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lundi, 07 décembre 2015

Albania, uno scenario di primo piano nel jihadismo dei Balcani

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Albania, uno scenario di primo piano nel jihadismo dei Balcani

Giovanni Giacalone

Ex: http://www.ispionline.it

L'Albania sta assumendo un ruolo centrale riguardo alla radicalizzazione islamica nei Balcani. Lo conferma l'arresto, a Tirana, di due reclutatori dell'ISIS che, tra l'altro, avevano stretti legami con l'Italia. Una questione importante è legata al contesto delle moschee radicali albanesi, potenzialmente veri e propri centri di reclutamento di individui in situazioni socio-economiche precarie, a cui l'ISIS sembra offrire "nuove opportunità". Per questo motivo, e perché si contano già più di 140 jihadisti albanesi in Siria, l'Albania risulta un paese a rischio: da monitorare con attenzione.

L’Albania è recentemente diventata un panorama di primo piano per quanto riguarda la radicalizzazione islamista nei Balcani, con reti di propaganda e reclutamento attive sul territorio e con una stima di 140-160 jihadisti partiti per la Siria con l’obiettivo di unirsi a Isis e a gruppi qaedisti.  Risultano numerose le moschee fuori controllo, terreno potenzialmente fertile per la propaganda jihadista ed emergono inoltre interessanti i legami con l’Italia.

La rete di Genci Balla e Bujar Hysa e i legami con Almir Daci

Il principale network albanese di reclutamento era guidato da Genci Balla e Bujar Hysa, due imam attualmente in carcere a Tirana e sotto processo con l’accusa di propaganda e reclutamento. I predicatori erano stati arrestati nel marzo 2014 assieme ad altri sette individui: Gert Pashja (il punto di riferimento in Turchia che coordinava i viaggi dall’Albania alla Siria), Fadil Muslimani, Orion Reci, Edmond Balla, Astrit Tola, Zeqir Imeri e Verdi Morava.  Imeri e Hysa sono inoltre stati accusati di detenzione e fabbricazione di armi (Art. 278/2 Cod Penale albanese).1

Due degli arrestati avevano legami, diretti o indiretti, anche con l’Italia; Verdi Morava aveva infatti risieduto per diversi anni in Italia, dove aveva conseguito una laurea in ingegneria meccanica ed era inoltre titolare di una società di trasporti a Bologna.

Grande-albanie.pngBujar Hysa aveva invece svolto un ruolo chiave nel reclutamento di Aldo Kobuzi e di Maria Giulia Sergio. A inizio gennaio 2014 veniva intercettata una telefonata tra Hysa e il cognato di Aldo, Mariglen Dervishllari, il quale avvertiva l’imam: “Ti sto mandando mio fratello; gli ho dato il tuo numero di cellulare”.  Senza il supporto della rete di Balla e Hysa sarebbe stato impossibile per i due volontari jihadisti organizzare  e finanziarsi il viaggio in Siria.

Anche Dervishllari e sua moglie, Serjola Kobuzi, pare siano giunti in Siria grazie al supporto della medesima rete di reclutamento. E’ tra l’altro di due giorni fa la conferma della morte di Mariglen Dervishllari, avvenuta in territorio siriano e in circostanze ancora da chiarire.

Un altro personaggio che merita attenzione è Almir Daci, ex imam della moschea di Leshnica, nella zona di Pogradec, anch’egli legato alla rete di Balla e Hysa. Daci è apparso con il nome  “Abu Bilqis Al-Albani” nel noto video sui Balcani rilasciato dall’Isis a giugno 2015 e dal titolo “Honor is Jihad”. Daci non era soltanto in contatto con Dervishllari ma è anche ritenuto responsabile del reclutamento di Ervis Alinji e Denis Hamzaj, due ragazzi albanesi presumibilmente morti in Siria. Secondo fonti di Tirana, Hamzaj si sarebbe laureato in un’università italiana prima di rientrare in Albania e scomparire.2

Le moschee radicali

La Comunità Islamica Albanese (KMSH) ha recentemente chiesto l’aiuto delle Istituzioni per controllare le moschee radicali.  Secondo alcune stime sarebbero ben 89 le moschee a rischio e fuori della giurisdizione della KMSH, molte delle quali in zone ritenute a rischio, come la periferia di Tirana, Kavaja, Cerrik, Librazhd e Pogradec. Nei mesi scorsi sono poi stati segnalati diversi nuovi cantieri destinati alla costruzione di moschee e i cui finanziamenti risultano al momento poco chiari.3,4,5

In settimana presso la moschea Mezezit di Tirana, dove predicava Bujar Hysa, è stato nominato un imam ufficiale legato alla Comunità Islamica Albanese; potrebbe essere il primo passo verso una serie di misure che prevedono un allargamento del controllo sulle moschee da parte dell’Islam ufficialmente riconosciuto.

Albania come “trampolino di lancio” per i jihadisti

I reclutatori dell’Isis trovano terreno fertile in Albania,  focalizzandosi in molti casi su individui in precarie condizioni sociali, culturali ed economiche; è a questo punto che entra in gioco il meccanismo di reclutamento individuato dall’analista russo Alexei Grishin, fondato su approcci individuali al reclutamento, a seconda dell’età, del sesso, della condizione socio-psicologica del “candidato”. Un vero e proprio processo di “screening” col quale si individuano i “punti sensibili” sui quali far leva: risentimento nei confronti del contesto sociale, disagio economico, problematiche psicologiche di rilievo, esigenze personali. Non a caso l’Isis promette un’identità, uno stipendio, il matrimonio, illude i potenziali reclutati di ricoprire un ruolo di tutto rilievo nella costruzione di un’entità statale secondo dei dettami religiosi totalmente decontestualizzati e manipolati.

Al momento le stime ufficiali parlano di circa 140 jihadisti albanesi attivatisi in Siria: una trentina sarebbero rientrati in patria, una decina sarebbero morti. I nuclei familiari di albanesi trasferitisi nello “Stato Islamico” sarebbero  intorno ai 18 e 17 gli orfani.6

Conclusione

L’Albania sta progressivamente assumendo un ruolo di primo piano nel panorama jihadista balcanico, sia come sede di radicalizzazione e reclutamento e sia come luogo di partenza per la Siria. Uno scenario che non è certo da meno rispetto a quello bosniaco, con una storia di radicalizzazione un po’ più datata. L’incremento del radicalismo nel Pase delle Aquile rischia di avere conseguenze, dirette e indirette, anche sull’Italia, vista la vicinanza geografica e gli intensi rapporti tra le due aree; un contesto dunque da monitorare attentamente.

Giovanni Giacalone,  ISPI Associate Research Fellow

1.http://www.pp.gov.al/web/Prosecution_Office_sent_to_trial...

2.http://www.itstime.it/w/il-video-di-is-sui-balcani-a-mess...

3.http://www.lapsi.al/lajme/2015/11/26/raporti-sekret-89-xh...

4.http://www.balkaninsight.com/en/article/albania-muslims-c...

5.http://shqiptarja.com/home/1/gurra-xhamia-e-unaz-s-s--re-...

6.http://www.lapsi.al/lajme/2015/11/26/ekskluzive-17-f%C3%A...

Documento: 

commentarygiacalone1.12.2015.pdf

dimanche, 06 décembre 2015

De Hagia Sophia als Turks zoenoffer aan de Russen?

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Door: Harry De Paepe

Ex: http://www.doorbraak.be

De Hagia Sophia als Turks zoenoffer aan de Russen?

Russische parlementsleden willen de Hagia Sophia terug, dat meldde het Nederlandse Katholiek Nieuwsblad.

Sergej Gavrilov sprak de wens namens verschillende leden van de Doema uit. Gavrilov is overigens, ironisch genoeg, lid van de communistische fractie in het parlement. Het idee komt niet zo maar, het is een onderdeel van een campagne die in 2006 werd opgestart.

Een Grieks-Amerikaans idee

Met de steun van 'invloedrijke Amerikaanse zakenmannen', volgens één bron, werd in het genoemde jaar het 'Comité voor de bevrijding van de Hagia Sophia' opgericht in Manhattan. Jawel, in de Verenigde Staten. Op dat moment nam een Amerikaan van Griekse oorsprong, Chris Spirou, het voortouw. De man is de voorzitter van de Hellenic-American Union en was de ooit kandidaat-gouverneur voor New Hampshire van de Democraten. In het Amerikaanse congresgebouw op 20 juni 2007, werden de doelstellingen van het comité besproken door de Congressional Human Rights Caucus, een comité van parlementsleden uit de twee partijen van de Verenigde Staten. Chris Spirou kon er op steun rekenen.

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De aandacht van de Russische media

In 2009 probeerde de man en zijn comité een Byzantijnse misviering te laten plaatsvinden in de van oorsprong christelijke bidplaats in het hart van Istanbul. Hij richtte een brief aan de toen nog premier Reccep Tayyip Erdoğan met de vraag om op 17 september 2010, de feestdag van de heilige Sophia, een eredienst te kunnen organiseren in de Hagia Sophia. Het verzoek werd hem geweigerd met 'te provocatief' als reden.

Zo belandde het verhaal in het vizier van de Russische media. In 2013 startte het Turkse parlement een onderzoek naar de mogelijkheid om de Hagia Sophia om te toveren in een moskee. Het gebouw doet immers sinds de tijd van Kemal Atatürk dienst als museum. De regerende AKP partij is het idee geenszins ongenegen en enkele prominente leden uitten hierover hun steun. Dat leidde dan weer tot spanningen met buurland Griekenland, waar men sprak van 'een belediging van miljoenen christenen wereldwijd'. Vooral de orthodoxe christenen voelen zich door de ideeën geschoffeerd.

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Nu de internationale spanningen tussen Turkije en Rusland zijn opgelopen, treedt het idee van Chris Spirou weer in het voetlicht. De Russische groep parlementairen onder leiding van Gavrilov zien in een teruggave van de Hagia Sophia 'een vriendelijke stap'. 'De Russische kant is bereid om materieel te ondersteunen en een groep van Russische restaurateurs en wetenschappers aan te bieden voor de restauratie van het oecumenische christelijke monument. Zo'n zet zou Turkije en de islam helpen om aan te tonen dat goede wil de politiek overstijgt.'

Een oude droom

Dat plots de Russen met dit idee komen aandraven, hoeft niet als een verrassing te komen. De theorie van Rusland als het Derde Rome is eeuwenlang een van de beweegredenen geweest in de buitenlandse politiek van de grootmacht. Het tsarendom zag zich als opvolger van het verloren gegane Byzantijnse Rijk. In 1915 lag er in volle Eerste Wereldoorlog het plan op tafel om Istanbul in te lijven, met de goedkeuring van de Britten en de Fransen. Sergej Sazonov, de invloedrijke minister van Buitenlandse Zaken van de tsaar, telegrafeerde op 18 maart 1915 heel duidelijk aan zijn ambassadeur in Parijs: 'Op 8 maart j.l. heeft de Franse ambassadeur mij in naam van zijn regering verklaard dat Frankrijk genegen is zich op de meest welwillende wijze ten aanzien van de tenuitvoerlegging van de in mijn telegram aan u uiteengezette wensen van Rusland ten aanzien van de zeestraten en Constantinopel, op te stellen.'

Of Rusland zich heden nog zo zeker mag weten van de welwillendheid van Frankrijk is ten zeerste te betwijfelen. Alleszins toont de wens van de Russische parlementsleden aan dat het verleden verre van dood is.

US Lawmaker Sees "Ample Evidence Of Turkey's Complicity In ISIS's Murderous Rampage"

By

Zero Hedge

At this point, it’s abundantly clear that the US is on the wrong side in the Mid-East.

Washington has always resorted to covert operations and support for unsavory characters on the way to bringing about regime change in countries whose governments aren’t deemed conducive to American interests. That’s nothing new.

Usually, however, there’s at least a semi-plausible argument to be made for why Washington feels the need to support one side over the other.

In Syria, there’s no such argument.

hamireee.jpgThe idea that the Russians and Iranians represent a bigger to the world than ISIS doesn’t even make sense to the most clueless members of the American electorate and indeed, the very idea Putin that is more dangerous than Baghdadi isn’t consistent with Washington’s contention that Islamic State represents the greatest threat to mankind since the Reich. Furthermore, more and more Westerners are starting to understand that the Saudis and their brand of puritanical Islam are really no different from ISIS – the only real distinction between the two is in how many barrels of oil they pump each day. The implication of that rather sobering assessment is that perhaps Washington should be supporting Tehran rather than Riyadh when it comes to picking a Mid-East power broker ally.

And then there’s Turkey, where NATO stood aside and watched as Erdogan started a civil war in order to nullify a democratic election outcome. Now, he’s shooting down Russian planes and trafficking ISIS crude.

In short: this makes absolutely no sense. The US should be aligned with Russia and Iran in Syria, not with Turkey, not with Saudi Arabia, not with Qatar (all of whom fund Sunni extremism) and most certainly not with the FSA, al-Nusra, and/or ISIS.

Well, thankfully, US lawmakers are beginning to wake up to what’s going on as evidenced by Hawaii congresswoman Tulsi Gabbard’s campaign to stop what she calls the “illegal war” against Assad. In the latest example of lawmaker revolt against Washington’s Syria strategy, Rep. Dana Rohrabacher, chairman of the House Foreign Affairs Subcommittee on Europe, Eurasia, and Emerging Threats recently issued a statement on everything the US is doing wrong. It’s presented below without further comment.

*  *  *

Via Rep. Dana Rohrabacher’s Facebook page

Rohrabacher Statement on Turkey’s Clash with Russia

WASHINGTON – Rep. Dana Rohrabacher, chairman of the House Foreign Affairs Subcommittee on Europe, Eurasia, and Emerging Threats, on Saturday issued the following statement concerning Turkey’s shooting down of a Russian jet fighter on the Turkey-Syria border:

It is imperative that American decision-makers admit to themselves and begin basing their decisions on the hard fact that Islamic terrorism poses the primary threat to our safety and the peace of the world.

Our president seems incapable of uttering the phrase Islamic terrorism, much less of overseeing a policy that will defeat this evil. His incoherence is ever more evident as events in Syria unfold.

Not radical Islam, but the Russians have been portrayed to us as the villains in this chapter of history. Yet our government demonstrates a lack of will, incompetence, or both, in confronting the most monstrous of the radical Islamic marauders now spilling vast quantities of innocent blood in the Middle East — as well as in Africa and France.

When Russia courageously stepped into the breach we should have been applauding its willingness to confront ISIS. Instead, we continue to denigrate Russians as if they were still the Soviet Union and Putin, not Islamic terrorists, our most vicious enemy.

So now we see the travesty of a harsh condemnation of the Russians for introducing air strikes against terrorists who will murder Americans if they get the chance.

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Yes, Russia does this to protect Syria’s authoritarian Assad regime, which has close ties to Moscow. So what?

Assad, like Iraq’s Saddam Hussein, is no threat to the United States or the Western world. If Assad is forced out of power he will eventually be replaced by an Islamic terrorist committed to raining down mayhem on Western countries.

Today we witness the spectacle of American decision- makers, in and out of the Obama administration, joining forces with a Turkish regime that grows more supportive of the radical Islamist movement. There is ample evidence of President Erdogan’s complicity in ISIS’s murderous rampage through Syria and Iraq.

Yet, we hold our public rebukes for the Russians, who are battling those terrorists. A Russian plane on an anti-terrorist mission did violate Turkish airspace, just as Turkish planes have strayed into Greek airspace hundreds of times over the last year. This overflight was no threat to Turkey. Still, it was shot down, as was a Russian helicopter on the way to rescue the downed Russian pilot.

Why do Americans feel compelled to kick Russia in the teeth? Russia’s military is attacking an enemy that would do us harm. Why ignore the hostile pro-terrorist maneuvering of Turkish strongman Erdogan?

President Obama is wrong. American politicians who try to sound tough at Russia’s expense in this case are not watching out for the long-term interests of the United States by undermining those fighting our primary enemy, Islamic terrorists.

Russia should be applauded. Instead, it is being castigated for doing what our government is unwilling to do to confront the terrorist offensive now butchering innocent human beings from Africa, to the Middle East, to the streets of Paris.

If being in NATO means protecting Erdogan in this situation, either he shouldn’t be in NATO or we shouldn’t.

Reprinted with permission from Zero Hedge.

Les divines surprises de François Hollande

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Les divines surprises de François Hollande

Jan Marejko
Philosophe, écrivain, journaliste
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

A l’exception de la Suisse et quelques autres pays, les démocraties modernes sont des machines à diluer le pouvoir. Ce n’est plus d’une communauté que s’occupent les gouvernants, mais de la promotion d’un individu affranchi de toutes les limites imposées par la nature ou la tradition. Pour stimuler cette promotion, il faut transformer les hommes politiques en gestionnaires d’individus autosuffisants. Plus question de les déranger, ces individus, parce que chacun d’eux est tout absorbé par son désir de s’épanouir sans ne rien devoir à personne. Ce ne sont plus les nations qui sont souveraines mais des petits « moi » arc-boutés sur les droits de l’homme. Les voûtes de nos cathédrales consuméristes n’abritent plus une collectivité parce que, désormais, chacun a sa petite voûte sous laquelle il cultive le petit jardin de ses petits caprices.

Dès lors, un gouvernant qui dirigerait un pays au nom du bien commun serait très malvenu. Il pourrait ignorer, voire mépriser ces petits jardins. Non, vraiment, ce n’est pas un gouvernant que veulent les démocraties modernes, mais un jardinier général attentif à la santé de toutes les petites plantes infiniment diverses qui poussent dans des âmes avides de jouissances anodines qui ne dérangeront jamais l’ordre des choses.

François Hollande remplit cette condition. Cet individu sans substance est à la tête d’un des plus grands pays occidentaux. La Suisse n’est pas épargnée par ce phénomène qui consiste en la production d’une classe politique terne, comme on vient de le voir avec la mise à l’écart d’Oskar Freysinger par son propre parti. Parviennent à obtenir des sièges dans des exécutifs ou des législatifs des individus lisses et lissés. Pour notre pays ce n’est pas trop grave, puisque nous sommes toujours neutres et que nous n’avons pas besoin d’un de Gaulle pour conduire notre politique étrangère en attendant d’elle qu’elle nous fasse exister. Autrement dit, nous pouvons faire l’économie du charisme mais la France, elle, ne le peut pas. Sa cohérence nationale a toujours dépendu de sa posture face à l’étranger. Il lui faut un leader et François Hollande n’en n’est pas un, raison pour laquelle les attentats de Paris et la COP21 ont été une divine surprise pour lui. Ces deux événements lui ont en effet permis de se poser d’une part en grand défenseur de la France et d’autre part en sauveur de la planète. Ce n’est pas rien et ça aide à mettre de la substance dans un gouvernement qui n’en a pas. Mais va-t-il pouvoir se maintenir à cette hauteur ?

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Non, pour deux raisons. La première est qu’il ne peut continuer indéfiniment à orchestrer des lamentations avec manifestations et défilés soutenus par la communauté internationale. Il ne peut pas non plus continuer pour longtemps à fayoter les chefs d’État de cette communauté qui n’est d’ailleurs pas une. La deuxième raison est qu’il ne va pas pouvoir rester sauveur de la planète. Un sauveur ne mégote pas sur quelques degrés de plus ou de moins dans 50 ou 100 ans.

La légitimité de François Hollande est donc fragile comme l’est la légitimité démocratique un peu partout. Cette fragilité n’est pas grave dans le train-train des votes et élections, mais en temps de crise, elle éclate au grand jour. C’est ce qui va se passer en France une fois calmés les chœurs de pleureuses et les dénonciations outragées d’affreux barbares. Les dénoncer avec des trémolos dans la voix, ça ne mange pas de pain, mais à la longue, ça fait sourire les barbares et ça décourage les troupes censées les combattre.

Que se passera-t-il lorsque les cavalcades hollandaises s’essouffleront ? Certains parlent de guerre civile. Une chose est sûre : si une telle guerre devait advenir, ce ne sont pas de telles cavalcades qui pourraient l’empêcher. En fait, elles pourraient même provoquer une telle guerre.

Jan Marejko, 4 décembre 2015

En dynamitant le gazoduc South Stream, l'Union Européenne fait encore davantage pivoter la Russie et la Turquie vers l'Eurasie

L’Union européenne aurait donc infligé une défaite à Poutine en le forçant à abandonner le projet de gazoduc South Stream. C’est du moins ce qu’entonnent les médias institutionnels occidentaux. Quelle absurdité ! La réalité sur le terrain va dans un tout autre sens

En abandonnant le gazoduc South Stream au profit d’un Turk Stream, la toute dernière manœuvre spectaculaire dans la saga du Pipelinistan [1] ne manquera pas de causer une énorme onde de choc géopolitique dans toute l’Eurasie, et ce, pour un bon moment. C’est le nouveau grand jeu eurasiatique à son meilleur.

Résumons. Il y a quelques années, la Russie a conçu deux projets de gazoduc : le Nord Stream (aujourd’hui pleinement opérationnel) et le South Stream (toujours à l’état de projet), afin de contourner l’Ukraine, qui est peu fiable comme pays de transit. Voilà maintenant que la Russie propose un nouvel accord avantageux avec la Turquie, qui lui permet d’ignorer la position de la Commission européenne, qui n’est pas constructive (dixit Poutine).

 Une récapitulation s’impose pour comprendre le jeu en cours. Il y a cinq ans, j’ai suivi de très près l’opéra absolu [2] du Pipelinistan qu’était la guerre des gazoducs rivaux South Stream et Nabucco. Nabucco avait fini par être écarté. Le South Stream pourrait éventuellement ressusciter, mais seulement si la Commission européenne retrouve ses sens (ne parions pas là-dessus)

S’étendant sur 3 600 kilomètres, le South Stream devait être en place en 2016. Ses embranchements devaient atteindre l’Autriche, les Balkans et l’Italie. Gazprom en possède 50 % des parts, l’italienne ENI 20 %, la française EDF 15 % et l’allemande Wintershall, une filiale de BASF, 15 %. Le moins qu’on puisse dire, c’est que ces grandes sociétés énergétiques européennes ne sont pas particulièrement enchantées. Pendant des mois, Gazprom et la Commission européenne tergiversaient à propos d’une solution. Sans surprise, Bruxelles a fini par succomber à sa propre médiocrité ainsi qu’aux pressions continuelles des USA par rapport à la Bulgarie, son maillon faible.

La Russie va toujours construire un gazoduc sous la mer Noire, sauf qu’il sera redirigé vers la Turquie et livrera la même quantité de gaz que celle prévue dans le projet South Stream (un point crucial). La Russie va aussi construire un nouveau terminal pour le gaz naturel liquéfié (GNL) en Méditerranée. Gazprom n’a donc pas dépensé cinq milliards de dollars (financement, coûts d’ingénierie) en vain. La réorientation s’avère un choix judicieux du point de vue économique. La Turquie est le deuxième client en importance de Gazprom après l’Allemagne. Son marché est plus important que ceux de la Bulgarie, de la Hongrie et de l’Autriche réunis.

La Russie propose aussi un réseau unique de transport gazier capable de livrer du gaz naturel de partout en Russie à n’importe quel terminal à ses frontières.

Finalement, comme si elle en avait besoin, la Russie obtient une autre preuve éclatante que le véritable marché à forte croissance de l’avenir, c’est en Asie qu’il se trouve, plus particulièrement en Chine, et non pas dans une Union européenne timorée, stagnante, dévastée par l’austérité et paralysée politiquement. Le partenariat stratégique russo-chinois en constante évolution sous-entend que la Russie est complémentaire à la Chine, en excellant dans les projets d’infrastructure majeurs comme la construction de barrages et l’installation de pipelines. Nous assistons ici à des relations d’affaires trans-eurasiatiques ayant une grande portée géopolitique et non pas à l’adoption de politiques teintées d’idéologie.

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Alexandr Zudin

 Une défaite russe ? Vraiment ?

La Turquie aussi en sort gagnante. Car outre l’accord avec Gazprom, Moscou va mettre sur pied rien de moins que l’ensemble de l’industrie nucléaire de la Turquie, sans oublier l’augmentation des échanges liés au pouvoir de convaincre (plus de commerce et de tourisme). Mais avant tout, la Turquie se rapproche encore plus d’être acceptée comme membre à part entière de l’Organisation de coopération de Shanghai (OCS). Moscou milite activement en ce sens. La Turquie accéderait ainsi à une position privilégiée comme plaque tournante à la fois de la ceinture économique eurasiatique et, évidemment, de la ou des nouvelles routes de la soie chinoises. L’Union européenne bloque l’entrée de la Turquie ? La Turquie se tourne vers l’Est. Un exemple éloquent d’intégration eurasiatique.

Washington fait tout en son pouvoir pour créer un nouveau mur de Berlin s’étendant des pays baltes à la mer Noire, afin de mieux isoler la Russie. Pourtant, l’équipe chargée de ne pas faire de conneries à Washington n’a jamais vu venir le dernier coup que le maître du judo, des échecs et du jeu de go Poutine leur réservait, à partir de la mer Noire en plus.

Depuis des années, Asia Times Online rapporte que l’impératif stratégique clé de la Turquie est de se positionner comme un carrefour énergétique indispensable de l’Orient à l’Occident, d’où transitera aussi bien le pétrole irakien que le gaz naturel de la mer Caspienne. Du pétrole de l’Azerbaïdjan transite déjà par la Turquie via l’oléoduc BTC (Bakou-Tbilissi-Ceyhan) mis de l’avant par Bill Clinton et Zbig Brzezinski. La Turquie deviendrait aussi le carrefour du gazoduc transcaspien, si jamais il se concrétisait (rien n’est moins sûr), pour acheminer le gaz naturel du Turkménistan à l’Azerbaïdjan, puis à la Turquie jusqu’à sa destination finale en Europe.

Ce qu’a accompli le maître du judo, des échecs et du jeu de go Poutine en un seul coup, c’est de faire en sorte que les sanctions stupides imposées par l’Union européenne se tournent de nouveau contre elle. L’économie allemande souffre déjà beaucoup des pertes commerciales avec la Russie.

La brillante stratégie de la Commission européenne gravite autour de ce qu’on appelle le troisième paquet énergie, qui oblige les gazoducs et leur contenu d’appartenir à des sociétés distinctes. La cible a toujours été Gazprom, qui possède des gazoducs dans de nombreux pays en Europe centrale et de l’Est. Puis la cible dans la cible a toujours été le gazoduc South Stream.

Il appartient maintenant à la Bulgarie et à la Hongrie qui, soit dit en passant, se sont toujours opposées à la stratégie de la Commission européenne, d’expliquer le fiasco à leurs populations et de maintenir la pression sur Bruxelles. Après tout, ces pays vont perdre une fortune, sans parler du gaz qu’ils n’obtiendront pas avec la mise au rancart du South Stream.

Voici ce qu’il faut retenir :

  • la Russie vend encore plus de gaz… à la Turquie ;
  • la Turquie obtient le gaz dont elle a grandement besoin à un prix d’ami ;
  • les membres de l’Union européenne, sous la pression de l’Empire du Chaos, en sont réduits à courir encore et encore comme des poules sans tête dans les sombres couloirs de Bruxelles, en se demandant qui les a décapités.

Pendant que les atlantistes reviennent à leur mode par défaut et concoctent encore d’autres sanctions, la Russie continue à acheter de plus en plus d’or.

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La relation Turquie-Russie, vue par le dessinateur libanais Hassan Bleibel : désaccord sur la Syrie, la Crimée et Chypre, accord sur le gaz et le pétrole

 Méfiez-vous des lances néoconservatrices

Le jeu n’est pas terminé, loin de là. Dans un proche avenir, bien des variables vont se croiser.

Ankara pourrait changer son jeu, mais c’est loin d’être assuré. Le président Erdogan, le sultan de Constantinople, voit sûrement dans le calife Ibrahim de l’EIIS/EIIL/Da’ech un rival voulant lui ravir sa superbe. Le sultan pourrait ainsi caresser l’idée d’atténuer ses rêves néo-ottomans et revenir à sa doctrine de politique étrangère précédente, soit zéro problème avec nos voisins.

Pas si vite ! Jusqu’ici, Erdogan était engagé dans le même jeu que la maison des Saoud et la maison des Thani, c’est-à-dire se débarrasser d’Assad pour assurer la mise en place d’un oléoduc partant de l’Arabie saoudite et d’un gazoduc partant du gisement gazier géant South Pars/North Dome au Qatar. Ce gazoduc liant le Qatar, l’Irak, la Syrie et la Turquie entre en concurrence avec le gazoduc Iran-Irak-Syrie déjà proposé, dont les coûts s’élèvent à 10 milliards de dollars. Le client final, c’est bien sûr l’Union européenne, qui cherche désespérément à échapper à l’offensive de Gazprom.

Qu’arrivera-t-il maintenant ? Erdogan va-t-il mettre fin à son obsession qu’Assad doit partir ? Il est trop tôt pour le dire. Le ministère des Affaires étrangères turc est en effervescence. Washington et Ankara sont sur le point de s’entendre à propos d’une zone d’exclusion aérienne le long de la frontière turco-syrienne même si, plus tôt cette semaine, la Maison-Blanche a insisté pour dire que l’idée avait été rejetée.

La maison des Saoud a l’air d’un chameau dans l’Arctique. Son jeu meurtrier en Syrie s’est toujours résumé à un changement de régime pour permettre la construction éventuelle d’un oléoduc de la Syrie à la Turquie parrainé par les Saoudiens. Voilà maintenant que les Saoudiens constatent que la Russie est sur le point de répondre à tous les besoins énergétiques de la Turquie, en occupant toujours une position privilégiée pour vendre encore plus de gaz à l’Union européenne dans un proche avenir. Qui plus est, Assad doit partir ne part pas.

Pour leur part, les néoconservateurs aux USA affûtent leurs pointes de lance empoisonnées avec enthousiasme. Dès le début de 2015, une loi sur une Ukraine libre pourrait être déposée à la Chambre des représentants. L’Ukraine y sera décrite comme un important allié des USA non membre de l’Otan, ce qui se traduira, en pratique, par une annexion virtuelle à l’Otan. Il faudra ensuite s’attendre à encore plus de provocation néoconservatrice turbopropulsée contre la Russie.

Un scénario possible serait qu’un vassal et chiot comme la Roumanie ou la Bulgarie, sous la pression de Washington, décide d’accorder aux navires de l’Otan le plein accès à la mer Noire. De toute façon, qui se soucierait qu’une telle décision violerait les accords existants au sujet de la mer Noire touchant à la fois la Russie et la Turquie ?

Entre aussi en compte un connu inconnu rumsfeldien dangereux, à savoir comment les pays fragiles des Balkans vont réagir à l’éventualité d’être subordonnés aux caprices d’Ankara. Bruxelles aura beau maintenir la Grèce, la Bulgarie et la Serbie dans une camisole de force, il n’en demeure pas moins que sur le plan énergétique, ces pays vont commencer à dépendre de la bonne volonté de la Turquie.

Pour le moment, contentons-nous de mesurer la magnitude de l’onde de choc géopolitique causée par le dernier coup du maître du judo, des échecs et du jeu de go Poutine. Préparez-vous aussi en vue du prochain épisode du pivot vers l’Eurasie amorcé par la Russie. Poutine se rend à Delhi la semaine prochaine. Attendez-vous à une autre bombe géopolitique.

Notes

[1] Guerre liquide : Bienvenue au Pipelineistan, Mondialisation.ca, 03-04-2009

[2] Tomgram : Pepe Escobar, Pipelineistan’s Ultimate Opera, TomDispatch.com, 01-10-2009

Pepe Escobar Пепе Эскобар

Original: Russia and Turkey pivot across Eurasia

Traduit par Daniel

Traductions disponibles : Italiano  Português 

Source: Tlaxcala, le 5 décembre 2014

Revolt Against the Fourth Estate

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Revolt Against the Fourth Estate

In the feudal era there were the “three estates”—the clergy, the nobility, and the commons. The first and second were eradicated in Robespierre’s Revolution. But in the 18th and 19th century, Edmund Burke and Thomas Carlyle identified what the latter called a “stupendous Fourth Estate.”

Wrote William Thackeray: “Of the Corporation of the Goosequill — of the Press … of the fourth estate. … There she is — the great engine — she never sleeps. She has her ambassadors in every quarter of the world — her courtiers upon every road. Her officers march along with armies, and her envoys walk into statesmen’s cabinets.”

The fourth estate, the press, the disciples of Voltaire, had replaced the clergy it had dethroned as the new arbiters of morality and rectitude. Today the press decides what words are permissible and what thoughts are acceptable. The press conducts the inquisitions where heretics are blacklisted and excommunicated from the company of decent men, while others are forgiven if they recant their heresies.

With the rise of network television and its vast audience, the fourth estate reached apogee in the 1960s and 1970s, playing lead roles in elevating JFK and breaking Lyndon Johnson and Richard Nixon.

Yet before he went down, Nixon inflicted deep and enduring wounds upon the fourth estate. When the national press and its auxiliaries sought to break his Vietnam War policy in 1969, Nixon called on the “great silent majority” to stand by him and dispatched Vice President Spiro Agnew to launch a counter-strike on network prejudice and power.

A huge majority rallied to Nixon and Agnew, exposing how far out of touch with America our Lords Spiritual and Lords Temporal had become. Nixon, the man most hated by the elites in the postwar era, save Joe McCarthy, who also detested and battled the press, then ran up a 49-state landslide against the candidate of the media and counter-culture, George McGovern. Media bitterness knew no bounds.

And with Watergate, the press extracted its pound of flesh. By August 1974, it had reached a new apex of national prestige.

In The Making of the President 1972, Teddy White described the power the “adversary press” had acquired over America’s public life.

The power of the press in America is a primordial one. It sets the agenda of public discussion, and this sweeping political power is unrestrained by any law. It determines what people will talk and think about — an authority that in other nations is reserved for tyrants, priests, parties and mandarins.

Nixon and Agnew were attacked for not understanding the First Amendment freedom of the press. But all they were doing was using their First Amendment freedom of speech to raise doubts about the objectivity, reliability and truthfulness of the adversary press.

Since those days, conservatives have attacked the mainstream media attacking them. And four decades of this endless warfare has stripped the press of its pious pretense to neutrality. Millions now regard the media as ideologues who are masquerading as journalists and use press privileges and power to pursue agendas not dissimilar to those of the candidates and parties they oppose.

Even before Nixon and Agnew, conservatives believed this. At the Goldwater convention at the Cow Palace in 1964 when ex-President Eisenhower mentioned “sensation-seeking columnists and commentators,” to his amazement, the hall exploded.

Enter The Donald.

His popularity is traceable to the fact that he rejects the moral authority of the media, breaks their commandments, and mocks their condemnations. His contempt for the norms of Political Correctness is daily on display. And that large slice of America that detests a media whose public approval now rivals that of Congress, relishes this defiance. The last thing these folks want Trump to do is to apologize to the press.

And the media have played right into Trump’s hand.

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They constantly denounce him as grossly insensitive for what he has said about women, Mexicans, Muslims, McCain, and a reporter with a disability. Such crimes against decency, says the press, disqualify Trump as a candidate for president.

Yet, when they demand he apologize, Trump doubles down. And when they demand that Republicans repudiate him, the GOP base replies:

Who are you to tell us whom we may nominate? You are not friends. You are not going to vote for us. And the names you call Trump — bigot, racist, xenophobe, sexist — are the names you call us, nothing but cuss words that a corrupt establishment uses on those it most detests.

What the Trump campaign reveals is that, to populists and Republicans, the political establishment and its media arm are looked upon the way the commons and peasantry of 1789 looked upon the ancien regime and the king’s courtiers at Versailles.

Yet, now that the fourth estate is as discredited as the clergy in 1789, the larger problem is that there is no arbiter of truth, morality, and decency left whom we all respect. Like 4th-century Romans, we barely agree on what those terms mean anymore.

Patrick J. Buchanan is the author of The Greatest Comeback: How Richard Nixon Rose From Defeat to Create the New Majority. Copyright 2015 Creators.com.

Mantenersi fermi nella notte del mondo. Appunti solstiziali

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Mantenersi fermi nella notte del mondo. Appunti solstiziali

Ex: http://www.ilprimatonazionale.it 

Dicembre. Ultimo mese dell’anno, il mese dei riepiloghi, delle chiusure, delle attese per i nuovi inizi. Il mese di Natale, come è stato in epoca cristiana e ancor più, ancor prima, in tutto il mondo indoeuropeo con le feste collegate al Solstizio d’Inverno, la Porta degli Dei, il momento sacro più importante.

A Roma le festività che si accavallavano in occasione del Solstizio invernale erano addirittura tre: i Saturnalia, dal 17 al 24 dicembre; gli Angeronalia, il 21 dicembre – giorno del Solstizio vero e proprio, quando Terra e Sole sono allineati nel perielio sull’asse maggiore dell’orbita di rivoluzione; infine il 25 dicembre, divenuto il Dies Natalis Solis Invicti sotto Aureliano, il giorno in cui il Sole rende visibile la sua rinascita grazie dell’apparente inversione del suo moto.

Prima che nel periodo imperiale il Sol Invictus divenisse il protagonista indiscusso di queste festività, nel mondo arcaico erano tre le divinità che entravano in gioco in queste feste: Saturno, Angerona e Giano. Angerona è forse la meno conosciuta, una dea rappresentata con il capo velato e soprattutto con un dito sulle labbra chiuse, ad indicare il silenzio. Ma il suo essere meno conosciuta di altre divinità non indica un’importanza minore, anzi. Angerona era la dea che proteggeva i Misteri – si dice anche che proteggesse il Nome Segreto di Roma affinché i nemici non potessero mai scoprirlo e quindi non potessero mai conquistare l’Urbe – era la dea che accompagnava il Mystes, l’iniziato, nel suo percorso.


Era la dea dei segreti sacri più profondi e importanti, la dea dei segreti inaccessibili e non rivelabili, sia perché “pericolosi” per i profani ma anche perché non comprensibili se non attraverso la partecipazione attiva ad essi, essendo sovra-sensibili e soprattutto sovra-razionali. Nel giorno degli Angeronalia, nel giorno in cui il Sole effettua astronomicamente il passaggio, i pontefici osservavano un profondo silenzio e officiavano i loro sacrifici mantenendo una tranquillità polare e immutabile mentre il caos dei Saturnalia dilagava tutto intorno a loro.

Diventavano così incarnazione di quel principio di assialità cosmica e luminosa che regge il mondo rimanendo immutato di fronte all’incessante movimento dei cicli cosmici. Lo stesso principio che, mutuato dal mondo germanico attraverso un sempreverde illuminato, sarebbe diventato l’Albero di Natale, emblema dell’Albero Cosmico.

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Giano, conosciuto dai profani come il “dio bifronte” o “dio degli inizi”, condivideva con Angerona la potestà degli stati di passaggio. Giano ha la stessa radice di “ianua”, ovvero “porta”. Suo simbolo era la nave, l’emblema del viaggio iniziatico in tutte le civiltà, da Odisseo e Argo fino alla Barca Solare dei misteri di Iside e Osiride. Giano è colui che custodisce l’universo e ha il potere di volgerlo sui cardini, come ci dice Ovidio. È colui che ha le chiavi che aprono e chiudono, che legano e slegano, il dio che unisce e dissolve, colui che controlla i due movimenti contrastanti del cosmo attraverso il suo terzo volto, quello nascosto, quello che sintetizza l’unità degli opposti e che di Due fa Uno.

Infine Saturno. La figura di Saturno è sicuramente più nota rispetto alle altre due. Ma paradossalmente il suo essere “più famoso” lo ha reso anche il più sensibile a clamorosi fraintendimenti. Saturno per la maggior parte delle persone è il malvagio titano Kronos che mangia i suoi stessi figli, il dio nero con un carro trainato da draghi che rappresenta le forze divoranti e dissolventi a cui gli dei olimpici si devono opporre. Tutto ciò è parziale e impreciso. Giano e Saturno erano divinità molto legate, quasi inscindibili. Si dice che fu Giano ad accogliere Saturno nel Lazio, divenuto appunto la Saturnia Tellus, dopo che questi fu esiliato dal suo regno dell’Età dell’Oro. Saturno era infatti il sovrano dell’Era che fu prima di ogni inizio, l’Era in cui il tempo non esisteva, l’Era di felicità in cui ogni cosa dava frutto perché ogni potenza diveniva atto – per questo nel Lazio Saturno fu anche divinità agricola che proteggeva il seme nella sua fioritura – l’Era in cui l’uomo era in armonia e unità con il Divino.

Eppure Saturno si addormenta, il suo regno si sospende. E il tempo inizia a fluire, a far invecchiare, a divorare nel suo ciclo di morte e rinascita. Diventa il Kronos dell’immaginario comune, il drago che divora incessantemente, che non riesce mai a sfamarsi, come l’ego che incatena ogni ascesi o come il pensiero associativo che con il suo continuo fluire non permette di fermarsi e passare. Saturno è dunque tanto l’Oro quanto il piombo alchemico. Ma come insegna la stessa Arte Regale, è nel piombo che vi è l’Oro, è dal piombo che si fa l’Oro ed è solo rettificando il piombo che si realizza l’Oro.

Le feste dei Saturnalia che precedevano il Solstizio sono un rituale che realizza esattamente questo processo. Nelle notti più oscure, in cui il Sole-Oro è sempre più avvolto dall’oscurità plumbea della notte invernale, il mondo viene sconvolto dal caos. Ogni ordine sociale costruito tramite una gerarchia evocata dal piano divino viene sovvertito. Gli schiavi comandano sugli uomini liberi, la dissonanza e la perdita delle forme prende il sopravvento nelle città. Viene portata per le strade l’effige di un re vecchio, malato, infermo, un re che divorato dal tempo ha perso l’assialità e quindi diventa preda delle forze caotiche. Ma c’è chi mantiene la calma, il silenzio e la gerarchia, c’è chi conserva i segreti che neanche le forze più vulcaniche e infere del caos possono intaccare. C’è chi mantiene l’assialità quando tutto intorno è caos, ci sono le Angeronalia durante i Saturnalia. Ma chi in silenzio segue i misteri di Angerona non lo fa solamente per “mantenere” i segreti, per “conservare” ciò che è sacro in attesa che il caos finisca e che torni il Saturno dell’Età dell’Oro.

Chi segue Angerona agisce, il Mystes è un soldato, un milite. Egli sa che ciò che è senza tempo non può avere inizio o fine, sa che attendere nel tempo l’inizio di qualcosa che è a-temporale è pura follia. Sa che Saturno celato va risvegliato e che per raggiungerlo c’è bisogno di Giano, il dio sia degli inizi che della fine e che quindi è hic et nunc, in ogni momento e in ogni luogo, in ogni punto di contatto tra ciò che è qui e ciò che è Sopra, tra ciò che è tempo e ciò che è Eternità, proprio come l’Urbe che è anche Orbe fondata nel cuore della Saturnia Tellus in cui regnano tanto Giano quanto Saturno e in cui si può incarnare l’azione sacra che permetta di mantenersi immutabile nel caos e attraversare la porta del guardiano cosmico che veglia sul sonno del dio celato. Solo così la follia che vede al vertice gli schiavi e i loro principi degradanti che rendono schiavi anche gli uomini liberi può aver fine, preannunciando una nuova Era in cui il re vecchio, malato e malfermo può morire e rinascere nel Fuoco per tornare ad essere Re, il Re Saturno che torna al suo splendore a-temporale.

Carlomanno Adinolfi

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samedi, 05 décembre 2015

La coalition impossible

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La coalition impossible

Ou comment la destruction du SU-24 russe fait tomber le masque de l’OTAN…
 
Richard Labévière
Journaliste, Rédacteur en chef  du magazine en ligne : prochetmoyen-orient.ch

C’est l’incident aérien le plus grave jamais survenu entre un membre de l’OTAN et la Russie depuis 1950. Mardi 24 novembre, un Soukhoï 24 (SU-24) de l’armée de l’air russe a été abattu par deux F-16 turcs  dans la région du Hatay, au nord-ouest de la Syrie. Selon les informations de prochetmoyen-orient.ch, fondées sur plusieurs sources militaires russes et celles de deux services européens de renseignement, l’avion russe évoluait dans l’espace aérien syrien, à une quinzaine de kilomètres de la frontière turque et ce sont bien les deux F-16 turcs qui ont pénétré dans le ciel syrien en suivant une « procédure d’interception directe », lancée contre l’appareil russe.

Cette opération aurait été directement initiée et gérée par l’état-major central des forces armées turques basé dans la banlieue d’Ankara. Elle aurait été programmée au lendemain des frappes effectuées quelques jours auparavant par Moscou contre des camps de jihadistes turkmènes, dans le nord-ouest de la Syrie. Et cette mission de représailles était d’autant plus importante pour le commandement d’Ankara,  qu’une dizaine de membres des forces spéciales turques, engagées aux côtés des jihadistes sur territoire syrien, font partie des victimes des raids de la chasse russe.

Plusieurs informations supplémentaires  renforcent cette lecture d’une opération programmée dont le Pentagone était parfaitement tenu informé, presque heure par heure… Selon les sources de prochetmoyen-orient.ch, 27 chars déployés dans des provinces occidentales de la Turquie avaient été acheminés sur des plateformes ferroviaires à Gaziantep, dans le sud du pays, d'où ils avaient gagné la frontière syrienne sous escorte de la police et de la gendarmerie. Dans ce contexte, l’état-major turc menait l’une des manœuvres inter-armées les plus importantes des dix dernières années le long de sa frontière syrienne. Selon un communiqué de l'état-major général, cette opération a réuni 18 chasseurs F-16. Enfin, nos sources confirment qu’Ankara a bien consulté Washington avant d’abattre le SU-24 !


Sans surprise, le président Barack Obama a aussitôt exprimé son soutien à la Turquie, deuxième armée de l’OTAN, en avançant son « droit à défendre l’intégrité de son territoire national », juste avant Jens Stoltenberg, le secrétaire général de l’Alliance, qui a affirmé sans ciller que l’avion russe avait bel et bien violé l’espace aérien turc ! Plus discrète mais sans ambiguïté, Angela Merkel y allait elle-aussi de son soutien obligé à Ankara.  En effet, il s’agit de ne pas indisposer Recep Erdogan qui continue d’exercer son chantage aux migrants sur une Union européenne (UE) tétanisée qui s’apprête à lui verser trois milliards d’euros. Ce pauvre Jean-Claude Junker, qui préside la Commission comme un club de foot de deuxième division, n’a pas compris que ce « loyer » n’était que la caution d’un bail très éphémère. Erdogan fera boire à l’UE le calice jusqu’à la lie en exfiltrant, au coup par coup et selon son agenda et ses impératifs, les réfugiés des guerres proches et moyen-orientales qui campent à ses frontières.

Ce chantage aux migrants n’est qu’une carte supplémentaire dans le jeu d’Erdogan qui prétend poursuivre ses procédures d’adhésion à l’UE au moment même où il bombarde prioritairement des combattants kurdes pourtant engagés au sol et en première ligne contre les terroristes de Dae’ch  et alors qu’il  accentue sa dérive fascisante en menaçant toujours plus les libertés civiles et politiques. Ce n’est pas la question du jour, pourrait-on dire, mais elle constitue un handicap originel, sinon original : comment l’UE peut-elle sérieusement continuer à envisager l’adhésion d’un pays qui occupe l’un de ses Etats membres depuis 1974 ? Comment s’accorder sur des « valeurs européennes communes », alors qu’Ankara n’a toujours pas reconnu le génocide arménien ? Etc..

Ces détails de l’histoire n’encombraient certainement pas les consciences de Margaret Thatcher et de Ronald Reagan, estimant - à l’unisson en leur temps - que pour tuer l’Europe politique, il fallait l’élargir à l’infini pour la transformer en un grand marché, une espèce de grande Suisse néolibérale en y intégrant prioritairement les anciens membres du Pacte de Varsovie et la Turquie, porte-avions de l’OTAN, veillant à l’articulation stratégique de l’Europe et de l’Asie. Nous y sommes : Thatcher et Bush ont gagné ! Leurs héritiers - Bush/Obama, Blair/Cameron, Sarkozy/Hollande - suivent la même ligne et en rajoutent. Détruisant tout ce qui subsistait de l’héritage gaullien, Paris a rejoint le commandement intégré de l’OTAN. L’UE se charge désormais d’interdire les fromages à pâte molle pendant que l’Alliance Atlantique s’occupe des choses sérieuses… Et c’est principalement cette évidence géostratégique, sur la table et aux yeux de tous, qui empêche la formation d’une seule et unique coalition contre Dae’ch et le terrorisme salafo-jihadiste.

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Dans les limites de cette imparable équation et après le crash de l’avion russe dans le Sinaï, les attentats de Beyrouth, Bagdad, Paris et Tunis, il était  sans doute pertinent de rencontrer personnellement cinq chefs d’Etat ou de gouvernement , dont trois membres permanents du Conseil de sécurité des Nations unies. Mais le bilan de ce marathon diplomatique est plutôt maigre, estime un diplomate français qui a suivi la tournée de très près : « toujours plus démocratiques que Sa majesté, nos ‘amis’ britanniques ont promis d’ « intervenir » à nos côtés après un débat aux Communes ; les Allemands ont promis quelques boîtes de choucroute aux coopérants militaires présents en Irak ; le Pentagone nous transmettra du renseignement transgénique tandis que les Chinois relisent Confucius… Restait Vladimir Poutine, qui avait proposé exactement ce que souhaite aujourd’hui François Hollande, fin septembre à la tribune de l’Assemblée de l’ONU… avant de se faire éconduire poliment - à cause de l’Ukraine notamment. Il a eu la délicatesse de ne pas revenir sur le fiasco des porte-hélicoptères Mistral… »  

Mais là, c’est François Hollande qui est gêné aux entournures. « Notre travailleur de la mer reste accroché au bigorneau du « ni-ni » (ni Dae’ch-ni Bachar), sans repérer la pieuvre et ses multiples tentacules qui menacent la profondeur des ondes planétaires », poursuit notre diplomate qui conclut : « mais surtout, comme membre à part entière d’une OTAN dont la France vient de réintégrer le Commandement intégré, le président de la République peut difficilement faire cavalier seul avec le camarade Poutine ! Sur ce plan, Barack Obama reste le patron incontesté et donne le « la ». Ce que nos lumières du Quai d’Orsay ont le plus grand mal à comprendre : c’est précisément que le président américain ne mène pas sa ‘guerre contre la terreur’ avec le même logiciel que celui de Laurent Fabius ». Et François Hollande ne peut plus, désormais parler de « coalition » avec Moscou mais doit s’en tenir à une simple « coordination »concernant  les frappes !

Un téléphone rouge relie déjà les états-majors américain, russe et syrien afin d’éviter que tous leurs avions n’entrent en collision ou ne se tirent dessus. Ankara n’a pas décroché le même combiné… Cet oubli n’est pas un dysfonctionnement et correspond au contraire à une implacable logique. Au début de son deuxième mandat, Barack Obama avait clairement dit que les intérêts des Etats-Unis à l’horizon 2040 se situaient dans l’Asie-Pacifique et en Asie centrale, reprenant mot pour mot la définition des priorités « eurasiatiques » du Polonais Zbigniew Brzezinski. Toujours très influent parmi les stratèges démocrates, cet ancien conseiller à la Sécurité de Jimmy Carter estime depuis la fin de la Guerre froide que les Etats-Unis doivent décentrer leurs engagements moyen-orientaux pour les redéployer en Asie afin de contenir la Chine et de prévenir le retour stratégique de la Russie, d’où une nécessaire normalisation avec l’Iran notamment.

Ainsi le Pentagone gère les crises irako-syriennes, israélo-palestiniennes et pakistano-afghanes en fonction de celle de l’Ukraine, de celles d’Europe centrale, régulièrement attisées par la Pologne et la Lituanie, ainsi que des nouveaux foyers de confrontation, dont le Grand nord arctique[1] où un partage des richesses naturelles et des positions stratégiques s’annonce des plus problématiques… Dans la plupart de ces déchirures de la mondialisation contemporaine, l’UE fait fonction de cheval de Troie de l’OTAN qui avance masqué, son programme de bouclier anti-missiles sous le bras. Cette nouvelle arme a deux fonctions essentielles : achever le démantèlement des industries européennes de défense dont celle de la France éternelle et essouffler celles de la Russie et de la Chine comme le fît, en son temps, le programme reaganien de « guerre des étoiles ».

Par conséquent, il était organiquement impossible que Barack Obama accepte la proposition de Vladimir Poutine d’une coalition unique anti-Dae’ch, comme il est inconcevable de voir François Hollande pactiser, plus que de raison, avec le président russe. C’est d’une aveuglante évidence : la Guerre froide se poursuit tranquillement par d’autres moyens… depuis le démantèlement du Pacte de Varsovie et les consolidations successives d’une OTAN dont la principale mission demeure la reproduction de l’hégémonie stratégique, économique, politique, sinon culturelle de Washington et de ses supplétifs.

A cet égard, le lancement à grand tam-tam de la série policière Occupied constitue l’un des derniers symptômes du déferlement de la propagande néoconservatrice qui submerge nos médias depuis plusieurs années. Publicité : « Qu'aurions-nous fait pendant l'Occupation ? Aurions-nous eu le courage de résister à l'envahisseur ou la lâcheté de continuer à vivre presque comme avant ? Telle est l'obsédante question soulevée par la série Occupied, diffusée à partir de ce jeudi soir sur Arte à 20 h 55. À l'origine de ce thriller politique au budget de 11 millions d'euros, l'écrivain norvégien Jo Nesbo, qui a imaginé l'invasion de la Norvège par la Russie ». Sans commentaire !

La question demeure depuis la chute du Mur de Berlin : pourquoi ne pas avoir démantelé l’OTAN, comme on l’a fait avec le Pacte de Varsovie pour initier un nouveau système de sécurité collective englobant l’ensemble de l’Europe continentale de l’Atlantique à l’Oural ? Inconcevable pour Washington où la grande majorité des policy makers se considéraient comme seuls vainqueurs de la Guerre froide, sûrs de leur droit historique à engranger sans partage les dividendes de la nouvelle donne. Et comme toujours, le Pentagone et Hollywood devaient justifier, habiller et moraliser les profits de leur infaillible messianisme : l’OTAN partout, c’est pour le bien de l’humanité tout entière…

Le 27 mai 1997, Javier Solana - à l’époque patron de l’OTAN - et Boris Eltsine (à jeun), signaient à Paris un « Acte-fondateur OTAN-Russie ». Sans cynisme, Washington saluait un « partenariat naturel ». Ses propagandistes communiquaient : « l'Acte fondateur OTAN-Russie instaure solidement la base d'un partenariat de sécurité permanent entre les deux parties, balayant l'idée qu'elles devaient être ennemies à tout jamais. La signature de l'Acte ne signifie pas que les différences d'orientation ou de vues s'évanouiront du jour au lendemain. Mais elles pourront s'estomper, au fil du temps, à travers un processus de larges consultations régulières sur des questions politiques et de sécurité au sein du nouveau Conseil conjoint permanent. La tâche principale consistera à passer du papier à la réalité en exploitant pleinement les nouvelles occasions ». On connaît trop la suite…

Trois ans auparavant, la Russie avait rejoint le « Partenariat pour la paix », la Russie et l’OTAN signant plusieurs accords importants de coopération. Ces derniers portaient notamment sur la lutte contre le terrorisme, la coopération militaire (notamment le transport par la Russie de fret non militaire de la FIAS en Afghanistan), la lutte contre le narcotrafic, la coopération industrielle et la non-prolifération nucléaire. Puis fut inventé le Conseil OTAN-Russie (COR), une instance de consultation, de coopération, de décision et d'actions conjointes dans le cadre duquel les différents États membres de l'OTAN et la Russie devaient travailler ensemble en tant que partenaires égaux sur toute une gamme de questions de sécurité d'intérêt commun.

Le COR était officiellement créé le 28 mai 2002, date à laquelle le président russe Vladimir Poutine et les membres de l'OTAN signaient sur la base militaire italienne de Patricia di Mare la déclaration de Rome. Le 1er avril 2014, en réponse au rattachement de la Crimée à la Russie, intervenant après la destitution du gouvernement ukrainien de Viktor Ianoukovytch et le coup de force portant au pouvoir à Kiev un gouvernement pro-occidental, l'OTAN décidait unilatéralement de mettre un terme à la coopération avec la Russie, suspendant de fait le conseil OTAN-Russie.

Depuis, nous ne sommes pas sortis de cette domination géostratégique de l’OTAN qui continue à supplanter notre souveraineté nationale et celle de nos partenaires au profit des priorités et des intérêts de Washington. Le mot de la fin provisoire revient à un « économiste atterré » qui nous dit : « nous n’arrivons pas à réguler une mondialisation devenue folle - ‘guerre de tous contre tous’ - qui nous fait régresser à de vieilles logiques westphaliennes où les Etats classiques sont confrontés en permanence à des homologues ‘ Etats faillis’, de plus en plus nombreux, au sein desquels règnent les seigneurs de la guerre, les mafias et les grandes sociétés transnationales majoritairement anglo-saxonnes ».  

Richard Labévière, 1 er décembre 2014 

[1]              François Thual et Richard Labévière : La bataille du Grand nord a commencé… Editions Perrin, 2008.

1914-1918 : LES FAITS TÊTUS DE LA GRANDE GUERRE

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1914-1918 : LES FAITS TÊTUS DE LA GRANDE GUERRE

Par Louis-Christian Gautier aux Éditions Dualpha

Fabrice Dutilleul
Ex: http://metamag.fr
 
1418.jpgFabrice Dutilleul : En cette période de « centenaire » ne peut-on considérer 1914-1918 comme un sujet aujourd’hui rebattu ?
Louis-Christian Gauthier : Ce n’est pas parce qu’un sujet à suscité une masse de publications, généralement à but commercial et qui répètent souvent la même chose, qu’il est épuisé. Je n’ai pas prétendu refaire une histoire de la « Grande Guerre », mais à en éclairer certains aspects méconnus ou jusqu’ici traités de manière conventionnelle.

Par exemple ?
Qui a entendu parler de la défaite anglaise de Kut-el-Amara, où une division renforcée à capitulé en 1916 devant les Turcs, malgré l’envoi d’un corps d’armée en secours ? Moi-même – malgré deux années de cours préparatoires à l’École Spéciale Militaire en option « Histoire et géographie », suivis de l’obtention d’un Certificat d’Études Supérieures d’Histoire Militaire Moderne et Contemporaine – l’ignorais jusqu’à ces dernières années.

Deux sur les cinq de vos « coups de projecteur » traitent particulièrement de la Belgique, qui a l’époque constituait un État-nation depuis moins d’un siècle (1831)…
Pour la « petite histoire », je tiens à préciser que je ne règle pas là des comptes conjugaux (je suis marié avec une bi-nationale)… Mais le cas du Royaume de Belgique est assez emblématique des manipulations de la propagande de l’époque. Ainsi son roi d’ascendance allemande a été « héroïsé » plus ou moins malgré lui par les Alliés pour l’attacher à leur cause, ce qui comme on le voit en lisant mon texte n’était pas gagné. Et sur le plan intérieur, c’était l’occasion de conforter une unité nationale qui n’était pas évidente non plus (comme on peut le constater de nos jours). En outre, la dénonciation des prétendues « atrocités allemandes » servait aussi de ciment interne et externe.

C’est loin tout ça…
Le passé explique le présent. Ainsi, comme je le rappelle dans le premier chapitre, l’Europe état alors au faîte de sa puissance. En s’entredéchirant – et par deux fois, le premier conflit ayant généré le second surtout via les différents « Diktats » imposés aux vaincus – on voit où elle est aujourd’hui tombée.

"1914-1918 : les faits têtus de la Grande Guerre" de Louis-Christian Gautier, 262 pages, 29 euros, éditions Dualpha, collection « Vérités pour l’Histoire », dirigée par Philippe Randa.

Rébellion n°72: une autre éducation!

Une autre éducation !...

Nous vous signalons la parution de la revue Rébellion (n°72, novembre - décembre 2015). Vous pourrez notamment lire dans ce numéro un dossier sur l'éducation et des articles de David L'Epée et de Charles Robin, l'auteur de La gauche du Capital (2014).

On notera au passage que la revue dispose désormais d'un très beau site que nous vous invitons à consulter : Rébellion

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Au sommaire de ce numéro :

Éditorial: Hic Sunt Dracones

Réflexion : L’allogénat, ou l’appel au coucher des luttes révolutionnaires françaises et africaines, par Dany Colin

Actualité : Et revoilà les gaucho-humanitaristes dans la rue ! par Jean Morvan

Dossier : Pour une autre Education

La fabrique de l’aliénation sur l’école techno-libérale, par Charles Robin
« Produire du temps de cerveau disponible » : l’éducation dans le monde moderne, par Marie Chancel et Dazibao
La destruction de l’Ecole : Objectif politique prioritaire du Pouvoir, par Patrick Visconti

Polémique : Les chiens de garde aboient et la caravane passe, par David L’Epée

Commande 4 euros (port compris) :

Sur la boutique ou par courrier :

Rébellion c/o RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02

Marcel Gauchet : « Le monde moderne est sous le signe de l’ignorance »

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Marcel Gauchet : « Le monde moderne est sous le signe de l’ignorance »

Marcel Gauchet est philosophe. Il enseigne à l’EHESS (Écoles des hautes études en sciences sociales) et au Centre de recherches politiques Raymond Aron. Il dirige également la revue Le Débat. Nous avons interrogé avec lui la notion de modernité qu’il a tenté de cerner dans de nombreux ouvrages tel Le Désenchantement du monde, La Révolution des droits de l’homme ou, plus récemment, les trois tomes de L’Avènement de la démocratie.

PHILITT : Certains considèrent que la modernité commence avec la subjectivité et le cogito cartésien, d’autres comme Péguy situent sa naissance vers 1880, d’autres encore comme Alain de Benoist font coïncider christianisme et modernité. Quand débute-t-elle à vos yeux ?

Marcel Gauchet : C’est un problème canonique sur lequel beaucoup d’esprits se sont échinés. Il y a beaucoup de propositions. Vous en évoquez quelques unes, il y en a bien d’autres. Il y a une origine chrétienne de la modernité, je le crois tout à fait, mais une origine n’est pas une entrée dans l’explicite des propositions de la modernité. Il y a un commencement de la modernité qui a été repéré intuitivement il y a assez longtemps. Quand on parle des « Temps modernes » quelle est la date exacte qui permet de les caractériser ? La proposition la plus absurde à mes yeux est la chute de Constantinople. Une coupure importante mais qui ne dit rien de substantiel sur ce qui se passe après. Dans les bons manuels que j’ai utilisés quand j’étais petit, on évoquait les Grandes découvertes : Christophe Colomb, Gutenberg, Copernic… Il s’agit de comprendre ce phénomène afin d’y intégrer tous les critères distinctifs. C’est ce à quoi je me suis efforcé en proposant une perspective permettant de fédérer ces différents critères, à la fois philosophiques mais aussi bien événementiels ou matériels, dans une totalisation qui fait du sens. C’est à ça que répond la proposition selon laquelle la modernité est le mouvement de sortie de la religion. C’est une définition maximale, englobante puisqu’à partir de là, on peut lier des phénomènes a priori sans rapport.

PHILITT : Qu’appelez-vous exactement « sortie de la religion » ?

Marcel Gauchet : La sortie de la religion, ce n’est pas le fait que les gens ne croient plus en Dieu. Ils n’y croyaient pas tellement plus avant ! L’un des premiers signes flagrant de l’entrée en modernité comme sortie de la religion, c’est la Réforme protestante qui va, par contre-coup, susciter la réforme catholique, lesquelles se traduisent par un renforcement de la foi, au sens du vécu personnel, de l’adhésion religieuse des personnes. Mais ce n’est pas parce qu’il y a plus d’adhésion personnelle des individus qu’il y a plus de religion au sens où je veux l’entendre, c’est-à-dire comme mode d’organisation collective. La sortie de la religion, c’est la sortie de l’organisation religieuse du monde. C’est pour ça que nous ne comprenons pas les sociétés anciennes : elles étaient structurées religieusement et définissaient à la fois le type de pouvoir qui y régnait, le type de rapport entre les personnes, la forme des collectivités… C’est l’ensemble de cette structuration qui peu à peu se défait dans un travail qui va occuper cinq siècles jusqu’à nous. Parallèlement à la Réforme religieuse, vous avez un événement qui se signale comme absolument contemporain. C’est le surgissement du politique moderne qui va donner sur un siècle l’émergence de la notion d’État qui est une notion tout à fait moderne. Vous voyez comment un processus politique et un processus religieux changent complètement les données de la foi…

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PHILITT : Cela rejoint ce que dit Péguy, sur la chute de la mystique dans la politique…

Marcel Gauchet : Oui. Mais c’est la moitié de la vérité. Il y a une chute de la mystique dans la politique mais il y a un investissement mystique sur la politique. Péguy en a d’ailleurs été un excellent témoin… Il a oublié ce mouvement premier au profit du second. En mystique, il a cru dans la politique ! Il en est revenu. Mais cela va se poursuivre tout au long du XXe siècle. On y est encore.

PHILITT : Processus religieux, processus politique et donc ?

Marcel Gauchet : Processus scientifique. À partir de là, vous avez un procédé qui va révolutionner toute la pensée moderne : la science. Copernic, Kepler, Galilée… Cela va nous mener à ce que nous connaissons comme l’institution de la science, laquelle en retour change complètement l’idée de la connaissance. Et c’est là qu’on retrouve le cogito cartésien. Qui est Descartes ? Celui qui tire les conséquences philosophiques de la science moderne. En fonction du fait que nous avons cette nouvelle voie de la connaissance qui s’appelle la science. C’est ça le cogito. Ça ne tombe pas du ciel. C’est une idée inspirée par la pratique scientifique. Il ne faut pas oublier l’émergence, à travers la Révolution anglaise, d’un type de pensée complètement nouveau : l’idée du contrat social qui va engendrer l’individualisme moderne. Vous voyez donc comment, à partir d’une perspective unique, on peut décrire dans leur cohérence une série d’événements théoriques et pratiques. Il faut échapper aux querelles stériles qui cherchent à donner un point de départ unique (Descartes, Luther…).

PHILITT : Péguy dit 1880…

Marcel Gauchet : Il n’a pas tort. Il a détecté quelque chose de très vrai, une nouvelle étape très forte de ce processus général. Cette nouvelle étape qui va donner le XXe siècle, environ jusqu’à 1980. Et aujourd’hui, nous sommes repartis. Il y a peut-être, en ce moment, un petit Péguy qui nous écrit que le monde moderne commence en 1980 (rire)… Il faut raisonner en terme d’étapes d’un processus largement cumulatif, contradictoire et hétérogène. Je me méfie des gens qui font des scansions. Il faut éviter la naïveté qui consiste à en faire un point de départ absolu. L’étape de Péguy est tout à fait significative. Le monde change en 1880, c’est sûr ! Nous avons mis un siècle à comprendre ce qu’il nous arrivait et c’est reparti aujourd’hui. Nous ne comprenons à nouveau rien à ce qui nous arrive. Nous avons toujours un temps de retard. Il faut en tirer les conclusions et se mettre au boulot.

PHILITT : S’il faut parler d’étapes et qu’on considère qu’il est valide de voir dans le christianisme une forme de modernité, quelles sont les étapes qui vont de la naissance de Jésus Christ aux Grandes découvertes ?

Marcel Gauchet : Il y en a beaucoup ! La première étape a un nom propre, c’est Saint Paul. Sans Saint Paul, il n’y a pas de christianisme, au sens où nous le connaissons. Deuxième étape : Saint Augustin, c’est-à-dire le christianisme occidental qui va être très différent de celui qui se développe et s’installe à Byzance. Saint Augustin est le créateur d’un certain type de sensibilité moderne, à bien des égards. Notre monde est augustinien. Le christianisme oriental ne va pas être du tout augustinien. Autre étape déterminante, ce qui se passe au XIe siècle avec la Réforme grégorienne, la création d’une nouvelle Église, très différente de tout ce qu’on avait connu jusqu’à présent : la révolution pontificale, comme disent certains historiens. Étape accompagnée d’un argument théologique très puissant, celui de la toute-puissance divine auquel les philosophes vont réfléchir pendant des siècles et des siècles.

deposit-for-the-control-of-ignorance-fear-alienation-and-slavery.jpgPHILITT : Pour le christianisme originel, Dieu n’est pas tout-puissant ?

Marcel Gauchet : Si, mais c’est un problème de spéculation. Quelles sont les implications rationnelles ? Quel est le sens de cette proposition ? À la fin du siècle, vous avez le théologien qui crée la théologie catholique telle que nous la connaissons : Saint Anselme, esprit absolument extraordinaire. Le XIe siècle que je me propose d’appeler « la grande bifurcation occidentale » engage le christianisme intellectuellement autant que pratiquement dans une voie complètement différente. À partir de là vous avez cinq siècles d’incubation très agités qui vont produire la rupture du début du XVIe siècle. Je pense qu’on peut écrire une histoire tout à fait censée de ce parcours.

PHILITT : Quelle est la différence entre un antimoderne et un réactionnaire ? Aujourd’hui on traite tout le monde de réactionnaire.

Marcel Gauchet : Oui ! Moi y compris (rire)… L’écrivain (Édouard Louis, NDLR) dont il s’agit n’est qu’un pantin entre les mains d’un manipulateur qui, lui, sait où il va. Le vrai péché mortel que j’ai commis, c’est de porter une main sacrilège sur les maîtres de la subversion que sont Michel Foucault et Pierre Bourdieu. À partir du moment où vous osez dire qu’il n’y a pas, peut-être pas, le meilleur ordre logique dans ce genre de pensées, vous êtes forcément un ultra-réactionnaire.

PHILITT : Il faudrait demander à ces personnes ce qu’elles entendent par réactionnaire…

Marcel Gauchet : Ils n’y ont jamais réfléchi. Ils sont incapables de produire une définition de quoi que ce soit (rire)… Mais pour revenir à la différence entre réactionnaire et antimoderne… Je pense qu’il y a une vraie différence et qu’elle est tout à fait intéressante. Un réactionnaire, dans la rigueur du terme, est quelqu’un qui est attaché à une forme de société ancienne et qui croit possible d’y revenir : une monarchie, des hiérarchies sociales, des corporations, un ordre familial construit autour de la figure paternelle… Il y aurait donc une forme parfaite, éternelle  des sociétés aux yeux des réactionnaires. C’est un mode de pensée très noble qui a donné des expressions tout à fait remarquables. Il faut être très naïf et inculte pour l’ignorer. L’argument le plus fort est que toutes les sociétés  humaines jusqu’à une date récente ont été organisées comme ça. Il faut donc se justifier fortement si on pense que cet ordre peut être changé. Pour les réactionnaires, les modernes sont des égarés complets qui tentent une expérience suicidaire.

Les antimodernes sont beaucoup plus sceptiques que les réactionnaires, d’abord sur les vertus de ce modèle ancien des sociétés. En fait, les antimodernes sont assez modernes dans le sens où ils trouvent que c’est plutôt mieux maintenant (rire)… Ils ne croient pas qu’on puisse revenir à la société patriarcale, nobiliaire, cléricale, monarchique… Mais ça ne les empêche pas de détester le monde qui remplace celui-là. Ils lui sont hostiles esthétiquement. L’homme de la rue n’est pas antimoderne, il est plutôt moderne, plutôt pour le progrès, plutôt pour gagner plus à la fin du mois. Pour les antimodernes, la valeur des valeurs, c’est la beauté, c’est l’art, c’est l’esthétique de l’existence au sens large, ce qui inclut la manière de se conduire.

PHILITT : Le dandysme…

Marcel Gauchet : Le dandysme bien entendu. Les dandys sont antimodernes. Ils peuvent être avant-gardistes sur certains plans d’où l’ambiguïté mais ils pensent que l’homme moyen tourne le dos au véritable code de l’esthétique existentielle. Il y aurait donc une aristocratie particulière à reconstituer. Pour les antimodernes, le monde moderne est le monde de la laideur, de la médiocrité, de la banalité et, contre cela, ils dressent toutes les valeurs de l’exception. D’où le caractère très littéraire de l’attitude antimoderne. Littéraire mais pas seulement : artistique, artisanal. Une commode Boulle, ce n’est pas une commode Ikea ! La valeur du travail est dans le chef d’œuvre. L’importance du travail bien fait, dans le monde d’aujourd’hui, est évacuée.

PHILITT : Y-a-t-il une différence de degré ou de nature entre modernité, post-modernité et hyper-modernité ?

Marcel Gauchet : À mon avis, ce sont des mots dépourvus de sens. Distinguons les raisons légitimes pour lesquelles les gens cherchent à faire des scansions dans les séquences temporelles et la valeur de fond de ces catégories. Elles n’ont aucune valeur conceptuelle mais signalent des sensibilités à des moments de rupture réels. Oui il y a eu une rupture vers 1980 lorsqu’on commence à parler de post-modernisme en art, en architecture, en politique, dans les croyances collectives… Appeler ça post-modernité est complètement superficiel. Ce n’est pas faux, mais c’est totalement superficiel. La bonne attitude intellectuelle, c’est d’accueillir avec tranquillité ce genre de choses en se demandant les raisons qui les accréditent. Ce ne sont pas des imbécillités, ce sont des naïvetés. Ce sont des notions journalistiques, épidermiques. Dès qu’on creuse, on découvre que c’est toujours la même modernité qui s’aggrave.

PHILITT : Pour Péguy, le monde moderne est le monde qui fait le « malin », un monde à la fois arrogant et mauvais. Rejoignez-vous son point de vue ?

Marcel Gauchet : Je crois que cette formule touche à quelque chose d’extrêmement important qu’il faut prolonger. Le monde moderne est en effet arrogant : « Nous, modernes, nous sommes différents des peigne-cul d’avant qui ne savaient pas qu’ils étaient modernes » (rire). Après Péguy, ça ne va pas s’arranger, cela va devenir dramatique. La modernité, c’est l’histoire humaine qui se comprend et qui de ce fait arrive en possession des moyens de se faire complètement. Cela va donner l’idée de révolution telle qu’elle va entrer en pratique au XXe siècle. Grâce à la science, ils pensent pouvoir finir l’histoire. C’est l’idée majeure du XXe siècle, celle qui a fait le plus de dégâts. Le monde moderne ne fait donc pas seulement le « malin », il est aussi victime d’une démesure dans la prétention qui est terrible. Depuis, nous avons fait une petite découverte, très modeste mais qui est en partie responsable du marasme psychologique dans lequel nous sommes plongés. Nous savons maintenant qu’avec le recul chaque époque comprend mieux celle qui l’a précédée. Cela veut dire que nos descendants comprendront mieux que nous ce que nous étions, ce que nous pensions, ce que nous faisions. Nous sommes dépossédés par l’avenir du sens de nos actions et de la compréhension exacte de la situation qui est la nôtre. Voilà en quoi réside à mes yeux le secret de de la dépression de nos sociétés. C’est une perspective très décourageante. Il y a un anéantissement de la confiance collective dans l’action qui me semble un des éléments clés du trouble contemporain.

PHILITT : Alain Finkielkraut, dans L’identité malheureuse écrit « Le changement n’est plus ce que nous faisions mais ce qui nous arrive. » Cela rejoint ce que vous dites.

Marcel Gauchet : Il s’est en effet produit une inflexion de la marge de nos sociétés qui nous a totalement surpris, que personne n’avait anticipé et dont nous avons été activement acteurs sans nous rendre compte de ce que nous faisions. Nous modernes, comprenons mieux le passé mais est-ce que cela nous donne des éléments pour comprendre notre présent ? La réponse est non. Le monde moderne est sous le signe de l’ignorance. Il ne se comprend pas. Il y a un découragement de l’action qui est terrible. Nous sommes pessimistes mais sans nous l’avouer, ce qui est pire. Nous avons comme une espèce de surmoi qui nous dit « vous n’êtes rien du tout ». Nous sommes angoissés par l’œil du futur posé sur nous.

PHILITT : Vous définissez le monde moderne comme le monde de « sortie de la religion », pourtant on semble vivre aujourd’hui un retour à l’intégrisme religieux. Comment expliquez-vous ce paradoxe ?

Marcel Gauchet : Ce n’est pas un paradoxe. Le mouvement de sortie de la religion qui concernait jusque là l’Occident devient planétaire. Il arrive de l’extérieur sous un jour peu sympathique (colonial, impérialiste, capitaliste) à des populations qui ne connaissaient comme mode d’organisation collective que cette structuration religieuse qui était le lot de l’humanité depuis qu’on la connaît.

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PHILITT : C’est une réaction…

Marcel Gauchet : C’est une réaction. Tout simplement. C’est en ça que réside la différence entre les nouveaux intégrismes et les religions traditionnelles. Pour lutter contre le monde moderne, les intégristes utilisent les armes du monde moderne. En s’emparant des armes, on s’empare aussi des modes de pensée. Dès lors, il y a une surenchère. Les confessions des anciens otages sur leurs ravisseurs sont très intéressantes. On est loin de la piété. Les intégristes détruisent la religiosité traditionnelle qu’ils prétendent restaurer. Ils sont d’ailleurs perçus comme ça. Les gens qui ont une vraie foi traditionnelle détestent les intégristes. À leurs yeux, ce sont des fous nihilistes.

PHILITT : Le corps politique a été supplanté, selon vous, par l’idée de société, au sein de laquelle le politique n’est plus qu’un sujet parmi d’autres, un élément secondaire. Peut-on renverser ce mouvement ?

Marcel Gauchet : C’est un des grands changements du monde contemporain. Je ne vais pas refaire l’histoire complète des formes qu’ont pu revêtir les sociétés religieuses du passé mais un de leurs traits les plus frappants, c’est d’être en général dominées par un pouvoir politique qui tombe d’en haut (le divin, les ancêtres…). Un pouvoir vertical qui met le monde en ordre parce qu’il est lui-même en communication avec l’ordre de l’au-delà. Cette structure va survivre à la religion pendant très longtemps dans le monde occidental sous le nom d’État qui est un appareil de domination et de coercition. Il n’est plus autorisé par les dieux mais il domine la société au nom d’une science supérieure de l’ordre qui la conditionne. À partir de la Révolution française,  le pouvoir devient petit à petit une représentation de la société. On élit les gens. Cette société se sépare du pouvoir et devient indépendante. C’est l’essor de l’économie. Désormais, ce qui compte ce n’est plus l’ordre insufflé par le politique, mais la dynamique sociale de l’initiative individuelle. On passe de la domination du politique à la domination de l’économie qui est l’emblème de l’indépendance de la société, laquelle acquiert son nom de société qu’elle n’avait pas. La société, telle que la sociologie basique nous l’enseigne, c’est une notion qui ne s’impose vraiment qu’à la fin du XIXe siècle. Cette société, qui vit sous le signe de l’économie, devient de plus en plus indépendante mais elle subordonne de plus en plus l’appareil politique. Aujourd’hui, les politiques sont les larbins de la société.

PHILITT : On rejoint ici la critique de Péguy…

Marcel Gauchet : Oui, il a saisi le début de ce phénomène. L’inversion devient absolument manifeste. Peut-on renverser ce mouvement ? Je ne pense pas qu’il faille raisonner ainsi. Le politique n’est plus organisateur par en haut, c’est un fait. Il est maintenant organisateur par en bas. L’infrastructure de nos sociétés, c’est le politique. Pas la politique des politiciens et des marchands de cravates mais le politique, c’est-à-dire un appareil qui fait tenir la société non pas par en haut, par la contrainte, mais par une immense infrastructure. Il y a une mise en ordre fondamentale de la société qui est cachée. Le problème politique de nos sociétés, à mes yeux, est très simple : les gouvernants qui manient cet appareil par en haut ne savent pas ce qu’ils font et les gens le perçoivent. L’enjeu n’est donc pas de renverser le mouvement et de remettre le politique au dessus, c’est de trouver des personnes pertinentes pour gouverner, des personnes qui comprennent le rôle du politique dans nos sociétés.

194396_johannek_ignorance.jpgPHILITT : Vous pensez que les politiques méprisent la structure politique que vous décrivez ?

Marcel Gauchet : Ils ne la voient même pas. Ils sont irresponsables. Je pense que si François Hollande, qui est par ailleurs un homme fort intelligent, m’entendait, il ne comprendrait même pas de quoi je suis en train de parler. Pour lui, la politique c’est s’arranger avec Cécile Duflot, magouiller avec Martine Aubry (rire)… Du coup, les gens ont l’impression d’avoir élu des individus qui ne comprennent pas quelle est leur fonction. Il ne s’agit pas seulement d’appliquer un programme politique mais de travailler à la coexistence des individus dans la société.

PHILITT : C’est ce qu’on appelle naïvement le vivre-ensemble…

Marcel Gauchet : Oui, naïvement. Mais c’est beaucoup plus profond que ça. Vivre ensemble, ça ne va pas du tout de soi. C’est une œuvre énorme, complètement artificielle qui coûte dans nos sociétés modernes entre le tiers et la moitié des ressources nationales. Il faut se demander pourquoi c’est si cher. Au Japon et aux États-Unis c’est un tiers, en France c’est la moitié. Il n’y a donc pas de différence d’essence, mais des différences d’appréciation. Ce qui varie, c’est le niveau de gaspillage. Il y a des gens économes et des gens prodigues. Nous faisons partie des plus prodigues. C’est un titre de fierté nationale comme un autre (rire)…

PHILITT : Une crise existentielle ne serait-elle pas le fruit, en dernière analyse, d’une liberté morale anémiée ?

Marcel Gauchet : Nous ne sommes pas dans un monde euphorique. Nous sommes de plus en plus riches. Techniquement, de plus en plus puissants. Mais l’avenir de l’humanité ne se résoudra pas par la généralisation de la possession d’un Iphone 8 ! Et pourtant j’ai un Iphone… mais je m’en passerais très bien. L’étrange de notre monde, c’est qu’il est habité par un malaise profond que l’on ne sait pas nommer. À la fin du XIXe siècle, période très troublée, les réponses sont claires. Pour les réactionnaires comme Maurras, c’est parce que l’on vit dans une forme politique aberrante. Pour les marxistes, c’est l’exploitation capitaliste qui appelle la révolution. Pour quelqu’un comme Péguy, c’est la corruption morale de la République. Quelle est la réponse pour notre époque ? Nous avons tous conscience que nous sommes gangrenés par ce que nous dénonçons. Nous n’avons plus la naïveté et la vigueur des hommes du siècle dernier qui pensaient qu’ils pouvaient être radicalement contre. Nous sommes tous complices. Nous n’arrivons pas à nommer ce qui est déréglé dans le monde.

PHILITT : Le républicanisme est-il possible dans un monde sans transcendance ?

Marcel Gauchet : Ce n’est plus un républicanisme. Il y a plein de gens qui se proposent de redéfinir cette République. Si République veut dire régime sans pouvoir autoritaire alors nous sommes tous républicains. Mais ce n’est pas ça le républicanisme auquel vous pensez, c’est-à-dire un régime guidé par la conscience morale des acteurs. Le républicanisme, ainsi compris, n’est plus possible dans notre monde . Mais cela va au delà de la disparition de la transcendance. Le problème vient de l’effondrement de la dimension morale des relations entre les citoyens au profit de la dimension juridique. Nous sommes dans un monde juridiquement plus exigeant. La République c’est le régime de la morale publique. Si la distinction République / démocratie a un sens, cela revient au déplacement de la morale à la loi. Je pense que c’est un énorme changement dans la manière de concevoir les relations entre les êtres.

PHILITT : Comment vous situez-vous sur la question anthropologique ? Êtes-vous pessimiste ou optimiste ?

Marcel Gauchet : L’homme est l’espèce contradictoire par excellence. Une chose et son contraire sont vrais. Le premier à l’avoir pointé dans une formule géniale est le vieux Kant : « insociable sociabilité ». Je pense que c’est très vrai. L’homme est l’espèce la plus insociable et la plus sociable. Il est capable du pire comme du meilleur. Il faut comprendre cette contradiction qui nous habite tous et à tout moment. Pourquoi sommes-nous comme ça ? Cela va au delà de la question classique du bien et du mal. Nous sommes travaillés de part en part par des pulsions complètement contradictoires. Le même homme est jouisseur et ascétique.

PHILITT : Comment votre pensée s’articule-t-elle avec celle de René Girard ? D’un côté, le christianisme compris comme la religion qui sort de la sacralité archaïque, fondée sur la violence (la désignation du bouc-émissaire fonde un ordre sacré) et, de l’autre, le christianisme compris comme la religion de la sortie de la religion, qui ouvre la voie au désenchantement.

Marcel Gauchet : Je pense que nous ne nous articulons pas. Il y a des choses qui se recoupent, il y a  des tas d’analyses intéressantes chez Girard. Mais sa vision du mécanisme universel et du désir mimétique  me laissent perplexe. Elles n’éclairent rien des choses que je cherche à comprendre et m’apparaissent assez triviales. Cette idée du bouc émissaire qu’on nous ressert quotidiennement me convainc très peu. Je rejoins néanmoins son diagnostic sur le fait que le christianisme représente une rupture par rapport à la sacralité archaïque mais j’en fais une lecture complètement différente dans le détail.

PHILITT : Nous arrivons aujourd’hui au bout de la logique du désenchantement. Peut-on espérer un retournement, un ré-enchantement ?

Marcel Gauchet : S’il faut être optimiste, je ne pense pas qu’il faille aller chercher cet optimisme du côté d’un ré-enchantement. Allons au bout du désenchantement et de l’espèce de liberté qu’il nous donne. Cet exercice de notre liberté sans pareil dans l’histoire est une des choses les plus extraordinaires que l’on puisse souhaiter.

Islam and the Clash of Generations

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Islam and the Clash of Generations

In France, the banners and causes change, but the attraction to revolutionary violence always remains.

For many politicians and pundits in France and the United States, last month’s terrorist attacks in Paris marked the latest spasm in the burgeoning “clash of civilizations” between West and East, reason and religion, secularism and Islamism. This particular worldview often spans political differences: While Republican Sen. Marco Rubio declares there to be “no middle ground” in this “clash of civilizations,” the Socialist Prime Minister of France, Manuel Valls, warns against “la guerre des civilisations.”

Of course, other political and public figures have dismissed—and rightly so—this description as a caricature of the deep sources of recent events. To portray the attacks as what happens when religious and ideological worlds collide ignores, among other things, the depth and diversity of Islam. But the shockwaves rippling across France are nevertheless the work of a different sort of clash, one that might elicit raised eyebrows rather than nodding heads.

Rather than a conflict between civilizations, France confronts one between generations. It is one that, admittedly, is more prosaic, even humdrum than one of entire civilizations barreling into one another. But for that very reason it needs to be taken seriously, for it speaks to the stubborn character of the problem.

Olivier Roy, the noted French scholar of Islam, recently suggested that the hundreds of French youths who have joined the Islamic State are not at all religious zealots. Instead, they are little more than opportunists who are intent on slaking their thirst for violence. Tellingly, not only have French-born offspring of North African immigrants to France proved vulnerable to the siren call of revolutionary violence and brutality. So, too, has a small but significant number of so-called français des souches: French youths of neither North African nor Muslim background who find a grim and appalling form of self-expression in the black uniforms and blacker brutality of the Islamic State.

Twenty years ago, such youths rallied to radical Islamic movements in Chechnya and Bosnia, or joined the Groupe Islamique Armée in Algeria or the various al-Qaeda affiliates. Today, they are flocking to the Islamic State, as ignorant of Islamic theology as they are indifferent to the different historical and social traits that have defined these various radical movements. In effect, what we are witnessing is not the radicalization of Islam, but the Islamicization of radicalness.

Roy’s analysis is sharp, but it is also narrow. It ignores a critical historical dimension to this phenomenon, one that is particular, if not unique to France. This is not the first time the country finds that a small, but determined percentage of its youth has been captured by the glorification of violence, the polarization of the world between “them” and “us,” and a fascination with death. Long before the youthful rapture of radical action found expression in militant Islamism, it inhabited other forms of political and ideological extremism in France. So much so as to suggest a singular continuity between the murderous youths who now identify with the IS and the grim history of France’s extreme rightwing movements.

The university students who, in interwar France, joined the extreme rightwing Action Française carried canes, not Kalishnikovs. But these young men, who called themselves the camelots du roi, used the canes not to walk, but to maim their political opponents. Like their analogues with the Islamic State, the camelots were rebelling, in principle, against the perceived decadence and decay of liberal and secular society (symbolized then as now by Jews). In reality, though, they were even more enamored of street brawls and bashing of heads—the embodiment, they believed, of an élan vital unknown to their bourgeois parents. For more than a decade, their presence lent a deliberate element of terror to the boulevards and streets of Paris.

One generation later, during World War II and the German occupation of France, a swathe of French youth betrayed the same fascination with violence. When the Vichy regime created la milice, a paramilitary militia whose purpose was to hunt down resistance fighters and Jews, as well as terrorize the French civilian population, thousands of young men joined its ranks. (According to the historian Robert Paxton, the milice numbered upwards of 45,000—a number that dwarfs French recruits to IS.) A number of factors drove recruitment, including the hope for steady employment and the means to avoid being sent to work in German factories. But there was also, for many, the sheer desire to break violently with their backgrounds and reinvent themselves through violent action.

The most celebrated, and controversial, case for this type of recruit in Louis Malle’s film “Lacombe, Lucien.” Written by the Nobel Prize laureate Patrick Modiano, the film portrays a young provincial man who is equally indifferent to all of the era’s “isms”. Motivated solely by the desire for action, by being part of a cause, Lacombe first tries to join the Resistance; turned down, he then turns to the milice. In the end, any cause would do for a young man, including a violently anti-Semitic one. It hardly matters that Lacombe does not, at first, even recognize the word “Jew.”

This same desire for action, for breaking with one’s past, galvanized a number of young Frenchmen who joined the Charlemagne Division, which was sent to the Eastern Front to fight the Russians. Not all of the 14,000 who enlisted were animated by anti-communism. Instead, as one member, Christian de la Mazière, recalls in the documentary “The Sorrow and the Pity,” there were those driven by sheer excitement. Like the French-born terrorists packing their bags for Iraq and Syria, French youths like de la Mazière had to go abroad to find adventure. While it was the frozen earth of Russia instead of the desert expanses of Iraq, it meant a welcome rupture with their backgrounds, with a France that either ignored or bored them.

There are, obviously, important differences—cultural and sociological—that distinguish these earlier generations of rightwing radicals from the French-born terrorists of IS. But they all share the taste for extremism—a commonality that means France cannot resolve its predicament uniquely by taking the war to the Islamic State. Sooner or later, IS will inevitably stagger into irrelevance. Once it does, though, there will remain the question of whether a small, but potentially deadly percentage of youths can ever be integrated into French society or brought into the fold of a moderate and republican form of Islam. The history of modern France suggests that, while the banners and causes change, the attraction for revolutionary violence will always remain.

Robert Zaretsky is Professor of French History in the Honors College of the University of Houston and author of Boswell’s Enlightenment.

Entrevista a Claudio Mutti: “la guerra civil islámica”

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Entrevista a Claudio Mutti: “la guerra civil islámica”.

por Adriano Scianca

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

¿Un choque de civilización entre Occidente y el Islam? Qué va, el conflicto actualmente en curso es (sobre todo) interior al mismo mundo musulmán. De ello está convencido Claudio Mutti, director de la revista Eurasia, que dedica en su último número un dossier a “La guerra civil islámica”. Y en este choque las facciones aparentemente más aguerridas (salafistas y wahhabitas), son justo las que tienen vínculos históricos con las fuerzas de occidente.

Adriano Scianca – El último editorial de Eurasia, la revista de geopolítica que usted dirige, se titula “La guerra civil islámica”. ¿Quiénes son los actores de este conflicto dentro de la religión musulmana y qué es lo que está en juego?

Claudio Mutti – La expresión “guerra civil islámica” utilizada en el editorial del trigésimo noveno número de Eurasia debe entenderse en un sentido amplio, ya que el actualmente en curso no es propiamente un conflicto en el que se enfrentan los ciudadanos de un mismo Estado, incluso si no faltan casos de guerra civil real; tratándose en cambio de un conflicto que opone a Estados, instituciones, corrientes, grupos pertenecientes al mundo musulmán, sería más exacto hablar de “guerra intraislamica”. El enfrentamiento en cuestión debe remontarse a la tentativa puesta en práctica por fuerzas históricamente cómplices del Occidente británico y estadounidense, para instaurar su hegemonía en el mundo musulmán. Gracias además a los petrodólares de los que pueden disponer, estas fuerzas, que sobre el plano ideológico se expresan (sobre todo, pero no solamente) en las desviaciones wahhabita y salafista, ejercen su influencia sobre una parte considerable de la comunidad de creyentes. Esta tentativa hegemónica, además de encontrar las renuencias del Islam tradicional, ha suscitado durante mucho tiempo la fuerte oposición del nasserismo (hasta Gaddafi) y de las corrientes revolucionarias. Hoy su principal obstáculo está representado por el Islam chiíta. De ahí el feroz sectarismo anti-chií que anima a los corrientes heterodoxas y que, por desgracia, también se ha extendido a áreas del Islam que se suponía exentas de ello.

AS – La intervención rusa en Siria parece haber cambiado el rumbo del conflicto. ¿Cree que es posible, para Assad, volver a la situación pre-bélica o ya una porción de su poder y de su soberanía puede darse en todo caso por perdida para siempre?

CM – El gobierno sirio, que todos daban ya por desahuciado, logró sobrevivir a una agresión y a una guerra civil durante más de cuatro años. La alianza euroasiática de Siria, Irán, Hezbollah y Rusia ha prevalecido sobre la coalición occidental y sobre el sedicente “Estado islámico” que la primera ha diseñado, financiado, armado y entrenado. Se trata de la primera derrota geopolítica infligida a los Estados Unidos y sus satélites desde el fin de la Guerra Fría. En este contexto, no creo que Assad deba temer una pérdida del propio poder, tanto es así que el presidente sirio se ha declarado dispuesto a afrontar nuevas elecciones presidenciales. Hace unos días, el 23 de octubre, después de reunirse con John Kerry y los ministros de exteriores turco y saudí, el ministro de Asuntos Exteriores ruso, Sergei Lavrov, ha desmentido del modo más categórico que durante las negociaciones sobre la crisis siria los participantes hayan abordado la cuestión de la dimisión del presidente Assad. Algo antes, Dmitrij Trenin, director del Carnegie Center de Moscú, dijo que para Putin “Assad no es una vaca sagrada” y que su único interés es “salvar el estado sirio, evitando que se fragmente como ha sucedido en Libia o en Yemen”. Sin embargo, una cosa es cierta: Rusia tiene considerables intereses geoestratégicos en Siria, un país que durante más de cuarenta años es su aliado y que alberga en Tartus la única base mediterránea de la Armada rusa. No sólo eso, sino que los rusos han construido una base aérea en Al-Ladhiqiyah (Laodicea), que es un bastión de Assad. No creo, por tanto, que Rusia quiera crear en Damasco las condiciones de un vacío de poder que daría a los aliados de los EEUU la forma de soplar de nuevo sobre el fuego del terrorismo.

AS – En estos días la situación se está caldeando demasiado en los territorios palestinos. ¿Por qué precisamente ahora se vuelve al borde de una “tercera Intifada”? ¿Es un fenómeno que puede ser enmarcado de alguna manera en la convulsión general de la zona?

CM – La “tercera Intifada”, la denominada “Intifada de los cuchillos”, es una gran oportunidad para el eje ruso-iraní, cuya línea estratégica puede abrir perspectivas de victoria para la causa palestina. Acabando con la monstruosidad representada por el sedicente “Estado islámico” y garantizando la seguridad de la República Árabe de Siria, el eje ruso-iraní conseguirá en efecto el resultado de modificar radicalmente la situación en el Oriente Medio. Como consecuencia de ello, el papel de Estados Unidos en la región resultará fuertemente redimensionado, y por lo tanto también la hegemonía de la entidad sionista será puesta en tela de juicio. Si la alianza ruso-iraní quiere llevar hasta el final las medidas adoptadas hasta el momento, tendrá que sostener de manera decisiva la lucha del pueblo palestino; pero los líderes palestinos deberán a su vez romper los vínculos con aquellos gobiernos de la región que sustentan la presencia estadounidense y son cómplices del régimen de ocupación sionista.

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AS ¿Cuál es la relación de las corrientes wahhabita y salafista con la religión islámica? ¿No representan una exacerbación o una perversión? ¿Y cuáles son, en cambio, sus vínculos con el Occidente anglo-americano?

CM – Los movimientos wahhabitas y salafistas, aunque nacidos en lugares y circunstancias históricas diferentes, declaran ambos luchar por un objetivo esencialmente idéntico: reconducir el Islam a aquello que era, al menos en la imaginación de sus seguidores, en el momento de las primeras generaciones de musulmanes. Estas corrientes rechazan tanto el magisterio espiritual ejercido por los maestros de las hermandades sufíes, como las normas de la Ley sagrada (Sharia) elaborada por las escuelas jurídicas tradicionales (sunitas y chiítas). Su interpretación del Corán y de la Sunna Profética (únicas fuentes de la doctrina que ellos reconocen) se caracteriza por un obtuso literalismo anti-espiritual que no rehúye incluso el antropomorfismo.

Desde su creación, estos movimientos heterodoxos y sectarios han actuado en connivencia con Gran Bretaña, convirtiéndose en instrumentos de sus planes de dominio en el mundo musulmán. El fundador del movimiento salafista, Al-Afghani, iniciado en la masonería en una logia del rito escocés de El Cairo, hizo entrar en la organización masónica a los intelectuales de su círculo, entre ellos a Muhammad ‘Abduh, quien en 1899 se convirtió en Mufti de Egipto con el plácet de los ingleses. Lord Cromer, uno de los principales artífices del imperialismo británico, definió a los seguidores de Muhammad ‘Abduh como “los aliados naturales del reformador occidental”.

En cuanto a los wahhabitas, Ibn Saud fue patrocinado por Gran Bretaña, que en 1915 fue el único estado en el mundo en establecer relaciones oficiales con el Sultanato wahhabita del Nejd y en 1927 reconoció el nuevo reino wahhabita del Nejd y del Hiyaz. Consejero de Ibn Saud fue Harry Philby, el organizador de la revuelta árabe anti-otomana, el mismo que apoyó ante Churchill, el barón Rothschild y Weizmann el proyecto de una monarquía saudita encargada de controlar por cuenta de Inglaterra la ruta a la India. Al patrocinio británico lo sustituyó luego el estadounidense; si ya en 1933 la monarquía saudí había otorgado en concesión a la Standard Oil el monopolio de la explotación petrolífera, y en 1934 había concedido a otra compañía estadounidense el monopolio de la extracción de oro, el 01 de marzo de 1945 el rey wahhabita selló la nueva alianza con los EEUU reuniéndose con Roosevelt a bordo del Quincy.

AS – Los dos recientes premios Nobel de la Paz y de Literatura tiene notables implicaciones geopolíticas. ¿Puede darnos su comentario?

CM – Debe tenerse presente que el premio Nobel no es en absoluto una institución neutral y libre de condicionamientos políticos. El Premio Nobel de la Paz, en particular, ha sido concedido más veces a personalidades de la política, de la cultura e incluso de la religión que han servido a los intereses de los Estados Unidos de América o del régimen sionista, quizás a través de la subversión, la mentira propagandística, la acción terrorista y la agresión militar contra otros países. Me limito a mencionar algunos nombres, sobre los que no es necesario hacer ningún comentario: Woodrow Wilson, Henry Kissinger, Menachem Begin, Lech Walesa, Elie Wiesel, el XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, Gorbachov, Aung San Suu Kyi, Shimon Peres, Yitzhak Rabin, Barack Obama. Este año el Premio Nobel de la Paz ha sido concedido al llamado Cuarteto para el diálogo nacional tunecino, en reconocimiento a su “contribución decisiva para la construcción de una democracia plural en Túnez a raíz de la Revolución del Jazmín en 2011”. En resumen, ha sido premiada la llamada “Primavera árabe”, es decir, el vasto movimiento de desestabilización que la “estrategia del caos” ha favorecido en las costas meridional y oriental del Mediterráneo. Análogo significado reviste también la decisión de conceder el Nobel de Literatura a una periodista sobre la que recae la acusación infamante de ser un agente de la CIA.

26 de octubre 2015

(Traducción de Página transversal).

Fuentes: Eurasia Rivista di studi geopolitici e Il Primato Nationale.

vendredi, 04 décembre 2015

Rusland levert keihard bewijs van enorme Turkse oliesmokkel voor ISIS

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Rusland levert keihard bewijs van enorme Turkse oliesmokkel voor ISIS

Ex: http://xandernieuws.punt.nl

Tankwagen konvooien naar Turkse havens beschermd door Al-Nusra/Al-Qaeda

Iraakse commandant: ‘Als VS ophoudt met steunen ISIS, kunnen we hen in enkele dagen verslaan’

 

Afgelopen dinsdag leverde Rusland een indrukwekkende hoeveelheid bewijs, waaronder satellietfoto’s, dat enorme hoeveelheden door ISIS gestolen olie naar Turkije worden gesmokkeld. Omdat dit ook uit eerdere onafhankelijke onderzoeken is gebleken, kan de Turkse president Erdogan kan onmogelijk blijven beweren dat hij niets weet van de eindeloze stroom van vele honderden tot soms wel duizenden tankwagens die dagelijks zonder problemen de grensovergangen met Turkije oversteken (video). Bovendien: wat de Russen kunnen zien, kunnen de Amerikanen ook zien. President Obama moet daarom al heel lang op de hoogte zijn van de Turkse samenwerking met ISIS, en is daarom –net als de NAVO en de EU- medeplichtig.

De Russische viceminister van Defensie Anatoly Antonov zei dat ‘wij vandaag slechts enkele van de feiten presenteren die bevestigen dat een compleet team bandieten en Turkse elites olie stelen van hun buren in de regio.’ Het gaat om dermate grote hoeveelheden dat kan worden gesproken van een ‘live oliepijpleiding’ die bestaat uit duizenden tankwagens.

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‘Wat een geweldig familiebedrijf’

‘En volgens onze informatie zijn de topleiders van het land, president Erdogan en zijn familie, betrokken bij deze criminele activiteiten,’ vervolgde Antonov. ‘Het klinkt misschien te bot, maar je kunt de controle over deze diefstal enkel aan je naaste verwanten geven. In het Westen vraagt echter niemand naar het feit dat de zoon van de Turkse president hoofd van een van de grootste energiebedrijven is, of dat hij zijn zwager heeft aangesteld als minister van Energie. Wat een geweldig familiebedrijf!’

‘Het cynisme van de Turkse leiders kent geen grenzen. Kijk naar wat ze doen. Ze gingen naar het land van iemand anders en beroven dit zonder enige wroeging.’ De Russen weten precies via welke drie smokkelroutes de olie wordt getransporteerd naar de Turkse havens aan de Middellandse Zee en naar grote raffinaderijen en overslagplaatsen. De konvooien worden beschermd door Al-Nusra, de Syrische tak van Al-Qaeda die samenwerkt met de zogenaamd ‘gematigde’ Syrische moslimrebellen die rechtstreeks door het Westen worden gesteund en bewapend.

Turken leveren ISIS en Al-Nusra strijders, munitie en voertuigen

De Russen leverden tevens gedetailleerd bewijs dat de Turken tenminste 2000 strijders, 120 ton munitie en 250 voertuigen aan ISIS en Al-Qaeda hebben gegeven, dat deze militaire hulp dagelijks doorgaat en dat de regering Erdogan geen enkele intentie lijkt te hebben daarmee te stoppen.

Onafhankelijke commentatoren zeggen dat Turkije om deze redenen uit de NAVO zou moeten worden gezet. Maar dat is nu juist het probleem: Erdogan geniet niet alleen de volle steun van de NAVO, maar ook van Obama en de Europese Unie, die afgelopen weekend een diepe knieval voor hem maakte en hem met minimaal € 3 miljard beloonde voor zijn criminele activiteiten waarmee hij ISIS ondersteunt, en waarmee hij tevens hun uitroeingsoorlog tegen het christendom in het Midden Oosten gaande houdt.

‘ISIS in paar dagen te verslaan als VS steun intrekt’

Misschien dat het voor sommige Westerse burgers nu beter te begrijpen valt waarom de Iraakse regering weigert Amerikaanse troepen toe te laten, en tal van Iraakse groepen en burgers Washington rechtstreeks beschuldigen van het steunen van ISIS. ‘Geen enkele twijfel,’ zei Mustafa Saadi, wiens vriend, een commandant van de Shi’itische milities, er getuige van was hoe Amerikaanse helikopters waterflessen aan ISIS leverden: ‘ ISIS is er bijna geweest. Ze zijn zwak. Als Amerika nu maar eens ophoudt hen te steunen, dan kunnen we hen in enkele dagen verslaan.’ (1)

‘Rusland blijft olie infrastructuur ISIS vernietigen’

De Russische luchtmacht heeft de afgelopen twee maanden zeker 32 olie-installaties, 11 raffinaderijen en 23 pompstations verwoest of zwaar beschadigd (video 1, video 2, video 3, video 4). Daarnaast werden nog eens 1080 tankwagens vernietigd. Daarmee wisten de Russen de illegale oliehandel vanuit Syrië met de helft terug te brengen.

ISIS verdient volgens voorzichtige schattingen dagelijks $ 1,5 miljoen met de diefstal en smokkel van olie, en dat al zeker 4 jaar lang. Dat betekent dat de jihadisten nog steeds over meer dan voldoende geld beschikken om wapens, munitie en andere (militaire) uitrustingen te blijven kopen. ‘De Russische luchtmacht zal de vernietiging van de aardolie infrastructuur van IS in de Arabische Republiek Syrië blijven voorzetten,’ verzekerde de onderminister. ‘Wij roepen onze collega’s uit de coalitielanden op hetzelfde te doen.’ (2)

VS, NAVO en EU kiezen voor Turkije en islamisering Europa

Daar is echter weinig kans op, want de VS en de Westerse NAVO-landen hebben overduidelijk partij gekozen voor Turkije en daarmee het streven van de (Soenitische en Soefistische) politieke islam om niet alleen het Midden Oosten, maar uiteindelijk ook Europa te overheersen en onderdeel van een pan-islamitisch imperium te maken. Voor dat laatste doel houdt de EU –zijn vele valse beloftes ten spijt- de grenzen van onze landen ook de komende jaren volledig geopend voor de komst van vele miljoen moslimmigranten.

Xander

(1) Infowars
(2) KOPP

Analyse du jeu géostratégique turc en Syrie

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Analyse du jeu géostratégique turc en Syrie

Ex: http://fr.novopress.info

Les relations entre la Turquie et la Russie entrent en phase de turbulences
Suite à l’attaque de l’avion russe par la Turquie, le président Vladimir Poutine a choisi la rétorsion économique. Plusieurs organisations turques seront désormais interdites en Russie, de même que l’emploi de citoyens turcs dans les entreprises russes à partir du 1er janvier 2016.
Les vols charters entre les deux pays sont, par ailleurs, désormais interdits, ainsi que la vente de séjours touristiques en Turquie par les agences de voyages russes. Le régime sans visas actuel va, lui aussi être annulé. Enfin, de nombreux produits turcs seront interdits d’entrée sur le territoire.

Mais que cache cette soudaine action belliqueuse de la Turquie ?
La position turque est ambiguë : bien qu’ayant réagi de façon extrêmement excessive en abattant l’avion russe, les déclarations d’apaisement fusent depuis Ankara. La Turquie cherche simplement, comme l’a relevé le président de la République tchèque, à « montrer ses muscles » à la Russie et aux alliés occidentaux.
En effet, il apparaît désormais clairement que la Turquie finance l’État islamique en achetant leur pétrole et l’État islamique possède, aux yeux des Turcs, deux qualités : ils combattent à la fois les Kurdes, ennemis jurés des Turcs, et le régime syrien de Bachar Al-Assad.
Aussi, un tel soutien ne peut expliquer qu’une chose : la Turquie souhaite accroître son influence dans le Moyen-Orient, et compte sur la déstabilisation engendrée par Daesh pour y parvenir. Il n’est pas question, comme l’a affirmé à chaud Vladimir Poutine, d’« alliance » entre la Turquie et l’État islamique, mais bien de tentative de récupération d’un chaos régional qui reconfigure l’équilibre des forces.
La Turquie tient au partenariat avec la Russie, que cela soit en termes économiques ou stratégiques. Faussement prévenant, le ministre turc propose donc de renforcer le partenariat russe et turc et de faire front commun. Hors langage diplomatique cela signifie à n’en pas douter : associe-nous à votre prise d’influence en Syrie ou nous vous mettrons des bâtons dans les roues.

Il apparaîtrait que les enjeux sont aussi d’ordre colonial et démographique…
Effectivement, la politique extérieure turque est aussi affaire de démographie coloniale. De la même façon que l’Empire ottoman mettait en place une politique de colonisation de peuplement en Europe de l’Est, le gouvernement turc actuel s’évertue de faire venir en Syrie des populations turcophones ouïgoures, originaires de la province chinoise du Xinjiang. Musulmans et de langue turque, les mouvements séparatistes ouïgours sont depuis longtemps sujets à tensions entre la Turquie et la Chine.
Or, il s’avère que de nombreuses familles ouïgoures s’installent actuellement au nord de la Syrie, notamment dans la région d’Idlib, et qu’elles viennent via la Turquie ou via les filières de l’État islamique. Pour la Turquie, l’enjeu est, comme jadis, de gagner en influence via l’implantation de populations turcophones.
Ces zones, en phase de turquisation, avaient justement été la cible de certains des tirs de la Russie. Ceci semble à même d’expliquer, en grande partie, la décision turque d’abattre l’avion russe. Le message est clair : ne touchez pas aux turcophones de Syrie. En outre, l’implication d’Ouïgoures dans la région explique l’intérêt toujours croissant de la Chine dans ce conflit. Jusqu’où ira cette implication, telle est la question.

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Bassam Tahhan - Syrien, spécialiste des questions internationales

Bassam Tahhan - Syrien, spécialiste des questions internationales (02-12-2015)

Précurseur et visionnaire, Bassam Tahhan décrypte sans langue de bois la crise syrienne. Il explique comment le président turc Recep Tayyip Erdogan joue un double-jeu et regrette que les dirigeants occidentaux ne s’engagent pas dans la guerre contre le terrorisme comme le fait le président russe Vladimir Poutine…

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L’IRAN EST LA SEULE ARMÉE CAPABLE DE VAINCRE DAECH

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L’IRAN EST LA SEULE ARMÉE CAPABLE DE VAINCRE DAECH

Entretien avec Ardavan Amir-Aslani


Daoud Boughezala*
Ex: http://metamag.fr
Ardavan Amir-Aslani est un avocat et essayiste spécialiste du Moyen-Orient. Il a notamment publié Juifs et Perses. Iran et Israël (Nouveau monde), Iran-États-Unis, les amis de demain ou l’après-Ahmadinejad (Pierre-Guillaume de Roux) et L’âge d’or de la diplomatie algérienne (Editions du Moment).

Daoud Boughezala. Avant d’aborder les questions géopolitiques, commençons par vos activités professionnelles. Vous venez d’ouvrir le cabinet d’avocats d’affaires “Cohen-Amir-Aslani” à Téhéran. En vous permettant de vous installer en Iran sous ce nom à consonance juive, la République islamique entend-elle se laver des soupçons d’antisémitisme qui pèse sur elle? 
Ardavan Amir-Aslani. La République islamique n’a pas eu son mot à dire quant au lancement de notre cabinet, et aucun de ses représentants n’est venu nous interroger sur la question. La loi iranienne ne connaissant pas la notion de cabinet d’avocats en tant que telle, le barreau de Téhéran est exclusivement constitué d’avocats « individuels » à l’exercice libéral qui s’y inscrivent à titre personnel. Lorsque je distribue les cartes de visite de mon cabinet en Iran, j’ai droit à des sourires, parce que les gens reconnaissent le nom à consonance juive, mais sans aucune remarque désobligeante. D’ailleurs, les employés de mon cabinet sont issus de familles religieuses, pratiquent l’islam et ne trouvent rien à redire au fait de travailler pour nous.

Il n’est pourtant pas toujours très plaisant d’être Juif en Iran…
C’est une erreur de considérer le peuple iranien comme un peuple antisémite. Même la République islamique permet constitutionnellement aux minorités religieuses et ethniques d’être surreprésentées à l’Assemblée nationale iranienne. C’est à ce titre-là que les juifs, qui sont environ 30.000 en Iran, élisent un député. Ceci dit, je ne prétends pas qu’il n’y ait pas d’antisémites en Iran, l’ancien président Ahmadinejad en est un bon exemple.

La signature de l’accord de Vienne sur le nucléaire aiguise l’appétit des investisseurs européens. Proche de l’Arabie Saoudite et du Qatar, la France a-t-elle raté le coche avec les milieux d’affaires iraniens ?
Le retour de l’Iran dans le concert des nations à l’issue de la levée des sanctions va être l’équivalent, d’un point de vue économique, du retour de l’ensemble des pays de l’Est-européen dans le camp occidental après la chute du mur de Berlin. Il s’agit de la première réserve gazière, de la quatrième réserve d’hydrocarbures au monde. C’est un pays de 83 millions d’habitants, un marché domestique important qui occupe une place centrale au Moyen-Orient. Je crois que la France a un coup à jouer parce que les secteurs les plus porteurs de l’économie iranienne - secteurs pétrolier, aéroportuaire, aérien, du traitement de l’eau – trouveront naturellement comme partenaires les grands groupes français comme Total, Airbus, Suez environnement ou Véolia. Malgré le positionnement particulièrement dur de la diplomatie française tout au long des négociations sur le nucléaire iranien, la France a su revenir dans le cœur des Iraniens. Quelques jours après l’accord de Vienne, Laurent Fabius a été parmi les premiers politiques d’envergure à faire son chemin de Damas en se rendant à Téhéran. Aujourd’hui, les Iraniens n’ont qu’une seule envie : pouvoir de nouveau commercer avec la France, laquelle pourra redevenir un partenaire industriel et commercial majeur.

Le Président iranien Hassan Rohani a vivement condamné les derniers attentats de Paris, les qualifiant de “crimes contre l’humanité” et contestant le caractère islamique de Daech. Est-ce une manière de conjurer le choc des civilisations ?
La journée tragique du vendredi 13 novembre était hélas prévisible. On aurait pu voir venir les choses depuis l’attaque des tours jumelles à New York le 11 septembre 2001. Ce jour-là, dix-sept personnes dont une majorité de Saoudiens et de Qataris, se sont écrasés sur des cibles civiles. C’est alors qu’a commencé le conflit de civilisations qui oppose l’Occident – c’est-à-dire non pas les pays de l’Ouest mais ceux qui sont attachés à la volonté de vivre et de laisser vivre – à une certaine version de l’islam. Il s’agit de la lecture wahhabite sunnite de l’islam marquée par l’Arabie Saoudite. Or, il se trouve que cet islamo-fascisme djihadiste a également comme ennemi principal l’Iranien chiite. Ce dernier est le principal objet de leur haine, devant le Juif et le Chrétien.

Iranian-Army1.jpgPartant de ce constat, pensez-vous crédible une inflexion de la politique étrangère française en faveur de l’Iran et de la Russie afin de combattre l’État islamique ?
Au Moyen-Orient, la France a construit tout son système d’alliances sur l’appui aux pétromonarchies sunnites wahhabites. Elle devrait réfléchir à  changer de stratégie. Tandis que Daech sert de pôle d’attraction sanguinaire et médiéval à nos jeunes frustrés d’origine musulmane, le seul moyen d’avoir la paix dans la région, c’est d’éradiquer l’État islamique. Pour l’instant, les bombardements contre Daech qui contrôle un territoire grand comme l’Angleterre à cheval sur l’Irak et la Syrie, ne l’ont pas fait reculer d’un mètre. Par contre, lorsque la volonté est là et des troupes au sol engagées, des milices pro-chiites irakiennes encadrés par des Iraniens ont mis vingt-quatre heures pour reprendre Tikrit à l’Etat islamique. Quand on veut, on peut.

Justement, aucun pays occidental, États-Unis et France compris, n’est prêt à envoyer des hommes au sol lutter contre l’Etat islamique. Que faire ?
Aujourd’hui, l’Iran est la seule armée capable de vaincre Daech et se montre d’autant plus déterminée qu’elle constitue une des cibles prioritaires du groupe djihadiste. Il faut donc permettre à l’armée iranienne, aidée des milices chiites de la région, de combattre au sol. Téhéran ne demande que ça.

En êtes-vous bien sûr ? Tant que l’État islamique reste cantonné à plus de quarante kilomètres de la République islamique, les pasdarans et les forces iraniennes se gardent bien d’intervenir massivement…
Le seul pays qui a fait qu’Assad tient bon depuis cinq ans, c’est l’Iran. Sans les forces armées chiites venues prêter main forte à l’armée syrienne, il serait tombé. Idem en Irak, s’il n’y avait pas de troupes pro-iraniennes à Samarra ou aux abords du Kurdistan irakien, le pays serait tombé entre les mains de Daech. Certes, il n’y a pas de troupes iraniennes au sol déployées massivement dans ces pays mais des milices proches de Téhéran. 60% de la population irakienne étant chiite, cela représente suffisamment de combattants prêts à prendre les armes contre l’Etat islamique sans que l’Iran ait besoin d’y envoyer des soldats. En Syrie, où les chiites sont minoritaires, l’Iran a fait en sorte que des chiites irakiens, pakistanais et afghans constituent des brigades chiites internationales pour sauver le pouvoir de Damas.

Mais sur un plan plus politique, la relégation des sunnites dans l’Irak post-Saddam Hussein a fait le lit de l’État islamique. De ce point de vue, la proximité entre Téhéran et Bagdad, en confortant la mainmise des chiites sur l’Irak, n’a-t-elle pas fait le jeu de Daech ?
C’est une question décisive. Quand on regarde la carte, on voit que l’Iran contrôle les capitales historiques de la civilisation arabe comme Damas (ville des Omeyyades), Bagdad (ville des Abbassides), Beyrouth (avec le Hezbollah) et Sanaa (au Yémen). Il y a une survisibilité de la puissance iranienne dans la région. Par conséquent, il n’y aura pas de paix durable dans la région tant que les Iraniens et leurs alliés occidentaux – car l’Iran est de facto l’allié des Occidentaux – n’auront pas réussi à fédérer les tribus sunnites en Irak et en Syrie. L’immense majorité des sunnites n’est pas sur la ligne idéologique de Daech ; il suffit d’observer la colère des sunnites de Mossoul sous le joug de l’Etat islamique. Tant en Irak qu’en Syrie, avec l’aide des Américains, se constituent déjà des brigades sunnites anti-EI. Il faudrait y ajouter des brigades mixtes chiites-sunnites pour faire battre en retraite Daech.

Rappelons que les deux tiers des combattants de l’État islamique sont des étrangers, dont la moitié de Saoudiens et un tiers de Caucasiens (Tchetchènes, Ingouches, Daguestanais), indifférents au sort des populations locales qui leur sont étrangères. Tous ces djihadistes aspirent à revenir dans leur pays d’origine commettre des attentats comme ceux que l’on a connus à Paris.

*rédacteur en chef de Causeur

Diplomatic rhetoric and the neo-Ottoman strategy of Davutoğlu

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Diplomatic rhetoric and the neo-Ottoman strategy of Davutoğlu

Ex: http://www.katehon.com

The Prime Minister of Turkey, Ahmet Davutoğlu, called for military communication channels with Russia to prevent incidents such as what has happened with the Russian Su-24 bomber. He expressed this before his visit to the occupied part of Cyprus by Turkey, which has a symbolic meaning. Turkey's ambitions to restore its influence are not only focused on part of Syria, but also on the Balkans and the Caucasus

Strategic Depth

Turkish Prime Minister and leader of the Justice and Development Party, Ahmet Davutoğlu, is known for his work "Strategic Depth", which he wrote when he held the post of professor at the University of Marmara. In it he calls for a foreign policy guided by historical heritage and geo-strategic position. He says that Turkey is a European and Asian, Balkan and Caucasian, Middle Eastern and Mediterranean country, appealing to the past might of the Ottoman Empire. Davutoğlu calls for present and future Turkish politicians to restore the role and status of Turkey, at the very least, and to make it a regional actor which is not dependent on the great powers such as the United States. This explains the ongoing diplomatic maneuvering in relations with Washington, Beijing and Moscow. Since the beginning of the 2000's, Turkey has tried to diversify relations and to establish cooperation with the EU, the countries of Central Asia, the Middle East and Africa.

"Zero problems with neighbors"?

One of the theses of Davutoğlu has been a diplomacy  based on "soft power," which seeks to avoid problems with neighboring countries. Obviously, the intentions of the author have not come to fruition, because Turkey still has strained relations with Greece, has failed to resolve the conflict with Armenia, and also opposes the legitimate government of Syria. The theory of a peacekeeping policy is actually transformed into an aggressive tool, used influence and manipulate the other regional countries, which has led to a series of crises.

The Islamic factor

Under the auspices of the Justice and Development Party, the country has embarked upon a course of desecularization, changing the religious atmosphere. Under various pretexts, it has put pressure on the secular structures and passed legislation Islamicizing the public sector. In 2010, Turkey eliminated radical Islam and other ideologies as a named threat from their doctrines on national security . The main donors of Islamization of Turkey are Qatar and Saudi Arabia.

Ottomanism and Pan-Turkism

The doctrine of neo-Ottomanism involves the imposition of various strategies. This takes into account the historical experience of political control over a vast area - the Balkans, North Africa, the South Caucasus through to the Caspian Sea, all of the Red Sea coast and the northern Black Sea region. Mirroring this, the pan-Turkic ideology is based on the concept of the Turkic ethnocentrism. Both directions have been criticized by Arab Muslim countries, claiming Turkey has a "wrong" Islam which legitimizes the historical occupation of Arab lands, as well as and other Turkic states; denying modern Turkey the right to exclusive Turkic identity, because historically this territory was home to other peoples - Celts, Slavs, Greeks, Armenians, Kurds, and others.

A combination of tools for Policy

Turkey will use a variety of methods and concepts for their foreign policy, depending on the context. Earlier, Davutoğlu declared an interest in joining the Eurasian Economic Union, showing here an opportunistic approach to regional geopolitical projects. Obviously, for other countries and peoples, Ankara will use different rhetoric to achieve their interests.

Prof. P. Gottfried: Die deutsche Nation

Die deutsche Nation

von Prof. Dr. Paul Gottfried
Ex: http://www.blauenarzisse.de

Prof. Paul Gottfried stellt in diesem Beitrag das Denken von Bernard Willms und insbesondere sein Buch „Die deutsche Nation“ vor.

willms.pngDer den Freitod wählende Staatsdenker und weltbekannte Hobbes-​Sachkenner Bernard Willms (19311991) zählte zu den eigenständigsten Promovierten von Joachim Ritter. Wie Ritter, der eine beträchtliche Reihe von namhaften konservativ ausgerichteten Gelehrten promoviert hat, wurde Willms von Hegels Rechtsphilosophie stark angetan. In einem beweisbaren Sinn versinnbildlicht Hegel einen Fixpunkt für Willms’ politische und weltanschauliche Orientierung. Gewiss wurde Willms von anderen Staatsdenkern, insbesondere Fichte, Hobbes und Carl Schmitt und nicht zuletzt von Heideggers Seinsphilosophie unauslöschlich geprägt.

Besät ist sein Band Die deutsche Nation mit weitgehenden Hinweisen auf Fichte und Hobbes (ganz von Heideggers Vorstellung der „Seinsvergessenheit“ zu schweigen). Diese Vordenker sind in Hülle und Fülle herangezogen, als es versucht wird, eine „politisch organisierte“ Lebensform und eine zum Selbstbewußtsein wachgerufene deutsche Volksnation in Verbindung zu bringen. Zusätzlich wartet Willms mit Auszügen aus Fichtes „Reden an die deutsche Nation“ auf. Ebenso wie im frühen neunzehnten Jahrhundert, als gegen Napoleon mobilisierte Patrioten auf eine deutsche Erweckung abzielten, bedürfen bis heute die Deutschen eines Programms der Nationalerziehung, damit sie es dazu bringen können, eine „Fremdherrschaft“ loszuschütteln.

Der Vernunftstaat

Die unübersehbaren Hegelschen Begrifflichkeiten bei Willms treten aus seinem Ansatz hervor, die Gründung oder Bewahrung einer nationalen Allgemeinheit auf das Werden und Wirken eines Staates zu beziehen. Nach seiner aus Hegel entlehnten Formulierung hängt die Beschützung einer „Kulturnation“ vom geeigneten Staatsgefüge ab. Beides macht ein „wirklichkeitsbezogenes“ Gespann. Willms borgt Hegels Wendung des „Vernunftstaates”, um die erwünschte Zusammenfügung von Denken und Geschichtsnotwendigkeit zu kennzeichnen. Er verweist auf eine in Nachkriegsdeutschland in Schwung gekommene Absicht, eine wiederhergestellte Nation der Dichter und Denker anzustreben. Diesen Idealisten fehlte es allerdings an einem geübten Verhältnis zur Geschichte. Ohne eine staatliche und staatserzieherische Unterstützung verlief der Plan, Deutschland als eine reine Kulturnation zurückzubringen, im Sande.

Gemeinsame Selbstbehauptung

Auch zu beachten ist, dass Willms dem Hegelschen Gedankengang folgend eine „verwirklichte Nation” als eine ausgeprägt „begriffene Allgemeinheit” erfasst. Egal auf welche Weise sie urzeitig oder urwüchsig sich zusammenfaßte, ist die neuzeitliche Nationalgemeinschaft nur als eine ausgedachte Volksidentität zu verwirklichen. Und die Zeit fordert dringlich, dass eine Staatsregierung, die die dazugehörige Nationalität gewährleistet, ins Leben gerufen wird. Willms richtet sich an deutsche Patrioten, die eine aus der Vergangenheit entstandene und auf die Zukunft hinausgreifende kollektive Existenz geistig sowie emotional behaupten. Nicht ein dumpfes Gefühl der Zusammengehörigkeit sondern eine gemeinsame Selbstbehauptung, der sich alle einzelnen Mitglieder anschließen, und die eine vereinigende Staatsform annimmt, prägt die zum Nationalstaat gehobene Volksgemeinschaft der Neuzeit aus.

Ein Schwerpunkt, der bei Willms kaum zu übersehen ist, stellt seine Thematisierung der Neuzeit dar. Von den medialen Seitenhieben auf ihn als einen abstoßenden Reaktionär absehend, erachtet sich Willms als Vollblutvertreter der Moderne. Immer wieder streitet er den Linken ihre Vereinnahmung der Moderne ab. Er konstatiert, dass die Moderne dem Wesen nach nicht in erster Linie mit einer Konsumgesellschaft oder mit dem Kultus der sogenannten Menschenrechte gleichzustellen ist. Die „Neuzeit“ habe vielmehr Erscheinungen hervorgebracht wie die protestantische Reformation, der Aufstieg einer gebildeten, selbstbewussten Bürgerschaft, das Schaffen des Nationalstaates und eines überall im Westen geltend gemachten Völkerrechts.

Liberale Demokratie und deutscher Idealismus

Ebenso hervorstechend bei seiner Zeitanalyse ist ein anderer von Willms vorgetragener Gegensatz, zwischen den nach dem Zweiten Weltkrieg den Geschlagenen aufgezwungenen „liberaldemokratischen“ Leitsätzen und dem zur gegenwärtigen Stunde in Mißkredit geratenen „deutschen Idealismus“. Beide Weltanschauungen nehmen für sich in Anspruch, die Neuzeit zu vollführen, aber Willms stellt fest, dass nur die letztere das Gütesiegel trägt. Die zur Staatsreligion aufgewertete liberaldemokratische Grundlehre führt dazu, einer einstigen Nation sowohl ihre Selbstverwirklichungsmöglichkeit wie ihre Selbstachtung abzunehmen. Statt ein Durchdenken ihres Nationsdefizits zu erwecken, hat die liberaldemokratische Gängelführung zur Folge, die Deutschen sich selbst zu entfremden und ihren Siegern unterzuordnen. Die Sache erschwerend gibt diese Einstellung einer genießerischen Lebensweise Nahrung, als sie darauf gerichtet ist, die Deutschen von der Wiedererlangung einer Nationalidentität dauernd abzulenken.

Willms bezeichnet gezielt die „deutsche Philosophie“, den Idealismus von Kant bis Heidegger, als den Weg für seine selbstentfremdete Nation ins Freie. Dadurch versteht er die Wiederaneignung einer Selbstidentität über einen punktuellen Denkprozess. Ein Grundzug der Moderne, betrachtet von der Sichtweise der deutschen Idealisten her, war die Vorpräparierung eines bedachten nationalen Eigenwesens, deren Ergebnis auf eine Allgemeinheit übertragbar war. Eine Idee von dieser Ausprägung entsprang der Zukunftsvision und dem Geschichtssinn der Philosophen, die für die Deutschen eine Nationalgemeinschaft vorgreifend umrissen. Das Ergebnis war nur insoweit möglich, als das betreffende Denken eine historische Notwendigkeit philosophisch widerspiegelt.

willms35.JPGWer national ist, wird als Antidemokrat beschimpft

Die liberaldemokratische Herrschaft, die mit der französischen Besatzung während der napoleonischen Zeitepoche verglichen wird, verweigert den Deutschen ein wahres Recht, die „Nationalfrage“ zur Diskussion zu stellen. Diesem Denkverbot zuwiderzuhandeln, tut jeder Freidenker auf die Gefahr hin, sich als „Antidemokrat“ stempeln zu lassen. Dennoch riet Willms seinen Mitbürgern einen „demokratischen“ Kurs nicht kategorisch ab.

In Die deutsche Nation nimmt Willms eine Reihe von antinationalen Strömungen ins Visier, einschließlich der moralisierenden antideutschen Geschichtsschreibung, des Kollektivschuldfimmels und der Anstrengungen der Eliten den Deutschen ein erfundenes „weltgemeinschaftliches“ Eigenwesen unterzuschieben. Unter seinen Zielscheiben befindet sich ebenso eine auf die Spitze getriebene Konsumgesellschaft. Hier beruft sich Willms auf Rousseau und Fichte, die von der Zucht der gesetzten Staatsbürger als ausgesprochenes Charakteristikum der wohlgeordneten Gemeinschaft sprachen.

Die Jugend und die Mobilisierung der Nationalidentität

Auch klagt Willms die jüngere Generation an, die samt und sonders „gehäufte irrationalistische Ausbrüche aus dem Zirkel der Sinnlosigkeit” zum Schaden der deutschen Nation entladen. Zu einer „Mobilisierung der Nationalidentität” würden diese Gestrauchelten nicht im entferntesten taugen.

Meine beliebtesten Stellen aus dem Buch Die deutsche Nation beinhalten jedoch Willms’ Ansatz, gestützt auf die Wertkritik von Max Weber und Carl Schmitt, die liberaldemokratische Höchstwertsetzung auseinanderzunehmen. Ohne mit demokratischen Spielregeln vorliebzunehmen, drängen die „Gesinnungsdemokraten“ dazu, ihrem Verfahren eine unbestreitbare Heiligkeit zu verleihen. Mit einer nüchternen Wertung der jeweiligen Existenzlage hat das nichts zu tun. Die Zeitwirklichkeit kann so aufgefasst werden, dass wegen zweier verlorener Kriege eine von ihren Eroberern vorgeschriebene Staatsform den Deutschen aufgedrängt wurde, zusammen mit einem geschmälerten außenpolitischen Spielraum.

Der Höchstmaßstab für politisches Handeln

Statt eine verhaltene Haltung dem Unausweichlichen gegenüber anzunehmen, münzen die Gesinnungsdemokraten den Willensakt ihrer Besieger in eine Staatskirche um. Willms macht uns klar, dass diese Anbetung keinem philosophisch oder geschichtlich begründeten Standpunkt entspricht. Wie Weber stellt er fest, dass weder Menschenrechte noch wechselnde Parteiregierungen, sondern das Weiterbestehen einer Nation den „Höchstmaßstab” für politisches Handeln bildet. Willms weist darauf hin, dass Weber, der altliberal ausgerichtet war, nicht von einem ausufernden Deutschnationalismus angetrieben war. Der berühmte Soziologe war bestrebt, die von ihm begriffenen politischen Verhältnisse der Neuzeit darzulegen.

Durch seine akademische Laufbahn hindurch besetzte Willms eine Professur an der Universität Bochum. Dort konnte er sich seinem freimütigen Schreiben und scharfsinnigen Referaten unbehelligt hingeben. Ebenso augenfällig war sein Erfolg beim Platzieren seiner Buchtexte bei ansehnlichen Verlagshäusern, wie Suhrkamp, Kohlhammer und Bertelsmann. Seit seinem Tod werden Willms’ vielfältige Schriften totgeschwiegen, wenn nicht verunglimpft. Wenn Willms nicht seine Lebensjahre verkürzt hätte, dann hätte er schon erkannt, dass ihm der Zeitgeist unverkennbar abgewandt ist. Als geschichtlich orientierter Denker musste er aber wissen, dass der Zeitgeist nicht von selbst her handelt. Die sachbezogene Frage heißt nicht, wer über den Ausnahmefall entscheidet, sondern wer die „liberaldemokratische” Deutungshöhe zur Ausschließung der Nichtangepassten besetzt.

jeudi, 03 décembre 2015

Iran in context of Syrian conflict

Sarrazin und der Glaube an den Staat

Sarrazin und der Glaube an den Staat

von Felix Menzel

Ex: http://www.blauenarzisse.de

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Am Montagabend sprachen Thilo Sarrazin und der Politikprofessor Werner Patzelt in Dresden vor 500 begeisterten Zuhörern. Es ging um die Krise des Staates.

Es war schon immer ein Erlebnis, wenn Thilo Sarrazin in Dresden referierte. Zu seiner Buchvorstellung zu Deutschland schafft sich ab kamen 2.500 Bürger. Dem ehemaligen Vorstandsmitglied der Bundesbank gelang es schon damals, die Menschen mit seinen Hochrechnungen zum demographischen Niedergang der Deutschen aufzurütteln. Nun dürfte es aufgrund des Asyl-​Ansturms auf Europa noch schlimmer kommen, als von ihm vor fünf Jahren prognostiziert.

Handelt Merkel bewußt gegen die Interessen der Deutschen?

Man merkt Sarrazin nun eine gewisse Fassungslosigkeit über die Politik der Bundeskanzlerin Angela Merkel an. Er betont, daß er „keine Logik“ im Handeln der Kanzlerin erkennen könne. Verwaltungstechnisch schaffe es Deutschland, mehrere Millionen Asylbewerber zu registrieren, ihnen ein Dach über dem Kopf zu organisieren und sie zu ernähren. Aber wo ist das Ziel eines solch unsinnigen Kraftaktes, fragt sich Sarrazin genauso wie sicherlich fast alle der anwesenden Zuhörer. Folgerichtig stellt er dem Publikum die Frage: „Weiß Merkel es nicht besser oder handelt sie bewußt gegen die Interessen der Deutschen?“ Das ist es, was die Dresdner Bürger bewegt. Sowohl Sarrazin als auch Patzelt erhalten an diesem Abend reichlich Beifall, der wohl die Erleichterung der Zuhörer zum Ausdruck bringen soll, daß es wenigstens noch einige wenige kluge Beobachter des politischen Geschehens gibt, die den Durchblick haben und den Mut zum freien Sprechen aufbringen.

Das offizielle Thema dieser Diskussionsveranstaltung lautete „Meinungsfreiheit“. Sarrazin sprach jedoch hauptsächlich über die Asylkrise. Patzelt dagegen hielt einen äußerst wortgewandten Vortrag über die „Politische Korrektheit“. Seiner Meinung nach ist es richtig, auf korrektes Auftreten und Reden zu achten. Dies sei eine zivilisatorische Errungenschaft und diene gerade dem Erhalt von Kultur und Demokratie. In der Bundesrepublik Deutschland hätten wir allerdings einen Punkt erreicht, an dem die „Haltung der Kritik nicht mehr möglich“ sei, weil der richtige Grundansatz der Politischen Korrektheit nicht redlich gemeint sei, sondern taktisch mißbraucht werde.

Sittenlosigkeit oder Tyrannei?

Zunächst gehe es den Gutmenschen darum, politisch Andersdenkenden die Begriffe wegzunehmen. Schon das Beschreiben von Problemen werde so unmöglich. Die Ausgrenzung hat damit jedoch erst begonnen. Patzelt erklärte Stufe für Stufe, wie die Meinungsfreiheit eingeschränkt werde. Es sei inzwischen so weit gekommen, daß die „Korrekten“ den normalen Bürgern die Fragen schon weggenommen hätten. Beim Thema „Einwanderung“ sei dies besonders auffällig. Und wenn dann doch aufgrund massiver Probleme in der Wirklichkeit nicht länger um den heißen Brei herumgeredet werden könne, würden die Einwände und Ängste mit einer arroganten, angeblichen Sachkompetenz wegerklärt. In solchen Fällen werden dann also (pseudo-)wissenschaftliche Studien angeführt, die belegen sollen, daß Zuwanderung enorme ökonomische Gewinne für die Volkswirtschaft bringe oder Ausländer ja gar nicht krimineller als Deutsche seien, obwohl ein Blick in die Polizeiliche Kriminalstatistik genügt, um das Gegenteil zu beweisen.

Der nächste Schritt zur Verhinderung von Kritik sei es dann, den Gegnern Etiketten anzuheften und ihnen damit schwere Glaubwürdigkeitsverluste zu bescheren. „Rechtspopulist“ und „Rassist“ seien derzeit besonders beliebt zur Markierung der „Bösen“, mit denen niemand sprechen dürfe. Die finale Stufe sei es schließlich, wenn von einem „Extremismus der Mitte“ gefaselt werde. Für diese Strategie der Ausgrenzung Beispiele zu finden, gelang Patzelt mühelos, sprachen doch sogar die ranghöchsten Vertreter der Bundesrepublik von einem „Helldeutschland“, das gegen ein „Dunkeldeutschland“ zu verteidigen sei. Dem Dresdner Politikprofessor ist das Thema der Meinungsfreiheit und Politischen Korrektheit so wichtig, weil es hier um die Frage gehe, ob wir „Sittenlosigkeit oder Tyrannei“ zulassen. Beides sei strikt abzulehnen.

Sarrazin: „Ich habe an den Staat geglaubt.“

Obwohl an diesem Abend aufgrund der Länge der Vorträge nur wenig Zeit zur gemeinsamen Diskussion blieb, war diese dennoch äußerst aufschlußreich, da sich Sarrazin und Patzelt nun endlich zur Frage der deutschen Rechtsbrüche durch die Bundesregierung äußerten. Sarrazin hatte hier seinen stärksten Moment, als er beschrieb, wie er früher immer an den Staat glaubte und nun erleben müsse, wie das Recht inzwischen ähnlich „wie in absoluten Monarchien und Diktaturen“ genutzt werde. Merkel und ihre Regierung hätten die „freie Interpretation des Staatsrechts“ auf die Spitze getrieben.

Patzelt stimmte zu: Das Recht könne entweder als „Schranke“ fungieren oder eben als „Taxi“, wenn es nur noch darum gehe, mit ihm an ein bestimmtes Ziel zu kommen. Dann hätten wir es jedoch mit „Willkür oder Ignorieren“ zu tun. Es sei beunruhigend, wie die Staatsführung ständig in den Notmodus umschalte und meine, in ihm Alleingänge begehen zu können, die sowohl der Demokratie als auch der Gewaltenteilung widersprechen. Der Staat sei so in eine Vertrauenskrise geschlittert, die durch die überzogene Politische Korrektheit noch weiter verschärft werde. Denn, so betonte Patzelt: „Wenn der Streit blockiert oder vergiftet wird, ist der Demokratie das Lebenselexier entzogen.“

Bereits unsere Kinder könnten in die Minderheit geraten

Wohin das führt, kann niemand mit Sicherheit sagen, aber einige Prognosen von Sarrazin und Patzelt hören sich sehr plausibel an: In seiner typisch technokratischen Herangehensweise erklärte Sarrazin noch einmal, daß sich die Sozialleistungen für Einheimische verschlechtern müssen, wenn der Staat dermaßen viel Geld für Asyl-​Zuwanderung und Versuche der Integration ausgebe. Viel dramatischer sei jedoch, wie schnell die Mehrheitsverhältnisse kippen könnten. Während er in Deutschland schafft sich ab noch annahm, dies könne frühestens Ende des 21. Jahrhunderts geschehen, haben die Ereignisse dieses Jahres und das, was in den nächsten noch droht, zu einer rapiden Beschleunigung des Bevölkerungsaustauschs geführt. Im Klartext heißt dies also, daß bereits unsere Kinder in die Minderheit geraten werden, wenn sich nicht schnell etwas ändert.

Patzelt ergänzte, Solidarität setze eine Unterscheidung zwischen einem „Wir“ und den „Anderen“ voraus. Dies ergebe sich aus den grundlegenden Erkenntnissen der Soziobiologie. Die Anderen müßten dabei keine Feinde sein, aber sie sind eben nicht „wir“. Wer diese Grenze aufhebe, zerstöre nun jede Solidarität. Aus dem Publikum kam die Frage, ob dies nicht langfristig zum „Bürgerkrieg“ führen könne. Sarrazin antwortete, noch sei es zu früh, darüber zu spekulieren, aber ausschließen könne er ein solches Szenario nicht.

Dieser Beitrag erschien auch auf Ein​wan​derungskri​tik​.de!

Žižek: Fortress Europe’s staunch defender on the left

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Žižek: Fortress Europe’s staunch defender on the left

by Esben Bogh Sorensen

Ex: http://www.roarmag.org and http://www.attackthesystem.com

(Redaction: This piece here is very critical and refuses to accept Zizek's new arguments for a renewed Left movement that would have abandoned the crazy utopian bias of the dominant establishment, partially belonging to the historical Left in Europe, that has been unable to smash the neoliberal leprosy. Therefore a careful reading of this piece can be interesting to help transform the Left into a new active solidarist movement, saving the socialist/social-democratic/chrsitian democratic or Third Way Welfare State and trade union movements from the final decay toward which the established are rushing to. In a nutshell: Zizek is right, Poor Sorensen is wrong but by being wrong he demonstrates that Zizek is right!) 

Žižek’s thoughts on the refugee crisis are useless, even harmful, for creating a pan-European leftist movement capable of challenging the far-right.

In a recent article Žižek replied to the critique of a previous text he wrote on the so-called ‘refugee crisis.’ The exchange between Žižek and his critics essentially revolved around whether the left should support the refugees and migrants’ demands for open borders and the right to live where they choose, or not.

Žižek claimed that the refugees’ dream, represented by “Norway,” doesn’t exist, whereas one critic points out that it is our duty to create it. Particularly problematic is his use of phrases like “our way of life,” “Western values” and figures like “the typical left-liberal.” The most important thing that is missing in Žižek’s text is an analysis of the potentiality of the refugees and migrants’ struggles.

In his response to the criticism, Žižek begins by complaining about the shift from what he calls “radical emancipatory movements” like Syriza and Podemos to “the ‘humanitarian’ topic of the refugees.” This, we are informed, is not a good thing because the refugee and migrant struggles are actually nothing but “the liberal-cultural topic of tolerance” replacing the more genuine “class struggle.”

Why this is the case is left unclear. Rather, we are told that:

[t]he more Western Europe will be open to [immigrants], the more it will be made to feel guilty that it did not accept even more of them. There will never be enough of them. And with those who are here, the more tolerance one displays towards their way of life, the more one will be made guilty for not practicing enough tolerance.

There are several problems in this statement, especially the idea of a “we” of “Western Europe” contrasted against an image of a “way of life” somehow shared by all refugees and migrants. Before turning to that problem, however, it is useful to examine one of Žižek’s favorite tropes — the “typical left-liberal” — which sits at the heart of his critique.

Žižek’s “typical left-liberal” — a figure that is reiterated and criticized throughout much of his writing — is a figure who holds tolerant and multicultural views, but whose antiracism is actually a kind of subtle racism. In the piece in question the “left-liberal” humanist figure is a person who is afraid of criticizing Islam and who (according to Žižek) unjustly accuses those who do so of being Islamophobic.

But who is this “left-liberal” Žižek has spent so much time criticizing? On closer inspection this figure does not actually represent any position on the left. The left does not face a problem of too much tolerance, this is a straw man. If anything, it faces the twin problems of nationalism (or a national imaginary) and an inability to adequately critique Western values — problems which Žižek’s text demonstrate.

Žižek’s critique therefore completely misses the heart of the discussion: how to thoughtfully criticize fundamentalist religious views as well as “the West” and “Western values.” Žižek does neither of these.

Žižek places this misrepresented figure of the “left-liberal” on the one side, while countering in with an even more problematic and essentially racist stereotyped figure of the refugee/migrant:

Many of the refugees want to have a cake and eat it: They basically expect the best of the Western welfare-state while retaining their specific way of life, though in some of its key features their way of life is incompatible with the ideological foundations of the Western welfare-state.

Now, compare this to a recent statement made by Marine Le Pen, the leader of the French Front National:

“Without a policy restricting immigration, it becomes difficult, if not impossible, to fight against communalism and the rise of ways of life at odds with … values of the French Republic.”

Žižek’s sentiments are remarkably similar to the rhetoric of the European far-right. Representatives of Front National, the Danish Peoples Party or UKIP couldn’t have been more precise on the fundamental views of nationalism within Europe today. Žižek completely capitulates to this nationalism, showing the dangers of utilizing the language of your enemy.

Essentially, Žižek accepts the dominant idea — shared by institutional Europe and the extreme right — that refugees and migrants pose a problem, threat, or some kind of crisis for “us” and “our egalitarianism and personal freedoms.” In doing so he reiterates a common nationalist argument, which can be found both in an institutional form promoted by national governments and in a radical right form: they and their way of life are incompatible with “us” and “our way of life.”

The problem here is not the degree of tolerance or exclusion as Žižek suggests, but rather the opposition itself, which is intrinsically false. In his critique of the (mis)figure of the humanist “left-liberal,” Žižek falls back on the illusion of a totalizing European or Western “we.” A “we” that is superior to the “way of life” of refugees and migrants, because “our” values are universal.

Naturally, this poses a problem, or rather a “refugee crisis” that “we” need to solve. Instead of criticizing this “we,” Žižek reproduces the mainstream media’s image of refugees as a kind of impersonal stream of humans posing nothing but a problem or even a crisis. This, Žižek says, calls for “militarization,” a topic he (fortunately?) doesn’t elaborate on any further.

In the text, all refugees and migrants are defined by the same way of life. However — in risk of stating the obvious — the refugees and migrants come from very different geographical areas and very different cultures. The homogeneity suggested by Žižek clearly draws on an old orientalist trope, where different non-homogenous cultures are categorized within the one culture with opposite and conflicting values to Europe and the West. Gone are not only different cultures, traditions etc., but also variations within these, as well as the myriad forms of secular, liberal, and socialist traditions that have also existed in parts of the vast geographical area that Žižek simply subsumes under a single way of life, sure to create a “crisis” when coming to Europe.

The European figure of the “we” that must solve the “crisis” created by the refugees is of course problematic, but even more problematic is Žižek’s proposed solution to this supposed crisis.

His proposed starting point of action is not, for example, a movement that brings together both migrants and different sectors of European proletarians like precarious workers, the unemployed, students etc., but rather the European nation-states and their political elites.

Rather than fighting together for freedom of movement for all, Žižek thinks the national and supranational elites should curb this right. Rather than fighting for open borders and against the nation-states and their political elites, he supports a centralized distribution of refugees by the nation-states. Rather than analyzing the current conjuncture and the possibilities for contesting the institutions of European political and economic elites — Fortress Europe — Žižek falls back on the same institutional solutions and becomes the “left defender” of Fortress Europe.

Moreover, instead of situating the struggles of refugees and migrants within an analysis of capitalism, Žižek refers abstractly to the problems caused by “the integration of local agriculture into global economy.” Žižek’s avoidance of political economy is not new, but it becomes particularly problematic in this case because it’s not coupled with an analysis of the current social struggles throughout Europe and beyond, resulting in a strange opposition between abstract “class struggle” and the struggles of refugees and migrants.

There is no serious attempt to analyze the potentialities of these struggles and how their articulation to other social struggles could potentially challenge the extreme right.

Rather than try to answer such questions, Žižek suggests that the “left must embrace its radical Western roots.” Unfortunately, Žižek uncritically adopts the concept of “Western values” which seem to imply “universal values.”

But what are “western values” and the European cultural heritage if not a deeply bourgeois heritage? A heritage with a history full of mass killings, mass extermination, war, colonialism, and imperialism etc.? This history of western values is not just the past but also the present. The so-called war on terror has cost 1.3 million civilian lives.

It is not refugees and migrants who have created any crisis. Instead, it is Europe, the West and global capital with its self-claimed universal values that pose a fundamental threat to humanity in general. What are western values if not “freedom, equality, property, and Bentham,” as Marx once said?

Žižek criticizes the left for wanting to “fill in the gap of the missing radical proletarians by importing them from abroad, so that we will get the revolution by means of an imported revolutionary agent.” Like the figure of the “left-liberal,” this notion seems to be pulled out of thin air.

It would be far more interesting if Žižek actually participated in the discussion on how to connect migrant and refugee struggles with other kinds of struggles. Instead we get a critique of these unsubstantiated figures of positions on the left. Who is Žižek actually criticizing?

In the last couple of months, we have witnessed how migrant and refugee struggles in Calais, Greece, Hungary, Slovenia, Germany, and even Denmark have sparked a new antiracist movement that could potentially challenge the growing extreme right. This is a movement that overcomes the national “we” and contains networks of solidarity between different sectors of migrants, refugees, and the European population.

How these struggles can be combined with other kinds of struggles is of crucial importance. Yet Žižek manages to reduce this potentiality to “the liberal-cultural topic of tolerance.” Žižek’s last two texts are completely useless for creating an anti-capitalist and anti-national movement across Europe capable of challenging the radical right and European elites; indeed, they have been harmful for such a project.

Esben Bøgh Sørensen is an intellectual historian from Denmark with a Master’s degree in History of Ideas. He has been engaged in various social movements, most recently the student movement and the refugee solidarity movement. You can find his writings on academia.edu.

Zbig, il se fait tard...

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Zbig, il se fait tard...

Ex: http://www.dedefensa.org

L’habitude a été, ces dernières années, de consulter quelques anciens hauts conseillers de sécurité nationale US de l’ère d’avant 9/11 et même d’avant la fin de la Guerre froide, pour y trouver chez eux quelque sagesse. Leurs conduites lorsqu’ils étaient “aux affaires” fut loin d’être irréprochable, mais semble, par rapport au standard actuel, un panthéon de sagesse. Ainsi “les vieilles canailles” apparurent souvent comme des “vieux sages”. Les “vieilles canailles” principales sont Henry Kissinger et Zbigniew (Zbig) Brzezinski ; ces deux dernières années, Kissinger s’est tenu un peu effacé tandis que Brzezinski s’est très largement mis en avant.

Avec l’Ukraine, Brzezinski s’est déchaîné, retrouvant son tempérament polonais bien loin du “vieux sage”. La Russie est (re)devenue l’ennemi n°1 et les conseils de Brzezinski poussaient largement dans le sens de l’affrontement entre les USA et la Russie, dans tous les cas jugeant irrémédiable le fossé entre les deux puissances et assurées les intentions expansionnistes de la Russie. Pour ce qui concerne l’intervention russe en Syrie, Brzezinski a d’abord recommandé aux USA de “résister” à la pénétration russe, si besoin en allant jusqu’à l’affrontement.

... Brusquement, tout change. Brzezinski irait jusqu’à dire que la destruction du Su-24 a remis toutes les choses en place, que Russie et USA sont sur le point de s’entendre et que “leurs intérêts sont plus proches que jamais”, que la Russie a avalé la couleuvre (la destruction du Su-24) sans réagir et qu’elle agit (en Syrie) “d’une façon plus modérée”, que la Turquie reste ferme. Toutes ces affirmations sont quotidiennement démenties par les évènements, autant opérationnels qu'avec les déclarations diverses des uns et des autres.

Brzezinski se fait-il vieux ? Ce n’est pas une hypothèse ni une question mais l’inéluctable marche du temps. Pourtant, rien ne montre chez lui une quelconque sénilité intellectuelle. L’âge intervient peut-être dans la principale explication que nous proposerions : la confusion d’un esprit dont la psychologie a fini par être grandement affaiblie par l’atmosphère délétère avec le maximalisme et le déterminisme-narrativiste de Washington , qui pense donc en fonction des influences de la “bulle” washingtonienne plus que des évènements. Dans ce cas, justement, Brzezinski tente de montrer qu’il n’en est pas le jouet. Sa position exposée ici dans une interview à Politico.com, contraire à l’analyse évidente de la politique comme de ses propres positions d’il y a un mois (alors que son analyse actuelle aurait pu se justifier il y a un mois !), représente une tentative stérile politiquement de sembler retrouver un peu de sa “sagesse” avec une posture du pseudo-réaliste recommandant une politique d’entente redonnant aux USA un statut de puissance qu’ils n’ont plus. (La seule information que nous apporte Brzezinski est, a contrario et contre son gré, que les USA sont vraiment très affaiblis.) L’interview est résumée en français dans un texte de Sputnik-français, le 30 novembre.

« Les intérêts russes et américains sont aujourd'hui proches comme jamais, estime l'ex-conseiller du président américain sur la sécurité nationale Zbigniew Brzezinski. Il suffit de donner la préférence à une politique plus modérée en Syrie, et les deux pays pourront non seulement régler la crise syrienne, mais également atteindre une paix stable dans leurs propres relations. Aucun d'entre eux, d'ailleurs, n'est intéressé à la confrontation, d'après M. Brzezinski cité par le journal Politico. Un mois auparavant, ce faucon de l'époque de la guerre froide appelait la Maison Blanche à faire preuve d'un “courage stratégique” face à la Russie, dont l'opération militaire en Syrie aide Bachar el-Assad à rester au pouvoir, ce qui nuit aux intérêts américains dans la région. Depuis que la Russie s'est mise à agir “d'une façon plus modérée”, il considère l'avenir des relations entre les deux pays avec bien plus d'optimisme.

» Les tensions entre la Russie et l'Occident “sont sérieuses, mais pas fatales”, estime M. Brzezinski. Et si le bon sens l'emporte, elles pourraient même s'avérer bienfaisantes, vue que les deux parties seraient obligées de négocier pour régler la crise syrienne et éviter des “conséquences encore plus destructives”. Selon lui, on est en droit d'espérer que le bon sens prévaudra. Le politologue constate que l'Occident a fait preuve de calme dans sa réaction à l'incident impliquant un bombardier russe Su-24 abattu par les forces aériennes turques. Pour leur part, les Russes, après avoir pris une grande respiration, ont fini par reconnaître que l'escalade ne servait à rien. Et la Turquie, qui se montre ferme et intransigeante, ne souhaite pas non plus que la crise s'aggrave, conclut Zbigniew Brzezinski. »

 

Julien Rochedy au Forum de la dissidence

Julien Rochedy est intervenu au Forum de la dissidence samedi 21 novembre dans le cadre de la table ronde «Grand Remplacement et réveil des identités» avec Renaud Camus et Damien Rieu

Il nous livre ici son point de vue sur la dissidence.

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mercredi, 02 décembre 2015

La guerra civil islámica

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La guerra civil islámica

por Claudio Mutti

Editorial de la revista Eurasia. Rivista di studi geopoliticiXXXIX (3 – 2015).

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

“Omnia divina humanaque iura permiscentur” (César, De bello civili, I, 6).

La guerra civil propiamente es un conflicto armado de amplias proporciones, en el que las partes beligerantes se componen principalmente de ciudadanos de un mismo Estado; objetivo de cada una de las dos facciones en lucha es la destrucción total del adversario, física e ideológica. Sin embargo, tal definición se puede aplicar ampliamente: Ernst Nolte, por ejemplo, llama “guerra civil europea” al conflicto de las dos ideocracias que, en el período comprendido entre la Revolución de Octubre y la derrota del Tercer Reich, trataron de aniquilarse recíprocamente. Guerra civil, pero combatida a escala global, fue también según Nolte la Guerra Fría, un “choque político-ideológico entre dos universalismos militantes, cada uno de los cuales estaba en posesión de al menos un gran estado, un choque en el que lo que estaba en juego era la futura organización de un mundo unitario” [1].

En cierta medida, es posible extender la definición de “guerra civil” al conflicto político y militar que, en el mundo musulmán de hoy, contrapone Estados, instituciones, movimientos, grupos y facciones pertenecientes a la misma comunidad (umma). Un conflicto de tal naturaleza se indica por el léxico islámico a través del término árabe fitna, al cual recurre el Corán, en donde se afirma “la sedición es más violenta que la matanza” (al-fitnatu ashaddu min al-qatl [2].

La primera fitna en la historia del Islam es la que rompió la comunidad musulmana durante el califato del Imam Alí. Concluida la revuelta de los notables de la Meca con su derrota en la Batalla del Camello, la fitna explotó una vez más con la rebelión del gobernador de Siria, Muawiya ibn Abi Sufyan, que, después de haber enfrentado en Siffín al ejército califal y después de apoderarse de Egipto, Yemen y otros territorios, dio comienzo en el 661 a la dinastía omeya. Una segunda fitna opuso al califa omeya Yazid Ibn Muawiya y al nieto del profeta Mahoma, al-Husayn ibn Alí, que el 10 de octubre de 680 conoció el martirio en la batalla de Karbala. La tercera fitna fue el choque dentro de la familia Omeya, que allanó el camino a la victoria abasí. La cuarta fue la lucha fratricida entre el califa abasí al-Amin y su hermano al-Ma’mun.

Irak-Chiites-et-sunnites.jpgLa primera y la segunda fitna, lejos de resolverse en un mero hecho político, están en el origen de la división de la umma islámica en las variantes sunita y chiíta: dos variantes correspondientes a dos perspectivas de la misma doctrina y por lo tanto definibles como “dimensiones del Islam inherentes a ella no para destruir su unidad, sino para hacer participar a una mayor parte de la humanidad y de  individuos de diferente espiritualidad” [3]. Ahora, mientras la mayoría de los árabes, de los turcos, de los pakistaníes es sunita, como sunita es igualmente Indonesia, que es el más populoso de los países musulmanes, el núcleo más compacto y numéricamente consistente del Islam chiíta es representado por el pueblo iraní. Esta estrecha relación de Irán con la Chía se utiliza ahora en un marco estratégico inspirado en la teoría del “choque de civilizaciones”: los regímenes del mundo musulmán aliados de los Estados Unidos y de Israel recurren instrumentalmente al dualismo “Sunna-Chía” con el fin de excitar el espíritu sectario y dirigir las pasiones de las masas contra la República Islámica de Irán, pintada como enemiga irreductible de los suníes y presentada como el núcleo estatal de la hegemonía regional “neosafávida” (fue bajo la dinastía safávida cuando en la Persia del siglo XVI la Chía se convirtió en la religión del estado).

El alimento ideológico del sectarismo anti-chií consiste principalmente, aunque no exclusivamente, en las corrientes wahabitas y salafistas, que desde su aparición han sido objeto de reprobación y condena por parte de la ortodoxia suní. Acerca de la relación histórica de solidaridad que une tales manifestaciones de heterodoxia al imperialismo británico y estadounidense, ya lo hemos visto en otro lugar [4]. Aquí será oportuno observar que el producto más reciente y virulento de estas corrientes, es decir, el autodenominado “Estado Islámico” (Daesh, Isis, Isil, etc.), abiertamente apoyado por Arabia Saudita, Qatar y Turquía, es el instrumento de una estrategia norteamericana destinada a asegurar al régimen sionista la hegemonía en el Medio Oriente y por lo tanto a impedir la formación de un bloque regional que, desde Irán, se extienda hasta el Mediterráneo.

También es necesario señalar la significativa similitud entre el caricaturesco y paródico “Califato” de al-Baghdadi y la petromonarquía saudita. Los feroces y bestiales actos de sadismo perpetrados por los secuaces del así llamado “Estado Islámico”, la destrucción sacrílega de lugares de culto tradicionales y la vandálica destrucción de los sitios de la memoria histórica en Siria e Irak, de hecho, representan otras tantas réplicas de análogos actos de barbarie cometidos por los wahabitas en la Península Arábiga [5]. El así llamado “Estado islámico”, como se ha demostrado ampliamente en las páginas de esta revista [6], no es sino una forma radical y paroxística de aquella particular heterodoxia que tiene su propio epónimo en Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. Por otra parte, tanto la entidad saudita como su réplica denominada “Estado Islámico” deben ambas su nacimiento y su desarrollo a los intereses angloamericanos y a las decisiones operativas de la geopolítica atlántica.

La “guerra civil” islámica, la fitna que estalla en el mundo musulmán de hoy, tiene por lo tanto en su origen la acción combinada de una ideología sectaria y de una estrategia que sus propios diseñadores han llamado “la estrategia del caos.”

* Claudio Mutti es director de “Eurasia”.

Notas

[1] Ernst Nolte, Deutschland und der Kalte Krieg (2ª ed.), Klett-Cotta, Stuttgart 1985, p. 16.
[2] Corán, II, 191.
[3] Seyyed Hossein Nasr,  Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milán.
[4] Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. IX, n. 4, octubre-diciembre 2012, pp. 5-11.
[5] Carmela Crescenti, Lo scempio di Mecca, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, no. 4, octubre-diciembre 2014, pp. 61 a 70.
[6] Jean-Michel Vernochet, Le radici ideologiche dello “Stato Islamico”, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, no. 4, octubre-diciembre 2014, pp. 81 a 85.

(Traducción de Página transversal)

Fuente: Eurasia. Rivista di studi geopolitici