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samedi, 03 avril 2010

Intervista a Gabriele Adinolfi

Intervista a Gabriele Adinolfi

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


Gabriele Adinolfi è nato a Roma nel 1954. Tra i fondatori di Terza Posizione, è analista politico e scrittore. Ha collaborato a numerose iniziative culturali, tra cui «Orion», gestisce il sito di informazione «Noreporter» e ha istituito il Centro Studi Polaris.


Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Silla, Cesare, Augusto, Giuliano, gli Ottoni, Barbarossa, Carlo V, Napoleone e i grandi dell’Asse.
Poi, sul piano degli scrittori, Friedrich Nietzsche, in cui è essenziale lo sforzo poetico dello spirito guerriero, il coraggio di guardare la nudità senza arrossire; Pierre Drieu La Rochelle, la sobria e cosciente concezione di vivere la tragedia; Julius Evola, il nume che ti presenta direttamente la tua verità ancestrale e quella divina; Benito Mussolini, il pensiero lineare e lirico in geometrie perfette; Luigi Pirandello, come dice lui stesso, «le maschere nude», quindi l’ironia divina nell’introspezione della commedia umana; Jean Mabire, la capacità di disegnare paesaggi e personaggi eroici propri ad un romanziere, che è stato ufficiale di commando e che resta legato ad un immaginario pagano; infine Alexandre Dumas, l’espressione delle gerarchie valoriali che si rivelano nel pieno delle passioni umane. Ma penso si debbano aggiungere anche Emilio Salgari che con i suoi capolavori di avventura ha creato un immaginario impareggiabile invitandoci a vivere sul serio, ed Edmondo De Amicis che con il libro Cuore ha insegnato e formato tantissimo le generazioni che vanno da quella cresciuta immediatamente prima del fascismo alla mia.


Soppressione delle libertà politiche, leggi razziali, imperialismo coloniale, alleanza con Hitler. Queste sono le classiche accuse rivolte al Fascismo dalla vulgata corrente. Che cosa rispondi a chi presenta tutto ciò come la definitiva condanna in sede storiografica e politica del Ventennio?

Che chi lo pensa è ignorante, male informato o prevenuto.
Il Fascismo e l’Asse hanno rappresentato l’espressione piena e vitale della libertà e della dignità dei popoli e lo hanno fatto da ogni punto di vista: esistenziale, politico, culturale, finanziario, economico, energetico e sociale.
Chi ha conculcato le libertà, oltre ad aver eliminato centinaia di milioni di uomini, chi ha imposto il sistema criminale e mafioso in cui versa oggi un pianeta allo sbando, preda dello sfruttamento integrale di popoli, individui e risorse, della speculazione intensiva ed estensiva che si estende al sistematico utilizzo del narcotraffico e alle miliardarie e delinquenziali operazioni farmaceutiche che apportano epidemie e impediscono qualsiasi cura di successo, è proprio chi alla Germania dichiarò guerra nel 1939 e poi combatté contro di noi ed il Giappone. Si tratta di quegli stessi che, dopo aver commesso il genocidio completo dei nativi americani, hanno compiuto i massacri al fosforo, al napalm e con le bombe atomiche.
Non possono così che suonare grottesche le accuse mosse all’Asse; in particolare quella che va ultimamente alla moda di prendersela con il Fascismo per le leggi razziali, stilate peraltro al varo dell’Impero, «dimenticando» che tra i «buoni» le leggi razziste erano attive, dall’arrivo dei «progressisti» al potere, come in Francia dove furono introdotte da un premier israelita o negli Usa dove rimasero attive fino al 1964. Pretendere che queste fossero un motivo di differenziazione e di scontro è ridicolo come lo è la distrazione odierna, visto che nessuno si scandalizza per quelle tuttora in vigore in Liberia e in Israele.
Che i padrini della mafia americana e cosmopolita o i lacchè dello stalinismo possano aver presentato, a posteriori, il Fascismo e l’Asse in questo modo falso e fittizio ci sta pure: hanno vinto e possono fare quello che vogliono, anche imporre leggi contro la ricerca storica. Poiché poi la menzogna è tipica della loro cultura, è normalissimo che la propaghino ovunque a mascheratura della loro sozzura.
Quello che non si può invece avallare è il tentativo pietoso di coloro che, avendo frequentato ambienti diversi dai dominanti, ambienti in cui proprio la conoscenza storica è la prima attività politica, si affannino a dire bestialità di questo tipo nel vile e servile conato di essere accettati. Non si sa bene da chi vogliano esserlo né come sperino di riuscirci perché chi striscia non piace neppure a colui verso cui si prosterna. Ma mi chiedo anche perché mai costoro dovrebbero fare carriera.
Cos’hanno, infatti, da farci la Nazione, il popolo, la stessa umanità, di gente così?
Infine ci sono quelli a cui, come si dice a Roma «non regge la pompa»: quelli che hanno paura di essere giudicati e cercano di farsi strada a gomitate «prendendo le distanze» da questo o da quell’aspetto, in modo da non sentirsi scomunicati. La scala di valori tra costoro varia: molti sono semplicemente dei deboli, altri sono degli influenzati, comunque scarsamente combattivi, parecchi invece sono dei banali miserabili.
Non hanno la forza e il coraggio di andare in fondo nella ricerca della giustizia e della verità e preferiscono evitare di pagare dazio, gettando al mare la memoria dei vinti perché tanto non costa nulla. Infatti perdono solo la dirittura e la dignità.


Uno sguardo all’attualità. Come giudichi sinteticamente Berlusconi e la sua politica estera?

Berlusconi è un po’ Craxi, un po’ Pacciardi e un po’ Cossiga. Ovviamente è soprattutto craxiano, anche se il ruolo dell’Italia è cambiato sulla questione palestinese; infatti, a differenza di Craxi, Berlusconi è filo-israeliano. Ma non dimentichiamoci che non c’è più Arafat dalla parte dei palestinesi, e quindi mancano le parti con cui dialogare.


Oltre a un’innegabile componente craxiana, in Berlusconi rivedi confluite anche altre tradizioni politiche, per esempio di un Giolitti?

Sicuramente Berlusconi ha una componente giolittiana. Nondimeno il presidente più simile a Giolitti è stato Andreotti.


Che ne pensi della politica economica dell’attuale governo?

L’Italia, dal punto di vista capitalista, diplomatico ed energetico, sta seguendo le linee di politica estera già abbozzate e poi delineate da Mussolini verso est e sud. Ribadisco che tuttavia il modello politico, sociale e culturale non è sicuramente mussoliniano.


Sul caso Alitalia, come giudichi il comportamento dell’esecutivo?

In Italia il capitalismo funziona sul consociativismo e sul co-interesse. Ossia: più do da mangiare ad un nemico e meno lo ho contro.


Quale reputi che sia l’influenza della massoneria oggi?

Nei precedenti governi, compresi quelli Berlusconi, ci furono certamente uomini con una forte connotazione massonica e con un passato di quel marchio, ma oggi i poteri forti sono altra cosa: a livello nevralgico c’è una compenetrazione di interessi vaticani, laici, protestanti, israeliti che convivono tramite strutture miste. L’«Ancien Régime» vuole questo consociativismo con le comunità islamiche, e questo modello è dettato da Usa e Francia.


Come giudichi la caduta dell’ultimo Governo Prodi?

Vista la situazione internazionale, con il Trattato di Lisbona, è interesse dei centri di potere che vengano fatte determinate riforme. I poteri forti volevano Prodi, ma è impossibile governare ricorrendo ogni volta al voto determinante dei senatori a vita. Quindi, dopo aver concepito l’irrimediabilità della bancarotta per il governo Prodi, i centri di potere hanno permesso nuovamente a Berlusconi di gestire la situazione. Tuttavia Murdoch, i magistrati e la CEI sono in conflitto con il Cavaliere, che però è supportato dal Vaticano. Le oligarchie comunque non sono di certo filo-berlusconiane.


La Mafia è, secondo te, un potere forte?

Non totalmente. Lo Stato non la può abbattere e non ha i mezzi per farlo. Ma, qualora acquisisse tutto questo, lo potrebbe fare sicuramente.


Perché Berlusconi è entrato in politica?

Entra in politica per salvare le tv. Poi, dopo averci preso gusto, ha deciso di rimanerci ed ampliare il suo impero, entrando in collisione con i magistrati.


Che cosa ne pensi delle affermazioni di Gelli su Berlusconi? Secondo te chi ha fatto entrare il Cavaliere in politica?

A proposito di Gelli, non è affatto vero che la P2 voleva bloccare l’avanzata comunista al governo. Inoltre va detto che ricevere complimenti da Gelli non è affatto positivo; magari Gelli li ha fatti perché, avendo perso la leadership, è geloso di Berlusconi. Resta comunque una persona poco credibile e, quel che è certo, non è stato lui a far entrare il Cavaliere in politica, ma piuttosto Bettino Craxi e Francesco Cossiga.


Capitolo «Gianfranco Fini»: con le sue ultime scelte, dove vuole arrivare?

Innanzitutto voglio precisare che ritengo che Fini sia mosso dall’invidia nei confronti di Berlusconi. Ad ogni modo, il suo sogno è fare il Presidente della Repubblica, ma forse ha fatto calcoli inesatti, perché nel suo giochino «scandalistico» ottiene consenso a sinistra, che tuttavia è effimero: la sinistra infatti non lo sosterrebbe mai a discapito di un suo esponente. Un altro suo possibile errore è l’eccessiva convinzione che sembra nutrire di essere tutelato e garantito da centri di potere esteri, che, a parte Londra, non hanno motivi per appoggiarlo.


Ultimamente si sono accese roventi polemiche sul ruolo effettivo di Di Pietro in Tangentopoli. Tu come la vedi?

Americani e comunisti, sapendo che non avrebbe mai potuto affossare il Pci, hanno fatto fare a Di Pietro una manovra politico-giudiziaria che ha spazzato via tutti i partiti politici del tempo, escludendo solo il Pci. Non a caso, per darsi una collocazione politica, si è fatto aiutare da Occhetto che, comunque, resta per me il vero regista della manovra di Tangentopoli.


Passiamo velocemente alla storia. Riguardo alla Guerra Fredda, che cos’è che non ci ha raccontato la storiografia ufficiale?

La Guerra Fredda si è combattuta realmente in Asia, non in Europa. Kennedy e Krusciov, che passano per moderati, sono stati coloro che hanno alzato maggiormente il tiro e rischiato seriamente di arrivare ad uno scontro armato. Da questa situazione chi ne ha tratto vantaggio è stata la Cina, perché è stata utilizzata dagli USA in funzione anti-sovietica.


Non furono in pochi coloro che, dopo la disfatta bellica, traslocarono dal Pfr al Pci, come ad es. Stanis Ruinas. Come giudichi questa scelta? Fu un tradimento o un percorso rivoluzionario alternativo?

A mio giudizio è dura passare il solco tra Fascismo e Pci, in particolare dopo le stragi ignobili commesse dai partigiani; anche se il Msi è lontano anni luce dal Fascismo, non bisogna dimenticare che il Movimento Sociale non aveva spazi e perciò, invece che scomparire, ha dovuto fare delle scelte. Il problema di quel partito, secondo me, è comportamentale, perché questo al suo interno aveva personaggi rivoluzionari, ma aveva una gestione para-statale. Comunque in politica non esiste il «giusto» o «sbagliato»: ciò che conta è l’uomo e nel Msi purtroppo vi fu molto l’inversione delle gerarchie con tutto quello che ne è conseguito.


Torniamo alla politica attuale. Quali prospettive per CasaPound?

Innanzitutto dipenderà dal ritmo che CasaPound avrà, anche se a mio parere gli allargamenti numerici sono stati negli ultimi tempi un po’ eccessivi e la obbligano a un forte impegno per rispondere al suo clamoroso successo. Ma dal punto di vista della creazione artistica e delle capacità dialettiche e mediatiche, CasaPound sta bruciando qualsiasi record. Proprio per questo ci vuole tenuta. Ad oggi è difficile capire quali siano i limiti che possa incontrare e quali gli obiettivi che le possano essere preclusi, se riesce a mantenere una corsa cadenzata.


Come giudichi le accuse di entrismo, giunte sia da destra che da sinistra, rivolte a CasaPound?

CasaPound ha abbandonato l’infantilismo destro-terminale e lo ha fatto senza sottostare alle logiche dell’entrismo. Questo fa letteralmente impazzire i duri e puri della «masturb-azione» che vedono ogni giorno la fotografia dell’essere radicali, idealisti e concreti e non hanno alibi per motivare la loro mancanza di azione.


Parliamo di Polaris. Come nasce questo centro studi, e perché?

Nel sistema moderno ed oligarchico, un ruolo essenziale nella formazione delle élites è dovuto ai think tank, che restano comunque un modello americano. Anche in Europa esistono, mentre in Cina e in India si stanno sviluppando. In Italia i centri studi, se hanno forza, producono programmi scientifici (come la Fondazione Ugo Spirito), oppure sono salotti correntizi dei politici che hanno tendenza alla superficialità. Il think tank fa analisi, propone soluzioni e strategie per conto di poteri forti economici privati. Polaris prova una terza via, cioè tracciare e proporre analisi e strategie per tutti gli operatori politici ed a vantaggio della nazione. Facendo un esempio, è come un’agenzia di servizi per le questioni politiche, giuridiche ed economiche; al contrario di come spesso avviene, Polaris è cresciuta gradualmente e da marzo editerà una pubblicazione trimestrale, che si pone ai livelli e nelle competenze trattate di riviste come «Limes» o «Aspenia».


Come è possibile coniugare movimentismo futur-ardito, attività culturale d’avanguardia ed elaborazioni strategiche ad ampio respiro?

Essenzialmente bisogna coniugare strutture a importanti reti relazionali.



jeudi, 25 mars 2010

H. de Sy: "De top van de Vlaamse Beweging is even Jacobijns als Parijs"

Hubert de Sy: "De top van de Vlaamse beweging is even Jacobijns als Parijs"

Christian Dutoit 

Ex: http://www.meervoud.org/

Vlaams.jpgEen hekelschrift. Zo noemt auteur Hubert de Sy zelf het boek dat hij vorig jaar uitgaf met als merkwaardige titel 'Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde beweging'. Volgens de achterflap verkondigt het boek 'politiek uiterst non-correcte meningen en stellingen.'
Het boek kende enig succes en is binnenkort aan zijn derde druk toe. Tijd voor Meervoud om een gesprek aan te gaan met de auteur over zijn 'hekelschrift' en over wat hem ertoe brengt zich als nestor (de Sy werd geboren in 1921) en na een lange en zeer gevarieerde carrière (oud-koloniaal ambtenaar, directeur van de Vlaamse Elsevier, VEV,...) in te laten met die 'versnipperde' Vlaamse beweging.

- Uw boek wordt door velen die het gelezen hebben, waaronder ikzelf, als nogal 'pessimistisch' aangevoeld. In een inleiding laat u Trends-directeur Crols ongeveer zeggen dat Brussel een blok aan het been is van de rest van Vlaanderen, en u schijnt zich daarbij aan te sluiten.

Hubert de Sy: Ik wens dat niet, maar ik denk dat er geen andere mogelijkheid meer is. Brussel heroveren, dat vind ik een utopie. Een dwaasheid. Niet alleen kunnen we niet op tegen de Franstalige belgicisten, maar binnen vijf jaar zijn de Arabieren baas. Hoe kunnen wij dat omkeren? Waar ik aan denk is, als Vlaanderen onafhankelijk is of zelfbestuur heeft, Brussel af te kopen. Met geld, veel geld. Brussel en Wallonië leven maar dank zij het geld van de Vlamingen. Je mag dat draaien of keren zoals je het wil.

- Eigenlijk geeft u nu Henri Simonet postuum gelijk, die ooit beweerde dat de verfransing van Brussel een 'onomkeerbaar sociologisch feit was'?

Hubert de Sy: Dat is een maatschappelijk fenomeen, daar kan je niet tegenop. Dat kun je niet tegenhouden met wetten.

- Maar Brussel 'afkopen'? Dat is een zachte variatie op wat Guido Tastenhoye van het Vlaams Blok hier ooit in deze kolommen verkondigde. Hij wou natuurlijk wel de ring afsluiten of de Brusselaars eventueel onder water zetten. Maar goed, ...

Hubert de Sy: Kijk, Brussel kan niet leven zonder geld van Vlaanderen. Dus kan Vlaanderen zeggen: je krijgt geld, mààr!

- Brussel is toch een economisch verlengstuk van Vlaanderen?

Hubert de Sy: Brussel is inderdaad een economisch verlengstuk van Vlaanderen, maar of er nu een Belgisch, een federaal of een confederaal systeem is, die economische relatie tussen Vlaanderen en Brussel heeft daar niets mee te maken. De structuur van de staat verandert niets aan de commercie. De Vlamingen gaan blijven verkopen. Als Delhaize of GB goedkoper varkensvlees vinden in Vlaanderen, dan gaan ze toch niet zeggen:Vlaanderen, dat is een andere staat. Dan gaan ze dat toch gewoon kopen. De economische middens trekken zich niets aan van het staatsbestel.

- In het verleden is het toch al gebeurd dat Wallonië liever bussen ging kopen in Frankrijk dan in Koningshooikt, de Van Hool-affaire.

Hubert de Sy: Dat is toch zeker zeer marginaal.

- En onlangs dreigde Di Rupo er nog mee Vlaamse producten te boycotten als er een nieuwe ronde in de staatshervorming zou komen?

Hubert de Sy: Dat is een politiek discours. In de praktijk kan dat misschien werken voor vijf procent van de economische uitwisseling.

- Ik kom nog even terug op de commentaren op uw boek. De meeste commentatoren en recensenten noemen het pessimistisch. Bent u pessimist van nature of het geworden?

Hubert de Sy: Ik moet toegeven dat mijn vrouw dat ook soms zegt. Maar als iemand iets zegt dat niet strookt met 'la pensée unique', dan ben je automatisch een pessimist. Ik beweer dat ik mijn best gedaan heb om rekening te houden met naakte feiten, en te trachten nuchtere gevolgtrekkingen te maken. Dat is mijn standpunt. Ik geef u het voorbeeld, dat voor mij emblematisch is, van de splitsing van Brussel-Halle-Vilvoorde. In dit geval heeft zelfs de top van de Vlaamse intellegentsia gezegd aan de Vlaamse politici dat ze eindelijk eens gebruik moesten maken van hun parlementaire meerderheid. Het heeft niet geholpen. Ze hebben het een tweede keer gedaan. Het heeft absoluut niet geholpen, integendeel. De resultaten van de kieswet zijn erger wat er ooit geweest is en ze zijn nu definitief vergrendeld. Brussel-Halle-Vilvoorde staat nu als kiesdistrict compleet open voor de propaganda van Franstalige politici. Wat heeft dat met pessimisme te maken? Het heeft te maken met het aanhalen van concreet controleerbare onbetwistbare feiten die aantonen dat de Vlaamse beweging niet alleen meer vooruit gaat maar integendeel achteruit gaat. Je kan zo honderd voorbeelden aanhalen.

- Hoewel het economisch niet zo goed voor de wind gaat doet Vlaanderen het voorlopig nog economisch beter dan Wallonië en Brussel. Hebt u er een verklaring voor waarom dat zich niet politiek vertaalt?

Hubert de Sy: Je bedoelt dat de economische macht zich politiek niet uitdrukt? Dat wordt moeilijk. Ik was toen actief in het Vlaams Economisch Verbond, toen de eerste regionalisering plaatsvond. Toen ging het goed met de inkomsten van het VEV, omdat ik het argument had om via die regionalisering te pleiten voor een grotere samenwerking met het VEV eerder dan met het VBO. Rekening houdende met een nieuwe economisch-politieke context. Zeer vlug hebben wij dan vastgesteld - na vijf of tien jaar - dat de Vlaamse economische middens ingezien hebben dat de macht van het Belgisch establishment, het Belgisch kapitaal, belgicistisch gebleven was en dat ze daar niets tegen konden doen. Een zakenman moet geld verdienen of vooral in leven blijven. Ze hebben ingezien dat ze in een Belgische context leven en dat het zakelijk gevaarlijk is zich flamingant op te stellen. Omdat ze te doen hebben met de macht van de Générale, Paribas enzovoort. Kort na de oorlog had je nog fabrikanten, ik denk aan Sabbe, die hun bedrijf De Vlaamse Tapijtweverij noemden. Het is ondenkbaar dat men vandaag een bedrijf opricht dat zich 'Vlaams' noemt. Die mensen kwamen uit Vlaamse college's waar ze liederen zongen als 'Mijn Vlaandren heb ik hartlijk lief' en 't zijn weiden als wiegende zeeën'. Dat is nu totaal gedaan. Wat doen de katholieke scholen vandaag? Die leren veilig vrijen.

- Kom, de tijden zijn toch ook wel enigszins veranderd.

Hubert de Sy: Ik wil maar zeggen dat het identiteitsbewustzijn maar kan komen uit de familie en uit het onderwijs. Dat gezeur, dat emmeren over identiteit heeft geen zin. Welk onderwijsprogramma is er vandaag nog dat de Vlaamse beweging uitlegt? Dat is toch essentieel, niet alleen voor Vlaanderen maar ook voor België.

- OK, u bent een weinig pessimistisch. Probeert u eens na te gaan wat er vandaag dan wèl nog goed is aan de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Wat is er verkeerd aan de Vlaamse beweging? Wel, ik ga natuurlijk niet akkoord met Schiltz die zegt dat de Vlaamse beweging afgedaan heeft omdat we nu een Vlaams parlement hebben.

- Rekent u Schiltz tot de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Neen. Hij en de Spirit-groep hebben de Vlaamse beweging ontmand. En de Spiritgroep, met Anciaux aan de kop, heeft ze afgemaakt. De Vlaamse beweging is nu meer dan ooit nodig. Maar de strategie is verkeerd. Sedert dertig jaar is men bezig over de Vlaamse identiteit en over de eerbaarheid van het Vlaams-nationalisme. Kijk, die Vlaamse identiteit: elk volk heeft zijn identiteit. Waarom moet dat bewezen worden? Het moet eventueel via het onderwijs en de kleine verenigingen uitgelegd worden. De Vlaamse identiteit bestaat, maar het identiteitsbewustzijn bestaat niet. De strategie is verkeerd omdat men bezig is met dingen die evident zijn. Nationalisme is gelijk een broodmes, je kunt ermee doen wat je wil. Je kunt er brood mee snijden, en dat is goed, maar je kunt ook de nek oversnijden van de vijand. In 'Doorbraak' heeft Manu Ruys dat 'Byzantijns' academisme genoemd. Centraal voor de Vlaamse beweging zijn het gedachtegoed van Maurits Van Haegendoren, en Lode Claes. De eerste zei: red de democratie, en Vlaanderen zal gered zijn. En de tweede had het over de 'afwezige meerderheid'. De Vlaamse beweging moet zich toespitsen op diegenen die potentieel iets kunnen veranderen aan de situatie. En dat zijn namelijk de politici. Je kan maar een wet baren en doen uitvoeren via het parlement. Je gaat er toch niet van uit, zoals Tastenhoye, dat we gaan opstaan en plaats nemen in de loopgraven. Dat is toch te knettergek. Enkel de parlementairen kunnen Vlaanderen zelfstandigheid geven of, voor degenen die het wensen, onafhankelijkheid. Die moeten dus het vuur aan de schenen gelegd worden. Aan de electorale schenen dus. Ach, als je die Nieuwe Politieke Cultuur van Verhofstadt nu ziet. Er zijn nog nooit zoveel politieke benoemingen geweest. En de groenen doen daar hevig aan mee. De Vlaamse beweging heeft geen boodschap aan steriel academisme. De top van de Vlaamse beweging is even Jacobijns als Parijs. Kijk naar dat recente congres over identiteit...

- Van de Marnixring?

Hubert de Sy: Inderdaad. Manu Ruys heeft daar zeer kritisch op gereageerd. Er waren 40 sprekers, het was internationaal, en er waren 500 of 600 aanwezigen. Het bewijs dat het gelukt was is het feit dat de voorzitter achteraf uitgenodigd werd op een drietal internationale congressen. Hoeveel schuppen aarde zal dat aan de Vlaamse zaak bijbrengen? Niets. Niets, niets.

- Wat zou u dan wel willen zien?

Hubert de Sy: Twee dingen. Eerst de strategie. Er zijn honderden kleine Vlaamse verenigingen en honderden kleine blaadjes. Men moet die basis inschakelen. Er is geen middenveld die de idealen van de Vlaamse beweging vertaalt naar het gewone volk. En ten tweede moet aan de Vlamingen uitgelegd worden wat de economische en culturele nadelen zijn van de huidige politiek. Cultureel de verfransing van Vlaams-Brabant. Economisch het aantal euro's dat jaarlijks gespendeerd wordt aan de Franstaligen. Dit soort dingen moet gevulgariseerd worden. We moeten opnieuw samen bewegen. En nu beweegt iedereen in zijn eigen hoekje. Maar ik heb weinig vertrouwen in de Vlaamse intelligentsia. Hoeveel zouden er zich nog als Vlaming durven uiten? Zou het vijf procent zijn? Kijk naar een Guido Van Gheluwe (oprichter van de Orde van den Prince, nvdr). Dat is een hevige flamingant, bijna Blokker aan het worden vrees ik zelfs. Maar die durven niet naar buiten treden. Hij is dolgelukkig met mijn boek, omdat ik zeg wat hij niet durft zeggen.

- Er zijn ook mensen die juist omwille van het Vlaams Blok niet meer naar buiten treden.

Hubert de Sy: Het Vlaams-nadelige van het Vlaams Blok is dat men alles wat Vlaamsgezind is amalgameert met het Blok.

- In die zin is het Vlaams Blok dan een blok aan het been van de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Dat schrijf ik letterlijk. Het cordon sanitaire is natuurlijk totaal ondemocratisch, maar dat belet niet dat de situatie zodanig geëvolueerd is dat de reputatie van het Vlaams Blok door dat systematisch amalgameren door mannen als Ludo Dierickx, Mark Spruyt en onze filosoof daar, hoe heet hij ook weer...

- U bedoelt Dieter Lesage?

Hubert de Sy: Ja, iemand die zich altijd filosoof verklaart. Die zijn erin geslaagd de Vlaamse beweging te demoniseren. En dat is een drama.

- Nu even iets helemaal anders. Wat vindt u van de activiteiten van het TAK?

Hubert de Sy: TAK? (denkt even na). Zeer positief. Kijk, twintig of dertig jaar geleden hadden wij 'taaltuinen'. Met Mark Galle, op de radio. Als je vandaag naar Ninove gaat, dan daag ik u uit om te verstaan wat ze daar zeggen. Antoon Roosens, die ik in mijn boek citeer, heeft ooit gezegd dat een volk zich niet kan laten respecteren als het geen cultuurtaal heeft. En wat doet de Vlaamse beweging daarvoor? Niets. Niets, sorry, niets.

- Maar nu verwart u het TAK een beetje met de Vereniging Algemeen Nederlands of de vroegere ABN-kernen.

Hubert de Sy: Het TAK, ik vind dat perfect. Het TAK, u bedoelt daar dus mee de mensen die tegen het Frans en het Engels zijn.

- Laten we even verder gaan. De Vlaamse Volksbeweging? De vorige voorzitter, Ivan Mertens, voorspelde de Vlaamse onafhankelijkheid voor vorig jaar...

Hubert de Sy: De VVB is even belangrijk als ze ooit geweest is. Maar ze volgt een verkeerde strategie. Ze werkt defensief. Vlaanderen Staat in Europa, dat spreekt niet tot de bevolking. Hoeveel Vlamingen kennen het verschil tussen volk, staat, natie, enzovoort... Ze houdt zich bezig met identiteit en de eerbaarheid van de Vlamingen. Ze moet veel agressiever worden. Ze moet vooral de basis betrekken.

- Hoe staat u dan tegenover het Vlaams Blok? Die partij heeft een volkse basis, of niet?

Hubert de Sy: Interessant. Daar kun je niet in twee woorden op antwoorden. Het Vlaams Blok is opgericht door Hugo Schiltz. Dat heeft Mark Grammens gezegd. Daar ga ik 100% mee akkoord. Het verraad van Hugo Schiltz ligt aan de oorsprong van het VB. In het VB heb je de overschotten, de restanten of de naweeën van de collaboratie en vooral van de repressie die het grootste schandaal van de Belgische geschiedenis is. Die rechtse of zelfs uiterst-rechtse strekking zindert vandaag nog altijd na bij mensen van het VB. Denk ik toch.

- Anderzijds recruteren ze een flink deel van hun electoraat bij vroegere SP-kiezers. Hoe verklaart u dat dan?

Hubert de Sy: Da's toch makkelijk. Als er op de markt een ruimte komt, dan is er altijd wel iemand die erin springt. De SP is een kaviaar-SP geworden en wordt het elke dag nog iets meer. Het Vlaams Blok is daar natuurlijk ingesprongen. Het VB is naar de gewone mens gegaan met het Vlaamse idee en natuurlijk ook met het migrantenidee. Het VB heeft rekening gehouden met de gewone Vlaamse mensen die in buurten wonen die overstelpt worden met migranten, en gaat ervan uit dat dit ook mensen zijn. En dat die mensen soms gedurende twee generaties gewerkt hebben voor een eigen huis, en dat hun eigen huis vandaag niets meer waard is. En daar houdt pater Leman géén rekening mee. En dat vind ik onzindelijk. Dat vind ik schandalig. Die mensen worden veel meer gediscrimineerd - vind ik - dan sommige migranten. OK, migranten worden wel gediscrimineerd, maar positief gediscrimineerd, sorry. Maar positieve of negatieve discriminatie, discriminatie is altijd verkeerd en ondemocratisch.

- Via uw talloze lezersbrieven bent u een actief medewerker van 't Pallieterke.

Hubert de Sy: Kijk, 't Pallieterke is een troostappel voor veel flaminganten. Daar lezen ze wat ze graag horen. Daar kunnen ze hun zeg kwijt. Het is vooral de troostappel voor de ouderwetse flamingant. Ik vind het zeer belangrijk, maar nog eens, de belgicistische middens zijn er ook in geslaagd 't Pallieterke te demoniseren. Van het bij Hitler te zetten. Dat is spijtig, maar wat kun je eraan doen? De belgicistische middens hebben àlle media in handen.

- Wat vindt u van de huidige evolutie bij het Ijzerbedevaartcomité?

Hubert de Sy: Wel, Lionel Vandenberghe heeft het Comité ontluisterd en vandaag loopt hij over naar de SP.a. Alle overlopers zijn onzindelijke mensen, maar hij is nog veel onzindelijker want hij loopt over van het Vlaamse naar het Waalse kamp. SP.a is een aanhangsels, via handen, voeten en portefeuilles, zetels en prebendes gebonden aan de PS en die PS is dé echte pest voor Vlaanderen. Omdat ze de macht hebben. Hij is dus de schaamte en de schande voorbij.

- Bent u ooit op de Ijzerbedevaart geweest?

Hubert de Sy: Ja, één keer. Maar de bedevaart is kapotgemaakt door de politieke partijen. In het begin de Volksunie, later de CVP. Zij hebben het dus gepolitiseerd. En al wat gepolitiseerd is, is rot. Per definitie. Vrede en geen oorlog, dat is het essentiële. Men had nooit die nazi's uit Holland en vooral uit Duitsland naar Diksmuide moeten laten komen. Dat was een fout van het Comité, dat kunnen ze zelfs niet aan het Blok verwijten. Het Vlaams Blok heeft daar overigens ook stommiteiten gedaan. Verreycken gedroeg er zich als een feldwebel. Daar is het Vlaams Blok enorm fout geweest.

- Hoe staat u tegenover N-VA?

Hubert de Sy: Ik vind Bourgeois een enorm charmant man. Ik wil de N-VA vergelijken met de VU van vóór Schiltz. Ik vind het schandalig dat men bang is voor de 'V' van de CD&V maar vind de 5%-regeling al even schandalig. Ik hoop werkelijk dat ze het halen. Kijk, nu kun je als Vlaming die afzijdig wil blijven van het Vlaams Blok weer stemmen voor een Vlaamse partij.

- Voor een 'proper' Vlaams Blok dus, zoals Bérénice Vaeskens in dit nummer van Meervoud stelt?

Hubert de Sy: Dat men mij dan die term 'proper' eens uitlegt. Zijn de socialisten 'proper' met Agusta? Het grote euvel van het VB is dat die partij stemmen heeft afgepakt van de SP. En het feit dat ze tegen de koning zijn.

- Een laatste vraagje, wat vindt u nu eigenlijk van een fenomeen als Meervoud?

Hubert de Sy: Ik vind dat een oase in de Vlaamse pers. Wat ik vooral apprecieer is dat Meervoud links is. Maar dat er weinigen zo hevig kritiek durven uitbrengen op de kaviaarsocialisten van de SP. Dat vind ik eerlijke journalistiek.

Hubert de Sy. Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde beweging. Mechelen, 2002, 387 p. Verkrijgbaar via Roulartabooks, Meiboomlaan 33, 8800 Roeselare. E-post: Jan.Ingelbeen@roularta.be

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Questions to Robert Steuckers: In order to precise the positions of SYNERGIES EUROPEENNES

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Questions to Robert Steuckers:

In order to precise the positions of Synergies Européennes

Interview by Pieter Van Damme, for an end of course dissertation


The following is a translation of an interview with Robert Steuckers founder of Synergies Européennes. S.E. is an excellent pan European organization with a very fine history of activism that was born as a result of a split from Alain DeBenoist's GRECE quite some time back.

***

Q: To what extent can "national-bolshevism" be included in the "third way", between liberalism and Marxism?


RS : National-bolshevism does not refer to any economic theory or project of society: this is too often forgotten. This composed term has been used to denominate the (temporary, indeed) alliance between the traditional cadres of German diplomacy, eager to release the Reich defeated in 1918 from the Western enterprise, and the leading elements of German communism, eager to find a weight ally in the West for the new-born USSR. With Niekisch – ancient cadre of the Council Republic of Monaco, crushed by the nationalist Freikorps [Franc Corps] under the mandate of Noske's social-democrat power – national-bolshevism assumes a more political shade, but in the majority of cases its self-denomination chooses the "national-revolutionary" label. The concept of national-bolshevism becomes a polemical concept, used by journalists to indicate the alliance between the extreme wings on the political chessboard. Niekisch, in the times when he was considered as a leading figure of national-bolshevism, was no more politically active, strictly speaking; he was the editor of newspapers appealing to the fusion of the national and communist extreme wings (the extremities of the political "horse-shoe", said Jean-Pierre Faye, author of the book Les langages totalitaires [Totalitarian languages]. The notion of "Third Way" made its appearance within this literature. It had different avatars, as a matter of fact mixing nationalism to communism, or some libertarian elements in the nationalism of the young people of Wandervogel to some communitarian options elaborated by the left, as it is the case, for instance, of Gustav Landauer. [1]

These ideological mixes were initially elaborated within the internal debate of then existing national-revolutionary factions; then after 1945, when there was hope that that some third way would become the way of Germany, torn between East and West, and when such Germany would be no more the place of the European divide, as on the contrary the bridge between the two worlds, managed by a political model combining the best qualities of the two systems, ensuring both freedom and social justice at a time. On a different level, the name of "third way" was sometimes used to called the German techniques of economic management which differed from Anglo-saxon techniques, although from within the same market liberalism. The latter techniques are considered to bee to much speculative in their progress, too little careful of the social continuum structured by non-market sectors (health and social welfare, teaching and university). In this German view of the 1950s and 1960s, market liberalism must be consolidated by respect and support to the "concrete orders" of the society, as to become an "order-liberalism". Its functioning will be optimal once the sectors of welfare and education do not limp, do not engender social misguidance due to the negligence of the non-market sectors by a political power too much subdued to banking and financial circuits.

The French economist Michel Albert, in his famous work Capitalisme contre capitalisme [Capitalism against capitalism], translated in many languages, opposes indeed such order-liberalism to the neo-liberalism en vogue after the coming to power of Thatcher in the United Kingdom and Reagan in the United States. Albert calls order-liberalism as the "Rhenish-model", defining it as a model loath to stock market speculation as a way to maximise profits without structural investments, and as a model attentive to the preservation of education "structures" and a social welfare apparatus, sustained by a solid hospitalising network. Albert, order-liberal follower of the German way, re-evaluates non-market sectors under attack after the coming of neo-liberalism. The French "nouvelle droite" [ND, new right], preferably working within a dream-like framework, though masked by the adjective "cultural", did not take into account this fundamental distinction made by Albert in a book nevertheless hugely diffused through all European countries. If the ND had to opt for an economic strategy, it should have started with the defence of existing structures (that are also cultural achievements), in concert with gaullists, socialists and ecologists struggling to defend them, and should have criticised those politicians who – following the neo-liberal and Anglo-Saxon fashion – give speculative trends a free rein. Neo-liberalism dislocates non-market achievements (that is cultural practical achievements) and any ND, claiming the supremacy of culture, should act in defence of such non-market structures. Due to the mediocrity of the leading personnel of the Parisian ND, this work was not undertaken. [2]


Perroux, Veblen, Schumpeter and the heterodoxes

Anyway, economics in France operates – with Albertini, Silem and Perroux – a distinction between "orthodoxy" and "heterodoxy". As "orthodoxies" (plural) it means the economic techniques applied by European powers: 1) Marxist Soviet-style planned economy, 2) free, unrestrained market economy, the Anglo-Saxon fashion (pure liberalism or classic liberalism, deriving from Adam Smith, present neo-liberalism being but an avatar of the former), 3) economics offering some mix between the two former techniques, such as it was theoretically expressed by Keynes at the beginning of the XX century and adopted by most social-democrat governments (British labourites, the German SPD, the Austrian SPÖ, Scandinavian socialists). As heterodoxy the French political science means every economic theory not deriving from pure principles, that is from disembodied rationality, as on the contrary from peculiar, real and concrete political histories. In this perspective, heterodoxes are the heirs of the famous German "historical school" of the XIX century, of Thorstein Veblen's institutionalism and of Schumpeter's doctrines. Heterodoxes do not believe in universal models, as against the three dominating forms of orthodoxy. They think that there exist as many economics and economic systems as national and localhistories. Together with Perroux and beyond their particular differences and divergences, the heterodoxes think that the historical character of structures is in itself worth being given due respect, and that economic problems must be solved respecting such structures' own dynamics.

More recently, the notion of "Third Way" was brought again to the fore with the coming to power of Tony Blair in the United Kingdom, after about twenty years of thatcherian neo-liberalism. Apparently, as a principle, Blair comes closer to the German third way; as a matter of fact, he is but trying to make the British working class accept the achievements of liberalism. His "third way" is a placebo, a set of buffer measures and devices against the unpleasant social effects of neo-liberalism, but it does not reach the core of the matter: it is only a timid shift towards some keynesian position, that is towards one more orthodoxy, already practised by labourites but presented to the voters through a much more "workerist" and muscular language. Blair would have really launched a third way had he centred his policies on a deeper defence of the non-market sectors of the British society and on some forms of protectionism (once already favoured by a more muscular keynesism, a keynesism oriented to order-liberal - or order-socialist, order-labourite – trends). [3]

Q: What is the role of Marxism, or bolshevism, in this framework?


RS : Soviet-style Marxism failed everywhere, its role is finally brought to nothing, even in the countries that experienced the market economy. The sole nostalgia left, that comes to the light in every discussion with people emigrated from those countries, goes to the excellence of the educational system, able to communicate a classical corpus, and to the schools of music and dance, local expressions of the Bolshoy; this nostalgia can be found even in the smallest villages. The ideal thing would be to couple such education network, impermeable to the spirit of 1968, to an heterodox economic system, clearing the way to cultural variety, without the control of a rigid ideology preventing the blossoming of the new, both on the cultural and economic plan.

Q : Did Synergy then quit organic solidarism or not?


RS : No, it did not. Since it is just heterodoxies – plural, so that they can answer to the imperatives of the autonomous contexts – that represent ipso facto organic reflexes. Heterodox theories and practices stem from an organic humus, as against orthodoxies elaborated in the test-tube, indoor, outside of any concrete context. Because of their defence of dynamic structures engendered by the peoples and their own institutions, and of the non-market and welfare sectors, heterodoxies immediately imply solidarity among the members of a political community. The third way brought forward by heterodox doctrines is forcedly an organic and solidarist third way. The problem you seem to rise here is that a good number of right-wing groups and small couches wrongly used and equivocated the terms "organic" and "solidarist", or "community", never making reference to the complex corpus of heterodox economic science. It was easy then for Marxist critics, for instance, to label the militants of those movements as jokers or cheaters, manipulating empty words without any real and concrete meaning.

Participation et interest in the times of De Gaulle

The concrete and actual example to which the ND could have made reference was the set of reform attempts in De Gaulle's France during the 1960s, with the "participation" of the workers in the enterprises and their "interest" to the reaped benefits. Participation and interest are the two pillars of the gaullian reform of the market liberal economy. Such reform does not go in the direction of Soviet-style rigid planning, although a Planning Office was forecast, as in the direction of the anchorage of the economy within a given population, in this case the French population. In parallel, this orientation of the French economy towards participation and interest is coupled with the reform of the representative system, where the national assembly (i.e. the French parliament) should be sided until the end of its term by a Senate where would sit not only the elected representatives of the political parties, but also the representatives of the professional associations and the regions, directly chosen by the people without the parties acting as a go-between. In this sense De Gaulle spoke about a "Senate of the professions and the regions".

For minute history, this reform by De Gaulle was by no means taken into account by the French right-wing and by the ND, partly coming from them, since those right-wings found themselves in the camp of the partisans of a French Algeria and therefore rejected, altogether irrationally, every manifestation of the gaullian power. This undoubtedly explains the total absence of any reflection upon these gaullian social projects in the ND literature. [4]

Q : The economic visions of the conservative revolutionaries seem to me to be rather confused, and apparently have but one common denominator, the rejection of classical liberalism!


RS : Economic ideas in general, and introductory manuals to the history of economic doctrines give a very small room to heterodox currents. These manuals – that are imposed to the students in their first years, and that are destined to give them a sort of Ariadne's thread to keep their way through the succession of economic ideas – almost do not include anymore the theories of the German historical school and their many avatars in Germany and elsewhere (in Belgium at the end of the XIX century Emile de Laveleye, genial scholar and vulgariser of the theses of the German historical school). The only notable exception are the manuals of Albertini and Silem, quoted above. From Sismondi to List, from Rodbertus to Schumpeter, a different vision of economics is developed, focusing on the context and accepting the infinite variety of the ways of realising the political economy. These doctrines do not reject so much liberalism, since some of their bearers qualify themselves as "liberals", as the refusal of acknowledging the contextual and circumstantial differences in which economic policy must concretise. Pure "liberalism", rejected by the conservative revolutionaries, because is a kind of universalism. It believes that it can find application everywhere in the world without taking into account the variable factors of the climate, the population, its history, the kinds of cultivation that are traditionally practised, etc. This universalist illusion is shared by the other two pillars (Soviet-Marxist and Keynesian-socialdemocratic) of economic orthodoxy. The universalist illusions of orthodoxy notably led to neglecting food cultivation in the Third World, to the spreading of monocultures (which exhaust the soil and do not cover the whole of food and vital requirements of a single population) and, ipso facto, to famines, among which those of Sahel and Ethiopia stay printed in memory. In the corpus of the ND, the interest to the context in economics produced a series of studies on the works of the MAUSS (Anti-Utilitarian Movement in Social Sciences), whose leading figures, labelled as "leftists", explored a range of interesting problematics and analysed in deep the notion of "gift" (that is, the forms of traditional economy not based on the axioms of interest and profit). Promoters of this institute were notably Serge Latouche and Alain Caillé. Within the framework of the ND, it was especially Charles Champetier who dealt with such themes. And with an incontestable vivacity. Anyway, despite the congratulations he deserved for his exploratory work, it must be said that the simple transplant of the corpus of the MAUSS into that of the ND was impossible, and rightly so, since the ND did not prepare any clear-cut study about the contextualist approaches in economics, both from right-wing and left-wing labelled doctrines. Notably no documentary search, aimed at reinserting into the debate the historical (hence contextualist) process, had been realised upon the German historical schools and their avatars, true economic valve of a conservative revolution that is not limited, obviously, to the time-space running from 1918 to 1932 (to which Armin Mohler had confined himself, in order not to sink into some unmastered exhaustiveness).

The roots of the conservative revolution trace back to German romanticism, to the extent that it was a reaction against the universalist "geometricism" of Enlightment and the French Revolution: they nevertheless encompassed all the works of the XIX century philologists who widened our knowledge about antiquity and the so-called «barbarian» worlds (as the Persian, German, Dacian and Maurian peripheries of the Roman Empire by Franz Altheim), the historical school in economics and the sociologists related to it, the aesthetic revolution started by the English pre-Raphaelites, by John Ruskin, by the Arts & Crafts movement in England, by Pernstorfer in Austria, by Horta's architecture and the Van de Velde furniture-makers in Belgium, etc. The mistake of the Parisian journalists, who spoke at random about the "conservative revolution" without possessing a true German culture, without really sharing the competence of the Northern European soul (and neither those of the Iberian or Italian soul), was to reduce this revolution to its sole German expressions during the tragic, hard and exhausting years after 1918. In this sense the ND lacked cultural and temporal depth, it did not have enough reach in order to magisterially impose itself upon the dominant non-culture. [5]

Coming straight back to economic issues, let us say that a conservative revolution is revolutionary to the extent that it aims at defeating the universalist models copied from revolutionary geometricism (according to Gusdorf's expression); and it is conservative to the extent that it aims at returning to the contexts, to the history that let them emerge and made them dynamic. In the domain of urbanism as well, every conservative revolution aims at erasing the filth of industrialism (the project of the English pre-Raphaelites and of their Austrian disciples around Pernerstorfer) or geometrical modernism, in order to rejoin the traditions of the past (Arts & Crafts) to make new unheard-of forms blossom (MacIntosh, Horta, Van de Velde).

The context in which an economy develops is not exclusively determined by the economy itself, as by a lot of different factors. Hence the new-right criticism to economicism, or to "all-economism". Unfortunately this criticism did not remark the philosophical relationship of the non-economic (artistic, cultural, literary) process with the economic process of the historical school.

Q : Is it correct to say that Synergon, as against the GRECE, gives less attention to purely cultural activity, to the benefit of concrete political events?


RS : We do not give less attention to cultural activity. We give as much. But as you remarked, we do give a heightened attention to the events of the world. Two weeks before his death, the spiritual leader of Briton independentist, Olier Mordrel, who followed our work, called me on the phone, knowing his death was near, in order to sum up things, to hear one last time the voice of someone whom he felt intellectually close to – though never mentioning at all his state of health, because it was not the case either to pity himself or let himself be pitied. He told me: «What makes your reviews indispensable is your constant reference to real life». I was much enticed by this homage from an elder man, who had been anyway very niggard of praises and regards. Your question indicates that you undoubtedly felt – sixteen years later and through the readings concerning the themes of your dissertation – the same state of things as Olier Mordrel did at the eve of his passing. The judgement of Olier Mordrel seemed to me to be all the more interesting, in retrospect, since he is a privileged witness: having returned from his long exile in Argentine and Spain, he became rather soon accustomed to the ND, just before this came under the lights of the media. Then he saw its apogee and the beginning of its decline. And he attributed this decline to its incapacity of learning the real, the living, and the dynamics operating in our societies and in history.

Resorting to Heidegger


This will of learning or, in Heidegger's words, to reason in order to operate the unveiling of the Being and thus get out of nihilism (of the oblivion of Being), immediately implies to indefatigably review the facts of the present and past worlds (the latter being always able to come back again on the front, potentially, despite their temporary sleep), but also to encourage them in a thousand new ways in order to arouse new ideological and political constellations, to mobilise and strumentalise them in order to destroy and erase the heaviness stemming from institutionalised geometricism. Our path clearly proceeds from the will to add concreteness to the philosophical visions of Heidegger, whose language, too complex, has not yet engendered any revolutionary (and conservative!) ideology or praxis. [6]

Q : Is it correct to affirm that Synergies Européennes represents the actual avatar of the national-revolutionary doctrinal corpus (of which national-bolshevism is a form)?


RS : I feel there is in your question, in some way, too mechanic a vision of the ideological path leading from the conservative revolution and its national-revolutionary currents (since the Weimar epoch) and the present action of European Synergies. You seem to perceive in our movement a simple transposition of Weimar national-revolutionary corpus in our times. Such transposition would be anachronistic, and stupid as such. Anyway, within this corpus, Niekisch ideas are interesting to analyse, as well as his personal path and memories.

Nevertheless, the most interesting text of this movement stays that co-signed by the Jünger brothers, Ernst and most of all Friedrich-Georg, titled Aufstieg des Nationalismus [The Rise of Nationalism]. For the Jünger brothers, in this work as in other important articles or letters of that time, "nationalism" is a synonymous of "peculiarity" or "originality" – peculiarity and originality which must stay as such, never allowing to be obliterated by some universalist scheme or by some empty phraseology which its users pretend to be progressive or superior, valid for every time and place, a discourse destined to replace all languages and poetries, all epopees and histories. Being a poet himself, Friedrich-Georg Jünger, in this text-manifesto of the national-revolutionaries of the Weimar years, opposes the straight lines, the rigid geometries typical of the liberal-positivist phraseology, to the windings, meanders, labyrinths and serpent-like layouts of the natural, organic data. In this sense, this a sort of prefiguration of the thinking of Gilles Deleuze, with his rhizome creeping everywhere in the territorial plan, in the space, which is the Earth. Similarly, the hostility of nationalism, as it was conceived by the Jünger brothers, to the dead and petrified forms of liberal and industrial societies can be understood only in parallel to the analogous criticism by Heidegger and Simmel.

In the majority of cases, the present so-called national-revolutionary circles – often led by false wise men (very conceited), big tasteless faces or frustrated people who seek an uncommon way to emerge – as a matter of fact limited themselves to reproduce, like xerographers, the phraseology of the Weimar era. This is at the same time insufficient and clownish. This discourse must be used as an instrument, as a material - but together with more scientific philosophical or sociological materials, more generally admitted into scientific institutions - and obviously compared to moving reality, to marching actuality. The small couches of false sages and frustrated people, ill with acute "fuehreritis", were clearly unable to perform such task.

Beyond Aufstieg des Nationalismus


As a consequence, it seems to me impossible today to uncritically reconnect to the ideas of Aufstieg des Nationalismus and to the many reviews of the times of the Weimar Republic (Die Kommenden, Widerstand d'Ernst Niekisch, Der Aufbruch, Die Standarte, Arminius, Der Vormarsch, Der Anmarsch, Die deutsche Freiheit, Der deutsche Sozialist, Entscheidung by Niekisch, Der Firn, also by Niekisch, Junge Politik, Politische Post, Das Reich by Friedrich Hielscher, Die sozialistische Nation by Karl Otto Paetel, Der Vorkämpfer, Der Wehrwolf, etc.).

When I say "uncritically" I do not mean that this doctrinal corpus should be treated by a dissolving criticism, that it should be rejected as immoral or anachronistic, as it is done by those who try to change the colour of their skin or "bypass the customs". I mean that we must attentively read them again, but carefully taking into account the further evolution of their authors and the dynamics they aroused in other camps than that of close revolutionary nationalism. An example: Friedrich Georg Jünger publishes in 1942 the final version of his Die Perfektion der Technik [The perfection of Technique], which lays the foundations of the whole post-war German ecological thinking, at least in its non-political aspects – being as such depreciated and stupidly caricature-like. Later Friedrich Georg launches the review of ecological reflection Scheidewege, which continues to be published after his death in 1977. Aufstieg des Nationalismus must be therefore read again in the light of those later publications, and the national-revolutionary and soldiery message of the 1929s (already containing some ecological intuitions) must be coupled to the biologizing, ecological and organic corpus extensively commented on the pages of Scheidewege. In 1958 Ernst Jünger – together with Mircea Eliade and with the collaboration of Julius Evola and the German traditionalist Leopold Ziegler - founds the review Antaios, whose aim is to dive the readers into the great religious traditions of the world. Later, Martin Mayer studied Jünger's works in all these aspects and clearly showed the links connecting this thinking – covering a whole century – to a quantity of different intellectual worlds, such as surrealism – always forgotten by the national-revolutionaries of Nantes and elsewhere and by the Parisian ND, who consider themselves as infallible oracles but do not seem to know very much, once one takes the trouble to scratch a little the surface of things! Because of their Parisian coquetry, they try to have a German look, a "prussianhelmet" look, that suits all those "zigomars" as a London bowler-hat to an orang-outang! Meyer thus recalls the painting work of Kubin, the close relation between Jünger and Walter Benjamin, the esthetical distance and nonchalance connecting Jünger to the dandies, to the aesthetes and to a great number of romantics, the influence of Léon Bloy upon that German writer who died at the age of 102, the contribution of Carl Schmitt to his progress, the capital dialogue with Heidegger started in the second post-war period, the impact of Gustav Theodor Fechner's philosophy of nature, etc.

In France the national-revolutionaries and the anachronistic and caricature-like NDs should equally remember the closeness of Drieu La Rochelle to Breton's surrealists, notably when Drieu took part into the famous "Barrès trial" staged in Paris during the first world war. The uncritical transfer of the German national-revolutionary discourse of the 1920a in nowadays reality is misguided , often ridiculous device, deliberately ignoring the immeasurable extent of the post-national-revolutionary path of the Jünger brothers, of the worlds they explored, elaborated, interiorised. The same remark is valid notably for the ill reception of Julius Evola, solicited in the same misguided and caricature-like way by those neurotic pseudo-activists, those sectarian of the satano-sodomistic saturnalias based in the mouths of the Loire, or those pataphysical and porno-videomaniac metapolitologists, generally coming to nothing else but jest or parody. [7]

Q : Why does Synergies give so much attention to Russia, apart from the fact that this country belongs to the Eurasian ensemble?


RS : The attention we give to Russia proceeds from the geopolitical analysis of European history. The first intuition that moved our efforts for about a quarter of century was that the Europe where we were born, the Europe of the division sanctioned by the conferences of Teheran, Yalta and Postdam, was no place to live; it condemned our peoples to exit from history, to live into an historical, economic and political stagnation, which in time means death. Blocking Europe at the height of the Austrian-Hungarian border, cutting the Elba at the height of Wittenberg, depriving Hamburg of its Brandenburger, Saxon and Bohemian hinterland – all these are strangling strategies. The Iron Curtain divided industrial Europe from complementary territories and from that Russia which, at the end of the XIX had become the supplier of commodities to Europe, the extension of its territories towards the Pacific Ocean, the indispensable fortress locking up the European territory from the assaults it had to suffer until the XVI century from the peoples of the steppe. The English propaganda painted the Tsar as a monster in 1905 at the time of the Russian-Japanese war, it encouraged sedition in Russia in order to put the brake to this pre-communism European-Russian synergy.

Communism, financed by New York bankers as it had been the case of the Japanese fleet in 1905, served to build chaos in Russia and to hinder optimal economic relations between Europe and the Russian-Siberian space. Exactly as the French revolution, supported by London (see Olivier Blanc, Les hommes de Londres [London's Men], Albin Michel), ruined France, annihilated all its efforts to create its own Atlantic fleet and turn outwards instead of turning to our own territories, made of the mass of French (and Northern African) recruits cannon fodder for the City during the Crimean war, in 1914-1918 and in 1940-45. An outward-oriented France, as Louis XVI wished indeed, would have reaped immense benefits, would have ensured itself a solid presence in the New World and Africa since the XVIII century, and probably would not have lost its Indian agencies. A France turned towards the blue line of he Vosges provoked its own demographic implosion, committed a biological suicide. The worm was in the fruit: after the loss of Canada in 1763, a mistress elevated to the rank of marquise said: «Phoow! Why care about some square miles of snow!» and «After us, the Flood». Great political foresight! It could be compared to that of a meta-politiologist of the 11th arrondissement, who looks down on the few reflections by Guillaume Faye about "Eurosiberia"! At the same time, this declining French monarchy clang to our imperial Lorraine, snatched it from its natural imperial family, a scandal to which the governor of the Austrian Netherlands, Charles de Lorraine, had no time to find remedies; Grand Master of the Teutonic Order, he wanted to finance its re-conquest paying on his own money a well-trained and equipped army of 70,000 men, accurately chosen. His death put an end to this project. This prevented the European armies from disposing of the Lorraine fortress to put an end, some years later, to the revolutionary comedy that blooded Paris and was about to commit the Vendean genocide. Everything to the great benefit of Pitt's services!

At the present stage of our researches, we realise in the first place that the project of recasting and indefectible Euro-Russian alliance is not an anomaly, a whim or an original idea. On the contrary! It is a recurring imperial care since Charles the Great and Otto I! Forty years of Cold War, European division and mediatic dejection tele-guided by the United States made two or three generations of Europeans forget about the achievements of their history.

The roman limes on the Danube


Afterwards, our readings led us to realise that Europe, since the Carolingian era, wanted itself as the heir of the Roman empire and aspired to reconstruct the latter all along the ancient Danubian limes. Rome had the Danube under check from its source to its mouth in the Black Sea by deploying a major and strictly organised river fleet, by building works of art (among which bridges of colossal dimension in those times, with pillars 45 meters high above the bed of the river), improving the technique of boat-bridges for its assaulting legions to cross, by concentrating to the Pannonian pass many well trained legions armed with advanced materials, as well as in the province of Scythia, corresponding to Doubroudja south of the Danube. The aim was to contain the invasions coming from the steppes mostly at the level of the two passage points with no important relieves, that is the Hungarian plain (the "puszta") and the mentioned Doubroudja, at the junction between present Romania and Bulgaria. No empire could blossom in Europe, in the ancient times and in the high Middle Ages, if those passage points were not locked for the non-European peoples of the steppe. Consequently, within the framework of the Holy Alliance of Prince Eugene (see below), it was necessary to get rid of the Turkish Ottoman enterprise, an irruption alien to Europeanness come from the South-East. After the studies of the American Edward Luttwak on the military strategy of the Roman Empire, we realise this one was not simply a circum-Mediterranean empire, centred around the Mare Nostrum, as also a Danubian, or Rhenish-Danubian empire, with a river crossing the whole Europe, where not only a military fleet but also a civilian and commercial fleet cruised, allowing exchanges with the German, Dacian or Slavic tribes of Northern Europe. The coming of the Huns to the Pannonian pass upsets this order in the ancient world. The alien character of the Huns does not allow to turn them into Foederati, as it was the case of the German and Dacian peoples.

The Carolingians wanted to restore the free circulation on the Danube by advancing their pawns in the direction of Pannonia, occupied first by the Avars, then by the Magiars. Charles the Great starts the excavation of the Rhine-Danube channel later called as Fossa Carolina. It is thought that it was used, for a very short time, to envoy troops and materials towards the Noricum and the Pannonia. Charles the Great, in spite of its privileged links with the Roman Pope, ardently looked for being recognised by the Byzantine Basileus and even thought about giving him one of his daughters as a wife. Aix-la-Chapelle, the capital of the German Empire, is built as a cast of Byzantium. His marriage project failed, with no other apparent reason than the personal attachment of Charles to his daughters, whom he wanted to keep with himself by making them abbesses of the great Carolingian abbeys, without the least demureness. This fatherly attachment, then, did not allow to seal a dynastic alliance between the Western German Empire and the Eastern Roman Empire. The Carolingian era finally closed with a check, because of an ill-omened constellation of powers: the French kings, then the Carolingians (and the Pipinides before them) became allied (sometimes unconditionally) to the Roman Pope, enemy of the Irish-Scottish Christianism that sends missions in Danubian southern Germany, and to Byzantium, legal heir of the Roman imperiality. The Papacy would later use the energies of Germany and France against Byzantium, having no other goal than to assert his own supremacy. On the contrary, it should have persisted in the work of peaceful penetration of the Irish-Scottish into the Danubian east, from Bregenz and Salzburg, favouring the peaceful transition from paganism to Irish Christianism instead of giving free hand to zealots payed by Rome like Boniface, since the Irish-Scottish variant of Christianism was not opposed to Byzantine orthodoxy and thus a modus vivendi could be arranged from Ireland to Caucasus. This synthesis would have allowed an optimal setting of the European continent, which would make impossible the return of the Mongolian peoples and the Turkish invasions of the X and XI centuries. Then the Spanish reconquista would have been advanced by six centuries! [8]

After Lechfeld in 955, the organisation of the Pannonian pass

These reflections upon the check of the Carolingians, exemplified by the sterile and criminal bigotry of his descendent Lois the Pious, show that there can be no consistent European civilisation bloc without mastering and organising the territory at the mouths of the Rhine in the Black Sea. Besides, what is absolutely significant, Otto I rises to imperial dignity after the battle of Lechfeld in 955, that allows to regain access to Pannonia after the elimination of the partisans of the Magyar kahn Horka Bulcsu and the rise of the Arpads, who promise to lock up the Pannonian pass as it was done by the Roman legions in the time of the glorious Urbs. Thanks to the German army of emperor Otto I and to the loyalty of the Hungarians to the Arpads' promise, the Danube becomes again either German-Roman or Byzantine (eastward of the "cataracts" of the Iron Door). If Pannonia is no more a passage for the Asian nomads who can dislocate the whole continental political organisation in Europe, ipso facto, imperiality is geographically restored.

Otto I, married to Adelaide, the heiress of the Lombard kingdom in Italy, means to reorganise the Empire by ensuring his check upon the Italian peninsula and negotiating with the Byzantines, despite all the reticence of the Papacy. In 967, twelve years after Lechfeld, five years after his crowning, Otto receives a message from the Byzantine Basileus, Nicephore Phocas, and proposes a joint alliance against the Saracens. This will be tacitly realised with Nicephore's successor, more pliant and far-sighted, Ioannes Tzimisces, who authorises the Byzantine Princess Theophana to marry the son of Otto I, the future Otto II, in 972. Otto II will not be up the task, undergoing a terrible defeat by the Saracens in Calabria in 983. Otto III, son of Theophana who becomes regent awaiting for his majority, will not get to consolidate his double German and Byzantine heritage

The forthcoming reign of Konrad II will be exemplar under this perspective. This salic emperor lives in good relations with Byzantium, whose lands east of Anatolia begin to be dangerously harassed by the Seljuchides raids and the Arabs inroads. The Ottonian heritage in Pannonia and Italy, together with peace with Byzantium, allowed a veritable renaissance in Europe, accompanied by a remarkable economic expansion. Thanks to the victory of Otto I and the inclusion of Arpads' Pannonia in the European imperial dynamics, our continent's economy knew a phase of expansion, demographic growth continued (population increased by 40% between the year 1000 and 1150), the tillage of forests goes at full speed ahead, Europe progressively gains weight on the northern Mediterranean shores and the Italian cities start their formidable process of expansions, while the Rhenish towns become important metropolis (Cologne, Magonza, Worms with its superb roman cathedral).

This expansion and the quiet yet strong reign of Konrad II show that Europe cannot know economic prosperity and cultural expansion unless the space between Moravia and the Adriatic is secured. Otherwise, it is decline and marasmus. Such is the capital historical lesson learnt by Europe's gravediggers: in 1919 at Versailles they want to segment the course of the Danube into as many antagonist states as possible; in 1945, they want to establish a divide on the Danube at the height of the ancient border between Noricum and Pannonia; between 1989 and 2000 they want to set a zone of permanent troubles in the European south-east in order to prevent the East-West suture and they invent the notion of an insuperable civilisation gap between the Protestant-Catholic West and the Orthodox-Byzantine East (see the theses of Samuel Huntington).

In the Middle Ages it is the Rome of Papacy which sinks this expansion by contesting the temporal power of the German Emperors and by weakening thus the European building altogether, deprived of a powerful and well articulated secular arm. The care of the Emperors is to co-operate in harmony and reciprocity with Byzantium, in order to restore the strategic unity of the Roman Empire before the East-West divide. But Rome is the enemy of Byzantium, even before being the enemy of the Muslims. To the tacit but very badly articulated alliance between the German Emperor and the Byzantine Basileus, the Papacy will oppose the alliance between the Holy Siege, the Norman kingdom of Sicily and the kings of France, an alliance which also supports all the seditious movements and the particular and lowly material interests in Europe, once they sabotage the imperial projects.

The imperial dream of the German Emperors


The Italian dream of the Emperors, from Otto III to Frederick II Hohenstaufen, aims at uniting under the same supreme authority the two great communication waterways in Europe: the Danube at the centre of the lands and the Mediterranean at the junction of three continents. Against the national-socialist or folkist ("völkisch") interpretations of Kurt Breysig and Adolf Hitler himself, who never ceased to criticise the Italian orientation of the Middle Age German Emperors, one is forced to realise that the space between Budapest (the ancient Aquincum of the Romans) and Trieste on the Adriatic, having the Italian peninsula and Sicily as their extension, allows – if these territories are united by the same political will – to master the continent and face any external invasion: those of the nomads from the steppe and from the Arabian desert. The Popes contested the Emperors the right to manage for the sake of the continent the Italian and Sicilian affairs, which they deemed to be their own personal apanages, subtracted from any continental, political and strategic logic: by acting this way, and with the complicity of the Normans of Sicily, they weakened their enemy, Byzantium, but at the same time Europe altogether, which could neither gain its foothold in Africa nor sooner free the Iberian peninsula, nor defend Anatolia against the Seljukides, nor help Russia facing the Mongolian invasions. The situation demanded the federation of all forces into a common project.

Because of the seditious plots of the Popes, French kings, Lombard rioters, scrupleless feudals, our continent could not be "membered" from the Baltic to the Adriatic, from Denmark to Sicily (as it was equally wished by another far-sighted spirit of the XIII century, The King of Bohemia Ottokar II Premysl). Since then Europe has not been able to finish any great design in the Mediterranean (hence the slowness of the reconquista, left to the sole Hispanic peoples, and the failure of the Crusades). Europe was so frail on its eastern side that it has been in danger, after the disasters of Liegnitz and Mohi in 1241, to be completely conquered by the Mongols. This fragility – that could have been fatal – was the result of the weakening of the imperial institute due to the intrigues of the Papacy.

About the necessary alliance of the two European imperialities

In 1389 the Serbs are crushed by the Turks in the famous battle of Blackbirds Field [Kosovo Polje], dramatic prelude to the definitive fall of Constantinople in 1453. Europe then gets repelled, its back against the Atlantic and the Arctic. The sole reaction of the continent comes from Russia, a country thus inheriting ipso facto the Byzantine imperiality since the very moment the latter ceases to exist. Moscow becomes then the "Third Rome"; it inherits from Byzantium the title of the Eastern imperiality. There were two empires in Europe, the Western Roman Empire and the Eastern Roman Empire; and again there are two, despite the fall of Constantinople: the Sacred Roman-German Empire and the Russian Empire. The latter goes directly to the offensive, bite the lands conquered by the Mongols, destroys the Tatar kingdoms of the Volga, pushing ahead towards the Caspian. As a consequence, tradition and geopolitics are compelling: the alliance wanted by the German Emperors after Charles the Great between Aix-la-Chapelle and Byzantium must be pursued – but from now on by an imperial German-Russian alliance. The Western (German) Emperor and the Eastern (Russian) Emperor must act de concert in order to push back the enemies of Europe (the two-headed strategic space, as the bicephalous eagle is) and free our lands from the Ottoman and Muslim encircling, with the support of the local kings: kings of Spain, Hungary, etc. Here is the historical, metaphysical and geopolitical reason of every German-Russian alliance.

This alliance will work, despite the French betrayal. France was hostile to Byzantium on behalf of the anti-imperial Popes of Rome. It will take part to the destruction of the fortresses of the Empire in the West and will ally with the Turks against the rest of Europe. Hence the irresolvable contradictions of the French "nationalists": they simultaneously appeal to Charles Martel (an Austrasian of our countries between the Mose and the Rhein, invoked to save ill-organised Neustria and Aquitaine, which – decaying and prey to any kind of dissent – could not withstand the Arab invasion); and those same French nationalists validate the crimes of betrayal of felon kings, cardinals and ministers: Francis I, Henry II, Richelieu, Louis XIV, Turenne – that is, zealots of the Revolution, as if the Austrasian Charles Martel had never existed!

The Austrian-Russian alliance works with the Holy Alliance erected at the end of the XVII century by Eugene of Savoy, who pushes back the Ottomans on all borders, from Bosnia to the Caucasus. The geopolitical intent is to consolidate the Pannonian pass, to activate a Danubian river fleet, to organise a deep defence of the border by units of Croatian, Serbian and Rumanian peasant-soldiers supported by German and Lorrainian colons, to free the Balkans and, in Russia, to take back Crimea and put under check the northern shores of the Black Sea, in order to enlarge the European space to its full Pontian territory. In the XVIII century Leibniz will reiterate this necessity to include Russia into a great European alliance against the Ottoman push. Later, the Holy Alliance of 1815 and the Pentarchy of the beginning of the XIX century will be an extension of the same logic. Bismarck's alliance of the three emperors and his concerted policy with Saint Petersburg, which he never abandoned, are but modern applications of the views of Charles the Great (never realised) and of Otto I, the veritable founder of Europe. Since these alliances ceased to operate, Europe entered a new phase of decline, notably to the benefit of the United States. The Versailles Treaty in 1919 aims at the neutralisation of Germany, while its pendant, the Trianon Treaty, sanctions the partition of Hungary, deprived of its extension in the Tatra mountains (Slovakia) and of its union with Croatia created by king Tomislav, a union later established by the Pacta Conventa in 1102, under the leadership of the Hungarian king Koloman Könyves ("The one who had a crazy love for books"). Versailles destroyed what the Romans had united, restores what the troubles of the dark centuries had imposed on the continent, destroys the work of the Crown of Saint-Etienne who had harmoniously restored the Roman order while respecting the Croatian and Dalmatian peculiarities.

Versailles was above all a crime against Europe since that necessary Hungarian-Croatian harmony in this key geographical zone was destroyed, thus precipitating Europe into a new era of idle troubles to which a new emperor, one day, must necessarily put an end. Wilson, Clemenceau and Poincaré, France and the United States bear the responsibility of this crime in the face of history, as well as the brainless bearers of this ethics of conviction (and consequently of irresponsibility) brought by this laicism of French-revolutionary rehash. Beyond its professed exterior hostility to the Catholic religion, this pernicious ideology acted exactly in the same way as the simoniac Popes of the Middle Ages: it destroyed the optimal organising principle of our Europe, its adepts being blinded by smoky principles and filthy interests, deprived of any historical and temporal depth. Their principles and interest were completely unfit for providing the assizes of a political organisation, let alone an empire.

In the face of this disaster, Arthur Moeller van den Bruck, leading figure of the conservative revolution, launches the idea of a new alliance with Russia, despite the establishment in power of Leninist bolshevism, since the principle of the alliance between the two emperors must stand up and against the desacralisation, horizontalisation and profanation of politics. Count von Brockdorff-Rantzau will apply this diplomacy, what shall lead to the German-Soviet anti-Versailles: the Rapallo agreement signed by Rathenau and Chicherin in 1922. From there we come back to the problematic of "national-bolshevism", that I already evoked in the course of this interview.

In the 1980s, when the development of military strategies, armaments and most of all inter-continental ballistic missiles leads to the acknowledgement that no nuclear war is possible in Europe without the total destruction of the conflicting countries, there appeared the necessity to get out of the impasse and to negotiate in order to bring Russia back into European concerted policy. After perestroika, started in 1985 by Gorbachev, the thaw is announced, hope revives: but it will be soon followed by delusion. The succession of inter-Yugoslav conflicts will block Europe again between the Pannonian pass and the Adriatic, while the mediatic propaganda offices, led by CNN, invent a thousand reasons to deepen the gap between Europeans and Russians.

Block of the European dynamics between Bratislav and Trieste

These historical explanations must lead us to understand who the self-nominated defenders of an Europe without Russia (or against Russia) really are – the papist or masonic gravediggers of Europe, and that their action condemns our continent to stagnation, decline and death, as it did stagnate, decline and waste away from the Huns invasions to the restauratio imperii by Otto I, after the battle of Lechfeld in 955. After the reorganisation of the Hungarian plain and its inclusion in the European orbit, the economic and demographic growth of Europe followed soon. A similar renaissance is whatthey wanted to prevent after the thaw which followed Gorbachev's perestroika, since this geopolitical rule granting prosperity is always valid (for instance, the Austrian economy tripled its commercial turnover in a few years after the dismantling of the Iron Curtain along the Austrian-Hungarian border in 1989). Our enemies know very well the ways of European history. Much better than our own coward and decaying political personnel. They know the point to strike us, block us, strangle us is always there – between Bratislava and Trieste. In order to prevent the reunion of the two Empires and a new period of peace and prosperity, which would make Europe shine from thousands lights and would condemn our competitors to a second-rank role, simply because they do not possess the wide rage of our potentialities, the fruit of our differences and our peculiarities.

Q : What are the concrete positions of European Synergies concerning institutions like the parliament, people's representation, etc. ?


RS : The vision of European Synergies is democratic albeit hostile to all forms of partitocracy – since partitocracy, supposedly "democratic" is in fact the perfect denial of democracy. At the theoretical level European Synergies makes reference to a Russian liberal of the beginning of the century, militant of the Cadet party: Moshe Ostrogovsky. The analysis left by this Russian liberal in the face of the bolshevist revolution lays on an obvious acknowledgement: every democracy should be a system imitating the movement of things in the City. Electoral mechanisms logically aim at giving representation to the effervescences acting within the society, day by day, without subverting anyway the immutable order of politics. As a consequence, the instruments of representations, that is the political parties, must too represent the passing effervescences and never aim to eternity. The malfunctioning of parliamentary democracy stems from the fact that political parties become a rigidly permanent presence within the society, enrolling more and more mediocre people in their ranks. In order to put a remedy to this inconvenient, Ostrogovski suggest that democracy laid on "ad hoc" parties, timely requesting urgent reforms or precise amendments, then proclaiming their dissolution in order to free their personnel, which could the forge new petitioner movements – thus allowing to redistribute the cards and to share the militants into new (similarly provisional) formations. Parliaments would then gather citizens who never would get encrusted in political professionalism. Legislative periods would be shorter, or – as in the beginning of Belgian History or in the United Kingdom of Netherlands from 1815 to 1830 – a third of the assembly would be changed every third part of the legislative period, thus allowing an accelerated circulation of political personnel and the elimination (sanctioned by the urns) of those who proved incompetent; this circulation today exists no more, which – apart from the issue of census vote – gives us a less perfect democracy than in those times. The problem is to prevent the political careers of individuals who would end by knowing no more of real public life.

Weber & Minghetti: for maintaining the separation of the three powers


Max Weber too made some pertinent observations: he noted that the socialist and christian-democrat parties (the German Zentrum) install incompetent figures into the key positions; those take their decision in spite of any good sense, are animated by the ethics of conviction instead of responsibility, and demand the division of political or civil servant posts according to the simple pro-rata of votes, without having to prove their real competence in exercising their functions. The Italian XIX century liberal minister Minghetti very soon perceived how this system would put an end to the separation of the three powers, since the parties and their militants, armed by the ethics of conviction, source of all demagogies, wanted to control and manipulate justice and destroyed every compartimentation between the legislative and the executive powers. The democratic equilibrium among the three powers – originally put as water-tight compartments in order to warrant the citizens' freedom, as devised by Montesquieu – can neither work nor exist anymore, in such a context of hysteria and demagogy. Here we stand today.

European Synergies does not therefore criticise the parliamentary institution in itself, but clearly displays its aversion to any malfunctioning, to any private intervention (parties are private associations, as a matter of facts and as Ostrogovsky recalls) in the recruitment of political personnel, civil servants, etc., to any kind of nepotism (co-optations of the members of the family of a political man or civil servant to a political or administrative post). Only the examination by a totally neutral jury should allow the access to a charge. Any other means of recruitment should be treated as a grave offence.

We also believe that parliaments should not be the simple representative chambers where would sit the chosen members of political parties (that is, of private associations, demanding discipline without authorising any right to tendencies or any personal initiatives by the deputy). Not very citizen is the member of a party, as a matter of fact the majority of them does not own any affiliation card. As a consequence, parties generally represent no more than 8-10% of the people, and 100% of the parliament! The excessive weight of the parties should be corrected by the representation of professional associations and unions, as it was envisaged by De Gaulle and his team when they spoke about the "senate of professions and regions".

The constitutional pattern that Professor Bernard Willms (1931-1991) favoured lays on a three chambers assembly (Parliament, Senate, Economic Chamber). Half the Parliament would be recruited among candidates chosen by the parties and personally elected (no votes for the lists); the other half would be formed by the representatives of the corporative and professional councils. The Senate would be essentially a regional representative organ (like the German or Austrian Bundesrat). The Economic Chamber, similarly organised on a regional basis, would represent the social bodies, including the unions.

The problem is to consolidate a democracy leaning upon the "concrete bodies" of society, and not only upon private associations of ideological and arbitrary nature, as the parties. This idea is close to the definition of "concrete bodies" given by Carl Schmitt. However, every political entity lays on a cultural heritage, which must be taken into account, according to the analysis of Ernst Rudolf Huber, disciple of Carl Schmitt. For Huber a consistent State is always a Kulturstaat, and the state apparatus has the duty to preserve this culture, expression of a Sittlichkeit [ethicity] exceeding the simple limits of ethics to include a wide range of artistic, cultural, structural, agricultural and industrial productions, whose fecundity must be preserved. A more diversified representation, going beyond that 8-10% of party members, allows indeed to better guarantee this fecundity, spread through the whole social body of the nation. The defence of the "concrete bodies" implies the trilogy "community, solidarity, subsidiarity" – the conservative answer, in the XVIII century, to the project of Bodin, aimed at destroying the "intermediate bodies" of the society, i.e. the "concrete bodies" leaving but the individual-citizen alone against the state Leviathan. The ideas of Bodin have been realised by the French revolution and its ghost of the geometrical society – a realisation that started just from the uprooting of professional associations by the Le Chapelier law of 1791. Nowadays the updated resort to the trilogy "community, solidarity, subsidiarity implies giving the maximum of representativity to the professional associations, to the real masses, and to reduce the absolute power of parties and functionaries. In the same way, Professor Erwin Scheuch (Cologne) proposes today a set of concrete measures in order to free the parliamentary democracy from all misguidings and corruption that suffocate it. [9]

Bibliographical notes


[1] More on this subject: see 1) Thierry MUDRY, Le ‘socialisme allemand': analyse du télescopage entre nationalisme et socialisme de 1900 à 1933 en Allemagne, in: Orientations, n 7, 1986; 2) Thierry MUDRY, L'itinéraire d'Ernst Niekisch, in: Orientations, n 7, 1986.

[2] More on this subject: 1) Robert STEUCKERS, "Repères pour une histoire alternative de l'économie", in: Orientations, n 5, 1984; 2) Thierry MUDRY, "Friedrich List: une alternative au libéralisme", in: Orientations, n 5, 1984; 3) Robert STEUCKERS, "Orientations générales pour une histoire alternative de la pensée économique", in: Vouloir, n 83/86, 1991; 4) Guillaume d'EREBE, "L'Ecole de la Régulation: une hétérodoxie féconde?", in: Vouloir, n 83/86, 1991; 5) Robert STEUCKERS, L'ennemi américain, Synergies, Forest, 1996/2ième éd. (. (contains some reflections on the ideas of Michel Albert); 6) Robert STEUCKERS, "Tony Blair et sa ‘Troisième Voie' répressive et thérapeutique", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 44, 2000; 7) Aldo DI LELLO, "La ‘Troisième Voie' de Tony Blair: une impasse idéologique. Ou de l'impossibilité de repenser le ‘Welfare State' tout en revenant au libéralisme", in: Nouvelles de Synergies eruopéennes, n 44, 2000.

[3] More on this subject: Guillaume FAYE, "A la découverte de Thorstein Veblen", in: Orientations, n 6, 1985.

[4] More on this subject: Ange SAMPIERU, "La participation: une idée neuve?", in: Orientations, n 12, 1990-91.

[5] More on this subject: Charles CHAMPETIER, "Alain Caillé et le MAUSS: critique de la raison utilitaire", in: Vouloir, n 65/67, 1990.

[6] More on this subject: Robert STEUCKERS, "La philosophie de l'argent et la philosophie de la Vie chez Georg Simmel (1858-1918)", in: Vouloir, n 11, 1999.

[7] More on this subject: 1) Robert STEUCKERS, "L'itinéraire philosophique et poétique de Friedrich-Georg Jünger", in: Vouloir, n 45/46, 1988; 2) Robert STEUCKERS, Friedrich-Georg Jünger, Synergies, Forest, 1996.

[8] More on this subject: Robert STEUCKERS, "Mystères pontiques et panthéisme celtique à la source de la spiritualité européenne", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 39, 1999.

[9] More on this subject: 1) Ange SAMPIERU, "Démocratie et représentation", in: Orientations, n 10, 1988; 2) Robert STEUCKERS, "Fondements de la démocratie organique", in: Orientations, n 10, 1988; 3) Robert STEUCKERS, Bernard Willms (1931-1991): Hobbes, la nation allemande, l'idéalisme, la critique politique des ‘Lumières', Synergies, Forest, 1996; 4) Robert STEUCKERS, "Du déclin des ours politiques", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 25, 1997 (on the theses of Prof. Erwin Scheuch); 5) Robert STEUCKERS, "Propositions pour un renouveau politique", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 33, 1998 (at the end of the article, about the theses of Ernst Rudolf Huber); 6) Robert STEUCKERS, "Des effets pervers de la partitocratie", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 41, 1999.

Bibliography:

Jean-Pierre CUVILLIER, L'Allemagne médiévale, deux tomes, Payot, tome 1, 1979, tome 2, 1984.
Karin FEUERSTEIN-PRASSER, Europas Urahnen. Vom Untergang des Weströmischen Reiches bis zu Karl dem Grossen, F. Pustet, Regensburg, 1993.
Karl Richard GANZER, Het Rijk als Europeesche Ordeningsmacht, Die Poorten, Antwerpen, 1942.
Wilhelm von GIESEBRECHT, Deutsches Kaisertum im Mittelalter, Verlag Reimar Hobbing, Berlin, s.d.
Eberhard HORST, Friedrich II. Der Staufer. Kaiser - Feldherr - Dichter, W. Heyne, München, 1975-77.
Ricarda HUCH, Römischer Reich Deutscher Nation, Siebenstern, München/Hamburg, 1964.
Edward LUTTWAK, La grande stratégie de l'Empire romain, Economica, 1987.
Michael W. WEITHMANN, Die Donau. Ein europäischer Fluss und seine 3000-jährige Geschichte, F. Pustet/Styria, Regensburg, 2000.
Philippe WOLFF, The Awakening of Europe, Penguin, Harmondsworth, 1968.

vendredi, 19 mars 2010

L'Allemagne, Israël, l'Iran et la bombe: entretien avec M. van Creveld

L’Allemagne, Israël, l’Iran et la bombe

 

Entretien avec l’historien militaire israélien Martin van Creveld

 

creveldxxxxcccvvv.jpgNé en 1946 à Rotterdam, Martin van Creveld est un historien attaché à l’Université Hébraïque de Jérusalem. Cet expert israélien est considéré comme l’un des théoriciens les plus réputés au monde en histoire militaire. Il étonne ses lecteurs en énonçant des thèses non conventionnelles, notamment quand il écrivait récemment dans les colonnes de l’ « International Herald Tribune » : « Si les Iraniens ne tentaient pas de se doter d’armes nucléaires, c’est alors seulement qu’il faudrait les considérer comme fous ! ». Ses ouvrages principaux sont « The Transformation of War » (1991), où il avait prévu les formes de guerre nées après les événements du 11 septembre 2001. En 2009, il a publié en allemand « Gesichter des Krieges » (= « Visages de la guerre ») où il décrit les conflits armés de 1900 à aujourd’hui et émet des prospectives sur le 21 siècle.  

 

Q. : Professeur van Creveld, la Chancelière Angela Merkel menace l’Iran de sanctions. Les Iraniens sont-ils impressionnés par cette menace ?

 

MvC : Je me permets d’en douter. D’après mes estimations, les Iraniens considèrent que leur programme nucléaire est une question d’importance nationale. Les sanctions, par conséquent, ne les impressionnent pas ; au contraire, elles conduiront les Iraniens à se ranger tous derrière Ahmadinedjad.

 

Q. : Dans un essai pour l’hebdomadaire « Die Zeit », vous avez récemment posé un constat provocateur, en écrivant que l’Iran, s’il devenait puissance nucléaire, « ne serait pas plus dangereux qu’Israël ou les Etats-Unis »…

 

MvC : Oui, de fait, et pas plus dangereux que l’autre « Etat voyou », comme on le décrit, qu’est la Corée du Nord. Force est d’ailleurs de constater que cet Etat, depuis la fin de la Guerre de Corée, n’a plus fait la guerre à personne. C’est une prestation que les deux autres Etats, que vous mentionnez, ne peuvent pas se vanter d’avoir réalisé.

 

Q. : D’après vous, dans quelle mesure les Etats-Unis et Israël sont-ils des Etats dangereux ?

 

MvC : Oui, longue histoire. Pour faire simple, posez la question à Slobodan Milosevic ou à Saddam Hussein. Ces deux personnalités politiques ont directement expérimenté la dangerosité que déploient les Etats-Unis lorsqu’un pays exprime son désaccord avec la politique américaine. Et pour l’expérimenter, il faut ajouter deux conditions supplémentaires : le pays visé doit d’abord être inférieur aux Etats-Unis sur le plan conventionnel ; ensuite il ne doit pas posséder d’armes nucléaires. Quant à la dangerosité d’Israël, posez la question aux habitants du Liban ou de la Syrie…

 

Q. : Donc, pour vous, le danger que représenterait un Iran devenu puissance nucléaire est largement exagéré…

 

McV : C’est évident et le calcul qui se profile derrière cette stigmatisation de l’Iran saute aux yeux : les Etats-Unis ont toujours tout entrepris pour empêcher les autres puissances de posséder des armes dont ils disposaient eux-mêmes depuis longtemps. Dans le cas d’Israël, le motif est différent : officiellement, il s’agit d’obtenir de l’argent d’autres pays, comme l’Allemagne et les Etats-Unis. Les sionistes jouent ce petit jeu depuis cent ans, et avec grand succès, m’empresserai-je d’ajouter.

 

Q. : Et vous dites tout cela sans la moindre réticence…

 

McV : Je suis un historien et je peux me permettre de dire ouvertement la vérité, telle que je la vois. Bien sûr, vous n’entendrez jamais pareil aveu de la part d’un représentant gouvernemental. Israël a attaqué l’Irak en 1981 et la Syrie en 2007. Dans ces deux actes hostiles, la surprise a été décisive : c’est elle qui a fait le succès des opérations. Mais, alors, ne vous étonnez-vous pas que dans le cas de l’Iran nous parlons depuis des années de lancer des opérations similaires et que nous ne faisons rien ? Le fait qu’on en parle depuis tant de temps éveille le soupçon : l’enjeu doit donc être autre ; en l’occurrence, obtenir des armes et de l’argent.

 

Q. : La Chancelière Merkel est allée dans ce sens…

 

MvC : Non, les choses ne s’agencent pas tout à fait  ainsi. Le Président Bush était peut-être un idiot, mais ni Obama ni Merkel ne le sont. La possibilité d’une attaque israélienne n’est pas à exclure à 100%. C’est la raison pour laquelle on tente de donner à Israël suffisamment d’argent et d’armes pour que l’Etat hébreu s’abstienne de toute initiative malheureuse. Pour tous les intervenants, le jeu s’avère extrêmement délicat car il implique des éléments de Realpolitik, de tromperie et d’hypocrisie.

 

Q. : En 2008, Angela Merkel a prononcé des paroles historiques en déclarant que le droit d’Israël à l’existence relevait de la raison d’Etat allemande. Cette déclaration d’amour vous touche-t-elle ?

 

MvC : Des déclarations de ce genre me rendent certes très heureux mais en cas d’urgence les possibilités de Madame Merkel seraient très limitées.

 

Q. : Pensez-vous que l’Allemagne risquerait sa propre existence et enverrait la Bundeswehr pour intervenir dans une grande guerre en faveur d’Israël ?

 

MvC : Bien sûr que non. Mais à l’évidence, je dois vous révéler quel était l’objectif poursuivi au moment où l’on a fondé l’Etat d’Israël. Pendant 2000 ans, les Juifs n’ont pas pu dormir tranquilles parce qu’ils se faisaient du souci : devaient-ils se défendre eux-mêmes ou, si ce n’était possible, quelle puissance allait-elle prendre leur défense ? Israël a été créé pour que les Juifs puissent enfin dormir d’une traite pendant toute la nuit, parce qu’ils n’auraient plus à se casser la tête pour répondre à cette question. Donc, très logiquement, tout en respectant les propos de Mme Merkel, et en tenant compte de cette nécessité impérieuse de toujours dormir tranquille, je ne souhaite pas me poser la question de savoir si mon sommeil paisible doit dépendre ou non de l’armée allemande actuelle. Israël doit pouvoir se fier à lui seul. Et si l’improbable survenait et si Israël devait faire face à son propre anéantissement, je ne m’étonnerais pas d’apprendre que nous voudrions entrainer le plus de monde possible dans l’abîme avec nous.

 

Q. : Que voulez-vous dire par là ?

 

MvC : Songez à l’histoire du héros juif Samson.

 

Q. : « Qui en mourant tua plus de monde que pendant toute sa vie », comme le dit la Bible. Mais concrètement, qu’est-ce que cela signifie ?

 

TransformationGuerre.jpgMvC : Je laisse votre imagination répondre à cette question.

 

Q. : Pourquoi Angela Merkel se trompe-t-elle lorsqu’elle semble nous dire qu’un Iran devenu puissance nucléaire serait plus dangereux que les autres puissances atomiques ?

 

MvC : Que voulez-vous que je vous dise ? Je n’ai encore jamais rencontré d’expert iranologue qui croit vraiment que Khamenei (l’homme qui, en réalité, tire toutes les ficelles en Iran), Ahmadinedjad et le peuple perse en général sont tous fous et souhaitent voir leur magnifique pays réduit à un désert radioactif.

 

Q. : Vous voulez dire que le principe de la dissuasion fonctionne également chez les Iraniens ?

 

MvC : Sans aucun doute. Comme partout, il y a également en Iran des scientifiques qui savent très bien ce que signifierait une guerre nucléaire pour leur pays. Et si ce n’était pas le cas, je leur conseillerais de lire le travail réalisé par mon bon ami Anthony Cordesman, ancien membre du Conseil National de Sécurité des Etats-Unis, travail dans lequel il explique ce qu’Israël pourrait infliger à l’Iran avec les mégatonnes qu’il possède dans ses arsenaux.

 

Q. : Pourquoi l’Iran veut-il la bombe ?

 

MvC : Pour attaquer Israël ? Non, très vraisemblablement non. Ce serait trop dangereux car toute puissance qui utilise des armes nucléaires risque, tôt ou tard, de voir d’autres puissances en utiliser contre elle. L’Iran veut-il menacer ou faire chanter ses voisins ? Peut-être. Mais sans doute pas tout de suite, plus tard vraisemblablement.

 

Q. : Et cela ne vous inquiète pas ?

 

MvC : Non. Ceux qui devraient s’inquiéter, ce sont les Etats du Golfe. D’ailleurs ils le sont. Parce qu’ils sont très éloignés d’Israël et qu’Israël, pour sa part, n’a ni l’intérêt ni les moyens d’aider ces Etats sans la moindre réticence. Nous avons donc affaire à un problème qui ne concerne que les Etats-Unis : eux devront l’affronter.

 

Q. : Ahmadinedjad ne planifie-t-il pas un nouvel holocauste ?

 

MvC : Je suppose qu’il le ferait si seulement il en avait les moyens…

 

Q. : Et cela, non plus, ne vous inquiète pas ?

 

MvC : Israël dispose de ce qu’il faut pour l’en dissuader.

 

Q. : Dans l’essai que vous avez récemment publié dans « Die Zeit », vous dites qu’Ahmadinedjad ne veut pas construire la bombe par conviction antisémite ; vous dites qu’il veut la construire pour des motifs d’intérêt national.

 

MvC : Cela ne fait aucun doute qu’Ahmadinedjad hait Israël. Certes, il éradiquerait bien ce pays de la surface de la Terre, mais seulement s’il en avait les moyens. Mais ce n’est pas la raison pour laquelle il cherche à se doter d’armes nucléaires. Alors pourquoi ? Depuis 2002, la situation stratégique de l’Iran s’est considérablement détériorée. En effet, les mollahs peuvent tourner leurs regards vers n’importe quel point cardinal, le nord-est, le sud-est, le sud ou l’ouest, toujours ils verront des troupes américaines déployées. Autour de l’Iran stationne un quart de million de soldats américains, pour être précis. Le cas irakien a appris deux choses aux mollahs : d’abord, qu’avec leur armée, ils n’ont aucune chance contre les troupes américaines. Ensuite, ils ne peuvent pas exclure l’hypothèse qu’un jour un président américain voudra quand même les attaquer. C’est en y réfléchissant qu’ils ont eu l’idée de fabriquer une bombe car se doter d’armes nucléaires est le seul moyen auquel ils peuvent recourir pour échapper au déséquilibre des forces.

 

Q. : Pourquoi ces raisons-là ne sont-elles jamais évoquées dans les médias allemands ?

 

MvC : Pourquoi me posez-vous cette question ?

 

Q. : Pourquoi ne la poserais-je pas ? Vous êtes un expert : que supposez-vous en constatant ce silence ?

 

MvC : Non, je ne peux pas répondre à la place des médias allemands.

 

Q. : Peter Scholl-Latour aime vous citer, et surtout cette phrase-ci : « Si j’étais iranien, je voudrais aussi avoir la bombe ! »…

 

MvC : Oui, et alors ?

 

Q. : Pourquoi les Allemands aiment-ils citer des Juifs pour donner plus de poids à leurs arguments ?

 

MvC : D’accord, cette question s’explique quand on connaît la situation allemande, mais en soi que signifie-t-elle ? Toutefois, ce n’est pas mon problème, mais le vôtre, à vous Allemands, de trouver une voie pour vous réconcilier avec votre passé, en l’occurrence avec l’holocauste…

 

Q. : Le gouvernement allemand sait-il de quoi il parle quand il évoque la question iranienne ou bien tous les propos qu’il tient sont-ils oblitérés par le besoin de surmonter le passé récent de l’Allemagne aux dépens de toute politique étrangère rationnelle ?

 

MvC : Je n’ai pas à émettre de jugement à ce propos. Posez la question à Madame Merkel elle-même.

 

Q. : En tenant des propos qui minimisent le danger de la bombe iranienne, ne vous attirez-vous pas des inimitiés en Israël ?

 

MvC : Ces derniers mois, j’ai eu maintes fois l’occasion de m’exprimer publiquement sur ce thème et je puis vous dire que non, en fait ma position ne m’attire aucune antipathie particulière. Les gens réagissent surpris, c’est évident, mais ils ne se mettent pas en colère. Aussi peu en colère d’ailleurs qu’Ehud Olmert, lorsque j’ai discuté avec lui de ces choses-là, quand il était encore premier ministre.

 

Q. : Dans votre longue contribution à « Die Zeit », vous insistez sur le véritable danger qui guette la région et qui n’est pas la bombe iranienne…

 

MvC : … ce véritable danger qui serait une attaque contre l’Iran pour l’empêcher de construire sa bombe. Pour vous en rendre compte, il suffit de jeter un coup d’œil sur la carte du Golfe Persique, la région la plus riche en pétrole du monde ; vous comprendrez alors pourquoi. Une attaque de cette nature pourrait précipiter l’économie mondiale dans une crise qui serait pire que toutes les autres qui l’ont précédée. Or, c’est bien connu, les crises économiques peuvent avoir des conséquences politiques et militaires très lourdes.

 

Q. : Comment une attaque contre l’Iran pourrait-elle se dérouler et, dans le pire des cas, que se passerait-il ?

 

MvC : L’Iran est un pays trop grand pour être occupé ; donc on aurait recours plutôt à l’engagement d’unités de commandos ou l’on mènerait une guerre aérienne, celle du tapis de bombes. Plusieurs stratégies sont alors possibles mais aucune d’entre elles ne garantirait la destruction totale du programme nucléaire iranien. Ensuite, il serait bien possible qu’une attaque contre l’Iran déclencherait une guerre entre Israël et la Syrie ou le Liban. Une telle guerre aurait de terribles conséquences sur le prix du pétrole, donc sur l’économie européenne et sans doute aussi sur la structure qu’est l’Union Européenne. Vous pouvez aisément imaginer tout cela…

 

Q. : L’attaque contre l’Iran se déclenchera-t-elle tôt ou tard ? Et si oui, quand ?

 

MvC : Depuis des années, je défends l’opinion qu’une telle guerre n’aura jamais lieu. Mais pour être honnête, il m’est arrivé de me tromper dans le passé et certains de mes pronostics se sont avérés faux. Il est toujours possible qu’un fou arrive à  prendre le pouvoir…

 

(entretien paru dans l’hebdomadaire berlinois « Junge Freiheit », n°11/2010, mars 2010 ; propos recueillis par Moritz Schwarz ; trad..  franç. : Robert Steuckers).  

 

mardi, 12 janvier 2010

Entretien avec Günter Maschke

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

93_thumb.jpgEntretien avec Günter Maschke

 

propos recueillis par Dieter STEIN et Jürgen LANTER

 

Q.: Monsieur Maschke, êtes-vous un ennemi de la Constitution de la RFA?

Q.: Monsieur Maschke, êtes-vous un ennemi de la Constitution de la RFA?

 

GM: Oui. Car cette loi fondamentale (Grund­gesetz)  est pour une moitié un octroi, pour une autre moitié la production juri­dique de ceux qui collaborent avec les vain­queurs. On pourrait dire que cette constitu­tion est un octroi que nous nous sommes donné à nous-mêmes. Les meilleurs liens qui entravent l'Allemagne sont ceux que nous nous sommes fabriqués nous-mêmes.

 

Q.: Mais dans le débat qui a lieu aujourd'hui à propos de cette constitution, vous la défen­dez...

 

GM: Oui, nous devons défendre la loi fon­damentale, la constitution existante car s'il fallait en créer une nouvelle, elle serait pire, du fait que notre peuple est complètement «rééduqué» et de ce fait, choisirait le pire. Toute nouvelle constitution, surtout si le peu­ple en débat, comme le souhaitent aussi bon nombre d'hommes de droite, connaîtrait une inflation de droits sociaux, un gonfle­ment purement quantitatif des droits fon­damentaux, et conduirait à la destruction des prérogatives minimales qui reviennent normalement à l'Etat national.

 

Q.: Donc, quelque chose de fondamental a changé depuis 1986, où vous écriviez dans votre article «Die Verschwörung des Flakhelfer» (= La conjuration des auxiliaires de la DCA; ndlr: mobilisés à partir de 1944, les jeunes hommes de 14 à 17 ans devaient servir les batteries de DCA dans les villes al­lemandes; c'est au sein de cette classe d'âge que se sont développées, pour la première fois en Allemagne, certaines modes améri­caines de nature individualiste, telles que l'engouement pour le jazz, pour les mouve­ments swing et zazou; c'est évidemment cette classe d'âge-là qui tient les rênes du pouvoir dans la RFA actuelle; en parlant de conjuration des auxiliaires de la DCA, G. Maschke entendait stigmatiser la propen­sion à aduler tout ce qui est américain de même que la rupture avec toutes les tradi­tions politiques et culturelles européennes). Dans cet article aux accents pamphlétaires, vous écriviez que la Constitution était une prison de laquelle il fallait s'échapper...

 

GM: Vu la dégénérescence du peuple alle­mand, nous devons partir du principe que toute nouvelle constitution serait pire que celle qui existe actuellement. Les rapports de force sont clairs et le resteraient: nous de­vrions donc nous débarrasser d'abord de cette nouvelle constitution, si elle en venait à exister. En disant cela, je me doute bien que j'étonne les «nationaux»...

 

Q.: Depuis le 9 novembre 1989, jour où le Mur est tombé, et depuis le 3 octobre 1990, jour officiel de la réunification, dans quelle mesure la situation a-t-elle changé?

 

GM: D'abord, je dirais que la servilité des Allemands à l'égard des puissances étran­gères s'est encore accrue. Ma thèse a tou­jours été la suivante: rien, dans cette réuni­fication, ne pouvait effrayer la France ou l'An­gleterre. Comme nous sommes devenus terriblement grands, nous sommes bien dé­cidés, désormais, à prouver, par tous les moyens et dans des circonstances plus cri­tiques, notre bonne nature bien inoffensive. L'argumentaire développé par le camp na­tio­nal ou par les établis qui ont encore un pe­tit sens de la Nation s'est estompé; il ne s'est nullement renforcé. Nous tranquilisons le mon­de entier, en lui disant qu'il s'agit du processus d'unification européenne qui est en cours et que l'unité allemande n'en est qu'une facette, une étape. Si d'aventure on rendait aux Allemands les territoires de l'Est (englobés dans la Pologne ou l'URSS), l'Autriche ou le Tyrol du Sud, ces braves Teu­tons n'oseraient même plus respirer; ain­si, à la joie du monde entier, la question allemande serait enfin réglée. Mais trêve de plaisanterie... L'enjeu, la Guerre du Golfe nous l'a montré. Le gouvernement fédéral a payé vite, sans sourciller, pour la guerre des Alliés qui, soit dit en passant, a eu pour ré­sultat de maintenir leur domination sur l'Al­lemagne. Ce gouvernement n'a pas osé exiger une augmentation des impôts pour améliorer le sort de nos propres compa­trio­tes de l'ex-RDA, mais lorsqu'a éclaté la guer­re du Golfe, il a immédiatement imposé une augmentation et a soutenu une action militaire qui a fait passer un peu plus de 100.000 Irakiens de vie à trépas. Admettons que la guerre du Golfe a servi de prétexte pour faire passer une nécessaire augmenta­tion des impôts. Il n'empêche que le procédé, que ce type de justification, dévoile la dé­chéance morale de nos milieux officiels. Pas d'augmentation des impôts pour l'Alle­ma­gne centrale, mais une augmenta­tion pour permettre aux Américains de massacrer les Irakiens qui ne nous mena­çaient nullement. Je ne trouve pas de mots assez durs pour dé­noncer cette aberration, même si je stig­ma­tise très souvent les hypo­crisies à conno­ta­tions humanistes qui con­duisent à l'inhu­ma­nité. Je préfère les dis­cours non huma­nistes qui ne conduisent pas à l'inhuma­ni­té.

 

Q.: Comment le gouvernement fédéral au­rait-il dû agir?

 

GM: Il avait deux possibilités, qui peuvent sembler contradictoires à première vue. J'ai­me toujours paraphraser Charles Maur­ras et dire «La nation d'abord!». Première possibilité: nous aurions dû parti­ciper à la guerre avec un fort contingent, si possible un contingent quantitativement su­périeur à ce­lui des Britanniques, mais ex­clusivement avec des troupes terrestres, car, nous Alle­mands, savons trop bien ce qu'est la guerre aérienne. Nous aurions alors dû lier cet engagement à plusieurs conditions: avoir un siège dans le Conseil de Sécurité, faire sup­primer les clauses des Nations Unies qui font toujours de nous «une nation ennemie», fai­re en sorte que le traité nous interdisant de posséder des armes nu­cléaires soit rendu caduc. Il y a au moins certains indices qui nous font croire que les Etats-Unis auraient accepté ces conditions. Deuxième possibilité: nous aurions dû refu­ser catégoriquement de nous impliquer dans cette guerre, de quelque façon que ce soit; nous aurions dû agir au sein de l'ONU, sur­tout au moment où elle était encore réticente, et faire avancer les cho­ses de façon telle, que nous aurions dé­clenché un conflit de grande envergure avec les Etats-Unis. Ces deux scénarios n'appa­raissent fantasques que parce que notre dé­gé­nérescence nationale et politique est désor­mais sans limites.

 

Q.: Mais la bombe atomique ne jette-t-elle pas un discrédit définitif sur le phénomène de la guerre?

 

GM: Non. Le vrai problème est celui de sa lo­calisation. Nous n'allons pas revenir, bien sûr, à une conception merveilleuse de la guer­re limitée, de la guerre sur mesure. Il n'empêche que le phénomène de la guerre doit être accepté en tant que régulateur de tout statu quo devenu inacceptable. Sinon, de­vant toute crise semblable à celle du Ko­weit, nous devrons nous poser la question: de­vons-nous répéter ou non l'action que nous avons entreprise dans le Golfe? Alors, si nous la répétons effectivement, nous créons de facto une situation où plus aucun droit des gens n'est en vigueur, c'est-à-dire où seu­le une grande puissance exécute ses plans de guerre sans égard pour personne et impose au reste du monde ses intérêts parti­culiers. Or comme toute action contre une grande puissance s'avère impossible, nous aurions en effet un nouvel ordre mondial, centré sur la grande puissance dominante. Et si nous ne répétons pas l'action ou si nous introduisons dans la pratique politique un «double critère» (nous intervenons contre l'Irak mais non contre Israël), alors le nou­veau droit des gens, expression du nouvel ordre envisagé, échouera comme a échoué le droit des gens imposé par Genève jadis. S'il n'y a plus assez de possibilités pour faire ac­cepter une mutation pacifique, pour amorcer une révision générale des traités, alors nous devons accepter la guerre, par nécessité. J'a­jouterais en passant que toute la Guerre du Golfe a été une provocation, car, depuis 1988, le Koweit menait une guerre froide et une guerre économique contre l'Irak, avec l'encouragement des Américains.

 

Q.: L'Allemagne est-elle incapable, au­jourd'hui, de mener une politique extérieure cohérente?

 

GM: A chaque occasion qui se présentera sur la scène de la grande politique, on verra que non seulement nous sommes incapables de mener une opération, quelle qu'elle soit, mais, pire, que nous ne le voulons pas.

 

Q.: Pourquoi?

 

GM: Parce qu'il y a le problème de la culpa­bilité, et celui du refoulement: nous avons refoulé nos instincts politiques profonds et naturels. Tant que ce refoulement et cette cul­pabilité seront là, tant que leurs retom­bées concrètes ne seront pas définitivement éliminées, il ne pourra pas y avoir de poli­tique allemande.

 

Q.: Donc l'Allemagne ne cesse de capituler sur tous les fronts...

 

GM: Oui. Et cela appelle une autre question: sur les monuments aux morts de l'avenir, inscrira-t-on «ils sont tombés pour que soit imposée la résolution 1786 de l'ONU»? Au printemps de cette année 1991, on pouvait re­pérer deux formes de lâcheté en Allemagne. Il y avait la lâcheté de ceux qui, en toutes cir­constances, hissent toujours le drapeau blanc. Et il y avait aussi la servilité de la CSU qui disait: «nous devons combattre aux côtés de nos amis!». C'était une servilité machiste qui, inconditionnellement, voulait que nous exécutions les caprices de nos pseudo-amis.

 

Q.: Sur le plan de la politique intérieure, qui sont les vainqueurs et qui sont les perdants du débat sur la Guerre du Golfe?

 

GM: Le vainqueur est inconstestablement la gauche, style UNESCO. Celle qui n'a que les droits de l'homme à la bouche, etc. et estime que ce discours exprime les plus hautes va­leurs de l'humanité. Mais il est une question que ces braves gens ne se posent pas: QUI décide de l'interprétation de ces droits et de ces valeurs? QUI va les imposer au monde? La réponse est simple: dans le doute, ce sera toujours la puissance la plus puissante. A­lors, bonjour le droit du plus fort! Les droits de l'homme, récemment, ont servi de levier pour faire basculer le socialisme. A ce mo­ment-là, la gauche protestait encore. Mais aujourd'hui, les droits de l'homme servent à fractionner, à diviser les grands espaces qui recherchent leur unité, où à dé­truire des Etats qui refusent l'alignement, où, plus sim­plement, pour empêcher cer­tains Etats de fonctionner normalement.

 

Q.: Que pensez-vous du pluralisme?

 

GM: Chez nous, on entend, par «pluralis­me», un mode de fonctionnement politique qui subsiste encore ci et là à grand peine. On prétend que le pluralisme, ce sont des camps politiques, opposés sur le plan de leurs Welt­an­schauungen, qui règlent leurs différends en négociant des compromis. Or la RFA, si l'on fait abstraction des nouveaux Länder d'Al­lemagne centrale, est un pays idéolo­gi­quement arasé. Les oppositions d'ordre con­fessionnel ne constituent plus un facteur; les partis ne sont plus des «armées» et n'exi­gent plus de leurs membres qu'ils s'en­ga­gent totalement, comme du temps de la Ré­pu­blique de Weimar. A cette époque, comme nous l'enseigne Carl Schmitt, les «totalités parcellisées» se juxtaposaient. On naissait quasiment communiste, catholique du Zen­trum, social-démocrate, etc. On pas­sait sa jeunesse dans le mouvement de jeu­nesse du parti, on s'affiliait à son association sportive et, au bout du rouleau, on était en­terré grâce à la caisse d'allocation-décès que les core­li­gionnaires avaient fondée... Ce plu­ralisme, qui méritait bien son nom, n'existe plus. Chez nous, aujourd'hui, ce qui do­mine, c'est une mise-au-pas intérieure com­plète, où, pour faire bonne mesure, on laisse subsister de petites différences mineures. Les bonnes consciences se réjouissent de cette situation: elles estiment que la RFA a résolu l'énigme de l'histoire. C'est là notre nouveau wilhel­mi­nisme: «on y est arrivé, hourra!»; nous avons tiré les leçons des er­reurs de nos grands-pères. Voilà le consen­sus et nous, qui étions, paraît-il, un peuple de héros (Hel­den),  sommes devenus de véri­tables marc­hands (Händler),  pacifiques, amoureux de l'argent et roublards. Qui plus est, la four­chette de ce qui peut être dit et pensé sans encourir de sanctions s'est ré­duite conti­nuel­lement depuis les années 50. Je vous rappel­lerais qu'en 1955 paraissait, dans une gran­de maison d'édition, la Deutsche Verlags-Anstalt, un livre de Wilfried Martini, Das Ende aller Sicherheit,  l'une des critiques les plus pertinentes de la démocratie parle­men­taire. Ce livre, au­jourd'hui, ne pourrait plus paraître que chez un éditeur ultra-snob ou dans une maison minuscule d'obédience ex­trê­me-droitiste. Cela prouve bien que l'es­pace de liberté intel­lectuelle qui nous reste se rétrécit comme une peau de chagrin. Les cri­tiques du sys­tème, de la trempe d'un Mar­tini, ont été sans cesse refoulés, houspillés dans les feuilles les plus obscures ou les cé­nacles les plus sombres: une fatalité pour l'intelligence! L'Allemagne centrale, l'ex-RDA, ne nous apportera aucun renouveau spirituel. Les intellectuels de ces provinces-là sont en grande majorité des adeptes exta­tiques de l'idéologie libérale de gauche, du pacifisme et de la panacée «droit-de-l'hom­marde». Ils n'ont conservé de l'idéologie of­ficielle de la SED (le parti au pouvoir) que le miel humaniste: ils ne veu­lent plus entendre parler d'inimitié (au sens schmittien), de con­flit, d'agonalité, et four­rent leur nez dans les bouquins indigestes et abscons de Stern­berger et de Habermas. Mesurez le désastre: les 40 ans d'oppression SED n'ont même pas eu l'effet d'accroître l'intelligence des op­pressés!

 

Q.: Mais les Allemands des Länder centraux vont-ils comprendre le langage de la réédu­cation que nous maîtrisons si bien?

 

GM: Ils sont déjà en train de l'apprendre! Mais ce qui est important, c'est de savoir re­pérer ce qui se passe derrière les affects qu'ils veulent bien montrer. Savoir si quel­que chose changera grâce au nouveau mé­lan­ge inter-allemand. Bien peu de choses se dessinent à l'horizon. Mais c'est égale­ment une question qui relève de l'achèvement du processus de réunification, de l'harmo­ni­sa­tion économique, de savoir quand et com­ment elle réussira. A ce mo­ment-là, l'Alle­ma­gne pourra vraiment se demander si elle pourra jouer un rôle poli­tique et non plus se borner à suivre les Alliés comme un toutou. Quant à la classe politique de Bonn, elle es­père pouvoir échapper au destin grâce à l'u­nification européenne. L'absorption de l'Al­le­magne dans le tout eu­ropéen: voilà ce qui devrait nous libérer de la grande politique. Mais cette Europe ne fonc­tionnera pas car tout ce qui était «faisable» au niveau eu­ro­péen a déjà été fait depuis longtemps. La cons­truction du marché inté­rieur est un bri­colage qui n'a ni queue ni tête. Prenons un exemple: qui décidera de­main s'il faut ou non proclamer l'état d'urgence en Grèce? Une majorité rendue possible par les voix de quelques députés écossais ou belges? Vouloir mener une poli­tique supra-nationale en con­servant des Etats nationaux consolidés est une impossi­bilité qui divisera les Européens plutôt que de les unir.

 

Q.: Comment jugez-vous le monde du con­servatisme, de la droite, en Allemagne? Sont-ils les moteurs des processus domi­nants ou ne sont-ils que des romantiques qui claudiquent derrière les événements?

 

GM: Depuis 1789, le monde évolue vers la gauche, c'est la force des choses. Le natio­nal-socialisme et le fascisme étaient, eux aussi, des mouvements de gauche (j'émets là une idée qui n'est pas originale du tout). Le conservateur, le droitier  —je joue ici au terrible simplificateur—  est l'homme du moin­dre mal. Il suit Bismarck, Hitler, puis Adenauer, puis Kohl. Et ainsi de suite, us­que ad finem. Je ne suis pas un conserva­teur, un homme de droite. Car le problème est ailleurs: il importe bien plutôt de savoir comment, à quel moment et qui l'on «main­tient». Ce qui m'intéresse, c'est le «main­te­neur», l'Aufhalter,  le Cat-echon  dont par­lait si souvent Carl Schmitt. Hegel et Sa­vi­gny étaient des Aufhalter  de ce type; en poli­ti­que, nous avons eu Napoléon III et Bis­marck. L'idée de maintenir, de contenir le flot révolutionnai­re/­dis­s­olutif, m'apparait bien plus intéressante que toutes les belles idées de nos braves conservateurs droitiers, si soucieux de leur Bildung.  L'Aufhalter  est un pessimiste qui passe à l'action. Lui, au moins, veut agir. Le conservateur droitier ouest-allemand, veut-il agir? Moi, je dis que non!

 

Q.: Quelles sont les principales erreurs des hommes de droite allemands?

 

GM: Leur grande erreur, c'est leur rous­seauisme, qui, finalement, n'est pas telle­ment éloigné du rousseauisme de la gauche. C'est la croyance que le peuple est naturel­lement bon et que le magistrat est corrup­ti­ble. C'est le discours qui veut que le peuple soit manipulé par les politiciens qui l'op­pres­sent. En vérité, nous avons la démo­cratie to­tale: voilà notre misère! Nous avons au­jour­d'hui, en Allemagne, un système où, en haut, règne la même morale ou a-morale qu'en bas. Seule différence: la place de la vir­gule sur le compte en banque; un peu plus à gauche ou un peu plus à droite. Pour tout ordre politique qui mérite d'être qualifié d'«or­dre», il est normal qu'en haut, on puis­se faire certaines choses qu'il n'est pas per­mis de faire en bas. Et inversément: ceux qui sont en haut ne peuvent pas faire cer­taines choses que peuvent faire ceux qui sont en bas. On s'insurge contre le financement des partis, les mensonges des politiciens, leur corruption, etc. Mais le mensonge et la cor­ruption, c'est désormais un sport que prati­que tout le peuple. Pas à pas, la RFA devient un pays orientalisé, parce que les structures de l'Etat fonctionnent de moins en moins correctement, parce qu'il n'y a plus d'éthi­que politique, de Staatsethos,  y com­pris dans les hautes sphères de la bureau­cratie. La démocratie accomplie, c'est l'uni­ver­salisa­tion de l'esprit du p'tit cochon roublard, le règne universel des petits ma­lins. C'est précisément ce que nous subis­sons aujour­d'hui. C'est pourquoi le mécon­tentement à l'égard de la classe politicienne s'estompe toujours aussi rapidement: les gens devinent qu'ils agiraient exactement de la même fa­çon. Pourquoi, dès lors, les politi­ciens se­raient-ils meilleurs qu'eux-mêmes? Il fau­drait un jour examiner dans quelle mesure le mépris à l'égard du politicien n'est pas l'envers d'un mépris que l'on cul­tive trop souvent à l'égard de soi-même et qui s'ac­com­mode parfaitement de toutes nos pe­tites prétentions, de notre volonté générale à vou­loir rouler autrui dans la farine, etc.

 

Q.: Et le libéralisme?

 

GM: Dans les années qui arrivent, des crises toujours plus importantes secoueront la pla­nète, le pays et le concert international. Le libéralisme y rencontrera ses limites. La pro­chaine grande crise sera celle du libéra­lisme. Aujourd'hui, il triomphe, se croit in­vincible, mais demain, soyez en sûr, il tom­bera dans la boue pour ne plus se relever.

 

Q.: Pourquoi?

 

maschke.jpgGM: Parce que le monde ne deviendra ja­mais une unité. Parce que les coûts de toutes sortes ne pourront pas constamment être externalisés. Parce que le libéralisme vit de ce qu'ont construit des forces pré-libérales ou non libérales; il ne crée rien mais consomme tout. Or nous arrivons à un stade où il n'y a plus grand chose à consommer. A commen­cer par la morale... Puisque la morale n'est plus déterminée par l'ennemi extérieur, n'a plus l'ennemi extérieur pour affirmer ce qu'elle entend être et promouvoir, nous dé­bouchons tout naturellement sur l'implosion des valeurs...  Et le libéralisme échouera par­ce qu'il ne pourra plus satisfaire les be­soins économiques qui se font de plus en plus pressants, notamment en Europe orientale.

 

Q.: Vous croyez donc que les choses ne changent qu'à coup de catastrophes?

 

GM: C'est exact. Seules les catastrophes font que le monde change. Ceci dit, les catas­tro­phes ne garantissent pas pour autant que les peuples modifient de fond en comble leurs modes de penser déficitaires. Depuis des an­nées, nous savions, ou du moins nous étions en mesure de savoir, ce qui allait se passer si l'Europe continuait à être envahie en masse par des individus étrangers à notre espace, provenant de cultures radica­lement autres par rapport aux nôtres. Le problème devient particulièrement aigu en Allemagne et en France. Quand nous au­rons le «marché in­térieur», il deviendra plus aigu encore. Or à toute politique ration­nelle, on met des bâtons dans les roues en invoquant les droits de l'homme, etc. Ceci n'est qu'un exemple pour montrer que le fossé se creusera toujours davantage entre la capacité des uns à prévoir et la promptitude des autres à agir en con­séquence.

 

Q.: Ne vous faites-vous pas d'illusions sur la durée que peuvent prendre de tels processus? Au début des années 70, on a pronostiqué la fin de l'ère industrielle; or, des catastrophes comme celles de Tchernobyl n'ont eu pour conséquence qu'un accroissement générale de l'efficience industrielle. Même les Verts pratiquent aujourd'hui une politique indus­trielle. Ne croyez-vous pas que le libéralisme s'est montré plus résistant et innovateur qu'on ne l'avait cru?

 

GM: «Libéralisme» est un mot qui recouvre beaucoup de choses et dont la signification ne s'étend pas à la seule politique indus­triel­le. Mais, même en restant à ce niveau de po­litique industrielle, je resterai critique à l'é­gard du libéralisme. Partout, on cherche le salut dans la «dé-régulation». Quelles en sont les conséquences? Elles sont patentes dans le tiers-monde. Pour passer à un autre plan, je m'étonne toujours que la droite re­proche au libéralisme d'être inoffensif et inefficace, alors qu'elle est toujours vaincue par lui. On oublie trop souvent que le libéra­lisme est aussi ou peut être un système de domination qui fonctionne très bien, à la condition, bien sûr, que l'on ne prenne pas ses impératifs au sérieux. C'est très clair dans les pays anglo-saxons, où l'on parle sans cesse de democracy  ou de freedom,  tout en pensant God's own country  ou Britannia rules the waves.  En Allemagne, le libéralisme a d'emblée des effets destruc­teurs et dissolutifs parce que nous prenons les idéologies au sérieux, nous en faisons les impératifs catégoriques de notre agir. C'est la raison pour laquelle les Alliés nous ont octroyé ce système après 1945: pour nous neutraliser.

 

Q.: Etes-vous un anti-démocrate,

Monsieur Maschke?

 

GM: Si l'on entend par «démocratie» la par­titocratie existente, alors, oui, je suis anti-démocrate. Il n'y a aucun doute: ce système promeut l'ascension sociale de types hu­mains de basse qualité, des types humains médiocres. A la rigueur, nous pourrions vi­vre sous ce système si, à l'instar des Anglo-Sa­xons ou, partiellement, des Français, nous l'appliquions ou l'instrumentalisions avec les réserves né­cessaires, s'il y avait en Allemagne un «bloc d'idées incontestables», imperméable aux effets délétères du libé­ra­lisme idéologique et pratique, un «bloc» se­lon la définition du ju­riste français Maurice Hauriou. Evidemment, si l'on veut, les Alle­mands ont aujourd'hui un «bloc d'idées in­contes­tables»: ce sont celles de la culpabilité, de la rééducation, du refoulement des acquis du passé. Mais contrairement au «bloc» dé­fini par Hauriou, notre «bloc» est un «bloc» de faiblesses, d'éléments affaiblissants, in­ca­­pacitants. La «raison d'Etat» réside chez nous dans ces faiblesses que nous cultivons jalousement, que nous conservons comme s'il s'agissait d'un Graal. Mais cette omni­pré­sence de Hitler, cette fois comme cro­que­mitaine, signifie que Hitler règne tou­jours sur l'Allemagne, parce que c'est lui, en tant que contre-exemple, qui détermine les règles de la politique. Je suis, moi, pour la suppres­sion définitive du pouvoir hitlérien.

 

Q.: Vous êtes donc le seul véritable

anti-fasciste?

 

GM: Oui. Chez nous, la police ne peut pas être une police, l'armée ne peut pas être une armée, le supérieur hiérarchique ne peut pas être un supérieur hiérarchique, un Etat ne peut pas être un Etat, un ordre ne peut pas être un ordre, etc. Car tous les chemins mènent à Hitler. Cette obsession prend les formes les plus folles qui soient. Les spécula­tions des «rééducateurs» ont pris l'ampleur qu'elles ont parce qu'ils ont affirmé avec succès que Hitler résumait en sa personne tout ce qui relevait de l'Etat, de la Nation et de l'Autorité. Les conséquences, Arnold Gehlen les a résumées en une seule phrase: «A tout ce qui est encore debout, on extirpe la moëlle des os». Or, en réalité, le système mis sur pied par Hitler n'était pas un Etat mais une «anarchie autoritaire», une alliance de groupes ou de bandes qui n'ont jamais cessé de se combattre les uns les autres pendant les douze ans qu'a duré le national-socia­lisme. Hitler n'était pas un nationaliste, mais un impérialiste racialiste. Pour lui, la nation allemande était un instrument, un réservoir de chair à canon, comme le prouve son comportement du printemps 1945. Mais cette vision-là, bien réelle, de l'hitlérisme n'a pas la cote; c'est l'interprétation sélective­ment colorée qui s'est imposée dans nos es­prits; résultat: les notions d'Etat et de Nation peuvent être dénoncées de manière ininter­rompue, détruites au nom de l'éman­cipa­tion.

 

Q.: Voyez-vous un avenir pour la droite en Allemagne?

 

GM: Pas pour le moment.

 

Q.: A quoi cela est-il dû?

 

GM: Notamment parce que le niveau intel­lectuel de la droite allemande est misérable. Je n'ai jamais cessé de le constater. Avant, je prononçais souvent des conférences pour ce public; je voyais arriver 30 bonshommes, parmi lesquels un seul était lucide et les 29 autres, idiots. La plupart étaient tenaillés par des fantasmes ou des ressentiments. Ce public des cénacles de droite vous coupe tous vos effets. Ce ne sont pas des assemblées, soudées par une volonté commune, mais des poulaillers où s'agitent des individus qui se prétendent favorables à l'autorité mais qui, en réalité, sont des produits de l'éducation anti-autoritaire.

 

Q.: L'Amérique est-elle la cible principale

de l'anti-libéralisme?

 

GM: Deux fois en ce siècle, l'Amérique s'est dressée contre nous, a voulu détruire nos œu­vres politiques, deux fois, elle nous a dé­claré la guerre, nous a occupés et nous a ré­éduqués.

 

Q.: Mais l'anti-américanisme ne se déploie-t-il pas essentiellement au niveau «impolitique» des sentiments?

 

GM: L'Amérique est une puissance étran­gè­re à notre espace, qui occupe l'Europe. Je suis insensible à ses séductions. Sa culture de masse a des effets désorientants. Certes, d'aucuns minimisent les effets de cette cul­ture de masse, en croyant que tout style de vie n'est que convention, n'est qu'extériorité. Beaucoup le croient, ce qui prouve que le pro­blème de la forme, problème essentiel, n'est plus compris. Et pas seulement en Alle­ma­gne.

 

Q.: Comment expliquez-vous la montée du néo-paganisme, au sein des droites, spécia­lement en Allemagne et en France?

 

GM: Cette montée s'explique par la crise du christianisme. En Allemagne, après 1918, le protestantisme s'est dissous; plus tard, à la suite de Vatican II dans les années 60, ça a été au tour du catholicisme. On interprète le problème du christianisme au départ du con­cept d'«humanité». Or le christianisme ne repose pas sur l'humanité mais sur l'a­mour de Dieu, l'amour porté à Dieu. Au­jour­d'hui, les théologiens progressistes attri­buent au christianisme tout ce qu'il a jadis combattu: les droits de l'homme, la démo­cra­tie, l'amour du lointain (de l'exotique), l'af­faiblissement de la nation. Pourtant, du christianisme véritable, on ne peut même pas déduire un refus de la poli­tique de puis­sance. Il suffit de penser à l'époque baroque. De nos jours, nous trou­vons des chrétiens qui jugent qu'il est très chrétien de rejetter la distinction entre l'ami et l'ennemi, alors qu'el­le est induite par le péché originel, que les théologiens actuels cherchent à mini­mi­ser dans leurs interpré­tations. Mais seul Dieu peut lever cette dis­tinction. Hernán Cor­tés et Francisco Pizarro savaient encore que c'était impossible, con­trairement à nos évêques d'aujourd'hui, Lehmann et Kruse. Cortés et Pizarro étaient de meilleurs chré­tiens que ces deux évêques. Le néo-paga­nis­me a le vent en poupe à notre époque où la sécularisation s'accélére et où les églises el­les-mêmes favorisent la dé-spi­ritualisation. Mais être païen, cela signifie aussi prier. Demandez donc à l'un ou l'autre de ces néo-païens s'il prie ou s'il croit à l'un ou l'autre dieu païen. Au fond, le néo-paga­nisme n'est qu'un travestissement actualisé de l'athéis­me et de l'anticléricalisme. Pour moi, le néo-paganisme qui prétend revenir à nos racines est absurde. Nos racines se si­tuent dans le christianisme et nous ne pou­vons pas reve­nir 2000 ans en arrière.

 

Q.: Alors, le néo-paganisme,

de quoi est-il l'indice?

 

GM: Il est l'indice que nous vivons en déca­dence. Pour stigmatiser la décadence, notre époque a besoin d'un coupable et elle l'a trou­vé dans le christianisme. Et cela dans un mon­de où les chrétiens sont devenus ra­rissi­mes! Le christianisme est coupable de la dé­cadence, pensait Nietzsche, ce «fanfaron de l'intemporel» comme aimait à l'appeler Carl Schmitt. Nietzsche est bel et bien l'ancêtre spirituel de ces gens-là. Mais qu'entendait Nietzsche par christianisme? Le protestan­tis­me culturel libéral, prusso-allemand. C'est-à-dire une idéologie qui n'existait pas en Italie et en France; aussi je ne saisis pas pourquoi tant de Français et d'Italiens se réclament de Nietzsche quand ils s'attaquent au christianisme.

 

Q.: Monsieur Maschke, nous vous remer­cions de nous avoir accordé cet entretien.

 

(une version abrégée de cet entretien est pa­rue dans Junge Freiheit n°6/91; adresse: JF, Postfach 147, D-7801 Stegen/Freiburg).

samedi, 19 décembre 2009

R. Steuckers: deux questions à la fin de la première décennie du 21ème siècle

RSnov0622222.jpgEntretien-éclair avec Robert Steuckers

 

Deux questions à la fin de la première décennie du 21ème siècle

 

Propos recueillis par Philippe Devos-Clairfontaine

 

Photo: AnaR - Senlis, Ile-de-France, novembre 2006

Question : Monsieur Steuckers, le site de “Synergies européennes” (http://euro-synergies.hautetfort.com) publie énormément de textes sur la “révolution conservatrice” allemande, en même temps qu’un grand nombre d’articles ou d’interventions sur l’actualité en politique internationale et en géopolitique: ne pensez-vous pas que la juxtaposition de ces deux types de thématiques peut paraître bizarre pour le lecteur non averti? Voire relever de l’anachronisme?

 

RS: D'abord quelques remarques: le présent est toujours tributaire du passé. A la base, nos méthodes d’analyse sont inspirées de l’historiographie née au XIX° siècle, avec Dilthey et Nietzsche, et des travaux de Michel Foucault, développés depuis le début des années 60: ces méthodes se veulent “généalogiques” ou “archéologiques”. Nous cherchons, dans nos groupes, qui fonctionnent, je le rappelle, de manière collégiale et pluridisciplinaire, à expliciter le présent par rapport aux faits antécédents, aux racines des événements. Pourquoi? Parce que toute méthode qui n’est pas archéologique bascule immanquablement dans le schématique, plus exactement dans ces schématismes binaires qui font les fausses “vérités” de propagande. “La vérité, c’est l’erreur”, disait la propagande de Big brother dans le “1984” d’Orwell. Aujourd’hui, les “vérités” de propagande dominent les esprits, les oblitèrent et annulent toute pensée véritable, la tuent dans l’oeuf.

 

En juxtaposant, comme vous dites, des textes issus de la “Konservaitve Revolution” et des textes sur les événements qui se déroulent actuellement dans les zones de turbulence géopolitique, nous entendons rappeler que, dans l’orbite de la “révolution conservatrice”, des esprits innovateurs, des volontés révolutionnaires, ont voulu déjà briser les statu quo étouffants, ont oeuvré sans discontinuité, notamment dans les cercles étiquettés “nationaux-révolutionnaires”. Vers 1929/1930, divers colloques se sont déroulés à Cologne et à Bruxelles entre les lésés de Versailles et les représentants des forces montantes anti-impérialistes hors d’Europe. Aujourd’hui, une attitude similaire serait de mise: les Européens d’aujourd’hui sont les principales victimes de Téhéran, de Yalta et de Potsdam. La chute du Mur de Berlin et la disparition du Rideau de Fer n’a finalement pas changé grand chose à la donne: désormais les pays d’Europe centrale et orientale sont passés d’une hégémonie soviétique, qui n’était pas totalement étrangère à leur espace, à une hégémonie américaine qui, elle, y est totalement étrangère. Plus la base territoriale de la puissance qui impose son joug est éloignée, non contigüe, plus le joug s’avère contre-nature et ne peut fonctionner que grâce à la complicité de pseudo-élites véreuses, corrompues, qui rompent délibérément avec le passé de leurs peuples. Qui rompt de la sorte avec le passé de son peuple introduit d’abord un ferment de dissolution politique (car toute politie relève  d’un héritage) et livre, par conséquent, la population de souche à l’arbitraire de l’hegemon étranger. Une population livrée de la sorte à l’arbitraire et aux intérêts d’une “raumfremde Macht” (selon la terminologie forgée par Carl Schmitt et Karl Haushofer) finit par basculer d’abord dans la misère spirituelle, dans la débilité intellectuelle, anti-chambre de la misère matérielle pure et simple. La perte d’indépendance politique conduit inexorablement à la perte d’indépendance alimentaire et énergétique, pour ne rien dire de l’indépendance financière, quand on sait que les réserves d’or des grands pays européens se trouvent aux Etats-Unis, justement pour leur imposer l’obéissance. L’Etat qui n’obtempère pas risque de voir ses réserves d’or confisquées. Tout simplement.

 

Du temps de la République de Weimar, les critiques allemands des plans financiers américains, les fameux plans Young et Dawes, se rendaient parfaitement compte de la spirale de dépendance dans laquelle ils jetaient l’Allemagne vaincue en 1918. Si, jadis, entre 1928 et 1932, la résistance venait d’Inde, avec Gandhi, de Chine, avec les régimes postérieurs à celui de Sun-Ya-Tsen, de l’Iran de Reza Shah Pahlevi et, dans une moindre mesure, de certains pays arabes, elle provient essentiellement, pour l’heure, du Groupe de Shanghai et de l’indépendantisme continentaliste (bolivarien) d’Amérique ibérique. Les modèles à suivre pour les Européens, ahuris et décérébrés par les discours méditiques, énoncés par les “chiens de garde du système”, se trouvent donc aujourd’hui, en théorie comme en pratique, en Amérique latine.

 

Q.: Vous ne placez plus d’espoir, comme jadis ou comme d’autres “nationaux-révolutionnaires”, dans le monde arabo-musulman?

 

RS: Toutes les tentatives antérieures de créer un axe ou une concertation entre les dissidents constructifs de l’Europe asservie et les parties du monde arabe posées comme “Etats-voyous” se sont soldées par des échecs. Les colloques libyens de la “Troisième Théorie Universelle” ont cessé d’exister dès le rapprochement entre Khadaffi et les Etats-Unis et dès que le leader libyen a amorcé des politiques anti-européennes, notamment en participant récemment au “mobbing” contre la Suisse, un “mobbing” bien à l’oeuvre depuis une bonne décennie et qui trouvera prétexte à se poursuivre après la  fameuse votation sur les minarets.

 

Le leader nationaliste Nasser a disparu pour être remplacé par Sadat puis par Moubarak qui sont des alliés très précieux des Etats-Unis. La Syrie a participé à la curée contre l’Irak, dernière puissance nationale arabe, éliminée en 2003, en dépit de l’éphémère et fragile Axe Paris Berlin Moscou. Les crispations fondamentalistes déclarent la guerre à l’Occident sans faire la distinction entre l’Europe asservie et l’hegemon américain, avec son appendice israélien. Les fondamentalismes s’opposent à nos modes de vie traditionnels et cela est proprement inacceptable, comme sont inacceptables tous les prosélytismes de même genre: la notion de “jalliliyah” est pour tous dangereuse, subversive et inacceptable; c’est elle que véhiculent ces fondamentalismes, d’abord en l’instrumentalisant contre les Etats nationaux arabes, contre les résidus de syncrétisme ottoman ou perse puis contre toutes les formes de polities non fondamentalistes, notamment contre les institutions des Etats-hôtes et contre les moeurs traditionnelles des peuples-hôtes au sein des diasporas musulmanes d’Europe occidentale. Une alliance avec ces fondamentalismes nous obligerait à nous renier nous-mêmes, exactement comme l’hegemon américain, à l’instar du Big Brother d’Oceana dans le roman “1984” de George Orwell, veut que nous rompions avec les ressorts intimes de notre histoire. Le Prix Nobel de littérature Naipaul a parfaitement décrit et dénoncé cette déviance dans son oeuvre, en évoquant principalement les situations qui sévissent en Inde et en Indonésie. Dans cet archipel, l’exemple le plus patent, à ses yeux, est la volonté des intégristes de s’habiller selon la mode saoudienne et d’imiter des coutumes de la péninsule arabique, alors que ces effets vestimentaires et ces coutumes étaient diamétralement différentes de celles de l’archipel, où avaient longtemps régné une synthèse faite de religiosités autochtones et d’hindouisme, comme l’attestent, par exemple, les danses de Bali.

 

L’idéologie de départ de l’hegemon américain est aussi un puritanisme iconoclaste qui rejette les synthèses et syncrétismes de la “merry old England”, de l’humanisme d’Erasme, de la Renaissance européenne et des polities traditionnelles d’Europe. En ce sens, il partage bon nombre de dénominateurs communs avec les fondamentalismes islamiques actuels. Les Etats-Unis, avec l’appui financier des wahabites saoudiens, ont d’ailleurs manipulé ces fondamentalismes contre Nasser en Egypte, contre le Shah d’Iran (coupable de vouloir développer l’énergie nucléaire), contre le pouvoir laïque en Afghanistan ou contre Saddam Hussein, tout en ayant probablement tiré quelques ficelles lors de l’assassinat du roi Fayçal, coupable de vouloir augmenter le prix du pétrole et de s’être allié, dans cette optique, au Shah d’Iran, comme l’a brillamment démontré le géopolitologue suédois, William Engdahl, spécialiste de la géopolitique du pétrole. Ajoutons au passage que l’actualité la plus récente confirme cette hypothèse: l’attentat contre la garde républicaine islamique iranienne, les troubles survenus dans les provinces iraniennes en vue de déstabiliser le pays, sont le fait d’intégrismes sunnites, manipulés par les Etats-Unis et l’Arabie saoudite contre l’Iran d’Ahmadinedjad, coupable de reprendre la politique nucléaire du Shah! L’Iran a riposté en soutenant les rebelles zaïdites/chiites du Yémen, reprenant par là une vieille stratégie perse, antérieure à l’émergence de l’islam!

 

Les petits guignols qui se piquent d’être d’authentiques nationaux-révolutionnaires en France ou en Italie et qui se complaisent dans toutes sortes de simagrées pro-fondamentalistes sont en fait des bouffons alignés par Washington pour deux motifs  stratégiques évidents: 1) créer la confusion au sein des mouvements européistes et les faire adhérer aux schémas binaires que répandent les grandes agences médiatiques américaines qui orchestrent partout dans le monde le formidable “soft power” de Washington; 2) prouver urbi et orbi que l’alliance euro-islamique (euro-fondamentaliste) est l’option préconisée par de “dangereux marginaux”, par des “terroristes potentiels”, par les “ennemis de la liberté”, par des “populistes fascisants ou crypto-communistes”. Dans ce contexte, nous avons  aussi les réseaux soi-disant “anti-fascistes” s’agitant contre des phénomènes assimilés à tort ou à raison à une idéologie politique disparue corps et biens depuis 65 ans. Dans le théâtre médiatique, mis en place par le “soft power” de l’hegemon, nous avons , d’une part, les zozos nationaux-révolutionnaires ou néo-fascistes européens zombifiés, plus ou moins convertis à l’un ou l’autre resucé du wahabisme, et, d’autre part, les anti-fascistes caricaturaux, que l’on finance abondamment à fin de médiatiser les premiers, notamment via un député britannique du Parlement européen. Tous y ont leur rôle à jouer: le metteur en scène est le même. Il anime le vaudeville de main de maître. Tout cela donne un spectacle déréalisant, relayé par la grande presse, tout aussi écervelée. Dommage qu’il n’y ait plus  un Debord sur la place de Paris pour le dénoncer!

 

Pour échapper au piège mortel du “musulmanisme” pré-fabriqué, tout anti-impérialisme européiste conséquent a intérêt à se référer aux modèles ibéro-américains. In fine, il me paraît moins facile de démoniser le pouvoir argentin ou brésilien, et même Chavez ou Morales, comme on démonise avec tant d’aisance le fondamentalisme musulman et ses golems fabriqués, que sont Al-Qaeda ou Ben Laden.

 

Alexandre del Valle et Guillaume Faye, que ce musulmanisme insupportait à juste titre, notamment celui du chaouch favori du lamentable polygraphe de Benoist, cet autre pitoyable graphomane inculte sans formation aucune: j’ai nommé Arnaud Guyot-Jeannin. Le site “You Tube” nous apprend, par le truchement d’un vidéo-clip, que ce dernier s’est récemment produit à une émission de la télévision iranienne, où il a débité un épouvantable laïus de collabo caricatural qui me faisait penser à l’épicier chafouin que menacent les soldats français déguisés en Allemands, pour obtenir du saucisson à l’ail, dans la célèbre comédie cinématographique “La 7ième Compagnie”… Il y a indubitablement un air de ressemblance… Cependant, pour échapper à de tels clowns, Del Valle et Faye se sont plongés dans un discours para-sioniste peu convaincant. Faut-il troquer l’épicier de la “7ième Compagnie” pour la tribu de “Rabbi Jacob”, la célèbre comédie de Louis de Funès? En effet, force est de constater que le fondamentalisme judéo-sioniste est tout aussi néfaste à l’esprit et au politique que ses pendants islamistes ou américano-puritains. Tous, les uns comme les autres, sont éloignés de l’esprit antique et renaissanciste de l’Europe, d’Aristote, de Tite-Live, de Pic de la Mirandole, d’Erasme ou de Juste Lipse. Devant toutes ces dérives, nous affirmons, haut et clair, un “non possumus”! Européens, nous le sommes et le resterons, sans nous déguiser en bédouins, en founding fathers ou en sectataires de Gouch Emounim. On ne peut qualifier d’antisémite le rejet de ce pseudo-sionisme ultra-conservateur, qui récapitule de manière caricaturale ce que pensent des politiciens en apparence plus policés, qu’ils soient likoudistes ou travaillistes mais qui sont contraints de rejeter les judaïsmes plus féconds pour mieux tenir leur rôle dans le scénario proche- et moyen-oriental imaginé par l’hegemon. Le sionisme, idéologie au départ à facettes multiples, a déchu pour n’être plus que le discours de marionnettes aussi sinistres que les Wahabites. Tout véritable philosémitisme humaniste européen participe, au contraire, d’un plongeon dans des oeuvres autrement plus fascinantes: celles de Raymond Aron, Henri Bergson, Ernst Kantorowicz, Hannah Arendt, Simone Weil, Walter Rathenau, pour ne citer qu’une toute petite poignée de penseurs et de philosophes féconds. Rejeter les schémas de dangereux simplificateurs n’est pas de l’antisémitisme, de l’anti-américanisme primaire ou de l’islamophobie. Qu’on le dise une fois pour toutes!

 

(Réponses données à Bruxelles, le 7 décembre 2009).

jeudi, 28 mai 2009

R. Steuckers: Entretien à "Pagine Libere" (1993)

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Archives de Synergies Européennes - 1993

Entretien à "Pagine Libere" (Rome)

Présentation succincte de Robert Steuckers

 

Né en janvier 1956 à Bruxelles, Robert Steuckers est licencié en langues anglaise et allemande. En 1981, il a été secrétaire de rédaction de la revue Nouvelle Ecole, dirigée par Alain de Benoist. Il a fondé en 1982 et en 1983, les revues Orientations et Vouloir. Il a collaboré à l'Encyclopédie des œuvres philosophiques (PUF) et prépare un ouvrage sur les auteurs allemands qui ont influencé Julius Evola. En Italie, il a collaboré à Diorama Letterario et Trasgressioni. Il a fondé en 1993 une association paneuropéenne, Synergies Européennes, qui s'est donnée pour tâche de participer chaque année à une université d'été.

 

Q.: Dans votre numéro de Vouloir (n°89/92), consacré aux économies hétérodoxes, vous évoquez les théories qui pourraient contribuer à asseoir une alternative aux systèmes qui ont dominé notre après-guerre?

 

R.: Je pars du principe qu'un mouvement politique alternatif, que toutes démarches politiques visant à corriger les dysfonctionnements économiques observables dans nos sociétés occidentales, doivent s'inscrire dans un réseau de traditions précis. Les marxistes s'inscrivaient dans la logique marxiste; les capitalistes s'inscrivent dans la logique des économies classiques. Nous, les alternatifs, sommes contraints de nous inscrire dans les courants dits «hétérodoxes». Mais cette intention demeurera privée d'effet tant que la notion d'hétérodoxie ne sera pas vulgarisée, admise, explorée. La première tâche est donc, à mon sens, de bien connaître l'histoire des courants hétérodoxes, de façon à en dégager les grandes lignes, à en repérer les constantes, à en actualiser les intuitions. L'idée centrale des hétérodoxies est le «contexte»; l'économie doit s'appuyer sur un contexte, une histoire, un peuple. Elle doit s'inscrire dans le temps et dans l'espace et non dans un discours universaliste qui ignore délibérément les impératifs et les contraintes du temps et de l'espace. Dès le XIXième siècle, les économistes de l'«école historique» (Roscher, Hildebrand, Knies, Schmoller) ont insisté sur le contexte national. D'autres traditions hétérodoxes ont été moins «nationalistes», elles ont privilégié l'approche «classiste» (Veblen et la «leisure class») ou institutionnelle. François Perroux, en France, a montré que l'économie ne se déployait pas en vase clos, mais évoluait dans un monde complexe, imprévisible: si, très souvent, cette complexité conduit à la stabilité, ce n'est pas une règle infaillible: la complexité peut conduire au conflit. Un conflit qu'il s'agira alors de maîtriser; et pour le maîtriser, au milieu des innombrables paramètres qui agitent le monde, il faut être capable d'utiliser de multiples logiques, plusieurs «rationalités économiques». Contrairement à ce que croient les terribles simplificateurs, politiciens ou idéologues, le réel ne se maîtrise pas à l'aide d'une et d'une seule logique. L'hétérodoxie postule donc une pluralité pratique, non pas une pluralité que l'on contemple béatement en tant que telle, mais une pluralité où l'acteur politique choisit ses armes, ses instruments de combat sans en privilégier aucun de façon absolue.

 

Q.: L'hétérodoxie est-elle compatible avec une démocratie réelle, qui respecte l'espace du citoyen?

 

R.: Les théories économiques orthodoxes, c'est-à-dire celles qui ont eu le dessus pendant notre après-guerre, ont conduit, à l'Est, au résultat que l'on sait, et, à l'Ouest, à un accroissement démesuré des entreprises multinationales atteintes d'éléphantiasis et génératrices d'un chomâge catastrophique, c'est-à-dire d'un gaspillage scandaleux des ressources humaines. Le chômage est une exclusion, conduit à la société duale et ruine la notion de citoyenneté. L'exclu n'est pas un citoyen à part entière. L'augmentation des exclus ne permet plus non plus de financer ce bel Etat social des décennies d'abondance. Les délocalisations relèvent d'une pratique déduite des théories qui ignorent le contexte. La ruine de la métallurgie wallone et lorraine, des industries textiles ouest-européennes, est le résultat d'une délocalisation, qui a surtout bénéficié aux grosses entreprises américaines. Les famines générées par la disparition des cultures vivrières dans le tiers-monde participent, elles aussi, de cette même logique perverse. Lorsqu'un peuple produit lui-même les choses essentielles dont il a besoin, il est libre. S'il dépend trop fortement de l'étranger, sa liberté est limitée. Les planificateurs américains ne sont pas dupes: Eagleburger disait: «Food is the best weapon in our arsenal», démontrant par là que l'agriculture américaine devait demeurer largement exportatrice, afin de faire dépendre d'elle un maximum de peuples. Les batailles du GATT ne sont pas autre chose. Dès 1948, les Etats-Unis font échouer la Charte de La Havane, prévoyant trop de dérogations en faveur des pays en cours de reconstruction ou en phase de développement! Il a fallu attendre les années 60, c'est-à-dire la fin de la décolonisation qui ôtait aux grandes puissances européennes des «marchés protégés», pour que les Etats-Unis admettent l'aide au tiers-monde («Alliance pour le progrès» de Kennedy). Par ailleurs Michel Albert, président d'un grand goupe d'assurance français, opère une distinction intéressante entre «capitalisme anglo-saxon» et «capitalisme rhénan/nippon». Le capitalisme anglo-saxon parie d'abord sur la spéculation pure. Son homologue rhénan/nippon sur l'investissement industriel, c'est-à-dire sur une logique du contexte, privilégiant l'outil national, garant d'une certaine forme d'indépendance. Le succès des économies allemande et japonaise prouve en quelque sorte la supériorité pratique des économies «contextualisées», sans pour autant être fermées au monde. Par ailleurs, dans les zones de modèle «rhénan/nippon», la solidarité nationale, la sécurité sociale et la protection des travailleurs étaient nettement plus solides que dans l'Amérique de Reagan ou la Grande-Bretagne de Thatcher.

 

Q.: Logique du contexte et démocratie sont dès lors indissociables?

 

R.: En effet, le combat de demain sera l'affrontement entre le «globalisme» américain et les «contextes». Entre la dictature du marché, parfois exercée par de petits satrapes nationaux et pseudo-nationalistes, et ceux qui veulent garder, pour eux et pour leurs enfants, la dignité d'être «citoyens», donc d'exercer sans discrimination, sans exclusion, leurs vertus de «zoon politikon». Mais l'idéal globaliste détient un atout considérable: la simplicité brutale; le monde doit être un, et tous vivront alors l'American way of life. L'idéal du contexte a la fragilité des systèmes trop complexes. L'hétérogénéité idéologique et philosophique que présente le vaste continent «hétérodoxe» ne permet pas de dégager facilement un corpus instrumentalisable et applicable à la planète entière au bénéfice des toutes les particularités contextuelles. Les détenteurs d'une idéologie simple, qui promet plus qu'elle ne peut tenir, peuvent très aisément fragmenter un front hétérogène, même si celui-ci est le reflet le plus exact d'un réel multiforme. En France, plusieurs économistes, s'inscrivant dans la tradition de Perroux et dans la logique gaullienne de l'indépendance nationale, ont montré l'unité fondamentale des théories hétérodoxes, au-delà des diversités dans la formulation et des spécificités nationales, mais leurs efforts n'ont jamais été poursuivis ni systématisés. Si ces efforts ont été entrepris à l'ère gaullienne ou dans les années qui l'ont immédiatement suivie, ils prouvent par eux-mêmes qu'ils sont l'émanation d'une volonté politique, d'une volonté de sortir des ornières conventionnelles en dépit des plus puissants de ce monde. C'est une volonté qu'il convient désormais d'imiter, de réamorcer. C'est une tâche à laquelle les économistes doivent s'atteler. Mais dans ce travail, ils doivent être épaulés par ceux et celles qui, non seulement possèdent des connaissances théoriques, mais sont animés par une volonté politique. Une volonté de changement.

 

Robert STEUCKERS.

mardi, 31 mars 2009

Evola, un penseur "gramscien" à historiciser

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES  - 1995

Evola, un penseur «gramscien» à historiciser

 

Entretien avec Marco Fraquelli

 

Récemment les pages culturelles de la presse quotidienne d'Italie se sont préoccu­pées d'Evola, parce qu'un philosophe en vue, Marco Fraquelli, classé à “gauche”, venait de publier un livre inattendu sur le penseur traditionaliste, intitulé significati­vement Il filosofo proibito (= “Le philosophe prohibé”), auprès de la maison d'édition milanaise Terziaria. Fraquelli travaille actuellement dans le domaine de la communi­ca­tion d'entreprise. Son travail fouillé sur Evola est issu d'une thèse universitaire qu'il avait présentée il y a quelques années sous la houlette de Giorgio Galli, qui lui est resté fidèle: il a rédigé pour l'édition grand public de cette thèse une introduction aussi pertinente que provoquante. Le Dr. Luca Gallesi a rencontré Fraquelli pour le mensuel politico-culturel romain, Pagine Libere. Voici une version française de leur entre­tien:

 

Q.: Vu la place que consacrent à votre livre les grands quotidiens nationaux, on pourrait croire que le nom et l'œuvre d'Evola soient enfin sortis du “ghetto” où on les avait exilés pendant tant d'années. La démoni­sation d'Evola n'est-elle plus qu'un souvenir? Le cordon sanitaire impénétrable que les bien-pensants avaient dressé autour de lui vient-il d'être levé?

 

MF: Sincèrement, j'aurais bien du mal à vous dire si cette démonisation vient de cesser ou non. En réalité, l'attention qu'une grande partie de notre presse consacre à mon livre, et donc à Evola, a une origine “anecdotique” et n'a rien à voir avec le contenu de mon travail. L'anecdote qui a déclenché cet intérêt, c'est le fait que j'ai présenté mon essai à la Casa della Cultura de Milan, un lieu où, traditionnellement, les gens de lettres classés à gauche se rencontrent. Le fait qu'on y parlait tout d'un coup d'Evola a suscité la curiosité des média... Evidemment si cela peut contribuer à évacuer le cordon sanitaire, tant mieux. Mais, entendons-nous bien, si je suis contre la démonisation d'Evola, je ne suis pas pour autant en faveur de sa revalorisation: je ne peux que répéter mon jugement critique et négatif à l'encontre d'Evola, mais je crois qu'il est plus utile pour tout le monde de présenter une approche exacte de l'œuvre évolienne, une ap­proche que je qualifierais d'“historicisée”, rien de plus.

 

Q.: En incluant Evola dans sa Storia delle dottrine politiche [= Histoire des doctrines politiques], Giorgio Galli, dans le chapitre qu'il consacre aux “théories élitistes”, réintroduit le penseur traditionaliste dans la culture universitaire officielle et hisse Evola au rang des auteurs qu'il s'agit désormais d'approfondir. Galli conclut les pages qu'il consacre à Evola en citant un passage de Chevaucher le Tigre  qui nous rappelle que l'apolitia  doit être le principe de l'homme différencié. Est-ce un mes­sage qu'il adresse aux lecteurs d'Evola qui auraient choisi la voie du militantisme politique?

 

MF: Sans doute. Mais je crois qu'il a voulu dire davantage que cela. Personnellement, je suis convaincu que l'œuvre d'Evola dans son ensemble  —et je fais allusion ici à toute sa production “métapolitique” des années 50 et 60—  avait pour but précis de fournir au néofascisme des référents idéels et politiques en vue de revitaliser une vision du monde antidémocratique. Mais cela n'implique pas, bien sûr, qu'il y ait un rapport mécanique entre la doctrine et la pratique. Cette dernière relève exclusivement de la responsabi­lité des militants. Quant au concept plus spécifique d'apolitia  —qu'une grande partie de la droite radicale, surtout celle qui se définit comme “traditionaliste”, utilise pour démontrer l'“impolicité” de la pensée évo­lienne—  je vous rappelle que pour Evola lui-même, il est évident que se référer à une dimension intérieure ne doit nullement bloquer l'action extérieure. Cela a été souligné par des exégètes reconnus de l'œuvre évolienne comme Freda et Romualdi, pour qui l'apolitia ne devait pas être une invitation à “se croiser les bras”, mais  —je cite Anna Jellamo—  devait être considérée “comme un moment de lutte, comme l'expression d'une non-action idéologiquement motivée et politiquement orientée, qui porte en soi les germes d'une victoire possible”.

 

Q.: Dans l'introduction à votre livre, Galli parle d'Evola comme “du fil rouge qui tra­verse toutes les expé­riences du néofascisme” et bon nombre de pages analysent la polémique anti-évolienne de ce qu'il est convenu d'appeler la “nouvelle droite” qui, en Italie, accuse la doctrine évolienne d'être un “mythe inca­pacitant”. Vous affir­mez, au contraire, qu'Evola est bien plus “gramsciste” que les “nouveaux gram­scistes de droite». Dans quel sens?

 

MF: Si on accepte, comme j'accepte, la définition que donne Revelli de la “nouvelle droite”, où cette droite est précisément celle qui fait sienne les conclusions du débat sur la crise de la politique, débat qu'avait proposé la gauche à partir de 1977. En acceptant les conclusions de ce débat, cette “nouvelle droite” (ND) choisit  —au détriment de tout politique institutionnelle, du moins temporairement—   de se consacrer à une action de “pénétration capillaire et extensive dans la société civile afin d'en orienter les mœurs et d'y enraciner sa propre conception du monde, c'est-à-dire, en termes gramsciens, afin de s'assurer l'hégémonie”. En tenant compte de cette définition de Revelli, on s'aperçoit immédiatement quel risque court la ND: celui d'être prisonnière d'un déterminisme, c'est-à-dire celui de croire que l'hégémonie poli­tique doit automatiquement suivre l'hégémonie culturelle. Ce risque, comme je le rappelle d'ailleurs dans mon livre, a pourtant été mis en évidence dans les cercles mêmes de cette droite, par exemple par Giano Accame  —qui affirme la nécessité d'ancrer le discours [révolutionnaire/rénovateur] dans un référent po­litique précis qui n'est autre que la “communauté nationale”—  et par Francesco Fransoni, jeune plume de la Nuova Destra italienne, qui a consacré tout un livre à cette problématique. Pour ce qui concerne Evola, je pense pouvoir dire que ce risque, justement, ne se pose pas. Dans l'œuvre évolienne, on ne trouve par la moindre faiblesse de type déterministe: la politique et la culture sont des entités qui avancent toujours d'un même pas, en s'informant et en se complétant tout à tour. C'est en ce sens-là qu'Evola est “gramscien”.

 

Q.: En posant votre regard sur l'enseignement d'Evola, vous soutenez la thèse que les analyses des nouvelles droites sur son œuvre révèlent des limites majeures, no­tamment dans cette attitude à vouloir coûte que coûte isoler la catégorie du “politique” de toutes les autres catégories. Dans quelle mesure?

 

MF: Je me rappelle d'un thème récurrent de la ND italienne: celui de l'“impolicité” de l'œuvre évolienne. La ND soutient que la seule issue du traditionalisme intégral d'Evola ne peut être que l'“impolicité”; en d'autres termes, que le traditionalisme ne peut avoir aucune influence du point de vue existentiel. Je me demande quelle autre finalité pourrait avoir une attitude existentielle précise sinon celui de prédisposer l'individu à une vision du monde qui comporte inévitablement un choix de type politique, voire implique un positionnement politique. Sans doute suis-je un peu trop “pasolinien” [disciple de Pasolini]  —en cela je dois reconnaître que cet autre exégète d'Evola, Gianfranco De Turris, a probablement raison—  mais ja­mais je ne me risquerais à affirmer que la sphère politique est entièrement détachée de toutes les autres sphères de l'existence (sphère culturelle, sphère religieuse, etc.), comme me semble l'avoir fait cette pensée de droite.

 

Q.: Etes-vous d'accord avec ceux qui disent que si Evola était né cinquante ans plus tard, il aurait été hippy? Car, au fond, il a été dadaïste, a goûté à tous les types de drogue, et a toujours été, en tout, un véritable anti-conformiste...

 

MF: Franchement, non, je ne suis pas d'accord. Mais je ne veux par formuler de jugement de valeur. La culture hippy se caractérise par une soif quasi inextinguible de liberté [au sens libertaire du terme], qui domine les rapports entre les individus. Evola a fait et expérimenté tout ce que vous venez d'évoquer (et même plus...) mais il n'a certainement jamais été un “libertaire”; Evola a été  —ce que souligne très bien Giorgio Galli dans la préface à mon essai—  un représentant significatif d'une culture occidentale, certes “alternative”, mais de type traditionaliste, se basant sur les valeurs organiques et hiérarchiques.

 

Q.: Dans votre conclusion, vous soulignez l'actualité de la doctrine politique d'Evola, qui, selon vous, a été sanctionnée par la mobilisation des thèmes évoliens chez bon nombre de protagonistes de la “droite effervescente” (c'est-à-dire celle qui a recouru au terrorisme et au “spontanéisme armé”). Ne vous semble-t-il pas que le “spontanéisme armé”, romantique, passionnel et irrationnel, ou que les vilénies du terrorisme  —dont la matrice politique reste entièrement à démontrer!—  ont finale­ment très peu de choses en commun avec celui qui a préconisé la distance absolue et l'“agir sans l'agir”?

 

MF: Je pourrais vous répondre par une provocation: seule une distance absolue peut soutenir l'action de celui qui se prépare à commettre un acte terroriste, voire un massacre d'innocents... Mais le problème est ailleurs, au-delà des sentiers battus. Comme je vous l'ai déjà dit, je crois avoir été très clair: il serait par­faitement malhonnête, sur le plan intellectuel, de chercher des connexions mécaniques entre les paroles du “Maître” et les comportements des certains de ses “élèves”. Mais je n'accepte pas pour autant l'image d'Epinal, totalement “impolitique”, qui est celle de l'Evola que veulent nous vendre les droites depuis une vingtaine d'années; j'ai voulu démontrer que l'œuvre d'Evola est difficilement “transférable en actes”, tâche qui pourrait même être carrément impossible, mais qu'elle reste néanmoins une pensée politique, dont les catégories ont été utilisées par d'autres hommes politiques ou idéologues, n'appartenant pas à la “droite effervescente”, mais à une tradition antérieure à Evola, pour orienter leur praxis politique. Reste à évoquer l'influence générale de nature existentielle qu'à mon avis l'œuvre d'Evola a indubitablement exer­cée; cette quête et cette exploration de l'œuvre, quand elles ont été poursuivies avec lucidité, quand elles se sont évidemment démarquées de toutes expériences “effervescentes” [“éversives”] ou terro­ristes, ont plus simplement voulu fournir des directives politiques, donner des lignes de conduite idéales, afin de maintenir à flot ou de sauver une vision du monde rigoureusement anti-démocratique.

 

(propos recueillis par le Dott. Luca Gallesi, parus dans le mensuel romain Pagine Libere, n°4/1995; adresse: Pagine Libere, Via Margutta 19, I-00.187 Roma; abonnement annuel, douze numéros: Lire 85.000).