafysische oorsprong) tussen theorie en praktijk, en de voorstelling van een overdragen van de ene naar de andere, de weg afsnijdt voor een beter begrip van wat ik “denken” noem.”

En terloops laat Heidegger opmerken, dat de lessenreeks die hij in 1954 onder het thema “Wat noemt men denken?” liet verschijnen, wellicht het minst gelezene van al zijn werken is…

Nog even terug naar het Spiegel-vraaggesprek, waarin hij de rol behandelt die de wijsbegeerte zou kunnen spelen in het veranderen van de huidige wereld. Na te hebben vastgesteld dat ze geen onmiddellijk zichtbare resultaten kan hebben, vervolgt hij: “Dat geldt niet alleen voor de wijsbegeerte, maar voor al wat slechts menselijke bekommernis en menselijk streven is. Alleen een god kan ons nog redden. Onze enige mogelijkheid ligt in het voorbereiden, in gedachte en poëzie, van de bereidheid tot afwachten. Deze bereidheid voorbereiden kan wel een eerste-hulpmiddel zijn. De wereld kan niet zijn wàt zij is en hoe zij is door de mens, maar zonder de mens, kan zij gewoon niet zijn. Dat houdt mijn inziens verband met het feit dat wat men (met een term die van zeer ver komt, veel betekenissen draagt en nu versleten is) “het zijn” noemt, de mens nodig heeft voor zijn verschijnen, zijn bescherming en vormgeving…”

Sprekend over het indringen van de techniek “in opmars sinds drie eeuwen” in de moderne wereld, verwerpt Heidegger die techniek niet a priori, maar stelt voorop, dat men zich moet bevrijden van de pragmatische mentaliteit die de wereld der techniek nu beheerst. “Wie van ons zal niet erkennen dat, de een of andere dag, in Rusland of China zeer oude “denk”-tradities zullen ontwaken die er zullen toe bijdragen, voor de mens een vrije relatie met de technische wereld mogelijk te maken ?”

Heidegger zelf heeft “zeer oude denk-tradities” die ooit eens uit Rusland of China zouden kunnen komen, niet afgewacht om over zin en essentie van de techniek te mediteren en te filosoferen. Dit vooral vertrekkend van Ernst Jünger’s boek “Der Arbeiter” (l932). Moesten we zélf gaan mediteren over zin en essentie van de techniek, dan zou ons dit uiteraard te ver voeren.

Wij zouden kunnen doorgaan met alles te citeren wat Heidegger aan de “Spiegel”-ondervragers zegt, net zoals we zouden kunnen verwijzen naar al wat hij geschreven heeft, vooral in de laatste dertig jaren, waarin heel zijn ontwikkeling, heel zijn poëtische zoektocht getuigt van een bestendige bezorgdheid om het sakrale doorheen de diepste menselijke autenticiteit.

Voor wie lezen kàn, heeft Heidegger – doorheen een ander taalgebruik, en zonder de omweg langs het Oosten en de “Primordiale Traditie” – dezelfde bekommernis als Julius Evola omtrent de noodzakelijke regeneratie van onze wereld. Beiden hebben gedacht en gewerkt afzijdig van de politiek der politikasters en haar kompromissen. Zonder dat ze elkaar écht kenden (daarbij denken we aan de miskenning van Heidegger’s gedachte door Evola, en de vermoedelijk volledige onkunde van Heidegger omtrent Evola’s werk) hebben ze elkaar ontmoet, daar waar wijzelf hen wilden ontmoeten op een weg die de onze is en die, – hopen we toch – geen “Holzweg” zal zijn, geen weg die nergens heen voert.

Marc. EEMANS

(*) Het fanatisme waarmee de nationaalsocialistische rektoren Ernst Krieck en Alfred Baeumler zich tegen Martin Heidegger keerden zou wel eens kunnen verklaard worden door hun neofietenijver. Beide heren kwamen in die periode (l933-34) toch vrij recent uit het konservatief-revolutionaire kamp overgestapt naar het nationaal-socialisme. In de ogen van vele oudgediende nationaal-socialisten hadden ze nog alles te bewijzen…

In Armin Mohler’s werk “Die konservative Revolution in Deutschland” vindt men in het overzicht van de veelvuldige stromingen en auteurs ook een hoofdstuk “Uberläufer zum Nationalsozialismus”. Mohler behandelt hier exemplair slechts twee auteurs die volgens hem de meest typische “gevallen” zijn: Alfred Baeumler en Ernst Krieck. (N.v.d.r.)