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lundi, 12 juillet 2010

Jünger, ribelle della modernità

Jünger, ribelle della modernità

di Marco Iacona

 
Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Il 29 marzo del 1998, Ernst Jünger avrebbe dovuto compiere 103 anni. Il 17 febbraio dello stesso anno, tuttavia, si spegneva all’ospedale di Riedlingen nei pressi di Wilflingen nell’Alta Svevia, dove abitava da lungo tempo. I commenti sulla stampa dell’epoca furono quasi tutti di questo tipo: «È scomparso il testimone del Novecento». Nato nel 1895 ad Heidelberg, città dei filosofi, Jünger era stato protagonista degli eventi più importanti del secolo trascorso a cominciare dalle due guerre mondiali. Noto per esser stato parte essenziale di quella corrente di pensiero conosciuta come “Rivoluzione conservatrice tedesca”, ebbe interessi sterminati: dall’entomologia ai romanzi polizieschi di cui fu anche singolare autore (Eine Gefährtliche Begegnung – 1985). La raccolta dei suoi diari (di guerra, ma non solo), resta a detta di tutti un gioiello della letteratura del ‘900.

Una retrospettiva sull’attività del Nostro condurrebbe lontanissimo coincidendo, almeno in parte, con la storia d’Europa, fino ai primi anni del secondo Dopoguerra. Più utile una disamina sulle figure che Ernst Jünger ha saputo tratteggiare nel corso del suo interminabile percorso intellettuale. Cronologicamente è dal soldato che bisogna partire. Jünger va ricordato per averci trasmesso un’idea della guerra (ci riferiamo alla prima delle due guerre mondiali), che rimarrà come manifesto di uno spirito eroico per molti da imitare (ma a nostro giudizio inimitabile). Jünger mostra il lato della guerra che rifugge da un approccio morale; le sofferenze sono soltanto le sofferenze di un uomo in trincea, i morti non hanno nome, né famiglie ad attenderli, l’eroismo, in situazioni limite non può non prescindere dalla pietas e in sostanza dalla normalità dei sentimenti. Da questo punto di vista la sua opera più celebre e innovativa è In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), un diario-romanzo, pubblicato a due anni dalla fine della Grande Guerra. Il giovane Ernst vi appare come l’uomo dell’obbedienza e del silenzio. C’è uno Stato Maggiore da qualche parte del Reich che somministra piani di guerra ai sottoposti e c’è un protagonista solitario d’un evento e d’un libro: il soldato che sconosce le decisioni prese dai superiori e le motivazioni di respiro strategico delle azioni intraprese. In Stahlgewittern è un libro moderno, si dice, poiché mostra senza perifrasi le conseguenze dei conflitti, appunto, moderni. È un libro pensato all’interno d’un cimitero in pieno giorno, quando nessuna immagine può sfuggire allo sguardo sul filo delle lapidi.

Gli europei stanno combattendo una guerra terribile che richiama alla mente una sola parola: coraggio. Quel che importa non è la solidità delle trincee ma l’animo degli uomini che le occupano. Nell’inferno del Vecchio Continente, la scoperta della Materialschlacht (la «battaglia dei materiali») è l’evento cardine nel processo di formazione delle idee jüngeriane, il valore individuale sembra annullato dallo strapotere della tecnica. La meccanizzazione della guerra e le conseguenze che ne discendono, saranno comprese dal soldato-Jünger in tutta la loro forza epocale. Si può essere ancora men without fear? È questo l’interrogativo che conta.

 

Finisce la guerra. Inizia la parentesi della repubblica di Weimar (1919-1933). Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (L’Operaio. Dominio e forma – 1932) è l’opera teoretica più importante di questo periodo e forse di tutta la produzione jüngeriana. Attraversando temi e stili diversi Jünger è arrivato alla seconda figura importante: il tipo dell’operaio (o milite del lavoro). Essa non appartiene ad una classe e soprattutto non ha legami di continuità con i regimi storici pre e post rivoluzionari: il lavoratore non è il quarto stato, né custodisce al proprio interno valori esclusivamente economici. Nel lavoratore Jünger vede una «forma particolare agente secondo leggi proprie che segue una propria missione e possiede una propria libertà», un tipo a se stante dunque, il protagonista della modernità destinato a sostituirsi all’individuo e alla comunità. L’avanguardia di una nuova «forma» che non subirà alcun tipo di uniformazione. Nell’era dell’operaio, la massa non sarà più un agglomerato amorfo ma un insieme composto di cellule con una propria gerarchia di quadri. La volontà dei capi sarà la volontà di tutti e quest’ultima, espressione delle volontà particolari. L’idea jüngeriana del lavoro oltre ad eliminare le contraddizioni all’interno della società borghese darà all’uomo la libertà e la forza desiderate.

Cosa unisce il combattente delle trincee, con questa figura epocale? L’interrogativo non è ozioso. C’è in proposito una ricca letteratura. Nel libretto di Delio Cantimori: Tre saggi su Jünger, Moeller van den Bruck, Schmitt, per esempio, il milite del lavoro è l’asceta costruttore di una nuova società, «la cui rinunzia ad ogni personale sentimento e ad ogni motivo d’azione individuale, il cui contegno generale posson esser paragonati solo con quelli del soldato, del milite, come s’è presentato specie verso l’ultima epoca più meccanica della guerra mondiale». In realtà l’operaio è una figura limite.

 

Esso si delinea in senso essenzialmente dualistico: erede diretto del soldato, dell’asceta guerriero e principio cardine e chiave di lettura ontologica. Figura a un tempo storica e astorica: nato ma destinato a mai perire. Il soldato è una figura empirica, occasionale, l’operaio invece è una figura quasi metafisica. Eroi entrambi. L’uno legato ai fatti di guerra, l’altro simbolo d’una nuova era.

Soldato e operaio: due figure diverse dunque. Due entità poco confrontabili, misure e tempi che non coincidono. Ma c’è una cosa in comune: lo sforzo jüngeriano di eternizzare la posa del combattente, di trasferire lo spirito della vittoria nello spirito del dominatore civile, nell’uomo moderno tout court. In questo senso possiamo considerare Der Arbeiter un libro di guerra messo su in tempo di pace.

Al soldato s’addice la “tempesta” (l’alternarsi degli elementi: comincia a tempestare, finisce di tempestare…), l’operaio è invece legato all’“acciaio”, al panorama d’una modernità tipologica al confine tra fisica e metafisica.

Ma non è tutto. C’è uno Jünger del dopoguerra (quello superficialmente conosciuto come ribelle) che attraverso saggi e romanzi (Heliopolis - 1950, tanto per cominciare e anche l’arcifamoso Der Waldgang - 1951), tratteggia una figura se vogliamo ancor più complessa dell’operaio. Si tratta dell’anarca, o di colui che va incontro al bosco. C’è una dimensione a un tempo “naturale” ed escapista nello Jünger del secondo Dopoguerra (non dimentichiamo peraltro né la sua fama di contemplatore solitario né di studioso del regno degli insetti).

 

Dopo aver rappresentato la modernità con le sue cornici teorico-pratiche, dopo averci detto che nessuno sarebbe sfuggito al destino di lavoratore e uomo massa (seppur fosse nelle sue capacità il non farsi annullare da questa), l’uomo di Heidelberg decide di abbandonare le posizioni. C’è dunque una singolarità in questo terza figura jüngeriana. Quello che è stato chiamato il ribelle è in realtà un uomo che smette la «divisa» del combattente.

Del resto dopo averci detto verso quale abisso correva il genere umano (e dopo aver esplicitato a un tempo «forma» e rimedi), Jünger ha preferito occuparsi anche d’altro.

Quel che c’era da dire era stato già detto: l’eroe di guerra ha scelto di proseguire la vita cacciando farfalle.

 

 


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mercredi, 07 juillet 2010

Sobre el Nihilismo y la Rebeldia en Ernst Jünger

Sobre el Nihilismo y la Rebeldía en Ernst Jünger

 
Por Ricardo Andrade Ancic
 (Tomado de "El Valor de las Ruinas")
 
Ex: http://elfrentenegro.blogspot.com/

I

ernst_junger_en_1948.jpgErnst Jünger (1895-1998), autor de diarios claves sobre lo que se llamó la estética del horror, así como de un importante ensayo -El Trabajador- acerca de la cultura de la técnica moderna y sus repercusiones, está considerado, incluso por sus críticos más acerbos, como un gran estilista del idioma alemán, al que algunos incluso ponen a la altura de los grandes clásicos de la literatura germánica. Fue el último sobreviviente de una generación de intelectuales heredada de la obra de Oswald Spengler, Martin Heidegger, Carl Schmitt y Gottfried Benn. Apasionado polemista, nunca estuvo ajeno de la controversia política e ideológica de su patria; iconoclasta paradójico, enemigo del eufemismo, "anarquista reaccionario" en sus propias palabras, abominador de las dictaduras (fue expulsado del ejército alemán en 1944 después del fracaso del movimiento antihitlerista) y las democracias (dictaduras de la mayoría, como las llamó Karl Kraus, líder espiritual del círculo de Viena). En 1981, Jünger recibió el premio Goethe en Frankfurt, máximo galardón literario de la lengua germana. Sus obras, varias de ellas de carácter biográfico, giran sobre el eje de protagonistas en cuyas almas el autor intenta plasmar una cierta soledad y desencantamiento frente al mundo contemporáneo; al tema central, intercala disquisiciones acerca del origen y destino del hombre, filosofía de la historia, naturaleza del Estado y la sociedad. Por sobre esto, sus obras constituyen un llamado de denuncia y advertencia ante el avance incontenible y abrasador del nihilismo como movimiento mundial, a la vez que se convierten en guías para las almas rebeldes ante este proceso avasallador.

II

Pero, ¿qué es el nihilismo? Jünger, en un intercambio epistolar con Martin Heidegger, expuso sus conceptos sobre el nihilismo en el ensayo Sobre la línea (1949). Basándose en La voluntad de poder de F. Nietzsche, lo define, en primer término, como una fase de un proceso espiritual que lo abarca y al que nada ni nadie pueden sustraerse. En sí mismo, es un proceso determinado por "la devaluación de los valores supremos", en que el contacto con lo Absoluto es imposible: "Dios ha muerto". Nietzsche se caracteriza como el primer nihilista de Europa, pero que ya ha vivido en sí el nihilismo mismo hasta el fin. De esto Jünger recoge un Optimismo dentro del Pesimismo característico de este proceso, en el sentido de que Nietzsche anuncia un contramovimiento futuro que reemplazará a este nihilismo, aun cuando lo presuponga como necesario. También recoge síntomas del nihilismo en el Raskolnikov de Dostoievski, que "actúa en el aislamiento de la persona singular", dándole el nombre de ayuntamiento, proceso que puede resultar horrible en su epílogo, o ser la salvación del individuo luego de su purificación "en los infiernos", regresando a su comunidad con el reconocimiento de la culpa. Entre las dos concepciones, Jünger rescata un parentesco, el hecho de que progresan en tres fases análogas: de la duda al pesimismo, de ahí a acciones en el espacio sin dioses ni valores y después a nuevos cometidos. Esto permite concluir que tanto Nietzsche como Dostoievski ven una y la misma realidad, sí bien desde puntos muy alejados.

Jünger se encarga de limpiar y desmitificar el concepto de nihilismo, debido a todas las definiciones confusas y contradictorias que intelectuales posteriores a Nietzsche desarrollaron en sus trabajos, problema para él lógico debido a la "imposibilidad del espíritu de representar la Nada". Como problema principal, distingue el nihilismo de los ámbitos de lo caótico, lo enfermo y lo malo, fenómenos que aparecen con él y le han dado a la palabra un sentido polémico. El nihilismo depende del orden para seguir activo a gran escala, por lo que el desorden, el caos serían, como máximo, su peor consecuencia. A la vez, un nihilista activo goza de buena salud para responder a la altura del esfuerzo y voluntad que se exige a sí mismo y los demás. Para Nietzsche, el nihilismo es un estado normal y sólo patológico, por lo que comprende lo sano y lo enfermo a su particular modo. Y en cuanto a lo malo, el nihilista no es un criminal en el sentido tradicional, pues para ello tendría que existir todavía un orden válido.

El nihilismo, señala Jünger, se caracteriza por ser un estado de desvanecimiento, en que prima la reducción y el ser reducido, acciones propias del movimiento hacia el punto cero. Si se observa el lado más negativo de la reducción, aparece como característica tal vez más importante la remisión del número a la cifra o también del símbolo a las relaciones descarnadas; la confusión del valor por el precio y la vulgarización del tabú. También es característico del pensamiento nihilista la inclinación a referir el mundo con sus tendencias plurales y complicadas a un denominador; la volatización de las formas de veneración y el asombro como fuente de ciencia y un "vértigo ante el abismo cósmico" con el cual expresa ese miedo especial a la Nada. También es inherente al nihilismo la creciente inclinación a la especialización, que llega a niveles tan altos que "la persona singular sólo difunde una idea ramificada, sólo mueve un dedo en la cadena de montaje", y el aumento de circulación de un "número inabarcable de religiones sustitutorias", tanto en las ciencias, en las concepciones religiosas y hasta en los partidos políticos, producto de los ataques en las regiones ya vaciadas.

Según lo expresado en Sobre la línea, es la disputa con Leviatán -ente que representa las fuerzas y procesos de la época, en cuanto se impone como tirano exterior e interior-, es la más amplia y general en este mundo. ¿Cuáles son los dos miedos del hombre cuando el nihilismo culmina? "El espanto al vacío interior, obligando a manifestarse hacia fuera a cualquier precio, por medio del despliegue de poder, dominio espacial y velocidad acelerada. El otro opera de afuera hacia adentro como ataque del poderoso mundo a la vez demoníaco y automatizado. En ese juego doble consiste la invencibilidad del Leviatán en nuestra época. Es ilusorio; en eso reside su poder". La obra de Jünger trastoca el tema de la resistencia; se plantea la pregunta sobre cómo debe comportarse y sostenerse el hombre ante la aniquilación frente a la resaca nihilista.
"En la medida en que el nihilismo se hace normal, se hacen más temibles los símbolos del vacío que los del poder. Pero la libertad no habita en el vacío, mora en lo no ordenado y no separado, en aquellos ámbitos que se cuentan entre los organizables, pero no para la organización". Jünger llama a estos lugares "la tierra salvaje", lugar en el cual el hombre no sólo debe esperar luchar, sino también vencer. Son estos lugares a los cuales el Leviatán no tiene acceso, y lo ronda con rabia. Es de modo inmediato la muerte. Aquí dormita el máximo peligro: los hombres pierden el miedo. El segundo poder fundamental es Eros; "allí donde dos personas se aman, se sustraen al ámbito del Leviatán, crean un espacio no controlado por él". El Eros también vive en la amistad, que frente a las acciones tiránicas experimenta sus últimas pruebas. Los pensamientos y sentimientos quedan encerrados en lo más íntimo al armarse el individuo una fortificación que no permite escapar nada al exterior; "En tales situaciones la charla con el amigo de confianza no sólo puede consolar infinitamente sino también devolver y confirmar el mundo en sus libres y justas medidas". La necesidad entre sí de hombres testigos de que la libertad todavía no ha desaparecido harán crecer las fuerzas de la resistencia. Es por lo que el tirano busca disolver todo lo humano, tanto en lo general y público, para mantener lo extraordinario e incalculable, lejos.

Este proceso de devaluación de los valores supremos ha alcanzado, de algún modo, caracteres de "perfección" en la actualidad. Esta "perfección" del nihilismo hay que entenderla en la acepción de Heidegger, compartida por Jünger, como aquella situación en que este movimiento "ha apresado todas las consistencias y se encuentra presente en todas partes, cuando nada puede suponerse como excepción en la medida en que se ha convertido en el estado normal." El agente inmediato de este fenómeno radica en el desencuentro del hombre consigo mismo y con su potencia divina. La obra de Jünger, en este sentido, da cuenta del afán por radicar el fundamento del hombre.

III

Uno de los síntomas de nuestra época es el temor. Aquel temor que hace afirmar al autor que toda mirada no es más que un acto de agresión y que hace radicar la igualdad en la posibilidad que tienen los hombres de matarse los unos a los otros. A lo anterior, hay que agregar la inclinación a la violencia que desde el nacimiento todos traemos, según lo señalado en su novela "Eumeswil" (1977). . Por eso el mundo se torna en imperfecto y hostil. Su historia no es sino la de un cadáver acechado una y otra vez por enjambres de buitres. Esta visión lúgubre de la realidad, en la que se encuentra una reminiscencia schopenhaueriana, fue sin duda alimentada por la experiencia personal del autor, testigo del horror de dos guerras implacables que no hicieron más que coronar e instaurar en el mundo el culto a la destrucción, al fanatismo y la masificación del hombre. El avance de la técnica, a pesar de los beneficios que conlleva, a juicio de Jünger tiene la contrapartida de limitar la facultad de decisión de los hombres en la medida en que a favor de los alivios técnicos van renunciando a su capacidad de autodeterminación conduciendo, luego, a un automatismo generalizado que puede llevar a la aniquilación. La pregunta que surge entonces es cómo el hombre puede superarlo, a través de que medios puede salvarse. La respuesta de Jünger, en boca de uno de sus personajes principales, el anarca Venator: la salvación está en uno mismo. El anarca, que nada tiene que ver con el anarquista, expulsa de sí a la sociedad, ya que tanto de ésta como del Estado poco cabe esperar en la búsqueda de sí mismo. El no se apoya en nadie fuera de su propio ser; su propósito es convertirse en soberano de su propia persona, porque la libertad es, en el fondo, propiedad sobre uno mismo.

Aparecen en este momento dos afirmaciones que pueden aparecer como contradictorias: el hombre inclinado a la violencia desde su nacimiento, y el hombre que debe penetrar en un conocimiento interior con el fin de descubrir su forma divina. Jünger afirma que la riqueza del hombre es infinitamente mayor de lo que se piensa. ¿Cómo conciliar esto con el carácter perverso que le atribuye al mismo? Al responder esto, el escritor apela a una instancia superior a la que denomina Uno, Divinidad, lo Eterno, según lo que se colige sobre todo en su obra posterior a 1950. La relación entre el hombre y lo Absoluto, expuesta por el maestro alemán, se entiende del siguiente modo: el ser, forma o alma de cada uno de nosotros ha estado, desde siempre, es decir, antes de nacer, en el seno de la Divinidad, y, después de la muerte, volverá a estar con ella. Antes de nacer, es tal el grado de indeterminación de esa unidad en lo Uno que el hombre no puede tener conciencia de la misma. Sólo cuando el nacimiento se produce, el hombre se hace consciente de su anterior unidad y busca desesperadamente volver a ella, al sentirse un ser solitario. Es allí cuando debe dirigirse hacia sí mismo, penetrar en su alma que es la eterna manifestación de lo divino. En el conócete a ti mismo, el hombre puede acceder a la forma que le es propia, proceso que para Jünger es un "ver" que se dirige hacia el ser, la idea absoluta. Señala en El trabajador que la forma es fuente de dotación de sentido, y la representación de su presencia le otorga al hombre una nueva y especial voluntad de poder, cuyo propósito radica en el apoderamiento de sí mismo, en lo absoluto de su esencia, ya que el objeto del poder estriba en el ser-dueño... En consecuencia, en ese descubrimiento de ser atemporal e inalterable que le confiere sentido, el hombre puede hacerse propietario de éste y convertirse en un sujeto libre. En caso contrario, quien no posea un conocimiento de sí mismo es incapaz de tener dominio sobre su ser no pudiendo, por tanto, sembrar orden y paz a su alrededor. En conclusión, esta inclinación a la violencia que surge con el nacimiento del hombre, en otras palabras, con su separación de lo Uno en la identidad primordial y primigenia dando lugar a la negación de la Divinidad, puede ser dominada y contrarrestada en la medida que el hombre se convierta en dueño de sí mismo, para lo cual es fundamental el conocimiento de la forma que nos otorga sentido.

La sustancia histórica, señala Jünger, radica en el encuentro del hombre consigo mismo. Ese encuentro con el ser supratemporal que le dota de sentido lo simboliza con el bosque. En su obra El tratado del rebelde afirma: "La mayor vigencia del bosque es el encuentro con el propio yo, con la médula indestructible, con la esencia de que se nutre el fenómeno temporal e individual". Es, entonces, el lugar donde se produce la afirmación de la Divinidad, al adquirir el sujeto la conciencia misma como partícipe de la identidad con lo Eterno.

El Verbo, entendido como "la materia del espíritu", es el más sublime de los instrumentos de poder, y reposa entre las palabras y les da vida. Su lugar es el bosque. "Toda toma de posesión de una tierra, en lo concreto y en lo abstracto, toda construcción y toda ruta, todos los encuentros y tratados tienen por punto de partida revelaciones, deliberaciones, confirmaciones juradas en el Verbo y en el lenguaje", enuncia en El tratado del rebelde. El lenguaje es, en definitiva, un medio de dominación de la realidad, puesto que a través de él aprehendemos sus formas últimas, en la medida en que es expresión de la idea absoluta. En una época tan abrumadoramente nihilista como la contemporánea, el propio autor describe como el lenguaje va siendo lentamente desplazado por las cifras.

En la obra de Jünger, el hombre que no acepta el "espíritu del tiempo" y se "retira hacia sí mismo" en busca de su libertad, es un rebelde. A partir de un ensayo de 1951, Jünger había propuesto una figura de rebelde a las leyes de la sociedad instalada, el Waldgänger que, según una antigua tradición islandesa, se escapa a los bosques en busca de sí mismo y su libertad. Posteriormente, el autor desarrolla la figura del rebelde en la novela Eumeswil, publicada en 1977, definiendo la postura del anarca, tipo que encarnaría el distanciamiento frente a los peores aspectos del nihilismo actual; o como el único camino digno a seguir para los hombres de verdad libres.

IV

Como en Heliópolis, en Eumeswil, Jünger nos presenta un mundo aún por llegar: se vive allí el estado consecutivo a los Grandes Incendios -una guerra mundial, evidentemente- y a la constitución y posterior disolución del Estado Mundial. Un mundo simplificado, en que aparecen formas semejantes a las del pasado: los principados de los Khanes, las ciudades-estados. El autor marca el carácter postrero del ambiente que da a su novela, comparándola a la época helenística que sigue a Alejandro Magno, una ciudad como Alejandría, ciudad sin raíces ni tradición. De modo análogo, en la sociedad de Eumeswil las distinciones de rangos, de razas o clases han desaparecido; quedan sólo individuos, distinguidos entre ellos por los grados de participación en el poder. Se posee aún la técnica, pero como algo más bien heredado de los siglos creadores en este dominio. La técnica permite, por ejemplo -siendo esto otro rasgo alejandrino-, un gran acopio de datos sobre el pasado, pero este pasado ya no se comprende.

Se enfrentan en Eumeswil dos poderes: el militar y el popular, demagógico, de los tribunos. Del elemento militar ha salido el Cóndor, el típico tirano que restablece el orden y, con él, las posibilidades de la vida normal, cotidiana, de los habitantes. Pero se trata de un puro poder personal, informe, que ya no puede restaurar la forma política desvanecida. Por lo demás tampoco en Eumeswil se tiene la ilusión de la gran política; no se trata siquiera de una potencia, viviendo como vive bajo la discreta protección del Khan Amarillo. En suma, son las condiciones de la civilización spengleriana, las de toda época final en el decurso de las culturas. "Masas sin historia", "Estados de fellahs", como señala Jünger.

El protagonista y narrador de la novela es Martín Venator, "Manuelo" en el servicio nocturno de la alcazaba del Cóndor. Es un historiador de oficio: aplica al pasado sus cualidades de observador, y de allí las reflexiones sobre el tiempo presente. Su modelo es, sin duda, Tácito: senador bajo los Césares, celoso del margen de libertad que aún puede conservar, escéptico frente a los hombres y frente al régimen imperial.

Venator también es camarero, barman en la alcazaba: como en las cortes de otra época, el servicio personal y doméstico al señor resulta ennoblecido. El camarero suele ser asimismo un observador, y en este terreno se encuentra con el historiador.

El historiador se retira voluntariamente al pasado, donde se encuentra en realidad "en su casa", y en este modo se aparta de la política. La derrota, el exilio, han sido a veces la condición de desarrollo de una vocación historiográfica -Tucídides en la Antigüedad, por ejemplo-, pero en otras ocasiones el historiador ha tomado parte activa de las luchas de su tiempo. En la novela, tanto el padre como el hermano del protagonista también son historiadores, pero, a diferencia de éste, están ideológicamente "comprometidos": son buenos republicanos, liberales doctrinarios, cautos enemigos del Cóndor más ajenos al mundo de los hechos que éste representa. Ellos deploran que "Manuelo" haya descendido a tan humilde servicio al tirano. Servicio fielmente prestado, pero en ningún caso incondicional. Entre los enemigos del Cóndor están los anarquistas: conspiran, ejecutan atentados... nada que la policía del tirano no logre controlar. De ellos se diferencia claramente Venator: no es un anarquista, es un anarca.

V

La mejor definición para la posición del anarca pasa por su relación y distinción de las otras figuras, las otras individualidades que se alzan, cada una a su modo, frente al Estado y la sociedad: el anarquista, el partisano, el criminal, el solipsista; o también, del monarca absoluto, como Tiberio o Nerón. Pues en el hombre y en la historia hay un fondo irrenunciable de anarquía, que puede aflorar o no a la superficie, y en mayor o menor grado, según los casos. En la historia, es el elemento dinámico que evita el estancamiento, que disuelve las formas petrificadas. En el hombre, es esa libertad interior fundamental. De tal modo que el guerrero, que se da su propia ley, es anárquico, mientras que el soldado no. En aparente paradoja, el anarquista no es anárquico, aunque algo tiene, sin duda. Es un ser social que necesita de los demás; por lo menos de sus compañeros. Es un idealista que, al fin y al cabo, resulta determinado por el poder. "Se dirige contra la persona del monarca, pero asegura la sucesión".

El anarca, por su parte, es la "contrapartida positiva" del anarquista. En propias palabras de Jünger: "El anarquista, contrariamente al terrorista, es un hombre que en lo esencial tiene intenciones. Como los revolucionarios rusos de la época zarista, quiere dinamitar a los monarcas. Pero la mayoría de las veces el golpe se vuelve contra él en vez de servirlo, de modo que acaba a menudo bajo el hacha del verdugo o se suicida. Ocurre incluso, lo cual es claramente más desagradable, que el terrorista que ha salido con bien siga viviendo en sus recuerdos...El anarca no tiene tales intenciones, está mucho más afirmado en sí mismo. El estado de anarca es de hecho el estado natural que cada hombre lleva en sí. Encarna más bien el punto de vista de Stirner, el autor de El único y su propiedad ; es decir, que él es lo único. Stirner dice: "Nada prevalece sobre mí". El anarca es, de hecho, el hombre natural". No es antagonista del monarca, sino más bien su polo opuesto. Tiene conciencia de su radical igualdad con el monarca; puede matarlo, y puede también dejarlo con vida. No busca dominar a muchos, sino sólo dominarse a sí mismo. A diferencia del solipsista, cuenta con la realidad exterior. No busca cambiar la ley, como el anarquista o el partisano; no se mueve, como éstos en el terreno de las opciones políticas o sociales. Tampoco busca trasgredir la ley, como el criminal; se limita a no reconocerla. El anarca, pues, no es hostil al poder, ni a la autoridad, ni a la ley; entiende las normas como leyes naturales.

No adhiere el anarca a las ideas, sino a los hechos; es en esencia pragmático. Está convencido de la inutilidad de todo esfuerzo ("tal vez esta actitud tenga algo que ver con la sobresaturación de una época tardía"). Neutral frente al Estado y a la sociedad, tiene en sí mismo su propio centro. Los regímenes políticos le son indiferentes; ha visto las banderas, ya izadas, ya arriadas. Jünger afirma, además, que aquellas banderas son sólo diferentes en lo externo, porque sirven a unos mismos principios, los mismos que harán que " toda actitud que se aparte del sistema, sea maldita desde el punto de vista racional y ético, y luego proscrita por el derecho y la coacción." No obstante, el anarca puede cumplir bien el papel que le ha tocado en suerte. Venator no piensa desertar del servicio del Cóndor, sino, por el contrario, seguir lealmente hasta el final. Pero porque él quiere; él decidirá cuando llegue el momento. En definitiva, el anarca hace su propio juego y, junto a la máxima de Delfos, "conócete a ti mismo", elige esta otra: "hazte feliz a ti mismo".

La figura del anarca resplandece verdaderamente, como la del hombre libre frente al Estado burocrático y a la sociedad conformista de la actualidad. Incluso aparece en algunas ocasiones en forma más bien mezquina, a la manera del egoísmo de Stirner: "quien, en medio de los cambios políticos, permanece fiel a sus juramentos, es un imbécil, un mozo de cuerda apto para desempeñar trabajos que no son asunto suyo". "(El anarca) sólo retrocede ante el juramento, el sacrificio, la entrega última". "Sólo cabe una norma de conducta" -dice Attila, médico del Cóndor, anarca a su modo- "la del camaleón..."

VI

La cuestión es si el anarca se constituye en una figura ejemplar para cierto tipo de hombres que no se reconozcan en las producciones sociales últimas. Pues si el anarca es la "actitud natural" -"el niño que hace lo que quiere"-, entonces nos hallamos ante simples situaciones de hecho que no tienen ningún valor normativo ni ejemplar. Desde siempre los hombres han querido huir del dolor y buscar lo agradable; por otro lado, apartarse de una sociedad decadente y que llega a ser asfixiante es una cosa sana. Venator invoca a Epicuro como modelo; debería referirse más bien a Aristipo de Cirene, discípulo de Sócrates y fundador de la escuela hedonista, quien proponía una vida radicalmente apolítica, "ni gobernante ni esclavo", con la libertad y el placer como únicos criterios. Jünger reconoce, y muy de buena gana, que el tipo de anarca se encuentra, socialmente hablando, en el pequeño burgués, piedra de tope de más de una corriente de pensamiento: es ese artesano, ese tendero independiente y arisco frente al Estado. La figura del anarca es más familiar al mundo anglosajón, especialmente al norteamericano, con su sentido ferozmente individualista y antiestatal: del cowboy solitario o del outlaw al "objetor de conciencia". Están en la mejor línea del anarca y el rebelde contra la masificación burocrática. Se sabe, por supuesto, en qué condiciones sociales han florecido estos modelos.

Pero las sociedades "posmodernas" actuales se distinguen por el más vulgar hedonismo; su tipo no es el del "superhombre", sino el del "último hombre" nietzscheano, el que cree haber descubierto la felicidad. El tipo del "idealista" y del "militante" pertenecen a etapas ya superadas; hoy, es el individuo de las sociedades "despolitizadas", soft, que toma lo que puede y rehusa todo esfuerzo. ¿Cuál es la diferencia de este tipo de hombre con el anarca? La respuesta radica en que el segundo está libre de todas las ataduras sentimentales, ideológicas y moralistas que aún caracterizan al primero. En verdad, la figura de Venator está históricamente condicionada: aparece en una de esas épocas postreras en la cuales nada se puede ya esperar. Lo que hay que esclarecer es si efectivamente nuestra propia época es una de ellas. Pero lo dicho sobre el anarca tiene un alcance mucho más universal: en cualquier tiempo y lugar se puede ser anarca, pues "en todas partes reina el símbolo de la libertad".

La senda del anarca termina en la retirada. Venator ha estado organizando una "emboscadura" temporal -según lo que el mismo Jünger recomendaba en Der Waldgang (1951)-, para el caso de caída del Cóndor. Al final, seguirá a éste, con toda su comitiva, en una expedición de caza a las selvas misteriosas más allá de Eumeswil: una emboscadura radical, o la muerte, no se sabe el desenlace. Del mismo modo, en Heliópolis, el comandante Lucius de Geer y sus compañeros se retiran en un cohete, con destino desconocido. Pero eso sí, después de haber luchado sus batallas, al igual que los defensores de la Marina en Sobre los Acantilados de Mármol no buscan refugio sino después de dura lucha con las fuerzas del Gran Guardabosques. Pero ¿de qué se trata esta "emboscadura"?

El anarca hace lo que Julius Evola, el gran pensador italiano, recomienda en su libro Cabalgar el tigre: "La regla a seguir puede consistir, entonces, en dejar libre curso a las fuerzas y procesos de la época, permaneciendo firmes y dispuestos a intervenir cuando el tigre, que no puede abalanzarse sobre quien lo cabalga, esté fatigado de correr". Lo que Evola llama "tigre", Jünger lo denomina "Leviatán" o "Titanic".
El anarca se retira hacia sí mismo porque debe esperar su hora; el mundo debe ser cumplido totalmente, la desacralización, el nihilismo y la entropía deberán ser totales: lo que Vintila Horia llama "universalización del desastre". Jünger enfatiza que emboscarse no significa abandonar el "Titanic", puesto que eso sería tirarse al mar y perecer en medio de la navegación. Además: "Bosque hay en todas partes. Hay bosque en los despoblados y hay bosque en las ciudades; en éstas, el emboscado vive escondido o lleva puesta la máscara de una profesión. Hay bosque en el desierto y hay bosque en las espesuras. Hay bosque en la patria lo mismo que lo hay en cualquier otro sitio donde resulte posible oponer resistencia... Bosque es el nombre que hemos dado al lugar de la libertad... La nave significa el ser temporal; el bosque, el ser sobretemporal...". En la figura del rebelde, por tanto, es posible distinguir dos denominaciones: emboscado y anarca. El primero presentaría las coordenadas espirituales, mientras el segundo da luces sobre su plasmación en el "aquí y ahora". Jünger lo define más claramente: "Llamamos emboscado a quien, privado de patria por el gran proceso y transformado por él en un individuo aislado, está decidido a ofrecer resistencia y se propone llevar adelante la lucha, una lucha que acaso carezca de perspectiva. Un emboscado es, pues, quien posee una relación originaria con la libertad... El emboscado no permite que ningún poder, por muy superior que sea, le prescriba la ley, ni por la propaganda, ni por la violencia".

VII

El nihilismo y la rebeldía... La figura del anarca es la de quien ha sobrevivido al "fin de la historia" ("carencia de proyecto: malestar o sueño"). El último hombre no puede expulsar al anarca que convive junto a él. Su poder radica en su impecable soledad y en el desinterés de su acción. Su sí y su no son fatales para el mundo que habita. El anarca se presenta como la victoria y superación del nihilismo. Las utopías le son ajenas, pero no el profundo significado que se esconde tras ellas. "El anarca no se guía por las ideas, sino por los hechos. Lucha en solitario, como hombre libre, ajeno a la idea de sacrificarse en pro de un régimen que será sustituído por otro igualmente incapaz, o en pro de un poder que domine a otro poder".

El anarca ha perdido el miedo al Leviatán, en el encuentro con la médula indestructible que le dota de sentido para luego proyectarse y reconocerse en el otro, en la amada, en el hermano, en el que sufre y en el desamparado, puesto que Eros es su aliado y sabe que no lo abandonará...

La actitud del anarca puede ser interpretada desde dos perspectivas, una activa y otra pasiva. Esta última verá en la emboscadura, y en el anarca que la realiza, la posibilidad de huir del presente y aislarse en aquella patria que todos llevamos en nuestro interior; al decir de Evola, la que nadie puede ocupar ni destruir. Pero no debe confundirse la actitud del anarca como una simple huida: "Ya hemos apuntado que ese propósito no puede limitarse a la conquista de puros reinos interiores". Mas bien se trata de otro tipo de acción, de un combate distinto, "donde la actuación pasaría entonces a manos de minorías selectas que prefieren el peligro a la esclavitud". Minorías que entiendan que emboscarse es dar lucha por lo esencial, sin tiempo y acaso sin perspectivas. Minorías que, como el propio Jünger lo expresa, sean capaces de llevar adelante la plasmación de una "nueva orden", que no temerá y, por el contrario, gustará de pertenecer al bando de los proscritos, pues se funda en la camaradería y la experiencia; orden que pueda llevar a buen término la travesía más allá del "meridiano cero", y se prepare a dar una lucha en el "aquí y ahora"...

"En el seno del gris rebaño se esconden lobos, es decir, personas que continúan sabiendo lo que es la libertad. Y esos lobos no son sólo fuertes en sí mismos: también existe el peligro de que contagien sus atributos a la masa, cuando amanezca un mal día, de modo que el rebaño se convierta en horda. Tal es la pesadilla que no deja dormir tranquilos a los que tienen el poder".

mardi, 06 juillet 2010

Florenskij, nozze mistiche tra fede e scienza

Florenskij, nozze mistiche tra fede e scienza

di Marcello Veneziani

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 


Tornano le opere più importanti del filosofo e sacerdote russo fucilato nei gulag nel 1937 perché anti-materialista. La sua figura e i suoi scritti dimostrano come si possano conciliare i dogmi religiosi con i principi della matematica

Meriterebbe di esistere Dio, la Verità e la Santissima Trinità e meriterebbe che la fede fosse davvero la via della salvezza eterna, anche solo per coronare la vita, la morte e il pensiero ardente di Pavel Florenskij, filosofo, matematico e sacerdote. Non merita di perdersi nel nulla e nel vuoto una vita eroica così spesa, una tensione di pensiero così potente e incandescente, un amore così colmo di sacrifici e dedizione come quello che riversò Florenskij scommettendo tutto se stesso sulla verità. Sarebbe un peccato mortale subito dall’uomo, uno spreco divino, vanificare la vita e il pensiero di Florenskij; sarebbe un oltraggio imperdonabile alla pietà e all’intelligenza umana e divina.

La mente eroica di cui parlava Vico si incarna nel filosofo, scienziato e mistico russo, fucilato nell’Unione sovietica nel giorno dell’Immacolata, nel 1937, dopo anni di gulag. Ho davanti agli occhi la ristampa recente de La colonna e il fondamento della verità di Pavel Florenskij (San Paolo, pagg. 816, euro 64), il ponderoso capolavoro pubblicato nel 1914 e uscito la prima volta in Italia nel 1974 grazie a Elémire Zolla e Alfredo Cattabiani, che allora dirigeva la Rusconi libri. L’edizione italiana precedette anche quella russa del 1990, dopo la caduta del Muro. Colpisce in copertina il suo sguardo metafisico, i suoi occhi sono il riassunto esistenziale della sua fede e del suo pensiero, guardano dentro e altrove.

Fa impressione in questo testo il suo lucido e implacabile argomentare scientifico e matematico, il rigore della sua filosofia, la vastità della sua cultura, uniti a una fede assoluta in Dio, nel dogma trinitario, e una totale devozione alla Madonna. Lui presbitero della Chiesa ortodossa, padre di cinque figli e insieme autore di importanti scoperte scientifiche. Al punto da essere costretto dal regime comunista a continuare la sua ricerca scientifica tra lavori forzati, torture e gulag. Ma come egli stesso scrisse: «Il destino della grandezza è la sofferenza, causata dal mondo esterno e dalla sofferenza interiore».

Eppure Florenskij, nato in Caucaso il 1882, proveniva da una famiglia laica, di cultura positivista, e approdò con gli anni alla fede in Cristo e in Dio, quando discese in lui lo Spirito Santo, come amava dire, conservando tuttavia «la carnalità del pensiero» e l’attitudine alla matematica e alla fisica. Ma Florenskij visse tra antinomie fortemente marcate e le teorizzò alla luce della fede e del pensiero. A cominciare dalla prima radicale antinomia: «La verità è irraggiungibile - non si può vivere senza la verità». Arrivando a scegliere la Verità indipendentemente se sia possibile: «Io non so se la Verità esista o meno, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno, so che, se esiste per me è tutto: ragione, bene, forza, vita, felicità. Forse non esiste ma io l’amo più di tutto ciò che esiste... Metto nelle mani della verità il mio destino».

L’opera di Florenskij è percorsa dal pensiero simbolico («Per tutta la vita ho pensato a una sola cosa... il simbolo»), dal valore magico della parola, della bellezza e della liturgia e dal valore sacro della memoria, che è la presenza nel tempo dell’eternità. A cominciare dalla memoria dell’infanzia, che per Pavel aveva il duplice incanto di percepire integralmente la realtà e insieme di penetrare nella favola profonda del mondo. Il segreto della genialità, sosteneva, sta proprio nel saper custodire la disposizione d’animo dell’infanzia.

L’opera di Florenskij, amata in Italia da Augusto Del Noce e da Sergio Quinzio, da Padre Mancini e da Cristina Campo, ma prediletta anche da Massimo Cacciari, rivede la luce grazie al lavoro di Natalino Valentini, che ha curato anche altre opere di Florenskij dedicate al simbolo, a Bellezza e liturgia, fino alle memorie dedicate Ai miei figli o le lettere dal Gulag, dal titolo evocatore Non dimenticatemi (tutte disponibili negli Oscar Mondadori).

Resta il mistero di un matematico che fu sacerdote, di un mistico che fu uno scienziato. Come è possibile la ricerca scientifica se si è abbagliati dalla Verità divina e dal dogma trinitario, obietta il comune senso laico. Si può essere ingegneri, elettrificare la Russia e insieme sostenere che non c’è scampo tra «la ricerca della Trinità o la morte nella pazzia», studiare la Natura al microscopio e insieme pregare la Madonna “deipara”, come lui la definisce? L’opera di Florenskij sta a dimostrare che è possibile, anzi suggerisce che il pensiero di Dio può potenziare la vita e la scienza anziché mortificarli. La ricerca del mistero può suscitare la passione della ricerca scientifica perché spinge oltre i confini del risaputo. Florenskij non si accontentava delle regolarità delle leggi naturali, perché ricercava sempre l’eccezione, l’inspiegabile: la sua vocazione alla mistica, al miracolo e al mistero diventava così la molla per l’indagine scientifica, per la scoperta e per il calcolo matematico. L’amore per il soprannaturale lo spingeva a non fermarsi all’evidenza, alle leggi ripetitive della natura ma a cercare, tramite l’eccezione, l’irruzione del noumeno nel fenomeno. «Fu il Disegno Divino a educarmi alla trepidazione di fronte ai fenomeni» e alla ricerca. La fede apriva in lui gli orizzonti dell’intelligenza anziché precluderli.

Resta stridente il contrasto tra il pensiero mistico, la vita ascetica di Florenskij e il nostro mondo e il nostro tempo. Ma come egli stesso scrive: «Gli asceti della Chiesa sono vivi per i vivi e morti per i morti».
Di Florenskij in Russia non restarono neanche le spoglie. Nel luglio del 1997 furono ritrovate le fosse comuni di prigionieri delle isole Solovki dov’era detenuto Florenskij. In una delle sue ultime lettere dal gulag, Florenskij scriveva: «La vita vola via come un sogno e spesso non riesci a far nulla prima che ti sfugga l’istante nella sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, tra tutte la più ardua ed essenziale. Colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale». Pavel, Padre e Maestro.

 


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lundi, 05 juillet 2010

Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto

Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto

di Mario Bernardi Guardi

Fonte: secolo d'italia


 



Se c'è uno scrittore che, per la sua vocazione apocalittica e il suo moralismo bruciante, cupo e derisorio, si presta a definizioni "tranchant", questo è Emil Michel Cioran. Di volta in volta battezzato "barbaro dei Carpazi", "eremita antimoderno", "esteta della catastrofe", "apolide metafisico", "cavaliere del malumore cosmico". Ma anche lui, da buon Narciso, ci ricamava sopra e sulla sua "carta di identità" scriveva cose come "idolatra del dubbio", "dubitatore in ebollizione", "dubitatore in trance", "fanatico senza culto", "eroe dell'ondeggiamento". Ora, raccontare Cioran significa fare i conti con tutti questi appellativi e prendere atto che la loro indubbia suggestione trova punti di forza in una vita per tanti versi scandalosa...
 Visto che prima del Cioran "parigino"- è nel 1937 che il Nostro approda in Francia -, capace di confezionare le sue aureee sentenze nihilistico-gnostiche in un brillantissimo francese, c'è un Cioran duro e puro, di fiera stirpe rumena, che fa propri i miti del radicamento e dell'identità, simpatizzando per il fascismo di Codreanu e delle sue Guardie di Ferro, e scrivendo un bel po' di cose "compromettenti". Di questo, Antonio Castronuovo in un agile profilo pubblicato da Liguori, Emil Michel Cioran (pp.100, euro 11,90), dà solo rapidi cenni, ricordando che, comunque, Emil Michel dedica un intero capitolo del suo "Sommario di decomposizione", alla "Genealogia del fanatismo", collocandosi così "all'opposto delle fascinazioni giovanili". E cioè delle, chiamiamole così, "fascio-fascinazioni".
Ora, Castronuovo fa bene a ricordarci, con la consueta eleganza, il grande "stilista" e il grande "moralista", lo scrittore impertinente e beffardo che si interroga sul senso della vita e della morte, il chierico extravagante che cerca di stanare Dio dai suoi misteri e dai suoi abissali silenzi. E tuttavia siamo convinti che Cioran e altri "dannati" dello scorso secolo - Pound e Céline, Drieu e Heidegger, Eliade e Jünger, tanto per fare i primi nomi che ci vengono in mente - non debbano essere alleggeriti dalle loro "responsabilità" con la vecchia storia dei "peccati di gioventù", una specie di rituale giustificativo-assolutorio che li "disinfetta" e li rende "presentabili", ma toglie loro qualcosa, e cioè la "ragioni" di una scelta. Per scandalose che possano apparire alle "animule vagule blandule" del "politicamente corretto". Ed è per questo che, a suo tempo, non ci è dispiaciuto il saggio di Alexandra Laignel-Lavastine Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco nella bufera del secolo che, sia pure con una "vis" polemica non aliena da faziosità, si sforza di illuminare/documentare le stazioni di una milizia intellettuale che sarebbe sbagliato ignorare o sottovalutare. Non si può esaurire la forza testimoniale di Cioran nell'ambito delle acuminate provocazioni, immaginandone la vita come una fiammeggiante costellazione di (coltissime) invettive. Sia dunque reso merito a Friedgard Thoma che ci racconta un Cioran innamorato (Per nulla al mondo. Un amore di Cioran, a cura e con un saggio di Massimo Carloni, (L'orecchio di Van Gogh, pp.160, € 14,00), addirittura un Cioran "maniaco sentimentale": un genio dell'aforisma, ma anche un umanissimo, fragile, tenero settantenne, tutto preso da lei, giovane insegnante tedesca di filosofia e letteratura, che, folgorata dalla lettura del libro L'inconveniente di essere nati, nel febbraio del 1981 gli ha scritto una calda lettera di ammirazione. C'è da stupirsi del fatto che Cioran non fosse "corazzato" di fronte ai complimenti di una donna intelligente e affascinante? Come, lui, l'apocalittico, così inerme, così indifeso! Eppure, in Sillogismi dell'amarezza è proprio il "barbaro dei Carpazi" a invitarci a tenere la guardia alta di fronte al vorticoso nichilismo degli "apocalittici" e magari a scavarvi dentro. «Diffidate - scrive - di quelli che voltano le spalle all'amore, all'ambizione, alla società. Si vendicheranno di avervi "rinunciato". La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari». Dunque, Cioran, uomo di idee ma anche di emozioni, compiaciuto per quella lettera affettuosa, risponde immediatamente alla sua "fan", con un mezzo invito ad andarlo a trovare a Parigi.
Lei, che ci tiene ad essere una interlocutrice culturale e cita Walser, Hölderlin e Gombrowicz, non manca di allegare alla risposta una sua foto. E siccome si tratta di una donna giovane - capelli sciolti, bocca carnosa, sguardo intenso -, le coeur en hiver di Cioran comincia a battere furiosamente. Lui stesso le confesserà un paio di mesi dopo: «Tutto in fondo è cominciato dalla foto, con i suoi occhi direi». E' una tempesta dei sensi, un'"eruzione emotiva". Ancor più incontrollabile, allorché lei decide di trascorrere qualche giorno a Parigi. Lui va a prenderla all'hotel e arriva dieci minuti prima: è «un uomo di costituzione fragile, con un ciuffo di capelli grigi, arruffati, e gli occhi dello stesso colore». Lei «cerca di apparire attraente, indossando un abito nero non troppo corto, sotto un lungo cappotto chiaro». Seguono conversazioni, passeggiate, cene, visite a musei, telefonate… Cioran vive una sorta di voluttuoso invasamento, al punto che, quando lei torna a Colonia, le scrive con spudorata audacia: «Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna». Poi, è lui ad andarla a trovare in Germania. «Vestita di rosso e nero», Friedgard lo accoglie alla stazione. Lui è innamorato pèrso, lei, sedotta intellettualmente, continua a sedurlo fisicamente, senza nulla concedere. Lui soffre, la chiama «mia cara zingara», le scrive: «Non capisco cosa sto cercando ancora in questo mondo, dove la felicità mi rende ancora più infelice dell'infelicità». Friedgard vuol tenere intatte "venerazione e amicizia", parlando di autori e di libri, entrando nella sua intimità, portando alla luce le sue contraddizioni. Ma confessando anche, con franchezza: «Dunque, caro: lei mi ha trascinato nell'immediatezza inequivocabile d'una relazione fisica, mentre io cercavo l'erotica ambiguità della relazione "intellettuale"». Proprio quella che a Cioran non basta. È innamorato, desidera la giovane prof. con una sensualità "vorace", le fa scenate di gelosia perché lei, ovviamente, ha un "compagno" cui è legata.
«Sono vulnerabile - le scrive - e nessuno quanto Lei può ferirmi tanto facilmente». E consolarlo, anche. Così, la immagina nelle vesti di una suora, "dalla voce sensuale però". E come uno studentello inebriato d'amore, che non rinuncia alle battute, confessa che vorrebbe morire insieme a lei: «A una condizione, però, che ci mettessero nella stessa bara». Così potrebbe raccontarle tante cose, «tante, ancora non dette».
Non manca nemmeno la proposta di matrimonio. Friedgard annota: «Al telefono, Cioran si dilettava volentieri con la proposta di sposarmi, contro tutti i suoi principi, addirittura secondo il rito ortodosso ("su questo devo insistere"), il che per lui significava essere cinti entrambi da corone. Quante risate, su un sogno triste». Un sogno che, così, non poteva continuare. La non appagata, sofferta, estrema accensione dei sensi di Emil «s'incanalerà negli anni lungo i binari d'una tenera, affettuosa amicizia». Nella cui calma piatta si spengerà fatalmente la "tentazione di esistere", carne e spirito almeno una volta insieme.

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samedi, 03 juillet 2010

"Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu La Rochelle, Ernst Jünger" par Julien Hervier

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« Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger » par Julien Hervier

 

ex: http://www.polemia.com/

L’auteur et le livre

Ce livre est la réédition revue, corrigée et augmentée d’une postface, d’un texte publié pour la première fois en 1978 et qui était lui-même la version allégée d’une thèse d’État soutenue en Sorbonne. Professeur honoraire de l’université de Poitiers, Julien Hervier est le principal traducteur de Jünger et a dirigé l’édition des Journaux de guerre dans la Pléiade, il a également traduit des ouvrages de Nietzsche, Heidegger et Hermann Hesse, et a édité de nombreux textes de Drieu, notamment son Journal 1939-1945.

Comme le souligne lui-même l’auteur dans sa postface, le contenu de son livre serait bien différent s’il devait l’écrire aujourd’hui, notamment en ce qui concerne Jünger dont l’œuvre a pris une autre ampleur, en particulier avec les cinq volumes du journal de vieillesse Soixante-dix s’efface, jusqu’à sa mort en 1998. Quant à Drieu, il faudrait « insister sur la dimension religieuse de [son] univers » plutôt que de « le réduire à son image de grand séducteur et d’essayiste politique ». Durant les quelque trente ans qui se sont écoulés entre l’édition princeps de cet ouvrage et la présente réédition, le contexte idéologico-politique a profondément changé et ce texte doit donc être lu sans jamais perdre de vue le moment où il fut écrit.

Deux écrivains individualistes et aristocratique : quatre grands thèmes

En 1978 donc, J. Hervier (JH) se propose d’étudier deux écrivains « d’esprit individualiste et aristocratique » qui ont accordé dans leur œuvre « une large place aux problèmes de la philosophie de l’histoire » qu’ils ont « transcrits en termes romanesques ». Son livre se décline selon quatre grands thèmes (la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la Religion), abordés sous différents aspects pour chacun des deux auteurs. 

  • La Guerre - Pour Jünger comme pour Drieu, la guerre est perçue comme une « loi naturelle », et la Première Guerre mondiale est « l’expérience fondamentale de leur jeunesse ». Rappelons seulement quelques titres. Pour le premier : Orages d’acier (1920), La guerre notre mère (1922), Le boqueteau 125 (1925), les journaux de guerre de 1939 à 1948… et cette sentence : « Le combat est toujours quelque chose de saint, un jugement divin entre deux idées ». Pour le second, les poèmes Interrogation (1917) et Fond de cantine (1920), et surtout le roman La comédie de Charleroi (1934). Pour Drieu, les hommes « ne sont nés que pour la guerre »
Jünger considère également la guerre comme « technique » et écrit à cet égard : « La machine représente l’intelligence d’un peuple coulée en acier », tandis que Drieu juge que « la guerre moderne est une révolte maléfique de la matière asservie par l’homme ».
Le livre de Jünger La guerre notre mère illustre parfaitement l’idéologie nationaliste qui régnait alors dans l’Allemagne meurtrie par la défaite, avec son exaltation du sacrifice suprême : mourir pour la patrie. Si, à cette époque, Drieu est sensible à cette idée de sacrifice patriotique, avec la Seconde Guerre mondiale il évoluera du nationalisme au pacifisme.

  • La politique - En matière de politique, les nationalistes que sont initialement Jünger et Drieu estimeront rapidement que le nationalisme est dépassé et qu’il doit évoluer, pour l’un vers l’État universel et pour l’autre vers une Europe unie. Tous deux cependant appellent à une révolution, « conservatrice » pour Jünger et « fasciste » pour Drieu. On connaît les engagements de ces deux intellectuels, mot que Drieu définit ainsi : « Un véritable intellectuel est toujours un partisan, mais toujours un partisan exilé : toujours un homme de foi, mais toujours un hérétique ». Pour l’auteur de Gilles, l’engagement est nécessaire, mais « difficile » et « ambigu ». Pour Jünger, l’engagement est paradoxal : « Ma façon de participer à l’histoire contemporaine, telle que je l’observe en moi, observe-t-il, est celle d’un homme qui se sait engagé malgré lui, moins dans une guerre mondiale que dans une guerre civile à l’échelle mondiale. Je suis par conséquent lié à des conflits tout autres que ceux des États nationaux en lutte ». Une chose est sûre, ces deux intellectuels sont des « spectateurs engagés », mais Jünger « préfère finalement refuser l’engagement – même si un remords latent lui suggère que, malgré tout, en s’établissant dans le supratemporel, il peut réagir sur son environnement politique » (JH), tandis que l’engagement de Drieu « est placé sous le signe du déchirement et de la mauvaise conscience ».

  • L’individu et l’histoire - L’individualisme est une caractéristique essentielle de la personnalité de Drieu (« Je ne peux concevoir la vie que sous une forme individuelle » avoue-t-il en 1921), comme de celle de Jünger pour qui c’est dans l’individu « que siège le véritable tribunal de ce monde ». Mais leur individualisme est à la fois semblable et différent. Le premier, « individualiste forcené » par tempérament et formation, « condamne historiquement l’individualisme comme une survivance du passé, tout en étant incapable d’y échapper dans ses réactions psychologiques personnelles » (JH), le second, individualiste exacerbé également, prononce la même condamnation historique, mais dépasse la contradiction en affirmant, par-delà le constat de la décadence de l’individualisme bourgeois, « la nécessité d’une affirmation individuelle qui fait de chacun le dernier témoin de la liberté » (id.). Devant l’Histoire, Jünger et Drieu ont des attitudes parfois proches et parfois opposées. Jünger la conçoit, à l’instar de Spengler, comme essentiellement cyclique : les civilisations naissent, se développent, déclinent et disparaissent. De fait, il s’oppose aux conceptions de l’Histoire héritées des Lumières comme à celles issues du marxisme. Il envisage cependant « une disparition probable de l’homme historique ». (JH).

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Drieu est fortement marqué par l’idée de décadence, son « pessimisme hyperbolique et métaphysique » dépasse le « déclinisme » de Spengler, mais, pour lui, il existe un « courant rapide » qui entraîne tout le monde « dans le même sens » et que « rien ne peut arrêter ». Il se rapproche donc, d’une certaine manière de la conception marxiste du « sens de l’histoire », mais va jusqu’à dire que l’Histoire, c’est ce « qu’on appelle aujourd’hui la Providence ou Dieu ».
Dans leurs « utopies romanesques », Jünger (Sur les falaises de marbre, Heliopolis) et Drieu (Beloukia, L’homme à cheval) procèdent de manière radicalement différente : le premier « part de l’histoire présente pour aboutir à l’univers intemporel de l’utopie », tandis que le second « part de l’histoire passée pour aboutir à l’histoire présente » (JH). Tous deux sont déçus par le présent, mais alors que Jünger « lui substitue un monde mythique », Drieu « l’invente dans le passé ».
Face au « problème de la technique », Jünger et Drieu estiment tous deux que celle-ci a détruit l’ancienne civilisation sans lui avoir jamais trouvé de substitut. La solution, selon eux, ne réside pas dans un simple retour en arrière, mais dans la création de quelque chose qu’on n’appellera plus « civilisation » et qui relèvera de « la philosophie, de l’exercice de la connaissance, du culte de la sagesse » (Drieu)

 

  • La religion - Après la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la dernière partie du livre est consacrée au rapport à la religion de Jünger et de Drieu, et c’est sans doute, pour le lecteur qui ne connaît pas l’ensemble de l’œuvre de ces deux auteurs, la plus surprenante. Un long chapitre traite de « la pensée religieuse de Drieu ». Celui-ci, vieillissant, délaissant les femmes, rejetant l’action politique, se tourne de plus en plus vers la religion. Il passe de « l’ordre guerrier » de sa jeunesse à « l’ordre sacerdotal », et écrit, aux abords de la cinquantaine, des « romans théologiques ». Il admire dans le catholicisme « un système de pensée complexe » et une religion qui « représente pour la civilisation d’Europe son arche d’alliance, le coffre de voyage à travers le temps où se serre tout le trésor de son expérience etde sa sagesse ». Toutefois, s’il vénère le christianisme sub specie æternitatis, il déteste ce qu’il est devenu, c'est-à-dire une religion « vidée de sa substance », muséifiée, et qui ne représente plus qu’« une secte alanguie », à l’image du déclin général de l’Occident. L’Église n’est plus qu’une institution bourgeoise liée au grand capitalisme. À ce « catholicisme dégénéré » (JH), Drieu oppose le christianisme « viril » du Moyen Âge, celui du « Christ des cathédrales, le grand dieu blanc et viril ». Ce dieu « n’a rien à céder en virilité et en santé aux dieux de l’Olympe et du Walhalla, tout en étant plus riche qu’eux en secrets subtils, qui lui viennent des dieux de l’Asie ». Pour Drieu, il n’y a pas de véritable antagonisme entre le christianisme et le paganisme, mais seulement une façon différente d’interpréter la Nature. À ses yeux, c’est le catholicisme orthodoxe qui a le mieux conservé l’héritage païen.. Mais, au-delà des différentes religions, païennes ou chrétiennes, Drieu croit profondément en une sorte de syncrétisme universel, celui d’« une religion secrète et profonde qui lie toutes les religions entre elles et qui n’en fait qu’une seule expression de l’Homme unique et partout le même ».
Pour Jünger comme pour Drieu, la dimension religieuse est fondamentale et « transcende toutes les autres » (JH). Mais, contrairement à Drieu, le mot même de « Dieu » est peu fréquent dans son œuvre, caractérisée pourtant par une vision spiritualiste du monde. De fait, il semble qu’il ait envisagé une « nouvelle théologie », sans lien véritable avec l’idée d’un Dieu personnel, relevant plus sûrement d’une « religion universelle », au sens où il parle d’« État universel ». L’ennemi commun des nouveaux théologiens comme des Églises traditionnelles demeure, en tout état de cause, le « nihilisme athée ». La sympathie générale qu’il éprouve pour toutes les religions relève davantage de sa philosophie de l’histoire que d’un véritable sentiment religieux, mais ne l’empêchera pas, tout au long de la Seconde Guerre mondiale, d’exprimer des préoccupations chrétiennes. Son journal de guerre comprend d’innombrables références à la Bible, dont il loue le « prodigieux pouvoir symbolique », tandis que Sur les falaises de marbre et Heliopolis mettent en scène deux importantes figures de prêtres. « Au temps de la plus forte douleur, écrit-il, le christianisme « peut seul donner vie au temple de l’invisible que tentent de reconstruire les sages et les poètes ». Pour lui, le christianisme est avant tout ce qui, dans notre civilisation, « incarne les valeurs religieuses permanentes de l’humanité » (JH). À ses yeux, le christianisme constitue un humanisme qui prône une haute conception de l’homme. Il n’en accepte pas moins le « Dieu est mort » nietzschéen qui, souligne-t-il, est « la donnée fondamentale de la catastrophe universelle, mais aussi la condition préalable au prodigieux déploiement de puissance de l’homme qui commence ». La mort de Dieu n’est pour lui que la mort des dieux personnels, elle n’est donc pas un obstacle à la dimension religieuse de l’homme. Au mot de Nietzsche, il préfère celui de Léon Bloy, « Dieu se retire », ce qui annonce l’avènement du Troisième Règne, celui de l’Esprit qui succèdera à ceux du Père et du Fils.
En matière de religion, Drieu et Jünger sont « étrangement proches et profondément différents » (JH). Tous deux défendent les religions contre le rationalisme tout-puissant, sont convaincus de l’évidence de la mort du Dieu personnel et donc de la nécessité de « reconstruire à partir d’elle une nouvelle forme d’appréhension du divin » (JH).

Un mélange détonnant

Ce qui ressort de cette étude comparative de Jünger et Drieu, « c’est le mélange détonnant qui se produit en eux entre un esprit réactionnaire incontestable et une volonté révolutionnaire ». Toutefois si Jünger est plutôt un national-bolchevique et Drieu un révolutionnaire fasciste, face au « bourgeoisisme » tous deux sont des révolutionnaires.

Julie Hervier a intitulé son travail : « Deux individus contre l’histoire ». Le mot « individu » prend ici tout son sens lorsqu’on comprend, après avoir refermé le livre, que Jünger et Drieu sont fascinés par la singularité de l’individu. Jünger incarne un individualisme métaphysique qui est le contraire de l’individualisme bourgeois que Drieu, dans sa mauvaise conscience, croit représenter. Tous deux aspirent à l’avènement d’une nouvelle aristocratie, mais pour Drieu il s’agit d’une aspiration essentiellement politique, alors que pour Jünger le but c’est la constitution d’une « petite élite spirituelle ». Dans sa postface, l’auteur de cette magistrale et admirable étude justifie a posteriori son titre de 1978 en rappelant et en se réclamant de la formule de Kafka : « Il n’y a de décisif que l’individu qui se bat à contre-courant ».

Didier Marc
11/06/2010

Julien Hervier, Deux individus contre l’Histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger. Eurédit, 2010, 550 p.

Correspondance Polémia – 22/6/2010

jeudi, 01 juillet 2010

Jonathan Littell, lecteur de Céline

Jonathan Littell, lecteur de Céline

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 

Si le personnage principal des Bienveillantes de Jonathan Littell (1) ne faisait pas la rencontre de Céline, il serait sans doute superflu de revenir sur ce roman. Mais il se trouve qu’au début des années trente, Maximilien Aue, futur officier nazi, accompagne Céline à un concert d’une pianiste légendaire : Marcelle Meyer (1897-1958). Quelques années plus tard, Lucien Rebatet l’emmène à plusieurs reprises chez l’écrivain. Et leur ami commun, Henri Poulain, secrétaire de rédaction de Je suis partout, lui récite dans le métro des passages entiers de L’École des cadavres. Pas moins.
Paul-Éric Blanrue a consacré à ce phénomène de l’édition qu’est Littell (800.000 exemplaires vendus à ce jour) une intéressante étude (2). Selon lui, si Céline est très peu cité dans le roman, sa présence y est constante, telle une ombre tutélaire. Rien d’étonnant à cela : Littell est – on l’a appris depuis – un « grand fan de Céline » (3).
Extrait du livre de Blanrue :
« La musique comme accompagnatrice d’une tragédie ? Précisément. Telle est une des constantes de l’œuvre de Louis-Ferdinand Céline, l’un des fantômes récurrents des Bienveillantes. Le narrateur le rencontre à deux reprises, cite quelques lignes de l’un de ses pamphlets antisémites d’avant-guerre sans le nommer (il s’agit de L’École des cadavres) et se rend au concert en sa compagnie, mais le personnage n’apparaît véritablement que dans le délire de Aue, après sa blessure à la tête (dont Céline a également souffert), sous le nom halluciné du “Dr Sardine”, Littell déclare d’ailleurs : “Céline, pour critiquer le théâtre de Sartre, lui avait lancé que l’horreur n’est rien sans le songe et sans la musique ! » (L’Est Républicain
).
L’auteur de Rigodon a souvent montré le caractère hypnotique de la musique, en particulier au tout début du Voyage au bout de la nuit, lorsque Bardamu, tranquille “anar” sirotant place Clichy, se décide soudain, envoûté, charmé comme un serpent, à suivre une fanfare militaire, qui le conduit tout droit à la caserne et à la guerre de 14. “Dans le récit célinien la musique intervient en des points qui mettent en scène une désarticulation du réel, qu’il s’agisse de la “folie” qui poursuit le trépané ou des histoires de folie que sont les guerres qui parcourent le vingtième siècle et dont Céline s’est voulu le “chroniqueur” […] Ainsi qu’on a pu le lire dans Mort à crédit, la singulière écoute célinienne de la musique est liée à son expérience malheureuse de la guerre, elle est en lui l’empreinte que la guerre a laissée, son sceau, blessure et détraquement du corps”, écrit François Bruzzo (Francofonia, n° 22, printemps 1992). Il en va de même dans
Les Bienveillantes, où la musique indique un tracé, un chemin de fer dont il semble difficile de se détourner. »
On voit que Paul-Éric Blanrue est attentif aux aspects proprement littéraires du livre, même s’il entend avant tout avoir une démarche d’historien. Depuis une vingtaine d’années, il a entrepris un véritable travail de démystification, fondant le « Cercle zététique » qui se propose d’enquêter sur tous les sujets relevant de l’extraordinaire, tant en science qu’en histoire.
Pour conclure, relevons l’ironie du sort qui a voulu que le Prix Goncourt ait été attribué à Littell alors qu’il échappa, comme on sait, à Céline. Mieux : Littell a également décroché le Grand Prix de l’Académie française. Un hebdomadaire satirique en a fait des gorges chaudes, le français du jeune Américain laissant fortement à désirer (4). Il ne faut, en effet, pas être grand clerc pour constater que le roman est truffé de fautes de style, de barbarismes, de solécismes et surtout d’anglicismes. Mauvaise traduction ou mauvaise relecture de Gallimard ?

Marc LAUDELOUT

1. Jonathan Littel,
Les Bienveillantes, Gallimard, 2006, 908 p. Nous n’avons pas consulté la réédition en poche qui est, paraît-il, débarrassée de ces scories.
2. Paul-Éric Blanrue, Les Malveillantes. Enquête sur le cas Jonathan Littel, Éditions Scali, 2006, 128 p. Voir aussi le site Internet de l’auteur : www.blanrue.com.
3. Christophe Ono-dit-Biot, « Beyrouth, Littell, l’art de la guerre », Le Point, 21 décembre 2006.
4. « Bienveillante Académie », Le Canard enchaîné, 8 novembre 2006. Voir aussi les contre-arguments de Florence Mercier-Leca, maître de conférences à l’Université de Paris IV-Sorbonne : « “Les Bienveillantes” : la confusion des genres », La Quinzaine littéraire, 1er-15 décembre 2006.

 

 

 

jeudi, 24 juin 2010

"Voyage au bout de la nuit" brûlé par le IIIe Reich?

Voyage au bout de la nuit brûlé par le IIIe Reich ?

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/
Les lecteurs de ce blog connaissent assurément le remarquable travail que Henri Thyssens consacre au premier éditeur de Céline. Son site internet constitue une somme impressionnante sur la vie (privée et surtout professionnelle) de Robert Denoël mais aussi sur les circonstances de son assassinat survenu le 2 décembre 1945, à proximité de l’esplanade des Invalides. Ce que l’on sait moins, c’est que Thyssens revoit, corrige et complète en permanence les informations figurant sur son site. Il s’agit donc d’une œuvre éditoriale sans cesse en mouvement – « work in progress », comme on dit outre-Manche – grâce aux recherches effectuées par son auteur. Lequel apporte des trouvailles du plus grand intérêt, notamment par un travail de dépouillement de la presse française du XXe siècle. Céline a naturellement toute sa place sur ce site puisqu’il fut incontestablement l’auteur majeur de cette maison d’édition créée à la fin des années vingt. Le site (1) comprend une passionnante chronologie allant de l’année de la naissance de Denoël à nos jours.
Prenons, par exemple, l’année 1933 pour nous intéresser à l’édition en langue allemande de Voyage au bout de la nuit. En décembre de l’année précédente, Robert Denoël a signé un contrat avec le Berliner Tageblatt pour la publication en feuilleton du roman. Il a également conclu un accord avec l’éditeur Reinhard Piper, à Munich, pour la parution du livre en volume. En février 1933, cet éditeur contacte Denoël pour lui signifier qu’il considère non satisfaisante la traduction due à Isak Grünberg, et que, par conséquent, il souhaite la confier à un autre traducteur, Ferdinand Hardekopf. Denoël s’insurge, défend le travail de Grünberg, appuyé en cela par Céline qui prend, lui aussi, fait et cause pour le traducteur juif autrichien (2). D’autant que celui-ci s’était lui-même proposé pour traduire Voyage en allemand après lui avoir consacré un article élogieux dans le Berliner Tageblatt. En réalité, précise Thyssens, l’éditeur allemand a vu le vent tourner : le parti national-socialiste est au pouvoir depuis février 1933 et cette traduction n’est plus du tout à l’ordre du jour. Aussi cède-t-il le contrat à Julius Kittls, un confrère éditeur installé à Mährisch-Ostrau, près de Prague, qui l’éditera en décembre 1933. Le 17 mai, L'Intransigeant publie un écho étonnant à propos du Voyage, mais ne cite pas ses sources. Il prélude, en tout cas, au refus du Berliner Tageblatt de publier le roman en feuilleton, conformément au contrat signé en décembre 1932 (3). Titré « Céline au bûcher », tel est cet écho : « Le Voyage au bout de la nuit, de M. Louis-Ferdinand Céline, a été, par ordre gouvernemental, retiré de toutes les librairies allemandes et brûlé la semaine dernière avec les autres ouvrages que condamne le régime hitlérien » (4). Cet autodafé de Céline par l’Allemagne hitlérienne est-il confirmé par une autre source ? Si son livre fut effectivement détruit par les nationaux-socialistes, voilà assurément un fait que Céline aurait pu mentionner dans son mémoire en défense de 1946 !

Marc LAUDELOUT

1. « Robert Denoël, éditeur » :
www.thyssens.com.
2. Marc Laudelout, « Quand Céline et Denoël défendaient Isak Grünberg », Le Bulletin célinien, n° 293, janvier 2008, pp. 8-9.
3. Le 15 juin, L'Intransigeant annonce que les Éditions Denoël et Steele viennent d'assigner le Berliner Tageblatt, pour rupture de contrat. Le journal allemand, « se retranchant derrière le cas de force majeure (le changement de régime) », a renoncé à publier en feuilleton Voyage au bout de la nuit.
4. C’est effectivement le 10 mai 1933 que le ministre de la Propagande, Joseph Goebbels, préside à Berlin une nuit d’autodafé pendant laquelle des milliers de « mauvais livres » d'auteurs juifs, marxistes, démocrates ou psychanalystes sont brûlés pêle-mêle en public par des étudiants nazis ; la même scène se tiendra ensuite dans d’autres grandes villes, comme Brême, Dresde, Francfort, Munich et Nuremberg.

 

 

 

mercredi, 23 juin 2010

De slapeloze uit Rasinari

cioran2.jpgDe slapeloze uit Răşinari

Terwijl ik met kromme rug gebogen zat in het archief van de Provinciale Zeeuwsche Courant, met als doel informatie te vergaren over een zekere historische periode van het stadje Terneuzen, van belang voor een verantwoording in het boek van een lokale auteur, stuitte ik op een artikel in de krant van 21 december 1934. Het artikel in de kunstbijlage - de laatste decennia zeer gewaardeerd vanwege de prettige opmaak en degelijke medewerking van scribenten als Hans Warren en Alfred Kossmann, maar na de restyling van 2001 voorlopig helaas verworden tot een moeilijk te herkennen katern - van de hand van ene Ramses P. Verbrugge, trok mijn aandacht. In de eerste plaats omdat het stuk handelde over een auteur die mij niet bekend was, namelijk E. M. Cioran, en in de tweede plaats omdat bij verder lezen het stuk mij fascineerde. De gerecenseerde auteur fascineerde mij, alsmede Verbrugge's aanpak en ontboezeming dat Cioran's debuut hem de stuipen op het lijf had gejaagd. Verbrugge's mening was overigens geformuleerd in het Zeeuws, met alle oa's en sch's inbegrepen, en niet te doorgronden voor buitenstaanders. Omdat ik geboren ben in Terneuzen - mijn achternaam is een symbool van haar rumoerige internationale havenverleden - heb ik mij in ieder geval enigszins in staat geacht een vrije vertaling te produceren, na het lezen van de bovenstaande Engelse vertaling uit 1992. Hier het resultaat.

De slapeloze uit Răşinari
E. M. Cioran, On the heights of despair


De Roemeense schrijvende filosoof E. M. Cioran, maakt mij bijzonder neerslachtig, maar doet mij daarvan de waarde realiseren. Met nadruk krijgt deze filosoof hier de voornaam 'schrijver' aangereikt. Zeer bekwaam is hij met woorden. Filosofie bij Cioran is van vlees en bloed, en moet daarom ook met het zwaard geschreven worden. Gaandeweg het boek doemde de impressie bij mij op dat zijn persoonlijke ontboezemingen, die meermaals als bijlage terugkeren, naast verstrengeld te zijn in de stukken - ook al erg ongebruikelijk in de filosofie - ertoe dienen om de filosofische wanhoop te bezweren. Maar die wanhoop - de ultieme wanhoop: de dood - is het enige waar we mee uit de voeten kunnen, want de logiek van de Griekse wijsgeren heeft voor Cioran afgedaan. Alleen door de lyriek beleven we de subjectieve chaos die ons universum beheerst.

'I despise the absence of risks, madness, and passion in abstract thinking. How fertile live, passionate thinking is! Lyricism feeds it like blood pumped into the heart!'

En:

'Haven't people learned yet that the time of superficial intellectual games is over, that agony is infinitely more important than syllogism, that a cry of despair is more revealing than the most subtle thought, and that tears always have deeper roots than smiles?'

Cioran's lyrisme van de wanhoop is ironisch, poëtisch, arrogant, paradoxaal en gewelddadig. Hij laat zijn licht schijnen over moderne zaken zoals hij daar noemt: vervreemding, absurditeit, het pijnlijke van het bewustzijn en de ziekte van de rede. Hij doet dat in zesenzestig korte, bondige, heftige hoofdstukken, alle gevuld met stevige aforismen. Nietzscheaans is Cioran in zijn afwijzing van het middelmatige, maar die is niet despotisch, want op lijden staat geen maat - lijden is altijd intern, nooit extern. Cioran gaat uit van zijn eigen lijden, dat een oorsprong heeft: slapeloosheid. Cioran lijdt aan slapeloosheid, en naar het schijnt heeft hij de kunde van het fietsen opgepakt om na uren en uren gefiets te proberen thuis in zijn kleine en schamele appartement in slaap te vallen. Vaak tevergeefs. Zijn fysieke gesteldheid is navenant en wordt de basis van zijn filosofie, zoals we lezen in Facing silence:

'Chronic fatigue predisposes to a love of silence, for in it words lose their meaning and strike the ear with the hollow sonority of mechanical hammers; concepts weaken, expressions lose their force, the word grows barren as the wilderness. The ebb and flow of the outside is like a distant monotonous murmur unable to stir interest or curiosity. Then you think it useless to express an opinion, to take a stand, to make an impression; the noises you have renounced increase the anxiety of your soul. After having struggled madly to solve all problems, after having suffered on the heights of despair, in the supreme hour of revelation, you will find that the only answer, the only reality, is silence.'

Ziekte, de eenzaamheid van de stilte maakt een mens lucide en doet hem de nietsheid ervaren. Hij moet die schrijnende kans met beide handen aangrijpen: 'Only the sick man is delighted by life and praises it so that he won't collapse.' Dit uitgangspunt voert de jonge Roemeense auteur naar verscheidene lyrische uitweidingen, die over de problematiek van de zelfmoordneiging zijn niet ondervertegenwoordigd. Met de zesenzestig hoofdstukken verwierf hij aan een universiteit in een grote stad (welke wordt niet duidelijk in de verantwoording) een plaats in Berlijn, alvorens een eindthese te schrijven over het Bergoniaanse intutionisme. Hij is pas drieëntwintig jaren jong en geboren te Răşinari, een klein, idyllisch Transsylvaans dorpje. Zal hij niet als een kwade zombie laveren tussen de zwartgeschaduwde stadsbussen en centrummuren?


Kerk te Răşinari - Januari 2005

Titels als The premonition of madness, Nothing is important, The world in which nothing is solved, Total dissatisfction, en The return to chaos geven een indruk van de beladen thematiek en haar behandeling; een stuk als Enthousiasm as a form of love geeft de speelsheid in die zwaarte weer. Mooi vind ik bovendien de stukken waarin Cioran zelf lijkt te balanceren, wild maar elegant te koorddansen, tussen het gewicht van zijn thema en de verwoording ervan. In The cult of infinity, een pleidooi voor de eindeloosheid, buigt hij zich over muziek.

'One of the principal elements of infinity is its negation of form. Absolute becoming, infinity destroys anything that is formed, crystallized, or finished. Isn't music the art which best expresses infinity because it dissolves all forms into a charmingly ineffable fluidity? Form always tends to complete what is fragmentary and, by individualizing its contents, to eliminate the perspective of the universal and the infinite; thus it exists only to remove the content of life from chaos and anarchy. Forms are illusory and, beyond their evanescence, true reality reveals itself as an intense pulsation. The penchant for form comes from love of finitude, the seduction of boundaries which will never engender metaphysical revelations. Metaphysics, like music, springs from the experience of infinity. They both grow on heights and cause vertigo. I have always wondered why those who have produced masterpieces in these domains have not all gone mad. Music more than any other art requires so much concentration that one could easily, after creative moments, lose one's mind. All great composers ought to either commit suicide or become insane at the height of their creative powers. Are not all those aspiring to infinity on the road to madness? Normality, abnormality, are notions that no longer mean anything. Let us live in the ecstasy of infinity, let us love that which is boundless, let us destroy forms and institute the only cult without forms: the cult of infinity.'

In de Kansas City Star van 11 november 1934 observeert een journalist, William Allen White, dat Franklin Delano Roosevelt 'has been all but crowned by the people.' Zijn radiopraatjes voor de openhaard nemen de mensen voor hem in, maar de depressie beklijft. In de Abessijnse stad Walwal is het 4 december tot een vuurgevecht gekomen tussen Italiaanse en Abessijnse troepen. Over de zelfmoord op 7 december van een Noorse zeeman in pension City in de Terneuzense Nieuwstraat blijft de commissaris in het ongewisse. Over het onbenullige van geschiedenis schrijft Cioran in History and eternity, ons ademloos achterlatend door een originele visie: geschiedenis is een nutteloos vacuüm?

'By outstripping history one acquires superconciousness, an important ingredient of eternity. It takes you into the realm where contradictions and doubts lose their meaning, where you can forget about life and death. It is the fear of life and death that launches men on their quest for eternity: its only advantage is forgetfulness. But what about the return from eternity?'

Met deze sporadische vraag geraken we tot het enige minuscule Socratische trekje in Cioran. De slapeloze lyriek van deze gewelddadige schrijver en filosoof zal hopelijk nog zoveel mogelijk open wonden open houden.

Aldo Fujimori

dimanche, 20 juin 2010

L'occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov'ev

L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]





Se n’è andato, alla fine, nel 2006, il terribile vecchio, all’età di ottantatre anni.
Filosofo prestigioso, specializzato in questioni di logica; matematico geniale; romanziere amaro ed eccentrico; critico implacabile di tutto e di tutti: del comunismo e del post-comunismo; della Russia e dell’Occidente; del totalitarismo e della democrazia; uomo contro per eccellenza, ostinato, implacabile accusatore e irriducibile derisore di ogni conformismo, di ogni pigrizia mentale, di ogni acquiescenza al potere, qualunque esso sia: tale è stato Aleksandr Zinov’ev. Se l’è portato via, ancora indomito, un tumore al cervello; ma non se n’è andato in punta di piedi, bensì ruggendo e irridendo tutte le ipocrisie e tutte le forme di demagogia.
In Occidente non se ne sono accorti in molti, perché il personaggio era talmente scomodo che si è fatto di tutto per non propagarne li pericoloso messaggio: aveva attaccato Stalin e criticato Gorbaciov, accusato Eltsin e denunciato Putin; aveva, soprattutto, messo in guardia contro la ridicola pretesa occidentale (Fukuyama e soci) che, con la caduta dell’Unione Sovietica, anche il comunismo fosse finito per sempre. «Ritornerà - aveva detto - magari in forme inusuali ed inedite»; e non già perché ne avesse nostalgia, lui che fin dal 1976 era stato costretto all’esilio a causa della pubblicazione, in Germania, del suo romanzo «Cime abissali», ma che pure, davanti alle brutture del post-comunismo in Russia, aveva fatto il tifo per Gennadij Zjuganov, leader del vecchio Partito Comunista russo.
Gli avevano tolto tutti gli incarichi universitari; lo avevano espulso dalle istituzioni sovietiche; gli avevamo perfino strappato dal petto le decorazioni al valor militare guadagnate durante la seconda guerra mondiale (era stato un valoroso pilota di aviazione); ma non erano riusciti a ridurlo al silenzio. Poi, però, una volta caduta l’Unione Sovietica (come lui aveva previsto, allorché aveva criticato la “katastrojka” gorbacioviana), l’Occidente non aveva più avuto bisogno di lui; di lui che si era mostrato subito estremamente critico verso le forme sgangherate e mafiose del neocapitalismo proliferate in Russia sulle ceneri dell’ideologia marxista-leninista e che aveva denunciato come la sua patria fosse divenuta una semplice “colonia” dell’Occidente. Di lui che, soprattutto, si era mostrato critico implacabile delle “magnifiche sorti e progressive” promesse all’intera umanità dai fautori della globalizzazione.
Per lui, c’era qualcosa di ancor peggiore, sociologicamente parlando, dell’”uomo comunista”, ed era l’”homo sovieticus”: un tipo umano che voleva unire l’ozio e il parassitismo sociale, tipico della vecchia Unione Sovietica, con lo sfrenato desiderio del “tutto e subito” della Russia eltsiniana e putiniana, dominata da innominabili cricche e da squali della finanza e da avventurieri al caviale, mentre la massa del popolo faceva ancora le code nei negozi e non era in grado di pagarsi l’affitto di una abitazione decente.
Non che il mito del “popolo” facesse molta presa in lui, critico corrosivo ed implacabile demistificatore di tutte le ideologie umanitarie e progressiste della modernità; la stessa “umanità” era, per lui, una delle più subdole e delle più esiziali invenzioni dell’Occidente.
Vittorio Strada, in un celebre articolo sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre 1997, così riassumeva le sue idee in proposito:

«C’era una volta l’Umanità… Inventata dagli stoici, spiritualizzata dal cristianesimo, secolarizzata dall’illuminismo, l’umanità, non come specie biologica classificata tra i mammiferi, ma come entità culturale inclassificabile tra gli organismi, è giunta al suo più alto grado di sviluppo o, meglio, di progresso,che ne segna però il tramonto, già iniziato in questa fine di secolo. […]  Iniziato con  la lieta novella che il nostro è forse “l’ultimo secolo umano”, cui seguiranno secoli di “storia superumana o postumana”questo “romanzo sociofuturologico” [ossia «L’umanaio globale»] non è tutto tenebroso, poiché a rischiararlo qua e là intervengono squarci di nostalgiche rievocazioni del comunismo sovietico che Zinov’ev criticò non per abbatterlo ma per salvarlo. Un comunismo che egli, in una variante mostruosamente peggiorata perché totalmente razionalizzata, ritrova proprio nell’umanaio occidentale, del quale la Russia, disse crucciato Zinov’ev, è diventata una colonia…»

Ora, di “occidentalizzazione” del mondo ci aveva già parlato Serge Latouche, ma con riferimento pressoché esclusivo ai paesi del Terzo e Quarto Mondo; mentre il punto di vista di Zinov’ev è molto più interessante, perché è quello di un russo che ha visto la sua patria “occidentalizzarsi” a tappe forzate, nel giro di pochi anni o pochissimi decenni; benché il processo fosse iniziato già da alcuni secoli e si fosse accelerato con l’azione riformatrice dello zar Pietro il Grande, per non parlare della “grande” Caterina, la sovrana illuminata…
Il punto di vista di Zin’ov è più ampio e più penetrante: da russo che ha visto e vissuto il traumatico passaggio dal totalitarismo sovietico, burocratico e inefficiente, al capitalismo d’assalto e semi-mafioso, ma con le stesse classi dirigenti gattopardescamente traghettate dall’uno all’altro, egli ci aiuta ad osservare il fenomeno dell’occidentalizzazione non solo nella sua dimensione coloniale o semicoloniale, ma anche in quella, più sottile e insidiosa, della cooptazione ideologica in guanti di velluto, basata sulla seduzione consumista e sulla filosofia cialtrona e irresponsabile del “tutto e subito”.
Il grande Dostojevskij lo aveva previsto o quantomeno paventato: occidentalizzandosi, la Russia avrebbe perduto la propria anima in cambio di un piatto di lenticchie. Ma Zinov’ev non ha più nemmeno l’illusione della “santa Russia”, l’illusione di quella arcaica e patriarcale Rus’ in cui ancora Sergej Esenin, ai primi del Novecento, aveva creduto, o voluto credere, con tutto il suo palpitante e disperato amore di poeta. Ciò rende l’analisi di Zinov’ev amara, impietosa, ma lucidissima e difficilmente confutabile.
Citiamo un passaggio chiave da «L’umanaio globale» (titolo originale: «Globalnyj Celovejnik», Mosca, Tsentrpoligraf, 1997; traduzione italiana di Alexei Hazov e Anna Cau, Milano, Spirali, 1998, pp. 167-173):

«I paesi occidentali si sono strutturati storicamente in “stati nazionali”, come organizzazioni sociali di livello organizzativo relativamente superiore al resto dell’umanità, come particolare “sovrastruttura” superiore alle altre.  Essi hanno sviluppato al loro interno  forze e capacità dio conquista  e di dominio sugli altri popoli.  E il concorso delle circostanze storiche ha dato loro la possibilità  di sfruttare il proprio vantaggio.  Io on ravviso in questo niente di amorale e di criminale.  I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
L’aspirazione dei paesi occidentali a dominare il mondo  circostante non è soltanto frutto di malafede o di qualche loro particolare ambito. È condizionata dalle leggi dell’essere sociale.  L’influsso esercitato sull’evoluzione dell’umanità è stato contraddittorio. È stata una possente fonte di progresso. Ma è stata anche una non meno possente fonte di sciagure.  Ha prodotto innumerevoli guerre sanguinose, comprese due guerre mondiali “calde” e una “fredda”. Non solo non è scomparsa  col tempo, ma si è rafforzata.  Ha assunto nuove forme. Tra l’altro, la conquista di altri paesi e popoli è diventata una condizione indispensabile  per la sopravivenza dei paesi e dei popoli dell’Occidente. La tragedia della grande storia non consiste nel fatto che qualche uomo  malvagio, rapace e stupido spinga  l’umanità nella direzione sbagliata, ma nel fatto che l’umanità  è costretta a muoversi in questa direzione nonostante la volontà e i desideri di uomini buoni, generosi e intelligenti.
Con l’ovestismo l’Occidente ha sviluppato al suo interno un metabolismo incredibilmente intenso. Ha bisogno di risorse naturali, di mercati di sbocco,  di sfere d’investimento dei capitali, di forza lavoro a basso costo, di fonti di energia, ecc., in misura sempre crescente. Ma le possibilità sono limitate. E compaiono nuovi concorrenti,  che limitano ancora di più queste possibilità fino a minacciare l’esistenza  e il benessere dell’Occidente. La spinta dell’Occidente  al dominio mondiale, qualsiasi veste ideologica indossi,  è il bisogno vitale di conservare le posizioni raggiunte e sopravvivere in condizioni storiche rischiose.  L’intero sviluppo storico induce l’Occidente a perseguire un ordine mondiale  rispondente ai suoi interessi. E ha le forze per farlo. Durante la guerra fredda l’Occidente aveva elaborato una strategia politica, volta a stabilire un nuovo ordine conforme alla nuova situazione mondiale. Io l’ho denominata “occidentalizzazione” (“wetsernizzazione”).L’occidentalizzazione è l’aspirazione del’Occidente a rendere gli altri paesi simili a sé per ordinamento sociale, sistema economico e politico, ideologia, psicologia e cultura.  Dal punto di vista ideologico viene presentata come una missione umanitaria, disinteressata e liberatoria dell’Occidente, che ha la sua massima espressione nello sviluppo ella civiltà e nella concentrazione di tutte le virtù concepibili.  Noi siamo liberi, ricchi e felici - dice l’Occidente ai popoli da occidentalizzare - e vogliamo aiutarvi  a diventare liberi, ricchi e felici. Ma la reale sostanza dell’occidentalizzazione è tutt’altra.
Lo scopo dell’occidentalizzazione è assorbire gli altri paesi nella propria sfera d’influenza, , di potere e di sfruttamento. Assorbirli non con il ruolo di partner a pari potere e diritto - è praticamente impossibile vista la disparità di fatto delle forze -, ma con quello che l’Occidente ritiene più vantaggioso per sé. Tale ruolo può soddisfare una parte di cittadini dei paesi occidentalizzati, sia oppure per breve tempo. Ma nel complesso, è un ruolo di secondo piano e ausiliario. L’Occidente ha una potenza tale da non consentire la comparsa di paesi di tipo occidentale da esso indipendenti., che minacciano il suo dominio su una parte del pianeta conquistata e, in prospettiva, sull’intero pianeta.
L’occidentalizzazione di un dato paese non è solamente un’influenza dell’occidente su di esso, non è semplicemente l’imitazione di singoli fenomeni del modo di vita occidentale, non significa utilizzare i valori prodotti dall’Occidente, non è la possibilità di viaggiare in Occidente, ecc., ma è  qualcosa di molto più profondo e importante per esso.  È la ristrutturazione delle sue stesse fondamenta, della sua organizzazione sociale, del sistema di governo dell’ideologia, della mentalità della popolazione. Queste trasformazioni non sono fini a se stese, ma sono un mezzo per ottenere  quanto abbiamo detto prima.
L’occidentalizzazione non esclude la volontà dei paesi occidentalizzati, e neanche il desiderio, di percorrere questa via. Proprio a questo aspira l’Occidente: che la vittima predestinata si offra da sola al sacrificio, e che provi, per questo, anche riconoscenza. A tal fine è stato creato un potente sistema di seduzione e d’indottrinamento ideologico delle masse. Ma in ogni circostanza l’occidentalizzazione è unì’operazione attiva dell’Occidente, che non esclude neppure la violenza. La volontà da parte dei paesi occidentalizzabili non significa che tutta la loro popolazione accetti già questo orientamento della propria evoluzione. All’interno vi sono categorie in lotta  a favore o contro l’occidentalizzazione. L’occidentalizzazione non sempre riesce a spuntarla, come, ad  esempio,  è successo in Iran e in Vietnam.
L’intera attività di liberazione e di  civilizzazione dell’Occidente ha avuto in passato un unico scopo: la conquista del mondo per sé e non per gli altri, l’assoggettamento del pianeta ai propri interessi  e non a quelli altrui. Ha trasformato tutto ciò che lo circonda, perché gli stessi paesi occidentali potessero viverci comodamente. Quando qualcuno ha cercato di ostacolarlo, non ha avuto scrupoli a ricorrere a qualsiasi mezzo.  Il percorso storico del mondo è stato costellato di violenza, truffa e rappresaglia. Adesso le condizioni sono cambiate. L’Occidente è ormai diverso.  Ha mutato la propria strategia e tattica. La sostanza però  non è cambiata. Del resto non può essere diversamente, perché è una legge della natura. Ora, l’Occidente propugna la soluzione pacifica dei problemi, perché quella militare è pericolosa, e i metodi pacifici  gli creano una reputazione di arbitro supremo e giusto. Tali metodi pacifici hanno una particolarità: sono pacifico-coercitivi.  L’Occidente ha una potenza economica, propagandistica ed economica sufficiente a costringere i recalcitranti con metodi pacifici a fare ciò che gli serve. L’esperienza dimostra  che i mezzi pacifici possono essere integrati da quelli militari. Per questo motivo, qualunque sia la fase iniziale dell’occidentalizzazione di questo o quel paese, si evolverà comunque in un’occidentalizzazione forzata.
Per operare l’occidentalizzazione è stata messa a punto una tattica speciale. Vengono utilizzati i seguenti provvedimenti. Gettare discredito su tutti i principali attributi dell’ordinamento sociale del paese da occidentalizzare. Destabilizzarlo. Favorire la crisi dell’economia, dell’apparato statale e dell’ideologia. Dividere la popolazione in gruppi reciprocamente ostili, disgregarla, sostenere qualsiasi movimento d’opposizione, corrompere l’élite intellettuale e gli strati privilegiati. Contemporaneamente, propagandare i pregi della vita occidentale. Incitare la popolazione a invidiare l’abbondanza occidentale.  Creare l’illusione che quest’abbondanza sia raggiungibile anche da esso in brevissimo tempo se si porrà sulla via  delle trasformazioni seguendo i modelli occidentali.  Contagiarlo con i vizi della società occidentale, presentandoli  come manifestazioni di autentica liberà individuale. Aiutare economicamente il paese solo nella misura in cui ciò favorisce la distruzione della sua economia e la rende dipendente dall’Occidente,m mentre l’Occidente appare come suo disinteressato salvatore dai mali del modello di vita recedente.
L’occidentalizzazione è una forma particolare di colonialismo, in seguito al quale nel paese colonizzato si crea un modello sociopolitico di “democrazia coloniale” (secondo la mia terminologia),. Per alcuni tratti è la continuazione della vecchia strategia coloniale dei paesi occidentali, soprattutto della Gran Bretagna. Ma nel complesso è un uovo fenomeno, tipico del mondo contemporaneo. La sua paternità può essere attribuita, a ragion veduta, agli Usa.
La democrazia coloniale non è il risultato dell’evoluzione naturale dei paesi  colonizzati, in virtù  delle condizioni  interne e delle regole del suo ordinamento sociopolitico.  È qualcosa di artificioso, imposto dall’esterno e contro le tendenze evolutive manifestatesi storicamente. È sostenuta  dai metodi del colonialismo. Inoltre,  il paese colonizzato viene staccato dal sistema preesistente di rapporti internazionali. Ciò si ottiene distruggendo  i blocchi di paesi e disintegrando i grandi paesi, come è successo al blocco sovietico, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia.
Il paese avulso dal precedente sistema di rapporti   mantiene una parvenza di sovranità. Con esso si stabiliscono rapporti di partenariato apparentemente alla pari.  Gran parte della popolazione mantiene alcuni aspetti del modo di vivere precedente.  Si creano oasi economiche di modello quasi occidentale., sotto il controllo delle banche e delle compagnie occidentali,  nonché imprese  esclusivamente occidentali o miste. Ho usato la parola “quasi”, poiché queste oasi economiche  sono solo un’imitazione dell’economia occidentale moderna.
Al paese vengono imposti attributi esteriori  del sistema politico occidentale: multipartitismo,  parlamento, libere elezioni,  presidente, ecc. In realtà sono solo la copertura  di un sistema affatto democratico, ma piuttosto dittatoriale (“autoritario”). Lo sfruttamento del paese nell’interesse dell’Occidente  avviene con l’aiuto di una parte irrilevante della popolazione, che si nutre di questa funzione. Questi uomini hanno un elevato livello di vita, paragonabile a quello dei più ricchi strati dell’Occidente.
Il paese da colonizzare viene ridotto in uno stato tale che non può più funzionare autonomamente. Viene poi smilitarizzato fino a non essere più assolutamente in grado di opporre resistenza. Le forze armate servono solo a contenere le proteste della popolazione e a circoscrivere i tentativi dell’opposizione di cambiare lo status quo.
La cultura nazionale scade a un livello pietoso. Il suo posto viene occupato dai campioni più primitivi di cultura, o meglio, di pseudocultura occidentale. Alle masse vengono concessi: un surrogato della democrazia sotto forma  di libertinaggio, una blanda sorveglianza  da parte delle autorità, accesso ai divertimenti, un sistema di valori che affranca gli uomini dalla necessità di controllarsi e dalla morale.»

Come si vede, la posizione di Zinov’ev non è moralistica, poiché egli sgombra li terreno della storia dalla morale fin dall’inizio e sostiene (un residuo dell’hegelismo e dello stesso marxismo?) che la direzione della storia è quella che è, e pertanto che sarebbe vano deprecare certe conseguenze, una volta compresa la “necessità” delle premesse.
Ciò non toglie che la sua analisi sia lucida, penetrante, quasi spietata. Zinov’ev è un formidabile demistificatore: leggendo le sue pagine, non si può fare a meno di correre col pensiero all’Afghanistan, all’Iran, a tutti quei casi nei quali la posta in gioco del conflitto con l’Occidente è, appunto, l’occidentalizzazione, intesa come omologazione totale di quei Paesi ai valori, ai sistemi economici e finanziari, alla mentalità occidentale; ossia, allo scardinamento irreparabile dei precedenti sistemi social, economici e culturali, attuato nell’interesse di una parte minoritaria della popolazione e a danno della maggioranza di essa.
La democrazia, il parlamentarismo, non sono che specchietti per le allodole. Oppure qualcuno pensa davvero che il corrotto Kharzai sia preferibile al mullah Omar, non per l’egoistico tornaconto dell’Occidente, ma per gli interessi reali del popolo afghano? E che dire del tam-tam mediatico scatenato dall’Occidente intorno all’opposizione interna iraniana, spingendo migliaia di studenti a farsi massacrare dai Guardiani della Rivoluzione di Teheran, nell’interesse e col denaro dei servizi segreti occidentali, americani in primis?
C’è tuttavia una precisazione da fare, secondo noi, riguardo alle riflessioni sviluppate da Zinov’ev in merito al termine e al concetto stesso di “occidentalizzazione”.
Da buon russo, Zinov’ev considera “Occidente” tutto ciò che sta ad ovest della Russia, a cominciare dalla Polonia; e, d’accordo con la terminologia invalsa già da alcuni decenni, non distingue affatto tra Europa centro-occidentale e l’entità Stati Uniti-Canada; anzi, è fuori di dubbio che egli vi includa mentalmente anche l’Australia e la Nuova Zelanda.
Questa, però, è una grossolana semplificazione. Per un Italiano, un Francese o un Tedesco, “Occidente” è un termine ambiguo, che accomuna come se fossero omogenee, delle parti profondamente differenziate. Proponiamo pertanto che non si parli di “occidentalizzazione” del mondo, ma di “americanizzazione” : processo che è iniziato durante la prima guerra mondiale e che ha ricevuto la spinta decisiva durante la seconda, per poi proseguire “a tappeto” nella seconda metà del Novecento, grazie non solo al Piano Marshall, ma anche a Hollywood, al “blues”, al “jazz”, al “rock and roll”, alla televisione, alla pubblicità, a Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, alla bomba atomica, alla Coca-Cola, al chewing-gum, alla conquista della Luna, alla “gioventù bruciata”, al mito scintillante di Manhattan e di Las Vegas, alla rivolta di Berkeley.
L’Italia, per esempio: cuore della civiltà europea per almeno tre volte - con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e con il Rinascimento - non è diventata “Occidente” se non a partire dalla seconda guerra mondiale: prima con i devastanti bombardamenti arerei dei “liberatori” criminali, nel 1943-45; poi con il pane bianco, le sigarette e i dollari “generosamente” profusi dagli Usa per la ricostruzione; infine con il mito del “boom” economico e la distruzione della civiltà contadina, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.
Lo schema è sempre lo stesso: prima la seduzione culturale dell’american way of life, della musica leggera, del cinema (come è avvenuto tra le due guerre); poi l’attacco armato, brutale, spietato, scientificamente distruttivo; infine, di nuovo, l’invasione culturale, resa ancor più irresistibile dall’alone di gloria che sempre circonfonde i vincitori di turno. È lo stesso schema che abbiamo visto in atto nell’Afghanistan, dopo il 2001: come gli Afghani, anche noi abbiamo sperimentato i tre tempi: seduzione culturale; guerra e bombardamenti; invasione economico-finanziaria e nuova, definitiva ondata culturale.
Sarebbe ora di distinguere fra “Occidente” ed “Europa”. L’Europa, come giustamente affermava De Gaulle, va dall’Atlantico agli Urali. Comprende la Russia (senza la parte asiatica), di certo non comprende gli Stati Uniti e il Canada; a nostro avviso, inoltre, comprende solo in parte la Gran Bretagna. Il Canale della Manica è molto più largo di quel che non dica la geografia: fin dai tempi di Elisabetta Tudor, anzi fin dai tempi della Guerra dei Cent’Anni, per gli Inglesi l’Europa è “il continente”, una trascurabile appendice della loro inimitabile isola; per loro (ed hanno perfettamente ragione), gli Stati Uniti sono molto più vicini della Francia o dell’Olanda, in tutti i sensi; per non parlare dell’Ungheria, della Svezia o della Russia.
Loro guidano a sinistra; non si sentono veramente europei, ma isolani; l’Europa è quel continente che hanno sempre cercato di tenere diviso, indebolito, pieno di rancori, per poterlo meglio dominare finanziariamente ed economicamente.
Quando non ci sono più riusciti con le sole loro forze, a partire dal 1917, hanno chiesto aiuto ai loro nipotini americani.
Anche noi siamo stati occidentalizzati, caro Zinov’ev, nel senso di americanizzati: col bastione e con la carota; e anche noi, da ultimo, lo abbiamo fatto con zelo, con entusiasmo, addirittura con frenesia.


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vendredi, 18 juin 2010

Cù Chulainn in the GPO: The Mythic Imagination of Patrick Pearse

cuchulainn.jpgCù Chulainn in the GPO:
The Mythic Imagination of Patrick Pearse

Michael O'MEARA

Ex: http://www.counter-currents.com/

padraic_pearse.jpgOn Easter Monday, April 24, 1916, while all Europe was mobilized for the first of its terrible civil wars, Patrick Pearse, James Connolly, and several hundred “militia men” from the Irish Citizen Army and the Nationalist Volunteers commandeered the General Post Office on Dublin’s O’Connell (then Sackville) Street.

Once a defensive parameter was established around the stately, neo-classical symbol of British rule, the tall, lanky 37-year-old Pearse, titular head of the self-proclaimed “provisional government of the Irish Republic,” appeared on the GPO’s steps to read out to a small crowd of bewildered and skeptical by-standers a proclamation.

“Irishmen and Irishwomen: In the name of God and the dead generations from which she receives her old tradition of nationhood, Ireland, through us, summons her children to her flag and strikes for her freedom.”

This line — the entire proclamation, even — is a work of art.

Some say the Uprising itself was a work of art.

***

As the GPO was being fortified on the 24th, 700 or 800 lightly-armed rebels, most with shotguns and home-made bombs, some with rifles secretly obtained from Germany — (the same “gallant ally in Europe” who allied with the IRA in the next European civil war) — spread out across Dublin, occupying other public buildings and sites associated with the Crown.

The Uprising was not a direct military assault on British authority per se (the rebels lacked the fire power).  It was nevertheless an armed assertion of Irish authority — an authority however poorly armed that was nevertheless imbued with a powerful idea — the idea that does not tire or break and that imparts “its mantle of strength upon those in its service” — the idea of destiny (Francis Parker Yockey).

***

The English garrison in Ireland, larger than the garrison that held India, was caught entirely off-guard by the insurrection.

There was good reason for this.

In 1914 the Irish Parliamentary Party had not only pledged to support the British government, as Germany challenged its supremacy on the killing fields of Flanders and Northern France, the party called on its paramilitary wing, the 170,000 strong Irish Volunteers, to enlist in the British army.  (The ten to twenty thousand Volunteers who refused to follow the IPP’s lead, those rechristened “the Nationalist Volunteers,” were to be the Uprising’s principal military arm, though their mobilization, for reasons too complicated to explain here, was countermanded at the last moment).

The Irish people, one of the most dispossessed and economically distressful of Europe’s peoples, were enjoying a brief spell of good times, as employment and agriculture flourished in the wake of the British war effort.

Westminster had also promised to implement Home Rule, once the war ended.

Ireland never seemed more securely in English hands.

***

The rebellion was greeted with surprise and rage — by both the British government and the Irish population.

This would change, as the government turned the rebels into martyrs, “snatching political defeat from the jaws of military victory.”

In the view of much of the world, especially among the popular classes of nationalist-minded Irish-America, the forces of the crown were seen as reacting with characteristic English brutality, as their powerful naval guns pounded Britain’s second most important city, destroying the GPO and much of the city’s heart, as well as wounding or killing a thousand civilians

James Connolly, that most Aryan of Marxists, had thought the British forces, beholden to English capital, would never turn their guns on their own commercial property: Little did he know — and little did he realize that his sophisticated understanding of urban warfare would crumble before this fact.

Ground troops, supported by field artillery, then suppressed the lingering rebellion on the streets — though not before Pearse ordered a general surrender, once it was clear civilians were the main victim of Britain’s crushing counter-attack.

***

Like most of the six armed rebellions the Irish had raised in the previous 200 years, there was a good deal of futility and desperation in the Easter Uprising — begun on Monday and extinguished, at least so everyone thought, by the following Saturday.

Pearse, Connolly, and much of the Irish Republican Brotherhood responsible for the insurrection had, in fact, no illusion that they would succeed or even survive the Uprising.

Once rounded up, the fifteen nationalist leaders of the revolt were court martialed and shot.

“Dear, dirty Dublin” came, then, to resemble the war-ravaged towns and cities along the Franco-German front, as the cause of Irish freedom seemed to suffer another damning setback.

Yet five years later, Ireland was a nation once again.

***

Like much of the Uprising’s revolutionary nationalist leadership, Pearse sought a path that led away not just from British rule, but from British modernity — which, like its larger civilizational expression, seemed to suffocate everything heroic and great in life.

Against the empire’s cold mechanical forces, he arrayed the powerful mythic pulse of the ancient Gaels.

As Carl Schmitt might have described it: “Against the mercantilist image of balance there appears another vision, the warlike image of a bloody, definitive, destructive, decisive battle.”

Pearse was not alone in thinking myth superior to matter.

Indeed, his Ireland was Europe in microcosm — the Europe struggling against the forces of the coming anti-Europe.

In Germany, no less than in Ireland, powerful cultural movements based on “peasant” mythology and traditional culture had arisen to repulse the modern world — movements which did much to revive the spirit of Western Civilization (before it was again struck down by the ethnocidal Pax Americana).

In Germany this movement frontally challenged the continental status quo, in Ireland it challenged the British Empire.

Lacking a political alternative, the frustrated national unity of 19th-century “Germany” had looked to increase its cultural cohesion and self-consciousness.

Like its German counterpart, Ireland’s Celtic Twilight was part of a larger European movement — of a romantic and romanticizing nationalism — to revive the ancient Volk culture in its struggle against the anti-national forces of money and modernity.

Though the Famine had delayed the movement’s advent in Ireland, it came.

The cultural phase of Irish nationalism formally began with Parnell’s fall in 1889.  Turning away from the personal and political tragedy of their uncrowned king, nationalists started re-thinking their destiny in other than political terms.

If the Germans, in the cultural assertion of their nationalism, had to free themselves from the overwhelming hegemony of French culture, the Irish had to turn away from the English, who considered them barbarians.

In rejected liberal modernity, these barbarians sought to recapture something of the archaic, Aryan spirit still evident in the Táin Bó Cuailnge and in Wagner’s Ring des Nibelingen — the spirit distilled today in Guillaume Faye’s “archeofuturism.”

***

Before Parnell, Irish resistance to English subjugation (with the exception of O’Connell’s movement) had taken the form of numerous, rather badly planned military defeats.

But the Irish had little recourse, especially in law.  (Indeed, the only justice for the Irishman in Ireland came from his shillelagh, whenever it took precedent over the judge’s gravel).

Centuries of Irish violence and resistance had convinced the English of Irish lawlessness and of their incapacity for self-rule.

Savage English repression begot savage Irish resistance, which, in turn, begot savage repression and so on: The long, unfortunate, blood-soaked dialectic of Anglo-Irish relations.

The empire’s violence was legitimated in the name of cultural superiority.  Throughout British society, which thought itself the height of Western civilization, it was held that Ireland before the Norman Conquest had lacked any form of civilization or High Culture — even the learned David Hume held this view.  Indeed, the Irish were seen as yet fully civilized.

In British eyes this “race” was a lesser breed, somewhat like a nonwhite one, like wild Indians, and imperial conflict with it was something like conflict with a savage tribe — it was not the relationship Paris had to her provinces, it was not even what the German Hapsburgs had to their Slavic nations.

The Catholic Irish are famous in 19th-century English periodicals for their simian features.

The lawless Celts (the very word comes from the Greek for “fighter”), so obviously inferior to the civilized “Saxons,” brought upon themselves thus the rent racking, the enclosures, and the garrison state that came with the English occupation (the so-called “Union”).

***

William Butler Yeats, Lady Gregory, John Millington Synge, and other gifted members of the Anglo-Irish Ascendancy had no love for the world’s workshop, longing, as they did, for “the integral community of the old manorial days.”

The Irish Literary Renaissance was launched, following Parnell’s fall, with “The Wanderings of Oisin,” in which Yeats called for “a new literature, a new philosophy, and a new nationalism.”

Irish folklore for Yeats was not simply Irish, but the conservator of “an ancient, sacred worldview overwhelmed by the abstract, highly differentiated,” and generally ignoble forms of modern bourgeois life (forms, as we Americans have learned, that have, among other negative things, imbued money-changing aliens with great power over us).

For Ireland’s cultural nationalists, the past was a realm of meaning — prefiguring a future to rebuke the present.  And a great past, which the culturalist nationalists soon enough discovered, beckoned, as William Irwin Thompson surmised, “a future fit for an exalted heritage.”

The romanticized “peasant,” along with the medieval knight and the gentleman cavalier, were celebrated in Yeats’ poetic rebellion against the modern world.

This “nationalization” of the people’s heritage appealed to nationalists disgusted with things English; its moralistic rejection of decadence and empire also appealed to the emerging Irish Catholic lower-middle class; at the highest, most important, level, its mythic vision organically merged with “a culture that renews itself by reference to its mythology.”

By the early 20th century, a new ideology gripped Ireland, Germany, and many European nations, an ideology which defined the nation in racialist, romantic, and anti-modernist terms centered on certain cultural polarities: viz., anti-liberal versus liberal, past v. present, agricultural community v. industrial society, small moral nation v. decadent world empire, myth v. reason, quality v. quantity, Gaelic v. English, German v. French, Ireland v. England, Europeans v. Anglo-Americans, etc.

***

The hard men of the Irish Republican Brotherhood — (the Fenians, the progenitors of the many factions making up today’s IRA, were very unlike the genteel Anglo-Irish artists who made Dublin a cultural capital of the Anglophone world) — but they too were part of the general revolt against liberal civilization — against the devirilizing tenets of positivist thought, against the primacy of monetary values, against the spirit-killing effects of mechanization, massification, and deracination, and, above all, against the empire’s imposition on everything native to Irish identity.

In France, Italy, and Spain rebels opposing liberalism’s realm of “consummate meaninglessness” threw bombs, in Ireland, where the cult of violence was ancient, they made up an army of bomb-throwers — for it was the nation seeking to be born, “ourselves alone,” not the solitary resister, who filled the rebel ranks.

Violence and self-sacrifice, as such, needed no justification in Catholic Ireland (though they seemed totally alien and barbaric to England’s liberal Protestants).

***

Ireland’s brave rebels are best seen against a European backdrop.

At its center was the Sorelian myth of violence, imagining the overthrow of Cromwell’s cursed regime.

This myth of violence was no ideology, but a Nietzschean assertion of will.

Its dreamscape was the apocalyptic catastrophe in which all things became possible.

Its promised violence wasn’t aimless or nihilistic, like that of a Negro hoodlum, but soteriological, seeking the salvation of man’s soul in a world made especially evil by the efficacy of science and reason.

***

Violence here — in the mythic context of Pearse’s imagination and in the social-political world of late 19th-century, early 20th-century Europe — became “a path to a new faith” — a path that ran over the ruins of modernity, as it endeavored to redeem it.

The Irish cosmological view, in Patrick O’Farrell’s study, perceived England as a secular, unethical, money-grubbing power that had “violated” Caithlin Ni Houlihan — the Old Woman of Beare, Roisin Dubb, Shan Van Vocht, Deidre of the Sorrows, Queen Sive, and all the feminine symbols personifying Ireland’s perennial spirit.

In such a cosmology, national liberation was eschatological, millennarian, and, above all, mythic.

For here myth seizes the mind of the faithful as it prepares them to act.  Its idea is “apocalyptic, looking toward a future that can come about only through a violent destruction of what already exists.”

Pearse’s myth was of a noble Ireland won by violent, resolute, virile action — nothing less would merit his blood sacrifice.

Fusing the unique synergy of millennarian Catholicism (with its martyrs), ancient pagan myth (with its heroes), and a spirit of redemptive violence (couched in every recess of Irish culture) — his myth has since become the ideological justification for the physical force tradition of Irish republicanism — a tradition which holds that no nation can gain its freedom except through force of arms — that is, by taking it — by forthrightly asserting it in the Heideggerian sense of realizing the truth of its being.

Pearse’s allegiance to armed struggle came with his disgust with parliamentary politics.  He thought Parnell’s party “had sat too long at the English table” — that it had come to regard Irish nationality “as a negotiable rather than a spiritual thing.”

All states, he considered, rested on force.  If Ireland should be “freed” through Home Rule, that is, under British auspices, it would make the Irish smug and loyal — and British.

With the advent of the Great War of 1914 and the Burgfrieden negotiated between the parliamentary nationalists of the IPP and the British government, the flame of Ireland’s national spirit began to dim.

The violent break with Britain, which Pearse and other revolutionary nationalists sought, was inspired by the conviction that every compromise weakened Ireland’s soul and strength — that the flame had always to burn heroically — that the spirit had to be pure — otherwise the sacramental lustre of the Republican cause would be lost.

***

The tradition of armed resistance of which Pearse became the leading Irish symbol was not unique to Ireland, but part the same European tradition that inspired the Slavic Communist storming of the Winter Palace, the same that guided the anti-liberal, fascist, and national socialist opposition to liberalism’s interwar regimes — the same that appears still on the hard streets of Northern Ireland and in the minds of a small number of exceptional Europeans.

For Pearse, the Uprising was more than a blow struck for Irish freedom, it was “a revolt against the materialistic, rationalistic, and all-too-modern world” of the British Empire.

Pearse was not unlike Charles Péguy, who too conceived of a national myth “to stand against the modernist tide.”

Péguy: “Nothing is as murderous as weakness and cowardice / Nothing is as humane as firmness.”

This was Pearse’s thought, exactly.

***

Such a mythic conviction came, though, at a high cost, for it required a willful self-immolation and the promise of death, however heroic.

***

Pearse’s conviction sprang from Ireland’s long history of resistance and the Aryo-European spirit it reflected, but it also came from the old sagas, from the stories and legends of the ancient Gaels, that celebrated the values and traditions of Ireland’s heroic age.

Prior to the modern age Ireland’s Gaelic vernacular literature was the largest of any European peoples, except that of the Greeks and Romans.

The Irish loved to tell stories, a great many of which their monks wrote down a thousand years ago.

Like other Gaelic-speaking nationalists, Pearse was especially affected by the Ulster Cycle of legends and myths associated with Cù Chulainn — the symbol of Ireland — the symbol of one powerful man standing alone against a terrible, overwhelming force — the Irish Achilles — whose heroic temper was a rebuke to the corruptions and weaknesses of the modern age.

***

In August 1915, a year into the European civil war, and three-quarters of a year before the Easter Uprising, the IRB staged a ceremonial burial for one of its own — in a country where ceremonial burials have often given birth to new forms of life.

In his funeral oration at the grave side of the dead Fenian, O’Donovan Rossa, the Cù Chulainn (who would soon fight his epic battle in the GPO) augured that: “Life springs from death and from the graves of patriot men and women spring nations. . . .  They [the English] think that they have pacified Ireland.  They think that they have pacified half of us and intimidated the other half.  They think that they have provided against everything: but the fools, the fools, the fools! — they have left us our Fenian dead, and while Ireland holds these graves, Ireland unfree shall never be at peace.”

Man, in Pearse’s mythic imagination, doesn’t act on the chance of being successful, but for the sake of doing what needs to be done.  The nationalist movement, united in hatred of the English ruling class, was full of such men.

Their doing, their sacrifice — like that of Jesus on the cross or the tragic Cù Chulainn burying his son in the indifferent sea tide — was of utmost importance.

For everything, the rebels knew, would follow from it — the slaughtered sheep brightening the sacramental flame of their spirit.

***

Some historians claim Pearse’s “suicidal” insurrection bequeathed “a sense of moral conviction to revolutionaries all over the world.”

From a military perspective, the Uprising, of course, was a categorical failure.  But morally, it became something of a world-changing force — which wasn’t surprising in a country like Ireland, whose mythology had long favored ennobling failures.

As Pearse told the military tribunal that condemned him to death: “We seem to have lost.  We have not lost.  To refuse to fight would have been to lose.  We have kept faith with the past, and handed down a tradition to the future.”

***

In the course of the extraordinary events following The Proclamation (as the rebels kept faith with their past), mind, imagination, and myth fused into a synergetic force of unprecedented brilliance and power — the terrible beauty being born.

***

Patrick Pearse fell before the English guns soon after Easter, but the ennobling image of him standing upright in the burning GPO lives on in the heritage he willed not just to Irishmen but to all white men.

For of the insurgents, at least fifty of them, including Pearse himself, were of mixed Irish-English parentage.

They fought the cruel empire not just for Ireland’s sake, but for the sake of redeeming, in themselves, something of the old Aryo-Gaelic ways.

April 24, 2010

Sources:

Thomas M. Coffey, Agony at Easter: The 1916 Irish Uprising (Baltimore: Penguin, 1971).

Ruth Dudley Edwards, Patrick Pearse: The Triumph of Failure (New York: Taplinger, 1978).

Sean Farrell Moran, Patrick Pearse and the Politics of Redemption (Washington: Catholic University Press of America, 1994).

Joseph O’Brien, Dear, Dirty Dublin: 18991916 (Berkeley: University of California Press, 1982).

Patrick O’Farrell, Ireland’s English Question (New York: Schocken, 1971).

Dáithí Ó hÓgáin, The Lore of Ireland (Cork: Boydell, 2006).

William Irwin Thompson, The Imagination of an Insurrection: Dublin, Easter 1916 (New York: Harper, 1967).

mercredi, 16 juin 2010

Note sur une lignée d'écrivains: de Stendhal à Dostoïevski et Ernst von Salomon

stendhal_1214892515.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Note sur une lignée d'écrivains: de Stendhal à Dostoïevski et Ernst von Salomon

par Jérémie BENOIT

 

“Timidement, je caresse la reliure avec le dos de ma main. Je tourne la feuille de garde et je lis: «Stendhal, le Rouge et le Noir»”. Ainsi s'achève l'un des chapitres du roman d'Ernst von Salomon (1902 - 1972), Les Réprouvés (Die Geächteten) (1), œuvre phare de l'époque des corps-francs en Allemagne après la défaite de 1918. L'admiration envers Stendhal (1783-1842) dont témoigne la phrase de von Salomon suscite évidemment une réflexion sur les rapports que l'on peut établir entre ces deux écrivains, éloignés d'un siècle dans le temps, et a priori fort différents par leur culture. Mais le débat devra encore être élargi grâce à un aphorisme de Nietzsche (1844-1900), qui marque un relais dans la filiation Stendhal/von Salomon, en introduisant la personnalité de Dostoïevski (1821-1881). Dans Le Crépuscule des Idoles  en effet (2), Nietzsche relève: «Dostoïevski est, soit dit en passant, le seul psychologue qui ait eu quelque chose à m'apprendre. - Je le compte au nombre des plus belles aubaines de ma vie, plus encore que ma découverte de Stendhal»).

 

C'est donc cette lignée d'écrivains que nous allons tenter d'appréhender ici, sachant que, plutôt qu'à leur style, c'est à leur démarche intellectuelle, à leur idéologie, que nous nous attacherons prioritairement. Car Julien Sorel, le héros stendhalien apparaît comme le prototype de tout un courant d'idées dont le XXe siècle a vu —et voit encore—  se développer la descendance, au travers de personnages que l'on a qualifié de nihilistes, mais qui sont en fait des révolutionnaires détachés des contingences de la société bourgeoise.

 

La haine sociale

 

A propos du Rouge et le Noir, Paul Bourget notait en effet: «Plus nous avançons dans la démocratie, plus le chef-d'œuvre de Stendhal devient actuel» (3). C'est une manière de projeter le roman dans le XXe siècle, et donc de poser le principe d'un rapport direct, si l'on veut, avec Les Réprouvés de von Salomon. La grande figure de Julien Sorel incarne en effet «la rébellion moderne», selon les termes de Maurice Bardèche (4). Cette rébellion, personne mieux qu'Ernst von Salomon ne l'a décrite: «Nous étions enragés, écrit-il. Des drapeaux de fumée noire jalonnaient notre route. Nous avions allumé un bûcher où il n'y avait pas que des objets inanimés qui brûlaient: nos espoirs, nos aspirations y brûlaient aussi, les lois de la bourgeoisie, les valeurs du monde civilisé, tout y brûlait, les derniers vestiges du vocabulaire et de la croyance aux choses et aux idées de ce temps, ce bric-à-brac poussiéreux qui traînait encore dans nos cœurs» (5). Libération, purification, régénération, telles sont les thèses que pose ainsi Ernst von Salomon dans son roman. La question est finalement de retrouver l'homme au sein du dédale social. L'identité humaine, la recherche passionnée du moi, sont ainsi les seules valeurs qui subsistent aux yeux de l'écrivain.

 

Mieux que dans Les Réprouvés cependant, l'analyse de la révolte contre l'ordre établi se rencontre dans Le Rouge et le Noir. «La haine extrême qui animait Julien contre les riches allait éclater», écrit Stendhal au chapitre 9, puis: «Il ne vit en Mme de Rénal qu'une femme riche, il laissa tomber sa main avec dédain, et s'éloigna» (6). Ce sentiment d'abjection envers tout ce qui médiatise l'homme pour en faire un être social, empêtré dans des idées préétablies, forme le fond de l'attitude de Julien Sorel, quand bien même il cherche à entrer dans cet univers maniéré qu'il perçoit cependant comme ridicule. Car il n'y croit pas. Dès le premier contact avec la société policée, il se sent étranger, différent. Il aspire avant tout à se libérer du carcan social, pour se retrouver lui-même, homme. Supérieurement intelligent, ce cérébral ne pouvait laisser Nietzsche indifférent. Il possède son effet en lui les qualités du surhomme, capable de se surpasser, de transgresser les valeurs. La réflexion, l'analyse et finalement le crime de Julien Sorel trouvent un écho dans la démarche de Rodion Romanovitch Raskolnikov, le héros de Crime et Châtiment, œuvre de Dostoïevski (7).

 

La recherche de l'homme intégral

 

Raskolnikov, conscient lui aussi de sa supériorité, cherche également à se libérer du bourbier social, et sa pensée se fixe sur une vieille usurière, Aliona Ivanovna. «Quelle importance a-t-elle dans la balance de la vie, cette méchante sorcière?», se dit-il. Mais au-delà de la seule réflexion sociale, qui fait finalement le fond du roman de Stendhal, Dostoïevski introduit de plus une dimension psychologique propre à son œuvre. Si la vieille est l'obstacle social à abattre pour se libérer  —« Ce n'est pas une créature humaine que j'ai assassinée, c'est un principe»—  l'idée du crime germe aussi comme un défi à la propre libération du héros. «Suis-je capable d'exécuter cela?», se demande Raskolnikov. Car le héros étouffe entre les murs de la morale officielle. Il se sent, comme Julien Sorel, différent du troupeau de l'humanité. Le destin l'a désigné pour, ainsi que le dit Henri Troyat (8), «la terrible aventure de l'indépendance spirituelle». Des êtres comme lui possèdent le droit de dépasser les limites du social. Leur but unique est la recherche de l'homme intégral. Cette démarche en fait des sur-hommes nietzschéens. Car ni Julien Sorel, ni Raskolnikov ne regrettent leur crime. «Après tout, je n'ai tué qu'un pou, un sale pou, inutile et malfaisant», s'écrie Raskolnikov, tandis que Julien Sorel attend son exécution avec sérénité, entièrement libéré et purifié. «J'ai aimé la vérité... dit-il, Où est-elle?... Partout hypocrisie, ou du moins charlatanisme (...). Non, l'homme ne peut pas se fier à l'homme».

 

Leur recherche est donc essentiellement celle de l'humanité sincère. Par-delà les considérations sociales, Julien Sorel analyse ainsi la situation: «Avant la loi, il n'y a de naturel que la force du lion, ou le besoin de l'être qui a faim, qui a froid, le besoin en un mot». Car ajoute-t-il, en rupture totale avec la pensée rousseauiste sur laquelle s'appuie la société bourgeoise du XIXe (et du XXe) siècle, «il n'y a point de droit naturel». Au droit, il substitue le besoin, à la société, il oppose l'homme. Cette position est celle, nous l'avons vu plus haut, d'Ernst von Salomon, dégagé de toute contrainte avec ses camarades des corps-francs.

 

Chez Stendhal et Dostoïevski se trouvent les prémisses de la pensée libératrice de Nietzsche. L'homme est une créature naturelle, et comme telle, il est un prédateur. Tout homme supérieur a le droit et le devoir de prélever sa proie dans le troupeau. C'est pourquoi Raskolnikov se demande pour quelle raison son acte apparaît aussi odieux à son entourage: «Parce que c'est un crime? Que signifie le mot crime? Ma conscience est tranquille». Et, tout comme Julien Sorel, il s'offre en pâture à la société: «Certes, j'ai commis un assassinat... Eh bien! pour respecter la lettre de la loi, prenez ma tête et n'en parlons plus...». C'est à peu de choses près ce qu'exprime Julien Sorel au juge venu le visiter dans sa prison: «Mais ne voyez-vous pas, lui dit Julien en souriant, que je me fais aussi coupable que vous pouvez le désirer? Allez, monsieur, vous ne manquerez pas la proie que vous poursuivez».

 

Napoléon, modèle de liberté

 

La parallélisme entre Raskolnikov et Julien Sorel rencontre encore un autre écho dans l'admiration semblable qu'ils portent à Napoléon. «Un vrai maître, à qui tout est permis, songe le héros de Dostoïevski, canonne Toulon, organise un massacre à Paris, oublie son armée en Egypte, dépense un demi million d'hommes dans la campagne de Russie, et se tire d'affaires, à Vilna, par un jeu de mots. Et c'est à cet homme qu'après sa mort on élève des statues. Ainsi donc, tout est permis...». C'est là la terrible conclusion de Dostoïevski, qui hante toute son œuvre (9). Cette conclusion, nous la retrouvons chez Stendhal, bien que moins nettement dégagée: «Depuis bien des années, Julien ne passait peut-être pas une heure de sa vie sans se dire que Bonaparte, lieutenant obscur et sans fortune, s'était fait le maître du monde avec son épée» (10). Ernst von Salomon écrit quant à lui: «Dans une armoire, j'avais encore un portrait du Corse que j'avais décroché au début de la guerre» [de 1914]. Cette phrase montre là encore la totale admiration de tous les révolutionnaires pour Napoléon, quand bien même ils condamnent l'expansionnisme français.

 

Un prédateur régénéré dans la violence

 

Car ni Dostoïevski, ni von Salomon ne sont des adulateurs de l'Empereur. Leur nationalité limite l'enthousiasme que l'on ressent chez Julien Sorel. Abstraction faite de cette réserve, Napoléon est cependant un modèle absolu, celui de l'homme libéré du carcan social, du poids des considérations sociales. Lui seul porte à agir Julien Sorel et Raskolnikov, qui brûlent, l'un comme l'autre, de passer à l'action, et que les conditions sociales de leur époque empêchent de donner leur mesure. Le meurtre apparaît ainsi comme le substitut à l'héroïsme qu'on ne leur offre pas. Stendhal relève d'ailleurs dans son roman: «Depuis la chute de Napoléon (...) l'ennui redouble» (11). Ce sont ces contraintes qui poussent parfois Julien Sorel à se dévoiler violemment: «L'homme qui veut chasser l'ignorance et le crime de la terre doit-il passer comme la tempête et faire le mal comme au hasard?». Nous tenons là le véritable lien qui relie Stendhal à Ernst von Salomon. Prédateur, l'homme ne peut se régénérer que dans la violence, que déchaînent la guerre ou la révolution. Or, à l'inverse de Julien Sorel et de Raskolnikov, le destin d'Ernst von Salomon  —héros de son propre roman—  se dessina dans une époque de périls pour l'Allemagne, après la Première Guerre mondiale. Comme le personnage de Stendhal, il fut, en tant qu'élève à l'école des Cadets, frustré de «sa» guerre. Mais il put cependant se libérer grâce à l'épopée des corps-francs. Il ne s'agissait d'ailleurs pas seulement d'une lutte pour sauvegarder l'intégrité du territoire allemand, il s'agissait aussi  —et peut-être surtout—  de mettre en pratique cette nouvelle mentalité révolutionnaire, en conquérant de nouveaux espaces. Ce fut l'aventure du Baltikum qui permit de dépasser le nihilisme et de briser l'individualisme...

 

Le lieutenant Erwin Kern, compagnon de von Salomon, et l'un des assassins de Walter Rathenau en 1922, également héros du roman, recoupe entièrement ce que pensent Julien Sorel et Raskolnikov, lorsqu'il dit: «Pourquoi sommes-nous différents? Pourquoi existe-t-il des hommes comme nous, des Allemands comme nous, étrangers au troupeau, à la masse des autres Allemands? Nous employons les mêmes mots et pourtant nous ne parlons pas le même langage. Quand ils nous demandent “Que voulez-vous?”, nous ne pouvons pas répondre. Cette question n'a pas de sens pour nous. Si nous tentions de leur répondre, ils ne nous comprendraient pas. Quand ceux d'en face disent “intérêt”, nous répondons “purification”» (12). Purification, c'est-à-dire libération, sur-humanisation nietzschéenne.

 

De la liberté à la politique

 

Si la filiation s'établit assez facilement de Stendhal et Dostoïevski à Nietzsche et Ernst von Salomon, il existe cependant une grande différence entre les XIXe et XXe siècles. Les personnalités des différentes figures que nous avons considérées s'expliquent parfaitement d'un point de vue social et psychologique. Cependant, la révolte de Julien Sorel ou de Raskolnikov n'est pas la révolution programmée d'Ernst von Salomon, annoncée par Nietzsche (et d'autres penseurs). Il ne s'agit plus de se reconnaître différent en tant qu'individu, il s'agit de combattre les causes de la destruction de l'humanité. Dès lors, deux tendances vont se conjuguer, la réflexion et l'action, qui toutes deux se trouvaient en germe dans le romantisme. Le but suprême est la lutte contre la société bourgeoise, et par là-même, la régénération de l'humanité.

 

De là naîtra le mouvement que l'on nomme “révolution conservatrice”, dont Arthur Moeller van den Bruck (1876-1925) a certainement donné la meilleure définition (13): «Un révolutionnaire, écrit-il, n'est pas celui qui introduit des nouveautés, mais au contraire celui qui veut maintenir les traditions anciennes». Il ne nous appartient pas ici d'étudier ce courant d'idées (14). Notre dessein n'est que d'en repérer les origines et la continuité au travers d'un type de héros de roman. Cependant si Ernst von Salomon nous autorise à poser Le Rouge et le Noir de Stendhal comme étant une des sources des idées de la révolution conservatrice, il est permis de se demander pour quelles raisons les penseurs français classés à gauche, Zola ou Aragon (15), ont également tenté de récupérer la figure de Julien Sorel. Certes, la lutte anti-sociale du héros explique leur position. Mais c'est oublier une dimension essentielle de la personnalité de Julien Sorel, paramètre qui n'a pas en revanche échappé à von Salomon. Inférieur socialement aux personnages qu'il côtoie, Sorel se sent cependant supérieur à eux. Il considère l'injustice sociale non sur le plan strict du droit, mais sur le plan humain. Il ne cherche même pas à égaler ses maîtres, il revendique sa différence intellectuelle. Selon lui, tout comme pour Raskolnikov d'ailleurs, les mérites tiennent aux talents, nullement à la position sociale.

 

Or, cette supériorité n'a pas été remarquée —volontairement?—  par les critiques de gauche. En cela, on peut dire que leur annexion de Julien Sorel est abusive. Ce qui n'est pas le cas chez certains penseurs de droite. On se souviendra comment Ernst von Salomon s'éloigna du national-socialisme, parce qu'il considérait ce parti politique comme trop plébéien. Seule sa notoriété lui valut de ne pas être inquiété durant la période hitlérienne. Cette position d'extrême conscience de sa valeur avait également été celle de Stendhal durant son existence.

 

Psychologie du révolutionnaire

 

Nous avons vu se dessiner, dans ce qui précède, la psychologie du révolutionnaire. Mettons de côté cependant la problématique propre de Dostoïevski, qui est celle du rachat de l'homme marqué par la perspective chrétienne du Salut  —encore que les considérations religieuses et sociales ne soient pas absentes du Rouge et le Noir—,  et étudions en revanche la pathologie de ces personnages, si proches les uns des autres. On a souvent dit que les héros de Dostoïevski étaient tous des psychopathes. C'est possible. Mais une telle constatation, formulée dans le vocabulaire réducteur de l'aliénisme matérialiste, n'explique pas tout, bien au contraire. Car Stendhal, qui n'a guère fouillé la psychologie de Julien Sorel  —en dehors de ses réactions sociales—  note rapidement au chapitre 40: «Deux ou trois fois par an, il était saisi par des accès de mélancolie qui allaient jusqu'à l'égarement». C'est déjà l'annonce des crises des personnages de Dostoïevski, qui par-delà les démonstrations, fouille leur psychologie. Ainsi, après son crime, Raskolnikov se trouve-t-il en proie à un délire et à une inactivité qui révèlent une personnalité irrégulière, déréglée. C'est aussi l'explication que l'on peut donner au cri poussé par Ernst von Salomon au fond de sa prison. Captif de la société qui cherche à l'annihiler, le héros n'a plus d'autre solution que de hurler sa détresse. Réfractaire à toute mise au pas, désespéré, il laisse échapper sa soif de liberté dans un cri.

 

la société bourgeoise: un leurre

 

Conscients de leur supériorité intellectuelle, tous ces personnages se perçoivent si différents des gens établis, qu'ils en sont écrasés. Ecrasés parce qu'ils sont seuls face à la société. Leur sursaut est une déviation de l'action, qui passant par une sorte de dépression, les fait tomber dans le crime en les élevant. Mais ce n'est pas la dépression qui explique leur position face à la société. Cela doit être bien compris. La dépression n'est qu'un résultat. Elle n'est nullement originelle. Parce que la société les brime, les contraint, elle apparaît devant eux. Non l'inverse. Ainsi, ces personnalités s'analysent en fonction du cadre social dans lequel elles évoluent. Sans l'injustice, sans l'imbécillité, sans la lâcheté, sans l'ennui, toutes les figures que nous avons vues, auraient pu s'exprimer librement. Jamais elles ne seraient tombées dans la mélancolie  —voire dans la folie comme ce fut le cas pour Nietzsche—  si elles avaient été garanties par des sociétés libres. Toute leur réflexion démontre que la société bourgeoise n'est pas naturelle. Elle n'est pas la liberté. Elle n'est qu'un leurre, un piège. L'homme ne peut être libre que dans la nature, qui offre au plus fort la possibilité de la lutte.

 

Pourquoi tant de mouvements gymnastiques naquirent-ils en Allemagne dès la fin du XIXe siècle? Précisément pour faire contrepoids à une société bourgeoise étriquée, n'offrant à l'homme que des possibilités de jouer des rôles, sans que jamais il puisse s'épanouir pleinement. Or, ces rôles, Julien Sorel, Raskolnikov ou Ernst von Salomon en avaient dès l'abord décrypté l'hypocrisie. Originellement, ils ne sont pas des personnages déséquilibrés. Seule la société bourgeoise, artificielle, les a forgés comme ils sont, les a poussés dans leurs retranchements. Et c'est toute leur noblesse que de la refuser et de combattre pour l'élaboration d'une autre société, naturelle et humaine. L'égalitarisme démocratique est donc condamné en bloc par ces personnalités, qui ne rêvent que de sociétés fortes et viriles. Là en fait se situe la carence des psychologues, qui ne font que constater des faits, et qui ignorent délibérément un paramètre essentiel, le contexte social. Psychopathes, à tout le moins dépressifs, Julien Sorel ou Raskolnikov le sont sans doute selon les normes bourgeoises. Mais ils le sont parce qu'ils sont incapables de rentrer dans une société qui ne leur convient pas, une société de médiocres calculateurs, une société mercantile, essentiellement faite pour les faibles.

 

Or, ce sont ceux-ci qui jugent et condamnent ces personnages, sans être à même de les comprendre. Parce qu'ils ont été piégés par la société. Parce qu'ils manquent de grandeur morale. Parce qu'ils manquent simplement d'intelligence et de courage. Il faut en effet être particulièrement fort pour se mesurer à la société et à soi-même. C'est ce qu'affirment dramatiquement ces trois héros de la révolte européenne.

 

Jérémie BENOIT.

 

NOTES:

 

(1) Die Geächteten, Berlin, Rowohlt Verlag, 1930, trad. franç. (Les Réprouvés), Paris, Plon, 1931, p. 396.

(2) Le Crépuscule des Idoles, (1888) «Divagation d'un Inactuel», 45, trad. fr., Paris, Folio, p. 133.

(3) P. Bourget, Essai de Psychologie contemporaine, Paris, Lemerre, 1889.

(4) M. Bardèche, Stendhal romancier, Paris, La Table ronde, 1947.

(5) Les Réprouvés, op. cit. p. 120-121.

(6) Le Rouge et le Noir, Paris, Levavasseur 1830, chap. 10.

(7) Crime et Châtiment, publié dans Le Messager russe en 1866.

(8) H. Troyat, Dostoïevski, Paris, Fayard, 1960, p. 239.

(9) Cette idée que tout est permis à l'homme, parce qu'il n'y a pas de dieu, se retrouve en particulier dans les réflexions d'Ivan Karamazov. C'est en s'inspirant de lui que Smerdiakov, le bâtard, sorte de double infernal de son maître, tue le père Karamazov. Car, comme le fait observer H. Troyat, op. cit., p.356, «Smerdiakov confond la liberté avec l'arbitraire». On remarquera à ce propos que Dostoïevski, tout comme Stendhal d'ailleurs, n'a écrit qu'un seul roman, n'a créé qu'un seul type de héros, déclinés sous tous leurs aspects.

(10) Est-ce un hasard si Stendhal écrivit une Vie de Napoléon, éditée seulement en 1876?

(11) On se souviendra à ce propos de ce qu'écrivait Alfred de Vigny (1797-1863) dans Servitude et grandeur militaires (1835): «Cette génération née avec le siècle qui, nourrie de bulletins par l'Empereur, avait toujours devant les yeux une épée nue, et vint la prendre au moment même où la France la remettait dans le fourreau des Bourbons». A quoi répondait Alfred de Musset (1810-1857) dans La confession d'un enfant du siècle (1836): «Alors s'assit sur un monde en ruines une jeunesse soucieuse. Tout ces enfants étaient des gouttes d'un sang brûlant qui avait inondé la terre».

(12) Cité par D. Venner, Histoire d'un fascisme allemand. Les corps-francs du Baltikum et la Révolution conservatrice, Paris, Pygmalion/Gérard Watelet, 1996, p.251.

(13) A. Moeller van den Bruck, La Révolution des peuples jeunes, Puiseaux, Pardès, 1993, p.137. On relèvera par ailleurs que Moeller van den Bruck fut un excellent connaisseur de Dostoïevski qu'il traduisit en allemand. Selon lui, «Dostoïevski était révolutionnaire et conservateur à la fois» (op. cit., p. 136)

(14) Sur ce point, on lira en particulier les publications des éditions Pardès, dont Armin Mohler, La révolution conservatrice en Allemagne, 1918 - 1932, 1993. On relèvera aussi le fait que parmi les maîtres penseurs de ce courant idéologique, Ernst Jünger avait d'abord pensé à intituler son roman Orages d'acier (1920), «Le gris et le rouge», par référence à Stendhal.

(15) L. Aragon, La lumière de Stendhal, Paris, Denoël, 1954.

 

 

mardi, 15 juin 2010

D. H. Lawrence

D.H. Lawrence

Ex: http://www.oswaldmosley.com/

D.H. Lawrence 1885-1930 is acknowledged as one of the most influential novelists of the 20th Century. He wrote novels and poetry as acts of polemic and prophecy. For Lawrence saw himself as both a prophet and the harbinger of a New Dawn and as a leader-saviour who would sacrificially accept the tremendous responsibilities of political power as a dictator so that humanity could be free to get back to being human.

Much of Lawrence's outlook is reminiscent of Jung and Nietzsche but, although he was acquainted with the works of both, his philosophy developed independently. Lawrence was born in Eastwood, a coal-mining town near Nottingham, into a family of colliers. His father was a heavy drinker, and his mother's commitment to Christianity imbued the house with continual tension between the parents. At college, he was an agnostic and determined to become a poet and an author. Having rejected the faith of his mother, Lawrence also rejected the counter-faith of science, democracy, industrialisation and the mechanisation of man.

LOVE, POWER AND THE "DARK LORD"

dh-lawrence.jpgFor Lawrence capitalism destroyed the soul and the mystery of life, as did democracy and equality. He devoted most of his life to finding a new-yet-old religion that will return the mystery to life and reconnect humanity to the cosmos.

His religion was animistic and pantheistic, seeing the soul as pervasive, God as nature, and humanity as the way God is self-realised. The relations between all things are based on duality -opposites in tension. This duality is expressed in two ways: love and power. One without the other results in imbalance. Hence, to Lawrence, the love of Christianity is a sentimentality that destroys the natural hierarchy of social relations and the inequality between individuals. The critique of Christianity is reminiscent of Nietzsche.

Love and power are the two "threat vibrations" which hold individuals together, and emanate unconsciously from the leadership class. With power, there is trust, fear and obedience. With love, there is "protection" and "the sense of safety". Lawrence considers that most leaders have been out of balance with one or the other. That is the message of his novel Kangaroo. Here the Englishman Richard Lovat Somers although attracted to the fascist ideology of "Kangaroo" and his Diggers movement, ultimately rejects it as representing the same type of enervating love as Christianity, the love of the masses, and pursues his own individuality. The question for Somers is that of accepting his own dark master (Jung's Shadow of the repressed unconscious). Until that returns no human lordship can be accepted:

"He did not yet submit to the fact of what he HALF knew: that before mankind would accept any man for a king. Before Harriet would ever accept him, Richard Lovat as a lord and master he, this self-same Richard who was strong on kingship, must open the doors of his soul and let in a dark lord and master for himself, the dark god he had sensed outside the door. Let him once truly submit to the dark majesty, creaking open his doors to this fearful god who is master, and entering us from below, the lower doors; let himself once admit a master, the unspeakable god: the rest would happen."

What is required, once the dark lord has returned to men's souls in place of undifferentiated 'love' is a social order based on a hierarchical pyramid culminating in a dictator. The dictator would relieve the masses of the burden of democracy. This new social order would be based on the balance of power and love, something of a return to the medieval ideal of protection and obedience.

The ordinary folk would gain a new worth by giving obedience to the leader, who would in turn assume an awesome responsibility and would lead by virtue of his being "circuited" to the cosmos. Through such a redeeming philosopher-king individuals could reconnect cosmically and assume Heroic proportions through obedience to Heroes.

"Give homage and allegiance to a hero, and you become yourself heroic, it is the law of man."

HEROIC VITALISM
Hence, heroic vitalism is central to Lawrence's ideas. His whole political concept is antithetical to what he called "the three fanged serpent of Liberty, Equality, Fraternity." Instead, "you must have a government based on good, better and best."

In 1921 he wrote: "I don't believe in either liberty or democracy. I believe in actual, sacred, inspired authority." It is mere intellect, soulless and mechanistic, which is at the root of our problems; it restrains the passions and kills the natural.

His essay on Lady Chatterley's Lover deals with the social question. It is the mechanistic, arising from pure intellect, devoid of emotion, passion and all that is implied in the blood (instinct) that has caused the ills of modern society.

"This again is the tragedy of social Itfe today. In the old England, the curious blood connection held the classes together. The squires might be arrogant violent, bullying and unjust, yet in some ways they were at one with the people, part of the same blood stream. We feel it in Defoe or Fielding. And then in the mean Jane Austen, it is gone...So, in Lady Chatterley's Lover we have a man, Sir Clifford, who is purely a personality, having lost entirely all connection with his fellow men and women, except those of usage. All warmth is gone entirely, the hearth is cold the heart does not humanly exist. He is a pure product of our civilisation, but he is the death of the great humanity of the world."

Against this pallid intellectualism, the product the late cycle of a civilisation, writing in 1913 Lawrence posited: "My great religion is a belief in the blood, as the flesh being wiser than the intellect. We can go wrong in our minds but what our blood feels and believes and says, is always true."

The great cultural figures of our time, including Lawrence, Yeats, Pound and Hamsun, were Thinkers of the Blood, men of instinct, which has permanence and eternity. Rightly, the term intellectual became synonymous since the 1930s with the "Left", but these intellectuals were products of their time and the century before. They are detached from tradition, uprooted, alienated bereft of instinct and feeling. The first 'Thinkers of the Blood' championed excellence and nobility, influenced greatly by Nietzsche, and were suspicious, if not terrified of the mass levelling results of democracy and its offspring communism. In democracy and communism, they saw the destruction of culture as the pursuit of the sublime. Their opposite numbers, the intellectuals of the Left, celebrated the rise of mass-man in a perverse manner that would, if communism were universally triumphant, mean the destruction of their own liberty to create above and beyond the state commissariats.

Lawrence believed that socialistic agitation and unrest would create the climate, in which he would be able to gather around him "a choice minority, more fierce and aristocratic in spirit" to take over authority in a fascist like coup, "then I shall come into my own."

Lawrence's rebellion is against that late or winter phase of civilisation, which the West has entered as, described by Spengler. It is marked by the rise of the city over the village, of money over blood connections. Like Spengler, Lawrence's conception of history is cyclic, and his idea of society organic.

Against this pallid intellectualism, the product the late cycle of a civilisation, writing in 1913 Lawrence posited: "My great religion is a belief in the blood, as the flesh being wiser than the intellect. We can go wrong in our minds but what our blood feels and believes and says, is always true."

The great cultural figures of our time, including Lawrence, Yeats, Pound and Hamsun, were Thinkers of the Blood, men of instinct, which has permanence and eternity. Rightly, the term intellectual became synonymous since the 1930s with the "Left", but these intellectuals were products of their time and the century before. They are detached from tradition, uprooted, alienated bereft of instinct and feeling. The first 'Thinkers of the Blood' championed excellence and nobility, influenced greatly by Nietzsche, and were suspicious, if not terrified of the mass levelling results of democracy and its offspring communism. In democracy and communism, they saw the destruction of culture as the pursuit of the sublime. Their opposite numbers, the intellectuals of the Left, celebrated the rise of mass-man in a perverse manner that would, if communism were universally triumphant, mean the destruction of their own liberty to create above and beyond the state commissariats.

Lawrence believed that socialistic agitation and unrest would create the climate, in which he would be able to gather around him "a choice minority, more fierce and aristocratic in spirit" to take over authority in a fascist like coup, "then I shall come into my own."

Lawrence's rebellion is against that late or winter phase of civilisation, which the West has entered as, described by Spengler. It is marked by the rise of the city over the village, of money over blood connections. Like Spengler, Lawrence's conception of history is cyclic, and his idea of society organic.

RELIGION OLD AND NEW
Lawrence sought a return to the pagan outlook with its communion with life and the cosmic rhythm. He was drawn to blood mysticism and what he called the dark gods. It was the 'Dark God' that embodied all that had been repressed by late civilisation and the artificial world of money and industry. His quest took him around the world. Reaching New Mexico in 1922, he observed the rituals of the Pueblo Indians. He then went to Old Mexico where he then stayed for several years.

It was in Mexico that he encountered the Plumed Serpent, Quetzalcoatl, of the Aztecs. Through a revival of this deity and the reawakening of the long repressed primal urges, Lawrence thought that Europe might be renewed. To the USA, he advised that it should look to the land before the Spaniards and the Pilgrim Fathers and embrace the 'black demon of savage America'. This 'demon' is akin to Jung's concept of the Shadow, (and its embodiment in what Jung called the "Devil archetype"), and bringing it to consciousness is required for true wholeness or individuation.

Turn to "the unresolved, the rejected", Lawrence advised the Americans (Phoenix). He regarded his novel The Plumed Serpent as his most important; the story of a white women who becomes immersed in a social and religious movement of national regeneration among the Mexicans, based on a revival of the worship of Quetzalcoatl.

Through the American Indians Lawrence hoped to see a lesson for Europe. He has one of the leaders of the Quetzalcoatl revival, Don Ramon, say: "I wish the Teutonic world would once more think in terms of Thor and Wotan and the tree Yggdrasill...".

Looking about Europe for such a heritage, he found it among the Etruscans and the Druids. Yet although finding his way back to the spirituality that had once been part of Europe, Lawrence does not advocate a mimicing of ancient ways for the present time; nor the adoption of alien spirituality for the European West, as is the fetish among many alienated souls today who look at every culture and heritage except their own. He wishes to return to the substance, to the awe before the mystery of life. "My way is my own, old red father: I can't cluster at the drum anymore", he writes in his essay Indians and an Englishman. Yet what he found among the Indians was a far off innermost place at the human core, the ever present as he describes the way Kate is affected by the ritual she witnesses among the followers of Quetzalcoatl.

In The Woman Who Rode Away the wife of a mine owner tired of her life leaves to find a remote Indian hill tribe who are said to preserve the rituals of the old gods. She is told that the whites have captured the sun and she is to be the messenger to tell them to return him. She is sacrificed to the sun... It is a sacrifice of a product of the mechanistic society for a reconnection with the cosmos. For Lawrence the most value is to be had in "the life that arises from the blood"

THE LION, THE UNICORN AND THE CROWN
Lawrence's concept of the dual nature of life, in which there is continual conflict between polarities, is a dialectic that is synthe-sised. Lawrence uses symbolism to describe this. The lion (the mind and the active male principle) is at eternal strife with the unicorn (senses, passive, female). But for one to completely kill the other would result in its own extinction and a vacuum would be created around the victory. This is so with ideologies, religions and moralities that stand for the victory of one polarity, and the repression of the other. The crown belongs to neither. It stands above both as the symbol of balance. This is something of a Tao for the West, of what Jung sought also, and of what the old alchemists quested on an individual basis.

The problems Lawrence brought under consideration have become ever more acute as our late cycle of Western civilisation draws to a close, dominated by money and the machine. Lawrence, like Yeats, Hamsun, Williamson and others, sought a return to the Eternal, by reconnecting that part of ourselves that has been deeply repressed by the "loathsome spirit of the age".


Kerry Bolton

Faszination des Faschismus: Der Erlkönig

9782070366569.jpgFaszination des Faschismus: Der Erlkönig

Ellen KOSITZA

Ex: http://www.sezession.de/

Auf der Rangliste meiner Lieblingsbücher steht Michel Tourniers Der Erlkönig (dt. 1972) ziemlich weit oben. Gestern holte ich es wieder aus dem Schrank, begann mit der Lektüre und war abermals hingerissen.

Hinterher blätterte ich das Programmheft des Deutschlandfunks für Juni durch und sah: Am 6. und am 13. Juni um 18.30 Uhr sendet Deutschlandradio je anderthalb Stunden den Erlkönig (den Volker Schlöndorff als „Der Unhold“ verfilmte) als Hörspiel! Toller Zufall – oder nein: natürlich ein schicksalhaftes „Zeichen“, das so recht zu Tourniers Meisterwerk paßt, in dem dergleichen „Zeichen“ eine wesentliche Rolle spielen. Alles ist Symbol in diesem Buch, jede Beobachtung, jede Begebenheit weist auf eine übergeordnete Mission hin.

Vor Jahren habe ich mehrere Leseanläufe abgebrochen; der Stoff faszinierte mich zwar, erschien mir aber als letztlich pervers und im ganzen zu schwierig. Mittlerweile ist das Buch (es erinnert ein wenig an Patrick Süskinds „Das Parfum“) für mich ein grandioses Kunstwerk, das bei wiederholter Lektüre Schicht um Schicht entblättert.

Tournier, Jahrgang 1924, verbrachte mit seinen Eltern, einem Germanisten-Ehepaar als Kind viel Zeit in Deutschland, unmittelbar nach dem Krieg studierte er hier. 1970 erhielt er für den Erlkönig (Le Roi des Aulnes) den bedeutendsten französischen Literaturpreis Prix Goncourt. Bezogen auf die literarischen Qualitäten fand die Preisverleihung zwar einhellige Zustimmung. Einige Kritiker, allen voran Jean Amery, klagten jedoch Tourniers „bis zur Unerträglichkeit mythisierende Beschreibung der Nazi-Barbarei“ an und unkten, der Autor sei der Faszination des Faschismus verfallen. Tournier konterte, daß die wesentliche Dimension des Faschsimus eben ästhetisch gewesen sei und daß man „die Schönheit der Gewalt und des Krieges nicht verneinen“ könne. Die gesamte NS-Propoaganda sei auf Verführung angelegt gewesen, und darum gehe es auch im Erlkönig, der unter anderem auf Görings Jagdschloß und in der Napola Kaltenborn (der Name zumindest ist Fiktion) in Ostpreußen spielt. Heute, da eine Faszination durch faschistische Körper und Kulte gänzlich fernliegt – vor vier Jahrzehnten war das wohl anders – käme kaum jemand auf den Gedanken, Tournier verherrlichende Gedanken zu unterstellen. Man wird es heute eher als Brandmarkung der Brutalität dieses Systems lesen. In Wahrheit wäre auch das eine falsche Interpretation.  Im Erlkönig geht es – angelehnt an die Heiligenlegende des St. Christophorus - um die „phorische Sehnsucht“, die Sehnsucht nach Selbstverleugnung und Dienst an einer höheren Sache.

Für Tiffauges, den Erlkönig-Protagonisten ist Deutschland das Land „der reinen Idee“. Unter anderem – im Buch ist dieser Punkt freilich ein Nebenschauplatz – drücke sich das in der Sprache aus. Im Deutschen lägen „die Worte, ja sogar die Silben nebeneinander wie Kieselsteine, ihre Grenzen verwischen sich nicht. Der gewissermaßen flüssige französische Satz verschwimmt demgegenüber zu einer angenehm zusammenhängenden Einheit, die freilich in Formlosigkeit auszuarten droht. Daher kommt es, daß ein deutscher Satz, wenn er hastig oder im Befehlston ausgesprochen wird, sogleich wie Gebell klingt. Statuen oder Roboter können das in Kauf nehmen. Wir anderen aber, wir schleimigen, lauen Geschöpfe, wir ziehen das sanfte Idiom der Ile-de-France vor.“ Als „Gipfel des Widersinns“ – und gleichwohl faszinierend – bezeichnet der Franzose es weiter, daß in der deutschen Sprache mit „großer Hartnäckigkeit die Frau selbst zum Neutrum gemacht wird (Weib, Mädel, Mädchen, Fräulein, Frauenzimmer).“

So kündigt D-Radio das Hörspiel (mit u.a. Ulrich Noethen als Sprecher) an:

Der Erlkönig (1)
Die sinistren Aufzeichnungen des Abel Tiffauges (Ursendung)
Nach dem Roman von Michel Tournier

Abel Tiffauges ist Automechaniker im Paris der 30er Jahre. Unglücklich ist er und auch wieder nicht. Fremd, versponnen treibt er durchs Pariser Leben. Die Erwachsenenwelt ist ihm suspekt. Zu Kindern fühlt er sich hingezogen, und auch das nicht wirklich. Seine heimliche Liebe gilt Deutschland, einem Deutschland als Traumwelt: Hyperborea.

Wir sind Hyperboreer, wir wissen gut genug, wie abseits wir leben, heißt es bei Nietzsche. Die Umstände sind ihm günstig. Angeklagt und verurteilt für ein Verbrechen, das er nicht beging, aber begangen haben könnte, schickt man ihn zur Frontbewährung. Und so gelangt er wirklich ins Land seiner Träume.

dimanche, 13 juin 2010

Le "maître-maçon" de Nikos Kazantzaki

kazantzakis.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994

Le “maître-maçon” de Nikos Kazantzaki

 

Les éditions “A Die” publient Le Maître-Maçon, une pièce de théâtre composée en 1908 par Nikos Kazantzaki. Renée Jacquin, Présidente de l'association “Connaissance hellénique”, préface cette édition: «Parmi les ballades, légendes épico-lyriques, dont l'origine, selon S. Kyriadikis, remonte aux premiers siècles chrétiens, à l'époque de la tragédie orchestique, une des plus célèbres est celle du Pont d'Arta. Le caractère dramatique des ballades était accentué par la riche imagination populaire et souligné par une déclamation accompagnée de divers instruments. Il n'est pas douteux que tous ces éléments aient joué leur rôle dans le choix de Nikos Kazantzaki pour constituer le sujet de sa pièce Le Maître-Maçon, signée d'un pseudonyme tiré du nom d'une montagne crétoise (Petros Psiloritis). La croyance antique à l'indispensable sacrifice humain pour qu'un pont, un rempart, une ville nouvelle soient assurés de durer éternellement est à l'origine du Pont d'Arta. On retrouve dans toute la Grèce, dans les Balkans et même dans des régions bien plus éloignées ce sujet du pont qui s'effondre, malgré les efforts de quarante-cinq maçons et de soixante apprentis dit la version de Mytilène, les chiffres variant jusqu'au centuple dans d'autres textes (...) Ce serait mal connaître Kazantzaki si l'on pensait qu'il pût se contenter du simple canevas fourni par la ballade. Il a créé autour des personnages d'origine bien d' autres figures. Et, avant tout, il a exprimé dans cette tragédie de début, les grands thèmes qui traversent toute son œuvre. Revenu de Paris en Crète en 1909, il a rapporté avec lui sa thèse sur “Nietzsche dans la philosophie du droit et de la cité”. Elle lui était nécessaire à l'obtention de l'hyphygessia (équivalent de notre agrégation), titre indispensable pour être enseignant à la Faculté. Or, cette thèse avait été écrite en 1908,1a même année où il composait le Maître-Maçon. C'est dire combien la pièce est imprégnée des idées de Nietzsche qui coïncidaient à miracle avec celles de Kazantzaki, la notion du sacrifice en vue de réaliser l'œuvre d'art, celle de l'homme qui défie et domine son destin, par exemple». Cette édition nous présente le texte grec et sa traduction française (Jean de BUSSAC).

 

Nikos KAZANTZAKI, Le Maître-Maçon, Editions A Die (9 rue Saint-Vincent, F-26 150 Die). 103 pages.

 

samedi, 12 juin 2010

Mishima ed il Movimento studentesco: Zengakuren

yukio-mishima.jpgMishima ed il Movimento Studentesco: Zengakuren


Testimone della città di Tokyo in fiamme, dopo essere stata bombardata dai B-29 (dell’USAF, aereonautica statunitense), con l’uccisione di decine di migliaia di cittadini, Mishima reagì con la gloria, come fosse qualcosa di epico e maestosamente colorato. L’imperatore fu costretto a dichiarare la resa incondizionata. Le nazioni alleate posero tremende ed umilianti condizioni al Giappone. Il primo gennaio 1946 Hirohito fu obbligato a negare pubblicamente la propria origine divina, anacronismo per la materialistica mentalità occidentale, ma intollerabile per i veri giapponesi. Niente discendenza dalla dea del sole Amaterasu per il Mikado, sancita dal famigerato articolato numero 9 della Nuova Costituzione, promulgata il 3 novembre 1946, che imponeva al Giappone la rinuncia alle sue prerogative militari. La concessione perpetua dell’isola di Okinawa come gigantesca base U.S.A.. L’America non desiderava che un esercito giapponese autonomo difendesse il Giappone. Sacche di resistenza, specie a sinistra, a tali imposizioni furono placate dal governo con la favola della difesa della Costituzione, rafforzando la sua politica con vantaggi concreti senza onore. Per il Jieitai fu una ferita mortale. Il Jiminto (Partito Liberale Democratico) ed il Kyosanto (Partito Comunista), che insistevano sull’importanza della politica parlamentare, spazzarono le possibilità di ricorrere a metodi non parlamentari. Il Jieitai da figlio illegittimo della Costituzione divenne ‘’Esercito di Protezione della Costituzione’’, strumento di politici intercambiabili e degli interessi di partito.

Lo spirito del samurai virile era umiliato ed il Tate No Kai vi si ribellò, mentre nel Jieitai nessuna voce virile si levò contro l’ordine vergognoso del ‘’Difendete la Costituzione che vi rinnega!’’, silenzioso contro la logica distorta della Nazione. Il Jieitai auto ingannato ed auto dissacrato, privo di anima e spirito, limitato ad un controllo civile, fu accusato dalla sinistra di esser mercenario dell’America. Il valore dello spirito sulla vita, non era la libertà, la democrazia, ma il Giappone, con la degenerazione morale e il decadimento spirituale dei nipponici. Interpretazioni legali opportunistiche facevano dimenticare il problema della difesa, per legge il Jieitai era incostituzionale. Il Jieitai era stato oggetto di un inganno malvagio, aveva sopportato il disonore della Nazione dopo la sconfitta. Un’abnorme forza di polizia, non esercito nazionale armato senza sapere a chi dichiarare fedeltà. L’esercito proteggeva la storia, la cultura e le tradizioni della Nazione, la polizia difendeva la struttura politica. Il Giappone del dopoguerra seguì l’infatuazione della prosperità economica, dimenticando i grandi fondamenti della nazione, perse lo spirito nazionale, correndo al futuro, senza correggere il presente, piombato nell’ipocrisia e precipitato nel vuoto spirituale.

Il gioco della politica interna dissimulò le contraddizioni, mentre sprofondava nell’ipocrisia e nella bramosia di potere. La difesa dei particolarismi e degli interessi personali. Paesi stranieri si erano arrogati i piani riguardanti i prossimi cento anni della Nazione; l’umiliazione della disfatta nascosta per non essere cancellata, la profanazione della storia e delle tradizioni del Giappone, avrebbe richiesto il sacrificio della morte. Dagli anni ’50 sgretolato, anche psicologicamente, dalle bombe normali che distrussero il 75% delle città e le atomiche ipercriminali, l’Impero del Sole Levante fu deformato e riconfigurato nel secondo dopoguerra dagli U.S.A. a propria immagine e somiglianza. Il periodo post-bellico e post bomba atomica, gli orrori sociali della ricostruzione, l’asservimento economico, militare e culturale agli Stati Uniti, gli anti-corpi libertari, sessuali e ‘’criminali’’ concepiti dalle nuove generazioni, regolarmente e psicoticamente represse. Il Giappone era svenduto al ‘’modus vivendi’’ dell’occidente statunitense; al mito del ‘’Nuovo Giappone dei transistors’’. Il motto di Mishima era: ‘’Ciò che trasforma il mondo non è la conoscenza ma l’azione’’, ‘’In nome del passato abbasso l’avvenire!’’.

Cosciente della vita e della cultura integrale fu chiamato al sacrificio di sé stesso per difendere la continuità stessa di questa vita. ‘’Nella limitatezza dell’umana vita, io scelgo la vita dell’eternità’’. Il suo suicidio futuro fu esaltazione poetica della vitalità e grandezza patriottica dello scrittore, della lealtà e fedeltà all’Imperatore ed ai valori tradizionali da questo incarnati, spinta agli estremi livelli, dovere primario di ogni giapponese. Un romanticismo ridondante sul tema della Seconda Guerra Mondiale e il Giappone, in parallelismo con D’Annunzio. Per i giapponesi di ogni tendenza politica, l’esperienza bellica era un innegabile punto di riferimento esistenziale e politico. La sconfitta in guerra era un fattore comune ed il turning point più rilevante del Novecento. Immane esperienza con un indicibile senso di felicità , l’epoca del ‘’Tenno kai Banzai’’ (‘’Viva l’imperatore’’) dei piloti kamikaze era perduta, per cui il ‘’senso di felicità’’ dell’adolescente Mishima che aveva intravisto la guerra nella forma di una ‘’luce di lampo’’, con la sconfitta, naufragò miseramente. Mishima era cresciuto in un’atmosfera di magnifico apprezzamento per la morte, che portava al militarismo romantico della metà e della fine degli anni ‘60. Si avviò a vivere nel dopoguerra ‘’un’epoca fatta di finzioni’’, ‘’un invecchiamento in tutt’armonia’’, venticinque anni ‘’incredibilmente lunghi’’ per poi far vibrare con acciaio e sangue, il cuore degli uomini, lo scorrere della storia.

Nel mondo si sviluppava il movimento studentesco; l’Occidente viveva l’era turbolenta, viva e creatrice degli anni ’60 e ’70 attraverso le sue proteste e i suoi movimenti radicali, con la Guerra del Vietnam come principale obbiettivo della rabbia degli attivisti. Oriente, Cina di Mao e Guardie Rosse divennero fonte d’ispirazione per i Weathermen ed altri gruppi radicali occidentali. L’origine e l’ascesa del gruppo radicale dalla nascita dell’attivismo studentesco in opposizione alla ratifica dell’ANPO, Trattato di Reciproca Cooperazione e Sicurezza tra Giappone e Stati Uniti firmato nel maggio 1960, sotto il governo del Primo Ministro Nobusuke Kishi, con cui si sancì, una sudditanza del Giappone agli U.S.A., dietro il paravento della collaborazione militare, dato che il Sol Levante fornì basi militari agli americani e confermò la rinuncia ad ogni intervento bellico. Gli U.S.A. si impegnavano a garantire al Giappone la loro protezione militare. I giapponesi, feriti nel loro orgoglio, reagirono violentemente: si registrarono disordini, le prime proteste e lotte contro il supporto giapponese agli U.S.A. durante la Guerra del Vietnam, resistenza che sfiorò la rivolta. Nessun suicidio rituale per protesta dai generali, quando il Trattato di Antiproliferazione Nucleare, che concerneva i piani a lunga scadenza della politica nazionale, identico al Trattato ineguale del 5-5-3, di sicurezza nippo-americano, il Giappone offriva basi militari agli U.S.A. e confermava la rinuncia alla guerra. Mishima si schierò subito con i rivoltosi.

Fino agli anni ’60 Mishima si era ritenuto di sinistra, contattato dal JCP (il Partito Comunista) per arruolarlo come membro negli anni ‘50. L’amico di Mishima, Kobo Abe, eccellente scrittore, era un membro del JCP ed era stato espulso dal partito per anticonformismo. Mishima aveva rappresentato il disagio dei valori, nella società giapponese che si stava americanizzando, condannata a vivere eternamente il suo dopoguerra; il Giappone non si riconosceva più, abbandonato, corrotto. Il romanzo ‘’Dopo il banchetto’’ segnò il suo ingresso, vibrante e violento, in politica. Stigmatizzò duramente il mercanteggiamento elettorale a cui erano dediti i politici ed i costumi dell’alta borghesia.

Conosceva i meccanismi e gli interessi dei partiti. Scopriva un mondo in febbrile e tumultuosa agitazione fuori di sé, percorso da fermenti che indicavano la volontà di superare il dopoguerra. Dimostrazioni scoppiarono in Tokyo, sotto lo striscione del Zengakuren o Zen-nihon gakusei jichikai (Federazione dell’Autogoverno Studentesco del Giappone o Lega delle Unioni degli Studenti di Tutto il Giappone), un sindacato nazionale studentesco giapponese , associazione estremista di studenti marxisti-leninisti, sorta nel 1948 dall’unione di circa centinaia di migliaia di studenti universitari di estrazione non solo marxista ab origine, i quali, come espressione del malcontento, protestavano contro l’aumento delle tasse d’iscrizione ai corsi universitari ottenendo simpatie tra la popolazione nelle agitazioni del movimento degli studenti negli anni ’60. Il sindacato studentesco è stato protagonista di numerose proteste: da quella contro la guerra in Corea alla questione delle basi americane sul suolo giapponese sino alle grandi manifestazioni di protesta del 1968.

La lotta anti-ANPO giunse al culmine il 15 giugno 1960, quando all’Università di Tokyo la studentessa Michiko Kanba fu uccisa in uno scontro nei disordini con polizia di fronte al palazzo della Dieta. Sebbene la legislazione di ratifica del trattato fu approvata, la visita programmata in Giappone dal Presidente degli U.S.A. Dwight D. Eisenhower fu cancellata, e Kishi si dimise. Le sommosse stimolarono la sua fantasia e lo spinsero a scrivere nel 1960 ‘’Yukoku’’ (Patriottismo), racconto letterario e civile che lo introdusse nell’estrema destra sullo sfondo della Rivoluzione Conservatrice del 26 febbraio 1936 quando a NI NI Roku il movimento dei giovani preparò l’insurrezione, di una parte dell’esercito, contro il sistema asservito agli interessi dell’alta finanza, per promuovere l’autentica restaurazione imperiale. Una ventina di giovani ufficiali occuparono la zona dei ministeri adiacente il palazzo imperiale riuscendo ad assassinare delle personalità del mondo politico finanziario che comparivano sulla loro lista nera. Chiesero le dimissioni del governo, considerato traditore, l’avocazione di tutti i poteri militari da parte dell’Imperatore, una grande restaurazione Dhwa. Il proclama fu respinto da Hiro Hito, influenzato dagli ambienti finanziari contro cui insorsero i giovani ufficiali presi dal loro viscerale amor di Patria. L’Imperatore ordinò all’esercito di reprimere la sedizione e dichiarò gli insorti ‘’traditori’’.

Gli ufficiali si arresero senza opporre resistenza. Due di loro fecero seppuku, sedici furono condannati a morte nel nome dell’Imperatore che volevano sottrarre al condizionamento dell’alta finanza. La vicenda del protagonista di ‘’Yukoku’’, un giovane tenente della guardia imperiale tenuto all’oscuro, dai colleghi, dell’insurrezione preparata, perché sposo, da pochi mesi, di una giovane donna di rara bellezza. Allo scoppio della rivolta fu convocato d’urgenza dal suo comando, ma, preferì disertare ed uccidersi invece che sparare ai suoi camerati che si erano’’ammutinati’’ per la Patria e per l’Imperatore. La moglie si suicidò con lui, dopo un amplesso appassionato: l’ufficiale seguendo l’antico rito dei samurai, la donna conficcandosi un pugnale in gola. Eroismo e morte eroica ricorrevano anticipando, lo scenario della fine dello scrittore. Dal racconto Mishima trasse nel 1965 un film che diresse ed interpretò. Poi scrisse, ancora ispirandosi al fatto di NI NI Roku, il dramma ‘’Il crisantemo del decimo giorno’’ (1960) e l’elegia ‘’La voce degli spiriti degli eroi’’ (1966) in cui il motivo conduttore era il perché l’Imperatore fosse dovuto divenire un comune mortale. Mishima descrisse una cerimonia shintoista immaginaria in cui si richiamavano le anime dei giovani ufficiali e dei kamikaze.

Gli uni rimproveravano all’Imperatore il rifiuto di sanzionare la loro insurrezione del febbraio ’36, gli altri di aver tradito la loro fede ed il loro sacrificio quando aveva accettato il nungen sengen, la dichiarazione di rinuncia alla sua natura divina imposta dagli americani. Con queste tre opere, raccolte in un volume nel 1970, Mishima mosse una dura critica all’Imperatore e si guadagnò l’antipatia di una certa destra, oltre che l’amicizia scontata dell’estrema sinistra. Tokyo fu migliorata per le Olimpiadi estive del 1964, nuove autostrade e del shinkansen (treno proiettile); trasformazioni della società libera, il popolo si illudeva che le colpe degli anni di guerra potevano essere dimenticate. La scena artistica esplodeva: una nuova generazione di cineasti, l’iconoclasta e radicale Nagisa Oshima, nei film ‘’Seishun Zankoku Monogatari’’ (Storia crudele della gioventù) e del ’69 ‘’Shinjuku Dorobo Nikki’’ (Diario del ladro di Shinjuku), i temi del giovane amore e della violenza, descrivendo quelli come le ribellioni contro la stabilità; soffocando la vecchia generazione, che aveva fallito in Giappone.

Masaki Kobayashi, nella sua monumentale trilogia di 9 ore, ‘’Ningen no Joken’’ (La condizione umana) del 1959-’60, descriveva la vera storia della guerra ed il suo effetto sui forzati a combatterla. La cosiddetta angura (movimento teatrale underground). Lo splendido Juro Kara, commediografo, artista in un’enorme tenda rossa, ridefinì il rapporto tra attore ed audience, ed elevò un nihilismo poetico. Minoru Betsuyaku scrisse la sua migliore opera, ‘’Zo’’ (Elefante), la storia di un sopravvissuto ad Hiroshima che vuole che il popolo giapponese non dimentichi. Shuji Terayama creò metaforicamente lavori drammatico surrealistici nel suo spazio Shibuya, Tenjo Sajiki, raccolse telespettatori nel suo giro d’Europa. Il fotografo Moriyama Hiromichi (Daido), designer grafico freelance a Osaka, usò il nuovo Giappone come soggetto centrale del suo lavoro. Il cambiamento radicale e vertiginoso del modello di società isolata e tradizionale in pratiche contemporanee, il paradosso di una cultura che considerava la trasformazione liberatoria e sconvolgente, scioccante ed irresistibile. Nel ’60 studiò fotografia con Hosoe Eiko a Tokyo e nel collettivo in scioglimento di fotografi VIVO.

Nel ’62 tramite Hosoe incontrò Mishima, di cui fu avido lettore, senza condividerne l’ideologia politica che in parte si rapportò agli interessi fotografici di Daido. Espressionista, con un erotismo intenso e oscuro ed un’inclinazione verso la drammaticità, comprese i conflitti nella società giapponese, l’accettazione della cultura occidentale dei vincitori e la ricerca di un’identità giapponese separata orgogliosamente, conflitti riecheggiati in Mishima. Daido fondeva i due mondi di Mishima: società convenzionale, proibito e tragico, usando il linguaggio popolare e diretto della fotografia. A Zushi, sobborgo di Tokyo, vicino alla base navale americana di Yokosuka, dove scattava foto istantanee nella base, con l’amico Nakahira Takuma, fotografo editore della rivista ‘’Gendai no me’’ (L’occhio moderno). Un saggio fu dedicato alla base americana di Yokosuka, importante per le sorti della guerra in Vietnam, conflitto che alimentò i sentimenti antibellici della sinistra e del movimento studentesco. Lo spirito di ribellione che spezzava i legami con la tradizione, gli ideali di democrazia e modernità.

Mentre il suo dominus Tomatsu Shomei era critico verso l’invasione della cultura americana in Giappone, senza novità e liberazione, ma con tratti sinistri e minacciosi; Daido vedeva nell’americanizzazione trasformazioni individuali, da outsider, il mondo enigmatico del teatro come vita, o Giappone come teatro. Intensificò la sua amicizia con Nakahira, intellettuale marxista vicino ai movimenti rivoluzionari studenteschi, che aveva fondato la rivista ‘’Provoke’’ nel ‘68 e lo aveva introdotto in un’atmosfera di ideali politici ed esistenziali di sinistra, che si riflessero in immagini scure, inquiete e incerte.

Nel 1967 con Yasunari Kawabata, Jun Ishikawa, Kobo Abe, Mishima firmò il manifesto contro la ‘’Rivoluzione culturale’’ cinese. Mishima in un’intervista al Sunday Mainichi nel marzo 1968, ribadì le proprie convinzioni riguardo all’Imperatore. Il kokutai, il sistema nazionale aveva cessato di esistere in conseguenza del nungen sengen dell’Imperatore. Da ciò il marasma morale postbellico. Ideale plasmato nell’ ‘’Amore per la naturalezza, gli dei nell’ideale, il culto del passato, cerimonie e cortesia come regole di condotta, nella difesa della bellezza, nella visione poetica del mondo’’. Mishima nel suo saggio ‘’Tate No Kai’’ sulla rivista inglese ‘Queen’ scrisse sulla Costituzione pacifista, di essere stanco dell’ipocrisia del dopoguerra giapponese, dato che la Costituzione pacifista era stata usata come alibi politico sia da destra che da sinistra, non credeva che ci fosse altro Stato in cui il pacifismo fosse sinonimo di ipocrisia. In Giappone il modo di vita onorato era quello di una vita senza pericoli, un po’ sinistrorso dei pacifisti e dei sostenitori della non-violenza. L’esagerato conformismo di tali intellettuali convinse Mishima che tutti i conformismi erano una iattura e che gli intellettuali avrebbero dovuto condurre un modo di vita pericoloso.

L’influenza degli intellettuali e dei salotti socialisti si era sviluppata in modo assurdo e ridicolo. Intimavano alle madri di non dare ai propri bambini giocattoli come armi da fuoco e consideravano militaresco mettersi in fila e numerarsi ad alta voce col risultato che i bambini si radunavano in modo sciolto e sfibrato come un gregge di deputati. L’azione del gruppo del Tate-No-Kai fu un atto simbolico per avviare il processo di revisione della Costituzione e la trasformazione del Jieitai in un legittimo esercito nazionale. Il fallimento apparente di tale tentativo segnò la cesura tra due mondi della Destra giapponese: quella controrivoluzionaria degli anni sessanta e quella, più autentica, nuova e radicale degli anni settanta ( Shin-Uyoku). Il Tate-No-Kai fu concepita come struttura di attacco: centinaia di uomini lottavano a mani nude contro gli studenti dello Zengakuren. Il discorso golpista supponeva la morte dell’orda di ultra sinistra e obbligare i militari ad attuare, ristabilendolo, il codice d’onore ed abolendo i costumi occidentali. Il prodursi nel 1969 di una delle più gigantesche e violente manifestazioni dell’ultra-sinistra, disciolta dagli antisommossa senza provocare una vittima, fece comprendere che tal progetto doveva avere interesse: l’imperatore non era indifeso, aveva i ‘’grigi’’ locali.

L’associazione non partecipava alle dimostrazioni di piazza ma si teneva pronta per ogni evenienza ad uno scontro decisivo con i nemici del Giappone, anche se dipendeva dal denaro e dai fondi ricavati dai diritti d’autore che Mishima percepiva dalle vendite dei suoi manoscritti. Nel 1968 Mishima era stato invitato ad un raduno della destra radicale per un dibattito, criticava il conformismo, specie quello di sinistra, scegliendo un’esistenza avventurosa, contro gli intellettuali effeminati ed il socialismo da salotto dell’èlite intellettuale. Conservava l’inclinazione militarista ed ultranazionalista dell’anteguerra. Lo spirito del samurai era estinto, perchè antiquato rischiare la propria vita per un’ideale. Prevaleva il mercantilismo liberale filoamericano, perciò gli studenti affrontavano violentemente gli intellettuali per difendere le idee ma era troppo tardi. I disordini studenteschi nelle università e nelle scuole superiori nipponiche ricordavano a Mishima gli scontri con i filosofi Sofisti, antagonisti di Socrate, che isolarono i giovani dell’agorà (piazza) che si era rivoltata. I giovani e gli intellettuali avevano il compito di vivere tra ginnasio e agorà per difendere la propria opinione con il corpo e le arti marziali oltre lo scambio delle opinioni. La strategia militare dell’invasione indiretta, la lotta ideologica finalizzata da una potenza straniera, la contesa tra chi violava l’identità nazionale e chi la difendeva; la lotta popolare sotto forma di nazionalismo o di combattimento delle milizie irregolari contro l’esercito regolare.

Nel luglio 1968, Mishima fu ricevuto dal ministro delle finanze Fukuda, suo ex compagno di università, cui espose un piano di riarmo militare e spirituale, fondato sulla tradizione patriottica e sull’esempio dei samurai. Fu deluso, mentre il Ministro della Difesa nazionale lo invitò a partecipare a grandi manovre. Nell’agosto divenne IV° Dan di Kendo e conobbe il venticinquenne Masakatsu Morita. Nel ’69 con 45 studenti Mishima effettuò un’esercitazione militare nel campo di Go Tenba. Si sottopose alle lezioni di Iai ed in tre mesi ottenne il grado di primo Dan, mentre in aprile partecipò ai campionati mondiali di Kendo, karatè, arti marziali, culto delle armi, azione, ardimento degli antichi samurai, preparandosi ad un’eventuale ipotetica lotta armata.

Il 13 maggio 1969 Mishima fu invitato all’Istituto di Cultura Generale all’università di Tokyo, presso la città universitaria di Komaba, ad un dibattito sulla terra madre, organizzato dal movimento studentesco di estrema sinistra Zenkyoto, rifiutando la protezione della polizia e dei suoi cadetti del Tate No Kai, insultando i suoi ospiti. Prese coraggio: davanti agli stessi studenti che avevano già dimostrato, prendendo degli ostaggi. Il giorno del dibattito, comparve all’entrata della sala, da solo. La sua sola protezione era il haramaki tradizionale, la lunghezza del panno di cotone fasciata strettamente intorno allo stomaco per deviare la spinta della lamiera di un ipotetico assassino. Nella sala duemila studenti stavano ascoltando la discussione. All’entrata vi era un manifesto che annunciava il dibattito, con una caricatura di Mishima come ‘’gorilla moderno’’. Mishima durante il suo dibattito con gli allievi di Zenkyoto indicò: ‘’ero nervoso al momento come se stessi entrando nella tana del leone, ma io l’ho goduta molto, dopo tutto. Ho trovato che abbiamo un mucchio di cose in comune – un’ideologia rigorosa e un gusto per la violenza fisica, per esempio. Sia loro che io rappresentiamo oggi la nuova specie nel Giappone. Ho conservato la loro l’amicizia. Siamo amici fra cui v’è un recinto di filo.’’

La conversazione fu nel complesso pacifica, sia pur interrotta da fischi ed esclamazioni di dissenso, Mishima espose le sue osservazioni ed asserzioni di stima per il movimento studentesco, cercando di dirottarne l’attenzione sulla necessità di un ritorno alla Tradizione, intesa in senso impersonale, per vendicare l’onore della figura dell’imperatore, della patria e del popolo nipponico nella decadente e corrotta società consumistico-liberale del Giappone yankeezzato. All’università di Tokyo Mishima affrontò coraggiosamente gli studenti in rivolta, nel tentativo di incontrare il rettore, tenuto prigioniero. Mishima era l’unico scrittore di ‘’estrema destra’’ in Giappone, mentre i professori universitari, gli studenti ed il mondo dell’editoria erano vicini al Partito Comunista Giapponese o segretamente si imboscava nelle istituzioni. Appellandosi alle tradizioni tradite, Mishima incitò gli studenti a risvegliare l’antico orgoglio dei guerrieri per i valori tradizionali che il processo di modernizzazione aveva cancellato. Il fanatismo, la ricerca dell’estetica della morte tragica, doppio suicidio per amore e follia, divennero un ossessione dominante, parabola tipica della tradizione Zen. Mishima non fu fascista o imperialista, ma lealista e nazionalista di estrema destra. La fedeltà al proprio Signore o Shogun (generale) dei cavalieri (Daymos o Signori) della nobiltà guerriera in epoca feudale nel XII secolo, strumenti di potere degli Shogun fino alla restaurazione imperiale Meiji del 1868, dopo la sconfitta, conseguente combattimenti secondo ferree regole di lealtà ed onore del codice d’onore dei guerrieri Bushido, qualora fossero in procinto di essere catturati, si davano la morte.

L’azione significava espiare, riparare, un esame di coraggio psichico ed una forma, degna di rispetto. Il guerriero Bushi, dopo una formazione psicologica del samurai, accettava la morte liberamente come scelta di un’azione più nobile e bella dell’essere umano. Nei secoli successivi l’atto fu comandato dai superiori dell’esercito nipponico a chi violava gli ordini o tradiva. Presso gli ufficiali, significava auto immolarsi per una causa superiore; come, poi, i piloti dei bombardieri dei caccia ‘’zero’’ giapponesi che si gettavano in picchiata sulle navi da guerra, durante la Seconda Guerra Mondiale, i Kamikaze, (‘’Vento degli dei’’, termine derivato dal tifone che salvò il Giappone dall’invasione della flotta mongola, affondandola, nel 1821), esempio dell’idea fissa di eroismo nella guerra del Pacifico. La purezza, l’ardimento, il sacrificio di giovani corrispondevano a modello leggendario di eroe, ed il loro fallimento e la loro morte li trasformava in autentici eroi. Scrivevano poesie e si equiparavano a maestri di spada, gareggiando fra loro per il primato nel combattimento ravvicinato uno contro uno, facendo gare di merito per ricevere onori massimi. Lo spirito dei samurai era corrotto e deformato a causa della debolezza militare delle forze armate giapponesi.

Un proverbio giapponese, estrapolato dal ‘’Mutsuwaki’’, cronaca di guerra di un autore sconosciuto (1051-1062), ammonisce che ‘’Il valore della vita, nei confronti del proprio dovere, ha il peso di una piuma’’. Il pilota kamikaze sull’attenti recitava la massima del ‘’Mutsuwaki’’: ‘’Adesso abbandono la mia vita, per la salvezza del mio Signore. La mia vita è leggera come la piuma di una gru. Preferisco morire affrontando il nemico, piuttosto di vivere voltandogli le spalle’’. Il Corpo dei kamikaze ha rappresentato un fulgido esempio di sprezzo della morte, l’incarnazione degli alti valori morali dei Samurai, per la Destra giapponese quella che fomentava ed auspicava un ritorno alle tradizioni del paese, imbarbarito dall’occidentalizzazione.

Nel 1938 fu decretata la legge per la mobilitazione nazionale e due anni dopo, il 27 settembre, fu concluso tra il Giappone, la Germania e l’Italia il Patto Militare tripartito, detto ‘’Ro.Ber.To.’’ (Roma-Berlino-Tokyo). Tutte le fazioni di destra si erano unite ed il paese fu avvolto in fervori nazionalistici, nel culto del Divino Imperatore, nell’ultrapatriottismo e nel militarismo. Non solo il popolo giapponese, con la sua educazione confuciana ed il culto di antica data per qualsiasi modello guerriero, non tentò nessuna seria resistenza al nuovo sistema, ma si mostrò ebbro di questo ideologico sakè vecchio e nuovo.

Le organizzazioni politiche di destra usarono, fin dai tempi bellici, i piloti kamikaze, come simbolo di un Giappone militaristico, colonialista ed estremamente nazionalistico, ultra-nazionalistico; la maggior parte dei giapponesi odierni, vedono il soggetto con ignoranza e come un falso stereotipo, commentandolo con toni negativi e di scarsa simpatia. Il Fascismo giapponese non fu eguale al Fascismo italiano o al Nazionalsocialismo tedesco, ma peculiare per il differente ‘’modus cogitandi’’ nipponico. Per designare questo periodo impregnato di totalitarismo si preferiva usare i termini ‘’Nihon-shugi’’ (Giapponismo, termine vago utilizzato da fonti nazionalistiche per enfatizzare l’unicità e superiorità di ciò che è politica, cultura e società giapponese) e ‘’Tenno-Sei‘’ (Sistema Imperiale o ‘’Fascismo Tenno Sei’’ o Fascismo militarista’’). Lo studioso F. Mazzei: ‘’la nascita del fascismo giapponese appare un fatto più naturale o per meglio dire ‘’meno patologico’’ che non in Italia e in Germania’’.

I capi nipponici avevano una istruzione formale ‘’top’’conseguita in università imperiali e/o Accademie Militari Imperiali; erano ‘’drogati’’ unicamente di devozione al loro Imperatore/Dio. Per i piloti kamikaze si addice il motto inscritto sulla lapide in ricordo della battaglia africana di El Alamein in Egitto: ‘’Mancò la fortuna, non il valore’’, che conta in positivo per il culto per la bellezza della sconfitta. Durante il Regno dell’Imperatore Showa, (1926-‘45), Hiroito, Principe della Corona, l’esercito divenne la vera autorità, la presenza dell’Imperatore era quella di un Dio e la Sua fu una figura più religiosa che politica. Nelle poesie ‘’Haiku’’ scritte dai piloti kamikaze, l’Imperatore era nominato alla prima riga.

La struttura sociale e gli schemi di pensiero ed azione dei secoli precedenti dominati dai guerrieri storici giapponesi non si estinsero dopo il 1945, anzi perdurarono sotto altre forme, nel governo, nel mondo affaristico capitalista, nel sistema educativo, nella vita sociale, con la teoria de’ ‘’Il libro dei Cinque anelli’’ del samurai Myamoto Musashi, scritta nel XVII secolo, fondatore della scuola delle ‘’due spade’’. Mishima condivideva con l’estrema sinistra una forma di protesta contro l’americanizzazione cruenta ed il capitalismo del Sol Levante. In lui arti marziali, filosofia e spiritualità si fondevano permettendo all’individuo di raggiungere la perfezione nel Bushido.

Era fra gli ultimi rappresentanti della cultura, della storia e delle tradizioni giapponesi e del culto dell’imperatore, con la battaglia combattuta fino alla morte. Un ponte, confronto/scontro fra due weltanschauung accomunate da un parallelismo di due sponde, due rive di un medesimo fiume vitale che come due rette in geometria all’infinito si incontrano, nel frattempo potevano esplorare insieme un percorso omogeneo o simmetrico nel reciproco rispetto per un futuro fulgore per entrambe. Mishima aveva speso appieno la sua vita in militanza sulla terra per épater le bourgeois, elevando alla massima potenza la sfida all’opinione pubblica che solo Tanizaki aveva tentato. Nelle università i giovani studenti erano in agitazione, specie a Tokyo, nel movimento studentesco in lotta, lo Zengakuren (non ancora Zengakuren Zenkyoto). L’azione politica dello Zengakuren presentava una sorta di tensione artistica. Gli studenti aderenti mescolavano i loro sogni infantili al mondo degli ideali e della politica. L’insoddisfazione, da cui nasce anche l’arte, è comune a ogni rivoluzione, anche se coronata da successo.

La rivoluzione o risolvere con metodi violenti i problemi in cui il popolo si dibatteva a causa delle contraddizioni della società, sognava un ordine ideale, da instaurare dopo la rivoluzione. La passione rivoluzionaria esigeva l’esistenza di irrefrenabili tensioni vitali, di miseria, di terribili contraddizioni sociali di particolari condizioni contingenti. La figura dell’uomo politico ligio al mantenimento dell’ordine degenerò nel simbolo di un tedioso e grigio conformismo, privo di alcun attrattiva. La passione rivoluzionaria diede inizio ad un’azione violenta in un anarchismo caotico, non supportato dalla presenza di atroci contraddizioni sociali o di un’effettiva miseria.

La rivoluzione propugnata dagli studenti non era ispirata da alcun principio in grado di suscitare la simpatia delle masse. Quest’idea rivoluzionaria si propagava nel mondo, trascinando nel vortice della confusione e della rivolta ogni paese. La tendenza a proiettare nel mondo dell’azione concreta aspirazioni che andrebbero rivolte all’arte, incapace di soddisfarle, riverberando le sue inquietudini esistenziali sulle angosce della società; saggia la vita producendo artificialmente uno scontro con la morte, a testimoniare tali esigenze con un’azione di lotta. Una simile artificiosa condotta politica non si limitava al nazismo tedesco ma si era diffusa nel mondo. La trasformazione politica dell’arte, la metamorfosi artistica della politica. Se l’arte è un sistema innocente, l’azione politica ha come suo principio base la responsabilità. L’azione politica è valutata in base ai risultati, è ammesso un movente egoistico ed interessato, purchè conduca a splendidi risultati; al contrario un’azione ispirata a un principio etico, che approdi ad un esito atroce, non esime chi l’abbia compiuta dall’obbligo di assumersi le proprie responsabilità. La situazione politica moderna ha introdotto nella sua sfera d’azione l’irresponsabilità dell’arte, riducendo la vita ad un concetto fittizio; ha trasformato la società in un teatro, il popolo in una massa di spettatori televisivi, producendo la politicizzazione dell’arte; l’azione politica non assurge all’antico rigore della concretezza e della responsabilità.

Le battaglie di fronte alle barricate nell’edificio Yasuda, all’Università di Tokyo, suscitarono l’interesse di una moltitudine di telespettatori, stanchi del solito sceneggiato. Uno spettacolo in cui gli attori scrissero sui muri ‘’Moriremo magnificamente’’, ostentando risolutezza all’atto estremo, ma non morirono, si arresero alla polizia. Nel moderno Giappone ci si adattava ai criteri della maggioranza senza vita militare, sopravvivendo all’iter per la formazione di casa e famiglia.

Lo Zengakuren radicalmente si mostrava audace ed affrontava energicamente la polizia, che reagiva pacatamente. Nè coraggiosi veri né codardi. La vita si confrontava con la morte. La teoria dell’azione, che definisca il limite fra situazione normale e di emergenza. Una tensione spirituale continua nel corso degli eventi quotidiani, la tensione nell’attendere virilmente il pericolo, nel rispetto delle regole morali di etichetta. Gli studenti che partecipavano a dimostrazioni politiche e si opponevano al governo, benché si ribellavano al potere, esigevano nei reciproci rapporti un rigoroso rispetto delle differenze gerarchiche tra studenti di classi superiori e inferiori. Apprendevano che ovunque agiva il desiderio di potere, la volontà di affermare un dominio, s’imponeva un’etichetta, un codice di comportamento, seguendo il quale si accresceva la propria autorità. Etichetta o comportamento secondo buona educazione esaltava la virilità negli uomini, per obiettivo di conquista. Le regole velavano il radicale antagonismo tra i partecipanti per la vittoria. L’etichetta è la corazza che difende l’uomo vero. L’autocontrollo e le norme di comportamento esaltano la bellezza virile.

Esaltavano lo spiritualismo della filosofia dell’azione dei giapponesi. La sublimazione di un egocentrismo prossimo ad un super-Io nietzschiano nel seppuku, contro il Giappone annichilito e corrotto, inserito nell’inquieta ricerca dell’autentica vitalità della sua carriera, in cui vita e opera letteraria, aspetti inscindibilmente legati, spingendolo a definire i suoi ultimi anni come ‘’Fiume dell’azione’’, che con prosa, teatro e corpo convergevano nell’Universo Mishima. Lo spiritualismo giapponese disprezza il corpo, diversamente dall’edonismo materialistico americano. Mishima viveva in un punto equidistante tra due stereotipi estremi di due diverse civiltà. La passione è il contrario del piacere, nel sesso. Provoca sofferenze e rischi gratuiti; nei giovani il desiderio sessuale si trasforma in passione, mentre negli adulti diviene piacere. I moderni liberano il sesso dalla passione, il piacere richiede denaro.

Gli adulti erroneamente definivano i movimenti studenteschi dello Zengakuren come un’inevitabile conseguenza dell’abolizione delle case chiuse. Il movimento studentesco divenne sempre più estremista, essendo influenzato dalla Nuova Sinistra, effettuando manifestazioni violente, con il lancio di bombe incendiarie, occupava le università che chiudevano, lottava contro il coinvolgimento del Giappone nella guerra degli U.S.A. in Vietnam nel 1961, contro la corruzione dei funzionari delle università e la crescita della spesa per l’istruzione controllata. Nel 1968 l’imponente movimento partecipò alle proteste ed alle occupazioni universitarie e delle scuole secondarie superiori, essendo costituito da studenti, docenti, personale non docente, ricercatori universitari, assistenti universitari, alcuni professori di ruolo, costituendo la Commissione d’Interfacoltà di lotta, Zenkyoto. Vi furono pure attacchi e scontri violenti con la polizia all’ambasciata U.S.A., poi l’ala più estrema degli studenti formò l’Armata Rossa Sekigun-ha, organizzazione clandestina armata nata nel 1969 dalla fusione di quattro gruppi studenteschi della sinistra rivoluzionaria: Chukaku; Kuhohern; Kehin Ampo; Kakam aru. Di ispirazione maoista ed antiamericana, per la rivoluzione proletaria in Giappone e, poi, internazionale con la Nihon Sekigun nel 1971 o strettamente nazionale con l’Armata Rossa Unita o Rengo Sekigun, organizzazioni terroristiche.

Un nuovo modello sociale dal 1967; polemiche prosperarono ed incoraggiarono una consapevole comunità di cittadini; l’agitazione nel mondo aveva scosso il Giappone. La guerra in Vietnam fece detonare le dimostrazioni di massa. Ad ottobre 1967, uno studente fu ucciso all’Aeroporto Haneda durante la protesta Zengakuren contro la visita del Primo Ministro Eisaku Sato al Sud Vietnam. Nel 1968, 3000 lavoratori dimostrarono all’Aeroporto di Osaka contro l’uso militare americano delle strutture.

Da maggio 1968, più di un milione di persone marciarono a Parigi, il governo francese barcollava. Il governo Dubcek in Cecoslovacchia stava dando un volto umanitario al comunismo fino all’invasione dell’U.R.S.S. e allo strappo della facciata per sbriciolarla in agosto . Molte persone giapponesi riconobbero che, dal 1968, con un secolo trascorso dalla Restaurazione Meji, l’economia stava esplodendo, accompagnata da bizzarre predizioni di un Giappone diveniente n.1 nel mondo. La società giapponese si riformava con democratiche linee, creando un sistema di due partiti e una struttura di stato assistenziale. Il governo arco – conservatore di Eisaku Sato, rieletto nel febbraio 1967 e poi di nuovo nel gennaio 1970, diede il messaggio al popolo giapponese: mai tanto benessere.

La logica della classe dirigente pretese un ulteriore sacrificio dal popolo, la repressione continua della libertà individuale ed il bene sociale liberalizzato negli interessi di uno sviluppo industriale. Il collasso del sogno del 1960 di un più aperto e socialmente tollerante Giappone, scatenò le lotte interne al movimento studentesco. Il movimento stava soccombendo all’anarchia ed alla devastazione, poi il Giappone assunse un altro corso, incanalando un remissivo e conforme popolo nelle mani di un governo determinato ad arretrare ai ‘’buon vecchi tempi’’, quando l’orgoglio nazionalistico dominava la coscienza della nazione. La massa compatta e armata di lunghi bastoni di Zengakuren, studenti organizzati dell’estrema sinistra, resta un’immagine indelebile del carattere nazionale e di massa di quelle lotte sessantottine. Nel ‘70 erano organizzati in gruppi che poi lo stato smontò abilmente e fece sparire.

Un poderoso movimento studentesco, contadino e operaio, patriottico (Mishima), rosso e rivoluzionario, che nessun partito socialista e comunista riuscì a comprendere, contenere e guidare, combattè per oltre 20 anni, dalla fine degli anni 50 alla fine degli anni 70, per non immolarsi di fronte allo sfruttamento del lavoro intenso, ‘’sviluppo economico’’. Il Giappone era nel 1968 il paese della coscienza critica e delle manifestazioni ordinate in fila indiana. La società del dissenso si arrese quarant’anni fa senza ritrovare il filo del discorso.

La guerra in Vietnam, in quel periodo migliaia e migliaia di persone scesero in piazza a Shinjuku per protestare contro il passaggio quotidiano di treni che trasportavano armi che sarebbero servite per uccidere delle persone. Gli studenti rivoluzionari persero tutte le battaglie: l’inquinamento e la cementificazione completi del paese furono incoraggiati; venne aperto il famigerato aeroporto di Tokyo di Narita incaricato di bombardare il sud est asiatico palesemente e segretamente, le organizzazioni sindacali falcidiate, il partito liberaldemocratico andò al governo a vita. Il ’68 giapponese fu il più difficile da domare e cercò di spazzare via ciò. Immolarsi in cambio della fine di quell’osceno spettacolo, fu un estremo gesto artistico-metaforico di combattimento, diventato realtà. Il Giappone dei ribelli si sviluppò e la sua tragica fine venne dopo la sconfitta del movimento rivoluzionario in Asia, con una svolta autoritaria e terroristica di una parte del movimento nipponico della sinistra rivoluzionaria, lo Zengakuren.

Un movimento articolato e complesso, che anticipò lucidamente e di circa un decennio, il ’68 mondiale, come nel film di Nagisa Oshima ‘’Notti e nebbie del Giappone’’, che indicò nella generazione dei dirigenti formati dallo stalinismo, deviazionisti compresi, l’origine della malattia mortale del ‘’comunismo’’. Prefigurandone ambiziose e transnazionali ‘’lunghe marce’’; 112 università occupate ed in rivolta, migliaia di arresti, morti, feriti (da ambo le parti, ma era sempre una ad attaccare), battaglie campali cruentissime, di cui una avvenuta nei sotterranei della metropolitana di Tokyo. Attacchi alle stazioni di polizia. Scontri violenti. Bombe molotov. Fazzoletti sul viso e travi di legno in mano. Sovversione e rivoluzione, proteste.
Il 21 ottobre del 44° anno dell’era Showa (‘’Armonia illuminata’’), 1968, una dimostrazione pacifista, l’ultima prima del viaggio in America del Primo Ministro, fu soffocata dalle forze schiaccianti della polizia.

Centinaia i feriti e gli arrestati. Mishima ne fu testimone nel quartiere di Shinjuju (Tokyo); travestito da reporter della sezione domenicale del quotidiano di notizie ‘’Mainichi Shimbun’’, ne provò rammarico. La sua preoccupazione era di osservare se c’era stata ‘’escalation nelle armi che la parte di sinistra ha avuta a disposizione’’. Seguì la calca degli studenti per la via principale del distretto di Shinjuku, scorrente veloce avanti ed indietro per osservare le esplosioni di violenza che descrisse sui suoi notecards, fino alla residenza del primo ministro, che fu circondata. Mishima, coscientemente o non, limitò la sua comprensione delle questioni politiche e degli eventi; il fatto è che i suoi punti di vista erano poco relazionabili con la realtà che la politica stava ponderando. In tal modo capiva che non era possibile far cambiare la Costituzione. Il governo si era reso conto dei limiti delle forze dell’estrema sinistra, dalla reazione del popolo verso l’intervento della polizia, non dissimile a un coprifuoco, trasse la sicurezza di poter riuscire a controllare la situazione, senza la questione dell’emendamento alla Costituzione.

La polizia fu sufficiente a mantenere l’ordine pubblico e le strutture politiche. Contenere ed arginare questa energia rivoluzionaria per i politici era quasi impossibile leggi speciali furono promulgate dallo stato incapace di stare al passo coi tempi. Il 19 gennaio 1969, 850 poliziotti della squadra antisommossa munite di armi fino ai denti aveva respinto gli operai e gli studenti fuori dalla costruzione in cui erano asserragliati. Mishima aveva osservato con ammirazione il confronto/scontro per la determinazione degli Zengakuren. Ma quando il corso Yasuda cadde nelle mani della polizia senza la morte di neanche uno studente, fu disgustato ‘’Osservate e ricordate disse ai suoi cadetti, ‘’quando il momento finale è venuto, non c’era uno di loro che ha creduto in ciò che corrispondeva sufficientemente per lanciarsi da una finestra o per suicidarsi con la spada’’. Enfasi autodistruttiva. Fu un fenomeno imponente, rabbioso, energico, in Giappone come nel resto del mondo. Il Giappone aveva il suo gruppo di studenti radicali che dalle proteste pacifiche transitarono al terrorismo mentre al loro interno conducevano epurazioni sanguinarie, origine, sviluppo e tragica fine del movimento armato rivoluzionario in Giappone.

Nella grande ondata di mobilitazione spoliticizzata, non appartenente a nessun partito politico, nacquero vari gruppi rivoluzionari di ispirazione comunista, in contrasto fra di loro, la Sekigun-ha (Armata Rossa) di cui negli anni ’70 la società non capiva cosa fosse: una rotella impazzita ed armata dell’ingranaggio. Fusako Shigenobu, figlia di un professore di scienze militante di un gruppuscolo di estrema destra prima di aderire al Partito Comunista Giapponese, membro fondatrice della Sekigun-ha, nel 1971 sarebbe andata in Libano dove avrebbe fondato la Nihon Sekigun (Armata Rossa Giapponese), divenne il più famoso di questi gruppi radicali, legato all’etica samurai nel suo programma, autore di numerosi atti di terrorismo che durarono circa venti anni. Un movimento di protesta e di genuina rivolta trasformatosi in un massacro ed in una occasione perduta. Del gruppo internazionale, una parte dirottò un aereo e si spostò in Corea del Nord, un’altra parte si trasferì in Palestina e in Libano. Il governo giapponese spera di poter fare estradarne dalla Corea del Nord numerosi membri che vi hanno trovato rifugio.

Tale questione è al cuore delle difficoltà diplomatiche tra Pyongyang e Tokyo. In Giappone rimase la manovalanza del gruppo che si unì ad alcuni membri fuoriusciti dal partito comunista formando l’Armata Rossa Unita (Rengo Sekigun). Questo era il comune modus operandi dell’estrema sinistra di quegli anni, incluse le Guardie Rosse cinesi. Mori, Nagata, e i loro alleati seppero dare un indirizzo nipponico alla loro inquisizione interna; atti di bullismo verso di chi offendeva in qualche modo l’armonia (wa) del gruppo. Da questo immane confronto una cellula di emme-elle ultradogmatici formò una struttura clandestina istigata alla lotta armata, costola dell’Esercito Rosso Giapponese che, rapito un ministro, poi liberato, dopo il placet a negoziare il riconoscimento dell’avversario politico, in cambio della fine di ogni azione armata in patria, ottenendo lo scambio dei prigionieri e l’Armata Rossa spaccata in due, con, in parte, il proprio esodo internazionalista in Palestina. Tale parte andò a combattere in Palestina al fianco del PFLP, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, di indirizzo marxista-leninista, introducendo l’opzione kamikaze che ha sinistre appendici attuali. Dall’Armata Rossa nacque l’Armata Rossa Giapponese che spostò il suo interesse a livello internazionale; comprendeva esponenti del mondo artistico giapponese quali i registi Koji Wakamatsu, fiancheggiatore, ed il surrealista Masao Adachi (Fukuoka 1939), scrittore ed ex membro dell’Armata Rossa Giapponese, assertore della sovranità delle masse, che leggeva autori sovversivi marxisti-leninisti o tradizionali come Mishima. Ci fu, poi, una propaganda dei media contro i movimenti studenteschi di sinistra.

Adachi soggiornò molti anni nei carceri libanesi ed israeliane, fu estradato ed agli arresti domiciliari in Giappone, dove vive da qualche anno in stato di semilibertà. Amici di Genet, novello Orfeo sui cui nuovi valori selvaggi: il male per il male, l’uomo delle metamorfosi capace di trasformare la sofferenza nel suo contrario, la sovversione superiore della scrittura. Mishima gli aveva dedicato un saggio nel ’56. Nel 1967 Genet in Giappone partecipò alle campagne antimilitariste contro l’attracco delle portaerei militari americane nel porto di Sasebo, si impegnò nelle manifestazioni per i contadini di Sanrizuka, protestò contro un progetto di esproprio delle terre, fu coinvolto negli scontri studenteschi, al fianco degli Zengakuren, verso cui Mishima provava una passione iconoclasta. Nel 1960 alcuni studenti avevano risvegliato la loro coscienza e si erano addentrati nel movimento studentesco dello Zengakuren per poi arruolarsi nella destra nipponica nazionalista, la Kadoka, che appoggiava la figura imperiale, riconducibile alla rivolta del 26 febbraio 1936. Nel movimento studentesco militavano anche elementi di estrema destra, che avrebbero preso una deriva terroristica o con un complesso atteggiamento psicologico.

Le autorità dell’ultra destra e gli ‘’amici’’ di Mishima in Parlamento, nelle grandi Zaibatsu, (concentrazioni industriali, commerciali o finanziarie), e nella Yakuza, mafia giapponese, si rivolgevano all’Occidente nella corsa al benessere economico. A fianco della polizia, i ‘’crumiri’’ che picchiavano gli studenti e gli operai dello Zengakuren erano degli Yakuza ed i basuzoku, teppisti motorizzati. Del resto Mishima parlava di sottotenenti dell’accademia militare, che sentendosi prima di tutto militari professionisti, aristocratici o meno, ufficiali o semplici militari, tecnici neutrali; qualora il comunismo fosse giunto al potere in Giappone, avrebbero continuato a svolgere senza problemi la loro attività nella costituenda Armata Rossa. Era la base dell’istruzione militare nell’Accademia militare.

Genet si lasciava alle spalle ‘’il mondo ebraico-cristiano’’. Giappone, Palestina e Marocco furono un fulcro nell’opera di continuo spaesamento di Genet, dalla fine degli anni Sessanta, dopo il suo incontro con il Maggio francese e con i palestinesi, il suo scontro con Sartre. Il materialismo ossessivo assunse la forza di un disperato misticismo, che accomunava Genet e Mishima, entrambi alla quiete di Andrè Gide. Legati da un’esistenza segnata dal rifiuto e da un’opera cresciuta sotto l’ombra del desiderio di morte, il sesso istituiva per loro un vincolo a cui si legarono, per tenere a bada la morte. Se Genet si liberò di Gide, Mishima non si liberò di Genet. Generiche le accuse di antisemitismo, di ‘’mistica del vuoto’’ o di ‘’estetica fascista’’ dallo storico psicologizzante Ivan Jablonka.

Mishima non fu il cantore romantico della bella morte antica, ma il profeta della rinascita spirituale. I detrattori di Mishima gli rimproveravano le simpatie verso la destra ed il culto della forza, l’essere il jolly dell’imperatore, il narcisismo, il suo nichilismo, di essersi procurato una morte senza senso, tra un’etica normativa ed il nulla. Nell’ottica tradizionale dell’antica cultura del Sol Levante, dei samurai, dei guerrieri dell’onore, il suo sacrificio fu il ‘’suicidio del guerriero’’ per il disgusto provocato dalla mancanza di vigore per l’integrità del Giappone contemporaneo rispetto al retaggio culturale. Un gesto estremo, espressione psicologica dello spirito tradizionale giapponese, che fece riscontrare un fascino dovuto al suicidio rituale. Artista del culto dell’onore, della bellezza, della morte sensuale ed eroica, usò la società mediatica e ne fu usato, divenendo mito, icona, emblema. Sacrificio supremo gettato in faccia all’abominevole modernità demistificatrice del mito, disprezzo delle forme del sacro, esaltando il pubblico di fronte al privato nel nome di valori spirituali della tradizione. La postmodernità è la ‘’via della ‘’mano sinistra’’ del tantrismo e della ‘’legge degli opposti’’, che non è destra né sinistra. Non è conservatrice né rivoluzionaria, contiene e nega la modernità, né rivendica lo spirituale del tempo né esalta l’impostura della modernità; non difende la leggenda del passato, né la modernità nella modernità.

L’eroe postmoderno è innovatore, attualizza l’arcaico, l’eterno, l’immortale nell’effimero, spirituale stadio di purezza. Creazione verso l’assoluto, Dio nell’inferno vitale terreno. Il mito della bella morte, la nobiltà della sconfitta che gridava al vento della storia l’estrema rivolta ideale di chi non si rassegnava a cavalcare la tigre di ogni intramontabile nozione di assoluto; quel volto contratto a pronunciare parole prive di senso contro la perdita dello ‘’spirito nazionale’’ e contro la ‘’condizione di vuoto’’ in difesa dell’ ‘’onore’’ e dell’ ‘’esistenza dello spirito’’. La forza del passato mostrava il volto peggiore, normativo, autoritario, un samurai esausto, stanco di lottare, incurante del ridicolo. Un blocco di marmo ultranazionalista e reazionario, simbolo e sintomo di reazione alla decadenza.

La dicotomia tradizione-moderno in quanto figlio del Giappone costretto a rinnegare il proprio passato ed a subire la cultura del vincitore. L’idea di Mishima esulava il patriottismo europeo, il suo culto per la figura dell’Imperatore era un’idea trascendente tipo quella di Julius Evola e le sue idee in materia di tradizione che non ad un comune nazionalista. Intervistato dal critico marxista Takashi Furubayashi, Mishima ribadì che nel mondo attuale la forza era denigrata, per cui l’etica di coloro che cercano di essere forti è disprezzata. ‘’Azione’’ sintetizzata nel suo pensiero ‘’desidero dare me stesso fino alla morte e, pur avendo la mia età, non essere da meno dei giovani che mi circondano’’.

 

 


Antonio Rossiello

22/11/2009

mardi, 08 juin 2010

La persistenza di Yukio Mishima

La persistenza di Yukio Mishima

di Valerio Zecchini

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

http://danliterature.files.wordpress.com/2009/02/yukio-mishima.jpg

A quasi quarant'anni dalla morte, la persistenza della fortuna di Yukio Mishima non dà segni di cedimento, nemmeno in Italia: Madame De Sade (1965), uno dei drammi con cui riportò a nuova vita la tecnica tradizionale del teatro No, in questa stagione è stato rappresentato al teatro Dehon di Bologna con grande successo per due settimane; il brillante adattamento di Piero Ferrarini ne aggiorna l’ambientazione dalla rivoluzione francese al Maggio ’68. Intanto, la pubblicazione di testi ancora inediti nel nostro paese (che sembrano non finire mai), e la ristampa di libri ormai classici prosegue incessante. Mentre Mondatori ha fatto uscire il prezioso inedito “Abito da sera”,  la casa editrice SE ha di recente pubblicato, oltre al carteggio durato decenni col premio Nobel Yasunari Kawabata (“Kawabata – Mishima: Lettere), la novella La spada del 1963, della quale l'anno successivo uscì una versione cinematografica. In questo lungo racconto ambientato nel contesto di quella che è forse la più Giapponese delle arti marziali, il kendò, l'adesione ai valori tradizionali di lealtà, rigore morale, dedizione alla causa prende corpo con un'assolutezza che esclude ogni umano compromesso, fino all'inevitabile immolazione finale.

 Così come la novella Patriottismo del 1961 (dallo stesso Mishima trasformata in film quattro anni dopo), La spada ha tutte le caratteristiche del testamento spirituale in forma narrativa. E' per questo che il volume include anche il testamento spirituale “ufficiale” (il Proclama, manifesto che lo scrittore volle lasciare a giustificazione del suo gesto e che lesse a squarciagola alle truppe della caserma dove si suicidò), e una serie di testi sul martirio volontario di Mishima: “Riflessioni sulla morte di Mishima” di Henry Miller (1972), “L'ideologia della morte folle” (Hashikawa Bunzò, 1970), “Dietro tanta vivacità un senso di vuoto” (Donald Keene, 1970), e un estratto del magistrale saggio di Marguerite Yourcenar  “Mishima” del 1982. il libro si chiude con una sequenza di bellissime foto in bianco e nero che immortalano l'artista nel suo sublime narcisismo. In questi quarant'anni, scrivere sul suicidio valoriale e simbolico di Mishima sembra essere diventato un genere letterario a sé stante: oltre ai succitati autori e ai vari biografi, lo fece il maestro e sodale Yasunari Kawabata, il grande regista Paul Schrader nel 1984 ne fece un film memorabile, in Italia intervennero Alberto Moravia (ma lui non poteva capirci granchè) e Piero Buscaroli, che ne colse solo il movente politico.

Ma perchè il seppuku di Mishima, in cui un'etica eroica da antico samurai convive singolarmente con un estetismo pienamente dandy, continua ad affascinarci tanto? Probabilmente perchè più si esaspera il processo di modernizzazione e di decadenza (sia in Giappone, sia in Europa), più ci sentiamo attratti da quel mondo antico permeato di bellezza, onore, eroismo che lo scrittore giapponese ha costantemente evocato con le sue opere, la sua vita e soprattutto la sua morte. Una morte sconvolgente, ossessivamente annunciata, preparata con implacabile meticolosità e infine celebrata dinanzi al mondo come un rituale spettacolare e tragico. La sua uscita di scena ha rappresentato al tempo stesso l'apoteosi del personaggio, condannato da un demone inquieto a una vita perennemente sopra le righe, e la parola conclusiva dello scrittore, la sigla di un'opera totale in cui culto della gioventù, amore per la bellezza e morte eroica appaiono intrecciate in un destino ineluttabile. Il vero tradizionalista è un ribelle e un iconoclasta, come ben puntualizza Henry Miller nel suo scritto: “I veri pionieri nono iconoclasti; sono loro che salvaguardano la tradizione, non quelli che lottano per conservarla e così facendo ci soffocano. La tradizione può realmente esprimersi solo attraverso lo spirito dell'ardimento e della sfida, non con conformismi esteriori e col  mantenimento di usanze. Credo che fosse in questo senso che Mishima intendeva far rivivere i costumi dei suoi avi. Egli voleva ristabilire la dignità, il rispetto e la fiducia in se stessi. L'autentico cameratismo, l'amore per la natura e non l'efficienza, l'amore di patria e non lo sciovinismo, l'imperatore quale simbolo di capacità di comando in opposizione a un gregge senza volto e senza anima obbediente a ideologie mutevoli, i cui valori sono stabiliti dai teorici della politica.”

Il saggio di Marguerite Yourcenar rimane comunque a mio avviso il migliore sull'argomento Morte di Mishima: il più acuto e penetrante, l'unico che consideri l'importanza anzi la centralità dell'”omosessualità guerriera” in questa vicenda; vi si potrebbe addirittura individuare il disvelamento di quella “funzione sacra dell'omosessualità” di cui parlava Pasolini negli ultimi anni della sua vita. Dice la Yourcenar: “Circa due anni prima della fine, si produce per Mishima uno di quegli eventi insperati che sembrano manifestarsi puntualmente non appena la vita acquista una certa precipitazione e un certo ritmo. Un personaggio nuovo fa il suo ingresso, Morita, ventun anni, provinciale educato in un collegio cattolico, bello, un po' tarchiato, infiammato della stessa passione lealista che arde in colui che egli bel presto chiamerà maestro (Sensei), termine onorifico dato dagli studenti ai loro istruttori. Si è detto che, in Mishima, l'inclinazione verso l'avventura politica è cresciuta in proporzione alla foga del giovane”.

Morita fu l'ultimo a iscriversi all'Associazione degli Scudi (l'associazione paramilitare messa in piedi da Mishima) e in lui forse trovò il compagno e forse il fanatico che aveva sempre cercato, o almeno il risoluto spartano col quale condividere lo splendore della melanconia. Infatti, dopo che lo scrittore si fosse squarciato il ventre, avrebbe dovuto essere Morita a tagliargli la testa – ma non andò così, ci fu un terzo che dovette finirli entrambi. In Colori proibiti (1951) e successivamente nel racconto Onnagata Mishima aveva preso in esame il mondo dell'omosessualità moderna, mettendone in evidenza l'inconsistente vacuità, il frivolo estetismo. Nel suo rapporto con Morita sembrano invece rivivere le storie d'amore tra samurai descritte nel XVII secolo dal grande monaco/scrittore Ihara Saikaku, o l'amore folle dell'imperatore Adriano per il suo amante narrato dalla stessa Yourcenar nelle “Memorie di Adriano”, o ancora Alessandro Magno col fedele Efistione come ce lo ha fatto vedere qualche anno fa Oliver Stone in “Alexander” – o, per spingersi ancor più in là nella mitologia antica, il legame eroico tra Achille e Patroclo?

Come è reso evidente in vari scritti teorici, secondo Mishima il vincolo cameratistico dev'essere alla base anche del rapporto con la donna, essere quindi il fondamento del matrimonio. Ma, come aveva affermato nel corso del dibattito all'università con gli studenti comunisti (1968), era arrivato a pensare che l'amore stesso fosse diventato impossibile in un mondo privo di fede. Egli paragonava gli amanti ai due angoli di base di un triangolo, e l'imperatore, che essi venerano, al vertice: è la concezione di un sostrato di trascendenza necessario all'amore. Col suo lealismo incondizionato, Morita rispondeva a quell'esigenza.

Einaudi ha da poco ripubblicato “Una virtù vacillante”, romanzo uscito a puntate nel 1957, il quale ebbe un tale successo che nello stesso anno se ne realizzò un adattamento cinematografico. Qui Mishima, dal suo punto di vista privilegiato di bisessuale, analizza l'animo femminile con la precisione di un entomologo. Protagonista del romanzo è la sensuale Setsuko, una giovane signora dell'alta borghesia di Tokyo la quale, intrappolata in un matrimonio di convenienza, si ribella a ogni forma di moralità e si abbandona tra le braccia di un affascinante conoscente. L'autore descrive con maestria il conflitto che tormenta la giovane e bella Setsuko tra istinto ed etica, tra sentimento e razionalità, il misterioso e indomabile anelito a un amore travolgente, totale, eterno fino alla scoperta dell'ineluttabile verità: l'amante è  simile al marito e alla gran parte degli uomini, strutturalmente incapaci di corrispondere all'assolutezza dell'amore femminile. Questa consapevolezza la porterà alla catarsi finale della rinuncia ascetica. Setsuko a un certo punto spiega anche perchè non può esistere un dandy o un esteta donna: “Com'è profonda, a volte, la solitudine maschile! Quella femminile è diversa. Persino la solitudine di una vecchia è più carnale e avida. Per quanto sia sola, una donna non può vivere in un mondo ideale, perchè le è impossibile rinunciare alla propria femminilità. Se invece un uomo assurge all'alto dominio dello spirito, smette di esser una creatura terrestre”.

Questa avvincente storia d'amore è comunque pervasa da un'atmosfera di fatua decadenza, gli eleganti personaggi sono sempre mossi da biechi e meschini calcoli e spiegano benissimo cosa intendesse Mishima quando parlava dell'amore diventato impossibile in un mondo privo di fede.

Agli amori borghesi di “una virtù vacillante” si contrappone il profondo amore tra marito e moglie narrato nel racconto “Patriottismo”, offerto al pubblico come esemplare da Mishima: profondo perchè radicato nel sacrificio comune e nel cameratismo, sulla superiore devozione verso l'imperatore, nel sacro ruolo della donna come custode della tradizione. Tutto ciò che non poteva più esistere, se non come sopravvivenza, nel Giappone del 1970, e tanto meno nel Giappone di oggi.

 

Yukio Mishima

UNA VIRTU' VACILLANTE
Einaudi

Euro 10,00

 

Yukio Mishima
LA SPADA

SE

Euro 19,00

 

 


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lundi, 07 juin 2010

Le Bulletin célinien / juin 2010

Le Bulletin célinien n°320 - Juin 2010

Au sommaire:

Marc Laudelout : Bloc-notes
Les ballets lus par Robert Poulet (1959)
Henri Godard : Céline et la danse
M. L. : Céline, auteur de ballets
M. L. : Le petit monde des céliniens
M. L. : « Voyage au bout de la nuit » brûlé par le IIIe Reich ?
Courrier des lecteurs
Céline vu par Giovanni Raboni (2000)
M. L. : Céline chez les fascistes canadiens


Le Bulletin célinien
B. P. 70
B 1000 Bruxelles 22
Belgique

juin 2010

Il y a trois mois, j’ai assisté à un intéressant dialogue entre François Gibault, biographe de Céline, et le psychanalyste Patrick Declerck (1). La divergence de vues portait sur l’humanisme de Céline — attesté pour le premier, réfuté par le second. Coïncidence : durant ce même mois de mars, Pierre Lainé – qui voit, lui aussi, en Céline un humaniste (2) – se voyait contesté par le critique Robert Le Blanc « car un humaniste, ce n’est pas quelqu’un qui fait preuve ici et là de sentiments d’humanité, de fraternité, c’est quelqu’un qui prétend “croire en l’homme” (3) ».
Céline croyait-il en l’homme ? Lui qui écrivait, dans Voyage au bout de la nuit, que « faire confiance aux hommes c’est déjà se faire tuer un peu » ? Henri Godard a raison de voir en Mea culpa « une virulente dénonciation de l’humanisme (4) » à partir de la réalité soviétique. Les propos les plus pessimistes visant l’espèce humaine, c’est bien dans ce libelle qu’on peut les lire. « L’Homme il est humain à peu près autant que la poule vole. » Le paradoxe étant qu’avec tout ce qu’il pense de l’homme, en général, et de ses compatriotes, en particulier, Céline ait tenu à leur sauver la mise par de terribles brûlots ayant essentiellement pour but de prévenir un (nouveau) conflit européen. Or, n’est-ce pas lui qui écrivait : « Il ne faut pas, voyez-vous, s’occuper de l’Homme, jamais. Il n’est rien (5). » ? Dans Les Beaux draps, qui constitue, en dépit des circonstances, son livre le plus roboratif, il propose une complète et profonde rééducation de l’homme passant par une conception nouvelle de la famille et de l’école. Alors même qu’étant donné ce qu’il avait écrit auparavant, il eût pu faire sienne cette conviction nietzschéenne selon laquelle la vie est mauvaise et qu’il ne nous appartient pas de la rendre meilleure.
Au moins, à ce moment précis, Céline appelle-t-il de ses vœux une forme d’épanouissement de l’homme basé sur des réformes radicales. Ce souhait fera long feu. Après les épreuves et l’exil, il n’aura de cesse de se présenter en esthète, fuyant les idées comme la peste et récusant, plus que jamais, le souci de s’intéresser à l’homme plutôt qu’à la chose en soi. Mais, s’il apparaît alors nihiliste, il ne le fut pas toujours.
Alors, était-il un humaniste déçu ? Un anti-humaniste ? Sa passion pour le biologique en fait-il même, comme l’affirment certains, un post-humaniste ? (6) Humaniste ou pas, Céline n’a pas fini de susciter la controverse. Dès lors qu’on aborde son cas, il me semble que sa vocation médicale, sa détestation de la guerre, sa passion pour la création (« Je suis du parti de la vie ») mais aussi, il est vrai, sa défiance farouche envers l’Homme sont autant d’éléments à prendre en compte.

Marc LAUDELOUT


Notes

1. Soirée littéraire consacrée, le 23 mars au Voyage au bout de la nuit à « Passa Porta » (Maison internationale des littératures, Bruxelles). Cette soirée était animée par Laurent Moosen.
2. « L’œuvre célinienne est une œuvre humaniste. Parce qu’elle dénonce les misères et les crimes de tous bords, les cruautés et les exploitations, parce qu’elle s’insurge, dénonce et tonitrue pour les malentendants, condamne les résignations, invite à une prise de conscience, ou plutôt impose cette prise de conscience jusqu’à l’angoisse et la nausée. Céline humaniste, oui, profondément humaniste.» (Pierre Lainé,
Céline, Pardès, 2005). À noter qu’à Dinard, une conseillère municipale de l’opposition s’opposant à la tenue du prochain colloque de la SEC dans cette ville indique qu’« on cherche vainement des bouffées humanistes [sic] » chez Céline. Nous reviendrons sur cette polémique.
3. Robert Le Blanc, « Autour de la correspondance », Le Bulletin célinien, n° 317, mars 2010, p. 9.
4. Henri Godard, « Notice de Guignol’s band » in Romans III, Gallimard, coll. « Bibliothèque de la Pléiade », 1988.
5. Lettre à Pierre Boujut, 7 janvier 1936 in Lettres, Gallimard, coll. « Bibliothèque de la Pléiade », 2009, p. 476.
6. Philippe Destruel, « Céline entre Ariel et Caliban. Les pamphlets : de l’humanisme déçu à l’anti-humanisme amer » in
Médecine (Actes du quinzième Colloque international Louis-Ferdinand Céline), Société d’études céliniennes, 2005.

jeudi, 27 mai 2010

Fiume o morte! A propos d'un volume collectif sur Gabriele d'Annunzio

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Fiume o morte!

A propos d'un volume collectif sur Gabriele d'Annunzio

 

fiumeaffiche.jpgGabriele d'Annunzio (1863-1938), au temps de la “Belle époque”, était le seul poète italien connu dans le monde entier. Après la première guerre mondiale, sa gloire est devenue plutôt “muséale”, sans doute parce qu'il l'a lui-même voulu. Il devint ainsi “Prince de Montenevoso”. Un institut d'Etat édita ses œuvres complètes en 49 volumes. Surtout, il tranforma la Villa Cargnacco, sur les rives du Lac de Garde, en un mausolée tout à fait particulier (“Il Vittoriale degli Italiani”) qui, après la seconde guerre mondiale, a attiré plus de touristes que ses livres de lecteurs. En Allemagne, d'Annunzio a dû être tiré de l'oubli en 1988 par l'éditeur non-conformiste de Munich, Matthes & Seitz, et par un volume de la célèbre collection de monographies “rororo”. Aujourd'hui, coup de théâtre, un volume collectif rédigé par des philosophes et des philologues nous confirme que la grand “décadant” a sans doute été le “dernier poète-souverain de l'histoire” (références infra). A quel autre écrivain pourrait-on donner ce titre?

 

La ville et le port adriatique de Fiume (en croate “Rijeka”, en allemand “Sankt-Veit am Flaum”) était peuplée à 50% d'Italiens à l'époque. Les conférences parisiennes des vainqueurs de la première guerre mondiale avaient réussi à faire de cette cité un pomme de discorde entre l'Italie et la nouvelle Yougoslavie. Le Traité secret de Londres, qui envisageait de récompenser largement l'Italie pour son entrée en guerre en lui octroyant des territoires dans les Balkans, en Afrique et en Europe centrale, n'avait pas évoqué Fiume. Le Président Wilson n'avait pas envie d'abandonner à l'Italie l'Istrie et la Dalmatie. Après l'effondrement de l'Autriche-Hongrie, une assemblée populaire proclame à Fiume le rattachement à l'Italie. Des troupes envoyées par plusieurs nations alliées prennent position dans la ville. Des soldats et des civils italiens abattent une douzaine de soldats français issus de régiments coloniaux annamites (Vietnam). Aussitôt le Conseil Interallié ordonne le repli du régiment de grenadiers sardes, seule troupe italienne présente dans la cité. Ce régiment se retire à Ronchi près de Trieste. Là, quelques officiers demandent au héros de guerre d'Annunzio de les ramener à Fiume. Le 12 septembre 1919, d'Annunzio pénètre dans la ville à la tête d'un corps franc. Le soir même, le “Comando”, avec le poète comme “Comandante in capo”, prend le contrôle de la ville. Les Anglais et les Américains se retirent. D'Annunzio attend en vain l'arrivée de “combattants, d'arditi, de volontaires et de futuristes” pour transporter le “modèle de Fiume” dans toute l'Italie.

 

Des festivités et des chorégraphies de masse, des actions et des coups de force symboliques rendent Fiume célèbre. D'Annunzio voulait même débaptiser la ville et la nommer Olocausta (de “holocauste”, dans le sens premier de “sacrifice par le feu”). Sur le plan de la politique étrangère, le commandement de Fiume annonce dans son programme l'alliance de la nouvelle entité politique avec tous les peuples opprimés, surtout avec les adversaires du royaume grand-serbe et yougoslave. L'entité étatique prend le nom de “Reggenza Italiana del Carnaro” et se donne une constitution absolument non conventionnelle, la “Carta del Carnaro”. Son mot d'ordre est annoncé d'emblée: spiritus pro nobis, quis contra nos? (Si l'esprit est avec nous, qui est contre nous?). Le Premier ministre italien de l'époque était Giovanni Giolitti, âgé de 78 ans. Sous son égide, l'Italie et la nouvelle Yougoslavie s'unissent par le Traité de Rapallo. Avant qu'il ne soit ratifié, le héros de la guerre aérienne, Guido Keller, jette sur le parlement de Rome un pot de chambre, rempli de navets et accompagné d'un message sur les événements. Rien n'y fit. L'Italie attaque Fiume par terre et par mer. C'est le “Noël de Sang” (“Il Natale di Sangue”). Le régime de d'Annunzio prend fin, après quinze mois d'existence.

 

Le volume collectif qui vient de paraître en Allemagne n'est pas simplement une histoire de Fiume sous le “Comandante”. La préoccupation des auteurs a été bien davantage d'expliquer les événements de Fiume à la lumière des nouvelles formes “non-conventionnelles” de guerre et de propagande, nées de la première guerre mondiale (par “non-conventionnel”, on entend ici le non respect de la séparation entre combattants et non combattants, entre guerre et paix). Dans les nouvelles technologies de la vitesse (l'avion, la vedette lance-torpilles, les troupes d'assaut), dans les médias (le cinéma) et l'art de la propagande, d'Annunzio était d'une façon ou d'une autre impliqué. Ou en était carrément l'initiateur. En tant qu'aviateur, que commandant de vedettes lance-torpilles, qu'orateur et harangueur, le héros de la première guerre mondiale, couvert de décorations, élevé au grade de lieutenant-colonel, décidait lui-même des missions qu'il allait accomplir. Le philologue Siegert, dans sa contribution (), étudie la renovatio imperii  voulue par d'Annunzio à la lumière de l'histoire de la guerre aérienne entre 1909 et 1940, depuis la journée du vol aérien de Brescia jusqu'à la mort de Balbo.

 

La domination des airs, selon les théories du Général Giulio Douhet, paralysait l'adversaire en détruisant sa logistique. Douhet ne connaissait pas la différence entre l'armée et la population civile, la guerre aérienne réduisant tous les traités à des “chiffons de papier sans valeur”. Ou, comme le formulait Sir Arthur Harris, commandant des flottes de bombardiers britanniques pendant la seconde guerre mondiale, dans son ouvrage de 1947, Bomber Offensive:  . Siegert écrit: «Ce que l'on appelle la “target area bombing” fonde une nouvelle époque de l'histoire de l'Etre. Des choses comme les humains ne sont plus du tout les objets d'une intentio recta, mais les contenus contingents d'un espace standardisé à détruire sur lesquels circulent des objectifs aléatoires». Pendant la guerre, d'Annunzio a survolé Vienne, sur laquelle il a lancé des tracts où il était écrit qu'ils auraient pu être des bombes. Cette action confirmait la possibilité d'une guerre aérienne à outrance et constituait une opération de propagande destinée à frapper l'imagination des Viennois.

 

Pendant la seconde guerre mondiale également, les sociologues affectés au “Strategic Bombing Survey” du Pentagone n'ont pas seulement considéré les tapis de bombes sur les villes allemandes comme un simple moyen de paralyser l'effort de guerre de l'ennemi mais comme un premier pas vers la rééducation de la population du Reich: ainsi, un pas de plus était franchi dans le processus d'effacement des différences entre guerre et paix. Plus généralement, les théories de la guerre aérienne chez d'Annunzio et chez Douhet, puis chez les praticiens anglo-saxons du bombardement des villes à outrance, permettent de lever les frontières, de lancer des opérations sur l'espace tout entier sans tenir compte d'aucune barrière. L'Etat national classique devient ainsi caduc et doit en bout de course être remplacé par une forme néo-impériale, par une renovatio imperii  sur le modèle de Fiume.

 

Dans d'autres contributions de ce volume, notamment celle de Friedrich Kittler sur les “arditi” (les “téméraires”), version italienne de Sturmtruppen allemandes (dont Jünger fit partie) de la première guerre mondiale ou celle de Hans Ultich Gumbrecht sur les “redentori della vittoria” (= les sauveurs de la victoire) nous amènent à porter des réflexions non habituelles sur l'histoire des idées au XXième siècle. Le volume contient également une chronologie de la “guerre pour Fiume” et quelques réflexions sur la guerre aérienne telle que la concevaient d'Annunzio et Guido Keller. Enfin, des textes sur la constitution de Fiume et sur le statut de son “armée de libération”.

 

Ludwig VEIT.

(texte paru dans Criticón, n°152/1996).

 

Hans-Ulrich GUMBRECHT, Friedrich KITTLER, Bernhard SIEGERT (Hrsg.), Der Dichter als Kommandant. D'Annunzio erobert Fiume, Wilhelm Fink Verlag, München, 1996, 340 p., DM 58,-, ISBN 3-7705-3019-5.

 

dimanche, 23 mai 2010

Marc Augier, dit Saint-Loup

Marc Augier, dit Saint-Loup

Ecrivain maudit, passé au travers du mur de flamme de l'engagement politique, Marc Augier, dit Saint-Loup, a déjà fait l'objet de plusieurs études biographiques. On citera celle de Jérôme Moreau, Sous le signe de la roue solaire (L'AEncre, 2002) ou celle du sud-africain Myron Kok, Tels que Dieu nous a voulu (L'Homme Libre, 2004), qui centrent toutes les deux leur propos sur les idées et le parcours politique de l'écrivain. Mais l'auteur d'un grand roman comme La peau de l'aurochs, ne peut pas être tout entier réduit à l'engagement qui a été le sien au cours des années 40. La biographie de Saint-Loup, publiée aux éditions Pardès, dans l'excellente collection Qui suis-je ?, signée par Francis Bergeron, déjà auteur d'études sur Béraud, Daudet ou Monfreid, devrait permettre d'apporter un nouvel éclairage sur l'homme et son oeuvre.

Saint-Loup.jpg
" Marc Augier, alias Saint-Loup, fut emporté par le vent de l’Histoire, à toute vitesse, mais sans jamais tomber. Il en a tiré une oeuvre forte et virile, parcourue par un souffle épique. Une oeuvre peinte à fresques, où des individus et des groupes d’individus doivent affronter les bombardements, le rouleau compresseur des chars soviétiques, l’épuration, les foules ivres de violence, mais aussi la montagne, la neige, le froid polaire, les avalanches, les tempêtes, les poux, l’hiver russe, une panne de moteur en altitude ou, simplement, la fatigue au guidon d’une moto lancée sur les routes d’Europe. Ce qui fascine, chez Saint-Loup, ce sont des valeurs universelles, qui n’appartiennent à aucun camp: c’est cette vie de sportif, d’aventurier, de guerrier. Saint-Loup est le contraire d’un idéologue. C’est un militant, mais ce n’est pas un homme du combat des idées. C’est un homme d’action, ayant mis ce goût de l’action et du risque calculé au service de causes politiques et parfois militaires. Soixante-cinq ans après la fin de la guerre et plus de vingt ans après la chute du mur de Berlin, il est temps de relire son oeuvre, de la dégager de sa seule dimension hérétique, conséquence de ses quatre années à la LVF et à la Waffen SS. Oui, grâce à ce «Qui suis-je?» Saint-Loup, il faut revisiter ce grand créateur de mythes, et personnage mythique lui-même."

jeudi, 20 mai 2010

Björnstjerne Björnson, le poète de la liberté norvégienne

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Helge MORGENGRAUEN:

 

Björnstjerne Björnson, le poète de la liberté norvégienne

 

C’est le 8 décembre 1832 que nait à Kvikne dans le Hedmark norvégien et dans la grande ferme de Björgan, le futur poète national norvégien Björnstjerne Björnson, fils d’un pasteur de campagne.

 

Après des études secondaires dans un gymnasium d’Oslo, Björnson entre à l’Université où il ne reste que brièvement, sans obtenir de diplôme. C’était peu de temps avant de faire la connaissance d’Henrik Ibsen. De 1857 à 1859, il dirige le théâtre de Bergen puis entame une carrière de journaliste.

 

Comme ses idées étaient jugées encore trop “modernes” pour l’époque, il quitte l’Aftenbladet (= “La feuille du Soir”) et commence une longue série de voyages à l’étranger, d’abord en Italie et en Allemagne. En 1874, Björnson acquiert la ferme d’Aulestad dans la vallée de Gulbrand, lieu qui deviendra bien vite l’un des centres intellectuels les plus dynamiques de Norvège. Après quelques voyages aux Etats-Unis et un long séjour à Paris, il devient, revenu au pays, l’un des principaux poètes et écrivains de sa patrie.

 

En 1903, il est le premier Norvégien à obtenir le Prix Nobel de littérature. Björnson s’engage pour la création d’une république norvégienne, pour le suffrage universel, pour l’égalité des femmes et pour l’indépendance de la Norvège. Le 26 avril 1910, Björnstjerne Björnson meurt à Paris, quelques années après l’indépendance de son pays.

 

* * *

 

L’hymne national norvégien a été composé par Björnstjerne Björnson et commence par les mots: “Ja, vi elsker dette landet” (= “Oui, nous aimons ce pays”). Cet hymne a été chanté pour la première fois le 17 mai 1864. Cinquante ans auparavant, jour pour jour, la Norvège s’était donnée une constitution à Eidsvoll près d’Oslo; la véritable indépendance, toutefois, ne pouvait pas encore advenir sur l’échiquier international. La Norvège était inclue dans une Union avec la Suède, une Union qui durera jusqu’en 1905. Le 13 août de cette année, en effet, 99,5% des Norvégiens se prononceront pour la dissolution de cette Union avec la Suède. C’est depuis ce moment-là que l’ancien pays des Vikings est redevenu, pour la première fois depuis le moyen-âge, libre et indépendant. Cette volonté de liberté et d’indépendance nous explique encore et toujours pourquoi le peuple norvégien a voté deux fois, en 1972 et en 1994, contre toute intégration du pays dans une Europe élargie.

 

La Constitution, que la Norvège s’est donnée en 1814, est toujours valide aujourd’hui, à quelques rares et légères modifications près. La date du 17 mai, date à laquelle l’assemblée constitutionnelle s’est donnée une loi fondamentale en 1814, est devenue le jour de la fête nationale norvégienne. Voilà pourquoi, cinquante ans après le vote en faveur de cette loi fondamentale, le chant “Ja, vi elsker dette landet” a été entonné pour la toute première fois et reste, aujourd’hui encore, l’hymne national de la Norvège. Le patriotisme norvégien demeure une réalité forte: aucun Norvégien digne de ce nom ne se permettrait d’omettre une seule ligne de cet hymne qui compte huit strophes.

 

L’esprit vieux germanique de liberté, qui hisse l’indépendance au-dessus de tout et refuse catégoriquement de tomber dans la dépendance ou la servitude, reste très vivace en Norvège. Sous le Troisième Reich, les Allemands ont tenté de courtiser le “peuple frère germanique” du Nord de l’Europe mais sans le succès escompté: les Norvégiens ne voulaient rien avoir à faire avec l’hitlérisme. Aujourd’hui encore, les citoyens allemands ne peuvent pas acheter de terrains en Norvège.

 

Björnstjerne Björnson, fils de pasteur de la région centrale de la Norvège, lui, n’avait aucune réticence à frayer avec les autres peuples frères de l’aire germanique. Bien au contraire, il défendait, avec beaucoup d’autres, des idées révolutionnaires qui pouvaient parfaitement s’inscrire dans le corpus idéologique du pangermanisme (1).

 

Notre écrivain, qui avait dû renoncer, après trois ans à peine, à ses fonctions de journaliste au sein de la rédaction de l’Aftenbladet de Bergen parce qu’il y défendait des idées jugées à l’époque trop “progressistes”, publia en 1857 son premier récit, Synnöve Solbakken. Il y décrit de manière pénétrante la nature contradictoire du paysan norvégien, qu’il connaissait bien, de par ses propres expériences existentielles. Il mit ainsi en exergue la césure qui existait dans l’âme paysanne norvégienne entre une nature première d’essence païenne et des apports chrétiens ultérieurs. Les récits de Björnson sur la vie rurale norvégienne ont inauguré un véritable tournant dans l’histoire de la littérature de ce pays, un tournant vers le présent. Björnson donna ainsi l’impulsion décisive qui obligea les hommes et les femmes de lettres de Norvège à se tourner vers les thématiques sociales et politiques, après une parenthèse romantique, où l’on avait fait revivre les sagas et où l’esprit romantique avait tenté de redécouvrir les mythes du folklore norvégien, avec ses trolls et ses filles de la forêt. Cette impulsion, Björnson la doit au critique littéraire danois Georg Brandes qui appelait “à présenter enfin en littérature les problèmes et les thématiques qui résultent des nécessités sociales”. Henrik Ibsen, lui aussi, le grand contemporain et ami de Björnson, subira l’influence de Brandes. Tandis que ses pièces de théâtre fustigeaient les contradictions et l’hypocrisie morale de la société bourgeoise sur le déclin, Björnson, optimiste, croyait toujours au triomphe final du progrès social (2).

 

En ce sens, il s’est engagé à revendiquer le suffrage universel et l’égalité hommes/femmes. Il critiquait l’exploitation des ouvriers et réclamait une réforme fondamentale du système scolaire. Mais son thème favori, le plus important à ses yeux, était celui de l’indépendance norvégienne. Car, pour lui, la liberté de l’individu et la souveraineté du pays étaient indissociables, indissolublement liées l’une à l’autre.

 

“Le sentiment d’indépendance est indubitablement la force la plus puissante au monde; le sentiment d’honneur en est l’amorce. La pulsion vers l’autonomie est l’énergie qui régit le monde; c’est la vertu la plus haute que notre culture a produite, avec les grandes gestes du peuple, avec les tendres sentiments de la morale et toutes les forces libératrices jaillies des Lumières” (3).

 

En 1903, Björnson est le premier Norvégien, et même le premier Scandinave, à recevoir le Prix Nobel de littérature. Deux ans plus tard, il voit son pays accéder à cette indépendance, à laquelle il avait tant aspiré. Le 26 avril 1910, Björnstjerne Björnson meurt à Paris.

 

Helge MORGENGRAUEN.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°18/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

Notes du traducteur:

 

(1)     Le pangermanisme, jugé “nationaliste” dans la plupart des ouvrages contemporains d’historiographie, est classé arbitrairement “à droite” de l’échiquier politique par les terribles simplificateurs qui hantent nos établissements d’enseignement actuels ou régissent le monde des médias; au 19ème siècle, le pangermanisme véhicule des idéologèmes libertaires, populistes et anti-absolutistes, perçus par les contemporains comme “révolutionnaires” ou, du moins, “progressistes” et non pas comme “cléricaux” ou “réactionnaires”. C’est notamment le cas en Autriche et en Bavière, chez ceux qui admirent le “Kulturkampf” bismarckien. Les linéaments de pangermanisme que l’on retrouve en Belgique (y compris chez certains francophones), où a paru d’ailleurs la seule revue trilingue portant le titre de Der Pangermane, puisent généralement dans le corpus des libéraux de gauche à velléités orangistes.

 

(2)     La notion de progrès social en Scandinavie (et en d’autres terres germaniques) au 19ème siècle recouvre une idée d’accession à la citoyenneté pleine et entière de tous les éléments du peuple, de façon à faire chorus sur la scène internationale: un peuple fort est un peuple qui intègre tous ses citoyens, les mobilise à l’unisson et tire le meilleur de chaque individualité. La régression ou la stagnation sociale sont perçues comme des attitudes visant à empêcher des éléments sains et vigoureux d’oeuvrer au salut général de la nation.

 

(3)     Quand un Scandinave du 19ème siècle évoque de la sorte les Lumières, il ne se référe évidemment pas à un corpus de brics et de brocs, comme celui que nous ont fabriqué, des années 70 du 20ème siècle à nos jours, les Habermas et le filon de la “nouvelle philosophie” en France, mais surtout aux “Lumières” de Herder, chantre des matrices culturelles comme véritable sources de l’identité des peuples, qui ont alors pour tâche de les raviver continuellement. Pour un Björnson, les “Lumières” sont essentiellement la revendication de cette liberté individuelle et nationale qui fonde la souveraineté d’un peuple sain et fort. L’itinéraire de Björnson l’atteste: il  amorce sa carrière d’écrivain par une sorte de nationalisme romantique puis passe à la description et à la dénonciation des maux sociaux qui empêchent justement la masse des Norvégiens moins nantis de jouir d’une liberté personnelle, de façonner leur destin et de participer à la  construction de la  nation.

dimanche, 16 mai 2010

Entretien avec A. Murcie et L.-O. d'Algange, éditeurs de Jean Parvulesco

JeanParvulesco_Paris2000-217x300.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Entretien avec André Murcie et Luc-Olivier d'Algange, éditeurs de Jean Parvulesco

 

propos recueillis par Hugues RONDEAU

 

Amateurs de prose et de vers ajourés, André Murcie et Luc-Olivier d'Algange ne partagent cependant pas l'éthylique détachement de Rimbaud ou la talentueuse indifférence d'Hölderlin.

Pour eux, la poésie est le flambeau de leur combat. Courageux ou téméraires, ils se dépensent sans compter pour la survie d'une petite maison d'édition, les Nouvelles Littératures Européennes. Sous ce label sont déjà parus une revue au parfum de la grande littérature, un roman de Luc-Olivier d'Algange  (Le Secret d'or) et surtout un cahier d'hommage à Jean Parvulesco.

Trois cent quarante-quatre pages de témoignages et d'articles inédits font de ce volume, l'indispensable lexique de l'œuvre de l'auteur de  La Servante portugaise.

Editer Parvulesco ou avoir opté pour la subversion par le talent.

 

 

- En prenant la décision d'éditer Jean Parvu­lesco, génial trublion du la littérature franco­phone, vous avez pris un risque certain. Poête et essayiste, géopoéticien aurait dit Kenneth White, écrivain re­belle et ésotériste inspiré, Parvulesco ouvre les yeux des prédestinés mais demeure inconnu du grand public. Votre initiative avait-elle pour but de le rendre populaire ?

 

- Luc-Olivier d'Algange: Je dois avouer que mon engouement pour les écrits de Jean Parvulesco est né de la lecture en 1984 de son Traité de la chasse au faucon.  Il m'apportait la preuve attendue qu'une haute poésie était possible  —et même né­ces­saire—  dans cette époque pénombreuse où nous avons disgrâce de vivre. La dis­grâce, mais aussi, dirai-je, la chance ex­traordi­naire, car, en vertu de la loi des contrastes, c'est dans l'époque la plus déré­lictoire et la plus vaine que l'espoir nous est offert de connaître la joie la plus laborieuse et, dans sa splendeur absolue (Style), l'exaucement de la volonté divine.

Tel était le message que me semblait appor­ter la poésie de Jean Parvulesco. Or, sa­chant qu'André Murcie poursuivait une quête pa­rallèle à la mienne et qu'il envisa­geait en outre de lancer la revue Style,  il m'a semblé utile de lui faire part de ma dé­couverte. C'est ainsi que dès le premier numéro, avec un poême intitulé Le Privi­lège des justes se­crets, Jean Parvulesco de­vint une voie es­sentielle de la revue Style.  Celle-ci devait encore publier le vaste et fa­meux poème, Le Pacifique , nouvel axe du monde  ainsi que le Rapport secret à la nonciature,  qui est un admirable récit visionnaire sur les appari­tions de Medjugorge et de nombreux autres poèmes. Tout cela avant d'élargir encore son dessein, en créant les éditions des Nou­velles Littératures Européennes, et de pu­blier un Cahier Jean Parvulesco,  récapitu­lation en une succession de plans de l'univers de Parvulesco, en ses divers as­pects, poétiques, philosophiques, esthé­tiques, architecturaux, cinématogra­phiques ou politiques.

 

-  André Murcie:  En effet et ceci répond de façon plus précise à votre question, il est clair que Parvulesco va à contre-courant de ses contemporains. Jean Parvulesco n'est en aucune façon un spécialiste. Il est, au con­traire, de cette race d'auteurs qui font une œuvre, embrassement de l'infinité des appa­rences et de cette autre infini qui est der­rière les apparences. C'est là la diffé­rence soulignée par Evola entre «l'opus», l'œuvre, et le «labor», le labeur. Avec Par­vulesco, nous sommes aux antipodes d'un quelconque «travail du texte», c'est à dire que nous sommes au cœur de l'œuvre et même du Grand œuvre, ainsi que l'illustre d'ailleurs le premier essai, publié dans le Cahier dans la série des dévoilements: Al­chimie et grande poésie.

Ce texte est sans doute, depuis les De­meures philosophales  de Fulcanelli, l'approche la plus lumineuse de ces ar­canes et tous ceux qui cherchent à préciser les rapports qui unissent la création litté­raire et la science d'Hermès trouveront, sans nul doute, en ces pages, des informa­tions précieuses et, mieux que des informa­tions, des traces - au sens où Heidegger di­sait que nous devions mainte­nant nous in­terroger sur la trace des Dieux enfuis.

Pour Jean Parvulesco, il ne fait aucun doute que la lettre est la trace de l'esprit. C'est ainsi que son œuvre nous délivre des idolâ­tries du Nouveau Roman et autres lit­téra­tures subalternes qui réduisent les mots à leur propre pouvoir dans une sorte de res­sassement narcissique. Pour Jean Parvu­les­co, la littérature n'a de sens que parce qu'el­le débute avant la page écrite et s'achève a­près elle.

 

- Il est signicatif que ces propos sur l'alchimie soient, dans le même chapitre du Cahier, sui­vis par un essai intitulé: «La langue fran­çaise, le sentier de l'honneur»...

 

- Luc-Olivier d'Algange: Trace de l'esprit, trace du divin, la langue française retrouve en effet, dans la prose ardente et limpide de Jean Parvulesco, sa fonction oraculaire. Ses écrits démentent l'idée reçue selon la­quelle la langue française serait celle de la com­mune mesure, de la tiédeur, de l'anecdote futile. Jean Parvulesco est là pour nous rap­peler que dans la tradition de Scève, de Nerval, de Rimbaud, de Lautréa­mont ou d'Artaud, la langue française est celle du plus haut risque métaphysique.

«Langue de grands spirituels et de mys­tiques, écrit Jean Parvulesco, charitable­ment emportés vers le sacrifice permanent et joyeux, d'aristocrates et de rêveurs pré­destinés, faiseurs de nouveaux mondes et parfois même de mondes nouveaux, langue surtout, de paysans, de forestiers conspi­ra­teurs et nervaliens, engagés dans le chemi­nement de leurs obscures survi­vances trans­cendantales, occultes en tout, langue de la poésie absolue...».

C'est exactement en ce sens qu'il faudra comprendre le dessein littéraire qui est à l'origine du Cahier  - véritable table d'orien­tation d'un monde nouveau, d'une autre cul­ture, qui n'entretient plus aucun rapport, même lointain, avec ce que l'on en­tend or­dinairement sous ce nom. Car il va sans dire que la «Culture» selon Parvu­lesco n'est cer­tes pas ce qui se laisse asso­cier à la «Com­mu­nication» mais un prin­cipe, à la fois sub­versif et royal, qui n'a pas d'autre but que d'ou­trepasser la condition humaine.

Tel est sans doute le sens du chant intitulé Les douzes colonnes de la Liberté Absolue  que l'on peut lire vers la fin du Cahier:  «...que nous chantons, que nous chantons, par ces volumes conceptuels d'air s'appelant étangs, ou blancs corbeaux, au­tour de l'im­maculation des Douzes Co­lonnes, ver­tiges s'ou­vrant sur les Portes d'Or et indigo de l'At­lantis Magna, chu­chotement circu­laire et lent, je suis la Li­berté absolue».

L'œuvre doit ainsi accomplir, par une in­time transmutation, cette vocation surhu­maniste, qui, dans la pensée de Jean Par­vulesco, ne contredit point la Tradition, mais s'y inscrit, de façon, dirai-je, clandes­tine; toute vérité n'é­tant pas destinée à n'importe qui. Mais c'est là, la raison d'être de l'ésotérisme et du secret, qui, de fait, est un secret de nature et non point un secret de convention.

 

- Vous avez donné une large place dans le Cahier aux rêves et prémonitions métapoli­tiques de Jean Parvulesco.

 

- André Murcie: En ce qui concerne le do­maine politique, nous avons republié dans le Cahier, un ensemble d'articles de géopo­li­tique que Parvulesco publia naguère dans le journal Combat et qui eurent à l'époque un rententissement tout à fait extraodi­naire. Ce fut, à dire vrai, une occasion de polé­mi­ques furieuses. A la lumière d'évènements récents, concernant la réuni­fication de l'Alle­magne, les change­ments intervenus à l'Est, ces articles re­trouvent brusquement une actualité brû­lante. Il semblerait que seul ce­lui qui expé­rimente les avènements de l'âme soit des­tiné à comprendre les évè­nements du monde. Ainsi des études comme L'Allemagne et les destinés actuelles de l'Europe  ou en­co­re Géopolitique de la Mé­diterranée occiden­tale  donnent à relire les évènements ulté­rieurs dans une perspec­tive différente.

 

- Le Cahier s'enrichit aussi des reflexions peu banales de Parvulesco sur le cinéma.

 

- Luc-Olivier d'Algange: Je crois que nous mesurons encore mal l'influence de Jean Par­vulesco sur le cinéma français et euro­péen. On sait qu'il fut personnage dans cer­tains films de Jean-Luc Godard - en parti­cu­lier dans A bout de souffle, et qu'il fut aussi, par ailleurs, acteur et scénariste. A cet égard, le Cahier  contient divers témoi­gnages passionnants concernant, plus par­ticulière­ment, Jean-Pierre Melville et Wer­ner Schrœ­ter dont nul, mieux que l'auteur des Mystères de la villa Atlantis,  ne connait les véritables motivations.

Il nous propose là une relecture cinémato­graphique dans une perspective métapoli­ti­que qui dépasse de toute évidence les niai­se­ries que nous réserve habituellement la cri­tique cinématographique.

 

- André Murcie: L'intérêt extrême des té­moignages de Jean Parvulesco concernant l'univers du cinéma est d'être à la fois en pri­se directe et prodigieusement lointain. C'est à dire, en somme, de voir le cinéma de l'in­térieur, comme une vision, en sympa­thie pro­fonde avec le cinéaste lui-même, et non point telle la glose inapte d'un quel­conque cinéphile. C'est ainsi que Nietzsche ou Tho­mas Mann parlèrent de Wagner.

 

- D'autres textes, publiés dans ce Cahier ont également cette vertu du témoignage direct, qui nous donne à pressentir une réalité sin­gulière. Ainsi en est-il des récits portant sur Arno Brecker et Ezra Pound.

 

- Luc-Olivier d'Algange: J'ai été pour ma part très sensible à l'hommage que Jean Par­vulesco sut rendre à Ezra Pound dont Dominique de Roux disait qu'il n'était rien moins que «le représentant de Dieu sur la terre». Hélas, cette recherche de la poésie absolue était jusqu'alors mal comprise, li­vrée aux maniaques du «travail du texte» et autres adeptes du lit de Procuste, acharnés à faire le silence sur les miroitements ita­liens de l'œuvre de Pound.

Cette italianité fit d'alilleurs d'Ezra Pound une sorte d'apostat, alors que, par cette fidé­lité essentielle, il rejoignait au contraire, au-delà des appartenances spéci­fiantes, sa véri­table patrie spirituelle qui, en aucun cas ne pouvait être cette contrée où Edgard Poe et Lovecraft connu­rent les affres du plus impi­toyable exil.

Mais je laisse la parole à Jean Parvulesco lui-même: «Ce qu'Ezra Pound, l'homme sur qui le soleil est descendu, cherchait en Italie, on l'a compris, c'est le Paradis. Tos­cane, Om­brie, Ezra Pound avait accédé à la certi­tude inspirée, initiatique, abyssale, que le Para­dis était descendu, en Italie, pen­dant le haut moyen âge et que, très occul­tement, il s'y trouvait encore. Pour en trou­ver la passe in­terdite, il suffisait de se lais­ser conduire en avant, aveuglément - et nuptialement aveu­glé - par la secretissima,  par une cer­taine lu­mière italienne de tou­jours ».

 

Propos recueillis

par Hugues Rondeau.

 

Cahier Jean Parvulesco, 350 pages, Nouvelles Littératures Européennes, 1989.

 

Luc-Olivier d'Algange, né en 1955 à Göttingen (Allemagne) a publié :

 

Le Rivage, la nuit unanime  (épuisé)

Médiances du Prince Horoscopale (Cééditions 1978)

Manifeste baroque  (Cééditions, 1981)

Les ardoises de Walpurgis  (Cahiers du lo­sange, 1984)

Stances diluviennes  (Le Jeu des T, 1986)

Heurs et cendres d'une traversée lysergique  (Le Jeu des T, 1986)

 

Co-fondateur, avec F.J Ossang, de la revue CEE (Christian Bourgois éditeur)

Rédacteur de PICTURA EDELWEISS et PIC­TURA MAGAZINE

 

Textes parus dans :

Recoupes; Erres; L'Ether Vague; CEE; Encres Vives; Phé; Libertés; Sphinx; Evasion; Le Mi­roir du Verbe; Dismisura; Bunker; Le Cheval rouge; Devil-Paradis; Anthologie de la poésie initiatique vivante; Claron; Le Jeu des Tombes; Question de; Vers la Tradition; La Poire d'Angoisse; Camouflage; Strass-Polymorphe; Phréatique, Asturgie-Onirie; Pictura; Mensuel 25; Matulu, Place royale, L'Autre Monde.

 

André Murcie né en 1951

 

- Poèmes de poésie  (1967-1985)

- Poème pour la démesure d'André Murcie

- Poèmes de la démesure  (Work in progress).

mardi, 11 mai 2010

Léon Daudet ou "le libre réactionnaire"

Leon-Daudet.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Un livre d'Eric Vatré: Léon Daudet ou  "le libre réactionnaire"

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Eric Vatré est en train de se faire une spécialité dans la biographie, art difficile et ingrat où les Français pa-raissent souvent légers devant les gigantesques tra-vaux d'érudition des chercheurs anglo-saxons. La personnalité de Léon Daudet est ici bien évoquée. Une des plumes les plus alertes, les plus vives, les plus cinglantes de la critique littéraire de ce premier demi-siècle. Un grand et passionné remueur d'idées et d'opinions, d'une liberté de ton absolue au service d'une pensée résolument hostile à ce qu'on a appelé depuis "l'idéologie dominante".

 

D'où le titre choisi par Vatré, à mon avis un pléonasme, car on imagine mal un réactionnaire qui ne choisirait pas librement d'être à contre-courant de ce qu'il aurait tout avantage à courtiser à longueur de colonnes, à l'exemple de l'ordinaire racaille journalistique contemporaine.

 

Vatré constate, sans vraiment l'expliquer, l'énigme d'une "Action Française" où cohabitent Maurras, apôtre farouche et sourd de la France seule et de sa prétendue supériorité intellectuelle, et Daudet, autre-ment ouvert, féru de Shakespeare, enthousiaste de Proust et de Céline, sensible à la peinture, à la musique, aux souffles poétiques venus d'ailleurs, là où Maurras, fossilisé dans ses plâtres académiques, sonne éperdument le clairon des grandeurs mortes dans le saint pré-carré du monarque introuvable.

 

Au total, Daudet, l'un des hommes au monde les moins doués pour l'action, et, en ce sens, une belle figure de cette IIIème République qu'il haïssait, et dont les ténors parlementaires ventripotents, crasseux et barbichus, si ridicules qu'ils fussent, sem-blent des aigles prodigieux comparés à nos politiciens actuels.

 

A lire et à relire avec le plus grand profit, pour plus de renseignements sur cette époque sans pareille, Les Décombres  de Lucien Rebatet.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Eric VATRE, Léon Daudet ou le "libre réaction-nai-re",  Editions France-Empire, 1987, 350 pages, 110 FF.

 

 

vendredi, 07 mai 2010

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Celinemmmmlllll.jpgEcco il Mostro. Sporco, indecente, nel pensare, nello scrivere e nel vivere. La lurida grandezza di Céline in tutto il suo splendore che poi coincide con la pienezza del suo squallore, ritratta in sette pose. Sette interviste nell’arco di un quindicennio sul viale del tramonto, dal dopoguerra alla sua morte, tornano in libreria sotto il titolo di Polemiche (Guanda, pagg. 120, euro 12,50).
Si avvicina il mezzo secolo della sua morte, ma non si allontanano le maledizioni sull’opera di Louis-Ferdinand Destouches, medico che diventò in arte Céline. Maledetto per il suo maledettismo, imperdonabile per le sue filippiche contro gli ebrei, i borghesi, i capitalisti. Non amo Céline, non sono un suo cultore, i suoi pamphlet irriverenti mi irritano, a cominciare da Bagattelle per un massacro e così la sua prosa intermittente e merdace, con tutti quei punti sospensivi; non ho mai scritto nulla su di lui e sulle sue opere. E ancor meno amo i celiniani, anzi detesto i manieristi del turpiloquio che traggono nobiltà e ispirazione da lui; non sopporto il rococò del triviale degli ultimi suoi emuli. Però, c’è della grandezza autentica nella sua scrittura, nel personaggio, nella sua vita. C’è della purezza nella sua impurità, e del genio nel suo delirio. Céline ha penetrato come pochi negli abissi della condizione umana, perduta a Dio e alla dignità, abbandonata nelle fogne oscure della vita. Uno dei rari scrittori che ha passione di verità e genuino desiderio di far combaciare la parola alla vita e alla verità più nuda e cruda. Così il suo stile riflette la sua passione di verità, tragica e brutale.
Quel vivere ai confini della morte, alla ricerca di emozioni estreme e grottesche, quello scrivere sulla soglia dell’invettiva, tra la parola e il vomito. Fu un medico valoroso, Céline, e un soldato valoroso, prima d’essere quel grande scrittore che fu. E pagò con quattordici mesi di duro carcere le sue parole di fuoco sugli ebrei e sul mondo; fu accusato di essere collaborazionista ma non aveva mai collaborato con nessuno, non aveva scritto per le riviste filo-naziste, era stato messo al bando nella Germania nazista, come arte degenerata, mentre dicevano che piacesse a Stalin. Viveva da barbone, in Danimarca e poi in Francia, in guerra contro il mondo. A condannarlo furono anche intellettuali che magari avevano trescato col nazismo. Come Sartre, che prima di collaborare con il comunismo e chiudere un occhio sui suoi orrori, aveva scritto anche per riviste collaborazioniste; ma alla fine il dannato fu lui, Céline. Io non vorrei dire, ma gli unici intellettuali che hanno pagato di persona le loro idee o anche i loro deliri, sono stati i Céline, i Pound, i Brasillach, i Gentile, i Pericle Ducati, i Borsani, i Carl Schmitt, gli Hamsun e si potrebbe ancora continuare. Epurati, a volte condannati a morte, o segregati in carcere, umiliati in gabbie, considerati peggio che bestie. Ed erano fior di scrittori, a volte anche generosi e grandi nella loro umanità, oltre che nei loro errori. La stessa cosa non avvenne invece per gli intellettuali che sostennero il comunismo, Stalin e Mao, Ho Chi Minh e Castro. Alcune idee si pagano, altre sono gratuite, se non addirittura ben pagate. Si vede che sono idee più grandi, più esigenti, diranno a propria consolazione i maledetti...
Céline fa parte di quell’universo di intellettuali dannati per uso di parola; ma lui restò un caso a sé, anarchico, disperatamente solo, non inscrivibile in nessun partito e in nessuna ideologia. Detestando i capitalisti e amando i poveri, Céline a volte dà l’impressione di essere un comunistoide, come lui stesso dice. Nella sua bella introduzione, Ernesto Ferrero ricorda che Céline fu difeso dal movimento nazionale ebreo, fu detestato dai nazisti che proibirono i suoi libri, ed egli stesso scrisse invettive contro Petain e contro Hitler paragonandolo a un clown pervaso di «satanismo wagneriano», fu il meno tedescofilo degli scrittori francesi e si tenne sempre in disparte. Una volta disse che gli ebrei sono i padri della nostra civiltà, e «si maledice sempre il proprio padre».

Queste interviste offrono lo spettacolo della solitudine creativa di Céline, la follia e la lucidità che si accavallano, insieme con la grazia e la ferocia. La tenerezza inerme si affaccia a volte nel suo aspro inveire: quando a esempio parla di sua madre e del suo nome d’arte tratto da lei per difendere la sua professione di medico; o quando parla della sua solitudine, della povertà, del suo gatto, della sua ritrosia a farsi fotografare («una foto è una pietra tombale») e del suo scrivere per campare... Ma poi riprende la vis polemica e il turpiloquio quando inveisce contro le cricche del potere, contro chi commercia e specula sulle idee e sulla pelle di altri, contro i riveriti padroni della letteratura, contro la Chiesa «grande ibridatrice e ruffiana». «Le civiltà finiscono con le donne, le frasi e i profumi»; «Parigi è il buco di culo del mondo. I francesi hanno coltivato la gioia di vivere». «La mia colpa? Aver detto sempre la mia verità, senza barare». La mia verità, dice Céline, non la verità, ha questa disarmante franchezza, questa libertaria modestia, estranea agli intolleranti. Queste interviste descrivono anche il disfacimento del suo corpo, il suo declino, le sue spalle che si curvano e sprofondano la sua testa tra i lunghi capelli e il collo torto. Resta una fronte spaziosa e uno sguardo ingenuo e profetico che invoca attenzione e sprigiona magìa. Un volto che racconta le ferite della sua genialità nella disfatta di una vita al termine della notte. Céline, il rigurgito della verità.

jeudi, 06 mai 2010

Mark Twain, critique de l'impérialisme américain

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Anton SCHMITT:

Mark Twain, critique de l’impérialisme américain

 

Beaucoup d’écrivains ont écrit plusieurs livres mais ne sont véritablement devenus célèbres que grâce à un seul de leurs ouvrages. Mark Twain est né sous le nom de Samuel Langhorne Clemens le 30 novembre 1835 dans le Missouri et est mort, il y a tout juste cent ans, le 21 avril 1910 dans le Connecticut. Il a acquis la célébrité sous son pseudonyme de Mark Twain. Il avait quatre ans lorsque sa famille emménagea dans la petite ville d’Hannibal sur les rives du Mississippi, lieu qui devint plus tard le théâtre des aventures de Huckleberry Finn. En 1847, le père de Mark Twain meurt; celui-ci commence alors à apprendre le métier de typographe. Son frère achète ensuite la feuille locale et c’est dans ce support-là que notre auteur écrira ses premiers et brefs articles. Après avoir atteint l’âge de dix-huit ans, il quitte Hannibal et devient timonier sur l’un de ces grands bateaux fluviaux qui assurent la navigation sur le Mississippi et sur le Missouri. Quand éclate la guerre civile américaine, cette navigation est interrompue sur les deux grands fleuves. Mark Twain devient soldat dans les armées confédérées mais abandonne son service dans la cavalerie au bout de deux semaines et décide de partir vers l’Ouest. Après un examen de conscience, il finit par adhérer intellectuellement au camp “yankee”. En 1862, il se trouve à Virginia City dans le Nevada où il exerce le métier de journaliste. En 1863, il se manifeste pour la première fois sous le pseudonyme de Mark Twain. Son itinéraire le mène toujours plus à l’Ouest, toujours plus loin de la guerre. En 1864, il s’intalle à San Francisco. Dans les années 70 du 19ème siècle, il se rend pour la première fois en Europe et au Proche Orient et séjourne longtemps en Allemagne, pays qu’il adorait. En 1891, lors de sa seconde tournée en Europe, le dernier empereur d’Allemagne, Guillaume II, l’invite à déjeuner avec lui. En 1870, il avait épousé Olivia Langdon et s’était installé, dans le Nord, dans le Connecticut. Sa voisine était Harriet Beecher-Stowe qui le conforta dans son attitude hostile à l’esclavage. 

 

Une étude comparative de ces deux auteurs et de leurs principaux ouvrages mérite d’être faite. En 1876, Mark Twain écrit Tom Sawyer et en 1883, Les aventures de Huckleberry Finn. Ces deux ouvrages sont devenus des classiques de la littérature pour la jeunesse, tout en contestant, à l’époque, la teneur de la littérature conventionnelle pour les jeunes qui ne présentait que des gamins modèles ou des petites filles sages. A l’époque, Twain avait fait scandale en campant un héros, Tom Sawyer, qui fait l’école buissonnière et qui, au lieu de mobiliser ses efforts pour atteindre l’idéal du bien-être matériel, s’acoquine avec un paria de village sans le sou, qu’il admire de surcroît, mais finit quand même par devenir riche.

 

Les bonnes consciences politiquement correctes estiment aujourd’hui que Les aventures de Huckleberry Finn méritent de sévères critiques car l’esclave de la Veuve Douglas, est appelé “Nigger Jim” dans le livre. Le terme “nègre”, au départ utilisé sans le moindre jugement de valeur, et a fortiori sans intention insultante, pour désigner les personnes de race à pigmentation foncée, est aujourd’hui considéré comme un vocable à connotation “raciste”, alors que le terme “nigger”, devenu, lui, une injure classique dans le vocabulaire dénigrant du racisme, demeure assez peu connu comme tel chez les non anglophones. Les bonnes consciences s’en offusquent, incapables qu’elles sont de resituer correctement une oeuvre littéraire dans le contexte de son époque. Les deux romans destinés à la jeunesse sont effectivement le reflet de la société américaine à l’époque de Mark Twain qui ne s’empêchait nullement d’en faire la critique. L’hypocrisie religieuse, le monde des pauvres, des strates sociales déshéritées, le désir pathologique d’atteindre la puissance pour la  puissance et l’âpreté au lucre  —la maladie  emblématique de l’Amérique pour Twain—  et l’esclavage dans les Etats du Sud ont tous fait l’objet de critiques sévères dans l’oeuvre de notre auteur. Ses flèches les plus acérées, il tentait toujours de les décocher en s’aidant de l’humour et de la satire. Le temps qu’il avait passé sur les rives du Mississippi et ses expériences personnelles, qu’il a manifestement travaillées pour en faire la matière première de son oeuvre littéraire, ont fait de lui un chroniqueur crédible. Le destin de “Nigger Jim”, pour pitoyable qu’il ait été, est décrit tout en laissant transparaître malgré tout une certaine joie de vivre.

 

L’ouvrage principal de sa voisine Harriet Beecher-Stowe est tout différent. Elle a tenté, avec succès, dans La case de l’Oncle Tom, d’inciter les masses de l’Union à haïr les Confédérés et à les pousser à la guerre alors qu’elle ne s’était jamais rendue dans le Sud, comme on s’en est aperçu ultérieurement. La description du planteur avare, esclavagiste, vicieux et maniant le fouet, une caricature de la réalité, avait pour but de dépeindre une figure inhumaine qui méritait bien d’être exterminée. Des jeunes gens, après avoir lu ce livre, se sont joyeusement engagés dans les troupes nordistes pour partir dans une guerre atroce et aller mourir dans les espaces en friche de la Virginie ou à Cold Harbour, tout en croyant combattre pour une cause juste et bonne. Contrairement au scénario mis en place par Harriet Beecher-Stowe, qui justifie à l’avance le meurtre et le lynchage, et même la guerre, comme seuls moyens de prêcher la libération, Mark Twain, lui, met en scène la libération de son “Nigger Jim” de manière pacifique. La propagande de guerre, toute ruisselante de haine, n’était nullement la tasse de thé de Mark Twain.

 

Dans les années 90 du 19ème siècle, il fut l’une des figures du mouvement anti-impérialiste aux Etats-Unis et fustigea à coups de commentaires caustiques les guerres que menait son pays contre l’Espagne, les Philippines, contre l’annexion de Puerto Rico et des Iles Mariannes. En 1891, comme nous venons de le dire, il entama sa seconde tournée en Europe et se choisit Berlin comme ville de résidence. C’est à partir de la capitale du nouveau Reich bismarckien qu’il  commençait ses tournées de conférences, afin de payer ses dettes. Il resta neuf ans dans le “Vieux Monde”. La langue allemande, qui, comme à bien d’autres, lui paraissait compliquée, fut souvent la cible de son humour et donna lieu à beaucoup de jeu de mots (comme la confusion entre: “Festgäste” – Commensaux- et “fresst feste” – “bouffez fêtes”).

 

Plus tard, il envoya ses filles étudier en Allemagne. Twain rédigea enfin un biographie du Général le plus célèbre de l’armée “yankee”, plus tard élu Président des Etats-Unis, Ulysses S. Grant. Il appartenait à une loge maçonnique. En 1901, l’Université de Yale lui octroya un diplôme de docteur honoris causa.

 

Anton SCHMITT.

(Article paru dans “zur Zeit”, Vienne; n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 05 mai 2010

Mark Twain: ironia e libertà

Mark Twain: ironia e libertà

di Marco Iacona

Fonte: secolo d'italia

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Della compagnia del grande scrittore Mark Twain, morto cento anni fa (il 21 aprile del 1910) a Redding nel Connecticut, avremmo bisogno tutt’oggi. Ed è per questo che ne parliamo ancora. Del suo senso dell’humor in primo luogo, della sua critica al conformismo, delle prese in giro, delle denunzie dei falsi miti e di tutte le glorie (che così ovviamente non furono), dei più classici “tempi che furono”. La sua vita fu insieme uno sberleffo e una ribellione contro quel qualcosa di difficilmente classificabile, a metà fra storia e sentimento, che non faceva parte dello spirito americano o meglio del suo di spirito, fatto di avventura e di semplice ricerca della verità. Twain fu scrittore anche molto scomodo, così in anticipo sui tempi da essere volontariamente ignorato per quello che scriveva (soprattutto nel campo del giornalismo); i parenti furono costretti a bruciare molti dei suoi manoscritti perché pericolosi per le comunità dei religiosi. Twain rispose alla “censura” in modo bonario, con uno dei tanti aforismi per i quali sarà universalmente noto: «solo ai morti è permesso di dire la verità». Oltretutto aveva con la professione di giornalista uno strano rapporto di amore (senz’altro) e di generosa avversione grazie a una filosofia del buon gusto e del saper vivere insieme: «Per prima cosa dovete avere ben chiari i fatti; così potete distorcerli come vi pare», diceva.  
Per questo strano feeling con la “verità” (perfino nelle comuni espressioni) e per essersi trovato ben più in là da certo anonimo quotidiano, Mark Twain venne classificato come il più americano fra gli scrittori d’America e per questo qualcuno affermò anche che «tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». A pensarla così nientemeno che Ernest Hemingway in compagnia di William Faulkner.
Si potrebbe cominciare dal suo nome allora che non era come forse alcuni sapranno Mark Twain, ma Samuel Langhorne Clemens; lo pseudonimo che lo ha reso famoso in tutto il mondo ha origini marinare come ricordano gli esperti di narrativa fantastica Gianni Pilo e Sebastiano Fusco: «“Mark Twain! Segna due braccia!”, gridavano, nel dialetto del Sud, gli scandagliatori sui battelli che percorrevano il Mississippi, segnalando al timoniere la profondità del fondale, ad evitare il rischio di incagliarsi sulle secche. Il giovane Samuel Longhorne Clemens, che su quei battelli aveva trascorso infanzia e giovinezza, quando cominciò a scrivere e pubblicare, volle scegliersi proprio quel grido come pseudonimo». Si potrebbe cominciare così, per comprendere la sua personalità di uomo libero, concreto quanto basta, innamorato delle scienze fisiche, libertario per sé e soprattutto per gli altri (fece parte della “American anti imperialism league”, lega  contraria all’annessione delle filippine da parte statunitense). Twain era aperto al mondo come ci si sarebbe atteso solo da un grande americano della sua generazione (era nato nel 1835), abbandonò presto gli studi a causa della morte del padre e fece mille mestieri, fu tipografo (apprendista), mercante, scrittore umorista, marinaio sui battelli, soldato nella Guerra Civile dalla parte dei Confederati, poi cercatore d’oro, reporter, viaggiatore instancabile e conferenziere nelle università. Conobbe e visitò non solo l’America ma il mondo intero in lungo e in largo e si fece conoscere a trent’anni grazie al racconto “ Il Ranocchio saltatore”; aveva “solo” quarant’anni invece quando divenne uno degli uomini più famosi d’America. Per comprendere la sua modernità – che avrebbe riversato negli scritti – si deve pensare a Mark Twain come un uomo che sarebbe arrivato primo degli altri in tanti piccoli-grandi gesti del quotidiano e della vita professionale. Lasciamo la parola a Pilo e Fusco allora: «Diceva di essere legato allo spirito paesano del “Profondo Sud”, ma in realtà era il più moderno degli scrittori. Fu il primo ad usare la macchina da scrivere e la stilografica, e a dettare un libro al grammofono. Scrisse i testi di alcune canzonette che divennero enormemente popolari. Fece dell’editoria un’industria da grandi cifre: rimase celebre l’anticipo di duecentomila dollari (di allora) da lui pagato per assicurarsi in esclusiva le memorie del generale Grant». Fu dunque un uomo molto ricco e famoso ma non sempre fortunato negli affari e nel privato. Passò la vecchiaia fra crisi e lutti familiari.
Gli studiosi raccontano quanto la vita di Mark Twain sia stata complicata (quasi fossero esistite più persone in una), sfaccettata, colma di lezioni e di contraddizioni riversate anch’esse nelle opere. E naturalmente hanno ragione. Due in particolare le più note e lette da generazioni di giovani (anche se, soprattutto la seconda delle due è tutt’altro che un libro per ragazzi perché venne perfino radiato dalle biblioteche): Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884). Detti libri altro non sarebbero (nell’immaginazione dei teorici) se non le diverse parti – almeno tre – della stessa vita dello scrittore. «Se alla fine di quella che abbiamo definito la prima fase della sua vita Clemens assomiglia in un certo senso a Tom Sawyer», scrive Guido Carboni autore per Mursia di un invito “alla lettura” dello scrittore americano, «è cioè una sorta di adolescente in fondo romantico e soprattutto desideroso di attrarre l’attenzione del mondo raccontando storie, più o meno abbellite nel ricordo e nella elaborazione narrativa delle proprie avventure, alla fine della seconda fase potremmo dire che assomiglia di più ad Huck, nonostante i suoi 50 anni. Come Huck ha accumulato molta esperienza della vita e degli uomini, anche se sembra molto meno disposto di Huck a perdonare i loro difetti, e una discreta ricchezza. Come Huck continua a dire di volersi distaccare al mondo di cui è entrato a far parte, di voler “scappare di casa” verso più liberi territori, ma resta a casa cercando un equilibrio nella doppia identità di rispettabile cittadino convinto del proprio ruolo di Pierino ribelle, fustigatore della stupidità del mondo che lo circonda. Solo che in Clemens queste tensioni non sembrano veramente trovare un accettabile equilibrio».
The Adventures of Huckleberry Finn è probabilmente il capolavoro di Twain ed è il seguito di “Tom Sawyer” (dove il personaggio di Huck che vive in un barile era già apparso). È il romanzo di un giovane figlio di un ubriacone «senza casa, senza famiglia, senza educazione, ozioso, sfrenato, malvagio». Malgrado tutto - o forse proprio per la sua personalità ribelle – divenuto «beniamino» dei giovanissimi del villaggio. La storia è quella di un ragazzo che non vuol cedere alla mancanza di libertà; la fama del romanzo è dovuta in primo luogo allo “scontro interno” fra civiltà e natura selvaggia; corruttrice la prima roussoianamente buona la seconda. Il punto di vista dal quale Twain racconta la storia (come per esempio il successivo nostro “Giornalino di Gian Burrasca” di Vamba o “Il Barone rampante” di Italo Calvino), è però quello del protagonista ribelle, nel libro manca infatti una morale perbenista - e vittoriana - in grado di far pendere la storia dal lato della cosiddetta civiltà e della ragione degli educatori.
Nel libro è assente la «”correzione” di una morale finale che dimostri come la disobbedienza, i “vizi”, la mancanza di decoro siano negativi e portino chi li pratica ad una brutta fine», probabilmente perché Twain da grande narratore autobiografico aveva presente la differenza fra un’esistenza vissuta nel rischio e il suo esatto contrario. Non sempre poi, per lui, quel mondo reale messo su nel tempo, mattone su mattone, rispondeva a un armonico disegno di libertà e verità. Per questo, per l’autore dell’ironico Un americano alla corte di re Artù occorreva una gran dose d’avventura per battere i “tiranni” del tempo, e con essa naturalmente alcuni preziosissimi aforismi: «Non abbandonare le tue illusioni. Se le lascerai, continuerai ad esistere, ma cesserai di vivere». Ecco: tanto basta per ricordarci di lui.                        
          


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