Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

lundi, 03 octobre 2011

Il neopaganesimo di Otto Rahn

Il neopaganesimo di Otto Rahn

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Otto Rahn (Michelstadt, 18 febbraio 1904 – Söll, 13 marzo 1939)

Otto Rahn (Michelstadt, 18 febbraio 1904 – Söll, 13 marzo 1939)

Il caso di Otto Rahn è ormai noto: è la storia di un giovane romantico, che insegue un sogno. Un giorno entra in contatto con un potere sensibile al mito – il Terzo Reich -, che lo lancia e lo valorizza: ciò che presto lo porta a credersi una specie di nuovo cavaliere templare. Il mito del Graal, quello di una società di puri e di idealisti, di un regno dello spirito, popolava il suo immaginario. Certo del legame storico tra l’eresia dei Catari e la poesia dei trovatori medievali, l’una è l’altra viste come sopravvivenza pagana sotto la scorza del cristianesimo ufficiale, Rahn si convinse che il fulcro di questa cultura si fosse trovato un tempo nel castello provenzale di Montségur, alle pendici dei Pirenei. Proprio il luogo dove, nel 1244, avvenne il finale sterminio dei Catari da parte della Chiesa. In questa zona, intorno al 1929, Rahn svolse ricerce, percorse grotte e camminamenti, rintracciò graffiti e interpretò simboli arcani. Alla fine raccolse il tutto e scrisse il celebre libro Crociata contro il Graal, pubblicato nel 1933. L’incontro fatale con Himmler, anch’egli interessato alla storia delle eresie e all’universo dei simboli pre-cristiani, il pronto arruolamento e la rapida ascesa nelle SS, portarono però Rahn a inciampare nel suo piccolo-grande segreto. Sembra infatti che una mal vissuta omosessualità sia stata all’origine delle sue dimissioni dall’Ordine Nero nel 1938 e infine del suo suicidio, avvenuto per congelamento tra le montagne del Tirolo, nel marzo del 1939. Rahn rimase vittima di un trauma, per esser stato coinvolto in un piccolo scandalo omoerotico? Non resse il clima ideologico delle SS? Venne forse spinto a quel gesto? O ci arrivò da solo, per evitare l’isolamento sociale e magari la persecuzione?

A queste domande cerca di fornire riposta un testo molto buono, da poco tradotto in italiano dalle Edizioni Settimo Sigillo: Otto Rahn e la ricerca del Graal. Biografia e fonti, di Hans-Jürgen Lange. Diciamo subito che questo libro, a differenza di altri usciti anni fa sul medesimo argomento, si segnala per serietà e credibilità storiografica. Una volta tanto, la materia viene lavorata non dal dilettante, ma dallo studioso. E a parlare non sono le sparate a sensazione, ma i documenti. Lange infatti dedica un’intera sezione del suo libro all’interessante e in gran parte inedita documentazione rinvenuta in vari archivi tedeschi. Eloquente quella relativa alla corrispondenza tra Rahn e lo scrittore Albert Rausch prima del 1933, in cui, insieme alla passione per il santo Graal, traspaiono chiari cenni all’omosessualità del giovane intellettuale. Inoltre, viene presentato al lettore italiano un corpus di lettere, appunti, lavori radiofonici, comunicazioni di Rahn con lo studioso Antonin Gadal, con le SS, con Himmler in persona e con Wiligut, il bizzarro collaboratore austriaco del Reichsführer in materia di esoterismo.

L’idea centrale da cui Rahn era tutto pervaso sin giovane era che l’eresia catara fosse un giacimento culturale risalente all’epoca pagana e che nella sua teologia nascondesse rimandi ai saperi sacrali pre-cristiani. Questo assunto, per la verità, è stato da tempo smentito in sede storica e lo stesso Lange non mostra di tenerlo in gran conto. Il catarismo era un’eresia manichea tutta incentrata sul rifiuto del mondo, sul disprezzo del corpo, sulla negazione della fertilità del matrimonio: una teologia cupa, che metteva l’uomo nella disperante condizione di vivere la vita con un senso di ostilità, solo aspirando alla morte liberatrice, ricercata volontariamente nel suicidio rituale chiamato endura. Come si vede, si tratta dell’esatto contrario dell’antico paganesimo, sia il greco-romano che il nordico, che al contrario attribuiva alla bellezza del corpo, alla vita, alla figura umana e alla discendenza nobilitazioni di sacra potenza. Tuttavia, qualcosa di pagano certamente filtrò presso quegli eretici: la loro quasi sicura provenienza orientale – identificata con il “bogomilismo” – unitamente a tratti di neo-platonismo, si intrecciava alla concezione manichea di una costante lotta cosmica tra i principi luminosi del bene e quelli tenebrosi del male. E di queste speculazioni era ricolma l’antica mitologia europea. Tutto preso dall’idea di essere stato eletto dal destino per portare al mondo la sua rivelazione, Rahn si diceva un predestinato. E dall’aver frequentato da ragazzo la zona di Ketzerbach (il “torrente dei Catari”) nei pressi di Marburgo, egli traeva sicuri indizi della sua missione: doveva rivelare ciò che la Chiesa aveva occultato, cioè il legame tra i catari e il paganesimo e quello tra gli eretici e i poeti trovatori del medioevo.

Rahn vedeva in Wolfram von Eschenbach, il famoso poeta cortese autore del Parzival, il terminale di una tradizione che si sarebbe tramandata dai Catari sino in Germania, diventando il patrimonio della cultura europea duecentesca, incentrata sull’asse provenzale-germanico. La stessa etimologia di Wolfram – argomentava Rahn – rimandava a quella di Trencavel, nome di una nobile famiglia della Linguadoca. Attraverso questi sottili legami, insomma, sarebbe avvenuto quel transfert culturale che aveva costruito nel cuore dell’Europa cristiana un’enclave neopagana, alla fine distrutta dalla crociata albigese guidata dalla Chiesa. Non è tanto l’entrare nel merito della questione, che qui ci interessa. La stessa nascita della poesia italiana in Sicilia e in Toscana, del resto, è stata da più parti giudicata come il frutto di legami europei che avevano al loro centro la Provenza, i suoi miti cavallereschi, il perdurare di tradizioni pagane sub specie cristiana. Ciò che interessa è invece verificare che la figura storica di quel singolare ricercatore che fu Rahn ha un suo spessore. Troppo spesso affidato a ricostruzioni improvvisate, infatti, Rahn si presenta come un intellettuale impegnato nella lotta per l’identità europea, ricco di spunti e non di rado affascinante. La sua è piuttosto una metastoria, una cripto-teologia, e non importa molto che venga o meno confermata dai fatti. Egli si muove nell’ambito della cerca mitica. E il mito ha bisogno di un alone di mistero. Lo sforzo di Rahn era quello di uscire dal dogma e di agitare un mito europeo. Di qui la sua rielaborazione della figura di Lucifero, l’angelo caduto, rivalutato ad annunciatore di un mondo buono fatto di luce: «Che cos’è Graal? Graal è la terra della luce, della purezza. Graal è il sogno più profondo dell’anima umana, che dalle angustie terrene aspira alla perfezione immacolata», scrive Lange.

E lo stesso Lange ricorda come, secondo Rahn, il Graal non fosse una coppa, ma piuttosto la pietra lucente che Lucifero recava sulla fronte, simbolo di purezza, di una ricerca che in antico si era espressa con l’immagine del Vello d’oro: qualcosa che solo a pochi eletti toccava in sorte di raggiungere. Rahn sosteneva che fu il trovatore Guiot di Provins a passare a Wolfram il tema di Parzival e quindi a dare vita a questo complesso poetico che sfuggiva alla teologia cristiana, presentandosi come un sapere alternativo. Un sapere arcaicissimo. Lange scrive assai bene che l’origine iranica della saga di Parsifal, intuita da Rahn, è stata recentemente comprovata dagli studiosi: ecco che dunque un concatenamento con il catarismo diverrebbe più credibile, dato che anche a quest’ultimo si danno origini legate all’Oriente. Rahn lavorava dunque su materiali mitici, ma non irrealistici. Tanto bastò per far drizzare le antenne a Himmler, avido di qualunque cosa richiamasse l’idea di “purezza” e di “elezione”, e che come capo delle SS andava setacciando ovunque nel mondo ogni sorta di tradizione arcaica, per vedere se non celasse tracce di antica sapienza ariana. Il contatto fu presto stabilito. Nel marzo del 1936 Rahn viene arruolato nelle SS col grado di Unterscharführer e subito entra nell’entourage di Himmler, per il quale compie ricerche genealogiche. È da notare che Rahn, che oggi spesso viene presentato come “nazista per caso” o peggio niente affatto nazista, ci tenne a far sapere che, quando era in Francia negli anni Venti, aveva compiuto studi che andavano nel senso dell’ideologia nazionalsocialista, prima ancora di sapere che la NSDAP esistesse: presentava se stesso come un precursore. Rahn era amico di Hans Peter des Coudres, curatore della biblioteca del “santuario” nazista di Wewelsburg, era in rapporti stretti con Kurt Eggers, editorialista dello “Schwarze Korps”, la rivista ufficiale delle SS, riceveva favorevoli recensioni da parte di Hermann Keyserling, famoso intellettuale vicino al regime, lavorava fianco a fianco con Wiligut, lo studioso di runologia e ideologo radicale dell’esoterismo nordicista, e alla fine venne promosso a Untersturmführer. Si può dire dunque che fosse perfettamente inserito nel sistema ideologico e di potere del Terzo Reich. Nel 1937 venne degradato per una storia tra omosessuali e temporaneamente spedito a Dachau per “rieducarsi”: doveva semplicemente addestrare le reclute. Presto reintegrato nei ranghi, Rahn entrò in una spirale psicotica. Cominciò a riempirsi di paure e di dubbi, gli cedettero i nervi: «egli stesso sapeva di non essere adeguato alle alte esigenze morali di questo Ordine a causa della sua omosessualità», commenta Lange. Chiese e ottenne le dimissioni dalle SS nel febbraio 1939, e nel marzo fu trovato morto tra i monti tirolesi. Ma nella sua biografia rimangono zone grigie. Non sappiamo veramente come andò il finale.

Ciò che viene chiarito è invece il forte attaccamento di Rahn per il mondo delle SS, in cui vedeva una specie di Ordine neo-medievale che gli appariva ideale per assecondare il suo disegno ideologico. La riedizione del suo libro del 1937 La corte di Lucifero – una sorta di viaggio europeo alla ricerca di testimonianze pagane – venne sollecitata dalle SS ancora nel 1943 in quanto testo ideologicamente importante ed ebbe vasto successo negli ambienti del radicalismo nordicista. E il suo suicidio venne celebrato dalle SS come un esempio di fedeltà nibelungica al senso germanico dell’onore. Lo stesso Karl Wolff, braccio destro di Himmler, vergò l’annuncio mortuario. Lange riporta che qualcuno ha testimoniato, molti anni dopo, che a Rahn fu lasciata la decisione tra il suicidio con onore e il campo di concentramento. Può essere. Pare però discutibile che il regime si volesse sbarazzare di un valido intellettuale ben allineato, solo per una piccola storia omosessuale, facilmente tacitabile. A certi livelli, si sa, le cose si accomodano. Non sarebbe stata la prima volta. Fu lo stesso Ordine Nero a dare disposizione che non si parlasse più delle debolezze di Rahn, ma solo del suo valore di studioso… Per altro, crediamo che le SS avessero i mezzi per mettere a tacere lo scandalo, se mai scandalo ci fu. Probabilmente, si è più vicini al vero se si ipotizza un crollo caratteriale: Rahn era un emotivo, forse – almeno da quanto si legge nella sua corrispondenza – anche un po’ immaturo e insicuro… un carattere diciamo non proprio adattissimo a stare nei ranghi delle SS. Alle quali teneva molto. Lo scrisse lui stesso direttamente a Himmler nel 1937: «Farò di tutto, nello svolgimento dei miei doveri in modo impeccabile… per riscattare, almeno in parte, il mio comportamento lesivo dell’onore delle SS…». Questa frase è una spia: sarà stato proprio la delusione inferta a se stesso e all’Ordine Nero a farlo crollare. E dunque possiamo dirlo: Rahn cercò la morte perchè dovette sentirsi colpevole di aver macchiato la purezza del santo Graal.

* * *

Tratto da Linea del 25 ottobre 2009.

vendredi, 30 septembre 2011

Wulf Grimsson’s Loki’s Way

A Band Apart:
Wulf Grimsson’s Loki’s Way

By James J. O'Meara

ex: http://www.counter-currents.com/

 

Wulf Grimsson
Loki’s Way: The Path of the Sorcerer in the Age of Iron [2]
Second Edition
Lulu.com, 2011

A few weeks ago I was privileged to receive this unsolicited manuscript, “the result of over 30 years of research, study and practice,” by Wulf Grimsson. I’ve been trying to read, and then review, the contents ever since, but found it difficult. Not because of the writing — Wulf is admirably clear and free of both “scholarly” stodginess and “occult” rigmarole — but precisely because of its dense content of interesting and important ideas. Almost every page gives one something to think about, a source to look up and perhaps reconsider, a inspiration to a new connection made for one’s self.

Why I should have been selected for this privilege is plain from the contents. Loki’s Way covers the whole range of topics we’ve explored on this blog, outside of the more pedestrian political and economic ones, from the Männerbund to mystery traditions to runes, from Nietzsche to Evola to Colin Wilson. I am above all grateful for Wulf’s freeing me from the mild guilt I have felt about all the topics I haven’t done to adequate length, as well as my regret that the late Alisdair Clarke did not live to produce a similar treatise from his path breaking blog, Aryan Futurism [3]. Constant Readers of this blog will find Loki’s Way to be essential reading.

But first let Wulf define his subject:

Loki’s Way is an adaptation of the Left Hand Path or sorcery for the Kali Yuga. This tradition has taken many forms throughout the centuries, in the modern age it must be updated to deal with new discoveries in science and psychology. [62]

The last part there also brings up another reason I’ve had trouble writing about this book. I have grave reservations about much of the material in the first third, and thus, as Wulf expresses it here, in a sense his whole project. I would prefer that he take Guénon’s advice and forget about “reconciling” science and Tradition and especially “updating“ the latter by the former. Not only should the process be reversed, judging Science by the timeless principles of Tradition, but the process is necessarily unending, as Science by contrast is the realm of the amorphous and ever-changing, requiring the “synthesis” (really, as Guénon would point out, syncretism) to be redone over and over — although I’m sure the publishers appreciate that!

In particular, I think that Wulf’s claim that “the esoteric is the physiological,” i.e. the “discovery” that what esoteric Tradition has been talking about in guarded language can “now be revealed” (as the New Age publishers would shout) as being techniques for manipulating the endocrine and other bodily systems, is really just a misreading of what Evola among others has described as the starting point that remains when all dogmas and theories have been tested and abandoned, in the alchemical abyss:

But then the individual finds himself confronting his body, which is the fundamental nexus of all the conditions of his state. The consideration of the connection between the ego principle in its double form of thought and deed and corporeality . . . and the transformation of said connection by means of well-defined, practical, and necessary acts, even though they are essentially interior, constitutes the essential core of the Royal Art of the hermetic masters.

Evola adds:

The latter will be directed first of all to the conquest of the principle of immortality, and then to the total stable nature, no longer transitory or deteriorating . . . by which the human manifestation is established within the realm of becoming. (The Hermetic Tradition, pp. 98-99)

Immortality! Yes, indeed:

Loki’s Way gives us the opportunity for individual immortality. It means using the very structures that are in place to satisfy the replicators and which sustain collective immortality for our own benefit. We are literally making a u-turn; the very things that sustain the immortality of the collective must be used against the norm to achieve a permanent, discrete and individual self.

This, of course, is extremely difficult and confronting and accordingly the path to immortality is one that only a few will attempt and less will achieve. It is hard to conceptualize just how radical such a process must be. The best way is to seriously consider that absolutely everything you believe, feel and think could be wrong. Your tastes, choices, preferences, likes and dislikes are all conditioned. Nothing about your life is authentically real. It is as though you were conditioned as a government agent and everything you believe to be true about yourself, your life, your career even your family is simply brainwashing. The truth about the human condition is really that terrifying. Most will find such a scenario so frightening and so personally confronting that it is easier to look away and find fault with this book than to wake up and smell the coffee. (p. 58)

What Evola calls alchemy or The Royal Art Wulf calls . . . sorcery:

What is sorcery? Sorcery is a means by which an individual is able to wretch control of the evolutionary processes to become individually aware and immortal. He or she becomes a discrete, isolate intelligence which exists beyond the confines of the collective processes of eternal re-occurrence. . . . Within Loki’s Way this change is the transformation of human to post human through the focusing of the Will. (p. 61)

The bit about the Will reminds us that Evola was compelled to treat Crowley with some respect, despite his deplorable life and personality, as someone who Knew Things. Wulf goes Evola one better and brings in Crowley explicitly.

Another thing he brings in explicitly, and much to my heart, is the Männerbund, which Evola only relatively briefly discusses. Wulf connects the dots between the historical Männerbund and the esoteric path to individual immortality followed by the elite — in contrast to the common fate in store for the followers of the Vedic “path of the fathers,” Evola’s realm of society beneath the State, my own contrast of Family Values and Wild Boys. For Wulf it’s replicators versus Sorcerers.

The Männerbund or Warrior Band is the origin of the esoteric path, because the latter is, au fond, a battle; which Wulf explains, typically, in equal parts Sufism and Dawkins:

Memetic eugenics is the process whereby we weed out unworthy memes and replace them with memes which will help us evolve. This is what Loki’s Way is all about. We dissolve conditioning and replace it with memes which are conducive to our own process of godmaking. This book is a meme, bringing esoteric traditions in line with science and hopefully awakening the small number of people with the potential to become more than what they are.

Sorcery is found in many ancient traditions. In the Norse we can see that the warrior ethic was an expression of the battle against the flawed aspects of the emotions and psyche to achieve a true Self which would enter Valhalla. The berserker or warrior is a great “type” of the seeker for the Overman. An even more intriguing example is in Sufism where the concept of Jihad is interpreted in a unique way. The outer form of Jihad is a just war but the inner form of Jihad, the more significant, is against the false and flawed aspects of the personality. This model of the internal battle where we wage a sacred war against genes, memes and frames to achieve a Self is an expressive and poetic way to represent our sacred quest. (p. 66)

So, paradoxically, only the Warrior Band, the Group, can provide the context for true individuation:

This is one of the reasons cell, unit or Männerbund work is so significant, it keeps you grounded and stops the fragments of the ego from influencing your worldview. A good group of fellow working sorcerers can bring you to earth quicksmart! (p. 95)

This warrior elite, devoted to realizing a higher principle, is the origin of the Traditional Aryan State, which is oriented to a transcendent principle, in contrast to the common herd and its promiscuous “wants” and “needs” (think: peasant frivolity vs. the Templars) and thus also the social stratification characteristic of Aryan society (p. 72):

The sorcerer and warrior both have the potential to become Overman via different means or by combining paths. Loki’s Way is the modern equivalent of [Georges Dumézil‘s] first function combined with a warrior ethic. It can be applied via the mode of the lone wolf, with a blood brother or in a Männerbund. The teaching level of the sorcerer and warrior is esoteric and left hand path. (p. 74)

At this point, the story takes a turn that may give the average reader a turn himself, but not our Constant Readers:

As organic and social memes are dissolved new forms of sexuality and emotional bonding needs to be created. Every man has androphilic potential, it just has to be activated and directed. Since the transition to the Overman is unnatural and works against the normal evolutionary process which favours reproduction then the focus must be on same-sex bonding. (p. 112)

I am not suggesting that every screaming queen or muscle-mary is a spiritual warrior or engaged in Platonic love. I am suggesting that to cultivate a unique form of androphile friendship based on esoteric ideas is the highest form of relationship and for the Overman naught else will do. (p. 109)

Which leads to chapters discussing both historical traditions from India to the Norsemen, and modern theorists from Edward Carpenter to Hans Blüher to Jack Malebranche. Especially important are his careful dissection of the various “models” of homosexuality that have gone into creating the modern notions of “homosexual” and “gay,” and analyzing their usefulness for the Left Hand Path.

The [Uranian] model was popularised by both Ulrichs and Hirschfeld and ultimately proves wanting. It confuses intersex and transgenderism with homosexuality. While this is not surprising due to the early period of their work it is still a view popular today. It seems an ongoing slur in a culture which devalues women and sees them as “less than men” to associate men who take the passive sexual role as female. It could be argued that this identification has its roots in misogyny and was later fed by Judeo Christian thinking. Many also believe that the idea of seeing a homosexual as a woman in a man’s body led to the medicalization of homosexuality which continued right through to the 1960s.

The Intermediate Sex model [Carpenter] is significant as the shaman, priest and androphile warrior existing outside the normal structures of the society. At the same time I think we need to be careful using the term third or intermediate sex as it infers a state which is not quite one or the other, rather than as one which is both. The masculinist model of Brand and others (it is also found represented in the work of Jack Malebranche today, Androphilia) is appealing and certainly relevant.

Personally I we think we need to develop a new model for our sexuality hence terms like Androphilia and the Männerbund need to be understood in a new way. This is especially significant since we are talking about same-sex relations in terms of a unique goal not as an everyday preference. For the Männerbund androphilia is a special form of “sacred” bond which is expressed between warriors; it is also initiatory.

All comrades have a male and female side and clearly since they are working to transcend human restrictions would have no problems exploring passive or active sex roles. The genders within us, so to speak, represent a great source of power and we may use cross dressing or passive techniques for Seidr work but also have no issue with being warriors for Galdr (active runic sorcery) or even in battle. (p. 129)

I think Wulf is on to something important here. All of the existing ‘scientific’ and especially “historical” models seem skewed against the correct understanding of the telos of esotericism being to transcend by uniting male and female, active and passive, etc.

[P]rohibitions against same-sex relations hence the fear of homosexuality comes from an alien desert religion and has little to do with our traditions. . . . Many of these same phobias were passed down into Christianity and Islam. Many traditions had a very different attitude to same-sex relations prior to their infection by Christianity. Japanese Buddhism had a strong homoerotic element as did the Samurai, it was only Christian missionaries that did away with such traditions. Sadly many of the Eddic references to same-sex relations are negative but that is to be expected considering they have come down through the hands of Christian scribes! (p. 219)

One could add here Daniélou’s similar comments on the importation of Victorian and modernist prejudices into Hinduism, as we have frequently quoted on our own blog.

A careful reading of Guénon would lead one to infer that all “Traditions” are products of the Kali Yuga, early, to be sure, but still of the Dark Age. Therefore one might well find some misunderstandings of the wisdom that was being recompiled after the chaos of the last cyclical turn. Combined with the necessarily elite and secret nature of the esoteric path, it should be no surprise that there should be no adequate understanding of male bonding publicly available even in Traditional sources. Here, at least, we find ourselves agreeing with Wulf’s project to “make anew” Tradition.

Each form of the modern world represents a degeneration of the Perennial Tradition . . . (p. 168)

And quoting Crowley:

Behold! the rituals of the old time are black. Let the evil ones be cast away; let the good ones be purged by the prophet! Then shall this Knowledge go aright. — Liber AL vel Legis II:5

In this verse we are given clear instructions about how to deal with the old schools of magic, esotericism and their formulae. The “old time” are the Older Aeons. These rituals are black, that is they should not be used until reassessed by New Aeon formula. Since most are based on the sacrificial image of the Dying God they must be purified and cleansed.

Those which cannot be changed will be disposed of, those that can be purified can be adapted. As discussed throughout this book, Traditional forms of spirituality must be radically re-examined both in terms of Loki’s Way. Old age fertility rites must be cast away, let the blood brotherhood of Set and Horus Reign!

A close reading of the passages in Evola’s Hermetic Tradition mentioning ‘androgyne’ would show that the process involves the male becoming and then dominating, becoming so as to dominate, the feminine energies, a process he gives the provocative name “philosophical incest.”

Also useful would be a reading of the essay from UR, “Serpentine Wisdom” reprinted in his Introduction to Magic in which Evola, under a pseudonym, mocks those with a “muscle-bound” understanding of power, and advising them to take on the “power of the feminine” (yes, Evola!).

Later chapters feature a fascinating discussion, new to me, of occult warfare via Aeonic Magick and Time Sorcery and the attempts of Evola, Crowley, and even H. P. Lovecraft to tap into eternal principles in order to literally re-create the conditions of the primordial state in our modern age.

The reader may find himself feeling a bit overwhelmed with all this somewhat theoretical discussion. The last third of the book balances this out with several chapters of “Sorcery in Practice,” the “many forms of sorcery and many models for recognizing the associations between our own inner world and that which is beyond” (p. 205) ranging from runes to sexual sorcery.

The reader must have realized by now that no mere blog review could do justice to the contents of this rich and important book. I hope they will have also realized that the solution is to get their hands on this book for themselves. It is essential reading for those in the modern world who would “decide whether to be a nithing or coward or nothing, a member of the herd or crowd or a hero, a warrior, a comrade of the Männerbund” (p. 240).

Source: http://jamesjomeara.blogspot.com/ [4]


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/09/a-band-apart/

mercredi, 28 septembre 2011

Absolute Woman: A Clarification of Evola’s Thoughts on Women

Absolute Woman:
A Clarification of Evola’s Thoughts on Women

By Amanda BRADLEY

Ex: http://www.counter-currents.com/

evola08.jpgOne of the central concepts of Julius Evola’s philosophy of gender is the distinction between absolute man and absolute woman. But he seldom gives explicit definitions of these terms. Absolute man and woman can be likened to Platonic Forms, thus defining them can be as difficult as defining Justice, Truth, or Love.

The term “absolute woman” inspires more controversy than “absolute man.” Since the male principle is associated with light, goodness, and activity, whereas the female principle is associated with darkness, evil, and passivity, feminists can easily claim that Evola’s views are inherently misogynist. Another point of controversy is Otto Weininger’s influence on Evola. Evola himself admits that Weininger must be read critically due to “his unconscious misogynous complex” (Julius Evola, Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex [Rochester, Vermont.: Inner Traditions, 1991], 157–58).

It is important to address Evola’s writings on women so that his views are correctly understood. Since he was opposed to the emerging feminism of his day, it would be easy for those unfamiliar with his ideas to infer that Evola also was anti-woman. By explaining his views and not glossing over any points that do in fact sound misogynistic (as is the case with some Evola devotees) the New Right can set the terms of discourse and accurately elucidate his position.

Evola on the Composition of Human Beings

The simplest definition of “absolute woman” is the female principle, the feminine force of the universe. Individual men and woman have varying degrees of the absolute man and woman, although the feminine principle usually is the underlying force in women.

In the modern world (the Kali Yuga) these forces appear in more degenerate forms and also do not always manifest properly. In fact, Evola said that “cases of full sexual development are seldom found. Almost every man bears some traces of femininity and every woman residues of masculinity . . . the traits that we deemed typical for the female psyche can be found in man as well as women, particularly in regressive phases of a civilization” (Eros, 169). In addition, these “manifest differently depending on the race and type of civilization” (Eros, 168).

To understand the influence of the “absolute woman,” it is first necessary to understand Evola’s conception of the human being. He held that humans are comprised of three parts:

  1. the outer individual (the personality, or ego).
  2. the level of profound being, the site of the principium individuationis. This is the true “face” of a person as opposed to the mask of the ego.
  3. the level of elementary forces that are “superior and prior to the individuation but acting as the ultimate seat of the individual.” (Eros, 36)

It is at the third level, that of elementary forces, where sexual attraction is aroused (Eros, 36). Thus it is here that the elementary forces that comprise the absolute man or woman are located. This matches Evola’s description of some modern women, who are able to develop “masculine” skills such as logic or intellectualism. He says they have done so “by way of a layer placed on top of [their] deepest nature” (Eros, 151–52). However, they have not succeeded in altering their fundamental nature, only their superficial personalities.

A Metaphysical Starting-Point for Male and Female

According to Traditional doctrines, the sexes were metaphysical forces before they manifested in the world. Absolute man and woman exist from the beginning of time, when the Universal One splits into a Dyad, which then causes the rest of creation. In most forms of Hinduism, Shiva, the male principle, is identified with pure Being. Shakti, the female principle, is identified with Becoming and Change. In a similar vein, Aristotle associated the male principle with form and the female with matter. According to Evola, form means “the power that determines and arouses the principle of motion, development, becoming” while matter means “the substance or power that, being devoid of form in itself, can take up any form, and which in itself is nothing but can become everything when it has been awakened and fecundated” (Eros, 118). In the Far Eastern tradition, yang (the male principle) is associates with heaven, while yin (the female principle) is associated with the earth (Julius Evola, Revolt Against the Modern World, trans. Guido Stucco [Rochester, Vermont: Inner Traditions: 1995], 157.).Thus, form and matter combined to create the manifested universe. And from the coitus of Shiva and Shakti “springs the world” (Eros, 122). (This is in contrast to Oswald Spengler, who believed that becoming was the essential element, rather than steadfast being.)

The male principle is associated with truth, light, the Sun, virility, activeness, and stability. Sometimes it is associated with the Universal One that existed before the Dyad. The female quality is associated with deception, changeability, the moon, the earth, darkness, wetness, passivity, and dependence on another. In Evola’s words:

What the Greeks called “heterity,” that is, being connected to another or being centered on someone other than oneself, is a characteristic proper to the cosmic female, whereas to have one’s own principle in oneself is proper to the pure male. . . . female life is almost always devoid of an individual value but is linked to someone else in her need, born of vanity, to be acknowledged, noticed, flattered, admired, and desired (this extroverted tendency is connected to that “looking outside” which on a metaphysical level has been attributed to Shakti). (Eros, 157)

These forces then manifest in actual men and women. But Evola is clear to maintain that absolute man and woman are not simply aspects of character. Instead, they are “objective elements working in individuals almost as impersonally as the chemical properties inherent in a particular substance” (Eros, 152). As Evola says:

before and besides existing in the body, sex exists in the soul and, to a certain extent, in the spirit itself. We are man or woman inwardly before being so externally; the primordial male or female quality penetrates and saturates the whole of our being visibly and invisibly . . . just as a color permeates a liquid. (Eros, 32)

As such, the absolute woman is not simply an idealized concept of woman. She is defined from the divine down to the human, and is not a human conception of something divine.

Evola’s Description of Absolute Woman

The absolute woman is the rod by which all women are to be measured. Evola writes, “the only thing we can do is establish the superiority or inferiority of a given woman on the basis of her being more of less close to the female type, to the pure and absolute woman, and the same thing applies to man as well” (Eros, 34). In addition, superiority is defined by how closely one realizes the absolute woman or man. “A woman who is perfectly woman is superior to a man who is imperfectly man, just as a farmer who is faithful to his land and performs his work perfectly is superior to a king who cannot do his own work,” says Evola (Eros, 34).

Many more characteristics are associated with the female principle than those described below; however, these are the primary ones highlighted by Evola in his writings on the subject.

The Waters and Changeability

The fundamental feminine characteristic is changeability. Thus, the female is associated with water, which is fluid, and adapts to whatever form it is put into, just as matter/Shakti is shaped by form/Shiva. Evola writes that woman “reflects the cosmic female according to its aspect as material receiving a form that is external to her and that she does not produce from within” (Eros, 153). This fits in with Carl Jung’s description of woman’s animus, which is not self-created, but instead is a subconscious collection of the thoughts of men.

This changeability is related to woman’s tendency to live for someone outside of herself, due to the fluidity and changeability of her nature. For Evola, this means following the path of a mother or lover, fixing herself to a virile force in order to obtain transcendence. In contrast, “modern woman in wanting to be for herself has destroyed herself” (Revolt, 165.). By believing that she is merely her personality, she loses her transcendent aspect.

This changeability is seen in the association of the female with water. According to Evola, water represents “undifferentiated life prior to and not yet fixed in form,” that “which runs or flows and is therefore unstable and changeable,” and “the principle of all fertility and growth according to the analogy of water’s fertilizing action on earth and soil” (Eros, 119).

Evola also describes the correct relationship between the principle of water and that of fire, associated with the male: “when the feminine principle, whose force is centrifugal, does no turn to fleeting objects but rather to a ‘virile’ stability in which she finds a limit to her ‘restlessness’” (Revolt, 158).

Evola assents that certain modern women may appear very unchangeable, but stresses that this is at an outer level of her being:

a possible rigidity may follow the reception of ideas due precisely to the passive way she has adopted them, which may appear under the guise of conformity and conservatism. In this way, we can explain the apparent contrast inherent in the fact that female nature is changeable, yet women mainly show conservative tendencies sociologically and a dislike for the new. This can be linked to their role in mythology as female figures of a Demeter or chthonic type who guard and avenge customs and the law—the law of blood and of the earth, but not the uranic law. (Eros, 153)

Thus, a woman may be quite unchanging in her beliefs about society, etiquette, and morality, but will lack an attachment to a transcendent truth. Many of women’s ideas regarding social truths such as honor and virtue are “not true ethics but mere habits,” Evola says (Eros, 155).

This changeability of women explains the notion that women are at the same time more compassionate and more cruel than men; as woman is associated with the earth, she expresses both the tenderness of the mother and the cruelty of nature. The best example of this duality is the Greek goddess Artemis, who was both the protector of wild animals and the huntress.

Woman’s Lack of Being or Soul

Perhaps the most controversial characteristic of Evola’s absolute woman, which he gets from Weininger, is a common conception throughout history: that woman has no soul, or being. Weininger states that woman has no ego, referring to the Transcendental Ego of Immanuel Kant, which Evola describes as “above the whole world of phenomena (in metaphysical terms one would say ‘above all manifestation,’ like the Hindu atman)” (Eros, 151). In some schools of Hinduism, the atman (or “higher self”) is identical with the Brahman, the infinite soul of the Universe. In other Hindu conceptions, the atman is the life-principle. As manifested existence would be impossible without the atman, this description of woman as lacking a Transcendental Ego should not be taken to mean that women are incapable of developing and solidifying this aspect, though they may be at a disadvantage to men. Also, in the Kali Yuga, all people are the furthest removed from the divine, so modern men and women are likely in the same starting position in terms of development of Being.

Evola expands on the notion, stating that if soul means “psyche” or “principle of life,” then “it should signify in fact that woman not only has a soul but is eminently ‘soul,’” whereas man is not a soul but a “spirit.” He continues: “the point we believe settled is that woman is a part of ‘nature’ (in a metaphysical sense she is a manifestation of the same principle as nature) and that she affirms nature, whereas man by virtue of birth in the masculine human form goes tendentially beyond nature” (Eros, 151).

Deception and a Connection to Truth

Another attribute of absolute woman is deceitfulness. In fact, Evola states that it is so essential that telling lies has been acknowledged as an essential characteristic in female nature “at all times and in all places by popular wisdom” (Eros, 155). According to Weininger, this tendency is due to her lack of being. With no fixed essence, most women (and modern men) are attached to no transcendent truth, and therefore there is nothing to lie against—Truth only exists when one has substance and values. In Evola’s words:

Weininger observed that nothing is more baffling for a man than a woman’s response when caught in a lie. When asked why she is lying, she is unable to understand the question, acts astonished, bursts out crying, or seeks to pacify him by smiling. She cannot understand the ethical and transcendent side of lying or the fact that a lie represents damage to being and, as was acknowledged in ancient Iran, constitutes a crime even worse than killing. . . . The truth, pure and simple, is that woman is prone to lie and to disguise her true self even when she has no need to do so; this is not a social trait acquired in the struggle for existence, but something linked to her deepest and most genuine nature. (Eros, 155)

This quality of deceitfulness, while springing from the fundamental makeup of women, should not imply that it must be accepted as a given trait of all women, as some of Weininger’s writings imply. For, just like man, the ultimate goal of a woman’s existence is to connect with and live by the transcendent, which requires a fixation that cannot accept deception.

Woman’s Intuition, Man’s Ethics and Logic

Another idea Evola gets from Weininger is the notion that absolute woman, since she lacks being, also lacks memory, logic, and ethics (Eros, 154). In order to explain this, Evola distinguishes between two kinds of logic: everyday logic, which women can use quite successfully (though sometimes like a “sophist”) and “logic as a love of pure truth and inward coherence” (Eros, 154). This distinction can most commonly be seen when women use logic in arguments as a means to personal ends, rather than to arrive at a truth beyond their desires. Evola writes that

woman, insofar as she is woman, will never know ethics in the categorical sense of pure inner law detached from every empirical, eudemonistic, sensitive, sentimental, and personal connection. Nothing in woman that may have an ethical character can be separated from instinct, sentiment, sexuality, of “life”; it can have no relationship with pure “being.”

Women’s primary tool of cognition is not logic but intuition and sensitivity (Eros, 154).

In explaining memory, Evola turns to Henri Bergson, who described two types of memory. One is more common in women: the memory connected to the subconscious, which may remember dreams, have premonitions, and unexpectedly recall forgotten experiences. The second type of memory, which women lack due to their fluid nature, is “determined, organized, and dominated by the intellect” (Eros, 154).

The Female Principle as Powerful, Sovereign, and Active

Generally the female principle is described as passive, and the male as active. According to Evola, this only is true on the outermost plane. On the subtle plane, he says, “it is the woman who is active and the man who is passive (the woman is ‘actively passive’ and the man ‘passively active’)” (Eros, 167–68). In Hindu terms the impassible spirit (purusa) is masculine, while the active matrix of every conditioned form (prakriti) is feminine (Revolt, 157). Thus, to use the creation of a child as an example, man gives his seed, but it is woman who actively creates and gives birth to the child.

Mythology supports the sovereign aspect of woman. Evola gives the examples of the Earth goddess Cybele drawn in a chariot led by two tame tigers, and the Hindu goddess Durga seated on a lion with reins in her hands (Eros, 167). Evola states that man knows of this sovereign quality in women, and “often owing to a neurotic unconscious overcompensation for his inferiority complex, he flaunts before woman an ostentatious manliness, indifference, or even brutality and disdain. But this secures him the advantage, on the contrary. The fact that woman often becomes a victim on an external, material, sentimental, or social level, giving rise to her instinctive ‘fear of loving,’ does not alter the fundamental structure of the situation” (Eros, 167).

 

Association with the Demonic and Aspiration

Another “negative” quality of the absolute woman is that of aspiration, in the sense of a sucking quality, which also is associated with the demonic. On a profane level, in a degenerate form, this could be the woman who is constantly demanding more from her husband and others—more time spent together, a better car, a bigger house, or more attention. Since she has no “soul” (as defined above), she must fill the void within herself by sucking the vital force from others in emotional, monetary, or temporal vampirism.

On a metaphysical level, this quality merely refers to the divine female, Shakti, pulling Shiva into the world of manifestation. Thus, it is not good or bad, except for Gnostics or other sects who believe the created world to be evil. As Evola states, woman “is oriented toward keeping that order which Gnosticism, in a dualistic background, called the ‘world of the Demiurge,’ the world of nature as opposed to that of the spirit” (Eros, 141). This demonic element is expressed in actual life when women draw men to the realm of earth, nature, and children. It is expressed in sex when man’s seed being draw into the woman, creating a child bound by nature. “Although ‘woman’ can give life,” Evola writes, “yet she shuts off or tends to shut off access to that which is beyond life” (Eros, 142).

In some Eastern thought, the man’s seed is thought to be the spiritual manhood—hence the formation of sects that teach men to retain this force to attain liberation rather than wasting it through ejaculation. Women properly trained are said to be able to capture this essence during sex, thus seducing the man into giving up his manhood.

The positive aspect of this trait lies in woman’s ability to overcome it, most often by following the path of the mother or lover. In the actions required by these paths (if following them in an attitude of self-sacrifice and not self-aggrandizement), she no longer drains others, but instead learns to build up a vital force within herself through renunciation of desires. By relinquishing the control of the ego/personality by instead being devoted to others, woman is able to fix herself to the transcendent.

Like the other qualities of absolute woman, that of aspiration also can be found in man, especially in the Kali Yuga. Evola refers to sexual practices found in Chinese Taoism, India, and Tibet, where the man sucks the vital female energy from a woman during sex, a technique he describes as bordering on “male ‘psychic’ vampirism” (Eros, 249).

 

The Value of Absolute Woman in the Modern World

In the Golden Age, we can imagine that the metaphysical elements comprising a person manifested in the proper way. In such a time, the highest classes gave birth to the highest people; race was indicative of a corresponding inner quality; beauty on the outside attested to an inner beauty; and physical gender aligned with the qualities of absolute man or woman.

But in the Kali Yuga, there are pariahs in the highest classes, men who act like women, and men of Aryan stock who do not embody any of the virtues attributed to their race. As Evola says, it is possible for a person to be a different sex in the body than they are in the soul. These cases are similar to those where individuals of one race “have the psychic and spiritual characteristics of another race”(Eros, 34).

Therefore, men today may not innately possess any virile seed, just as modern women do not necessarily express the absolute female principle. In reading Evola’s work, then, we must not mistakenly interpret what he says about absolute man or woman as corresponding with individual men and women of today. Modern men and women are almost completely removed from the deepest aspects of themselves, functioning only as personalities. Thus, a person’s sex or caste has little importance in determining vocations or social relations. What relevance, then, do Evola’s descriptions of absolute man and woman have in the modern world?

An answer is found in the existential Angst that defined the twentieth century. Martin Heidegger wrote of the inauthentic life, and Jean-Paul Sartre of bad faith; most people today still fit the description of mere personalities, lacking divine connections or the means to find them. In a world that has lost its values and connection to Tradition, discovering these principles in our innermost natures becomes even more important. By examining Evola’s work, and that of other Traditionalists, we can find our way back to our true selves, the true relation between the sexes, and a connection to the transcendent.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

jeudi, 18 août 2011

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

lundi, 15 août 2011

Apuntes sobre el Mitraismo

Apuntes sobre el Mitraismo

Enrique RAVELLO

Ex: http://identidadytradicion.blogia.com/

La historiografía utiliza el término de «cultos mistéricos» para todo el conjunto de formas religiosas que, procedentes de Oriente, irrumpen en el Imperio romano tardío. El engañoso término de cultos mistéricos podría hacernos pensar en una unidad interna de los mismos; nada más lejos de la realidad, poco tenían que ver entre sí los cultos a Attis, Cibeles, Serapis, Isis o Júpiter - Amón , pero si uno de ellos merece mención aparte es, sin duda, el culto a Mitra.

Es precisamente lo que le diferencia del resto lo que le hace interesante para nosotros y lo que motiva el sentido de este artículo: a diferencia del resto de divinidades «orientales» llegadas a la Urbs desde el cambio de Era, Mitra sólo tiene de «oriental» la procedencia geográfica: Persia, siendo una de las divinidades que los indoeuropeos de origen nordeuropeo (medos, persas, hindúes y mitanios) llevaron a Asia durante sus migraciones e invasiones de aquellas tierras. Divinidad indoeuropea que, como tal no podía ser extraña a los romanos, los que pronto la asimilaron con sus dioses solares; así Mitra no era uno más de los cultos de «religiosidad segunda» del Bajo imperio , sino que propuso una posibilidad de enderezamiento espiritual -siguiendo el concepto evoliano- en un momento en que la Tradición romana parecía haber entrado en una fase de crisis

Mitra y su ascesis son profundamente indoeuropeos :«Los misterios mitraicos nos llevan al seno de la gran tradición mágica occidental , a un mundo todo él de afirmaciones , todo de luz y de grandeza , de una espiritualidad que es realeza y de una realeza que es espiritualidad , a un mundo en el que todo lo que es huída de la realidad , ascesis , mortificación en humildad y devoción , pálida renuncia y abstracción contemplativa , no tienen ningún lugar . Es la vía de la acción de la potencia solar» (1).

 

MITRA : DEL MUNDO INDO-IRANIO A ROMA.

 

Mitra como divinidad ario-irania

 

Para determinar los orígenes de Mitra hay que remontarse a la religión preavéstica donde aparece junto a Varuna y Surya entre los dioses soberanos o de la primera función indoeuropea. Mitra preside las alianzas y asegura la soberanía de los persas en las tierras recientemente conquistadas, asegura también la feliz doma de animales (2). Es un dios común a los indo-arios de la India y Persia, pero entre estos últimos tiene una función más guerrera que entre los primeros. Su nombre significa a la vez «alianza» y «el amigo» (3) . Mitra aparece en el panteón de tres pueblos indoeuropeos étnicamente muy relacionados: indo-arios, iranios y mitanos, de los que todo hace pensar que se trató de una rama de los indo-arios que se desgajó hacia zonas más occidentales. Siempre aparece como divinidad de la primera función junto a Varuna con quien está en una relación de complementariedad, en todos los sentidos «si los principios conjuntos se consideran en su reciprocidad, el Dios manifestado es el poder masculino y la Divinidad no manifestada es el poder femenino, reserva inagotable de toda posibilidad incluida en la manifestación: es pues Mitra, quien fecunda a Varuna (PB XXX10,10)» (4).

 

Etimológicamente la raíz de su nombre sería la indoeuropea *mei/*moi- con la idea de intercambio, seguido del instrumental -tra. Ésta es al menos la opinión de Meillet y la que más consenso tiene entre los estudiosos. Así Mitra inicialmente habría sido el garante de los acuerdos, el orden del mundo y del orden social, en definitiva de la relación de los dioses con los hombres y de éstos entre ellos mismos. Mitra engloba los conceptos de amigo y de contrato, y, siguiendo a G Bonafonte la evolución conceptual habrá comenzado desde esa raíz *mei/* moi (intercambio)  -obligación mutua (por intercambio de bienes) -amigo, amistad - dios Mitra (5). Siendo el garante de la palabra dada, y, en definitiva, de las relaciones entre los dioses y los hombres y de éstos entre sí. Mitra es quien «sostiene el cielo y la tierra» (Rg Veda, 3, 59).

 

En el espacio temporal que va desde la época védica hasta la reforma zoroastriana, la figura de Mitra también experimentará ciertos cambios, más bien matices, en la naturaleza y función de su divinidad.

 

En el mundo védico, Mitra y Varuna son las dos caras complementarias (que no antitéticas) de la función soberana del panteón indoeuropeo, una relación semejante en el mundo latino sería la de Rómulo- Numa (6). El Mitra védico encarna los aspectos jurídico soberanos, luminosos, siendo un dios cercano al mundo y a los hombres «la función de este culto (el de Mitra) es por lo tanto la de orientar religiosamente y consolidar la cohesión familiar, de amistad, social y, por lo tanto, la red de relaciones interpersonales que constituyen el tejido constitutivo de la vida de una tribu, de un pueblo, de una etnia» (7). Por su parte, Varuna encarna el aspecto mágico, violento, invisible y lejano.

 

Para conocer la figura del Mitra del mundo iranio antiguo, tenemos una gran escasez de fuentes para el periodo más arcaico. Durante la predicación de Zaratustra , todos los dioses del panteón persa se subordinan a Ahura Mazda y, aunque el nombre de Mitra aparezca en el Avesta, donde se le dedica un himno , lo hace de forma casi ocasional , esto ha sido interpretado por los estudiosos como un «eclipse» de esta divinidad , «relegada» por Zaratustra a un papel secundario , aunque hay otro tipo de opiniones : «Los estudiosos occidentales han sacado la errónea conclusión de que Mitra había sido rechazado por Zaratustra sólo porque no es mencionado en los Gatha , como si Zaratustra no hubiese compuesto más que los himnos de fragmentario corpus que han llegado a nosotros» (8). Aparece en el décimo Yashts (cántico) del Avesta, y se enfatiza su aspecto guerrero, y su función de guardián de la moral (9).

 

A. Loisy confirma que el origen de Mitra se encuentra en la religión preavéstica , en la que es el mediador entre el mundo superior y luminoso donde impera Ahura Mazda y el inferior donde ejerce su influencia Arimán (10).En el Mitra -Yasht , un himno religioso en su honor fechado entre el siglo V y VI  a. C. aparece como el dios de la luz , de los guerreros , de los pactos y de la palabra dada, algo que protege muy especialmente y cuya alteración o incumplimiento queda determinado como un sacrilegio y una grave perturbación del orden social y cósmico. Está claramente relacionado con la luz y el sol. Es descrito como «el más victorioso de los dioses que marchan sobre esta tierra»,  «el más fuerte de los fuertes» y físicamente como «el dios de los cabellos blancos», siendo -como ya sabemos- muy frecuentes los elementos fenotípicamente nórdicos en las descripciones físicas de las divinidades indo-ario-persas.

 

Bajo el reinado de Aqueménida, es la divinidad principal con la diosa Anahita y Ahura Mazda, siendo al dios que invocan los reyes en sus testamentos y combates. La religión medo-persa no tenía imágenes, que llegaron con la helenización del Asia menor, a la divinidad que más afectó este proceso fue precisamente a Mitra, que desde estos momentos pasó a un primer plano. Además durante el Helenismo muchas divinidades son asimiladas a los dioses greco-latinos, Ahura Mazda lo será con Júpiter; Ahrimán se convertirá en Hades; mientras que Mitra, conservará su nombre, ya que no tiene correspondencia exacta con los dioses greco-latinos, y aunque durante el Helenismo es el segundo dios en importancia, sin duda es el más adorado.

 

F. Cumont pone de relieve la importancia y la admiración que se tuvo entre los griegos y los romanos hacia el Imperio aqueménida , y cómo muchas de sus instituciones fueron adoptadas por los emperadores romanos por ejemplo los amici Augusti, del mismo modo que llevar delante del César el fuego sagrado como emblema de la perennidad del poder (11) . Lo que ya es más difícil es seguir los caminos, bastante más ocultos, por los que se transmitieron las ideas de unos pueblos a otros. Parece cierto que  a comienzos de nuestra Era, determinadas concepciones mazdeas se habían difundido más allá de Asia. La conquista macedónica de Asia Menor puso a los griegos en contacto directo con el mazdeísmo y hubo un interés general entre los filósofos por su conocimiento. Así como la  «ciencia»  que se extendía entre las clases populares con el nombre de magia, tenía, como su propio nombre indica, en gran parte origen persa. Antes de la conquista de Asia por Roma, algunas instituciones persas ya habían hallado en el mundo greco-oriental imitadores y adeptos a sus creencias. Los más activos agentes de esta difusión parecen haber sido para el mazdeísmo -como, por otro lado también para el judaísmo -las colonias de fieles que habían emigrado lejos de la madre patria (12).

 

Aún así es conveniente recordar la opinión de Julius Evola respecto a la relación entre el culto de Mitra y la religión zoroástrica: «Emanación del antiguo mazdeísmo iránico, el mitraísmo retomaba el tema central de una lucha entre las potencias de la luz y las de las tinieblas y el mal. Podía tener también formas religiosas, exotéricas, pero su núcleo central estaba constituido por sus Misterios, o sea por una iniciación en el verdadero sentido. Ello constituía un límite, aunque así se hacía una forma tradicional más completa. Sucesivamente, se debía, sin embargo, asistir a una cada vez más decidida separación entre la religión y la iniciación» (13)

 

De Persia a Roma.

 

Fue F. Cumont el primero en afirmar la continuidad entre el Mitra iranio y el del culto de época romana, tesis admitida por la práctica totalidad de los estudiosos. S. Wikander negó esta identificación, pero su tesis es paradoxal e insostenible, otro en negarla más recientemente ha sido David Ulansey (14) en su libro, The Origins of the Mithraic Mysteries(15) quien centra exclusivamente su interpretación del mitraísmo como religión astrológica y la representación del Mitra tauróctono únicamente desde el punto de vista astrológico zodiacal, si bien los datos que aporta  sí son interesantes , la interpretación de fondo no deja de ser limitada por reduccionista.

 

En cuanto a la propagación propiamente dicha del mitraísmo en Occidente, data de la fecha de la anexión de Asia Menor y Siria. Y aunque parece haber existido ya en Roma , en la época de Pompeyo, una comunidad de adeptos, la auténtica difusión no comenzó hasta el tiempo de los Flavios, y fue cada vez más importante con los Antoninos y los Severos, para ser hasta finales del siglo IV el culto más importante del paganismo. Aunque hay que tener en cuenta que la influencia de Persia, no fue sólo religiosa, sobre todo desde el 88 d. C; con la llegada al poder de la dinastía Sasánida. En la propia corte de Diocleciano se adoptaron las genuflexiones ante el emperador, igualado a la divinidad. Así que la propagación de la religión mitraica, que siempre se proclamó orgullosamente persa, se vio acompañada de una influencia persa en la política, la cultura y el arte.

 

En cuanto al proceso concreto de llegada de Mitra desde Irán a la península itálica, tenemos una dramática ausencia de fuentes, dos líneas de Plutarco, y una referencia de un mediocre escolástico de Estancio, Lactancio Plácido. Ambos autores coinciden en situar en Asia Menor el origen de la religión irania que se difundió por Occidente, así el mitraísmo se había constituido, antes de que fuese descubierto por los romanos, en las monarquías anatólicas de épocas precedentes, allí llego en la época de dominio Aqueménida, donde los persas se convirtieron en la aristocracia dominante de Capadocia, Ponto o Armenia, y seguirían siendo los amos de la zona después de la muerte de Alejandro. Esta aristocracia militar y feudal propició a Mitríades Eupator, un buen número de oficiales que ayudaron a desafiar a Roma y a defender la independencia de Armenia. Estos guerreros adoraban a Mitra como genio militar de sus ejércitos, y es por esto por lo que siguió siendo siempre, incluso en el mundo latino, el dios «invencible», tutelar de los ejércitos y honrado, sobre todo, por los soldados. 

 

Paralelamente a esta nobleza, otra clase también persa se había establecido en Asia Menor, los «magos» estaban diseminados por todo el Levante y conservaron escrupulosamente sus ritos. Sería el máximo fundamento de la grandeza de los misterios de Mitra.

 

La religión mazdeísta fue a los ojos de los griegos puramente bárbara y no tuvo ningún eco entre los helenos, como sí pudo tener el culto de Isis y Serapis, los griegos jamás aceptaron una divinidad que viniera de sus eternos enemigos. Mitra pasó directamente al mundo latino, además la transmisión fue de una rapidez fulminante, pues los romanos nada más conocer la doctrina de los mazdeos, la adoptaron con entusiasmo. Y llevado hacia fines del siglo I por los soldados a todas las fronteras, el culto de Mitra llegó al Danubio, al Rin, Britania, fronteras del Sáhara y valles de Asturias. Mitra conquistó pronto el favor de los altos funcionarios y del propio emperador. A finales del siglo II, Cómodo se hizo iniciar en los misterios, cien años después su poder era tal que eclipsó a todos sus rivales en Occidente y en Oriente. En 307 Diocleciano, Galeno y Licio le consagraron como protector del Imperio, fautori Imperio sui.

 

MISTERIA MITRAE

 

Los mitreos

 

El de Mitra es un culto totalmente mistérico que celebraban los iniciados para sí. Las cofradías mitraicas admitían solamente a hombres. El primitivo lugar de adoración de Mitra debieron ser las grutas de las montañas, especie de cavernas, en la época que nos ocupa, eran ya los mitreos que consistían en una pequeña capilla, pero, en definitiva seguían siendo grutas, a los que los iniciados se referían como specus. La distribución de la nave parece un comedor, pues el rito principal consistía en una comida para los iniciados, «en efecto, el Mithraeum no es, como el templo greco-romano, la casa de dios, sino un lugar de comunión entre los hombres y los dioses» (16). Había en los mitreos una mesa de piedra en la que estaba representado Mitra matando al toro, montado sobre un eje y esculpida a ambos lados, donde se combinaban imágenes del sol. Este pequeño santuario representaba el mundo, además toda su decoración tenía un alto contenido simbólico, aunque difícil de interpretar por la ausencia de textos contemporáneos. El Mitra tauróctono representa el sacrificio del toro, el tauribolio, como principio de la vida bienaventurada prometida al iniciado.

 

El acceso al mitreo era por una sola puerta, para descender algunos escalones, la capacidad no excedía las 100-120 personas, el lugar sagrado estaba reservado a los iniciados, el resto estaba en salas adyacentes. La disposición interna es constante, la imagen de Mitra está siempre en el centro o en la pared del fondo y en las escenas representadas aparece matando al toro y rodeado de los dadóforos, bien visible está el altar o la mesa sobre las que se apoyan las ofrendas y los alimentos, a los lados los bancos para los sacerdotes, destacando siempre el podium para el pater que preside la asamblea. En el mitreo no hay ventanas, y, al ser las reuniones nocturnas, la luz constituía un elemento de suma importancia, siendo el reclamo al Sol. En el ingreso al mitreo había un zodiaco, representando al universo, en el centro se reúne y canta la comunidad iniciática, reforzando la solidaridad fraterna del grupo.

 

El culto a Mitra conocía la semana con consagración de los siete días a las siete esferas planetarias, santificándose especialmente el primer día dedicado al Sol. Había también fiestas estacionales, se cree que tuvo cierta importancia la del equinoccio de primavera, común a otras iniciaciones, pero sin duda la más importante fue la de la Natividad del Sol, fiesta del Sol Invictus, que se celebraba, coincidiendo con el solsticio de invierno, el 25 de Diciembre. Mitra nace entre un buey y una mula en una gruta, con dos pastores de testigos: Cautes y Cautópates, Cautes tiene una antorcha encendida hacia arriba (el día), Cautópates tiene una antorcha encendida hacia abajo (la noche).

 

 

Los grados iniciáticos

 

La religión de Mitra no era un conocimiento sagrado escrito y codificado, que se podía aprender leyendo, la verdad sobre la que se sustenta, la base de sus misterios, son transmitidos de boca a oído entre los fieles y adeptos de las distintas jerarquías internas.

 

Siete eran los grados por los que debía de pasar un iniciado que pretendiera llegar al grado supremo: el cuervo, el oculto, el soldado, el león, el persa, el mensajero del Sol, y el padre. Se piensa que se determinaron según los siete planetas y son las siete esferas planetarias que el alma tendría que atravesar hasta llegar a la morada de los bienaventurados. No ajeno a este concepto es la expresión aún hoy coloquial de «llegar al séptimo cielo», para hacerlo el iniciado mitraísta tenía que atravesar siete puertas anteriores:

 

La primera es de plomo y frente a Saturno, debe despojarse del peso del cuerpo y de su vinculación a la vida y la tierra.

 

Venus le espera en la segunda, hecha de estaño, y le exige el abandono de la belleza física y del placer sexual.

 

En la siguiente puerta, que es de bronce, se encontrará con Júpiter ante el que tendrá que despojarse de la seguridad personal y la confianza en sí mismo y su pequeño yo.

 

La cuarta es de hierro y Mercurio es quien la custodia, ya no sirven ni inteligencia ni cultura, tampoco la antorcha luminosa ilumina nada ante la verdadera luz que es dios.

 

Frente a la puerta de Marte - de bronce y hierro -  nada puede hacer la espada que es sustituida por la fuerza divina.

 

La Luna vela la puerta de plata donde se dejan orgullo, ambiciones y amor a sí mismo, amor que sólo merece dios.

 

La última puerta es de oro y la cuida el Sol, quién tiende la mano al adepto pidiéndose un último gesto, ir más allá de sí mismo aceptando la mano que el propio Sol le está ofreciendo .

 

También, cada uno de los siete grados estaba influenciado por una diferente esfera planetaria:

 

korax  (cuervo)                                      Mercurio

 

nymphus                                              Venus

 

miles (soldado)                                        Marte

 

leo (león)                                              Júpiter

 

perses (persa)                                      Luna

 

Heliodromus                                          Sol

 

Pater                                                    Saturno (17)

 

 

Según Porcino (18) los cuervos serían una especie de auxiliares de los misterios, puede que en algún tiempo fuesen niños.

 

Este primer grado toma su nombre del animal que en la tauroctonía lleva a Mitra el mensaje de dios en el que le ordena matar al toro. Así el iniciado que tiene este grado, protegido por Mercurio, «es portador de mensajes» (19). Téngase presente también la relación entre las aves y el «lenguaje simbólico». Según los restos que nos han llegado, especialmente del mitreo de Capua, sabemos que viste una capa blanca con bandas rojas. En las ceremonias tiene la función de servir los alimentos que él no puede probar, el sentido es desposeer al iniciado de primer grado de los restos de ego profano.

 

El segundo grado tiene dos nombres, el de cryphius y el de nimphos. El primero (el oculto) ha sido relacionado con el hecho de que permanece escondido, no aparece en los bajorrelieves, sólo se les mostraba una vez y parece que era una ceremonia especialmente solemne. Puede que primitivamente fueran adolescentes, antes de llegar a soldados, que vivían en un régimen de separación especial. Pero realmente si hay presencia de este grado en los restos arqueológicos, con lo que habrá que centrarse en su segundo nombre nimphus o nymphos para darle una interpretación correcta. Así mismo, nymphos puede tener dos significados, el de esposo o mejor prometido, que lo relacionaría con Venus, su esfera protectora, y el Amor (en sentido iniciático) que debe tener hacia Mitra. También puede significar ninfa-crisálida, haciéndose referencia a una especie de proceso metamórfico en el que « de gusano»  (= el ser ligado a lo terreno, a las pasiones y a los instintos), pasa al estado de «crisálida» (=el huevo, el estado de clausura de aislamiento y de preparación), para propiciar el nacimiento de esa abeja o «mariposa» (=la capacidad en acto del alma de alzar el vuelo, de desvincularse de las ataduras terrenas)» (20). En este grado viste un velo amarillo sobre su rostro -de ahí lo de oculto -y tiene como atributo una lámpara, símbolo de la luz  necesaria para la consagración de este grado,

 

El soldado, es un iniciado propiamente dicho. En la Antigüedad ya guerreros plenamente dedicados al combate y a la caza. Su iniciación era una especie de bautismo, con la imposición de una marca en la frente, similar al cristiano. Sus símbolos son la espada y la corona. Corona que, simbolizando el poder, se le ofrece y debe rechazar al grito de «Mitra es mi corona ». En los mitreos de Capua y Ostia aparece con una capa ornada en púrpura y un gorro frigio. Su misión es garantizar la justicia y el orden. En los ritos de iniciación es el «liberador» y en las asambleas el encargado de mantener el orden.

 

En la exaltación al grado de los leones, se vierte miel en vez de agua, sobre sus manos y se les invita a conservarlas puras de todo mal, mala acción y de toda mancha, también con la miel se les purifica la lengua de toda falta. La miel tiene una gran importancia en la tradición persa, se cree que es una sustancia celestial, llegada de la luna, es superior al agua en su virtud, y comparable desde el punto de vista místico al brebaje sagrado del haoma. En los restos arqueológicos aparece con una toga roja y un manto rojo, en algunas ocasiones con remates amarillos. Es importante hacer notar que, a diferencia de los grados inferiores, es ahora -como leo- cuando el adepto recibe un nuevo nombre. Para este grado -protegido por Júpiter-  su atributo simbólico es el rayo, símbolo presente en varias tradiciones indoeuropeas: Zeus, Odín, Indra y Varuna también lo tienen como iconografía propia. El rayo, símbolo de la luz y potencia, estaría aludiendo a una experiencia de iluminación interior, el paso a un estado superior de conciencia.

 

El nombre del persa, es una clara referencia a la patria de origen del dios Mitra. También se usa la miel en su consagración, pero con un simbolismo diferente, «es considerado como el guardián de los frutos en amplio sentido (incluidos los cereales) y en la Antigüedad la miel usada de azúcar fue símbolo de conservación» (21). En cierta medida representaría a Mitra en su relación con la vegetación y la fecundidad de la tierra.

 

Sin embargo mucho más interesante nos parece la interpelación de este grado y su relación con la Luna que hace Stefano Arcella en su libro, I Misteri del Sole, aplicando criterios tradicionales y evolianos donde otros autores positivistas se limitan a criterios racionalistas, arqueológicos e incluso artísticos con los que es imposible penetrar y descifrar el mito. Para Arcella la Luna sería su numen titular, al ser el astro que da luz durante la noche, leído interior y simbólicamente, se estaría dando a entender que el iniciado-durante esta fase- tendría que sumergirse en su propio mundo interior «sin luz»  -asimilado con la noche- tomar conciencia de él y ser capaz de dominarlo, ese viaje nocturno sólo podría hacerse bajo la protección de la Luna que ilumina las tinieblas. Así -intuye el autor italiano -habría que pensar que la iniciación de este grado sería durante la noche, y, posiblemente, las pruebas consistieran en cumplir determinadas encomiendas aun a pesar de la nocturnidad y la oscuridad, es decir «venciendo la noche». En las ceremonias del culto llevaba el traje persa y el gorro frigio que también llevaba Mitra.

 

Heliodromus es el corredor del Sol, Arcella también lo califica como «la puerta del Cielo». Se asimila al Sol, pues no corre delante del Sol, sino que sube con él en un carro, es el grado anterior al supremo, y se muestra al adepto sobre el carro del cielo, adonde le basta penetrar con Mitra para alcanzar la esfera de la divinidad. «Heliodromus está subordinado al Pater, como el Sol lo está a Mitra, verdadero Sol Invictus» (22).Viste túnica roja con cinturón amarillo y se le representa con una antorcha encendida. En este grado se le vuelve a ofrecer la corona -rechazada anteriormente-y esta vez la asume, porque ahora la corona no está simbolizado el  poder mundano sino que es la corona-rayo que simboliza los rayos solares y significa la apertura del iniciado a la Luz del Sol espiritual. La corona tiene siete rayos, cifra presente en varias tradiciones, por lo menos desde el Pitagorismo, según el cual cada planeta irradia una propia vibración sonora, siete son los planetas a los que están ligados los adeptos mitraicos, así como siete son los días de la semana. Sin duda el requisito para llegar a Heliodromus era ser capaz de dominar los impulsos concupiscibles e irascibles del alma «La iniciación al grado de Heliodromos sucedía, verosímilmente, cuando cantaba el gallo, a la primera luz del alba, ya que el iniciado debía entrar en sintonía con el sentido anímico de abrirse a la luz» (23). Durante los banquetes guía a los comensales y hace los honores de la casa.

 

El padre es el grado supremo, su dignidad corresponde a la de Mitra en el cielo. Son los perfectos iniciados que participan plenamente de Mitra. A su cabeza está el padre de los padres (24). Cumbre de la jerarquía, lleva un gorro frigio ornado con perlas y un manto púrpura sobre una túnica roja con bandas amarillas, lleva un anillo y en la mano derecha el bastón que simboliza mando y poder. Es el guía de la comunidad. Entre sus atributos estaba la hoz. El cetro del mago y el gorro de persa. En un mitreo encontrado en Mesopotamia los padres estaban representados con hábitos persas, sentados en tronos, el cetro del mago en la mano derecha y en la izquierda un pergamino, que simboliza su conocimiento de los textos rituales y su significado religioso. Eso, y la elección del vocablo Pater los relaciona con la tradición jurídica y religiosa romana, de la misma estirpe que la indo-aria.

 

Lejos de considerar el paso por los diferentes grados iniciáticos como una convención o algo parecido a una representación teatral para adeptos, hay que reflexionar sobre las indicaciones que, al respecto, da Evola: «Existe un nivel en el que resulta por evidencia inmediata que los mitos misteriosóficos son, esencialmente, transcripciones alusivas de una serie de estados de conciencia a lo largo de la autorrealización. Las diferentes gestas y las varias vivencias de los héroes míticos no son ficciones poéticas, sino realidades- son actos bien determinados del ser interior que relampaguean uniformemente en cualquiera que quiere avanzar en la dirección de la iniciación, esto es, en la dirección, de un cumplimiento más allá del estado humano de existencia» (25).

 

Iniciaciones y celebraciones.

 

Aunque se ignora cuál era el ritual de las iniciaciones, se sabe que entre las condiciones preliminares de admisibilidad a los distintos grados había «pruebas» bastante duras y que incluso el ritual de las iniciaciones, sobre todo para el soldado, mantenía cuanto menos un simulacro de luchas y peligros. A juzgar por los restos encontrados en los mitreos los sacrificios de animales debían ser numerosos.

 

Además existía la oblación del pan del brebaje sagrado, imitado luego por los cristianos, y en esta «comunión» se repetían las palabras «éste es mi cuerpo» y «ésta es mi sangre», pues representaban la sustancia del toro mítico y divino que era Mitra, entendido como Ser supremo. El líquido que se servía pudo ser agua o en ocasiones vino, aunque en su inicio era ahoma (el soma de la India védica), que se mantuvo en el ritual ascético, pero ante la imposibilidad de obtener la planta sagrada, se sustituyó el líquido aunque no el significado.

 

Las imágenes que tenemos de escenas iniciáticas corresponden a los frescos del mitreo de Capua, en todas vemos características comunes: el iniciado desnudo, vendado y/o arrodillado; el oficiante poniéndole una túnica blanca, el pater con un gorro y una capa roja.

 

En otro mitreo cercano a Roma, se han encontrado dos series de representaciones que corresponden a las procesiones de los leones; la primera serie está fechada en 202, en ambas los iniciados de cuarto grado, aparecen desfilando ante el Pater, al que le ofrecen algunos dones. En estos tipos de ritos mitraicos dos elementos son constantes y tienen una importante función simbólica; el incienso; común a varias tradiciones espirituales, siempre con un sentido de purificación; y el fuego , como símbolo de luz y vida, doblemente como símbolo de sacralidad solar, y como símbolo de la «cadena» que forman los iniciados en los misterios mitraicos, que-cada uno de ellos individualmente -una vez establecido el contacto con esa Luz son capaces de transformar y dominar su elemento telúrico- lunar- taurino, otro de los significados -y no el menos importante del simbolismo de la tauroctonía mitraica.

 

La comida sagrada, otra celebración importante para la comunidad mitraica, simbolizaba el encuentro entre Mitra y el Sol. El pan consagrado remitía a la unión mística del grupo que, ingiriéndolo se apropiaba de una determinada energía, que les transmutaba en algo diferente (el paralelismo con la eucaristía cristiana es más que evidente). También se consagraba el vino, que en el mitraísmo romano había sustituido definitivamente al ahoma iranio, que ya nadie sabía cómo lograr preparar. Para S. Arcella cabría otra lectura de este banquete: «...inherente a la realización individual: una vez vencida, sacrificada y transformada la propia componente "taurina", el iniciado se encuentra y se reúne con su Principio solar (en el símbolo: el banquete entre Mitra y el Sol): utiliza toda la energía de la naturaleza inferior, a favor de un empuje ascendente y de una estabilidad en la realización espiritual» (26).

 

En cuanto al aspecto de la autorrealización individual , y de la posibilidad de potenciar determinadas facultades innatas en sentido de lograr una identificación ontológica con la divinidad, tenemos pruebas documentales en el llamado Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París, en el que se habla claramente de un rito no comunitario sino individual, en el que el iniciado a los «misterios mayores»  -es decir grados superiores- entra en disposición de lograr un contacto unificador con el dios, venciendo el elemento «taurino-telúrico» y lo hace con la pronunciación de nuevo logos, que cada uno de ellos abre sucesivas puertas sutiles, produciéndose los correspondientes saltos de calidad ontológica . Estos logos serían parte de la técnica tradicional de la sonoridad ritual capaz de dar vibraciones «sutiles» que producen cambios a nivel interno y externo, es el mantra hindú.

 

 

Iconografía

 

Mitra nace de una piedra, y siempre -desde el momento de su nacimiento -es representado con un puñal en la mano derecha y una antorcha en la izquierda, los cabellos en forma de rayos solares. También existe otra versión menos extendida en la que el dios nace de un árbol o de la parte inferior del «huevo cósmico». La lectura desde el simbolismo tradicional infiere que el nacimiento de una roca alude a la materialidad que encierra un elemento luminoso y vivificar, que ahora -con el nacimiento- es capaz de regenerar su naturaleza anterior, si Mitra nace de la piedra, su cuerpo es el templo -no la cárcel- de su espíritu desde el cual puede manifestar todo su poder y luminosidad «la organización corpórea es el signo de un cierto núcleo de potencia cualificada, y la iniciación mágica no consiste en disolver tal núcleo en la indistinta fluctuación de la vida universal, al contrario, en potenciarlo, en integrarlo, en llevarlo no hacia atrás, sino adelante» (27) la piedra sería también símbolo de la incorruptibilidad, «estaríamos tentados de establecer una analogía entre esta génesis de Mitra y un tema del ciclo artúrico, en el que figura una espada que hay que extraer de una piedra que flota sobre las aguas» (28). El nacimiento de un árbol podría tener el mismo significado, el de la potencial sacralidad de la naturaleza, pero también podría relacionarse con la imagen del árbol como guardián y fuente de la sabiduría eterna, en paralelo con el caso de Wotan y el Yggdrasil. El nacimiento desde el Huevo Cósmico, símbolo de la potencialidad que origina la Manifestación Universal, remite a la fuerza espiritual parte de esta manifestación.

 

En varias escenas de su nacimiento, vemos que Mitra está acompañado por un grupo de pastores, interpretados por Evola como ciertas «superiores presencias espirituales » que ayudan en el nacimiento iniciático (29). En otras tantas, vemos que en su nacimiento,  Mitra está acompañado de dos personajes: Cautes y Cautópates, el primero, Cautes, lleva una antorcha con el fuego hacia arriba, representa la luz del Sol ascendiente, del día que crece: del solsticio de invierno al solsticio de verano, también el amanecer; la antorcha de Cautópates está hacia abajo representando la luz del Sol que decrece: del solsticio de verano al solsticio de invierno, también el atardecer.

 

 

Ética mitraica. La dexiosis.

 

F. Cumont se pregunta el porqué del éxito del mitraísmo. Según él esta religión, la última de las orientales en llegar a Roma, aporta una nueva idea: el dualismo. Se identificó el principio del Mal, rival del dios supremo; con este sistema, que proporcionaba una solución simple al problema de la existencia del mal-escollo para tantas teologías- sedujo tanto a mentes cultas como a las masas. Pero esta concepción dualista, no basta para que la gente se convirtiera a la nueva religión, además el mitraísmo ofrecía razones para creer, motivos para actuar y temas de esperanza, esta religión fue el fundamento de una ética y una moral muy eficaz y concreta, esto fue lo que en la sociedad romana de los siglos I y III, llena de insatisfechas aspiraciones hacia una justicia y una ética más perfecta, garantizó el éxito de los misterios mitraicos. Según el emperador Juliano, Mitra daba a sus iniciados entolai o mandamientos y recompensas en éste y en el otro mundo a su fiel cumplimento. Y así el mazdeísmo trajo una satisfacción largo tiempo esperada y los latinos vieron en ella una religión con eficacia práctica y que imponía unas reglas de conducta a los individuos que contribuían al bien del Estado.

 

Mitra, antiguo genio de la luz, se convirtió en el zoroastrismo y continuó siéndolo en Occidente, en el dios de la verdad y de la justicia. Fue siempre el dios de la palabra dada y que asegura estrictamente el cumplimiento de los acuerdos y pactos. En su culto, se exaltaba, la lealtad y sin duda se buscaba inspirar sentimientos muy similares a los de la moderna noción de honor. También se predicaba el respeto a la autoridad y la fraternidad, al considerarse los iniciados como hijos de un mismo padre, pero a diferencia de la «fraternidad cristiana» basada en la compasión o en la mansedumbre, la fraternidad de estos iniciados, que tomaban el nombre de soldados era más afín a la camaradería de un regimiento, y se basaba en aspectos viriles y guerreros.

 

En la religión de Mitra tiene gran importancia la lucha y la acción, es loable la resistencia a la sensualidad y la búsqueda de la virtud, pero para llegar a la pureza espiritual, hace falta algo más, es la lucha constante contra la obra del espíritu infernal, sus creaciones demoníacas salen constantemente de los abismos para errar por la superficie de la Tierra, se meten por todas partes y llevan la corrupción, la miseria y la muerte. Los guías celestiales y guardianes de la piedad deben impedir que triunfen. La lucha es continua y se refleja en el corazón y la conciencia del hombre, miniatura del universo, entre la divina ley del poder y las sugestiones de los espíritus perfectos. La vida es una guerra sin cuartel, una continua lucha. Los mitraístas no se perdían en misticismos contemplativos, su moral agonal, favorecía sobre todo la acción y en una época de anarquía y desconcierto los iniciados hallaban en sus preceptos un estímulo en consuelo y orgullo. El cielo se merece, se gana en la guerra, el mismo concepto lo tenemos en otro extremo del mundo indoeuropeo, entre los vikingos y su idea del Walhalla, como morada de los guerreros.

 

El italiano Tullio Ossana dedica la mayor parte de su libro La stretta di mano . Il contenuto etico della Religione di Mitra, -tras la correspondiente explicación de orígenes, difusión, estructura interna y ritos- precisamente a ese rasgo tan propio de la religión mitraica, sin duda una de sus principales activos a la hora de ganar adhesiones, que fue la elaboración de una ética propia de raíz guerrera. Esta ética tendría tres objetivos:

 

- Hacer del hombre un hombre consciente, maduro, comprometido, por lo tanto capaz de actuar según sus capacidades y de poner su vida en acción.

 

- El segundo objetivo sería entrar en armonía en el Cosmos y cumplir su gran misión de ser intermediario entre dioses y hombres, entre hombres y la creación.

 

-Ser parte del plan de Mitra, revelado a el por el Sol. Representar el orden divino allí donde esté presente, con las implicaciones escatológicas y de ultratumba que ello implicaría.

 

Habría, según F. Cumont (30) una especie de decálogo que la religión mitraíca trazaría para que cada uno de sus adeptos fuese capaz de llegar a cumplir los tres objetivos mencionados. Cumont no llega a explicitar dicho decálogo, pero Tulio Ossana sí que nos da pistas para poder hacernos una certera idea de en qué podría haber consistido.

 

-Ética de la luz. Indicando el aporte de la inteligencia a la acción, la sabiduría en toda realización y la fidelidad a la verdad y a la palabra dada.

 

 

- Ética de la espada, como símbolo trascendente de la fuerza física, de la que queda excluido su uso prepotente e irracional.

 

-Ética de la transformación -preferimos este término al de «progreso» utilizado por T. Ossana-. En la acción de Mitra y sus iniciados existe una evidente transformación cuyo objetivo final es la transformación y la gloria.

 

-Ética de la amistad. Que liga a los adeptos con Mitra -el amigo- y a los adeptos entre sí en una fraternidad guerrera: la militia Mithrae.

 

Ética del servicio. Mitra, ejemplo de sus adeptos, pone su superioridad al servicio de la lucha por el bien y el orden. Rechazando cualquier pasividad (auto)-contemplativa.

 

Ética de la salvación. El fiel, salvado por el conocimiento de Mitra, se empeña en la salvación de sus hermanos, como éstos debe entenderse sólo a los miembros de la militia Mithrae.

 

Ética de la acción. La ética mitraica despierta al hombre a la acción, que estará en relación con sus capacidades interiores innatas que ahora debe poner a actuar.

 

Ética de la lucha contra el mal. Recordemos la visión dualista del mitraismo y su implícita obligatoriedad para luchar activa y firmemente frente al mal representado por Ahrimán.

 

Ética de la jerarquía-también aquí preferimos este término que los utilizados por T Ossana: orden y obediencia-. Evidentemente se refiere a la obediencia de los grados inferiores hacia los superiores.

 

Si hay un gesto que resume visualmente todo el contenido ético del que estamos hablando es la destrarum iunctio o dexiosis que convierte a los mitraístas en syndexioi (literalmente «unidos por la mano derecha»). En las civilizaciones arcaicas la mano se considera como un centro de potencia y un punto de focalización de energía (31), especialmente la derecha se ha relacionado con las capacidades creativas y guerreras del hombre. En el zazen la derecha es considerada la mano masculina o yang, en el típico mudra que se utiliza durante la meditación, ésta protege a la izquierda considerada como la femenina o yin. Así el gesto de unir las manos derechas alude tanto a la comunidad de camaradería que era la milicia mitraica como al hecho de abrir circuitos sutiles de energía que circularían entre todos los miembros de la misma, no lejano es el simbolismo de la cadena de algunas sociedades medievales iniciáticas e incorporado-una vez «desactivado» como es típico de esta institución-por la masonería.

 

Siguiendo estos preceptos éticos el adepto mitraista alcanzaba una serie de virtudes que, al parecer realmente, fueron características propias de los miembros de la militia mitraica a lo largo de su existencia: coherencia interna y externa, fidelidad, disponibilidad, coraje, humildad y alegría, entendida como plenitud. Lo que ayudó mucho a que las autoridades romanas vieran en el mitraísmo una religión que aportaba buenos ciudadanos siempre dispuestos a la defensa del Imperio.

 

El dualismo también condicionó las creencias escatológicas de los mitraístas. La oposición entre cielo e infierno continuaba en la existencia de ultratumba. Mitra también es el antagonista de los poderes infernales y asegura la salvación de sus protegidos en el más allá. Según el profesor Gonzalo Fernández de Córdoba, el alma se someterá a un juicio presidido por Mitra si sus méritos pasados en la balanza del dios, son mayores que los fallos, él lo defenderá frente a los agentes de Ahrimán, que tratarán de llevarla a los abismos infernales. Las almas de los justos se van a habitar a la Luz infinita, que se extiende por encima de las estrellas, se despojan de toda sensualidad y codicia al pasar a través de las esferas planetarias y de este modo se convierten en tan puras como las de los dioses, que serán, en adelante, sus compañeros. Al final de los tiempos, resucitará a todos los hombres y dará a los buenos un maravilloso brebaje que les garantizará la inmortalidad definitiva, mientras que los malos serán aniquilados por el fuego junto al propio Ahrimán.

 

El mitraísmo fue el culto mistérico que ofreció un sistema más rico, fue el que alcanzó una mayor elevación espiritual y ética, ninguno de ellos atrajo tantas mentes ni tantos corazones. El mazdeísmo mitráico fue una especie de religión de Estado del Imperio romano en el siglo III, de ahí la conocida frase de Renán: «si el cristianismo se hubiese detenido en su crecimiento por alguna enfermedad mortal, el mundo hubiera sido mitraísta».

 

 

EL MITRAÍSMO EN EL IMPERIO ROMANO.

 

Expansión y relación con el poder.

 

Es en el siglo I d. C. cuando el mitraísmo se instala en la Urbs romana, desde un primer momento, lo hace en círculos cercanos al imperial. La representación más antigua del dios sacrificando al toro data del año 102 bajo el reinado de Trajano. Fuera del Lacio es Etruria meridional la zona con mayor número de mitreos, siendo Campania y la Cisalpina dos importantes zonas de penetración.

 

La difusión del rito mitraísta se manifiesta en Retia y especialmente en Nórica. En el reinado de Adriano, poco antes de 130, llega a Germania, y con Antonino Pío hasta la Panonia. Desde la época de Marco Aurelio hasta los Severos -es decir entre 161-235- los santuarios se suceden a ambos lados del Rin y en las provincias danubianas, siendo también frecuentes en Tracia y Dalmacia, mucho menos en Macedonia y Grecia, donde solo tenemos noticia de un mitreo cercano a Eleusis que había sido consagrado por legionarios claramente itálicos. El Asia helenizada fue muy refractaria a este culto. Por el contrario sí hay constatación de templos consagrados a Mitra en Capadocia, en el Ponto, en Frigia, en Lidia y en Cilicia, cerca del mar Negro hay restos arqueológicos en Crimea, donde habría penetrado desde Trevisonda. También se han encontrado en Siria y en el Eúfrates, casi siempre relacionados con campamentos de legionarios, lo mismo que en Egipto.

 

A finales del siglo II su culto alcanza la cúpula de la jerarquía militar imperial e incluso hay emperadores que se hacen iniciar en estos misterios. El caso de Nerón es aún dudoso, M. Yourcenar en sus célebres Memorias de Adriano, da el dato de este emperador hispano, pero del primer emperador que hay constancia cierta es de Cómodo que habilitó una dependencia subterránea de la residencia imperial de Ostia para la práctica de este culto. También es claro el caso de Séptimo Severo, por el contrario, el emperador oriental y orientalizante Caracalla tuvo como dios a Serapis. La primera mención clara, pública y oficial en la que Galeno, Diocleciano y Licinio, en 307 califican al dios de fautor imperii sui (protector de su poder), el primero de ellos fue, sin duda, adepto al culto de Mitra. Mucho se ha dicho, en este sentido, sobre Juliano el Apóstata, aunque la única prueba concreta de la que se tiene constancia es la mención a Mitra en su Banquete de los Césares, emperador que ha pasado a la historia con el sobrenombre despectivo del Apóstata, aunque otros, con mejor criterio se refieren a Juliano Flavio, como Juliano Emperador (32), «porque en rigor si alguien debe ser llamado "apóstata" debería ser el caso de los que abandonaron las tradiciones sacras y los cultos hacedores del alma y la grandeza de la Roma antigua(...) no debería ser, por el contrario, el caso de quien tuvo el coraje de ser tradicional y de intentar reafirmar el ideal "solar" y sacro del Imperio, como fue el intento de Juliano Flavio» (33).

 

Mitra tuvo numerosos fieles en el orden senatorial de la Urbs. El medio urbano es, a lo largo y  ancho de todo el Imperio, el más propicio para el culto mitraico y donde se encuentra a sus seguidores y adeptos, el medio rural, mucho más conservador, lo rechazó claramente, como posteriormente haría con el cristianismo (34). Socialmente vemos que está presente «en su fase más antigua, entre siervos y libertos, posteriormente, en el curso del siglo II, en el estamento militar. Se difunde, a lo largo del siglo III, en el ordo equester y en el siglo IV en el senatorial»(35). El hecho de que al principio fueran siervos y libertos habla claramente de la gran tolerancia religiosa del mundo romano y de sus clases dirigentes, otro ejemplo curioso es que está datada la existencia de un pater mitraísta que a la vez era sacerdos de la domus Augusta, evidenciando la postura oficial de tolerancia y reconocimiento hacia el culto mitraico. En general las inscripciones del siglo III-IV revelan la gran importancia que tuvo el componente militar en la composición de los adeptos de Mitra y en su difusión por el Imperio.

 

 

 

El culto a Mitra en Hispania

 

En cuanto a la presencia del mitraismo en la península ibérica, según García y Bellido es, de los cultos mistéricos practicados en la Antigüedad, el que menos representado está arqueológicamente. Hispania es el país de Europa occidental más pobre en restos mitraicos. La explicación es bastante sencilla, el culto a Mitra estuvo íntimamente relacionado con el movimiento y el asentamiento de las legiones, e Hispania en los siglos II y III, época de expansión y culto, vive una existencia bastante pacífica y al margen del movimiento de tropas, tan frecuente en otras partes del Imperio, y por tanto al margen de las vías de penetración del mitraísmo (36).

 

Testimonios arqueológicos de presencia mitraica hay en las antiguas tres provincias de la Hispania de época imperial, siempre en zonas periféricas de la Meseta. En el Tarraconense hay ejemplos en sus dos extremos: la zona noroeste y el territorio astur y centros urbanos del litoral mediterráneo, como Barcino, Tarraco, Cabrera del Mar y, en la Comunidad de Valencia hay atestiguada una inscripción encontrada en 1922, en la localidad de Benifayó, en un lugar donde se han encontrado varios restos romanos. El epígrafe allí encontrado, tiene 65 cm de altura y se conserva en el Museo Provincial de Valencia. El texto dice:

 

                    Invicto/Mithrae/Lucanus/Ser(vus)

 

En Lusitania los restos arqueológicos están esparcidos por todo el territorio, pero indudablemente el centro principal e irradiador del mitraísmo estuvo en Emerita Augusta. Para la Bética la zona de hallazgos corresponde a la zona interior: Itálica, Corduba, Munda e Igagrum (actual Capra), donde se encontró una gran estatua de Mitra tauróctono, con Mitra vestido con pantalón persa, túnica con mangas y gorro frigio (37), exceptuando algún dato en la ciudad portuaria de Malaca.

 

 

«En general, el material que disponemos, procede de capitales de provincias, conventus, de colonias y municipios, es decir de zonas fuertemente romanizadas, donde hubo arraigo municipal. Fueron al mismo tiempo ciudades portuarias, administrativas o militares, asiento de soldados y comerciantes que transportaron el culto en su bagaje» (38). Siendo indudablemente el elemento militar el numéricamente más importante entre los adeptos al mitraísmo y el que ejerce principalmente la función de difusor por el territorio hispano. Otra vía fueron los comerciantes llegados a puertos del Mediterráneo hispánico.

 

FINAL Y PERVIVENCIAS DE UN CULTO GUERRERO

 

El fin del mitraísmo.

 

Al no incluir mujeres entre sus adeptos el mitraísmo limitó su campo de crecimiento y se encontró en desventaja frente a otros cultos como por ejemplo el cristianismo. Su segundo problema fue que siempre conservó la «marca persa» y Persia nunca se integró en el imperio, siendo por el contrario, enemigo hereditario y amenaza constante.

 

Constantino, el primer emperador cristiano, manifestó una particular hostilidad hacia el mitraísmo, así en 324 prohibió expresamente el sacrificio a «ídolos» y la celebración de cultos mistéricos. El rito mitraico tenía circunstancias agravantes: el sacrificio terminaba con un banquete con el dios y los emperadores cristianos tenían presentes las palabras de Pablo en su I carta a los corintios: «No quiero que entréis en comunión con los demonios». La legislación se hace más dura en el siglo IV  cuando se prohíbe cualquier sacrificio nocturno, precisamente la hora del ritual mitraico. El culto mitraico está en decadencia cuando Constancio II en 357 llega a Roma, circunstancia que aprovecha la aristocracia senatorial para obligarle a recortar las «leyes antipaganas», el reinado de Juliano el Apóstata (361-363) reactiva los cultos paganos, y de forma muy clara al mitraico, pero esta tendencia dura poco, en 391 una ley prohíbe toda clase de culto o manifestación pagana, y en 394 el mitraísmo desaparecerá de la Urbs, en el resto del Imperio las dos últimas dedicatorias epigráficas a Mitra tendrían fecha de 325 y 367.


Influencias y permanencias mitraicas en el cristianismo.

 

Sin embargo hay testimonios que indican que, aún después de la destrucción de los mitreos, la vitalidad de culto permaneció durante largo tiempo. Es lógico inferir que continuó teniendo influencia en importantes capas de la sociedad, y que el cristianismo- nuevo culto dominante-recogió y adaptó muchos de sus temas e iconografías:

 

La influencia más evidente históricamente confirmadas del culto solar sobre el cristianismo en el Imperio tardío es la elección del 25 de Diciembre como la del nacimiento de Cristo, es decir la misma fecha que Aureliano consagró en 274 al Natalis Sol Invicti, fecha que también era celebrada por los mitraistas, que no dejaban de ser un culto solar particular.

 

Trascendente fue también el cambio del sábado al domingo como «día del Señor», lo que se explica al renunciar al calendario lunar semita y adoptar el solar en que el domingo (día del sol = Sunday en inglés, Sonntag en alemán) da comienzo a la semana.

 

También hubo influencia mitraica directa en los rituales comunitarios, es de resaltar la afinidad entre el ritual de consagración mitraica y los sacramentos cristianos del bautizo, comunión y confirmación, sacramentos que entre ellos no serán autónomos hasta el siglo XI. Según expresión de Santo Tomás de Aquino el bautizado se convierte en «soldado de Cristo» lo que nos recuerda claramente a la idea al adepto como miembro de la «milicia de Mitra», y en la comunión se da la idea espiritual de «luchar contra los enemigos de la fe», en el mismo sentido del culto mitraico.

 

Por otro lado resulta llamativo que los cristianos conservaran el nombre de pater para sus sacerdotes y que los obispos sigan llevando un gorro que recibe el nombre de mitra. No lo es menos la imagen del Arcángel San Miguel con la espada en la mano para matar al dragón que puede recordarnos a la imagen de Mitra, puñal en mano matando al toro; en ambos casos estaríamos ante la imagen de «la lucha victoriosa de una figura trascendente contra una bestia que primero es domada y luego sacrificada» (39).

 

Otra influencia irania y zoroástrica, aunque no es definitivo que sea también mitraica, es la adoración de los Reyes Magos. Herodoto define a los « magos» como una casta sacerdotal irania que ejercía su función primero entre los medas y luego entre los persas. Los regalos que le llevan tienen un claro simbolismo tradicional: el oro siempre ha sido símbolo del sol y, en consecuencia de la realeza, que es la representación en la tierra de lo que el sol es en el sistema solar, precisamente Melchor regala oro por tratarse de un rey, Gaspar incienso por ser un dios y Baltasar mirra por ser un hombre. Siguiendo con los Magos que visitan a Jesucristo recién nacido es obligatorio referirse a los cambios iconográficos que ha hecho la iglesia en su iconografía, mucho han variado desde la representación de los mosaicos de Rávena a la actualidad, en un primer momento son hombres de una misma edad e igualmente de raza blanca, es en el siglo XV cuando Petrus Natalibus establece arbitrariamente que Melchor tiene 60 años, Gaspar 40, y Baltasar 20. Durante la Edad media habían incorporado una iconografía alquímica, representando -por los atributos-cada uno de ellos una de las fases alquímicas: blanco/Melchor-rojo/Gaspar-negro/Baltasar/África, es desde esa fecha cuando se representa a Baltasar como un hombre «negro», en este caso nos negamos a decir: como un hombre «subsahariano».

 

¿Fue posible la supervivencia?

 

Es lógico pensar que una ley no fue suficiente para terminar de un plumazo con un culto tan extendido y con un gran número de adeptos cual fue el mitraísmo. Hay restos y testimonios dispersos que infieren la existencia de núcleos de resistencia mitraísta en el siglo V. En el siglo XX las obras de inspiración tradicional y evoliana se encargan de buscar restos aún vivos de tradiciones europeas precristianas, especialmente de la continuidad de la tradición romana y de pervivencias mitraicas. Así la revista Mos maiorum en un número de 1996(40) llega a afirmar que «el culto mistérico de Mitra, a consecuencia de la hostilidad del Estado, desaparece de la superficie de la historia, conservándose en una tradición oculta y operando invisiblemente sobre las grandes corrientes de la historia occidental. El resurgir de la sacralidad del Imperium en la tradición gibelina medieval, el trasfondo iniciático de los poemas épicos y caballerescos de la Edad Media, los vestigios de la tradición hermética hasta el Renacimiento y el renacimiento espiritual evidenciados en tiempos mucho más recientes, testimonian en modo vivo y concreto la continuidad de la fuerza de la herencia sapiencial pagana en Occidente».

 

También en Oriente se atestiguan presencia mitraica en épocas muy posteriores. En la tradición épica de Armenia hasta el siglo XIX se hace referencia a un gigante de nombre Mehr, cuya descripción y función nos recuerda llamativamente a la del dios Mitra.

 

Varios estudiosos - entre ellos Mircea Eliade (41) y Ellemire Zolla(42)-  han dado certezas de la continuidad del culto zoroástrico en Irán hasta, por lo menos, los años 70 del siglo XX . En este sentido conocido es el hecho de que en 1.964, Mary Boyce visitó una serie de pueblos y aldeas iraníes en los que pervivía la fe en Zaratustra, constatando que veneraban a un dios-héroe llamado Mihr, con enormes paralelismos con Mitra. No se sabe cuál es actualmente la situación de estos parsis bajo el régimen integrista de Teherán. Nos tememos que están atravesando tiempos difíciles que amenazan la perpetuación de su religión, mantenida durante milenios.

 

También conocida es la comunidad parsi de Bombay, es el mismo E. Zolla quien en su libro Aure nos narra su encuentro con un adepto al mitraismo de esta comunidad, que le habla-desde el conocimiento operativo- de los ritos de la llamada «Cámara del Consejo» en el palacio de Darío, así como del poder y la efectividad de la misteriosa secuencia vocálica («mántrica» podríamos decir) del Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París(43), que incluye técnicas sobre el dominio de las corrientes de la respiración -cálida y fría - que es necesario armonizar , en mismo modo a cómo las técnicas yóguicas lo determinan .

 

No quisiéramos cerrar este apartado sin hacer mención de una curiosa e interesante entrevista(44) aparecida en el número 4- solsticio de verano 1994 de la revista belga Antaios , número titulado precisamente «Mysteria Mithrae», el entrevistado, se identifica con el nombre de Corax (el cuervo) primer grado de iniciación mitraica, y se define a sí mismo como «joven universitario europeo, me definiría a riesgo de pasar por un provocador , como un seguidor de Mitra, un fiel del Sol Invictus, en la línea espiritual de Akenatón, y del emperador Juliano llamado el Apóstata. Al igual que ellos, mi toma de conciencia solar fue resultado del reencuentro con una tradición y una búsqueda personal», si bien deja claro que «No pretendemos en absoluto, contrariamente a ciertos druidas modernos, ninguna filiación iniciática (aunque hayamos buscado durante años en vano esos "testigos")».

 

Más allá de supervivencias reales, imaginadas o deseadas hemos querido dar las claves del culto mitraico que no hace más que repetir el mundo de valores indoeuropeos. Si pretendemos un verdadero enderezamiento espiritual tendremos necesariamente que recuperarlos y remitirnos a ellos, sea cual sea la forma religiosa exterior que los englobe.

 

Enrique Ravello

 

Notas

--------

 

1    J. Evola,  «La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra»(1926) en La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mitra (recop). Quaderni di Testi Evoliani, nº 4. Fundazione Julius Evola . Roma, p.5.

2     J Varenne, Zoroastro. El profeta del Avesta. Ed Edaf, Madrid 1989, p,23.

3      Ibídem, p, 56.

4      A.  Coomaraswamy, El Vedanta y la tradición occidental.

Ed. Siruela, Madrid 2001, p, 269.

5       Cfr: G Bonfante, «The Name of Mitra» en Etudes mitrhriaques (= Acta Iranica,17)-Teherán-Lieja,1978.p.47 y ss.

6        Sobre la realidad de la mitología romana como manifestación de la ideología indoeuropea, v. G Dumézil, Iupiter, Mars, Quirinus. Essai sur la conception indoeuropéene de la Societé et sur les origines de Rome, París 1944, y La religion romaine archaïque. París 1966.

7         S. Arcella I Misteridel Sole. Ed Controcorrente, Nápoles 2002, p.26.

8         S.S Hakim, «I misteri di Mitra visti da un zoroastriano», en Conoscenza religiosa  I 1976.

9          Ibídem, p.87.

10       A. Loisy; Los misterios paganos y el misterio cristiano. Ed Paidos Oriental, Barcelona 1990,p.119.

11        F. Cumont , Las religiones orientales y el paganismo romano. Ed. Akal universitaria. Madrid 1987 p.129.

12        Ibídem, p. 121.

13        J. Evola, «Note sui Misteridi Mithra» en op.cit. (recop) p.18.

14         David Ulansey, profesor de Filosofía y Religión en el Californian Institute of Integral Studies.

15         D. Ulansey, The Origins of the Mithraic Mysteries. Cosmology & Salvation in the Ancient World. Ed Oxford University Press. Nueva York 1989.

16         R. Turcan, op.cit, p.103.

17         Eliade, M y Couliano, I. P, Diccionario de las religiones. Circulo de lectores. Ed. Paidós, Barcelona 1997.

18        A. Loisy: op, cit, p.129

19        T. Ossana, La stretta di mano. Il contenuto etico della Religione di Mitra. Ed Borla, Nápoles 1988.

20        S. Arcella , I Misterio del Sole. Ed. Controcorrente, Nápoles2002,p.119.

21        R.Turcan, Mithra et le Mithriacisme .Ed. Les Belles Lettres . París 2000, p.119

22        R. Turcan.op.cit,p.90.

23        S. Arcella, op.cit,p.134.

24        A. Loisy, op.cit, p.129-135.

25        J. Evola,op.cit, p.5

26        S. Arcella,op.cit,p.102

27        J. Evola ,op.cit, p.7

28        J  Evola «Note sui Misteri di Mithra » (1950).op.cit (recop) p.19.

29        J  Evola ,«La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra» (1926).Recogido en op. cit (recop.) Fundazione Julius Evola. Roma.p.7

30         F. Cumont, Le religione orientali nel paganesimo romano, Bari 1967, p.183 y Les mystéres de Mitra, Bruselas 1919, p.141.

31        Técnicas autocurativas japonesas como el reiki o el katsugen se basan principalmente en esto.

32        Cfr: R. Prati en la traducción al italiano de los escritos de Juliano Imperador con el título: Sugli dei e sugli uomini.

33         J. Evola «Giuliano Imperatore» (1932) en op.cit. (recop.) p.15.

34         R. Turcan ,op. cit, pp.41-43

35         S. Arcella .«I collegi mithraici nella Roma imperiale», en Arthos nº 9 (nueva serie) , 2001.

36         A. García y Bellido. Les religiones orientales dan l Éspagne romaine. Leiden1967, p.21.

37         Cfr JL Jiménez y M. Martín- Bueno, La casa del Mithra, Capra-Córdoba. Ilmo.Ayto de Cabra 1992.

38          Mª Antonia de Francisco Casado, El culto de Mitra en Hispania. Ed Universidad de Granada. Granada 1989. p.64.

39          S. Arcella, op.cit p. 211.

40          Mos maiorum, Revista trimestrale di Studi tradizionali. Año II, nº4,1996,pp.34.

41          M. Eliade, Storia,  pp.338-344.

42          E. Zolla, Il Signore delle grotte, pp.64 y ss.

43          Para un mayor conocimiento sobre la realidad, potencialidad y operatividad del Gran Papiro Mágico de París, cfr: «Apathanatismos. Rituale Mithraico del Gran Papiro Magico di Parigi» en , Grupo UR, Introduzione alla Magia . Vol I . Ed Mediterranee, Roma 1971.pp.114-139.

44           «Corax, entretien avec un adepte du culte socaire» en Antaios nº4, solsticio de verano de 1994, Bruselas.

samedi, 13 août 2011

Julius Evola: Um pessimismo justificado?

Julius Evola: Um Pessimismo Justificado?

 
por Franco Rosados
Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/
MenAmongTheRuins.jpgFR: Você acredita que existe uma relação entre a filosofia e a política? Pode influenciar uma filosofia em uma iniciativa de reconstrução política nacional ou européia?
JE: Eu não creio que uma filosofia entendida em sentido estreitamente teórico possa influenciar na política. Para influenciar, necessita que encarne-se em uma ideologia ou em uma concepção do mundo. O que ocorreu, por exemplo, com a Ilustração, com o materialismo dialético marxista e com algumas concepções filosóficas que foram incorporadas à concepção de mundo do nacional-socialismo alemão. Em geral, a época dos grandes sistemas filosóficos conluiu-se; hoje não existem mais que filosofias bastardas e medíocres. Em uma de minhas obras passadas, de meu período filosófico, eu coloquei na dedicatória estas palavras de Jules Lachelier: "A filosofia, moderna, é uma reflexão que acabou por reconhecer a mesma impotência e a necessidade de uma ação que parta do interior." O domínio próprio de uma ação deste tipo tem um caráter metafilosófico. Daí, a transição que observa-se em meus livros, que não falam de "filosofia", senão de "metafísica", de visão do mundo e doutrinas tradicionais.
FR: Você pensa que moral e ética são sinonímicas e que tenham que possuir um fundamento filosófico?
JE: É possível estabelecer uma distinção, se por "moral" entende-se especificamente o costume e por "ética" uma disciplina filosófica (a chamada "filosofia moral"). Em minha opinião, qualquer ética ou qualquer moral que queira ter um fundamento filosófico de caráter absoluto, é ilusória. Sem referência a algo transcendente, a moral não pode ter mais que um alcance relativo, contingente, "social", e não pode resistir a uma crítica do individualismo, do existencialismo ou do niilismo. Eu demonstrei em meu livro Cavalgar o Tigre, no capítulo entitulado No mundo em que Deus morreu. Neste capítulo também abordei a problemática apresentada por Nietzsche e pelo existencialismo.
FR: Você crê que a influência do Cristianismo foi positiva para a civilização européia? Não pensa que ao ter adotado uma religião de origem semítica tenha desnaturalizado alguns valores europeus tradicionais?
JE: Falando de Cristianismo, muitas vezes usei a expressão "a religião que prevaleceu no Ocidente". Em efeito o maior milagre do Cristianismo é ter conseguido afirmar-se entre os povos europeus, inclusive tendo em conta a decadência em que caíram numerosas tradições destes povos. Não obstante, não faz falta esquecer os casos nos quais a cristianização do Ocidente foi exclusivamente exterior. Ademais, se o Cristianismo alterou, sem dúvida alguma, alguns valores europeus, também há casos nos quais estes valores ressurgiram do Cristianismo, retificando-o e modificando-o. De outro modo o catolicismo seria inconcebível em seus diferentes aspectos "romanos"; do mesmo modo seria inconcebível uma parte da civilização medieval com fenômenos como a aparição das grandes ordens cavalheirescas, do tomismo, certa mística de alto nível, por exemplo Mestre Eckhart, o espírito das Cruzadas, etcétera.
FR: Você considera que o conflito entre güelfos e guibelinos no curso da história européia seja algo mais que um simples episódio político e constituía um conflito entre duas formas de espiritualidade? Crê possível um recrudescimento do "guibelinismo"?
JE: A idéia de que as origens da luta entre o Império e a Igreja não foi somente uma rivalidade política, senão que esta luta traduziu a antinomia de dois tipos de espiritualidade, constitui o tema central de meu livro O Mistério do Graal e a tradição guibelina do Império. Este livro foi publicado em alemão e editar-se-á de pronto também em francês. No fundo, o "guibelinismo" atribuiu à autoridade imperial um fundamento de caráter sobrenatural e transcendente, algo que somente a Igreja pretendia possuir, o próprio Dante defende em parte a mesma tese. Assim, alguns teólogos guibelinos puderam falar de "religião real" e, em particular, atribuir um caráter sagrado aos descendentes dos Hohenstaufen. Naturalmente, com o império cristalizou um tipo de espiritualidade que não pode ser identificado com a espiritualidade cristã. Porém se estes são os dados do conflito güelfo-guibelino, está claro, então, que uma ressurreição do "guibelinismo" em nossa época é muito problemático. Onde encontrar, em efeito, as "referências superiores" para opor-se à Igreja, se isso não ocorre em nome de um Estado laico, secularizado, "democrático", ou "social", desprovido da concepção da autoridade procedente de cima? Já o "los von Rom" e o "Kulturkampf" do tempo de Bismarck tiveram somente um caráter político, para não falar das aberrações e da ficção de certo neopaganismo.
Evola-RAtMw.jpgFR: Em seu livro O Caminho do Cinabro, onde expõe a gênese de suas obras, admite que o principal defensor contemporâneo da concepção tradicional, René Guénon, exerceu certa influência sobre ela, ao ponto que definiram-te "o Guénon italiano". Existe uma correspondência perfeita entre seu pensamento e o de Guénon? E não crê, a propósito de Guénon, que certos entornos superestimam a filosofia oriental?
JE: Minha orientação não difere da de Guénon no que concerne ao valor atribuído ao Mundo da Tradição. Por Mundo da Tradição entende-se uma civilização orgânica e hierárquica na qual todas as atividades estão orientados pelo alto e para o alto e estão ligadas a valores que não são simplesmente valores humanos. Como Guénon, escrevi muitas obras sobre a sabedoria tradicional, estudando diretamente seus mananciais. A primeira parte de minha obra principal Revolta Contra o Mundo Moderno é precisamente uma "Morfologia do Mundo da Tradição". Também há correspondência entre Guénon e eu no que refere-se à crítica radical do mundo moderno. Sobre este ponto há não obstante divergências menores entre ele e eu. Dada sua "equação pessoal", na espiritualidade tradicional, Guénon assignou ao "conhecimento" e à "contemplação" a primazia sobre a "ação"; subordinou a majestade ao sacerdócio. Eu, ao contrário, esforcei-me em apresentar e valorizar a herança tradicional desde o ponto de vista de uma espiritualidade da "casta guerreira" e de ensinar as possibilidades igualmente oferecidas pela "via" da ação. Uma consequência destes pontos de vista diferentes é que, se Guénon assume como base para uma eventual reconstrução tradicional da Europa uma elite intelectual, eu, de minha parte, sou bastante propenso a falar de Ordem. Também divergem os juízos que Guénon e eu damos sobre o Catolicismo e a Maçonaria. Creio não obstante que a fórmula de Guénon não situa-se na linha do homem ocidental, que apesar de tudo, por sua natureza, está orientado especialmente para a ação.
Não pode-se falar aqui de "filosofia oriental", trata-se, em realidade, de uma modalidade de pensamento oriental que forma parte de um saber tradicional que, também no Oriente, manteve-se mais íntegro e mais puro que tomou o lugar da religião, porém que esteve difundido igualmente no Ocidente pré-moderno. Se estas modalidades de pensamento valorizam o que tem um conteúdo universal metafísico, não pode-se dizer que sejam superestimadas. Quando trata-se de concepção do mundo, faz falta guardar-se das simplificações superficiais. Oriente não compreende somente a Índia do Vedante, da doutrina do Maya, e da contemplação separada pelo mundo; também compreende à Índia que, com o Bhagavad Gita, deu uma justificativa sagrada para a guerra e para o dever do guerreiro; também inclui a concepção dualista e combativa da Pérsia antiga, a concepção imperial cosmocrática da antiga China, a civilização japonesa, tão distante por ser únicamente contemplativa e introvertida, onde uma fração esotérica do budismo deu nascimento à "filosofia" dos Samurais, etcétera.
Desgraçadamente, o que caracteriza o mundo europeu moderno não é a ação senão sua falsificação, quer dizer um ativismo sem fundamento, que limita-se ao domínio das realizações puramente materiais. "Está separada do céu com o pretexto de conquistar a terra", até não saber já o que é realmente a ação.
FR: Seu juízo sobre a ciência e sobre a técnica parece, em sua obra, negativo. Quais são as razões de sua posição? Não acredita que as conquistas materiais e a eliminação da fome e da miséria permitirão afrontar com mais energia os problemas espirituais?
JE: No que concerne o segundo tema que apresenta, dir-lhe-ei que, assim como existe um estado de embrutecimento devido à miséria, assim também existe um estado de embrutecimento devido ao bem-estar e à prosperidade. As "sociedades" do bem-estar, nas quais não pode-se falar de existência de fome e de miséria, estão longe de engendrar um aumento da verdadeira espiritualidade; mais bem, ali consta uma forma violenta e destrutiva de revolta das novas gerações contra o sistema em seu conjunto e contra uma existência desprovida de sentido, Estados Unidos-Inglaterra-Escandinávia. O problema consiste em fixar um limite justo, freando o frenesi de uma economia capitalista criadora de necessidades artificiais e liberando o indivíduo de sua crescente dependência da engrenagem social e produtiva. Faria falta estabelecer um equilíbrio. Até pouco tempo, o Japão deu o exemplo de um equilíbrio deste tipo; modernizou-se e não deixou-se distanciar do Ocidente nos domínios científicos e técnicos, inclusive salvaguardando suas tradições específicas. Porém hoje a situação é bem diferente.
yoga-power-julius-evola-paperback-cover-art.jpgHá um outro ponto fundamental a sublinhar: é difícil adotar a ciência e a técnica circunscrevendo-as dentro dos limites materiais e como instrumentos de uma civilização; ao revés, é praticamente inevitável que empapem-se da concepção do mundo sobre que baseia-se a moderna ciência profana, concepção praticamente inculcada em nossos espíritos pelos métodos de instrução habitual que tem, sobre o plano espiritual, um efeito destrutivo. O conceito mesmo do verdadeiro conhecimento vem assim a ser falseado totalmente.
FR: Você também falou de seu "racismo espiritual". Qual é o sentido exato dessa expressão?
JE: Em minha fase anterior, acredito necessário formular uma doutrina racial que teriam impedido que o racismo alemão e italiano concluíssem como uma forma de "materialismo biológico". Meu ponto de partida foi a concepção do homem como ser constituído de corpo, de alma e de espírito, com a primazia da parte espiritual sobre a parte corpórea. O problema da raça devia pois considerar cada um destes três elementos. Daí a possibilidade de falar de uma raça do espírito e da alma, ademais de uma raça biológica. A oportunidade desta formulação reside no fato de que uma raça pode degenerar, ainda permanecendo biologicamente pura, se a parte interior e espiritual morreu, minguou ou obscureceu,  se perdeu a própria força, como ocorre com alguns tipos nórdicos atuais. Ademais os cruzamentos, dos quais hoje poucas estirpes ficam fora podem ter como resultado que a um corpo de determinada raça estejam ligados em um indivíduo dado, o caráter e a orientação espiritual própria de outra raça, de onde deriva-se uma concepção mais complexa de mestiçagem. A "raça interior" manifesta-se pelo modo de ser, por um comportamento específico, pelo caráter, sem falar da maneira de conceber a realidade espiritual, os muitos tipos de religiões, de ética, de visões do mundo etcétera, podem expressar "raças interiores" bem ajustadas. Este ponto de vista permite superar muitas concepções unilaterais e ampliar o campo das investigações. Por exemplo, o judaísmo define-se acima de tudo nos termos de uma "raça" da alma, de uma conduta, única, observável em individuos que, desde o ponto de vista da raça do corpo, são muito diferentes. De outra parte, para dizer-se "ários", no sentido completo da palavra, não é necessário não possuir a mínima gota de sangue hebreu ou de uma raça de cor; faz falta acima de tudo examinar qual é a verdadeira "raça interior" ou seja o conjunto de qualidade que na origem corresponderam ao ideal do homem ariano. Tive ocasião de declarar que, hoje em dia, não deveria insistir-se demasiadamente no problema hebreu; em efeito, as qualidades que dominaram e dominam hoje em muitos tipos de judeus são, assim mesmo, evidentes em tipos "arianos", sem que nestes últimos possa-se invocar como atenuante a mínima circunstância hereditária.
FR: Na história da Europa, tem sido muitas as tentativas de formar um "Império Europeu": Carlos Magno, Frederico I e Frederico II, Carlos V, Napoleão, Hitler, porém ninguém logrou refazer, de maneira estável, o Império de Roma. Quais tem sido, segundo você, as causas destes fracassos? Pensa que hoje a reconstrução de um Império europeu seja possível? Se não, quais são as razões de seu pessimismo?
JE: Para responder, inclusive de maneira sumária, a esta pergunta, faria falta poder contar com um espaço maior que o de uma entrevista. Limitar-me-ei a dizer que os obstáculos principais, no caso do Sacro Império Romano, foi a oposição da Igreja, o início da revolta do Terceiro Estado, como no caso das Comunas italianas, o nacimento de Estados nacionais centralizados que não admitiam nenhuma autoridade superior e, por fim, a política, não imperial, senão imperialista da dinastia francesa. Eu não atribuiria, à  tentativa de Napoleão, um verdadeiro caráter imperial. Apesar de tudo, Napoleão foi o exportador das idéias da Revolução francesa, idéias que foram utilizadas contra a Europa dinástica e tradicional.
No que refere-se a Hitler, teria que fazer algumas reservar na medida em que sua concepção de Império baseou-se no mito do Povo, Volk = Povo-Raça, concepção que revestiu um aspecto de coletivização e exclusivismo nacionalista, etnocentrismo. Somente no último período do Terceiro Reich os pontos de vista estenderam-se, de uma parte graças à idéia de uma Ordem, defendida por alguns entornos da SS, de outra graças à unidade internacional das divisões européias de voluntários que combateram na frente oriental.
Pelo contrário, convém recordar o princípio de uma Ordem européia que existiu com a Santa Aliança, cuja decadência fiu imputável em grande parte à Inglaterra e também com o projeto chamado Drei Kaiserbund, nos tempos de Bismarck: a linha defensiva dos três imperadores que teria tido que englobar também à Itália, com a Tríplice Aliança e o Vaticano e opor-se às manobtas antieuropéias da Inglaterra e da própria América.
EvolaQSJ.jpgUm "Reich Europeu", não uma "Nação Européia", seria a única fórmula aceitável desde o ponto de vista tradicional para a realização de uma unificação autêntica e orgânica da Europa. Quanto à possibilidade de realizar a unidade européia desse modo, não posso não ser pessimista pelas mesmas razões que induziram-me a dizer que hoje, há pouco espaço para um renascimento do "guibelinismo": não há um ponto de referência superior, não existe um fundamento para dar solidez e legitimidade a um princípio de autoridade supranacional. Não pode-se em efeito descuidar deste ponto fundamental e conformar-se em recorrer à "solidariedade ativa" dos europeus contra as potências antieuropéias, passando por cima das divergências ideológicas. Inclusive quando chegara-se, com este método pragmático, a fazer da Europa uma unidade, sempre existiria o perigo de ver nascer, nesta Europa, novas contradições desagregadoras, em particular no que concerne às divergências ideológicas e e as causadas pela falta de um princípio de autoridade superior. Hoje é difícil falar de uma "cultura comum européia": a cultura moderna não conhece fronteiras; a Europa importa e exporta "bens culturais"; não somente no domínio da cultura, senão também no domínio do modo de vida, manifesta cada vez mais uma nivelação geral que, conjugada com a nivelação produzida pela ciência e pela técnica, providencia argumentos não aos que querem uma Europa unitária, senão aos que desejariam edificar um Estado mundial. Novamente, nos deparamos com o obstáculo constituído pela inexistência de uma verdadeira idéia superior diferenciadora, que deveria ser o núcleo do império europeu. Mais além de tudo isto, o clima geral é desfavorável: o estado espiritual de devoção, de heroísmo, de fidelidade, de honra na unidade, que deveria servir de cimento ao sistema orgânico de uma Ordem européia imperial é hoje, por assim dizer, inexistente. O primeiro a fazer deveria ser uma purificação sistemática dos espíritos, antidemocráta e antimarxista, nas nações européias. Sucessivamente, far-se-ia necessário poder sacudir as grandes massas de nossos povos com meios diferentes, seja recorrendo aos interesses materiais, seja com uma ação de caráter demagógico e fanático, que necessariamente, influiria na capa subpessoal e irracional do homem. Estes meios implicariam fatalmente certos riscos. Porém todos estes problemas são extremadamente difíceis de solucionar na prática; por outra parte, já tive ocasião de falar disso em um de meus livros, Homens Entre as Ruínas.

mercredi, 10 août 2011

Sun Worship

 

sollevant.jpg

Sun worship
(written by Dr. F. J. Los, reprinted from "The Northlaender")

Ex: http://freespeechproject.com/

 

The sun has been revered as a deity by a variety of peoples. However, it is clear that it was not only as a beneficial, but also as a dreaded and destructive power, that this heavenly body was adored in hot countries. So in ancient Egypt the sun god Rah (or Amon-Rah)was represented by a man bearing a sun disc on his head, which was surmounted by the Uraeus-snake. The reptile symbolizing the withering effect of the sun often has been used in the Near East. Quite different was the situation in Central and Northern Europe, where a sufficient amount of sunshine was essential for the ripening of crops. Here the sun was worshipped as a beneficial power as soon as agriculture became the principal means of support during the Neolithic period (+/- 4000 - 2000 BCI).

 

Consequently it was the ancient Indogermans, originally centered in the basin of the Danube, who spread its cult throughout Europe and even into other parts of the world. How firmly the befief in the creative power of the sun was rooted in the minds of these early Nordics becomes clear when we look at the ruins of the biggest megatithic monuments of Northern Europe, the sun sanctuary of Stonehenge.

 

Of course it is unnecessary here to desctibe in detail this gigantic monument the remains of which command, since prehistoric times, the Salisbury Plain in Southern England. The visitor wonders how it was possible to transport and set up the enormous blocks of stone the majority of which had been hewn, as modern research has proven, from the rocks of the Prescelly Chain in South Wales, a distance of 274 km measured along the overland route that was in all probability followed. What people erected this imposing monument and what was its purpose?

 

The scientific investigation of its ruins, which was carried through in recent times, has made it possible to answer both questions. The sanctuary was undoubtedly dedicated to the worship of the Sun as is proven by the fact that the line from the middle of the so-called "altar stone", lying in its center, to the "Hele Stone" at the entrance, is directed to the point in the NE where the sun rose on midsummer day.

 

According to the archaeologists there were three building periods, the first of which is dated by means of a radio-carbon test, at about 1840 BCI. Recently a number of drawings of Mycenean daggers and flanged axes were detected on some of the stones, and it is supposed that the final completion of the sanctuary, about 1700 BCI, took place under the direction of an architect from the Greek town of Mycenae.

 

However, its construction is ascribed to the so-called Bellbeaker Folk whose graves, known as the 'round barrows', abound in the vicinity of the monument.

 

This people whose original habitat lay in Central Spain spread over Europe at the beginning of the second millennium BCI, diffusing at the same time the knowledge of the first metals: copper and bronze. They reached Britain in two successive waves, the first coming from the Netherlands, the second from the western parts of Germany (about 1700 BCI).

 

In both countries they had mixed with elements of another people, the Indogermanic (Indo-European) Battle Axe People, whose original fatherland lay in Saxony and Thuringia. The amalgamation of both peoples makes understandable why the skeletons which have been unearthed from the round barrows belong partly to the Faelian, partly to the Nordic type, and why copper daggers as well as stone hammers were found in them.

 

That it was the Nordic element of the Beaker Folk that introduced the worship of the sun in Britain is admitted by one leading English archaeologist in the forllowing words: "So it was the strong Indo-European element infused into our Beaker culture by the Battle Axe Warriors which gave its religion this skyward trend. We are witnessing the triumph of a more barbaric Zeus over the ancient Earth Mother dear to the Neolithic peasantry, the goddess whom they had brought with them from the centers of her fertile power in the Mediterranean and the Near East. "

 

To make it clear that this replacement of one religion by another was the consequence, not of a gradual evolution, but of an invasion, we must cast a glance at the Scandinavia of the Bronze Age. There, on the rock engravings of Bohuslan in Southern Sweden, are to be seen ships bearing a sun disc and manned by men who swing battle axes; winged horses, concentric circles, spirals, wheel crosses and other symbols of the sun can also be seen.

 

The horses are destined to pull the sun chariot along the sky in day time, which reminds us of the ancient myth of Phaeton; a ship was thought to transport the sun through the underworld back to the East at night. A slightly different version of the same idea is well-known from the Norse legends.

 

To the same Nordic culture belong bronze razors adorned with a sun wheel or the head of a horse. From a later phase of the Bronze Age dates the famoussun chariot of Trundholm, a magnificent testimony to the artistic taste and professional skill of the old Nordics.

 

With all the Indogermanic peoples we find at the dawn of history the worship of heaven gods: Dyas piter with the Aryan Indians, Ahura mazda with the Persians, Papios with the Scythians, Zeus with the Germans and Dasjbog with the Slavs. However, the Greek Phoibos Apollo (i.e. "the radiant" Apollo), the Roman Sol invictus (the unconquered sun) and the Persian and Mitannian Mithra(s) remained genuine sun gods. The anthropomorphic (humanized) character these gods had assumed in the course of time is a late development which might be considered a degeneration.

 

How far the sun worship had spread during the Bronze Age becomes clear when we look at three countries that lie far apart: Peru, Egypt and Palestine. In the empire of the Inca's the sun was adored in the form of a golden disc, surrounded by beams. Its principal festival was that of the winter solstice, on June 21.

 

The Incas (which were an aristocratic leading class among the mongolian American Indians) are described by a Spanish author as of a white complexion with hair that was as blond as ripened wheat. Of one of their forbears, Vicacocha Inca, who was described as a blond and bearded man of white complexion, the first Spaniards were told that he had conquered the land coming from the North, and later fled overseas having suffered a crushing defeat. According to Thor Heyerdahl, he reached Polynesia where ancient legends speak of him as Kon-Tiki. All these facts and many more make it possible that sun worship was imported into Peru by immigrants from Europe.

 

We know today that not only the Vikings reached America before Columbus, but that also many years previous peoples from North Africa (ruled and occupied by a Nordic upper class) could cross the ocean in primitive but sea-worthy vessels.

 

With regard to Egypt it is generally known that the pharaoh Amenophis IV (1375-1358 BCI) tried to introduce a monotheistic religion by declaring the sun god Aten the only god, while he renamed himself Akhenaten (i.e. glory of the sun disc). The historians usually omit the fact that this pharaoh was in all probability, just as his father Amenophis III, the son of a Mitannian princess as in portraits he appears as a Nordic.

 

The Mitanni were ati Aryan people who had founded a mighty empire in Northern Syria. Also in this case the connection between culture and race is apparent. Another religious reform, but in the opposite direction, was carried through in 622 BC in the kingdom of Judah by King Josias. Among other cults, sun wlorship was suppressed by him in a barbaric and bloody manner. It is very remarkable when we read in II Kings 23:11 "And he took away the horses that the kings of Judah had given to the sun... and burned the chariot of the sun with fire". Does not this text remind us of the sun chariot of Trundholm?

 

Sun worship belongs to the sunken world of the Northern Bronze Age, the culture that was destroyed by the nature catastrophes of about 1220 BCI. With the Indogermanic religions of later times it has in common its character of nature worship. To the elrements of the former cult that submerged into christianization among the Teutons belong the feasts of the summer and winter solstices, but also a number of symbols such as the wheel cross and the swastika. It may be that the christian mode of praying with closed eyes is atso a relic of the religion of our forbears as it is impossible to look at the sun with your eyes fully open.

 

00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : tradition, traditionalisme, paganisme, culte solaire, soleil | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 09 août 2011

Völsunga saga

Völsunga saga

“Ok nú er þat fram komit, er fyrir löngu var spát ok vér höfum dulizt við, en engi má við sköpum vinna” 

[1]

 

De Völsunga Saga is opgeschreven in de dertiende eeuw door een onbekende IJslandse auteur. Hoewel het een middeleeuws manuscript is, dateert een groot deel van het materiaal uit de vroege vierde of vijfde eeuw. In wezen is de Völsungensage een verhaal dat uit de Germaanse orale verteltraditie is gegroeid, met het Duitse Nibelungenlied als de bekendste variant. Richard Wagner, die de Nibelungensage omzette naar een opera, vertelde maar een fractie van de sage en dan nog in een zeer vrije versie. Het verhaal dat hieronder verteld wordt, is de IJslandse, en dus de meest volledige, versie. Deze sage bevat staat bol met mythologische en historische verwijzingen. Zo is ‘Atli’ niemand minder dan Atilla de Hun. Let vooral op de subtiele parallellen met andere mythes uit Europa, zoals de wispelturigheid van de goden wanneer ze tussenkomen in de wereldlijke affaires van het Völsungengeslacht. Dit is een vrije vertaalde versie, gebaseerd op het verhaal zoals opgetekend in het cd-boekje van ‘The Völsunga Saga’ (2006) van de Vlaamse muziekgroep Theudho.

Sigi was vermoedelijk de sterfelijke zoon van Odin, de machtigste der Goden. Op een dag ging hij jagen, vergezeld door een slaaf genaamd Bredi. Deze slaagde erin een betere partij te leveren dan Sigi en hij confronteerde de zoon van Odin met deze feiten. Sigi was woedend door zulke arrogantie, dat hij Bredi ter plekke doodsloeg. Hij trachtte diens lichaam te verbergen onder een hoop sneeuw, maar al snel genoeg werd Bredi’s lichaam ontdekt door andere dorpelingen. Als een gevolg hiervan werd Sigi verbannen van zijn dorp en werd hij ‘Varg í veum’ genoemd, ‘Wolf in het heiligdom’. Odin leidde Sigi naar verafgelegen landen waar hij een leger oprichtte en door talloze militaire campagnes veel geld en macht verwierf. Hij trouwde en kreeg een zoon die Rerir noemde.

 

Sigi veroverde het land van de Hunnen, maar werd op een verraderlijke manier vermoord door zijn schoonbroers. Zijn zoon Rerir zwoer op die dag wraak en zou niet rusten vooraleer hij de moordenaars van zijn vader zou straffen. Hij eiste de bezittingen van zijn vader op en sloeg er zelfs in diens weelde en macht te overtreffen. Naast het vele plunderen vond Rerir het geluk in de liefde en trouwde met een vrouw waarvan hij erg hield. Helaas bleef hun huwelijk kinderloos. Omdat de troon geen erfgenaam had, baden Rerir en zijn vrouw tot de Asen om een zoon. De Godin Frigga hoorde hun noodlottige aanroeping en, met Odins’ toestemming, zond zij de Walküre Ljod, dochter van de reus Hrimnir, naar Rerir. Zij droeg een betoverde appel met zich mee dat de felbegeerde wens van Rerir en zijn vrouw zou vervullen. De vrouw van Rerir geraakte vlug zwanger, maar het kind leek niet geboren te willen worden waardoor haar gezondheid fel achteruit ging. Omdat ze voelde dat ze vlug zou sterven eiste zij dat het kind uit haar lichaam gesneden zou worden en zo gebeurde het … Wanneer het kind eindelijk geboren was, was hij reeds groot en kuste zijn stervende moeder vaarwel. Het kind heette Völsung. Hoewel hij slechts een kind was toen zijn ouders stierven, heerste hij over het land van de Hunnen. Hij trouwde met de Walküre Ljod, waarmee hij tien sterke zonen en een prachtige dochter, genaamd Signy, kreeg. Völsung bouwde een adellijke hal rondom een monumentale eik, genaamd Branstock.

Siggeir, de koning van de Goten, vroeg permissie om de hand van Signy om ermee te trouwen. Völsung stemde toe, hoewel Signy niet tevreden was met het huwelijk. Tijdens het huwelijksfeest werd de toegang van de hal verduisterd door een grote, eenogige man in een hemelsblauwe mantel. Dit was niemand minder dan Odin. Zonder de aanwezige gezellen te begroeten wandelde hij zonder enige aarzeling richting de eik Branstock, trok zijn zwaard en stak hij het tot het gevest van het zwaard in de boomstam. Niemand kon het zwaard uit de boomstam halen tot Sigmund, Signy’s broer zijn krachten bundelde. Hij trok het zwaard uit de boomstam, wat het hart van Siggeir smartelijk vulde met nijd. Hij bood Sigmund aan het zwaard over te kopen, maar Sigmund weigerde. Dit beledigde Siggeir zo hard dat hij zwoer de Völsungen uit te roeien. Hij nodigde hen uit op zijn hof en lokte hen in een hinderlaag. Sigmund werd gedwongen het zwaard op te geven aan Siggeir, die de Völsungen veroordeelde tot een gruwelijke dood. Zij werden geketend aan een gevallen eik in het woud, zodat zij zouden sterven aan honger en dorst  – tenminste, als het wilde beest dat in de wouden rondzwierf hen niet zou opeten. Elke nacht kwam het beest een van Sigmunds’ broers opeten. Een voor een werden ze opgegeten door het beest, een wrede wolf, totdat enkel Sigmund overbleef. Heimelijk smeerde Signy honing op het gezicht van haar broer en in zijn mond. Dit zorgde ervoor dat de wolf Sigmunds’ gezicht likte in plaats van te bijten. Wanneer de wolf in Sigmunds’ mond trachtte te likken beet Sigmund diens tong eraf met zijn tanden, waardoor het beest jankend wegliep. Zo sloeg Sigmund erin te ontsnappen en leefde verborgen in het woud. Samen met zijn zus Signy zwoer hij Siggeir te doden.

Omdat Signy realiseerde dat enkel een volbloed Völsung hen zou helpen in hun wraak, vermomde zij zich in een heks. Zo spendeerde zij een nacht met haar broer, die dit niet wist en baarde een incestueuze zoon, Sinfjötli. Jaren later sloeg Siggeir erin Sigmund en Sinfjötli gevangen te nemen. De wrede Goot beval dat ze levend begraven zouden worden in een aardheuvel. Om hun lijden te verlengen, liet Siggeir Signy toe haar verwanten wat voedselvoorraden mee te geven. In plaats van voedsel, gaf ze hen het onbreekbare zwaard van Odin aan hen, waarmee ze ontsnapten. Om hun uiteindelijke wraak uit te voeren, staken Sinfjötli en Sigmund de hal van Siggeir in brand. Toen Siggeir en de Goten stierven in de brand werden de Völsungen eindelijk gewroken. Sigmund keerde terug naar zijn thuisland en eiste de troon opnieuw op waarop hij trouwde met Borghild. Zij was jaloers op Sigmunds’ zoon Sinfjötli en vergiftigde hem. Sigmund moest zijn eigen zoon naar het woud brengen waar hij een man ontmoette die het lichaam van Sinfjötli aan de andere kant van de fjord zou brengen. Wanneer de boot het midden van de fjord bereikte verdween deze. De schipper bleek niemand anders te zijn dan Odin, die Sinfjötli naar Walhalla bracht …

Als een straf voor haar misdaad verliet Sigmund Borghild en maakte een vrouw genaamd Hjordis tot koningin. Koning Lyngvi, die ook om Hjordis’ hand vroeg, werd zo woest dat hij een leger oprichtte en ten strijde trok tegen Sigmund. Hoewel Lyngvi’s leger superieur was, stapelden de doden rond Sigmund zich in ijltempo op. Niemand bleek op te kunnen tegen Sigmund, tot een eenogige krijger arriveerde die met een krachtige zwaai het zwaard van Sigmund vernielde. De held kon zich zelf niet verdedigen en viel neer door zijn fatale verwondingen. De stervende Sigmund beval Hjordis om de stukken van zijn gebroken zwaard te verzamelen en hen te geven aan hun ongeboren zoon. Op een dag zou het zwaard opnieuw gesmeed worden en de naam Gram krijgen. Enige tijd later gaf Hjordis geboorte aan de zoon van de gevallen Sigmund, die naar het hof van koning Hjalprek gezonden werd. Hij noemde deze zoon Sigurd en beval dat Regin de smid de taak als opvoeder zou opnemen. Geleid door Regin oefende Sigurd tot hij een bekwaam krijger werd, maar hij leerde ook de geheimen van de runen, vele talen, muziek en de kunst van welbespraaktheid. Toen Sigurd man werd vroeg hij aan Hjalprek om een paard. Hij reed naar de wouden en kwam een oude man tegen met een grijze lange baard. De oude man vertelde hem een bijzonder paard te kiezen, waarvan gezegd word dat deze een afstammeling van Sleipnir was, het achtbenige paard van Odin.

Sigurds’ opvoeder Regin hoopte dat Sigurd hem zou helpen in het verkrijgen van de schat van zijn broer. Hij vertelde Sigurd het verhaal van zijn broers Fafnir en Otter en zijn vader Hreidmar. Terwijl Regin een begenadigd smid was, was Otter een uitstekende visser. Overdag was hij in een otter veranderd en kon zo gigantische aantallen vis verzamelen die hij aan zijn vader leverde.  Op een dag passeerden Odin, Haenir en Loki langs een waterval. Otter had een zalm gevangen en at de vis op met gesloten ogen op de rivieroever. Niet wetende dat otter een gedaanteverwisselaar was, nam Loki een steen en gooide hem dood. Toen Hreidmar zijn zoon dood zag beval hij dat de Asen gevangen zou genomen worden. In ruil voor weergeld zou hij deze terug vrijlaten. Loki kon genoeg goud inzamelen om de huid van Otter te vullen. Hij leende het net van de godin Ran om de dwerg Andvari te vangen, die vaak in de rivier rondzwierf in de vorm van een snoek. Loki ving hem in zijn netten en Andvari was verplicht al zijn geld op te geven, inclusief een gouden ring die hij verborgen wilde houden. Hij vervloekte de ring, zwerende dat eenieder die het goud in bezitting nam, zou sterven. Hreidmar verkreeg de schat en de goden werden vrijgelaten. De vloek van Andvari werd snel werkelijkheid toen Fafnir zijn vader vermoorde. Het goud maakte Fafnir wreed en trok terug in de wildernis met zijn schat en veranderde uiteindelijk in een gruwelijke draak. Dit is hoe Regin zijn rechtmatige erfenis verloor.

 

Sigurd ging in op de vraag van Regin om de schat te verkrijgen die Fafnir bewaakte. Een goed zwaard zou hem in deze queeste kunnen helpen. Met al zijn talent smeedde Regin een zwaard die Sigurd echter op een aambeeld stuk sloeg. Hij gooide de stukken terug naar Regin en eiste hem een nieuw zwaard te smeden. Maar het tweede zwaard die Regin smeedde ging eveneens kapot. De woedende Sigurd verweet Regin even onbetrouwbaar te zijn als zijn verwanten. Sigurd ging nu naar zijn moeder en vroeg haar of de verhalen van het gebroken zwaard juist waren. Zijn moeder beaamde wat hij geleerd werd en gaf hem de stukken van het zwaard, terwijl zij meegaf dat nog vele heroïsche daden werden verwacht van hem. De heldhaftige krijger bracht het gebroken zwaard naar Regin, die het zwaard Gram terug herstelde. Met een machte houw doorklief Sigurd het vervloekte aambeeld. Daarna nam Sigurd het zwaard mee naar een rivier, plaatste het rechtop in een rivier en gooide een stuk wol in de rivier. Wanneer de wol botste met het zwaard werd zij in tweeën gesneden. Met vreugde in zijn hart keerde Sigurd terug naar Regin die hem herinnerde trouw te zijn aan zijn eed om Fafnir te doden. Sigurd zwoer de draak de doden, maar trok er eerst op uit om zijn vader te wreken.

Sigurd verzamelde een massief leger en zeilde aan het hoofd van de grootste drakkar richting het land van Hundings’ zonen. Na enkele dagen zeilen brak er een gewelddadige storm uit waardoor de zee leek te bestaan uit bloed in plaats van water. Wanneer de vloot langs een uitstekende rots kwam begroette een man de schepen vroeg wie de leiding had. Hij werd verteld dat Sigurd Sigmundarson de leiding had. De man, die zichzelf voorstelde als Hnikar vroeg om mee te zeilen en toen hij aan boord ging stak de wind opeens fel op. De vloot bereikte het rijk van Hundings’ en Sigurds’ leger trok erop uit om te plunderen en het vuur en het zwaard te laten spreken. In angst vluchtten velen naar het hof van Lyngvi en waarschuwden hem voor Sigurd. Lyngvi trok met zijn leger op zoek naar Sigurd en het duurde niet lang voor zij elkaar tegenkwamen. Sigurd baande zijn weg door de vijandelijke troepen en zijn armen werden helemaal bedekt met het bloed van zijn vijanden. Dan ontmoette hij Lyngvi op het slagveld en met een machtige houw doorkliefde hij diens helm, hoofd en borstplaat waarna hij diens  broer Hjörvard in tweeën hakte. Hij doodde de resterende zonen van Hunding en een groot deel van Lyngvi’s leger. Zwaar beladen met de plundergoederen keerde Sigurd terug naar huis. Hij rustte niet, want hij zou zijn eed aan Regin vervullen en hij trok erop uit om zichzelf met Fafnir te confronteren.

Regin en Sigurd reden naar het moeras waar zij een pad vonden waarlangs Fafnir vaak ging om te drinken van een nabijgelegen vijver. Regin beval Sigurd om een put te graven en te wachten op hem. Wanneer het serpent over het hol zou kruipen kon hij zijn hard doorboren. Nog voor de zon opging begon Sigurd aan het graven van deze put zoals gepland. Een oude man kwam langs en vroeg wat hij aan het doen was. Hij vond het idee vreselijk en raadde Sigurd aan om meer putten te graven om het bloed te verzamelen. Sigurd volgde zijn wijze raad en groef meer putten. Hij verstopte zichzelf in een van hem, bedekte zichzelf met zijn mantel en wachtte tot de draak over de put kwam gekropen. Kort na de dageraad verscheen Fafnir uit zijn schuilplaats om zijn dorst te lessen. Wanneer de draak langs de put kwam stak Sigurd zijn zwaard diep in de buik van Fafnir. Nu beval Regin dat Sigurd het hart van Fafnir zou braden als weergeld voor de dood van zijn broer. Veronderstellende dat het vlees zacht was, raakte Sigurd dit hart aan met zijn wijsvinger. Onwetende dat het hart reeds warm was, verbrandde hij zijn vinger en stopte het instinctievelijk in zijn mond om de pijn de verzachten. Zo proefde Sigurd het bloed van Fafnir. Nu verstond Sigurd de taal van de vogels, die vanuit een nabije boom vertelden over Regin’s nakende verraad en over de slapende Walküre Brynhild. Vooraleer hij op pad ging om de Walküre te zoeken, onthoofde Sigurd Regin en nam bezit van de schatten van Fafnir: de vervloekte ring Andvaranaut, het zwaard Hrotti, de helm van Afgunst en de Gouden Byrnie.

Gestraft door Odin voor haar ongehoorzaamheid, lag Brynhild te slapen in een ring van vuur totdat een sterfelijke man moedig genoeg was om deze te doorbreken. Sigurd reed van Hindfell naar het zuiden naar het land van de Franken toen hij een kasteel tegenkwam dat zich in het midden van vlammen bevond die richting de hemelen reikten. Hij sloeg erin de ring van vuur te doorbreken om Brynhild te bereiken en maakte haar wakker. Sigurd kon zich niet beschikbaar stellen en zwoer terug te keren. Hij plaatste de ring Andvaranaut rond haar vinger en zwoer om alleen van haar te houden. In het verloop van de daaropvolgende rondzwervingen kwam Sigurd in het land van de Niflungen, waar een permanente mist heerste. Koning Giuki en zijn koningin hadden drie zonen: Gunnar, Högni en Guttorum, en een dochter die Gudrun heette. Gudrun werd verliefd op Sigurd en liet hem een liefdesdrank drinken die hem zijn eed aan Brynhild deed vergeten. Hierna vroeg hij om Gudruns’ hand aan Giuki en trouwden ze. Snel daarna stierf Giuki en zijn oudste zoon Gunnar volgde hem op. Grimhild raadde hem aan een vrouw tot zich te nemen en suggereerde dat Brynhild waardig zou zijn. Dit gebeurde met de steun van Sigurd. Het was immers dankzij magie dat Sigurd en Gunnar van gedaante verwisselden zodat Sigurd als Gunnar door de vuurring kon gaan om Brynhilde (nogmaals) te verleiden. De escalerende jaloezie tussen Gudrun en Brynhild leidde echter tot een vroege dood van Sigurd door de handen van Guttom, op vraag van Gunnar. Overmand door verdriet naast het brandende grafvuur van Sigurd doodde Brynhild zichzelf en werd ze naast Sigurd geplaatst, een man van wie ze altijd is blijven houden.

Gudrun kon niet getroost worden na de dood van Sigurd. Samen met haar dochter vluchtte ze naar het hof van koning Alf en koningin Thora in Denemarken waar ze de rust vond waarnaar ze op zoek was. Die rust zou echter niet lang duren aangezien Atli, de koning van de Hunnen, naar het hof van Gunnar reisde om Gudruns’ hand te vragen. Omdat Gunnar vreesde dat een weigering zou resulteren in een invasie van zijn land door de Hunnen ging hij akkoord en reisde hij met een groot gevolg naar Denemarken om Gudrun te overtuigen. In eerste plaats kon zij niet overtuigd worden, maar het is haar moeder Grimhild met een betoverde drank dat Gudrun haar verdriet om Sigurd vergat dat zij toegaf aan de eis van Atli. Na het huwelijk keerden de herinneringen echter langzaam terug, ondanks het feit dat ze twee zonen baarde aan Atli. Atli leerde dat de schat van Sigurd aan Gudrun toebehoort en eiste aan Gunnar dat hij deze zou overdragen. Daarom nodigde hij Gunnar en zijn broer Högni uit op een feest in het land van de Hunnen. Gudrun wist wat Atli van plan was en trachtte haar broers te waarschuwen door een bericht in runen te sturen naar haar broers. Maar Vingi, de boodschapper van Atli, kon runenschrift lezen en veranderde de letters zodat de broers werden aangemaand snel te komen naar het hof van Atli. Maar Gunnar en Högni waren met reden achterdochtig. Zij dumpten de schatten van Sigurd in de Rijn en bezwoeren een eed om de locatie nooit te onthullen.

 

Toen de broers aankwamen overviel Atli de twee broers. Toen Gudrun haar verwanten in het gedrang zag nam zij een zwaard en vocht kloekmoedig aan de zijde van haar broers. Ondanks hun moed werden beide broers gevangen genomen. Geen van hen zou de locatie van de schat onthullen, maar bedreigd met martelingen zei Gunnar aan Atli dat hij wou toegeven, op voorwaarde dat Atli het hart van Högni zou uitsnijden zodat hij nooit zou weten dat zijn broer de eed had verbroken. Nu Högni dood was, was Gunnar de enige die het geheim wist. Toen hij realiseerde dat hij in de val was gelopen werd Gunnar vastgeknoopt en in een put vol slangen gegooid. Hij kon het onvermijdelijke vertragen door de slangen te sussen door harp te spelen met zijn tenen. Alle slangen waren daardoor betoverd, behalve een die Gunnar beet en zijn dood veroorzaakte. Dorstend naar wraak organiseerde Gudrun een begrafenisfeest ter ere van haar broers die stierven in de slachting aan het hof van Atli. Terwijl de feesten aan de gang waren doodde Gudrun de twee zonen die zij aan Atli gebaard had. Ze mengde hun bloed met de wijn en diende hun geroosterde harten op aan Atli en zijn gasten. Uiteindelijk vroeg Atli haar waar zijn zoons waren. Zij vertelde de grimmige waarheid en stak hem dood. Terwijl hij stierf moest Atli horen hoe zijn vrouw hem vertelde dat zij altijd van Sigurd was blijven houden. Ze stak de hal van Atli in brand en daarmee de rest van Atli’s gasten die te dronken waren om te vluchten.

Na deze tragische gebeurtenissen wilde Gudrun een einde maken aan haar leven. Koning Jonakr stopte Gudrun en trouwde met haar. Zij kregen drie kinderen: Hamdir, Sörli en Erp. Ook een dochter kwam voort uit dit huwelijk, genaamd Svanhild. Later geraakte Svanhild verwikkeld in een romantisch dispuut tussen koning Jörmunrek en zijn zoon Randver. Door de verraderlijke daden van de raadsman Bikki, verhing Jörmunrek zijn eigen zoon en werd Svanhild dood vertrappeld door wilde paarden. Gudrun moedigde haar zonen aan om hun zus te wreken. Gehuld in glimmend harnas dat hen ontastbaar maakte voor zwaarden, speren en pijlen vielen Hamdir en Sörli de weerloze Jörmunrek aan. De broers sneden zijn handen en voeten af. Ook Jörmunreks’ mannen stonden machteloos totdat Odin aan hen verscheen en hen adviseerde stenen te gebruiken, teneinde hun machteloosheid te doorbreken. In een regen van neervallende stenen ontmoetten Hamdir en Sörli hun ondergang. En zo eindigt de sage van de Völsungen!

P.

Les fondements du paganisme celtique et slave

SYNERGIES EUROPÉENNES
COMBAT PAÏEN
NOVEMBRE 1989

Les fondements du paganisme celtique et slave


beltaine.jpgCeltes et Slaves honoraient un dieu du ciel et nous en retrouvons les traces aujourd'hui encore dans des mythes, des noms de sites cultuels, des coutumes traditionnelles. Les mythes celtiques, après une christianisation superficielle, ont été transposés dans des littératures richissimes, qui continuent à nous enchanter. Les Slaves ont pu conserver sans trop de problèmes leurs propres mythes dans les coutumes de la religion orthodoxe, demeurée paysanne et enracinée. Mais certains mythes importants semblent manquer, ne pas avoir survécus: ce sont surtout les mythes cos-mogoniques. Cela ne signifient pas que Celtes et Slaves n'ont jamais eu de mythes cosmogoniques. Mais les divinités personnalisées, même quand elles sont au sommet du panthéon, comme Huga-darn/ Dagda et sa partenaire Ceridwen/Dana chez les Celtes, ne sont pas la cause ultime du cosmos mais ce rôle est dévolu à un esprit, le Gwarthawn, détenteur de la force vierge des origines, puissance toujours in-stable, jamais au repos. Son lieu de résidence est un monde originel, un Urwelt, où les catégories du temps et de l'espace sont absentes. C'est cet esprit informe et insaisissable qui, un jour, a décidé de puiser un homme et une femme du fond-de-monde, de ce magma profond et sombre, pour en faire les parents originels de l'humanité. Ces parents sont précisément le couple de dieux du sommet du panthéon: Hugadarn/Dagda dont le nom signifie "sagesse" et "donneur"; Cerid-wen/Dana dont le nom signifie "Sécurité/apaisement tellurique" et "protectrice". Ceridwen/Dana est la mère des "matrones".

Les oeuvres des matrones sont connues. La tradition nous les a transmises. Elles sont les trois filles du couple originel et détiennent une fonction d'ordre bio-génétique. Elles vivent dans les eaux et près des eaux. Le peuple les vénérait comme des forces favorisant la croissance et la fertilité. Il leur érigeait de modestes chapelles votives, objets d'une ferveur profonde, naïve et naturelle, le long des ruisseaux et rivières, près des sources. Ces trois femmes symbolisent le principe créateur qui se manifeste dans l'ensemble du vivant. Elles garantissent ce qui demeure stable dans le tour-billon vital du devenir et préservent les virtualités qui restent en jachère.

Les peuples slaves, comme les Perses de l'Antiquité, perçoivent l'opposition violente entre un principe de lumière, symbolisé par un être blanc, et un principe d'obscurité, symbolisé par un être noir. Cette polarité, que l'on retrouve sous des noms très divers chez la plupart des peuples de la plus lointaine antiquité indo-européenne, oppose un principe "constructeur" (qui laisse s'éclore nos virtualités) à un principe "destructeur" (qui empêche nos virtualités de s'éclore). Cette lutte, ce combat, est cosmogonique au sens strict du terme. Le principe blanc, principe de lumière, transforme et conserve tout à la fois: il s'oppose aux destructions, aux étouffements, aux ara-sements, aux blocages qu'impose le principe noir. Tout ce qui naît et croît, tout ce qui affirme la vie, pro-cède donc du  principe blanc.

Précisions sémantiques et étymologies:

Gwarthawn: cet esprit primordial, symbole du deve-nir, contient la racine celto-germanique "hawn", signifiant "frapper"; c'est donc par coups et violence que cet esprit fait jaillir la vie et la nouveauté. Dans l'iconographie païenne, on le symbolise souvent par un taureau, un bouc, un sanglier ou un cerf.

Ceridwen: en celtique, ce mot signifie "biche à la ra-mure de cerf". En celtique comme en italique (latin), la racine "cer-", que l'on retrouve dans "cervus" (= cerf), signifie souvent aussi "tête dure", "querelleur", etc.

Dagda et Dana: ces surnoms des deux parents origi-nels signifient "donateur", "veilleur", "protecteur".

Les "matrones": chez les Celtes, elles forment une triade de mères originelles donnant naissance à toute vie. Elles représentent la végétation, les matrices, les flux vitaux, et jouissent d'autant de prestige que les nornes ger-mano-scandinaves, les parques romaines et les moires grecques.

Source: Fritz LEY, Das Werden von Welt und Mensch in Mythos, Religion, Philosophie und Naturwissenschaft. Ein Beitrag zur Problematik des Gottesbegriffes,  Heimweg-Verlag, Neu-Isenburg, 1985.

samedi, 16 juillet 2011

Martin Heidegger en de traditie van het Westers denken

heidegger2.jpg

Martin Heidegger en de traditie van het Westers denken

door Marc. Eemans

Ex: http://marceemans.wordpress.com/

Zoals veel andere traditionele denkers uit het Westen, en hoewel hij graag verwijst naar een “hyperboreïsche” (Noordse) kijk op de “primordiale Traditie”, meent Julius Evola toch dat “het licht uit het Oosten komt: “ex Oriente lux”, daarbij menend dat de resten van deze traditie het best bewaard bleven in de Vedas en in de Avesta. Volgens hem – trouwens ook volgens veel andere traditionalistische denkers – begint de neergang van onze wereld zowat 7 of 8 eeuwen vóór onze tijdrekening, zodat we sindsdien leven in de cyklus van de “Kali-yuga” of ijzeren tijdperk, en dat àlles van langsom slechter gaat, terwijl alles wat onze Westerse beschaving kenmerkt slechts een gevolg van deze dekadentie is.

Door tenvolle bewust te worden van deze dekadentie wordt de “traditionele” mens ertoe geleid de problemen van onze tijd bewust tegemoet te treden en met kracht het onsamenhangende en nihilistische van onze wereld aan te klagen.

Vele van Evola’s geschriften behandelen dit onderwerp, zowel zijn hoofdwerk “Rivolta contra il mondo moderno” als twee bescheidener boeken “Gli uomini e le rovine”, en “Cavalcare la tigre”.

In dit laatste werk, waarin hij ondermeer diverse facetten van het Europese nihilisme behandelt, valt Evola ook het “aktief nihilisme” van Nietzsche aan en wijst ook – ons inziens op àl te oppervlakkige en onkorrekte wijze – “de impasse van het existentialisme” aan, tot wiens “ineenstorting” hij besluit.

Laten we het aan Evola over, de ongetwijfeld dekadente en onophoudelijk “gauchistische” ideeën van een Jean-Paul Sartre af te kraken, maar we verzetten ons tegen zijn bewering als zou de filosofie van een der grootste wijsgeren dezer eeuw, Martin Heidegger, dekadent zijn en niet traditionalistisch.

 

Na de snobs te hebben beschreven die het Saint-Germain-des-Prés van die dagen bevolken, vervolgt Evola: “De existentialistische wijsgeren zitten in een gelijkaardige toestand als Nietzsche: ze zijn ook “modern”, dus losgehaakt van de wereld der Traditie, ontberen elke kennis of begrip van deze wereld. Ze gebruiken de schemas van het “Westers denken”, wat zoveel betekent als profaan, abstrakt en ontworteld…”

Zonder in een wijsgerige diskussie te willen treden, wensen we toch te benadrukken, dat Evola hier getuigt van een totaal onbegrip tegenover de diepe denkwereld van Heidegger. Hij zit blijkbaar op een andere golflengte als de eenzaat, de “houthakker uit het Schwarzwald” zoals zijn leerlingen Martin Heidegger graag noemden.

Vergeten we niet dat Evola een Romein is, een Latijn dus, en zelfs al vindt hij zichzelf de “laatste der Gibellijnen” toch komt hij voor een donker, haast ondoordringbaar woud te staan, zodra hij gekonfronteerd wordt met een zo typisch “Germaans” denken als dat van Heidegger. Zeggen we vlakaf dat het absurd is, wijsgeren als Karl Jaspers en Heidegger onder hetzelfde hoedje te plaatsen als de gauchistische “filosoof” uit de kroegjes Saint-Germain. Evola zal wel niet geweten hebben, dat Heidegger in een vraaggesprek met de “Figaro littéraire”(4.11.50) verklaard had: “Sartre? Een goed schrijver, maar geen filosoof!”

 

VanGoghBoots1880s.jpg

Overigens, zelfs als in elke korte historiek van de wijsbegeerte het werk van Heidegger wordt beschreven als een variante van het “ateïstisch existentialisme”, dan nog mag men bevestigen dat héél zijn wijsgerige “Werdegang” het “existentialistisch” etiket negeert dat men hem om reden van vulgarizatie wilde opkleven, evenzeer als het onjuist is bij hem over atheïsme te spreken: heel zijn geestelijke pelgrimstocht is verlicht door de zin voor het sakrale, wat niet hetzelfde is als religieus gevoelen, en evenmin het toetreden betekent tot eender welke religie.

Julius Evola lijkt ons wat àl te verblind door de luchtspiegeling van een “traditie” die we uiteindelijk maar kunnen aanvaarden als “mobielmakende myte” die heel wat kan verklaren over onze wereld-in-krisis, maar die niet in staat is àlles te verklaren of àlle vragen te beantwoorden. Wat ons vooral ergert is de illusie van het “ex Oriente lux” die zelfs sommige jonge traditionalisten ertoe brengt, de jongste omwenteling in Iran te begroeten als een zege van de Traditie op de “noodlottige gevolgen van de verwestelijking van dat land”, terwijl het hier toch duidelijk gaat om een omwenteling met regressief karakter.

Martin Heidegger, veel beter op de hoogte van de werkelijkheid der Westerse dekadentie dan Evola, aarzelde niet te schrijven “ik ben ervan overtuigd, dat een ommekeer maar kan geschieden vanuit het gebied waar de moderne technische wereld geboren werd. Dat kan niet door het aanvaarden van het Zen-boeddhisme of andere experimenten uit het Oosten. De ommekeer in de gedachten heeft de hulp nodig van de Europese traditie, met haar recentste aanwinsten. Gedachten worden slechts hervormd door gedachten met dezelfde oorsprong en hetzelfde doel.” (Vraaggesprek met “Der Spiegel” 3l.5.76).

Men bemerkt dat Heidegger, in tegenstelling tot Evola, zich op de Westerse traditie beroept, die voor hem niet louter een geesteskonstruktie is, een myte uit een ver Indoeuropees verleden, maar tastbare werkelijkheid, waarvan hij de stroom kan volgen vanuit de bron, bij de Griekse presokratische denkers. Weliswaar valt die tijd samen met de eerste tekenen van dekadentie – volgens Evola – en waarvan we nu de laatste stuiptrekkingen beleven Heidegger’s wijsbegeerte zou daarvan slechts een epifenomeen op het vlak van de gedachte betekenen…

Herinneren we er toch aan, dat wijsbegeerte een manier van denken is, eigen aan het Westen, dat ze in Griekenland ontstond en geen tegenhanger heeft in het Oosten – toch niet in de zin waarin ze begrepen wordt door onze metafysische traditie. Jazeker, in de Middeleeuwen hebben Arabische en Joodse denkers de Griekse wijsgerige traditie overgemaakt aan de denkers van de Westerse middeleeuwse wereld, maar zélf hebben ze slechts kommentaren geleverd op de werken der Griekse filozofen, zonder zelf nieuwe wijsgerige stelsels te scheppen. Véél later zullen Spinoza en Bergson zich in de Westerse wijsgerige traditie inwerken, er hier en daar een andere klank inbrengend.

In zijn rektorale rede besprak Heidegger de drie Indoeuropese basisfunkties, die we in de werken van Georges Dumézil uiteengezet vinden, maar hij plaatst ze in de aktuele Duitse kontekst “Arbeitsdienst – Wehrdienst – Wissensdienst”. Deze drie diensten passen niet alleen in de Duitse natie van dàn, maar in heel de Westerse traditie.

Wie zich aan één van deze diensten wijdt, zegt Heidegger tot zijn studenten, wijdt zich niet alleen aan het lot van ons Duitse vaderland, maar aan dat van gans het Westen (dit begrepen in zijn metafysische betekenis) . En Heidegger herinnert eraan, dat dit Westen op zijn grondslagen wankelt, wat noodzaakt dat eenieder zich aan zijn behoud en zijn heil toewijdt…

Wij ontlenen enkele gegevens aan het boek van Jean-Michel Palmier “Les écrits politiques de Heidegger” (Ed. L’Herne, 1968). Deze citeert Heidegger “Niemand vraagt ons of wij willen of afwijzen, op het ogenblik dat de geestelijke kracht van het Westen wegdeemstert, zijn bouwwerk wankelt, de dode schijnkultuur ineenzakt en elke energie wegzinkt in wanorde en waanzin.” Het Westen – zegt Palmier – is voor Heidegger het vertrekpunt van de Griekse wijsbegeerte.

In de mate dat wij nog steeds door deze wijsbegeerte geleid worden, identificeert de vraag naar de toekomst van het Westen zich met de vraag naar de toekomst der metafysica. Het is ook dat wat Heidegger bedoelt met de oorspronkelijke “breuk” waarmee en waardoor onze lotsbestemming aanving. En Palmier citeert: “Wij begrijpen tenvolle de schittering en de grootheid van het vertrekpunt dat breuk betekent, als we in onszelf de koelbloedigheid opbrengen, die de oude Griekse wijsheid formuleerde als “Alle Grösse steht im Sturm”.

In zijn “Cavalcare la Tigre” valt Evola het beperkte doorzicht van de existentialistische denkers tegenover de problemen  van het ogenblik aan: “Men kan moeilijk beter verwachten van mensen die, zoals alle “ernstige” extentialisten (dit integenstelling tot de nieuwe, reeds in de war geraakte generatie), professoren zijn, kamergeleerden die een leven leiden van perfekte kleinburgers. In hun konformistisch bestaan (behalve bij enkelen, met politieke opties van het liberale of kommunistische type) lijken ze nooit “verbrand” en evenmin overschrijden ze de grens van goed en kwaad. Het is vooral bij hen die in opstand komen tegen het chaotisch leven der grootsteden of bij hen die door stormen van vuur en staal, en door de verwoestingen van de totale oorlog gingen, of inde wereld der puinen gevormd werden, dat men de vereisten had kunnen verenigd vinden ter herovering van een hogere levensopvatting, en van een existentiële, wérkelijke en niet teoretische, overstijging van de problematiek der mensen-in-krisis. Men had vertrekpunten kunnen aanduiden, ook voor passende spekulatieve formuleringen…”

Het komt ons voor dat Evola, die men (zij het ten onrechte) “grijze eminentie van Mussolini” noemde, slecht geplaatst is om de existentialistische wijsgeren het verwijt “kamergeleerden” toe te sturen, als men Heidegger’s tragedie kent, sinds de opkomst van het nationaalsocialisme tot aan zijn dood: om beurten werd hij uitgekreten (door de fanaten van het Hitlerisme), en als Hitleriaan (door heel de horde van gauchisten aller schakeringen). Voegen we er het drama bij van twee zonen, krijgsgevangenen in Duitsland, en we kunnen besluiten dat de “kleinburgerlijke professor” Heidegger beslist niet gespaard werd door de oorlog.

Vatten we samen: zoals zoveel Duitsers, gehecht aan de grootheid van Duitsland, heeft hij zonder twijfel de opbloei van het nationaal-socialisme begroet als een heilzame gebeurtenis voor zijn vaderland, dat na vernedering van de nederlaag, het onrechtvaardig verdrag van Versailles en de chaos van de Weimar-republiek de ondergang tegemoet ging.

Op verzoek van zijn kollegas aan de Universiteit van Freiburg-in-Breisgau aanvaardde hij, in de lente van l933 het rektoraat, enkele maanden nadat Adolf Hitler rijkskanselier geworden was. Hij begon aan zijn opdracht met de vaste wil, in de mate van zijn mogelijkheden een apolitiek klimaat te doen heersen en dat op een ogenblik dat alle Duitse hogescholen overdreven gepolitiseerd raakten!

Zijn rektorale rede “Die Selbstbehauptung der deutschen Universität” is een echte “keure” van deze apolitieke bekommernis, maar weldra moest Heidegger het hoofd bieden aan allerlei politieke problemen, zoals de wegzending van twee fakulteitsdekens die hijzelf benoemd had, de professoren Erich Wolf en Von Möllendorf.

Geërgerd door de voortdurende inmenging van de politiek in universitaire aangelegenheden, bood Heidegger na zowat tien maand zijn ontslag aan, en werd opgevolgd door een serviele nationaal-socialist. In die (korte) periode had hij wél enkele toespraken gehouden en proklamaties gedaan die men terecht kan takseren als van nationaal-socialistische inspiratie.

We kunnen deze teksten hier niet ontleden en verwijzen terzake naar het boek van Palmier. Het ontslag van Heidegger betekent de inzet van een afbrekende kampanje tegen hem, vanwege de fanatici van het nieuwe regime geleid door Ernst Krieck en Alfred Baeumler(*), nationaalsocialistische rektoren van Heidelberg en Berlijn. Zijn kursussen werden bijgewoond door agenten van deze rektoren, die elke kritische opmerking tegen het regiem nauwkeurig noteerden.

Tenslotte werden zijn leergangen geschorst en Heidegger kende de vernedering te moeten arbeiden aan de verdedigingswerken van de Rijn en vervolgens in de Landsturm te moeten dienen. De droom van Ernst Krieck-Heidegger van de universiteit wegjagen – werd echter slechts door de gealliëerden verwezenlijkt.

Vanaf mei 1945 werd hij even ongenadig, even onrechtvaardig aangevallen, nu echter door de gauchisten.

Als échte wijsgeer liet Heidegger beide stormen onbewogen overtrekken, aan zijn vrienden de zorg overlatend hem te verdedigen. Eerst op 31 mei 1976 publiceerde “der Spiegel” een vraaggesprek dat Rudolf Augstein en Georg Wolff met Heidegger voerden, en dat zowat zijn enige zelfverdediging mag genoemd worden omtrent de korte periode van zijn rektoraat, “dat incident” zoals Jean Guitton eens schreef.

Keren we terug naar ons opzet, Heidegger te situeren binnen de Traditie, niet in die van een “primordiale traditie” maar in die van het Westers denken. Hij heeft zich als wijsgeer herbrond bij de presokratische wijsbegeerte enerzijds, en anderzijds bij de poëzie van enkele grote Duitse dichters – Holderlin vooral. Zijn filosofische aktiviteit volgt overigens het spoor van grote Duitse denkers als Meister Eckehart, Jacob Boehme, Leibniz, Kant, Schelling, Hegel, Schopenhauer en Nietzsche.

 

heidegger15.jpg

Evola verweet Heidegger een typisch pessimistische wijsbegeerte te hebben opgezet, typisch – volgens hem – voor het eind van de cyklus van Kali-Yuga. Maar is juist deze pessimistische wijsbegeerte niet inherent aan de faustische traditie in de Duitse ziel?

In het boek dat Jean-Claude Riviére en zijn medewerkers aan Georges Dumézil wijdden (Ed. Copernic, 1979) vinden we enkele verhelderende zinnen in het hoofdstuk dat François-X. Dillmann, docent aan de universiteit van München, en auteur van diverse werken over de oude Germaanse beschaving, schrijft over “G. Dumézil et la religion germanique”. Hij herinnert er aan het boek van Hans Naumann “Germanischen Schicksalsglaube” (Jena, 1934) waarin deze germanist een parallel trekt tussen de pessimistische gedachte van god Odin tegen de naderende “Götterdämmerung” en de “Sorge”-filozofie, zoals Heidegger ze uiteenzette. Naumann blijft lang bij dit parallelisme stilstaan; met een perfekte kennis van zijn onderwerp, van de talloze interpretaties van Odin’s goddelijkheid en van Heidegger’s wijsbegeerte, onderstreept hij hoe diep de filosofie van de schrijver van “Holzwege” verankerd zit in de Germaanse psyche. “Verworteling” is overigens een heideggeriaans Leitmotiv. Hij is inderdaad een boer-wijsgeer, verankerd in zijn geboortegrond, wat trouwens één der redenen was, waarom hij een leerstoel aan de provinciale universiteit van Freiburg, hoofdplaats van zijn heimat, verkoos boven die welke hem in Berlijn werd aangeboden.

Uiteraard wekte deze tekst van Naumann (in 1934-35 rektor te Bonn) de toorn van rektor Krieck, die ooit tegen Heidegger deze betekenisvolle zin uitsprak “Galileeër, uw spraak heeft u verraden!”

Heidegger een Galileeër, dat is wat àl te belachelijk! Natuurlijk is het zo, dat zijn filosofie met haar vaak ingewikkelde formuleringen niet direkt binnen het bereik lag van de eerste de beste nazi, zelfs al was die toevallig rektor en één der officiële denkers van het regime.

In het “Spiegel”-vraaggesprek zei Heidegger: “Voor zover mij bekend, is al wat werkleijk essentieel en belangrijk is, maar kunnen gebeuren, doordat de mens een “Heimat” heeft en in een traditie verworteld is”. Nu kan men over de kwaliteit van deze traditie natuurlijk van mening verschillen, en vooropstellen dat die waarin de faustische Duitse psyche verankerd zit, in feite een emanatie is van de Kali-Yuga; en dan is alles gezegd…

Nee, niet alles is gezegd: in het bewuste vraaggesprek lezen we: “Al wat ik de laatste 30 jaren in mijn kursussen en seminaries vooropstelde, is niets anders geweest dan een interpretatie van de Westerse wijsbegeerte. Terugkeren naar de vertrekpunten van de geschiedenis ter gedachte, het geduld opbrengen de vraagstukken te overdenken die sinds de Griekse wijsbegeerte nog niet “uitgedacht” waren, betekent niet dat men zich van de traditie losmaakt. Maar ik stel voorop: de denkwijze van de metafysische traditie die met Nietzsche ten einde liep, is niet meer in staat de basisgegevens aan te duiden van het technisch tijdvak dat pas aangebroken is.”

En wat verder lezen we, over de taak van de wijsbegeerte en haar impakt op de ontwikkeling van een beschaving in de richting van een maatschappij die de Kali-Yuga  zou ontstijgen, deze zin: “Wij hoeven niet te wachten, tot de mens over 300 jaar eens een idee heeft; het komt erop aan, vertrekkend van basisgegevens die in de huidige tijd amper overdracht worden, vooruit te denken voor de komende eeuwen, zonder zich daarom profetische allures aan te meten. Denken is niét: niets doen, denken is – in zich – dialogeren met een, als noodlot vooropgestelde, wereld. Het komt me voor, dat het onderscheid (van metafysische oorsprong) tussen theorie en praktijk, en de voorstelling van een overdragen van de ene naar de andere, de weg afsnijdt voor een beter begrip van wat ik “denken” noem.”

En terloops laat Heidegger opmerken, dat de lessenreeks die hij in 1954 onder het thema “Wat noemt men denken?” liet verschijnen, wellicht het minst gelezene van al zijn werken is…

Nog even terug naar het Spiegel-vraaggesprek, waarin hij de rol behandelt die de wijsbegeerte zou kunnen spelen in het veranderen van de huidige wereld. Na te hebben vastgesteld dat ze geen onmiddellijk zichtbare resultaten kan hebben, vervolgt hij: “Dat geldt niet alleen voor de wijsbegeerte, maar voor al wat slechts menselijke bekommernis en menselijk streven is. Alleen een god kan ons nog redden. Onze enige mogelijkheid ligt in het voorbereiden, in gedachte en poëzie, van de bereidheid tot afwachten. Deze bereidheid voorbereiden kan wel een eerste-hulpmiddel zijn. De wereld kan niet zijn wàt zij is en hoe zij is door de mens, maar zonder de mens, kan zij gewoon niet zijn. Dat houdt mijn inziens verband met het feit dat wat men (met een term die van zeer ver komt, veel betekenissen draagt en nu versleten is) “het zijn” noemt, de mens nodig heeft voor zijn verschijnen, zijn bescherming en vormgeving…”

Sprekend over het indringen van de techniek “in opmars sinds drie eeuwen” in de moderne wereld, verwerpt Heidegger die techniek niet a priori, maar stelt voorop, dat men zich moet bevrijden van de pragmatische mentaliteit die de wereld der techniek nu beheerst. “Wie van ons zal niet erkennen dat, de een of andere dag, in Rusland of China zeer oude “denk”-tradities zullen ontwaken die er zullen toe bijdragen, voor de mens een vrije relatie met de technische wereld mogelijk te maken ?”

Heidegger zelf heeft “zeer oude denk-tradities” die ooit eens uit Rusland of China zouden kunnen komen, niet afgewacht om over zin en essentie van de techniek te mediteren en te filosoferen. Dit vooral vertrekkend van Ernst Jünger’s boek “Der Arbeiter” (l932). Moesten we zélf gaan mediteren over zin en essentie van de techniek, dan zou ons dit uiteraard te ver voeren.

Wij zouden kunnen doorgaan met alles te citeren wat Heidegger aan de “Spiegel”-ondervragers zegt, net zoals we zouden kunnen verwijzen naar al wat hij geschreven heeft, vooral in de laatste dertig jaren, waarin heel zijn ontwikkeling, heel zijn poëtische zoektocht getuigt van een bestendige bezorgdheid om het sakrale doorheen de diepste menselijke autenticiteit.

Voor wie lezen kàn, heeft Heidegger – doorheen een ander taalgebruik, en zonder de omweg langs het Oosten en de “Primordiale Traditie” – dezelfde bekommernis als Julius Evola omtrent de noodzakelijke regeneratie van onze wereld. Beiden hebben gedacht en gewerkt afzijdig van de politiek der politikasters en haar kompromissen. Zonder dat ze elkaar écht kenden (daarbij denken we aan de miskenning van Heidegger’s gedachte door Evola, en de vermoedelijk volledige onkunde van Heidegger omtrent Evola’s werk) hebben ze elkaar ontmoet, daar waar wijzelf hen wilden ontmoeten op een weg die de onze is en die, – hopen we toch – geen “Holzweg” zal zijn, geen weg die nergens heen voert.

Marc. EEMANS

(*) Het fanatisme waarmee de nationaalsocialistische rektoren Ernst Krieck en Alfred Baeumler zich tegen Martin Heidegger keerden zou wel eens kunnen verklaard worden door hun neofietenijver. Beide heren kwamen in die periode (l933-34) toch vrij recent uit het konservatief-revolutionaire kamp overgestapt naar het nationaal-socialisme. In de ogen van vele oudgediende nationaal-socialisten hadden ze nog alles te bewijzen…

In Armin Mohler’s werk “Die konservative Revolution in Deutschland” vindt men in het overzicht van de veelvuldige stromingen en auteurs ook een hoofdstuk “Uberläufer zum Nationalsozialismus”. Mohler behandelt hier exemplair slechts twee auteurs die volgens hem de meest typische “gevallen” zijn: Alfred Baeumler en Ernst Krieck. (N.v.d.r.)

Alexandree Douguine sur "Méridien Zéro"

Alexandre Douguine

sur "Méridien Zéro" (Paris)




mardi, 12 juillet 2011

Interview with "New Antaios"

 

tradition, traditionalisme, Croatie, entretiens, révolution conservatrice,

Interview with "New Antaios"

(http://www.new-antaios.net)

Who are you? What’s the main purpose of your “New-Antaios” project? And why do you refer to the mythological figure of Antaios? Is it a revival of Jünger’s and Eliade’s Antaios or an English counterpart of the former Antaios journal of the Belgian novelist Christopher Gérard?

I was born in Agram (a German name for the city of Zagreb) in Croatia just over 42 years ago. I have lived in Zagreb during the times while my country was occupied by Yugoslav communist regime led by dictator Josip Broz Tito. There I have studied Political Sciences at the University of Zagreb and later on Philosophy and Psychology at Hrvatski Studiji, University of Zagreb. I have studied as well at Universities in Scandinavia, United Kingdom and Germany. I am coming from a family which is of an ethnic German heritage.

tradition, traditionalisme, Croatie, entretiens, révolution conservatrice, Antaios is uniting Earth and Sea, soil and water without whom both there is no life. Antaios father was Poseidon, the God of Sea and mother Gaia of the Earth. Antaios or Antaeus in Greek means as well ‘’against’’ so in this way ‘’The New Antaios’’ is in cultural and philosophical terms set to make an intellectual bulwark against that what is destroying Our European culture, tradition, heritage, folklore and with that ultimately our roots.

Journal ‘’The New Antaios’’ is the continuation of the original ‘’Antaios’’ Journal of Mircea Eliade and Ernst Jünger so we can say it is a revival albeit the Journal will/is as well reflecting on all that is happening in these postmodern times. Hence Journal represents what I call ‘’Postmodern European thought’’ and as such serves primarily as an outlet for the postmodern philosophers and thinkers.

I do respect and highly admire Christopher Gerard and his work on Antaios in years from years 1992 to 2001. Like Gerard I dislike New Age teachings and don’t have any interest in TraditionalistSchool.  The New Antaios is made of four sections which are making the whole Journal. First part is ‘’Plethon’’ the name I gave after the Byzantine Hellenistic philosopher George Gemistos Plethon and articles in that section are related to Hellenism, Heathenism in a scholarly way. Contributions will be made as well by certain authors from Asatru background. Heathenism and Heithni comes from the Old Norse word heiðni which was used to describe the pre-Christian spiritual beliefs and practices of the Northern European peoples. The word Heithinn (or Heathen) comes from the Old Norse word heiðinn, an adjective to describe the ideals of Heithni (ex. Heithinn ethics - those ethics which conform to Heithni), or as a noun to describe those who live by the ethic and world-view of Heithni (ex. He is Heithinn, those people are Heithnir [plural]). Heiðni also means 'high, pure, clear' in Icelandic language. Word also describes person who is a dweller in place in the nature. Postmodern Heathens are those people who are reviving and revitalizing the tradition through serious study, research and dedication combined with the worship of the Gods and Goddesses or just simply in a way of their thinking without the ritual worship part. Personally I am keen of combining the two in a proper and balanced way. Second section is ‘’Aesthetic Vedanta’’ named after the book by Swami Bhaktivedanta Tripurari Maharaja, Western teacher of ancient tradition of Gaudiya Vaishnavism. Aesthetic Vedanta section deals with Hindutva, Hinduism,Vaishnavism and Gaudiya Vaishnavism exclusively. Third section is ‘’Suncovrat’’ a Croatian archaic word for the Solstice and deals with pre-Christian cultures which existed prior to Christianization of what makes nowadays Republic of Croatia. Fourth section is the main section of the Antaios Journal.

I would further like to point out that Christopher Gerard has no input whatsoever and isn’t in any way associated or affiliated with this new Journal. That is why the journal has prefix ‘’The New’’ to clearly mark difference with previous two journals. As far as I know Gerard’s Journal ceased to exist just on the turn of the century hence prefix ‘’The New’’ is completely appropriate here. While it will preserve and retain the original idea and concept with due respect to previous editors and directors of the Journal, it will be updated with short blog style texts, proper academic articles and essays which reflect on and take a critical eye of current state of affairs in different areas of  philosophy, politics, culture, art, tradition, science and these postmodern times .

What was the maturation process of your worldview? Has it to do with Croatian politics or not?

 I would say that I have spiritual and political Weltanschauung complementing each other. I was brought up in a family whose background is Christian albeit my late grandfather and my late father were both reading authors like Nietzsche and Jünger and considere themselves to be Pagans. I was brought up on stories from ancient Greece and Old Norse and Germanic tales whom my friends in school didn’t even hear about. My own father was a Heathen. He wrote small and up until now unpublished treatise on what he calls ‘’Raan’’. In this book Raan is knowledge of the Gods and Goddesses who once in previous Yugas did visit our planet. In this work he is influenced by Nietzsche’s and Heidegger’s philosophy.

After spending years at the University in Croatia studying Political sciences in Zagreb I went to become a monk in Gaudiya Vaishnava tradition. The reason for that was again in the Family. During the mid to late 80es my family got interested in Gaudiya Vaishnavism so I started reading and studying different books of Vedic knowledge like Upanishads, Puranas and Bhagavad Gita. I have discovered in mid 90es about Traditionalist School, Rene Guenon and Julius Evola. In years to come I have been reading and studying about diverse cultures, traditions of Europe and parallel with that I got initiated in the Traditional Gaudiya Vaishnavism while travelling to one of my spiritual pilgrimages to India.

Hence as a result, my own spiritual belief system would be Traditional Gaudiya Vaishnavism, while I permanently study and read about Indo-European beliefs of our ancestors, Ostrogothic pre-Christian beliefs, Old Norse, Hellenic and Germanic pre-Christian belief systems and Mithraism. Vedic knowledge in my opinion is very important key to unlock many secrets of the European tradition itself. In line with that I very much admire Hindutva writers such as Sita Ram Goel and Ram Swarup, Indian historian Bal Gangadhar Tilak , contemporary scholar from Belgium Dr. Koenraad Elst as well as Alain Danielou who are all big influence. Next influence would be primarily my own teacher Sri Ananta das Babaji Maharaja by whom I was directly initiated in Parivar or Traditional line which goes back many centuries ago, then authors such as: Sri Kunjabihari das Babaji Maharaja (who is the direct teacher of my own teacher Ananta das Babaji Maharaja), Kundali das, Binode Bihari das Babaji and Sripad Bhaktivedanta Tripurari Swami Maharaja whose certain books and teachings are in my opinion the Gaudiya Vaishnava answer to Traditionalist school. There should be veneration of our ancestors together with the firm belief in divine origins of Our Ancestral lines, veneration of Nature and veneration of the Gods and Goddesses which are part of our European Identity. Perhaps it would be the best to quote here another great influence of mine, Dominique Venner: ''To live according to tradition is to conform to the ideal that incarnates, to cultivate excellence according to its standard, to rediscover its roots, to transmit its heritage, to be in solidarity with the people who uphold it. ''

Croatian politics were influential to my worldview and perhaps it would be better to give a bit of background explanation from the not so well known Croatian history. Certain people would like such knowledge to remain hidden as such. In my opinion Croatian people have a unique position in Europe. There are people who label Croatia Western Balkans which is a complete nonsense. According to what I was reading from diverse sources Croats aren’t only just Slavs and are mixture of Slavenized Germanic tribes, Celtic tribes, Illyrians, ancient Romans, ancient Greeks and Indo-Persians. Over the span of more than half a century Croat academics and researchers who were proclaiming such theories were executed or ‘’disappeared’’. Persecutions started in times of the monarchist Yugoslavia up to late 80es of 20th century in the communist regime. Names like Haraqwati and Haraxvati which paleographic expert Dr. Kalyanaraman has found were names of the tribes, etnonymes which clearly show how early we can find about Croatian origins. Places where such names were found were part of Bharata Varsha or what is today India. Archaeologists have found along names emblems and coats of arms which look very much similar to Croatian coat of arms with the twenty - five field "chessboard". In a similar way the remnants and artefacts were also found when those tribes have moved from what is today India to Persia and those names can be found in 6th century before Christ in places like Bagistan and Persepolis and also with ancient peoples like Hurrwuhé. Ancestors of today’s Croats were worshippers of Saraswati Goddess of Vedic India (Goddess of learning, arts and music) and from her name comes originally name Hrvati. Croats are therefore known as Hrvati, Haravaitii, Arachosians or Sarasvatians, descendants of the ancient inhabitants of the Harauti province & the Haravaiti or the Sarasvati River. The recent hravati /hrvati [sic] hence comes from haraxvaiti and earlier spelt as haraquati (arachotos, arachosia, araxes). Sarasvati is the river and Arachosia being the region." Their mention is as well on the legendary inscriptions of Darius the Great. Early Croatian pre-Christian religion was derived from primordial Persian Sun-worship. Even the Croatian word for tie is kravat(a) which is again another connecting word.

Furthermore, the name of the Croatian capital, Zagreb, is related to the Zagros mountain range of Iran. The Dinara mountains in Dalmatia may be connected to Mount Dinar (Dene) of Iran. When the tribes came to what is nowadays Croatia they have mingled with the numerous local Slavic (or Slavenized Germanic tribes) tribes and adopted the Slavic language from them. Meanwhile after the collapse of the Hunnic Empire Croats organized the local Slavs into a state and gave them their national name. Before the invasion of the Avars ca. 560 the White or Western Croats created along with the Antes a great state extending north of the Carpathians from the upper Elbe to the upper Dniester. (35: Niederle, 263-266; Dvornik, The Slavs, 277-297) R. Heinzel is of the opinion that the Carpathians of the old Germanic Hervarsaga took their name from the Croats who called them the Harvate mountains i.e. Croatian mountains. (36: Heinzel, 499; Dvornik, op. cit., 284, sq.)" (Mandic 1970, Ch.1)

There are similarities in folklore as well. "There are old Croatian customs and national poems that have been cited as evidencing lingering traces of the fire and sun worship of the Persians. Fire, the essence of human origin, the sun, and the great boiling cauldron around which the warriors spring in the age old kolo or circle dance, all these are ingredients in the national lore of the Croatian nation. The Croat vilas or fairy witches resemble the peris of Iranian mythology. Then there is the legendary Sviatozov, the personification of strength, a being almost too huge for the earth to bear. He is strongly reminiscent of the "elephant-bodied" Rustum of Persian legend." (Guldescu 1964, pt.1.II) "It should be noted that only the thesis of the Iranian origin of the Croats can explain the name "Horvath", the title of a Croat dignitary Banus, the names "White" and "Red Croatian", and the Bogumile phenomenon (like Cathars in Occitania). According to this theory, the Croats were a branch of the Caucasian Iranians, who lived somewhere in the western Caucasus during the era of the Roman Emperors. The Caucasian Anten were another branch of this group." (Dobrovich 1963)

Research shows clearly everything what I have written and quoted above to be the truth although some oppose that theory as they want to preserve artificial Panslavism , idea of  Yugosphere ( the idea for the 3rd  united Yugoslavia without Slovenia and with Albania) under the guise of ‘’Western Balkans’’. In Croatian language there is an excellent word I really like: ‘’Samosvojnost’’. Samosvojnost means Identity in Croatian language. In my opinion Croatian identity should and must be preserved only through the independent republic of Croatia or as it is now. Hence Croatia does not need any new unions. Friendship yes, but union definitely not.

Serbia on the other hand would like to establish themselves as a regional leader. They play with naive Croatian government and Croatian president Josipović while behind their back they lobby in EU to make what was once war in ex-Yugoslavia look as a ‘’civil war’’ and accuse Croatia who were defending themselves . They do have some allies and friends in Europe who would like to see them as the leaders in the region. Those allies on the other hand actually don’t consider Serbia as a friend but as a tool for their own means and nothing else. It is a travesty of justice to see Croatian generals such as Gotovina and Markač to be sitting in Hague so just that Croatia can get a green light for EU so that bureaurocrats in EU they can say that ‘’all sides’’ were equally responsible. I would like to ask the question then. What about the people and country of Croatia which was invaded, whose homes are burned and destroyed? According to that ‘’theory’’ Croatians should not have been defending themselves as they were supposed just to sit and wait to be erased from the face of this planet. 

Croatia has been suffering since demise of Austria-Hungary. It wasn’t good for Croatians either to be in any previous unions but union with Serbs has proven to be so far the worst one. Union with Austria-Hungary was far from perfect but at least we were in a monarchy which had culture and tradition. Croatian people don’t need anything anymore other than their own independence and peace with the neighbouring nations.

tradition, traditionalisme, Croatie, entretiens, révolution conservatrice, How the time is passing by I am less and less interested in Croatian politics. As a result I won’t be writing in Croatian language anymore since there is no purpose for it. I will rather use and invest my energy, effort and time for something I think will yield certain results than to write constantly for something what will anyway reach just a handful of people or just completely wither away. I have learned that from an example of the members of the ‘’Croatian Historical Revolution’’. Over the years I have read articles by leading Croatian intellectuals and scholars such as Dr. Tomislav Sunić then Dr. Jure Georges Vujić, prof. Amir Riđanović, prof. Petar Bujas (all members of Croatian group similar to G.R.E.C.E. – Arhelinea – www.arhelinea.com ) Dr. Zoran Kravar, then Croat republican conservatives such as: Tomislav Jonjić, Mario Marcos Ostojić, Hrvoje Hitrec, Croatian scientists such as : Dr. Vitomir Belaj, prof. Tomo Vinšćak, Dr. Radoslav Katičić, and prof. Mario Kopić and Dr. Hrvoje Lorković (of whom we can’t hear these days what is a real tragedy since Dr. Lorković is one of Croatian important intellectuals). Croatians should be happy to have such giants of free thinking yet many in Croatia don’t even know about some of them. That is for me completely bizarre. If one is carefully reading articles and books by above mentioned intellectuals and scholars one can only see that many of them are actually disillusioned with the current state of Croatia altogether. That is evident even from their articles. Hence as a result of that Zoran Kravar is not interested in any kind of politics neither he wants to be or get involved (yet he is one of authorities on Ernst Jünger in Croatia) same is with prof. Tomo Vinšćak as well, while others like Mario Kopić and Dr. Tom Sunić are publishing their new books outside of Croatia because there is hardly any interest in their ideas in Croatia. It seems that Dr. Jure Georges Vujić will publish his new books as well outside of Croatia. That is unavoidable since Croatians are lethargic in finding new solutions in political dialogue or any kind of new political ideas. They would rather stick to something what is completely falling apart while thinking that ‘’it would get better’’. I have a best friend in Croatia whose political ideas are in minority and while he wants betterment in any spheres of Croatian life (including politics and his fight against corruption) he doesn’t have as much support as he actually would and should get. It is the apathy and lethargy which are deeply rooted in certain parts of Croatian nation (thankfully not all of it) with its roots in the fear of change and political and historical lower self-esteem (which is really uncalled for, since Croats have such rich history, tradition and culture of whom they should be absolutely proud of) . The question they often ask themselves is: ‘’ What would happen if things change? ‘’ and because of constantly repeating that question they are indeed unable to make any significant change. I believe firmly that in the forthcoming parliamentary elections Croats will elect again some party or coalition of parties which will not bring nothing new to already stagnating Croatian political scene. In the right as well as left and centre there is nobody who could potentially have a quality for the deep changes Croatia needs desperately. In the right side of spectrum and as well on centre and left one can just see political opportunists in Croatia who long for their seat in parliament (called Sabor in Croatia) or certain position. That is their goal before anything else I am afraid, of course my humble bow to those politicians who aren’t like that and are in significant, significant minority.

My own political interests nowadays evolve around Eurocontinentalism and European Identitarian Communitarianism. Even though I do speak Croatian language I consider myself first and foremost an ethnic German with Prussian mentality, after that I am an European.

Eurocontinentalism in this case represents strong continental Europe which stands between USA and Great Britain on one and Russia on the other side. The question of Europe here is not just a matter a blood; it is spiritual, historical and cultural phenomenon.
This further quote actually explains some of my thinking on the matter: ‘’Implicit in this view is the assumption that the body is inseparable from the spirit animating it, that biological difference, as a distinct vitality, is another form of spiritual difference, and that the significance of such differences (given that man is a spiritual being, not merely an animal) is best seen in terms of culture and history rather than nineteenth-century biological science. American "white racialists" with their materialist-technical conceptions of race actually diminish the significance of the Racial Question by reducing it to a simple matter of genes, biology, equations....’’ ( Mladikov – The Phora Forum)

Dominique Venner is in my opinion the greatest influence for the Eurocontinentalism and my own political Weltanschauung with his writings, articles and books. In Croatia some of his books are available as well.

His thoughts describe the best what I think further:

‘’ The idea that is made of love is no more frivolous than the tragic sense of history that characterizes the European spirit. It defines the civilization, its immanent spirit, and each person’s sense of life, in the same way the idea shapes one’s work. Is the sole point of work to make money, as they believe across the Atlantic, or, besides ensuring a just return, is it to realize oneself in a job well done, even in such apparently trivial things as keeping one’s house. This idea urged our ancestors to create beauty in their most humble and most lofty efforts. To be conscious of the idea is to give a metaphysical sense to “memory.”

To cultivate our “memory,” to transmit it in a living way to our children, to contemplate the ordeals that history has imposed on us–this is requisite to any renaissance. Faced with the unprecedented challenges that the catastrophes of the twentieth century have imposed on us and the terrible demoralization it has fostered, we will discover in the reconquest of our racial “memory” the way to respond to these challenges, which were unknown to our ancestors, who lived in a stable, strong, well-defended world.

The consciousness of belonging to Europe, of Europeanness, is far older than the modern concept of Europe. It is apparent under the successive names of Hellenism, Celticness, Romanism, the Frankish Empire, or Christianity. Seen as an immemorial tradition, Europe is the product of a multi-millennial community of culture deriving its distinctness and unity from its constitutive peoples and a spiritual heritage whose supreme expression is the Homeric poems. ‘’

To read further perhaps I would recommend this article (and as well all other articles by Dominique Venner) : http://www.counter-currents.com/2010/06/europe-and-europeanness/#more-881

What were your main sources of inspiration?

I have mentioned some of them above. I would say that Ernst Jünger, Dominique Venner and Nicolás Gómez Dávila are the most significant and important influence for me personally simply because they complement each other perfectly and in my own opinion they represent the true European Tradition which Ram Swarup, Sita Ram Goel, Alain Danielou and Koenraad Elst represent in Hindu Tradition. Apart from them other authors, thinkers and philosophers I would say first of all I feel especially close regarding ideas and Weltanschauung are : Croatian thinkers and members of the ‘’Croatian Historical Revolution’’, Classical philosophers such as : Emperor Julian the Apostate, Porphyry, Celsus, Platonis Sallustius, Libanius, Julius Firmicus Maternus, Iamblichus, Gemistus Pletho(n) and other such philosophers, Erik von von Kuehnelt - Leddihn, Croatian philosopher prof. Mario Kopić, prof. Robert Steuckers, certain ideas of Alain de Benoist, certain ideas of Dr. Guillaume Faye, Dr. Georges Dumezil, Dr. Jan Assmann, Mircea Eliade, Emile Cioran, Alain Danielou, German greatest living poet Rolf Schilling,  Oswald Spengler, Carl Schmitt, German Romanticism period authors and artists, Felix Dahn, Antoine Saint du Exupery, certain ideas of Julius Evola, Norwegian composer Geirr Tveitt, composers Arvo Part and Johannes Brahms, Felix Mendelssohn, Sibelius, Ralph Vaughan Williams, postmodern musical projects such as Triarii, Arditi, In Slaughter Natives and new project Winglord, artists such as Ludwig Fahrenkrog, Karl Wilhelm Diefenbach, Fidus, Caspar David Friedrich, Hermann Hendrich, Franz von Stuck, Carl Larsson, John Atkinson Grimshaw, Jean Béraud and others.

Who are the main Croatian thinkers according to you and that are completely ignored in the rest of the world? How could we discover them?

Main and most influential Croatian thinkers were:  Dr. Milan von Šufflay, Dr. Ivo Pilar, Dr. Vinko Krišković, Dr. Filip Lukas, Dr. Julije (Julius) von Makanec, Dr. Stjepan Buć and authors involved with journal ‘’Spremnost’’ : prof. Tias Mortigjija, Dr. Milivoj Magdić, Dr. Ante Ciliga & Dr. Vilko Rieger (Dr. George W. Cesarich) . Influential are also early works of prof. Ivan Oršanić, Dr. Ivo Korsky, then author Ivan Softa (Croatian Knut Hamsun), national poet Jerko Skračić and a few others. It is very hard for somebody in Europe to discover them as their works were burned, destroyed and left to be forgotten by Yugoslavian and Serbian communist regime. Back in 1970es of 20th century for just reading the works of these authors, philosophers and thinkers one could get a lengthy prison term and that would be of course if you did find their books somewhere. I am collecting their works wherever I can find them and that is in most cases extremely hard and on top of that some of their books command very high prices. Situation is not like with authors of Conservative Revolution whose works remain saved and translated to many languages now. Most of the above mentioned people were brutally murdered by either Serbian Monarchist regime who ruled the first Yugoslavia or by communist regime who ruled Yugoslavia and occupied Croatia after the year 1945.

At this point in time there is no translated literature in any of other languages except the book ‘’Southslav question’’ written by Dr. Ivo Pilar (under pseudonym Dr. Leon v. Südland) which was printed at the beginning of the 20th century in Vienna originally in German language. Book was never reprinted again either in German or English (or any other foreign language) and was translated in Croatian language and has since been in print only twice. Copies of both editions are virtually impossible to find. Books of other authors are not being reprinted at all. I really don’t know if that is because of the economic crisis in Croatia since many members of Croatian Democratic Union (HDZ) turned out to be crooks and thieves who were stealing money from their own country and country’s resources. It has been going on like that for a long time and no government (even the coalition of liberals and social democrats which lasted for 4 years)  didn’t make situation any better or because there is no interest in those books and those authors at all. It is partially because of many Croatians were killed and murdered from 1944 to early 1950es by communist regime (and in years after that up to 1990 just prior to war in Croatia) and because of the mentality which became a norm since 1918, after Croats lost the war as part of Austria-Hungary. Dr. Ivo Pilar did warn Croatians about those kinds of problems especially in two of his books. One of those books was above mentioned ‘’Southslav question’’.

I am afraid that the only way to discover them will be through book I am currently writing and subsequently I will translate some of the most important works by Šufflay, Pilar, Lukas, Krišković, Makanec, Mortigjija and Magdić. I will start with works of Dr. Ivo Pilar and Dr. Milivoj Magdić whose works I am collecting at the present time. I am putting together Dr. Milivoj Magdić’s and dr. Ivo Pilar’s articles and smaller important works and will include one very informative article about Milivoj Magdić’s life done by one Croatian historian. Dr. Pilar’s book ‘’Southslav question’’ will be most likely the first one to surface followed by Dr. Magdić’s collected works. It is very interesting to mention that Dr. Ivo Pilar and Dr. Milivoj Magdić had both the biggest private libraries in the city of Zagreb and most likely in Croatia at that time. I have heard that currently Alain de Benoist has one of the biggest private libraries.

So we can talk about a genuine Croatian “Conservative Revolution”?

Croatian Historical Revolution was a German Conservative Revolution’s and France’s Ordre Nouveau’s counterpart. It strikes me how there wasn’t anybody in Croatia trying to compare German Conservative Revolution with all these authors we have had. My guess is that certain levels of academia in Croatia have some sort of inferiority complex and lower self-esteem. Except post modern Croatian intellectuals and academics I have mentioned above (and most in this group were living, studying and teaching for some time outside of Croatia) other Croatian intellectuals constantly behave in a way which has ruined indescribably reputation of Croatia. Members of Croatian Historical revolution were totally opposite. Partially that is because they grew up in Austria- Hungary and partially because up until year 1918 influence of Balkan ‘’culture’’ wasn’t predominant in Croatia and our gene pool wasn’t almost destroyed as it is the case today (holocaust of Croats and ethnic Germans from years 1944 -1950es). Most of the people who today want any kind of communism to be back in Croatia are leftovers of previous regime and they are not even Croats by their genes or in spirit.

Members of CHR (Croatian Historical Revolution) have had experience with different ideologies and transformations as the ones in Germany. They rallied for the Croatia as an integral part of Europe and how some of them called it at the time ‘’Bieli Zapad’’ (White West). Like authors in German counterpart they have produced diverse works such as philosophical treatises, political journalism, manifestoes which have outlined their ideas for the transformation of Croatia and role of Croatia in Central Europe and Europe altogether. They were strongly opposing liberalism and even liberal democracy and they have rejected despiritualization and commercial culture. They advocated new conservative thought which was inspired by Croatian national patriotism. I find their ideal very much connected with ideals of German Conservative Revolution members and nowadays with prof. Dominique Venner.

How could we connect Croatian authors with their other European counterparts? Who are the Croatian authors that should be read together, beyond every language barrier?

My opinion is that all the works of the above mentioned members of the Croatian Historical revolution are very much worth exploring, studying and reading. They all do come highly recommended albeit due to totalitarian and primitive backwards communist regime headed by Josip Broz Tito and his blind followers lots of original writings are lost , destroyed or are very rare to that extent that only Croatian National Library may have only one copy or original of each of the original works of the members of the Croatian Historical Revolution. None of those works were translated in any languages (as I have mentioned above) except Dr. Pilar’s ‘’Southslav question’’ which was originally written in German and then translated to Croatian. Dr. Ivo Pilar was speaking and writing as Dr. Milan v. Šufflay and many other members of CHR, in several languages. In those times after the I WW it was quite normal for people of Croatia to speak German as a second and in many cases as their mother language together with Croatian language. Hopefully in time through my own ‘’ Hyperborea Press’’ which is the part of Somnium Media all the main works of the members of the Croatian Historical Revolution will surface and be translated in English language. As always one has to be realistic, as with any of such efforts good will isn’t enough, I will have to invest money and time into this project in a balanced manner.

Do you see original viewpoints or bias by these Croatian authors that you cannot find back in the works of their other European counterparts?

 I know that I risk now sounding a bit vague but most of their viewpoints are similar or identical with their German and French counterparts, although one of their main focal points or focus was naturally fight against the repressive Serbian monarchist regime and its imperialistic hegemony. I have written recently some articles about this topic. I believe that I will answer much broader to this question in my book about Croatian Historical Revolution.

What are your projects for the near future?

The New Antaios Journal’s further development is my priority and alongside with TNAJ there is ‘’Eurocontinentalism Journal’’ and my own ‘’Somnium Media’’ website which offers music, merchandise and books which are serving as an alternative to world of mass consumerism we live in. Great help in that effort is my dear friend mr. Zvonimir Tosic who is an editor in chief and managing webmaster of The New Antaios Journal and Somnium websites. The New Antaios and Eurocontinentalism Journal will both have some interesting interviews and articles in months to come. Somnium Media imprint ‘’Hyperborea Press’’ will publish most significant works of members of the Croatian Historical revolution and hopefully some works by Nicolas Gomez Davila.

Further related to ‘’Hyperborea Press’’ I have plans for the three books and three translations. First one is above already mentioned book about Croatian Historical Revolution and its members and it will be an overview of the significance of Croatian Historical Revolution and works of its members and authors not only for Croatia but for Europe and European thought as well. Another book is ‘’ Gaudiya Vaishnavism - The Living and Timeless Tradition ‘’ which will explain how important Traditional Gaudiya Vaishnavism is (a belief in Hinduism) not only for Hinduism but for the resurgence of Indo – European thought in general. I know that Dr. Alexander Jacob has written extensively on the topic of resurgence of Indo-European thought but his emphasis is not like in authors such as Georges Dumezil , Jan de Vries, or Ram Swarup, Sita Ram Goel and Alain Danielou in Hinduism or ancestral pre-christian beliefs. Rather he uses as an example for restoration of Indo –European thought resurgence of European Medieval Christian noble spirit of ‘’archaic and brave’’ and Prussian noble spirit. In my own opinion the best starting point for such study would be a Saxon epic ‘’Heliand’’.

Traditional Gaudiya Vaishnava thought in this book will serve as an alternative for the Traditionalist thought which was espoused by Guenon, Schuon and other Traditionalists. Third book deals with Croatian pre-Christian and pre-Slavic legends and it delves in times of the heroic Croatian past. I have contacted one still living Croatian author who gave me information on stories and its characters which obviously have roots in pre-Christian and pre-Slavic times of Croatia. It is quite a work and a huge challenge to reconstruct those tales and to find out and connect certain characters. Some shortened versions of those stories I will be presenting at certain Storytelling Fairs in Ireland during the summer. Three translations will be my most likely first translation work on the new book by Dr. Jure Georges Vujic (which will be his first book in English language) followed by translations of two books of the members of the Croatian Historical Revolution, Dr. Ivo Pilar’s ‘’Southslav question’’ and Dr. Milivoj Magdić’s best and collected works complete with my own explanations and commentaries. I will also continue writing for Brett Stevens's Journal on line www.amerika.org which is with Europa Synergon one of the most interesting journals to be found on line.

Thank you very much Robert for the opportunity you gave me with this interview and as well thank you for your influence on my own thought which is indispensable and very important. I would also like to thank to anybody who has read this interview and found it interesting or just thought provoking.

 

(interview taken by Robert Steuckers, late spring 2011).

dimanche, 10 juillet 2011

International Conference : "Actual Problems of Traditionalism"

rene_guenon_egypte.jpg

International conference

'Actual problems of traditionalism'

Within the bounds of the new project "Tradition" 15-16 October 2011 in Moscow will take place the international conference "Actual problems of traditionalism".
 
Main topics:
 
• The Tradition and the Postmodernity.
• The Desecularization (the revival of the religious factor).
• The Eschatology (orthodoxy and heterodoxy).
• The Simulacra of the neospiritualism.
• Traditionalism and the Tradition in Russia, the Slavic world, Eastern Europe.
• The problem of initiation.
• The Reign of post-Quantity.
• The Revision of the traditionalist discourse
• The Tradition and Revolution
 
Conference sessions:
 
• Section I. "Tradition vs. Postmodernity. "
• Section II. "Horizons of the new metaphysics and the figure of Radical Self. "
• Section III. "The mission of Julius Evola. "
• Section IV. "Traditionalism and esoterism in Islam. "
• Section V. "Traditionalism and the problem of monotheism. "
• Section VI. "The primordiality as a problem. "
 
There will be the participation of different Western traditionalists (among other prof. Claudio Mutti). During the conference will be held a personal exhibition of Russian artiste peintre Alexey Belyaev-Gintovt and other art collectives.
 
To participate in the conference are invited the authors of publications on the philosophy of traditionalism and similar issues, as well as those who interested in the development of traditionalist thought in Russia.
 
To participate in the conference one should send an application indicating your personal data to address solomon2770@yandex.ru (for audience), and the theses of your proposed report (for participants). Theses must be given in electronic form in the text editor Word (Russian, Englisn, French, Portuguese, Spanish, German, Italian and other). Times New Roman, size 14.
 
As a result of the conference will be published a book of materials.
 
Chairman of organizing committee Natella Speranskaya

mercredi, 08 juin 2011

O. Gutsulyak: In the Presentiment Euroasian Mahdi

http://primordial.org.ua/archives/256#more-256

Oleg Gutsulyak: In the Presentiment Euroasian Mahdi

OLEG GUTSULYAK:
IN THE PRESENTIMENT EUROASIAN MAHDI
Interview to the Italian magazine “LA NAZIONE EURASIA":
BOLLETTINO TELEMATICO PER IL COORDINAMENTO PROGETTO EURASIA”)
(Conversation was conducted by editor-in-chief Daniele Scalea)

Русская версия интервью -http://primordial.org.ua/archives/123

Итальянская версия интервью – http://primordial.org.ua/archives/252

Translated by Sergiy Tyupa

Oleg_Gutsulyak.jpgMr. Gutsulyak, you are the editor of “La Nazione Eurasia”, Ukrainian version. How you decided to do that? Who’s helping you in this work?

· Initially I was interested in the Italian version of “La Nazione Eurasia” and simply wanted to make something alike. There were some resources already in place, and after talking to my friends I learnt that they would be interested in it, too. The decision was made at the meeting of our Group for Studying the Basics of Primordial Tradition “Mesogaia”. The latter is just a section of a more extensive Ukrainian Intellectual Club of the New Right “Gold Griffin” (unfortunately, only two sections of the club are currently active – ours and the literature one; others are only nominal as the people who initially started them lost their interest). We presented the “LNE – UA” project as the one leading away from the narrow constraints of endless wails and weeping over “Ukraine’s bitter destiny”. We have a lot of authors, mostly graduate and undergraduate students and young teachers from our Precarpathian National Vasyl Stefanyk University and other universities, located in Ivano-Frankivsk (our city boasts three state and seven private universities!). The most active among them are Oleh Hrinkevych, Volodymyr Eshkilev, Ihor Kozlyk, Roman and Olga Ivasiv, Ivan Pelypyshak, Oleksandr Horishny, Oleh Skobalsky, Nataliya Lytvyn, Solomiya Ushnevych, Ulyana Makh, Oksana Stasynets, Sergiy Tyupa, Daniil Belodubrovsky, Yevhen Baran, and the late Teacher and Preceptor Yuriy Sultanov. I have to mention that they represent different nationalities living in Galicia – Ukrainians, Russians, Poles, Jews, Azerbaijanians, Moldavians, Hungarians, etc.; and different religions – Roman Catholic, Greek Catholic, Russian Orthodox, Ukrainian Orthodox, Judaism, Muslim, LDS, Neo-Paganism… At one point of time I was helped by Canadian interns who were of Ukrainian descent. “LNE-UA” is not our only project. The first one was our “Mesogaia” web site (http://www.mesogaia.il.if.ua); there is also the “Gall’Art” site (http://www.gallart.narod.ru) and a number of others, whose authors are the members of our Group (http://newright.il.if.ua, http://www.preussen-ua.narod.ru,http://www.goutsoullac.narod.ru, http://www.loveyourace.front.ru). Since printing services are so expensive, we can’t afford to publish a magazine or a newsletter, although we have materials sufficient for many issues. Our foreign friends also help us – Anton Rachev from Bulgaria, Sasha Papovich from Macedonia, Mohammed Nabil from Canada, Kevin Strom from the USA, Aleksandr Novoselov from Moldova, Andrei Pustogarov from Russia, Ellen Dovgan from Estonia.

What does the term “Eurasiatism” mean in your eyes?

· Ukrainian Eurasiatism has a peculiar historical tradition, dating back to early 1920s. That was a period of national movement for individuality, later referred to as “Shot Down Renaissance”. A group of Ukrainian intellectuals and writers with Mykola Fitilev-Khvylevy as their leader proclaimed the idea of “Asian Renaissance” and a slogan “To Psychological Europe!” looking at Ukraine as a peculiar intermediary between East and West, North and South, as a kind of subcontinent. I offered a name for this subcontinent – MesoEurasia, by analogy with MesoAmerica. But Ukraine, rather, resembles South-East Asia – the crossroads of a number of world civilizations (China, India, Islam, Oceania). But what is Ukraine by this analogy – Brunei, Malaysia, Singapore, Thailand, Vietnam, or Burma? I think, time will show.

Is there in Ukraine a big following for ideas as Eurasiatism and European nationalism?

· Yes, there is, and it is natural since Ukraine is one the crossroads between East and West. History proves that Ukrainians have never been aside from common European problems, whether in the Norman times or in the Cossack epoch. We are proud that in Kyivan Rus times our ancestors conquered Constantinople, crushed Mongols and Tatars, and crusaders (long before Russians did it); that Ukrainian troops fought at Grunwald, and that Ukrainian Cossacks seized Moscow in 1612 and then were protecting Vienna together with Polish troops; crashed Huguenots near Dunkirk and the Turks near Sinop. In our country we defeated powerful Polish armies, Peter the Great’s troops, and Bolshevik Red Army. And we have always realized ourselves as bearers of the high European Mission.

What do you think about the actual situation of your country, from a political and social point of view?

· Shortly we’ll take part in the re-run of the second round of the Presidential election. It is a great illusion both for the West and for Russia to think that Viktor Yanukovych is backed by Russia and that Viktor Yuschenko is backed by the USA. This myth was created by that part of the electorate who favour Russia and who consider Russian their native language. In reality Yanukovych is a protege of an extremely narrow stratum of extremely wealthy tycoons who played the Russian “card”, whereas Yuschenko became, perforce, a charismatic leader of the “potential catastrophe” stratum. After all, if current frequency deviated from 50 Hertz, Ukraine would “fall into itself” – energy system would collapse, communities would not be supplied with power and heating. In other words, at any moment a chain reaction of urban environment disintegration could start, together with disindustrialization and return from unbalanced Modern to Pre-Modern, just like it happens in popular “catastrophe movies” – with all mental consequences, resulting in total destruction of the civilization embryos.

How is relationship between Ukraine and Russia after the fall of USSR?

· It must be confessed that relations with Russia are one of the main factors of Ukraininan life, and these relations exist on different levels: between governments, businessmen, scientists, artists, relatives, and just friends. Sometimes they have this or that level of remoteness or intimacy. Not everything is so simple. Leonid Kuchma’s election pledges were in no way different from those of his Belorussian colleague Lukashenko – aiming at integration with Russia. However, when Kuchma came to power, he had to take into consideration not only the 45% of evident anti-Russian state of public opinion, but also the interests of both large-scale capital (who were not willing to see competitors from Russia on their territory and change the existing corruption schemes) and the feeling of a “proprietor” (“it is no concern of mine”) – the feeling that makes Ukrainian mentality different from the Russian one (the latter characterized with the feeling of collectivism).

You think – as Aleksandr Dugin – that President Vladimir Putin could be the leader of an alternative project to Atlantism, or you think he will finish to fall into line with US egemony?

· It is unlikely to expect from Putin, who can be viewed as the embodiment of Hoffman’s “little Zaches”. His desire to have everything under control is not a working habit of a KGB officer. This is the sign of weakness, an attempt to hold the situation firmly at hand. As the representative of the past he cannot admit publicly that Russia had won in the “cold war” – by winning over its own communism. Putin is incapable of offering to the post-Soviet elites any acceptable “vision of the future”, any development program, since the Russian elite have not developed these for themselves, either. You can’t get too far only on “nostalgia”. It is more likely that the world will witness the appearance of a new political personality who would be interesting to government elites in former USSR. He is awaited for with a certain mystical piety, similar to the feeling the Muslims have waiting for Mahdi’s advent. In other words, this “messiah” will come from the outside, from the world, which is transcendental to those, who potentially view themselves as America’s opposition.

What do Ukrainian people think about European Union?

· Apart from a small percent of people mourning for the former USSR, Ukraine’s population, no matter which language they speak or which religion they follow, realize that Ukraine’s entering to the European Union is inevitable. It’s quite another matter if we talk about the time when this is to happen. The majority of extreme nationalistic anti-Russian forces are advocating the immediate joining to the EU and NATO, and introducing European life standards to Ukraine. Their ideal models to follow are the Baltic states (Lithuania, Latvia, Estonia) and Poland. Moderate forces, including the pro-Russian ones, favour simultaneous entering to both the EU and the so-called Single Eurasian Space (alliance with Russia, Belarus, and Kazakhstan). This is referred to as “multi-vector policy”. It is the strongest, but the most difficult to achieve. Moreover, the Single Eurasian Space can be entered even now, but, having done this, Ukraine’s integration to Europe would become way more complicated. Besides, entering the Eurasian union may endanger the viability of the European vector. Secondly, the striving for SES on behalf of former USSR republics is solely and merely the striving for the Russian resources – not only raw materials, but also the infrastructure and technologies. Numerous appeals to longstanding unity of the “sister nations” are nothing but a bluff. As soon as Belarus has the slightest chance of tearing away from Russia and joining another centre of force, it will use its chance by two hundred per cent. Similarly, Ukrainians are not at all creating illusions about the European Union. The EU in its today’s format is incapable of pursuing concrete and independent policy since the current geopolitical structure is seriously distorted; and this framework is unsuitable for carrying out a strategic plan that the continent needs in order to avoid grave consequences of the Atlantic empire. This distortion is rooted in Britain’s presence in the Union. London is the world financial centre, and, purely in the British style, its people are present in Brussels with the only aim – to sabotage. It is evident from the way they hold their position about adopting the EU constitution.

The Chief of Pentagon, Donald Rumsfeld, has defined Eastern Europe as “the new Europe” – that means, a group of country faithful to USA. But really Eastern European peoples are believer of the “American Dream”, or only their governments are so?

· New democracies’ orientation towards the USA is only a developmental disease. In reality, they will bring to the USA so many problems in the future that the current anti-terrorism campaign would seem an easy promenade to Americans. Life is becoming more complicated than 20 years ago. And it will be becoming more complicated still. Think back to the Balkan war against the Ottoman Empire: the countries liberated by Russia soon became her foes (Bulgaria started a war, then fought against the Entente; Romania, Greece and Bulgaria crowned the representatives of German dynasties). Of course, a lot will depend on diplomatic moves of Washington, London, Moscow, and the EU, as well as on the development of networks of non-government and political organizations, focused on this or that “centre of force”. It is possible that as the tension between Old Europe and the USA continues to grow, part of New Europe will strive after the US and, strange as it may seem, be against it, just like centuries ago the Italic tribes declared a war on Rome just in order to receive Roman citizenship!.. And it is also possible that Turkey, geared by British capital, will lead the confrontation between New and Old Europe.

You are an expert of literature. Is there any writer or thinker that could be considered as a master for all European peoples, and an inspiring of European rebirth?

· The thing is that the unification of the Italian language resulted from Risorgismento, while Ukrainian Renaissance became possible because of the unification of the Ukrainian language. We were forced to fight for out independence, we were refused in existing as a unique nation. Just imagine a situation that Napoleon had won and proclaimed that Italian was only a dialect of French, and that Italian nation could not possibly exist and wouldn’t exist, either!.. This is why the Ukrainian literature had a completely different mission than other European national literatures. Its aim was to bring back the world of the people who had a heroic past, the past that was stolen and the past that the nation was destined to win back. For two centuries the Ukrainian literature, represented by Taras Shevchenko and then by Ivan Franko and Lesia Ukrainka, was pursuing this objective. It rejected the possibility of metaphysics that had barely sprung up in the Baroque epoch by Paisiy Velichkovskiy and Kyiv-Mohyla Academy. This line later turned into Russian “starchestvo” and impregnated Dostoevsky. The only air-way we had in this respect was the translations from European literature, we had and still have a brilliant translation school, almost everything is translated… It is only now that the young generation of Ukrainian authors is opening the metaphysics and, consequently, is becoming interesting to Europe. Yuriy Andrukhovych’s and Oksana Zabuzhko’s novels and poems have long ago been translated into German and Swedish, the English-speaking world knows the well-established “New-York Group” of poets, Yuriy Pokalchuk publishes in French; Yuriy Izdryk, Volodymyr Yeshkilev, Stepan Protsiuk are not unfamiliar names, either (as a rule, their works are first translated into Polish, which the German translators take as a certain quality mark). Moreover, Italy expresses interest to Ukrainian literature, too. A well-known poetess, Oksana Pakhlevskaya, the daughter of Ukraine’s living classical author Lina Kostenko, is chairing the Department of Ukrainian Studies at one of the Italian universities; Mario Grasso popularizes Ukrainians in his “New Moon Calendar”… Another thing I would like to add is that writing poems is peculiar to Ukrainian culture. I believe it is the manifestation of introvert national character. Everybody writes here, it’s a kind of national sport. Books of poetry are published in great numbers, poets are regarded as spokesmen of national aspirations, and are easily elected to the Parliament. As an example of that I can bring up a rather popular series “Modern Ukrainian Poetry”, published by Yuriy Vysochanskiy. I feel honoured that my best poems were published in this series.

You have particularly studied the works by Evola and Guenon, haven’t you?

· I can definitely say that I have studies all the available Russian and Ukrainian translations, as well as some English ones. Unfortunately, they are not numerous, but every day the number is increasing. One of my dissertation chapters is devoted to the “new right” and their spiritual leaders – Evola and Guenon. At one time I was member of a militarized organization “UNA-UNSO” (similar to Romanian “Iron Guard”) and was regularly published in its newspaper “Holos Natsii” (“The Voice of the Nation”). That was where we first started translating Evola and Guenon into Ukrainian. Then Ihor Kahanets, editor-in-chief of “Perehid-4″ magazine, continued this topic on a more professional level (http://www.perehid.kiev.ua). As for me, I’m trying to popularize these ideas, introduce them into serious academic writing; I hold a special seminar “Traditionalism Philosophy” at university, which, I hope, will soon turn into a full academic lecturing course.

What do you think about Karl Marx and his disciples?

I went through an excellent school of orthodox marxism-leninism both at secondary school and a Soviet university. I witnessed the realization of Karl Marx’s project from the inside, living in this country. Yes, there were times when I was keen on national-communist ideas and thoughе that Muscovite social-imperialists distorted the essence of socialism (the leading fighter for Ukraine’s independence Simon Petlura, our Simon Bolivar, proclaimed : “Without a socialist Ukraine we don’t need an independent Ukraine!”); there were times when I was listening to the Russian service of the Albanian radio, read everything about Che Guevara, Franc Fannon and the “new left”, distributed leaflets… But the truth turned out to be more complicated. And it indeed was a revelation when I read a social “Charter of Labour” of the Spanish Falangists. This changed me as a strike of lightning…

You are also an expert of anthropological questions. From a pure historical, ethnical and cultural point of view, which are the borders of European Nation?

· It would be caustic to say that the Russians are not a European nation. Maybe, they are the most European one. In the meaning that they preserved a European Christian tradition of Byzantine, which disappeared in Europe long ago. The French, for example, like to mention with sarcasm how at the dawn of the previous century they were taught at schools that Asia started beyond the Rhine. De Goll moved Europe to the Ural Mountains and added Siberia and the Far East as Europe’s dominions. The Ancient Greeks saw Asia beyond the Don river… If to take anthropologically, the Russians are pure Caucasians, just like the Finno-Ugric peoples that became their substratum. And nobody is disputing whether the Finns, Hungarians, or Estonians belong to Europe, it is unthinkable without them. They were Europe’s compensation for losing Indo-Irani and Tohar ethnic groups. Nature abhors a vacuum.

What are the main cultural bonds between Europe and Asia, and what the main cultural differences between Eurasian and American civilizations?

I share the point of view that Alexander the Great organized a totally new space for the world history by invading barbarian lands. And we are not talking about the Hellenistic world since the meaning of Alexander the Great’s image stretches far from the Mediterranean; the geographical remoteness of lands covered even in the legendary glory of his presence allows us to talk about a much wider understanding of the Mediterranean world. His mission was not merely to conquer the whole world, but rather to bring together and make this world agree semantically, with its centre always in the Mediterranean (the Inner Sea). The new Mediterranean space, established by Alexander, was joined by common elements of the material and spiritual culture. And this heterotopic, real, living world of Alexander (in contrast to Fuko’s utopian world) is, in fact, “Eurasia”. Even the USA, which appeared comparatively not long ago on the crest of the “Atlantic revolution”, coherently falls into this self-developing model. From this point of view, the USA is only one of the Mediterranean countries, continuing this macro space’s cultural history. Indeed, Europe and Asia, Eurasia and America are much closer to each other than it seems. In my opinion, these are mainly economic interests of some European transnational corporations with their headquarters in Britain that cause the confrontation between Europe and the USA; they are located in Britain because they are in interested in more flexible tax legislations and state budgets of the European countries since they mainly work for the defense orders. The West now is the battlefield for the bearers of the two vectors for market economy development – the American liberal economic government system with republican approach (liberal in economics and conservative in politics) and the Dutch-British financial government system with democratic approach (conservative in economics and liberal in politics). In other words, between the bearers of Plato’s idealism and Kant’s empiricism… Essentially, the nature of the confrontation is the same as the one between Byzantine and Persia in the 7th century, when the fire-worshipping Iran had seemingly fallen to Emperor Irakli’s feet, but the Arabian sands brought Mohammad’s cavalry… And it is no use wondering who is playing Persia’s role now – Europe or America… As for America, I fully agree with my new acquaintance from Piedmont – a geopolitics expert Fabricio Vielmini – that the USA’s crisis is irreversible and has nothing to do with the administration occupying the White House. If John Kerry had come to power, the democrats would have done everything more politely, but in reality they would have continued to fool other nations and continue the previous policy of maintaining the world hegemony position. Notwithstanding all his education and political correctness, Kerry offered the foreign policy program that essentially is not different from “tough Bush’s” policy. The remaining key elements are “terrorism”, constant and omnipresent “threats”, but there isn’t a single word on how to overcome the fundamental problems. In reality, the Democratic candidate’s global strategy implementation would mean the infringement of each Eurasian nation’s independence.

The religion – your is the Christian Orthodox one – has a great importance in your life and thought?

· As the majority of Western Ukrainians, I belong to the Greek Catholic Church, in other words, I am a Catholic of the Eastern Rite (by the way, most of the Ukrainian labour immigrants to Italy and Portugal are Greek Catholics and, naturally, belong to the European nation, complimentary to Western Europeans; this situation is different in Germany and England, where the immigrants are Muslims and Turks, or Arabs). The Orthodox Christians scornfully call us “uniats” since we are in union with Rome, and the head of our church is a Roman Catholic Cardinal. But the way to Christianity was not simple to me. When the atheist bans disappeared, most of the people here had to face the choice of spiritual orientation. As rule, most of them chose the religion of their fathers – in union with Rome. But I threw myself into spiritual search – first of all to the Oriental religions (especially Hinduism, I still am still not indifferent to it); then I came to neo-paganism (and even became one of the priests of a powerful neo-paganism movement in Ukraine RUNVira). But again, by the Divine Intent, Christianity opened to me in all its providential beauty, as the bearer of the Topic of Strength.

Is there something special you want to say to Italian readers of “La Nazione Eurasia”?

The linguists say that there two most melodious languages in the world. The first one is Italian, the second is Ukrainian. Also, medieval and modern travellers call Ukraine “Italy on the Dnieper banks”. At one time regions of our country were part of the Danube empire. At the dawn of its independence Ukraine try to “flirt” with France through the then President Kravchuk, but France either didn’t understand, or didn’t want to “hurt” its friend (i.e. Russia), and so it didn’t’ become Ukraine’s “center of gravity” and lost its chance, maybe, having been scared of possible expenses for another Guiana. Germany is more concerned with its relations with France…Maybe, we are interesting to Italy?

(“La Nazione Eurasia”, 2005, n 1)
www.lanazioneeurasia.altervista.com

dimanche, 29 mai 2011

La réception d'Evola en Belgique


 

evola2.jpg

Entretien avec Robert Steuckers sur la réception de l’œuvre de Julius Evola en Belgique

 

Propos recueillis par Denis Ilmas

 

Q. : Monsieur Steuckers, comment avez-vous découvert Julius Evola ? Quand en avez-vous entendu parler pour la première fois ?

 

RS : Dans la Librairie Devisscher, au coin de la rue Franz Merjay et de la Chaussée de Waterloo, dans le quartier « Ma Campagne », à cheval sur Saint-Gilles et Ixelles. « Frédéric Beerens », un camarade d’école, un an plus âgé que moi, avait découvert « Les hommes au milieu des ruines » dans cette librairie, l’avait lu, et m’en avait parlé tandis que nous faisions la queue pour commander d’autres ouvrages ou quelques manuels scolaires. Ce fut la toute première fois que j’entendis prononcer le nom d’Evola. J’avais dix-sept ans. Nous étions en septembre 1973 et nous étions tout juste revenus d’un voyage scolaire en Grèce. Pour Noël, le Comte Guillaume de Hemricourt de Grünne, le patron de mon père, m’offrait toujours un cadeau didactique : cette année-là, pour la première fois, j’ai pu aller moi-même acheter les livres que je désirais, muni de mon petit budget. Je me suis rendu en un endroit qui, malheureusement, n’existe plus à Bruxelles, la grande librairie Corman, et je me suis choisi trois livres : « L’Etat universel » d’Ernst Jünger, « Un poète et le monde » de Gottfried Benn et « Révolte contre le monde moderne » de Julius Evola. L’année 1973 fut, rappelons-le, une année charnière en ce qui concerne la réception de l’œuvre d’Evola en Italie et en Flandre : tour à tour Adriano Romualdi, disciple italien d’Evola et bon connaisseur de la « révolution conservatrice » allemande grâce à sa maîtrise de la langue de Goethe, décéda dans un accident d’auto, tout comme le correspondant flamand de Renato del Ponte et l’animateur d’un « Centro Studi Evoliani » en Flandre, Jef Vercauteren. Je n’ai forcément jamais connu Jef Vercauteren et, là, il y a eu une rupture de lien, fort déplorable, entre les matrices italiennes de la mouvance évolienne et leurs antennes présentes dans les anciens Pays-Bas autrichiens.

 

Je dois vous dire qu’au départ, la lecture de « Révolte contre le monde moderne » nous laissait perplexes, surtout Beerens, le futur médecin chevronné, féru de sciences biologiques et médicales : on trouvait que trop d’esprits faibles, après lecture de ce classique, se laisseraient peut-être entrainer dans une sorte de monde faussement onirique ou acquerraient de toutes les façons des tics langagiers incapacitants et « ridiculisants » (à ce propos, on peut citer l’exemple d’un Arnaud Guyot-Jeannin, tour à tour fustigé par Philippe Baillet, qui lui reprochait l’ « inculture pédante du Sapeur Camember »,  ou par Christopher Gérard, qui le traitait d’ « aliboron » ou de « chaouch »). Une telle dérive, chez les aliborons pédants, est évidemment tout à fait possible et très aisée parce qu’Evola présentait à ses lecteurs un monde très idéal, très lumineux, je dirais, pour ma part, très « archangélique » et « michaëlien », afin de faire contraste avec les pâles figures subhumaines que génère la modernité ; aujourd’hui, faut-il s’empresser de l’ajouter, elle les génère à une cadence accélérée, Kali Yuga oblige. L’onirisme fait que bon nombre de médiocres s’identifient à de nobles figures pour compenser leurs insuffisances (ou leurs suffisances) : c’est effectivement un risque bien patent chez les évolomanes sans forte épine dorsale culturelle.

 

Mais, chose incontournable, la lecture de « Révolte » marque, très profondément, parce qu’elle vous communique pour toujours, et à jamais, le sens d’une hiérarchie des valeurs : l’Occident, en optant pour la modernité, a nié et refoulé les notions de valeur, d’excellence, de service, de sublime, etc. Après lecture de « Révolte », on ne peut plus que rejeter les anti-valeurs qui ont refoulé les valeurs impérissables, sans lesquelles rien ne peut plus valoir quoi que ce soit dans le monde.

 

« Révolte » et la notion de numineux

 

Plus tard, « Révolte » satisfera davantage nos aspirations et nos exigences de rigueur, tout simplement parce que nous n’avions pas saisi entièrement, au départ, la notion de « numineux », excellemment mise en exergue dans le chapitre 7 du livre et que je médite toujours lorsque je longe un beau cours d’eau ou quand mes yeux boivent littéralement le paysage à admirer du haut d’un sommet, avec ou sans forteresse (dans l’Eifel, les Vosges, le Lomont, le Jura ou les Alpes ou dans une crique d’Istrie ou dans un méandre de la Moselle ou sur les berges de la Meuse ou du Rhin). « Masques et visages du spiritualisme contemporain » nous a apporté une saine méfiance à l’endroit des ersatz de religiosité, souvent « made in USA », alternatives très bas de gamme que nous fait miroiter un vingtième siècle à la dérive : songeons, toutefois dans un autre contexte, à la multiplication des temples scientologiques, évangéliques, etc. ou à l’emprise des « Témoins de Jéhovah » sur des pays catholiques comme l’Espagne ou l’Amérique latine, qui, de ce fait, subissent une subversion sournoise, disloquant leur identité politique.

 

Nous n’avons découvert le reste de l’œuvre d’Evola que progressivement, au fil du temps, avec les traductions françaises de Philippe Baillet mais aussi parce que les latinistes de notre groupe, dont le regretté Alain Derriks et moi-même, commandaient les livres non traduits du Maître aux Edizioni di Ar (Giorgio Freda) ou aux Edizioni all’Insegno del Veltro (Claudio Mutti). Je crois n’avoir atteint une certaine (petite) maturité évolienne qu’en 1998, quand j’ai été amené à prendre la parole à Vienne en cette année-là, et à Frauenfeld, près de Zürich, en 1999, respectivement pour le centième anniversaire de la naissance d’Evola et pour le vingt-cinquième anniversaire de son absence. L’idée centrale est celle de l’ « homme différencié », qui pérégrine, narquois, dans un monde de ruines. Evola nous apprend la distance, à l’instar de Jünger, avec sa figure de l’ « anarque ».

 

Q. : Quelques années plus tard, la revue « Totalité » sera la première, dans l’espace linguistique francophone, à publier régulièrement des textes d’Evola. De « Totalité » émergeront une série de revues, telles « Rebis », « Kalki », « L’Age d’Or », puis les Editions Pardès. Comment tout cela a-t-il été perçu en Belgique à l’époque ?

 

RS : Le coup d’envoi de cette longue série d’initiatives, qui nous ramène à l’actualité éditoriale que vous évoquez, a été, à Bruxelles du moins, une prise de parole de Daniel Cologne et Georges Gondinet, dans une salle de l’Helder, rue du Luxembourg, à un jet de pierre de l’actuel Parlement Européen, qui n’existait pas à l’époque. C’était en octobre 1976. Depuis, le quartier vit à l’heure de la globalisation, échelon « Europe », Europe « eurocratique » s’entend. A l’époque, c’était un curieux mixte : fonctionnaires de plusieurs ministères belges, étudiants de l’école de traducteurs/interprètes (dont j’étais), derniers résidents du quartier se côtoyaient dans les estaminets de la Place du Luxembourg et, dans les rues adjacentes, des hôteliers peu regardants louaient des chambres de « 5 à 7 » pour bureaucrates en quête d’érotisme rapide camouflé en « heures supplémentaires », tout cela en face d’un vénérable lycée de jeunes filles, qui faisait également fonction d’école pour futures professeurs féminins d’éducation physique (le « Parnasse »). En arrière-plan, la gare dite du Quartier Léopold ou du Luxembourg, vieillotte et un peu sordide, flanquée d’un bureau de poste crasseux, d’où j’ai envoyé quantité de mandats dans le monde pour m’abonner à toutes sortes de revues de la « mouvance » ou pour payer mes dettes auprès du bouquiniste nantais Jean-Louis Pressensé. En cette soirée pluvieuse et assez froide d’octobre 1976, Daniel Cologne et Georges Gondinet étaient venus présenter leur « Cercle Culture & Liberté », à l’invitation de Georges Hupin, animateur du GRECE néo-droitiste à l’époque. Dans la salle, il y avait le public « nouvelle droite » habituel mais aussi Gérard Hupin, éditeur de « La Nation Belge » et, à ce titre, héritier de Fernand Neuray, le correspondant belge de Charles Maurras (Georges Hupin et Daniel Cologne étaient tous deux collaborateurs occasionnels de « La Nation Belge »). Maître Gérard Hupin était flanqué du Général Janssens, dernier commandant de la « Force Publique » belge du Congo. J’étais accompagné d’Alain Derriks, qui deviendra aussitôt le correspondant belge du « Cercle Culture & Liberté ». Les contacts étaient pris et c’est ainsi qu’en 1977, je me retrouvai, pour représenter en fait Derriks, empêché, à Puiseaux dans l’Orléanais, lors de la journée qui devait décider du lancement de la revue « Totalité ». Il y avait là Daniel Cologne (alors résident à Genève), Jean-François Mayer (qui fera en Suisse une brillante carrière de spécialiste ès religions), Eric Vatré de Mercy (à qui l’on devra ultérieurement quelques bonnes biographies d’auteurs), Philippe Baillet (traducteur d’Evola) et Georges Gondinet (futur directeur des éditions Pardès et, en cette qualité, éditeur de Julius Evola).

 

Je rencontre Eemans dans une Galerie de la Chaussée de Charleroi

 

eemans30.jpgTout cela a, vaille que vaille, formé un petit réseau. Mais il faut avouer, avec le recul, qu’il n’a pas véritablement fonctionné, mis à part des échanges épistolaires et quelques contributions à « Totalité » (une recension, un seul article et une traduction en ce qui me concerne…). Rapidement, Georges Gondinet deviendra le seul maître d’œuvre de l‘initiative, en prenant en charge tout le boulot et en recrutant de nouveaux collaborateurs, dont celle qui deviendra son épouse, Fabienne Pichard du Page. Lorsqu’il revenait de Suisse à Bruxelles, en passant par Paris, Cologne faisait office de messager. Il nous racontait surtout les mésaventures des cercles suisses autour du NOS (« Nouvel Ordre Social ») et de la revue « Le Huron », qu’il animait là-bas avec d’autres. Ainsi, en 1978, par un coup de fil, Cologne m’annonce avec fracas, avec ce ton précipité et passionné qui le caractérisait en son jeune temps, qu’il avait pris contact avec un certain Marc. Eemans, peintre surréaliste, historien de l’art et détenteur de savoirs voire de secrets des plus intéressants. A peine rentré dans la « mouvance », j’ai tout de suite eu envie de la sortir de ses torpeurs et de ses ritournelles : alors, vous pensez, un « surréaliste », un artiste qui, de plus, exposait officiellement ses œuvres dans une galerie de la Chaussée de Charleroi, voilà sans nul doute l’aubaine que nous attendions, Derriks et moi. J’étais à Wezembeek-Oppem quand j’ai réceptionné le coup de fil de Cologne : j’ai sauté sur mes deux jambes, couru à l’arrêt de bus et foncé vers la Chaussée de Charleroi, ce qui n’était pas une mince affaire à l’époque du « 30 » qui brinquebalait bruyamment, crachant de noires volutes de mazout, dans toutes les rues et ruelles de Wezembeek-Oppem avant d’arriver à Tomberg, première station de métro en ce temps-là. Il faisait déjà sombre quand je suis arrivé à la Galerie, Chaussée de Charleroi. Eemans était seul au fond de l’espace d’exposition ; il lisait, comme je l’ai déjà expliqué, « le nez chaussé de lunettes à grosses montures d’écaille noire ».  Agé de 71 ans à l’époque, Eemans (photo en 1930) m’a accueilli gentiment, comme un grand-père affable, heureux qu’Evola ait de jeunes lecteurs en Belgique, ce qui lui permettrait d’étoffer son projet : prendre le relais de Jef Vercauteren, décédé depuis cinq ans, sans laisser de grande postérité en pays flamand. Cologne disparu, amorçant sa « vie cachée » qui durera plus de vingt ans, le groupe bruxellois n’a pratiquement plus entretenu de liens avec l’antenne française du réseau « Culture & Liberté ». Il restait donc lié à Eemans seul et à ses initiatives. Gondinet, bien épaulé par Fabienne Pichard du Page, lancera « Rebis », « L’Age d’or », « Kalki » et les éditions Pardès (avec leurs diverses collections, dont « B-A-BA » et « Que lire ? »). Baillet continuera à traduire des ouvrages italiens (dont un excellent ouvrage de Claudia Salaris sur l’aventure de d’Annunzio à Fiume) puis participera à la revue « Politica Hermetica » et fera un passage encore plus bref que le mien au secrétariat de rédaction de « Nouvelle école », la revue de l’inénarrable de Benoist (cf. infra). Et les autres s’éparpilleront dans des activités diverses et fort intéressantes.

 

ME-000802461-001.jpg

Q. : Parlez-nous davantage de Marc. Eemans…

 

RS : Eemans a donc lancé son « Centro Studi Evoliani », que nous suivions avec intérêt. La tâche n’a pas été facile : Eemans se heurtait à une difficulté majeure ; en effet, comment importer le corpus d’un penseur traditionaliste italien, de surcroît ancien de l’avant-garde dadaïste de Tristan Tzara, dans un contexte belge qui ignorait tout de lui. Quelques livres seulement étaient traduits en français mais rien, par exemple, de son œuvre majeure sur le bouddhisme, « La doctrine de l’Eveil ». En néerlandais, il n’y avait rien, strictement rien, sinon quelques reprints tirés à la hâte et en très petites quantités à Anvers : il s’agissait des éditions allemandes de ses ouvrages, dont « Heidnischer Imperialismus ». En français, l’œuvre n’était que très incomplètement traduite et nous n’avions aucun travail sérieux d’introduction à celle-ci, à part un excellent essai de Philippe Baillet (« Julius Evola ou l’affirmation absolue »), paru d’abord comme cahier, sous la houlette du « Centro Studi Evoliani » français, dirigé par Léon Colas. Ni Boutin ni Lippi n’avaient encore sorti leurs thèses universitaires solidement charpentées sur Evola. Gondinet et Cologne, dans le cadre de leur « Cercle Culture & Liberté » n’avaient édité que quelques bonnes brochures et les tout premiers numéros de « Totalité » étaient fort artisanaux, faute de moyens. En fait, Eemans n’avait pas de véritable public, ne pouvait en trouver un en Belgique, en une telle époque de matérialisme et de gauchisme, où les grandes questions métaphysiques n’éveillaient plus le moindre intérêt. Mais il n’a pas reculé : il a organisé ses réunions avec régularité, même si elles n’attiraient pas un grand nombre d’intéressés. Au cours de l’une de celle-ci, j’ai présenté un article de Giorgio Locchi sur la notion d’empire, paru dans « Nouvelle école », la revue d’Alain de Benoist. Dans la salle, il y avait Pierre Hubermont, l’écrivain prolétarien et communiste d’avant-guerre, auteur de « Treize hommes dans la mine », ouvrage couronné d’un prix littéraire à la fin des années 20.  Hubermont, comme beaucoup de militants ouvriers communistes de sa génération, avait été dégoûté par les purges staliniennes, par la volte-face des communistes à Barcelone pendant la guerre civile espagnole, où ils avaient organisé la répression contre les socialistes révolutionnaires du POUM et contre les anarchistes. Mais Hubermont ne choisit pas l’échappatoire facile d’un trotskisme figé et finalement à la solde des services anglais ou américains : il tâtonne, trouve dans le néo-socialisme de De Man des pistes utiles. Pendant la seconde conflagration intereuropéenne, Hubermont se retrouve à la tête de la revue « Wallonie », qui préconise un socialisme local, adapté aux circonstances des provinces industrielles wallonnes, dans le cadre d’un « internationalisme » non plus abstrait mais découlant de l’idée impériale, rénovée, en ces années-là, par l’européisme ambiant, notamment celui véhiculé par Giselher Wirsing. Hubermont était heureux qu’un gamin comme moi eût parlé de l’idée impériale et, avec une extrême gentillesse, m’a prodigué des conseils. D’autres fois, le Professeur Piet Tommissen est venu nous parler de Carl Schmitt et de Vilfredo Pareto. Une dame est également venue nous lire des textes de Heidegger, à l’occasion de la parution du livre de Jean-Michel Palmier, « Les écrits politiques de Heidegger ». Les thèmes abordés à la tribune du « Centro Studi Evoliani » n’étaient donc pas exclusivement « traditionalistes » ou « évoliens ». Eemans lance également l’édition d’une série de petites brochures et, plus tard, nous bénéficierons de l’appui généreux de Salvatore Verde, haut fonctionnaire italien de ce qui fut la CECA et futur directeur de la revue italienne « Antibancor », consacrée aux questions économiques et éditée par les Edizioni di Ar (cette revue éditera notamment en version italienne une de mes conférences à l’Université d’été 1990 du GRECE sur les « hétérodoxies » en sciences économiques, que l’inénarrable de Benoist n’avait bien entendu pas voulu éditer, en même temps que d’autres textes, de Nicolas Franval et de Bernard Notin, sur les « régulationnistes » ; je précise qu’il s’agissait de la « cellule » mise sur pied à l’époque par le GRECE pour étudier les questions économiques). Toutes les activités du « Centro Studi Evoliani » de Bruxelles ne m’ont évidemment laissé que de bons souvenirs.

 

ME-4003.jpg

 

Q. : Mais qui fut Eemans au-delà de ses activités au sein du « Centro Studi Evoliani » ?

 

RS : J’ai très vite su qu’Eemans avait été, après guerre, un véritable encyclopédiste des arts en Belgique. Plusieurs ouvrages luxueux sur l’histoire de l’art sont dus à sa plume. Ils ont été écrits avec grande sérénité et avec le souci de ménager toutes les susceptibilités d’un monde foisonnant, où les querelles de personnes sont légion. Ces livres font référence encore aujourd’hui. Dans un coin de son salon, où était placé un joli petit meuble recouvert d’une plaque de marbre, Eemans gardait les fichiers qu’il avait composés pour rédiger cette œuvre encyclopédique. Toutefois, il n’en parlait guère. Il m’a toujours semblé que la rédaction de ces ouvrages d’art appartenait pour lui à un passé bien révolu, pourtant plus récent que l’aventure de la revue « Hermès », qui ne cessait de le hanter. J’aurais voulu qu’il m’en parle davantage car j’aurais aimé connaître le lien qui existait entre cette peinture et ces avant-gardes et les positions évoliennes qu’il défendait fin des années 70, début des années 80. J’aurais aimé connaître les étapes de la maturation intellectuelle d’Eemans, selon une chronologie bien balisée : je suis malheureusement resté sur ma faim. Apparemment, il n’avait pas envie de répéter inlassablement l’histoire des aventures intellectuelles qu’il avait vécues dans les années 10, 20 et 30 du 20ème siècle, et dont les protagonistes étaient presque tous décédés. Au cours de nos conversations, il rappelait que, comme bon nombre de dadaïstes autour de Tzara et de surréalistes autour de Breton, il avait eu son « trip » communiste et qu’il avait réalisé un superbe portrait de Lénine, dont il m’a plusieurs fois montré une vignette. Il a également évoqué un voyage à Londres pour aller soutenir des artistes anglais avant-gardistes, hostiles à Marinetti, venu exposer ses thèses futuristes et machinistes dans la capitale britannique : le culte des machines, disaient ces Anglais, était le propre d’un excité venu d’un pays non industriel, sous-développé, alors que tout avant-gardiste anglais se devait de dénoncer les laideurs de l’industrialisation, qui avait surtout frappé le centre géographique de la vieille Angleterre.

 

L’influence décisive d’un professeur du secondaire

 

Eemans évoquait aussi le wagnérisme de son frère Nestor, un wagnérisme hérité d’un professeur de collège, le germaniste Maurits Brants (1853-1940). Brants, qui avait décoré sa classe de lithographies et de chromos se rapportant aux opéras de Wagner, fut celui qui donna à l’adolescent Marc. Eemans le goût de la mythologie, des archétypes et des racines. Pour le Prof. Piet Tommissen, biographe d’Eemans, ce dernier serait devenu un « surréaliste pas comme les autres », du moins dans le landerneau surréaliste belge, parce qu’il avait justement, au fond du cœur et de l’esprit, cet engouement tenace pour les thèmes mythologiques. Tommissen ajoute qu’Eemans a été marqué, très jeune, par la lecture des dialogues de Platon, de Spinoza et puis des romantiques anglais, surtout Shelley ; comme beaucoup de jeunes gens immédiatement après 1918, il sera également influencé par l’Indien Rabindranath Tagore, lequel, soit dit en passant, était vilipendé dans les colonnes de la « Revue Universelle » de Paris, comme faisant le lien entre les mondes non occidentaux (et donc non « rationnels ») et le mysticisme pangermaniste d’un Hermann von Keyserlinck, dérive actualisée du romantisme fustigé par Charles Maurras.

 

ME-eemans.jpg

 

Eemans a souvent revendiqué les influences néerlandaises (hollandaises et flamandes) sur son propre itinéraire intellectuel, dont Louis Couperus et Paul Van Ostaijen. Ce dernier, rappelle fort opportunément Tommissen, avait élaboré un credo poétique, où il distinguait entre la « poésie subconsciemment inspirée » (et donc soumise au pouvoir des mythes) et la « poésie consciemment construite » ; Van Ostaijen appelait ses éventuels disciples futurs à étudier la véritable littérature du peuple thiois des Grands Pays-Bas en commençant par se plonger dans leurs auteurs mystiques. Injonction que suivra le jeune Eemans, qui, de ce fait, se place, à son corps défendant, en porte-à-faux avec un surréalisme cultivant la provocation de « manière consciente et construite » ou ne demeurant, à ses yeux, que « conscient » et « construit ». A l’instigation surtout du deuxième manifeste surréaliste d’André Breton, lancé en 1929, un an après le décès de Van Ostaijen, Eemans explorera d’autres pistes que les surréalistes belges, dont Magritte, ce qui, au-delà des querelles entre personnes et au-delà des clivages politiques/idéologiques, consommera une certaine rupture et expliquera l’affirmation, toujours répétée d’Eemans, qu’il est, lui, un véritable surréaliste dans l’esprit du deuxième manifeste de Breton —qui évoque le poète romantique allemand Novalis—  et que les autres n’en ont pas compris la teneur et n’ont pas voulu en adopter les injonctions implicites. Si l’étape abstraite de la « plastique pure » a été une nécessité, une sorte d’hygiène pour sortir des formes stéréotypées et trop académiques de la peinture de la fin du 19ème siècle, le surréalisme ne doit pas se complaire définitivement dans cette esthétique-là. Il doit, comme le préconisait Breton, s’ouvrir à d’autres horizons, jugés parfois « irrationnels ».

 

 

paul_van_ostaijen.jpg

 

 

Quand Sœur Hadewych hérisse les surréalistes installés

 

Fidèle au credo poétique de Van Ostaijen (photo ci-dessus), Eemans s’était plongé, fin des années 20, dans l’œuvre mystique de Sœur Hadewych (13ème siècle), dont il lira des extraits lors d’une réunion de surréalistes à Bruxelles. L’accueil fut indifférent sinon glacial ou carrément hostile : pour Tommissen, c’est cette soirée consacrée à la grande mystique flamande du moyen âge qui a consommé la rupture définitive entre Eemans et les autres surréalistes de la capitale belge, dont Nougé, Magritte et Scutenaire. Toute l’animosité, toutes les haines féroces qui harcèleront Eemans jusqu’à sa mort proviennent, selon Tommissen, de cette volonté du jeune peintre de faire franchir au surréalisme bruxellois une limite qu’il n’était pas prédisposé à franchir. Pour les tenants de ce surréalisme considéré par Eemans comme « fermé », le jeune peintre de Termonde basculait dans le mysticisme et les bondieuseries, abandonnait ainsi le cadre soi-disant révolutionnaire, communisant, du surréalisme établi : Eemans tombait dès lors, à leurs yeux, dans la compromission (qui chez les surréalistes conduit automatiquement à l’exclusion et à l’ostracisme) et dans l’idéalisme magique ; il trahissait aussi la « révolution surréaliste » avec son adhésion plus ou moins formelle et provocatrice à l’Internationale stalinienne. Pour Eemans, les autres restaient campés sur des positions figées, infécondes, non inspirées par la notion d’Amour selon Dante (à ce propos, cf. notre « Hommage à Marc. Eemans sur http://marceemans.wordpress.com/ ). Pour poursuivre leur œuvre de contestation du monde moderne (ou monde bourgeois), les surréalistes, selon Eemans, doivent obéir à une suggestion (diffuse, lisible seulement entre les lignes) de Breton : occulter le surréalisme et s’ouvrir à des sciences décriées par le positivisme bourgeois du 19ème siècle. Breton, en 1929, en appelle à la notion d’Amour, telle que l’a chantée Dante. La voie d’Eemans est tracée : il sera le disciple de Van Ostaijen et du Breton du deuxième manifeste surréaliste de 1929. Pour concrétiser cette double fidélité, il fonde avec René Baert la revue « Hermès ».

ME-3680_0125_1_lg.jpg

Le surréalisme y est « occulté », comme le demandait Breton, mais non abjuré dans sa démarche de fond et sa revendication primordiale, qui est de contester et de détruire le bourgeoisisme établi, et s’ouvre aux perspectives de Dante et de la mystique médiévale néerlandaise et rhénane. Cette situation générale du surréalisme français (et francophone) est résumée succinctement par André Vielwahr, spécialiste de ce surréalisme et professeur de français à la Fordham University de New York : « Le surréalisme éprouvait depuis plusieurs années des difficultés insolubles. Il sombrait sans majesté dans le poncif. L’écriture automatique, l’activité onirique s’étaient soldées par un supplément de ‘morceaux de bravoure ‘ destinés à relever les œuvres où ils se trouvaient sans jamais fournir la clé ‘capable d’ouvrir indéfiniment cette boîte à multiple fond qui s’appelle l’homme » (in : S’affranchir des contradictions – André Breton de 1925 à 1930, L’Harmattan, Paris, 1998, p.339). Aller au-delà des poncifs et trouver le clé (traditionnelle) qui permet de découvrir l’homme dans sa prolixité kaléidoscopique de significations et de le sortir de toute l’unidimensionnalité en laquelle l’enferme la modernité a été le vœu d’Eemans. Qui fut sans doute, à son corps défendant, l’exécuteur testamentaire de Pierre Drieu la Rochelle qui écrivait le 1 août 1925 une lettre à Aragon pour déplorer la piste empruntée par le mouvement surréaliste : Drieu reconnaissait que les surréalistes avaient eu , un moment, le sens de l’absolu, « que leur désespoir avait sonné pur », mais qu’ils avaient renié leur intransigeance et, surtout, qu’ils « avaient rejoint des rangs » et n’étaient pas « partis à la recherche de Dieu » (A. Vielwahr, op. cit., pp. 66-67). Aragon avait reproché à Drieu que s’être laissé influencé par les gens d’Action Française, qui étaient, disait-il, « des crapules ». En quémandant humblement la lecture des écrits mystiques de Sœur Hadewych, Eemans, jeune et candide, s’alignait peu ou prou sur les positions de Drieu, qu’il ne connaissait vraisemblablement pas à l’époque, des positions qui avaient hérissé les « partisans alignés du surréalisme des poncifs ». Notons qu’Eemans travaillera sur les rêves et sur l’écriture automatique, notamment à proximité d’Henri Michaux, qui sera, un moment, le secrétaire de rédaction d’ « Hermès ». Il reste encore à tracer un parallèle entre la démarche d’Eemans et celles d’Antonin Artaud, Georges Bataille, Michel Leiris et Roger Caillois. Mais c’est là un travail d’une ampleur considérable…  

HERMEShc3a8rmes_no11.jpg

   

 

Eemans m’a souvent parlé de sa revue des années 30, « Hermès ». Il en possédait encore une unique collection complète. « Hermès » était une revue de philosophie, axée sur les alternatives au rationalisme et au positivisme modernes, dans une perspective apparemment traditionnelle ; en réalité, elle recourrait sans provocation à des savoirs fondamentalement différents de ceux qui structuraient un présent moderne sans relief et, partant, elle présentait des savoirs qui étaient beaucoup plus radicalement subversifs que les provocations dadaïstes ou les gestes des surréalistes établis : pour être un révolutionnaire radical, il fallait être un traditionnaliste rigoureux, frotté aux savoirs refoulés par la sottise moderne. « Hermès » voulait sortir du « carcan occidental » que dénonçaient tout à la fois les surréalistes et les traditionalistes, mais en abandonnant les postures provocatrices et en se plongeant dans les racines oubliées de traditions pouvant offrir une véritable alternative. Pour trouver une voie hors de l’impasse moderne, Eemans avait sollicité une quantité d’auteurs mais l’originalité première d’ « Hermès », dans l’espace linguistique francophone, a été de se pencher sur les mystiques médiévales flamandes et rhénanes. De tous ses articles dans « Hermès » sur Sœur Hadewych, sur Ruysbroeck l’Admirable, etc., Eemans avait composé un petit volume. Mais, malheureusement, il n’a plus vraiment eu le temps d’explorer cette veine, ni pendant la guerre ni après le conflit. Il faudra attendre les ouvrages du Prof. Paul Verdeyen (formé à la Sorbonne et professeur à l’Université d’Anvers) et de Geert Warnar (1) et celui, très récent, de Jacqueline Kelen sur Sœur Hadewych (2) pour que l’on dispose enfin de travaux plus substantiels pour relancer une étude générale sur cette thématique. Notons au passage qu’une exploration simultanée de la veine mystique flamande/brabançonne, jugée non hérétique par les autorités de l’Eglise, et des idées de « vraie religion » de l’Europe et d’ « unitarisme » chez Sigrid Hunke, qui, elle, réhabilitait bon nombre d’hérétiques, pourrait s’avérer fructueuse et éviter des dichotomies trop simplistes (telles paganisme/catholicisme ou renaissancisme/médiévisme, etc. empêchant de saisir la véritable « tradition pérenne », s’exprimant par quantité d’avatars).

 

Mystique flamando-rhénane et matière de Bourgogne

 

Dans l’entre-deux-guerres, l’exploration de la veine mystique flamando-rhénane, entreprise parallèlement à la redécouverte de l’héritage bourguignon, avait un objectif politique : il fallait créer une « mystique belge », non détachée du tronc commun germanique (que l’on qualifiait de « rhénan » pour éviter des polémiques ou des accusations de « germanisme » voire de « pangermanisme ») et il fallait renouer avec un passé non inféodé à Paris tout en demeurant « roman ». Les tâtonnements ou les ébauches maladroites, bien que méritoires, de retrouver une « mystique belge », chez un Raymond De Becker ou un Henry Bauchau, trop plongés dans les débats politiques de l’époque, nous amènent à poser Eemans, aujourd’hui, comme le seul homme, avec son complice René Baert, qui ait véritablement amorcé ce travail nécessaire. Autre indice : la collaboration très régulière à « Hermès » du philosophe Marcel Decorte (Université de Liège) qui donnait aussi des conférences à l’école de formation politique de De Becker et Bauchau dans les années 1937-39. Le lien, probablement ténu, entre Decorte, Eemans, Bauchau et De Becker n’a jamais été exploré : une lacune qu’il s’agira de combler. Les travaux sur l’héritage bourguignon ont été plus abondants dans la Belgique des années 30  (Hommel, Colin, etc.), sans qu’Eemans ne s’en soit mêlé directement, sauf, peut-être, par l’intermédiaire de la chorégraphe Elsa Darciel, disciple des grandes chorégraphes de l’époque dont l’Anglaise Isadora Duncan. Elsa Darciel avait entrepris de faire renaître les danses des « fastes de Bourgogne ». Malheureusement, ni l’un ni l’autre ne sont encore là pour témoigner de cette époque, où ils ont amorcé leurs recherches, ni pour évoquer le vaste contexte intellectuel où les cénacles conservateurs belges et ceux du mouvement flamand cherchaient fébrilement à se doter d’une identité bien charpentée, qui ne pouvait bien sûr pas se passer d’une « mystique » solide. Sur l’Internet, les esprits intéressés découvriront une étude substantielle du Prof. Piet Tommissen sur la personne d’Elsa Darciel, notamment sur ses relations sentimentales avec le dissident américain Francis Parker Yockey, alias Ulrick Varange.

 

Pendant la seconde guerre mondiale, Eemans a eu des activités de « journaliste culturel ». Cette position l’a amené à écrire quantité de critiques d’art dans la presse inféodée à ce qu’il est désormais convenu d’appeler la « collaboration », phénomène qui, rétrospectivement, ne cesse d’empoisonner la politique belge depuis la fin de la seconde guerre mondiale. On ne cesse de reprocher à Marc. Eemans et à René Baert la teneur de leurs articles, sans que ceux-ci n’aient réellement été examinés et étudiés dans leur ensemble, sous toutes leurs facettes et dans toutes leurs nuances (repérables entre les lignes) : Eemans se défend en rappelant qu’il a combattu, au sein d’un « Groupe des Perséides », la politique artistique que le IIIe Reich cherchait à imposer dans tous les pays d’Europe qu’il occupait. Cette politique était hostile aux avant-gardes, considérées comme « art dégénéré ». Eemans racontait aux censeurs nationaux-socialistes qu’il n’y avait pas d’ « art dégénéré » en Belgique, mais un « art populaire », expression de l’âme « racique » (le terme est de Charles de Coster et de Camille Lemonnier), qui, au cours des quatre premières décennies du 20ème siècle, avait pris des aspects certes modernistes ou avant-gardistes, mais des aspects néanmoins particuliers, originaux, car, in fine, l’identité des « Grands Pays-Bas » résidait toute entière dans son génie artistique, un génie que l’on pouvait qualifier de « germanique », donc, aux yeux des nouvelles autorités, de « positif », les artistes d’avant-garde dans ces « Grands Pays-Bas » étant tous des hommes et des femmes du cru, n’appartenant pas à une quelconque population « nomade », comme en Europe centrale. La « bonne » nature vernaculaire de ces artistes, en Flandre, ne permettait à personne de déduire de leurs œuvres une « perversité » intrinsèque : il fallait donc les laisser travailler, pour que puisse éclore une facette nouvelle de « ce génie germanique local et particulier ». L’énoncé de telles thèses, sans doute partagées par d’autres analystes collaborationnistes des avant-gardes, comme Paul Colin ou Georges Marlier, avait pour but évident d’entraver le travail d’une censure qui se serait avérée trop sourcilleuse. Finalement, on reprochera surtout à Eemans et à Baert d’avoir rédigé des articles pour le « Pays Réel » de Léon Degrelle. Baert assassiné en 1945, Eemans reste le seul larron du tandem en piste après la guerre. Il sera arrêté pour sa collaboration au « Pays Réel » et non pour d’autres motifs, encore moins pour le contenu de ses écrits (même s’ils portaient souvent la marque indélébile de l’époque). « Je faisais partie de la charrette du ‘Pays Réel ‘ », disait-il souvent. Après la fin des hostilités, après la levée de l’état de guerre en Belgique (en 1951 !), après son incarcération qui dura quatre années au « Petit Château », Eemans revient dans le peloton de tête des critiques d’art en Belgique : ses « crimes » n’ont probablement pas été jugés aussi « abominables » car le préfacier de l’un de ses ouvrages encyclopédiques majeurs fut Philippe Roberts-Jones, Conservateur en chef des Musées royaux d’art de Belgique, fils d’un résistant ucclois mort, victime de ses ennemis, pendant la seconde grande conflagration intereuropéenne.

 

« Hamer », Farwerck et De Vries

 

Sous le IIIe Reich, les autorités allemandes ont fondé une revue d’anthropologie, de folklore et d’études populaires germaniques, intitulée « Hammer » (« Le Marteau », sous-entendu le « Marteau de Thor »). Pendant l’été 1940, on décide, à Berlin, de créer deux versions supplémentaires de « Hammer » en langue néerlandaise, l’une pour la Flandre et l’autre pour les Pays-Bas (« Hamer »). Quand on parle de néopaganisme aujourd’hui, surtout si l’on se réfère à l’Allemagne nationale-socialiste ou aux innombrables sectes vikingo-germanisantes qui pullulent aux Etats-Unis ou en Grande-Bretagne, tout en influençant les groupes musicaux de hard rock, cela fait généralement sourire les philologues patentés. Pour eux, c’est, à juste titre, du bric-à-brac sans valeur intellectuelle aucune. C’est d’ailleurs dans ce sens qu’Eemans adoptera les thèses d’Evola consignées, de manière succincte, dans un article titré « Le malentendu du néopaganisme ». Mais ce reproche ne peut nullement être adressé aux versions allemande, néerlandaise et flamande de « Hammer/Hamer ». Des germanistes de notoriété internationale comme Jan De Vries, auteur des principaux dictionnaires étymologiques de la langue néerlandaise (tant pour les noms communs que pour les noms propres, notamment les noms de lieux) ont participé à la rédaction de cet éventail de revues. Eemans était l’un des correspondants de « Hamer »/Amsterdam à Bruxelles. Cela lui permettait de faire la navette entre Bruxelles et Amsterdam pendant le conflit et de s’immerger dans la culture littéraire et artistique de la Hollande, qu’il adorait. Il est certain que l’on a rédigé et édité des études sur « Hammer » en Allemagne ou en Autriche, du moins sur sa version allemande ou sur certains de ses principaux rédacteurs. Je ne sais pas si une étude simultanée des trois versions a un jour été établie. C’est un travail qui mériterait d’être fait. D’autant plus que la postérité de « Hamer »/Amsterdam et « Hamer »/Bruxelles n’a certainement pas été entravée par une quelconque vague répressive aux Pays-Bas après la défaite du IIIe Reich. De Vries est demeuré un germaniste néerlandais, un « neerlandicus », de premier plan, ainsi qu’un explorateur inégalé du monde des sagas islandaises. Son œuvre s’est poursuivie, de même que celle de Farwerck, que l’on n’a commencé à dénoncer qu’à la fin des années 90 du 20ème siècle ! De l’écolier de Termonde influencé par Brants, son professeur wagnérien, du cadet de famille influencé par Nestor, son aîné, autre Wagnérien, au disciple attentif de Van Ostaijen et du lecteur scrupuleux du deuxième manifeste surréaliste de Breton au directeur d’Hermès et au rédacteur de « Hamer », du réprouvé de 1944 au fondateur du « Centro Studi Evoliani » et au collaborateur d’ « Antaios » de Christopher Gérard, il y a un fil conducteur parfaitement discernable, il y a une fidélité inébranlable et inébranlée à soi et à ses propres démarches, face à l’incompréhension généralisée qui s’est bétonnée et a orchestré le boycott de cet homme à double casquette : celle du dadaïste-surréaliste-lénino-trostkiste et celle du wagnéro-mystico-évoliano-traditionaliste. Et pourtant, il y a, derrière cette apparente contradiction une formidable cohérence que sont incapables de percevoir les esprits bigleux. Ou pour être plus précis : il y a chez Eemans, surréaliste et traditionaliste tout à la fois, une volonté d’aller au « lieu » impalpable où les contradictions s’évanouissent. Un lieu que cherchait aussi Breton dès son second manifeste.  

FANTA14471.jpg

        

 

Après la guerre, Eemans participe à la revue « Fantasmagie » ; l’étude de « Fantasmagie » mérite, à elle seule, un bon paquet de pages. L’objectif de « Fantasmagie » était de faire autre chose que de l’art bétonné en une nouvelle orthodoxie, qui tenait alors le haut du pavé, après avoir balayé toute interrogation métaphysique. Dans les colonnes de « Fantasmagie », les rédacteurs vont commenter et valoriser toutes les œuvres fantastiques, ou relevant d’une forme ou d’une autre d’ « idéalisme magique ». On notera, entre bien d’autres choses, un intérêt récurrent pour les « naïfs » yougoslaves. Quant à Eemans, il se chargeait de la recension de livres, notamment ceux de Gaston Bachelard. Je compte bien relire les exemplaires de « Fantasmagie » qui figurent dans ma bibliothèque mais je n’écrirai de monographie sur cette revue, ou sur l’action et l’influence d’Eemans au sein de sa rédaction, que lorsque j’aurai dûment complété ma collection, encore assez lacunaire.

 

Harcèlement et guéguerre entre surréalistes

 

L’après-guerre est tout à la fois paradis, purgatoire et enfer pour Eemans. Dans le monde de la critique d’art, il occupe une place non négligeable : son érudition est reconnue et appréciée. En Flandre, on ne tient pas trop compte des allusions perfides à sa collaboration au « Pays Réel » et à « Hamer ». En revanche, dans l’univers des galeries huppées, des expositions internationales, des colloques spécifiques au surréalisme en Belgique et à l’étranger, un boycott systématique a été organisé contre sa personne : manifestement, on voulait l’empêcher de vivre de sa peinture, on voulait lui barrer la route du succès « commercial », pour le maintenir dans la géhenne du travail d’encyclopédiste ou dans l’espace marginal de « Fantasmagie ». Son adversaire le plus acharné sera l’avocat Paul Gutt (1941-2000), fils du ministre des finances du cabinet belge en exil à Londres pendant la seconde guerre mondiale. En 1964, Paul Gutt organise un chahut contre deux conférences d’Eemans en diffusant un pamphlet en français et en néerlandais contre notre surréaliste mystique et traditionaliste, intitulé « Un ton plus bas ! Een toontje lager ! » et qui rappelait bien entendu le « passé collaborationniste » du conférencier. Le même Paul Gutt s’était aussi attaqué au MAC (« Mouvement d’Action Civique ») de Jean Thiriart, futur animateur du mouvement « Jeune Europe », en distribuant un autre pamphlet, intitulé, lui, « Haut les mains ! ». En 1973, Eemans intente un procès, qu’il perdra, à Marcel Mariën qui, à son tour, pour participer allègrement à la curée et traduire dans la réalité bruxelloise les principes de la « révolution culturelle » maoïste qu’il admirait, avait rappelé le « passé incivique » de Marc. Eemans. L’avocat de Mariën était Paul Gutt. En 1979, dans son livre sur le surréalisme belge, qui fait toujours référence, Marcel Mariën, pour se venger, exclut totalement le nom de Marc. Eemans de son gros volume mais encourt simultanément, mais pour d’autres motifs, la colère de Georgette Magritte et d’Irène Hamoir, ancienne amie d’Eemans et veuve du surréaliste « marxiste pro-albanais » (poncif !) Louis Scutenaire. Marcel Mariën ne s’en prenait pas qu’à Eemans quand il évoquait l’époque de la seconde occupation allemande : dans ses souvenirs, publiés en 1983 sous le titre de « Radeau de la mémoire », il accuse Magritte d’avoir fabriqué dans ses caves de faux Braque et de faux Picasso, « pour faire bouillir la marmite »…. ! Plus tard, en 1991, le provocateur patenté Jan Bucquoy brûlera une peinture de Magritte lors d’un « happening », pour fustiger le culte, à son avis trop officiel, que lui voue la culture dominante en Belgique. On le voit : le petit monde du surréalisme en Belgique a été une véritable pétaudière, un « panier à crabes », disait Eemans, qui ne cessait de s’en gausser. 

 

Hamer-ene001schr05ill18.gif

 

Q. : Mais existe-t-il une postérité « eemansienne » ? Que reste-t-il de ce travail effectué avant et après la création du « Centro Studi Evoliani » de Bruxelles ?

 

RS : Eemans était désabusé, en dépit de sa joie de vivre. Il était un véritable pessimiste : joyeux dans la vie quotidienne mais sans illusion sur le genre humain. Cette posture s’explique aisément en ce qui le concerne : ses efforts d’avant-guerre pour réanimer une mystique flamando-rhénane, pour réinjecter de l’Amour selon Dante dans le monde, pour faire retenir les leçons de Sohrawardi le Perse, n’ont été suivi d’aucuns effets immédiats. De bons travaux ont été indubitablement réalisés par quantité de savants sur ces thématiques, qui lui furent chères, mais seulement, hélas, au soir de sa vie, sans qu’il ait pu prendre connaissance de leur existence, ou après sa mort, survenue le 28 juillet 1998. L’assassinat par les services belges de son ami René Baert, dans les faubourgs de Berlin fin 1945, l’a profondément affecté : il en parlait toujours avec un immense chagrin au fond de la gorge. Un embastillement temporaire et des interdictions professionnelles ont mis un terme à l’œuvre d’Elsa Darciel, qui n’aurait plus suscité le moindre intérêt après guerre, comme tout ce qui relève de la matière de Bourgogne (à la notable exception du magnifique « Je soussigné, Charles le Téméraire, Duc de Bourgogne » de Gaston Compère). Eemans s’est plongé dans son travail d’encyclopédiste de l’histoire de l’art en Belgique et dans « Fantasmagie », terrains jugés « neutres ». Ces territoires, certes fascinants, ne permettaient pas, du moins de manière directe, de bousculer les torpeurs et les enlisements dans lesquels végétaient les provinces flamandes et romanes de Belgique. Car on sentait bien qu’Eemans voulait bousculer, que « bousculer » était son option première et dernière depuis les journées folles du dadaïsme et du surréalisme jusqu’aux soirées plus feutrées (mais nettement moins intéressantes, époque de médiocrité oblige…) organisées par le « Centro Studi Evoliani ». Eemans avait en effet bousculé la bien-pensance comme les garçons de son époque, avec les foucades dadaïstes et surréalistes, auxquelles Evola lui-même avait participé en Italie. Comme Evola, il a cherché une façon plus solide de bousculer les fadeurs du monde moderne : pour Evola, ce furent successivement le recours à l’Inde traditionnelle (Doctrine de l’Eveil, Yoga tantrique, etc.) et au Tao Te King chinois ; pour Eemans, ce fut le recours à la mystique flamando-rhénane, destinée à secouer le bourgeoisisme matérialiste belge, qui n’avait pas voulu entendre les admonestations de ses écrivains et poètes d’avant 1914, comme Camille Lemonnier ou Georges Eeckhoud, et s’était empressé d’abattre bon nombre de joyaux de l’architecture « Art Nouveau » d’Horta et de ses disciples, jugeant leurs audaces créatrices peu pratiques et trop onéreuses à entretenir ! Eemans aimait dire qu’il était le véritable disciple d’André Breton, dans la mesure où celui-ci avait un jour déclaré qu’il fallait s’allier, si l’opportunité se présentait, « avec le Dalaï Lama contre l’Occident ». Pour Evola comme pour Eemans, on peut affirmer, sans trop de risque d’erreur, que le « Dalaï Lama » évoqué par Breton, n’est rien d’autre qu’une métaphore pour exprimer nostalgie et admiration pour les valeurs anté-modernes, donc non occidentales, non matérialistes, qu’il convenait d’étudier, de faire revivre dans l’âme des intellectuels et des poètes les plus audacieux.

 

Le « Centro Studi Evoliani » : la déception

 

Une fois son travail d’encyclopédiste achevé auprès de l’éditeur Meddens, Eemans voulait renouer avec cette audace du « bousculeur » dadaïste, en s’arc-boutant sur le terrain d’action prestigieux que constituait l’espace de réflexion évolien, et en provoquant les contemporains en reliant à l’évolisme de la fin des années 70 ses propres recherches entreprises dans les années 30 et pendant la seconde guerre mondiale. Il a été déçu. Et a exprimé cette déception dans l’entretien qu’il nous a accordé, je veux dire à Koenraad Logghe et à moi-même (et que l’on peut lire un peu partout sur l’Internet, notamment sur http://euro-synergies.hautetfort.com et sur http://www.centrostudilaruna.it , le site du Dr. Alberto Lombardo). Pourquoi cette déception ? D’une part, parce que la jeune génération ne connaissait plus rien des enthousiasmes d’avant-guerre, ne faisait pas le lien entre les avant-gardes des années 20 et le recours d’Evola, Guénon, Corbin, Eemans, etc. à la « Tradition », n’avait reçu dans le cadre de sa formation scolaire aucun indice capable de l’éveiller à ces problématiques ; d’autre part, l’espace ténu des évoliens était dans le collimateur de la nouvelle bien-pensance gauchiste, qui étrillait aussi Eemans quand elle le pouvait (alors qu’on lui avait foutu royalement la paix dans les années 50 et 60). Etre dans le collimateur de ces gens-là peut être une bonne chose, être indice de valeur face aux zélotes furieux qui propagent toutes les « anti-valeurs » possibles et imaginables mais cela peut aussi conduire à attirer vers les cercles évoliens des personnalités instables, politisées, simplificatrices, que la complexité des questions soulevées rebute et lasse. En outre, toute une propagande médiatisée a diffusé dans la société une fausse « spiritualité de bazar », où l’on mêle allègrement toute une série d’ingrédients comme le bouddhisme californien, la cruauté gratuite, le nazisme tapageur, l’occultisme frelaté, le monachisme tibétain, la runologie spéculative, etc. pour créer des espaces de relégation vers lesquelles on houspille trublions et psychopathes, les rendant ainsi aisément identifiables, criminalisables ou, pire encore, dont on peut se gausser à loisir (exemple : « extrême-droite » = « extrême-druides », intitulé tapageur d’une émission de la RTBF). Sans compter les agents provocateurs de tous poils qui font occasionnellement irruption dans les cercles non-conformistes et cherchent à prouver qu’on est en train de ressusciter des « ordres occultes », préparant le retour de la « bête immonde ».

 

Eemans, âgé de 71 ans quand il lance le « Centro Studi Evoliani » de Bruxelles, n’avait nulle envie de répéter à satiété le récit des phases de son itinéraire antérieur face à un public disparate qui était incapable de faire le lien entre monde des arts et écrits traditionalistes ; ensuite, lui qui avait connu une revue de qualité dans le cadre du « national-socialisme » des années 40, comme « Hammer », n’avait nulle envie d’inclure dans ses préoccupations les fabrications anglo-saxonnes qui lancent dans le commerce sordide des marottes soi-disant « transgressives » un « occultisme naziste de Prisunic ». Il a décidé de mettre un terme aux activités du « Centro Studi Evoliani », car celui-ci ne pouvait pas, via l’angle évolien, ressusciter l’esprit d’ « Hermès », faute d’intéressés compétents. Une « Fondation Marc. Eemans » prendra le relais à partir de 1982, dirigée par Jan Améry. Elle existe toujours et est désormais relayée par un site basé aux Pays-Bas (http://marceemans.wordpress.com/), qui affiche les textes d’Eemans et sur Eemans dans leur langue originale (français et néerlandais). Au début des années 80, toutes mes énergies ont été consacrées à la nouvelle antenne néo-droitiste « EROE » (« Etudes, Recherches et Orientations Européennes »), fondée par Jean van der Taelen, Guibert de Villenfagne de Sorinnes et moi-même en octobre 1983, quasiment le lendemain de ma démobilisation (2 août), de mon premier mariage (25 août & 3 septembre) et de la défense de mon mémoire (vers le 10 septembre). 

 

La réception d’Evola en pays flamand est surtout due aux efforts des frères Logghe : Peter Wim, l’aîné, et Koenraad, le cadet. Peter Wim Logghe, au départ juriste dans une compagnie d’assurances, a fait connaître, de manière succincte et didactique, l’œuvre d’Evola dans plusieurs organes de presse néerlandophones, dont « Teksten, Kommentaren en Studies », l’organe du GRECE néo-droitiste en Flandre, et a traduit « Orientations » en néerlandais (pour le « Centro Studi Evoliani » d’Eemans). Koenraad Logghe, pour sa part, créera en Flandre un véritable mouvement traditionnel, au départ de sa première revue, « Mjöllnir », organe d’un « Orde der Eeuwige Werderkeer » (OEW) ou « Ordre de l’Eternel Retour ». Allègre et rigoureuse, païenne dans ses intentions sans verser dans un paganisme caricatural et superficiel, cette publication, artisanale faute de moyens financiers, mérite qu’on s’y arrête, qu’on l’étudie sous tous ses aspects, sous l’angle de tous les thèmes et figures abordés (essentiellement le domaine germanique/scandinave, l’Edda, Beowulf, etc. , dans la ligne de « Hamer » et du grand philologue néerlandais Jan de Vries ; une seule étude sur Evola y a été publiée dans les années 1983-85, sur « Ur & Krur » par Manfred van Oudenhove). Koenraad Logghe fondera ensuite le groupe « Traditie », suite logique de son OEW, avant de s’en éloigner et de poursuivre ses recherches en solitaire, couplant l’héritage traditionnel de Guénon essentiellement, à celui du Néerlandais Farwerck et aux recherches sur la symbolique des objets quotidiens, des décorations architecturales, des pierres tombales, etc., une science qui avait intéressé Eemans dans le cadre de la revue « Hamer », dont les thèmes ne seront nullement rejetés aux Pays-Bas et en Flandre après 1945 : de nouvelles équipes universitaires, formées au départ par les rédacteurs de « Hamer » continuent leurs recherches. Dans ce contexte, Koenraad Logghe publiera plusieurs ouvrages sur cette symbolique du quotidien, qui feront tous autorité dans l’espace linguistique néerlandais.

 

antaiosdocument-4.jpg

 

Eemans participera également à la revue « Antaios » que Christopher Gérard avait créée au début des années 90. Il avait repris le titre d’une revue fondée par Ernst Jünger et Mircea Eliade en 1958. Gérard bénéficiait de l’accord écrit d’Ernst Jünger et en était très fier et très reconnaissant. Lors de la fondation de l’ « Antaios » de Jünger et Eliade, ceux-ci avaient demandé la collaboration d’Eemans : il avait cependant décliné leur offre parce qu’il était submergé de travail. Dommage : la thématique de la mystique flamando-rhénane aurait trouvé dans la revue patronnée par l’éditeur Klett une tribune digne de son importance. Eemans écrivait parfaitement le français et le néerlandais mais non l’allemand. J’ai toujours supposé qu’il n’aurait pas aimé être trahi en étant traduit. C’est donc dans la revue « Antaios » de Christopher Gérard, publiée à Bruxelles/Ixelles, à un jet de pierre de son domicile, qu’Eemans publiera ses derniers textes, sans faiblir ni faillir malgré le poids des ans, jusqu’en ce jour fatidique de la fin juillet 1998, où la Grande Faucheuse l’a emporté.

 

Personnellement, je n’ai pas suivi un itinéraire strictement évolien après la dissolution du « Centro Studi Evoliani », dans la première moitié des années 80. Eemans m’en a un peu voulu, beaucoup au début des années 80, moins ultérieurement, et finalement, la réconciliation définitive est venue en deux temps : lors de la venue à Bruxelles de Philippe Baillet (pour une conférence à la tribune de l’EROE, chez Jean van der Taelen) puis lorsqu’il m’a invité à des vernissages, surtout celui qui fut suivi d’une magnifique soirée d’hommage, avec dîner somptueux fourni par l’édilité locale, que lui organisa sa ville natale de Termonde (Dendermonde) à l’occasion de ses 85 ans (en 1992). Pourquoi cette animosité passagère à mon égard ? Début 1981, a eu lieu à Bruxelles une conférence sur les thèmes de la défense de l’Europe, organisée conjointement par Georges Hupin (pour le GRECE-Belgique) et par Rogelio Pete (pour le compte d’une structure plus légère et plus éphémère, l’IEPI ou « Institut Européen de Politique Internationale »).

 

La rencontre Eemans/de Benoist

 

En marge de cette initiative, où plusieurs personnalités prirent la parole, dont Alain de Benoist, l’excellent et regretté Julien Freund, le Général Robert Close (du Corps des blindés belges stationnés en RFA), le Colonel Marc Geneste (l’homme de la « bombe à neutrons » au sein de l’armée française), le Général Pierre M. Gallois et le Dr. Saul Van Campen (Directeur du cabinet du Secrétaire Général de l’OTAN), j’avais vaguement organisé, en donnant deux ou trois brefs coups de fil, une rencontre entre Marc. Eemans et Alain de Benoist dans les locaux de la Librairie de Rome, dans le goulot de l’Avenue Louise, à Bruxelles, sans pouvoir y être présent moi-même (3). Visiblement, l’intention d’Eemans était de se servir de la revue d’Alain de Benoist, « Nouvelle école », dont j’étais devenu le secrétaire de rédaction, pour relancer les thématiques d’ « Hermès ». A l’époque, malgré quelques rares velléités évoliennes, Alain de Benoist n’était guère branché sur les thématiques traditionalistes ; il snobait délibérément Georges Gondinet, qualifié de « petit con qui nous insulte » (remarquez le « pluriel majestatif »…), tout simplement parce que le directeur de « Totalité » avait couché sur le papier quelques doutes quant à la pertinence métapolitique des écrits du « Pape » de la ND, marqués, selon le futur directeur des éditions Pardès, de « darwinisme ». De Benoist reprochait surtout à Gondinet et à son équipe la parution du n°11 de « Totalité », un dossier intitulé « La Nouvelle Droite du point de vue de la Tradition ». De Benoist, qui a certes eu des dadas darwiniens, sortait plutôt d’un « trip » empiriste logique, de facture anglo-saxonne et « russellienne », dont on ne saisit guère l’intérêt au vu de ses errements ultérieurs. Il tâtait maladroitement du Heidegger et voulait écrire sur le philosophe souabe un article qui attesterait de son génie dans toutes les Gaules (on attend toujours ce maître article promis sur le rapport Heidegger/Hölderlin… est germanomane par coquetterie parisienne qui veut, n’est pas germaniste de haut vol qui le prétend…). Sur les avant-gardes dadaïstes et surréalistes, de Benoist ne connaissait rien et classait tout cela, bon an mal an, dans des concepts généraux, dépréciatifs et fourre-tout, tels ceux de l’ « art dégénéré » ou du « gauchisme subversif », car, en cette époque bénie (pour lui et son escarcelle) où il oeuvrait au « Figaro Magazine », le sieur de Benoist se targuait d’appartenir à une bonne bourgeoisie installée, inculte et hostile à toute forme de nouveauté radicale, comme il se targue aujourd’hui d’appartenir à un filon gauchiste, inspiré par le Suisse Jean Ziegler, un filon tout aussi rétif à de la véritable innovation car, selon ses tenants et thuriféraires, il faut demeurer dans la jactance contestatrice habituelle des années 60 (comme certains surréalistes se complaisaient dans la jactance communisante des années 30 et n’entendaient pas en sortir).

 

En ce jour de mars 1981 donc, Alain de Benoist dédicaçait ses livres dans la Librairie de Rome et Eemans s’y est rendu, joyeux, débonnaire, chaleureux et enthousiaste, à la mode flamande, sans doute après un repas copieux et bien arrosé ou après quelques bon hanaps de « Duvel » : on est au pays des « noces paysannes » de Breughel, du « roi boit » de Jordaens et des plantureuses inspiratrices de Rubens ou on ne l’est pas ! Cette truculence a déplu au « Pape » de la « nouvelle droite », qui prenait souvent, à cette époque qui a constitué le faîte de sa gloire, les airs hautains du pisse-vinaigre parisien (nous dirions de la « Moeijer snoeijfdüüs »), se prétendant détenteur des vérités ultimes qui allaient sauver l’univers du désastre imminent qui l’attendait au tout prochain tournant. Pour de Benoist, la truculence breughelienne d’Eemans était indice de « folie ». Les airs hautains du Parisien, vêtu ce jour-là d’un affreux costume de velours mauve, sale et tout fripé, du plus parfait mauvais goût, étaient, pour le surréaliste flamand, indices d’incivilité, de fatuité et d’ignorance. Bref, la mayonnaise n’a pas pris : on ne marie pas aisément la joie de vivre et la sinistrose. Le courant n’est pas passé entre les deux hommes, éclipsant du même coup, et pour toujours, les potentialités immenses d’une éventuelle collaboration, qui aurait pu approfondir considérablement les recherches du mouvement néo-droitiste, vu que la postérité d’ « Hermès » débouche, entre bien d’autres choses, sur les activités de « Religiologiques » de Gilbert Durand ou sur les travaux d’Henri Corbin sur l’islam persan, et surtout qu’elle aurait pu démarrer tout de suite après l’écoeurante éviction de Giorgio Locchi, germaniste et musicologue, qui avait donné à « Nouvelle école » son lustre initial, éviction qu’Eemans ignorait : les arts et la musique ont de fait été quasiment absents des spéculations néo-droitistes qui ont vite viré au parisianisme jargonnant et « sociologisant » (dixit feu Jean Parvulesco), surtout après la constitution du tandem de Benoist/Champetier à la veille des années 90, tandem qui durera un peu moins d’une douzaine d’années.

 

La brève entrevue entre le « Pape » de la « nouvelle droite » et Eemans, à la « Librairie de Rome » de Bruxelles, n’a donc rien donné : un nouveau dépit pour notre surréaliste de Termonde, qui, une fois de plus, s’est heurté à des limites, à des lacunes, à une incapacité de clairvoyance, de lungimiranza, chez un individu qui s’affichait alors comme le grand messie de la culture refoulée. Cela a dû rappeler à notre peintre l’incompréhension des surréalistes bruxellois devant son exposé sur Sœur Hadewych…

 

Eemans m’en a voulu d’être parti, quelques jours plus tard, à Paris pour prendre mon poste de « secrétaire de rédaction » de « Nouvelle école ». Eemans jugeait sans doute que l’ambiance de Paris, vu le comportement malgracieux d’Alain de Benoist, n’était pas propice à la réception de thèmes propres à nos Pays-Bas ou à l’histoire de l’art et des avant-gardes ou encore aux mystiques médiévale et persane ; sans doute a-t-il cru que j’avais mal préparé la rencontre avec le « Pape » de la « nouvelle droite », qu’en ‘audience’ je ne lui avais pas assez parlé d’ « Hermès » ; quoi qu’il en soit, pour l’incapacité à réceptionner de manière un tant soit peu intelligente les thématiques chères à Eemans, notre surréaliste réprouvé avait raison : de Benoist se targue d’être une sorte d’Encyclopaedia Britannica sur pattes, en chair (flasque) et en os, mais il existe force thématiques qu’il ne pige pas, auxquelles il n’entend strictement rien ; de plus, Eemans estimait que « monter à Paris » était le propre, comme il me l’a écrit, furieux, d’un « Rastignac aux petits pieds » : ma place, pour lui, était à Bruxelles, et non ailleurs. Mais, heureusement, mon escapade parisienne, dans l’antre du « snobinard tout en mauve », n’a duré que neuf mois. Revenu en terre brabançonne, je n’ai plus jamais ravivé l’ire d’Eemans. Et c’est juste, la sagesse populaire ne nous enseigne-t-elle pas « Oost West - Thuis best ! » ?

 

Vienne et Zürich/Frauenfeld

 

Ma première activité strictement évolienne date de 1998, année du décès de Marc. Eemans. Evola suscitait à l’époque de plus en plus d’intérêt en Allemagne et en Autriche, grâce, notamment, aux efforts du Dr. T. H. Hansen, traducteur et exégète du penseur traditionaliste. Du coup, toutes les antennes germanophones de « Synergies Européennes » voulaient marquer le coup et organiser séminaires et causeries pour le centième anniversaire de la naissance du Maître. Au printemps de 1998, j’ai donc été appelé à prononcer à Vienne, dans les locaux de la « Burschenschaft Olympia », une allocution en l’honneur du centenaire de la naissance d’Evola ; on avait choisi Vienne parce qu’Evola adorait cette capitale impériale et y avait reçu, en 1945, pendant le siège de la ville, l’épreuve doublement douloureuse de la blessure et de la paralysie : un mur s’est effondré, brisant définitivement la colonne vertébrale de Julius Evola. A Vienne, il y avait, à la tribune, le Dr. Luciano Arcella (qui a tracé des parallèles entre Spengler, Frobenius et Evola dans leurs critiques de l’Occident), Martin Schwarz (toujours animateur de sites traditionalistes avec connotation islamisante assez forte), Alexandre Miklos Barti (sur la renaissance évolienne en Hongrie) et moi-même. J’ai essentiellement mis l’accent sur l’idée-force d’ « homme différencié » et entamé une exploration, non encore achevée treize ans après, des textes d’Evola où celui-ci fut le principal « passeur » des idées de la « révolution conservatrice » allemande en Italie. Cette exploration m’a rendu conscient du rôle essentiel joué par les avant-gardes provocatrices des années 1905-1935 : il faut bien comprendre ce rôle clef pour saisir correctement toute approche de l’école traditionaliste, qui en procède tant par suite logique que par rejet. En effet, on ne peut comprendre Evola et Eemans que si l’on se plonge dans les vicissitudes de l’histoire du dadaïsme, du surréalisme et de ses avatars philosophiques non communisants en marge de Breton lui-même, et du vorticisme anglo-saxon. Les éditions « L’Age d’Homme » offrent une documentation extraordinaire sur ces thèmes, dont la revue « Mélusine » et quelques bons dossiers « H ». En 1999, à Zürich/Frauenfeld, j’ai prononcé à nouveau cette même allocution de Vienne, en y ajoutant combien la notion d’ « homme différencié », proche de celle d’ « anarque » chez Ernst Jünger, a été cardinale pour certains animateurs non gauchistes de la révolte étudiante italienne de 1968. En Italie, en effet, grâce à Evola, surtout à son « Chevaucher le Tigre », le mouvement contestataire n’a pas entièrement été sous la coupe des interprètes simplificateurs de l’ « Eros et la civilisation » d’Herbert Marcuse. Dans les legs diffus de cette révolte étudiante-là, on peut, aujourd’hui encore, aller chercher tous les ingrédients pratiques d’une révolte qui s’avèrerait bien vite plus profonde et plus efficace dans la lutte contre le système, une révolte efficace qui exaucerait sans doute au centuple les vœux de Tzara et de Breton…  

 

Deux mémoires universitaires ont été consacrés tout récemment en Flandre à Evola, celui de Peter Verheyen, qui expose un parallèle entre l’auteur flamand Ernest van der Hallen et Julius Evola, et celui de Frédéric Ranson, intitulé « Julius Evola als criticus van de moderne wereld » (4). Ranson prononce souvent des conférences en Flandre sur Julius Evola, au départ de son mémoire et de ses recherches ultérieures. En Wallonie, en Pays de Liège, l’homme qui poursuit une quête traditionnelle au sens où l’entendent les militants italiens depuis le début des années 50 ou dans le sillage de « Terza Posizione » de Gabriele Adinolfi est Philippe Banoy. La balle est désormais dans leur camp : ce sont eux les héritiers potentiels de Vercauteren et d’Eemans. Mais des héritiers qui errent dans un champ de ruines encore plus glauque qu’à la fin des années 70. Un monde où les dernières traces de l’arèté grec semblent avoir définitivement disparu, sur fond de partouze festiviste permanente, de niaiserie et d’hystérie médiatiques ambiantes et d’inculture généralisée.

 

Evola, Eemans et la plupart des traditionalistes historiques de leur époque sont morts. Jean Parvulesco vient de nous quitter en novembre 2010. Un mouvement authentiquement traditionaliste doit-il se complaire uniquement dans la commémoration ? Non. Le seul à avoir repris le flambeau, avec toute l’autonomie voulue, demeure un inconnu chez nous dans la plupart des milieux situés bon an mal an sur le point d’intersection entre militance politique et méditation métaphysique : je veux parler de l’Espagnol Antonio Medrano, perdu de vue depuis ses articles dans la revue « Totalité » de Georges Gondinet. Ce mois-ci, en me promenant pour la première fois de ma vie dans les rues de Madrid, je découvre une librairie à un jet de pierre de la Plaza Mayor et de la Puerta del Sol qui vendait un ouvrage assez récent de Medrano. Quelle surprise ! Il est consacré à la notion traditionnelle d’honneur. Et la jaquette mentionne plusieurs autres ouvrages d’aussi bonne tenue, tous aux thèmes pertinents (5). Aujourd’hui, il conviendrait de fonder un « Centre d’Etudes doctrinales Evola & Medrano », de manière à faire pont entre un ancêtre « en absence » et un contemporain, qui, dans le silence, édifie une œuvre qui, indubitablement, est la poursuite de la quête. 

 

MAUGIS-8251-1995-4.jpgEnfin, il ne faut pas oublier de mentionner qu’Eemans survit, sous la forme d’une figure romanesque, baptisée Arminius, dans le roman initiatique de Christopher Gérard (6), rédigé après l’abandon, que j’estime malheureux, de sa revue « Antaios ». Arminius/Eemans y est un mage réprouvé (« après les proscriptions qui ont suivi les grandes conflagrations européennes »), ostracisé, qui distille son savoir au sein d’une confrérie secrète, plutôt informelle, qui, à terme, se donne pour objectif de ré-enchanter le monde (couverture du livre de Christopher Gérard avec, pour illustration, le plus beau, le plus poignant des tableaux d'Eemans: le Pélerin de l'Absolu).

 

Pour conclure, je voudrais citer un extrait extrêmement significatif de la monographie que le Prof. Piet Tommissen a consacré à Marc. Eemans, extrait où il rappelait combien l’œuvre de Julius Langbehn avait marqué notre surréaliste de Termonde : « Au moment où il préparait son recueil ‘Het bestendig verbond’ en vue de publication, Eemans fit d’ailleurs la découverte, grâce à son ami le poète flamand Wies Moens, du livre posthume ‘Der Geist des Ganzen’ de Julius Langbehn (1851-1907) (…) Langbehn y analyse le concept de totalité à partir de la signification du mot grec ‘Katholon’. Selon lui, le ‘tout’ travaille en fonction des parties subordonnées et se manifeste en elles tandis que chaque partie travaille dans le cadre du ‘tout’ et n’existe qu’en fonction de lui. Le ‘mal’ est déviation, négation ou haine de la totalité organique dans l’homme et dans l’ordre temporel ; le ‘mal’ engendre la division et le désordre, aussi tout ce qui s’oppose à l’esprit de totalité crée tension et lutte. Pour que l’esprit de totalité règne, il faut que disparaisse la médiocrité intellectuelle car elle est le fruit d’hommes sans épine dorsale ou caractère et sans attaches avec la source de toute créativité qu’est la vie vraiment authentique de celui qui assume la totalité de sa condition humaine. Langbehn rappelle que les mots latins ‘vis’, ‘vir’ et ‘virtus’, soit force, homme et vertu, ont la même racine étymologique. Oui, l’homme vraiment homme est en même temps force et vertu, et tend ainsi vers le surhomme, par les voies d’un retour aux sources tel que l’entend le mythe d’Anthée ». Dans ces lignes, l’esprit averti repèrera bien des traces, bien des indices, bien des allusions…

 

(propos recueillis en avril et en mai 2011).

 

Bibliographie :

 

-          Gérard DUROZOI, Histoire du mouvement surréaliste, Hazan, Paris, 1997 (Eemans est totalement absent de ce volume).

-          Marc. EEMANS, La peinture moderne en Belgique, Meddens, Bruxelles, 1969.

-          Piet TOMMISSEN, Marc. Eemans – Un essai de biographie intellectuelle, suivi d’une esquisse de biographie spirituelle par Friedrich-Markus Huebner et d’une postface de Jean-Jacques Gaillard, Sodim, Bruxelles, 1980.

-          André VIELWAHR, S’affranchir des contradictions – André Breton de 1925 à 1930, L’Harmattan, Paris, 1998.

 

 

Notes :

 

(1)     Geert WARNAR, Ruusbroec – Literatuur en mystiek in de veertiende eeuw, Athenaeum/Polak & Van Gennep, Amsterdam, 2003 ; Paul VERDEYEN, Jan van Ruusbroec – Mystiek licht uit de Middeleeuwen, Davidsfonds, Leuven, 2003.

(2)     Jacqueline KELEN, Hadewych d’Anvers et la conquête de l’Amour lointain, Albin Michel, Paris, 2011. 

(3)     Mis à toutes les sauces, fort sollicité, j’ai également organisé ce jour-là un entretien entre Alain de Benoist et le regretté Alain Derriks, alors pigiste dans la revue du ministre Lucien Outers, « 4 millions 4 ». Soucieux de servir d’écho à tout ce qui se passait à Paris, le francophile caricatural qu’était Outers avait autorisé Derriks à prendre un interview du leader de la « Nouvelle Droite » qui faisait pas mal de potin dans la capitale française à l’époque. On illustra les deux ou trois pages de l’entretien d’une photo d’Alain de Benoist, les bajoues plus grassouillettes en ce temps-là et moins décharné qu’aujourd’hui (le « Fig Mag » payait mieux…), tirant goulument sur un long et gros cigare cubain.

(4)     Frederik RANSON, « Julius Evola als criticus van de moderne wereld », RUG/Gent ; promoteur : Prof. Dr. Rik Coolsaet – année académique 2009-2010 ; Peter VERHEYEN, « Geloof me, we zijn zat van deze beschaving » - de performatieve cultuurkritiek van Ernest van der Hallen en Julius Evola tijdens het interbellum », RUG/Gent ; promoteur : Rajesh Heynick – année académique 2009-2010.

(5)     Le livre découvert à Madrid est : Antonio Medrano, La Senda del Honor, Yatay, Madrid, 2002. Parmi les livres mentionnés sur la jaquette, citons : La lucha con el dragon (sur le mythe universel de la lutte contre le dragon), La via de la accion, Sabiduria activa, Magia y Misterio del Liderazgo – El Arte de vivir en un mondi en crisis, La vida como empressa, tous parus chez les même éditeur : Yatay Ediciones, Apartado 252, E-28.220 Majadahonda (Madrid) ; tél. : 91.633.37.52. La librairie de Madrid que j’ai visitée : Gabriel Molina – Libros antiguos y modernos – Historia Militar, Travesia del Arenal 1, E-28.013 Madrid – Tél/Fax : 91.366.44.43 – libreriamolina@yahoo.es . 

(6)     Christopher GERARD, Le songe d’Empédocle, L’Age d’Homme, Lausanne, 2003. 

          

samedi, 21 mai 2011

Evola e il mondo di lingua tedesca

Evola e il mondo di lingua tedesca

Alberto Lombardo

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

evola_envers_cong.pngLa Germania e in genere il mondo di cultura tedesca ebbero per Evola un’importanza centrale. Sin da giovanissimo questi apprese il tedesco per avvicinarsi alle opere della filosofia idealistica; la sua dottrina filosofica deve molto all’idealismo, ma ancor più a Nietzsche, Weininger e Spengler. Nel 1933 compì il suo primo viaggio in Austria ; per tutti gli Anni ’30 e ’40 continuò a tenersi aggiornato leggendo saggî scientifici in lingua tedesca sui diversi argomenti dei quali si occupava: dalla romanità antica (Altheim) alla preistoria (Wirth, Günther), dall’alchimia (Böhme) alle razze (Clauß, ancora Günther), dalla teoria politica (Spann, Heinrich) all’economia (Sombart) e via dicendo. In generale, considerando gli apparati di note, i riferimenti culturali e in un bilancio che tenga conto di tutti gli apporti non mi sembra affatto di esagerare sostenendo che il peso degli studi pubblicati in tedesco sia nell’opera complessiva di Evola almeno pari a quello di quelli italiani.

Tutto questo è già assai indicativo dell’influenza della cultura tedesca sull’opera di Evola. Vanno aggiunti però altri dati: richiamando qui quanto accennato in sede biografica nel capitolo primo, ricordo i lunghi soggiorni di Evola in Austria e Germania, le numerose conferenze ivi tenute, i rapporti con esponenti della tradizione aristocratica e conservatrice mitteleuropea e della Konservative Revolution etc . Inoltre nei paesi di lingua tedesca Evola godette, almeno sino alla fine della seconda guerra mondiale, di una notorietà diversa da quella che ebbe in Italia, poiché vi fu accolto quasi come l’esponente di una particolare corrente di pensiero italiana, e ciò sin dal 1933, anno della pubblicazione di Heidnischer Imperialismus . Questo il giudizio in merito di Adriano Romualdi: «L’azione di Evola in Germania non fu politica, anche se contribuì a dissipare molti equivoci e a preparare un’intesa tra Fascismo e Nazionalsocialismo. Essa investì il significato di quelle tradizioni cui in Italia e in Germania si richiamavano i regimi, il simbolo romano e il mito nordico, il significato di classicismo e romanticismo, o di contrapposizioni artificiose, come quella tra romanità e germanesimo» .

Dal 1934 Evola tiene conferenze in Germania: in un’università di Berlino, al secondo nordisches Thing a Brema, e all’Herrenklub di Heinrich von Gleichen, rappresentante dell’aristocrazia tedesca (era barone) col quale stabilì una «cordiale e feconda amicizia» . Così Evola ricordò nel 1970 quest’importante esperienza: «ogni settimana si invitava una personalità tedesca o internazionale in quel circolo di Junkers. Devo dire peraltro che, se ci fossimo aspettati di vedere dei giganti biondi con gli occhi azzurri la delusione sarebbe stata grande, poiché per la maggior parte erano piccoli e panciuti. Dopo la cena e il rituale dei toasts, l’invitato doveva tenere una conferenza. Mentre questi signori fumavano il loro sigaro e sorseggiavano il loro bicchiere di birra, io parlavo. Fu allora che Himmler sentì parlare di me» .
È effettivamente assai verosimile che l’attenzione da parte degli ambienti ufficiali per Evola sia nata in seguito alle prime conferenze in Germania. I suoi rapporti col nazionalsocialismo furono di collaborazione esterna, e specialmente con diversi settori delle SS tra cui l’Ahnenerbe ; Evola espresse nei confronti dell’“ordine” guidato da Himmler parole assai positive , anche nel dopoguerra , che da una parte gli valsero i prevedibili (e fors’anche scontati) strali dei suoi detrattori, dall’altra determinarono una rilettura – in seno alla storiografia e allo stesso “sentimento del mondo” della Destra Radicale del dopoguerra – del nazionalsocialismo come di un movimento popolare guidato da un’élite ascetico-guerriera . Dagli ormai numerosi dati d’archivio pubblicati, risulta un quadro di Evola tenuto in considerazione ma sempre osservato con cura dagli ambienti ufficiali tedeschi .

Dopo il conflitto mondiale la notorietà di Evola nei paesi di lingua tedesca andò scemando; la sua immobilità fisica pare che gli impedì, tra l’altro, ulteriori viaggi all’estero. Solo negli ultimi decenni Evola è stato fatto oggetto di una sorta di riscoperta, per merito soprattutto di Hans Thomas Hansen, che ne ha tradotto (e ritradotto) la buona parte delle opere, con il consenso dello stesso Evola quando questi era ancora in vita, e che viene giustamente considerato uno dei massimi conoscitori del pensiero e della vita di Evola. Oltre alla rivista da questi fondata e animata, «Gnostika» (che come suggerisce il titolo ha interessi prevalentemente esoterici), negli ultimissimi anni stanno nascendo diverse attività che si ispirano in vario modo all’opera di Evola, tra le quali meritano una menzione le riviste tedesche «Elemente» e «Renovatio Imperii» e soprattutto l’austriaca «Kshatriya», diretta da Martin Schwarz (autore della più ampia bibliografia evoliana sino a oggi stilata ), di più marcata impronta “evoliana ortodossa”. A margine di ciò, si stanno iniziando a tenere convegni sul pensatore e a tradurre sue ulteriori opere. Inoltre il centenario della nascita di Evola, nel 1998, è stato occasione per varie testate tedesche per ricordarlo con ampi articoli, tra cui quelli apparsi sulla storica «Nation & Europa» (che esce ormai da mezzo secolo, e cui nei primi Anni ’50 lo stesso Evola collaborò), «Criticn» e la prestigiosa «Zeitschrift für Ganzheitforschung», altra rivista cui Evola collaborò (nei primi Anni ’60) e che fu fondata e lungamente diretta da Walter Heinrich (sino alla morte di questi, avvenuta nel 1984), che era in grande amicizia con Evola. Come curiosità, segnaliamo che per l’occasione numerosi complessi e gruppi musicali tedeschi e austriaci hanno dedicato nel centenario allo scrittore tradizionalista un disco, intitolato Cavalcare la tigre.

* * *

Sebbene alcuni elementi politici della storia d’Italia e di quella tedesca appaiano affini, (il processo di unificazione nazionale avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento, la comune partecipazione alla Triplice Alleanza, l’Asse Roma-Berlino), Evola individua nella “tradizione germanica” dei tratti che differenziano nettamente – in senso positivo – i paesi di lingua tedesca dall’Italia. Così anzitutto «può dirsi che in Germania il nazionalismo democratico di massa di tipo moderno non fece che una fuggevole apparizione. […]. Il nazionalismo in tal senso, con un fondo democratico, non andò oltre il fugace fenomeno del parlamento di Francoforte del 1848, in connessione con i moti rivoluzionari che in quel periodo imperversavano in tutta l’Europa (è significativo che il re di Prussia Federico Guglielmo IV rifiutò l’offerta, fattagli da quel parlamento, di mettersi a capo di tutta la Germania perché accettandola egli avrebbe anche accettato il principio democratico – il potere conferito da una rappresentanza popolare – rinunciando al suo diritto legittimistico, sia pure ristretto alla sola Prussia). E Bismarck, creando il secondo Reich, non gli diede affatto una base “nazionale”, vedendo nella corrispondente ideologia il principio di pericolosi disordini anche dell’ordine europeo, mentre i conservatori della Kreuzzeitung accusarono nel nazionalismo un fenomeno “naturalistico” e regressivo, estraneo ad una più alta tradizione e concezione dello Stato» . Estranei a questa forma “naturalistica” di nazionalismo, i paesi di lingua tedesca cullarono un diverso spirito, quello del Volk, che animò lo spirito pangermanico. La corrente völkish, che un notevole peso ebbe anche nella genesi del nazionalsocialismo, affondava le sue radici nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte, in Arndt, Jahn e Lange e soprattutto nel Deutschbund e nella deutsche Bewegung . In questa diversità di retroterra si ha la prima divaricazione tra Italia e Germania.

Ma le differenze di ambiente sono assai più nette. Nel suo saggio sul Terzo Reich, delineando le correnti culturali complesse e spesso irriducibili che cooperarono nella sua genesi, Evola scrive: «Dopo la prima guerra mondiale in Germania la situazione era sensibilmente diversa da quella dell’Italia. […] Mussolini dovette creare quasi dal nulla, nel senso che nel punto di combattere la sovversione rossa e di rimettere in piedi lo Stato non poteva rifarsi ad una tradizione nel senso più alto del termine. Tutto sommato, ad essere minacciato era solo il prolungamento dell’Italietta democratica ottocentesca, con un retaggio risorgimentale risentente delle ideologie della Rivoluzione Francese, con una monarchia che regnava ma non governava e senza salde articolazioni sociali. In Germania le cose stavano altrimenti. Anche dopo il crollo militare e la rivoluzione del 1918 e malgrado il marasma sociale sussistevano resti aventi radici profonde in quel mondo gerarchico, talvolta ancora feudale, incentrato nei valori dello Stato e della sua autorità, facenti parte della precedente tradizione, in particolare del prussianesimo. […]. In effetti, nell’Europa centrale le idee della Rivoluzione Francese non presero mai tanto piede quanto nei restanti paesi europei» .

evola_julius_-_meditations_on_the_peaks.jpgIn un’occasione Evola cita la teoria giuridica di Carl Schmitt dell’international law . Il filosofo della politica tedesco aveva espresso l’idea della caduta del diritto internazionale europeo consuetudinario avvenuta, all’incirca, dopo il 1890, e la conseguente affermazione di un diritto internazionale più o meno ufficializzato. «Noi però qui non siamo interamente del parere dello Schmitt», scrive Evola, spiegando che «di contro all’opinione di molti, nei riguardi dell’azione svolta da Bismarck, sia all’interno della Germania che in Europa, non tutte le cose sono “in ordine”. […]. Più che Bismarck, a noi sembra che, se mai, Metternich sia stato l’ultimo “Europeo”, vale a dire l’ultimo uomo politico che seppe sentire la necessità di una solidarietà delle nazioni europee non astratta, o dettata solo da ragioni di politica “realistica” e da interessi materiali, ma rifacentesi anche a delle idee e alla volontà di mantenere il migliore retaggio tradizionale dell’Europa» . Contrariamente a quanto sostenuto da Baillet , Evola fu dunque piuttosto critico nei confronti di Bismarck, che non ebbe, secondo la visione tradizionale evoliana, il coraggio di opporsi in modo sistematico e rigoroso al mondo moderno e della sovversione (nella sua forma economico-capitalistica), ma dovette in alcuni casi venire a patti con esso.

La stessa Germania federiciana e poi guglielmina, seppur conservante le strutture e l’ordine di uno stato tradizionale, nel quale la stessa burocrazia e l’apparato statale apparivano quasi come corpi di un ordine, conteneva i germi della dissoluzione, dovuti alle idee illuministe che avevano iniziato a filtrare – in modo più larvato che altrove – presso le varie corti. Se il giudizio evoliano nei confronti del codice federiciano conservante l’ordinamento diviso negli Stände è positivo, ciò è poiché, per l’epoca in cui sorse, quel codice conservava meglio d’ogni altro le strutture feudali e gerarchiche precedenti. Esse, tramite la tradizione prussiana, affondavano nell’Ordine dei cavalieri teutonici e nella loro riconquista delle terre baltiche: un ordine ascetico-cavalleresco formato da una disciplina e da una severa organizzazione gerarchica. Così, sin da giovanissimo Evola intuì l’assurdità della “guerra civile europea” che, come ufficiale, egli andava a combattere sulla frontiera carsica: l’Italia si schierava cioè contro ciò che restava della migliore tradizione europea. «Nel 1914 gli Imperi Centrali rappresentavano ancora un resto dell’Europa feudale e aristocratica nel mondo occidentale, malgrado innegabili aspetti di egemonismo militaristico ed alcune alleanze sospette col capitalismo presenti soprattutto nella Germania guglielmina. La coalizione contro di essi fu dichiaratamente una coalizione del Terzo Stato contro le forze residue del Secondo Stato […]. Come in poche altre della storia, la guerra del 1914-1918 presenta tutti i tratti di un conflitto non fra Stati e nazioni, ma fra le ideologie di diverse caste. Di essa, i risultati diretti e voluti furono la distruzione della Germania monarchica e dell’Austria cattolica, quelli indiretti il crollo dell’impero degli Czar, la rivoluzione comunista e la creazione, in Europa, di una situazione politico-sociale talmente caotica e contraddittoria, da contenere tutte le premesse per una nuova conflagrazione. E questa fu la seconda guerra mondiale» .

Come accennato, anche nei confronti della tradizione dell’Austria Evola espresse un giudizio marcatamente positivo. La stessa linea dinastica degli Asburgo ebbe un ruolo di rilievo in questa valutazione (Evola si era espresso in termini molto positivi nei confronti di Massimiliano I) ; nel periodo in cui visse a Vienna Evola respirò ciò che restava dell’atmosfera antica dell’Austria felix, e venne in contatto con quella temperie culturale e spirituale e soprattutto con uomini in cui, per usare le parole di Ernst Jünger, «la catastrofe aveva certo lasciato le sue ombre […], ma si era limitata a distruggerne la serenità innata senza distruggerla. A tratti scorgevamo […] una patina di quella sofferenza che potremmo definire austriaca e che è comune a tanti vecchi sudditi dell’ultima vera monarchia. Con essa venne distrutta una forma del piacere di vivere che negli altri paesi europei già da generazioni era diventata inimmaginabile, e le tracce di questa distruzione si avvertono ancora nei singoli individui. […]. Da noi nel Reich, se si prescinde dal generale esaurimento delle forze, si incominciava a notare tutt’al più la disparità degli strati sociali; qui invece si erano aperte, come voragini, le differenze tra le varie etnie» . In questo humus storico degli anni compresi tra le due guerre, in cui ancora forti erano i legami sentimentali ed etici di molti con la precedente tradizione imperiale – la monarchia asburgica d’Austria aveva almeno formalmente conservato, sino al Congresso di Vienna, la titolarità del Sacro Romano Impero – Evola ebbe anche modo di percepire direttamente l’attaccamento diffuso a livello popolare alla monarchia , e lo spiegò in questi termini: «Senza riesumare forme anacronistiche, invece di una propaganda che “umanizzi” il sovrano per accattivare la massa, quasi sulla stessa linea della propaganda elettorale presidenziale americana, si dovrebbe vedere fino a che punto possano avere un’azione profonda i tratti di una figura caratterizzata da una certa innata superiorità e dignità, in un quadro adeguato. Una specie di ascesi e di liturgia della potenza qui potrebbero avere una loro parte. Proprio questi tratti, mentre rafforzeranno il prestigio di chi incarna un simbolo, dovrebbero poter esercitare sull’uomo non volgare una forza d’attrazione, perfino un orgoglio nel suddito. Del resto, anche in tempi abbastanza recenti si è avuto l’esempio dell’imperatore Francesco Giuseppe che, pur frapponendo fra sé e i sudditi l’antico severo cerimoniale, pur non imitando per nulla i re “democratici” dei piccoli Stati nordici, godette di una particolare, non volgare popolarità» . In questo stesso senso nel 1935, scrivendo a proposito della possibilità di una restaurazione regale in Austria, Evola riferisce ciò che gli esponenti del pensiero conservatore e monarchico in quel paese sostenevano: «La premessa, intanto, è quella a cui ogni mente non ingombra di pregiudizî può anche aderire, cioè che il regime monarchico, in generale, è quello che più può garantire un ordine, un equilibrio e una pacificazione interna, senza dover ricorrere al rimedio estremo della dittatura e dello Stato centralizzato, sempreché nei singoli sussista la sensibilità spirituale richiesta da ogni lealismo. Questa condizione, secondo dette personalità, sarebbe presente nella gran parte della popolazione austriaca, se non altro, per la forza di una tradizione e di uno stile di vita pluricentenario» .

Il problema dell’Anschluss, dell’annessione dell’Austria alla Germania naizonalsocialista, fu negli anni che lo precedettero al centro di un ampio dibattito internazionale. Giuristi e politici lo affrontarono da diversi punti di vista; Evola non fu in concordanza di vedute, su questo tema, con l’amico Othmar Spann, che, scriveva Evola, per la coraggiosa coerenza delle sue idee non era ben visto né in Austria né in Germania. Scrivendo sul sociologo viennese, Evola affermava: «gli Austriaci non perdonano le sue simpatie per la Germania, mentre i Tedeschi non gli perdonano le critiche da lui mosse al materialismo razzista» . Ampliando alla scuola organicistica viennese e al mondo culturale austriaco il suo sguardo, Evola ne esponeva in questi termini le vedute: «Non ci si può rassegnare a far scendere una nazione, che ha la tradizione che l’Austria ha avuto, al livello di un piccolo Stato balcanico. Qui non si fa quistione della mera autonomia politica, si fa essenzialmente quistione di cultura e di tradizione. Storicamente, la civiltà austriaca è indisgiungibile da quella germanica. Non è possibile che oggi l’Austria a tale riguardo si emancipi e cominci a far da sé. Proprio perché essa è stata menomata, ridotta ad un’ombra di quel che essa fu precedentemente, le si impone di connettersi nel modo più stretto alla Germania, appoggiarsi ad essa, trarre da essa gli elementi che possono garantire l’integrità della sua eredità tedesca». Proseguiva Evola sostenendo che dal lato positivo l’Austria avrebbe avuto molto a sua volta da trasmettere alla Germania sotto il profilo della tradizione culturale. Ma di là dal piano squisitamente intellettuale, «Nel dominio delle tradizioni politiche l’antitesi è ancor più visibile. Vi sarebbe infatti da chiedere a questi intellettuali germanofili che cosa essi pensino quando parlano di tradizione austro-tedesca. La tradizione austriaca era una tradizione imperiale. Erede del Sacro Romano Impero, il Reich austriaco, formalmente almeno, non poteva dirsi tedesco. Di diritto, era supernazionale, e di fatto esso sovrastava un gruppo di popoli assai diversi come razza, costumi e tradizioni, gruppo nel quale l’elemento tedesco non figurava che come parte. Nemmeno giova dire che purtuttavia la direzione dell’impero austriaco era intonata in senso tedesco e faceva capo ad una dinastia tedesca. Dal punto di vista dei principî ciò conta così poco quanto il fatto che i rappresentanti del principio supernazionale della Chiesa Romana siano stati in larga misura italiani. Se si deve parlare di tradizione austriaca», concludeva Evola, «è ad una tradizione imperiale che bisogna riferirsi. Ora, che cosa può avere a che fare una tale tradizione con la Germania, se Germania oggi vuol dire nazionalsocialismo?» . Francesco Germinario ha scritto a tale proposito che per Evola «un’Austria legata alle radici cattoliche, e in cui, soprattutto, rimaneva ancora vivo il ricordo degli Asburgo, era molto più vicina ai valori della Tradizione rispetto a una Germania travolta dalla nuova ondata di modernizzazione promossa dal nazismo» .

Si esprimevano in questi termini già nel 1935 le posizioni critiche di Evola nei confronti del nazismo, di cui il filosofo tradizionalista accusava gli eccessi populistici, sociali e di sinistra. Il tono in questo caso è particolarmente critico perché il raffronto è con l’Austria, nella quale Evola vedeva appunto l’erede spirituale della più alta tradizione europea. D’altronde, si tratta di una linea interpretativa e storiografica apprezzabile, e che Evola mantenne anche nel dopoguerra, tendendo a separare i diversi elementi e le varie correnti che operarono nel nazionalsocialismo per giudicarli separatamente . Concludeva dunque la sua lettura politica della situazione internazionale affermando: «Se non ci si vuole rassegnare alla perdita dell’antica tradizione supernazionale centro-europea, l’Austria più che verso la Germania dovrebbe volgere i suoi sguardi verso gli Stati successori, nel senso di vedere fino a che punto è possibile ricostruire una comune coscienza centro-europea come base non solo della soluzione di importantissimi problemi economici e commerciali ma eventualmente […] anche della formulazione di un nuovo principio politico unitario di tipo tradizionale» .

Nei confronti della seconda guerra mondiale, il cui esito indubbiamente Evola vedeva come l’ultima fase del crollo epocale della civiltà europea, lo scrittore tradizionalista denunciava le colpe morali delle potenze occidentali: «a Himmler si deve un tentativo di salvataggio in extremis (considerato da Hitler come un tradimento). Pel tramite del Conte Bernadotte egli tramise una proposta di pace separata agli Alleati occidentali per poter continuare la guerra soltanto contro l’Unione Sovietica e il comunismo. Si sa che tale proposta, la quale, se accettata, forse avrebbe potuto assicurare all’Europa un diverso destino, evitando la successiva “guerra fredda” e la comunisticizzazione dell’Europa di là dalla “cortina di ferro”, fu nettamente respinta in base ad un cieco radicalismo ideologico, come era stata respinta, per un non diverso radicalismo, l’offerta di pace fatta da Hitler di sua iniziativa all’Inghilterra in termini ragionevoli in un famoso discorso dell’estate del 1940 quando i Tedeschi erano la parte vincente» .

Anche dopo la seconda guerra mondiale Evola mantenne un occhio di riguardo nei confronti dei paesi di lingua tedesca. La sua visione fu di ammirazione nei confronti della nuova resurrezione economica operata dai Tedeschi dopo la distruzione del secondo dopoguerra («questa nazione ha saputo completamente rialzarsi di là da distruzioni senza nome. Perfino in regime di occupazione essa ha sopravvanzato le stesse nazioni vincitrici sul piano industriale ed economico riprendendo il suo posto di grande potenza produttrice») , e per il coraggio col quale la Repubblica federale aveva bandito il pericolo comunista dalla sua politica («I Tedeschi fanno sempre le cose con coerenza. Così anche nel giuoco di osservanza democratica. Essi hanno messo su una democrazia-modello come un sistema “neutro” – diremmo quasi amministrativo, più che politico – equilibrato ed energico a un tempo. A differenza dell’Italia, la Germania proprio dal punto di vista di una democrazia coerente ha messo al bando il comunismo. La Corte Costituzionale tedesca ha statuito ciò che corrisponde all’evidenza stessa delle cose, ossia che un partito che, come quello comunista, segue le regole democratiche soltanto in funzione puramente tattica e di copertura, per scopo finale dichiarato avendo invece la soppressione di ogni contrastante corrente politica e la dittatura assoluta del proletariato, non può essere tollerato da uno Stato democratico che non voglia scavare la fossa a sé stesso») . Ma, ciò nonostante, la guerra aveva ormai prodotto un vacuum, un vuoto spirituale non più colmato: «Di contro a tutto ciò, stupisce, nella Repubblica Federale, la mancanza di qualsiasi idea, di qualsiasi “mito”, di qualsiasi superiore visione del mondo, di qualsiasi continuità con la precedente Germania» . Anche nel campo della cultura, Evola ravvisa un generale franamento, una sorta di generale “venire meno” alle posizioni coraggiose e d’avanguardia tenute dall’intellettualità tedesca negli anni – ad avviso di Evola, assai floridi e proficui sotto il profilo culturale – del Reich nazionalsocialista. Nel suo giudizio negativo Evola prende come esempio di questo crollo Gottfried Benn ed Ernst Jünger (cadendo con ciò in errori di veduta piuttosto grossolani ).

 

* * *

 

Da Vie della Tradizione 125 (2002), pp. 37-50.
Il presente articolo è stato ripubblicato privo delle note a pié pagina.

samedi, 14 mai 2011

Wende, een interessant uitgesproken heidens tijdschrift

Wende, een interessant uitgesproken heidens tijdschrift

 

Ex: Deltanieuwsbrief nr. 47 - Mei 2011

Men kent onze bezwaren tegen bepaalde vormen van modern heidendom, die eigenlijk meer te maken hebben met een folkloristische beleving van iets dat er misschien in die vormen nooit is geweest. Bepaalde vormen van modern heidendom moeten inderdaad gezien worden als een emanatie van de “Tweede religiositeit”, zoals Oswald Spengler ze meende te moeten omschrijven. En bij Wende was ik bepaald op mijn hoede, op mijn ‘qui-vive’ door de vrij bombastische omschrijving als het halfjaarlijks “Odalistisch vormingsblad van de Werkgroep Hagal”.

Mijn oorspronkelijke scepsis verdween weliswaar toen ik het tijdschrift aandachtig begon te lezen. Twee bijdragen trokken mijn bijzondere aandacht als ‘leek’ op het vlak van heidendom: een bijdragen waarin de (Noord-) Franse groep Les Fils d’Odin werden voorgesteld en een artikel over Heidendom en ecologie.

Les Fils d’Odin werd opgericht in 2004 en als vereniging in 2006 door een zekere Josselin De Jonckheere – iemand met Vlaamse wortels dus. Uit het sympathiek interview halen wij volgend citaat, het antwoord op de vraag naar de bedoeling van de vereniging: “Het doel van onze vereniging is om zoveel mogelijk mensen te laten kennismaken met onze tradities. Dit is meer een soort van ‘laten herontdekken’ dan een ‘bekeren’. Wij hebben absoluut geen hoge hoed op met proselitisme. We streven naar een heropleving van de tradities, niet alleen in de besloten kring, maar ook in het openbaar en in de meest ruime zin van het woord”. Geen missionarissen dus op zieltjesjacht: altijd sympathiek, vind ik.

En uit de bijdrage over heidendom en ecologie geef ik u graag volgend citaat van Nick Krekelbergh mee: “Het is dan ook wellicht vanuit een combinatie van hedendaags wetenschappelijk inzicht en een ethische basishouding die afkomstig is vanuit de tradities van onze voorouders, dat een nieuw ecologisch besef kan ontstaan. Dat traditie, identiteit en milieu met elkaar in verband kunnen worden gebracht zonder dat de ondeelbaarheid en onderlinge afhankelijkheid van de verschillende gemeenschappen en culturen die het overkoepelende systeem herbergt, uit het oog wordt verloren”.

Wende verschijnt op 100% hergebruikt papier om de omgeving niet tot last te zijn.
Een abonnement kost 15 euro en kan worden betaald op volgend rekeningnummer:

BE75 9792 2723 6851 (BIC-code: ARSPBE22).

Adres: Grote Ieperstraat 9, 8560 Gullegem.
Wende wordt uitgegeven door enkele enthousiaste jongeren.

 


(Peter Logghe)

00:10 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : tradition, traditions, traditionalisme, paganisme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 09 mai 2011

A Handbook of Traditional Living

A Handbook of Traditional Living:
Theory & Practice

Review by Greg JOHNSON

Ex: http://www.counter-currents.com/

A Handbook of Traditional Living: Theory and Practice [2]
Trans. S. K.
Ed. John B. Morgan
Atktos Media, 2010

A Handbook of Traditional Living is a slender volume (just under 100 pages) comprising two essays published in Italian in 1997 and 1998 by the Raido Cultural Association. The author or authors are anonymous. The first essay, “The World of Tradition,” is a somewhat dry summary of Julius Evola’s version of Traditionalism especially as expressed in his magnum opus, Revolt Against the Modern World [3].

I wish to focus here on the second essay, “The Front of Tradition,” which deals with how one might organize in the light of Tradition to struggle against the modern world. This essay is most strongly influenced by Corneliu Codreanu’s Iron Guard. The organization that is proposed is an initiatic, hierarchical spiritual-militant order. Its structure and aims are essentially that of the Iron Guard, but its spiritual content and foundation is Evolian Traditionalism, not the Iron Guard’s Romanian Orthodox Christianity.

The underlying assumption of “The Front of Tradition” is that the modern world is declining of its own accord, in keeping with the downward thrust of history according to Traditional doctrine. We live in the Kali Yuga, the Dark Age, which is the most hostile to the principles of Tradition and the most removed from the Golden Age that inaugurated our present historical cycle. But the furthest remove from the last Golden Age is the closest proximity to the commencement of the next one. And, as the current Dark Age advances deeper into decadence and chaos, there will come a point when objective conditions will permit a fighting vanguard of Traditionalists to intervene successfully in events and contribute to the inauguration of the next Golden Age. But Traditionalists must be prepared to act effectively when eternal conditions align. Sadly, there is no evidence that any serious Traditionalists are even close to being prepared.

“The Front of Tradition” proposes a hierarchical order that assigns rank based on merit and accomplishment not seniority. The assumption is that true order and authority flow from above, thus nobody can associate with the order who is not oriented toward what is above and interested in finding those genuine superiors who can bring him closer to the transcendent principle. Each individual is also duty-bound to pass down what he knows to his inferiors who look to him for guidance. But the primary orientation of each individual has to be upwards, toward the transcendent. It is an attitude of receptivity to Tradition. It is characterized by humility, by the recognition of one’s imperfection and need of completion from above.

Any orientation downwards, toward followers, is only secondary, and a matter of duty rather than inclination. It is an attitude that must be characterized by detachment and impersonality, since one is a teacher not by virtue of one’s personality but simply by virtue of one’s place in a chain of initiation. What one teaches, moreover, is merely the transcendent truth passed on from above, not a product of one’s own ego.

The great destroyer to be avoided is “egoism,” which seems pretty much synonymous with narcissism. The genuine Traditionalist is oriented first and foremost toward reality. Because of this orientation, he enters into relations with others, specifically into an initiatic hierarchical organization. The genuine Traditionalist has a strong and substantial ego; he knows who he is; he had a deep and abiding sense of worth. Because of this, he is capable of setting aside his ego and devoting himself to eternal truth and disinterested, impersonal action in the service of great collective aims.

The egoist, by contrast, is oriented first and foremost toward himself. He is psychologically needy, and to satisfy these needs, he interacts with others. Reality places a distant third in his priorities. Indeed, since egoists are primarily concerned to satisfy their psychological needs though interactions with others, they are often practiced liars and manipulators.

The Right wing is swarming with egoists of this type. They are characterized first and foremost by a neurotic need for attention. Generally, they like to set themselves up as leaders of little grouplets by claiming to have knowledge, expertise, or money they often do not possess, or do not possess to the degree required by their ambitions.

Since the purpose of these groups is the psychological gratification of their leaders, they seldom accomplish anything in the real world. They tend to be “virtual” groups, existing through websites, Facebook, and press releases. Since these groups do not aim at disinterested action, they are consumed with personal rivalries and schisms. Since these groups are not based in unchanging truth but instead are all about playing to the fickle crowd, they are constantly changing their views, activities, and alliances. Anything to keep the spotlight on them.

The best way to avoid egoists is the establishment of a genuinely hierarchical, initiatic order with objective criteria for membership and advancement. The egoist cannot survive in such an environment. He is primarily motivated by the desire to reign over others. He wants to be on top and therefore rejects the need or possibility of completion from above. Instead of seeking out his superiors, he fears them and tries to keep them away. (Most egoists are oblivious to genuinely superior people, whom they often patronize and seek to manipulate. For the superior individual, this often presents an amusing albeit grotesque spectacle, rather like having one’s leg humped by a dog. Egoists are generally more concerned with fighting off the challenges of other egoists, whom they recognize instinctively.)

A Traditionalist order obviously must contain a significant component of indoctrination in the Tradition itself. But indoctrination is only the beginning. The goal is not merely to inform the mind, but to cultivate the character of the student. One cannot just understand Tradition in the abstract, it must sink in and dye the core of one’s character. It must become second nature, so that one perceives and judges the world instantaneously and effortlessly in the light of Tradition. One must also learn prudence, the ability to apply universal principles to unique and shifting concrete circumstances. Tradition is not an ideology, which is a body of abstract ideas that can never be truly internalized and unified with one’s inner self. A lifestyle that is both unique and Traditionalist emerges spontaneously and organically from a truly cultivated individual.

The essay on “The Front of Tradition” is rather skimpy on concrete advice for the cultivation of the individual in the light of Tradition. One appealing notion is the use of discussion. A group that aims at the perfection of its members and their transformation into a vanguard fighting for great impersonal goals cannot allow individuals to hide their flaws and reservations behind bourgeois notions of privacy. Thus a Traditionalist society must practice group discussion in which individuals strive for openness. The goal is not merely the forgiveness of the confessional but the creation of trust and camaraderie that fuses individuals into a higher unity.

But openness about one’s doubts and flaws is merely a prelude to collective criticism and striving, again with the assistance of the group, to overcome oneself. This process of self-disclosure and group criticism and reform is not personal one-upsmanship and back-biting. Indeed, it is the highest form of friendship. The ancients distinguished flatterers from friends. A flatterer tells you what you want to hear. A friend tells you what you need to hear for your own good, even if it might be personally painful, because self-knowledge is necessary for self-improvement.

My main objection to the idea of an order that combines spiritual initiation and militant struggle is that excellence in these two functions are seldom combined in the same individual. The greatest initiate will seldom be the same person as the greatest warrior. Therefore, in establishing a hierarchy, one would have to choose to subordinate one function to another or to follow a leader who combines both functions, but who is inferior to the specialized warrior or the specialized initiate. The first option introduces internal conflict. The second option places leadership in the hands of an inferior individual. Both options lead to an organization that is inferior to one in which spiritual and military functions are distinct.

Overall, A Handbook of Traditional Living is more suggestive than definitive. The purpose of a handbook is not to be “deep” but to be superficial in an exhaustive manner. “Depth” for such a work is a matter of discerning what is essential. Yet there is much here that seems vague and inessential. But I still found this Handbook valuable as a starting point and stimulant for thinking about how some elements of a North American New Right might be organized.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/04/a-handbook-of-traditional-living-theory-practice/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2011/04/a-handbook-of-traditional-living-theory-and-practive-book_1.jpg

[2] A Handbook of Traditional Living: Theory and Practice: http://www.amazon.com/gp/product/1907166068/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&tag=countecurrenp-20&linkCode=as2&camp=217145&creative=399349&creativeASIN=1907166068

[3] Revolt Against the Modern World: http://www.amazon.com/gp/product/089281506X/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&tag=countecurrenp-20&linkCode=as2&camp=217145&creative=399349&creativeASIN=089281506X

00:15 Publié dans Livre, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, tradition, traditionalisme, julius evola | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 07 mai 2011

Georges Dumézil, l'historien des origines

Georges Dumézil, l’historien des origines

par Rémi Soulié

Ex: http://tpprovence.wordpress.com

Immense savant, il parlait les langues les plus rares. Sa théorie de la « trifonctionnalité » indo-européenne entre le prêtre, le guerrier et le marchand reste une grille d’analyse de nos sociétés.

Quoi de commun entre Rome et l’Inde, entre un Irlandais et un Iranien ? En dépit des religions, des mœurs, des usages et des traditions qui les séparent aujourd’hui, un vaste espace symbolique et idéologique, découvert et exploré seulement au XXe siècle par un navigateur de l’esprit que n’effrayèrent jamais les tourmentes suscitées par ses audaces théoriques : Georges Dumézil (1898-1986).

Cet érudit, tout à sa recherche attaché, réussit le tour de force de traverser son temps sans jamais succomber aux sirènes du marxisme – il n’avait guère de considération, c’est un euphémisme, pour un Jean-Paul Sartre -, non plus qu’aux errances nombreuses de la corporation des « intellectuels » donneurs de leçons. Proche à la fois de l’historien Pierre Gaxotte et du philosophe Michel Foucault, suffisamment libre pour saluer Charles Maurras, il pratiqua ces «amitiés stellaires» chères à Nietzsche qui impliquent un certain aristocratisme, insupportable aux dévots de tous les camps.

Bordelais par son père, angevin par sa mère, Dumézil naît à Paris, mais l’enfance de ce fils d’officier se déroule en province, au gré des affectations militaires : collège de Neufchâteau, lycées de Troyes et de Tarbes, puis retour à Paris, au lycée Louis-le-Grand, pour préparer le concours de l’Ecole normale supérieure, qu’il intègre en 1916. Elève officier à l’école d’artillerie de Fontainebleau, il participe aux combats de la Grande Guerre puis passe l’agrégation de Lettres au mois de décembre 1919.

Une thèse sur l’ambroisie, la boisson des dieux

D’abord professeur au lycée de Beauvais, il poursuit sa carrière à l’université de Varsovie – où, lecteur de français, il prépare une thèse de doctorat consacrée à l’ambroisie, la boisson des dieux, publiée plus tard sous le titre Le Festin d’immortalité-, à l’université d’Istanbul où il enseigne pendant six ans et, enfin, à l’université d’Upsala, en Suède.

Dumézil regagne la France en 1933. Grâce à l’entremise du grand indianiste Sylvain Lévi – «mon sauveur», dira-t-il ! -, il est élu directeur d’études à l’Ecole pratique des hautes études avant que d’occuper la chaire de civilisation indo- européenne créée pour lui au Collège de France. Il y enseignera de 1949 à sa retraite, en 1968. Dix ans plus tard, il sera élu à l’Académie française au fauteuil de l’historien et diplomate Jacques Chastenet.

Linguiste, ethnologue, anthropologue, philologue, mythologue, Dumézil se définissait modestement comme un «comparatiste» et un «scribe», dont le domaine de recherche se situait en bordure de la préhistoire et de l’histoire, cette «ultra-histoire» déjà «éclairée par les premiers documents écrits», comme il le confiait au journaliste Didier Eribon dans un recueil d’Entretiens.

C’est en 1938 qu’il eut l’intuition qui allait orienter l’ensemble de sa recherche et de sa vie. En Inde, trois castes sont garantes de l’harmonie sociale : les prêtres, les guerriers et les agriculteurs-producteurs. Dans la Rome archaïque, avant la période étrusque, trois dieux sont associés : Jupiter, le plus sacré, Mars, le dieu de la guerre, et Quirinus, le dieu de la masse du peuple telle qu’elle s’organise dans les curies.

La «trifonctionnalité» ou «tripartition fonctionnelle» était mise en évidence : depuis l’Inde jusqu’à l’ouest de l’Europe, la quarantaine de langues que maîtrise Dumézil atteste d’une organisation commune originelle d’«Indo-Européens» dont on ne sait à peu près rien, sinon qu’ils furent animés par ces trois «schèmes» aussi bien culturels et religieux que politiques.

Plus précisément, Dumézil évoque «trois domaines harmonieusement ajustés qui sont, en ordre décroissant de dignité, la souveraineté avec ses aspects magiques et juridiques et une sorte d’expression maximale du sacré; la force physique et la vaillance dont la manifestation la plus voyante est la guerre victorieuse; la fécondité et la prospérité avec toutes sortes de conditions et de conséquences qui sont presque toujours (…) figurées par un grand nombre de divinités parentes…».

La Nouvelle Droite l’a fait connaître au grand public

Cette tripartition se retrouve dans les théologies, les mythes, les symboles, les épopées, les légendes, les rites et les contes, de la Scandinavie à la Perse. La division de l’ancienne France en trois ordres – clergé, noblesse, tiers état – peut elle-même être interprétée comme la résurgence de ce «vieil archétype» que la Nouvelle Droite, dans les années 1970, annexerait abusivement à son « néopaganisme » européen.

Parallèlement à ces travaux, Dumézil part apprendre le quechua en six mois au Pérou et se passionne surtout pour les coutumes et les langues du Caucase, la «deuxième vocation» de sa vie, dit-il, au point qu’il songe, un temps, à abandonner ses chers Indo- Européens. Il s’efforce en particulier de sauver l’oubykh, langue qui compte quatre-vingt-deux consonnes pour trois voyelles et dont il connaît le dernier locuteur. C’est avec lui, Tevfik Esenç, qu’il publie des études descriptives et comparatives sur Le Verbe oubykh après avoir travaillé à une grammaire, envisagé l’écriture d’un dictionnaire et rédigé, de 1960 à 1967, les Documents anatoliens sur les langues et les traditions du Caucase.

La réédition, en un volume, de trois grands livres de Dumézil dans la collection « Mille et une pages » de Flammarion – « Loki », considéré par Claude Lévi-Strauss comme son «discours de la méthode»,  « Heur et malheur du guerrier et, surtout, « Mythes et dieux des Indo-Européens », admirable choix de textes réalisé par Hervé Coutau-Bégarie en 1992 – est l’occasion de mesurer toute l’ampleur d’une pensée dont la Renaissance a été à la fois le modèle et l’espérance.

«Si j’avais à me choisir de saints patrons dans cette forme d’humanisme, écrivait Dumézil, je m’abriterais volontiers, pour la prudence et la tolérance, derrière Erasme et Montaigne, sages et modérés dans le triste affrontement des fanatismes.» Que n’ont-ils été plus nombreux, au siècle dernier, à partager une telle profession de foi ! »

Mythes et dieux des Indo-Européens, précédé de Loki et Heur et malheur du guerrier, de Georges Dumézil, Flammarion, 832p., 29€.

Par  Rémi Soulié – Le Figaro Magazine

Source : Métamag.

00:06 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : georges dumézil, indo-européens, tradition, traditions | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 06 mai 2011

La tradition indo-européenne chez les Celtes

La tradition indo-européenne chez les Celtes

Jean Haudry

 
Avec les Celtes, nous entrons de plein pied, sans reconstruction préalable, dans les deux dernières périodes de la tradition indo-européenne: la société lignagère des quatre cercles et des trois fonctions, qui est celle des royaumes celtiques de la période historique, et la société héroïque, qui est celle des fianna. Tout ce qui, dans le monde gréco-romain, appartient à un passé mythique est encore vivant.

1. La société des quatre cercles et des trois fonctions

L’ancienne société irlandaise telle qu’elle ressort des textes en moyen-irlandais a pour base la tribu túath (*tewtā) gouvernée par un roi, (*rēg-s). La formule du serment des héros irlandais «je jure le serment que jure ma tribu» illustre l’importance de ce cercle d’appartenance. L’évolution de la société a entraîné la création d’unités supérieures et par suite une hiérarchie des rois: il y a des «hauts rois», des «rois des hauts rois», et au-dessus d’eux le roi d’Irlande. A chaque échelon est attachée une assemblée. En dessous de la tribu, il y a la famille de quatre générations, derb-fhine «famille certaine» qui succède à la fois au village clanique et à la famille de la société antérieure; la lignée proprement dite, fine, ici comme ailleurs, est réservée aux familles nobles.

La société comporte trois castes, celle des druides, celle des nobles, celle des hommes libres. Cette institutionnalisation de la triade des fonctions, qui ne se retrouve que dans le monde indo-iranien, peut être considérée soit comme une conservation commune et donc un archaïsme, soit comme une évolution parallèle et, vu l’éloignement géographique, indépendante. Comme dans le monde indo-iranien, les esclaves, qui sont ordinairement des prisonniers de guerre, ne font pas partie de la société. On sait que cette organisation a servi de modèle à la société des trois ordres du moyen âge occidental: la société germanique dont elle était issue ne comportait pas de caste sacerdotale et ne pouvait donc faire une place au clergé chrétien. La société irlandaise médiévale est donc plus proche de la société védique du deuxième millénaire que de la cité grecque ou à plus forte raison de la république romaine ou de l’empire romain. Ses institutions et ses coutumes confirment cet archaïsme. Le roi y est soumis à divers interdits (geis) dont la violation entraîne des calamités publiques; il en va de même pour son obligation de «vérité», c’est-à-dire surtout de justice. La pratique magique de l’énonciation de vérité, celle du jeûne du créancier sont aussi des archaïsmes. Les diverses modalités du mariage sont en partie parallèles à celles du droit indien. Louange et blâme sont les mécanismes essentiels de cette société où l’honneur est tenu pour la valeur centrale. C’est une société purement rurale, où la ville est inconnue. La monnaie l’est également: tous les paiement se font en bétail.

2. La société héroïque

En marge de cette société existe une contre société institutionnalisée qui reflète les idéaux, les valeurs et les comportements de la société héroïque: la f́ian, troupe de jeunes guerriers, les fianna, qui bien qu’issus de la noblesse vivent en dehors de la société comme les vrātyas indiens, les maryas iraniens, les berserkir scandinaves. En entrant dans la fían, ils quittent leur lignage. Comme l’indique une étymologie ancienne leur nom, fíanna a venatione, ils vivent de chasse, mais aussi de diverses formes de prédation. Marie-Louise Sjoestedt les a définis en ces termes: «Les fíanna sont des compagnies de guerriers chasseurs, vivant sous l’autorité de leurs propres chefs, en semi-nomades; on les représente passant la saison de la chasse en de la guerre (de Beltine à Samain) à parcourir les forêts d’Irlande, à la poursuite du gibier, ou menant la vie de guérilla; des récits plus récents en font les défenseurs attitrés du pays contre les envahisseurs étrangers, mais tout indique qu’il s’agit là d’un développement secondaire du cycle. Pendant la mauvaise saison (de Samain à Beltine) ils vivent principalement sur le pays à la façon de troupes cantonnées chez l’habitant. Ils n’obéissent pas au pouvoir royal, avec lequel leurs chefs sont fréquemment en conflit». Ce conflit avec les autorités de la société lignagère est typique de la société héroïque. Il se double de conflits internes aux clans fíanna dont on trouve nombre d’exemples dans le cycle de Finn.

En Gaule, la société lignagère des communautés naturelles est elle aussi concurrencée, mais de l’intérieur, par des solidarités électives, comme l’a observé César, La guerre des Gaules, 6,11: «En Gaule, non seulement toutes les cités, tous les cantons et fractions de cantons mais, peut-on dire, toutes les familles sont divisés en partis rivaux; à la tête de ces partis sont les hommes à qui l’on accorde le plus de crédit; c’est à eux qu’il appartient de juger en dernier ressort pour toutes les affaires à régler, pour toutes les décisions à prendre. Il y a là une institution très ancienne qui semble avoir pour but d’assurer à tout homme du peuple une protection contre plus puissant que lui: car le chef de faction défend ses gens contre les entreprises de violence ou de ruse et, s’il agit autrement, il perd tout crédit. Le même système régit la Gaule dans son ensemble: tous les peuples y sont groupés en deux partis». Inutile de préciser que César a tiré de cette situation un avantage décisif. On voit par là que les réalités de la société héroïque de l’âge du bronze coexistent avec celles de la société lignagère, qui remontent au néolithique.

3. Formulaire et groupes de notions

Or paradoxalement les textes ne nous conservent à peu près rien du formulaire traditionnel, et la triade des fonctions est absente des récits et en particulier de la mythologie. On ne saurait expliquer l’absence du formulaire par le caractère oral de la tradition, auquel les druides étaient aussi attachés que leurs homologues indiens et iraniens, car une foule de légendes nous ont été conservées de cette façon. La raison essentielle est que ces récits sont en prose; la poésie, domaine privilégié du formulaire, n’y figure que sporadiquement. L’absence des trois fonctions, surprenante dans une société trifonctionnelle, s’explique par le fait que les récits se fondent en grande partie sur des traditions qui remontent à la période la plus ancienne, celle de la «religion cosmique» et de l’habitat circumpolaire, dont l’Irlande conserve le souvenir avec ses «Iles au nord du monde», où les «tribus de la déesse Dana», c’est-à-dire les dieux du panthéon irlandais, ont «appris le druidisme, la science, la prophétie et la magie, jusqu’à ce qu’ils fussent experts dans les arts de la science païenne». C’est là une attestation directe de l’origine polaire de la plus ancienne tradition indo-européenne. Un bon exemple en est la conception du «héros» telle que l’a résumée Philippe Jouët à l’article correspondant de son Dictionnaire de la mythologie celtique à paraître: «On peut donc attribuer aux cultures celtiques une doctrine d’héroïsation, issue d’une conception préhistorique selon laquelle la survie effective dépendait de la capacité à traverser l’hiver. Traduite en métaphores, cette conception a engendré mythes et doctrines. Par son aptitude à dominer la ténèbre hostile, le héros gagne un lieu généralement insulaire, parfois souterrain quand la terre noire équivaut à la ténèbre, où il reçoit les marques de sa promotion: illumination solaire, faveur des Aurores, trésors, «fruits de l’été» découverts en plein mois de novembre, gloire et renommée. Le vieux schéma celtique de l’incursion dans le Síd, le monde des Tertres enchantés, prend tout son sens dans cette perspective. C’est par là qu’il faut expliquer les métaphores, les images, les scénarios mythologiques et épiques les plus archaïques de la tradition celtique». Un tel «héros» n’a pas grand chose en commun avec celui de la société héroïque, mais illustre la parenté formelle entre son nom grec hērōs et celui de la déesse Hērā «Belle saison».

* * *

De Les peuples indo-européens d’Europe.

jeudi, 05 mai 2011

Sippenpflege in Athen und in Sparta

Sippenpflege in Athen und in Sparta

Hans Friedrich Karl Günther

Ex: http://centrostudilaruna.it/

Eine attische Sippenpflege [läßt sich im ganzen Hellenentum wahrnehmen], wenn auch nirgends so entschieden wie in Sparta, ein Rassenglaube, den Jacob Burckhardt so bezeichnet und eingehender dargestellt hat. Dieser Rassenglaube, ein Vertrauen zu den ausgesiebten Anlagen der bewährten Geschlechter und die Gewißheit, daß leibliche Vortrefflichkeit als ein Anzeichen geistigen und seelischen Vorrangs gelten dürfe, überdauert in Athen und bei anderen hellenischen Stämmen die Zeiten der Adelsherrschaft und der Tyrannis und reicht bei den Besten noch weit in die Zeiten der Volksherrschaft hinein. In Athens „Blütezeit“, einer Spätzeit der lebenskundlich gesehenen athenischen Geschichte, bricht der Rassenglaube noch einmal bei Euripides hervor. Überall bei den Hellenen verließ man sich „auf den Anblick der Rasse, welche mit der physischen Schönheit den Aus-druck des Geistes verband“ (J. Burckhardt); es gab einen allgemeinen hellenischen Glau-ben „an Erblichkeit der Fähigkeiten“, eine allgemeine hellenische Überzeugung von der Unabänderlichkeit ererbter Eigenschaften: der Wohlgeborene sei durch nichts zu verschlechtern, der Schlechtgeborene durch nichts zu verbessern, und alle Schulung (pai-deusis) bedeute den Anlagen gegenüber nur wenig. Aus diesen Überzeugungen ergab sich die echt hellenische Zielsetzung der „Schön-Tüchtigkeit“ (kalokagathía), dieser Ausruf zuerst für die Gattenwahl und Kinderzeugung, dann für die Erziehung, die eine günstige Entfaltung guter Anlagen verbürgen sollte. Am mächtigsten bricht dieser Rassenglaube bei dem thebanischen Dichter Pindaros hervor (Olympische Ode IX, 152; X, 24/25; XI, 19 ff; XIII, 16; Nemeische Ode 70 ff). Das Auslesevorbild des Wohlgearteten blieb bis in die Zerfallszeiten hinein in den besten Geschlechtern aller hellenischen Stämme bestehen. Die Bezeichnung gennaios enthält wie die lateinische Bezeichnung generosus („wohlgeboren, wohlgeartet“) die Vorstellung edler Artung als ererbter und vererblicher Beschaffenheit (vgl. auch Herodotos 111,81; Sohn XXIII, 20 D). Herodotos (VII, 204) zählt die tüchtigen Ahnen des bei den Thermopylen gefallenen Spartanerkönigs Leonidas auf bis zu Herakles zurück.

Die staatliche Stärke Spartas wurde von den hellenischen Geschichtsschreibern der Siebung, Auslese und Ausmerze des Stammes und seiner Geschlechter zugeschrieben. Xenophon hat in seiner Schrift über die Verfassung der Lakedaimonier (1,10; V, 9) zunächst ausgesprochen, die lykurgischen Gesetze hätten Sparta Männer verschafft, die durch hohen Wuchs und Kraft ausgezeichnet seien, und dann zusammenfassend geurteilt: „Es ist leicht zu erkennen, daß diese [siebenden, auslesenden und ausmerzenden] Maßnahmen einen Stamm hervorbringen würden, überragend an Wuchs und Stärke; man wird nicht leicht ein gesünderes und tauglicheres Volk finden als die Spartaner”. Herodotos (IX, 72) nennt die Spartaner die schönsten Männer unter den Hellenen. Die rassische Eigenart der Spartanerinnen wird durch den um – 650 in Sparta wirkenden Dichter Alkman (Bruchstücke 54) gekennzeichnet, der seine Base Agesichora rühmt: ihr Haar blühe wie unvermischtes Gold über silberhellem Antlitz. Der Vergleich heller Haut mit dem Silber findet sich schon bei Homer. Im 5. Jh. rühmte der Dichter Bakchylides (XIX, 2) die „blonden Mädchen aus Lakonien“. Noch der Erzbischof von Thessalonike (Saloniki), der im 12 Jh. lebende Eustathios, der Erläuterungen zu Homer schrieb, bekundete bei Erwähnung einer Iliasstelle (IV, 141), bei den Spartanern hätten helle Haut und blondes Haar die Zeichen männlichen Wesens bedeutet.

Einsichtige Männer der anderen hellenischen Stämme haben immer die edle Art des Spartanertums anerkannt, selbst dann, wenn ihr Heimatstaat mit Sparta im Kriege lag. Der weitblickende Thukydides (III, 83) beklagt das Schwinden des Edelmuts und der Auf-richtigkeit bei den Dorern während des Peloponnesischen Krieges, den seine Vaterstadt Athen gegen Sparta führte. In ganz Hellas haben die Edlergearteten in Sparta ein Wunschbild besten Hellenentums erblickt. So hat auch Platon gedacht, dessen Vorschläge zu einer staatlichen Erbpflege dem dorischen Vorbilde folgen. Männlichkeit und Staatsgesinnung des Dorertums in Sparta, dessen Bewahrung von Maß und Würde, diese apollinischen Züge eines sich selbst beherrschenden, zum Befehl geschaffenen Edelmannstums: alle diese Wesenszüge sind von den Besten in Hellas bewundert worden. Die gefestigte Einheitlichkeit spartanischen Wesens durch die Jahrhunderte ist aber sicherlich ein Ergebnis der bestimmt gerichteten Auslese im Stamm der Spartaner gewesen, einer bewußten Einhaltung der lykurgischen Ausleserichtung.

* * *

Sorge: Lebensgeschichte des hellenischen Volkes, Pähl 1965, S. 158 f.

mercredi, 04 mai 2011

Helios von Emesa

Helios von Emesa

Franz Altheim

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Auf den ersten Blick hin scheinen Verbindungen zu den Baalim von Baalbek und von Damaskus zu bestehen. Iupiter Helipolitanus und Iupiter Damascenus tragen die Übereinstimmung im Namen. Auch bei Emesas Gott konnte man die Frage aufwerfen, ob er Iupiter gleichzusetzen sei. Doch wird sich zeigen, daß es bei ihm anders liegt.

In Baalbeek war die Dreiheit von Iupiter-Hadad, Venus-Atargatis und Mercurius-Schamasch nach ihrer Reihenfolge jüngeren Ursprungs. Anfänglich stand der Sonnengott, eben Schamasch, an der Spitze. Erst unter dem Einfluß babylonischer oder, wie das spätere Altertum sie nannte: chaldäischer Vorstellungen wurde Hadad zum Herrn des Schicksals, rückte er an die erste Stelle. Schamaschi, nachträglich Mercurius gleichgesetzt, mußte sich mit einer dienenden Rolle begnügen: gleich dem Götterboten Hermes oder Mercurius wurde er zum ausführenden Organ des obersten Gottes. Im Pantheon von Palmyra stand Helios, der Sonnengott, neben Bel. Erneut war er Bote und Mittler, während Bel als Weltenherr im obersten Himmel thronte. Von seiner dienenden Stellung erhielt der Sonnengott den Namen: als Malakbel, ‚Bote des Bel’, begegnet er in der göttlichen Dreiheit Palmyras, wiederum Mercurius gleichgesetzt.

Auch in Emesa kannte man den babylonischen Schicksalsglauben und seine Zwillingsschwester, die Astrologie. Iulia, späterer Gattin des Kaisers Septimus Severus (193-211), war durch ihr Horoskop verheißen, sie werde dereinst einen Herrscher ehelichen; sie entstammte dem Priesterhaus von Emesa. Im Aithiopienroman Heliodors, der mancherlei von emesenischer Vorstellungswelt vermittelt, heißt es, die Bahn der Gestirne bestimme unentrinnbar das menschliche Geschick. Ausgrabungen nordöstlich der Stadt haben astrologische Tafeln in Keilschrift zutage gefördert.

Und doch hat sich der Sonnengott in Emesa nicht, wie Schamasch in Baalbek und Palmyra, vom ersten Platz vertreiben lassen. Münzen und Inschriften zeigen, daß er sich keineswegs zu Iupiter, zu Baal oder Bel gewandelt hat, sondern der Sonnengott blieb. Deus Sol Elagabalus oder Invictus Sol Elagabalus lauten eindeutig; man versteht, daß auf einer Inschrift aus Cordoba der ‚große Helios’ von Emesa dem ägyptischen Sonnengott Re angeglichen ist. Auch als ‚Stammvater’ wurde er angerufen, wie denn Emesener zuweilen die Herkunft von der Sonne oder ‚dem Gott’ schlechthin im Namen tragen.

Auch der zweite Gott, Dusares, hatte sich der Sonne verbunden, Hauptgott der Nabatäer, findet man ihn überall, wohin ihr Karawanenhandel und ihr Machtbereich sich erstreckt haben. Wie alle Sonnengötter trug Dusares den Beinamen des Unbesieglichen; er war mit Mithras verbunden, und sein Geburtstag fiel auf den 25. Dezember. Gleich dem göttlichen Herrn Emesas besaß er einen heiligen Stein.

Man kennt diese Art der Verehrung auch bei dem Mondgott von Karrhai, überhaupt bei Göttern, die arabischen Ursprungs waren. Der Name dieser ‚Baityloi’ besagt, daß sie Wohnung der betreffenden Götter waren, nicht diese selbst. In Emesa besaß der heilige Stein die Gestalt eines Kegels, unten mit runder Grundfläche, oben spitz zulaufend. Erhebungen, die sich auf der Oberfläche abhoben, zeigten einen Adler mit Schlange im Schnabel. Man erkannte darin das Symbol der Sonne. Wiederum also fiel der Stein nicht mit dieser zusammen; er trug ihr Bild. Und doch war der Gott in den Stein eingegangen, war ihm irgendwie gesellt, wie man dies auch von den zahlreichen Steinblöcken weiß, die im vorislamischen Arabien verehrt wurden.

Meist hört man von ihnen, wenn muslimischer Gotteseifer daranging, solche Idole zu zerstören. Die Priester altarabischer Gottheiten mahnten diese, bei den Steinen den Kampf gegen die Vertreter der neuen Religion zu wagen. Denn sie verlieren ihren Kult und ihr Ansehen, gelingt es ihnen nicht, ihren Stein und damit ihr ‚Haus’ zu behaupten. Ein Gott, der bei seinem Stein nicht kämpft, ist eine ‚wertlose Sache’. Al-Uzza, die einen ähnlichen Kampf verloren hat – es ging bei ihr nicht um heilige Steine, sondern um drei ihr gehörige Bäume – ‚wird hinfort nie wieder verehrt werden’, lautete das Urteil des siegreichen Propheten Mohammed (569 bis 632).

Steine sind nicht einem bestimmten Ort verhaftet: sie sind beweglich. Einführung von Göttern geschieht derart, daß man sich Göttersteine schenken läßt oder aus bestehendem Heiligtum solche mitbringt. Als der Kult des Sonnengottes nach Rom verlegt wurde, wanderte Emesas heiliger Stein ans Tiberufer. Als man dort nach Elagabals Ermordung (222) sich des Fremdkultes zu entledigen wünschte, schickte man den Stein in seine syrische Heimat zurück.

Neben der Verehrung des heiligen Steines steht, gleichfalls eine uralte Form, der Höhlenkult. ‚Elagabal’ war ursprünglich Name des Gottes selbst: er bezeichnete diesen als ‚Herrn des Berges’. Gemeint war der Burgberg von Emesa, denn dort hatte der Gott seinen Sitz. Aus der Ebene, darin die Stadt sich erstreckt, erhebt sich im Südwesten die Zitadelle, unmittelbar den nördlichen Ausläufern des Libanon gegenüber. Hier stand der Tempel, dessen First, nach den Worten eines antiken Gewährsmannes, mit den bewaldeten Höhen des Gebirges wetteiferte.

Wieder läßt sich Dusares vergleichen. Südöstlich des Toten Meeres, schon an den Pforten des eigentlichen Arabien, liegt Petra. Hauptstadt der Nabatäer, gehörte es einem Volk, das seine Inschriften in einem überkommenen aramäischen Dialekt aufzeichnete, aber nach Ausweis seiner Eigennamen arabisch war. Inmitten eines steinernen Kessels, eingebettet in die roten und violetten Schroffen eines Felsmassivs von urtümlicher Gewalt, scheint dieses Petra seiner Umgebung entrückt. Nur ein steiniges Bachbett, das sich tief in die steilen Wände eingeschnitten hat, ermöglicht den Zugang. Stätte der Sicherheit, scheint dieser Ort durch seine Menschenferne, seine Verzauberung wie geschaffen, die Nähe der Gottheit empfinden zu lassen. Unter der Fülle der Gräber, Höhlen und Tempel beeindruckt der Opferplatz auf dem höchsten Gipfel in den anstehenden Fels geschnitten. Altar und Schlachtbank, das eingetiefte Becken, darein das Blut des Opfertieres floß, zwei Baitylen unweit davon – sie vermitteln eine Vorstellung davon, was ein altsemitischer Höhlenkult gewesen sein mag.

Nicht zufällig wurden die angezogenen Vergleiche aus der arabischen Welt genommen. Dieser entstammen, wie gesagt, die Nabatäer und auch ihr göttlicher Herr Dusares. Emesas Gott wird in denselben Bereich führen.

* * *

Sorge: Der unbesiegte Gott. Heidentum und Christentum; Rowohlts Deutsche Enzyklopädie; Hamburg 1957.

vendredi, 29 avril 2011

La Cruz visigoda como labaro de la reconquista

20100428133638-cruzp.jpg
 

Por E. Monsonis

Ex: http://idendidadytradicion.blogia.com/

De entre los símbolos más importantes  utilizados durante los primeros tiempos de la Reconquista  destaca la cruz de brazos trapeciales e iguales, llegada a nuestros días como principal emblema heráldico de  Asturias, y primitivo lábaro de la reconquista,  adoptado por los reyes asturianos como emblema de la monarquía junto a otros modos y costumbres visigóticas «pues en mostrarse heredera de estos visigodos residía su más prestigiosa razón de ser».(1)

Es conocida por los historiadores e investigadores de esta parte de la historia la aspiración por parte de los monarcas asturianos de restablecer la continuidad visigoda en el naciente enclave, cuna de los posteriores reinos de León y Castilla que finalizarían la reconquista europea del territorio de la península ibérica a los moros, iniciado por sus antepasados de estirpe goda desde la primera llegada de aquellos. Ya uno de los primeros monarcas asturianos, Alfonso I, que reinó entre el 739 y el 756, quien fuera yerno de Pelayo –a su vez de la estirpe real de Kindaswindus, y espatario del rey Egik–, primer rey neogodo elegido al estilo germánico, elevándolo sobre su propio escudo  por sus más nobles guerreros, y que arrojó a los moros de Galicia y de León,  se vanagloriaba de ser de «stirpe regis Recaredi et Ermenegildi». Por su parte, su nieto Alfonso II afirmaba  en el Epítome Ovetense del año 883, también llamada CronicónAlbeldense«omnem gothorum ordinem sicuti Toleto fuerat, tam in ecclesiam quampalatio in Oveto, cuncta statuit» («todo el  orden de los godos tal como existió en Toledo quedó instituido en la Iglesia y la corte de Oviedo»), y es en dicha crónica tal como apunta Hernández Sáez en Las Castillas y León, teoría de una nación,  donde se califica también  a la relación de monarcas astures como «Ordo Gothorum OvetensiumRegum» («relación de los reyes godos de Oviedo»), pues como apunta Gonzalo Menéndez Pidal en su artículo «El lábaro primitivo de la reconquista»,  «en mostrarse heredera de estos visigodos residía su más prestigiosa razón de ser»(2). Por ello, los modos, costumbres, textos refundidos de la época toledana,  rituales  y símbolos visigodos se perpetúan en  Silos, Cardeña , San Millán y otros centros   durante los primeros siglos de la reconquista hispánica. Por su parte, en los nacientes reinos peninsulares –en todos, no sólo en el asturiano–,  el rito godo dentro de las costumbres religiosas continuó en vigor  hasta el año 1071 fecha en la que el legado del papa Alejandro II, Hugo, fue a San Juan de la Peña y en presencia del rey Sancho Ramírez de Aragón y de toda su corte, obispos y abades, celebró la primera misa pascual conforme al rito romano, originando con ello toda una reforma en la que fue preciso copiar miles de códices para asegurar la difusión de la nueva liturgia, sustituyéndose  la letra gótica, en vigor hasta esas fechas, por la carolina, y modificándose el calendario litúrgico y el santoral. También en el campo de la lingüística, la onomástica o el de  la legislación, o bien en el mundo de la literatura  de los nacientes reinos peninsulares permaneció un legado visigótico nada desdeñable. En definitiva, «la impronta visigoda está grabada en muchas instituciones medievales y en la epopeya castellana» (3). Y en esta campo, es la cruz cómo lábaro de la Reconquista, una importante seña de identidad de la monarquía visigótica que continuó como tal entre las aristocracias germánicas que iniciaron la reconquista tal como veremos a continuación.

Visi0660.jpg

Tan sólo unos años antes de la batalla de Covadonga, la península ibérica en su totalidad se hallaba bajo el poder del reino visigodo de Toledo, y destacando entre los símbolos godos se encontraba la cruz, antiguo símbolo visigótico representado en numerosas ocasiones de una forma particular, normalmente con brazos iguales, tal como consta en los templos visigóticos de los antiguos reinos de Tolosa y Toledo, y quedando dicha cruz para la posteridad en los emblemas heráldicos de los diversos reinos y condados que devinieron durante la Edad Media procedentes del de Toledo. En la península ibérica, entre las piezas visigodas halladas en los tesoros de Guarrazar y Torredonjimeno  se cuentan nunerosas cruces votivas con inscripciones, presencia constatada también en el Liber Ordinum, o en importantes joyas artísticas como la corona de Recesvinto. García Volta, destaca en su obra El mundo perdido de los visigodos , la afición de este pueblo de depositar en los altares cruces junto a otros motivos artísticos (4). Sabemos además por otras fuentes documentales como dice Blanco Torviso, que junto a las representaciones geométricas, vegetales y zoomórficas –repetidas en el llamado «arte asturiano»– destacaban en los templos visigodos resplandecientes elementos suntuarios, «especialmente cruces y coronas votivas» (5). También Fernández Conde y Santos del Valle inciden en que «el mundo tardorromano y visigodo estaba mucho más cercano. Por eso, nada tiene de extraño que las grandes iglesias hispanogodas del siglo VII –San Juan de Baños de Cerrato, San Pedro de la Nave, Santa Comba de Bande, y hasta la misma Quintanilla de Viñas– presentan similitudes estilísticas notorias con la fundación de Silo en su corte asturiana» (6). Ya en tiempos del rey Don Favila, se levantó  sobre un dolmen en Cangas de Onís, una de las primeras iglesias cristianas tras la invasión musulmana,  llamándose precisamente de la Santa Cruz, observando con ello Besga Marroquín que «si la vinculación de la Santa Cruz con la monarquía asturiana es patente desde el reinado de Favila, no lo es menos con el pasado visigótico» (7), ya que según Menendez Pidal de Navascues, «de todos los pueblos germánicos, solo entre los visigodos se halla este uso de la cruz; (…).Tal signo o emblema de la monarquía visigoda se refuerza por su probable uso como enseña de las  milicias reales, llevada la cruz de modo visible, sostenida por el asta, uso que veremos continuado por la monarquía asturiana» (8), añadiendo Besga Marroquín, que «éste debe ser tenido como un elemento más que vinculado al naciente poder en Asturias con el elemento visigodo» (9)

 

11023609.jpg

Por su parte el rey Alfonso II, «de quien el Epitome Ovetense dice que restauró los modos del Toledo visigótico, tanto en palacio como en la Iglesia», mandó labrar una extraordinaria cruz votiva con la forma usual entre los visigodos, es decir, brazos trapeciales e iguales, como los representados en Guarrazar, San Juan de Baños, el tablero de Alcaudete u otras muestras del arte visigótico. Es la conocida como Cruz de los Ángeles.

También Alfonso III ofreció a la recién construida basílica de Santiago otra cruz similar, ofrecimiento que se repite con sus descendientes Alfonso III y Ramiro II, ya en el 940.

Por ello, como indica Menéndez Pidal en el  trabajo citado «…las cruces conservadas “de los ángeles”, de Santiago y de la Victoria –o la llamada «cruz del secreto» tal como aparece figurada en un pilar visigodo, similar a la de la victoria, con el alfa y el omega– «se nos ofrecen como supervivencias que testifican de qué manera aquella costumbre visigótica, según la cual los reyes ofrecían como dones cruces preciosas a sus iglesias, siguió siendo practicada por los reyes asturianos deseosos de persistir en los modos toledanos» (10), costumbre que pervivirá al menos hasta el siglo XIII. Por su parte, el  Liber ordinum en sus diversas ediciones nos describe con todo detalle como el rey visigodo-asturiano era recibido por el obispo y el clero en la iglesia pretoriana, recepción en la que era protagonista la cruz como estandarte victorioso de combate, y en la que acabado el ceremonial los caballeros recibían de manos del sacerdote los estandartes. «De donde resulta que la cruz era lábaro de los reyes visigodos y lo siguió siendo de los asturianos, acorde con lo cual quedan bien justificadas las inscripciones de las cruces de Alfonso II y Alfonso III» (11).

Siguiendo a Menéndez Pidal conocemos que «La vieja tradición española parece haberse distinguido en ciertas peculiaridades: En Santa María de las Viñas un ángel y la figura central de un capitel, actualmente suelto, empuñan cruces de brazos trapeciales e iguales, en una de las cuales se ve claramente el mango que entesta con el pie de la cruz. Ambas van empuñadas con una sola mano y no con dos. En la miniatura de los Beatos, el Ángel de los Vientos marca a los elegidos con una cruz enmangada. Pero la más completa imagen de cómo este lábaro visigótico asturiano era llevado a la guerra, nos la da el estandarte de San Isidoro de León, que en pleno siglo XIII aún representa al santo de Sevilla galopando en corcel que monta con silla de guerra de altos borrenes llevando en la mano derecha una cruz gótica empuñada de igual modo a como lo hace el ángel visigodo de Santa María de Lara o el Angel de los Vientos en los Beatos mozárabes. Así se dice que apareció San Isidoro en el cerco de Baeza; así iría antes los reyes ovetenses o toledanos, el clérigo a quien el rey entregaba la cruz al partir para la guerra desde la Basílica pretoriana, centros ceremoniales donde el rey toma la cruz para partir a la guerra, , basílica en la cual se reunieron de 653 a 702 al menos seis de los grandes concilios toledanos, y en la cual fue ungido Wamba en el 672. Basílica pretoriana también se llamó en Toledo a la de Santa Leocadia. Llevarían título de pretorianas por ser las de la guardia real, por eso en ellas se celebraba la ceremonia de tomar el rey la cruz para la guerra .

Todavía de Alfonso III se refiere como encargó al conde Hermenegildo Gutierrez someter al rebelde Vitiza, y como le combatió con su gente y “cum omnibus militibuspalatii”. Esta militia palatii evidentemente ya no osaba llevar el titulo de pretoriana , pero sin duda quería heredar la tradición toledana, y por eso era tenida como nervio de ese ejército permanente que en tantas cosas se consideraba continuador de las tradiciones visigóticas. Esa basílica palatina tendría en Oviedo una basílica preferida para su ceremonial castrense», función no del todo reconocida, o bien semiocultada, en nuestros días por parte de la historiografía oficial, aunque la estructura y emplazamiento del monumento no deje de confundir a muchos historiadores y arqueológos. Sabemos por las crónicas del siglo IX que en Naranco construyó Ramiro I un edificio y una aula regia con baño, pero en ella además de la estancia que ha sido definida como baño existió un ara consagrada a Santa María en el 848 con uso circunstancial de lo que podríamos llamar basílica pretoriana o de la milicia palatina. Y es en  el interior de la sala principal de este interesante monumento, donde se pueden apreciar, tal como incluimos en las ilustraciones de este trabajo, la cruz de la que estamos hablando junto a otros motivos que nos remiten a simbologías solares guerreras. Cuando la visitamos, pensamos que no es difícil imaginar el interior de Santa María del Naranco ocupado por guerreros visigodos asturianos junto a su rey. No hay más que estudiar sus detalles con detenimiento. Definitivamente ni es un palacio ni una iglesia.

Por otra parte, siguiendo con Asturias también podemos detectar esta continuidad visigótica en los símbolos de la comunidad de lucha con voluntad de reconquista surgida en el primitivo reino astur, en todo cuanto hace referencia a la continuidad familiar o de linaje, no sólo en el caso de la familia real sino entre los más antiguos linajes asturianos, la mayoría de estirpe goda. Los símbolos de la cruz junto a otros no menos visigóticos como el águila aparecen pintados en numerosas muestras heráldicas de entre las más hidalgas familias asturianas. Tirso de Avilés en su obra Armas y linajesy antigüedad del principado nos habla de apellidos como Fonfría del que recoge «de Recaredo, rey godo, es cierto que descendía el linaje de Fonfría», o de los Noriega «Los de este linaje y apellido son buenos hidalgos, y tan antiguos que se tiene por cierto que vienen del infante Pelayo y se llamaban Infanzones antiguamente teniendo su solar en el valle de Riva de Sella en las Asturias de Santillana. Traen por armas las que tomó dicho infante cuando comenzó a echar a los moros de Asturias que son en azur una cruz que llevó como estandarte y bandera» (12) . Y es que, como afirma Jesús Evaristo Casariego, «viene Oviedo a la historia para ser cabeza de una gran empresa, impregnada de neogoticismo germano hispano, y por tanto, de catolicismo, de germanismo y de romanismo, es decir, de la cristiandad europea que estaba naciendo. Por algo (curiosa coincidencia) Oviedo viene a la historia al mismo tiempo que el imperio carolingio, otro de los creadores de Europa»(13).

Pero no será , de entre los enclaves surgidos de la España visigoda, el reino asturiano, el único en usar como lábaro y emblema de combate de la reconquista el símbolo de la cruz patada, también en Aragón se repite un proceso restaurador semejante al asturiano, y además la imagen con que tradicionalmente se representa  esa cruz en monedas y demás emblemas es de cruz griega con brazos trapeciales y enmanganado, un pequeño astil para empuñadura. Símbolo que se perpetúa en el actual escudo heráldico del reino de Aragón junto a cuatro cabezas de moro cercenadas y ensangrentadas, histórico emblema que cuando esto escribo, los representantes parlamentarios  aragoneses trabajan por eliminar, siguiendo el ejemplo del cabildo de Santiago, que renegó publica y vergonzosamente hace unos años de su santo patrón, Sant Yago Matamoros, patrón de la caballería neovisigótica en su lucha contra el invasor musulmán quien según la leyenda también portaba una cruz de similares características, emblema de una  importante Orden Militar castellana.

 

De igual forma es la cruz de Sobrarbe. «Todos ellos testimonios evidentes de lo enraizada que estuvo en toda la España cristiana la tradición visigoda, y como todos los focos de reconquista buscaban restablecer ese mismo lábaro que por una parte testimoniaba su fe ante el invasor y por otra justificaba su legalidad encadenándose a lo visigodo» (14).

 

Terminando con Gonzalo Menéndez Pidal recordemos que «La cruz como lábaro del ejército real fue adoptada por reyes de Asturias y Aragón (utilizada como emblema de León hasta el siglo XII y por Castilla hasta el XIII). Para ello hay que admitir una mínima continuidad, pues sólo los visigodos entre todos los pueblos germánicos, habían tenido la cruz por insignia; y el que las huestes asturianas se lanzasen al combate bajo el mismo estandarte de los ejércitos reales del Toledo visigótico, habla bien a las claras de cómo en Oviedo alentaba un ansia de continuidad. Las minuciosas rúbricas del Liber Ordinum seguían rigiendo las ceremonias con que en el aula regia del Naranco, a las afueras de Oviedo, se despedía al ejército reconquistador, igual que antes de la invasión musulmana habían regido la despedida del ejército hispanogodo en la basílica pretoriana de los arrabales toledanos.

 

Por eso Alfonso III traerá de su campaña toledana como preciado botín, una cruz con su lignum crucis; tal fue el lábaro de los reyes godos y tal reliquia había de constituir ahora el alma del regio lábaro alfonsí. Por eso, la cruz acabará figurando en Asturias (y por ende en León, Castilla, Aragón) como emblema real. Y por eso, según rúbrica visigótica se esculpirán protectoras cruces sobre regios palacios y fuentes. Porque en toda la vida de los renacientes reinos cristianos habrá constante deseo de mantener la peculiar tradición visigoda, y conforme prescribe el viejo Liber ordinum se seguirán ofreciendo coronas a los altares, y conforme a las mismas rúbricas se seguirá asistiendo a los moribundos. Y no acabaremos de comprender los marfiles de San Millán si olvidamos esto, porque aún la pintura y la literatura románica de los siglos XII y XIII seguían recordándolo.

 

Recordemos nosotros por tanto, ahora, como la Reconquista empezó siendo una empresa sentida como guerra visigótica, guerra con la que se deseaba restablecer la continuidad de una tradición toledana, y donde no se daba otra variante sino la de que antes del 711 los españoles impetraban de Dios» (15).

 

Los hijos del primitivo reino visigótico de Asturias, organizados luego en León y posteriormente en Castilla, como también los no menos originalmente visigodos de Aragón, Navarra y Cataluña, siguieron utilizando años después la cruz visigoda como lábaro en la Reconquista  europea de la península ibérica, constatando orgullosamente con ello al modo germánico cuales eran sus gloriosos orígenes, y cuales sus objetivos. La cruz fue sustituida por leones y castillos, las ceremonias y escritura visigótica fueron tenazmente abolidas por las autoridades religiosas desgotizadas, aunque no muchos otros modos y costumbres bien arraigadas en la población hispano-goda, pero las viejas piedras de los templos, los antiguos estandartes y las armas de los guerreros que hicieron posible la recuperación de la tierra que había sido del reino de Toledo  mantuvieron bien visible para el que quisiera verlo, cuales y de que origen fueron los símbolos que animaron la Reconquista. Símbolos que todavía hoy, ocultos entre la confusión y el olvido, nos muestran un legado y una herencia que algún día habrá que recuperar, para poder iniciar una cada vez más necesaria nueva Reconquista.

(1) Menéndez Pidal  Gonzalo. El  lábaro primitivo de la reconquista. En Varia Medievalia I. Real Academia de la Historia. Madrid 2003

(2) Menéndez Pidal. op.cit.

(3)La pesa, Rafael .Historia de la lengua española. Madrid 2001.

(4)García Volta, G. El mundo perdido de los visigodos. Ed.Bruguera. Barcelona 1977

(5)VV.AA. Historia del Arte. La Edad Media. Alianza Editorial. Madrid 2004.

 (6) Citado por, José Ignacio Gracia Noriega en Don Pelayo, el rey de las montañas. La esfera de los libros. Madrid 2006

(7) Besga Marroquín A., Orígenes hispano-godos del reino de Asturias. Oviedo 2000

(8) ) Citado por, José Ignacio Gracia Noriega en Don Pelayo, el rey de las montañas

(9) Besga Marroquín, A. op.cit.

(10) Menéndez Pidal. op.cit.

(11) Menéndez Pidal. op.cit.

(12) Avilés, Tirso de. Armas y linajes de Asturias y antigüedades del principado.Grupo Editorial Asturiano. Oviedo 1991El  águila  como figura heráldica aparece en los blasones de los linajes Portal, Moran, junto con la cruz, Busto, Pedrera, Fonfría, Estrada, Junco, Moniz, Riaño etc. Mientras que la cruz es pintada en las armas deAlfonso, Somonte, Cifuentes,Ordóñez, Caso, Noriega, Hevia «que no tienen sangre mezclada» o Ribero.

(fuente: Tirso de Avilés).

(13) Citado por, José Ignacio Gracia Noriega en Don Pelayo, el rey de las montañas. La esfera de los libros. Madrid 2006

 (14) Menéndez Pidal, G.

 (15) Menéndez Pidal, G.

mercredi, 27 avril 2011

Un Simbolo Indoeuropeo: El Jabali

 

Wildschwein_17564412originallarge-4-3-800-203-60-2538-1811.jpg

Un Símbolo Indoeuropeo: EL JABALÍ

Ex: http://idendidadytradicion.blogia.com/

“En la noche céltica, el jabalí cazado con ahínco y reproducido en algunas piedras de las citânias, era animal sagrado para los galos, afecto a Diana Ardeumi, como el oso a la diosa Artio, el perro al dios del Mazo y el caballo de Epona. Su figura alzada en la cima de un bastón o una horquilla, fue para muchas tribus germanas y galas una bandera venerable.” J.M.Castroviejo


Dentro de nuestro mundo indoeuropeo, como es sabido, los animales tienen una importancia y una trascendencia reveladora más que importante, ya que para nuestros antiguos la observación de la Naturaleza y de sus habitantes, eran constante y consciente fuente de inspiración y de sabiduría. Entre dichos animales de simbolismo positivo –y a veces dual- se encontraban, el caballo, el lobo, el ciervo, el oso y también el jabalí.

Entendemos pues que el símbolo no es sino el empleo de imágenes que encierran y engloban ideas suprasensibles. El símbolo no tiene límites precisos y en este caso en particular podremos observar que en el caso de animal tan noble, acontece tal cual. 

En este presente artículo nos aproximaremos al jabalí como símbolo identitario indoeuropeo de fuerza, valor, coraje y fecundidad, presente desde tiempos remotos tanto en Occidente -en nuestra península celtibérica, así como en el mundo céltico- como en Oriente – en el mundo indo-ario. Y comenzemos pues por estos últimos:

Dentro de la antigua Tradición Hindú, el símbolo del jabalí procede directamente de la Tradición Primordial, con sede en la Tierra de la Luz, Hiperbórea. Este origen netamente hiperbóreo, es igualmente compartido por los celtas, ya que como apunta René Guénon, “entre los celtas, el jabalí y la osa simbolizaban respectivamente a los representantes de la autoridad espiritual y a los del poder temporal, es decir a las dos castas, los druidas y los caballeros, equivalentes, por lo menos originariamente y en sus atribuciones esenciales, a lo que son en la India las de los brahmanes y los Kshatriya (guerreros)” 

El jabalí (varâha), es el animal representativo del tercer avatâra (encarnación) de Vishnú, símbolo que procede directamente de la Tradición primordial y que en el Veda- según R. Guénon – afirma expresamente su origen hiperbóreo, “además dentro de nuestro Kalpa íntegro, es decir, todo el ciclo de manifestación de nuestro mundo, se designa como el Çveta-varâha-kalpa, o sea el “ciclo del jabalí blanco”…por eso la”tierra sagrada” polar, sede del centro espiritual primordial de este Manvântara es denominada tambien Varâhi o “tierra del jabalí”. 

Algunos autores interpretan que según el texto sagrado del Ramayana, Brahma asumió la forma de un jabalí en su tercera encarnación, mientras que otros , según los cuentos tradicionales y remotos que conforman el Vishnú Purana, fue el dios Vishnú que en la forma del dios Brahma se convirtió en jabalí. Ambos coinciden en que bajo la forma del jabalí, Dios- Brahma que creó todo lo existente, viendo que todo era agua al principio, se sumergió en las profundidades de las aguas y con sus colmillos elevó la tierra a la superficie. El jabalí es un animal que entre sus diversos “placeres”, está el deleitarse con el agua, y según el Vishnú Purana, este deleite y purificación con el agua, se dice que es tipo de ritual de los Vedas, representación alegórica de la liberación del mundo de la inundación del adharma (falta de ley, orden, justicia, espiritualidad). 

Etimológicamente, en sánscrito el jabalí es como hemos dicho varâha y la raíz var-, según R.Guénon, tiene el sentido de “cubrir”, “ocultar”, “proteger”, mientras que las lenguas nórdicas su análogo sería bor- . Efectivamente, “Bórea”, Hiperbórea probablemente sería la “tierra del jabalí”, tierra oculta y de los elegidos, aunque este aspecto “solar” y “polar” fue posteriormente transferido del jabalí al oso, posiblemente por la rebelión de los representantes del poder temporal frente a la supremacía de la autoridad espiritual.

Igualmente R.Guénon nos dice que entre los antiguos griegos, la rebelión de los khsátriyas se figuraba por la caza del jabalí de Calidón, que al igual que en la tradición hindú, es blanco. Prosigue el autor con otra interesante analogía, con el nombre de Calidón, ya que el antiguo nombre de Escocia, Caledonia, “aparte de toda cuestión de “localización” particular, es propiamente el país de los “kaldes” o celtas; y el bosque de Calidón no difiere en realidad del de Brocelandia, cuyo nombre es también el mismo, aunque en forma algo modificada y precedido de la palabra bro- o bor-, es decir, el nombre del jabalí” 

Así pues, entre los antiguos indo-arios, como entre los antiguos celtas y también entre los griegos como hemos visto, el jabalí poseía un profundo simbolismo que venía de tiempos remotos, de la sede mítica y centro espiritual que era Hiperbórea, “ya que allí residía la autoridad espiritual primera, de la cual toda otra autoridad legítima del mismo orden no es sino una emanación, no menos natural resulta que los representantes de tal autoridad hayan recibido también el símbolo del jabalí como su signo distintivo y lo hayan mantenido en la sucesión del tiempo; por eso los druidas se designaban a sí mismos como “jabalíes”…una alusión al aislamiento en que los druidas se mantenían con respecto al mundo exterior, pues el jabalí se consideró siempre como el “solitario”; y ha de agregarse, por lo demás, que ese aislamiento mismo, realizado materialmente, entre los celtas como entre los hindúes, en forma de retiro en el bosque, no carece de relación con los caracteres de la “primordialidad”, un reflejo por lo menos de la cual ha debido mantenerse siempre en toda autoridad espiritual digna” 


tradition,traditionalisme,indo-européens,mythe,folklore,sanglier

En nuestra península celtibérica- “Keltiké”-, uno de los principales legados escultóricos que poseemos de nuestros finales de la Edad del Bronce, son los denominados “Verracos” o “Verrôes”, datados aproximadamente entre los siglos IV-III a.C. Tradicionalmente esta Cultura de los Verracos-Verrôes ocupó la zona comprendida por las tribus célticas de los Vettones, asentadas en la Beira Alta y Trâs-Os-Montes portugueses, Salamanca, Ávila y limitando al este con los ríos Eresma y Alberche y al norte con la Cultura Castrexa galaico-astur. Esta plástica zoomorfa labrada en granito, con trazos muy toscos y en posición erguida (de reposo y de acometida), de sexo masculino (con tendencia a mostrar cierto genitalismo), posee tipos básicos: Cerdos y toros en mayor abundancia, así como también jabalíes. 

La finalidad de los Verrôes-Verracos siempre ha estado envuelta en la controversia: Para unos estudiosos ha sido la expresión del culto egipcio de Osiris y Apis en nuestra península mientras que para otros serían como mojones terminales del territorio de un pueblo . Por ejemplo, para el profesor portugués Santos Junior serían totems relacionados con la virilidad, el coraje y la fuerza. Lo cierto es que según su ubicación podrían tener un simbolismo determinado, así pues a la entrada del castro de Las Cogotas en Ávila estaban ubicados estos verracos, como símbolo totémico de fuerza y valor, mientras que por otro lado en Chamartín de la Sierra podrían determinar un encerradero de animales, como símbolo de protección y de fecundidad. En ambos casos - aunque diferenciados- la finalidad sin duda es mágico-protectora 

Apuntaba el arqueólogo gallego Florentino López- Cuevillas en los albores del pasado siglo XX, que poco se podía decir de las ideas cosmogónicas de los habitantes de la vieja Gallaecia (Galiza, Asturies, Norte Portugal, León y Zamora), de los “galecos”, pero se aventuraba con datos arqueológicos a dar una extensa relación de los cultos practicados por los habitantes de la cultura Castrexa, entre los cuales citaba a “una divinidad en forma de cerdo o de jabalí” 
Por otro lado, dejando atrás la época prerromana, parece ser que estos verracos tuvieron finalidad de carácter funerario según atestiguan las inscripciones latinas en algunos animales, utilizadas a modo de estelas funerarias (siglo II d.C) 

En las Tradiciones Irlandesa y Galesa, el jabalí como animal simbólico igualmente aparece dentro de sus mitologías. Dentro del ciclo del Ulster, el héroe Diarmaid y su enamorada Grainne, -prototipos de los medievales Tristán e Isolda – dicho héroe tenía como mayor prohibición el matar al jabalí ya que su hermano fue muerto accidentalmente y metamorfoseado en jabalí mágico. Igualmente dentro de la interesante historia del druida irlandés, Tuàn Mac Cairill, personaje que es testigo de las cinco grandes invasiones de Irlanda, que sobrevivió metamorfoseando su cuerpo en ciervo, jabalí, halcón, salmón, antes de retornar a ser hombre, imagen del Hombre Primordial, capaz de restablecer aquella edad de oro del comienzo de la Humanidad, tiempos míticos en la que los animales y los hombres hablaban el mismo lenguaje y no se mataban entre ellos. De nuevo el mismo jabalí mágico reaparece dentro de los Mabinogion galeses, “no sólo en el relato de Kulhwch y Olwen en el que Arturo y sus compañeros acosan al jabalí Twrch Trwyth, sino también en algunas Tríadas de la Isla de Bretaña y en la Historia Britonnum de Nennius” 

Dentro del mundo céltico y sobre todo en la Galia, el jabalí ha sido un emblema guerrero indiscutiblemente ya que se han encontrado lábaros sagrados o pértigas coronadas por la representación de dicho animal, además de su aparición en monedas. Citemos por ejemplo el jabalí como enseña militar del arco de Orange, o bien la estatua de una Diana gala encontrada en las Ardenas montada sobre un jabalí. Ecuánimemente nos explica Jean Markale que “sobre una placa del Caldero de Gundestrup, que representa el rito de sofocación, todos los guerreros llevan un casco coronado por un jabalí. Todo estriba en saber si el jabalí representa la fuerza física y “solitaria” del guerrero, lo cual sería simbolismo, o si se trata del animal mítico considerado como el antepasado de la clase guerrera” Este atributo “kshatriya” del jabalí también lo encontraremos entre los pueblos bálticos de los letones, lituanos y antiguos prusianos, especialmente como animal relacionado con el dios Pekurnas, que sería el Thor nórdico, el Taranis galo. 



Y en época clásica grecorromana, igualmente el jabalí aparecía en estas culturas como fiera noble, valor salvaje al que vencer el héroe, tal como nos relata J.M.Castroviejo: “El Señor jabalí tiene su puesto en la Historia y no pequeño… El feroz puerco, perseguido hasta la hondura de su cubil, era un adversario que los dioses mismos no desdeñaban el atacar. Artemisa, la virginal. Lo seguía con su aljaba, tenaz e incansable, hasta lo profundo de las selvas de la Argólida, en veloz carro, acompañada de ladradora jauría y entre un tropel de ninfas galopantes. Y ¿no fue por culpa de un jabalí, primero herido por la diestra Atalante, por lo que el heroico Meleagro, que le da al fin muerte, enloquece y pierde a su vez la vida? Homero en la Odisea (XIX) nos deja un memorable retrato del jabalí que hirió a Ulises. El jabalí era presa noble y los emperadores…de Roma, tras las influencias de la Galia, de España, de Grecia, del Oriente Helenístico y de África, se alababan de su caza. Adriano, Marco Aurelio –cuya fuerza ante el jabalí destaca Dion Casio- y Caracalla, entre otros, se vanagloriaban de afrontarlo. Marcial nos dejará inmortalizado en hermoso latín, el epitafio de la valiente perra Lydia sucumbiendo al colmillo de un jabalí:
Fulmineo, spumantis sum dente perempta
Quantus erat, Calydon, aut, Erymanthe, tuus » 

 

tradition,traditionalisme,indo-européens,mythe,folklore,sanglier

Pero volvamos de nuevo a la relación simbólica entre el jabalí y el oso de la que antes hemos hablado y veamos una más que interesante interpretación del tema que estamos tratando. Según René Guènon, el jabalí y la osa no aparecen siempre en estado de lucha y oposición sino que igualmente podrían representar de forma armoniosa la relación de las castas de los druidas- sacerdotes-brahmanes con la de los guerreros-caballeros -kshatriyas y esto lo vería R.Guènon en la conocida leyenda de Merlín con Arturo: “En efecto, Merlín, el druida, es también el jabalí del bosque de Broceliande (donde al cabo, por otra parte, no es muerto como el jabalí de Calidón, sino sumido en sueño por una potencia femenina) y el rey Arturo lleva un nombre derivado del oso, arth; más precisamente, este nombre Arthur es idéntico al de la estrella Arcturus, teniendo en cuenta la leve diferencia debida a sus derivaciones respectivas del celta y del griego. Dicha estrella se encuentra en la constelación del Boyero, y en estos nombres pueden verse reunidas las señales de dos períodos diferentes: el “guardián de la Osa” se ha convertido en el Boyero cuando la Osa misma, o el “Sapta-Rksha”, se convirtió en los “Septem triones”, es decir, los “Siete bueyes” (de ahí el nombre de “septentrión” para designar el norte); …la autoridad espiritual, a la cual está reservada la parte superior de la doctrina, eran los verdaderos herederos de la tradición primordial, y el símbolo esencialmente “bóreo”, el del jabalí, les pertenecía propiamente. En cuanto a los caballeros, que tenían por símbolo el oso ( o la osa de Atalanta) puede superponerse que la parte de la tradición más especialmente destinada a ellos incluía sobre todo los elementos procedentes de la tradición atlante; y esta distinción podría incluso, quizá, ayudar a explicar ciertos puntos más o menos enigmáticos en la historia ulterior de las tradiciones occidentales” 


En la tierra mágica de la Españas, Galiza, de nuevo la memoria de la Tradición Primordial emerge, podríamos decir más que curiosamente, puesto que la “combinación” del jabalí con el oso toma forma de heráldica y Tótem para la otrora gran casa feudal de los Andrade, señores del norte de la actual provincia de A Coruña y parte de la de Lugo. “El jabalí, con el oso, fue tótem de la gran casa feudal de los Andrade, como puede verse en el magnífico enterramiento de la iglesia de San Francisco de Betanzos” . Efectivamente, el sepulcro gótico de Fernán Pérez de Andrade “O Bóo” está soportado por un oso y un jabalí, si bien el jabalí es la figura más ligada a la casa de los Andrade. Relacionado con el linaje de los Andrade, tenemos la leyenda novelesca de Roxín Roxal e a Ponte do Porco, que tan bellamente recogió Leandro Carré Alvarellos en sus “Leyendas Tradicionales Gallegas”. De nuevo la memoria céltica galaica se renueva con este héroe solar que combate al fiero “porco bravo”, un temido jabalí que asola la comarca y siembra el pánico entre los labriegos. Roxín Roxal, doncel del señor de Pontedeume, don Nuno Freire de Andrade, era un joven ”esbelto de cuerpo, rubio y roxiño como un sol, alegre y sonriente, valiente y sencillo”, que estaba enamorado de la hija de don Nuno, la joven Tareixa (Teresa), que “montaba a caballo igual que una amazona céltica y disparaba una flecha mejor que algunos arqueros de su padre” , pero que esta doncella fue obligada a casarse con otro señor feudal, don Henrique de Osorio, ya que el señor de Andrade descubrió el amor de Roxín Roxal por su hija . Don Nuno y don Henrique organizaron una cacería para dar muerte al fiero jabalí y en la desembocadura del río Lambre encontraron al animal en el puente. Don Henrique y la joven Tareixa fueron embestidos por el enorme jabalí, don Henrique le clavó su lanza pero saltó del puente y el animal atacó a la joven doncella, matándola. A los pocos días, en dicho puente apareció el jabalí con una daga clavada en el pescuezo, que don Nuno reconoció. Esa daga se la había regalado a su sirviente Roxín Roxal. He aquí la leyenda de Ponte do Porco, donde un héroe mata por amor y frente a la fiereza y el coraje del porco bravo se superpone la del héroe.

 

El Cristianismo medieval, desgraciadamente, fue severo con el fogoso animal de nuestros antepasados, según asevera el tradicionalista católico Louis Charbonneau-Lassay en su hermoso y extenso trabajo sobre simbolismo animal en la Antigüedad y Edad Media “El Bestiario de Cristo”, aunque durante los primeros cuatro siglos de Cristianismo fue representado en lámparas en las que parece representar la cólera divina, frente a la paloma y el cordero que representarían la dulzura de Cristo.

 

En un manuscrito francés del siglo XIV, el jabalí junto con el gallo (animal que como sabemos anuncia la salida del Sol, por lo tanto animal solar y pagano) representa a la Ira, la Lujuria. Así pues la Ira será representada por una mujer que lleva un gallo sobre su mano y que cabalga sobre un jabalí. Nuestra Edad Media europea, conoció salvo raras excepciones, al jabalí de David “asolador de la viña del Señor”, como nos lo relatan los Salmos del Antiguo Testamento. “El jabalí, sin embargo, fue aceptado a veces como imagen del justo, independiente y valeroso frente a los adversarios del Bien y a los enemigos de su alma. En este sentido, San Paulino de Nola, en el siglo V, incluso lo relacionaba con el cordero cuando escribía a uno de sus corresponsales: “Qué satisfacción encontrarme completamente cambiado; ver que el león tiene ahora la dulzura de un joven ternero; que Jesucristo habita en el jabalí, que conserva toda la ferocidad para con el mundo, pero que se ha convertido en cordero para con Dios; ya no eres el jabalí del bosque, te has convertido en el jabalí de la siega”

 

El polifacético y prolífico intelectual galaico Vicente Risco, nos cita siete animales cuya figura puede asumir el diablo, y curiosamente hay dos animales (Jabalí y Cuervo, aves de Odin- Wotan) significativos para las antiguas creencias célticas y germánicas que son marcados con este estigma; “como Jabalí, atemoriza a las gentes del campo, como Cuervo muestra su triste negrura fatídica, que se alimenta de la muerte” He aquí una muestra entre otras muchas mas, de cómo los símbolos paganos fueron tergiversados e invertidos por la nueva religión.

 

Simbólicamente al jabalí se le opuso frente al Cordero de Cristo, así pues frente a las virtudes cristianas del cordero estaban los defectos y pecados paganos del Jabalí. Pese al olvido parcial de animal tan noble como símbolo durante nuestra Edad Media, se representó frecuentemente su caza, siendo esta considerada de gran riesgo, valor y coraje junto con inteligencia, virtudes propias que debían poseer los guerreros. Quizás dentro de los animales salvajes cazados en nuestros montes europeos, la cacería del oso y del jabalí destacarían por ser de elevado peligro, frente a otras especies.

 

Como conclusión para este pequeño aporte al simbolismo del jabalí, apuntaremos esta duda con la que se preguntaba el católico L.Charbonneau –Lassay: “¿Cuál sería exactamente el pensamiento de Albert Durero cuando, cerca del pesebre en el cual puso María al Niño Dios, representó al jabalí y al león, en vez del buey y la mula tradicionales?”.

 

FEDERICO TRASPEDRA

Lughnasad 2004


Bibliografía:

“SIMBOLOS FUNDAMENTALES DE LA CIENCIA SAGRADA” René Guénon. Eudeba-Ediciones Colihue. Buenos Aires 1988. pág.141

Op.cit. René Guénon, pág.145

Op.cit. René Guénon, pág.142.

Cuadernos del Arte Español nº22 “Arte Céltico y Celtibérico” Historia-Grupo16 Madrid1992

“La Civilización Céltica de Galicia”, de Florentino López-Cuevillas. Ed. Istmo, Madrid 1989, pág.280

“Druidas” de Jean Markale, Ed Taurus Alfaguara, Madrid 1989. Pág.202

Op. Cit. Jean Markale, pág.203

“Viaje por los montes y chimeneas de Galicia” J.M. Castroviejo y Álvaro Cunqueiro.Espasa Calpe. Col. Austral. Madrid 1986. Pág.128

Op. Cit. René Guènon, pág 146-147.

J.M.Castroviejo, op.cit. pág 130

“Leyendas Tradicionales Gallegas” de Leandro Carré Alvarellos. Espasa-Calpe, Col.Austral. Madrid 2002 Págs.253-256

“El Bestiario de Cristo” de L.Charbonneau-Lassay, Ed. Olañeta, Palma de Mallorca, 1997. Pág. 174, 175,640.

Satanás, historia del diablo. V.Risco. EdGalaxia, pág.409.

mardi, 19 avril 2011

Alexander Dugin: "The Apparent and the Unbelievable" + "Pure Satanism"

"The Apparent and the Unbelievable": Alexander Dugin and Sergei Kapitsa (English subtitles) Part I

Dugin and Kapitsa 2 (Complete)



"Pure Satanism": Alexander Dugin on Postmodernity in Western Society