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mardi, 10 novembre 2015

Evola e la critica dell’americanismo

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Evola e la critica dell’americanismo

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

  evola-oltre-il-muro-del-tempo   Dalla casa editrice romana Pagine sono stati pubblicati recentemente (giugno 2015) gli atti di un convegno tenutosi nel 2014 nella capitale e dedicato al tema “Julius Evola oltre il muro del tempo. Ciò che è vivo a quarant’anni dalla morte”. Il volume, dal medesimo titolo, comprende tutte le relazioni presentate all’epoca, cioè quelle di de Turris, Veneziani, Malgieri, Fusaro e Scarabelli. Qui mi occuperò soltanto del testo di Fusaro, avente come oggetto “Evola e Heidegger critici dell’americanismo”, ed esclusivamente della parte riguardante Evola.

     L’impostazione metodologica di Fusaro è indubbiamente condivisibile: “in filosofia il solo modo di rendere onore a un autore consiste nel discuterne criticamente le tesi, a distanza di sicurezza dai due atteggiamenti – apparentemente opposti e, in verità, segretamente complementari – dell’elogio agiografico e della demonizzazione preventiva” (p. 27). Altrettanto condivisibile, anche se per nulla originale, è l’approccio di Fusaro all’esame evoliano dell’americanismo, in quanto prende giustamente le mosse dal celebre scritto del 1929, Americanismo e bolscevismo, uscito sulla rivista “Nuova Antologia”. Ulteriore aspetto da sottolineare è l’insistenza, corretta, sul ‘maggior pericolo’ rappresentato, agli occhi di Evola, dall’America rispetto all’Unione Sovietica. Ma con ciò si esauriscono, a parere di chi scrive, gli spunti positivi presenti nel testo di Fusaro.

     Questo perché, innanzitutto, va criticata l’impostazione generale dello scritto, dato che Fusaro, insistendo sempre e solo sul parallelismo americanismo/bolscevismo, finisce col perdere completamente di vista le analisi ben più ricche e articolate riservate da Evola alla ‘civiltà americana’. Detto altrimenti, dallo scritto di Fusaro vien fuori un Evola che praticamente dagli anni Venti sino alla sua morte avrebbe letto l’americanismo servendosi di un’unica chiave interpretativa, quella appunto della sua equipollenza con il bolscevismo, con l’ovvia conseguenza di dar vita a una lettura in fondo astorica e iperschematica, del tutto avulsa dai cambiamenti economici, politici, sociali, culturali, nel frattempo intervenuti. Fusaro infatti passa sistematicamente sotto silenzio, non si comprende se per scarsa conoscenza delle fonti o per superficialità analitica, tutti gli scritti in cui Evola non solo rivede, seppur parzialmente, il suo giudizio negativo sull’America, ma dimostra anche di seguire con attenzione i nuovi fenomeni che nello scorrere del tempo prendevano piede oltreoceano, dalla Beat Generation alle tesi di Burnham, dalle posizioni politiche di Barry Goldwater e George Wallace ai testi di Kuehnelt-Leddhin, e così via.

     Non solo, perché anche le critiche rivolte a Evola da Fusaro si rivelano, a mio parere, inconsistenti. Nel dettaglio: Fusaro accusa Evola di incoerenza per aver giustificato la scelta del MSI di votare a favore del Patto Atlantico, pur sottolineando, a ragione, che l’accettazione evoliana del Patto non dipendeva da “un mal celato filoatlantismo” (p. 45) ma si spiegava “unicamente in ragione antisovietica” (p. 45). L’incoerenza consisterebbe nel fatto che essendo, per esplicita ammissione dello stesso Evola, più pericoloso e insidioso l’americanismo, sarebbe in ogni caso contraddittorio schierarsi con quest’ultimo contro il bolscevismo. Qui a me pare che Fusaro non tenga minimamente conto del contesto ‘geopolitico’, pur accusando, al contempo, Evola di essere caduto in contraddizione proprio per aver trascurato il medesimo fattore. La posizione evoliana, infatti, se pure criticabile in astratto, assume forza e coerenza una volta inserita nel concreto contesto di quegli anni, quando la minaccia comunista era avvertita non solo come imminente ma soprattutto capace di condurre all’annientamento persino fisico dello schieramento ‘nazionale’. Basti il rimando ad un importante scritto evoliano apparso nel luglio del 1960 su “L’Italiano”, intitolato C’è un “democratico” con una spina dorsale?, in cui si chiedeva la messa al bando del partito comunista e si auspicava un diretto intervento delle “forze sane” del paese in difesa dello Stato minacciato dal comunismo.

     La seconda obiezione mi sembra ancora più infondata. Fusaro (p. 46) cita estesamente un passo evoliano tratto da un articolo del ’57, Difendersi dall’America, apparso su “Il Popolo italiano”[1], dove viene lucidamente adombrata la progressiva americanizzazione cui stava soggiacendo l’intero continente europeo, aggiungendo subito dopo che, alla luce di questa consapevolezza, suonerebbe decisamente contraddittorio l’appellarsi, da parte di Evola, a una possibile reazione ‘antiamericana’ avente l’Italia come centro propulsivo. A sostegno della sua tesi, Fusaro (p. 47) cita due passi evoliani, uno in cui viene detto che la nazione italiana “più di ogni altra è l’anti-Russia e l’anti-America”, l’altro in cui tale ruolo dell’Italia si spiegherebbe grazie alla sua eroica “tradizione mediterranea, ed in ispecie classica e romana”. Per la fonte di entrambe le citazioni, Fusaro rimanda alla pagina 30 della silloge Civiltà americana, ma il punto è che sarebbe fatica sprecata cercarvi tali citazioni e per la semplice ragione che non ci sono. Lo scritto da cui infatti sono tratte le due frasi di Evola è il già ricordato Americanismo e bolscevismo del 1929[2]. Mi sembra pertanto evidente che pensare nel 1929 ad una realistica contrapposizione nei confronti dell’America non avrebbe nulla di contraddittorio rispetto a quanto sostenuto nel 1957, e questo già solo per l’abissale differenza di contesto storico. Non concordo con Fusaro neanche quando afferma che Evola a tale necessaria reazione in senso antiamericano “rimarrà sempre legato” (p. 47), visto che l’idea di tradizione mediterranea verrà abbandonata dallo stesso Evola già nei primissimi anni Trenta, ragion per cui non si comprende davvero come potesse essere ancora considerata, a distanza di decenni, un credibile argine all’americanismo.

     Per chiudere: Fusaro afferma che l’antiamericanismo di Evola andrebbe epurato “dalle inaccettabili sfumature razziste” (p. 48). Però Fusaro dovrebbe sapere che l’indignazione morale avrà pure molti pregi ma di sicuro non quello di accrescere la comprensione di ciò che è oggetto di riprovazione. Pertanto, piuttosto che usare la solita ‘clava morale’ antirazzista, sarebbe stato molto più proficuo, a mio modo di vedere, chiedersi se l’avvento anche in Europa della società multirazziale di stampo statunitense abbia contribuito o meno, e in che eventuale misura, alla sempre più pervasiva americanizzazione del nostro continente.

* * *

ottobre 2015

[1] Fusaro cita dalla silloge evoliana, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, pubblicata, a cura di Alberto Lombardo per i tipi di Controcorrente nel 2010. Lo stesso articolo si può leggere nella raccolta completa dei contributi evoliani usciti su Il Popolo italiano, curata da Giovanni Sessa per la Pagine Editrice nel 2014.

[2] Saggio volutamente non inserito nella silloge Civiltà americana. Per la corretta individuazione delle due citazioni si veda J. Evola, “Americanismo e bolscevismo”, in Id., I saggi della Nuova Antologia, Edizioni di Ar, Padova 1982, p. 53, ora anche in Id., Il ciclo si chiude. Americanismo e bolscevismo 1929-1969, a cura di G. de Turris, Fondazione Evola, Roma 1991.

mardi, 13 octobre 2015

Ernesto Milá entrevistado por el blog realmofchaosslavestodarkness

Ernesto Milá

entrevistado por el blog realmofchaosslavestodarkness


Respuestas al cuestionario enviado por el blog realmofchaosslavestodarkness y publicado hace un mes en https://realmofchaosslavestodarkness.wordpress.com/2015/09/16/entrevista-a-ernesto-mila/
 

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1 - En primer lugar, nos gustaría conocer los orígenes de Infokrisis, hace ya más de diez años, y cuáles son los objetivos del blog en el futuro, al menos, inmediatos o a corto plazo.
 
El blog se inició en 2003, no como blog sino como web. Fue de las primeras que se diseñó en España en php. Al cabo de un año, unos hackers la reventaron… así que opté por plataformas que dispusieran de su propio sistema de seguridad. A partir de 2010 el blog está en dos plataformas, la antigua, blogia.com y blogspot (que abrí al percibir que se habían producido nuevos intentos de hackeo).

¿Objetivos? Un blog no es más que una fotografía de lo que uno piensa en cada momento concreto de su vida, de lo que le interesa y le preocupa, de lo que medita y de lo que consume. No hay más objetivo que el opinar sobre la actualidad o reproducir artículos propios que ya se han difundido en otros medios. En este sentido, es también un almacén de trabajos realizados. La falta de tiempo hace que no pueda incorporar material audiovisual ni más comentarios.

Este escaparate de lo que te interesa en cada momento quizás esto pueda servir a alguno como orientación, pero no tengo el más mínimo interés en ser gurú de nada, ni referencia. En momentos de crisis y confusión, cada cual debe buscar su camino.


2 - Hace unos días le preguntábamos a Gustavo Morales si, de finales de la década de los ochenta para acá, notaba cierta evolución en la opinión pública española, un mayor grado de crítica y discrepancia frente a los medios de comunicación o la "política profesional"... No era muy optimista al respecto. Qué piensa Ernesto Milá, ¿estamos mejor o peor que en el 2004 y los inicios de Infokrisis? ¿Hay mejores "mimbres" hoy en España para construir una opción política relevante, respecto a la que teníamos hace diez años?
 
Los medios de comunicación han ido variando con el paso del tiempo y mucho más en la última década con la crisis del papel impreso. Antes tenían opinión y voz propia. Ahora son simplemente la expresión de grupos económicos que tienen poco que ver con la comunicación. La televisión no es más que publicidad y, de tanto en tanto, para que la gente vea los anuncios, alguna cadena coloca incuso programación. En cuanto a la prensa influye poco o nada: hoy ver a alguien comprando un diario empieza a ser un arcaísmo, una excepcionalidad inusual.

En 2003 apenas había en España 2.500.000 de internautas (y parece que fue ayer). Hoy todo el país y por distintas terminales (ordenador, tablet, móvil) tiene acceso a la red… así pues, cabría pensar que existen mayores ocasiones para difundir información libre. Y así es. El problema es que, paradójicamente, la saturación de información mata a la posibilidad de informarse y la falta de espíritu crítico hace el resto. Es el resultado de 50 años de crisis de la educación (que ya se empezó a reflejar en los últimos años del franquismo) que han barrido literalmente el espíritu crítico de las nuevas generaciones.
¿Existen comunicadores dignos de tal nombre? Sí, claro, hay tertulianos más independientes que otros, más lúcidos y más incisivos… pero, no nos engañemos, se trata de excepciones perdidas en el océano de la mediocridad. Por todo ello cabría decir que estamos en peor situación que ayer y en mejor situación que mañana.

El debate político (como el debate cultural, como el debate social y así sucesivamente) es algo desconocido en España. Existen, como máxima, riñas de gayos y peleas al estilo del pressing cacht norteamericano: puro espectáculo. Nada serio. El “estadista”, como el “periodista” que creía en su trabajo de llegar al fondo de las cuestiones e informar a los lectores, son dinosaurios de otro tiempo sustituidos por el diputado mudo y el tertuliano remunerado.
 
3 -Ante la denominada "crisis de los refugiados", se corre el riesgo de que ante el llamamiento lacrimógeno a la solidaridad de los europeos, se refuercen posturas "anti-sistema", no solo euro-escépticas, sino cercanas a partidos de tercera posición, nacionalistas, etcétera... ¿Cuál es su opinión al respecto? ¿Dónde se producirán en un primer momento?
 
Seamos claros en un punto: hay inmigración en Europa porque conviene al capital. Para ganar competitividad en relación a otros actores económicos de la globalización es necesario rebajar salarios (dado que ningún país es dueño de su política monetaria) y eso se hace inyectando cuanta más inmigración, mejor. Se benefician unas patronales y se perjudica al grueso de la comunidad. La cuestión humanitaria solo preocupa a las almas cándidas.

Durante 20 años ha estado llegando inmigración con la excusa de que “pagarían las pensiones de los abuelos”. Bien, esa excusa ya es inutilizable: está claro que la inmigración no solamente no paga pensiones, sino que en sí misma, es un lastre y una aspiradora de recursos económicos. Ahora la excusa de sustitución (necesaria especialmente después de las devaluaciones de la moneda china, país que sí puede practicar una política monetaria propia y guiada por sus intereses) es la “humanitaria”. Vivimos en tiempos de ultra-humanismo, somos “tan humanitarios” que cada vez con más frecuencia de extienden los “derechos humanos”, incluso a las mascotas… Tenemos miles de ONGs subvencionadas que hacen de la “ayuda y la solidaridad” su negocio en lo que se ha dado en llamar “estafa humanitaria”.

Hay que tener en cuenta que la clase política ya no planifica: su horizonte son los cuatro años que median entre unas elecciones y otras. Lo que ocurra luego le tiene sin cuidado. Toda la clase política europea ya no piensa en términos de futuro, ni de bienestar de sus hijos en una generación, ni de lo que ocurrirá después, solamente se mueven en términos de dejar hacer a los actores económicos, preocupándose especialmente de su jubilación, es decir, del patrimonio que gestionarán cuando abandonen el poder.

Obviamente las respuestas euroescépticas, populistas de izquierdas y de derechas, son el resultado de una decepción creciente ante la clase política. Pero es una respuesta muy superficial y en la que no se excluyen regresiones: es decir, aceptaciones finales del esquema neoliberal mundial, de la globalización… En ese esquema la economía está por delante de la política. Si tenemos en cuenta que nunca como hoy han existido tales acumulaciones de capital y nunca como hoy la clase política ha estado compuesta por tantas mediocridades y oportunistas, veremos que la desproporción es absoluta. La aludida falta de espíritu crítico de la población es el coadyuvante necesario para agravar la situación.

Lo dramático es que existen grupos de opinión hartos de la actual situación y que están reaccionando a derecha e izquierda, pero en ningún caso, todavía, tienen fuerza suficiente como para imponerse mínimamente a la actual corriente dictada por los “señores del dinero”. Y el tiempo juega contra ellos: el empobrecimiento cultural, la pérdida de identidad, la disminución del espíritu crítico, el repliegue hacia lo personal, son fenómenos que aumentan de día en día tendiendo a reforzar el sistema.

Céline decía: “Nunca ha votado, no tengo la menor duda de que la mayoría es idiota por tanto sé lo que saldrá de las urnas”. Vale la pena tener todo esto en cuenta a la hora de valorar las posibilidades de la contestación.
 

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4 - Para muchos, la postura "evoliana" es una postura acomodaticia, poco valiente. Tal y como están las cosas, en España, en Europa y Occidente en general, ¿existe la posibilidad de reconducir a las democracias occidentales y recuperar la soberanía nacional, o es una batalla perdida? De producirse, ¿cuáles podrían ser los puntos de inflexión que precipitarían los acontecimientos?
 
Evola lo único que dice es “sigue tu camino”… lo cual implica saber cuál es el camino de cada cual. Somos diferentes: unos más volcados a la acción, otros hacia la meditación, otros hacia el trabajo. Desde Dumézil se sabe que siempre existió una división trifuncional en las sociedades indo-europeas. Hay un Evola (el de Los Hombres y las Ruinas) que habla al hombre de acción. Hay otro Evola (el de Cabalgar el Tigre) que se dirige a otro tipo humano. Esto es fundamental para entender la obra de ste autor.

Dicho lo cual, añadiré que la cuestión sobre si en Europa puede hacerse o no todavía algo, es una vieja cuestión. En los años 50, supervivientes de los antiguos regímenes vencidos y miembros de algunos cuerpos de élite, ya discutían este tema. Existían dos posiciones: mientras Europa esté ocupada a un lado por soviéticos y a otro por norteamericanos, no puede hacerse nada, así que hay que trasladar el teatro de operaciones a Iberoamérica. La otra era, la de utilizar la “idea europea” para crear un nuevo proyecto continental capaz de hacerse un hueco en los escenarios políticos europeos. Este debate prosiguió hasta los años 70 y pertenece a mis recuerdos de juventud.

En la actualidad, Europa está perdida. Se puede tener un lugar bajo el sol de la democracia a condición de evitar todo radicalismo, y ocupando siempre un lugar secundario en la escena política. Es una opción a la espera de que los tiempos mejores. El problema es que la globalización es una apisonadora que mediante la Unión Europea, imposibilita cualquier capacidad de respuesta. Además, sus estructuras y políticas no son democráticas (es decir, no se elijen en votación sino que “surgen” en oficinas tecnocrática que ya no están al servicio de Europa sino del capital).

Desde 1945 la soberanía de los Estados es ficción: los vencedores de entonces (que siguen siéndolo hoy) se arrogaron el derecho de intervenir allí en donde aparezcan “amenazas” para la “comunidad mundial”. Desde 1945 el término “soberanía nacional” está obsoleto. Es un recuerdo, un residuo de la época de las Naciones-Estado. Hoy vivimos el tiempo de la Globalización, un concepto incompatible con cualquier otro que no sea soberanía del dinero. Hace unas décadas se solía decir que en Europa era donde los problemas habían alcanzado su máximo de intensidad, por tanto era aquí en donde antes se reaccionaría y de manera más contundente.

Pero ese planteamiento olvida que no son las Naciones las que reaccionan, sino los pueblos… y el pueblo europeo está tan absolutamente bastardizado y ganado por la ideología humanitarsta-globalizadora como cualquier otro. Es más: de manera empírica hemos podido comprobar que en otros países, especialmente en Canadá o en algunas zonas de Iberoamérica, existen criterios más racionales para la educación y están ausentes los prejuicios que en Europa han alcanzado categoría de dogmas.

No veo qué reacciones en profundidad podría aparecen en Europa, ni en función de qué: si Europa apenas ha reaccionado ante la crisis global iniciada en 2007, abandonad toda esperanza… no reaccionará jamás. El caso griego es sorprendente. Los europeos de hoy no son ya los descendientes de los héroes de las Termópilas, ni de Teotorburgo, no son ni los nobles godos que se propusieron reconquistar España desde los montes astures y el Pirineo catalán, no son hijos de los cruzados, ni herederos de los descubridores: son pobres despistados, débiles, moralmente ganados por el universalismo que han perdido incluso sus instintos naturales (el territorial, el de supervivencia y el de agresividad).

Por otra parte, reaccionar en contra de la globalización defendiendo a los Estados-Nación no parece la mejor fórmula: y la respuesta euroescéptica a la globalización se está haciendo desde los Estados-Nación, mucho más que desde otra perspectiva europea o desde la perspectiva de los “gran espacios” cuya necesidad ya se había puesto de manifiesto a finales de los años 30.
 
5 -En un reciente artículo de Infokrisis, se apostaba muy acertadamente por lo que se denominaría un "trans-partido", ajustado a una realidad social, económica, política y cultural muy diferente a la que hemos conocido hasta ahora. Si no lo entiendo mal, el futuro estaría ahora en fórmulas tipo plataforma o coalición, que aglutinen voluntades en torno a eso que se denomina "ideas fuerza". Algo similar hemos visto dentro del nacionalismo político español, primero con La España en Marcha, y ahora con la coalición entre España 2000, PxC y PxL. Las izquierdas a esto lo han llamado -al menos en Madrid, el caso de Ahora Madrid- "partido instrumental". ¿Podrá el patriotismo político español abandonar las siglas históricas y evolucionar en la misma dirección?
 
Bueno, el artículo que mencionas tiene unos 5 ó 6 años, se publicó inicialmente en la revista IdentidaD, es decir, se escribió al iniciarse la crisis de 2007, pensando que podría a partir de esta crisis se generaría una “respuesta nacional” en todo el continente que abarcaría también a España. No ha sido así.

mila105903-politica.gifVayamos por partes: de las siglas y las iniciativas que mencionas solamente hay dos que tengan un mínimo de actividad y peso, PxC y E2000. El resto son entelequias a las que falta incluso “principio de razón suficiente”: ¿Por qué existe una FE-LaFalange y no está dentro de una sigla común? ¿un Nudo qué es? ¿un partido, un círculo de amigos, qué fórmula legal tiene? ¿Pueden existir coaliciones de cuatro o cinco siglas sin un solo cargo electo y con apenas unos cientos de votos en donde cada parte sea celosa de su “independenci”? Absurdos, solo absurdos y nada más que absurdos con los que no vale la pena perder mucho tiempo. Ganará el partido que tenga los mejores cuadros, los más lúcidos, los mejor preparados, el equipo más dinámico y las ideas más claras: y en mi opinión solamente hay una fórmula, el eje PxC-E2000. Todo lo demás, es demasiado pequeño, oscilante e indefinido, o incluso meros arcaísmos.

Y sí, sigo pensando que la fórmula “partido político” ya no es la adecuada. Plataformas locales unidas en torno a un programa mínimo, vertebradas por una dirección que piense en los mismos términos y en torno a un fuerte liderazgo. No creo, por supuesto que siglas históricas puedan reavivarse en ninguna circunstancia, ni tampoco creo que partidillos que llevan 20 y 30 años funcionando con los mismos líderes y sin obtener un solo éxito, sirve para algo más que para disolverse.

Pero también aquí, te diré, que ando cansado de realizar propuestas, analizar fórmulas y sugerir soluciones e incluso de seguir esta temática. No ostento ningún cargo de dirección en ningún partido y creo que va siendo hora de que las direcciones de los partidos, partidillos y grupos de amigos, demuestren lo que valen y la idoneidad de sus propuestas. En lo que a mí respecta, no tengo nada que añadir ni que proponer.
 
6- Hagamos política ficción, y supongamos que dicha plataforma existe a muy corto plazo, de aquí a las generales... ¿Existe alguna posibilidad de conseguir algún éxito por la vía electoral de aquí a diciembre, o habría que esperar a las europeas de 2019? En tal caso, ¿cómo estará España para entonces, dentro de cuatro años?
 
No creo que en las elecciones de diciembre de 2015 se presente ninguna opción “patriótica” y en caso de presentarse, el fracaso será el habitual en todo lo que se hace con improvisación y sin dos dedos de frente. Las europeas de 2019 están muy lejos y veremos lo que ha sobrevivido. En cuatro años, España estará como hoy… pero un poco peor.

milaPortadaMundoCúbico.jpgCon un 18-20% de la población de origen inmigrante, con el sistema de pensiones colapsado, con 5.000.000 de parados enquistados y un tercio de la población próxima al umbral de la pobreza o por debajo de ella, con un sistema educativo convertido en mero almacenamiento de alumnos, y posiblemente con un segundo estallido de la burbuja inmobiliaria (si miráis en torno a las grandes ciudades, vuelven a verse grúas trabajando, cuando aún quedan 2.500.000 de pisos sin vender…) y cuando las repercusiones de la segunda oleada de crisis de la globalización, la que está en estos momentos estallando en Brasil, afecte particularmente a las empresas de nuestro país… tal será el horizonte que tendremos en 2019.

Más inestabilidad política, los mismos niveles de corrupción, la misma deuda impagable, y casi una cuarta parte de origen extranjero. No va a ser, desde luego, una situación como para que la “vieja banda de los cuatro” (PP+PSOE+CU+PNV), ni la “nueva banda de los cuatro” (Podemos+Ciudadanos+Bilbu+ERC) puedan echar cohetes, pero tampoco como para pensar que las masas van a acudir expontáneamente a una opción euroescéptica, identitaria o “patriótica”.

Para que eso ocurra en un plazo máximo de año y medio o dos debería levantarse una bandera que, por el momento, no existe, y que como digo solamente podría partir de PxC y E2000. ¿Por qué insisto en esta idea? Porque son los dos únicos grupos que tienen una mínima presencia institucional… es decir, que tienen algo de contacto con la población. El resto, apenas registran actividad y su ausencia de mínimos resultados electorales indica que carecen de cualquier cordón umbilical con el electorado. Hay que partir de experiencias concretas que hayan supuesto contacto real con los intereses de la población. Cualquier otra cosa se hundirá en medio de la esterilidad más absoluta, por mucho que en algún momento atraigan puntualmente la atención mediática.
 
7 -Recientemente hemos leído sendos artículos en prensa de Juan Manuel de Prada o Fernando Sánchez-Dragó en medios "generalistas", bastante lúcidos, que son toda una excepción dentro del discurso único de periódicos como El País, ABC, El Mundo o La Razón. ¿Cuáles son, en su opinión, otros autores "discrepantes" que, a nivel nacional o internacional, resulten al mismo tiempo accesibles, recomendables y potencialmente "peligrosos" o "dañinos" para el sistema?
 
Drieu la Rochelle decía que “un intelectual no es aquel que piensa, sino el que hace del pensar una profesión”. Estoy de acuerdo con esa definición. Un intelectual tiene la función de un despertador. Es lo máximo a lo que puede aspirar. Cuando un intelectual se levanta, cada día, piensa lo que tiene que escribir. Cientos de cuartillas. Miles al año. Es inevitable que en algunas se acierte. A los nombres que citas se podrían añadir otros que publican en medios de derechas y de izquierdas.

Hubo un tiempo en que los intelectuales cambiaban la historia o al menos influían sobre el devenir histórico y en torno suyo se formaban cuadros que luego serían dirigentes políticos. La Generación del 98, por ejemplo, la del 27, o el círculo de intelectuales  que formó en torno a Maurras en Francia. Esto no ocurre ahora: el intelectual es una voz que clama en el desierto. Influye muy poco en una sociedad que cada vez lee menos. Siempre he afirmado que el avance espectacular del Front National en 1984 y en 2014 no tiene absolutamente nada que ver con los miles de páginas escritas por Alain de Benoist.

Habitualmente el conocido cuento del Rey desnudo (de Andersen… sobre la base de un cuento español del infante don Juan Manuel, El Conde Lucanor) termina con un rey abochornado cuando un “niño” (perífrasis simbólica del intelectual) grita “¡El rey está desnudo!”… Puedo adaptar ese cuento a la modernidad: “tras oír la frase, toda la muchedumbre sigue alabando al rey y el propio rey le tiene absolutamente sin cuidado si está desnudo, vestido de armiño o haciendo el pino”. ¿Moraleja de esta versión del cuento? El intelectual puede predicar en el desierto; nadie le oirá, ni aun entendiéndolo, le prestará mucho más caso que el que se presta a una lluvia de verano. Me permitirás, por tanto, que me abstenga de recomendar autores; hasta un reloj parado acierta la hora dos veces al día. Vale la pena, eso sí, tener cierta curiosidad intelectual y picotear un poco por todas partes, sin ningún tipo de prejuicios, pero lo peor que hoy puede hacerse es tener “autores de referencia”. Tal es otro “signo de los tiempos”.
 
8- Una pregunta breve, y muy directa: ¿Existe la posibilidad de conseguir éxitos electorales sin tener presencia en los medios de comunicación, y más concretamente, en la televisión?
 
Milicia I.jpgCreo que sí. Pero es una falsa cuestión. Logra un clip viral y no necesitarás salir en TV, lo verá mucha más gente y durante más tiempo. Por otra parte, los medios se hacen eco de todo lo que tiene algún tipo de influencia en la sociedad. Siempre. Ningún “patriota” ha aparecido en TV en las últimas décadas simplemente porque, salvo acciones estilo Librería Blanquerna, apenas existe actividad patriótica y la que existe llega poco a la población. La gente que se queja de que Pablo Iglesias subió gracias a la TV, olvida que previamente existieron años de preparación (movimiento de los indignados, 15-M, décadas incluso siendo segundos espadas de Izquierda Unida). Nadie aparece en TV porque sí. Cuando desalojan a un Hogar Social, las cámaras acuden y entrevistan a alguien… hay una excusa para ello.

Harina de otro costal es lo que dicen los entrevistados. En televisión “repite” el que genera audiencia. Y para ello hace falta o ser un payaso (y aceptar ponerse en ridículo delante de la sociedad) o bien ser un provocador (y generar polémica, procurando gritar más que el resto de contertulios). Si alguien tiene un mensaje que difundir no estoy seguro de que la televisión sea el medio más adecuado. Lo que no hay que confundir es “no salir en televisión” con “no hacer nada que interese a la televisión” o con “difundir un mensaje que no interese al televidente”… En realidad, lo primero es la consecuencia de lo segundo.
 
9 - Nos gustaría, por último, que recomendase a los lectores del blog alguna película o algún libro (novela, ensayo, biografía) reciente que considere de interés.
 
Milicia II.jpg¿Novela? Me voy a lo clásico: El viaje al fin de la noche de Louis Ferdinand Céline. Sin duda, la mejor novela escrita en el siglo XX. Hay que leerla para reconocer que este título no es exagerado. ¿Ensayo? Compré El corazón de las tinieblas pensando que tendría alguna relación con la novela de Joseph Conrad. Lo tiene de manera simbólica; un ensayo muy recomendable sobre la estructura del Universo. Sólo apto para lectores seguros de no sufrir angustia existencial al percibir que estamos más próximos al cero que al infinito. ¿Biografía? La de Dionisio Ridruejo. Del fascismo al antifranquismo… interesante para comprender el primer franquismo y la naturaleza de los círculos intelectuales falangistas.

¿Cine? Habitualmente me regalo sobredosis de cine: Misericordia y Profanación ambas de género negro nórdico y con los mismos personajes; Timbuktu de cine minoritario africano, muestra la realidad del yihadismo vista por los que tienen que sufrirla; cine español: La isla mínima (el género negro es el mejor que se hace en España); ¿series? la primera temporada de True Detective, incluso la segunda, ligeramente más baja; ciencia ficción: Interestellar. Humor pausado: Los niños del cura… ¿Para qué seguir? De todas formas, me atrevería a realizar alguna sugerencia: ¿ves TV? No tienes excusa. Solamente un masoquista con una alta capacidad de sufrimiento podría ver series partidas con entre 6 y 15 minutos de publicidad, largometrajes que a medida que se acerca el final aumenta la publicidad hasta lo insoportable. Hay plataformas peer to peer para disponer de cualquier película o serie que te interese, plataformas digitales –Netflix en menos de un mes– que por menos de 10 euros al mes te ofrecen miles de películas, está youTube para ver el Club de la Comedia sin necesidad de comerse a algunos pestiños contratados para hacer bulto y los clips musicales que te interesen. Y un amplio elenco de Documentales de la TV2 que se pueden bajar o ver cuando a uno le dé la gana.


Lo dicho: si sigues viento la TV Odín no te admitirá en el Walhala…

(c) Ernesto Milà - info|krisis - http://info-krisis.blogspot.com  - Prohibida la reproducción de este texto sin indicar origen.
(c) realmofchaosslavestodarkness.wordpress.com/ - Prohibida la reproducción de este texto sin indicar origen.

mardi, 15 septembre 2015

L'Atlantide contre l'Atlantisme

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L'Atlantide contre l'Atlantisme

par Laurent James

Voici le texte de mon intervention aux Rencontres Eurasistes de Bordeaux, le 5 septembre dernier

Le but de mon intervention est de montrer les principes de l’Atlantide et de l’atlantisme afin d’éviter toute confusion entre les deux. La confusion contemporaine entre l’eurasisme et le mondialisme est fondamentalement basée sur les mêmes erreurs, et j’expliciterai les raisons pour lesquelles ce sont, précisément, le nationalisme, le marxisme et le complotisme (tous regroupés sous le terme générique de « dissidence » qui la propagent.
 
On peut trouver sur le site de VoxNR un texte inédit de Douguine. Il s’agit du chapitre 3 d’un livre titré « Misterii Evrazii » (Les Mystères de l’Eurasie »), un ouvrage paru en Russie en 1996, puis traduit en espagnol et en italien mais pas encore en français. Douguine y développe les motivations ésotéristes du combat eurasiste, lesquelles ne sont pas tellement connues.
 
A ce sujet, on peut noter que c’était précisément pour présenter ces aspects, que nous l’avions invité à Rennes-le-Château le 18 janvier de cette année pour une journée de conférences avec, entre autres, André Douzet, Erik Sablé, Walid Nazim, Tony Baillargeat et Constantin Parvulesco. Ce dernier devait présenter à cette occasion des « Interprétations alchimiques du Saint-Suaire ». J’en profite pour insister sur un point évoqué dans mon dernier texte paru sur le blog de Parousia, à propos de Paul-Eric Blanrue. Selon la tradition, le Suaire est le Linceul, cité par les Evangiles, qui servit à envelopper le corps du Christ au tombeau. Il renvoie directement à la réalité de la Passion, et c’est pour cette raison que Jean-Paul II l'a défini comme étant le « miroir de l'Evangile ». Tous les révisionnistes du Saint-Suaire sont nos ennemis absolus, à nous autres catholiques intégraux et soldats du Christ. Que cela soit bien clair !
 
Excusez-moi de parler de ça cinq minutes encore, même si ça semble hors sujet. Ça ne l’est pas, en réalité. Certains me reprochent de parler parfois de sujets subalternes, comme la querelle entre Yann Moix et Paul-Eric Blanrue. Je trouve au contraire qu’il est très intéressant d’insister sur le fait que ce n’est pas parce que le premier est un atroce écrivain béhachélien que le second a forcément raison. Voici ce que Blanrue a écrit dans le n°141 de « L’Homme libre, fils de la terre (Recherche d’une psychologie libératrice) », en octobre 1994 :
 
"J’aimerais aborder tranquillement les questions de l’historicité du Christ (rien ne prouve que Jésus soit autre chose qu’un mythe syncrétiste judéo-païen), de la mystification de la Salette (une des rares « apparitions » à avoir été jugée comme arnaque), des problèmes archéologiques liés à la découverte un peu trop providentielle du Saint Sépulcre (trois siècles après les prétendus événements)".
 
C’est le problème principal du révisionnisme, ça ne s’arrête pas aux portes des chambres à gaz. Dans le même texte, il parle de « la vieille Eglise catholique en pleine phase déliquescente ».
 
Lorsqu’on passe des années à saper les fondements du catholicisme en usant d’une arme aussi profane qu’est le zététisme voltairien (il faut savoir que Voltaire est la référence majeure de Blanrue), et que l’on se convertit ensuite à l’islam après avoir constaté qu’il n’y avait plus de valeurs dans le catholicisme, je pense qu’on est inconséquent, c’est le moins que l’on puisse dire. Pourquoi Blanrue ne continue-t-il pas sur sa lancée voltairienne, et ne démontre-t-il pas maintenant, par exemple, que la Kaaba n’a jamais été construite par Abraham ? Il publierait son étude sous le titre « Le secret de la Kaaba : autopsie d’une escroquerie », et là, il aurait une certaine cohérence !
 
On peut se convertir à l’islam pour de très bonnes raisons, mais on peut aussi le faire pour de très mauvaises. De manière générale, le mot conversion est banni de mon vocabulaire. La seule conversion légitime est le retour à la foi de ses parents, ou de ses grands-parents. A condition que celle-ci soit légitime et justifiée, bien sûr ! Pour rester dans le monde chrétien : la fidélité à ses parents quand ils sont évangélistes ou Témoins de Jéhovah est, en réalité, une trahison complète envers la Tradition. Un de mes amis a trahi la foi protestante helvétique de sa famille, en venant se faire déprotestantiser à Marseille par le Père Zanotti-Sorkine. Voilà un bel exemple de fidélité absolue !
 
Revenons à Rennes-le-Château. Douguine connait parfaitement l’importance métahistorique de la région du Razès. Il désirait établir avec nous une connexion solide entre le Royaume d’Araucanie et la Sainte-Russie sur une des places fortes de la Gaule surnaturelle et enchantée. Ainsi que je l’ai dit, sa conférence devait porter sur les racines ésotéristes de l’eurasisme.
 
AtlantideScience.jpgComme vous le savez peut-être, une poignée de très sombres individus a réussi à faire capoter le projet cinq jours avant qu’il n’ait lieu. La version officielle réside dans la lâcheté de l’organisateur, qui en trahissant Alexandre Douguine, a également trahitoute la famille Parvulesco : le grand-père Jean, le père Constantin (qui avait immédiatement décidé d'annuler sa venue en apprenant la censure de Douguine), et le fils Stanislas. Mais nous sommes aussi parfaitement au courant des manipulations effectuées dans l’ombre par d’autres personnages, ésotéristes de troisième zone et guénolâtres stériles. Certains d’entre eux se sont d’ailleurs publiquement réjouis de l’annulation de cette conférence, assurés de leur impunité. Qu’ils sachent que nous les avons tout à fait identifiés, et que la riposte sera à la hauteur de leur lâcheté.
 
Je reviens à ce chapitre écrit par Douguine, diffusé sous forme de samizdat en 1988, portant sur « L’Amérique, ou la Terre verte ». Il y examine les « dessous mythologiques de l’Amérique », disant que (je cite) « si une telle idée de l’Amérique a pu s’enraciner dans la conscience géopolitique universelle et devenir quelque chose de néo-sacral, il doit y avoir à cela des raisons très sérieuses associées à l’inconscient collectif de l’humanité, et à cette géographie secrète continentale qui plonge ses racines dans les millénaires mais dont le souvenir continue à vivre comme archétypes psychiques ».
 
Il commence par noter que le continent américain était connu, « longtemps avant le voyage de Christophe Colomb », notamment par les Vikings. Ceci est aujourd’hui validé par presque tout le monde, et l’arrivée de Leif Erikson à Terre-Neuve, par exemple, est une chose établie. Sans parler du grand voyage de saint Brendan de Clonfert et saint Malo jusqu’au Québec au VIè siècle. Sur la question des Vikings en Amérique, je ne saurais trop conseiller de lire les ouvrages de Jacques de Mahieu (dont le fils Xavier Marie se livre aujourd’hui à des activités politiques intéressantes en Argentine). Jacques de Mahieu, professeur et directeur de l'Institut des Sciences de l'Homme de Buenos Aires dans les années 70 et 80, a étudié de nombreuses cartes géographiques précolombiennes, dont la célèbre carte de l’amiral ottoman Piri Reis, dérobée à un compagnon de Colomb après un combat naval. Cette carte représente de manière très précise l’Amérique du nord et du sud, ainsi que le Groenland et l’Antarctique. Pour Jacques de Mahieu, ces connaissances géographiques remontent au moins jusqu’aux Vikings, qui se seraient implantés au Pérou pour y fonder l’empire de Tiahanacu, ancêtre des Incas, et qui seraient à l’origine de la production métallurgique dans ce pays (mines d’or et d’argent). Il pensait même que la richesse des Templiers, qui financèrent la construction de 80 cathédrales gothiques en moins de cent ans, provenait de l’exploitation industrielle de ces mines et de leur réception au « port secret du Temple », celui de la Rochelle.
 
Cependant, la connaissance du continent américain est peut-être bien antérieure encore. L’amiral Piri Reis affirmait que, parmi les documents ayant permis à Colomb d’entreprendre son expédition, se trouvait également « un livre datant de l’époque d’Alexandre le Grand ». Mais est-ce bien de l’Amérique dont il s’agit ?
 
1)      L’Atlantide
 
Rappelons brièvement que l’Atlantide tenait elle-même ses principes civilisationnels de la Tula hyperboréenne, l’île polaire sacrée placée sous la protection de la constellation de la Grande Ourse. Lorsque l’on évalue les dates principales de notre cycle en se basant sur les ères précessionnelles de 2160 ans, la Chute, soit le passage de l’Age d’Or à l’Age d’Argent, ou encore la naissance du mal dans l’histoire humaine, s’est produite il y a environ 39 000 ans. Ce qui correspond à l’irruption de l’Homme de Cro-Magnon en Europe, mais ceci est un autre sujet.
 
L’Age d’Argent dura ensuite près de 20 000 ans, puis l’Age de Bronze débuta en – 17000 (ce que l’on appelle historiquement le magdalénien). Il se manifesta notamment par l’irruption de ce cataclysme spirituel irrévocable qu’est l’œuvre d’art plastique (art pariétal), et par la naissance de l’Atlantide sous le signe de la Balance.
 
Rappelons que tous les cyclologues, de Platon à Gaston Georgel, en passant par Guénon, situent la fin de l’Atlantide dix mille ans avant notre ère, soit en plein milieu de l’Âge de Bronze. – 10000 : c’est la fin de la glaciation de Würm II, avec une élévation importante du niveau des eaux, et le tout début de l’avènement du néolithique. Six mille ans plus tard, en – 4300, l’Age de Bronze se termine brutalement et débouche sur l’Age de Fer avec le Déluge de Noé, que Platon nomme le Deucalion.
 
Attention à ne pas confondre le Déluge de Noé avec le Déluge de l’Atlantide, 6500 ans les séparent.
 
Une fois, Douguine me demanda de lui dire en quelques mots ce que représentait pour moi l’eurasisme. Je lui répondis : c’est la meilleure manière de guérir du traumatisme du néolithique. Guérir notre continent d’une plaie infiniment douloureuse et lancinante, le traumatisme infligé par la submersion de l’Atlantide, la perte du dernier foyer de connaissance qui nous liait à l’Hyperborée primordiale, ce qui signa la fin du nomadisme métaphysique des peuples européens par leur sédentarisation agricole de plus en plus stérile et dissolvante : c’est donc ce que l’on nomme historiquement le néolithique, advenu durant les ères successives du Cancer et des Gémeaux, qui ont précédé le Déluge de Noé en – 4320.
 
On considère généralement qu’il y a eu deux récepteurs de la civilisation atlantéenne, deux filles de l’Atlantide : l’Egypte et la Chaldée, toutes deux émergeant durant l’ère précessionnelle du Cancer (8640/6480 av. J.-C.), soit deux mille ans avant la fin de l’Age de Bronze.
 
Le cas de l’Egypte est, de loin, le plus étudié. Voir, par exemple, les travaux de Schwaller de Lubicz sur la très haute civilisation de la « théocratie pharaonique » originelle. De nombreux auteurs ont mentionné que les pyramides étaient des images de l’axe polaire hyperboréen, dont les proportions arithmosophiques provenaient d’un enseignement atlantéen, et qu’elles avaient certainement été construites à une époque antédiluvienne.
 
Quant à la Chaldée, de nombreux auteurs l’ont en partie associé à la Celtide.
 
Jean Phaure relevait « l’identité sémantique de la terre celte et de la Chaldée (keltoï désignant en grec la caste sacerdotale) ». Il est possible que les celtes originels constituaient la caste sacerdotale de la société chaldéenne.
 
Je cite René Guénon, dans « Symboles fondamentaux de la science sacrée » : « La tradition celtique pourrait vraisemblablement être regardée comme constituant un des points de jonction de la tradition atlante avec la tradition hyperboréenne, après la fin de la période secondaire où cette tradition atlante représenta la forme prédominante et comme le substitut du centre originel déjà inaccessible à l’humanité ordinaire ».
 
Notons par ailleurs que la Chaldée et l’Egypte furent également deux étapes successives de l’histoire du peuple juif, avec les figures d’Abraham et de Moïse. Sem vécut d’abord chez Japhet avant de se rendre chez Cham. Cela explique la présence de la tradition atlantéenne dans l’Ancien Testament, comme l’avait étudié Guénon.
 
Alexandre Douguine «  La Terre verte – l’Amérique » [partiel]
 
« L’Atlantide est ce paléocontinent dont parlèrent Solon, Platon et beaucoup d’autres après eux. L’Atlantide est le continent sacré occidental, où prospéra une grande civilisation spirituelle, qui périt à la suite d’un terrible cataclysme et d’une inondation. La destruction du continent est le plus souvent décrite comme un événement graduel : après l’abaissement de sa partie continentale, de sa partie principale, située à l’ouest de l’Europe et de l’Afrique, survécurent pendant un certain temps quelques îles dans l’Atlantique Nord, où se concentrèrent les dernières souches atlantes, dépositaires de la tradition ancienne. L’une de ces terres, d’après Hermann Wirth, fur Mo-Uru, qui fut à son tour submergée beaucoup plus tard, plusieurs millénaires après le cataclysme principal. »
 
« Dans l’image sacrée (et par conséquent dans le nom) de l’Amérique doit d’abord se refléter l’idée de son origine ‘extrême-occidentale’. Selon les travaux du professeur Wirth, le plus ancien centre sacré de l’Occident était la terre de Mo-Uru, l’île de Mo-Uru, située dans l’Atlantique du Nord-Ouest. Ce nom est mentionné dans le Bundahishn (un texte sacré zoroastrien), où il vient en troisième position après l’Aryanam-Vaejo des grands ancêtres aryens (l’Aryanam-Vaejo se trouvait directement au Pôle Nord, sur le continent arctique ‘Arctogaïa’, disparu il a déjà de nombreux millénaires) ».
 
C’est probablement ce que les Grecs nommaient l’Hyperborée.
 
« C’est justement avec l’aide de ce mot-clé Mo-Uru, et en se fondant sur le déchiffrement des runes et des symboles proto-runiques que le professeur Wirth parvint à pénétrer les secrets de plusieurs cataclysmes ethniques et raciaux de la préhistoire ».
 

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« Il existe une doctrine sacrée mentionnée par Guénon, affirmant que la tradition judaïque est ‘occidentale’ par son origine symbolique et préhistorique. Ur en Chaldée, d’où Abraham partit vers la terre promise, apparaît comme un substitut de Mo-Uru, de la ‘Ur nord-atlantique’, puisque même le Zohar affirme que Ur, où résidait initialement Abraham, symbolise ‘l’état spirituel supérieur’, dont Abraham, par nécessité providentielle, ‘descendit’ vers le bas (il est intéressant de remarquer que les juifs partagent assez souvent ce point de vue concernant l’origine occidentale de leur tradition, comme cela apparaît à travers les premiers projets sionistes de l’organisation d’un ‘Etat juif’ en Amérique ou dans les livres de Simon Wiesenthal sur la préhistoire juive de l’Amérique et de Edmund Weizmann sur ‘L’Amérique, Nouvelle Jérusalem’). De cette manière, l’énigmatique nom Mo-Uru désigne précisément le continent sacré extra-européen, situé à l’Ouest, dans l’Atlantique ».
 
« Cependant le continent Amérique, selon nous, n’est pas le contient le plus occidental de la géographie sacrée (l’Atlantide), mais sa ‘continuation’ vers l’Occident. En d’autres mots, l’Amérique est une ‘Outre-Atlantide’, c’est-à-dire une terre située ‘de ce côté, vers l’Ouest’. Il est possible que ce déplacement sacralement symbolique de l’Amérique explique l’inquiétant secret associé à celle-ci dans le contexte de la géographie sacrée des civilisations traditionnelles de l’Eurasie.
 
 En accord avec cette géographie sacrée, à l’Occident se trouve la ‘Terre Verte’, la ‘Terre des morts’, une sorte de monde semi-matériel, qui rappelle l’Hadès ou le Shéol. C’est le pays du Crépuscule et du Coucher, d’où la sortie est impossible pour les simples mortels, et auquel peut accéder seulement un prédestiné. On pense que le nom du Groenland (littéralement, le ‘Pays Vert’) se réfère justement à ce lieu symbolique. Le ‘Pays Vert’ n’est pas l’Atlantide (et Mo-Uru non plus !), mais quelque chose se trouvant plus à l’Occident de celle-ci, le ‘monde de la mort’, le ‘royaume des ténèbres’. Et cet aspect ultra-mondain du continent américain se révèle d’une manière surprenante dès le premier regard sur une chose aussi banale que le symbole du dollar. René Guénon a remarqué un jour que le symbole $ sur la monnaie américaine est une simplification graphique de l’emblème sacré qui se rencontre sur les monnaies anciennes de la région méditerranéenne. Initialement les deux lignes verticales étaient des représentations des ‘colonnes d’Hercule’ qui, selon la tradition, se trouvaient à l’extrême-occident, après le détroit de Gibraltar. Sur ce symbole apparaissait initialement l’inscription symbolique ‘nec plus ultra’, qui signifiait littéralement ‘rien au-delà’. Ces deux symboles désignaient une frontière, la limite occidentale de la géographie sacrée humaine, au-delà de laquelle se trouvaient les ‘mondes non-humains’. Et ce symbole ‘frontalier’, indiquant qu’on ne peut pas aller au-delà de Gibraltar, est devenu d’une manière paradoxale le symbole financier de l’Amérique, d’un pays qui se trouve ‘au-delà de la frontière’, ‘là où on ne peut pas aller’, là où l’inscription sur le prototype du dollar interdisait justement d’aller ».
 
« Dans une telle perspective, la redécouverte du continent américain par Colomb porte en elle-même une signification assez funeste, puisqu’elle indique l’apparition à l’horizon de l’histoire de ‘l’Atlantide submergée’, et même pas de l’Atlantide, mais de son ‘ombre’, de sa continuation négative dans l’Occident symbolique, dans le ‘monde des morts’. Et la coïncidence chronologique de cette ‘redécouverte’ avec le début du brusque déclin de la civilisation européenne (et eurasienne en général), qui commença dès ce moment à perdre rapidement ses principes spirituels, religieux, qualitatifs et sacrés, est assez significative à cet égard »
 
« Sur le plan purement culturel-philosophique, l’Amérique devient dès lors le lieu de projection idéal de toutes les utopies profanes, athées ou semi-athées. On peut comparer le cycle historique de l’Amérique à celui d’une ‘Nouvelle Atlantide’, sortie de la profondeur des eaux, mais il ne s’agit pas de la vraie Atlantide ressuscitée, mais d’une autre, chimérique, contrefaite, fantomatique, qui s’est consacrée à faire revenir ‘l’âge d’or’, mais de laquelle émane l’odeur du continent-tombe ».
 
« L’eschatologisme pénètre la conception même d’un ‘Nouvel Ordre Mondial’ qui répète et développe les projets idéologiques américains, et cette conception présuppose l’expansion du modèle américain sur tous les territoires restants de la planète. Ainsi, émergeant des profondeurs d’un inquiétant mystère ésotérique, le ‘Nouveau Monde’ tente de se présenter comme la ‘nouvelle terre’ spirituelle dont parle l’Apocalypse et qui doit apparaître après la Fin des Temps. Mais pour le continent américain l’époque post-apocalyptique est déjà arrivée : la victoire des armées alliées dans la seconde guerre mondiale – qui a conduit les Etats-Uns à la domination mondiale – ainsi que la signification symbolique des vicissitudes des Juifs (de cette nation mystique si importante dans l’histoire) en Allemagne, tout cela a fusionné dans la théorie de ‘l’Holocauste’, de ‘l’ultime sacrifice de l’histoire’, après lequel l’Outre-Atlantide, unie au ‘Nouvel Israël’, est entrée dans la période du ‘Grand Sabbat’, de ‘l’époque heureuse’, de ‘l’ère d’abondance’. L’attente des temps messianiques a commencé, et la conscience continentale américaine archaïque, ‘l’esprit’ inquiet du continent ‘ré-émergé’, donne aux tendances messianiques et eschatologiques une force mystique enracinée dans la perception symbolique du monde d’une humanité qui conserve la conscience du lien et des correspondances de l’espace et du temps au cours des longs millénaires ».
 
On pourrait résumer cette prodigieuse analyse de cette manière :
 
L’atlantisme outrepasse l’Atlantide et contrefait la Jérusalem Céleste.
 
Il double l’origine et parodie la fin.
 
Parmi des milliers de citations, en voici une de  George Washington : « Les Etats-Unis sont la Nouvelle Jérusalem, établie par la Providence dans un territoire où l’homme doit atteindre son plein développement, où la science, la liberté, le bonheur et la gloire doivent se répandre en paix ».
 
Je reprends un paragraphe du texte de Douguine, «  La Terre verte – l’Amérique », portant sur l’Age d’Or.
 
« Si l’on ne tient pas compte du rôle symbolique de l’Outre-Atlantide dans son ensemble supra-temporel et méta-historique, ce pathos messianique restera incompréhensible et toute la dimension de fausse spiritualité qui se trouve derrière lui ne pourra pas être comprise et évaluée. Comme dans toutes les eschatologies ‘parodiques’, nous avons affaire ici à la confusion de ‘l’âge d’or spirituel, qui arrivera immédiatement après la Fin de l’histoire, avec la période temporelle précédent cette Fin ».
 
L’atlantisme est une eschatologie parodique, prétendant établir directement sur terre le nouvel Age d’Or (exactement comme l’a été le bolchevisme). L’eurasisme, quant à lui, propose l’établissement d’un rapport entre civilisations qui précéderait ce nouvel Age d’Or. Il s’agit de préparer les Temps de la Fin, et en aucun cas de faire advenir la Fin des Temps dont saint Matthieu nous dit bien «  Pour ce qui est du jour et de l’heure, personne ne le sait, ni les anges des cieux, ni le Fils, mais le Père seul » (XXIV.36). Tout en rajoutant au verset suivant quelque chose de fondamental « Ce qui arriva du temps de Noé arrivera de même à l’avènement du Fils de l’homme » (XXIV.37).
 
Et le déluge de Noé, c’est justement l’éradication de toutes les colonies atlantes, à l’exception – comme je le disais tout à l’heure – de la Chaldée (Japhet), de l’Egypte (Cham) et des juifs faisant la jonction entre les deux (Sem). C’est aussi, à cette occasion, le début de l’écriture. J’y reviendrai à la fin de mon intervention.
 
L’eurasisme n’a donc aucune prétention à établir un nouvel Age d’Or terrestre. L’Empire Eurasiatique ne constitue en aucun cas un pendant, un succédané ou une prolongation de l’empire américain. Penser et écrire cela, c’est justement ne rien comprendre à l’opposition radicale entre Atlantide et atlantisme. Ces sempiternelles accusations de contre-initiation à l’égard de Douguine et de l’eurasisme proviennent toujours de ces mêmes milieux de guénolâtres sectaires et dogmatiques, qui dressent une barrière autour de leur Idole (ils se défendent tous de ce terme, mais il est ici usité dans son acception la plus exacte) afin de la conserver dans sa pureté d’ivoire. Ces guénolâtres sont obsédés par les derniers chapitres de « Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps », attachés à traquer derrière la moindre parole ou le moindre geste de ceux qu’ils n’aiment pas (c’est-à-dire tous ceux qui tentent d’agir concrètement pour la beauté et la justice) les indices de « contre-initiation », de « contre-tradition », ou tout simplement de satanisme. Ces guénolâtres tentent de faire passer leur pauvreté ontologique, humorale et physique pour le résultat d’un grand travail guénonien de dépersonnalisation. On ne sera pas étonné d’apprendre, d’ailleurs, que certains d’entre eux font justement partie du groupe d’individus dont je parlais tout à l’heure, qui ont tout tenté pour faire capoter la venue de Douguine à Rennes-le-Château.
 

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Pour ces gens-là, Léon Bloy est également un contre-initié de première classe. J’ai justement retrouvé un texte extraordinaire de Léon Bloy : c’est la conclusion de son Exégèse des Lieux Communs. Je vais vous le lire partiellement, et vous verrez à quel point les visions du catholique intégral sont proches des nôtres, notamment sur cette opposition fondamentale entre atlantisme et Atlantide.
 
Léon Bloy Conclusion de « L’Exégèse des Lieux Communs » [partielle]
 
« On a souvent demandé où pouvait bien être situé le Paradis terrestre. Platon et mon savant ami de l’Institut, Pierre Termier, m’ont donné les moyens de l’identifier.
 
Le Paradis terrestre, le lumineux Eden d’où furent expulsés nos premiers Parents n’était et ne pouvait être que l’Atlantide.
 
Je sais que cela a été dit déjà par j’ignore quels Américains qui voudraient faire croire que ce continent disparu depuis tant de siècles fut autrefois une partie considérable de leur continent et que l’Amérique actuelle prolonge, en cette manière, à travers les âges, le biblique Jardin de Volupté. Il suffit d’avoir vu, ne fût-ce qu’en passant, le soi-disant béatifique empire du Dollar, pour savoir ce qu’il faut penser de cette prétention. Mais ils ajoutent sottement et lourdement que le Déluge qu’on croyait universel est assez expliqué par la submersion de la seule Atlantide et l’anéantissement simultané du premier Eden. Je cesse alors d’écouter ces protestants spécieux et je reviens au divin Platon qui ne savait rien du Paradis terrestre, mais qui paraît avoir été l’irrécusable témoin d’une tradition archi-séculaire.
 
En son admirable conférence à l’Institut océanographique, le 30 novembre 1912, Pierre Termier a supérieurement démontré, par les plus récentes acquisitions de la science géologique, la véracité du grand philosophe qui raconte, imperturbablement, depuis vingt-quatre siècles, l’histoire de l’Atlantide en ses Dialogues ».
 
2)      L’Atlantisme historique
 
Sur le plan strictement historique, Robert Steuckers nous explique dans son texte fondamental titré « Eurasisme et atlantisme : quelques réflexions intemporelles et impertinentes », que l’atlantisme est d’abord une alliance européenne et chrétienne contre l’islam.
 
« L’atlantisme naît évidemment de la découverte des Amériques par Christophe Colomb en 1492. Mais l’objectif premier des puissances européennes, surtout ibériques, sera d’exploiter les richesses du Nouveau Monde pour parfaire un grand dessein romain et “alexandrin”, revenir en Méditerranée orientale, reprendre pied en Afrique du Nord, libérer Constantinople et ramener l’Anatolie actuelle dans le giron de la “Romania”. Le premier atlantisme ibérique n’est donc que l’auxiliaire d’un eurasisme “croisé” ibérique et catholique, allié à la première offensive de l’eurasisme russe, et portée par un dessein “alexandrin”, qui espère une alliance euro-perse. Une telle alliance aurait reconstitué le barrage des empires contre la steppe turco-hunnique, alors que les empires antérieurs, ceux de l’antiquité, se nourrissaient de l’énergie des cavaliers de la steppe quand ceux-ci étaient indo-européens. »
 
La naissance de l’atlantisme correspond donc historiquement à celle de la modernité. Il est identitaire et non-traditionaliste, puisqu’il est profondément ancré dans une époque qui se détourne radicalement du monde tri-fonctionnel médiéval.
 
Mais l’atlantisme se détache ensuite de notre continent, puis se constitue objectivement contre celui-ci. Son caractère anti-traditionaliste se renforce contre l’identité de l’Europe.
 
« L’atlantisme proprement dit, détaché dans un premier temps de tout projet continentaliste eurasien, nait avec l’avènement de la Reine Elisabeth I d’Angleterre (1558-1603). […] Le décès prématuré de Marie Tudor amène Elisabeth I sur le trône en 1558; elle y restera jusqu’en 1603: motivée partiellement par l’ardent désir de venger sa mère (Anne Boleyn), la nouvelle reine enclenche une réaction anti-catholique extrêmement violente, entraînant une cassure avec le continent qui ne peut être compensée que par une orientation nouvelle, anglicane et protestante, et par une maîtrise de l’Atlantique-Nord, avec la colonisation progressive de la côte atlantique, prenant appui sur la réhabilitation de la piraterie anglaise, hissée au rang de nouvelle noblesse après la disparition de l’ancienne aristocratie et chevalerie anglo-normandes suite à la Guerre des Deux Roses, à la fin du XV° siècle.
 
C’est donc une vendetta familiale, un schisme religieux et une réhabilitation de la piraterie qui créeront l’atlantisme, assorti d’une volonté de créer une culture ésotérique différente de l’humanisme continental et catholique. Elle influence toujours, dans la continuité, les linéaments ésotériques de la pensée des élites anglo-saxonnes, notamment ceux qui, en sus du puritanisme proprement dit, sous-tendent la théologie politique américaine. »
 
« Le terme d’atlantisme apparaît lors des accords entre Churchill et Roosevelt, scellés au beau milieu de l’Océan en 1941. En 1945, l’Amérique du Nord et l’Europe occidentale forment un ensemble, qui deviendra l’OTAN, une alliance centrée sur l’Atlantique-Nord, que l’on qualifiera rapidement, dans les écrits polémiques, d’ “atlantisme”. »
 
Parler d’atlantisme pour évoquer le pouvoir judéo-anglo-saxon est certes réducteur, comme l’écrit Steuckers, parce que l’Empire est tri-océanique (Atlantique, Pacifique et Indien). Le vocable « atlantisme » n’est donc pas véritablement géographique, tout comme le vocable Occident, par ailleurs : c’est le monde entier qui est occidentalisé, d’Est en Ouest et du Nord au Sud. C’est la raison pour laquelle l’Occident – tout comme l’atlantisme, dont il est rigoureusement synonyme - est aujourd’hui une notion absolument délocalisée. Cela pourrait même constituer une véritable définition de l’Occident, tout à fait paradoxale mais juste : l’Occident est le terme qui désigne une zone du monde géographiquement délocalisée. Tout ce qui est géographiquement délocalisé est occidental. C’est-à-dire qu’il est tout à fait logique que la zone du monde qui se soit accaparé toutes les autres soit justement celle dénuée de toute racine, c’est-à-dire de toute valeur ontologiquement spirituelle. On reproche souvent son prosélytisme à la religion quelle qu’elle soit, mais en réalité, la laïcité, l’athéisme franc-maçon et le matérialisme libéral sont infiniment plus prosélytes que n’importe quel jésuite ou salafiste.
 
On peut donc parler d’Empire du non-être, puisque c’est un Empire qui ne possède aucun contour physique, aucune armature idéologique et aucune transcendance spirituelle.
 
3)      Nationalisme
 
En ce qui concerne l’eurasisme, le premier véritable changement de paradigme a eu lieu avec Konstantin Leontiev, diplomate, écrivain et philosophe russe de la seconde moitié du dix-neuvième siècle.
 
L'eurasisme russe était majoritairement pro-occidental (indo-européanisant) et anti-musulman jusqu'à l'avènement de la guerre de Crimée de 1853. Or, Konstantin Leontiev, à cette époque, a complètement changé les perspectives en proposant (je cite Robert Steuckers)."une alliance anti-moderne des chrétiens orthodoxes et des musulmans contre le libéralisme et le démocratisme modernes, diffusés par les puissances occidentales. Leontiev suggéra dès lors une alliance entre Russes et Ottomans, qui constituerait un bloc de Tradition contre le modernisme occidental" Il se trouve que l'eurasisme "douguinien" promeut très activement cette vision des choses.
 
C'est une des raisons principales pour laquelle la plupart des extrême-droites européennes sont anti-douguiniennes, ce dernier étant islamophile et se revendiquant d'une "race" russe (mélange de slaves, de scandinaves et de mongols). Douguine intègre l'épopée du khanat et de la Horde d'Or dans l'histoire de la Russie, et la revendique pleinement. Ce qui agace particulièrement les nationaux-socialistes racialistes, tous favorables à l'Ukraine pro-Otan (et racialement slave, non "contaminée" par les mongols).
 
Je pense personnellement que la guerre du Donbass est également motivée par des critères raciaux, surtout du côté ukrainien où l’on considère généralement que les russes sont des faux slaves. J’ai rencontré l’ukrainien Andriy Voloshyn à Zvenigorod en octobre 2011, lors du congrès « Against Post-Modern World ». C’est un homme très intéressant, bon poète et connaisseur de la littérature française. C’est en discutant avec lui et ses amis que j’ai découvert pour la première fois l’existence d’une animosité raciale ukrainienne contre le « faux slavisme » russe. Voloshyn est aujourd’hui chef adjoint des relations internationales pour Svoboda.
 
Je cite un exemple précis.
 
2906785185_1_3.jpgLe site nationaliste Breiz Atao a mis en ligne en août 2014 un texte titré « Alexandre Douguine ou la subversion de la Russie orthodoxe », très violemment opposé au penseur de l’eurasisme. Le texte cite un entretien de Douguine de 2002 donné au journal russe Kommersant-Vlast : « La Russie est seulement sauvée par le fait que nous ne sommes pas de purs Blancs. Les corporations multinationales prédatrices, oppressantes et détruisant tous les autres, sans parler de MTV, des gays et des lesbiennes – c’est le fruit de la civilisation blanche, dont il est nécessaire de se débarrasser. Donc je suis pour les rouges, les jaunes, les verts, les noirs, mais pas pour les blancs. » On imagine ce que ce trait d’humour peut provoquer chez des racialistes un peu crispés.
 
Le même article reproche à Douguine le fait d’estimer que la Russie ne soit pas un pays européen, contrairement à Poutine qui a déclaré “Les valeurs russes ne diffèrent pas des valeurs européennes”. Or, les principes premiers de l’eurasisme excluent d’autorité toute valeur commune entre l’Europe et la Russie, puisque les principes premiers de l’eurasisme relèvent de la spiritualité, et que l’Europe est (ou devrait être) catholique et protestante (malheureusement) et la Russie est orthodoxe. On peut travailler au rapprochement entre le catholicisme et l’orthodoxie, et c’est même la plus grande tâche à accomplir aujourd’hui, mais la Russie et l’Europe ne peuvent pas être confondues ni mises sur le même plan.
 
Rappelons que l’eurasisme politique, dont les bases intellectuelles se trouvent dans le concept de multipolarité civilisationnelle, promeut le rejet de toute norme internationale dans quelque domaine que ce soit et la promotion de la coexistence des civilisations au niveau mondial.
 
Je vais dire à nouveau ce que j’ai dit à Bruxelles en octobre dernier, parce que l’eurasisme politique est quelque chose d’absolument fondamental, et qu’il n’est pas vain ni inutile de rappeler ce paragraphe qui est en opposition frontale avec tous les schémas de pensée nationaliste, que l’on trouve notamment dans la fameuse dissidence française nationalisto-marxisto-complotiste.
 
Les civilisations sont les pôles du monde multipolaire, et leur définition repose sur le substrat de ce qu’est une civilisation au sens traditionnel, c’est-à-dire sa spiritualité ; ces civilisations sont (je cite Douguine dans son ouvrage "Pour une théorie du monde multipolaire") : la civilisation orthodoxe (« Son guide est l’union eurasienne, dont les étapes sont l’intensification de la coopération militaro-stratégique au sein de l’Organisation du Traité de Sécurité Collective, le partenariat économique au sein de la Communauté économique eurasienne, l’Union entre la Biélorussie et la Russie, le projet de l’espace économique commun, incluant l’Ukraine en partie, ainsi que les structures de la CEI ») ; la civilisation islamique (« recouvrant la Conférence islamique, la Banque islamique de développement, l’espace chiite commun incluant l’Iran, l’Irak et le Liban, ainsi que les projets fondamentalistes du nouveau califat »)
 
ce point est particulièrement important, dans la mesure où la dissidence nationalisto-marxisto-complotiste voit systématiquement derrière tout mouvement "islamiste radical" un complot américano-sioniste. Ces conceptions se retrouvent également dans son ouvrage "La Quatrième Théorie Politique". Voir, notamment, son chapitre "L'empire islamique (le califat mondial)" où il écrit clairement : "Le fait que les islamistes radicaux aient désigné les Etats-Unis comme leur principal ennemi constitue une preuve suffisante du fait que nous avons affaire à un projet sérieux et responsable". Bien sûr, le terme de califat utilisé par Douguine n’a rien à voir avec l’actualité, ses ouvrages étant antérieurs à 2013. Ce qui compte véritablement, c’est que puisse surgir «un Etat musulman supranational qui serait parvenu à unifier et restructurer le monde musulman» (je cite Soleiman Al-Kaabi, spécialiste de la temporalité coranique, et qui nous fait l’honneur d’être présent dans cette salle).
 
; la civilisation hindoue (« renforcement de l’influence indienne en Asie du Sud, sur le sous-continent indien, au Népal et dans certains pays du bassin du Pacifique, proches de l’Inde géopolitiquement et culturellement ») ; la civilisation chinoise (confucianiste) incluant la Chine, Taiwan, l’émergence de la zone du yuan or ; la civilisation japonaise ; la civilisation catholique (Europe d’un côté et Amérique latine de l’autre) ; la civilisation bouddhiste (Asie du sud-est) et la civilisation africaine (« Organisation de l’unité africaine, les Etats-Unis d’Afrique »).
 
Je répète, donc, ce que j’ai dit en octobre dernier à Bruxelles : Comprendre l’Empire Eurasien, c’est favoriser la gouvernance globale civilisationnelle contre la révolte des nations bourgeoises. La révolte des nations bourgeoises, comme par exemple la révolte de l’Ukraine atlantiste et occidentale contre l’Empire civilisationnel russe, contre la Novorossiya et ses hommes encadrés par Igor Strelkov, tous prêts à donner leur vie pour Jésus-Christ. Alors qu’en face, chez Svoboda ou le bataillon Azov, on se bat pour l’Ukraine indépendante.
 
Le texte de Breiz Atao cité tout à l’heure continue en ces termes :
 
« On comprend dès lors que Douguine ne souscrive absolument pas au principe de vérité révélée seule détenue par l’Eglise, orthodoxe ou catholique, et qu’en conséquence son approche géopolitique consiste à défendre un strict cosmopolitisme spirituel. Acquis à l’idée gnostique que la connaissance éclaire l’homme et le sauve et que la vérité est partout, pour qui sait la voir, Douguine veut donc dresser l’ensemble des civilisations non-occidentales, contre l’Ouest démocratique paradoxalement né dans les mêmes cercles.
 
Cette approche hérétique du point de vue orthodoxe comme catholique sert pourtant de base idéologique à l’intellectuel “eurasiste” afin de se faire passer comme le tenant d’une Russie orthodoxe intransigeante.
 
Ce confusionnisme spirituel, il le partage avec celui qui est de mise aux USA où les sectes et groupes religieux de toute nature sont particulièrement puissants, de l’Eglise de Scientologie à la maçonnerie, en passant par les églises évangélistes, les organisations musulmanes ou bouddhistes. »
 
Une confusion maximale est encore atteinte ici entre l’atlantisme et la Tradition héritée de l’Alantide. La proposition de Douguine en matière de religion consiste à éviter toute notion de conversion ou de mission religieuse : les conceptions politiques de la multipolarité s’étendent à la sphère spirituelle. C’est-à-dire que l’on condamne toute propagande religieuse. Par exemple, il est normal qu’un orthodoxe prétende que sa religion possède un caractère universel, et que tout le monde devrait être orthodoxe. Mais le principe de la multipolarité veut qu’il s’occupe d’abord de sa propre civilisation orthodoxe, qu’il la bâtisse correctement afin qu’elle soit belle, juste et cohérente. S’il convainc d’autres personnes de devenir orthodoxe, ce sera grâce à la perfection de l’exemple qu’il pourra donner. L’eurasisme est radicalement anti-colonialiste sur tous les plans, y compris – et peut-être même surtout – sur le plan religieux. Le traditionalisme pratiqué par Douguine sert surtout à comprendre que, si chaque religion est la seule valable pour la personne qui la pratique, le fait que toutes les religions justifiées procèdent d’une même substance permet de ne pas voir le croyant d’une autre religion comme un ennemi mais comme un allié face à l’athéisme marchand. Chacun sait qu’il a raison dans son for intérieur de posséder sa propre foi, mais chacun sait également qu’il a raison de ne pas vouloir convaincre l’autre par tous les moyens d’abandonner sa foi pour rejoindre la sienne. C’est justement cela, la multipolarité, et c’est la meilleure politique possible au XXIIè siècle. Et cela n’a strictement rien à voir avec ce « cosmopolitisme spirituel » dont parle le site Breiz Tao. Toujours cette confusion entre atlantisme et Atlantide. Par ailleurs, j’ai bien parlé de religions justifiées, telle que celles citées précédemment : orthodoxie, islam, hindouisme, confucianisme, shinto, catholicisme et bouddhisme. Les spiritualités modernes (Scientologie, maçonnerie ou Témoins de Jéhovah) n’ont pas leur place dans un monde eurasiste. Il n’y a aucune tolérance ni aucun confusionnisme spirituel dans les principes eurasistes.
 

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J’ai assisté il y a peu à une conférence de Mgr Williamson à Marseille. Il affirme que, lorsque l’on discute avec un orthodoxe comme M. Poutine par exemple, le but premier de la conversation est de pouvoir amener par tous les moyens son interlocuteur au catholicisme. Je pense, personnellement, qu’il y a d’autres urgences que de vouloir convertir à tout prix les masses russes à la foi catholique, et que, par ailleurs, il n’est pas tout à fait certain que l’on puisse y parvenir aussi facilement que cela.
 
Dans la perspective eurasiste, ce sont donc les alliances de civilisations, et conséquemment des spiritualités authentiques, qui renverseront la matrice du non-Etre. En tant que construction bourgeoise élaborée par la classe marchande pour élargir ses intérêts socio-économiques, la nation est la première ennemie du monde traditionnel, surtout dans notre patrie où, comme je l’ai déjà expliqué dans d’autres conférences, la France s’est construite de manière particulièrement visible contre la Gaule au bénéfice intégral de ses fausses élites, à tel point que la centralisation française et la destruction concomitante de nos terres enchantées sont devenues le modèle structurel et archétypal de l’occidentalisation du monde.
 
Pour des raisons historiques liées à leur anti-atlantisme originel, la plupart des mouvements nationalistes en Europe faisaient partie des dernières forces politiques à n’avoir pas succombé aux sirènes états-uniennes. Mais cette époque est bel et bien terminée, et la guerre du Donbass les a presque tous fait tomber dans le piège.
 
Je pense notamment à Zentropa ou Casapound. Je sais bien qu’il existe de nombreux courants de pensée en interne vis-à-vis de ces questions-là, mais enfin, il est quand même évident qu’ils relaient essentiellement des messages anti-NovoRossiya.
 
Ceux qui écoutent de la musique industrielle ou neofolk (ou autres) le savent aussi bien que moi : presque tous ces groupes musicaux sont passés du côté de Svoboda. Je pense notamment à la dernière série de concerts de Death In June, cette année en France, et à leur nouvelle version de « Liberté c’est un rêve ». Après l’incantation « Où est Klaus Barbie », Douglas Pearce rajoute « Où est Ben Laden, où est Poutine ? ». Ils appellent même ça le « Bin Putin mix ». Ce qui signifie bien, par ailleurs, qu’il n’y a jamais eu aucune ambiguïté depuis le début avec ce titre, Barbie étant considéré comme un méchant absolu au même titre que Ben Laden et Poutine, exactement comme le pense n’importe quel journaliste du Nouvel Observateur. Le groupe a également joué à Kiev, à Odessa, même à Marioupol, sur la mer d’Azov, « en hommage à leurs frères d’armes » ont-ils proclamé. De manière plus anecdotique, mais tout aussi révélatrice, un type comme Claus Larsen (de Leatherstrip) qui nous soulevait d’enthousiasme en 1992 avec son titre « Anti US », chante aujourd’hui « The evil in Putin’s Eyes ».
 
En réalité, ce n’est pas la première fois que les nationalistes tombent dans ce type de piège tendu par l’atlantisme.
 
J’ai relu cet été « Les Décombres » de Lucien Rebatet. J’ai été frappé par de nombreuses analogies avec notre époque. La volonté de guerre de l’Occident face à l’invasion des Sudètes par Hitler (en septembre 1938) fait songer à la propagande belliciste face au rattachement de la Crimée par Poutine. 1938 : les allemands des Sudètes, minorité ethnico-linguistique en danger au sein d’un pays fictif comme la Tchécoslovaquie. 2015 : les Russes de Crimée et du Donbass, minorité ethnico-linguistique en danger au sein d’un pays fictif comme l’Ukraine. Et, à l’époque, comme aujourd’hui, les nationalistes qui poussent à la guerre aux côtés de l’Occident. Rebatet, lui, faisait partie du camp de la paix.

Lucien Rebatet « Les Décombres – Ch. III Pour l’amour des Tchèques » [partiel]

« A une volonté de guerre aussi extravagante et frénétique, il fallait certainement des ressorts considérables. A Je Suis Partout et à l’Action Française, on les avait décrits sans répit depuis des mois. Le clan de la guerre tchèque était le même qui avait livré Mayence, remis Strasbourg sous le feu des canons allemands, vomi l’insulte contre Dollfuss, reçu Schussnigg à Paris dans une gare de marchandises, traité en hors la loi Mussolini, le garde du Brenner. La sécurité territoriale, la suprématie et la prospérité de la France lui importaient fort peu. Encore moins l’Autriche. Il l’avait condamnée e 1919. Il avait sournoisement précipité sa fin en lâchant et vilipendant ses défenseurs.
 
Mais la Tchécoslovaquie était sa chose, sa création de choix. J’hésitais souvent devant les explications un peu grosses et populaires d’un événement politique. Mais cette fois, l’erreur eût été de subtiliser. Hitler eût pu exiger sans courir le moindre risque le retour de plusieurs millions d’autres Allemands dans le giron nazi. Il réclamait ses Sudètes, Allemands de la tête aux pieds, en vertu d’un droit des peuples codifié et contresigné par les démocrates eux-mêmes. Mais le droit genevois variait selon les hommes et l’heure autant que la liberté et la justice des républicains. Il n’y avait pas plus de droit des peuples pour les Sudètes que de droits de l’homme pour Maurras en prison.
 
Nos boutefeux eussent peut-être bien livré sans coup férir deux millions d’Alsaciens authentiques. Mais le dessein de Hitler portait atteinte à un fief élu de la grande maçonnerie. Il menaçait de forcer la porte d’une Loge illustre entre toutes les loges.
 
La construction tchécoslovaque était manifestement ridicule et branlante. Mais c’était justement la meilleure raison pour que les hommes de toutes les expériences idiotes, des faillites socialistes, des pactes lunaires, des finances de cirque, des avions contre Franco, des sanctions contre le Duce, des tendresses à Staline, des ambassades de Guignol, l’adoptassent comme leur rejeton amoureusement couvé. Il avait fallu un collage laborieux et des spoliations indignes pour donner consistance à cet Etat chimérique. Mais nos hommes le caressaient comme le chef-d’œuvre de leur traité. Sur leurs cartes, les Allemands le coloriaient du vermillon dévolu aux pays contaminés par le bolchevisme. C’était bien en effet sa nature et sa fonction : au cœur de l’Europe, un instrument choisi du despotisme marxiste, des intrigues, des capitaux, des vetos et des haines du Triangle et d’Israël. Hitler menaçait là quelque chose d’infiniment plus essentiel aux yeux de bien des gens que la plaine d’Alsace ou la vie d’un million de nos fantassins. M. Benès avait fait le grand signe de détresse. Il ne s’agissait plus d’une des mésaventures ministérielles qu’on résout avec quelques pelotons de gardes mobiles et deux ou trois assassinats. Le grand branle-bas de combat répondait à l’appel de Frère ».
 
Rebatet confortera ensuite dans Je suis Partout sa position pacifiste, fasciste et grand-continentale. Un an après, la même histoire recommençait avec la Pologne. Et la guerre totale s’enclencha…
 
L’hitlérisme était un eurasisme par bien des côtés, et la lecture de Drieu La Rochelle nous le confirme, lui qui disait que la seule chose qui le gênait au début dans le fascisme, c’était le nationalisme, et qu’il avait définitivement rejoint le fascisme après qu’il se soit débarrassé de cette erreur. La victoire concomitante du libéralisme et du communisme en 1945 ont plongé l’Europe, et même le monde, dans une nuit profonde. L’intensité de l’oppression démocratique, médiatique et financière augmente chaque jour en France depuis 70 ans, tant et si bien que l’on est aujourd’hui persuadé qu’il est impossible que la libération ne provienne de forces internes à notre pays. Revenons à l’hitlérisme : c’était bien sûr un eurasisme partiellement dévoyé, car non ancré dans une authentique spiritualité justifiée et bien établie. Jean Parvulesco en dresse un court bilan dans Un retour en Colchide, son dernier ouvrage – son dernier roman – publié en 2010. Vous allez voir qu’on est très loin du discours « dissident » actuel.
 

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Jean Parvulesco « Un Retour en Colchide » [partiel]
 
« Si ce matin, au réveil, je ‘écrie Acqua Alta, c’est que je sens que nous entrons en des temps de très hautes marées. Des puissances immenses, tout à fait insoupçonnées jusqu’à présent, s’apprêtent à être de retour en force ; des choses se passeront que nous n’avions jamais encore vues, et cela d’un instant à l’autre. D’autre part il est certain que, malgré l’état authentiquement révolutionnaire de ses débuts, le Troisième Reich hitlérien a dû assumer, jusqu’à la fin et même au-delà, quatre grandes erreurs fondamentales, erreurs qu’il a dû payer de sa totale destitution politico-historique, de son évacuation irrévocable de la réalité de ce monde, comme s’il n’avait jamais existé. Ces quatre erreurs sont les suivantes – c’est le moment de les rappeler.
 
(1)   L’inconcevable imbécillité criminelle de la Shoah, de la conception et de la mise en œuvre dans les conditions que maintenant l’on sait du projet visant l’anéantissement du peuple juif dans toutes ses dispersions européennes ».
 
Afin de couper court aux critiques qui pourraient immédiatement fuser de la part des milieux « dissidents » actuels, je précise que Parvulesco n’écrivait pas ceci dans le but de passer à la télévision, d’entrer à l’Académie française ou d’avoir son siège au comité directeur du Groupe Bilderberg : il avait 81 ans, était rongé par la maladie et ne pouvait plus sortir de son lit. Mais Parvulesco, en tant qu’authentique ésotériste traditionaliste, a toujours proclamé sa passion pour la véritable mystique juive et pour la Kabbale (tout comme Guénon, d’ailleurs, je le signale aux guénolâtres antisémites qui courent un peu partout).
 
Je reprends.
 
« (2) Le mépris paranoïaque de toutes les nations slaves, et de la Russie en premier lieu, dans la perspective finale d’une vaste entreprise de colonisation des espaces continentaux de l’Est européen ».
 
On peut d’ailleurs penser que l’antisémitisme hitlérien n’était rien d’autre qu’un sous-produit de son anti-slavisme irréductible.
 
« (3) L’hostilité à l’égard de l’Eglise catholique, dont la partie la plus ardente eût dû constituer le substrat eucharistique de la grande révolution continentale européenne que menait le IIIè Reich.
 
(4) Ne pas avoir su reconnaître et encore moins utiliser, sur son front de combat intérieur, des penseurs de la taille d’un Martin Heidegger, ou de Karl Haushofer, ce dernier idéologue du rapprochement continental germano-russe, et avoir préféré à leur place les services d’un crétin subalterne comme Alfred Rosenberg et tous les débiles de la même classe d’indigence mentale (exception faite, peut-être, pour les niveaux supérieurs, ‘ultimes’, de certaines hiérarchies intérieures secrètes de la SS). 
 
Derrière ces terribles erreurs – derrière ces malédictions indélébiles – il y eut cependant une partie incomparable de grandeur réalisée, de surpuissance visionnaire et d’engagement irrationnel, abyssal, d’exploitation symbolique, révolutionnaire, de l’histoire européenne en marche, une part qui ne lui sera jamais enlevée ».
 
Pierre-Antoine Cousteau, dans son Dialogue des Vaincus avec Rebatet, publié en 1950, lâche cette stupéfiante prophétie : « L ’Amérique a mis le doigt dans un drôle d’engrenage. Ca se terminera peut-être très bien, par l’établissement sur cette planète d’une sorte de pax americana, à base de Coca-Cola, de bulletins de vote et de télévision. Ou ça se terminera très mal par un étripage général et des effondrements de gratte-ciel ».
 
4)      Marxisme
 
Les marxistes considèrent que le conflit entre Russie et Occident est une dispute intra-capitaliste, un combat entre deux entreprises multinationales, une lutte économique entre deux entités atlantistes. C’est assez similaire au discours des complotistes « catholiques » comme Pierre Hillard, qui considèrent que le conflit ukrainien n’est qu’une guerre entre deux sectes juives. On retrouve aussi ce discours chez des ésotéristes anti-chrétiens obsessionnellement anti-eurasistes, qui voient dans tout ceci un combat obscur entre deux forces concurrentes de la contre-initiation, Poutine étant issu du KGB et donc de la contre-initiation absolue, évidemment.
 
En fait, personne n’a avalé la désoviétisation de la Russie, effectuée entre autres sous l’impulsion de Jean-Paul II. Il est vrai que ce dernier a pu mener cette opération avec, en partie, le financement de Ronald Reagan. Mais Jean-Paul II l’a fait au nom de la Vierge Marie.
 
Les premiers à regretter la désoviétisation de la Russie sont les marxistes, bien sûr. Certains d’entre eux regrettent que la Russie n’en ait pas profité pour adopter le « véritable communisme » au lieu de se jeter la gueule ouverte dans le Christ ou Mahomet. Dès qu’ils en ont eu la possibilité, les 150 millions de Russes ont choisi de se jeter à corps perdu dans la foi vivante de leur religion retrouvée. Les 120 millions d’orthodoxes ont renoué avec le Christ dont ils avaient soif depuis plus de soixante ans, les 20 millions de musulmans ont retrouvé le chemin de leur mosquée, et les autres ont pu ré-embrasser Bouddha, la Torah ou la main de leur chamane.
 
Il n’y a pas que l’économie dans la vie. Pratiquer la religion ardente de ses ancêtres, avec les valeurs qui l’accompagnent, c’est aussi une façon de résister à l’Occident.
 
La structure économique russe est aujourd’hui faite de capitalisme et de corruption, parce que le caractère totalitaire du capitalisme financier est d’une puissance phénoménale. Mais, contrairement à l’Europe de l’ouest qui a choisi en 1945 de se faire coloniser par l’Amérique, le peuple russe a choisi au début des années 2000 des valeurs fondamentalement anti-occidentales, toutes basées sur l’orthodoxie ou bien l’islam.
 
Contrairement à ce que tentent de nous faire croire les nationalistes engagés du côté de Kiev, tous les partis communistes européens sont aujourd’hui délibérément anti-russes. Et le PCF en tout premier lieu.
 
Exemple n°1, communiqué du 27 novembre 2014. "Le régime de Poutine continue l’œuvre de la restauration capitaliste en ex-URSS, la liquidation des acquis sociaux, de pans entiers de l’appareil de production, l’accaparement des richesses par quelques oligarques. Il s’appuie sur les forces les plus réactionnaires, religieuses, nationalistes, souvent racistes. Il ne tolère les organisations syndicales et politiques, y compris celles dénommées « communistes », que lorsqu’elles lui restent docilement soumises. Le régime est répressif, policier, militariste."
 
Exemple n°2 : communiqué du 20 août 2012, relayé par « L’Humanité ».
 
 « A Moscou, la condamnation à 2 ans d'incarcération des Pussy Riot suscite de multiples protestations dans le monde au nom de la liberté d'expression et pour la défense d'une jeunesse russe qui supporte de moins en moins un système Poutine fermé et répressif.
 
Le Parti communiste français condamne ce qui apparait comme un procès politique qui a du mal à se cacher derrière les accusations de "blasphème" et "d'incitation à la haine religieuse". Il exprime sa consternation devant une peine aussi lourde dont la vocation manifeste est de chercher à freiner un mouvement de protestation populaire et d'aspirations démocratiques qui grandit en Russie.
 
Ce qui aurait pu rester comme une exhibition contestataire et insolente est devenu une affaire nationale qui pose la question des principes et des pratiques d'un Etat de droit, du respect des libertés et des conditions de la laicité et de la démocratie en Russie.  
 
Signé : Parti communiste français »
 
Exemple n°3. Communiqué du 1 mars 2015 : Le Parti communiste français a jugé ce dimanche 1er mars que l'assassinat de l'opposant russe Boris Nemtsov à Moscou avait un "mobile politique évident". Il "condamne avec la plus grande fermeté l'assassinat de Boris Nemtsov et souhaite que l'enquête puisse aboutir dans les plus brefs délais sur l'arrestation des responsables de ce crime, des hommes de main jusqu'aux donneurs d'ordre, et sur des poursuites judiciaires". "C'est un dû à l'ensemble de la société russe qui souffre déjà trop de carences et dénis démocratiques", ajoute le parti dirigé par le sénateur Pierre Laurent.
 
Etc., etc.
 
Il n’y a aucun « rangement délibéré et permanent du PCF derrière l’empire des terres », comme on veut parfois nous le faire croire.
 
Etre marxiste, c’est considérer qu’une Russie soviétique vaut toujours mieux qu’une Russie orthodoxe, quelle que soit la réalité du soviétisme vécu.
 
Etre catholique, c’est considérer qu’une Russie redevenue orthodoxe grâce à l’action de Jean-Paul II est un miracle historique qui devrait être célébré chaque jour avec joie. Bien que polonais, il est notoire que Jean-Paul II aimait la Russie : il avait lu Vladimir Soloviev et Nicolas Berdiaev, ce même Berdiaev qui avait écrit : « La culture occidentale est une culture de progrès. Le peuple russe, quant à lui, est le peuple de la fin ». La doctrine de la « toute-unité » de Soloviev, concernant la question de l’unité chrétienne, était : unité maximale dans la multiplicité maximale. En l’an 2000, pour le centenaire de la mort de Soloviev, Jean-Paul II avait déclaré : « En faisant mémoire de cette personnalité russe d’une profondeur extraordinaire, qui avait très bien perçu le drame de la division des chrétiens et le besoin urgent d’unité, je voudrais inviter le monde à prier pour que les chrétiens d’Orient et d’Occident [de Russie et d’Europe] retrouvent au plus vite la pleine communion ».
 

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Etre catholique, c’est étudier la pneumatologie orthodoxe, avec Saint Grégoire Palamas par exemple, ce saint du XIVè siècle né à Constantinople, qui fit son éducation monastique au Mont Athos, et qui recommanda la méthode d’oraison hésychaste (purification de l’intelligence et maîtrise du souffle) comme expérience directe avec Dieu. Saint Grégoire Palamas a passé sa vie à développer cette idée fondamentale : « Dieu s'est fait homme, pour que l'homme devienne Dieu ».
 
Etre catholique, c’est appeler à une unité retrouvée entre catholicisme et orthodoxie. Non pas dans un sens œcuménique, comme le dira l’orthodoxe Constantin Parvulesco tout à l’heure, c’est-à-dire que le but n’est pas de convertir les orthodoxes au catholicisme. Le but, comme l’écrivait Jean Parvulesco le catholique, c’est de parvenir à trouver le secret de la suprême jonction entre l’orthodoxie et le catholicisme, et ce secret réside dans le dogme du couronnement de la Vierge Marie associé à l’amour intransigeant du Paraclet.
 
Jean Parvulesco parlait de « l’immense bataille théologique et métahistorique en train de constituer actuellement les fondements du renouveau révolutionnaire grand-continental européen du troisième millénaire, qui verra la nativité dogmatique d’une nouvelle religion impériale grand-continentale axée sur la figure de Marie couronnée, de Marie souveraine maîtresse des cieux et de la terre ».
 
Etre catholique, c’est vénérer la Royauté Absolue et Cosmique de la Sainte Vierge, comme dans les visions de Joachim de Flore, comme la décrit saint Jean au chapitre XII de son Apocalypse.
 
Après deux millénaires de représentations picturales et sculpturales du Couronnement de la Vierge, de très nombreux courants chrétiens demandent aujourd’hui la reconnaissance dogmatique de la titulature de la Vierge comme co-médiatrice, co-rédemptrice, Mère de l’Eglise, Reine du monde… Comme l’écrit le Père Zanotti-Sorkine : « En reconnaissant que Marie a sauvé le monde avec son fils, l’église permettrait à sa royauté d’apparaître sous un jour unique, jamais atteinte par aucune tête couronnée de la terre. »
 
Enfin, être catholique, c’est être définitivement anti-marxiste, anti-démocrate, et anti-républicain.

 

 

5)      Complotisme
 
Au début de mon exposé, je rappelais que l’écriture est supposée être née vers – 3500, durant l’ère précessionnelle du Taureau, la première ère de l’Age de Fer qui débuta par le déluge de Noé.
 
Et le déluge de Noé, c’est justement l’éradication de toutes les colonies atlantes, à l’exception – comme je le disais tout à l’heure – de la Chaldée (Japhet), de l’Egypte (Cham) et des juifs faisant la jonction historique entre les deux (Sem).
 
J’aimerais insister sur le lien structurel et signifiant entre l’écriture et son support, et également entre la lecture et son support.
 
Contrairement à ce que proclament les évolutionnistes, toute irruption dans l’histoire d’une nouvelle technologie est un signe direct de l’affaiblissement des connaissances humaines. Plus l’homme est intelligent, et moins il connaît. Et c’est même parce qu’il connaît de moins en moins, du fait de l’éloignement progressif et historique des origines de sa création, que son intelligence analytique se complexifie afin de pouvoir reproduire des phénomènes qu’il savait contrôler auparavant par d’autres moyens que technologiques : des moyens cognitifs et spirituels. L’invention de la roue - et de la charrette – ne prouve rien d’autre le fait que l’homme était alors devenu suffisamment moderne pour ne plus savoir se déplacer autrement que par des moyens matériels.
 
L’écriture est née en même temps que la roue, et au même endroit : en Mésopotamie vers 3600 avant Jésus-Christ. La première écriture montre le besoin de fixer des connaissances sous forme de traits gravés dans l’argile, c’est l’écriture cunéiforme. Puis, quelques centaines d’années plus tard, on trouve les premiers hiéroglyphes en Egypte sur la palette de Narmer. Comme je le disais tout à l’heure, on trouve la présence des trois fils de Noé : deux sont sédentaires, Japhet et Cham, et le troisième, Sem, est nomade. Dans la cité de Japhet (la Chaldée), Sem s’appelle Abraham avant de se rendre dans la cité de Cham (l’Egypte), où il s’appellera Moïse. La vision philosémite des événements consiste à dire que les Juifs récupèrent à chaque fois l’écriture, c’est-à-dire les traces visibles de la religion – d’abord Gilgamesh puis Amon – afin de sauver l’essentiel de chaque civilisation avant qu’elle ne s’écroule. L’Arche d’Alliance pourrait alors être le cœur non-écrit de l’écrit, le centre vide du rouleau, la part interne et non divulgable réservée à la caste sacerdotale La vision antisémite consiste, au contraire, à dire que ce sont les Juifs qui provoquent à chaque fois l’écroulement de la civilisation, d’abord chaldéenne puis égyptienne, afin de pouvoir lui dérober son trésor spirituel. Ce n’est pas mon sujet.
 
Je veux insister sur le fait qu’avec l’écriture se révèle désormais à tout homme une partie des principes spirituels, alors que toutes les religions pratiquées depuis l’expulsion du Paradis étaient jusqu’alors basées sur des principes transmis de manière exclusivement orale et réservés à la connaissance des hommes en mesure de les comprendre.
 
L’invention de l’écriture correspond ainsi à une divulgation partielle des principes. C’est ce qui fait dire à un ami que Moïse, avec ses Tables de la Loi, a été le premier démocrate de l’histoire. Les grandes étapes de l’écriture ont ensuite été les suivantes : l’imprimerie, seconde moitié du XVè siècle (si l’on met de côté la xylographie pratiquée en Asie depuis 700 ans) ; les lettres sont désormais isolées les unes des autres, ce qui segmente la phrase. C’est à cette époque que surgissent à la fois l’humanisme et le protestantisme, deux pensées modernes et hérétiques qui se basent sur une version lettriste du monde, c’est-à-dire qui analysent les choses au pied de la lettre. Notons qu’en même temps, et comme par un effet de contre-réaction, on trouve Rabelais, Marsile Ficin, tous ces écrivains qui tentent d’utiliser la nouvelle technologie en la contournant, afin de retourner le plus efficacement possible aux sources du savoir.
 
Pour François Rabelais, et c'est indiqué très nettement dans le Pantagruel, Platon est le prince des philosophes. Il y fait beaucoup référence dans ses cinq livres. 
 
Il est souvent représenté, à tort, comme un humaniste.
 
Mais Rabelais était un excellent catholique, il voulait revenir aux sources de sa religion. Il disait qu'il fallait parler la langue arabe pour lire le Coran, ainsi que maîtriser l'hébreu et le grec. Rabelais nous parle de la Sibylle de Cumes qui annonça la venue du Christ et nous rappelle par là les origines helléniques (et donc égyptiennes), et non pas seulement juives, du christianisme. Il évoque la cyclologie, il situe la "création du monde" (entrée dans l'âge de fer) quatre mille ans avant Jésus Christ. Rabelais insiste sur la double origine du judaïsme, par l'analogie des épouses d'Abraham, l'une chaldéenne et l'autre égyptienne. Rabelais insiste également sur le rôle apocalyptique de la Vierge Marie. En bref, ce corpus est celui d'une pensée traditionaliste en totale opposition avec la pensée humaniste des lumières, de la naissance de la modernité. 
 
Par ailleurs, ce n’est certainement pas un hasard si l’invention de l’imprimerie en Europe correspond à la création, pour la première fois, de sociétés ésotériques profanes, laïques, telle que la Société Angélique à Lyon.
 
La rupture technologique suivante dans l’histoire de l’écriture, après l’imprimerie, est l’ordinateur. Après que la phrase ait été fragmentée par le système de l’imprimerie, c’est la lettre elle-même qui se fragmente sous l’effet de la pixellisation numérique. Comme l’avait très bien vu Abellio dans son roman La Fosse de Babel publié en 1962.
 
Au chapitre VI, le policier Pirenne exhibe sa gigantesque machine automatique de gestion d’informations sur les individus : c’est une « trieuse d’âmes ». « Vous êtes ici en présence du premier chef-d’œuvre de la police quantitative », explique Pirenne. « On raconte l’histoire de ce fantassin de l’armée Vlassov qui, étant ivre, en juin 44, à Sotteville, près de Rouen, coupa le doigt d’une jeune fille pour lui voler sa bague. On le retrouva en trois jours, à Strasbourg, un an et demi après, en sachant seulement qu’il était blond, mesurait environ 1 m 80 et avait une fossette au menton… Un jour, chaque homme aura sa fiche et on pourra, en un point quelconque du monde, à des milliers de kilomètres de chez lui, remonter instantanément dans son passé. Il n’y aura plus de distance et plus de passé ».
 
Raymond Abellio prophétise en ce roman en 62 le règne totalitaire de l’ordinateur qui abolit le temps et l’espace.
 
On retrouve ainsi une parfaite similarité entre l’évolution de l’écriture et les phases principales de la modernité chez l’homme décrites par Guénon : la lettre et l’être connaissent la même régression spirituelle : d’abord la coupure du lien transcendantal (invention de l’écriture), puis la coupure des liens horizontaux et la naissance de l’individualisme (isolement des lettres par l’imprimerie), et enfin la dissolution de l’être (pixellisation de la lettre). On ne lit pas un texte sur ordinateur, on le regarde, c’est tout à fait différent.
 
Enfin, voici la phase ultime. Avec internet, tous les ordinateurs du monde sont reliés les uns aux autres, et chaque pixel est instantanément délocalisé et mis en réseau. Le protestantisme est né avec l’isolement de la lettre ; le flicage généralisé des uns par les autres (la police parfaite) est né avec l’ordinateur ; avec la mise en réseau des pixels, est née la pensée en toile d’araignée : le complotisme.
 
J’ai suffisamment écrit sur le complotisme pour ne pas avoir à m’étendre sur le sujet. Lisez mondernier texte sur le sujet, mis en ligne sur le blog de Parousia le 16 février 2014, et titré « Le complotisme, cet anaconda dont nous écraserons la tête à coups de talon ». Je rajouterais simplement que cette pensée spécifiquement infantile produit des dégâts considérables en matière de religion et de politique.
 
Le versant religieux du complotisme se voit dans le succès grandissant du sédévacantisme, cette hérésie typiquement moderne où chacun prétend avec sa propre science infuse que le Vatican n’est plus le Vatican. Même Mgr Lefèvre n’a jamais été sédévacantiste ! On voit des traces de satanisme partout, sur le moindre cheveu du moindre curé de campagne.
 
Mais les ravages du complotisme en matière de politique sont tout aussi ahurissants.
 
On peut trouver sur internet une vidéo titrée « Incroyable : Poutine est juif et veut le nouvel ordre mondial ! », toujours relayée par les mêmes ahuris. En voici quelques commentaires.
 
7mn40 : On voit Poutine serrer la main du Pape François. « Tout le côté pseudo chrétien et anti-corruption de Poutine, c’est du théâtre ». Il est vrai que dans l’ombre des extra-terrestres, les illuminati à la tête du Vatican mettent la Cabale au sein de la prochaine société antéchristique…
 
9mn15 : « Il faut savoir que Poutine est juif, par sa mère qui s’appelle Maria Ivanovna Shalomova ». Il faut savoir que je suis moi-même juif, mon véritable nom est Laurent Jamesovitch, et je suis un ashkénaze infiltré dans les milieux eurasistes pour tout balancer aux flics. Je vous assure que c’est ce que l’on raconte dans certains milieux !
 
12mn50 : « Il faut savoir que Poutine a du sang sur les mains : Boris Nemtsov, Anna Politkovskaya ». La source ? Bloomberg News !
 
13mn42 : « Illuminati Puppets »
 
33mn : A propos de l’eurasisme : « Ca permet de brouiller les cartes des nations, et de faire croire que les nations, c’est dépassé ». Pour les complotistes, l’eurasisme est un mondialisme. Toujours cette confusion sempiternelle, ancrée – comme je l’ai montré – dans la confusion entre Atlantide et atlantisme.
 
34 mn : « Douguine, c’est un Brzezinsky russe »
 
« Ca me rappelle la deuxième guerre mondiale, où on avait d’un côté un camp inspiré par Marx (les russes), et de l’autre par Nietzsche (les allemands). A chaque fois, c’est des faux théoriciens qui viennent donner une idéologie pour permettre aux gouvernants d’être suivis par la foule ».
 
41mn30 : « Forcément, nos élites ne vont pas nous montrer le mauvais côté de la Russie, si c’est la Russie qui doit diriger le nouvel ordre mondial. C’est logique. Il faut forcément que le nouvel ordre mondial donne envie aux gens. Donc c’est pour ça que l’ancien ordre mondial, donc l’occident, qui se fait détruire parce qu’il est chrétien et que c’est l’ennemi des juifs, est déprécié. Donc en fait on montre une Russie complètement forte et largement supérieure à l’occident, parce que justement le but c’est d’écraser l’occident. Voilà, j’espère que vous avez compris la stratégie ». « Le but est l’instauration d’un nouvel ordre mondial communiste ».
 
Le complotisme est une pensée extrémiste fabriquée par internet pour lutter frontalement contre la pensée radicale.
 
Le complotisme est une force structurellement démotivante (puisque les Etats-Unis, les illuminati et les lézards contrôlent tout, y compris Douguine et le Vatican), mise en avant pour détruire de l’intérieur la révolution eurasiste.
 
Le complotisme est la maladie infantile de l’eurasisme.
 
Je termine avec le dernier paragraphe du texte de Douguine « La Terre verte – l’Amérique ».
 
« En premier lieu, les archétypes inconscients associés à la structure spatiale et temporelle du cosmos doivent être examinés à la lumière d’une tradition métaphysique véritable et orthodoxe, qui seule peut remettre les chose à leur juste place à l’intérieur de l’ordre divin. Au contraire, s’ils restent au niveau inconscient, ces archétypes, étant efficaces et puissants, pourront toujours attirer non seulement des individus particuliers, mais aussi des nations entières, des races et des civilisations vers les conséquences les plus imprévisibles et les plus destructrices. Mais pour atteindre la tradition métaphysique capable d’illuminer par le rayon de l’intelligence divine la profondeur abyssale du psychisme, il faut faire un effort intellectuel et spirituel presque incroyable dans les circonstances actuelles, afin de s’arracher aux ‘dogmes’ infondés de la pensée profane et matérialiste qui s’est emparée de la plupart de nos contemporains, mais sans pour cela tomber dans l’occultisme chaotique, le néo-mysticisme ou le néo-spiritualisme. La meilleure voie pour cela, et même la seule, est d’accepter une religion traditionnelle et, par la pratique spirituelle, rituelle et intellectuelle de cette religion, de pénétrer dans ses aspects ésotériques et secrets, dans ses mystères.
 
Deuxièmement, seules deux traditions religieuses sont moins exposées à l’influence de la ‘Terre verte’, à savoir le christianisme orthodoxe […] et l’islam orthodoxe. En tout cas, l’orientation verticale et métaphysique de ces religions, à conditions qu’elles soient épurées à la fois de toutes leurs stratifications modernes et de leurs associations archaïques, apparaît comme une garantie suffisante d’authenticité et d’efficacité spirituelle.
 
Et enfin, il est nécessaire de former un concept purement géopolitique et non-religieux de ‘bloc eurasien’ (‘Kontinentalblock’, comme on disait autrefois), qui unirait tous les peuples et tous les Etats eurasiens dans un seul complexe autonome et soustrait au paradigme parodique-eschatologique qui opprime le monde traditionnel. Aujourd’hui, après le démantèlement du système socialiste, il n’est pas vraiment important de savoir sous quelle forme politique et étatique cela surviendra. Au niveau mondial, il est maintenant beaucoup plus important qu’un seul peuple et qu’un seul Etat affrontent ‘l’Atlantide réémergeante’ et sa mission. C’est pourquoi l’idée d’une ‘Eurasie des peuples’ ou d’une ‘maison commune’ qui aurait une forte orientation anti-atlantique et qui ferait appel aux ressources intérieures, spirituelles, religieuses, économiques et matérielles, n’est aujourd’hui pas aussi abstraite et utopique qu’elle peut le sembler à première vue. La foi dans les ‘ancêtres morts’, dans les fabricants de coca-cola, est-elle plus réaliste et plus objective ?
 
Quant au continent Amérique, la période de son expansion, selon les correspondances cycliques précises, probablement, sera tendue, orageuse, pleine d’événements inquiétants, mais aussi extrêmement brève, puisque le ‘New Age’ dont l’arrivée a été annoncée par les partisans mystiques de la ‘Nouvelle Jérusalem’, mais qui n’a pas encore commencé, finira par arriver. Son arrivée sera signalée par un grand cataclysme géographique. Et qui sait si l’Amérique, la ‘Terre Verte’, ne connaîtra pas le même destin que celui qui frappa jadis un autre continent situé dans l’Atlantique ? »

 

Contre le triptyque Nationalisme, Marxisme et Complotisme :
Eurasiste, Catholique et Révolutionnaire ! 


Laurent James, Sainte-Foy-la-Grande, 5 septembre 2015

lundi, 14 septembre 2015

Zarathoestra beleeft revival in Noord-Irak

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Door: Dirk Rochtus - Ex: http://www.doorbraak.be

Zarathoestra beleeft revival in Noord-Irak

Koerden in Noord-Irak herontdekken de oude religie van Zarathoestra als een wapen in de strijd tegen het door IS belichaamde Kwaad.

Een golf van politiek, religieus en sektarisch geweld overspoelt het Midden-Oosten. In Syrië woedt de soennitische terreurorganisatie Islamitische Staat (IS) in alle hevigheid tegen andersdenkenden en aanhangers van andere geloofsstrekkingen. In Turkije escaleert de strijd tussen het Turkse leger en de milities van de Koerdische Arbeiderspartij PKK. Iran en Saoedi-Arabië wedijveren met elkaar om de macht in de regio. Sjiieten en soennieten bestrijden elkaar om de juiste uitlegging van de islam.

Ware cultuur

De chaos drijft niet alleen vele mensen op de vlucht, maar doet ook velen onder de thuisblijvers snakken naar zekerheid en geborgenheid. Zo komt het bijvoorbeeld dat meer en meer Koerden een oude religie herontdekken. In de provincie Suleiman, in de Koerdische deelstaat van Noord-Irak, vond in de maand mei een merkwaardige ceremonie plaats. Honderden Koerden deden er een gewijde gordel, de 'koeshti', om. Ze betoonden zo hun gehechtheid aan het zoroastrisme, de religie van de Perzische profeet Zarathoestra (ook Zarathustra of Zoroaster genaamd). Ook dienden ze bij de overheid van de Kurdistan Regional Government (KRG) een aanvraag in voor de bouw van twaalf zoroastrische tempels en voor de erkenning van het zoroastrisme als officiële godsdienst. Volgens Luqman al Hadsch Karim van de zoroastrische organisatie Zand zouden met de revival van het zoroastrisme de 'ware cultuur en religie van de Koerden' weer in ere worden hersteld.

De 'betere Bijbel'

Over het leven van Zarathustra is niet veel geweten. Hij zou rond 1200 voor Christus geleefd hebben in Perzië, het huidige Iran. Hij predikte als eerste het geloof in 'één God' - Ahura Mazda, de 'Wijze Heer' of de god van het goede die strijdt tegen de duivel Ahriman -, het bestaan van engelen, van hemel en hel en het Laatste Oordeel. Al deze geloofsbeelden zouden via de Joden in ballingschap in Babylon binnengeslopen zijn in de latere monotheïstische religies. Voor de publicist Paul Moonen schreef Zarathustra daarom ook de 'betere Bijbel'. Maar juist omdat Zarathoestra als de 'vader' van het monotheïsme geldt, gebruikte de godloochenende Duitse filosoof Friedrich Nietzsche hem in een ironische omkering in zijn poëtisch meesterwerk 'Also sprach Zarathustra' om de 'dood van God' te verkondigen.

zor520-9-8df4d.jpgVuur

De zoroastriërs vereren in hun vuurtempels het eeuwig brandende vuur als afbeeld van Ahura Mazda. Het zoroastrisme groeide later uit tot de staatsgodsdienst van het Perzische Rijk. Toen de islam in de zevende eeuw Perzië veroverde, vluchtten vele zoroastriërs naar het naburige India. Vandaag de dag leven er vooral nog in Bombay een paar tienduizend 'parsi's' die vasthouden aan het zoroastrische geloof. In Iran zelf telt de zoroastrische gemeenschap een dertigduizend leden. Ze wordt in de Islamitische Republiek van Iran erkend als een minderheid. Net zoals de Armeense en de Joodse gemeenschap heeft ze recht op één zetel in de Majlis, het Iraanse parlement. Toch moet ze nog heel wat onderdrukking en discriminatie doorstaan. Ook de Jezidi's, de aanhangers van een door IS vervolgde Koerdische 'volksreligie', zouden door het zoroastrisme beïnvloed zijn. Zijzelf wijzen elke band met de leer van Zarathoestra af.

Strijdtoneel

Het zoroastrisme leek de laatste jaren op de terugweg. Het aantal gelovigen in Iran en India was aan het slinken ten gevolge van lagere geboortecijfers, vervolging en discriminatie. Merkwaardig is het dan ook dat Koerden in Noord-Irak de Oud-Perzische religie van Zarathoestra herontdekken. Sowieso zijn er culturele verbanden. De Koerden spreken een met het Farsi (Perzisch) verwante taal en in Newroz, hun nieuwjaarsfeest, speelt het vuur een grote rol. Volgens analisten zou de onzekerheid over wat nu de ware islam is nationalistische en liberaal denkende Koerden in de armen van een tolerante religie als het zoroastrisme drijven. Zarathoestra zag in de wereld het strijdtoneel van het Goede en het Kwade en riep de mensen op om de zijde van de goede god Ahura Mazda te kiezen. In zulk een wereldbeeld past voor vele Koerden ook de strijd tegen IS als de belichaming van het Kwade.

 

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samedi, 22 août 2015

Impersonalità metafisica e assenza dell’illusione dell’Io

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Impersonalità metafisica e assenza dell’illusione dell’Io

 

di Giandomenico Casalino

Ex: http://www.ereticamente.net

Perché, nel mondo indoeuropeo, non vi è la presenza della “personalità” nel senso di Io come Soggetto, ma vi è solo il Sé che è il Principio Ordinatore del Mondo che è nel Mondo ed è l’Intelletto attivo-divino di Aristotele? Per la ragione che, se la “parte” superiore dell’uomo, quella divina, non è “personale”, nel senso che non è del soggetto né si identifica con esso, è vero invece che la “persona”, il Soggetto, l’Io, uccidendosi come tale, deve salire (Ascesi) verso il Nous, lo Spirito ed identificarsi con esso, con la “parte” superiore; deve ricordare, prendere coscienza e quindi Sapere che egli nella sua vera realtà è il Pensiero Cosmico, l’Oggettivo, l’Eterno, e che non è mai stato “io” (coscienza, intelletto – nel senso hegeliano – sentimenti, passioni…); che tale fantasma (io storico-sociale, soggetto alla coscienza di veglia) non solo scompare e si dilegua ogni volta che l’uomo si avvicina al processo di dissociazione, che è la morte, in un itinerario che è poi alquanto simile a quello del sonno (Eraclito); ma è “qualcosa” di tanto labile, transeunte e fallace che, in sostanza, non è alcunché di stabile, di epistemico. Allora “anche” lo stesso Principio cosmico, il Divino, to Thèion, è impersonale, nel senso che supera, va oltre il concetto di “persona”, di soggetto, di Io, e, quindi, per causalità filosofica, la sapienza indoeuropea è oltre la “dialettica” teismo-ateismo, in quanto, poiché il Divino non ha alcuna natura “personale”, non può sussistere il Dio-persona, al quale si attribuiscono conseguenzialmente le potenze dell’animo della persona: volontà, amore, gelosia…; al quale si può contrapporre solo la negazione di esso con l’atteggiamento spirituale dell’ateismo.

Da ciò  discende che in  tale visione del  Mondo,  il  “problema” della “immortalità” dell’anima, nel mondo indoeuropeo, non sussiste come tale per la semplice ragione che il Principio Divino, intelletto attivo in termini aristotelici, pur presente nell’uomo in genere, in guisa però incosciente, è presente in senso attivo e cosciente solo in colui il quale si identifìca consapevolmente con esso, in colui il quale vive il bios theoretikòs e, anche per un Istante, esperimenta nella pura Contemplazione, ciò che gli Dei sono sempre! Pertanto non vi può essere, nel mondo indoeuropeo, concezione di una “immortalità”, che poi scade e si rivela pura e semplice “speranza” di sopravvivenza personale dell’anima, poiché il soggetto come individuo non è assolutamente pensato e ciò che è nobile ed eterno in esso in tanto lo è in quanto nulla ha a che fare con l’individualità soggettiva ma bensì con l’Oggettività dello Spirito, essendo questo, peraltro, il “riflesso” del Principio Divino cosmico che è impersonale. Nel mondo arcaico omerico e romano vale, pertanto, il discorso relativo alla virtus eroica: è la Gloria dell’Eroe, in quanto il migliore (àristos) tra gli uomini, che viene cantata dalle Muse attraverso il Cantore, tale è l’immortalità genuinamente indoeuropea: quella dell’eroe; solo Eracle giunge alla divinificazione ed all’accoglimento nell’Olimpo. E qui si deve riflettere sullo “strano” destino del semantema della parola greca dòxa: nel mondo omerico essa ha il significato dell’apparire della Luce, della Gloria, è l’onore che avvolge e distingue l’Eroe quando si presenta agli occhi della comunità dei guerrieri ed è quindi l’apparenza di ciò che appare, nel senso che ciò che l’Eroe è nell’ “interno” (di cui come tale l’Eroe comunque non ha coscienza…), nell’animo, è identico a ciò che è nell’ “esterno”, nella forma in cui appare come esistenza della sua essenza, poiché, come abbiamo già detto, è uomo trasparente ed aperto al Mondo.

La stessa parola, dopo l’avvento della decadenza della spiritualità greca che conduce all’oscurarsi della trasparenza in un’opacità spessa ed impenetrabile, l’apparenza, la dòxa, non è più la Luce “interna”-”esterna”, ma la coltre di nebbia della non-conoscenza, è ciò che nasconde e cela “qualcosa” che forse c’è ma che potrebbe anche non esserci e, pertanto, è opinione e quindi fallibile. Essa ormai come apparenza che inganna, che nasconde, può essere cacciata via solo dal suo “contrario”: dalla Verità che in greco si chiama proprio Alètheia e cioè quella “forza” che elimina, annulla (a privativo) il Lanthàno che è il nascondimento e che è come dire il “nuovo” significato di dòxa. Infatti in Platone tale processo è già completo, e la dòxa-opinione non è conoscenza proprio perché è frutto dell’inganno dell’apparenza che è la serie di ombre (vedi il mito della Caverna…) che oscurano e ingannano la vista; l’apparire non è più l’Essere, l’esistenza non coincide più con l’essenza (ed è straordinario che tale recuperata identità sia invece proprio l’oggetto di cui tratta Hegel nella Scienza della Logica - Logica oggettiva – che è il Sapere dell’Assoluto…) e quindi la falsità dell’apparenza, il suo inganno, devono essere superate mediante l’Ascesi sapienziale per giungere all’ “interno”, poiché esso, lo Spirito, non è più visibile, “esterno” nel mondo, non è più apparente, nel senso che non appare più come forma intelligibile, se non agli occhi dello Spirito di colui che è iniziato al logos filosofico; e siamo già nella lotta per lo Spirito che ingaggiò Platone e nella differenza (tragica…), da lui tematizzata, tra dòxa (opinione) ed epistème (Sapere incontrovertibile poiché anipotetico).

*****

augbef6yo9.jpgÈ in Agostino e nei suoi dialoghi interiori con il suo Dio che nasce l’Io moderno come soggetto-singolo; Agostino dice per la prima volta: “Ego”, anticipando Cartesio e tutto il soggettivismo moderno. Pertanto effettuale all’assenza di qualsiasi personalismo o soggettivismo, in quanto non vi è, nel mondo indoeuropeo, alcuna presenza dell’Io, come si è accennato sopra, è l’inesistenza culturale della tematica “teismo-ateismo” che è processo dialettico paralizzante interno alla cultura astratta del monoteismo creazionistico e potenzialmente ateo, in quanto concepisce Dio come persona (personalizzazione del Divino) dotata di volontà e “progetto”  creativo,  d’  “amore”  e  di  “compassione”,  il  tutto  in  una “umanizzazione” del Divino a cui, giustamente, W.F.Otto contrapponeva la elevazione greca ed indoeuropea dell’uomo verso il Divino e cioè la “divinizzazione” dell’umano (omòiosis theò). Nel mondo spirituale indoeuropeo in tanto non vi è dualismo religioso, in tanto il Divino è nel Mondo, in quanto esso (il Divino) non è nulla di personale, di “umano”, e quindi di “staccato” dal mondo; esso è, invece, il Principio del Mondo, il suo Arché ed è presente “in esso” impersonalmente poiché Potenza Divina nel Mondo medesimo; essendo (il Divino) il Mondo stesso però nella sua essenza: come Idea dell’Unità; in caso contrario non avrebbe avuto senso la sapienza ellenica che insegna (da Talete a Proclo…) che il mondo è ricolmo di Dei! L’assenza del concetto teistico di persona fa cadere nel nulla dell’inesistenza l’altro polo ad esso connesso: l’ateismo, il quale sorge inesorabilmente quando quella “persona” viene meno perché scompare la fede (secolarizzazione… modernità).

La spiritualità religiosa greco-romana è fuori, è estranea a tali tematiche, poiché non conoscendo il teismo non conosce nemmeno l’ateismo, se non come atto mentale (ýbris) di un folle che nega il Mondo, la phýsis e cioè l’evidente che è il Divino.

La  consapevolezza  fondata  sul  sapere  che  è  assente  qualsiasi  realtà “individuale”, (1) “personale”, “mia” nella “componente” immateriale dell’umano è ulteriore segno che evidenzia la tradizionale ed oggettiva spiritualità del mondo indoeuropeo. Se il Principio, il Nous, l’intelletto attivo, l’anima razionale è principio divino e immortale, nell’uomo Esso non è dell’uomo ma è bensì tutt’altro che individuale o “mio” o “suo”; è infatti universale ed ecco la ragione per cui è l’unica “parte” immortale nella realtà che abbiamo convenuto di chiamare “immateriale”. Quest’ultima è anche la “parte” che appare personale, individuale, che inerisce “quel” carattere, “quella” persona ed è il “suo” genio che, in termini biologici, è il corredo genetico; anche questo è, sulla superficie, l’Io storico-sociale, qualcosa che appartiene a quella persona e non ad altri, ma, al di là delle personali differenze, il carattere, la natura in senso sovrapersonale è quella realtà che è costante nella sua lineare tipicità come Demone della razza; ed anche questo non ha, nel profondo, nulla di personale, anche se così appare. La forma vitale pura che, quasi come “terzo” elemento o strato, è alla base del vivente, anzi è il vivente dal punto di vista della stessa, è anch’essa assolutamente oggettiva ma subpersonale, nello stesso (simile) modo in cui l’Intelletto divino è oggettivo ma superpersonale. Plotino, infatti, insegna che all’Uno che è oltre la Forma, “corrisponde”, nell’oscurità degli “abissi”, (dove, se pur fioca, giunge la Luce…) “qualcosa” che è sotto la Forma e ciò nel macrocosmo; se alla parola “forma” si sostituiscono le parole: personalità, carattere formato, allora nel microcosmo vale il medesimo discorso così come afferma anche la cultura egizia, dove la “tripartizione”, che è trifunzionalità dell’unità “immateriale”, è definita AKH, BA e KA. Si può affermare che l’uomo indoeuropeo, in quanto, come si è più volte ribadito, “uomo aperto al Mondo”, uomo cosmico, è attraversato dalle Potenze Cosmiche, che non sono e non possono essere “sue” quasi quanto il “carattere”, la “personalità” lo sono in apparenza e nel modo in cui si è detto.

Lo Spirito, dunque, è relazione, è unione, è organicità funzionale, è armonia, è Ordine, è Forma, e quindi è intelligibile dallo Spirito stesso ed ecco il Circolo: l’esperienza dello Spirito è l’esperienza (sua) dello Spirito ma è simultaneamente, dall’eternità, esperienza dello Spirito (come “oggetto” di essa…). La Vita è la potenza ribollente che è alla base, da essa, essendo in essa come potenza, proviene l’Anima che è la sottilizzazione e la sensibilizzazione della Vita, è la sua Verità, è ciò a cui deve pervenire e perviene da sempre, anzi è sempre pervenuta, come “accade” allo Spirito che è la potenza luminosa che proviene dall’Anima.

II termine “potenza” non ha alcun semantema quantitativo o irrazionale come “parti” o “facoltà” dell’Anima, ma è adottato con lo stesso significato che dýnamis ha nel lessico plotiniano. Se lo Spirito, provenendo dall’Anima, è lo Svegliarsi dell’Anima, allora comprendiamo la ragione per cui l’Anima è il «sonno dello Spirito» (Hegel); ciò significa che, come sapeva Eraclito, il sonno è simile alla morte, come processi del distacco, e quindi l’Anima, il sottile sensibile che giace nella Vita, staccata dal sostegno del corpo cioè dallo Spirito pietrificato (che dovrà essere sciolto dai legami e Svegliato) vaga nel “vuoto” e la sua “conoscenza” non sarà vera, né formale ed intelligibile, né cosmica né armonica, ma approssimativa e minacciosa, irrazionale nel senso di irreale, simbolica; l’anima “libera” dai legami che la tengono “unita” sia al corpo che allo Spirito, viaggia sulla barca della Vita (che è la base, la sua base, come il “mare”) nelle Acque del Sogno per parlare un linguaggio simile a quello del Mito, poiché il Mito nei Popoli è “vicenda” analoga a quella che “accade”  all’uomo.  Con  il  distacco  (nel  sogno)  l’Anima  giunge  nel “mondo dei morti” (Ade), tali sono i viaggi dell’Anima.

Note

1 J.M. RIST, Eros e psyche. Studi sulla Filosofia di Platone. Plotino e Origene, Milano 1995, p. 136 e ss..

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samedi, 27 juin 2015

Guénon y Drieu

Guénon y Drieu

por José Luis Ontiveros

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drieu&&&&&.pngHay un reclamo persistente en Drieu: “Voces falsarias y hueras me han acusado de que mi posición surge de un adaptarme a las formas políticas que se proyectan como victoriosas, en este momento de la guerra y que serían las dominantes en el futuro, todo ello es falso”

“Las guerras —prosigue— como la vida fluyen y cambian su rumbo, nada es seguro, no se percibe el sentido oculto de mi actitud; cada vez soy más escéptico en cuanto Alemania aliente el futuro o si la barbarie rusa, creadora de instintos poderosos lo perfile”.

Estas palabras epifánicas de sus escritos depositados en el México profundo y vestigial hacen una clara referencia en clave a la influencia determinante —en Drieu— de las reflexiones sobre la Tradición primordial, la historia de los símbolos de las religiones y su confluencia sagrada que marcan la obra de René Guénon, en particular de su libro axial La crisis del mundo moderno, que tiene como corolario El reino de la cantidad y los signos de los tiempos, el primero publicado en 1927, y el segundo, en el fatídico año de 1945.

En un círculo pitagórico que cumple en Drieu la bitácora de cuáles fueron las causas metafísicas de que continuara hasta el final en una situación límite y en el filo de la navaja, llegando a consumar el ritual de su propia muerte consagratoria.

En cuanto Guénon dice: “Lamentablemente mi lectura de Guénon fue un tanto tardía, ya pasando del comunismo al fascismo revolucionario, más el haberlo encontrado fue para mí más definitivo, quizá, que mi conocimiento de Nietzsche, de Maurice Barrés y de Charles Maurras, al punto que puedo considerarlo una fuente decisiva para mi ruptura con el mundo moderno y su civilización materialista”.

“He de referirme al propio Guénon —continúa— en cuanto los puntos esenciales que legitiman, por el sentido de las ciencias sagradas, lo que puede parecer puramente contingente, superficial y aún meramente ‘político’.

“Por ello destaco lo que toca el centro de mi corazón y la profundidad del espíritu luminoso que guarda el alma”.

Y Drieu retoma a Guénon como la verdadera doctrina: “Hay algunos que vislumbran —de manera algo difusa y confusa— que la civilización occidental, en lugar de seguir evolucionando siempre en el mismo sentido, bien podría un día llegar a punto muerto o hasta perecer por completo en algún sombrío cataclismo”.

Recopila citas que vuelve suyas en comunión con la sacralidad de la Tradición unánime identificándose sin saberlo con el símbolo heroico de Julius Evola y su Doctrina aria de lucha y victoria, en que lo esencial es el valor de la acción en sí y no sus resultados.

Da especial atención el juicio de René Guénon: “Lograr concebir que esta civilización, de la cual los modernos se sienten tan ufanos, no ocupa un sitio de privilegio en la historia del mundo”.

En tal sentido estima en una misma caída espiritual a la civilización demoliberal y a la marxista, fusionándose con Guénon: “Es inminente una transformación más o menor profunda, (en que) inevitablemente tendrá que producirse un cambio de orientación a breve plazo, de buen o mal grado, de manera más o menos brusca, con catástrofe o sin ella”.

guénoniiii.jpgSobre el particular apunta Drieu: “Me he convencido de que Guénon anuncia, con el lenguaje cifrado propio de la Tradición sagrada de los pueblos, que se aproxima un cambio drástico en la valoración de los hombres y en el sentido de la vida; en ello he visto a las nuevas fuerzas que se alzan contra los dogmas, al parecer inamovibles, de una civilización basada en el dinero, el materialismo y en formas políticas caducas”.

“Ello me ha sido confirmado —señala— al leer en Guénon”: “El estado de malestar general que vivimos en la actualidad me da el oscuro presentimiento de que, en efecto, algo está por terminar”.

“Y esta creencia —agrega— se tornó ya indeclinable cuando Guénon se refiere al cierre de un ciclo y el principio de uno nuevo”: “Los elementos que luego deberán intervenir en el ‘juicio’ futuro, a partir del cual se iniciará un nuevo periodo de la historia de la humanidad en la Tierra”.

Drieu interioriza en su vida la lectura de Guénon: “Y si lo que debe terminar es la civilización occidental en su forma actual (considerada como la ‘civilización sin epítetos’), (hay quienes) se sienten dispuestos a creer que al desaparecer vendrá el fin del mundo”.

“El fin del mundo —acota— es para mí el escenario de esta guerra en la que combato por la Idea y en la que sé moriré y eso está claro”, manifiesta.

La lectura que Drieu hizo de Guénon es la verdadera explicación de su sacrificio visionario.

Fuente: Vértigo Político

dimanche, 21 juin 2015

El Imperium a la luz de la Tradición

por Eduard Alcántara

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El Mundo Tradicional siempre se caracterizó por tener las miras puestas hacia lo Alto. El hecho Espiritual impregnaba su discurrir (1). En lo Alto oteaba orden: el Orden del Cosmos, los siete Cielos enunciados y descritos por cierta metafísica,… Y si en lo Alto oteaba un orden que se había impuesto a la nada (2) o al caos previos, quiso -dicho Mundo de la Tradición- instaurarlo aquí abajo como si se tratase de un reflejo del imperante allá arriba. Pretendió hacer de la Tierra un espejo de lo que veía en el Cielo, pues siempre concibió que el microcosmos debía de asemejarse al macrocosmos o, lo que es lo mismo, lo de abajo a lo de arriba (3). Y para que ese Orden cósmico imperase en la Tierra debería de existir –aquí abajo- una fuerza centrípeta que evitase la disgregación de los diferentes elementos que debían acabar tomando parte de él –de ese nuevo orden- y que debían acabar haciéndolo realidad. Y esa fuerza centrípeta aglutinadora no podía revestir otra naturaleza que la espiritual.

La Idea (en el sentido Trascendente) sería el eje alrededor del cual giraría todo un entramado armónico. Una Idea que a lo largo de la historia de la humanidad ha ido revistiéndose de diferentes maneras. Una Idea que -rastreando la historia- toma, por ejemplo, cuerpo en lo que simbolizaba la antigua Roma. Y Roma representará a dicha Idea de forma muy fidedigna. La Idea encarnada por Roma aglutinará a su alrededor multitud de pueblos diversos (4) que, conservando sus especificidades, participarán de un proyecto común e irán dando cuerpo a este concepto de orden en el microcosmos representado por la Tierra. Estos pueblos dejarán de remar aisladamente y hacia rumbos opuestos para, por contra, dirigir sus andaduras hacia la misma dirección: la dirección que oteará el engrandecimiento de Roma y, en consecuencia, de la Idea por ella representada. De esta manera Roma se convertirá en una especie de microcosmos sagrado en el que las diferentes fuerzas que lo componen actuarán de manera armoniosa al socaire del prestigio representado por su carácter sacro (por el carácter sacro de Roma). Así, el grito del “Roma Vincis” coreado en las batallas será proferido por los legionarios con el pensamiento puesto en la victoria de las fuerzas de lo Alto; de aquellas fuerzas que han hecho posible que a su alrededor se hayan unido y ordenado todos los pueblos que forman el mundo romano, como atraídos por ellas cual si de un imán se tratase.

Roma aparece, se constituye y se desarrolla en el seno de lo que multitud de textos Tradicionales definieron como Edad de Hierro, Edad del Lobo o Kali-yuga. Edad caracterizada por el mayor grado de caída espiritual posible al que pueda arribar el hombre: por el mayor nivel de oscurecimiento de la Realidad Trascendente. Roma representa un intento heroico y solar por restablecer la Edad Áurea en una época nada propicia para ello. Roma nada contracorriente de los tiempos de dominio de lo bajo que son propios de la Edad de Hierro. Es por ello que, tras el transcurrir de su andadura histórica, cada vez le resultará más difícil que la generalidad de sus ciudadanos sean capaces de percibir su esencia y la razón metafísica de su existencia (las de Roma). Por ello -para facilitar estas percepciones sacras- tendrá que encarnarlas en la figura del Emperador; el carácter sagrado del cual -como sublimación de la naturaleza sacra de Roma- ayudará al hombre romano a no olvidar cuál es la esencia de la romanidad: la del Hecho Trascendente. Una esencia que conlleva a la sacralización -a través de ritos y ceremonias- de cualquier aspecto de la vida cotidiana, de cualquier quehacer y, a nivel estatal, de las instituciones romanas y hasta de todo el ejercicio de su política.

Con la aparición de la figura del Emperador Roma traspasa el umbral que separa su etapa republicana de la imperial. Este cambio fue, como ya se ha señalado, necesario, pero ya antes de dicho cambio (en el período de la República) Roma representaba la idea de Imperium, por cuanto la principal connotación que, desde el punto de vista Tradicional, reviste este término es de carácter Trascendente y la definición que del mismo podría realizarse sería la de una “unidad de gentes alrededor de un ideal sacro”. Por todo lo cual, tanto la República como el Imperio romanos quedan incluidos dentro de la noción que la Tradición le ha dado al vocablo “Imperium“.

Así las cosas la figura del Emperador no podía no estar impregnada de un carácter sagrado que la colocase al nivel de lo divino. Por esto, el César o Emperador estuvo siempre considerado como un dios que, debido a su papel en la cúspide piramidal del Imperio, ejercía la función de ´puente´ o nexo de unión entre los dioses y los hombres. Este papel de ´puente´ entre lo divino y lo humano se hace más nítido si se detiene uno a observar cuál era uno de los atributos o títulos que atesoraba: el de Pontifex; cuya etimología se concreta en ´el hacedor de puentes´. De esta manera el común de los romanos acortaba distancias con un mundo del Espíritu al que ahora veía más cercano en la persona del Emperador y al que, hasta el momento de la irrupción de la misma -de la figura del Emperador-, empezaba a ver cada vez más alejado de sí: empezaba a verlo más difuso debido al proceso de caída al que lo había ido arrastrando el deletéreo kali-yuga por el que transitaba.

Los atributos divinos del Emperador respondían, por otro lado, al logro interno que la persona que encarnaba dicha función había experimentado. Respondían a la realidad de que dicha persona había transmutado su íntima naturaleza gracias a un metódico y arduo trabajo interior que se conoce con el nombre de Iniciación. Este proceso puede llevar (si así lo permiten las actitudes y aptitudes del sujeto que se adentra en su recorrido) desde el camino del desapego o descondicionamiento con respecto a todo aquello que mediatiza y esclaviza al hombre, hasta el Conocimiento de la Realidad que se halla más allá del mundo manifestado (o Cosmos) y la Identificación del Iniciado con dicha Realidad. Son bastantes los casos, que se conocen, de emperadores de la Roma antigua que fueron Iniciados en algunos de los diferentes Misterios que en ella prevalecían: de Eleusis, mitraicos,… Así podríamos citar a un Octavio Augusto, a un Tiberio, a un Marco Aurelio o a un Juliano.

La transustanciación interna que habían experimentado se reflejaba no sólo en las cualidades del alma potenciadas o conseguidas sino también en el mismo aspecto externo: el rostro era fiel expresión de esa templanza, de ese autodominio y de ese equilibrio que habían obtenido y/o desarrollado. Así, el rostro exhumaba gravitas y toda la compostura del emperador desprendía una majestuosidad que lo revestían de un hálito carismático capaz de aglutinar entorno suyo a todo el entramado social que conformaba el orbe romano. Asimismo, el aura espiritual que lo impregnaba hacía posible que el común de los ciudadanos del Imperio se sintiese cerca de lo divino. Esa mayoría de gentes, que no tenía las cualidades innatas necesarias para emprender las vías iniciáticas que podían hacer posible la Visión de lo metafísico, se tenía que conformar con la contemplación de la manifestación de lo Trascendente más próxima y visible que tenían “a su alcance”, que no era otra que aquélla representada por la figura del Emperador. El servicio, la lealtad y la fides de esas gentes hacia el Emperador las acercaba al mundo del Espíritu en un modo que la Tradición ha definido como de ´por participación´.

Hecho este recorrido por la antigua Roma -como buen modelo para adentrarse en el conocimiento del significado de la noción de Imperium-, no deberíamos obviar alguna otra de las cristalizaciones que dicha noción ha visto en etapas posteriores a la romana. Y nos referimos, con especial atención, a la que se concretó, en el Medievo, con la formación de un Sacro Imperio Romano Germánico que nació con la vocación de reeditar al fenecido, siglos antes, Imperio Romano y convertirse en su legítimo continuador.

El título de ´Sacro´ ya nos dice mucho acerca de su fundamento principal. También, en la misma línea, es clarificador el hecho de que el emperador se erigiera en cabeza de la Iglesia; unificando además, de esta manera, en su cargo las atribuciones o funciones política y espiritual.

De esta guisa el carisma que le confiere su autoridad espiritual (amén de la política) concita que a su alrededor se vayan uniendo reinos y principados que irán conformando esta idea de un Orden, dentro de la Cristiandad, que será el equivalente del Orden y la armonía que rigen en el mundo celestial y que aquí, en la Tierra, será representado por el Imperium.

La legitimidad que su carácter sagrado le confiere, al Sacro Imperio Romano Germánico, es rápidamente reconocida por órdenes religioso-militares que, como es el caso de la del Temple, son dirigidas por una jerarquía (visible u oculta) que conoce de la Iniciación como camino a seguir para experimentar el ´Segundo Nacimiento´, o palingénesis, que no es otro que el nacimiento al mundo del Espíritu. Jerarquía, por tanto, que tiene la aptitud necesaria para poder reconocer dónde se halla representada la verdadera legitimidad en la esfera espiritual: para reconocer que ella se halla representada en la figura del emperador; esto sin soslayar que la jerarquía templaria defiende la necesidad de la unión del principio espiritual y la vía de la acción –la vía guerrera- (complementariedad connatural a toda orden religioso-militar) y no puede por menos que reconocer esta unión en la figura de un emperador que aúna su función espiritual con la político-militar (5).

Para comprender aún mejor el sentido Superior o sagrado que revistió el Sacro Imperio Romano Germánico se puede reflexionar acerca de la repercusión que tuvo el ciclo del Santo Grial en los momentos de mayor auge y consolidación de dicho Imperio. Una repercusión que no debe sorprender a nadie si nos atenemos a los importantes trazos iniciáticos que recorren la saga griálica y a cómo se aúnan en ella lo guerrero y lo sacro en las figuras de unos caballeros que consagran sus vidas a la búsqueda de una autorrealización espiritual simbolizada en el afán mantenido por hallar el Grial.

Aclarados, hasta aquí, en qué principios y sobre qué base se sustenta la noción Tradicional del Imperium no estaría de más aclarar qué es lo que se hallaría en sus antípodas, como antítesis total del mismo y como exabrupto y excreción antitradicional propios de la etapa más sombría y crepuscular que pueda acontecer en el seno de la Edad de Hierro; etapa por la que estamos, actualmente, transitando y a la que cabe denominar como ´mundo moderno´, en su máxima expresión. Un mundo moderno caracterizado por el impulso hacia lo bajo –hacia lo que degrada al hombre- y por el domino de la materia, en general, y de la economía (como paradigma de la anterior), en particular.

Pues bien, en tal contexto los Estados (6) ya han defenestrado cualquier aspiración a constituir unidades políticas que los sobrepasen y que tengan la mira enfocada en un objetivo Elevado, pues, por contra, ya no aspiran a restaurar el Imperium. Sus finalidades, ahora, no son otras que las que entienden de mercado (de economía).

En este afán concentran sus energías y a través de la fuerza militar o de la colonización financiera (a través de préstamos imposibles de devolver por los intereses abusivos que llevan implícitos) someten (7) a gobiernos y/o países a los dictados que marcan sus intereses económicos; intereses económicos que, por otro lado, son siempre los de una minoría que convierte a los gobiernos de los estados colonizadores en auténticas plutocracias.

Por estas “artes” estos estados ejercen un imperialismo que no es más que la antítesis de lo que siempre representó la idea de Imperium y lo más opuesto a éste que pueda imaginarse.

Notas

(1) Un ´discurrir´ que, en el contexto expresado, no hay que confundir con el concepto de ´devenir´, de ´fluir´, de lo ´pasajero´, de lo ´caduco´, de lo ´perecedero´,…

(2) Aquí la expresión ´la nada´ debe ser asimilada a la del ´caos´ previo a la configuración del mundo manifestado (del Cosmos) y no debe de confundirse con el concepto de No-Ser que determinada metafísica -o que un Réné Guénon- refería al Principio Supremo que se halla en el origen y más allá de la manifestación.

(3) Como curiosidad podríamos detenernos en el conocido como “Parque del Laberinto de Horta”, en la ciudad de Barcelona, y observar de qué manera su autor quiso reflejar estas dos ideas de ´caos´ y de ´orden´ cósmicos… Lo hizo construyendo el parque en medio de una zona boscosa que representaría el caos previo en el que, a modo de símil, los árboles crecen de manera silvestre y sin ningún tipo de alineamiento. Por contra, el parque implica poner orden dentro de este desorden: construir a partir de una materia prima caótica y darle forma, medida y proporción. Edificar el Cielo en la Tierra.

(4) Estos pueblos diversos que se agruparán alrededor de la empresa  romana no serán pueblos de culturas, costumbres o   religiosidades antagónicas, ya que, en caso contrario hubiera  sido muy difícil imaginarse la integración de los mismos en la Romanidad. Sus usos, costumbres y leyes consuetudinarias en ningún caso chocaron con el Derecho Romano. Sus divinidades fueron, en unos casos, incluidas en el Panteón romano y, en otros, asimiladas a sus equivalentes romanas. Sus ceremonias y ritos sagrados fueron perviviendo en el seno del orbe romano o fueron, también, asimilados a sus semejantes romanos. La extracción, casi exclusivamente, indoeuropea de dichos pueblos explica las semejanzas y concordancias existentes entre los mismos (no debe olvidarse que remontándose a épocas remotas,  que rozan con el mito, todos estos pueblos constituían uno solo; de origen hiperbóreo, según muchas tradiciones  sapienciales).

(5) Hay que tener presente que el mismo vocablo ´emperador´ deriva del latín Imperator, cuya etimología es la de ´jefe del ejército´.

(6) A caballo entre finales de la Edad Media y principios de la Edad Moderna se van debilitando los ideales Superiores supranacionales y van siendo suplantados por otros impregnados por un egoísmo que redundará en favor de la aparición de los Estados nacionales.

Bueno es también recordar que el Emperador Carlos (I de España y V de Alemania) fue, allá por la primera mitad del  siglo XVI, el último que intentó recuperar las esencias y el espíritu, ya mortecinos, del Sacro Imperio Romano Germánico. Al igual que no está de más reconocer en el imperio que España construye -arrancando de fines del siglo XV- a lo largo del s. XVI, el último con pretensiones espirituales (al margen de que, en ocasiones, pudiesen coexistir con otras de carácter económico) de entre los que Occidente ha conocido. Y esto se afirma en base a los principales impulsos que se hallan en la base de su política exterior, como los son, en primer lugar, su empeño en evitar la división de una Cristiandad que se veía seriamente amenazada por el crecimiento del protestantismo o, en segundo lugar, sus esfuerzos por contener los embates del Islam protagonizados por turcos y berberiscos o, en tercer lugar, su decisión de evangelizar a la población nativa de los territorios americanos incorporados a la Corona (aparte de la de otros territorios; como las Filipinas,…). Estos parámetros de la política exterior de España seguirán, claramente, en vigencia también durante el siglo XVII.

A medio camino entre el imperio español y otros de corte eminentemente antitradicional (por lo mercantilista de los mismos), como el caso del imperio británico (que alcanzó su máxima expresión en el s. XIX) o del conocido como imperialismo ´yanqui´ (tan vigente en nuestros días), podríamos situar al de la Francia napoleónica. Y no sólo lo situamos a medio camino por una evidente razón cronológica, sino que también lo hacemos porque a pesar de haber perdido cualquier orientación de carácter espiritual (el laicismo consecuente con la Ilustración y la Revolución Francesa fue una de las banderas que enarboló), a pesar de ello, decíamos, más que motivaciones de naturaleza económica (como es el caso de los citados imperialismos británico y estadounidense), fueron metas políticas las que  ejercieron el papel de motor de su impulso conquistador. Metas políticas que no fueron otras que las de exportar, a los países  que fue ocupando, las ideas (eso sí, deletéreas y antitradicionales) triunfantes en la Revolución Francesa.

Percíbanse los métodos agresivos y coercitivos de que se vale el imperialismo antitradicional (como caracterización que es de  un nacionalismo expansivo) y compárense con la libre decisión (Sacro Imperio Romano Germánico) de participar en el proyecto común del Imperium que, a menudo, adoptaron reinos y principados. Compárense dichos métodos con la rápida decisión de integrarse en la Romanidad a la que optaron (tras su  derrota militar) aquellos pueblos que se enfrentaron a las legiones romanas.

Fuente: Septentrionis Lux

Sobre imperio e imperialismo

por Francisco Núñez Proaño

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Si un día fuimos grandes, ¿Cómo no hemos de volver a serlo cuando sirvamos en plenitud a nuestros no igualados destinos? (…) Os decía que como imperialismo, no. Imperialismo es el sentido hegemónico de un pueblo sobre otro pueblo, que salta sobre las cuestiones de derecho, que salta por encima de la justicia. Esto no es de nosotros. Debemos ir a una reintegración de los pueblos hispánicos” (Jorge Luna Yepes)

En el estudio de los sistemas políticos comparados, que decepcionantemente la mayoría de veces se reduce a las distintas formas de democracia, Imperio e imperialismo parecerían sinónimos, sin embargo, a la luz de la concepción tradicionalista de Julius Evola por un lado, y nacionalrevolucionaria o de tercera posición de Jorge Luna Yepes por el otro, son antítesis “lo más opuesto” que pueda concebirse.

En la historia de las ideas, en particular de las ideas políticas ecuatorianas, pocos pensadores han alcanzado un grado de claridad y penetración sobre las causas de la decadencia de la idea política y su expresión plasmada en la realidad: el Estado. Jorge Luna Yepes, prácticamente un desconocido en nuestros días, fue un líder político ecuatoriano, así como historiador, y figura máxima del movimiento de tercera posición Acción Revolucionaria Nacionalista Ecuatoriana durante la segunda mitad del siglo XX.

En el caso particular de este artículo nos interesan sus ideas políticas desarrolladas y expuestas en sus escritos a lo largo de las décadas, específicamente la de Imperio y la de imperialismo; Luna entendía a ambos conceptos como enfrentados entre sí, y así nos lo señala claramente, definiendo al Imperio de la siguiente forma:

“Vosotros sabéis que una vez fuimos tan grandes que en nuestras lindes el sol no se ponía. Y siendo esto una verdad en el campo físico, lo era más profundamente en el campo del espíritu… (el) Imperio español de la decadencia, fue quedar confiadamente en el campo de la inactividad. Nosotros tenemos que reaccionar contra algo que se hizo vicio nuestro, pero que no fue de nuestros mayores. Esta inactividad después del éxito no es consustancial con el genio hispano… Si un día fuimos grandes, ¿Cómo no hemos de volver a serlo cuando sirvamos en plenitud a nuestros no igualados destinos?… tenemos que lanzarnos a la reconquista de lo que fue nuestro. ¿Qué fue nuestro? Nuestra fe, nuestra grandeza imperial. El Imperio. ¿Imperialismo? Imperialismo, no…” [1].

En cambio, imperialismo para él significa lo siguiente:

“¿Y cómo no vamos nosotros a volver por lo que antes fuimos? ¿Cómo vamos a rehacer este Imperio? Os decía que como imperialismo, no. Imperialismo es el sentido hegemónico de un pueblo sobre otro pueblo, que salta sobre las cuestiones de derecho, que salta por encima de la justicia. Esto no es de nosotros. Debemos ir a una reintegración de los pueblos hispánicos. ¿Qué se llame Imperio? Es discutible. El nombre es menos importante…. Afirmación imperial, no… imperialista” [2].

A su vez, históricamente concebía un orden específico dentro de la estructura cultural de la colonia, describiendo una vida que “discurre sencillamente, sin ostentación… la vida hogareña y ciudadana de Quito en la unidad del Imperio” [3], y cuando se refiere a al quiteño Miguel Jijón y León (nacido en Cayambe), primer Conde de Casa Jijón, acentúa sus “grandes trabajos a favor de la Patria y del Imperio” [4]. Queda entonces asentado por Jorge Luna Yepes que el Imperio es una unidad física y sobre todo espiritual, que debe ser recuperada, y además; el imperialismo no equivale a Imperio, sino que es su adversario de alguna manera al ser un sistema político hegemónico de un pueblo sobre otro, es decir, un sistema de opresión y explotación del centro hacia la periferia, contrario al sentido de unidad trascendente y en función del bien común explícita e implícita del Imperio.

PAVIA escudo imperial.jpgDe por sí son destacables los conceptos de las ideas políticas de Imperio e imperialismo que presenta Jorge Luna Yepes, con una visión desprejuiciada y nada común en el Ecuador, por aportar con estas a un mejor y más pleno entendimiento de nuestra realidad política-histórica en el continente americano; donde la palabra Imperio se volvió sinónimo de la explotación capitalista estadounidense, siendo usual escuchar a los sectores ideológicos de izquierda –sobre todo- referirse despectivamente a Estados Unidos como “el imperio”, e incluso haciendo alusiones similares –en el sentido de explotación capitalista- a otros países, en particular a España por su claro pasado imperial en América.

Por su parte el pensador tradicionalista italiano Julius Evola, también desarrolló no solo la contraposición de Imperio e imperialismo, sino que dota al Imperio de un sistema relacionado de aplicación para estos tiempos, basado en la experiencia y el desarrollo histórico de los imperios a lo largo de la historia universal [5]. “El fundamento de todo Estado verdadero es la trascendencia de su principio de la soberanía, de la autoridad y de la legitimidad” [6]. Evola pudo definir el Imperio de esta manera:

En épocas precedentes se pudo hablar de un carácter sagrado del principio de la soberanía y del poder, o sea del Estado [7]… idealmente, una única línea conduce de la idea tradicional de ley y de Estado a la de Imperio [8]… Un ordenamiento político, económico y social creado en todo y por todo para la sola vida temporal es cosa propia exclusivamente del mundo moderno, es decir, del mundo de la anti tradición. El Estado tradicionalmente, tenía en vez un significado y una finalidad en un cierto modos trascendentes, no inferiores a los mismos que la Iglesia católica reivindicó para sí en Occidente: él era una aparición del ‘supramundo’ y una vía hacia el ‘supramundo’ [9]… Después, los Imperios serán suplantados por los ‘imperialismos’ y no se sabrá más nada del Estado a no ser que como organización temporal particular, nacional y luego social y plebeya[10].

Marcos Ghio, el principal traductor de la obra de Julius Evola al castellano y uno de sus principales estudiosos, detalla ejemplificando históricamente estas diferencias entre Imperio e imperialismo:

Por una parte “el romano buscaba el Imperio, más que para poder vender sus productos y comerciar mejor, más que para enriquecerse, tal como acontece con los actuales ‘imperialismos’, para plasmar en la existencia de una idea de justicia y de sacralidad; y era dentro de tal contexto místico como Roma se erguía a sí misma como el centro espiritual del universo, en la cual los distintos pueblos de la tierra hallaban un orden superior a su mera inmediatez y a sus apetitos materiales, consiste en un equilibrio dador de sentido último a sus acciones. Así como el alma es el centro ordenador de un cuerpo evitando por su acción que sus partes se desintegren en una lucha incesante entre sí y en un flujo espontáneo hacia la nada, el Imperio es ese mismo orden superior en el seno de los pueblos y partes diferentes en que se compone una civilización, o aun la humanidad en su conjunto, de arribarse a la idea última de Imperio universal”. [11] Y por otra “la idea moderna de imperialismo, el que no representa otra cosa que una extensión de la economía, queriendo significarse con ello además el otro dogma moderno de que los hombres en última instancia solo se movilizan en la vida en función de satisfacer apetitos materiales y que por lo tanto la política y el imperio no serían sino la consecuencia o ‘superestructura’ de dicha disciplina” [12].

A todo lo expuesto, me ha llamado poderosamente la atención; y considero este mi aporte particularísimo al estudio de las ideas políticas comparadas (en el Ecuador y el mundo); la coincidencia que se genera entre los postulados del pensador y político ecuatoriano Jorge Luna Yepes y los del pensador de la Tradición italiano Julius Evola, y no solo eso, además el hecho de que se generaron estas ideas casi simultáneamente en ambos. Siendo conceptos políticos inéditos hasta entonces tanto en América como en Europa: la dicotomía entre Imperio: unidad política con un fin común trascedente y espiritual (descontando de por sí el bien común); e imperialismo: función de explotación económica internacional [13] y sus definiciones detalladas más arriba. Surgiéndome esta interrogante: ¿Cómo es posible que dos personas, al parecer del todo inconexas [14], llegaron a coincidir en sus tesis? La respuesta que puedo darle a esta es que existe algo llamado la verdad.

Addendum:

Jorge Luna Yepes desde su particular visión histórica -alguien incluso la calificó de historicista-, así como Julius Evola desde la suya -desde la Tradición-, mantuvo la idea del retorno a la unidad perdida fundamentada en el Imperio hasta el final de su vida, en el caso específico de la América hispana, en torno al Imperio Hispano:

“La guerra de la Independencia crearon odio contra España, porque la guerra fue brutal: de parte y parte. Las autoridades españolas aplicaban la ley vigente de pena de muerte para los sublevados con armas; y frente a eso, Bolívar decretó la guerra a muerte: nada de prisioneros: todos fusilados. Cuanto odio y desolación, y de inmediato, la insurgencia dentro de las mismas filas patriotas, las conspiraciones contra Bolívar; la destrucción de sus sueños que le hicieron exclamar: ‘América es ingobernable… los que han servido a la Revolución han arado en el mar… A cambio de libertad hemos perdido todos los demás bienes. Estos pueblos caerán indefectiblemente en manos de la multitud desenfrenada, para después pasar a las de tiranuelos imperceptibles de todos los colores y razas, devorados por todos los crímenes’. Y vino la anarquía a nuestro país y vino la decadencia de España. Muchos grupos se olvidaron que España había hecho la unidad de América, con una lengua; una religión, una raza mestiza, una concepción especial de la vida. Pero, ahora, tenemos que pensar en la reacción racional. Tenemos que formar un frente común de Hispanoamérica y España: y, más aún, de Iberoamérica y España y Portugal… Desde California y Nueva York, hasta Madrid y Filipinas, y la Guinea que habla español, podremos hacer fe de inteligencia… ” [15]. Estas palabras fueron escritas en 1991.

Notas

[1] Luna Yepes, Jorge, Mensaje a las juventudes de España, Ediciones para el bolsillo de la camisa azul, Madrid, 1949. Las cursivas son mías.

[2] Ibídem. Las cursivas son mías.

[3] Luna Yepes, Jorge, Síntesis histórica y geográfica del Ecuador, 2da Edición, Ediciones de Cultura Hispánica, Madrid, 1951, pp. 297.

[4] Ibídem, pp. 309.

[5]Ver: Evola, Julius, Los Hombres y las Ruinas, Ediciones Heracles, Buenos Aires, 1994

[6]Ibídem pp. 33

[7] Ibídem. Las cursivas son mías.

[8] Evola, Julius, Rebelión contra el mundo moderno, Ediciones Heracles, Buenos Aires, 1994, pp. 59

[9] Ibídem, pp. 55 y 56. La cursivas son mías.

[10] Ibídem, pp. 62. La cursivas son mías.

[11] Ghio, Marcos, en la Introducción a la obra de Evola: Imperialismo pagano,Ediciones Heracles, Buenos Aires, 2001, pp. 8 y 9.

[12] Ibídem

[13] Eduard Alcántara, estudioso de la metafísica y la metapolítica, señala: “A medio camino entre el imperio español y otros de corte eminentemente antitradicional (por lo mercantilista de los mismos), como el caso del imperio británico (que alcanzó su máxima expresión en el s. XIX) o del conocido como imperialismo ´yanqui´ (tan vigente en nuestros días), podríamos situar al de la Francia napoleónica. Y no sólo lo situamos a medio camino por una evidente razón cronológica, sino que también lo hacemos porque a pesar de haber perdido cualquier orientación de carácter espiritual (el laicismo consecuente con la Ilustración y la Revolución Francesa fue una de las banderas que enarboló), a pesar de ello, decíamos, más que motivaciones de naturaleza económica (como es el caso de los citados imperialismos británico y estadounidense), fueron metas políticas las que ejercieron el papel de motor de su impulso conquistador. Metas políticas que no fueron otras que las de exportar, a los países que fue ocupando, las ideas (eso sí, deletéreas y antitradicionales) triunfantes en la Revolución Francesa. Percíbanse los métodos agresivos y coercitivos de que se vale el imperialismo antitradicional (como caracterización que es de un nacionalismo expansivo) y compárense con la libre decisión (Sacro Imperio Romano Germánico) de participar en el proyecto común del Imperium que, a menudo, adoptaron reinos y principados. Compárense dichos métodos con la rápida decisión de integrarse en la Romanidad a la que optaron (tras su derrota militar) aquellos pueblos que se enfrentaron a las legiones romanas.” En su artículo “El Imperium a la luz de la Tradición”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/el-imperium-a-la-luz-de-la-tradicion/ consultado a 27 de septiembre de 2011.

[14] No poseo ningún tipo de registro que avalen el conocimiento de Luna Yepes sobre Evola o viceversa.

[15] Luna Yepes, Jorge, “LA ANTIHISTORIA EN EL ECUADOR” -discurso de incorporación a la Academia Nacional de Historia del Ecuador- aparecido en Boletín de la Academia Nacional de Historia del Ecuador, Vol. 74, N° 157-158, Quito, ene-dic. 1991, pp.160 y siguientes.

Fuente: Hispanoamérica unida

mercredi, 17 juin 2015

J. M. Vivenza: crise du monde moderne, et si Guénon avait eu raison?


Jean-Marc Vivenza:

La crise du monde moderne, si René Guénon avait raison ?

Extrait tiré du site http://www.baglis.tv
Débat sur l’atemporalité de l’ouvrage emblématique de René Guénon: « La crise du Monde moderne », paru en 1927. La crise évoquée par René Guénon inaugure-t-elle une ère nouvelle en liaison avec les quatre âges de l’humanité tels que le définit la cosmologie hindoue du Manvantara Ou bien doit-on, avec le recul du siècle passé la lire comme un simple texte apocalyptique ?
Pour voir l'intégralité de cet exposé allez sur
http://www.baglis.tv/philosophie-video/metaphy

René Guénon et Alain Daniélou

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René Guénon et Alain Daniélou

par Jean-Louis Gabin

Ex: http://bouddhanar.blogspot.be

« Dans le monde moderne où les voies de la transmission normale de la connaissance ésotérique sont fermées pour la plupart, les livres jouent un rôle très différent de celui qu'ils jouaient dans des circonstances normales, de sorte que certains enseignements jusque là préservés sous forme orale se mirent à circuler sous forme écrite, constituant ainsi véhicules d'enseignement et de guidance pour ceux qui se trouvent privés de tous les autres moyens. Cette manifestation compense la disparition des voies traditionnelles de transmission de la connaissance, au moins dans son aspect théorique, sans que cela implique que cette situation elle-même puisse entraîner la manifestation de l'intégralité de la connaissance traditionnelle dans les livres sous une forme facilement accessible à tous. » 
Seyyed Hossein Nasr

 

Daniélou a témoigné plusieurs fois de l'importance qu'avait représentée pour lui la lecture de l'Introduction générale aux doctrines hindoues de Guénon. Il en traduisit des passages en hindi dans les années 40, car les milieux traditionnels dans lesquels il avait été accueilli à Bénarès étaient intéressés par la façon dont Guénon présentait le Sanâtana Dharma et la « crise du monde moderne ».

Dans le Dossier H consacré à Guénon, Daniélou aborde la question de l'accès à l'intégralité du Sanâtana Dharma, à propos du Védisme. Le Védisme, précise Daniélou, est « censé représenter la tradition primordiale d'un point de vue, disons, officiel. Mais, du point de vue ésotérique, il apparaît comme une religion qui en est devenue, à un certain moment, le véhicule ». Daniélou s'étonne que Guénon n'ait pas eu accès au Shivaïsme, car les plus hauts degrés de l'initiation ésotérique, transmis « presque exclusivement par les Sannyasis, sont shivaïtes. Ils sont en dehors du Brahmanisme, comme d'ailleurs de toute religion, et représentent en fait ce que Guénon appelle la Tradition primordiale ». Mais Daniélou considère que l'Introduction aux doctrines hindoues est le premier ouvrage à avoir tracé un tableau authentique du Sanâtana Dharma, « cette conception d'une révélation première transmise à travers les âges par des initiés, telle qu'elle apparaît dans l'hindouisme mais dont les traces doivent inévitablement se retrouver, sous une forme plus ou moins cachée, dans toutes les civilisations puisqu'elles sont la raison d'être de l'homme ». Comme souvent avec Daniélou, tout est dit en très peu de lignes ; notamment le fait que cette révélation première affleure dans toute société humaine, mais que sa signification intégrale n'est transmise que par des voies initiatiques, lesquelles ne sont pas faciles d'accès, ne sont pas destinées à tout le monde et, pour commencer, ne sont pas présentes partout. Afin d'éviter autant que se peut toute méprise, Daniélou reprend, dans le même texte, la question de l'origine transcendante, supra-humaine dirait Guénon, du Sanâtana Dharma :
« La première révélation de ce que l'homme doit connaître des lois qui régissent l'Univers et des destinées des êtres vivants a été donnée à des Rishis (Voyants), des sages des premiers âges. Leur enseignement a été ensuite transmis par des initiés, des hommes jugés dignes d'assurer la continuité de cette fonction essentielle, à travers toutes les mutations, les alternances de décadence et de progrès, les changements de religion, de langue, de société. Ceci n'exclut pas que des révélations ultérieures viennent parfois rafraîchir la mémoire des représentants de la Tradition ».
danielou-200po.jpgSur ces questions, alors que, sur d'autres points, Daniélou émet des réserves sur telle ou telle attitude, ou sur tel écrit de Guénon, l'accord entre les 2 auteurs est total, comme en témoigne cet extrait d'une lettre de R. Guénon à A. Daniélou, en date du 27 août 1947 :
« Je ne puis laisser dire que je suis “converti à l'Islam” car cette façon de présenter les choses est complètement fausse ; quiconque a conscience de l'unité essentielle des traditions est par là même inconvertissable à quoi que ce soit, et il est même le seul qui le soit ; mais on peut “s'installer”, s'il est permis de s’exprimer ainsi, dans telle ou telle tradition suivant les circonstances, et surtout pour des raisons d'ordre initiatique. J'ajoute à ce propos que mes liens avec les organisations ésotériques islamiques ne sont pas quelque chose de plus ou moins récent comme certains semblent le croire ; en fait ils datent de bien près de 40 ans... ».
Accord total, aussi, sur ce que Guénon nomme, dans Le Règne de la Quantité, la pseudo-initiation et la contre-initiation. Daniélou écrit, toujours dans ce témoignage du Dossier H : « Guénon, qui avait pris contact avec les diverses organisations initiatiques, les Rose-Croix, les Francs-maçons, les Théosophes, etc., en avait aussitôt avec justesse décelé les artifices. Certains de ces ouvrages, tels que Le Théosophisme, histoire d'une pseudo-religion, et L'Erreur spirite en sont une condamnation très bien documentée ». Daniélou ne cite pas Le Règne de la Quantité qui me semble, personnellement, un ouvrage de tout premier plan pour la quête du Sanâtana Dharma, du moins pour nous aujourd'hui, en Europe, qui cherchons à travers les livres et n'avons pas bénéficié d'un enseignement régulier dans une instance traditionnelle, comme ce fut le cas pour les 2 auteurs dont nous parlons. Le Règne de la Quantité consacre plusieurs chapitres aux organisations syncrétiques et aux sectes, permettant de mieux identifier les culs-de-sac et les pièges de l'entreprise anti-traditionnelle multiforme qui marque la dernière période du Kali Yuga.
Un vrai trousseau de clefs pour aujourd'hui que Le Règne de la Quantité et les Signesdes Temps, d'autant plus stupéfiant qu'il fut publié pur la première fois en 1946. Je me contenterai d'une brève citation, en rapport avec ce que disait Coomaraswamy tout à l'heure des chemins où se sont perdus tant d'artistes et de “poètes maudits”, ces martyrs météoriques de la modernité :
« Certains recherchent avant tout de prétendus “pouvoirs”, c'est à dire, en somme, sous une forme ou une autre, la production de phénomènes plus ou moins extraordinaires (..). Bien entendu, il ne s'agit aucunement ici de nier la réalité des “phénomènes” (..) ils ne sont même que trop réels, pourrions-nous dire, et ils n'en sont que plus dangereux (..). En général, l’être qui s'attache à ces choses devient ensuite incapable de s'en affranchir et d'aller au-delà, et il est irrémédiablement dévié (...). Il peut y avoir là une sorte de développement “à rebours” qui (...) éloigne toujours davantage de la réalisation spirituelle jusqu'à ce que l'être soit définitivement égaré dans ces prolongements inférieurs (…) par lesquels il ne peut qu'entrer en contact avec “l'infra-humain” ».
Il y a ainsi dans Le Règne de la Quantité des mises en garde nombreuses et détaillées contre l'action des organisations pseudo-traditionnelles, qui d'ailleurs se haïssent entre elles avec une virulence que Guénon compare aux haines qu'on observe entre des chapelles politiques rivales. J'emploie d'ailleurs à dessein l'expression “chapelle politique”, parce qu'à mes yeux, j'y reviendrai dans un instant, la politique et “l'actualité”, si importantes dans la vie de nos contemporains, me semblent fonctionner comme de véritables substituts du religieux. Daniélou, lui aussi, met en garde expressément contre toutes les formes d'enrôlement, particulièrement contre les pièges dans lesquels tombent en Inde les Occidentaux trop crédules, « parfois attirés par des sectes prétendues initiatiques ou enrôlés par des aventuriers pseudo-mystiques, en particulier certains Indiens qui diffusent un Védanta très simplifié et exploitent leur crédulité ». Il faut remarquer qu'A. Daniélou a cru nécessaire de revenir sur ces questions à la fin de sa vie, lors de la réédition du Chemin du labyrinthe, comme si les illustrations terrifiantes contenues dans « Le Maître des Loups » et « Le bétail des dieux » ne suffisaient pas à dessiller nos yeux occidentaux, imbus de positivisme et du sentiment de supériorité que décerne si prodigalement l'enseignement massifié de nos Universités. On pourra se reporter en particulier à ce que Daniélou écrit à propos de « Wolfgang », qui « confondit, comme beaucoup, la fumée du haschich et la spiritualité indienne » et se laissa entraîner par un de ces « ascètes hirsutes qui, par des pratiques liées au yoga, acquièrent d'étranges pouvoirs qui vont de la lévitation à l'hypnotisme, en passant par la vision à distance, l'insensibilité à la chaleur et au froid, l'envoûtement, l'asservissement de leurs victimes, etc. J'ai toujours eu très peur de ces êtres étranges dont le regard fulgurant fait aussitôt vaciller votre raison et votre volonté, et dont il vaut mieux s'éloigner sans délai ». On peut aussi faire son profit, dans ces ultimes pages d'A. Daniélou, des précisions qu'il apporte au sujet de prétendues activités politiques qu'il aurait eues en Inde, ou de sympathies politiques qui auraient été les siennes en Occident. On ne voit pas très bien pour quelle raison A. Daniélou, qui n'a jamais été effrayé d'assumer son anticonformisme, aurait dissimulé au soir de sa vie des appartenances ou des sympathies, dans une biographie qui est à mille lieues du nombrilisme mais dont la sincérité ne fait aucun doute. Contrairement à Julius Evola, mais proche encore sur ce terrain de Guénon, Daniélou s'est toujours tenu volontairement à l'écart de la politique. Le dernier texte du Chemin du labyrinthes'intitule symboliquement « le choix du libre arbitre » :
« Dans la société orthodoxe où je vivais (pendant la seconde guerre mondiale, à Bénarès) s'affrontaient subtilement et se mêlaient une orthodoxie védique sympathisant avec les théories aryennes du nazisme et une tradition shivaï'te profondément opposée aux aryens. Swamy Karpâtrî, dont je suivais fidèlement les enseignements, avait créé un mouvement culturel, le Dharma Sangh (association pour la défense des valeurs morales et religieuses) afin d'opérer un retour aux valeurs de la culture et de la société traditionnelle. Il critiquait les idées socialistes représentées par le Congrès national de Gandhi et Nehru mais aussi les réformateurs pseudo-traditionnels comme Aurobindo ou Tagore, qui prétendaient revenir à une tradition idéalisée, mais étaient très imbus d'idées occidentales. Par ailleurs, Karpâtrî était très hostile aux idées du Rashtrya Svayam Sevak Sangh (association pour la défense des valeurs nationales) qui préconisait des méthodes inspirées du fascisme dans la lutte contre le Congrès et les idées modernistes (...). De par mon opposition à la domination anglaise et mon attachement à l'Inde, j'avais des rapports très proches avec les dirigeants du mouvement indépendantiste, avec Nehru et sa famille et aussi avec la célèbre poétesse Sarojini Naïdu, tous membres influents du Congrès (…). À aucun moment et en aucune façon je n'ai voulu me mêler des mouvements politiques, ni d'un côté ni de l'autre ».

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On ne saurait être plus net, surtout en 1992, à l'ultime page de son autobiographie. Et je voudrais à présent citer presque intégralement la fin de ce « choix du libre arbitre », non par une sorte de culte, que Daniélou eût été le premier à tourner vertement en ridicule, mais parce qu'il serait vain de vouloir rivaliser avec lui dans la concision, la précision du détail, et l'adéquation avec ce thème de la recherche du Sanâtana Dharma que j'ai essayé d'aborder aujourd'hui :
« Je n'ai jamais voulu m'affilier à aucune secte religieuse ou croyance, jamais voulu perdre mon libre arbitre. Mais, frondeur de nature, j'ai toujours tendance à m'opposer à l'idéologie dominante, à contrecarrer ce que les gens prennent pour des vérités établies, à toujours remarquer que l'enfer est pavé de bonnes intentions, à penser que la remise en question de toute affirmation est le seul moyen de faire évoluer la connaissance. La discussion est un élément de recherche et non point d'assertion ».
C'est bien dans le domaine des prétendus “débats” politiques que la discussion est vraiment stérile, la règle du jeu consistant à ne pas écouter l'adversaire, à l'empêcher de parler, les moyens les plus malhonnêtes n’étant pas les moins indiqués. Dans notre société, où il semble que la parole soit avant tout un pouvoir qui se nourrit de lui-même, les marionnettes-héros de la télévision rivalisent avec celles de la politique dans une sorte de clôture narcissique sur le vide. Penser la discussion comme un élément de recherche légitime à l'époque où le dogme du politiquement correct la considère comme un indice d'éducation inconvenante, ne peut qu'attirer des représailles de la part des tenants de la langue de bois. Cela n'a pas manqué pour A. Daniélou, à propos de qui on affirme dur comme fer dans les officines indianistes et les parkings de méditation des ashrams qu'il fut au minimum, sinon le fondateur, du moins l'idéologue du RSS qu'il citait tout à l'heure. Mais continuons à lui laisser la parole :
« Le paradoxe, la remise en question des évidences qui semblent les mieux établies est un exercice salutaire, le seul capable défaire avancer les choses et de ne point rester figé sur des dogmes. Ce qui m'a fait souvent attribuer une appartenance à des théories auxquelles je ne souscris en aucune façon. La liberté d'esprit a difficilement sa place dans une société infectée par des conflits et des appartenances idéologiques également arbitraires ».
Il me semble que le propos ne peut pas être plus clair au sujet des prétendus engagements politiques d'A. Daniélou. À propos du rôle de gourou qu'il s'est toujours refusé à tenir, il n'est pas indifférent que plus de la moitié du dernier paragraphe du Chemin du labyrinthe, dans un passage qui suit immédiatement celui que nous venons de lire, lui soit consacré : 
« Je ne suis pas prophète, d'ailleurs ma barbe se refuse à pousser. Mon âge fait que les gens attendent de moi des directives ou des oracles, ce à quoi je me refuse ; je ne suis pas un guru. Je continue toujours à chercher à comprendre le mystère du monde et, pour cela, je suis prêt, chaque jour, à tout recommencer, à réexaminer mes convictions, à rejeter toute croyance, à m'avancer seulement dans la direction du savoir qui est le contraire de la foi. Ma méfiance reste entière vis-à-vis de tout rite ou cérémonie qui m'apparaît comme du théâtre dès qu'il y a des témoins. Je me refuse à faire une puja pour des dévots toujours fanatiques (nous dirions aujourd'hui des “fans”) ».
On a trop peu souvent l'occasion de saluer la probité intellectuelle pour ne pas être heureux que, dans des temps comme les nôtres, il reste de ces esprits présentant ce curieux mélange de goût du paradoxe, de liberté, de souveraineté, en même temps que d'une forme d'humilité devant la connaissance, et de distance un peu moqueuse vis-à-vis de ce qui occupe tant d'occidentaux depuis Descartes : leur propre ego. Mais il ne faut pas croire que cette légèreté de bonne compagnie ait été synonyme de superficialité ou de scepticisme. Daniélou nous le rappelle dans la péroraison de son texte que je vais à présent citer jusqu'à la fin, lui laissant d'une certaine façon le dernier mot avant de conclure :
« La seule valeur que je ne remets jamais en question est celle des enseignements que j’ai reçus de l'hindouisme shivaïte qui refuse tout dogmatisme, car je n'ai trouvé aucune forme de pensée qui soit allée aussi loin, aussi clairement, avec une telle profondeur et une telle intelligence, dans la compréhension du divin et des structures du monde. Aucune forme de pensée n'approche de près ou de loin cette merveilleuse recherche qui nous vient du fond des âges. Aucune des idéologies, aucune des théories qui divisent le monde moderne ne me semble mériter que je m'y associe, que j'en prenne la défense. Elles me paraissent puériles, quand elles ne sont pas simplement aberrantes ».
Conclusion
Le chemin pour retrouver une sagesse oubliée n'est pas toujours facile à suivre, mais il est à présent bien tracé.
« Dans le monde moderne où les voies de la transmission normale de la connaissance ésotérique sont fermées pour la plupart, les livres jouent un rôle très différent de celui qu'ils jouaient dans des circonstances normales, de sorte que certains enseignements jusque là préservés sous forme orale se mirent à circuler sous forme écrite, constituant ainsi véhicules d'enseignement et de guidance pour ceux qui se trouvent privés de tous les autres moyens. Cette manifestation compense la disparition des voies traditionnelles de transmission de la connaissance, au moins dans son aspect théorique, sans que cela implique que cette situation elle-même puisse entraîner la manifestation de l'intégralité de la connaissance traditionnelle dans les livres sous une forme facilement accessible à tous ».
Pour l'approche intellectuelle de cette sagesse, les langues occidentales, requalifiées métaphysiquement, en quelque sorte, par tous ces auteurs extrêmement attentifs à la précision du vocabulaire, disposent à présent d'un grand nombre de textes fondamentaux, aisément accessibles. S'agissant du désir de “pratiques”, en revanche, on peut noter les mises en garde répétées de tous ces auteurs. On a oublié dans notre monde profane combien toutes les sociétés traditionnelles étaient attentives aux questions de purification, de qualification, aux instants favorables et défavorables, aux précautions pour neutraliser les forces dangereuses, grâce à des “techniques de pointe”, si l'on ose dire, dont l'origine et l'inspiration, analysées comme “primitives” par les ethnologues positivistes, sont toujours présentées comme “non-humaines”.
La recherche du savoir est toujours légitime, mais l'utilisation de ce savoir pour jouir d'un pouvoir est un obstacle, une disqualification dans cette sorte de jeu de l'oie qui consiste à retrouver patiemment le chemin du divin. Et quant à l'incorporation effective dans une tradition régulière, ce qui peut être également une aspiration légitime, les auteurs traditionnels sont encore unanimes : la première règle consiste à accepter de devenir ce que l'on est, accepter sa naissance hic et nunc, car si l'esprit souffle où il veut, on sait qu'invariablement, du point de vue initiatique, « c'est en réalité la voie qui choisit l'homme et non l'homme qui choisit la voie ».
Il semble qu'au fur et à mesure que le monde moderne descend plus bas dans l'inharmonie et l'empoisonnement de la planète, des lumières apparaissent, différentes comme sont différentes les voies. Les auteurs traditionnels du XXe siècle ont en commun des connaissances immenses et des clés pour l'interprétation des grands symboles qui soudain se répondent et correspondent dans une unité éclatante — et non plus ténébreuse comme chez Baudelaire. Ils ont en même temps des styles très différents et même des formulations qui pourraient sembler contradictoires : Nasr se réfère au Dieu de l'Islam et du Christianisme, alors que le mot “Dieu” est beaucoup moins prononcé dans l'œuvre de Guénon ; Coomaraswamy traduit “Deva” par “Anges”, alors que Daniélou, qui a consacré un ouvrage entier à la réhabilitation intellectuelle du polythéisme, parle évidemment de Vishnou et de Shiva comme d'autant de Dieux ou d'aspects du divin.
Nous avons donc de quoi lire, relire, débrouiller l'écheveau. La floraison d'ouvrages traditionnels, dont l'authenticité ne fait aucun doute et qui s'épanouissent depuis le début du XXe siècle en Occident, compense jusqu'à un certain point l'absence à peu près certaine de voie initiatique dans le Catholicisme, l'absence de cultes maintenus vivants autour des Déesses et des Dieux gréco-romains. Rien ne nous empêche de vénérer les Principes organisateurs de l'harmonie du monde, de bâtir des enclaves d'harmonie, modestes mais incommensurables, d'attendre la lumière au fond de notre cœur.
Jean-Louis Gabin, Pondichéry, Shivaratri 2001. 
Source : Antaios, revue d'études polythéistes fondée en 1959 par Mircea Eliade et Ernst Jünger.

dimanche, 14 juin 2015

Inde, comprendre le système des castes

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INDE, COMPRENDRE LA CULTURE DES CASTES
 
La cohésion sociale dans le respect des valeurs

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr
 
Sandrine Prévot, anthropologue, spécialiste des sociétés du sous-continent indien et directrice d’études, est l’auteure d’une remarquable synthèse sur la société indienne contemporaine, abordée du point de vue des castes : Inde, comprendre la culture des castes
 
Le terme « caste », hérité du colonisateur portugais (« casta ») reflète imparfaitement la réalité des groupes sociaux indiens et leurs substructures hétérogènes se retrouvant au sein d’une même caste. Le jati est le groupe social d’un individu dont l’appartenance est, dans la culture brahmanique, conditionnée par la naissance. La « caste » est une notion socio-religieuse traditionnelle : les jatis sont des « espèces » sociales, héritées d’un ordre naturel, immuable et cosmique.  Leur nombre est incalculable et sujet à des variables régionales ; bien que les jatis régissent et conditionnent les rapports entre les individus, ceux-ci ne déterminent ni leur destin ni leur statut économique.
 
indesp.jpgInscrite dans le sacré, l’organisation sociale indienne se fonde sur une stricte idéologie de l’inégalité des hommes, reflet d’une réalité naturelle. Le statut des êtres à leur naissance est le reflet de leurs actions pendant leurs vies antérieures et de leur karma. La société indienne est quadripartite :  les brahmanes (prêtres) occupent le haut de la société, suivis par les kshatriyas (guerriers) puis les vaishyas (force productrice) et enfin au bas de l’échelle sociale les sudras, les dalits ou les tribus (plus connus sous l’appellation d’intouchables). Ces derniers sont estimés être particulièrement impurs, parce qu’exerçant des métiers dégradants, souvent en relation avec la mort et le sang (métiers du cuir, bouchers, chasseurs, pêcheurs, etc.). Les jatis sont des compartimentations quasi-étanches, les mariages sont endogamiques : l’infraction à cette règle est motif à des violences physiques et d’exclusion : une quasi-mort sociale dans une société où le poids de la famille, source de protection affective et de soutien et d’entraide matériels, est prépondérant.
 
Si la reproduction sociale reste forte en Inde, il n’existe plus comme jadis d’adéquation radicale entre le métier et le jati. Toutefois, l’inégalité est source de tensions, d’humiliations et de violences : une forte compétition oppose les castes entre-elles : l’Inde est, comme le définit Jackie Assayag (directeur de recherche au Centre national de la recherche scientifique (CNRS) à l'École des Hautes études en sciences sociales de Paris), un « immense chantier de lutte de classements, de déclassements, de reclassements. » Le colonisateur britannique inaugura une politique de discrimination positive en faveur des basses castes en instaurant des quotas de postes réservés dans les écoles et dans les administration : ce geste contribua à l’éveil des castes défavorisées de prendre conscience de leur force politique.
 
Même si la discrimination fondée sur l’appartenance à une caste est inconstitutionnelle depuis 1950, violences symboliques et agressions physiques perdurent. La justice amnistie les auteurs de viols perpétrés par des hommes des hautes castes sur des femmes des castes inférieures au motif qu’un homme de haut rang « ne peut violer une femme de basse caste en raison de l’impureté statutaire et de sa crainte d’être souillé » (p. 28). Pour échapper à leur sort, des dalits se radicalisèrent  au sein d’un mouvement inspiré de la doctrine des Blacks Panthers (les Dalits Panthers) ou embrassèrent l’islam, le christianisme ou le bouddhisme. D’autres préfèrent adopter l’idéologie brahmanique avec un espoir d’élévation sociale en adoptant les pratiques, des coutumes et des valeurs des hautes castes, acculturation qui passe notamment par l’éducation et l’apprentissage du sanskrit. Les rejetons des hautes castes apprennent aussi et surtout l’anglais : les English Brahmin affichent un attachement à la modernité, au progrès par son adhésion aux valeurs de marché et de libéralisme, mais restent hermétiques à l’idée de réformer une société qui remettrait en question leur supériorité... Les médias, et en particulier le marketing et la publicité, ne cessent de valoriser les principes brahamiques et le monde de vie occidentalisé des élites.  Comme quoi Mickey et Brahma peuvent faire bon ménage !
  
Si la société indienne est tolérante et non-violente, la violence contenue fait surface régulièrement pour contre-balancer les cruautés de la vie quotidienne. En Inde, celle-ci est légitimée par la nécessité de préserver l’ordre social et cosmique : une personne identifiée comme « sorcière » peut être battue à mort, une intouchable violée, etc.  Cette violence affecte la vie politique et attise les tensions religieuses. Si les tensions entre Musulmans et Hindous sont consubstantielle de la naissance de la nation indienne, Sandrine Prévot attire également l’attention du lecteur sur les actions commises par les extrémistes hindous contre les Chrétiens :  « Les violences envers les missionnaires, les destructions d’églises ou les profanations de tombes sont en hausse depuis 1997. Les actions de prosélytisme des missionnaires chrétiens auprès des tribaux et des basses castes sont mal perçus par les fondamentalistes. Même s’il s’agit d’améliorer leur dignité et d’offrir un meilleur accès à l’éducation et aux soins, les nationalistes hindous, considèrent que les chrétiens profitent de cette population vulnérable et démunie pour porter atteinte à l’hindouisme, à l’intégrité de la nation » (p. 90). 

En somme, la modernisation de l’Inde et le maintien de sa cohésion sociale se font dans le respect des valeurs indiennes, centrées sur la caste, la famille et la religion. L’uniformisation culturelle à l’américaine n’a pas de prise dans ce pays. Toutefois, c’est la persistance des inégalités, amplifiée par les méfaits de la globalisation économique, qui est source de conflits, de revendications identitaires de caste et de rejet des élites indiennes, dont nous avons relevé ci-dessus les flagrantes contradictions. 

Sandrine Prévot, Inde, comprendre la culture des castes. éditions de l’Aube.

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mercredi, 10 juin 2015

Sacralidad, honor y política

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Sacralidad, honor y política

Ex: http://www.hiperbolajanus.com
 
Desde su origen etimológico, el término «política» se encuentra indefectiblemente vinculado a la vida de la Comunidad, y con ésta su principal función debe ser, según la ortodoxia del término y sus orígenes, la regulación de las normas de convivencia más elementales, aquellas cuestiones que atañen al conjunto de la ciudadanía, y con éstas todas las problemáticas que afectan a la totalidad. La política era en sus orígenes la herramienta fundamental que permitía la vida gregaria de los hombres, la constitución de comunidades y Estados, y con ella una recíproca relación de beneficio entre quienes eran parte integrante de esas Comunidades.
 
Las Comunidades humanas deben hacerse acreedoras de una existencia superior, ir más allá de una reglamentación de las implicaciones contingentes de la existencia, para buscar una vida cada vez más pura y objetiva, un reflejo de las aspiraciones trascendentes y de perfeccionamiento mediante el mantenimiento del rito, los principios y la sacralidad a la que toda obra humana se debe. Las épocas de decadencia moral y espiritual están condenadas a la destrucción y el olvido, y son el precio que la imperfección humana debe pagar cuando se aleja de la luz de lo divino, para adentrarse en las tinieblas de lo prometeico y la horizontalidad de la existencia terrenal sin un soporte trascendental que le sirve de guía en sus empresas.
 
Al mismo tiempo, en el mundo antiguo la función política suponía la supeditación de la función administrativa ligada ésta a un principio superior, al que los mandatarios debían atenerse y que se presentaba como inviolable. Los atributos divinos eran el baluarte y fundamento de toda verdad, es la idea de consagración del poder, el revestimiento de la sanción divina, la que durante milenios ha legitimado todo tipo de regímenes, monarquías o imperios. Esas reminiscencias sacrales las podemos encontrar incluso en tiempos relativamente recientes, como en el Absolutismo con su monarca arquetípico Luis XIV, donde la sanción divina era una constante, la cual dignificaba también la autoridad política del rey, todo ello a pesar de que el legado simbólico y primordial que contenían sus referencias no eran sino una carcasa vacía y el eco de tiempos pasados, en los que la Tradición Primordial todavía mantenía en pie ciertos atributos.
 
Con el devenir de los últimos siglos, con la irrupción de la modernidad y la regresión máxima hacia formas de materialidad extrema, la degradación de lo político, las fuentes sagradas de donde extrae su vigencia y actualidad o la deriva hacia formas colectivistas e individualistas en todos los órdenes de las organizaciones y creaciones humanas se han convertido en una constante en la deriva descendente de lo humano hasta nuestros días. En otros escritos precedentes hemos destacado la socavación de la idea de jerarquía y, como contrapartida, la preeminencia de la sociedad, considerada como demos, como un mero agregado de voluntades individuales, frente a la ortodoxia y el sentido de claridad que representa el órgano del Estado como vertebrador y guía en la configuración de toda forma de asociación humana.
 
Sin embargo, esta degradación y erosión de la primacía de lo espiritual en toda creación humana para dar paso a formas desbocadas e irracionales del poder y la organización en el mundo moderno, también ha venido acompañada de la destrucción de la esencia de lo político, donde el parlamentarismo liberal ha jugado en papel esencial: La política convertida en un nido de arribistas, embaucadores y profesionales de la mentira; aferrados a cualquier maniobra o triquiñuela, la mayor parte de las veces de una vulgaridad y zafiedad insultante, en la que lo más importante es el espíritu de facción o pertenencia a un grupo determinado frente a otro. No importa la verdad ni el bien o el interés del conjunto, ni la armonización de los contrarios bajo el poder de una síntesis superior, de una virtud iluminante capaz de resolver cualquier antítesis generada.
 
La política es el actuar inorgánico y autodestructivo de las voluntades de los particulares, expresadas a través de partidos políticos o de pretendidas personalidades en ese contexto, cuyo deseo es medrar materialmente, en lo individual, para integrarse, en un plano más amplio, en los grupos oligárquicos y plutocráticos que han convertido la política, en su sentido más originario y con sus antiguos atributos de sacralidad y divinidad, en una especie de vertedero ponzoñoso donde cualquiera puede conseguir sus objetivos personales —de éxito, poder o enriquecimiento— o integrarse en las élites invertidas de la democracia liberal en perjuicio de los intereses del conjunto del cuerpo político.
 
Hacer política en democracia liberal es una tarea muy compleja para quienes, como organizaciones o particulares, creen que ésta, la política, debe estar guiada por un código de valores, por una ética del honor y unos principios fundamentales que nos mantengan firmes sobre un objetivo. Y mucho más complicado es, cuando se comprueba que al final prevalecen los intereses electorales, las estrategias contingentes del momento y un proceder, en general, bastante vulgar.
 
La política, como todas las acciones que puedan ser emprendidas en la vida, precisa de un estilo, de una ética del honor y los valores, así como un referente superior que no nos haga caer en comportamientos infrahumanos, de los cuales no pecan solamente aquellos que controlan los resortes del Estado y las democracias liberales, sino también aquellos que, desde su pasividad, permiten y sancionan la perversión y regresión máxima. Proporcionar un estilo significa dignificarse, buscar en el esfuerzo y la autodisciplina formas de superación a través de una vía ascendente y actuar en consonancia con la organicidad y universalidad de las cosas, en una palabra: centralidad.
 
La lucha metapolítica, la que trata de cambiar el mundo transformando interiormente al hombre, debe dignificar la función política en la medida que es capaz de restaurar su equilibrio interior y reintegrarlo en el sentido cósmico de lo divino, en su síntesis armoniosa que asegura una existencia plena desde la perennidad y atemporalidad de su centro.

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mardi, 09 juin 2015

Percepciones del oriente: ¿Budismo pacifista?

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Percepciones del oriente: ¿Budismo pacifista?

Ex: http://www.hiperbolajanus.com

 
 

El extremo oriente siempre ha tenido un punto de exotismo y de atracción para los europeos. Desde la Europa burguesa y liberal de tiempos decimonónicos hasta la actualidad nuestra percepción de esas latitudes, así como del sistema de creencias, doctrinas y tradiciones que lo articulan, ha estado condicionada por una profunda incomprensión, tanto en el mensaje como en el contenido mismo de la doctrina y sus efectos prácticos sobre aquel que decide ponerla en práctica. Quizás el caso más paradigmático de tales mixtificaciones lo constituya el Budismo, cuya doctrina de los orígenes es totalmente desconocida por parte de aquellos adheridos a las corrientes integradas dentro de lo que se conoce como new age

Si bien es cierto que Buda se pudo mantener impreciso, de manera intencionada, respecto a ciertas partes de la doctrina o se negó a darle la forma de un sistema filosófico con un contenido especulativo, tal y como desde Occidente se concebía al extremo-oriente en sus construcciones espirituales como una suerte de filosofías sobre la existencia muy sutiles al tiempo que una especie de tratamiento terapéutico contra los males y contrariedades de la vida, lo cierto es que el Budismo obedece a una lógica, tanto a nivel mental como espiritual, que trasciende toda reflexión filosófica y en ningún caso se propone como un antídoto contra los males generados por la vida.

El Buda de los orígenes no era el típico pacifista consagrado a la paz y el amor con el prójimo, sino un experimentado guerrero que había dado muerte al enemigo en el campo de batalla, además de un hombre de estado versado en la política y el arte de gobernar. También se había casado y había tenido un hijo, viviendo las vicisitudes de cualquier coetáneo de su época en similar situación. Y es que el ejemplo de lo que realmente es, e implica, el budismo lo vemos reflejado en los hechos y vivencias de su fundador, que demuestra que el budismo no es una capitulación pusilánime frente a la vida y la existencia en general, sino un combate heroico y activo en la búsqueda por un más allá, un más allá de las limitaciones físicas y ontológicas del ser humano estandarizado. De modo que es la búsqueda de una existencia más auténtica que no conlleva pasividad alguna sino más bien conciencia de uno mismo, de aquello que te rodea y de las debilidades que nos hacen depender del deseo y las pulsiones del instinto.

En definitiva, el budismo, al igual que un buen número de doctrinas extremo-orientales, se funda en el autoconocimiento y la ascesis, desde un sentido de perfeccionamiento continuo en el que se ponen a prueba la voluntad, el esfuerzo y la capacidad de sacrificio en una vía hacia el Despertar, hacia un trascender heroico frente a la mediocridad y pasividad del burgués y el moderno, que vive en un plano totalmente profano y desacralizado.
 
Lectura recomendada: The Buddha as Warrior [wildmind.org]

mardi, 02 juin 2015

Julius Evola’s Influence on Jobbik and Gabor Vona

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Julius Evola’s Influence on Jobbik and Gabor Vona

Ex: http://islam-freemasonry.com

The Budapest Times has just published an article on the “esoteric” influence on Gabor Vona, the leader of Hungary’s controversial Jobbik Party, and Tibor Imre Baranyi, Vona’s advisor. Of particular importance to the journalist is the influence of the founder of the school of Traditionalism, Rene Guenon, and, more especially, Julius Evola, one of the more popular yet more frequently criticized of Traditionalist thinkers.

According to the Budapest Times, Baranyi is Vona’s official advisor, and receives a monthly gross salary of HUF 189.878 (if this is correct, that’s about $0.67 USD according to various online currency exchange sites). He is also the owner of Kvintesszencia, a publishing house in Debrecen, which has published some of Evola’s work. The Budapest Times say that,

Evola was in close contact with the SS during World War II and worked for the Study Society for Primordial Intellectual History, German Ancestral Heritage founded by Heinrich Himmler.
By the way, Vona wrote a passionate introduction for the Evola compilation published by Kvintesszencia..

This seems to be an oversimplification. Evola was close to elements in Italy’s Fascist party, and lectured to the SS, though his views were seen as incompatible with Nazi racialism, and his activities in Germany were effectively stopped. Evola saw “race” in spiritual terms, or terms of character and inclination. This may seem unsavory to us today, and while many of Evola’s opinions — such as they were influenced by the Protocols of the Elders of Zion, etc. — may have been wrong, these not unusual for his time, either on the Left or Right.

What’s important, when considering Evola’s influence, is the broad range of material he produced, some of it bad, some of it interesting. Evola’s books have been largely published by Inner Traditions, an occult/New Age publisher, since most of his work concerns spirituality, from Buddhism and Islam to Hermeticism, all of which he speaks about positively.

Without understanding this — and the Budapest Times certainly doesn’t seem to — it is difficult to understand what Evola’s impact may be on Vona. Speaking about Traditionalism, the newspaper says:

The doctrine likes to take examples from Buddhism, Hinduism, Islamic tradition and other directions of religion in order to compare the dilapidation of the Western world against something. The person who combined many different spiritual movements in such a way and is considered as the icon of traditionalists today is the Frenchman René Guénon (1886-1951). Guénon spent his late years as a Muslim Sufi mystic under the name Abdel Wahid Yahia in Cairo, the Egyptian capital becoming the final destination of his spiritual movement.

Vona does not seem to really mind that the traditional school based on the global synthesis of different religious directions and spiritual-cultural tradition contradicts the official Jobbik image of being “Christian and Hungarian”. He himself follows the “metaphysical tradition”. A couple of months ago this is what he told weekly newspaper Heti Válasz: “Every larger global religion has a core truth which is the same as in the other ones and in most cases it’s called God. Everyone has the task to get as close to God as possible in his own cultural circle and within his own faith. As a Hungarian, European and Roman Catholic person I have the same task. However, at the same time I pay attention to, study and understand other cultures and religions too.”

This again mischaracterizes Guenon and Traditionalism. Guenon — who was at one time involved with esoteric Freemasonry, and who later “moved into” Islam — did not “combine” different religions, but perceived that they were all reflections of a spiritual “primordial Tradition,” and thus all contained elements of Truth. Although concerned with both gnosis and how to live authentically rather than with society, we see something similar in anthropology, where aspects of the various religions may be compared.

Moreover, though once an obscure and academic approach, it is now a common belief in the West that all religions are in some way true. Usually this opinion is seen on the Left, as an endorsement of multiculturalism — often in a political sense, of seeing the religions as clients to be represented by a political class that is above believing in a single religion. Vona takes a Traditionalist, or more Right-wing approach, believing that though one can get close to God through any of the major religions, each person has a duty to do this through the culture of their heritage.

Personally, since I grew up in a nominally Christian country, but do not consider myself Christian, I don’t agree with Vona. But I also think these things are worth talking about seriously. Though it’s always interesting to see Traditionalism discussed in the mainstream, it’s a pity the Budapest Times got it so wrong.

 

lundi, 01 juin 2015

Iraqi Kurds revive ancient Kurdish Zoroastrianism religion

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Thanks to Islamic extremism, Iraqi Kurds revive ancient Kurdish Zoroastrianism religion

by Alaa Latif

Ex: http://ekurd.net

The One, True Kurdish Prophet

SLEMANI, Kurdistan region ‘Iraq’,— The small, ancient religion of Zoroastrianism is being revived in Iraqi Kurdistan. Followers say locals should join because it’s a truly Kurdish belief. Others say the revival is a reaction to extremist Islam.

One of the smallest and oldest religions in the world is experiencing a revival in the semi-autonomous region of Iraqi Kurdistan. The religion has deep Kurdish roots – it was founded by Zoroaster, also known as Zarathustra, who was born in Iranian Kurdistan (the Kurdish part of Iran) and the religion’s sacred book, the Avesta, was written in an ancient language from which the Kurdish language derives. However this century it is estimated that there are only around 190,000 believers in the world – as Islam became the dominant religion in the region during the 7th century, Zoroastrianism more or less disappeared.

Until – quite possibly – now. For the first time in over a thousand years, locals in a rural part of Slemani (Sulaymaniyah) province conducted an ancient ceremony on May 1, whereby followers put on a special belt that signifies they are ready to serve the religion and observe its tenets. It would be akin to a baptism in the Christian faith.

The newly pledged Zoroastrians have said that they will organise similar ceremonies elsewhere in Iraqi Kurdistan and they have also asked permission to build up to 12 temples inside the region, which has its own borders, military and Parliament. Zoroastrians are also visiting government departments in Iraqi Kurdistan and they have asked that Zoroastrianism be acknowledged as a religion officially. They even have their own anthem and many locals are attending Zoroastrian events and responding to Zoroastrian organisations and pages on social media.

Although as yet there are no official numbers as to how many Kurdish locals are actually turning to this religion, there is certainly a lot of discussion about it. And those who are already Zoroastrians believe that as soon as locals learn more about the religion, their numbers will increase. They also seem to selling the idea of Zoroastrianism by saying that it is somehow “more Kurdish” then other religions – certainly an attractive idea in an area where many locals care more about their ethnic identity than religious divisions.

As one believer, Dara Aziz, told Niqash: “I really hope our temples will open soon so that we can return to our authentic religion”.

“This religion will restore the real culture and religion of the Kurdish people,” says Luqman al-Haj Karim, a senior representative of Zoroastrianism and head of the Zoroastrian organisation, Zand, who believes that his belief system is more “Kurdish” than most. “The revival is a part of a cultural revolution, that gives people new ways to explore peace of mind, harmony and love,” he insists.

In fact, Zoroastrians believe that the forces of good and evil are continually struggling in the world – this is why many locals also suspect that this religious revival has more to do with the security crisis caused by the extremist group known as the Islamic State, as well as deepening sectarian and ethnic divides in Iraq, than any needs expressed by locals for something to believe in.

“The people of Kurdistan no longer know which Islamic movement, which doctrine or which fatwa, they should be believing in,” Mariwan Naqshbandi, the spokesperson for Iraqi Kurdistan’s Ministry of Religious Affairs, told Niqash. He says that the interest in Zoroastrianism is a symptom of the disagreements within Islam and religious instability in the Iraqi Kurdish region, as well as in the country as a whole.

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“For many more liberal or more nationalist Kurds, the mottos used by the Zoroastrians seem moderate and realistic,” Naqshbandi explains. “There are many people here who are very angry with the Islamic State group and it’s inhumanity.”

Naqshbandi also confirmed that his Ministry would help the Zoroastrians achieve their goals. The right to freedom of religion and worship was enshrined in Kurdish law and Naqshbandi said that the Zoroastrians would be represented in his offices.

Zoroastrian leader al-Karim isn’t so sure whether it is the Islamic State, or IS, group’s extremism that is changing how locals think about religion. “The people of Kurdistan are suffering from a collapsing culture that actually hinders change,” he argues. “It’s illogical to connect Zoroastrianism with the IS group. We are simply encouraging a new way of thinking about how to live a better life, the way that Zoroaster told us to.”

On local social media there has been much discussion on this subject. One of the most prevalent questions is this: Will the Kurdish abandon Islam altogether in favour of other beliefs?

“We don’t want to be a substitute for any other religion,” al-Karim replies. “We simply want to respond to society’s needs.”

However, even if al-Karim doesn’t admit it, it is clear to everyone else. Committing to Zoroastrianism would mean abandoning Islam. But even those who want to take on the Zoroastrian “belt” are staying well away from denigrating any other belief system. This may be one reason why, so far, Islamic clergy and Islamic politicians haven’t criticised the Zoroastrians openly.

As one local politician, Haji Karwan, an MP for the Islamic Union in Iraqi Kurdistan, tells Niqash, he doesn’t think that so many people have actually converted to Zoroastrianism anyway. He also thinks that those promoting the religion are few and far between. “But of course, people are free to choose whatever religion they want to practise,” Karwan told Niqash. “Islam says there’s no compulsion in religion.”

On the other hand, Karwan disagrees with the idea that any religion – let alone Zoroastrianism – is specifically “Kurdish” in nature. Religion came to humanity as a whole, not to any one specific ethnic group, he argues.

By Alaa Latif
Regions and cities names in Kurdish may have been changed or added to the article by Ekurd.net.

samedi, 23 mai 2015

Archives de Julius Evola en français (1971)

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Archives de Julius Evola en français (1971)

Unique interview en intégralité de Julius Evola en français, vieilli, paralysé mais toujours alerte, quelque temps avant sa mort. Sorte de testament biographique, on y trouvera entre autres les thèmes de l'essence de ses ouvrages, sa période artistique dadaïste, ses rapports avec René Guénon, ainsi qu'avec les régimes politiques de l'époque, et bien d'autres explorations métaphysiques.

(Le bruit sourd s'estompera après les premières vingt minutes)

vendredi, 22 mai 2015

A Vedic Examination of Abrahamism

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A Vedic Examination of Abrahamism

The following article is from chapter 3 of the groundbreaking new work The Dharma Manifesto“, by Sri Dharma Pravartaka Acharya.

By Sri Dharma Pravartaka Acharya

The Abrahamic worldview is today represented by five closely aligned ideological tendencies: 1) Judaism, 2) Pauline Christianity, 3) Islam, 4) Marxism, and to a less significant extent 5) the Baha’i movement. Of these Abrahamic tendencies, Marxism is the only self-stated atheistic one, the others being religious in nature. The greatest real-world challenge and exact philosophical juxtaposition to the entire Dharmic worldview has historically been, and continues to this day to be, the Abrahamic mentality and worldview.

While some very important theological and ritual distinctions can be seen between them all, nonetheless the specifically religious-oriented aspects of Abrahamism – Judaism, Christianity and Islam – share a common worldview, psychological make-up, and guiding ethos. Judaism, Christianity and Islam are historically referred to as the “Abrahamic” religions because all three religions trace their origins to the prophet Abraham, and can thus be seen to be quite similar in many aspects of their respective outlooks. The following are only a few of the similarities that they all share.

1. All three religions have a shared acceptance of the teachings of the Old Testament prophets (Christianity, in addition to the accepting the Old Testament prophets, also accepts Jesus. Islam, in addition to the Old Testament prophets and Jesus, also accepts Muhammad).

2. Anthropomorphic monotheism. The supreme god of Abrahamism is seen in very human terms, including in his exhibition of such very human emotions as anger, jealousy, prejudice and vengeance.

3. A profound sense of religious exclusivity, creating two strictly delineated camps of “believers” in opposition to everyone else.

4. The belief that there is only the sole true faith, and that any other form of religious expression external to the “one true faith” is necessarily wrong.

5. The acceptance of terrorism, violence, mob action, looting and aggressive missionary tactics to spread their religion.

6. A common sense of being at a war to the death with the Dharmic (“Pagan”) world that preceded Abrahamic ascendency.

7. The centrality of unidirectional prayer to commune with their god, with systematic meditation practice playing either little or no part in the practice of their respective religions.

8. A belief in the existence of angels, the devil, demonic spirits, etc.

9. All three teach the bodily resurrection, the Final Judgment, the creation of the soul at the time of conception or birth (as opposed to the soul’s pre-existence, which all Dharmic spiritual traditions teach), the binding effects of sin, etc.

10. The importance of a specific holy day of the week set aside for prayer and rest: For Jews – Saturday. For most Christians – Sunday. For Muslims – Friday.

These are only a few of the elements of the Abrahamic worldview, of which mainstream Christianity is an integral part.

Up until 2000 years ago, the Dharmic worldview was by far the predominant worldview for most of humanity – from Ireland in the West to the Philippines in the East. Though there were thousands of diverse individual cultures, languages, foods, customs and traditions among the ancient Indo-European peoples, most of these ethnically varied cultures were united in their deep respect for, and attempted adherence to, the Natural Way (Dharma).

This ancient uniformity in adherence to Dharma was the case for tens of thousands of years until the radically anti-human and anti-nature Abrahamic ideology suddenly burst upon the world scene 4000 years ago with an evangelical fury, religiously-inspired violence, and zealous civilization-destroying vengeance the likes of which the civilized world had never seen previously. Never before had the multiple ancient and noble pre-Christian cultures of the world ever experienced such massive destruction, death, persecution, forced conversion, and cultural annihilation performed in the name of an artificially expansive religion as it witnessed at the hands of the new Abrahamic ideology that had arrived, seemingly out of nowhere, onto the world stage. It was in the wake of this never before experienced juggernaut of Biblically inspired destruction that the light of Dharma began to swiftly wane, and that Reality as it was known up till then was turned literally on its head.

Religiously inspired imperialism began with the more localized expansion of the Israelites in the Levant region two thousand years before the birth of Christianity.[1] However, it was soon after the appropriation of the original teachings and spiritual movement of Jesus, and the massive expanse of this later, corrupt form of post-Constantine Christianity, that the expansion of the Abrahamic ideology began to take on truly global proportions. As the French thinker Alain de Benoist explains this catastrophe in the context of European history,

“. . . the conversion of Europe to Christianity and the more or less complete integration of the European mind into the Christian mentality, was one of the most catastrophic events in world history – a catastrophe in the proper sense of the word…”[2]

With the ascent of the Abrahamic onslaught came the counter-proportional descent of the Indo-European world’s traditional Dharmic civilizations.

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Christianity, in retrospect, was but one of several artificially constructed, new movements that all fall under the general term “Abrahamic”, named after the infamous founder of fanatical religious exclusivity, Abraham (1812 BC – 1637 BC).  These four anti-nature ideologies are 1) Judaism, 2) Christianity, 3) Islam, and 4) Marxism.  Whether we speak of Judeo-Christian “holy wars” and Inquisitions, or the bloody and unending Islamic jihads against “infidels”, or the genocide of over 100 million people in the name of Marxist revolution, all four of these Abrahamic movements have been responsible for more destruction, loss of life, and social mayhem than all other ideas, religions, and ideologies in world history combined.

The Abrahamic onslaught has been an unparalleled juggernaut of death. More, while all four ideologies have remained seemingly divided by dogmatic, sectarian concerns, all Abrahamic movements have been fanatically united in both their common origin, and in their shared aim of annihilating their perceived enemy of Dharma from the earth, and seeking sole domination of world power for themselves alone. While Judaism, Christianity and Islam have been at war with each other for millennia, they are all united in their insistence that Dharma is their principal hated enemy. The essential driving principle of Abrahamism is to bring about the immediate death of Dharma.

Dharma and Abrahamism are exact opposites in every way.  Dharma and Abrahamism stand for two radically opposed visions for humanity’s future. Dharma stands for nature, peace, diversity, and reason. Abrahamism stands for artificiality, war, uniformity, and fanaticism. They are the only two real ideological poles of any true significance in the last two-thousand years. There has been an ongoing Two-Thousand Year War between these two opposing worldviews that has shaped the course of much of human history since this conflict’s start. Every philosophical construct, religious denomination, political ideology and general worldview of the past two millennia falls squarely into one camp or the other. Every human being living today falls squarely into one camp or the other. Dharma and Abrahamism are the only two meaningful ideological choices for humanity today. And for all too much of the duration of this Two-Thousand Year War, Dharma has been on the losing end as Abrahamism has continuously succeeded in its unrivalled ascendancy.

The destructive ascendancy of Abrahamism is, however, about to come to an end. We are now about to witness a period of Dharmodaya – of Dharma ascending – in this very generation. As is explained in thorough detail in the two books “The Dharma Manifesto” and “Sanatana Dharma: The Eternal Natural Way”, we are about to experience the rebirth of Dharmic and Vedic civilization throughout the totality of our world.

The Dharma world-view represents a positive moral and philosophical alternative to the many ills and cultural distortions of Abrahamic modernity. Vedic culture is human culture, because Vedic culture is the model of spiritual civilization. Our world is not without meaning. Our future is not without hope. Though the darkness of the Kali Yuga (our current “Age of Conflict”) and a civilizational crisis has now descended upon us, the Sun of Dharma will soon be seen again. No cloud can obscure our vision of the Sun forever. We will live to see Dharma triumphant again, and to see a Golden Age of compassion, true culture, and the Natural Way be firmly established.



[1] One of the prime example of such Abrahamist expansion was the conquest of Canaan (circa 1400-1350 BC), described in the Book of Joshua and the first chapter of Judges.

[2] Alain de Benoist, On Being a Pagan, ed. Greg Johnson, trans. Jon Graham (Atlanta: Ultra, 2004), p. 5.

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This article is from chapter 3 of the groundbreaking new political work “The Dharma Manifesto“, by Sri Dharma Pravartaka Acharya.

The Dharma Manifesto serves as the first ever systematic revolutionary blueprint for the nascent global Vedic movement that will, in the very near future, arise to change the course of world history for the betterment of all living beings. The Dharma Manifesto signals the beginning of a wholly new era in humanity’s eternal yearning for meaningful freedom and happiness.

About the Author

Sri Dharma Pravartaka Acharya has been acknowledged by many Hindu leaders throughout the world to be one of the most revolutionary and visionary Vedic spiritual masters on the Earth today.

With a forty year history of intensely practicing the spiritual disciplines of Yoga, and with a Ph.D. in Religious Studies, Sri Acharyaji is one of the most eminently qualified authorities on Vedic philosophy, culture and spirituality. He is the Director of the Center for the Study of Dharma and Civilization.

His most historically groundbreaking politico-philosophical work, “The Dharma Manifesto“, is now offered to the world at a time when its people are most desperately crying out for fundamental change.

lundi, 18 mai 2015

Evola e Dante. Esoterismo ed Impero

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Evola e Dante. Esoterismo ed Impero

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

evola-e-danteTra i molti libri dedicati ad Evola nel 2014, in occasione del quarantennale della scomparsa, vale senz’altro la pena ricordare il volume di Sandro Consolato Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo, pubblicato dalle edizioni Arya (per ordini: arya@oicl.it, euro 18,00). Il valore di questo lavoro va colto nella organicità della trattazione, nell’uso accorto delle fonti e dei documenti, nell’elaborazione di tesi esegetiche che non risentono né dei limiti della denigrazione preconcetta, né della semplice esaltazione agiografica. Peraltro, il tema trattato, presenta aspetti di grande rilevanza per la contestualizzazione storico-teoretica dell’opera evoliana. Il saggio è strutturato in quattro densi capitoli preceduti da una premessa e seguiti dalle conclusioni dell’autore e da una   postfazione di Renato Del Ponte.

Consolato rileva come l’interesse mostrato da Evola per Dante, fosse assai diversificato: il tradizionalista si occupò, a più riprese, degli aspetti puramente esoterici del Poeta, di quelli esoterico-politici, ed infine della sua teoria dell’Impero. Per quanto attiene al primo, molti giudizi evoliani sono influenzati dalla sagace capacità interpretativa di Luigi Valli. Questi si distinse, sulla scorta del Pascoli esegeta di Beatrice, nel leggere l’espressione Fedeli d’amore che compare nella Vita Nova, riferita a compagni “dello stesso Dante in una fraternità esoterica ghibellina” (p. 14). A parere di Evola, ricorda l’autore, Valli destrutturò i criteri interpretativi dominanti allora la critica dantesca, quello estetico e quello centrato sulla ortodossia cattolica. Il cuore dell’esoterismo dell’Alighieri sarebbe racchiuso nel mistero della “Donna”, operante non solo nell’opera citata, ma anche nella Commedia, come confermato dalla lezione del Marezkovskij. “Donna-Beatrice” sarebbe figura evocante simbolicamente tre significati a lei consustanziali: La “Sapienza santa”, la dottrina segreta, l’organizzazione detentrice e custode della segretezza della dottrina. Tale Sapienza corrisponde a ciò che Aristotele aveva definito intellectus agens, impersonale e di origine extra-umana. Evola ritiene che amore e donna risveglino ciò che nell’uomo di senso comune è solo in potenza, possibile ma non agente, così come avviene nelle pratiche tantriche “l’elemento shivaico che prima dell’unione con la donna è inerte e inane” (p. 22). Per questo, la “donna” genera un essere nuovo, un essere latore di salus.

Dante-Statue_6537.jpgRispetto all’interesse evoliano per il dato esoterico-politico nell’Alighieri, è opportuno ricordare che la cerca del Poeta è sintonica, e la cosa è accortamente rilevata da Consolato, a quella che maturò negli ambienti graalici in rapporto al problema dell’Impero. Caratterizzata, in particolare, dal continuo riferirsi al motivo dell’imperatore latente, mai morto e per questo atteso e al Regno isterilito, simbolizzato in modo paradigmatico dall’Albero secco che rinverdirà con il rimanifestarsi nella storia dell’Impero, per l’azione del Veltro-Dux. L’Impero, per esser tale, deve far riferimento ad un re-sacerdote il cui modello è Melchisedec, custode della funzione attiva e di quella contemplativa. L’autore suggerisce che in tema di Veltro e relativamente alla sua esegesi storico-politica, Evola si richiama alla lezione di Alfred Bassermann, grazie alla quale egli coglie come Dante, in tema, si sia fermato a metà strada, “la sua concezione dei rapporti tra Chiesa e Impero rimase imperniata su di un dualismo limitatore…tra vita contemplativa e vita attiva” (p. 39). Lo stesso esoterismo dell’Alighieri era legato ad una sorta di via iniziatica platonizzante, non pienamente giunta a rilevare, come accadrà nel puro templarismo, che l’iniziazione regale risolve in sé i due momenti del Principio, contemplazione ed azione. In questo contesto, suggerisce Consolato, deve essere letta la polemica di Cecco d’Ascoli nei confronti dell’Alighieri, attaccato in quanto “deviazionista” rispetto all’iniziazione propriamente regale. In questi termini, Dante è il simbolo più proprio, per Evola, dell’età in cui visse, il medioevo. Età in cui la Tradizione tornò ad affacciarsi ma nei panni spuri e dimidiati del cattolicesimo.

In merito al tema dell’Impero, nonostante i limiti su ricordati, Evola vede in Dante un predecessore, in quanto “il pensiero di Evola è stato…un pensiero fondamentalmente monarchico, perché…egli trasferì l’ideale della sua giovanile ascesi filosofica…nella figura dell’Adepto…e poi pose questo…al centro e al vertice del suo ideale di Impero e di civiltà” (p. 48). Tale idea di Ordnung, si pone ben oltre i suoi surrogati moderni, in quanto espressione di un Potere dall’alto, con-sacrato e mirato a indurre nella comunità una Pace reale e non meramente fittizia. Capace, pertanto, di far sorgere negli uomini di ogni tempo quella spinta anagogica, verso l’Alto, che la tradizione classica, ha detto essere scopo essenziale del Politico. La Dittatura, sintesi delle prospettive filosofico-politiche della modernità maturate lungo la linea speculativa hobbesiano-schmittiana, può placare solo momentaneamente il conflitto, ma resta semplicemente il luogo della contraddizione eternamente riemergente. Ciò non significa che Evola ci inviti a non operare, a non agire. In quanto filosofo della pratica, nelle drammatiche contingenze dei primi anni Quaranta, e la cosa è riportata ancora una volta da Consolato, richiamò “l’ideale che Dante difese, affermando che l’Impero doveva essere cosa dei Romani” (p. 61). Fu la contingenza storica a dettare in quel frangente il necessario riavvicinamento di Italia e Germania, ed Evola “contrariamente a quanto sostenuto nello stesso Terzo Reich dalle correnti più strettamente nazionaliste, razziste e pangermaniste”(p. 62), era convinto che l’idea imperiale fosse l’unica a poter avvicinare i due popoli.

Probabilmente, per capire appieno le ragioni della prossimità di Evola e Dante, è bene far riferimento a Platone, o meglio a un Platone correttamente interpretato come filosofo politico e non come pensatore sic et simpliciter metafisico e pre-cristiano. A questo Platone assomigliava davvero Dante, la cui vocazione realizzativa fu ben colta da Gian Franco Lami quando scrisse “egli si fece carico d’incarnare, di persona, l’uomo classico, conforme alla realtà politica più antica” (Tra utopia e utopismo. Sommario di un percorso ideologico, Il cerchio, Rimini 2008, p. 139, a cura di G. Casale). Tentò, ma non vi riuscì del tutto, come ricordato da Evola e Consolato.

mercredi, 08 avril 2015

Múdspelli

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Múdspelli
 
Ex: http://taaldacht.nl

Also available in English.

In de Germaanse letterkunde van de vroege Middeleeuwen bestaat een zeer geheimzinnig woord dat telkenmale in één adem wordt genoemd met vuur en verwoesting en het einde van de wereld, te weten Múdspelli. Het is onduidelijk wat het letterlijk betekent en de vraag is bovendien of het oorspronkelijk een christelijk begrip is of dat het uit het oude Germaanse heidendom stamt. Er zijn al vele voorstellen gedaan, maar geen ervan is echt overtuigend. Valt er dan wellicht een nieuwe duiding te bedenken?

Saksen


Aan het begin van de negende eeuw is de kerstening van de Saksen –woonachtig in wat nu Noordwest-Duitsland en Noordoost-Nederland is– in volle gang. Als onderdeel van deze inspanningen verschijnt er tussen 825 en 850 een bijzonder werk: een Oudsaksisch heldendicht van wel zesduizend verzen, geheel in Germaans stafrijm, dat het verhaal van Jezus vertelt als ware hij een hoofdman die krijgers onder zich heeft en door de onmetelijke wouden van Middilgard reist. Het is niets minder dan de Germaanse uitgave van de blijde boodschap. De dichter is onbekend en hij heeft zijn werk geen naam gegeven, maar hij noemt Jezus onder meer de Hêliand (‘Heiland, Verlosser’) en onder die naam staat het thans bekend.

In verzen 2589b-2592a komen wij het geheimzinnige woord dan tegen (vertaling Van Vredendaal):

Tot wasdom komen ze samen;
de verdoemden groeien met de goeden op,
totdat Múdspelli’s macht over de mensen komt
bij het einde der tijden.

En een flink eind later, in verzen 4352a–64, andermaal (vertaling Van Vredendaal):

Wees waakzaam! Gewis komt voor jullie
de schitterende doemdag: dan verschijnt de heer
met zijn onmetelijke macht en het vermaarde uur,
de wending van de wereld. Wacht je er dus voor
dat hij je niet besluipt als je slaapt op je rustbed,
je bij verrassing overvalt bij je verraderlijke werken,
bij misdaad en zonde. Múdspelli komt
in duistere nacht. Zoals een dief zich beweegt
in het diepste geheim, zo zal de dag komen,
de laatste van dit licht, en de levenden overvallen,
gelijk de vloed deed in vroeger dagen:
de zwalpende zee verzwolg de mensen
in Noachs tijden.

Hoewel de Hêliand geen regelrechte Bijbelvertaling is komt het een en ander uiteraard zeer bekend voor: “Want gij weet zelven zeer wel, dat de dag des Heeren alzo zal komen, gelijk een dief in den nacht” (1 Thessalonicensen 5:2). Maar wie of wat Múdspelli nu genauw is blijft onduidelijk, al zal het voor de Saksische toehoorder een bekend begrip zijn geweest, wat erop duidt dat het oud is. De Hêliand is overigens het voornaamste van slechts enkele waarlijk letterkundige werken in het Oudsaksisch, dus het zal niet verbazen dat het verder niet voorkomt in Oudsaksische geschriften.

Beieren


Omstreeks 870 na Christus verschijnt verder naar het zuiden –in Beieren– een Oudhoogduits gedicht dat vertelt over de strijd tussen Elias en de Antichrist, als waren zij de keurstrijders van God en de grote Vijand. Elias verslaat de Antichrist, maar is zelf ook gewond en zodra zijn bloed de Aarde raakt ontbrandt zij op geweldige wijze. Regels 55b-60b (eigen vertaling):

De doemdag gaat dan te lande,
gaat met het vuur mannen bezoeken.
Daar kan een verwante een ander niet helpen tegenover het Múspilli.
Want de wijde aarde verbrandt geheel,
en vuur en lucht vagen alles weg;
waar is dan die beschikte grond waar een man immer met zijn verwanten voor vocht?

Het gedicht vertelt voorts dat heel Mittilgart zal branden: geen berg of boom wordt gespaard. Water droogt op, zeeën worden verzwolgen, de hemelen vlammen en de maan valt. Niets weerstaat het Múspilli. Men merke dan op dat de vorm van het woord iets anders is: in vergelijking met Oudsaksisch Múdspelli lijkt Oudhoogduits Múspilli wat meer verbasterd. Het blijft onduidelijk wat diens genauwe betekenis is, maar ook hier zal het voor de toehoorder van die tijd een bekend begrip zijn geweest.

IJsland


De laatste plekken waar het woord verschijnt –deze keer in de vorm Múspell– zijn in de Oudijslandse letterkunde. Een van de belangrijkste schriftelijke bronnen aangaande het Germaans-heidense wereldbeeld is een bundel van gedichten die thans bekend staat als de Poëtische Edda. De belangrijkste van deze is de Vǫluspá (‘voorspelling van de zienster’). Dit gedicht, dat waarschijnlijk in de 10e eeuw na Christus is opgesteld door een heiden die daarmee oeroude overlevering doorgaf, verhaalt van de schepping van de wereld en van het einde van de wereld – elders de Ragnarǫk genoemd. Wij lezen dan tegen het einde ervan, in verzen 44 en 45 (vertaling De Vries):

Een kiel uit het oosten
komt met de mannen
van Múspell beladen
en Loki aan’t roer.
Tezaam met de reuzen
rent nu de wolf,
en hen begeleidt
de broer van Byleist.

Uit het zuiden komt Surtr [‘Zwart’]
met vlammend zwaard
en gensters fonkelen
van dit godenwapen.
Rotsen barsten,
reuzen vallen,
de helweg gaan mannen,
de hemel splijt.

Elders in de Oudijslandse letterkunde krijgen wij meer te lezen over Múspell, en wel in de zogenaamde Proza-Edda, een soort dichtershandboek vol verhalen dat omstreeks 1220 door de christelijke geschiedkundige Snorri Sturluson is geschreven. Hij putte hiervoor uit de heidense overlevering, zoals de reeds genoemde gedichten hierboven, maar het is vaak niet te achterhalen in hoeverre hij er een eigen invulling aan gaf, waardoor voorzichtig lezen geboden is. In hoofdstuk 4 van het deel dat de Gylfaginning heet, meldt Snorri het volgende (eigen vertaling):

Toen sprak Derde: ‘Doch eerst was er in het zuiden de wereld die Múspell heet. Deze is licht en heet. Zó dat hij vlammend en brandend is. En hij is onbegaanbaar voor degenen die daar vreemdelingen zijn en daar niet hun vaderland hebben. Daar is een genaamd Surtr, die daar bij de grens ter verdediging zit. Hij heeft een vlammend zwaard, en bij het einde der wereld zal hij oorlog gaan voeren en alle goden verslaan en de hele wereld met vuur verbranden.’

Verderop in het verhaal wordt verteld dat Múspellsheimr (‘Múspells heem’) in de oertijd gesmolten deeltjes en vonken uitschoot en dat de goden en de dwergen hiervan de zon en de sterren hebben gemaakt. En er wordt meerdere malen verhaald van hoe Múspellsmegir (‘Múspells knapen’) en Múspellssynir (‘Múspells zonen’) op het laatst zullen uitrijden en oorlog zullen voeren, opdat Miðgarðr wordt verwoest.

Duiding


Dat het woord een samenstelling is staat vast, maar wat betekent het nu werkelijk en hoe oud is het? Is het een christelijk begrip dat zelfs IJsland wist te bereiken toen dat nog grotendeels heidens was –hetgeen op zichzelf niet ondenkbaar is– of is het oud genoeg om uit heidense tijden te stammen? Zoals gezegd is het waarschijnlijk tamelijk ouder dan zijn eerste verschijning op schrift, daar het woord al vrij bekend zal zijn geweest voor de toehoorders destijds, en lijkt het dus van heidense oorsprong.

Er is al in elk geval al aardig wat voorgesteld en het gesprek is nog steeds gaande. Een goede opsomming hiervan is te vinden in de onderaan vermelde verhandeling van Hans Jeske uit 2006. In het kort: voor het eerste lid is verband gezocht met o.a. Oudsaksisch múð ‘mond’ en Latijn mundus ‘wereld’, voor het tweede lid met o.a. Oudhoogduits spell ‘vertelling’ en spildan ‘vernietigen’, waardoor we uitkomen met duidingen als ‘mondelinge vernietiging’ (door God), ‘mondelinge vertelling’ (als onbeholpen vertaling van Latijn ōrāculum ‘goddelijke uitspraak’) of ‘wereldvernietiging’. Maar allen stuiten op vormelijke, inhoudelijke en/of geschiedkundige bezwaren, waardoor geen ervan echt weet te overtuigen. Het is dan ook de hoogste tijd voor een geheel nieuwe duiding.

Allereerst: het Oudgermaans erfde van zijn voorloper –het Proto-Indo-Europees– meerdere wijzen van samenstellingen maken. Bij één daarvan reeg men twee woorden én een achtervoegsel aan elkaar tot één onzijdig zelfstandig naamwoord. Het achtervoegsel gaf de samenstelling een lading van veelheid en verzameling. Een bekend voorbeeld hiervan is de samenstelling van *alja- ‘ander, vreemd’ + *landa- ‘land’ + *-jan (achtervoegsel) tot *aljalandjan (o.) ‘het geheel van andere landen’ oftewel ‘het buitenland’. Het woord is o.a. als Oudsaksisch elilendi, Oudhoogduits elilenti en Nederlands ellende overgeleverd. Deze wijze van samenstellen lijkt na de Oudgermaanse tijd niet meer in gebruik te zijn geweest, dus als wij zo’n samenstelling tegenkomen in de dochtertalen is zij waarschijnlijk vrij oud, namelijk van voor de kerstening der Germanen.

Welnu, Oudsaksisch Múdspelli, Oudhoogduits Múspilli en Oudnoords Múspell hebben er alles van weg genauw zo’n soort oude samenstelling te zijn. Onder meer omdat ze onzijdig zijn en een spoor van het genoemde achtervoegsel tonen. Dat wil zeggen, ze lijken terug te gaan op Oudgermaans *Mūdaspalljan (o.), een samenstelling van *mūda- + *spalla- + *-jan (achtervoegsel). De vraag is vervolgens: wat zijn *mūda- en *spalla-?

Over *spalla- kunnen we bondig zijn. Hoewel het anderszins niet is overgeleverd in de Germaanse talen is dit woord goed te verbinden met de Proto-Indo-Europese wortel *(s)pel-, *(s)pol-, die wij verder kennen van onder meer Oudkerkslavisch poljǫ, polĕti ‘branden, vlammen’ en Russisch pólomja ‘vlam’. Dan zou Oudgermaans *spalla- ook iets als ‘vuur’ of ‘vlam’ hebben betekend.

Over *mūda- valt meer te vertellen. Dit woord is, weliswaar verlengd met verschillende achtervoegsels, namelijk wél overgeleverd in de Germaanse talen. Enerzijds zijn er –met een achtervoegsel dat vertrouwdheid en verkleining aangeeft– Middelnederduits mudeke, 16e eeuws Nederlands muydick, streektalig Duits Muttich, Mutch, Mautch en Oostvlaams muik, die allen ongeveer ‘bewaarplaats of voorraad van ooft of geld’ betekenen, maar soms meer algemeen en oorspronkelijk ‘opeenhoping’. Anderszijds zijn er Oudhoogduits múttun (mv.) ‘voorraadschuren’, Silezisch Maute ‘bergplaats van ooft’ en Beiers Mauten ‘voorraad van ooft’.

Vervolgens kunnen wij dit *mūda- verbinden met de Proto-Indo-Europese wortel *meuH- ‘overvloedig, krachtig in vermenigvuldiging’ (voorgelegd door Michael Weiss in 1996), die anderszins ten grondslag ligt aan Grieks mūríos ‘talloos, onmetelijk’, Hettitisch mūri- ‘tros ooft’, Luwisch-Hettitisch mūwa- ‘een ontzagwekkende eigenschap, van bijvoorbeeld een koning of god’, Hiërogliefisch Luwisch mūwa- ‘overweldigen (o.i.d.)’ en ten slotte Latijn mūtō en Oudiers moth, beide ‘mannelijk geslachtsdeel’. Mogelijk horen hierbij ook Oudgermaans *mūhō ‘grote hoop’ (vanwaar o.a. Oudengels múha en Oudnoords múgi) en *meurjōn (vanwaar o.a. Nederlands mier).

Hieruit valt op te maken dat Oudgermaans *mūda- waarschijnlijk zoveel betekende als ‘opeenhoping, veelheid, overvloed e.d.’ of anders in bijvoeglijke zin ‘overvloedig’.

Besluit


*Mūdaspalljan is dan een zeer oud, heidens begrip dat het beste is op te vatten als het ‘Overvloedige Gevlamte’ of het ‘Vuur des Overvloeds’ en bij uitbreiding het ‘Vurige Wereldeinde’. En dat is een betekenis die uitstekend past in de zinsverbanden waarin we het woord in de dochtertalen tegenkomen. Men leze hen boven maar eens terug. Een mogelijk bezwaar is evenwel dat het woord dan uit tamelijk zeldzame woordstof is opgebouwd. Maar zoiets zouden we juist verwachten van een oud, mythologisch geladen woord. Germaanse dichters gebruikten vaak woorden die in de algemene taal niet of nauwelijks (meer) voorkwamen om zo een stijl van verheven ernst te scheppen.

Op grond van de Oudijslandse benamingen Múspellsmegir (‘Múspells knapen’) en Múspellssynir (‘Múspells zonen’) is wel betoogd dat Múspell een reus of iets dergelijks is. Maar het woord is zoals gezegd onzijdig en diens ‘knapen’ en ‘zonen’ zijn volgens de hier voorgesteld duiding goed te begrijpen als een dichterlijke voorstelling van de afzonderlijke vlammen die voortrazen als heel de wereld wordt verzwolgen.

De Vǫluspá verhaalt dat na deze eindstrijd de Aarde herrijst –groen en fris– en dat mensen een zorgeloos leven in vreugde zullen leiden. De overeenkomsten met de christelijke leer over het hiernamaals op een Nieuwe Aarde zijn opvallend en vaak wordt er aan ontlening gedacht. Doch als we beseffen dat er in de Oudgermaanse tijd menig langhuis en medehal in vlammen moet zijn opgegaan, wouden konden branden door ongelukkige blikseminslagen, en menig akker door vijanden ware verschroeid, en er niets anders opzat dan te herbouwen en herzaaien, dan is het goed mogelijk dat de heidenen van weleer dachten dat ooit heel Middilgard in het Múdspelli zou eindigen, dat de wereld der mannen zou branden in een Alverzengend Vuur, vooraleer het weer zou herrijzen – groen en fris.

Verwijzingen

Faulkes, A., Edda (Londen, 1995)

Jeske, H., “Zur Etymologie des Wortes muspilli”, in Zeitschrift für deutsches Altertum und deutsche Literatur, Bd. 135, H. 4 (2006), pp. 425-434

Krahe, H. & W. Meid, Germanische Sprachwissenschaft III: Wortbildungslehre (Berlijn, 1969)

Philippa, M., e.a., Etymologisch Woordenboek van het Nederlands (webuitgave)

Rix, H., Lexikon der indogermanischen Verben, 2. Auflage (Wiesbaden, 2001)

Simek, R., Lexikon der germanischen Mythologie, 3. Auflage (Stuttgart, 2006)

Vaan, M. de, Etymological Dictionary of Latin and the other Italic Languages (Leiden, 2008)

Vredendaal, J. van, Heliand (Amsterdam, 2006)

Vries, J. de, Nederlands etymologisch woordenboek (Leiden, 1971)

Vries, J. de, Edda: Goden- en heldenliederen uit de Germaanse oudheid, 10e druk (Deventer, 1999)

Weiss, M., “Greek μυϱίος ‘countless’, Hittite mūri- ‘bunch (of fruit)’”, in Historische Sprachforschung, 109. Bd., 2. H. (1996), pp. 199-214

jeudi, 26 mars 2015

Le bouddhisme, ce n’est pas forcément la fête du slip tous les dimanches

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Le bouddhisme, ce n’est pas forcément la fête du slip tous les dimanches

Journaliste, écrivain
Ex: http://www.bvoltaire.fr

Finalement, il n’y avait guère que les Beatles et le fils de Jean-François Revel, le type habillé de doubles rideaux orange, avec son sourire niais, ses conseils de bien-être à la con et son nom d’apéro, pour laisser croire à l’Occident tout entier, et à la vieille Europe en particulier, que le bouddhisme, c’est cool.

Bangkok avril 034.jpgCelui qui l’a appris à ses dépens, c’est un Néo-Zélandais, gérant de bar en Birmanie (Myanmar, SVP), un certain Phil Blackwood, condamné à deux ans et demi de prison pour avoir portraituré Bouddha avec des écouteurs sur la tête, juste histoire de faire de la publicité pour son bar, « lounge », évidemment. Eh oui, le bouddhisme, ce n’est pas forcément la fête du slip tous les dimanches. Le Phil Blackwood en question a eu beau s’excuser, battre coulpe et montrer patte blanche : pas de remise de peine et case prison direct.

Peut-être parce qu’en face, il y a du lourd. Un certain Wirathu, moine bouddhiste au nom de Yoda, façon Guerre des étoiles, particulièrement sourcilleux en la matière, toujours prompt à taper sur la minorité musulmane locale – environ 5 % des 53 millions de Birmans – et n’hésitant pas à traiter l’envoyée locale de l’ONU de « prostituée », parce que trop encline à défendre la minorité mahométane en question.

Il est un fait que le terrorisme bouddhiste est plus qu’une simple vue de l’esprit. En 2013, un numéro du Times (institution hebdomadaire américaine) a été interdit au Sri Lanka pour avoir titré en une : « La face terroriste du bouddhisme ». Tandis que, depuis 2012, 240 personnes ont été massacrées, pour leur simple appartenance à la religion musulmane. Et l’on vous épargne le chiffrage des personnes « déplacées ». Ça se compte en centaines de barcasses, façon Lampedusa.

Il est un fait que, vu d’ici, tout cela a de quoi laisser perplexe. Et que du bouddhisme, nous n’avons que la version dalaï-lama, lequel déclarait récemment, à en croire La Croix : « Ayez à l’esprit l’image du Bouddha avant de commettre ces crimes. Le Bouddha prêche l’amour et la compassion. Si le Bouddha était là, il protégerait les musulmans des attaques des bouddhistes. »

Seulement voilà, quand on se reporte à l’indispensable Petit lexique des idées fausses sur les religions, opuscule signé de l’excellent Odon Vallet, on y apprend également ceci : « Le dalaï-lama ne représente que 2 % des bouddhistes. » Le reste ? Des hommes comme les autres, en proie à des positions plus nationalistes que spirituelles. Des problèmes tant sociétaux que territoriaux ; avec, en arrière-fond, l’éternelle guerre du pétrole.

Pour le reste, cette autre éternelle question consistant en la représentation du divin. Elle est partout prégnante et se résout, selon le degré d’imprégnation spirituelle du lieu, de manière plus ou moins violente. Que l’on n’y croie ou pas, la question est loin d’être réglée. Et nous y avons les deux pieds gauches en plein dedans.

lundi, 23 mars 2015

Mircea Eliade et la Redécouverte du Sacré (1987)

 

Mircea Eliade et la Redécouverte du Sacré (1987)

Évocation de la pensée de Mircea ELIADE (1905-1986) à travers son œuvre, avec des textes sur ses conceptions, dits par Pierre VANECK.


- Interview de Mircea ELIADE sur le sens du sacré chez l'homme, sa découverte des cultures primitives, sa passion pour les religions, la valeur sacramentaire dans tout acte chez l'être humain, le sacré qui se trouve dans le rite, la pensée symbolique, la mythologie de l'homme. Il aborde ensuite la crise de l'homme moderne avec la désacralisation du cosmos, la pensée théologique occidentale dérivée, il dit son optimisme malgré tout car il croit en une nouvelle génération de créativité culturelle.

jeudi, 19 mars 2015

Norooz, Persian New Year

Shakila Norouz Eid Persian New Year Song

 

Norooz, The Persian New Year

 

vendredi, 13 mars 2015

Unité spirituelle et multipolarité planétaire

Unité spirituelle et multipolarité planétaire

par Georges FELTIN-TRACOL

rg1.jpgLe penseur français René Guénon (1886 – 1957) ne suscite que très rarement l’intérêt de l’université hexagonale. On doit par conséquent se réjouir de la sortie de René Guénon. Une politique de l’esprit par David Bisson. À l’origine travail universitaire, cet ouvrage a été entièrement retravaillé par l’auteur pour des raisons d’attraction éditoriale évidente. C’est une belle réussite aidée par une prose limpide et captivante.

 

René Guénon est le théoricien de la Tradition primordiale. de santé fragile et élevé dans un milieu catholique bourgeois de province à Blois, il fréquente tôt les milieux férus d’ésotérisme et y acquiert une somme de savoirs plus ou moins hétéroclites tout en développant une méfiance tenace à l’égard de certains courants occultistes tels le théosophisme et le spiritisme. Côtoyant tour à tour catholiques, gnostiques et francs-maçons, René Guénon édifie une œuvre qui couvre aussi bien la franc-maçonnerie que le catholicisme traditionnel et l’islam.

 

En effet, dès 1911, René Guénon passe à cette dernière religion et prend le nom arabe d’Abdul Waha-Yaha, « le Serviteur de l’Unique ». Puis, en 1931, il s’installe définitivement au Caire d’où il deviendra, outre une référence spirituelle pour des Européens, un cheikh réputé. David Bisson explique les motifs de cette implication orientale. Guénon est réputé pour sa fine connaissance des doctrines hindoues. La logique aurait voulu qu’il s’installât en Inde et/ou qu’il acceptât l’hindouisme. En quête d’une initiation valide et après avoir frayé avec le gnosticisme et la franc-maçonnerie, l’islam lui paraît la solution la plus sérieuse. Même s’il demande aux Européens de retrouver la voie de la Tradition via l’Église catholique, ses propos en privé incitent au contraire à embrasser la foi musulmane.

 

Réception de la pensée de Guénon

 

Les écrits de René Guénon attirent les Occidentaux qui apprécient leur enseignement clair, rigoureux et méthodique. David Bisson n’a pas que rédigé la biographie intellectuelle de l’auteur de La Crise du monde moderne. Il mentionne aussi son influence auprès de ses contemporains ainsi que son abondante postérité métaphysique. La revue Le Voile d’Isis – qui prendra ensuite pour titre Études Traditionnelles – publie avec régularité les articles du « Maître » qui « constituent […] une sorte de guide grâce auquel les lecteurs peuvent s’orienter dans le foisonnement des traditions ésotériques en évitant les contrefaçons spirituelles (théosophisme, occultisme, etc.) (p. 146) ». Guénon se montre attentif à examiner à l’aune de la Tradition le soufisme, l’hindouisme, le taoïsme, le confucianisme, etc., « ce qui permet […] d’évaluer le caractère régulier de telle ou telle branche religieuse. Ainsi, la doctrine tantrique est-elle déclarée conforme et, donc, “ orthodoxe ” au regard des principes posés par la Tradition. De même, la kabbale est considérée comme le véritable ésotérisme de la religion juive et remonte, à travers les signes et symboles de la langue hébraïque, jusqu’à la source de la tradition primordiale (p. 147) ». Il élabore ainsi une véritable « contre-Encyclopédie » spiritualiste et prévient des risques permanentes de cette « contrefaçon traditionnelle » qu’est la contre-initiation.

 

C’est dans ce corpus métaphysique que puisent les nombreux héritiers, directs ou putatifs, de René Guénon. David Bisson les évoque sans en omettre les divergences avec le maître ou entre eux. Il consacre ainsi de plusieurs pages à l’influence guénonienne sur l’islamologue du chiisme iranien et traducteur de Heidegger, Henry Corbin, sur le sociologue des imaginaires, Gilbert Durand, sur le rénovateur néo-gnostique Raymond Abellio et sur les ébauches maladroites – souvent tendancieuses – de vulgarisation conduites par le duo Louis Pauwels – Jacques Bergier. David Bisson s’attache aussi à quelques cas particuliers comme le Roumain Mircea Eliade.

 

rg2.jpgAu cours de l’Entre-deux-guerres, le futur historien des religions affine sa propre vision du monde. Alimentant sa réflexion d’une immense curiosité pluridisciplinaire, il a lu – impressionné – les écrits de Guénon. D’abord rétif à tout militantisme politique, Eliade se résout sous la pression de ses amis et de son épouse à participer au mouvement politico-mystique de Corneliu Codreanu. Il y devient alors une des principales figures intellectuelles et y rencontre un nommé Cioran. Au sein de cet ordre politico-mystique, Eliade propose un « nationalisme archaïque (p. 252) » qui assigne à la Roumanie une vocation exceptionnelle. Son engagement dans la Garde de Fer ne l’empêche pas de mener une carrière de diplomate qui se déroule en Grande-Bretagne, au Portugal et en Allemagne. Son attrait pour les « mentalités primitives » et les sociétés traditionnelles pendant la Seconde Guerre mondiale s’accroît si bien qu’exilé en France après 1945, il jette les premières bases de l’histoire des religions qui le feront bientôt devenir l’universitaire célèbre de Chicago. Si Eliade s’éloigne de Guénon et ne le cite jamais, David Bisson signale cependant qu’il lui expédie ses premiers ouvrages. En retour, ils font l’objet de comptes-rendus précis. Bisson peint finalement le portrait d’un Mircea Eliade louvoyant, désireux de faire connaître et de pérenniser son œuvre.

 

Le syncrétisme ésotérique de Schuon

 

Contrairement à Eliade, la référence à Guénon est ouvertement revendiquée par Frithjof Schuon. Ce Français né en Suisse d’un père allemand et d’une mère alsacienne se convertit à l’islam et adopte le nom d’Aïssa Nour ed-Din. En Algérie, il intègre la tarîqa (confrérie initiatique) du cheikh al-Alawî. Instruit dans le soufisme, Schuon devient vite le cheikh d’une nouvelle confrérie. Dans sa formation intellectuelle, Guénon « apparaît comme un “ maître de doctrine ” (p. 160) ». On a très tôt l’impression que « ce que Guénon a exposé de façon théorique, Schuon le décline de façon pratique (p. 162) ».

 

PFS_couleur.jpgEn étroite correspondance épistolaire avec Guénon, Schuon devient son « fils spirituel ». cela lui permet de recruter de nouveaux membres pour sa confrérie soufie qu’il développe en Europe. D’abord favorable à son islamisation, Schuon devient ensuite plus nuancé, « la forme islamique ne contrevenant, en aucune manière, à la dimension chrétienne de l’Europe. Il essaiera même de fondre les deux perspectives dans une approche universaliste dont l’ésotérisme sera le vecteur (p. 172) ». Cette démarche syncrétiste s’appuie dès l’origine sur son nom musulman signifiant « Jésus, Lumière de la Tradition».

 

Frithjof Schuon défend une sorte d’« islamo-christianisme ». Cette évolution se fait avec prudence, ce qui n’empêche pas parfois des tensions avec l’homme du Caire. Construite sur des « révélations » personnelles a priori mystiques, la méthode de Schuon emprunte « à plusieurs sources. Principalement fondée sur la pratique soufie, elle est irriguée de références à d’autres religions (christianisme, hindouisme, bouddhisme, etc.) et donne ainsi l’impression d’une mise en abîme de l’ésotérisme compris dans son universalité constitutive (p. 203) ». En 1948, dans un texte paru dans Études Traditionnelles, Schuon, désormais fin ecclésiologue, explique que le baptême et les autres sacrements chrétiens sont des initiations valables sans que les chrétiens soient conscients de cette potentialité. Cette thèse qui contredit le discours guénonien, provoque sa mise à l’écart. Dans les décennies suivants, il confirmera son tournant universaliste en faisant adopter par sa tarîqa la figure de la Vierge Marie, en s’expatriant aux États-Unis et en intégrant dans les rites islamo-chrétiens des apports chamaniques amérindiens.

 

Avec René Guénon, Frithjof Schuon et leurs disciples respectifs, on peut estimer que « la pensée de la Tradition semble de façon irrémédiable se conjuguer avec la pratique soufie (p. 175) ». Or, à l’opposé de la voie schuonienne et un temps assez proche de la conception de Mircea Eliade existe en parallèle la vision traditionnelle de l’Italien Julius Evola, présenté comme « le “ fils illégitime ” de la Tradition (p. 220) » tant il est vrai que sa personnalité détonne dans les milieux traditionalistes.

 

Ayant influencé le jeune Eliade polyglotte et en correspondance fréquente avec Guénon, Evola concilie à travers son équation personnelle la connaissance ésotérique de la Tradition et la pensée nietzschéenne. De sensibilité notoirement guerrière (ou activiste), Julius Evola se méfie toutefois des références spirituelles orientales, ne souhaite pas se convertir à l’islam et, contempteur féroce des monothéismes, préfère redécouvrir la tradition spécifique européenne qu’il nomme « aryo-romaine ». Tant Eliade qu’Evola reprennent dans leurs travaux « la définition que Guénon donne du folklore : ce n’est pas seulement une création populaire, mais aussi un réservoir d’anciennes connaissances ésotériques, le creuset d’une mémoire collective bien vivante (p. 269) ». Mais, à la différence du jeune Roumain ou du Cairote, Evola n’hésite pas à s’occuper de politique et d’événements du quotidien (musiques pop-rock, ski…). Quelque peu réticent envers le fascisme officiel, il en souhaite un autre plus aristocratique, espère dans une rectification du national-socialisme allemand, considère les S.S. comme l’esquisse d’un Ordre mystico-politique et collabore parfois aux titres officiels du régime italien en signant des articles polémiques.

 

Tradition et géopolitique

 

Tout au cours de sa vie, Julius Evola verse dans la politique alors que « Guénon n’a cessé de mettre en garde ses lecteurs contre les “ tentations ” de l’engagement politique (p. 219) ». Les prises de position évoliennes disqualifient leur auteur auprès des fidèles guénoniens qui y voient une tentative de subversion moderne de la Tradition… De ce fait, « la plupart des disciples de Guénon ne connaissent pas les ouvrages du penseur italien et, lorsqu’ils les connaissent, cherchent à en minorer la portée (p. 220) ». Néanmoins, entre la réponse musulmane soufie défendue par Guénon et la démarche universaliste de Schuon, la voie évolienne devient pour des Européens soucieux de préserver leur propre identité spirituelle propre l’unique solution digne d’être appliquée. Ce constat ne dénie en rien les mérites de René Guénon dont la réception est parfois inattendue. Ainsi retrouve-t-on sa riche pensée en Russie en la personne du penseur néo-eurasiste russe Alexandre Douguine.

 

Grande figure intellectuelle en Russie, Alexandre Douguine écrit beaucoup, manifestant par là un activisme métapolitique débordant et prolifique. Depuis quelques années, les Éditions Ars Magna offrent au public francophone des traductions du néo-eurasiste russe. Dans l’un de ses derniers titres traduits, Pour une théorie du monde multipolaire, Alexandre Douguine mentionne Orient et Occident et La Grande Triade de Guénon. Il y voit un « élément, propre à organiser la diplomatie inter-civilisationnel dans des circonstances de ce monde multipolaire, [qui] réside dans la philosophie traditionaliste (p. 183) ».

 

Pour une théorie du monde multipolaire est un livre didactique qui expose la vision douguinienne de la multipolarité. Il débute par l’énoncé de la multipolarité avant de passer en revue les principales théories des relations internationales (les écoles réalistes, le libéralisme, les marxismes, les post-positivismes avec des courants originaux tels que la « théorie critique », le post-modernisme, le constructivisme, le féminisme, la « sociologie historique » et le normativisme). Il conclut qu’aucun de ces courants ne défend un système international multipolaire qui prend acte de la fin de l’État-nation.

 

4ptport.jpgMais qu’est-ce que la multipolarité ? Pour Alexandre Douguine, ce phénomène « procède d’un constat : l’inégalité fondamentale entre les États-nations dans le monde moderne, que chacun peut observer empiriquement. En outre, structurellement, cette inégalité est telle que les puissances de deuxième ou de troisième rang ne sont pas en mesure de défendre leur souveraineté face à un défi de la puissance hégémonique, quelle que soit l’alliance de circonstance que l’on envisage. Ce qui signifie que cette souveraineté est aujourd’hui une fiction juridique (pp. 8 – 9) ».  « La multipolarité sous-tend seulement l’affirmation que, dans le processus actuel de mondialisation, le centre incontesté, le noyau du monde moderne (les États-Unis, l’Europe et plus largement le monde occidental) est confronté à de nouveaux concurrents, certains pouvant être prospères voire émerger comme puissances régionales et blocs de pouvoir. On pourrait définir ces derniers comme des “ puissances de second rang ”. En comparant les potentiels respectifs des États-Unis et de l’Europe, d’une part, et ceux des nouvelles puissances montantes (la Chine, l’Inde, la Russie, l’Amérique latine, etc.), d’autre part, de plus en plus nombreux sont ceux qui sont convaincus que la supériorité traditionnelle de l’Occident est toute relative, et qu’il y a lieu de s’interroger sur la logique des processus qui déterminent l’architecture globale des forces à l’échelle planétaire – politique, économie, énergie, démographie, culture, etc. (p. 5) ». Elle « implique l’existence de centres de prise de décision à un niveau relativement élevé (sans toutefois en arriver au cas extrême d’un centre unique, comme c’est aujourd’hui le cas dans les conditions du monde unipolaire). Le système multipolaire postule également la préservation et le renforcement des particularités culturelles de chaque civilisation, ces dernières ne devant pas se dissoudre dans une multiplicité cosmopolite unique (p. 17) ». Le philosophe russe s’inspire de certaines thèses de l’universitaire réaliste étatsunien, Samuel Huntington. Tout en déplorant les visées atlantistes et occidentalistes, l’eurasiste russe salue l’« intuition de Huntington qui, en passant des États-nations aux civilisations, induit un changement qualitatif dans la définition de l’identité des acteurs du nouvel ordre mondial (p. 96) ».

 

Au-delà des États, les civilisations !

 

Alexandre Douguine conçoit les relations internationales sur la notion de civilisation mise en évidence dans un vrai sens identitaire. « L’approche civilisationnelle multipolaire, écrit-il, suppose qu’il existe une unicité absolue de chaque civilisation, et qu’il est impossible de trouver un dénominateur commun entre elles. C’est l’essence même de la multipolarité comme pluriversum (p. 124). » L’influence guénonienne – entre autre – y est notable, tout particulièrement dans cet essai. En effet, Alexandre Douguine dessine « le cadre d’une théorie multipolaire de la paix, qui découpe le monde en plusieurs zones de paix, toujours fondées sur un principe particulier civilisationnel. Ainsi, nous obtenons : Pax Atlantide (composée de la Pax Americana et la Pax Europea), Pax Eurasiatica, Pax Islamica, Pax Sinica, Pax Hindica, Pax Nipponica, Pax Latina, et de façon plus abstraite : Pax Buddhistica et Pax Africana. Ces zones de paix civilisationnelle (caractérisées par une absence de guerre) ainsi qu’une sécurité globale, peuvent être considérées comme les concepts de base du pacifisme multipolaire (p. 130) ».

 

Les civilisations deviennent dès lors les nouveaux acteurs de la scène diplomatique mondiale au-dessus des États nationaux. Cette évolution renforce leur caractère culturel, car, « selon la théorie du monde multipolaire, la communauté de culture est une condition nécessaire pour une intégration réussie dans le “ grand espace ” et, par conséquent, pour la création de pôles au sein du monde multipolaire (p. 127) ». Mais il ne faut pas assimiler les « pôles continentaux » à des super-États naissants. « Dans la civilisation, l’interdépendance des groupes et des couches sociales constituent un jeu complexe d’identités multiples, qui se chevauchent, divergent ou convergent selon les articulations nouvelles. Le code général des civilisations (par exemple, la religion) fixe les conditions – cadres, mais à l’intérieur de ces limites, il peut exister un certain degré de variabilité. Une partie de l’identité peut être fondée sur la tradition, mais une autre peut représenter des constructions innovantes parce que dans la théorie du monde multipolaire, les civilisations sont considérées comme des organismes historiques vivants, immergés dans un processus de transformation constante (p. 131). » Par conséquent, « dans le cadre multipolaire, […] l’humanité est recombinée et regroupée sur une base holistique, que l’on peut désigner sous le vocable d’identité collective (p. 159) ». Ces propos sont véritablement révolutionnaires parce que fondateurs.

 

QhKS4LB+L._SY344_BO1,204,203,200_.jpgPiochant dans toutes les écoles théoriques existantes, le choix multipolaire de Douguine n’est au fond que l’application à un domaine particulier – la géopolitique – de ce qu’il nomme la « Quatrième théorie politique ». Titre d’un ouvrage essentiel, cette nouvelle pensée politique prend acte de la victoire de la première théorie politique, le libéralisme, sur la deuxième, le communisme, et la troisième, le fascisme au sens très large, y compris le national-socialisme.

 

Cette quatrième théorie politique s’appuie sur le fait russe, sur sa spécificité historique et spirituelle, et s’oppose à la marche du monde vers un libéralisme mondialisé dominateur. Elle est « une alternative au post-libéralisme, non pas comme une position par rapport à une autre, mais comme idée opposée à la matière; comme un possible entrant en conflit avec le réel; comme un réel n’existant pas mais attaquant déjà le réel (p. 22) ». Elle provient d’une part d’un prélèvement des principales théories en place et d’autre part de leur dépassement.

 

Une théorie pour l’ère postmoderniste

 

Dans ce cadre conceptuel, le néo-eurasisme se présente comme la manifestation tangible de la quatrième théorie. Discutant là encore des thèses culturalistes du « choc des civilisations » de Samuel Huntington, il dénie à la Russie tout caractère européen. Par sa situation géographique, son histoire et sa spiritualité, « la Russie constitue une civilisation à part entière (p. 167) ». Déjà dans son histoire, « la Russie – Eurasie (civilisation particulière) possédait tant ses propres valeurs distinctes que ses propres intérêts. Ces valeurs se rapportaient à la société traditionnelle avec une importance particulière de la foi orthodoxe et un messianisme russe spécifique (p. 146) ». Et quand il aborde la question des Russes issus du phylum slave – oriental, Alexandre Douguine définit son peuple comme le « peuple du vent et du feu, de l’odeur du foin et des nuits bleu sombre transpercées par les gouffres des étoiles, un peuple portant Dieu dans ses entrailles, tendre comme le pain et le lait, souple comme un magique et musculeux poisson de rivière lavé par les vagues (p. 302) ». C’est un peuple chtonien qui arpente le monde solide comme d’autres naviguent sur toutes les mers du globe. Son essence politique correspond donc à un idéal impérial, héritage cumulatif de Byzance, de l’Empire mongol des steppes et de l’internationalisme prolétarien.

 

Alexandre Douguine fait par conséquent un pari risqué et audacieux : il table sur de gigantesques bouleversements géopolitiques et/ou cataclysmiques qui effaceront les clivages d’hier et d’aujourd’hui pour de nouveaux, intenses et pertinents. Dès à présent, « la lutte contre la métamorphose postmoderniste du libéralisme en postmoderne et un globalisme doit être qualitativement autre, se fonder sur des principes nouveaux et proposer de nouvelles stratégies (p. 22) ».

 

Dans l’évolution politico-intellectuelle en cours, Douguine expose son inévitable conséquence géopolitique déjà évoquée dans Pour une théorie du monde multipolaire : l’idée d’empire ou de « grand espace ». Cette notion est désormais la seule capable de s’opposer à la mondialisation encouragée par le libéralisme et sa dernière manifestation en date, le mondialisme, et à son antithèse, l’éclatement nationalitaire ethno-régionaliste néo-libéral ou post-mondialiste. Dans cette optique, « l’eurasisme se positionne fermement non pas en faveur de l’universalisme, mais en faveur des “ grands espaces ”, non pas en faveur de l’impérialisme, mais pour les “ empires ”, non pas en faveur des intérêts d’un seul pays, mais en faveur des “ droits des peuples ” (p. 207) ».

 

L’auteur ne cache pas toute la sympathie qu’il éprouve pour l’empire au sens évolien/traditionnel du terme. « L’Empire est la société maximale, l’échelle maximale possible de l’Empire. L’Empire incarne la fusion entre le ciel et la terre, la combinaison des différences en une unité, différences qui s’intègrent dans une matrice stratégique commune. L’Empire est la plus haute forme de l’humanité, sa plus haute manifestation. Il n’est rien de plus humain que l’Empire (p. 111). » Il rappelle ensuite que « l’empire constitue une organisation politique territoriale qui combine à la fois une très forte centralisation stratégique (une verticale du pouvoir unique, un modèle centralisé de commandement des forces armées, la présence d’un code juridique civil commun à tous, un système unique de collecte des impôts, un système unique de communication, etc.) avec une large autonomie des formations sociopolitiques régionales, entrant dans la composition de l’empire (la présence d’éléments de droit ethno-confessionnel au niveau local, une composition plurinationale, un système largement développé d’auto-administration locale, la possibilité de cœxistence de différents modèles de pouvoir locaux, de la démocratie tribale aux principautés centralisées, voire aux royaumes) (pp. 210 – 211) ».

 

La démarche douguinienne tend à dépasser de manière anagogique le mondialisme, la Modernité et l’Occident afin de retrouver une pluralité civilisationnelle dynamique à rebours de l’image véhiculée par les relais du Système de l’homme sans racines, uniformisé et « globalitaire ». L’unité spirituelle des peuples envisagée par René Guénon et repris par ses disciples les plus zélés exige dans les faits une multipolarité d’acteurs politiques puissants.

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Alexandre Douguine, La Quatrième théorie politique. La Russie et les idées politiques du XXIe siècle, avant-propos d’Alain Soral, Ars Magna, Nantes, 2012, 336, 30 €.

 

• Alexandre Douguine, Pour une théorie du monde multipolaire, Ars Magna, Nantes, 2013, 196 p., 20 €.

 

• David Bisson, René Guénon. Une politique de l’esprit, Pierre-Guillaume de Roux, Paris, 2013, 527 p., 29,90 €.

 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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mercredi, 11 mars 2015

The Four Warrior Practices for Achieving: Anytime, Anywhere

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The Four Warrior Practices for Achieving: Anytime, Anywhere

Angel Millar

Ex: http://peopleofshambhala.com

We’re all human. So why can some face down even the most terrifying situations, overcoming overwhelming odds, and achieving what so many others others might believe impossible?

Reading the classical commentaries on the martial arts, listening to contemporary masters, and hearing how contemporary elite military units tackle situations, tells us that there are less than a handful of truly essential elements of accomplishment. And they are available to everyone, to be applied in everyday situations, even where there is no conflict as such. Here they are:

1. Set Realistically High Goals:

“A good martial artist,” said Bruce Lee, “puts his mind on one thing at a time.” The famed martial artist was reminding his student, Joe Hyams, of an important principle. “The secret of kime [tightening the mind], is to exclude all extraneous thoughts,” Lee told Hyams (as the latter describes it in his book Zen In the Martial Arts), “thoughts that are not concerned with achieving your immediate goal.”

In Insanely Simple: The One Obsession that Drives Apple’s Success, Ken Segall notes that Apple — the company that gave us the Mac, iMac, iPod, iPad, and other history-making devices — focussed, excluding all kinds of good ideas, to concentrate on one. The point was to see the idea through, and to create something truly great out of it. Apple didn’t try to do everything at once. But by pushing the boundaries of one idea at a time, Apple created new, and — just as importantly — extremely simple to use devices.

By aiming high (but realistically so), Apple created things that have changed how we interact and think about technology.

Master archer Awa Kenzo (left), samurai Miyamoto (center) and sumi-e circle by Yamada Mumon Roshi.

Visualizing the arrow hitting the target: master archer Awa Kenzo (left); samurai Miyamoto (center) and sumi-e circle by Yamada Mumon Roshi.

It’s a principle that Apple could have learned from martial arts training (whether of an ancient military elite, contemporary practitioners of Tai Chi, or something else). Faced with some grueling, repetitive exercise — e.g., more push-ups than you think you can do — then the set can be broken up. Instead of aiming for, say, 100, which you think you cannot do, aim for the realistically high number of 10, and then keep doing that until you  can reach a hundred.

Aiming realistically high creates focus. It also encourages the individual — or group or company for that matter — to realize that they can do more than they thought. Indeed, it means doing something better than expected. With successes stacking up, you can aim realistically higher still.

2. Visualization:

When we’re facing a challenging situation, visualization may be one of the ways we begin to get to grips with it. In some situations. Mostly, people live in dread, fear, or inflate their egos to cope with stress and set backs. It’s unhealthy.

Visualization isn’t imagination per se. It’s focussed thinking; a bit like meditation. Artists and designers, given a specific project, will visualize — even if they don’t think of it in such terms. They have a strong idea of where they’re going, and how they’re going to get there, before they start.

“Every block of stone has a statue inside it and it is the task of the sculptor to discover it,” remarked Michaelangelo. What did he mean. In effect, Michaelangelo was saying that he visualized the statue in the stone. Not, however, as something imposed on it, but as something that was integral to it. The sculptor had to work with the natural fabric — the strengths and weaknesses — of each block.

Visualization has been part of humanity since the beginning. One theory suggests that tool making and speech emerged at the same time, not because the tools were difficult to make and required discussion, but because these activities use the same part of the brain. In both cases, we need to know what we want, either to make or to say. The primitive tool maker had to know what his tool was going to look like. Less complex, for sure, like Michaelangelo with his sculpture, the tool maker had to discover the axe head in the intact flint stone. And to get it out he had to work with the material.

Yes, in art and design, things change along the way. New insights and better ideas come up, often as a result of an “accident” occurring in the process. (Most discoveries were made by accident.) But then the designer will visualize to comprehend what exactly they want to do with that.

Facing a more stressful situation, visualization helps us to understand the situation we’re walking into, so that we don’t panic once we’re in it. If it’s a verbal or physical confrontation (such as in contact sports), then we’re going to be better equipped to deal with it in an efficient and responsible manner. We’ve thought about how we might respond to certain possibilities. That makes the whole thing a little less scary.

To sum up, visualization helps us know what we want, and to work with what we have, whether that is the tools for design or our own skill (or limitations) and the the behavior of an opponent in martial arts.

3. Breathing:

You’ve heard someone say it: “take a deep breath and relax.” In the West, where we don’t focus very much on our breathing (unless we have problem with our lungs), it sounds almost like folk wisdom. What’s taking a deep breath going to do? Well, it turns out, probably quite a bit.

Tai Chi, Kung-fu, Karate, and many other martial arts systems place significant emphasis on breathing. Breathing with the movements (such as strikes with the hands or feet), injects them with maximum force, yet helps to prevent the martial artist hyperventilating, losing concentration, and becoming fatigued.

Within Systema, a Russian martial arts system, breathing is perhaps the major component. Systema is a modern martial arts, and, as such, it was designed for those of us around today. So things haven’t changed very much.

Yet, Systema uses the breath not only for fighting, or self-defense, but also — like some older martial arts — for de-stressing and healing the body. For example, the practitioner might, on waking and still laying in bed, breathe, imagining the breath traveling through his body, as he tenses and relaxes is it as a kind of wave going down the body.

In more traditional martial arts, such as Kung-fu and Karate, the practitioner will often meditate on the breath entering into the belly (more specifically the tan tien, just below the navel), to store and build up energy (chi) there.

The use of breath and movement is not limited to the martial arts.

In traditional ink painting (sumi-e), the painter moves the brush while breathing out. At a minimum, it helps the artist control his hand.

Martial artists, such as the famed samurai and ronin Miyamoto Musashi, also practiced painting, as well as other arts. Not surprisingly, since the brush and sword were considered one, and the principles of each art applicable to the other arts.

An exercise for painters, who are also adherents of Zen Buddhism, is to paint a circle in ink with one motion and in one breath. It’s harder than it looks. Most of time, looking at these circles, one sees a kind of wobble in the circle, and, frequently, they are misshapen. Something happened to the consciousness at such a point. Concentration was lost. The breath wasn’t consistent.

In summing up, deep breathing steadies the nerves and helps us retain control and composure in challenging and even frightening situations. It keeps us level headed.

4. Self-talk:

Self-talk is the motivational talk that we can use when things are tough — really tough.

Hopefully we’re in a situation where we’ve aimed realistically high, have visualized the goal, and are breathing deep, clearly, and consistent with our actions. But self-talk is the talk that propels us along when we could easily — and are more than tempted to — give up. It’s telling yourself that you can make it to the end of the race (even though feel like hell). Or that you can do those push-ups. Or that you can make whatever project not only work but really stand out.

Because of the stress of the situation in which we use this kind of talk, we tend to use short, pithy phrases. Nike’s memorable tag line — “Just Do It” — is really the kind of thing that athletes tell themselves when they’re pushing themselves hard.

Self-talk isn’t delusion or egocentrism. It’s not about saying: I’m the greatest. It’s about reaching deep into yourself for that one extra push when you most need it. It’s about giving your all.

We all face challenging situations. But think about these four principles — aiming realistically high, visualization, deep breathing, and self-talk — and, as they come up, you’ll be able to cope with, and come out on top of, those situations a lot more easily.

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Angel Millar is an author, blogger, and the editor of People of Shambhala.

mardi, 10 mars 2015

From Romanticism to Traditionalism

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From Romanticism to Traditionalism

Thomas F. Bertonneau

Ex: http://peopleofshambhala.com

The movement called Romanticism belongs chronologically to the last two decades of the Eighteenth and the first five decades of the Nineteenth Centuries although it has antecedents going back to the late-medieval period and sequels that bring it, or its influence, right down to the present day.  Historically, and in simple, Romanticism is the view-of-things that succeeds and corrects its precursor among the serial views-of-things that have shaped the general outlook of the Western European mentality – what historians of ideas call Classicism, and which they identify as the worldview of the Enlightenment.  A good definition of Classicism is: The devotion to prescriptive orderliness for its own sake in all departments of life; the submission of all things to measure, decorum, and, using the word metaphorically, the geometric ideal.  Classicism implies the conviction that reason, narrowly delimited, is the highest faculty, and indeed almost the sole faculty worth developing.  The Classicist believes that life can be perfected by rationalization.  Certainly this is how the Romantics saw Classicism, but it is also in broad terms how the Classicists saw themselves.  According to its own dichotomy, Romanticism would be a view of existence consisting of tenets diametrically opposed to those of Classicism.

"The Course of Empire: Desolation," 1836, oil on canvas, by Thomas Cole (1801-1848), founder of the Hudson River School.

Detail of “The Course of Empire: Desolation,” 1836, oil on canvas, by Thomas Cole (1801-1848), founder of the Hudson River School.

And so largely it was or is, as Romanticism is by no means a dead issue.  As the Romantic sees it, imposed or conventional order tends to distort or obliterate the natural order; and by “natural order” the Romantics would have understood not only the order of nature, considered as Creation, but the order present in social adaptation to the natural order, as when agriculturalists follow the cycle of the seasons and attune their lives with the life of the soil or when builders of monuments and temples go to great effort to align them astronomically.  In addition, the Romantic believes that a bit of disorder might stimulate and enliven life, preventing it from becoming stiff and ossified; that the quirky and unexpected can exert a benevolent influence.  The Romantic also values emotion and intuition as much as he values reason, which he by no means disdains although he defines it more broadly than the Classicist.  The Romantics explicitly rejected the utilitarian arguments of the Classicists.  Romanticism prefigures and is the likely source of what in the second half of the Twentieth Century came to be known as Traditionalism.

I. Characteristics of Romanticism.  Where the geometrically patterned gardens of the French kings, like those designed by Claude Millet in 1632 for Louis XIV at Versailles, might stand for the Classical Spirit, the “English Garden,” with its meandering paths, sprawling bushes, and indifference to the weeds might stand for the Romantic Spirit.  Where Classicism took as its model Greece or Rome, Romanticism looked to the Middle-Ages.  Where Classicism venerated the purest, most elevated Attic style of speech, Romanticism cultivated the Gothic, the Celtic, and the regional dialect; it was not averse to rude or rustic idiom.  Classical playwrights like Pierre Corneille (1606 – 1684) and Jean Racine (1639 – 1699) imitated Euripides and Seneca; Romantic playwrights like Friedrich Schiller (1788 – 1805) and Victor Hugo (1802 – 1885) imitated Shakespeare, whom Voltaire had dismissed as a barbarian and his work as a formless affront to the unities.  Classicism concerns itself with form, which prescribes content, Romanticism with content, which then suggests the form.

What have the scholars written about Romanticism?  None exceeds the scholarly stature of Jacques Barzun (1907 – 2012), whose study From Dawn to Decadence: 500 Years of Western Cultural Life (2000) devotes three chapters to Romanticism.  Remarking that Romanticism had, in the broadest sense, something of the quality of a religious or spiritual awakening, and that, unlike Classicism, it extended its horizon of curiosity very far indeed – as for example into myth and folklore considered as other than mere superstition – Barzun writes:

With their searching imagination in literature and art, it could be expected that the Romanticists’ intellectual tastes would be anything but exclusive.  They found the Middle Ages a civilization worthy of respect; they relished folk art, music, and literature; they studied Oriental philosophy; they welcomed the diversity of national customs and character, even those outside the [Eighteenth Century] cosmopolitan circuit; they surveyed dialects and languages with enthusiasm.  This was a genuine multiculturalism, the wholehearted acceptance of the remote, the exotic, the folkish, [and] the forgotten.

Barzun adds that, “in Romanticism, thought and feeling are fused; [Romanticism’s] bent is toward exploration and discovery at whatever risk of error or failure; the religious emotion is innate and demands expression… the divine may be reached through nature or art.”  Under Barzun’s description, Romanticism would be humanly more whole than Classicism, with the latter excluding rather than incorporating the emotional impulse while granting to intuition a key role in the exploration of existence.

The Norwegian scholar, F. J. Billeskov Jansen (1907 – 2002), writing in the compendium Romantikken: 1800 – 1830 (Verdens Litteratur Historie, V. III, 1972), asserts that:

Opplysningstidens mennesker hade fryktet lidenskapene, som kunne true den sunne fornuft.  Alt hos Klopstock ble likevel den religiøse lidenskap frigjort, og hos Rousseau elskovspasjonen og natursvermeriet.  I romantikkens tidsalder blir diktere drømmere, Sjelen utvides I lengsel mot uendligheten, gjennom innføling forener poeten med nature, hans fantasi fører ham langt bort på eventyrets vinger eller langt tilbake i historien; hans håp får form av religiøse visjoner.

[The men of the Enlightenment had feared the passions, which could threaten right reason.  Simultaneously in [the work of Friedrich Gottlieb] Klopstock religious enthusiasm gained liberation, (just) as in the work of (Jean-Jacques) Rousseau did amorous passion and ecstasy in nature.  In the age of romanticism, poets became dreamers.  The soul expands in longing for infinity, the poet attaining oneness with nature through his inward feeling, while his imagination leads him far afield on the wings of adventure or far back into history; his hope takes the form religious visions.]

Elsewhere in the same volume, another scholar characterizes Romanticism as a return of Platonic theology.  Certainly Plato’s myths of the “Ladder of Philosophy,” “The Winged Horses and their Charioteer,” and “The Cave” find their later reflection in the imagery of the Romantic poets.  For Plato, importantly, the phenomena of this world point to a purely spiritual world – the realm of God and the Ideas.  We find a similar attitude in the poetry William Blake (1757 – 1827) and in that of William Wordsworth (1770 – 1850).  The main point to be stressed, however, is Jansen’s description of Romanticism as the labor of the soul to break free from the trammels of degraded matter and to rejoin a vital spirit that suffuses the universe and renders it intelligible.  The Romantics concluded that the assumptions of rationalism were parochial and constricting; that they did not give a true account of humanity or the universe.

In his study of Poetic Diction (1928), philologist and literary critic Owen Barfield (1898 – 1997) attempts to identify and prescind the fundamental Romantic ideas, one of which has to do with the role of “the rational principle”:

Now although, without the rational principle, neither truth nor knowledge could have been, but only life itself, yet that principle cannot add one iota to knowledge.  It can clear up obscurities, it can measure and enumerate with greater and ever greater precision, [and] it can preserve us in the dignity and responsibility of our individual existences.  But in no sense can it be said… to expand consciousness.  Only the poetic can do this: only poesy, pouring into language its creative intuitions, can preserve its living meaning and prevent it from crystallizing into a kind of algebra.  “If it were not for the Poetic or Prophetic character,” wrote William Blake, “the philosophic and experimental would soon be at the ratio of things, and stand still, unable to do other than repeat the same dull round.”

For Barfield, Romanticism qualifies not only as a revolt against the strictures of the Enlightenment; it is not only the accession of a new type of taste or sensibility that supersedes an earlier one: It is a change – and, for Barfield, a positive development – in human consciousness.  Understood in the way that Barfield, Jansen, and Barzun see it, Romanticism resembles – or, rather it anticipates –Traditionalism.  In The Crisis of the Modern World (1927), for example, René Guénon (1886 – 1951) describes the modern person as averse to referring “beyond the terrestrial horizon” and as crediting “no knowledge beyond what proceeds from the sense.”  For Guénon, the modern world “is anti-Christian because it is essentially anti-religious; and it is anti-religious because, in a still wider sense, it is anti-traditional.”  Writing in Harry Oldmeadow’s anthology The Betrayal of Tradition (2005) and invoking the spirit of T. S. Eliot, Brian Keeble asserts that fullness of humanity requires contact with “the transcendent dimension”; and, calling on Blake, he invokes the “sacred reality of the spirit.”

II. The Romantic Subject.  Romanticism saw a great flowering of lyric poetry, and this was no coincidence.  Lyric poetry is personal, even egocentric, poetry; or it is poetry personal in character even in the case where the putative “I” who speaks in the poem is purely fictional and is not to be identified with the author.  The name lyric suggests the solo singer accompanying himself on the lyre, bursting out in song, as the spirit takes him.  Lyric poetry is expressive: It represents in externalized imagery the internal state, intellectual or emotional, of the poet.  Of course, inner states usually correlate themselves with external circumstances and conditions.  Anyone who comments on the soul also necessarily comments on the world.  The Romantics seized on the lyric as their primary mode of poetizing because the conventions of lyric so perfectly suited that part of the Romantic program that concerned the exploration of the subject’s inner life.  Of course, the Romantic poet interests himself in much more than in pouring out the contents of his overflowing heart.  That would be a sophomoric misapprehension.  On the contrary, for the talented poet, well-schooled, mentally acute, moved by inveterate curiosity about the world, even a brief lyric poem can be the vehicle of a subtle critique or argument.  If the Romantic poet were a prophet then he would also be a philosopher.

What does it mean to be a subject, an ego, an “I”?  Subjectivity is self-consciousness, an abiding awareness that one is this person, with this biography (always thus far), and with these relations to and with and in the world – and not some other person with other relations.  But every subject, every self-conscious person, is aware that the world is full of other self-conscious persons whose subjectivity, as he infers, is generically like his own right down to the detail that each has (or ought to have) a similar sense of his own particularity and difference from the others.  Beyond persons, places, and things, the subject senses – although he can never empirically grasp – a totality of things, a cosmos, and an authorial or organizing principle, for which the common name is God.  Wisdom consists in knowing that there was a world indefinitely before his own subjectivity began and there will be a world indefinitely after his own subjectivity ceases; he is a part of something larger than himself, which lies beyond the limits of his will.

Mood conditions subjectivity.  The typical self-consciousness addressed in the previous paragraph should be qualified as the healthy self-consciousness.  Because, however, no one can keep the world absolutely at bay, he must suffer the impingements of the world, whether happily or sadly.  Forces beyond a subject’s control can alienate him from himself and through ignorance or perversity he can exacerbate his alienation.  The Romantics believed that the worldview of Classicism, or the Enlightenment, described life and the world falsely, and that those who embraced its falsehoods must in some way become alienated.  The Romantics regarded with acute skepticism the modern claims concerning material progress.  “The world is too much with us, late and soon, / Getting and spending, we lay waste our powers,” wrote Wordsworth.  In the labyrinth of the new metropolis, the soul might once again lose its way and suffer, as men once did in the Cities of the Plain, and experience pure indifference with respect to its own sickness.  What kind of civic environment would arise from the presence together in large urban agglomerations of millions of such afflicted people?  The psychic problem must inevitably become a social and a cultural problem.

It is worth quoting Wordsworth’s sonnet in full:
The world is too much with us; late and soon,
Getting and spending, we lay waste our powers;—
Little we see in Nature that is ours;
We have given our hearts away, a sordid boon!
This Sea that bares her bosom to the moon;
The winds that will be howling at all hours,
And are up-gathered now like sleeping flowers;
For this, for everything, we are out of tune;
It moves us not. Great God! I’d rather be
A Pagan suckled in a creed outworn;
So might I, standing on this pleasant lea,
Have glimpses that would make me less forlorn;
Have sight of Proteus rising from the sea;
Or hear old Triton blow his wreathèd horn.

The Romantics understood that consciousness rises to acuity in events and crises, like that experienced by Wordsworth’s monologist in the stale abjection of his despair.  The growth of consciousness proceeds punctually rather than gradually, and it entails the tribulations of a solemn pilgrimage.  Lyric poetry, being the poetry of the subject’s self-consciousness, therefore also tends to be the poetry of sudden events – discrete moments in which the subject suddenly discovers something about himself, the world, or himself in relation to the world, that hitherto he did not know and knowledge of which alters him.  It might be, as in the case of “The world is too much with us,” the discovery of one’s own spiritual poverty; it might be an access of grace.  Such moments sometimes bear the name of epiphany; they are in any case always revelatory – and they cannot be solicited.  They impose themselves, as if by external guidance, as gifts, upon the percipient.

The epiphanic or revelatory quality of lyric poetry has to do with its effort to appear spontaneous.  Every work of art requires arduous labor, even a fourteen-line sonnet, but Wordsworth, for example, insisted that he drew inspiration from abrupt visionary experiences and that articulating the vision although onerous entailed given textual form to a unitary idea.  Discussing the origin of his major poems – The Prelude, The Excursion, and the unfinished Recluse – in letters to his friends, Wordsworth situated himself as the channel for impulses that had befallen him, as revelation befalls the prophet, whether he seeks his election or not.

The Romantic subject resembles – or, rather, it anticipates – the Traditionalist subject, as Guénon, Nicolas Berdyaev (1874 – 1948), and others have defined it.  Guénon himself in The Reign of Quantity and the Signs of the Times (1945) characterizes modern man as having “lost the use of the faculties which in normal times allowed him to pass beyond the bounds of the sensible world.”  This loss leaves modern man alienated from “the cosmic manifestation of which he a part”; in Guénon’s analysis modern man assumes “the passive role of a mere spectator” and consumer, which is exactly how Wordsworth saw it.  Of course, Guénon does not write of loss as an accident, but as the logical consequence of choices and schemes traceable to the Enlightenment.  As Wordsworth put it, “We have given our hearts away – a sordid boon.”

According to Berdyaev, writing in The Destiny of Man (1931), “Man is not a fragmentary part of the world but contains the whole riddle of the universe and the solution of it.”  Berdyaev asserts that, contrary to modernity, “man is neither the epistemological subject [of Kant], nor the ‘soul’ of psychology, nor a spirit, nor an ideal value of ethics, logics, or aesthetics”; but, abolishing and overstepping all those reductions, “all spheres of being intersect in man.”  Berdyaev argues that, “Man is a being created by God, fallen away from God and receiving grace from God.”  The prevailing modern view, that of naturalism, “regards man as a product of evolution in the animal world,” but “man’s dynamism springs from freedom and not from necessity”; it follows therefore that “evolution” cannot explain the mystery and centrality of man’s freedom.  When Berdyaev brings “grace” into his discussion, he echoes the original Romantics, whose version of grace was the epiphanic vision, the event answering to a crisis that brings about the conversion of the fallen subject and sets him on the road to true personhood.

III. Romantic Nature.  The Romantic redefinition of nature, which the Romantics invariably capitalize as Nature, runs in parallel with the Romantic redefinition of selfhood.  Where the Enlightenment had reduced nature to material processes – geological, chemical, physiological, mechanical, and optical – with no reference to anything outside themselves, Romanticism in reaction posited Nature not only as vital throughout but also as meaningful, and natural phenomena as pointing beyond themselves to things supernatural.  This redefinition of nature was perhaps less a total innovation than it was the re-appropriation of an old idea going back to late-medieval thinkers like Jakob Boehme (1575 – 1624), Paracelsus (1493 – 1541), and even Johannes Kepler (1571 – 1630), who saw in nature a decipherable living message that implies a message-maker whose motivation must be that he wishes to establish contact with human beings.  Behind those figures lies Christian Platonism.  Under this late-medieval idea, the sensitive soul can not only come into communication through nature with what lies beyond nature; but he can also, through nature, come into communion with what is beyond nature.  In Christian, rather than pagan, terms, the Romantic rediscovers Nature as “The Book of Nature,” a kind of supplement to the two Testaments, whose author is God, as normally or eccentrically conceived by the individual writer-thinker.

A longstanding and not altogether inaccurate thumbnail categorization of Romantic poetry is that it is nature poetry.  The Romantic penchant for verbal picturesque redoubles the plausibility of the claim.  Here, for example, is Samuel Taylor Coleridge (1772 – 1834) conjuring forth the abyss that lies beneath “The Pleasure Dome of Kubla Khan” in the fragmentary poem (1798) of that name.

But oh! that deep romantic chasm which slanted
Down the green hill athwart a cedarn cover!
A savage place! as holy and enchanted
As e’er beneath a waning moon was haunted
By woman wailing for her demon-lover!
And from this chasm, with ceaseless turmoil seething,
As if this earth in fast thick pants were breathing,
A mighty fountain momently was forced:
Amid whose swift half-intermitted burst
Huge fragments vaulted like rebounding hail,
Or chaffy grain beneath the thresher’s flail:
And mid these dancing rocks at once and ever
It flung up momently the sacred river.
Five miles meandering with a mazy motion
Through wood and dale the sacred river ran,
Then reached the caverns measureless to man,
And sank in tumult to a lifeless ocean;
And ’mid this tumult Kubla heard from far
Ancestral voices prophesying war!

In Coleridge’s poem, which he subtitles “a vision in a dream,” Nature is all depth, but better to say that for Coleridge in “Kubla Khan” Nature is vital depth; Nature is a wellspring of robust and creative urgencies that is almost everywhere and almost at every moment alive.  The exception would be the “lifeless ocean,” a symbol perhaps of what we now call entropy, but in a world of perpetual emergence even a “lifeless ocean” might be redeemed and revivified.  Indeed, Coleridge in the quoted verses seems to be rescuing the etymon of the word nature, which is the same etymon that gave rise to the French verb naître, “to be born” or “to give birth.”  The “chasm” gives birth to “a mighty fountain,” which in turn transforms itself into “a sacred river.”  Coleridge’s endowment on the scenario of the term “sacred” reminds us that his Nature is not only vital, but hallowed or divine.  The creative processes in nature point to a divine creative power beyond nature that reveals itself in phenomena and solicits from the sensitive soul the idea of something that requires a formal acknowledgment of its generative awesomeness.

Coleridge’s “caverns measureless to man” stand for the unplumbed depths not only of Nature but of the soul.  To explore the hidden depths of Nature means also to explore the soul and vice versa.  Coleridge draws on ancient conceptions that the Enlightenment claimed to have debunked, such as the conception of the psyche or soul, as articulated by the archaic philosopher-seer Heraclitus of Ephesus in one of his surviving aphorisms (No. 45): “You will not find out the limits of the soul when you go, travelling on every road, so deep a logos does it have.”  Where the Enlightenment assumed that everything might be measured – that is to say, brought within the horizon of finite knowledge – Coleridge insists that the world possesses a “measureless” dimension that resists logical summary or reduction to purely quantitative or propositional terms. The only way to discuss such things is in symbol, imagery, and figure-of-speech.

The Catskills by Thomas Cole, founder of the Hudson River School

Thomas Cole (1801-1848) The Catskills and Lake George, Catskill Creek, N.Y., 1845, oil on canvas.

A similar view of Nature as the source of vital energy necessary to the soul informs the final scene of Johann Wolfgang von Goethe’s Faust Part II (1831), where the errant sinner, Doctor Johann Faust, at last finds redemption from his graceless and degraded state.  Goethe (1749 – 1832) sets his scene in primeval nature:

Waldung, sie schwankt heran,
Felsen, sie lasten dran,
Wurzeln, sie klammern an,
Stamm dicht an Stamm hinan,
Woge nach Woge spritzt,
Höhle, die tiefste, schützt.
Löwen, sie schleichen stumm-–
freundlich/ um uns herum,
Ehren geweihten Ort,
Heiligen Liebeshort.

[Forests, they wave around,
Over them, cliffs bear down,
Roots cling to rocky ground,
Trunk upon trunk is bound,
Wave after wave sprays up,
Deep caves protecting us.
Lions prowl silently,
Round us, still friendly,
Honouring sacred space,
Love’s holy hiding place.]

A few verses later, the character called Pater Profundis, who will play a mediating role in Faust’s redemption, utters these lines:

Wie Felsenabgrund mir zu Füßen
Auf tiefem Abgrund lastend ruht,
Wie tausend Bäche strahlend fließen
Zum grausen Sturz des Schaums der Flut,
Wie strack mit eignem kräftigen Triebe
Der Stamm sich in die Lüfte trägt:
So ist es die allmächtige Liebe,
Die alles bildet, alles hegt.
Ist um mich her ein wildes Brausen,
Als wogte Wald und Felsengrund,
Und doch stürzt, liebevoll im Sausen,
Die Wasserfülle sich zum Schlund,
Berufen, gleich das Tal zu wässern;
Der Blitz, der flammend niederschlug,
Die Atmosphäre zu verbessern,
Die Gift und Dunst im Busen trug –
Sind Liebesboten, sie verkünden,
Was ewig schaffend uns umwallt.
Mein Innres mög‘ es auch entzünden,
Wo sich der Geist, verworren, kalt,
Verquält in stumpfer Sinne Schranken,
Scharfangeschloßnem Kettenschmerz.
O Gott! beschwichtige die Gedanken,
Erleuchte mein bedürftig Herz!

[As this rocky abyss at my feet,
Rests on a deeper abyss,
As a thousand glittering streams meet
In the foaming flood’s downward hiss,
As with its own strong impulse, above,
The tree lifts skywards in the air:
Even so all-powerful love,
Creates all things, in its care.
Around me there’s a savage roar,
As if the rocks and forests sway,
Yet full of love the waters pour,
Rushing bountifully away,
Sent to irrigate the valley here:
The lightning that flashed down,
Must purify the atmosphere,
With poisonous vapours bound –
They are love’s messengers, they tell
Of what creates eternally around us.
May it inflame me inwardly, as well,
Since my spirit, cold and confounded,
Torments itself, bound in the dull senses,
As sharp-toothed fetters’ agonising art.
Oh, God! Calm my thoughts, pacify us,
And bring light to my needy heart!]

For Goethe as for Coleridge, Nature is the bourn of life, to which the afflicted soul might return to be nursed back to health.  We recall that in Wordsworth’s sonnet “The world is too much with us,” the lyric subject feels exiled from nature and, in his attempt to rejoin with nature, catastrophically rebuffed.  The world seems to him lifeless and still, and he also with it; he wants revivification.  Faust seeks the same.  Goethe’s “forests” answer him not in stillness, but make constantly a motion as they “wave around.”  Just so, the “cliffs” actively “bear down” and “roots cling.”  The dimension of depth goes not missing, for in Goethe’s scene “deep caves protect us” in a landscape thickly tangled (“trunk upon trunk”) that is “sacred” and, like some lonely place where a ritual purification might occur, hidden (“Love’s holy hiding place”) from profane eyes.  When Pater Profundis (“The Father of the Depth”) begins to speak, he credits the landscape with “its own strong impulse.”  The tree, straining its branches skyward, responds to the attractive principle of “Love” that serves Goethe for the equivalent of the non-anthropomorphic energy suffusing the caverns beneath Coleridge’s “stately pleasure dome” in “Kubla Khan.”

A poignant recurrence of this Coleridgean-Goethean constellation of ideas about Nature may be found in the work of the late John Michell (1933 – 2009), who referred to himself as a “Radical Traditionalist.”  Readers know Michell best for his persistent work on the megalithic monuments of the European Neolithic Period, especially in Britain, which he demonstrated to have constituted a continental, and perhaps even a global, network whose builders intended them to help in keeping the dominion of man in contact with the dominion of the stars and of the deities that the stars betokened.  Like Coleridge and Goethe, Michell posited a vital energy inherent in the earth, which the old stone circles and the long straight lines connecting them channeled and tapped.  Michell possessed that conviction of a deep past antecedent to himself that distinguishes both Romanticism and Traditionalism from the modern default-state of “historylessness” and dogmatic materialism.

In The View over Atlantis (1969; revised as The New View over Atlantis, 1985), Michell writes how “of the various human and superhuman races that have occupied the earth in the past we have only the dreamlike accounts of the earliest myths, which tell of the magical powers of the ancients.”  In his bold assertion, Michell echoes the prophecies of Blake, who revived the Old Plato’s “true myth” from the Timaeus in his epic poem America (1793).  As in the Genesis-story of the Deluge or in Plato’s “Atlantis” story, Michell pieces together a narrative about “an overwhelming disaster of human or natural origin which destroyed a system whose maintenance depended upon its control of natural forces across the entire earth.”  In one sense, Michell has simply reiterated that the Enlightenment happened, cutting across the lines of Tradition and depriving humanity of its proper heritage.  For Michell, as for Blake or Wordsworth or Goethe, history is not the “account… of a recent ascent from bestiality and barbarism to the triumphs of modern civilization, but of a gradual, barely interrupted decline from the universal high culture of [Neolithic] antiquity to the present state of fragmentation and impending dissolution.”

IV. Romantic Nature Continued.  Often for the Romantic poet, nature gives cover to secret activities that betoken an older world that in modern civic domains has given way to the despiritualizing forces of measure and logic – in the sociological process that some historians refer to as de-mystification.  Nature is mysterious; she is the “magic forest” of the fairy-tales and legends, to enter which is perforce to run the risk of impish enthrallment or initiatory imperilment.  In the pathways of the forest, man, in his ancient role as hunter, pursues wild game and, taking the prey, becomes one with it.  The opening stanzas of “le Cor” (1826) by the French poet Alfred de Vigny (1797 – 1863) instantiate this variant of the Romantic Nature:

J’aime le son du Cor, le soir, au fond des bois,
Soit qu’il chante les pleurs de la biche aux abois,
Ou l’adieu du chasseur que l’écho faible accueille,
Et que le vent du nord porte de feuille en feuille.

Que de fois, seul, dans l’ombre à minuit demeuré, 
J’ai souri de l’entendre, et plus souvent pleuré!
Car je croyais ouïr de ces bruits prophétiques
Qui précédaient la mort des Paladins antiques.

[I love the sounding horn, of an eve, deep within the woods,
Whether it sings the plaints of the threatened doe
Or the hunter’s retreat but faintly echoed
That the north wind carries from leaf to leaf.

[How often alone, in midnight shadows concealed,
I have smiled to hear it, even shedding a tear!
I thought to hear sounding prophetic plaints,
Declaring the death-knell for knights of old.]

As in Coleridge and Goethe, Nature in Vigny’s poetry offers herself as depth; she furnishes the paradoxically unapprehended scene of a ritual performance, which, however, the lyric subject can reconstitute in his imagination, provoked to the activity by the very sound.  The horn-call reaches the lyric subject of Vigny’s poem from far away in the concealment of the woods, a place of half-light and shadows.  The horn-call incites the lyric subject, as he says, to love: “I love the sounding of the horn, of an eve, deep within the woods.”  But what is this “love”?  It is precisely the awakened desire for the transcendent and unseen, for depth and distance; and it is a response to the sacred, mirrored in the desire of man for woman, and of the soul for beauty.

Note how in the first stanza of Vigny’s poem the sound of the horn mingles with the rustling of the north wind, as though the two timbres had become one and therefore indistinguishable.  In the second stanza, the horn-call comes to resemble “prophetic plaints, / declaring the death-knell for knights of old.”  Not only the reunion of culture and nature, which have become alienated from one another, but also whole extinct worlds of medieval pageantry and hieratic drama, lie concealed in oaken and beechy precincts.  Let it be noted finally, in passing, how Vigny’s “Cor” with its “prophetic plaints” makes a parallelism with Coleridge’s “Kubla Khan,” where “ancestral voices” are “prophesying war.”

Portrait of Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) by Johann Heinrich Wilhelm Tischbein.

“Goethe in the Roman Campagna,” 1786, by Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, oil on canvas.

What do the scholars say about the Romantic view of landscape and nature?  François-René Chateaubriand (1768 – 1848), a second-generation French Romantic who was also one of the early scholars of Romanticism, writes in his great study of The Genius of Christianity (1802) concerning the distinction between ancient and modern poetry that “mythology… circumscribed the limits of nature and banished truth from her domain.”  In modern poetry, by which Chateaubriand means Christian poetry: “The deserts have assumed a character more pensive, more vague, and more sublime; the forests have attained a loftier pitch; the rivers have broken their pretty urns, that in future they may only pour the waters of the abyss from the summit of the mountains; and the true God, in returning to his works, has imparted his immensity to nature.”  Chateaubriand associates paganism with naturalism – that is to say, with the taxonomic or classifying study of natural phenomena, as exemplified in the work of Pliny the Younger.  Chateaubriand thus opposes the Romantic or Christian view of Nature against the Classical or Pagan view of nature, which had been taken up again by the Enlightenment, favoring the former over the latter.

If, as Chateaubriand writes, “the prospect of the universe [excited not] in the bosoms of the Greeks and Romans those emotions which it produces in our souls,” then it follows that the Enlightenment mentality, surveying the same “prospect,” would come away from the encounter as affectively blank as did the Epicurean precursor whose view Eighteenth-Century Classicism has reinvented.  The modern poet in confronting the universe, according to Chateaubriand, enjoys the differentiating privilege to “taste the fullness of joy in the presence of its Author.”  It is true that there is no Pagan equivalent of the Fall-from-Grace.  Because consciousness is equivalent to recollection, and because paganism never experienced Nature as lost, the Christian sense of Nature must exceed the Pagan sense in both quality and intensity.  Christianity is a return to nature or a recovery of it, a homecoming, as it were, with all the poignancy thereof.

In Natural Supernaturalism (1973), one of the great studies of the Romantic Movement, and with specific reference to Wordsworth, M. H. Abrams (born 1912 – still living) writes that for the Grasmere poet “Scriptural Apocalypse is assimilated to an apocalypse of nature [whose] written characters are natural objects, which [the poet reads] as types and symbols of permanence in change.”  Abrams shows in his study how Wordsworth in particular and the Romantics in general inherited from Edmund Burke and German idealism the aesthetic dichotomy of The Beautiful and the Sublime.  The Beautiful is whatever is picturesque, pleasing, and amiable in Nature.  The Sublime is whatever is awesome, threatening, and grandiose in Nature.  In communing with Nature, the sensitive soul finds in Beauty the stepping-stone to the Sublime, and it is in the Sublime that he reads – or has read to him – the real lesson of Nature.  Abrams writes that the “antithetic qualities of sublimity and beauty are seen [by the poet] as simultaneous expressions on the face of heaven and earth, declaring an unrealized truth which the chiaroscuro of the scene articulates for the [properly] prepared mind – a truth about the darkness and the light, the terror and the peace, the ineluctable contraries that make up our human existence.”

In American Sublime: Landscape Painting in the United States, 1820 – 1880 (2002), Andrew Wilton and Tim Barringer comment on the centrality of the Sublime in the Romantic conception of landscape.  “The Sublime,” they write, “incorporated a further dimension [namely that] the imagination has an important part to play in our perception of what is immense, nebulous, beyond exact description.”  When the percipient discovers “spiritual significance in nature,” he is not making a passive observation; on the contrary, he is participating in the constitution of such significance.  Writing of Frederic Church’s panorama in oils of Niagara (1857), Wilton and Barringer remark that, “it is not a meditation on light, but on the power of nature manifested in the grandest geographical phenomena.”  They go on to remark that “Church conceived [Niagara] as a show-piece, a masterpiece in the original sense: a specimen of his own powers at their most impressive – a match, perhaps, in a consciously humble way, to God’s own.”  Church’s canvass also communicates with the “abyss” of Coleridge’s “Kubla Khan,” a metaphor of the soul and of the psychic component of the universe as “measureless to man.”

V. Traditionalism as the New Phase of Romanticism.  Abrams’ attribution to Wordsworth of a sense of Nature as “apocalyptic” applies equally well to Church (1826 – 1900), for whom the great cataract, directly on the brink of which his painting positions the viewer, is also “apocalyptic” – God revealing His greatness through the sublimity of the falling waters, the magnificent roar, and the rearing luminous mists.  Church painted a number of scenes that would have pleased Michell, such as his “Aegean Sea” (1877), with its ancient ruins, including the half-hidden entrance to a cave-shrine, against a brilliantly light island-harbor with mists and rainbows.  Church’s “Cross in the Wilderness” (1857), with its rugged mountains and faraway, luminous horizon, implies a Chateaubriand-like grasp of the religious struggle, with its concluding vision, as the essentially human struggle.  It probably implies Michell’s ley-lines and megalithic power-foci.  The Hudson River School of painting, to which Church belonged, was a thoroughly Romantic phenomenon, motivated by an awareness of the disappearing wilderness, which it sought to record, and dedicated to the ideal that civilization must never violate the natural order; that humbleness before the sublimity of the natural world is the proper attitude for civilized people to assume.

The Lake Poets in England and the Hudson River painters in North America feared the tendencies of their era – the spread of callous industrialism, the aggrandizement of cities, the blighting of the countryside, and the coarsening of the soul.  They warned against these trends even as it became evident that the trends would overwhelm any critique.  The Lake Poets eventually came to grasp that their philosophical and aesthetic convictions implied a politics.  Wordsworth and Coleridge became Tories, or as Americans would say, conservatives.  Vigny and Chateaubriand were also on the right, the former describing himself as the sole male survivor of a parental generation that the Revolution had eaten alive.  These men would better be described, however, as reactionaries – against the encroachments of the Reign of Quantity and the pseudo-ethos of “getting and spending” – and as Traditionalists: Defenders and conservators of the local against the metropolitan, of dialect against rhetoric, and of the spirit against a prescriptively and intolerantly materialist view of life and the world.  Their opposite numbers were the propagandists for the insidious synergy of the laborites and socialists with the bankers and industrialists.

In The Communist Manifesto (1848), Karl Marx (1818 – 1883) and Frederick Engels (1820 – 1895) condemn the bourgeoisie, whom they propose to abolish, but they extol the “subjection of Nature’s forces to man, machinery, application of chemistry to industry and agriculture, steam-navigation, railways, electric telegraphs, clearing of whole continents for cultivation, canalisation of rivers, whole populations conjured out of the ground” that “Capitalism,” the project of the bourgeoisie, had created.  Marx, as much as the industrialists, looked forward to the “extension of factories and instruments of production owned by the State; the bringing into cultivation of waste-lands, and the improvement of the soil generally in accordance with a common plan” and to the “establishment of industrial armies, especially for agriculture.”  Scots poet Robert Burns (1759 – 1796) had already indicted the right riposte in his “Impromptu on the Carron iron Works” (1787):

We cam na here to view your warks, 
In hopes to be mair wise, 
But only, lest we gang to hell, 
It may be nae surprise: 
But when we tirl’d at your door 
Your porter dought na hear us; 
Sae may, shou’d we to Hell’s yetts come, 
Your billy Satan sair us!

In the prevailing situation in the second decade of the Twenty-First Century, the literature professors prefer denouncing the Romantic poets to understanding them, and the art-history professors regard the Hudson River painters as “illustrators” who could not possibly have believed in the Transcendentalist or spiritualist doctrines that they expounded.  Prophets of modern thought like Theodore Wiesengrund Adorno (1903 – 1969) and Jacques Derrida (1930 – 2004) have, of course, conclusively demonstrated that all Lake Poets and all Hudson River painters, even the ones who were Unitarians hence half-way to being modern liberals, were and remain servitors of false consciousness and an oppressive “logocentrism,” from which everyone should be compulsorily liberated.  In the colleges and universities, the Cultural-Marxist hatred for anything not Cultural-Marxist grows red-hot, white-hot, and ultraviolet-hot by swift stages.  That is a metonymy of exactly what the early twentieth-Century Traditionalists predicted.

In The End of Our Time (1933), Berdyaev argues that, “The Renaissance began with the affirmation of man’s creative individuality; it has ended with its denial.”  Creativity, which Michelangelo and J. S, Bach ascribed to God, produces unequal results that inspire “envy,” which in turn solicits a demand for “equality.”  For Berdyaev, the principle of modernity is “envy of the being of another and bitterness at the inability to affirm one’s own.”  Thus, according to Berdyaev’s analysis, “Our age is like to that which saw the passing of the ancient world” although “that was the passing of a culture incomparably finer than the culture of today.”  It is possible, writes Berdyaev, to “trace the ruin of the Renaissance in modernist art, in Futurism, in philosophy, in Critical Gnoseology… and finally in socialism and anarchism,” all of which begin with a rejection of Romantic, and therefore of religious, values.

In The Meaning of the Creative Act (1916), Berdyaev, contrasting “Canonic” or “pagan” art with “Christian art, or, better, the art of the Christian epoch,” arrives at the dichotomy that “pagan art is classic and immanent” where “Christian art is romantic… and transcendent.”  The parallelism between Berdyaev and Chateaubriand will be abundantly self-evident.  As Berdyaev sees it, “In [the] classically beautiful perfection of form [in] the pagan world there is no upsurge towards another world… no abyss… above or below”; that is, no “caverns measureless to man.”  The Romantic, knowing that he can never achieve perfection in this world, shies from utopian projects that inevitably become coercive and universal.  Thus “a romantic incompleteness… characterizes Christian art,” which takes as a premise, among others, the conviction “that final, perfect, eternal beauty is possible only in another world.”  That the Romantic often succumbs to the frustration inherent in eternal longing, Berdyaev notes; but the Romantics themselves knew their vulnerability in this regard well and were wont candidly to diagnose it, as Wordsworth does in “The world is too much with us,” candidly.  Berdyaev saw in Nineteenth-Century Romanticism the last pause in the steady descent of the Western world into materialism, utilitarianism, and nihilism, the equivalent of Guénon’s Kali Yuga or Dark Age.

Contemporary Traditionalism picks up where Berdyaev, Guénon, and the mid-Twentieth Century anti-modernists, and again where the Romantics, in their century, left off.  Traditionalists recognize that the critical situation of their time is deeper, more degraded, more irremediably catastrophic than the of one hundred or one hundred-and-fifty years ago, but they also see that it is the same crisis and that if the Endarkenment of their day were more acute by a magnitude at least than it was in 1820 or 1920 it would also be closer to its irrevocable finale.  The problem for Traditionalists is how severe that finale will be.  Will it conform itself to the Foundering of Atlantis or the Fall of Rome?  The former constituted a choke-point after which civilized life had to begin again from the degree zero.  The latter sacrificed the Imperial infrastructure, both physical and bureaucratic, for the reorientation of Western European humanity from the Mediterranean to the Atlantic.  The Greeks and Romans feared to sail beyond the Pillars of Hercules.  Significantly, the conquest of the Atlantic and the opening up of North America fell to those Northwestern Goths, the Vikings, at the very moment when Iceland was embracing Christianity.  Leif Erikson was an early convert, as was Thorfinn Karlsefni.

Modernity is a Polyphemus, an angry unison-chorus, shouting like thunder that man is the measure and that there is nothing, not measurable by man.  Traditionalism is the quiet voice, seeking parlay with other hushed voices, so that together they might enter conversation with the Forest Murmurs and even the distant Music of the Spheres and come to know better what they already suspect, that man must begin by measuring himself against the measureless.

[This essay is dedicated to Professors Cocks and Presley and to “The Two Scholars.”]

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Thomas F. Bertonneau earned a Ph.D. in Comparative Literature from the University of Califonia at Los Angeles in 1990. He has taught at a variety of institutions, and has been a member of the English Faculty at SUNY Oswego since 2001. He is the author of three books and numerous articles on literature, art, music, religion, anthropology, film, and politics. He is a frequent contributor to Anthropoetics, the ISI quarterlies, and others.