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dimanche, 03 juin 2012

Intervista a Claudio Mutti

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Intervista a Claudio Mutti

La traduzione della tragedia “Ifigenia” di Mircea Eliade è pubblicata dalle Edizioni all’insegna del Veltro


Ultimamente fioccano le “censure di presentazione” di libri ritenuti - per lo più a torto - politicamente o culturalmente scorretti. Tutti lettori sanno qualcosa del recente divieto di presentazione del “Così parlò Zarathustra” edito da Ar. O della richiesta dell’associazione “Gherush” di sospendere l’insegnamento di Dante e della sua “Comoedia” perché... antisemita.


Ma c’è un altro precedente, forse ignoto, che riassumiamo in breve.
Un paio d’anni fa Claudio Mutti - il filologo di Parma tacciato di rossobrunismo e eresia - aveva tradotto e pubblicato in italiano una tragedia di Mircea Eliade, “Ifigenia”, che fu messa in scena un paio di volte in Romania (prima sotto Antonescu e poi sotto Ceausescu).
Alcuni mesi fa un regista teatrale, Gianpiero Borgia, ha letto il libro e gli è piaciuto. Così ha preparato un allestimento dell’Ifigenia di Eliade per il Teatro Festival di Napoli (12 giugno) e per la stagione teatrale del Teatro Stabile di Catania (26 giugno).


Qualche giorno fa, però ha ricevuto un diktat dall’erede dei diritti d’autore di Eliade, tale Sorin Alexandrescu, attivista liberale e fondatore di un Comitato per i diritti umani: la tragedia non deve essere rappresentata nella traduzione di Claudio Mutti, perché ha pubblicato tre saggi storici sul rapporto di Eliade con la Guardia di Ferro di Corneliu Codreanu. Proponiamo ai lettori di “Rinascita” un’intervista al professore fatta da un giovane studioso della lingua romena, che ha appena pubblicato un libro presso Aliberti un libro sul colpo di Stato del dicembre 1989.
 
Bistolfi:
Claudio Mutti, antichista, filologo, linguista, poliglotta, traduttore e molto altro: una delle Sue ultime fatiche è stata la traduzione della tragedia Ifigenia di Mircea Eliade, pubblicata dalle Edizioni all’insegna del Veltro. Lei ha così portato alla luce un testo pressoché sconosciuto dello studioso romeno. Quando ha scoperto questo lavoro? Di che cosa tratta?


Mutti: Sono debitore della prima lettura di Ifigenia al mio amico Ion Marii, che alcuni decenni fa mi donò un esemplare dell’ormai irreperibile edizione uscita grazie ai suoi sforzi nel 1951, quando era esule in Argentina. A tale proposito, Mircea Eliade scrisse nel dicembre di quell’anno su un periodico dell’emigrazione romena: “Talvolta arrivano degli operai dall’anima angelica e donano i loro averi affinché si possano stampare i versi e le prose dei nostri sognatori o dei nostri veglianti; è il caso di quell’operaio che sta in Argentina, Ion Marii, il quale ha donato all’editore di Cartea Pribegiei tutto quello che aveva risparmiato in un anno e mezzo di lavoro (Ion Marii, primo membro d’onore della Società degli Scrittori Romeni, quando ritorneremo a casa…)”. Norman Manea invece raccontò su “Les Temps Modernes” che Ifigenia venne pubblicata… dal proprietario “della stampa di destra argentina” (sic)!


Di che cosa si tratta? Ifigenia è una tragedia che riprende il mito trattato da Euripide nell’Ifigenia in Aulide, ma si caratterizza per il risalto attribuito al motivo del sacrificio, motivo di cui Eliade si occupò, in quegli stessi anni, nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole. La figlia di Agamennone accetta e sollecita il proprio sacrificio affinché la spedizione contro Troia possa compiersi con successo.
La tesi di Eliade è che Ifigenia, accettando e sollecitando il proprio sacrificio, acquisisce un “corpo di gloria” che consiste nel successo della spedizione bellica; essa vive nell’impresa degli Achei proprio come la moglie di Mastro Manole vive nel corpo di pietra e calce del monastero.
 
Nel mese di giugno il regista Gianpiero Borgia presenterà la versione italiana di Ifigenia, in prima assoluta per l’Italia, al Teatro Festival di Napoli e al Teatro Greco-Romano di Catania. Abbiamo però notato che il Suo nome non compare più nel cartellone. Si tratta di un “refuso” oppure c’è stato qualche problema “tecnico”?


L’erede di Mircea Eliade, suo nipote Sorin Alexandrescu, ha posto come condizione irrinunciabile per la concessione dei diritti che la rappresentazione dell’opera non si avvalesse della mia traduzione e che questa venisse sostituita dalla traduzione inedita di Horia Corneliu Cicortas. Il motivo di questo aut-aut dell’erede di Eliade è dovuto ad un puro e semplice pregiudizio ideologico. Infatti Sorin Alexandrescu, già fondatore di un comitato per i “diritti umani”, ritiene che oggi, “grazie al trionfo mondiale del liberalismo, noi comprendiamo più facilmente quello che molti intellettuali e cittadini non potevano comprendere allora [cioè nel periodo interbellico], ossia che la società liberale è la società meno imperfetta”. Ora, siccome lo zio non ebbe la possibilità di comprendere quello che invece è stato compreso dal nipote, quest’ultimo si trova in grande imbarazzo allorché il nome di Eliade viene associato alla cultura del tradizionalismo o, peggio ancora, al movimento legionario; perciò si sforza di dissociare Eliade da tutto ciò che è culturalmente e politicamente scorretto. Ai suoi occhi io ho commesso la grave colpa di pubblicare in più lingue alcuni studi che sine ira et studio documentano le liaisons dangereuses di Eliade sia col tradizionalismo (Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni) sia con il legionarismo (Mircea Eliade e la Guardia di Ferro e Le penne dell’Arcangelo). Di qui il diktat di Sorin Alexandrescu al regista italiano.
 
Leggendo Eliade si ha l’impressione che egli abbia rivelato di se stesso molto di più nei romanzi e, scopriamo oggi, in questa tragedia, che non nei diari e nella sua produzione saggistica. Qual è la Sua impressione a riguardo?


Credo di essere stato il primo, oltre una ventina d’anni fa, ad affermare che “sotto il velame” della narrazione romanzesca Eliade ha celato qualcosa che non poteva o non voleva dire esplicitamente in altra maniera: un qualcosa che aveva a che fare con il “culturalmente e politicamente scorretto” di cui ho detto poc’anzi. La mia convinzione è stata poi confermata da altri studiosi, i quali hanno scrutato le pagine della narrativa eliadiana cercando di mettere in luce quelli che Marcello De Martino definisce come i “non detti” e i “frammenti di un insegnamento sconosciuto”.
 
In Romania è mai stata rappresentata questa tragedia? Quali riscontri ha avuto?


Eliade si trovava all’estero allorché il 12 febbraio 1941 Ifigenia venne rappresentata per la prima volta al Teatro Comedia di Bucarest (il Teatro Nazionale era in restauro in seguito ad un terremoto). Una ventina di giorni prima, il generale Antonescu aveva espulso i legionari dal governo ed aveva instaurato una dittatura militare; dato il successo riscosso dalla prima dell’opera, la moglie di Eliade temeva che le autorità potessero vietare ulteriori rappresentazioni, perché, come si legge nel Diario di Petru Comarnescu, con la figura di Ifigenia “Eliade vuole ricordare Codreanu”. Col Diario di Comarnescu converge il Diario di Mihail Sebastian, il quale non si era recato alla prima di Ifigenia: “Avrei avuto l’impressione di assistere – annotò il drammaturgo ebreo – ad una seduta di cuib”, ossia ad una riunione legionaria. Dovette trascorrere una trentina d’anni, prima in Romania si potesse leggere di nuovo il testo di Ifigenia o assistere ad una rappresentazione della tragedia. Il testo fu pubblicato su “Manuscriptum”, una rivista culturale edita a Bucarest, nel 1974, nel quadro di un’operazione di “recupero” della produzione eliadiana da parte del regime nazionalcomunista. Negli anni Ottanta, la tragedia di Eliade venne rappresentata due o tre volte.
 
Qual è la percezione che oggi in Romania si ha dell’adesione di Eliade al Movimento legionario? E in Italia?


Per i Romeni che hanno un’opinione positiva del Movimento legionario, l’adesione di Eliade (così come quella della maggior parte dell’intellettualità romena dell’epoca) è motivo d’orgoglio. Per gli altri, a partire dall’erede dei diritti delle sue opere, è motivo d’imbarazzo. Quanto all’Italia, alcuni hanno demonizzato Eliade come un aguzzino che “consegnava alle SS gli ebrei romeni” (così scrisse testualmente “Repubblica”), mentre altri hanno cercato a lungo di sottacerne l’impegno legionario, poi si sono arrampicati sugli specchi per negarlo o minimizzarlo.


26 Maggio 2012 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=15103

vendredi, 27 janvier 2012

The Legionary Doctrine

The Legionary Doctrine

By Christopher Thorpe

Ex: http://www.counter-currents.com/

gardia10.gifThe Legionary Doctrine (also called Legionarism) refers to the philosophy and beliefs presented by the Legion of Michael the Archangel (also commonly known as the Iron Guard), the Romanian Christian Nationalist organization founded by Corneliu Zelea Codreanu, who is the key figure in the creation of its doctrine. It is necessary to clarify what the members of the Legionary Movement taught and believed due to many misconceptions arising from ignorance and outright deception, as well as the mistaken assumption that the Legionary Movement was largely an imitation of Fascism or National Socialism.

Precursors

In 1878 and 1879, after Romania had won its independence from the Ottoman Empire, the new nation wanted to be recognized by other European powers. The Romanians could not achieve this without signing the Treaty of Berlin, which forced them to grant citizenship to Jews, a hostile and alien people on Romanian land. Although the treaty was signed, certain significant cultural and political figures in Romanian history spoke out against the Jews in order to warn their nation that the Jews were culturally and economically harmful. These men’s works from 1879 were significant intellectual sources of the Legionary Movement’s Christian nationalism and awareness of the Jewish Problem. The most influential of them were the following:

  • Vasile Conta (1845–1882) – philosopher and politician
  • Vasile Alecsandri (1821–1890) – diplomat and politician
  • Mihail Kogălniceanu (1817–1891) – statesman and historian
  • Mihail Eminescu (1850–1889) – famous poet and journalist
  • Bogdan Petriceicu Hasdeu (1838–1907) – historian and philologist
  • Costache Negri (1812–1876) – politician
  • A. D. Xenopol (1847–1820) – historian and economist

Other intellectuals, who lived in the early 20th century and saw the birth and growth of the Legionary Movement, also educated Codreanu and other Legionaries about the Jewish Problem, national mysticism, Orthodox mysticism, and economic practices. These men were:

  • A. C. Cuza (1857–1947) – politician and professor of law and political economy
  • Nicolae Iorga (1871–1940) – historian, professor of history, and politician
  • Nicolae Paulescu (1869–1931) – physiologist, professor of medicine, and philosopher
  • Ion Gavanescul (1859–1949) – professor of pedagogy
  • Nichifor Crainic (1889–1972) – professor of theology, theologian, and philosopher

To avoid misconceptions, it must be noted that it is not implied here that the precursors of the Legionary Movement agreed with Legionary doctrine on every point. For example, some of them had different political attitudes; the Legion rejected republicanism while precursors such as Eminescu supported the democratic system.

Anti-Semitism and the Jewish Problem

Some people today who follow the Legionary doctrine or admire the Legionaries assert that the Legion was not anti-Semitic but only appeared so because of a Jewish problem in Romania. One of the major reasons for which they object to the term “anti-Semitic” is because of a certain way by which that term is defined by Jews and philo-semites. Such groups define it as an irrational hatred of all Jews, and in that case the Legionaries were not truly anti-Semitic, since their hostility to the Jews was not irrational nor were they enemies with every Jew (it has been pointed out that the Legion had a few Jewish supporters, although it should be remembered that the majority of Jews were enemies of the Legion).

However, in the late 19th century and early 20th century the term anti-Semite was simply defined as one who had hostility towards Jews and opposed their presence in one’s nation. This is how Cuza and other precursors, Corneliu Codreanu, and his successor Horia Sima defined it, and they all had no qualms about calling themselves anti-Semitic. Codreanu freely stated in his major book For My Legionaries about his visit to Germany that “I had many discussions with the students at Berlin in 1922, who are certainly Hitlerites today, and I am proud to have been their teacher in anti-Semitism, exporting to them the truths I learned in Iasi.”

It should be noted, however, that while Codreanu had no problem associating with the German National Socialist movement (although he also correctly insisted that his Legion was entirely independent of National Socialism), Horia Sima objected to any connection between the two after World War II. In his 1967 book Istoria Mişcarii Legionare (History of the Legionary Movement) Sima wrote:

The Legionary Movement, since its first manifestation, was the object of all sorts of slander. One of the most common allegations by its countless internal and external enemies was that the Legion was a “branch of Nazism.” Such statements can be made as a result of ignorance or bad faith. The anti-Semitism of the Legionary Movement has nothing in common with German anti-Semitism. By taking a stand against the Jewish danger, a danger extremely active and menacing in Romania, Corneliu Codreanu was simply continuing an almost century old Romanian tradition.

It should also be emphasized that Legionary hostility to the Jews as an ethnic group was actually rational, based not only on the scientific studies of the Jewish problem by intellectuals such as Cuza, Paulescu, Iorga, Xenopol, et al. but also on real experiences and observations made by many average Romanians. The Jewish problem was a vivid reality. Both intellectual observation as well as common observation showed the people beyond any doubt that the majority of Jews not only lived parasitically off of the labor of Romanian workers by their ownership of many companies or financial activity, but also posed a threat to Romanian culture and tradition, which they were damaging through their influence on mass media and certain government policies.

It is also worth noting that while Codreanu was first and foremost concerned with the Romanian condition, he believed that an alliance between nations needed to be made to solve the Jewish problem internationally. This is made clear by a statement in For My Legionaries:

There, I shared with my comrades an old thought of mine, that of going to Germany to continue my studies in political economy while at the same time trying to realize my intention of carrying our ideas and beliefs abroad. We realized very well, on the basis of our studies, that the Jewish problem had an international character and the reaction therefore should have an international scope; that a total solution of this problem could not be reached except through action by all Christian nations awakened to the consciousness of the Jewish menace.

The solution to the Jewish problem was not to kill the Jews, as many dishonest people accuse Codreanu of wanting, but to expel the Jews from Romania. This plan for deportation is plainly stated in The Nest Leader’s Manual, where he wrote “Romania for Romanians and Palestine for the Jews.”

Economics and Labor: Anti-Communism and Anti-Capitalism

When Codreanu first went to the University of Iasi in 1919, years before he created the Legion, he discovered that most of the city and university were heavily influenced by Communist political campaigns. The Romanian workers were experiencing terrible working conditions and had very low wages, so they had been drawn to Communism by Marxist propagandists. Professors and students at the University were also largely converted to Communism, and Communist student meetings attacked the Romanian army, the Orthodox Church, the monarchy, and other aspects of traditional Romanian life. It was this situation that drove Codreanu into a heroic fight against Communism, finally leading a conservative group to completely crushing the Communist movement. Codreanu, being a traditionalist, insisted on defending faith in God, nationalism, the Crown, and private property.

On the other hand, Codreanu also believed in fighting the Capitalist system, which he realized was an inherently exploitive system, which allowed corporations to exploit millions of workers. In 1919, when forming the program of “National Christian Socialism,” he stated that “It is not enough to defeat Communism. We must also fight for the rights of the workers. They have a right to bread and a fight to honor. We must fight against the oligarchic parties, creating national workers organizations which can gain their rights within the framework of the state and not against the state.”

Later in 1935 he announced the creation of a new system which he hoped would be adopted by the nation as a whole once the Legionary Movement took power: “Legionary commerce signifies a new phase in the history of commerce which has been stained by the Jewish spirit. It is called: Christian commerce — based on the love of people and not on robbing them; commerce based on honor.” Essentially Codreanu was a Third Position socialist, supporting private property but at the same time opposing the materialistic and money-centered system of capitalism. Another important point of Codreanu’s ideas for Romania is that labor is something in which everyone must be involved in. Laziness was a trait that should be treated as a highly negative vice. All Legionaries in some way did some kind of physical work, often to help lower class Romanians in their own labor and problems. Codreanu wrote: “The law of work: Work! Work every day. Put your heart into it. Let your reward be, not gain, but the satisfaction that you have laid another brick to the building of the Legion and the flourishing of Romania.”

One issue which has often been brought up against Codreanu is the fact that he associates both Capitalism and Communism with the Jews, as both of them were dominated by Jews in Romania. He wrote, connecting Jewish Capitalists and Jewish Communists, “But industrial workers were vertiginously sliding toward Communism, being systematically fed the cult of these ideas by the Jewish press, and generally by the entire Jewry of the cities. Every Jew, merchant, intellectual, or banker-capitalist, in his radius of activity, was an agent of these anti-Romanian revolutionary ideas.” Some of his opponents have objected to this connection by arguing that it is ridiculous to say that Jewish company owners and bankers would support Communists, who supposedly would destroy them upon a revolution, since they would want to eliminate the capitalists. But it should be remembered that not all of the bourgeoisie were exterminated in Communist revolutions across Europe. Sometimes, members of the bourgeoisie who supported Communism before a revolution, who were oftentimes Jews, would be given a place in the Communist system once the revolution was achieved.

Nation and Land

The Legionaries believed that nations were not merely products of history and geography, but were created by God Himself and had a spiritual component to them. Codreanu wrote in For My Legionaries, adopting the teachings of Nichifor Crainic:

If Christian mysticism and its goal, ecstasy, is the contact of man with god through a “leap from human nature to divine nature,” national mysticism is nothing other than the contact of man and crowds with the soul of their people through the leap which these forces make from the world of personal and material interests into the outer world of nation. Not through the mind, since this any historian can do, but by living with their soul.

A nation was also inseparable from the land on which it developed, to which the people grew a spiritual connection with over time. Codreanu wrote of the Romanian people:

We were born in the mist of time on this land together with the oaks and fir trees. We are bound to it not only by the bread and existence it furnishes us as we toil on it, but also by all the bones of our ancestors who sleep in its ground. All our parents are here. All our memories, all our war-like glory, all our history here, in this land lies buried. . . . Here . . . sleep the Romanians fallen there in battles, nobles and peasants, as numerous as the leaves and blades of grass . . . everywhere Romanian blood flowed like rivers. In the middle of the night, in difficult times for our people, we hear the call of the Romanian soil urging us to battle. . . . We are bound to this land by millions of tombs and millions of unseen threads that only our soul feels . . .

Finally, it must be noted that Codreanu also believed that every nation has a mission to fulfill in the world and therefore that only the nations which betray their mission, given to them by God, will disappear from the earth. “To us Romanians, to our people, as to any other people in the world, God has given a mission, a historic destiny,” wrote Codreanu, “The first law that a person must follow is that of going on the path of this destiny, accomplishing its entrusted mission. Our people has never laid down its arms or deserted its mission, no matter how difficult or lengthy was its Golgotha Way.” The aim of a nation, or its destiny in the world of spirit, was that it does not simply live in the world but that it aims for resurrection through the teachings of Christ. “There will come a time when all the peoples of the earth shall be resurrected, with all their dead and all their kings and emperors, each people having its place before God’s throne. This final moment . . . is the noblest and most sublime one toward which a people can rise.” It was for this ideal that the Legion fought tirelessly against all obstacles, corrupt politicians, and alien peoples such as the Jews which insisted on feeding off the Romanian people and land.

Religion and Culture

One aim of the Legionary Movement was the preservation and regeneration of Romanian culture and customs. They knew that culture was the expression of national genius, its products the unique creations of the members of a specific nation. Culture could have international influence, but it was always national in origin. Therefore, the Liberal-Capitalist position that different ethnic groups should be allowed to freely move into another group’s nation, interfering with that nation’s culture and development by their presence and influence, was incredibly wrong. Each ethnic group has its own soul and produces and crystallizes its own form and style of culture. For example, a Romanian cultural image could not be created from German essence any more than a German cultural image could be created from Romanian essence.

Furthermore, religion was an important aspect in a people’s culture, oftentimes the origin of many customs and traditions. The Legionaries believed that Christianity was not only a significant part of their culture, but also that it was the religion which represented divine truth. This is why in order to join the Legion of Michael the Archangel one had to be a Christian and could not be of another religion or an atheist. With these principles clear, the Legion therefore aimed for a Romanian nation made up of only ethnic Romanians and only Christians.

With this in mind, it becomes clear why Codreanu and many other Romanians felt that the Jewish presence in their nation was so threatening. The Jews became influential in economics, finance, newspapers, cinema, and even politics. Through this they even became powerful in the field of culture, slowly changing Romanian customs and Romanian thinking, making it more related to that of the Jews. Codreanu, as concerned about the problem as people such as Cuza and Gavanescul, commented:

Is it not frightening, that we, the Romanian people, no longer can produce fruit? That we do not have a Romanian culture of our own, of our people, of our blood, to shine in the world side by side with that of other peoples? That we be condemned today to present ourselves before the world with products of Jewish essence?” and “Not only will the Jews be incapable of creating Romanian culture, but they will falsify the one we have in order to serve it to us poisoned.

Race

The reality of race was accepted by most Legionaries, and Codreanu wrote of the importance of keeping a nation racially cohesive. In For My Legionaries, Codreanu quoted Conta’s racial separatist arguments, which formed the basis of his own attitudes on race, and even compared them to the German National Socialist view. He wrote: “Consider the attitude our great Vasile Conta held in the Chamber in 1879. Fifty years earlier the Romanian philosopher demonstrated with unshakeable scientific arguments, framed in a system of impeccable logic, the soundness of racial truths that must lie at the foundation of the national state; a theory adopted fifty years later by the same Berlin which had imposed on us the granting of civil rights to the Jews in 1879.”

However, it should be noted that at least a few Legionaries did not agree that race was important. Ion Mota, in 1935 when he met with the NSDAP in Germany, criticized the National Socialists by telling them that “Racism is the most vulgar form of materialism. Peoples are not different by flesh, blood or color of skin. They are different by their spirit, i.e. by their creations, culture and religion.” Of course, Mota’s attitude is unlikely to have been dominant among the Legion, since Codreanu was the founder of the ideas the majority of its members shared. It is also notable that Horia Sima, in his works on Legionary beliefs, agreed with Codreanu that race is real and important. However, Sima disagreed with connecting Romanian racial views with German racialism, censuring the followers of Hitler by asserting that their worldview misused racialism, making it too absolute and materialistic.

The New Man

The Legionary Movement aimed to create a New Man (Omul Nou), to transform the entire nation through Legionary education by transforming each individual into a person of quality. The New Man would be more honest and moral, more intelligent, industrious, courageous, willing to sacrifice, and completely free of materialism. His view of the world would be centered around spirituality, service to his nation, and love of his fellow countrymen. This new and improved form of human being would transform history, setting the foundations of a new era never before seen in Romanian history.

Codreanu wrote:

We shall create an atmosphere, a moral medium in which the heroic man can be born and can grow. This medium must be isolated from the rest of the world by the highest possible spiritual fortifications. It must be defended from all the dangerous winds of cowardice, corruption, licentiousness, and of all the passions which entomb nations and murder individuals. Once the Legionary will have developed in such a milieu . . . he shall be sent into the world. . . . He will be an example; will turn others into Legionaries. And people, in search of better days, will follow him . . . will make a force which will fight and will win.

Therefore, a spiritual revolution would create the basis for a political revolution, since without the New Man no political program could achieve any lasting accomplishment.

Politics

Romania ’s government was that of a constitutional monarchy, thus the nation’s government was considered a democracy. Corneliu Codreanu was a member of the Romanian parliament two times, and his experiences with democratic politics led him to firmly conclude that the democratic system, although claiming to represent the will of the people, rarely ever achieved its goal of representation. In fact, he felt that it did just the opposite. In For My Legionaries, he listed out some major objections he had to the system and the way it worked (the following is a paraphrase of his points):

  • Democracy destroys the unity of the people since it creates factionalism.
  • Democracy turns millions of Jews (and other alien groups) into Romanian citizens, thus carelessly destroying the ancient ethnic make-up of a nation.
  • Democracy is incapable of enduring effort and responsibility because by design it inherently leads to an unending change in leadership over short period of time. A leader or party works to improve the nation with a specific plan, but only rules for a few years before being replaced by a new one with a new plan, who largely if not completely disregard the old one. Thus little is achieved and the nation is harmed.
  • Democracy lacks authority since it does not give a leader the power he needs to accomplish his duties to the nation and turns him into a slave of his selfish political supporters.
  • Democracy is manipulated by financiers and bankers, since most parties are dependent on their funding and are thus influenced by them.
  • Democracy does not guarantee the election of virtuous leaders, since the majority of politicians are either demagogues or corrupt, and the masses of common people usually are not capable or knowledgeable enough to elect good men. Codreanu rhetorically remarked about the idea of the masses choosing its elite, “Why then do soldiers not choose the best general?”

Therefore, Codreanu aimed for a new form of government, rejecting both republicanism and dictatorship. In this new system the leaders would not inherit power through heredity, nor would they be elected as in a republic, but rather they would be selected. Thus, selection and not election is the method of choosing a new elite. Natural leaders, demonstrating bravery and skill, would rise up through Legionary ranks, and the old elite would be responsible for choosing the new elite. The concept of the New Man is important to Codreanu’s system of leadership, because only by the establishment of the New Man would the right leaders rise and become the leaders of the nation. The elite would be founded on the principles Codreanu himself laid out: “a) Purity of soul. b) Capacity of work and creativity. c) Bravery. d) Tough living and permanent warring against difficulties facing the nation. e) Poverty, namely voluntary renunciation of amassing a fortune. f) Faith in God. g) Love.”

This new system of government which Codreanu aimed to establish would be authoritarian, but it would not be totalitarian. He described it in this way: “He (the leader) does not do what he wants, he does what he has to do. And he is guided, not by individual interests, nor by collective ones, but instead by the interests of the eternal nation, to the consciousness of which the people have attained. In the framework of these interests and only in their framework, personal interests as well as collective ones find the highest degree of normal satisfaction.”

An important point in the Legionary political system is that the Legion recognized three entities: “1) The individual. 2) The present national collectivity, that is, the totality of all the individuals of the same nation, living in a state at a given moment. 3) The nation, that historical entity whose life extends over centuries, its roots imbedded deep in the mists of time, and with an infinite future.”

Each of these entities had their own rights in a hierarchical sense. Republicanism recognized only the rights of the individual, but the Legionary Movement recognized the rights of all three. The nation was the most important entity, and thus the rights of the national collectivity were subordinate to it, and finally the rights of the individual were subordinate to the rights of the national collectivity. The destructive individualism of “democracy” infringed on the rights of the national collectivity and the rights of the nation, since it ignored the rights of those two entities and placed that of the individual above all.

With these facts in mind, it becomes clear that to accuse the Legionary Movement of wishing to establish a tyrannical dictatorship or of being “Fascist” is nothing more than mindless or deceitful propaganda against the movement.

Martyrdom

“The Legionary embraces death,” wrote Codreanu, “for his blood will serve to mold the cement of Legionary Romania.” Throughout the struggles and intense persecutions it faced, the Legionary Movement produced many martyrs, two of the most often referenced being Ion Mota and Vasile Marin, who died in 1937 helping Franco fight against Marxist Republicans in the Spanish Civil War. Other martyrs of the Legion include Sterie Ciumetti, Nicoleta Nicolescu, Lucia Grecu, and Victor Dragomirescu among hundreds of others. Finally, in 1938, Corneliu Codreanu himself became a martyr after Armand Calinescu, acting outside of the law, had him murdered. Martyrs were often honored in songs all Legionaries sang and in Legionary rituals, when their names were announced in the roll call, all Legionaries attending spoke “present!” They believed that the souls of Romanian dead would still be present with them in their battles.

Violence

Along with martyrdom, in which death was received, there was an occasional violence committed by Legionaries against their enemies. Codreanu originally intended that the Legionary Movement would be nonviolent, but the unusually ruthless and cruel manner in which their enemies treated them created conditions in which violence was inevitable. When their political opponents physically attacked them, the Legionaries often struck back. In certain select cases, certain top enemies of the Legion were assassinated. There are three most prominent examples:

  • In 1933, the government of I. G. Duca had banned the Legion to keep it from participating in elections, arrested 18,000 Legionaries, and tortured and murdered several others. On December 29–30 of that year, the Legionaries Nicolae Constantinescu, Doro Belimace, and Ion Caranica (who are often referred to as the Nicadori) assassinated Duca in revenge.
  • In 1934, Mihail Stelescu, a member of the Legion, was investigated by top Legionaries and discovered to have had planned to betray the Legion and create his own group and was therefore expelled. Stelescu then created the group in 1935, calling it Cruciada Romanismuliu (“The Crusade of Romanianism”), and slandered Codreanu in its newspaper. There is also evidence that Stelescu was plotting to assassinate Codreanu and that, after contacting top political figures, he received government support for this plan. In this situation, ten Legionaries later called the Decemviri (“The Ten Men”) shot him.
  • In November of 1938, Armand Calinescu had the military police illegally murder Codreanu (who was earlier that year imprisoned for ten years for unproven charges at unfair trials), the Nicadori, and the Decemviri. On September 21, 1939 nine Legionaries referred to as the Rasbunatorii (“The Avengers”) assassinated Calinescu. After they turned themselves in, they were tortured and executed without trial. These nine men were: Miti Dumitrescu, Cezar Popescu, Traian Popescu, Nelu Moldoveanu, Ion Ionescu, Ion Vasiliu, Marin Stanciulescu, Isaia Ovidiu, and Gheorghe Paraschivescu.

One may object to such actions on the part of the Legionaries, asserting that they are thus taking part in un-Christian actions. However, to correctly understand this, one must remember that throughout the history of Christianity there were many people who had committed violent acts or killed for the sake of their religion. Certain crusader knights who had killed huge numbers of people were even sainted. Clearly it is nothing new for Christian zealots to engage in combat against their enemies. Some would argue that because Christ taught people to “love their enemies” that therefore Codreanu was openly violating Christian teaching. But it is not quite so clear.

It should be remembered that in the original Greek and Latin the phrase “love your enemies” (Matthew 5:44; Luke 6:27) referred specifically to private enemy, not public enemy or national enemy (who could therefore be hated). This is why Codreanu said to the Legionaries:

Forgive those who struck you for personal reasons. Those who have tortured you for your faith in the Romanian people, you will not forgive. Do not confuse the Christian right and duty of forgiving those who wronged you, with the right and duty of our people to punish those who have betrayed it and assumed for themselves the responsibility to oppose its destiny. Do not forget that the swords you have put on belong to the nation. You carry them in her name. In her name you will use them for punishment-unforgiving and unmerciful. Thus and only thus, will you be preparing a healthy future for this nation.

These are the facts which need to be remembered in order to properly understand why Codreanu and the Legionaries did what they did. Otherwise, a proper historical study cannot be done.

Bibliography

Corneliu Zelea Codreanu, For My Legionaries, third edition, translated and edited by Dr. Dimitrie Gazdaru (York, S.C., USA: Liberty Bell Publications, 2003).

Corneliu Zelea Codreanu, The Nest Leader’s Manual (USA: CZC Books, 2005).

Corneliu Zelea Codreanu, The Prison Notes (USA: Reconquista Press, 2011).

Radu Mihai Crisan, Eminescu Interzis: Gândirea Politică (Forbidden Eminescu: Political Thought) (Bucharest: Criterion Publishing, 2008).

Radu Mihai Crisan, Istoria Interzisă (Forbidden History) (Bucharest: Editura Tibo, 2008).

Alexander E. Ronnett and Faust Bradescu, “The Legionary Movement in Romania,” The Journal of Historical Review, vol. 7, no. 2, pp. 193–228.

Alexander E. Ronnett, Romanian Nationalism: The Legionary Movement (Chicago: Romanian-American National Congress, 1995).

Horia Sima, Doctrina legionară (Legionary Doctrine) (Madrid: Editura Mişcării Legionare, 1980).

Horia Sima, Era Libertaţii – Statul naţional-Legionar, vol. 1 (It was Freedom – National Legionary State, vol. 1) (Madrid: Editura “Miscarii Legionare, 1982).

Horia Sima, Era Libertaţii – Statul naţional-Legionar, vol. 2 (It was Freedom – National Legionary State, vol. 2) (Madrid: Editura Miscãrii Legionare, 1990).

Horia Sima, Istoria Mişcarii Legionare (History of the Legionary Movement) (Timişoara: Editura Gordian, 1994).

Horia Sima, Guvernul National Român de la Viena (Romanian National Government in Vienna) (Madrid: Editura Miscarii Legionare, 1993).

Horia Sima, The History of the Legionary Movement (Liss, England: Legionary Press, 1995).

Horia Sima, Menirea Nationalismului (The Meaning of Nationalism) (Salamanca: Editura Asociaţiei Culturale Hispano-Române, 1951).

Horia Sima, Prizonieri ai Puterilor Axei (Prisoners of the Axis Powers) (Madrid: Editura Miscarii Legionare, 1990).

Horia Sima, Sfârşitul unei domnii sângeroase (The End of a Bloody Reign) (Madrid: Editura Miscarii Legionare, 1977).

Horia Sima, The History of the Legionary Movement (Liss, England: Legionary Press, 1995).

Carl Schmitt, The Concept of the Political (Chicago: University of Chicago Press, 2007).

Michael Sturdza, The Suicide of Europe: Memoirs of Prince Michael Sturdza, Former Foreign Minister of Rumania (Boston & Los Angeles: Western Islands Publishers, 1968).

 


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mardi, 03 janvier 2012

Mircea Eliade, il genio

Mircea Eliade, il genio

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Il 13 marzo di cent’anni fa nasceva a Bucarest Mircea Eliade. Fin dall’infanzia i genitori spostano il compleanno al 9 marzo. Al suo nome di battesimo non corrispondeva infatti alcun patrono nel calendario ortodosso, sicché la famiglia decise di festeggiare il giorno 9, che non era consacrato a nessun santo particolare bensì ai Quaranta Martiri uccisi a Sebaste durante le persecuzioni di Luciano.

Studioso del mito e delle religioni, esperto di yoga e sciamanesimo, di occultismo ed esoterismo, romanziere fecondo, saggista dall’erudizione prodigiosa e a suo agio in otto lingue, Eliade è stato tra le intelligenze più acute e versatili del Novecento. Ma l’intelligenza è un dono di dèi invidiosi, un dono avvelenato: il confine che la separa dall’ottusità è mobile.

«Che uomo straordinario sono!», annota il trentaquattrenne intellettuale nel suo Jurnalul din Portugalia, l’inedito diario dei cinque anni, dal 1941 al 1945, trascorsi come consigliere culturale all’ambasciata rumena di Lisbona (in Italia sarà pubblicato da Bollati Boringhieri). Il giovane Eliade, all’epoca ancora sconosciuto al grande pubblico europeo, passa parte delle sue giornate a rileggere alcune sue pagine e si paragona ai grandi della letteratura: «La mia capacità di comprendere e percepire tutto ciò che appartiene alla sfera culturale è illimitata … Comunque sia, i miei orizzonti intellettuali sono più vasti di quelli di Goethe». Il 15 luglio 1943 annota con ineffabile disinvoltura: «Mi rendo conto che dopo Eminescu [il poeta nazionale rumeno], la nostra razza non ha mai più conosciuto una personalità tanto (…) potente e tanto dotata quanto la mia».

I diari integrali saranno desecretati solo nel 2018, ma tutto fa pensare che l’autocritica non appartenesse al pur vastissimo repertorio di Eliade. Né che egli sia mai guarito dalla megalomania di cui evidentemente andava affetto. A quattordici anni aveva già pubblicato il suo primo racconto: Come ho scoperto la pietra filosofale. In un successivo Romanzo dell’adolescente miope (1923) elabora la quasi umiliante scoperta della propria sessualità. Qualche anno dopo, in Gaudeamus (1928), entrano in scena la femminilità e l’amore, e per converso il concetto di «virilità», mutuato dall’adorato Papini, autore di Maschilità. Il suo io è superalimentato dall’ambizione e da una «religione della volontà» fatta di astinenza e disciplina (dormiva cinque ore per non sottrarre tempo allo studio).

Iscrittosi nel 1925 a Lettere e Filosofia dell’università di Bucarest, emerge come leader della giovane «Generazione», un gruppo di intellettuali anticonformisti che aspira a rinnovare la tradizione rumena. Tra gli altri «latini d’Oriente» ci sono Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi superbi Exercises d’admiration), Ionesco, Costantin Noica e Mihail Sebastian, un ebreo a lui molto caro.

Nel 1927 e 1928 visita l’Italia, avendo alle spalle una serie di letture rapaci che mettono le ali alla sua passione per nostra cultura (documentata esaurientemente da Roberto Scagno per Jaca Book). Su tutti Papini ed Evola, a proposito del quale scriverà un testo, Il fatto magico, andato perduto. Dopo la laurea su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, alla fine del 1928, parte alla volta dell’India per studiare la filosofia orientale con Surendranath Dasgupta. Vi rimane fino al dicembre del 1931, imparando il sanscrito e raccogliendo materiali, conoscenze ed esperienze che lo segnano profondamente. C´è anche una storia d’amore con Maitreyi, la figlia di Dasgupta, nella cui casa a Calcutta era andato ad abitare. La ragazza è la protagonista dell’omonimo romanzo, che Eliade pubblica in Romania nel 1933. Sarà un grande successo, che trasfigura Maitreyi in un simbolo dell’immaginario rumeno.

Incrinatisi i rapporti con Dasgupta, viaggia nellHimalaya occidentale soggiornando nell’ashram di Shivananda e facendosi iniziare allo yoga. Nel contempo lavora alla tesi di dottorato, che discute a Bucarest nel ‘33 e pubblica a Parigi nel ‘36 con il titolo Yoga, saggio sulle origini della mistica indiana. Un libro che lo lancerà come autore di culto quando lo yoga si diffonderà in Occidente.

Dal 1933 al 1940 è di nuovo a Bucarest come assistente di Nae Ionescu, il leggendario maestro della giovane Generazione. Ionescu lo avvicina alla Guardia di Ferro, l’organizzazione di estrema destra capeggiata da Codreanu. Costui era convinto, tra l’altro, che gli ebrei cospirassero per fondare una nuova Palestina tra il Mal Baltico e il Mar Nero, e il suo vice, Ion Mota, aveva tradotto in rumeno I protocolli dei Savi di Sion. Eliade non era antisemita, ma all’epoca si lasciò intruppare. Il diario che l’amico ebreo Sebastian tenne fra il 1935 e il 1944, pubblicato nel 1996, è un’accorato lamento per il comportamento ambiguo di Eliade. Che è tutto preso dalle sue carte: pubblica vari saggi (tra cui Oceanografia e Il mito della reintegrazione), romanzi (tra cui Ritorno dal Paradiso, La luce che si spegne, i due volumi Huliganii), un’importante rivista di studi mitologici, Zalmoxis, che richiamerà l’attenzione di Carl Schmitt ed Ernst Jünger.

Alla fine della guerra si trasferisce a Parigi dove, aiutato da Dumézil, insegna all’Ecole des Hautes Etudes. Il Trattato di storia delle religioni (1949) lo consacra come massimo studioso del fenomeno religioso su scala mondiale. Ostile al metodo positivistico e storicista, Eliade riprende la prospettiva aperta da Rudolf Otto e sviluppa uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, le «ierofanie». La sua non è una storia bensì una morfologia del sacro, le cui forme appaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», riattualizzando miti primordiali. Per lui il mito non è affatto arcaico né fuori gioco. Si è piuttosto ritirato negli interstizi della modernità, dove si tratta di scovarlo. Contro la presunta superiorità dell’uomo moderno sui «primitivi».

Nel 1950 è invitato da C.G. Jung al primo incontro di «Eranos» ad Ascona. Nel 1956 passa a insegnare alla Divinity School di Chicago, dove rimarrà fino alla morte (avvenuta il 22 aprile 1986 per un ictus). Dal 1960 al 1972 dirige con Ernst Jünger una straordinaria rivista di storia delle religioni, Antaios. Intanto seguita a pubblicare a ritmo martellante un’infinità di lavori, culminati nella grande Storia delle credenze e delle idee religiose (1976-1983). È anche candidato al Nobel per la letteratura.

Purtroppo, un dettaglio ne stoppa l’apoteosi, e gli schizza addosso una macchia infamante. Un dettaglio biografico, sul quale la sua intelligenza si incaglia e si rovescia in ottusità.

Nel 1972 lo storico Theodor Lavi (pseudonimo di Lowenstein), in base al diario ancora inedito di Sebastian e ad altre testimonianze, rivela su Toladot, una piccola rivista dell’emigrazione rumena in Israele, che Eliade era stato vicino alla Guardia di ferro. Eliade fa finta di nulla, cerca di sbarazzarsi del suo passato come un serpente della sua pelle. Ma la notizia fa il giro del mondo, in Italia è ripresa da Furio Jesi. Un suo viaggio a Gerusalemme nella primavera del 1973 dev’essere annullato in extremis, tra lo sconcerto dell’amico Gershom Scholem. Nei suoi diari, silenzio.

Da quel momento Eliade adopera la sua intelligenza per dissimulare e insabbiare. Cerca coperture, si stringe ad amici insospettabili, come Paul Ricoeur e lo scrittore ebreo Saul Bellow. Quest’ultimo diventa suo intimo, ma nel romanzo Ravelstein inscena il dubbio che lo tormenta. Il protagonista, alias Allan Bloom, mette in guardia l’amico narratore da Radu Grielescu, alias Eliade: è stato «un seguace di Nae Ionescu che fondò la Guardia di Ferro», avverte, un jew-hater che denunciò «la sifilide ebraica che contagiava la raffinata civiltà balcanica», «ti strumentalizza» per «rifarsi una verginità». Il tarlo del sospetto non soffocherà la compassione, e ai funerali di Eliade Bellow prenderà la parola per dire il suo dolore e la sua compassione.

È difficile giudicare del caso Eliade. Come è difficile giudicare di Heidegger, Carl Schmitt o Céline. Certo, la loro opera non può più essere letta solo in chiave scientifica o letteraria, separandola dalla biografia. Eppure, la loro vita mediocre non basta a oscurare la grandezza dell’opera che ha generato. Ci chiediamo: perché intellettuali di tale statura si sono ostinati a tacere il loro passato? La verità è che gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono, e molto più di quello che pensano.

È probabilmente questa saggezza che ha indotto perfino il regista Francis Coppola a rendere omaggio a Eliade. Il suo nuovo film, Youth without Youth, prende spunto da un omonimo racconto di Eliade (Tinerete fara tinerete): un settantenne professore, colpito da un fulmine, diventa più giovane anziché più vecchio, attirando l’attenzione dei servizi segreti. Il professore deve scappare attraverso vari paesi fino in India… Anche questa singolare fortuna è un dettaglio in cui si nasconde il buon Dio, e ci avverte che l’opera di Eliade rimane un capitolo inevitabile della storia intellettuale del Novecento, un passaggio obbligato per capirne le convulsioni.

* * *

Tratto da Repubblica del 12 marzo 2007.

vendredi, 25 novembre 2011

Emil Cioran e o Culto à Morte

Emil Cioran e o Culto à Morte

 
por Tomislav Sunic
 
Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/




Pessimismo histórico e senso trágico são motivos recorrentes na literatura Européia. De Heraclitus à Heidegger, de Sophocles à Schopenhauer, os representantes do ponto de vista trágico assinalam que a maneira mais curta de existência humana pode somente ser superada pela intensidade heróica de viver. A filosofia do trágico é incompatível com o dogma cristão de salvação e otimismo de algumas ideologias modernas. Muitas políticas ideológicas e teológicas modernas se estabelecem a partir do pressuposto de que “o futuro radiante” está em algum lugar depois de virar a esquina, e que o medo existencial pode ser melhor subjugado pela aceitação de um linear e progressivo conceito histórico. É interessante observar que indivíduos e massas, na nossa pós-modernidade, cada vez mais evitam alusões à morte e ao fato de morrer. Procissões e despertares, que há não muito honraram a comunhão pós-moderna entre a vida e a morte, estão rapidamente caindo no esquecimento. Em uma sociedade fria e super-racional de hoje, a morte de alguém causa constrangimento, como se a morte nunca tivesse existido, e como se a morte pudesse ser adiada por uma “procura da felicidade” deliberada. A crença de que a morte pode ser despistada com um elixir da juventude eterna e a “ideologia das boas aparências”, é generalizada na sociedade moderna orientada pela TV. Essa crença se tornou uma fórmula de conduta sócio-política.

O ensaísta franco-romeno, Emile Cioran, sugere que uma conscientização da futilidade existencial representa a única arma contra delírios teológicos e ideológicos que têm balançando a Europa por séculos. Nascido na Romênia em 1911, Cioran desde muito cedo se identificou com o velho provérbio Europeu de que geografia significa destino. Da sua região nativa, de onde uma vez vagou pelas hordas de Scythian e Sarmatian, e na qual mais recentemente, vampiros e Draculas políticos estão tomando o pedaço, ele herdou um típico talento “balkanesque” de sobrevivência. Dezenas de povos gregos antigos evitavam esta área, e quando as circunstâncias políticas os forçaram a fugir, escolheram uma nova pátria na Sicília ou na Itália – ou hoje, como Cioran, na França. “Nossa época” escreve Cioran, “vai ser marcada pelo romantismo de pessoas apátridas. Já a imagem do universo está no passo de que ninguém terá direitos civis.”[1] Similarmente a esses compatriotas exilados, Eugene Ionesco, Stephen Lupasco, Mircea Eliade, e muitos outros, Cioran vem para compreender muito cedo que o senso de futilidade existencial pode melhor ser curado pela crença em um conceito histórico cíclico, que exclui qualquer noção de chegada de um Messias ou a continuação do progresso tecno-econômico.

A atitude política, estética e existencial, de Cioran em relação a ser e tempo é um esforço para restaurar o pensamento pré-Socrático, o qual o Cristianismo, logo a herança do racionalismo e do positivismo, empurrou para a periferia da especulação filosófica. Nesse ensaio e aforisma, Cioran tenta lançar uma fundação de uma filosofia de vida que, paradoxalmente, consiste na refutação total de todo o viver. Em uma era de história acelerada lhe parece sem sentido especular sobre o aperfeiçoamento humano ou sobre o “fim da história”. “O futuro”, escreve Cioran, “vão e vejam por si mesmos se realmente desejam. Eu prefiro me agarrar ao inacreditável presente e ao inacreditável passado. Eu os deixo a oportunidade de encarar o inacreditável.”[2] Antes dos empreendimentos humanos em devaneios sobre a sociedade futurista, ele devia primeiro imergir a si mesmo na insignificância da sua vida, e finalmente restaurar a vida para o que ela é de fato: uma hipótese trabalhosa. Em uma de suas litografias, o pintor francês J. Valverde, do século XVI, esboçou um homem que tinha tirado sua própria pele. Esse incrível homem, segurando uma faca em uma das mãos e sua pele recém tirada na outra, assemelha-se a Cioran, que agora ensina aos seus leitores como melhor tirar a máscara das ilusões políticas. Homens sentem medo somente na sua pele, não no esqueleto. Como seria para uma mudança, pergunta Cioran, se o homem poderia ter pensado em algo não relacionado ao ser? Nem tudo que transparece teimoso tem causado dores de cabeça? “E eu tenho pensado em todos que eu conheço”, escreve Cioran, “em todos que não estão mais vivos, há muito chafurdando em seus caixões, para sempre isentos da sua carne – e medo.”[3]

A interessante característica de Cioran é a tentativa de lutar contra o niilismo existencial por significados niilistas. Diferente de seus contemporâneos, Cioran é averso ao pessimismo chic dos intelectuais modernos que lamentam paraísos perdidos, e que continuam pontificando sobre o fim do progresso econômico. Inquestionavelmente, o discurso literário da modernidade tem contribuído para essa disposição do falso pessimismo, embora esse pessimismo pareça ser mais induzido por apetites econômicos frustrados, e menos, pelo que Cioran fala, “alienação metafísica”. Contrário ao existencialismo de J.P. Sartre, que foca na ruptura entre ser e não-ser, Cioran lamenta a divisão entre a linguagem e a realidade e, portanto, a dificuldade de transmitir inteiramente a visão da insignificância existencial. Em um tipo de alienação popularizada por escritores modernos, Cioran detecta o ramo da moda do “parnasianismo” que elegantemente mascara uma versão aquecida de uma crença frustrada em andamento. Como uma atitude crítica em relação aos seus contemporâneos, talvez seja a razão do por quê Cioran nunca teve elogios caindo aos montes sobre ele, e por quê seus inimigos gostam de apelida-lo de “reacionário”. Para rotular Cioran de filósofo do niilismo pode ser melhor apropriado em vista do fato de quê ele é um blasfemador teimoso que nunca se cansa de chamar Cristo, São Paulo, e todo o clérigo cristão, tão bem quanto seus seculares marxistas freudianos, de sucessores totais da mentira e mestres da ilusão. Ao atenuar Cioran para uma categoria ideológica e intelectual preconcebida não se pode fazer justiça ao seu temperamento complexo, nem refletir objetivamente sua filosofia política complicada. Cada sociedade, democrática ou despótica, tenta silenciar aqueles que encarnam a negativa da sacrossanta teologia política. Para Cioran, todo os sistemas devem ser rejeitados pela simples razão de que eles glorificam o homem como criatura final. Somente no louvor do não-ser, e na total negação da vida, argumenta Cioran, a existência do homem se torna suportável. A grande vantagem de Cioran é, como ele diz, “eu vivo somente porque é meu poder morrer quando eu quiser; sem a idéia de suicídio, eu tenho me matado já há muito tempo atrás.”[4] Essas palavras testemunham a alienação de Cioran da filosofia de Sisyphus, bem como sua desaprovação do pathos moral do trabalho infestado de esterco. Dificilmente um caráter bíblico ou moderno democrata poderia querer contemplar de maneira similar a possibilidade de quebrar o ciclo do tempo. Como Cioran diz, o supremo senso de beatitude é alcançável somente quando o homem compreende que ele pode, em qualquer momento, terminar com sua vida; somente nesse momento isso significará uma nova “tentação de existir”. Em outras palavras, poderia ser dito que Cioran desenha sua força vital do constante fluxo de imagens de morte saudada, assim interpretando irrelevante todas as tentativas de qualquer compromisso ético ou político. O homem deveria, por uma mudança, argumenta Cioran, tentar funcionar como uma bactéria saprófita; ou melhor, como uma ameba da era Paleozóica. Como forma primordial de existência pode suportar o terror do ser e do tempo mais facilmente. Em um protoplasma, ou em espécies mais arcaicas, há mais beleza que em todos os filósofos da vida. E para reiterar este ponto, Cioran acrescenta: “Oh, como eu gostaria de ser uma planta, mesmo que eu teria que ser um excremento de alguém!”[5]

Talvez Cioran poderia ser retratado como arruaceiro, ou como os franceses diriam, “trouble fete”, do qual os aforismas suicidas ofendem a sociedade burguesa, mas de quem as palavras também chocam os socialistas modernos sonhadores. Em vista da sua aceitação da idéia da morte, assim como sua rejeição de todas as doutrinas políticas, não é de admirar que Cioran não mais se sente imposto ao egoísta amor da vida. Por isso, não há razão para ele no refletir sobre a estratégia de vida; alguém deveria, primeiro, começar a pensar sobre a metodologia da morte ou, melhor ainda, como nunca ter nascido. “A humanidade tem regredido muito”, escreve Cioran, e “nada prova isso melhor que a impossibilidade de encontrar uma única nação ou tribo na qual o nascimento de uma criança causa luto e lamentação”[6] Onde estão aqueles tempos sacros, pergunta Cioran, quando os bogumils balcânicos e os cátaros franceses viram no nascimento de uma criança um castigo divino? As gerações atuais, ao invés de alegrarem-se quando seus queridos morrem, estão aturdidos com terror e descrença na visão da morte. Ao invés de lamentar e lutar quando sua prole nasce, organizam festividades em massa:

“Se embargá-los é um mal, a causa desse mal deve ser vista no escândalo do nascimento – porque para nascer significa ser embargado. O propósito da separação deveria ser a supressão de todos os vestígios desse escândalo – o sinistro e o menos tolerável dos escândalos.”[7]

A filosofia de Cioran carrega uma forte marca de Friedrich Nietzsche e das Upanishads indianas. Embora seu incorrigível pessimismo muitas vezes chama a “Weltschmerz” de Nietzsche, sua linguagem clássica e sua rígida sintaxe raramente tolera narrativas românticas ou líricas, nem as explosões sentimentais que pode-se encontrar na prosa de Nietzsche. Ao invés de recorrer à melancolia trovejante, o humor paradoxal de Cioran expressa algo o qual, em primeiro lugar, nunca deveria ter sido construído verbalmente. A fraqueza da prosa de Cioran reside, provavelmente, na sua falta de organização temática. Quando seus aforismos são lidos como notas destruídas de uma boa construção musical, e também sua linguagem é bastante hermética, em que o leitor tem de tatear o significado.

Quando alguém lê a prosa de Cioran é confrontado por um autor que impõe um clima de gélido apocalipse, que contradiz completamente a herança do progresso. A verdadeira alegria está em não-ser, diz Cioran, que é, na convicção de que cada ato de criação intencional perpetua o caos cósmico. Não há propósito nas deliberações intermináveis sobre um melhor sentido da vida. A história inteira, seja a história lembrada ou a história mítica, é repleta de cacofonia de tautologias teológicas e ideológicas. Tudo é “éternel retour”, um carrossel histórico, com aqueles que estão hoje no topo, terminando amanhã no fundo do poço.

“Eu não posso desculpar a mim mesmo por ter nascido. É como se, ao insinuar a mim mesmo nesse mundo, eu profanasse algum mistério, traísse algum importante noivado, executasse um erro de gravidade indescritível.”[8]

Não significa que Cioran seja completamente isolado dos tormentos físicos e mentais. Ciente da possibilidade de um desastre cósmico, e persuadido neurologicamente de que algum outro predador pode em qualquer momento privar-se do seu privilégio para assim morrer, ele implacavelmente evoca um conjunto de imagens de morte em camas. Não é um verdadeiro método aristocrático de aliviar a impossibilidade d ser?

“A fim de vencer a ansiedade ou temor tenaz, não há nada melhor do que imaginar seu próprio funeral: método eficiente e acessível a todos. A fim de evitar recorrer a isso durante o dia, o melhor é entrar nessas virtudes logo após se levantar. Ou talvez fazer uso disso em ocasiões especiais, semelhante ao Papa Inocêncio IX que mandou pintarem ele morto em sua cama. Ele lançaria um olhar para aquela pintura toda vez que tivesse uma decisão importante a fazer...”[9]

Primeiramente, já se deve ter sido tentado a dizer que Cioran é afeiçoado em mergulhar nas suas neuroses e idéias mórbidas, como se pudessem ser usadas para inspirar sua criatividade literária. Tão emocionante que ele encontra seu desgosto pela vida que ele próprio sugere que “aquele que consegue adquiri-lo tem um futuro o qual fará tudo prosperar; sucesso assim como derrota.”[10] Tal franca descrição de seus espasmos emocionais o faz confessar que sucesso, para ele, é tão difícil adquirir quanto a falha. Tanto um como o outro lhe causam dor-de-cabeça.

O sentimento da futilidade sublime com relação a tudo que engloba a vida vai de mão à mão com a atitude pessimista de Cioran com respeito ao surgimento e à decadência dos impérios e dos Estados. Sua visão da circulação do tempo histórico lembra Vico's corsi e ricorsi, e seu cinismo sobre a natureza humana desenha na “biologia” histórica de Spengler. Tudo é um carrossel, e todo sistema está condenado a perecer no momento em que toma entrada na cena histórica. Pode-se detectar nas profecias sombrias de Cioran os pressentimentos do estóico imperador romano Marcus Aurelius, quem ouviu na distância do Noricum o galope dos cavalos bárbaros, e quem discerniu através da neblina de Panonia as pendentes ruínas do império romano. Embora hoje os atores sejam diferentes, a configuração permanece similar; milhões de novos bárbaros começaram a bater nos portões da Europa, e em breve tomarão posse daquilo que está dentro dela:

“Independentemente do quê o mundo se tornará no futuro, os ocidentais assumirão o papel do Graeculi do império romano. Necessitados de e desprezados por novos conquistadores, não terão nada para oferecer a não ser a imposturice da sua inteligência ou o brilho de seu passado.”[11]
 
 


Este é o momento da rica Europa arrumar-se e ir embora, e ceder a cena histórica para outros povos mais viris. A civilização se torna decadente quando toma a liberdade como certa; seu desastre é iminente quando se torna tolerante a todo tosco de lá de fora. No entanto, apesar de que os furacões políticos estão à espreita no horizonte, Cioran, como Marcus Aurelius, está determinado a morrer com estilo. Seu senso do trágico ensinou-o a estratégia do ars moriendi, o tornando preparado para qualquer surpresa, independente da sua magnitude. Vitoriosos e vítimas, heróis e capangas, eles todos não se revezam nesse carnaval da história, lamentando e lamentando seu destino enquanto no fundo do poço, e tomando vingança enquanto no topo? Dois mil anos de história greco-cristã é uma mera ninharia em comparação à eternidade. Uma civilização caricatural está agora tomando forma, escreve Cioran, na qual os que estão criando estão ajudando aqueles que a querem destruir. A história não tem sentido e, portanto, na tentativa de torna-la significativa, ou esperar disso uma explosão final de teofania, é uma quimera auto-destrutiva. Para Cioran, há mais verdade nas ciências ocultas do que em todas as filosofias que tentam dar sentido de vida. O homem se tornará finalmente livre quando ele tirar sua camisa de força do finalismo e do determinismo, e quando ele compreender que a vida é um erro acidental que saltou de uma circunstância astral desconcertante. Provas? Uma pequena torção da cabeça claramente mostra que a história, de fato, se resume a uma classificação do policiamento: “afinal de contas, a barganha histórica não é a imagem da qual as pessoas têm do policiamento das épocas?”[12] Suceder na mobilização das massas em nome de algumas idéias obscuras, para as permitir farejar sangue, é um caminho certeiro para o sucesso político. As mesmas massas, as quais carregaram nos ombros a revolução francesa em nome da igualdade e da fraternidade, não têm muitos anos atrás também carregado nos ombros um imperador de roupas novas – um imperador em cujo nome corriam descalços de Paris a Moscou, de Jena para Dubrovnik? Para Cioran, quando uma sociedade cai fora das utopias políticas, não há mais esperanças, e consequentemente não se pode mais haver vida. Sem utopia, escreve Cioran, as pessoas são forçadas a cometer suicídio; graças à utopia, elas cometem homicídio.

Hoje em dia não há mais utopia. A democracia de massa tomou seu lugar. Sem a democracia a vida possui algum sentido; agora, a democracia não possui vida em si mesmo. Afinal, Cioran argumenta, se não fosse por um lunático da Galiléia, o mundo seria um lugar muito chato. Ai, ai, quantos lunáticos hoje estão incubando hoje suas auto-denominadas derivativas teológicas e ideológicas. “A sociedade está mal organizada”, escreve Cioran, “ela não faz nada contra os lunáticos que morrem tão cedo.”[13] “Provavelmente todos os profetas e adivinhos políticos deveriam imediatamente ser condenados à morte, porque quando a ralé aceita um mito – prepare-se para massacres ou, melhor, para uma nova religião.”[14]

Inequivocamente, como os ressentimentos de Cioran contra a utopia poderiam aparecer, ele está longe de ridicularizar sua importância criativa. Nada poderia ser mais repugnante para ele do que o vago clichê da modernidade que associa a busca pela felicidade com uma sociedade da busca pelo prazer da paz. Desmistificada, desencantada, castrada, e incapaz de prever a tempestade que virá, a sociedade moderna está condenada à exaustão espiritual e à morte lenta. Ela é incapaz de acreditar em qualquer coisa, exceto na pseudo-humanidade dos seus chupa-cabras futuros. Se uma sociedade realmente desejasse preservar seu bem biológico, argumenta Cioran, sua tarefa primordial é aproveitar e alimentar sua “calamidade substancial”; isso deve manter um cálculo da sua capacidade de auto-destruição. Afinal, seus nativos Balkans, nos quais seus vampiros seculares hoje novamente dançam ao tom da carnificina, não têm também gerado uma piscina de espécimes vigorosas prontas para o cataclisma de amanhã? Nessa área da Europa, na qual interminavelmente se estraga pelos tremores políticos e terremotos reais, uma nova história está hoje sendo feita – uma história da qual provavelmente recompensará sua população pelo sofrimento passado.

“Qualquer que fosse seu passado, e independente de sua civilização, esses países possuem um estoque biológico do qual não se pode encontrar no Ocidente. Maltradados, deserdados, precipitados no martírio anônimo, tornados a parte entre miséria e insubordinação, eles irão, talvez, no futuro, ter uma recompensa por tantas provações, tanto por humilhação como por covardia.”[15]

Não é o melhor retrato da anônima Europa “Oriental” da qual, segundo Cioran, está pronta hoje para acelerar a história do mundo? A morte do comunismo na Europa Oriental pode provavelmente inaugurar o retorno da história para toda a Europa. Por causa da “melhor metade” da Europa, a única que nada em ar condicionado e salões assépticos, que a Europa está esgotada de idéias robustas. Ela é incapaz de odiar e sofrer, logo de liderar. Para Cioran, a sociedade se torna consolidada no perigo e atrofia: “Nesses lugares onde há paz, higiene e saque do lazer, psicoses também se multiplicam...eu venho de um país no qual nunca se ensinou a conhecer o sentido da felicidade, mas também nunca se tem produzido um único psicoanalista.”[16] A maneira cru dos canibais do novo Leste, sem “paz e amor”, determinará a direção da história de amanhã. Aqueles que passaram pelo inferno sobrevivem mais facilmente do que aqueles que somente conheceram o clima acolhedor de um paraíso secular.

Essas palavras de Cioran são objetivas na decadente França ‘la Doulce’ na qual as conversas da tarde sobre a obesidade ou a impotência sexual de alguém se tornaram maiores bafafás nas preocupações diárias. Incapazes de montar resistência contra os conquistadores de amanhã, essa Europa Ocidental, de acordo com Cioran, merece ser punida da mesma maneira da nobreza do regime antigo, o qual na véspera da Revolução Francesa, ria de si mesmo, enquanto louva a imagem do ‘bon sauvage’. Quantos dentre aqueles bons aristocratas franceses estavam cientes de que os mesmos bon sauvage estavam prestes ter suas cabeças roladas nas ruas de Paris? “No futuro”, escreve Cioran, “se a humanidade é para nascer novamente, serão os parias, com mongóis por todas os lados, com a escora dos continentes.”[17] A Europa está se escondendo na sua própria imbecilidade em frente a um fim catastrófico. Europa? “A podridão que cheira agradável, um corpo perfumado.”[18]

Apesar das tempestades que virão, Cioran está seguro com a noção de que pelo menos ele é o último herdeiro do “fim da história”. Amanhã, quando o real apocalipse começar, e como o perigo das proporções titânicas tomam forma final no horizonte, então, até o mundo “arrependido” desaparecerá de seu vocabulário. “Minha visão do futuro”, continua Cioran, “ é tão clara que se eu tivesse crianças eu iria estrangula-las imdediatamente”.[19]

Depois de uma boa lida do opus de Cioran pode-se concluir que ele é essencialmente um satírico que ridiculariza o estúpido arrepio existencial das massas modernas. Pode-se ser tentado a argumentar que Cioran oferece um elegante manual de suicídio designado para aqueles que, assim como ele, tem deslegitimado o valor da vida. Mas assim como Cioran diz, o suicídio é cometido por aqueles que não são mais capazes de agir no otimismo, e.g., para aqueles em que o fio da alegria e da felicidade rasga em pedaços. Aqueles assim como ele, os pessimistas cautelosos, “dado que eles não têm nenhuma razão para viver, porque eles teriam para morrer?”[20] A impressionante ambivalência do trabalho literário de Cioran consiste nos pressentimentos apocalípticos em uma mão, umas evocações entusiastas de horror na outra. Ele acredita que a violência e a destruição são os principais ingredientes da história, porque o mundo sem violência é condenado ao colapso. Ainda se admira do por quê Cioran é assim oposto ao mundo da paz, se, pela sua lógica, esse mundo de paz poderia ajudar a acelerar sua própria morte cravada, e assim facilitar sua imersão na insignificância? Claro que sim, Cioran nunca moraliza sobre a necessidade da violência; antes, de acordo com os cânones dos seus queridos antecessores reacionários Joseph de Maistre e Nichollo Machiavelli, ele afirma que “a autoridade, não a verdade, faz a lei”, e que, consequentemente, a credibilidade de uma mentira política também determinará a magnitude da justiça política. Admitido que isso seja correto, como ele explica o fato de que a autoridade, pelo menos do modo como ele a vê, somente perpetua o ser odioso do qual ele tão fortemente deseja para absolver a si mesmo? Esse mistério nunca será conhecido a não ser por ele mesmo. Cioran admite, entretanto, que apesar da aversão à violência, todo o homen, incluindo a ele, tem, pelo menos uma vez na sua vida, contemplado como se assa uma pessoa viva, ou como se corta a cabeça de uma pessoa:

“Convencido de que os problemas da sociedade vêm das pessoas mais velhas, eu tenho concebido o plano de liquidar todos os cidadãos que passarem dos quarenta – o início da esclerose e da mumificação. Eu cheguei a acreditar que isso foi um ponto de virada quando cada humano se tornou um insulto à sua nação e um fardo à sua comunidade...Aqueles que ouviram isto não apreciaram esse discurso e me consideraram um canibal...Esta minha intenção deve ser condenada? Ela somente expressa algo que cada homem, que está ligado ao seu país, deseja do fundo do seu coração: a liquidação de metade de seus compatriotas.”[21]

O elitismo literário de Cioran é sem comparação na literatura moderna, e por causa disso ele muitas vezes aparece como um incômodo para orelhas sentimentais e modernas domadas com canções de ninar da eternidade terrestre ou êxtase espiritual. O ódio de Cioran em relação ao presente e ao futuro, seu desrespeito à vida, continuará certamente contrariando os apóstolos da modernidade que nunca descansam de cantarolar vagas promessas sobre o “melhor-aqui-e-agora”. Seu humor paradoxal é tão devastador que não se pode toma-lo pelo valor literal, especialmente quando Cioran descreve a si mesmo.

Seu formalismo na linguagem, sua impecável escolha das palavras, apesar de algumas similaridades com autores modernos do mesmo calibre elitista, o torna difícil de seguir. Pode-se admirar o arsenal de palavras de Cioran como “abulia”, “esquizofrenia”, “apatia”, etc, que realmente mostram um ‘nevrosé’ que ele diz ser.

Se alguém pudesse atenuar a descrição de Cioran em um curto parágrafo, então deveria descreve-lo como um autor que parece na veneração moderna do intelecto, um diagrama de moralismos espirituais e da transformação feia do mundo. De fato, para Cioran, a tarefa do homem é lavar-se a si mesmo na escola da futilidade existencial, por futilidade não é desespero; a futilidade não é uma recompensa para aqueles que desejam livrar-se a si mesmos da vida epidêmica e do vírus da esperança. Provavelmente, esta pintura melhor convém o homem que descreve a si mesmo como um fanático, sem nenhuma convicção – um acidente encalhado no cosmos que projeta olhares nostálgicos em direção de seu rápido desaparecimento.

Ser livre é livrar-se a si mesmo para sempre da noção de recompensa; esperar nada das pessoas e deuses; renunciar não só esse e outros mundos, mas salvar-se a si mesmo; destruir até mesmo essa idéia de correntes entre correntes. (Le mauvais demiurge, p. 88.)
 
 
 
 1. Emile Cioran, Syllogismes de l'amertume (Paris: Gallimard, 1952), p. 72 (my translation)
2. De l'inconvénient d'etre né (Paris: Gallimard, 1973), p. 161-162. (my translation) (The Trouble with Being Born, translated by Richard Howard: Seaver Bks., 1981)
3. Cioran, Le mauvais démiurge ( Paris: Gallimard, 1969), p. 63. (my translation)
4. Syllogismes de l'amertume, p. 87. (my trans.)
5. Ibid., p. 176.
6. De l'inconvénient d'etre né, p. 11. (my trans.)
7. Ibid., p. 29.
8. Ibid., p. 23.
9. Ibid., p. 141.
10. Syllogismes de l'amertume, p. 61. (my trans.)
11. La tentation d'exister, (Paris: Gallimard, 1956), p. 37-38. (my trans.) (The temptation to exist, translated by Richard Howard; Seaver Bks., 1986)
12. Syllogismes de l'amertume, p. 151. (my trans.)
13. Ibid., p. 156.
14. Ibid., p. 158.
15. Histoire et utopie (Paris: Gallimard, 1960), p. 59. (my trans.) ( History and Utopia, trans. by Richard Howard, Seaver Bks., 1987).
16. Syllogismes de l'amertume, p. 154. (my trans.)
17. Ibid., p. 86.
18. De l'inconvénient d'etre né, p. 154. (my trans.)
19. Ibid. p. 155.
20. Syllogismes de l'amertume, p. 109.
21. Histoire et utopie (Paris: Gallimard, 1960), p. 14. (my trans.)

dimanche, 20 novembre 2011

Der Dandy der Leere – E.M.Cioran

Der Dandy der Leere – E.M.Cioran

Cioran, der »Dandy der Leere, neben dem selbst Stoiker wie unheilbare Lebemänner wirken« (Bernard-Henri Lévy), war einer der einflussreichsten kulturkritischen Denker des 20. Jahrhunderts. Sein widersprüchliches Leben ist noch nie so detailreich rekonstruiert worden wie in der vorliegenden Biografie von Bernd Mattheus. In bisweilen schmerzlicher Nähe zu den Äußerungen des Selbstmord- Theoretikers beleuchtet er auch die bislang wenig bekannte Zeit vor seiner Emigration nach Frankreich.

Emil M. Cioran, geboren 1911 im rumänischen Sibiu (Hermannstadt), studierte an der Universität Bukarest, wo er mit Mircea Eliade und Eugène Ionesco eine lebenslange Freundschaft schloß. Nach einem längeren Aufenthalt in Berlin emigrierte er 1937 nach Paris; seit dieser Zeit schreibt er auf französisch. Der Verfasser von stilistisch brillanten Aphorismen und Essays pessimistischster Prägung erregt schließlich mit der 1949 erschienenen Schrift »Lehre vom Zerfall« großes Aufsehen. Das Buch, das ihn international bekannt machte, wurde von Paul Celan ins Deutsche übersetzt und begründete seinen Ruf als unerbittlicher Skeptiker. Es folgen viele weitere kompromisslose Werke wie »Syllogismen der Bitterkeit« oder »Die verfehlte Schöpfung«. Bis in die späten 1980er Jahre bleibt Ciorans finanzielle Lage prekär, 1995 stirbt der Aristokrat des Zweifels und der Luzidität als gefeierter Denker in Paris.

Die vorliegende Biografie Ciorans ist die bislang gründlichste Gesamtdarstellung von Leben und Werk dieses Ausnahmedenkers. Bernd Mattheus gelingt nicht nur eine präzise Rekonstruktion Ciorans Lebens, sondern auch eine verblüffende Verlebendigung des »nach Kierkegaard einzigen Denkers von Rang, der die Einsicht unwiderruflich gemacht hat, daß keiner nach sicheren Methoden verzweifeln kann.« Peter Sloterdijk

Cioran

Bernd Mattheus
Cioran
Portrait eines radikalen Skeptikers
367 Seiten, gebunden mit Schutzumschlag
3 Abbildungen
ISBN 978-3-88221-891-6
€ 28,90 / CHF 40,50

Stimmen


»Komplementär zur Werkausgabe sollte man das im Matthes & Seitz Verlag erschienene vorzügliche biographische Porträt des Cioran-Übersetzers Bernd Mattheus heranziehen. Bei aller Bewunderung ist es nicht blind für die Abgründe und Widersprüche dieses Lebens und Werkes. Es bietet auch genealogisch Erhellendes, das heißt bei Cioran stets: Verdüsterndes, so zu der tiefambivalenten Beziehung zu seiner Mutter.«
Ludger Lütkehaus, Badische Zeitung, 16. April 2011

»Die spannende und nicht nur in politischen Fragen differenzierte Cioran-Biografie von Bernd Mattheus gibt Einblick in die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge und das turbulente Leben Ciorans, der gerne auch mal die Einladung eines französischen Staatspräsidenten ausschlug.«
Tobias Schwartz, Märkische Allgemeine, 26./27. Juni 2010

»So ausführlich und aus neuesten französischen wie auch rumänischen Quellen gespeist, ist Ciorans Leben bislang auf Deutsch noch nicht dargestellt worden.«
Cornelius Hell, Die Furche, 24. Juli 2008

»In einem anregenden wie irritierenden Buch fasst er Cioran mitunter ganz aus der Nähe, mit wenig schmeichelhaften Zügen.«
Karl- Markus Gauß, Kommune, Juni/Juli 2008

»Bernd Mattheus porträtiert diesen trostlosen Misanthropen nicht. Er lässt ihn einfach zu Wort kommen. Es ist ein seltsamens und in gewisser Weise schon wieder ein faszinierendes Buch.«
Walter van Rossum, WDR, 17. Juli 2008

»Sein Leben ist noch nie so detailreich rekonstruiert worden wie in der vorliegenden Biographie von Bernd Mattheus. Mattheus gelingt nicht nur eine präzise Rekonstruktion Ciorans Leben, sondern auch eine verblüffende Verlebendigung des nach Kierkegaard ›einzigen Denkers von Rang‹.Mattheus liefert damit eine vorzügliche Monographie zum Werk Ciorans in Form einer Biographie, die viel Neues in sich birgt.«
Daniel Bigalke, Buchtips.net

»Ciorans Biograf Bernd Mattheus hat nun ein Porträt des radikalen Auflösers vorgelegt, das ein differnziertes, facettenreiches Bild zeichnet.«
Wolfgang Müller, taz, 24. Mai 2008

»Als Mattheus ein junger Mann war, in den siebziger Jahren, war er mit Cioran in Paris bekannt. Die Biographie spart nicht mit Kritik, lässt aber immer die Symphatie des Autors für den exzentrischen Rumänen durchscheinen, was das Buch lesenswert macht. Eine einfühlsame, kluge Biographie.«
Franziska Augstein, Süddeutsche Zeitung, 7. April 2008

mercredi, 05 octobre 2011

Emil Cioran - Un siècle d'écrivains (1999)

Emil Cioran - Un siècle d'écrivains (1999)

dimanche, 11 septembre 2011

Mircea Eliade: Liberty

Liberty

By Mircea Eliade

"Iconar", March 5, 1937

mircea-eliade-1.jpgThere is an aspect of the Legionary Movement that has not been sufficiently explored: the individual’s liberty. Being primarily a spiritual movement concerned with the creation of a New Man and the salvation of our people – the Legion can’t grow and couldn’t have matured without treasuring the individual’s liberty; the liberty that so many books were written about with which so many libraries were stacked full, in defense of which many
democratic speeches have been held, without it being truly lived and treasured.
The people that speak of liberty and declare themselves willing to die for it are those who believe in materialist dogmas, in fatalities: social classes, class war, the primacy of the economy, etc. It is strange, to say the least, to hear a person who doesn’t believe in God stand up for “liberty,” who doesn’t believe in the primacy of the spirit or the afterlife.
Such a person, when they speak in good faith, mix “liberty” up with libertarianism and anarchy. Liberty can only be spoken of in spiritual life. Those who deny the spirit its primacy automatically fall to mechanical determinism (Marxism) and irresponsibility.

People bind themselves together according to either hedonism or a familiar economic destiny. I’m a comrade of X because he happens to be my relative, or a colleague at work, and thus comrades of pay. Connections between people are almost always involuntary, they are a natural given. I cannot modify my familiar destiny. And with respect to economic destiny, regardless of how much effort I employ, I could at most change my comrades of pay – but I will always unwillingly find myself in a solidarity with certain people I don’t know to which I’m tied by the chance of me being poor or rich.

There are, however, spiritual movements wherein people are tied by liberty. People are free to join this spiritual family. No exterior determination forces them to become brothers. Back in the day when it was expanding and converting, Christianity was a spiritual movement that people joined out of the common desire to spiritualize their lives and overcome death. No one forced a pagan to become a Christian. On the contrary, the state on the one hand, and its instincts of conservation on the other, restlessly raised obstacles to Christian conversion.

But even faced with such obstacles, the thirst of being free, of forging your own destiny, of defeating biological and economic determinations was much too strong. People joined Christianity, knowing that they would become poor overnight, that they would leave their still pagan families behind, that they could be imprisoned for life, or even face the cruelest death—the death of a martyr.

Being a profoundly Christian movement, justifying its doctrine on the spiritual level above all – legionarism encourages and is built upon liberty. You adhere to legionarism because you are free, because you decided to overcome the iron circles of biological determinism (fear of death, suffering, etc.) and economic determinism (fear of becoming homeless). The first gesture a legionnaire will display is one born out of total liberty: he dares to free himself of spiritual, biological and economic enslavement. No exterior determinism can influence him. The moment he decides to be free is the moment all fears and inferiority complexes instantaneously disappear. He who enters the Legion forever dons the shirt of death. That means that the legionnaire feels so free that death itself no longer frightens him. If the Legionnaire nurtures the spirit of sacrifice with such passion, and if he has proven to be capable of making sacrifices – culminating in the deaths of Mota and Marin – these bear witness to the unlimited liberty a legionnaire has gained.
 
“He who knows how to die will never be a slave.” And this doesn’t concern only ethnic or political enslavement – but firstly, spiritual enslavement. If you are ready to die, no fear, weakness, shyness can enslave you. Making peace with death is the most total liberty man can receive on this Earth.

http://www.archive.org/details/Liberty_7

samedi, 16 juillet 2011

Cioran: scrivere per non morire

cioran2.jpg

Emil Cioran:

scrivere per non morire


   

Ex: http://rinascita.eu/

Solitario. Schifato dalla realtà e da molti aspetti incerti e fallaci della vita. Unico. Spietato nell’analisi, tagliente come un coltello che squarcia le credenze di tutti i giorni. Dimenticato. La descrizione corrisponde ad uno dei più grandi filosofi del 1900, un “maestro” saggista e nichilista, che ha avuto una sola colpa: ritrovare quel vitalismo, scomparso in molti momenti della sua vita, in un’ideologia che non può avere intellettuali compiacenti, perché rappresenta “il male assoluto”. Emil Cioran, lasciato chiuso nell’armadio ingombrante degli artisti maledetti, da cancellare dalle scuole, da non far conoscere. È retorica, ma, come si sa, sono i vincitori che decidono ciò che è degno di memoria. Decidono “loro”.


Cioran nacque nel 1911 in Transilvania, Romania. Tessuto sociale difficile e molto chiuso. Figlio di un prete ortodosso, visse un’ infanzia, ma verrebbe da dire un’intera vita, solitaria. Durante la prima guerra mondiale i genitori di Emil, come una parte degli intellettuali di origine rumena, erano stati confinati; il padre a Sopron, la madre a Cluj, lasciando i figli alle cure della nonna a Rasina. Durante il periodo universitario riuscì a legare con Samuel Beckett che ricorderà sempre con profonda amicizia. Conoscendo egregiamente il tedesco, i suoi primi studi si incentrarono su Immanuel Kant, Arthur Schopenhauer e specialmente Friedrich Nietzsche, suo filosofo di riferimento. Ma prima di pubblicare la sua prima opera, avendo vinto una borsa di studio, nel 1933, si trasferì a Berlino, poi a Dresda e a Monaco. Assistette all’insediamento di Hitler e rimase profondamente ammaliato dall’ideologia nazional-socialista che, in vecchiaia, criticò. Al suo rientro in Romania venne a contatto con il locale movimento fascista delle “guardie di ferro” che abbandonò solo alla vigilia della seconda guerra mondiale. Il fascismo, nella sua vita, fu l’unica ideologia che lo entusiasmò realmente, lui che odiava i pensieri realizzati perché “inseguitore di utopie”. All’utopia dedicò un famoso saggio del 1960 ,“Storia e utopia”, in cui sottolinea come da qualsiasi sogno utopico basato su un presunto ritorno o sua una futura realizzazione dell’età dell’oro, si scatenino sempre forze liberticide. Intanto si era laureato all’Università di filosofia di Bucarest e, successivamente, iniziò ad insegnare presso i licei di Brasov e Sibiu. La cattedra non faceva per lui, si sentiva come un lupo in gabbia. Gli mancava il respiro. E così iniziò a scrivere non solo come valvola di sfogo filosofico poetica, ma anche per rimanere in vita. Cioran, infatti, soffriva di insonnia e, più di una volta, scrisse che se non ci fosse stata la scrittura a tenergli compagnia durante la notte, si sarebbe ucciso. Molto incline al suicidio, l’intellettuale rumeno sopravvisse solo grazie alla sua penna. Pessimista cronico, schiacciato dall’incompiutezza dell’essere e fortemente critico perfino della “venuta al mondo”, dedicò tutta la sua vita, anche quando si trasferì in Francia, alla stesura di saggi profondissimi: nel 1952 uscì “Sillogismi dell’amarezza” raccolta di aforismi corrosivi e nel 1956 “La tentazione di esistere”. Nel 1964 elaborò “La caduta nel tempo”; in “Il funesto demiurgo” del 1969, fece un viaggio nel mondo dello gnosticismo; nell’“L’inconveniente di essere nati” del 1973 cercò, attraverso la positività e la negatività delle emozioni, di raggiungere i panorami più alti. Dalla sua grande mente presero vita svariatissimi libri, tantissimi altri rispetto a quelli citati in breve. Ma le opere che fotografano nel migliore dei modi Cioran sono l’ultima, “Confessioni e anatemi”, testamento pessimista che condanna la felicità fondata sul nulla; e la prima “Al Culmine della disperazione” del 1933 ove per la prima volta, lo scrittore rumeno capì che senza scrittura non avrebbe potuto vivere.


“L’insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il Paradiso stesso in un luogo di tortura. Qualsiasi cosa è preferibile a questo allerta permanente, a questa criminale assenza di oblio. È durante quelle notti infernali che ho capito la futilità della filosofia. Le ore di veglia sono, in sostanza, un’interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero, è la coscienza esasperata da se stessa, una dichiarazione di guerra, un infernale ultimatum della mente a se medesima. Camminare vi impedisce di lambiccarvi con interrogativi senza risposta, mentre a letto si rimugina l’insolubile fino alla vertigine. Se non lo avessi scritto (“Al culmine della disperazione”, ndr) certamente avrei messo fine alle mie notti”. Questa l’introduzione al libro, quest’altro, invece, uno dei ragionamenti più celebri dell’opera: “Se non c’è salvezza attraverso la follia, è perché non c’è nessuno che non ne tema gli sprazzi di lucidità. Si desidererebbe il caos, ma si ha paura delle sue luci”.


Emil Cioran morì a Parigi il 20 giugno 1995. Finalmente riuscì ad addormentarsi, ma per sempre. E così venne dimenticato dai più. Già, perché decidono “loro” ciò che è degno di memoria oppure no. Ma non per tutti. Perché Cioran nelle librerie e, soprattutto, nella mente di qualche “bastardo”, è ancora vivo e da lì, rincrescerà all’“intellighenzia” del 2000, non si può esiliare.
 

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jeudi, 10 mars 2011

La rivincita dell'anti-Sartre: Emil Cioran

La rivincita dell’anti-Sartre: Emil Cioran

di Andrea Rigoni

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]

http://4.bp.blogspot.com/_C2Bz0dUo6QQ/S-42qbmqpSI/AAAAAAAAArc/K2PD95QGE6A/s1600/cioran.jpg

Riscoperta trasversale dello scrittore a cento anni dalla nascita

Da quando, verso la metà degli anni Settanta, ho incominciato a frequentare Cioran, dedicandomi anche alla diffusione della sua conoscenza in Italia, mi sono spesso chiesto in che cosa consistesse la sua singolarità e quale fosse il rapporto fra lo scrittore e l’uomo.
La voce di Cioran si era manifestata in Francia, a partire dal 1949 quando apparve il suo Sommario di decomposizione, come una nota del tutto isolata, diversa e dissonante dal concerto intellettuale e culturale dell’epoca, che era universalmente segnato dal dominio delle ideologie e delle utopie: l’opera e l’attività di Sartre ne rappresentavano allora in Francia, e non solo in Francia, una sorta di emblema. Cioran era l’anti-Sartre. Nel celebre filosofo esistenzialista, nell’eroe dell’engagement, egli non vedeva che un «impresario di idee» , secondo l’innominato ma riconoscibile ritratto che ne ha lasciato nel Sommario: un «pensatore senza destino» , nel quale «tutto è notevole, salvo l’autenticità» , «infinitamente vacuo e meravigliosamente ampio» , ma proprio per questo capace, con un’opera che degrada il nulla al rango di una merce intellettuale, di conquistare e soddisfare «il nichilismo da boulevard e l’amarezza degli sfaccendati» . Era dunque naturale che l’opera di Cioran, con la sua lucidità bruciante e solitaria, vissuta come esperienza e forma di un destino, restasse quasi senza eco: il riconoscimento doveva limitarsi al fulgore inusitato dello stile, che balzava agli occhi, se non di tutti, almeno di alcuni, tra i quali i primi lettori del manoscritto del Sommario, che si chiamavano Jules Romains, André Gide, André Maurois, Jean Paulhan, Jules Supervielle, ma certo anche Paul Celan, che poco dopo ne avrebbe fatto la traduzione in tedesco. Tuttavia sappiamo bene che lo stile, la forma, il tono di un’opera non sono l’abito o l’ornamento estrinseco del pensiero, ma il suo corpo, la sua vita, la sua essenza e che dunque essi rappresentano assai più di un indizio... Cioran affrontava i temi capitali dell’esistenza e del mondo col linguaggio più diretto e più chiaro, ripristinando la superba tradizione che si era perduta dopo Schopenhauer e Nietzsche. È ovvio, nello stesso tempo, che egli rimanesse estraneo alle mode culturali che negli anni Settanta e Ottanta furoreggiavano in Francia e in Europa: la linguistica, lo strutturalismo, la semiologia, la psicanalisi, il decostruzionismo, i cui esponenti o seguaci apparivano ai suoi occhi quanto meno segnati dalla superstizione della scienza e dalla maledizione dell’accademia. Ma qual è dunque il tratto fondamentale che distingue lo stile e il pensiero di Cioran, lo scrittore non meno che l’uomo? La ragione di una presa e di un fascino che oggi hanno conquistato una gamma indefinibile e trasversale di lettori, fino al E. M. Cioran nacque a Rasinari (Romania) l’ 8 aprile 1911 e morì a Parigi il 20 giugno 1995. La sua opera è stata tradotta da Adelphi sotto la direzione di Mario Andrea Rigoni che gli fu amico e che, tra il 1983 e il 1991, ne presentò alcuni scritti sul «Corriere» (raccolti in Fascinazione della cenere, Il Notes magico, 2005). Rigoni ha pubblicato in Francia Cioran dans mes souvenirs (P. U. F., 2009). punto di suscitare in molti un’identificazione spontanea e una devozione fanatica? È difficile non trovare ai singoli temi del pensiero di Cioran, come di chiunque altro, un precedente o un analogo nella letteratura antica o moderna; ma è la quintessenza di lucidità di cui si sostanzia costantemente la sua riflessione che non cessa di impressionare e di affascinare. Essa si fonda, a mio parere, sul carattere diretto e personale dell’esperienza, offerta come testimonianza intima e viva di un essere, anziché di una teoria astratta o di un esercizio professionale. Un aforisma dei Sillogismi dell’amarezza asserisce che «tutto ciò che non è diretto è insignificante» . Mi sembra che questo principio o questo imperativo, che Cioran non ha mai smesso di seguire, definisca molti tratti della sua fisionomia intellettuale e letteraria: la ricerca, anzi l’ossessione, di ciò che è l’essenziale, nella metafisica come nella politica o nella letteratura; l’interesse verso i grandi moralisti e i grandi saggi; l’orrore dell’ufficialità e del professionismo; il culto della chiarezza e il rifiuto del gergo; l’amore della brevità e la pratica dell’aforisma; l’attrazione per i generi letterari che recano l’impronta immediata dell’io, come i diari, le confessioni, le memorie, le lettere, le autobiografie. Cioran era interessato assai più alla vita che alla filosofia; più alle cose che alle idee; più agli istinti e alle emozioni che ai concetti. In un’opera cercava soprattutto l’elemento personale: «Guai al libro che si può leggere senza doversi interrogare a ogni momento sull’autore!» . D’altronde la letteratura, nella sua visione, nasce da una ferita esistenziale e da una tara metafisica: «La scrittura è la rivincita della creatura e la sua risposta a una Creazione abborracciata» . È significativo che nell’opera di Tolstoj egli abbia isolato e commentato La morte di Ivan Il’ic; come pure che, nel saggio su Fitzgerald, abbia trascurato i romanzi e i racconti dello scrittore americano per concentrarsi sulla notte dell’anima, sull’ «esperienza pascaliana» del crollo evocato nelle pagine impietose del Crack-Up. Analogamente Cioran amava più i santi e i mistici che i teologi: donde il rapporto contrastato, se non il dissenso, col suo vecchio amico e maestro Eliade, al quale rimproverava di essere non tanto uno spirito religioso quanto un semplice storico delle religioni, un indifferente cronista e archivista della varietà delle fedi. Si capisce che oggi, al culmine del disincanto al quale siamo giunti, molti di noi abbiano trovato in Cioran ciò che raramente si trova in un autore: non solo uno scrittore e un pensatore eccellente, ma uno spirito fraterno, un sodale, un amico, capace di parlare alla carne e all’anima non meno che all’intelletto. Tale egli era nella vita privata: semplice e immediato, partecipe e arguto, sempre sfiorato dall’ala nera della malinconia ma pronto a mitigarne il colpo con le risorse dell’ironia e dell’autoironia, qualche volta con un divertito esercizio di autodemolizione, anch’esso segno di uno spirito superiore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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lundi, 07 mars 2011

Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?

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“Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?”

Intervista a C. Mutti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 Il nostro redattore Claudio Mutti è stato intervistato da Luca Bistolfi di “EaST Journal” a proposito della Romania, del suo ruolo storico in Europa e in Eurasia e delle sue miserie attuali. L’intervista originale, pubblicata con un titolo redazione da “EaST Journal”, si trova qui [1]. La riproduciamo di seguito.


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Un’isola latina nel mare slavo dell’est Europa. La percezione generale della Romania non va oltre un paio di luoghi comuni e di tanta mancanza d’informazione.
La Romania, negli ultimi centocinquant’anni, ha attraversato momenti decisivi, incompresi e mal studiati. Uno dei pochissimi, in Italia, ad avere una visione ampia e completa della storia romena è Claudio Mutti, scrittore, editore, profondo conoscitore della storia, e molte altre cose. Lo abbiamo intercettato e gli abbiamo posto alcune domande per diradare la fitta nebbia che attorno a quella che Vasile Lovinescu chiamava la Dacia Iperborea, si è addensata come una maschera necessariamente imposta.

 

Che cosa è cambiato in Romania dopo gli avvenimenti di metà Ottocento? Come giudica quei passaggi fondamentali che, in certa misura, coincidono con il Risorgimento italiano?
In seguito all’Unione dei due principati valacco e moldavo, avvenuta due anni prima dell’Unità d’Italia, il nuovo regno di Romania attuò una serie di riforme politiche e sociali d’ispirazione democratico-borghese, che avrebbero agevolato lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti. Un ulteriore momento cruciale fu il 1877, quando la classe politica romena, accogliendo la pretestuosa parola d’ordine della “emancipazione dei popoli cristiani dell’Oriente”, dichiarò guerra alla Sublime Porta, subordinando il Paese agl’interessi plutocratici occidentali. La partecipazione alla guerra intereuropea a fianco dell’Intesa e la successiva adesione alla Piccola Intesa furono altri passi che fecero della Romania una delle sentinelle degl’interessi anglo-francesi nell’area balcanico-danubiana. Oggi, dopo la caduta del regime nazionalcomunista, la Romania è tornata a svolgere la funzione di sentinella dell’Occidente, ma di un Occidente che non è più rappresentato dall’Inghilterra e dalla Francia, bensì dagli Stati Uniti.

Qual è la Sua opinione sull’ingresso della Romania nell’Unione Europea?
L’Europa non è Europa se non comprende tutti i popoli europei, compreso quello che ha dato all’Europa personaggi come Eminescu, Brancuşi, Eliade e Cioran. L’Europa non è pensabile senza il Danubio, senza i Carpazi, senza la costa occidentale del Mar Nero. Anche se oggi la nostra patria europea è rappresentata da una “Unione” dominata da banchieri, burocrati liberali, politicanti traditori e collaborazionisti asserviti alla potenza d’Oltreatlantico, i “buoni Europei” di nietzschiana memoria non devono tuttavia rinunciare a sostenere la necessità di un’Europa degna di questo nome: una realtà unitaria e sovrana che, in stretta alleanza con gli altri grandi spazi del continente eurasiatico, concorra alla costruzione di un potente blocco continentale.

Dove colloca la Romania all’interno dell’idea eurasiatista?
Negli anni Trenta il geopolitico romeno Simion Mehedinţi scriveva che la Romania, trovandosi lungo una diagonale di navigazione privilegiata qual è il corso del Danubio, è predestinata dalla sua stessa posizione geografica a stabilire relazioni fra i paesi dell’Europa occidentale da una parte e quelli del Vicino Oriente dall’altra. A ciò possiamo aggiungere che la Romania, in virtù della sua appartenenza all’area ortodossa, è uno di quei paesi europei che (come la Bulgaria e la Serbia) potrebbe svolgere un ruolo analogo anche in direzione della Russia.

Sappiamo che questo Paese ha subito diversi duri colpi e oggi più che mai: a Suo avviso c’è una possibilità concreta per la Romania di risorgere? Di chi sono le principali responsabilità?
Date le condizioni in cui versa attualmente la Romania e dato il livello della sua attuale classe politica, è necessaria una notevole dose di ottimismo per prospettare una rinascita romena. Non si riesce infatti a intravedere la presenza di quelle forze che, in circostanze storiche analoghe, si assunsero le responsabilità di una riscossa nazionale.

Sappiamo che Lei è, tra le altre cose, un ottimo conoscitore del mondo islamico e della storia dell’Islam in Europa: qual è la Sua impressione sui rapporti tra l’Impero Ottomano e gli antichi principati romeni?
Nicolae Iorga ha mostrato come i principati romeni abbiano rivestito un ruolo egemone in relazione alle più importanti comunità cristiane dell’Impero Ottomano, dal Caucaso all’Egitto. Da parte loro, le autorità islamiche dell’Impero indicavano i Principi valacchi e moldavi come esempi paradigmatici per i capi della Cristianità. Oggi, in un momento in cui la Turchia sta recuperando la posizione che le compete, la Romania potrebbe far tesoro di questa eredità storica e riproporsi come tramite fra l’Europa e la potenza regionale turca.

Per approfondire l’opera di Mutti, consiglio di leggere alcuni dei numerosi articoli presenti sul suo sito [2] e quelli della rivista Eurasia [3], stampata dalle Edizioni all’insegna del Veltro [4], fondate dallo stesso Mutti.

jeudi, 17 février 2011

Geopolitica della Romania

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Aleksander G. Dughin:

Geopolitica della Romania

  1. I geni romeni e l’identità romena
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La Romania ha dato al mondo, specialmente nel XX secolo, tutta una pleiade di geni di livello mondiale : Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran, Eugen Ionescu, Ştefan Lupaşcu, Jean Pârvulescu, Vasile Lovinescu, Mihail Vâlsan e molti altri.

Per quanto sia un piccolo Paese dell’Est europeo, sul piano intellettuale la Romania ha dato un contributo significativo alla civiltà, paragonabile a quello delle grandi nazioni europee e per poco non le ha superate. L’intellettualità romena ha di caratteristico che essa riflette lo spirito del pensiero europeo ed è indissolubilmente legata allo spirito tradizionale, traendo le proprie origini dalla terra e affondando le proprie radici nell’Antichità e in nell’Ortodossia di un immutato Oriente europeo.

Nel suo saggio su Mircea Eliade e l’unità dell’Eurasia, riferendosi alla natura eurasiatica della cultura romena, Claudio Mutti cita Eliade : « Mi sentivo il discendente e l’erede di una cultura interessante perché situata fra due mondi : quello occidentale, puramente europeo, e quello orientale. Partecipavo di questi due universi. Occidentale per via della lingua, latina, e per via del retaggio romano, nei costumi. Ma partecipavo anche di una cultura influenzata dall’Oriente e radicata nel neolitico. Ciò è vero per un Romeno, ma sono sicuro che sia lo stesso per un Bulgaro, un Serbo-Croato – insomma per i Balcani, l’Europa del Sud-Est – e per una parte della Russia » (M. Eliade, L’épreuve du Labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, pp. 26-27).

L’identità romena presenta una simbiosi tra vettori di civiltà orientali e occidentali, senza che gli uni prevalgano sugli altri. In ciò consiste l’unicità della Romania come società e come territorio e dei Romeni come popolo. La Romania e i Romeni si sono trovati divisi tra gl’imperi dell’Oriente (l’impero ottomano) e dell’Occidente (l’impero austro-ungarico), appartenendo alla chiesa ortodossa di rito bizantino e alla famiglia dei popoli di lingua neolatina.

Per gli eurasiatisti russi, questo è solo uno dei punti di approccio possibili, poiché essi prendono in considerazione una combinazione di coordinate occidentali ed orientali nella cultura e nella storia russa, dichiarando una specifica identità del popolo russo e dello Stato russo.

Quindi, nel quadro del dialogo culturale romeno-russo dovrebbe esser considerata la dottrina dell’eurasiatismo, la quale è autonoma, però, grazie alle varietà e alle proporzioni di cui essa dispone, ci offre una solida base per un mutuo approccio, ed una comprensione e un’amicizia reciproche.

Perciò la traduzione in romeno del libro I fondamenti della geopolitica, che contiene il programma della scuola geopolitica russa dell’eurasiatismo, può essere considerata un’opera di riferimento. Confido nel fatto che i Romeni, entrando in familiarità con la dottrina geopolitica dell’eurasiatismo di scuola russa, comprendano il paradigma del pensiero e dell’azione di Mosca sia in relazione al passato, sia in relazione al presente.

  1. La Romania e la struttura delle opzioni geopolitiche (euroatlantismo ed eurocontinentalismo)
  2. 

Adesso, alcune parole sulla geopolitica della Romania. Nelle condizioni attuali, l’espressione « geopolitica della Romania » non è molto appropriata, se prendiamo in considerazione la Romania come soggetto di geopolitica. Nell’architettura del mondo contemporaneo un soggetto del genere non esiste. Ciò è dovuto alla logica della globalizzazione, nella quale il problema si presenta in questi termini : o ci sarà un solo « Stato mondiale » (world state), con un governo mondiale guidato e dominato direttamente dall’ « Occidente ricco », in primo luogo dagli USA, oppure si stabilirà un equilibrio tra i « grandi spazi » (Grossraum) dei « nuovi imperi », i quali integreranno quelli che finora abbiamo conosciuto come « Stati nazionali ». Nel nostro mondo, o si passerà dagli Stati nazione sovrani (come nell’Europa tra il XVI e il XX secolo) al governo mondiale (mondo unipolare) o avrà luogo il passaggio verso un nuovo impero (mondo multipolare).

In entrambi i casi, la dimensione della Romania come Stato non ci consente di dire – nemmeno in teoria – che la Romania possa diventare un « polo » ; perfino la Russia, col suo potenziale nucleare, le sue risorsde naturali e il suo messianismo storico, si trova in una situazione analoga.

In tali condizioni, la « geopolitica della Romania » costituisce una sezione della « geopolitica dell’Europa unita ». Questo non è soltanto un dato politico attuale, essendo la Romania un Paese membro dell’Unione Europea, ma è un fatto inevitabilmente connesso alla sua situazione geopolitica. Anzi, la stessa « geopolitica dell’Europa unita » non è qualcosa di garantito e sicuro. Perfino l’Europa presa nel suo insieme, l’Unione Europea, può basare la sua sovranità solo su un mondo multipolare ; solo in un caso del genere l’Europa sarà sovrana, sicché la Romania, in quanto parte dell’Europa, beneficierà anch’essa della sovranità. L’adozione del modello americano unipolare di dominio, che rifiuta all’Europa la sovranità, coinvolge anche la Romania in quanto parte dell’Europa.

Perciò la familiarità con le questioni geopolitiche non è qualcosa di necessario e vitale, ma l’argomento va preso in considerazione quando si tratta di allargare l’orizzonte intellettuale.

In verità, se prendiamo in considerazione quello che abbiamo detto più sopra ikn relazione al contributo dei Romeni alla scienza ed alla cultura dell’Europa, la geopolitica potrebbe essere una base molto importante per determinare il ruolo e le funzioni della Romania nel contesto europeo. Non è quindi casuale il fatto che le prospettive geopolitiche occupino una parte significativa nei romanzi di quell’Europeo esemplare che  stato l’eccellente scrittore franco-romeno Jean Pârvulescu, saggista, poeta e pensatore profondo.

Il dilemma della geopolitica europea può essere ricondotto a una scelta fra l’euroatlantismo (riconoscimento della dipendenza da Washington) e l’eurocontinentalismo. Nel primo caso l’Europa rinuncia alla sua sovranità in favore del « fratello maggiore » oltremarino, mentre nel secondo caso essa insiste sulla propria sovranità (fino a organizzare un modello geopolitico e geostrategico proprio). Questa opzione non è completamente definita e sul piano teorico dipende da ciascuno dei Paesi dell’Unione Europea, quindi anche dalla Romania. Per questo motivo, che ha a che fare con la geopolitica della Romania nel senso stretto del termine, nel contesto attuale si rende necessaria una partecipazione consapevole e attiva nella scelta del futuro dell’Europa : dipendenza o indipendenza,  vassallaggio o sovranità, atlantismo o continentalismo.

Una geopolitica del « cordone sanitario »

Nella questione dell’identità geopolitica dell’Europa è possibile individuare il modello seguente : ci sono i Paesi della « Nuova Europa » (New Europe), paesi est-europei che tendono ad assumere posizioni russofobiche dure, aderendo in tal modo all’orientamento euroatlantico, delimitandosi ed estraniandosi dalle attuali tendenze continentali della Vecchia Europa, in primo luogo la Francia e la Germania (la Gran Bretagna è tradizionalmente alleata degli USA).

Questa situazione ha una lunga storia. L’Europa dell’Est è stata continuamente una zona di controversie tra Europa e Russia : ne abbiamo un esempio tra il secolo XIX e l’inizio del secolo XX, quando la Gran Bretagna usò deliberatamente questa regione come un « cordone sanitario » per prevenire una possibile alleanza tra la Russia e la Germania, alleanza che avrebbe posto fine al dominio anglosassone sul mondo. Oggi si verifica ancora la stessa cosa, con la sola differenza che adesso viene messo l’accento sui progetti energetici e nei Paesi del « cordone sanitario » si fa valere l’argomento secondo cui si tratterebbe anche di una rivincita per l’ »occupazione sovietica » del XX secolo. Argomenti nuovi, geopolitica vecchia.

La Romania è uno dei Paesi della « Nuova Europa » e quindi fa oggettivamente parte di quel « cordone sanitario ». Di conseguenza, la scelta geopolitica della Romania è la seguente : o schierarsi dalla parte del continentalismo, in quanto essa è un Paese di antica identità europea, o attestarsi su posizioni atlantiste, adempiendo in tal modo alla funzione di « cordone sanitario » assegnatole dagli USA. La prima opzione implica, fra le altre cose, la costruzione di una politica di amicizia nei confronti della Russia, mentre la seconda comporta non solo un orientamento antirusso, ma anche una discrepanza rispetto alla geopolitica continentalista dell’Europa stessa, il che porta a un indebolimento della sovranità europea in favore degli USA e del mondo unipolare. Questa scelta geopolitica conferisce a Bucarest la più grande libertà di abbordare i problemi più importanti della politica internazionale.

La Grande Romania

Come possiamo intendere, in questa situazione, il progetto della costruzione geopolitica nazionalista della Romania, progetto analogo a quello noto col nome di « Grande Romania » ? In primo luogo si tratta della tendenza storica a costruire lo Stato nazionale romeno, tendenza sviluppatasi in condizioni storiche e geopolitiche diverse. Qui possiamo richiamarci alla storia, a partire dall’antichità geto-dacica e citando Burebista e Decebalo. In seguito sorsero i principati di Moldavia e di Valacchia, formazioni statali che esistettero in modo indipendente fino alla conquista ottomana.

Bisogna menzionare anche Michele il Bravo, che agli inizi del secolo XVII realizzò l’unione di Valacchia, Moldavia e Transilvania. Fu solo nel secolo XIX che la Romania conquistò la propria statualità nazionale, la quale venne riconosciuta nel 1878 al Congresso di Berlino. Il peso strategico della Romania è dipeso, anche nelle condizioni della conquista dell’indipendenza, dalle forze geopolitiche circostanti. Fu una sovranità relativa e fragile, in funzione dell’equilibrio estero di potenza, tra Sud (impero ottomano), Ovest (Austria-Ungheria, Germania, Francia, Inghilterra) ed Est (Russia). Di conseguenza, l’obiettivo “Grande Romania” rimase una “utopia geopolitica nazionale”, anche se ricevette un’espressione teorica integrale coi progetti di realizzazione di uno Stato romeno tradizionalista dei teorici della Guardia di Ferro (Corneliu Zelea Codreanu, Horia Sima), mentre nel periodo seguente la Realpolitik di Bucarest fu obbligata, da forze di gran lunga superiori al potenziale della Romania, a operare una scelta: Antonescu fu attratto verso la Germania, Ceausescu verso l’Unione Sovietica.

Per rafforzare l’identità nazionale, l’”utopia nazionale” ed anche l’”utopia geopolitica”, è estremamente importante non rinunciare in nessun caso al progetto “Grande Romania”, ma non si prendono in considerazione gli aspetti concreti dell’immagine della carta geopolitica, poiché un appello all’”ideale” potrebbe essere un elemento di manipolazione, tanto più che la Romania non dispone, nemmeno di lontano, della capacità di difendere, in queste condizioni, la sua sovranità sulla Grande Romania nei confronti dei potenziali attori geopolitici a livello globale e regionale (USA, Europa, Russia).

5. La strumentalizzazione del nazionalismo romeno da parte dell’atlantismo

Una delle forme più evidenti di strumentalizzazione dell’idea di “Grande Romania” si manifesta ai giorni nostri, quando una tale idea viene utilizzata negli interessi dell’atlantismo. Ciò ha uno scopo evidente: il nazionalismo romeno (perfettamente legittimo e ragionevole di per sé) nella Realpolitik fa appello all’idea di integrazione della Repubblica di Moldavia. Sembrerebbe una cosa del tutto naturale. Ma questo legittimo desiderio dell’unione di un gruppo etnico in un solo Paese, nel momento in cui la Romania è membro della NATO, sposterebbe ulteriormente verso la Russia le frontiere di questa organizzazione e, in tal caso, le contraddizioni tra Mosca e l’Unione Europea – e l’Occidente in generale -  si esacerberebbero. In altri termini, l’utopia nazionale della “Grande Romania” si trasforma, nella pratica, in una pura e semplice estensione del “cordone sanitario”, la qual cosa non avverrebbe a beneficio dell’Unione Europea, bensì degli USA e dell’atlantismo. In questo contesto, il progetto atlantista mira in fin dei conti a privare l’Europa della sua sovranità, mostrando indirettamente il suo carattere antieuropeo o, quanto meno, anticontinentalista.

All’integrazione della Repubblica di Moldavia si aggiunge anche la Transnistria, che per la Russia rappresenta una posizione strategica in questa regione. Dal punto di vista strategico la Transnistria è molto importante per Mosca, non solo in quanto si tratta di una leva su cui essa può agire nelle relazioni a lungo termine con la Repubblica di Moldavia, ma, fatto più importante, nella prospettiva del probabile crollo dell’Ucraina e della sua divisione in due parti (orientale e occidentale), che prima o poi si verificherà per effetto della politica di Kiev successiva alla “rivoluzione arancione”. Nei Fondamenti della geopolitica c’è un capitolo sulla disintegrazione dell’Ucraina. Il capitolo in questione è stato scritto all’inizio degli anni NOvanta, ma, dopo la “rivoluzione arancione” del 2004, questa analisi geopolitica è diventata più esatta, più precisa. In una certa fase, la Transnistria diventerà un’importantissima base della Russia nella regione. In questa prospettiva, la Grande Romania diventa un ostacolo, cosa che gli strateghi atlantisti hanno previsto fin dall’inizio.

Le frizioni tra Romania e Ungheria, così come alcune frizioni con l’Ucraina, non sono importanti per gli atlantisti e questo aspetto del nazionalismo romeno non avrà il sostegno dell’atlantismo, a meno che ad un certo momento gli USA non pensino di poterlo utilizzare per destabilizzare la situazione secondo il modello della disintegrazione jugoslava.

Puntando sui sentimenti patriottici dei Romeni, gli operatori della geopolitica mondiale si sforzeranno di raggiungere il loro specifici obiettivi.

6. La Romania nel quadro del Progetto Eurasia

Adesso è possibile presentare, in poche parole, il modello teorico della partecipazione della Romania al Progetto Eurasia. Questo progetto presuppone che nella zona settentrionale del continente eurasiatico si stabiliscano due unità geopolitiche, due “grandi spazi”: quello europeo e quello russo. In un quadro del genere, l’Europa è concepita come un polo, come un’area di civiltà. A sua volta, la Russia comprende il Sud (Asia centrale, Caucaso) e l’Ovest (Bielorussia, Ucraina orientale, Crimea). Il momento più importante in un’architettura multipolare è l’eliminazione del “cordone sanitario”, questo perpetuo pomo della discordia controllato dagli Anglosassoni che è in contrasto sia con l’Europa sia con la Russia. Di conseguenza questi Paesi e questi popoli, che tendono oggettivamente a costituire la Nuova Europa, dovranno ridefinire la loro identità geopolitica. Tale identità si deve fondare su una regola principale: contemporaneamente accanto all’Europa e accanto alla Russia. L’integrazione in Europa e le relazioni amichevoli con la Russia: questo è il ponte che unisce i due poli di un mondo multipolare.

Tre Paesi dell’Europa orientale, possibilmente alleati degli altri, potrebbero adempiere a questo compito meglio di altri Paesi: la Bulgaria, la Serbia e la Romania. La Bulgaria è un membro dell’Unione Europea, è abitata da una popolazione slava ed è ortodossa. La Serbia non è un membro dell’Unione Europea, è abitata da Slavi, è ortodossa e tradizionalmente simpatizza per la Russia. Infine la Romania: Paese ortodosso, con una sua missione metafisica ed una accresciuta responsabilità per il destino dell’Europa. Alla stessa maniera, ma con certe varianti, si potrebbe parlare della Grecia. In tal modo la Romania potrebbe trovare una posizione degna di lei nel Progetto Eurasia, sviluppando qualitativamente lo spazio culturale e sociale che collega l’Est (Russia) con l’Ovest (Europa), spazio che assumerebbe l’identità dei Paesi ortodossi dell’Europa, mentre le caratteristiche distintive nazionali e culturali resterebbero intatte, vale a dire non si dissolverebbero nel mondo stereotipato del globalismo né si troverebbero sotto l’influenza del modo di vita americano, che annulla tutte le peculiarità etniche. Integrandosi nell’Unione Europea e stabilendo stretti legami con la Russia, la Romania potrà assicurare il proprio sviluppo economico e potrà conservare la propria identità nazionale.

Senza alcun dubbio, questo progetto richiede un’analisi attenta e deve costituire il risultato di uno sforzo intellettuale particolarmente serio da parte dell’élite romena, europea e russa.

7. Correzioni all’opera I fondamenti della geopolitica

Il libro è stato scritto per lettori russi, ma, come dimostrano le sue numerose traduzioni e riedizioni in altre lingue – specialmente in turco, arabo, georgiano, serbo ecc. – esso ha destato interesse anche al di fuori delle frontiere della Russia. Non bisogna dimenticare che esso è stato scritto negli anni Novanta del secolo scorso per quei Russi che, nel clima e nella confusione generale di riforme liberali e di espansione dell’Occidente, avevano perduto l’ideale nazionale; per lo più, infatti, esso riflette le realtà internazionali di quel periodo. Al di là di tutto questo, però, l’opera contiene riferimenti essenziali alle costanti della geopolitica – le quali sono identiche in ogni epoca – e, in modo particolare, allo spazio eurasiatico.

I principi enunciati nei Fondamenti della geopolitica sono stati sviluppati ed applicati alle nuove realtà storiche dei primi anni del XXI secolo e si ritrovano nelle mie opere successive: Progetto Eurasia, I fondamenti dell’Eurasia, La geopolitica postmoderna, La quarta teoria politica ecc.

I fondamenti della geopolitica si distingue per la presentazione del metodo geopolitico di base applicato al caso dell’Eurasia.

In diversi momenti successivi alla sua pubblicazione, il testo dei Fondamenti della geopolitica è stato riveduto, ogni volta sotto l’influenza degli eventi in divenire, e ciò ha indotto a chiarire certi punti di vista. In primo luogo, l’autore ha riveduto la sua posizione nei confronti della Turchia, posizione inizialmente negativa a causa dell’appartenenza della Turchia alla NATO, nonché dell’azione svolta negli anni Novanta dagli attivisti turchi nei Paesi della CSI. Verso la fine degli anni Novanta, però, la situazione della Turchia ha cominciato a cambiare, poiché alcuni membri dei gruppi kemalisti degli ambienti militari, così come l’élite intellettuale e molti partiti e movimenti politici si sono resi conto che l’identità nazionale turca è minacciata di scomparsa qualora Ankara continui ad eseguire gli ordini di Washington nella politica internazionale e regionale. Questi circoli sollevano un grande interrogativo, perfino per quanto concerne l’integrazione della Turchia nell’Unione Europea, proprio a causa dei timori relativi alla perdita dell’identità turca. I Turchi stessi parlano sempre più di Eurasia, vedendo in quest’ultima il luogo della loro identità, così come già fanno i Russi e i Kazaki. Per adesso i pareri sono discordi, non solo nell’élite politica, ma anche presso la popolazione. Ciò si riflette anche nel caso di alcuni dirigenti politici turchi (ad esempio il generale Tuncer Kilinc), che considerano la possibilità di ritirare la Turchia dalla NATO e di avvicinare la Turchia alla Russia, all’Iran e alla Cina nel nuovo contesto multipolare.

Di questa evoluzione della politica turca non c’è traccia nei Fondamenti della geopolitica; a tale argomento è completamente dedicato il recente lavoro L’Asse Mosca-Ankara. Nonostante i brani antiturchi, i Turchi hanno mostrato interesse nei confronti dei Fondamenti della geopolitica, che sono diventati un testo di riferimento ed un vero e proprio manuale per i dirigenti politici e militari, aprendo loro una nuova prospettiva sul mondo, non solo verso l’Occidente, ma anche verso Est.

Parimenti, nel libro non sono presi in esame la vittoria di Mosca in Cecenia, i fatti di New York dell’11 settembre 2001, i tentativi di creare un asse Parigi-Berlino-Mosca al momento dell’invasione americana in Iraq, la secessione del Kosovo e la guerra russo-georgiana dell’agosto 2008.

Ciononostante, il lettore attento dei metodi presentati nei Fondamenti della geopolitica avrà la possibilità di effettuare la propria analisi in relazione al Progetto Eurasia. La geopolitica è in grado di rispondere alle domande “che cosa” e “dove”, facendo sì che le risposte siano precise quanto più possibile. Ma, per quanto concerne un determinato momento del futuro, si capisce bene che le previsioni non possono essere altrettanto rigorose. La geopolitica descrive il quadro di manifestazione degli eventi in relazione con lo spazio, ma anche le condizioni e i limiti dei processi in divenire. Come sappiamo, la storia è una questione sempre aperta, per cui gli eventi che possono aver luogo nel loro quadro avverranno e si manifesteranno in modi diversi. Certo, gli eventi seguono il vettore della logica geopolitica, per allontanarsene qualche volta o addirittura per spostarsi su una direzione contraria. Ma anche questi allontanamenti recano in sé un senso e una spiegazione geopolitica, implicando tutta una serie di forze, ciascuna delle quali tende ad assumere i processi e gli avvenimenti a proprio vantaggio. Per questo si usano metodi diversi, al di fuori dell’esercito, che nei decenni passati aveva un ruolo essenziale, mentre adesso un ruolo più efficiente viene svolto dalla “rete” armata (guerra delle reti); quest’ultima ha l’obiettivo di stabilire un controllo sull’avversario ancor prima del confronto diretto, attraverso la cosiddetta “azione degli effetti di base”. In questa “guerra delle reti” la conoscenza o l’ignoranza delle leggi della geopolitica (e ovviamente di tutti gli effetti connessi) è determinante.

Quindi non c’è da meravigliarsi se proprio coloro che traggono il massimo vantaggio dai frutti della geopolitica dichiarano, rispondendo alla domanda circa la serietà di quest’ultima, che essi in linea di principio non si sottopongono ai suoi rigori.

(Trad. di C. Mutti)

* Aleksandr G. Dugin (n. 1962), dottore in filosofia e in scienze politiche, è rettore della Nuova Università, direttore del Centro Studi Conservatori dell’Università di Stato di Mosca, nonché fondatore del Movimento Eurasia. Il testo qui tradotto è la Prefazione scritta da A. Dugin per l’edizione romena dei Fondamenti della geopolitica (Bazele geopoliticii, Editura Eurasiatica, Bucarest 2011).

lundi, 22 novembre 2010

Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita

Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

L’uomo non può vivere senza miti; meglio: non può vivere senza un sistema di pensiero mitico, che integri in se stesso l’intero fenomeno dell’esistenza.
Poiché l’universo mitico è proprio delle culture arcaiche e di quelle tradizionali, comunque del mondo pre-moderno, esiste un atteggiamento di sufficienza e di distacco nei suoi confronti, quasi che si trattasse della espressione di un pensiero bambino, giustificato in un conteso “primitivo”, ma assolutamente incongruo nella razionale società odierna.
Questo grossolano pregiudizio scientista fa sì che la cultura occidentale moderna stenti a trovare gli strumenti operativi e le stesse categorie concettuali atti a comprendere il fenomeno della mitologia dall’interno, ossia cogliendone  le vitali articolazioni con l’orizzonte spirituale dei popoli che l’hanno elaborata, per dare fondamento alla loro esistenza e per stabilire una relazione di corrispondenza fra se stessi e la realtà circostante.
Il mito non è soltanto uno strumento per razionalizzare i fenomeni naturali e per rassicurare le paure ancestrali dell’uomo, come vorrebbe la Vulgata scientista, ma qualcosa di molto più complesso e di molto più elevato: è una finestra sulla dimensione trascendente spalancata nell’immanente, sull’atemporale nel temporale, sull’assoluto nel relativo.
Grazie al mito, la realtà assume un significato e si presenta all’uomo sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti), nonché a tutti gli altri viventi, vegetali ed animali, al cielo, alla terra, alle stagioni, al giorno e alla notte; e pervasa da poderose correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, che l’uomo stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta, padroneggiare.
Se l’animale cade sotto la freccia del cacciatore, ciò non avviene per esclusivo merito dell’abilità di quest’ultimo; se la spiga di grano germoglia e giunge a maturazione, ciò non è solamente effetto del lavoro dell’agricoltore. Esiste un patto fra l’uomo e le forze della natura, sottoscritto dagli antenati e rinnovato continuamente mediante i riti sciamanici e le prescrizioni totemiche, grazie al quale la Terra offre all’uomo ciò di cui ha bisogno, purché ne usi con saggezza e con moderazione e purché si riconosca debitore di tutto ciò che riceve.
Il mito è la struttura di pensiero che rende ragione di tutto ciò e, di conseguenza, che offre all’uomo la prospettiva di un significato insito nelle cose, in tutte le cose, ivi compreso il suo stesso esistere; in questo senso, si può anche dire che il pensiero mitico è una forma embrionale di pensiero filosofico, o, per dir meglio, una forma di pensiero parallela al pensiero filosofico. Infatti la mitologia non è una sorta di filosofia bambina, ma una forma di pensiero che, come la filosofia, tende a spiegare l’origine delle cose e della vita; non limitandosi - però - alla dimensione del pensiero logico, né ad una conoscenza di tipo oggettivo ed esterno alle cose, ma calandosi, per così dire, nelle cose stesse, onde rivelarne il volto nascosto ed i significati profondi, che parlano all’uomo per mezzo di simboli.
Ciò non significa in alcun modo che il mito sia una forma di conoscenza inferiore alla filosofia; tanto è vero che un filosofo della statura di Platone si è servito del mito proprio per tentare di esplorare alcune delle verità più profonde e difficili. (Ma su tutto questo, vedi anche il nostro precedente articolo: «Il pensiero mitico è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», particolarmente dedicato alla riflessione dell’epistemologo tedesco Kurt Hübner, apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/01/2008).
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade ha dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue riflessioni proprio ad illuminare il significato del mito nel contesto delle culture arcaiche, con particolare riguardo allo sciamanesimo; e, su tale argomento, ha scritto alcune delle pagine più significative che l’intera cultura europea abbia prodotto.
Osserva, dunque, Eliade in «Mito e realtà» (titolo originale: «Myth and Reality»; trasduzione italiana di Giovanni Cantoni, Roma, Borla Editore, 1974, pp. 144-46):

«In un mondo simile [ossia quello del mito], l’uomo non si sente rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è “aperto”, comunica con il mondo, perché  utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti, l’uomo gli risponde  con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con i suoi antenati oppure con i suoi “totem” - ad un tempo natura, sovranatura ed esseri umani -, con la sua capacità di morire e risuscitare ritualmente nelle sue cerimonie di iniziazione (né più né meno della luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il mondo è trasparente per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia, o l’albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un consiglio da dargli.
Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l’uomo delle società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più.  Per esempio, sa che il suo antenato è stato un animale, oppure che può morire e tornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica) , che può influenzare i raccolti con le sue orge (che può comportarsi con la sua sposa come il cielo con la terra o che può avere la parte del vomere e sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l’uomo sa che il suo respiro è vento, che le sue ossa sono simili a montagne, che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare “centro del mondo”, ecc.
Non bisogna immaginare che questa “apertura” verso il mondo si traduca in una concezione bucolica dell’esistenza I miti dei “primitivi” e i rituali che ne dipendono non ci rivelano un’Arcadia arcaica. Come si è visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura delle vittime a vantaggio dei raccolti, l’orgia sessuale, il cannibalismo, la caccia di teste.
Si tratta di una concezione tragica dell’esistenza, risultato della valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. Un mito come quello di Hainuwele [tramandato nelle Isole Molucche, nella parte più orientale dell’odierna Indonesia], e tutto il complesso socio-religioso che esso articola e giustifica, forza l’uomo ad accettare la sua condizione di essere mortale e sessuato, condannato a uccidere e a lavorare per potersi nutrire.  Il mondo vegetale e animale gli “parla” della sua origine, cioè, in ultima analisi, di Hainuwele; il paleo coltivatore comprende questo linguaggio e scopre un significato per tutto ciò che lo circonda e per tutto ciò che fa. Ma questo lo obbliga ad accettare la crudeltà e l’uccisione come parte integrante del suo modo d’essere. Certamente, la crudeltà, la tortura, l’uccisione, non sono comportamenti specifici ed esclusivi dei “primitivi”. Li si incontra lungo tutta la storia, talvolta con un parossismo sconosciuto alle società arcaiche. La differenza consiste soprattutto nel fatto che, per i “primitivi”, questa condotta violenta ha un valore religioso ed è ricalcata  su modelli sovrumani. Questa concezione si è protratta a lungo nella storia. Gli stermini di massa di un Gengis Khan, per esempio, trovano ancora una giustificazione religiosa.
Il mito non è, in se stesso, una garanzia di “bontà” e di moralità. La sua funzione consiste nel rivelare dei modelli e nel fornire così un significato al mondo e al’esistenza umana. Anche il suo ruolo nella costituzione dell’uomo è immenso. In virtù del mito, lo abbiamo detto, le idee di REALTÀ, di VALORE, di TRASCENDENZA, vengono lentamente alla luce. In virtù del mito, il mondo si lascia cogliere come cosmo perfettamente articolato, intelligibile e significativo. Raccontando come le cose sono state fatte, il mito svela per chi e per che cosa sono state fatte e in quale circostanza. Tutte queste “rivelazioni” impegnano direttamente l’uomo, perché costituiscono una “storia sacra”.»

Come si vede, la visione di Eliade è lontanissima da ogni edulcorazione in chiave roussoiana delle società arcaiche; nessun mito del buon selvaggio, nessuna “bontà” intrinseca del mondo mitico: e, del resto, basta un minimo di conoscenza della storia e della letteratura antiche per rendersene immediatamente conto.
Non è forse per espletare un rito di natura espiatoria e propiziatoria che Achille uccide i dodici giovinetti troiani sulla pira di Patroclo; episodio che perfino il raffinato Virgilio, esponente di una cultura molto più “moderna”, riprende nella sua «Eneide»? Ebbene, si tratta di un’azione che acquista significato alla luce della credenza in un legame tra l’aldiqua e l’Aldilà, che trae origine e significato alla luce del mito: nel caso specifico, la credenza che il sangue di alcune vittime innocenti possa placare i Mani di un defunto strappato anzitempo alla vita.
E non sono forse piene le tombe etrusche, a cominciare dalla celeberrima Tomba François di Vulci, di simili raffigurazioni, addirittura impressionanti nella loro carica di tragicità e di cruento realismo, con il demone infernale Charun (latrino Charon), dall’aspetto spaventoso, che accompagna le anime nel loro viaggio al Regno dei morti?
Eliade ci ricorda che la pratica del sacrificio umano è indissolubilmente legata alle culture dei paleocotivatori; e l’archeologia ce ne dà conferma, da un capo all’altro del mondo, dall’Europa alle Americhe: ad esempio con le cerimonie dei Maya per scongiurare la siccità mediante il sacrificio di una fanciulla vergine, che veniva precipitata in un pozzo, o con quella degli Skidi Pawnee dedicata alla Stella del mattino, nella quale, sempre per propiziarsi le forze magiche della natura, essi uccidevano una vergine, all’alba, trafiggendola con piccole frecce infuocate.
Sbagliano, dunque, sia coloro i quali ostentano disprezzo verso la concezione mitica del mondo, sia coloro i quali la idealizzano in maniera ingenuamente acritica, proiettando su di essa il loro vagheggiamento di un Eden incontaminato e perfetto, che nasce dalla frustrazione di essere membri di una società esasperatamente individualista e materialista.
La funzione del mito era ed è essenzialmente quella di rivelare la dimensione nascosta, originaria, delle cose, mostrando la stretta interconnessione che tutte le congiunge e che unisce ad esse anche l’uomo.
Al tempo stesso, il mito tramanda il ricordo di un tempo in cui un ordine felice regnava nel mondo e l’uomo stesso godeva di uno statuto privilegiato; cose entrambe che sono andate perdute a causa di un disordine, di una perturbazione, di una caduta che ha incrinato l’assetto originario, ma che appunto il mito è in grado di recuperare, almeno parzialmente, consentendo all’uomo di ricollegarsi a quella fortunata condizione originaria.
In questo senso, è corretto affermare che il mito punta a reintegrare l’uomo nella sua pienezza ontologica e che tale reintegrazione assume le forme e la prospettiva di una elevazione, ossia di un superamento della sua condizione presente, limitata e precaria, per sviluppare e potenziare in lui le facoltà superiori, ivi compresa quella di parlare alle cose, alle piante, agli animali e, pertanto, di rinsaldare i vincoli magici che tengono in equilibrio le forze cosmiche.
Il mito si collega anche da questo lato allo sciamanesimo e dischiude all’uomo la possibilità di inserirsi non più da spettatore inerme o da vittima rassegnata, ma da autentico protagonista, nel gioco di tali forze cosmiche, dalle quale può attingere poteri e possibilità che, nello stato ordinario di esistenza, sono per lui inimmaginabili.
Infine il mito delinea una concezione sacrale del reale; una concezione, cioè, che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e quantificare ogni cosa, alla luce del Logos strumentale e calcolante.
Il mito, infatti, non è, semplicemente, conoscenza del reale, ma rivelazione: e, come tale, presuppone un “corpus” di dottrine esoteriche che solo nei tempi e nei modi stabiliti possono venir trasmessi di generazione in generazione, essendo di origine superiore all’umana; ciò che va propriamente sotto il nome di Tradizione.
Riconoscendo una Tradizione sovrumana, dalla quale derivano tanto l’ordine cosmico, quando le dottrine iniziatiche che permettono all’uomo di scorgerlo, di rispettarlo e di porsi in sintonia con esso, il mito si pone, in effetti, come una forma di approccio al reale radicalmente diversa, e antagonista, rispetto a quella cui noi moderni siamo ormai talmente abituati, da considerarla l’unica vera e realmente efficace.
Una cosa è certa: finché non scenderemo dal piedistallo della nostra presunzione scientista, non potremo capire nulla del mito e continueremo o a denigrarlo, o a idealizzarlo, senza mai penetrarne l’intima essenza.
Che non si lascia catturare in schemi di tipo esclusivamente logico e scientifico, quali quelli cui siamo abituati da quattro secoli di razionalismo materialista e meccanicista; ma che richiede un salto, una discontinuità nel nostro atteggiamento verso il reale, che coinvolga non solo il Logos, ma tutte le nostre facoltà, a cominciare dai sensi interni e dalle potenzialità sopite dell’anima.


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lundi, 18 octobre 2010

Nationalism and Identity in Romania

Nationalism and Identity in Romania: A History of Extreme Politics from the Birth of the State to EU Accession
 

Radu Cinpoes (author)

Hardback £59.50

Romanian_Revolution_1989_1.jpgThe collapse of communism in Central and Eastern Europe produced a fundamental change in the political map of Europe. In Romania, nationalism re-emerged forcefully and continued to rally political support against the context of a long and difficult transition to democracy. Extreme right-wing party The Greater Romania Party gained particular strength as a major political power, and its persuasive appeal rested on a reiteration of nationalism and identity - and themes such as origins, historical continuity, leadership, morality and religion - that had been embedded in Romanian ideological discourse by earlier nationalist formations. Radu Cinpoes here examines the reasons for the strength and resilience of nationalism in Romania, from the formation of the state to its accession in the EU.

 

  • Preface * Nationalism - Conceptual Framework * Continuity and Discontinuity in the Romanian Nationalist Discourse * Tradition, Context and Transition to Post-Communism * The Greater Romania Party: Background, Competition and Significance * The Party and its Leader * The Decline of the Greater Romania Party * Romania in the EU: The Future of Nationalism * Conclusions
  • Radu CinpoeA specializes in nationalism and identity politics. He is lecturer in Politics and Human Rights at Kingston University, where he also obtained his PhD in 2006.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
    Series: International Library of Political Studies

    Hardback
    ISBN: 9781848851665
    Publication Date: 21 Sep 2010
    Number of Pages: 320

     

    jeudi, 23 septembre 2010

    Lettre ouverte de DEXTRA à l'Ambassadeur de Roumanie

     

    Miss-Univers-2010-une-Miss-Roumanie-peut-en-cacher-une-autre_reference.jpg

    Lundi 20 septembre 2010 (Photo: Miss Roumanie 2010)

    Lettre ouverte de Dextra à l'Ambassadeur de Roumanie
    Ne nous y trompons pas : l'« émotion » que l'expulsion de quelques Roms a suscitée était le but recherché par les professionnels de la communication qui entourent le président Sarkozy, afin de l'affubler à bon compte d'une réputation de « fermeté » auprès d'un électorat français, légitimement inquiet de l'explosion de l'insécurité, préoccupé de son avenir comme peuple et de son devenir économique. Frappés de plein fouet par les vents ravageurs de la mondialisation, avec son corollaire de migrations et de délocalisations, les Français attendent encore du gouvernement qu'il contribue à résoudre les problèmes graves qu'ils rencontrent dans leur vie quotidienne et qu'il relève les immenses défis quant à leur identité et à leur destinée dans un monde de périls. Les Roms ont donc été choisis pour camoufler l'absence de politique du gouvernement en matière de sécurité et d'immigration. En effet, le gouvernement expulse quelques familles de Roms tandis que des milliers d'immigrés clandestins entrent chaque année en France, ces dernières années plus que jamais, comme le rappelle avec beaucoup d'à propos le journaliste Jean-François KHAN. Déjà les Roms servaient à gonfler les statistiques de ses maigres reconductions à la frontière, puisqu'ils représentent un tiers de ces dernières. Reste que la France n'a pas à supporter la charge des Roms, qui bien que nomades ressortissent des lois et de la solidarité nationale roumaines. Cette affaire aura au moins eu le mérite de montrer l'inanité de toute politique vouée à l'intérêt national dans le cadre de l'Union européenne. Les politiques d'immigration, de régulation des populations nomades, les reconduites à la frontière, les politiques de sécurité sont autant de nécessités. Elles ne sont possibles qu'aux nations souveraines, susceptibles de dans le cadre d'accords bi ou multilatéraux. L'Union européenne, son crédo supranational emprunt de "bons sentiments" est un carcan d'acier enserrant les nations et leurs libertés collectives, qui en cette occasion aura mis en danger notre amitié séculaire avec la Roumanie.
    A Son Excellence Teodor Baconschi
    Ambassadeur extraordinaire et plénipotentiaire
    de Roumanie en France et en Principauté de Monaco
    Monsieur l'Ambassadeur,
    Le gouvernement français s'est mis en tête d'expulser quelques milliers de Roms, ressortissants de votre pays. La Roumanie a fait preuve d'unegrande modération dans cette affaire, pourtant, nous, Français, nepouvons rester sans élever la voix pour en appeler à la préservation del'antique amitié que nos deux nations, « cousines latines »,entretiennent depuis des siècles. Nos poitrines se sont soulevées d'indignation lorsque sous prétexte de ne pas « stigmatiser » les Roms,ce qu'ils sont, ce qu'ils ne nient pas être, le secrétaire général de l'Elysée les nomme des « Roumains ». Non ! Les Roumains ne sont pas desRoms ! A ne pas vouloir « stigmatiser » on finit par montrer du doigt toute la nation roumaine. Le président sarkozy et son gouvernement, à l'instar d'une bonne part de notre classe politique, a choisi, il y a longtemps déjà de gouverner le chaos en fondant leurs diverses stratégies sur la peur, en désignant des boucs émissaires chargés de soulager les angoisses du corps social, jouant à la fois le rôle de repoussoir et d'exemple.
    Ici réside un double scandale : les Roms sont des cibles commodes des administrations et ils ne représentent pas, comme l'a rappelé votregouvernement, une priorité quant à la sécurité des Français, bien qu'ils aient très mauvaise réputation et qu'il existe indéniablement une criminalité organisée Rom, comme le laisse entendre d'ailleurs vos dernières discussions avec les autorités françaises. En tout état de cause, la reconduction des Roms à l'intérieur de l'espace Schengen ne pourra résoudreaucun des "maux" qu'ils prétendent purger, bien au contraire cela ne peut que distendre l'amitié séculaire de nos deux nations.C'est afin que vous sachiez que le peuple de France n'est pas en accord avec la politique menée par notre gouvernement, qui foule aux pieds les principes qu'il a lui-même contribué à forger. Un jour, nous l'espérons,la France retrouvera sa souveraineté vis-à-vis de l'Union européenne et nous serons de nouveau libres de notre politique diplomatique et donc responsables vis-à-vis de nos amis, si bien que de telles situations ne pourront plus se présenter. Croyez bien, Excellence, en la pérennité de notre attachement à notre sœur balkanique qu'est la Roumanie, nousne la laisserons pas diffamer. Sachez aussi que, luttant pour nos libertés, nous luttons aussi pour les vôtres. Nos nations ne pourront prospérer et ne pourront approfondir leur affinités électives que dans l'indépendance, lorsque nous aurons quitté cette Union européenne soviétique comme l'a si justement qualifiée le dissident Vladimir Boukovsky.
    Je vous prie, Excellence, d'agréer l'expression de notre très haute considération.
    Matthieu CEILLIER pour Dextra.

    samedi, 11 septembre 2010

    La metafisica del sesso in Mircea Eliade

    La metafisica del sesso in Mircea Eliade

    di Giovanni Casadio*

    Fonte: Rinascita [scheda fonte]


    “La vita è fatta di partenze”
    Jurnalul Portughez, 19 luglio 1945


    eliade_tanar.jpg

    Mircea Eliade nacque nel marzo 1907 e morì nel 1986, quindi a poco più di 79 anni. Trascorse 3 anni in India, quasi un anno in Inghilterra, quasi 5 anni in Portogallo (Lisbona e Cascais), 11 anni a Parigi, 30 anni in America (Chicago) e naturalmente 33 anni in Romania, gli anni della formazione, durante i quali fece continui viaggi in Italia e in Germania. Durante i 30 anni di relativa stabilità a Chicago, quasi tutte le estati traslocava in Francia, con lunghe trasferte prima nel Canton Ticino e poi in Italia.

     

     


    Si sposò due volte (come adombrato nel proverbio “di Venere e di Marte non si sposa e non si parte”, le nozze sono come un imbarco per un viaggio assai incerto). La prima moglie Nina Mareş (dal 1934 al 1944), la seconda Christinel Cottescu (dal 1950 al 1986) furono devotissime amanti, massaie e segretarie. Ebbe una decina di amori extraconiugali importanti (i più notevoli, quello con Maitreyi, per il contesto orientale e il libro – anzi i due libri – che ne seguirono, e quello con Sorana, per l’exploit orgasmico di cui parlerò nel seguito). E svariate altre donne: non tantissime come il coetaneo Georges Simenon (1903-1989), che si vantava di aver consumato un numero di donne superiore a quello delle matite usate nei suoi innumerevoli scritti (quattrocento e più romanzi e migliaia di articoli) e in un’intervista al vitellone romagnolo Federico Fellini dichiarava: “Fellini, je crois que, dans ma vie, j’ai été plus Casanova que vous! J’ai fait le calcul, il ya un an ou deux. J’ai eu dix mille femmes depuis l’âge de treize ans et demi. Ce n’est pas du tout un vice. Je n’ai aucun vice sexuel, mais j’avais besoin de communiquer!”
    Ma anche i libri o gli articoli che si scrivono e poi (non sempre) si pubblicano sono partenze. Un elenco provvisorio, probabilmente in difetto, potrebbe essere il seguente: Romanzi o racconti lunghi: 15 - volumi di novelle: 4 - diari: 5 - volumi di memorie: 2 - drammi: 4 - saggi di storia delle religioni, di filosofia, di critica letteraria: 34 e più - curatele di opere singole o collettive: 2 tomi (Bogdan Hasdeu); 1 tomo (Nae Ionescu); 4 tomi (From Primitives to Zen: fonti di storia delle religioni), 15 voll. (Encyclopedia of Religion) - riviste fondate e dirette o co-dirette: 1. Zalmoxis, 2. Antaios, 3. History of Religions.
    Aggiungiamo più di 1900 articoli, pubblicati in riviste e miscellanee di varia cultura soprattutto nel periodo romeno, ripresi solo in minima parte nelle opere menzionate sopra. E non parliamo degli infiniti frammenti inediti: abbozzi di libri non condotti a termine, note erudite, appunti di diario smarriti nei vari traslochi o da lui stesso gettati nelle fiamme o distrutti nel grande incendio che devastò il suo ufficio all’Università di Chicago un anno prima della morte. Molto si trova ancora nei 177 scatoloni del fondo Eliade conservato allo “Special Collections Research Center” presso la Regenstein Library della Università di Chicago, insieme alla corrispondenza, i manoscritti e le prime copie a stampa di tutti i libri pubblicati da Eliade, scritti su di lui e altro materiale interessante, compreso la famosa pipa, 5 temperini e un calzascarpe. Certo una bagattella al confronto della produzione del quasi coetaneo teologo indo-catalano Raimon Panikkar (1918-), al quale si devono più di 60 voll. e più di 1500 articoli, ma – si sa – i teologi scrivono sotto la dettatura di Dio (ed Eliade non era un teologo, contrariamente a quanto molti pensano). Ma un numero abbastanza cospicuo per comprendere che siamo di fronte a un essere fenomenale: un individuo ossessionato da una specie di delirio della scrittura-confessione, in funzione di una fuga dalla realtà (in gergo psicologico “escapismo”), che è poi una forma estrema di svago o distrazione, il cui scopo è d’estraniarsi da un’esistenza nei confronti della quale si prova disagio.
    Infinite (in svariate lingue) le monografie, le miscellanee, gli articoli, le voci d’enciclopedia, le recensioni, le tesi di laurea sui più disparati aspetti della sua vita e della sua opera. E – ed è ciò che più conta – infinite citazioni dei suoi scritti in opere di storia delle religioni e di ogni altro genere letterario; per fare un esempio, Eliade è l’unico storico delle religioni menzionato in due opere chiave di due papi, Karol Józef Wojtyła (Varcare la soglia della speranza) e Joseph Ratzinger (Fede, verità, tolleranza).
    La sua vita in Portogallo
    In questa sede, ci proponiamo di affrontare alcuni momenti del suo vissuto interiore nel periodo portoghese. Premettiamo che Eliade stette in Portogallo, prima come addetto stampa, poi come consigliere culturale, poi di nuovo come addetto stampa, poi come privato cittadino (in ragione dei mutamenti del vento politico romeno) dal 10 febbraio 1941 al 13 sett. 1945, esattamente 4 anni e 7 mesi: sono date che parlano da sé …
    Il Jurnal portughez è il più importante dei diari di Eliade per due motivi. Anzitutto esso si diversifica da Şantier (“Cantiere”, noto in Italia come Diario d’India) e dai tre voll. di Fragments d’un journal ovvero Journalul in romeno (che vanno dall’arrivo in Francia nel ’45 alla morte dell’autore nell’86) perché non fu ridotto (e censurato) dall’Autore per la pubblicazione, sia perché non ne ebbe il tempo sia perché non si trovò mai nella disposizione d’animo adatta per fare i conti con il vissuto psichico di quegli anni colmi di avvenimenti funesti per lui, per il suo paese e per il resto del mondo. Sia chiaro: quando Eliade scrive, scrive sempre col pensiero al lettore. Una volta, infatti, osserva che solo quando lui avrà sessant’anni quei pensieri potranno essere resi di pubblico dominio, e solo allo stato di “frammenti”, estrapolati dall’insieme delle confessioni: così scrive il 5 febbraio 1945. Alla sua morte la moglie Christinel non si è mai decisa a dare il permesso della pubblicazione: solo pochissimi intimi hanno avuto accesso al manoscritto conservato nel fondo Eliade della Biblioteca Regenstein di Chicago, tra i quali l’amico romeno Matei Calinescu (1934-2009) e il fedelissimo allievo e biografo McLinscott Ricketts. Ricapitolando, il testo manoscritto è stato pubblicato così come era stato buttato giù dall’autore, e sarebbe dunque la prima volta che ci troviamo di fronte ai pensieri immediati di Eliade, un autore che anche critici benevoli come N. Spineto e B. Rennie considerano un grande bugiardo, costruttore e manipolatore del proprio personaggio per la posterità.
    Abbiamo detto che il Jurnal del periodo portoghese è più importante di tutti gli altri diari per due motivi. Il primo, si è visto, risiede nel suo carattere di documento genuino, immediato, in quanto presenta i suoi pensieri senza tagli o rielaborazioni. Il secondo motivo è di ordine contenutistico, e non è meno essenziale. In esso infatti sono narrati: 1) i pensieri e le emozioni che fanno da sostrato alle due opere di Eliade (apparse entrambe nel 1949 ma cominciate in quegli anni luttuosi) di gran lunga più lette e citate, cioè il Traité d’histoire des religions (prima concepito come “Prolegomeni” e poi ripresentato in inglese come Patterns) e il Mythe de l’éternel retour (successivamente presentato in inglese col titolo più descrittivo Cosmos and History); 2) le emozioni e i pensieri generati dal progressivo disfacimento – cui seguirà un inesorabile collasso – delle due cose che al Nostro erano più care, la patria -nazione romena, neamul românesc (sotto il rullo compressore delle armate sovietiche e per la inettitudine o complicità di “piloti orbi” di varie tendenze), e la sposa Nina Mareş (in seguito agli effetti devastanti di un cancro all’utero). E – come è stato notato anche da Alexandrescu, che definisce il Diario portoghese “Apocalisse di Eliade” o “secondo Mircea Eliade” (p. 317, trad. ital.; p. 26, ed. romena) – tra le due catastrofi esiste un inscindibile nesso, quale quello che può sussistere tra le vicende del macrocosmo-mondo e quelle del microcosmo-uomo, per restare nei termini di una polarità derivata da una tradizione – quella indiana – a lui estremamente familiare (si veda, ad es. nel Diario, la riflessione del 25 sett. 1942: “Quando l’uomo scopre sé stesso, ātman, scopre l’assoluto cosmico, brahman, e nello stesso tempo coincide con esso”, p. 49, trad. it.). In queste circostanze, e da esse condizionato e afflitto, egli elabora una serie di formule ermeneutiche che anticipano la filosofia delle due opere. Da queste circostanze, in maniera ancora più evidente, nascono una serie di riflessioni assolutamente brutali sulla situazione politica del tempo e sulla propria intimità personale, riflessioni che non mancheranno di suscitare gli strilli indignati delle anime belle e dei corifei della correttezza politica. Diamo quindi la parola all’autore stesso: all’Eliade intimo.
    La bella giudea di Cordova
    Anzitutto una riflessione sulla donna come virtuale soggetto e oggetto di desiderio e di innamoramento. Il 5 ottobre 1944 Eliade è a Cordova per un congresso in cui avrebbe parlato di miti sull’origine delle piante. Nella piazzetta di Maimonide adocchia “dal gruppo di curiosi che ci guardano passare, una ragazza straordinariamente bella, con una macchia bruna sotto gli occhi. Un tipo marcatamente ebraico” (p. 169 trad. it.). In lui si accende la fiamma del desiderio; non lo dice – secondo lo stile reticente e allusivo che è tipico del suo diario –, ma è evidente dalla narrazione che segue. “Al Depósito de Sementales (cioè il deposito degli stalloni), perché ci vengano mostrati i cavalli. Il primo cavallo che ci presentano è da monta: poderoso, ma terribile. In effetti il sesso non è mai bello, manca di grazia, non ha altra qualità tranne quella della riproduzione potenziata in modo mostruoso. Sono convinto che la maggior parte dei cavalli arabi e arabo-ispanici che ci vengono fatti vedere, superbi, nervosi e fieri, siano impotenti, o quasi. Il pensiero che la forza generativa che sento turbarmi sin dall’adolescenza potrebbe essere il grande ostacolo tra me e lo spirito puro, l’uccello del malaugurio del mio talento, mi deprime. Che cosa avrei potuto creare se fossi stato meno schiavo della carne!”. Eliade fu certo ossessionato dall’antitesi tra libido copulandi e libido scribendi (sentite entrambe come forme di creazione potenziale), ma non ricorse mai come il giudeo greco alessandrino Origene al rimedio estremo della castrazione. Per domare le urgenze della carne dovette attendere il naturale sedarsi dell’istinto sessuale, in seguito al trascorrere degli anni e grazie alla compagnia di una donna castrante come Christinel Cottescu. Lì a Cordova, la visione in rapida successione della bella giudea e dei potenti/impotenti stalloni fa scattare nella sua mente un’intuizione sulle modalità dell’eros femminile che è certo basata sulla sua ventennale esperienza di seduttore ma anche su una raffinata capacità di cogliere gli aspetti sottili della realtà, capacità che è poi anche quella che contraddistingue la sua ermeneutica dei fenomeni religiosi nei loro aspetti simbolici. “Dubito che le donne amino la violenza come stile erotico e abbiano un debole per gli uomini brutali. La donna è sensibile in primo luogo all’intelligenza (come la intende lei, ovviamente: “vivacità di spirito”, “facezia” [spirt, drăcos, glumeţ], ecc.); più che alla stessa bellezza. In secondo luogo, è sensibile alla bontà. Tutti i racconti con donne ossessionate da uomini brutali, ecc., sono invenzioni letterarie di certi decadenti. Statisticamente, e soprattutto nei villaggi, ciò che attrae nel 90 % le donne è il “cervello” (deşteptăciunea) e la bontà. Non è la capacità generativa a distinguerci dalle donne, ma l’intelligenza” (p. 170 trad. it.).
    La conclusione di Eliade, per quanto generalizzante, è sicuramente fondata e potrebbe assegnare al suo autore un posto d’onore tra i trattatisti dell’amore nella serie che va da un Andrea Cappellano a un Henri Stendhal, fino a un Francesco Alberoni, si licet parvis componere magnis. Merita attenzione il corollario di questa riflessione che sembra caratteristico di una mentalità tipicamente maschilista, piuttosto disinvolta nei riguardi delle capacità intellettuali del gentil sesso: “Non è la capacità generativa a distinguerci dalle donne, ma l’intelligenza”.
    Intelligenza e gentil sesso
    Vuole egli intendere, con questa asserzione, che le donne sono prive di intelligenza?
    Probabilmente sì, nel senso che le donne sarebbero prive di quel certo tipo di intelligenza o prontezza di spirito che esse prediligono in quegli uomini che ai loro occhi ne appaiono dotati. E credo invero che quel suo insistere sulla differenza (quella certa cosa che ci distingue dalle donne, “ne distingue de femei”), debba intendersi nel senso che le donne – come del resto gli uomini – sono naturalmente attratte (per la nota legge chimico-fisica sull’attrazione tra poli contrari) da quegli uomini che possiedono in maniera marcata una caratteristica di cui esse si sentono prive: il che naturalmente è vero solo in certi casi. E sarà lo stesso Eliade a notarlo in un pensiero successivo che sembra in netta contraddizione con questo.
    L’11 aprile 1945, meno di un anno dopo, il Nostro è in uno stato di acuta irritazione nei riguardi dei suoi compatrioti maschi (in particolare i funzionari del ministero degli Esteri, pronti a inchinarsi di fronte al nuovo padrone sovietico) e in più soggetto a una crisi nevrastenica, “alimentata in modo naturale dalla mia insoddisfazione erotica”. Il suo pessimismo “per quel che riguarda la condizione attuale dell’uomo” lo induce ad impietose considerazioni che smascherano la (presunta) superiorità dell’intelligenza maschile. “Certe volte mi deprime l’enorme ruolo che continua a svolgere la vanità nella vita di quasi tutti gli uomini; superiore a quello del sesso, della fame o della paura della morte. Mi convinco egualmente che il maschio ‘in generale’ è di gran lunga più stupido di quello che ritenevo sino a qualche anno fa. La lucidità del maschio è una leggenda. Conosco, oggi, moltissimi uomini che sono stati scelti, menati per il naso e ‘acchiappati’ da donne completamente prive di ogni tipo di attrattiva – senza che essi avessero anche solo il sospetto del ruolo passivo che hanno avuto. (…) In moltissime coppie che ho conosciuto negli ultimi sette, otto anni, le mogli sono molto al di sotto del livello dei mariti, ma infinitamente più intelligenti e abili di loro, prova ne sia il fatto che se li tengono. Al contrario, quasi tutte le donne ammirevoli che ho conosciuto in questo lasso di tempo sono rimaste senza marito, perché nessun uomo ha saputo sceglierle. D’altronde, credo che quasi nessun uomo scelga. È sempre scelto. Come spiegarmi, altrimenti, tante coppie assurde che conosco? La stupidità dei maschi non è mai tanto evidente come quando, dopo molti amoreggiamenti e avventure, decidono di sposarsi. Quasi sempre la sposa ‘scelta’ è di gran lunga inferiore alle donne con le quali hanno flirtato, ecc.” (p. 264-265, trad. it.). Sei mesi prima, come abbiamo visto, pare che egli pensasse esattamente il contrario. Anche se sembra evidente che nell’un caso egli si riferisce alle condizioni in base alle quali la donna si lascia sedurre, nell’altro alla strategia che mette in atto per sedurre – a fini matrimoniali. Sulla donna, sul mistero della mente femminile, comunque, fa cilecca la razionalità di Mircea Eliade, come faceva cilecca la razionalità di un Platone o di un Schopenhauer.
    L’eros come emozione
    e orgasmo
    E dall’eros come “innamoramento” passiamo a un’altra serie di riflessioni attorno a un altro aspetto paradossale della tematica erotica: l’eros come emozione legata all’evento fisiologico dell’eccitazione e dell’orgasmo, di nuovo da un punto di vista prettamente maschile. Tra il 2 e il 3 di febbraio del 1945, quando la disperazione per la “sparizione di Nina” gli pare intollerabile, quando la lettera di quasi licenziamento del Ministero degli Esteri lo getta praticamente sul lastrico, egli giunge, come avrebbe detto Eschilo, al mathein attraverso il pathein: a un intuizione geniale attraverso l’angoscia e la sofferenza (p. 227, trad. it.). Egli si domanda: “Che cosa significa la perdita di tua moglie, in confronto alla grande catastrofe mondiale, nella quale lasciano la vita decine di migliaia di persone al giorno, che annienta città e strema nazioni?”. La risposta che Eliade dà è lucidissima, e getta, per così dire, un ponte tra il macro- e il microcosmo; e significa, nel fondo, che la massa non è che una somma di individui tra loro incomunicabili. “Gli risponderei: immaginati un giovane innamorato da tanto tempo, che, un bel giorno, riesce a far sua la donna amata. È felice, e nel vederlo traboccare di felicità tu gli dici: ‘Che interesse può avere il fatto che tu oggi abbia posseduto una donna! Alla stessa ora, in tutto il mondo, almeno un milione di coppie stavano facendo, come te, l’amore. Non c’è nulla di straordinario in quello che ti è successo!’. E, malgrado ciò, lui, innamorato, sa che ciò che gli è successo è stato straordinario”. In questa minirealtà – che poi tanto minima non è – Eliade dà mostra di una capacità introspettiva che gli fa cogliere quel tanto di banale e di balordo che è implicito nell’atto della consumazione, che assume significato solo attraverso l’amore, amore che è in grado di produrre una trasformazione quasi alchemica dell’evento fisiologico. Una capacità introspettiva che è in fondo in sintonia (ci sia concesso questo accostamento che ad alcuni potrà apparire irriverente o impertinente) con la sua riflessione su tempo ed eternità, quale si ritroverà appunto nel libro alla stesura del quale si accingerà il mese successivo e che apparirà in Francia quattro anni dopo col titolo Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition (Paris 1949). Per il resto della notte lo rode l’insonnia, durante la quale si accavallano pensieri dominati da una disperazione atroce e senza apparente via di uscita (“sento che qualsiasi cosa faccia il risultato è la disperazione”). E di nuovo si rifugia nell’escamotage del libertinaggio fine a se stesso, svuotato di ogni dimensione romantica.
    “E ho un’alternativa: se mi getterò di nuovo in esperienze (leggi: erotismo), mi consumerò invano, perché nessun piacere fisico può essermi di consolazione una volta estinto (può forse consolarmi l’aver stretto tra le braccia Rica, Maitrey, Sorana e qualche altra? Mai un ricordo erotico consola; tutto si consuma per sempre nell’atto; si ricorda l’amore, l’amicizia, la storia legata a una donna, ma ciò che è stato essenzialmente erotico, il fatto in sé diventa nulla nell’istante successivo alla sua consumazione). Così, mi dico che devo accontentarmi di un equilibrio fisiologico acquisito senza grattacapi (un’avventura qualunque e comoda) e concentrarmi sulla mia opera, lasciandomi passare accanto la vita senza sentirmi costretto ad assaporarla, a cambiarla né ad avvicinarmela”. Alla lucidità della diagnosi (effettivamente è così: il ricordo erotico non consola, tutto si consuma per sempre nell’atto, da cui il pessimismo sull’eros come adempimento fisiologico frustrante di Lucrezio nel IV libro del De Rerum Natura e l’insaziabile concupiscenza di Don Giovanni nel mito e nella letteratura) segue la banalità della terapia: “un’avventura qualunque e comoda”, cioè evidentemente mercenaria.
    Insomma, per salvarsi dalla depressione conseguente alla débacle sua personale e della sua patria, Eliade (in fondo ha solo 38 anni, un’età in cui gli ormoni sono ancora assai attivi) si rifugia nel sesso come atto biologico di puro consumo. Nei giorni e nelle notti che vanno dal 5 marzo al 15 aprile 1945, mentre la storia macina gli eventi (per usare un’espressione carducciana) come in nessun altro momento del secolo testé trascorso, il Nostro macina i propri testicoli con accanimento per così dire terapeutico. Negli intervalli della cronaca del pellegrinaggio a Fatima, “per il riposo dell’anima di Nina e la salvezza della mia integrità spirituale” (18 marzo, p. 252, trad. it.), e del successivo ritorno a Cascais ove si ritrova a lottare con i tira e molla del Ministero degli Esteri romeno e con i fantasmi del proprio passato, è tutto un susseguirsi di annotazioni di eventi crudamente neurologici e fisiologici (p. 249-269 trad. it.). Il 5 marzo egli comincia a sperimentare la sua inedita tecnica di liberazione dalla crisi nevrastenica dando briglia sciolta alla sua sensualità e ad una sfrenata ginnastica sessuale. “Oggi – annota – sono tornato alla fisiologia. In un’ora ho fatto l’amore tre volte con la stessa donna, un po’ meravigliata, bisogna dirlo, del mio vigore. Domani o dopodomani consulterò un neurologo: voglio tentare tutto. Mi affliggerebbe apprendere, ad esempio, che la mia nevrastenia e la mia melanconia sono dovute alle adorabili funzioni seminali” (p. 249, trad. it.).  Il 14 marzo, alla vigilia della partenza per Fatima, annota: “Ripeterò la mia arcinota tecnica di liberazione attraverso l’eccesso, di purificazione attraverso l’orgia. (…) Voglio sapere se la mia melanconia ha o no radici fisiologiche. Voglio liberarmi da ogni influenza seminale, anche se questa liberazione implicherà sedurre un centinaio di donne” (p. 251, trad. it.). Il 16 marzo riceve dal neurologo la risposta che si attendeva: “le melanconie dipendono da cause spirituali”, ma la crisi generale ha motivazioni più biologiche, legate alla sua ipersessualità insoddisfatta: “non posso raggiungere l’equilibrio se non solo dopo la realizzazione di quello erotico” (p. 252, trad. it.). E durante il viaggio, nonostante le consolazioni spirituali del paesaggio “archetipico” si ritrova a lottare coi soliti fantasmi ormonali: “Tutto ieri e oggi ossessionato dal sesso” (22 marzo, p. 257, trad. it.). L’11 aprile, di nuovo a Cascais, ripete a sé stesso che la crisi nervosa è basata sull’insoddisfazione erotica. Ma i rapporti saltuari, per quanto spinti al massimo della sollecitazione ormonale, non lo soddisfano abbastanza: “avrei bisogno di un’amante giorno e notte” (11 aprile, p. 264, trad. it).
    La politica, la pausa,
    il lavoro
    Il 15 aprile finalmente il Nostro riprende a lavorare (dopo la crisi di melanconia del giorno precedente in cui ha vissuto “un distacco definitivo dall’opera, dalla cultura, dalla filosofia, dalla vita e dalla salvezza”), ed è alle prese con la rilettura di Isabel şi apele diavolului (1929/30), in vista di un’eventuale nuova edizione. E allora, quasi proustianamente, riaffiorano in lui sensazioni e ossessioni che lo perseguitavano al momento della stesura del libro e immediatamente dopo la sua apparizione in Romania. “Un particolare mi turba: l’accento che pongo sulla sterilità, sull’impotenza. … Mi sono chiesto se il mio rifiuto (nel romanzo) di possedere Isabel non potrebbe interpretarsi psicoanaliticamente come un’ossessione di impotenza. Visto che non ho mai avuto tale ossessione, mi chiedo da dove provenga il rifiuto di possedere una ragazza che ti si offre, complicato dalla gioia sadica di vederla posseduta da un altro. È probabile che questa domanda se la siano posta anche gli altri. Rammento che Sorana, dopo una giornata eroica [meglio: “brava”, romeno: zi de vitejie] nel rifugio di Poiana Braşov dove feci dieci volte l’amore con lei, mi confessò che il mio vigore l’aveva sorpresa; perché, dopo aver letto Isabel, mi credeva quasi impotente. Ma, spaventata dalla mia energia, si confidò con Lily Popovici, che lei riteneva avesse avuto più esperienze in fatto di uomini. Lily le disse che, se non mi avesse conosciuto, avrebbe pensato che mi fossi drogato, che avessi preso delle pillole, ecc. La cosa più divertente è che io neppure mi rendevo conto d’essere in realtà messo tanto “bene”. Mi sembrava che qualsiasi uomo, se una donna gli piaceva, ed era rilassato, poteva fare l’amore dieci volte! Più tardi, ho capito che questo è un privilegio abbastanza raro” (p. 268, trad. it.). Questa ossessione della virilità, presente nella sua narrativa giovanile, è certo esistente allo stato latente nella sua psiche (per quanto egli si affretti a precisare il contrario: “Il problema della potenza o dell’impotenza non mi ha mai preoccupato”), altrimenti mal si spiegherebbe questa sua ricorrente, quasi puerile compiacenza nell’esibizione delle sue prodezze priapiche, ed è da Eliade ricollegata a un rifiuto ben più radicato e conscio: il rifiuto di generare prole, che si lega poi al lacerante senso di colpa prodotto dalla morte di Nina per cause probabilmente legate a un aborto violento che lui stesso le aveva imposto.
    In queste meditazioni di un Eliade alla soglia dei quarant’anni è teorizzata, sul piano individuale, una tecnica di liberazione dall’angoscia (in altre parole, una tecnica di “salvezza”), basata sulla ginnastica copulatoria e l’estasi eaiaculatoria, senza che si tenti di elevarla su un piano di trascendenza metafisica o di stabilire alcun rapporto con i valori catartici e salvifici dell’orgia, temi peraltro assai familiari all’Eliade autore, nel 1936, di Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne. L’aggancio di questo tema con più ampie realtà filosofiche e storico-religiose sarà invece compiuto da un altro storico e pensatore che è stato un suo dialettico compagno di strada in varie imprese, l’italiano Julius Evola (1898-1974), in Metafisica del sesso (1958; II ed. 1969). Un libro, questo, anch’esso frutto di una catastrofe personale mirabilmente metabolizzata, un libro che Eliade non avrebbe mai potuto scrivere, anche se fu testimone della sua gestazione in un incontro avvenuto nel maggio del 1952. In esso, in particolare nel terzo capitolo (Fenomeni di trascendenza nell’amore profano), Evola tratta dell’amplesso da un punto di vista superiore, cercando di cogliere quegli effetti trascendenti che rappresentano l’acme dell’atto sessuale. Come ha scritto Franco Volpi nel Dizionario delle opere filosofiche (Milano 2000, p. 357), nella voce appositamente dedicata a quest’opera apparentemente così poco filosofica, “Evola sviluppa una considerazione metafisica del sesso, ritenendo tale fenomeno un elemento troppo importante nella vita degli esseri per lasciarlo a spiegazioni semplicemente positivistiche e sessuologiche. Il sesso è la forza magica più intensa della natura, capace di esercitare su tutti i viventi un’attrazione irresistibile e tale da fornire, secondo Evola, l’occasione per trascendere la mera corporeità ed elevarsi fino al piano dello spirito. Il fenomeno del sesso implica dunque un potenziale estatico, iniziatico, che può essere portato alla luce soltanto guardando a esso dalla prospettiva metafisica”. E, conclude Volpi, “nell’eros – nei suoi attimi sublimi, ma a volte anche in esperienze d’amore quotidiane particolarmente intense – balugina la trascendenza, la quale può infrangere i limiti della coscienza quotidiana e produrre un’apertura spirituale. Il fenomeno del sesso getta così un ponte tra la fisica e la metafisica, tra la natura e lo spirito”. Ma queste cose l’Eliade del 1945, innamorato senza speranza di una donna che è ormai un fantasma e soggetto ancora a violente tempeste ormonali, non poteva o non voleva dirle.

    *Ordinario di Storia delle Religioni all’Università di Salerno


    Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

     

     

    samedi, 10 juillet 2010

    Rumänien: Im Namen des Volkes

    Rumänien: Im Namen des Volkes

    Niki Vogt

    Ex: http://info.kopp-verlag.de/

     

    Rumänien wird von schweren Unruhen erschüttert. Nachdem das rigorose Sparprogramm auch Rentenkürzungen vorsah, marschierten die empörten Alten zu Tausenden überall auf die Straßen. Das Parlament hatte beschlossen, die ohnehin kargen Renten noch einmal um 15 Prozent zu kürzen, um sich mit drastischen Sparmaßnahmen für einen 20-Milliarden-Euro-Kredit des IWF zu qualifizieren.

     

     

     

     

    Gleichzeitig sollten die Gehälter staatlicher Angestellter deutlich gekürzt werden und auch bei Sozialleistungen sollten drakonische Einsparungen dem Land die nötigen Pluspunkte in den Augen der Inspekteure des IWF verleihen.

     

    Das höchste Gericht Rumäniens spielte aber nicht mit. Das Gesetz war kaum verabschiedet, da stellte das Verfassungsgericht innerhalb weniger Tage fest, dieses Gesetz sei nicht nur verfassungswidrig, sondern leide auch an einem unheilbaren Mangel: Es gibt kein Rechtsmittel, das dagegen eingelegt werden kann. Die rechtliche Begründung für das Gerichtsurteil soll darin liegen, dass es ein Gesetz in Rumänien gibt, das verbietet, die von den Arbeitnehmern selbst in die Kassen eingezahlten und garantierten Renten zu kürzen. Die Reduzierung der Gehälter öffentlicher Angestellter um 25 Prozent sei allerdings nicht verfassungswidrig, und stehe auch weiterhin zur Debatte.

     

    In Rumänien leben etwa 9 Millionen Erwerbstätige, ca. 5,5 Millionen Rentner und ca. 850.000 Arbeitslose. Von den 9,2 Millionen Erwerbstätigen sind rund 1,4 Millionen in staatlich bezahlten Stellen tätig. Sozialhilfe und andere Empfänger sozialer Hilfeleistungen sind hier nicht eingerechnet.

     

    Rumänien hat 21,5 Millionen Einwohner. Das heißt, 7,6 Millionen Rumänen erwirtschaften die Einkommen für 13,4 Millionen Mitbürger.

     

     

     

    Die Entscheidung des Verfassungsgerichtes ist unanfechtbar.

     

    Als Reaktion auf das Gerichtsurteil verlor die rumänische Währung Lei etwa ein Prozent an Wert und notierte mit 4,28 zum Euro und 3,49 Lei zum Dollar.

     

     

     

    Der Sprecher der Rumänischen Nationalbank, Eugen Radulescu, nannte das Urteil des Verfassungsgerichtes »desaströs« für Rumänien. Es sende ein sehr, sehr schlechtes Signal aus. In einem Interview mit The Money Channel gab er Befürchtungen Ausdruck, es werde nun noch schwieriger für Rumänien, sich Kredite auf dem Weltfinanzmarkt zu besorgen.

     

    Was wirklich dahinter steckt, ist die konkrete Angst, den erhofften 20-Milliarden-Euro-Kredit (24,49 Milliarden Dollar) des IWF nun nicht mehr bekommen zu können. Der Kredit soll nach Ansicht von Insidern hauptsächlich dazu dienen, den staatlichen Angestellten ihren Lohn zu garantieren. Die Wirtschaft Rumäniens war im vergangenen Jahr um 7,1 Prozent geschrumpft, und die Staatsschulden nehmen hier genauso überhand, wie in den anderen südeuropäischen Ländern.

     

     

    Um den IWF-Kredit zu erhalten, muss Rumänien sein Haushaltsdefizit auf 6,8 Prozent herunterdrücken, keine leichte Aufgabe.

     

    Weder die Weltbank noch das Büro des IWF in Rumänien waren bereit, hierzu eine Stellungsnahme abzugeben.

     

    Premierminister Emil Boc kündigte an, alternative Konzepte auszuarbeiten, wie man die Staatsausgaben reduzieren könne und sich für den IWF-Kredit dennoch qualifizieren könne. Allerdings lehnte er es ab mitzuteilen, welche Maßnahmen er denn konkret sehe, um das zu erreichen. Erst wolle er sich mit dem IWF und der Weltbank darüber beraten.

     

    Der stellvertretende rumänische Ministerpräsident Bela Marko sieht nun nur noch die Lösung, die Mehrwertsteuern und die Einkommenssteuern zu erhöhen »Meiner Meinung nach gibt es nun keine andere Möglichkeit mehr«, sagte er.

     

    Der Leiter der IWF-Vertreter für Rumänien, Jeffrey Franks, äußerte sich ebenfalls recht vage dazu, wie es denn um die Auszahlung des IWF-Kredits nun stehe. Man werde das Urteil des Verfassungsgerichtes bewerten, meinte er. Allerdings wurde das für Montag anberaumte Treffen, in dem die Führung des IWF über die Auszahlung des ersehnten Kredits beschließen sollte, vorerst ausgesetzt.

     

    Ein Tiefschlag. Premierminister Emil Boc konnte nur noch hilflos-freundlich und diplomatisch versteckt bettelnd, er hoffe doch, dass Rumänien weiterhin für den IWF-Kredit im Gespräch bleiben könne.

     

    Während das Gericht noch tagte, sammelten sich wieder einmal wütende Bürger vor dem Präsidentenpalast, und schrien ihren Ärger über die Sparmaßnahmen hinaus.

     

    Plötzlich stürmte aus einer Menge von etwa 600 Demonstranten eine Gruppe auf die umfangreichen Absperrungen zu, und trotz der aufgestellten Ordnungskräfte schafften es einige Protestler um ein Haar, den Präsidentenpalast in Bukarest zu stürmen. Anliegen der protestierenden Rumänen war, einen Gesprächstermin mit Präsident Traian Basescu zu erzwingen. Die Polizei konnte mit knapper Not die bereits errichteten Barrikaden auf dem Platz des 17. Jahrhunderts vor dem Präsidentenplast halten.

     

    Wirklich interessant an diesen Vorfällen ist allerdings, dass davon überhaupt nichts in unseren Medien zu erfahren ist – Schweigen im Walde. Eine Recherche im Netz unter deutschen Suchwörtern ergab gerade mal eine Bloggerseite, die davon berichtete, das »Marktorakel«. Ansonsten: Schweigen im Walde.

     

    Das ist auch gut verständlich, denn unsere Regierungen haben alle kein Interesse daran, diese Beispiele an Bürgerwut allzu publik zu machen.

     

    Griechenland ist mittlerweile wieder in genau derselben Situation wie kurz vor der berühmten Griechenland-Rettung, es kann nur noch kurzfristig und zu über zehn Prozent Zinsen auf dem Weltfinanzmarkt Kredite erhalten. Der einzige Unterschied zu damals ist: Die EZB kauft die riskanten und uneinbringbaren griechischen Staatsschulden auf, und Griechenland hat nun noch 110 Milliarden Euro Schulden mehr, die ihm als Hilfsprogramm zugesichert und teilweise ausbezahlt wurden.

     

    Sollten die Griechen, Portugiesen und Spanier sich ein Beispiel an Rumänien nehmen und griechische Gerichte ebenso die Partei des Volkes ergreifen, wird Europa sehr schnell komplett unregierbar.

     

    Denn die Regierungen stehen allüberall vor demselben Dilemma: Entweder sie verschulden sich ungebremst weiter, um das System des sozialen Friedenserhalts durch Umverteilen von Unsummen an Geld am Laufen zu halten – was in absehbarer Zeit vor die Wand fahren wird, denn die Finanzmärkte trauen den überschuldeten Staaten nicht mehr und vergeben keine Kredite mehr …

     

    Oder sie reißen das Steuer herum und führen drakonische Sparmaßnahmen ein, was unweigerlich den Wohlfahrtsstaat und die gesamten sozialen Netze zerreißt, und daher in Folge die revoltierenden, weil dann wirklich hungrigen Bürger in Marsch auf die Regierungspaläste setzen wird.

     

     

     

    Quellen:

     

     

     

    http://www.marktorakel.com/index.php?id=4280634288409020976

     

     

     

    http://www.alertnet.org/thenews/pictures/BCR04.htm

     

     

     

    http://news.yahoo.com/s/ap/20100625/ap_on_bi_ge/eu_romania_protest

     

     

     

    http://irishexaminer.com/breakingnews/world/romanian-protesters-try-to-storm-presidential-palace-463015.html

     

     

     

    http://www.msnbc.msn.com/id/37919941/ns/world_news-europe/

     

     

     

    http://www.zerohedge.com/article/crisis-romania-constitutional-court-votes-pension-cuts-unconstitutional-imf-loan-jeopardy-pr

     

     

     

    http://wko.at/statistik/eu/wp-rumaenien.pdf

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    lundi, 05 juillet 2010

    Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto

    Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto

    di Mario Bernardi Guardi

    Fonte: secolo d'italia


     



    Se c'è uno scrittore che, per la sua vocazione apocalittica e il suo moralismo bruciante, cupo e derisorio, si presta a definizioni "tranchant", questo è Emil Michel Cioran. Di volta in volta battezzato "barbaro dei Carpazi", "eremita antimoderno", "esteta della catastrofe", "apolide metafisico", "cavaliere del malumore cosmico". Ma anche lui, da buon Narciso, ci ricamava sopra e sulla sua "carta di identità" scriveva cose come "idolatra del dubbio", "dubitatore in ebollizione", "dubitatore in trance", "fanatico senza culto", "eroe dell'ondeggiamento". Ora, raccontare Cioran significa fare i conti con tutti questi appellativi e prendere atto che la loro indubbia suggestione trova punti di forza in una vita per tanti versi scandalosa...
     Visto che prima del Cioran "parigino"- è nel 1937 che il Nostro approda in Francia -, capace di confezionare le sue aureee sentenze nihilistico-gnostiche in un brillantissimo francese, c'è un Cioran duro e puro, di fiera stirpe rumena, che fa propri i miti del radicamento e dell'identità, simpatizzando per il fascismo di Codreanu e delle sue Guardie di Ferro, e scrivendo un bel po' di cose "compromettenti". Di questo, Antonio Castronuovo in un agile profilo pubblicato da Liguori, Emil Michel Cioran (pp.100, euro 11,90), dà solo rapidi cenni, ricordando che, comunque, Emil Michel dedica un intero capitolo del suo "Sommario di decomposizione", alla "Genealogia del fanatismo", collocandosi così "all'opposto delle fascinazioni giovanili". E cioè delle, chiamiamole così, "fascio-fascinazioni".
    Ora, Castronuovo fa bene a ricordarci, con la consueta eleganza, il grande "stilista" e il grande "moralista", lo scrittore impertinente e beffardo che si interroga sul senso della vita e della morte, il chierico extravagante che cerca di stanare Dio dai suoi misteri e dai suoi abissali silenzi. E tuttavia siamo convinti che Cioran e altri "dannati" dello scorso secolo - Pound e Céline, Drieu e Heidegger, Eliade e Jünger, tanto per fare i primi nomi che ci vengono in mente - non debbano essere alleggeriti dalle loro "responsabilità" con la vecchia storia dei "peccati di gioventù", una specie di rituale giustificativo-assolutorio che li "disinfetta" e li rende "presentabili", ma toglie loro qualcosa, e cioè la "ragioni" di una scelta. Per scandalose che possano apparire alle "animule vagule blandule" del "politicamente corretto". Ed è per questo che, a suo tempo, non ci è dispiaciuto il saggio di Alexandra Laignel-Lavastine Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco nella bufera del secolo che, sia pure con una "vis" polemica non aliena da faziosità, si sforza di illuminare/documentare le stazioni di una milizia intellettuale che sarebbe sbagliato ignorare o sottovalutare. Non si può esaurire la forza testimoniale di Cioran nell'ambito delle acuminate provocazioni, immaginandone la vita come una fiammeggiante costellazione di (coltissime) invettive. Sia dunque reso merito a Friedgard Thoma che ci racconta un Cioran innamorato (Per nulla al mondo. Un amore di Cioran, a cura e con un saggio di Massimo Carloni, (L'orecchio di Van Gogh, pp.160, € 14,00), addirittura un Cioran "maniaco sentimentale": un genio dell'aforisma, ma anche un umanissimo, fragile, tenero settantenne, tutto preso da lei, giovane insegnante tedesca di filosofia e letteratura, che, folgorata dalla lettura del libro L'inconveniente di essere nati, nel febbraio del 1981 gli ha scritto una calda lettera di ammirazione. C'è da stupirsi del fatto che Cioran non fosse "corazzato" di fronte ai complimenti di una donna intelligente e affascinante? Come, lui, l'apocalittico, così inerme, così indifeso! Eppure, in Sillogismi dell'amarezza è proprio il "barbaro dei Carpazi" a invitarci a tenere la guardia alta di fronte al vorticoso nichilismo degli "apocalittici" e magari a scavarvi dentro. «Diffidate - scrive - di quelli che voltano le spalle all'amore, all'ambizione, alla società. Si vendicheranno di avervi "rinunciato". La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari». Dunque, Cioran, uomo di idee ma anche di emozioni, compiaciuto per quella lettera affettuosa, risponde immediatamente alla sua "fan", con un mezzo invito ad andarlo a trovare a Parigi.
    Lei, che ci tiene ad essere una interlocutrice culturale e cita Walser, Hölderlin e Gombrowicz, non manca di allegare alla risposta una sua foto. E siccome si tratta di una donna giovane - capelli sciolti, bocca carnosa, sguardo intenso -, le coeur en hiver di Cioran comincia a battere furiosamente. Lui stesso le confesserà un paio di mesi dopo: «Tutto in fondo è cominciato dalla foto, con i suoi occhi direi». E' una tempesta dei sensi, un'"eruzione emotiva". Ancor più incontrollabile, allorché lei decide di trascorrere qualche giorno a Parigi. Lui va a prenderla all'hotel e arriva dieci minuti prima: è «un uomo di costituzione fragile, con un ciuffo di capelli grigi, arruffati, e gli occhi dello stesso colore». Lei «cerca di apparire attraente, indossando un abito nero non troppo corto, sotto un lungo cappotto chiaro». Seguono conversazioni, passeggiate, cene, visite a musei, telefonate… Cioran vive una sorta di voluttuoso invasamento, al punto che, quando lei torna a Colonia, le scrive con spudorata audacia: «Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna». Poi, è lui ad andarla a trovare in Germania. «Vestita di rosso e nero», Friedgard lo accoglie alla stazione. Lui è innamorato pèrso, lei, sedotta intellettualmente, continua a sedurlo fisicamente, senza nulla concedere. Lui soffre, la chiama «mia cara zingara», le scrive: «Non capisco cosa sto cercando ancora in questo mondo, dove la felicità mi rende ancora più infelice dell'infelicità». Friedgard vuol tenere intatte "venerazione e amicizia", parlando di autori e di libri, entrando nella sua intimità, portando alla luce le sue contraddizioni. Ma confessando anche, con franchezza: «Dunque, caro: lei mi ha trascinato nell'immediatezza inequivocabile d'una relazione fisica, mentre io cercavo l'erotica ambiguità della relazione "intellettuale"». Proprio quella che a Cioran non basta. È innamorato, desidera la giovane prof. con una sensualità "vorace", le fa scenate di gelosia perché lei, ovviamente, ha un "compagno" cui è legata.
    «Sono vulnerabile - le scrive - e nessuno quanto Lei può ferirmi tanto facilmente». E consolarlo, anche. Così, la immagina nelle vesti di una suora, "dalla voce sensuale però". E come uno studentello inebriato d'amore, che non rinuncia alle battute, confessa che vorrebbe morire insieme a lei: «A una condizione, però, che ci mettessero nella stessa bara». Così potrebbe raccontarle tante cose, «tante, ancora non dette».
    Non manca nemmeno la proposta di matrimonio. Friedgard annota: «Al telefono, Cioran si dilettava volentieri con la proposta di sposarmi, contro tutti i suoi principi, addirittura secondo il rito ortodosso ("su questo devo insistere"), il che per lui significava essere cinti entrambi da corone. Quante risate, su un sogno triste». Un sogno che, così, non poteva continuare. La non appagata, sofferta, estrema accensione dei sensi di Emil «s'incanalerà negli anni lungo i binari d'una tenera, affettuosa amicizia». Nella cui calma piatta si spengerà fatalmente la "tentazione di esistere", carne e spirito almeno una volta insieme.

    Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

    mercredi, 23 juin 2010

    De slapeloze uit Rasinari

    cioran2.jpgDe slapeloze uit Răşinari

    Terwijl ik met kromme rug gebogen zat in het archief van de Provinciale Zeeuwsche Courant, met als doel informatie te vergaren over een zekere historische periode van het stadje Terneuzen, van belang voor een verantwoording in het boek van een lokale auteur, stuitte ik op een artikel in de krant van 21 december 1934. Het artikel in de kunstbijlage - de laatste decennia zeer gewaardeerd vanwege de prettige opmaak en degelijke medewerking van scribenten als Hans Warren en Alfred Kossmann, maar na de restyling van 2001 voorlopig helaas verworden tot een moeilijk te herkennen katern - van de hand van ene Ramses P. Verbrugge, trok mijn aandacht. In de eerste plaats omdat het stuk handelde over een auteur die mij niet bekend was, namelijk E. M. Cioran, en in de tweede plaats omdat bij verder lezen het stuk mij fascineerde. De gerecenseerde auteur fascineerde mij, alsmede Verbrugge's aanpak en ontboezeming dat Cioran's debuut hem de stuipen op het lijf had gejaagd. Verbrugge's mening was overigens geformuleerd in het Zeeuws, met alle oa's en sch's inbegrepen, en niet te doorgronden voor buitenstaanders. Omdat ik geboren ben in Terneuzen - mijn achternaam is een symbool van haar rumoerige internationale havenverleden - heb ik mij in ieder geval enigszins in staat geacht een vrije vertaling te produceren, na het lezen van de bovenstaande Engelse vertaling uit 1992. Hier het resultaat.

    De slapeloze uit Răşinari
    E. M. Cioran, On the heights of despair


    De Roemeense schrijvende filosoof E. M. Cioran, maakt mij bijzonder neerslachtig, maar doet mij daarvan de waarde realiseren. Met nadruk krijgt deze filosoof hier de voornaam 'schrijver' aangereikt. Zeer bekwaam is hij met woorden. Filosofie bij Cioran is van vlees en bloed, en moet daarom ook met het zwaard geschreven worden. Gaandeweg het boek doemde de impressie bij mij op dat zijn persoonlijke ontboezemingen, die meermaals als bijlage terugkeren, naast verstrengeld te zijn in de stukken - ook al erg ongebruikelijk in de filosofie - ertoe dienen om de filosofische wanhoop te bezweren. Maar die wanhoop - de ultieme wanhoop: de dood - is het enige waar we mee uit de voeten kunnen, want de logiek van de Griekse wijsgeren heeft voor Cioran afgedaan. Alleen door de lyriek beleven we de subjectieve chaos die ons universum beheerst.

    'I despise the absence of risks, madness, and passion in abstract thinking. How fertile live, passionate thinking is! Lyricism feeds it like blood pumped into the heart!'

    En:

    'Haven't people learned yet that the time of superficial intellectual games is over, that agony is infinitely more important than syllogism, that a cry of despair is more revealing than the most subtle thought, and that tears always have deeper roots than smiles?'

    Cioran's lyrisme van de wanhoop is ironisch, poëtisch, arrogant, paradoxaal en gewelddadig. Hij laat zijn licht schijnen over moderne zaken zoals hij daar noemt: vervreemding, absurditeit, het pijnlijke van het bewustzijn en de ziekte van de rede. Hij doet dat in zesenzestig korte, bondige, heftige hoofdstukken, alle gevuld met stevige aforismen. Nietzscheaans is Cioran in zijn afwijzing van het middelmatige, maar die is niet despotisch, want op lijden staat geen maat - lijden is altijd intern, nooit extern. Cioran gaat uit van zijn eigen lijden, dat een oorsprong heeft: slapeloosheid. Cioran lijdt aan slapeloosheid, en naar het schijnt heeft hij de kunde van het fietsen opgepakt om na uren en uren gefiets te proberen thuis in zijn kleine en schamele appartement in slaap te vallen. Vaak tevergeefs. Zijn fysieke gesteldheid is navenant en wordt de basis van zijn filosofie, zoals we lezen in Facing silence:

    'Chronic fatigue predisposes to a love of silence, for in it words lose their meaning and strike the ear with the hollow sonority of mechanical hammers; concepts weaken, expressions lose their force, the word grows barren as the wilderness. The ebb and flow of the outside is like a distant monotonous murmur unable to stir interest or curiosity. Then you think it useless to express an opinion, to take a stand, to make an impression; the noises you have renounced increase the anxiety of your soul. After having struggled madly to solve all problems, after having suffered on the heights of despair, in the supreme hour of revelation, you will find that the only answer, the only reality, is silence.'

    Ziekte, de eenzaamheid van de stilte maakt een mens lucide en doet hem de nietsheid ervaren. Hij moet die schrijnende kans met beide handen aangrijpen: 'Only the sick man is delighted by life and praises it so that he won't collapse.' Dit uitgangspunt voert de jonge Roemeense auteur naar verscheidene lyrische uitweidingen, die over de problematiek van de zelfmoordneiging zijn niet ondervertegenwoordigd. Met de zesenzestig hoofdstukken verwierf hij aan een universiteit in een grote stad (welke wordt niet duidelijk in de verantwoording) een plaats in Berlijn, alvorens een eindthese te schrijven over het Bergoniaanse intutionisme. Hij is pas drieëntwintig jaren jong en geboren te Răşinari, een klein, idyllisch Transsylvaans dorpje. Zal hij niet als een kwade zombie laveren tussen de zwartgeschaduwde stadsbussen en centrummuren?


    Kerk te Răşinari - Januari 2005

    Titels als The premonition of madness, Nothing is important, The world in which nothing is solved, Total dissatisfction, en The return to chaos geven een indruk van de beladen thematiek en haar behandeling; een stuk als Enthousiasm as a form of love geeft de speelsheid in die zwaarte weer. Mooi vind ik bovendien de stukken waarin Cioran zelf lijkt te balanceren, wild maar elegant te koorddansen, tussen het gewicht van zijn thema en de verwoording ervan. In The cult of infinity, een pleidooi voor de eindeloosheid, buigt hij zich over muziek.

    'One of the principal elements of infinity is its negation of form. Absolute becoming, infinity destroys anything that is formed, crystallized, or finished. Isn't music the art which best expresses infinity because it dissolves all forms into a charmingly ineffable fluidity? Form always tends to complete what is fragmentary and, by individualizing its contents, to eliminate the perspective of the universal and the infinite; thus it exists only to remove the content of life from chaos and anarchy. Forms are illusory and, beyond their evanescence, true reality reveals itself as an intense pulsation. The penchant for form comes from love of finitude, the seduction of boundaries which will never engender metaphysical revelations. Metaphysics, like music, springs from the experience of infinity. They both grow on heights and cause vertigo. I have always wondered why those who have produced masterpieces in these domains have not all gone mad. Music more than any other art requires so much concentration that one could easily, after creative moments, lose one's mind. All great composers ought to either commit suicide or become insane at the height of their creative powers. Are not all those aspiring to infinity on the road to madness? Normality, abnormality, are notions that no longer mean anything. Let us live in the ecstasy of infinity, let us love that which is boundless, let us destroy forms and institute the only cult without forms: the cult of infinity.'

    In de Kansas City Star van 11 november 1934 observeert een journalist, William Allen White, dat Franklin Delano Roosevelt 'has been all but crowned by the people.' Zijn radiopraatjes voor de openhaard nemen de mensen voor hem in, maar de depressie beklijft. In de Abessijnse stad Walwal is het 4 december tot een vuurgevecht gekomen tussen Italiaanse en Abessijnse troepen. Over de zelfmoord op 7 december van een Noorse zeeman in pension City in de Terneuzense Nieuwstraat blijft de commissaris in het ongewisse. Over het onbenullige van geschiedenis schrijft Cioran in History and eternity, ons ademloos achterlatend door een originele visie: geschiedenis is een nutteloos vacuüm?

    'By outstripping history one acquires superconciousness, an important ingredient of eternity. It takes you into the realm where contradictions and doubts lose their meaning, where you can forget about life and death. It is the fear of life and death that launches men on their quest for eternity: its only advantage is forgetfulness. But what about the return from eternity?'

    Met deze sporadische vraag geraken we tot het enige minuscule Socratische trekje in Cioran. De slapeloze lyriek van deze gewelddadige schrijver en filosoof zal hopelijk nog zoveel mogelijk open wonden open houden.

    Aldo Fujimori

    jeudi, 06 mai 2010

    A. Dugin: "Russia strongly rejects any presence of US Navy in the Black Sea

    Aleksandr Dugin – „Russia strongly rejects any presence of US Navy in the Black Sea”

    CP: – Mr. Dugin, we daily see demonstrations of the people in all major parts of the world. It’s a democratic way to express their disagreement. In Russia, the radical measures of the authorities but also the inability of the opposition led the right to protest in ridiculous. Population doesn’t believe in this „institution” of citizen. Maybe that’s why Kaliningrad episode was so much fuss. How see you this episode ?

    AD: – There are some problemes with the functioning of democracy in Russia, I agree. But I think that there is the very big problem with the democracy as such in the West and in the other part of the world. The mass protest actions couldn’t reach the only real goal – to overthrow the capitalist system based on the expropriation of  the real value of human work. The democracy on the global scale is bogus. It is completeness faked. What we call «democracy» is an Spectacle, with or without special glasses. Namely: in the advanced societies the Spectacle is very impressive as the 3D technology as in Avatar movie. In the more tradition societies, like Russia, with less davanced technologies, the illusions of Spectacle are much poorer. We, Russsians, are living in the first stage of capitalist lie. So our Spectacle of democracy is bad and the cruelty of capitalist exploitation is not masked properly.

    The capitalism is something that is not compatible with the real democracy, human right and freedom and social justice. The only difference that I see consists in the fact that modern Russian capitalism is much cruder.

    CP: – Remaining at the public perception. In Kaliningrad, the population turned out to be enthusiastic at speech of opposition leaders who rushed to claim disapproval of Putin’s regime (I say Putin and stop because nobody  protests against Medvedev !). What errors underlying opposition to failure as a legitimate political force that must be taken into account ? What should be done to change the things ?

    AD: – The problem is that now we haven’t real opposition in Russia. The majority is disinterested in politics and aproves in general features the course and discourse of Putin. Medvedev proves to be nothing at all, so he is not mentioned. The only group that is moving still are the marginals, paid by USA and other NATO countries, without political programm and having the only goal – distabilize the situation and to cause the problems to Putin’s souvereign rule. Sometime they manage get mass support – as in Kaliningrad case – but it is casual and without any effect on the national scale. In the distant zones of Russia the social problems are really very serious and that is the reason of some action of protest. Not associated with opposition politics. But in the USA, we are witness at much more animated mass action that usally lead nowhere. In my view, the Kaliningrad case is overestimated in the West. In Russia nobody knows and doesn’t wants to know either.

    CP: Media spoke of a future presidential party. What would be the logic and purpose of setting up a party of President Medvedev ? It spoke at a time of possible fractionation United Russia party. We’ll witness at a migration to a presidential party ?

    AD: – There has been some speculation on this subject. But nobody speaks clear of such possibility yet. I doubt that it would be possible. Medvedev is completely zero as the man. Political man, I mean. United Russia is not the real political party either, but it is fully under Putin control. So for create „presidential party”, we need a real President. But that is exactly what we lack.

    CP: – What means exactly in your view that “United Russia is not the real political party” ?

    AD: I mean the United Russia is an organisation without a clear ideology, without any political ideas, programms or common goals, existing only on the basis of Putin’s personal popularity and the political technology of the power in Kremlin, with zero grade of the autonomy. That is not good nor bad, just the state of affairs corresponding to the concrete historic situation. On that note as such.

    CP: – Recently, Russia has changed protective speech on Iran issue. Then returned at more good feelings. And after has tightened speech… What is the real vision ? or Russian criticism just was a momentary attitude in the context of recently ended negotiations on START 2 ? We are talking about a very important treaty with global implications, so it is important each argument.

    AD: – Iranian nuclear issue is likely to worry many leaders. But I think that the Russia has no reason at all to support West in its anti-Iranian position and considers Iran to be rather geopolitical ally of Russia. The NATO contrarily is regarded as possible enemi. That explains the ambivalent attitude of Russia in time. Russia had itself arguments that were useful in negotiations on START 2. We look carefully developments in the Iranian problem. But a decision to sign to sanction Iran would be only if there are conclusive evidences. Iran is our friend. It could turn once to becom nuclear friend. So is Israel. Israel is friend of USA and possesses the nuclear weapon. So is Pakistan also. Geopolitical speaking, there should be the symmetry.

    CP: – For that spoke about START 2, it said that Russia’s anger (about the location of the missile shield elements in Eastern Europe) was still clamp for use in negotiations. U.S. officials said that last year ago Russia knew where will be new locations shield. And recently, Secretary of State Hillary Clinton said that these two are very different and not conditional on one another. So, Russia feels really threatened or just claim an reason to negotiate ?

    AD: – Yes, Russia feels threatened because NATO keeps moving Eastward from the end of 80-s. Any step of NATO in the Eastern direction is a confirmation of the reasonability of our concerns. No one can persuade us that all this are friendly. The real frindly step was made by Gorbachov dissolving the Warsaw Pact. What followed ? The move on NATO to the East. It is unfriendly step and correctly perceived as an agression. All the other similar initiatives should be regarded and analized in this light.

    CP: – Analysts argue that non-involvement of Western in elections in Ukraine were a fair trade with Russia on the location of the shield elements in the Black Sea. What do you think about ? Moreover, these two aspects – Ukraine as a buffer and new location of shield elements – something radically change on geopolitical building in this area ?

    AD: – The Ukraine is the part of Russian influence. So the West has nothing to do with this. And the Orange Revolution is over. Russia strongly reject any presence of USA NAVI in the Blacksea. We will not tolerate the american vision of Caucases. Or the plan of the Greater Middle East project. I think that the Ukraine will be part of Russian-Eurasian defense system. Or this defensive system not included shield of U.S. I don’t see such cooperation possible. At least, not in this context.

    Gabriela Ionita

    vendredi, 23 avril 2010

    Cioran: martyr ou bourreau?

    Cioran : martyr ou bourreau ?

    Réflexions sur le renversant faux-pas d'un politicien libéral

     

    par José Javier ESPARZA

     

    Cioran. Que n'aura-t-on pas dit de Cioran ? Pour certains commentateurs, ce n'est qu'un écrivain qui publie des aphorismes médiocres, ce n'est que l'auteur d'une « philosophie pour concierges » ; pour d'autres, il est le meilleur écrivain vivant de langue française. Entre ces deux extrêmes, on trouve un immense éventail d'opinions de valeurs diverses. Ce que l'on n'avait jamais dit de Cioran, c'est qu'il était fasciste. Mais aujourd'hui, c'est fait ; on ne voit pas bien pourquoi, mais un politicien libéral espagnol lui a attribué la paternité idéologique du phénomène Le Pen !

     

    Le renversant faux-pas du politicien libéral

     

    cioran.jpgCe n'est pas une blague. Cette opinion a bien été émise : par Lorenzo Bernaldo de Quirós, membre de la Junta Directiva del Club Liberal de Madrid qui fait bruyamment état de ses opinions philo­sophiques très particulières dans le supplément « Papeles para la Libertad » publié chaque semai­ne par le quotidien Ya (1). Dans l'un de ses ar­ticles, intitulé « Plus jamais Auschwitz », paru le 12 janvier 1988, Bernaldo de Quirós lançait un avertissement au monde libre, menacé par un danger imminent : Le Pen, locomotive d'un fas­cisme populiste, inspiré à son tour par un autre fascisme, plus dangereux, le fascisme intellectuel dont Bernardo de Quirós attribuait la responsa­bilité à une constellation étrange d'auteurs très différents les uns des autres : « Montherland » (il veut sans doute dire Montherlant), Fernando Sa­vater (2), Alain de Benoist et le penseur roumain Emil Cioran. Et de citer en note l'œuvre de ce dernier « El aciago domingo » (il se réfère peut-ê­tre à « El aciago Demiurgo », Le mauvais démiur­ge en trad. esp.). Par le biais d'une opération grossière d'amalgame des concepts, Bemaldo de Quirós les rend tous responsables (de façon plus ou moins importante) de la paternité des idées anti-chrétiennes, tragiques et anti-libérales qui menacent le bon ordre régnant en Occident : l'or­dre libéral.

     

    Le raisonnement de Bemaldo de Quirós n'est pas habituel. Peut-être plus accoutumé au tissu gros­sier des discours économistes qu'aux subtilités et aux clairs-obscurs de la pensée philosophique, le madrilène libéral confond tout avec tout pour éla­borer vaille que vaille la réflexion suivante (qui n'est pas toujours explicite) dans son article : 1) le phénomène du populisme xénophobe devient à la mode (?) en France ; 2) en réalité, il y a plus important que cette vague politique immédiate­ment perceptible : l'existence en coulisse de pen­seurs comme Montherlant ou Alain de Benotst qui défendent des idées anti-chrétiennes et « aristocratisantes » ; 3) or, de Benoist « copie Cioran » ; et Savater aurait sa part de responsabilités dans la popularisation de Cioran en Espagne ; 4) ces au­teurs s'appuient sur les thèses des historiens révisionnistes (?) qui nient l'holocauste juif (des références, svp...) ; 5) comme on ne peut plus défendre aujourd'hui une xénophobie antijuive, on prêche pour une xénophobie anti-africaine, et nous voici revenus à Le Pen, la boucle est bou­clée. Naturellement, Bemaldo de Quirós n'écrit pas « Cioran est fasciste » mais son discours im­plicite est transparent lorsqu'il dit que de Benoist (qui, par conséquent, serait aussi « fasciste ») co­pie Cioran.

     

    Si nous devions juger la pensée libérale en nous basant sur des opinions comme celle-là, nous de­vrions conclure que le libéralisme espagnol ne peut générer qu'une pensée malade, peureuse et hystérique devant tout ce qui s'oppose à l'empire du burger et de Superman. En effet, ni de Be­noist ni Savater ni probablement Cioran, ne sont d'accord avec l'empire du dollar. Mais ce n'est pas une raison pour les prendre pour des con­frères en conspiration et, moins encore, d'en fai­re les maîtres occultes de Le Pen qui, lui, par contre, ne manifeste guère son désaccord à l'égard de la domination du dollar, du nationalisme jacobin, du christianisme à la française et de Su­perman.

     

    Le bourreau

    Mais la question que pose directement l'article de notre libéral madrilène n'est pas aussi intéressante que la question de fond de tout ce problème : qu'est-ce qui les irrite ? Qu'est ce qui les rend nerveux ? Qu'est ce qui les dérange tant dans le discours de Cioran, eux, les défenseurs du statu quo ?

    Il ne s'agit pas ici de défendre Cioran. Dans un article consacré au philosophe roumain, Savater écrivait : « Comment défendre les idées d'une per­sonne qui soutient que s'accrocher à une idée, c'est se construire un échafaud dans le cœur, de celui qui défend les droits de la divagation contre les certitudes du système et propose comme uni­que fondement de ses opinions, l'humour mo­mentané et spontané qui les suscite ? » (3). Non, Cioran est drôlement indéfendable. Et c'est sa première grande vertu, sa première grande oppo­sition à l'ordre qui juge tout selon que c'est bon ou mauvais pour le futur historique (et hypothé­qué) de l'ordre libéral.

    C'est probablement bien malgré lui qu'Emil Cio­ran se mue en bourreau cruel du système qui l'entoure. Il ne pouvait en être autrement. Le courageux apatride roumain vit dans une civilisa­tion qui adore l'homme, qui idôlatre le sens de l'histoire, qui s'enfonce confortablement dans le coussin de l'Occident.

    Cioran méprise l'homme, l'histoire et l'Occident. Voilà ses trois péchés capitaux.

    L’avenir du cyanure

    « L'homme sécrète du désastre » écrit Cioran, et il affirme « Je crois au salut de l'humanité, à l'avenir du cyanure… » (4). Le mépris de l'humain, la conviction que l'homme, cette « unité de désas­tre » (5), a déjà donné le « meilleur » de lui-même, voilà une constante qui se répète de manière in­sistante dans l'œuvre de Cioran. « Engagé hors de ses voies, hors de ses instincts – é­crit-il dans le Précis de décomposition –, l'hom­me a fini dans une impasse. Il a brûlé les étapes... pour rattraper sa fin ; animal sans avenir, il s'est enlisé dans son idéal, il s'est perdu à son propre jeu. Pour avoir vou­lu se dépasser sans cesse, il s’est figé ; et il ne lui reste comme resource que de récapituler ses folies, de les expier et d'en faire encore quelques autres » (6). Dans Valéry face à ses idoles (1970), il insiste : « Quand l'homme aura atteint le but qu'il s'est assigné : asservir la Création – il sera com­plètement vide : dieu et fantôme » (7). « Il n'est absolument pas nécessaire d'être prophète – écrit-il ailleurs – pour discerner clairement que l'homme a déjà épuisé le meilleur de lui-même, qu'il est en train de perdre sa contenance, s'il ne l'a déjà pas perdue » (8). L'huma­nité, par ses propres mérites, est « éjectée enfin de l'histoire » (9).

     

    Histoire : banalité et apocalypse

    La passion moderne pour l'histoire est précisé­ment une autre des cibles préférées de Cioran. Pour lui, l'histoire est un « mélange indécent de banalité et d'apocalypse » (10). Le progrès et la modernité, formes de civilisation construites sur le culte de l'histoire et de sa contemplation uto­pique dans l'attente d'une fin heureuse, sont au­tant de bourbiers où naufrage la consternante es­pérance humaine. « Tout pas en avant – écrit Cioran –, toute forme de dynamisme comporte quelque chose de satanique : le "progrès" est l'é­quivalent moderne de la Chute, la version profa­ne de la condamnation » (11). La même logique de la chute obscurcit le fantôme de la modernité : « être moderne, c'est bricoler dans l'Incurable » (12). Inéluctabilité de la marche de l'histoire ?

    « Quiconque, par distraction ou incompétence, arrê­te tant soit peu l'humanité dans sa marche, en est le bienfaiteur » (13), affirme Cioran, en lançant un voile de terreur sur les consciences de ceux qui croyaient avoir construit la meilleure civilisa­tion qui ait jamais existé sur terre.

    Le spectre de l'Occident

    Cette civilisation, c'est l'Occident, « un possible sans lendemain » (14), une civilisation née sur les dogmes de l'humanisme et de l'historicisme. Tous deux nous apparaissent aujourd'hui comme de vieux squelettes décharnés. « Les vérités de l'humanisme – dit Cioran –, la confiance en l'homme et le reste, n'ont encore qu'une vigueur de fictions, qu'une prospérité d'ombres. L'Occi­dent était ces vérités : il n'est plus que ces fic­tions, que ces ombres. Aussi démuni qu'elles, il ne lui est pas donné de les vérifier. Il les traîne, les expose mais ne les impose plus ; elles ont ces­sé d'être menaçantes. Aussi, ceux qui s'accro­chent à l'humanisme se servent-ils d'un vocable exténué, sans support affectif, d'un vocable spectral » (15). Image de ce spectre : l'homme oc­cidental, un homme tourmenté, qui « fait penser à un héros dostoïevskien qui aurait un compte en banque » (16). De la même façon, tous les philo­sophes utopiques qui prétendirent trouver dans l'histoire un sens positif, une direction linéaire vers le meilleur, périssent : « Il y a plus d'honnê­teté et de rigueur dans les sciences occultes que dans les philosophies qui assignent un "sens" à l'histoire » (17) ; le matérialisme historique ne suppose pas en réalité un changement qualitatif quant à la providence divine : « c'est changer simplement de providentialisme » (18).

    L'Occident meurt, installée à cheval sur ces deux spectres. « C'est en vain que l'Occident se cher­che une forme d'agonie digne de son passé » (19) ; mais personne n'a intérêt à s'éveiller : « l'Eu­rope, indifférente à ceux qui vaticinent, persévè­re allègrement dans son agonie ; agonie si obsti­née et durable qu'elle équivaut peut-être à une nouvelle vie » (20).

    Cette féroce réalité que Cioran nous dévoile dans l'Occident contemporain, éclaire d'une nouvelle lumière des aspects plus quotidiens comme celui du colonialisme occidental dans ce qu'on appelle le Tiers Monde : « L'intérêt que le civilisé porte aux peuples dits arriérés est des plus suspects. Inapte à se supporter davantage, il s'emploie à se décharger sur eux du surplus des maux qui l'accablent, il les engage à goûter à ses misè­res, il les conjure d'affronter un destin qu'il ne peut plus braver seul » (21).

    On comprend que, considérée de manière super­ficielle, cette thèse de Cioran puisse rappeler des filons bien précis de la pensée « réactionnaire » ou « traditionnelle ». En effet, il connaît les mysti­ques et se méfie des utopies ; il pense que l'hom­me est plus un animal qu'un saint, mais il croit que le théologien nous comprend mieux que le zoologiste ; on pourrait donc le considérer comme un de Maistre tourmenté et faible (au sens post­moderne de l'expression). Il contribue également à la confusion quand il écrit : « Tout semble admi­rable et tout est faux dans la vision utopique ; tout est exécrable, et tout a l’air vrai, dans les consta­tations des réactionnaires » (Essai sur la pensée réactionnaire) ; et quand il voit dans la politique « la malédiction par excellence d'un singe méga­lomane » (Ibid.).

    Mais il faut laisser cette impression immédiate­ment de côté si nous voulons comprendre le reste de la férocité cioranesque. Cioran est, en effet, un bourreau aux yeux du troupeau occidental, et d'une certaine façon, un « réactionnaire » au sens pur du terme, cependant toute sa violence ne pro­vient pas d'une foi, elle est le résultat d'une im­mense déception, d'une condition angoissante, celle de l'« arrêté » à perpétuité au-dessus de l'abî­me du monde. Dans cette perspective, Cioran n'est plus un bourreau, mais un martyr ; dans ce cas, il faut écarter de ce terme tout ce qui pourrait nous suggérer héroïsme, ascèse et salut. Lui-mê­me se définit comme « un parvenu de la névrose, un Job à la recherche d'une lèpre, un Bouddha de pa­cotille, un Scythe flemmard et fourvoyé ».

    Entre le dilettantisme et la dynamite

    Élément déterminant dans l'angoisse de Cioran : sa condition d'apatride. « Un penseur – écrit-il­ – s'enrichit de tout ce qui lui échappe, de tout ce qu'on lui dérobe : s’il vient à perdre sa patrie, quel aubaine ! » (22). Orphelin de son appartenance et d'un enracinement, Cioran ne doit défendre au­cune vision du monde, aucun préjugé, aucune certitude. Savater a tort d'y voir une libération ; pour Cioran, oui, ça l'est, mais à un prix très élevé : le droit au Temps et à l'histoire : « Les autres tombent dans le temps ; je suis, moi, tombé du temps » (23).

    Léger, détaché du temps et de l'espace, Cioran ne trouve pas d'appui non plus dans les idéolo­gies. Ici aussi, après avoir connu la fascination des extrêmes, il s'est « arrêté quelque part en­tre le dilettantisme et la dynamite » (24). Ni Dieu ni vie n'existent dans cet endroit. La vie est une « combinaison de chimie et de stupeur » (25), qui fait de la leucémie « le jardin où fleurit Dieu ». (26). Quant à Dieu lui-même...

    Face à l'orgueil divin

    « L'odeur de la créature nous met sur la piste d'u­ne divinité fétide » (27). Ce cruel aphorisme de Cioran peut résumer toute l'amertume de celui qui estime inconcevable une divinité seulement intelligible au départ de l'humain. Cioran se re­belle contre la bonté du créateur du mal : « L'idée de la culpabilité de Dieu n'est pas une idée gra­tuite, mais nécessaire et parfaitement compatible avec celle de sa toute-puissance : elle seule confère quelque intelligibilité au déve­loppement historique, à tout ce qu'il contient de monstrueux, d'insensé et de dérisoire. Attribuer à l'auteur du devenir la pureté et la bon­té, c'est renoncer à com­prendre la majorité des événements, et singulièrement le plus important : la Création » (28). Face à l'orgueil divin, Cioran n'hésite pas à s'inscrire sur les listes du diable : « J'ai eu beau fréquenter les mystiques, dans mon for intérieur j'ai toujours été du côté du Démon : ne pouvant pas l'égaler par la puissance, j'ai essayé de le valoir du moins par l’insolence, l’aigreur, l’arbitraire et le caprice » (29).

    Et cependant celui qui croit voir en Cioran une nostalgie du sacré ne se trompe pas : « Quel dom­mage que, pour aller à Dieu, il faille passer par la foi ! » (30) ; il écrit et ajoute : « Si je croyais en Dieu, ma fatuité n'aurait pas de bornes : je me promènerais tout nu dans les rues... » (31). Nostalgie ou furie – chez Cioran, c'est la même chose – l'écueil divin est probablement la raison ultime de sa pensée, de son attitude devant la vie et de son attitude face à sa propre œuvre. Une œuvre à laquelle Cioran accorde une importance énorme, non à cause de son contenu mais à cau­se de son effet cathartique, de sa fonction matéria­lisatrice de la rébellion intime. Et c'est ici, dans cette révolte, que l'on doit s'installer pour com­prendre Cioran, pour situer sa férocité et son dé­sir délibéré du scandale.

    Vengeance en paroles

    Mais avant tout : devons-nous comprendre Cio­ran ? Il est difficile d'aborder avec bonne cons­cience l'épineux Roumain. Dans Syllogismes de l'amertume, il prévient les audacieux : « Tout commentaire d'une œuvre est mauvais ou inutile, car tout ce qui n'est pas direct est nul » (32). Et dans une lettre à Savater, il affirme à propos de Borgès une chose qui pourrait bien s'appliquer à lui-même : « À partir du moment où tout le monde le cite, on ne peut plus le citer, ou, si on le fait, on a l'impression de venir grossir la masse de ses "admirateurs", de ses ennemis » (33).

    Faisons donc abstraction de la vantardise bien compréhensible de l'analyste, car nous ne pouvons éviter de commenter l'auteur. Et signalons, qu'en écrivant, Cioran se libère, se rebelle, se venge, se drogue ; c'est là la raison de son œu­vre : « J'écris pour ne pas passer à l'acte, pour é­viter une crise. L'expression est soulagement, revanche indirecte de celui qui ne peut di­gérer une honte et qui se rebelle en paroles contre ses semblables et contre soi. (…) Je n'ai pas écrit une seule ligne à ma température nor­male. (…) Écrire est une provocation, une vue heureusement fausse de la réalité qui nous place au-dessus de ce qui existe et de ce qui nous semble être. Concurrencer Dieu, le dé­passer même par la seule vertu du langage, tel est l'exploit de l'écrivain, spécimen ambigu, déchiré et infatué qui, sorti de sa con­dition naturelle, s'est livré à un vertige superbe, déconcertant toujours, quelquefois odieux » (34).

    En dernière extrémité, nous pourrions dire que Cioran écrit selon sa mauvaise humeur : « Je n'ai rien inventé – écrit-il –, j’ai été seulement le secré­taire de mes sensations » (Écartèlement). Et il ne s'agit pas d'un faux jugement mais d'un jugement insuffisant. Les grogneries littéraires de Cioran ont porté une certaine critique, globale et aimable, si bien qu'en réalité, toute sa férocité n'est qu'un simple exercice de style ; il refuse ainsi toute espèce de vraisemblance avec la passion de l'apatride rou­main, il réduit tout son discours à une simple pratique ludique ; il insulte par conséquent le fus­tigateur de la condition humaine et il méprise le contenu de l'hérésie pour faire l'éloge de son expression propre. Banal. La littérature carnivore de Cioran est volontairement hérétique ; mais mê­me si elle ne l'était pas, toute sa capacité subver­sive s'y trouve, c'est indéniable, elle fait son ef­fet et parvient à convaincre ceux qui ne sont pas d'accord car, comme l'écrit Cioran, « l'hérésie représente la seule possibilité de revigorer les consciences, […] en les secouant, elle les préser­ve de l'engourdissement où les plonge le confor­misme » (35).

    En tout cas, ce ne sera pas l'auteur qui nous en­lèvera ce doute. Cioran juge délibérément avec cette ambivalence, avec cette ambiguïté. Il sait que c'est la seule façon de durer. Dans son essai sur Joseph de Maistre, il écrit quelque chose qu'il semble dire à propos de lui-même : « sans ses contradictions, sans les malentendus qu’il a, par instinct ou calcul, créés à son propre sujet, son cas serait liquidé depuis longtemps, sa carrière close, et il connaîtrait la malchance d'être compris, la pire qui puisse s'abattre sur un auteur » (36).

    Qu'ils s'alarment...

     

    C'est évident : face à une réalité aussi complexe que celle de l'écrivain Cioran, les propos de tous les Bernaldos de Quirós circulant dans ce vaste monde ne sont que des mesquineries pour feuilletons américains. Autre évidence : impliquer l'a­patride tourmenté dans ce genre de questions po­liticiennes soulevées par exemple par un Le Pen relève de la plus solennelle des bêtises. Les raci­nes de la philosophie de Cioran, cette philoso­phie tragique et anti-humaniste, qui semble telle­ment effrayer nos bons libéraux espagnols, véhi­cule une culture qui est européenne jusque dans la moëlle, depuis cinq mille ans au moins ! Et confondre cette philosophie plurimillénaire avec un politicien français de cette fin de siècle, peu porté par ailleurs sur les excès intellectuels, est une exagération un peu alarmante.

    Mais c'est peut-être de cela qu'il s'agit : alarmer les gens. Non pas d'alarmer les gens parce que telle ou telle philosophie existe envers et contre la volonté des conformistes, mais d'alarmer les bonnes consciences, couleur de rose, parce qu'un Cioran, génial et cruel, récupère, illustre, diffuse et affirme la seule chose qui, aujour­d'hui, peut conjurer le fantasme de l'Occident : la tragédie, l'anti-humanisme, l'éloge de la Chute, toutes sorties valables pour une civilisation qui, en effet – bien qu'elle ne veuille pas s'en rendre  compte – est déjà tombée.

    Qu'ils s'alarment. Peu importe. Plus personne n'écoute. Pendant ce temps, la pensée de Cioran, une pensée barbare, éloignée des chaires et des conférences mondaines, devenue paradoxale­ment dangereuse parce qu'elle est désormais commercialisable (et peut-être commercialisable aujourd'hui précisément parce qu'elle est bar­bare), mine convictions et bétonnages. Cette « herméneutique des larmes » (ainsi Cioran défi­nit-il son style dans Des larmes et des saints) paraît s'emboîter à la perfection dans les angoisses contemporaines.

    En 1934, dans une œuvre encore écrite en rou­main, Pe culmile disperarii (« Sur les cimes du désespoir »), Cioran écrivait : « Est-ce que l'exis­tence sera pour nous un exil et le néant une pa­trie ? ». Aujourd'hui, nous avons tous déserté l'existence ; aujourd'hui nous habitons tous le néant. Devons-nous nous étonner que l'angoisse de Cioran nous apparaisse comme sœur jumelle de notre propre angoisse ?

    Les réactionnaires du XIXème siècle ont réagi contre le XVIIIème siècle en proposant un retour au XVIème siècle. Si aujourd'hui, en fin de modernité, il faut être réactionnaire (et soyons provocant : il n'est jamais mauvais d'être « réac­tionnaire », de réagir face aux phénomènes de dé­clin), seul peut l'être – et l'être dignement – le style de Cioran : sans propositions, sans alterna­tives. Le néant contre le vide ; l'angoisse doublée du râle face à la mort de toute illusion. C'est ce­la, finalement, la véritable dimension de Cioran : l'esthétique –puisqu'il n'y a plus d'éthique – menaçante d'une barbarie, en apparence fondée sur les Lumières, qui, seule, peut mettre un point final tragique à plus (ou beaucoup plus) de deux cents ans de civilisation à l'enseigne de l'Aufklärung.

    José Javier ESPARZA

     

     

     

    (1) Malgré son caractère superficiel fréquent, la lecture de ce supplément est à recommander. On y découvre tous les préjugés classiques de la droite libérale espagnole qui, au­jourd'hui, affectée par la « vague Reagan », tente de remplir sa malle doctrinale de thèses réductionnistes et économi­cistes, propres à l'anti-pensée libérale. Antérieurement, ce même supplément avait consacré à la post-modernité, nouveau monstre à trois têtes, une série d'opinions vrai­ment délirantes.

    (2) La persécution de Femando Savater parait s'être trans­formée en nouveau sport national. L'année passée et au cours d'un hommage rendu à Ché Guevara, Savater fut du­rement apostrophé et qualifié de « fasciste » par une partie du public présent, tout cela pour avoir dit que le Ché était « comme un bon Rambo ». Peu après, le politicien démo­crate-chrétien et historien pro-américain Javier Tussell s'en prenait à l’auteur de La Tarea del héroe (« La Tâche du héros ») en l'accusant d'« irresponsabilité intellectuelle » à cause de ses déclarations critiques envers la fièvre mo­narchique espagnole. Aujourd'hui, Bemaldo de Quirós le rend en partie responsable du parrainage de Le Pen parce qu'« il copie Cioran » (?), Sans doute, la pensée de Savater est très critiquable mais, à notre avis, pas à cause de ces trois « crimes de pensée » qu'on lui impute à droite comme à gauche et qui constituent, justement, autant d'élans de lucidité chez ce philosophe qui suscite la polémique.

    (3) F. Savater, « El indefendibile e indefenso Cioran », in Quimera, 4, febrero 1981.

    (4) Syllogismes de l'amertume.

    (5) Précis de décomposition. (6) op. cit.

    (7) « Valéry face à ses idoles », texte repris dans le volume intitulé Exercices d'admiration : Essais et portraits (Galli­mard).

    (8) « L'enfer du corps », essai paru dans Le Monde, 3 fé­vrier 1984.

    (9) La chute dans le temps.

    (10) Précis de décomposition.

    (11) La chute dans le temps.

    (12) Syllogismes de l'amertume. (13) ibid. (14) ibid. (15) ibid. (16) ibid. (17) ibid.

    (18) Essai sur la pensée réactionnaire.

    (19) Syllogismes de l'amertume.

    (20) Essai sur la pensée réactionnaire.

    (21) La chute dans le temps.

    (22) Essai sur la pensée réactionnaire.

    (23) La chute dans le temps.

     (24) Syllogismes de l'amertume. (25) ibid. (26) ibid. (27) ibid.

    (28) Essai sur la pensée réactionnaire. (29) ibid.

    (30) Syllogismes de l'amertume. (31) op. cit. (32) ibid.

    (33) Exercices d’admiration. (34) ibid. (35)ibid. (36)ibid.

     

    Cioran à Paris en 1949, au moment où venait de pa­raître son premier ouvrage en français, le Précis de décomposition. Cioran a appris le français grâce à un invalide de la Grande Guerre, virtuose de la lan­gue basque et de la langue française, érotomane délicat qui arpentait les boulevards de Montparnasse. Cet homme l'a exhorté à relire !es auteurs du XVIIlème siècle, à imiter leur perfection. Dans un interview accordé au philosophe allemand Gerd Bergfleth, Cioran rend hommage à cet inva­lide du Pays Basque, ce puriste de la langue et de la grammaire (Emil M. Cioran, Ein Gespräch, ge­führt von Gerd Bergfleth, Rive Gauche/Konkurs­buchverlag, Tübingen, 1985; Cioran a donné cette entrevue en langue alle­mande ; le texte original en est donc le texte alle­mand).

    Cioran: une pensée contre soi héroïquement positive

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    Liliana Nicorescu

    Cioran : une pensée contre soi héroïquement positive

    Ex: http://www.revue-analyses.org/

    Être le « héros négatif » de son temps, c’est, selon Cioran, trahir celui-ci : participer ou non aux tourments de son époque, c’est toujours faire le mauvais choix, se leurrer. Comme Cioran lui-même fut le « héros négatif » d’un « Âge trop mûr », l’étude que lui consacre Sylvain David se veut une « approche “sociale” » d’une œuvre qui fait l’apologie de la marginalité et du désistement. L’enjeu est d’explorer les ressources esthétiques et sociales de l’écriture d’un misanthrope plus ou moins sociable, qui s’est déclaré « métaphysiquement étranger » et dont l’ambition fut de s’adresser à « la communauté des exclus, des unhappy few » (p.  11) — les faibles, les ratés, son segment favori de lecteurs — vivant, tout en en étant conscients, dans une modernité aux accents spengleriens ou nietzschéens, nommée tantôt « décadence », tantôt « déclin », tantôt « crépuscule », tantôt « monde finissant ». Vivre et écrire en marginal participe d’un « héroïsme négatif », c’est-à-dire « de la chute », « de la décomposition », de la pensée « contre soi » (« le seul geste héroïque possible encore à l’homme moderne »), au fondement duquel l’auteur place la quête d’« une posture digne à opposer à l’inconvénient ou à l’inconvenance de la condition de l’homme moderne  » (p. 17), d’une réponse lucide, parfois fataliste, aux questions incontournables de la modernité. C’est, selon Sylvain David, la source même de l’écriture cioranienne et de la posture négativement héroïque d’une œuvre qui s’articule autour de la dualité entre le sujet et la collectivité, d’une identité sapée par le doute, et d’un « penser contre soi-même » assidûment professé par l’auteur des Cimes du désespoir.

    L’analyse de l’œuvre cioranienne passe — plus que jamais, après la mort de l’essayiste — par l’étape roumaine de sa création littéraire. Depuis onze ans, la question fondamentale est, selon certains critiques, de concilier « l’aristocrate du doute » et l’« antisémite de conviction ». Le « dévoilement du voile » annoncé par Alexandra Laignel-Lavastine en 2002 ne tente pas Sylvain David, qui, tout en reconnaissant une « historicisation » de la pensée cioranienne dans la deuxième étape de création de l’auteur de La Transfiguration de la Roumanie, refuse de l’historiciser in corpore ou à rebours et, par conséquent, de juger l’œuvre française en fonction de l’œuvre roumaine. La « seconde naissance » de Cioran passe, certes, par l’historicisation de sa pensée : celui qui prônait dans son premier livre roumain l’« héroïsme de la résistance et non de la conquête » allait admirer quelques années plus tard Corneliu Zelea-Codreanu et Hitler, pour s’attaquer ensuite à toute forme de fanatisme, d’engagement politique. Par conséquent, la tension fondamentale de l’œuvre cioranienne sera « la relation conflictuelle d’un homme avec son époque, son milieu, si ce n’est avec lui-même » (p.  23).

    Les rapports entre l’écriture et le désengagement constituent la première partie du livre, intitulée Un discours (a)social. Les trois premiers livres français de Cioran (Précis de décomposition, 1949; Syllogismes de l’amertume, 1952; La Tentation d’exister, 1956) sont empreints de la certitude du déclin, de la décadence, de l’éternelle erreur. Si l’esprit moderne est marqué par « la négativité et le relativisme » (p. 24), l’œuvre de Cioran se distinguera non seulement en tant que « dénonciation du caractère insidieux de l’esprit moderne », mais aussi en tant que « discours (a)social » (p. 29). Dans cette période de passage, le segment français de l’œuvre cioranienne dénonce, juge et accuse systématiquement l’aspect politique, engagé, des écrits roumains. À cette époque, Cioran essaie de « se distancier d’une certaine incarnation de lui-même, de ce qu’il a déjà été » (p. 30). L’affirmation ne laissera aucun cioranien (ou cioranomane!) indifférent et place l’auteur de cet essai dans le camp modéré des lecteurs/exégètes de celui qui est accusé de « fuite lâche », de mémoire sélective, de mensonge et, surtout, de conservation du credo antisémite. Lire l’œuvre française de Cioran n’est pas, pour Sylvain David, « tenter de déterminer ce qu’a pu dire, ou faire, exactement l’essayiste, au cours des années 1930, mais plutôt de voir ce qu’il en pense, avec le recul, au moment où il entame sa nouvelle carrière » (p. 30). À l’encontre de ceux qui parlent de l’« insincérité permanente » de Cioran ou de son antisémitisme foncier et permanent, Sylvain David croit que « [p]lutôt que de commodément vouer son égarement de jeunesse à l’oubli », il convient de considérer que Cioran « revient inlassablement sur son expérience afin de comprendre et, éventuellement, dépasser les motivations qui ont pu le pousser à agir de la sorte » (p. 30).

    En s’attaquant à la racine du Mal, de l’Intolérance, du Fanatisme, Cioran poursuit et accomplit un besoin d’expiation, de purification de ses jeunes égarements. La « rage tournée contre soi », la « négativité » se trouvent au cœur de cette écriture centrée sur la condition de l’homme moderne et qui réfléchit sur celle de l’écrivain dans une société de plus en plus politisée, de plus en plus divisée, de plus en plus radicalisée. La « poétique du détachement » qui illustre cette première étape de création française prend déjà contour dans le Précis de décomposition (Exercices négatifs à l’origine) que Cioran publiera en 1947 et s’articule non seulement autour de la « dénonciation de toute forme de dogmatisme ou d’intransigeance » (p. 36), mais aussi autour de l’écriture éclatée, fragmentaire, opposée, dira Cioran, à « la tentation de conclure ». Cette écriture fragmentée, fracturée est une expression de la modernité dans la mesure où la philosophie, le premier amour de l’essayiste, est, estime-t-il, incapable d’expliquer le monde ou le temps, qui mesure plutôt l’irrationalité contemporaine, le volet culturel de la durée, la fracture de la connaissance, du moi, la décomposition de la pensée et la décadence du Verbe.   

    Cette étape créatrice du métèque correspond à un métissage esthétique, autrement dit à l’éclatement de la forme littéraire, dont le principal matériau, la langue, se dissout et s’incarne sous diverses formes : le doute se radicalise et se détache du discours philosophique impersonnel et systémique. Aux idées abstraites, Cioran, devenu « penseur d’occasion », préfère la connaissance empirique; l’écrivain est un sceptique déçu par la philosophie (universitaire ou non), un moraliste qui, avant d’observer les gens, doit « dépoétiser sa prose ». L’idée que « toute démiurgie verbale se développe aux dépens de la lucidité » conduit à l’esthétisation de la négation, à la « négativité esthétique » (p. 95), à travers laquelle l’écriture mesure et dénonce le déclin inéluctable d’un monde, d’un système de valeurs partagées.

    La deuxième partie de l’étude de Sylvain David — intitulée De l’histoire de la fin à la fin de l’histoire — a pour fondement « le grand récit de la Chute ». Le corpus (Histoire et utopie, 1960; La Chute dans le temps, 1964 ; Le mauvais démiurge, 1969) propose une relecture de la Genèse, dont le centre nerveux est le panorama de la vanité que déplore l’Ecclésiaste. Au centre de la deuxième étape de l’œuvre française de Cioran, on trouve le « Cioran de la maturité ». Placé également sous le signe de la négation, ce deuxième segment français de l’œuvre cioranienne met en scène un moi lui-même fragmenté, décomposé, qui ne met plus en question ses égarements de jeunesse, mais ses accès de pessimisme, de scepticisme. Sur le plan de l’écriture, l’aphorisme est supplanté par l’essai, dont les thèmes centraux sont l’homme, le péché originel, la chute, le temps historique et l’Occident moribond. Dans l’herméneutique cioranienne, le péché originel s’appelle la « douleur originelle » et la Chute vient couronner « l’inaptitude au bonheur » des descendants d’Adam et Ève; leur « don d’ignorance » est le seul à les rendre heureux. Lucifer, quant à lui, n’eut qu’à saper « l’inconscience originelle » du couple primordial et de sa progéniture — dont l’« inconvénient » d’exister fut la seule fortune —, ce qui laissa cet univers à la discrétion d’un « mauvais démiurge ». Conséquence directe du péché originel, la chute dans le temps est en même temps une chute vers la mort : « avancer » et « progresser » sont des concepts distincts chez Cioran, car aller vers la mort est un progrès vers l’involution, vers la disparition non seulement des hommes (ou des peuples), mais aussi des cultures, des civilisations sujettes au temps historique. Fatalement, l’« abominable Clio » enchaîne l’homme et le laisse « en proie au temps, portant les stigmates qui définissent à la fois le temps et l’homme ». Séduite par l’élan vers le pire, l’humanité court vers sa perte, autrement dit, vers l’avenir : c’est plus fort qu’elle, car, écrit Cioran dans ses Écartèlements, « [l]a fin de l’histoire est inscrite dans ses commencements ».

    La troisième partie — Une autobiographie sans événements (incluant De l’inconvénient d’être né, 1973; Aveux et anathèmes, 1987; Écartèlement, 1979 : Exercices d’admiration, 1986) — correspond à un réinvestissement du temps présent complètement dépolitisé. La réflexion qui accompagne cet héroïsme négatif se fait en trois volets : le malheur (plus ou moins inventé) de l’homme moderne, l’écriture fragmentaire en tant que miroir d’un univers atomisé, désagrégé, inachevé, et le défi stoïque, positivement connoté, de l’héroïsme négatif de Cioran, autrement dit, « le courage de continuer à vivre et à écrire à l’encontre de ses propres conclusions, de son propre savoir » (p. 26). Les piliers de cette « autobiographie sans événements » sont le suicide et la « (re)naissance ». La biographie de Cioran fut marquée par un suicide jamais commis, puisqu’on ne peut pas tuer une idée. Ce que Cioran retient du suicide, c’est l’idée de se donner la mort, pas l’acte en soi : « sans l’idée du suicide — estimait-il — on se tuerait sur-le-champ! » D’ailleurs, si celui qui se vantait d’avoir « tout sacrifié à l’idée du suicide, même la mort », ne s’est pas suicidé, c’est parce que, disait-il plus ou moins amèrement, de toute façon, « on se tue toujours trop tard ». La même biographie fut également marquée par « l’inconvénient d’être né », voire d’être né Roumain, par les « affres de la lucidité », par les tortures du paradoxe, par l’effort de reconstruction intérieure et de mise en scène d’un moi aliéné. Dans le Paris aggloméré et automatisé, le regard du métèque s’arrête sur des gens que personne ne voit, venus, eux aussi, d’ailleurs, ou bien sur des clochards-philosophes. Sa lucidité — autrement dit, son « inaptitude à l’illusion » — fut celle d’une tribu sceptique, fataliste, anhistorique, celle de ces analphabètes brillants qui savent depuis toujours que l’homme est perdu et qui lui ont inculqué cette lucidité en même temps que « l’envergure pour gâcher sa vie ».

    Étant lui-même un paradoxe vivant, Cioran ne put mettre en scène qu’une paradoxale série de représentations de soi : le moraliste qui, avant d’observer les hommes, se donne comme devoir primordial de « dépoétiser sa prose » tend la main à un être lucide pris pour un sceptique; le « parvenu de la névrose » est le frère du « Job à la recherche d’une lèpre » ; le « Bouddha de pacotille » cherche la compagnie tourmentée d’un « Scythe flemmard et fourvoyé », « idolâtre et victime du pour et du contre », d’un « emballé divisé d’avec ses emballements », d’un « délirant soucieux d’objectivité », d’un « douteur en transe » ou d’un « fanatique sans credo ». Cette rhétorique du paradoxe et de l’opposition projette, selon Sylvain David, non seulement l’image d’un marginal, d’un étranger, d’un exclu, d’un apatride métaphysique, mais également et surtout un jeu de contraires qui trouve son plaisir esthétique dans les contorsions, dans les volutes élégamment orchestrées par une pensée organiquement écartelée « entre scepticisme et besoin de croire, entre lucidité et illusion vitale » (p. 273). Cette mise en scène du moi artistique participe d’un « métacommentaire » qui prolonge non seulement « une détestation de soi primaire » (en tout cas, moins importante, semble-t-il), mais surtout d’« une forme d’amour trahi ou d’orgueil blessé » (p. 275). La visée de celui qui se voulait « le secrétaire de [s]es sensations » n’est pourtant aucunement narcissique, mais plutôt viscérale, car, disait-il, ce ne sont pas nos idées, mais nos sensations et nos visions — parce qu’elles « n’émanent pas de nos entrailles » et sont « véritablement nôtres » — qui peuvent, qui doivent nous définir. Cet attachement au sensoriel est, observe Sylvain David, l’apogée de l’héroïsme négatif de Cioran : en parlant de sensations et de visions qui sont les siennes, pas les nôtres — c’est-à-dire « non partagées avec le commun » —, le dernier Cioran défend son héroïsme négatif en explorant ce que son passé, son identité, ses souvenirs ont de négatif. Cet effort expiatoire est plus qu’une catégorie esthétique : il s’impose en tant que garantie morale de l’œuvre de maturité d’un homme « désintégré ».

    Sur les ruines d’un univers déserté par les dieux, un penseur inclassable vint installer son Verbe ahurissant, héritier de la sobriété et de l’élégance des moralistes dont il se réclamait comme descendant légitime, aussi bien que de la saveur amère et de la souplesse de sa langue maternelle. Seuls l’aphorisme ou le fragment pouvaient représenter cet univers morcelé, éclaté. À l’encontre de Ionesco ou de Beckett, qui ont exploré l’absurde du langage, Cioran resta plutôt un classique, car, bien que conscient des mots, il a cherché, au-delà de la fonction poétique de la langue, à faire passer ses négations au niveau de la rhétorique; son univers n’est pas l’absurde, mais le paradoxe qui repose sur toute une série de malgré : poursuivre sa réflexion, malgré la déception que provoque chez lui la philosophie, malgré le mal que provoque sa propre conscience (ou sa propre lucidité); écrire, malgré les doutes quant à la capacité de son écriture à définir sa conception du monde; publier, malgré un nombre restreint de lecteurs et le dégoût que provoque en lui le flux éditorial parisien.

    Certes, Cioran a écrit parce que, disait-il, chaque livre est « un suicide différé ». Paradoxalement ou non, son héroïsme négatif n’est ni agressif ni virulent, mais plutôt la représentation concrète de son aptitude — qui l’aurait cru? — « au compromis stoïque », de sa « capacité de se mouler aux circonstances de la modernité sans jamais pour autant s’y diluer ou s’y travestir » (p. 326). Il ne lui restait qu’à devenir « le sceptique de service » d’un monde en agonie ou « le secrétaire de [s]es sensations », puisque « être le secrétaire d’une sainte » n’a pas été la chance de sa vie.

    Le Cioran français est, selon certains exégètes du moraliste, le masque du Cioran roumain séduit, dans les années 1930, par le mouvement nationaliste roumain et qui, une fois établi en France, n’a fait que réécrire ses livres roumains, afin de cacher ses jeunes égarements tout en restant fidèle à ses anciens credo. À l’encontre de certains de ses prédécesseurs, Sylvain David met au cœur de sa lecture de l’œuvre française de Cioran le fondement esthétique et social de l’art du fragment, dont l’auteur du Mauvais démiurge fut le maître incontesté. Complètement dépolitisés, les paradoxes cioraniens retrouvent toute leur beauté et leur profondeur et construisent, par le biais d’une analyse aussi subtile qu’objective, le parcours sinueux, mais combien passionnant, d’un « héroïsme à rebours ».

     

    Compte rendu par : Liliana Nicorescu

    Référence : Sylvain David, Cioran. Un héroïsme à rebours, Les Presses de l’Université de Montréal, coll. « Espace littéraire », 2006, 338 p.

    Pour citer cet article : Liliana Nicorescu, «Cioran : une pensée contre soi héroïquement positive», @nalyses [En ligne], Comptes rendus, XXe siècle, mis à jour le : 27/01/2010, URL : http://www.revue-analyses.org/index.php?id=623.

    lundi, 15 mars 2010

    Codreanu: "La domination absolue de l'Esprit sur le corps..."

    La domination absolue de l'Esprit sur le corps...

    Timbru_Codreanu.jpg"(...) Il y a deux aspects, pour la clarification desquels il faut avoir présent à l’esprit le dualisme de l’être humain, composé d’un élément matériel naturaliste et d’un élément spirituel. Quand le premier domine le second, c’est l’enfer. Tout équilibre entre les deux est chose précaire et contingente. Seule la domination absolue de l’esprit sur le corps est la condition normale et la prémisse de toute force vraie, de tout héroïsme véritable. Le jeûne est pratiqué par nous parce qu’il favorise une telle condition, affaiblit les liens corporels, encourage l’auto-libération et l’auto-affirmation de la volonté pure. Et quant à cela s’ajoute la prière, nous demandons que les forces d’en haut s’unissent aux nôtres et nous soutiennent invisiblement. Ce qui conduit au second aspect : c’est une superstition que de penser que dans chaque combat seules les forces matérielles et simplement humaines sont décisives ; entrent en jeu au contraire également les forces invisibles, spirituelles, au moins aussi efficaces que les premières. Nous sommes conscients de la positivité et de l’importance de ces forces. C’est pour cela que nous donnons au mouvement légionnaire un caractère ascétique précis. Dans les anciens ordres chevaleresques aussi était en vigueur le principe de la chasteté. Je relève toutefois qu’il est chez nous restreint au Corps d’Assaut, sur la base d’une justification pratique, c’est-à-dire que pour celui qui doit se vouer entièrement à la lutte et ne doit pas craindre la mort, il est bien de ne pas avoir d’empêchements familiaux. Du reste, on reste dans ce corps seulement jusqu’à 30 ans révolus. Mais, en tout cas, demeure toujours une position de principe : il y a d’un côté ceux qui ne connaissent que la “vie” et qui ne cherchent par conséquent que la prospérité, la richesse, le bien-être, l’opulence ; de l’autre, il y a ceux qui aspirent à quelque chose de plus que la vie, à la gloire et à la victoire dans une lutte tant intérieure qu’extérieure. Les Gardes de Fer appartiennent à cette seconde catégorie. Et leur ascétisme guerrier se complète par une dernière norme : par le vœu de pauvreté auquel est tenu l’élite des chefs du mouvement, par les préceptes de renoncement au luxe, aux divertissements creux, aux passe-temps dits mondains, en somme par l’invitation à un véritable changement de vie que nous faisons à chaque légionnaire."

    Corneliu Zelea Codreanu

    samedi, 13 février 2010

    Raketenstationierung in Polen und Rumänien: USA setzen provokative Einkreisungsstrategie gegenüber Russland fort

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    Raketenstationierung in Polen und Rumänien: USA setzen provokative Einkreisungsstrategie gegenüber Russland fort

    F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

    Schon vor einigen Tagen hat Washington bekannt gegeben, dass Polen die amerikanischen »Patriot«-Luftabwehrraketen angeboten werden, jetzt folgt die Ankündigung, dass das Raketenabwehrsystem »zum Schutz Europas« auf Rumänien ausgedehnt wird.

    Obwohl Präsident Obama im September 2009 erklärt hatte, auf die geplante Stationierung moderner US-Raketen- und Radarsysteme in NATO-Ländern wie Polen und der Tschechischen Republik zu verzichten – eine Entscheidung, die allgemein als Schritt zur Reduzierung der Spannungen zwischen den USA und Russland betrachtet wurde –, zeigt sich  jetzt, dass Washington lediglich den Ort der Stationierung und den Typ der Luftabwehrraketen verändert hat. Die Strategie der Einkreisung Russlands, für Moskau eine große militärische Herausforderung, wird also beibehalten. Die Gefahr einer weltweiten atomaren Katastrophe durch Fehlkalkulation bleibt unvermindert oder nimmt sogar noch zu.

    Der rumänische Präsident Traian Basescu hat die Zustimmung seines Landes zu dem amerikanischen Plan der USA, im Rahmen des Raketenschutzschildes für Europa Abfangraketen auf rumänischem Territorium zu stationieren, bekannt gegeben. In der entsprechenden Ankündigung der USA hieß es, die Anlagen sollten 2015 einsatzbereit sein und dienten der Verteidigung gegen eine »aktuelle und künftige Bedrohung durch iranische Raketen«. Anstatt also die Pläne, die sich in Wirklichkeit ausschließlich gegen das noch verbliebene Nukleararsenal Russlands richten und nicht gegen eine mögliche Bedrohung Europas durch den Iran, tatsächlich aufzugeben, hat die Regierung Obama zu psychologischer Taktik gegriffen und das Offensivsystem einfach nur neu verpackt. Jetzt ist ein flexibleres System aus einer Kombination von luft- und seegestützten Abfangraketen geplant, die im Laufe der kommenden vier Jahre in Zentraleuropa stationiert werden sollen.

    Die jüngste Ankündigung Rumäniens widerspricht Obamas Versicherung, er suche den Dialog mit Moskau, um gemeinsam und mit Beteiligung der Staaten der Europäischen Union die tatsächliche Bedrohungslage für beide Seiten zu untersuchen.

    Dass die Bedrohung Moskau gegenüber wächst, wird auch dadurch bestätigt, dass die polnische Regierung in Warschau jetzt bekannt gegeben hat, dass die amerikanischen Patriot-Raketen im Norden des Landes, nur etwa 100 Kilometer von der Grenze zur russischen Enklave Kaliningrad entfernt, und nicht in Warschau stationiert werden sollen.

    Wie der polnische Verteidigungsminister Bogdan Klich versichert, hat die Entscheidung, in Morag, das der russischen Grenze weit näher liegt als Warschau, eine Basis für die Patriot-Raketen zu errichten, keine strategischen Gründe. »In Morag konnten wir den amerikanischen Soldaten die besten Bedingungen und die optimalen technische Basis für die Ausrüstung bieten«, so Klich. Seine Erklärung klingt jedoch wenig überzeugend. Der polnische Außenminister und frühere Verteidigungsminister Radek Sikorski, der die provokative US-Raketenstrategie rückhaltlos unterstützt, gehört zum engen Kreis der neokonservativen Clique um Bush und Cheney. Sikorski war führendes Mitglied der Washingtoner Neo-Con-»Denkfabrik« namens American Enterprise Institute und Direktor der New Atlantic Initiative, die die Einkreisung Russlands unterstützt und dafür plädiert hat, so viele ehemalige Mitgliedsstaaten des Warschauer Pakts wie möglich in die NATO aufzunehmen.

    Die Patriot-Einheit in Polen wird aus etwa 100 US-Soldaten bestehen; bis zu acht Raketensysteme sollen stationiert werden. Die ersten US-Soldaten werden Ende März in Polen erwartet. Das Patriot-Flugabwehrraketensystem (MIM-104) kann gegen taktische ballistische Raketen, Marschflugkörper und Flugzeuge eingesetzt werden.

     

    Atomarer Erstschlag und Raketenabwehr

    Die Stationierung des US-Raketenabwehrsystems birgt das größte Destabilisierungpotenzial, nicht nur für die Beziehungen zwischen den USA und Russland, sondern auch für die Frage Frieden und Atomkrieg durch Fehlkalkulation.

    Sollte es den USA gelingen, nur wenige Flugminuten von den russischen Raketensilos entfernt einen noch so primitiven Raketenschirm zu stationieren, während Russland nicht über ein entsprechendes Abwehrsystem verfügt, dann erhielte das Pentagon damit zum ersten Mal seit Anfang der 1950er-Jahre das – im Jargon der Militärstrategen – »nukleare Primat«, nämlich die Fähigkeit zu einem erfolgreichen Erstschlag. Bevor eine solche Drohung jedoch Wirklichkeit wird, steht die andere Seite, also Russland, unter dem enormen Druck, rechtzeitig zum Präventivschlag auszuholen. Für US-Militärexperten wie den ehemaligen Direktor des US-Raketenverteidigungsprogramms, Lt. Colonel Robert Bowman, stellt die Raketenabwehr das »fehlende Verbindungsglied [missing link] zu einem Erstschlag« dar. Kein Wunder, dass die amerikanisch-russischen Beziehungen ziemlich frostig wurden, als Washington Anfang 2007 die entsprechenden Pläne bekannt gab.

     

    Dienstag, 09.02.2010

    Kategorie: Geostrategie, Politik, Terrorismus

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    vendredi, 18 décembre 2009

    L'insolente Cioran

    e_m_cioran.jpgL'insolente Cioran

    Dal mensile Area, giugno 2001

    «La mia missione è di uccidere il tempo e la sua di uccidermi a sua volta. Ci si trova perfettamente a proprio agio tra assassini». Con questa dichiarata volontà e nella convinzione che «chiunque non sia morto giovane merita di morire» Emile Michel Cioran, poeta, filosofo, saggista ha condotto il suo personalissimo duello con la vita, «il più grande dei vizi», sino al 20 giugno del 1995, giorno in cui è morto a Parigi.

    A sei anni dalla scomparsa di questo affascinante esponente della cultura europea del Novecento, arrivano nelle librerie italiane i Quaderni 1957 - 1972. L’opera raccoglie il prezioso contenuto di trentaquattro taccuini, ritrovati dopo la sua morte, ora pubblicati da Adelphi in un ponderoso tomo di oltre mille pagine, per la delizia di noi lettori. Si tratta degli appunti più intimi di uno sferzante fustigatore della modernità, «scettico di servizio in un mondo alla fine», scritti nel lungo arco di tempo che va dal giugno 1957 al novembre 1972. Vi si trovano, tenuti insieme da una scrittura iperbolica e densa di suggestioni incantatrici, riflessioni, sentenze fulminanti, ritratti strabilianti, descrizioni minuziose di significativi episodi vissuti, aneddoti e paradossi. Soprattutto emerge, tra le righe, l’animo inquieto di un artista affamato d’assoluto, di uno spirito religioso senza religione, di uno scrittore lucido e delirante al tempo stesso, che per la sua natura contraddittoria sfugge ad ogni classificazione, tanto da definirsi egli stesso un «idolatra del dubbio, un dubitatore in ebollizione, un dubitatore in trance, un fanatico senza culto, un eroe dell’ondeggiamento».

    Francese d’adozione, Cioran rimane uno scrittore di stirpe rumena e sentimenti balcanici. Nasce a Rasinari (Sibiu) in Transilvania l’8 aprile del 1911 e i Carpazi sono i compagni della sua adolescenza. Rimane sempre legato alla «madre patria immersa nella bruma» anche quando nel 1937 decide di lasciare l’insegnamento nei licei e accettare una borsa di studio a Parigi, «piccola Bucarest […] la sola città del mondo dove si poteva essere poveri senza vergogna, senza complicazioni, senza drammi, la città ideale per essere un fallito». Ed infatti la sua vita parigina è caratterizzata da quel modus vivendi studentesco che Robert Brasillach definiva «l’eminente dignità del provvisorio», ben descritto da Mario Bernardi Guardi nella monografia che il mensile Diorama Letterario ha dedicato nel maggio 1991 (n.148) a Cioran, profeta della decadenza: «Provinciale d’ingegno e studente ribaldo, legge e scrive, ma va anche in giro in bicicletta per i Pirenei e la Bretagna. E vive, fino a quarant’anni, da avventuroso adolescente: ha in tasca pochi soldi, dorme negli ostelli, abita nelle soffitte, alloggia negli albergucci, mangia alla mensa universitaria».

    Con sofferenza matura la decisione di rinunciare alla sua lingua d’origine per scrivere in francese. «Ho scritto in rumeno fino al ’47. Quell’anno mi trovavo in una casetta a Dieppe, e traducevo Mallarmé in rumeno. Di colpo, mi son detto: Che assurdità! Che senso ha tradurre Mallarmé in una lingua che nessuno conosce? Allora ho rinunciato alla mia lingua. Mi sono messo a scrivere in francese, ed è stato difficilissimo, perché, per temperamento, la lingua francese non mi si addice. Io ho bisogno di una lingua selvaggia, di una lingua da ubriaco. Il francese è stato per me una camicia di forza».

    Sono invece in rumeno, questa «mistura di slavo e latino, idioma privo di eleganza ma poetico», le sue opere giovanili. A soli ventitre anni scrive un saggio di «sfida al mondo», Al culmine della disperazione (Adelphi 1998), che riscuote un certo successo e viene premiato.

    Nel 1937 pubblica Ascesa della Romania. Vi si scorge un Cioran ancora attento all’attualità politico culturale, persino interventista nel dibattito del suo paese: «Nessuno può dirsi nazionalista se non soffre infinitamente del fatto che la Romania non possiede la missione storica di una grande cultura e che un imperialismo culturale e politico come quello delle grandi nazioni non possa appartenerle; non è nazionalista chi non può credere con fanatismo alla repentina sublimazione della nostra storia». Nello stesso periodo scrive: «La cultura rumena vive attualmente il suo momento decisivo: abbandonare dietro di sé la tragedia di una cultura su piccola scala e, attraverso le sue imprese in materia di teorie, d’arte, di politica e di spiritualità, compiere un destino specificamente aggressivo da grande cultura. Lo sforzo dei rumeni deve dunque mirare a strappare il loro paese dalla periferia della storia per condurlo sul proscenio…».

    Insieme a numerose personalità della cultura, come lo storico delle religioni Mircea Eliade, si schiera a fianco della Legione dell’Arcangelo Michele. E’ una stagione brevissima, prevale presto lo scetticismo e la sfiducia in ogni rivoluzione. Anni dopo scriverà: «Ogni progetto è una forma di schiavitù». E anche: «Mi basta sentire qualcuno parlare sinceramente di ideale, di avvenire, di filosofia, sentirlo dire noi con tono risoluto, invocare gli altri e ritenersene l’interprete, perché io lo consideri mio nemico».

    Prima di partire per la Francia pubblica a sue spese Lacrime e Santi (Adelphi 1990) e qualche anno dopo il suo ultimo libro in lingua rumena, Il tramonto dei pensieri. Si appassiona a Shakespeare e Baudelaire, a Dostoevskij, agli antichi gnostici, a Buddha e Pascal.

    Lo influenzano soprattutto Spengler e Schopenhauer, suo «grande Patrono, boicottato dalla tromba degli utopisti, senza parlare di quella dei filosofi» e Nietzsche. Sono in molti a paragonarlo al grande tedesco, dal filosofo spagnolo Fernando Savater, allievo ed amico di Cioran nonché traduttore delle sue opere e autore della biografia Cioran, un angelo sterminatore (Frassinetti 1998), a Jean François Revel che lo definisce «il solo rappresentante letterariamente riuscito dell’arte dell’aforisma dopo Nietzsche».

    Termina presto l’idillio con la filosofia, («ha vinto l’incantesimo della filosofia», scrisse Alain De Benoist), che abbandona per abbracciare «l’esperienza, le cose vissute, la follia quotidiana». Preferisce finire «prima in una fogna che su un piedistallo». Detesta la pedanteria dei filosofi, piuttosto che sposare dogmi vuole demolirne. Ritiene l’erudizione un pericolo mortale per l’umanità. «Il sapere […] ci condurrà inesorabilmente alla rovina», avverte.

    Soprattutto Cioran non vuole rinunciare al suo «dilettantismo»: «Se fossi costretto a rinunciarvi è nell’urlo che vorrei specializzarmi». Le sue opere, in effetti, gridano, nell’intento di svegliare le coscienze dal torpore morale: «scuotendole, le preservo dallo snervamento in cui le sommerge il conformismo». In esse vibra un’energia baldanzosa e vitale che stride, solo apparentemente, con la sfiducia di Cioran.

    La sua critica pungente si rivolge all’uomo contemporaneo, capace solo di «secernere disastro», alla ragione, «la ruggine della nostra civiltà», alla storia, «indecente miscela di banalità e apocalisse», al progresso, «l’ingiustizia che ogni generazione commette nei confronti di quella che l’ha preceduta» e al colonialismo occidentale nel Terzo Mondo, «l’interesse degli uomini civili per i popoli che vengono chiamati arretrati è molto sospetto, incapace di sopportarsi ancora, l’uomo civilizzato scarica su questi popoli l’eccedenza dei mali che lo opprimono, li incita a condividere le proprie miserie, li scongiura di affrontare un destino che ormai non può più affrontare da solo».

    Eppure, pur esprimendo un inconfutabile pessimismo, Cioran non può essere ritenuto semplicisticamente un nichilista. Non si limita ad annunciare la catastrofica fine dell’occidente, ma invita tutti ad una vera e propria rivolta morale. Come ha scritto Bernardi Guardi il suo è comunque un messaggio positivo: «C’è da indietreggiare davanti a tanta copia d’angoscia. Eppure l’umor nero di Cioran, mettendoci in guardia contro tutto, paradossalmente ci insegna a riscoprire tutto, a fare carne e sangue di ogni esperienza, prima fra tutte quella del dolore, della religione, della morte».

    C’è in lui, infatti, una robusta vena di sensibilità sociale, scevra di ogni forma di retorica, scarna e proprio per questo più sincera. E’ singolare come tale sentimento conviva con l’aristocratico distacco rispetto alle sorti del mondo che caratterizza questo autore solitario e metafisico.

    La sua insofferente misantropia lo porta a scrivere feroci battute come queste: «appena si esce nella strada, alla vista della gente, sterminio è la prima parola che viene in mente […] quando passo giorni e giorni in mezzo a testi in cui si tratta unicamente di serenità, di contemplazione, di spoliazione, mi viene voglia di uscire per la strada e spaccare il muso al primo che incontro». La tolleranza diventa «una civetteria da agonizzanti». Malgrado affermazioni così temerarie Cioran non ha dubbi: «Ci si deve schierare con gli oppressi in ogni circostanza, anche quando hanno torto, senza tuttavia dimenticare che sono impastati con lo stesso fango dei loro oppressori». L’auspicio è quello di un mondo liberato dal lavoro, dove la gente possa «uscire in strada e non fare più nulla. Tutta questa gente abbrutita, che sgobba senza sapere perché, o si illude di contribuire al bene dell’umanità, che fatica per le generazioni future sotto l’impulso della più sinistra delle illusioni, si vendicherebbe allora di tutta la mediocrità di una vita vana e sterile, di tutto questo spreco di energia privo dell’eccellenza delle grandi trasfigurazione».

    Per Cioran la scrittura non è un mestiere, ma un atto liberatorio. Si domanda: «Cosa sarei diventato senza la facoltà di riempire delle pagine. Scrivere significa distrarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, vomitare i propri segreti. Lo scrittore è uno squilibrato che si serve di quelle finzioni che sono le parole per guarirsi». Chiamato in numerose università a tenere dei corsi, rifiuta asserendo che ne è incapace, perché «ogni idea mi ripugna nel giro di un quarto d’ora».

    In Italia, negli anni del più ortodosso fondamentalismo marxista, i suoi libri sono stati a lungo ignorati, in quanto ritenuti politicamente scorretti. Solo le edizioni del Borghese dettero alla luce due sue opere, Storia e Utopia (1969) e I nuovi Dei (1971), libro, quest’ultimo, ristampato successivamente anche dall’editore Ciarrapico nella bella collana de I classici della controinformazione, diretta da Marcello Veneziani.

    Solo diverso tempo dopo ed in Italia soprattutto grazie ad Adelphi, che ne ha tradotto, nel corso degli ultimi quindici anni, quasi tutta l’opera, il grande pubblico ha potuto godere di buona parte dei suoi scritti, tra i quali la stessa Storia e Utopia (ovviamente trascurando di fare riferimenti alle precedenti edizioni), Il funesto demiurgo, L’inconveniente di essere nati, La caduta nel tempo, La tentazione di esistere, Sommario di decomposizione, Sillogismi dell’amarezza, Squartamento e Esercizi di ammirazione.

    In questo libro, in particolare, conosciamo un Cioran anomalo, non più sarcastico ma, al contrario, persino generoso nel giudicare alcuni personaggi della cultura suoi contemporanei, tra i quali gli amati Eliade, Borges e De Maistre.

    Sul futuro delle sue opere Cioran ha dichiarato: «Il destino dei miei libri mi lascia indifferente. Credo però che qualcuna delle mie insolenze resterà». Noi invece siamo convinti che la sua opera rimarrà di assoluta attualità, così come la sua figura di provocatore “insolente”.

    A tal proposito la definizione che Cioran ha dato del grande pensatore reazionario Joseph de Maistre, è per noi, lettori devoti, la più adatta a descrivere proprio il grande rumeno: «Senza le sue contraddizioni, senza i malintesi che, per istinto o calcolo, alimentò sul proprio conto, il suo caso sarebbe stato liquidato da tempo, ed oggi soffrirebbe la disgrazia di essere capito, la peggiore che possa abbattersi su un autore».

    lundi, 14 décembre 2009

    Souffrance de la France et appel de l'Empire

    Souffrance de la France et appel de l’Empire

    par Pierre LE VIGAN

    Cioran ausculte notre patrie

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    Un ennui tient à la clarté. C’est l’ennui qui tient au trop de clarté. « Je ne crois pas que je tiendrais aux Français [au sens d’être attaché à] s’ils ne s’étaient pas tant ennuyés au cours de leur histoire. Mais leur ennui est dépourvu d’infini. C’est l’ennui de la clarté. C’est la fatigue des choses comprises. » (Cioran, De la France, 1941). La France, dit-il encore, c’est la sociabilité, l’amour de la conversation. « C’est une culture a-cosmique, non sans terre mais au-dessus d’elle. »

    Sur la fin de la France comme peuple, Cioran livre cette prodigieuse analyse, indépassée : « Un peuple sans mythes est en voie de dépeuplement. Le désert des campagnes françaises est le signe accablant de l’absence de mythologie quotidienne. Une nation ne peut vivre sans idole, et l’individu est incapable d’agir sans l’obsession des fétiches. Tant que la France parvenait à transformer les concepts en mythes, sa substance vive n’était pas compromise. La force de donner un contenu sentimental aux idées, de projeter dans l’âme la logique et de déverser la vitalité dans des fictions – tel est le sens de cette transformation, ainsi que le secret d’une culture florissante. Engendrer des mythes et y adhérer, lutter, souffrir et mourir pour eux, voilà qui révèle la fécondité d’un peuple. Les  » idées  » de la France ont été des idées vitales, pour la validité desquelles on s’est battu corps et âme. Si elle conserve un rôle décisif dans l’histoire spirituelle de l’Europe, c’est parce qu’elle a animé plusieurs idées, qu’elle les a tirées du néant abstrait de la pure neutralité. Croire signifie animer. Mais les Français ne peuvent plus ni croire ni animer. Et ils ne veulent plus croire, de peur d’être ridicules. La décadence est le contraire de l’époque de grandeur : c’est la re-transformation des mythes en concepts. […] Les Français se sont usés par excès d’être. Ils ne s’aiment plus, parce qu’ils sentent trop qu’ils ont été. Le patriotisme émane de l’excédent vital des réflexes; l’amour du pays est ce qu’il y a de moins spirituel, c’est l’expression sentimentale d’une solidarité animale. Rien ne blesse plus l’intelligence que le patriotisme. L’esprit, en se raffinant, étouffe les ancêtres dans le sang et efface de la mémoire l’appel de la parcelle de terre baptisée, par illusion fanatique, patrie. […] La France n’a plus de destin révolutionnaire, parce qu’elle n’a plus d’idées à défendre. Les peuples commencent en épopées et finissent en élégies. »

    Cioran évoque l’appel de l’Empire : « Lorsque se défont les liens qui unissaient les congénères dans la bêtise reposante de leur communauté, ils étendent leurs antennes les uns vers les autres, comme autant de nostalgies vers autant de vides. L’homme moderne ne trouve que dans l’Empire un abri correspondant à son besoin d’espace. C’est comme un appel à une solidarité extérieure dont l’étendue l’opprimerait et le libérerait en même temps. » Et l’on comprend alors ce qu’on n’avait peut-être jamais compris avant : l’Empire est femelle, l’Empire, c’est la protection de la femme, de la mère, c’est le ventre. C’est la part féminine d’une aspiration au politique. D’où sa légitimité, d’où, aussi, la nécessité que cette part féminine ne s’exprime pas trop fémininement. En d’autres termes, l’Empire doit être républicain avant d’être démocratique (la République est la condition de la démocratie). Si c’est le contraire, on ajoute de la féminité à de la féminité, on ajoute de la domesticité à de la domesticité, de la protection à la protection, et c’est alors un déficit de masculinité qui se manifeste. Avec un très gros risques : ce sont les empires faibles qui sont les plus bellicistes (Russie et Autriche-Hongrie en 1914). Le Japon de 1941 n’est pas un contre-exemple : ce n’était pas un empire fort dans la mesure où le Japon était fort mais n’était aucunement un Empire, c’était une nation avec un Tenno, ce qui n’est pas du tout la même chose.

    Pierre Le Vigan

    00:15 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, france, cioran, roumanie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook