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lundi, 03 mai 2010

Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

khan.jpgIl caos ribollente che emerse dalla rivoluzione russa del 1917 portò a galla ogni sorta di relitto. Fu come un’enorme ondata tellurica che si rovesciò sull’Europa orientale e sull’Asia centrale, dando la stura a oscuri patrimoni psicologici, a paure ancestrali, a vendette primitive che sembravano relegate a secoli lontani. La rivoluzione sovietica è stata non di rado paragonata più a un cataclisma cosmico che a una rivolta sociale di qualche proletariato industriale. Piuttosto, fu una specie di arcaica guerra di razze, un riaffacciarsi nella storia del diritto dell’orda, un dilagare del terrore e di antichissime, perdute memorie di delitto e di magia criminale.

Quando Ferdinand Antoni Ossendowski – lo scrittore polacco che visse in diretta l’esperienza della guerra civile e che nel 1922 pubblicò il famoso Bestie, Uomini, Dei – affermò che dietro le forze evocate dal bolscevismo agivano misteri occulti e superstizioni primordiali, non faceva che sollevare il coperchio di un calderone, il cui contenuto era rimasto sempre ignoto, ma ben presente all’Europa, il presentimento di un incubo.

L’Asia come mistero, come ventre spaventoso di ogni sciagura, uno spazio demoniaco sempre incombente. La rivoluzione sovietica agì sulla psiche occidentale con questi contorni di incontrollabile tregenda. In questo modo, le tradizioni solari legate al Levante, le mistiche asiatiche di liberazione, vennero sepolte sotto una spessa cortina di terrore. Pensiamo a cosa ha scritto Nolte circa le origini prime del Nazionalsocialismo. Reazione istintiva e radicale alle notizie traumatiche che provenivano da Est: reazione di sangue, prima ancora che di ideali politici. Reazione di pelle e di istinti agli eventi che, una volta di più, a Oriente aprivano la porta al mostruoso irrompere di entità terrorizzanti per ogni europeo. Nuovi Gengiz-Khan, nuovi tartari, nuove tragedie riapparivano all’orizzonte. Tutta una letteratura europea, diciamo così “di viaggio”, sorse sin dai primi anni Venti in Europa, ad alimentare la sensazione che l’Asia di nuovo si fosse messa in moto, con tutto il carico dei suoi spaventosi giacimenti memoriali. Basta ricordare che Ossendowski, autore di una quindicina di libri su questi temi, all’epoca riscosse un grande successo editoriale in tutta Europa.

Ad esempio, nel suo libro L’ombra dell’Oriente tenebroso, risalente al 1923 e pubblicato in Italia nel 1928, scrisse che il bolscevismo aveva scoperchiato i fondali asiatici della storia, accendendo fiamme in tutto l’Oriente, dalla Siberia alla Cina, dal Tibet alla Mongolia e a alla stessa India. Una vendetta di razze schiave? «Del giorno della vendetta adesso cantano i Kirghisi, i Kalmuchi, i Djoungari, i Buriati, i Tartari e gli arditi capi dei khunkhusi cinesi… Questo è intanto lo scopo principale della “grande” rivoluzione russa, rivoluzione dei nomadi, dei suicidi, degli stregoni e delle streghe, dei flagellanti e di tutti gli altri “diavoli” e quasi mostri apocalittici…». Si capisce che, con una simile prosa, gli animi in Europa facessero presto a surriscaldarsi. E a correre ai ripari, agitando simboli radicali di difesa, di identità e di salvezza comune. La culla del Fascismo.

In un altro suo libro, L’uomo e il mistero in Asia, tradotto in italiano nel 1926, Ossendowski parlò ancora dei suoi viaggi siberiani e mongolici, descrisse la barbarie ottusa accanto al permanere di leggende d’amore, il convivere del magismo superstizioso accanto a medievali ascetismi. Come quello del “monaco nero” incontrato nella terra degli Ainu. Un fanatico illuminato che risuonava di un sinistro rumor di catene ad ogni movimento: portava indosso delle verigi, catene incrociate sulla schiena a mo’ di cilicio. Personaggi di questa fatta, in una cornice di sangue, fuoco e massacri – secondo la «vocazione al genocidio del comunismo sin dalle sue origini» – contribuivano potentemente a mobilitare le coscienze occidentali.

Difatti, non fu per caso che ancora nel 1930 Malaparte, allora direttore de “La Stampa”, incaricò il giornalista Corrado Tedeschi di fare un lungo viaggio in Asia centrale. Ne uscì Siberia rossa e Manciuria in fiamme, pubblicato da Barbèra nel 1931. E di nuovo furono racconti di orrore allo stato puro. I bassifondi umani erano dappertutto, uscivano ancora allo scoperto come danze macabre. Squadre di banditi cinesi a caccia di coreani da abbattere… cosacchi sbandati che ammazzavano a fucilate i cercatori d’oro e di ginseng… e poi sciami di fuggiaschi vaganti nella zona dell’Ussuri: «come jene, finivano a morsi i corpi dei coreani uccisi dai konkusi…».

La figura del barone Romàn Fiodòrovic von Ungern-Sternberg appartiene a questo contesto. La leggenda si è impadronita di lui, ma la storia ne presenta ugualmente dei contorni credibili. Comandante di una divisione asiatica di cavalleria anti-comunista, autoproclamatosi generale, guidava col pugno di ferro una sparuta unità di forse un migliaio di guerrieri raccogliticci, volontari tibetani, guardie bianche, cosacchi del Baikal, mongoli, buriati… Erano tutto quanto rimaneva della contro-rivoluzione, dopo il tracollo dell’esercito di Kolchak alla fine del 1919… Braccati dalle masse bolsceviche e dalle truppe dei “signori della guerra” cinesi, in un’area che dalla Transbaikalia raggiungeva l’estremo Oriente siberiano. Spalleggiato dalle poche forze degli atamani anti-bolscevici, Ungern-Sternberg fece storia marginale, ma vera, fatta di violenza, brutalità e distruzione.

Consapevole che il terrore lo si batte soltanto col terrore, attuò la terra bruciata e combattè il comunismo col ferro e col fuoco. Personaggio romanzesco. E, infatti, gli sono stati dedicati romanzi storici, fedeli alle tracce lasciate dagli archivi e dalle fonti diplomatiche, ma arricchiti dalla vena descrittiva. Ad esempio, nel 1995 Renato Monteleone scrisse Il quarantesimo orso. La saga d’un “barone pazzo” tra le rovine dell’Impero zarista, pubblicato da Gribaudo. Adesso le Edizioni di Ar pubblicano Il dio della guerra di Jean Mabire, uscito in Francia nel 1987. E l’autore definisce il suo scritto proprio una fusione tra la finzione romanzesca e il saggio storico.

Portatore di una singolare mistura di religiosità paganeggiante, sensitiva, tradizionalista, Ungern-Sternberg, ben presto ribattezzato Ungern-Khan, si presenta come uno dei più caratteristici tra i “tipi” umani fondamentalisti mobilitati in Europa come reazione al bolscevismo. Favorevole al reinsediamento dello Zar sul trono, ma ben conscio delle scarse probabilità di pervenire al successo, era dominato da quella rigida etica dell’ordine interiore che gli faceva preferire l’istinto di lotta e la mistica della guerra ai calcoli sulla riuscita materiale delle sue azioni. Alla maniera di Nietzsche, proclamava che «solo una cosa conta: diventare ciò che si è e fare ciò che si deve». E ardeva, in quest’uomo agitato da forze ferree e da visioni trascinanti, lo stesso fuoco mistico delle saggezze orientali.

Come ha scritto anni fa in un articolo Pio Filippani Ronconi, il “barone pazzo” andava medianicamente alla ricerca di una sapienza occulta da risvegliare, provocando gli eventi con un «senso magico del destino», che ben si inseriva in quella lotta apocalittica tra la luce e la tenebra che eresse il muro d’odio di cui rimase intriso tutto il secolo XX. Contro la tenebrosa sovversione che avanzava a valanga, Ungern-Sternberg volle dunque «evocare misticamente il principio opposto, quello solare, che segnava il suo stendardo».

Jean Mabire – in questo suo testo affascinante, che racchiude il segreto storico non della sola Russia, ma dell’intera Europa del Novecento – aggiunge di suo alcune memorabili pennellate descrittive. Come quando, nel corso di una drammatica conversazione con Ossendoswski in una iurta desolata, fa annunciare al barone la profezia: «Vedo già quell’orrore sul mondo: la morte degli individui e delle nazioni! Sotto i colpi del terrore o delle comodità, non fa differenza. Poi verrà il caos, il nulla. La fine della Storia». Ebbro e insieme lucido, capace di lampeggianti visioni, agitato da divinazioni e da sogni di dominio metafisico, il “barone pazzo”, sulla soglia della catastrofe e della finale vittoria sovversiva, si apriva dunque ad annunci apocalittici, rafforzando il suo alone di semidio. Qualcosa di cui le cronache riportano che fosse veramente circondato, almeno agli occhi dei suoi fanatici seguaci, come in un’aura di violento potere spirituale.

Oltre a questi tratti luciferini – nel senso del principio di luce condannato alla sconfitta – Ungern-Sternberg veicolava anche gli antichi miti tantrici delle affiliazioni iniziatiche. Mano militare dello Hutuktu di Urga – terza incarnazione di Maitreya, il Buddha venturo, dopo il Dalai Lama e il Pancet Lama –, Ungern-Khan riviveva la leggenda del “Re del Mondo”, il sovrano invisibile, e cercava febbrilmente di attuare le predizioni dell’agarttha Shambala, la “inafferrabile Terra degli Iniziati”. Tutto ciò, al fine di restaurare il grande ciclo cosmico scaturito dal Kalachakra, la “ruota del tempo”. Mabire, a un certo punto del suo racconto storico, descrive la cruda scena del dialogo tra la strega zigana e il barone baltico-ungherese: ai vaticini di morte della donna, rapita da possessione sciamanica, risponde l’uomo, ormai invasato al punto da ritenersi veramente il “dio della guerra” scaturito dalle profondità asiatiche: «Morirò presto! Ma che importa! Il mio corpo morirà, non il mio sogno… E nell’ultima battaglia, il Re del Mondo uscirà dal suo palazzo sotterraneo…». Sottesi a questi scenari letterariamente incisivi, c’erano viventi tradizioni di potere – e di potere metafisico – che ancora in quei decenni di rivolgimento avevano un loro ruolo anche politico, prima che tutto diventasse soltanto suggestivo richiamo culturale.

Nei pochi mesi in cui Ungern-Sternberg tenne il governo a Urga, dal febbraio al luglio 1921, prima di essere abbandonato dai suoi ultimi fedeli, quindi catturato, processato dai rossi e fucilato, effettivamente si verificò il singolare caso di una cerca reale di qualcosa di irreale. A metà strada tra il monaco guerriero, lo spietato persecutore del sovversivismo e l’ispirato evocatore di tradizioni ancestrali, Ungern-Khan adombrò una sorta di ribellione eurasista contro il mondo moderno, condotta sotto simboli solari. Dal punto di vista militare, la sua avventura non ebbe molta rilevanza. Ne ebbe una dal punto di vista dello stile caratteriale e spirituale.

Mabire rimarca che il generale-barone morì solitario e tradito: «Fino all’ultimo, rimase fedele all’unico uomo che avesse mai riconosciuto come capo: se stesso». Ma, secondo Filippani Ronconi, il suo destino si proiettò nella storia: «Nello stesso tempo… il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della Thule-Gesellschaft».

* * *

Tratto da Linea del 17 aprile 2009.


Luca Leonello Rimbotti

samedi, 01 mai 2010

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Firmata l’intesa, fra Mosca e Oslo, sui confini dell’Oceano Artico dopo 40 anni di insanabili contrasti

Andrea Perrone

Si è conclusa ieri la visita di due giorni del presidente russo Dmitrij Medvedev in Norvegia per rafforzare le relazioni, l’innovazione e la cooperazione energetica con Oslo.


medNorv.jpgAlla presenza di un folto gruppo di imprenditori e industriali il capo del Cremlino ha sottolineato che il suo Paese vuole migliorare la partnership strategica dell’energia con la Norvegia e trovare una via d’uscita alla disputa che contrappone Mosca e Oslo per le acque territoriali del Mare di Barents, i cui fondali possiedono vasti giacimenti di risorse energetiche.
La visita di Medvedev ha garantito anche il raggiungimento di uno storico accordo sul confine nel Mar Glaciale Artico, dopo 40 anni di insanabili contrasti. Ad annunciarlo è stato il premier norvegese, Jens Stoltenberg (nella foto con Medvedev) a Oslo, in una conferenza stampa congiunta con il presidente russo. “È un giorno storico - ha dichiarato Stoltenberg - abbiamo trovato la soluzione a una questione importante rimasta aperta tra Norvegia e Russia”. “Siamo vicini - ha aggiunto da parte sua Medvedev - e vogliamo cooperare”. Stoltenberg ha sottolineato che i due Paesi si sono accordati su tutto precisando che l’accordo è stato “ottimo e bilanciato”. “Questa soluzione - ha proseguito il primo ministro norvegese - è più di una linea di confine sotto l’Oceano. È per lo sviluppo di buone relazioni di vicinato”.
In gioco una zona di 175.000 chilometri quadrati posta tra l’arcipelago delle Spitzbergen (che appartengono alla Norvegia) e l’isola di Novaja Zemlija (di proprietà della Russia). Già dal 1978 è in vigore un accordo che consente a entrambi i Paesi di pescare in quell’area, ma la questione dei confini marittimi era rimasta incompleta. Una questione spinosa, anche perché gli esperti ritengono che nell’Artico si trovino enormi riserve di gas naturale e petrolio. La firma dell’accordo, da parte dei ministri degli Esteri di Oslo e Mosca, è giunto in serata prima della partenza di Medvedev per la Danimarca dove si recherà per una visita di due giorni (27-28 aprile).
Nel luglio 2007 Russia e Norvegia avevano già firmato un’intesa per delimitare le aree offshore del Varangerfjord nel Mare di Barents: questa volta hanno deciso di accordarsi su altri confini sempre nella stessa area, ricca di gas e petrolio. La Norvegia è il terzo esportatore mondiale di “oro nero” dopo l’Arabia Saudita e la Russia. Oslo possiede però anche abbondanti riserve di gas naturale ed è interessata al giacimento russo di Shtokman, situato nella parte orientale del Mare di Barents e allo sfruttamento di quello della penisola di Jamal, sempre in territorio russo. La compagnia norvegese Statoil, che controlla il 24% del pacchetto azionario, con l’accordo di ieri tra Mosca e Oslo, è riuscita a convincere la Russia a mettere in atto la realizzazione del progetto per lo sfruttamento del ricco giacimento di Shtokman, di cui Gazprom possiede un 51% e la società francese Total il 25 per cento. Il 13 luglio 2007 Gazprom e Total hanno firmato un accordo quadro per finanziare e realizzare le infrastrutture del giacimento. Il 25 ottobre dello stesso anno un’analoga intesa è stata siglata fra la compagnia di Stato russa e l’odierna Statoil norvegese. Il 21 febbraio 2008 è stato fondato un consorzio fra le tre compagnie a Zug, in Svizzera.
In serata poi Medvedev è giunto a Copenaghen dove nessun leader russo si è più recato dall’ultima visita di Nikita Krusciov, nel lontano 1964. L’attuale capo del Cremlino si incontrerà oggi con le massime autorità della Danimarca per discutere di accordi commerciali e investimenti danesi nel settori russi dell’energia e dell’agricoltura, nonché della sicurezza europea.


28 Aprile 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=1799

vendredi, 30 avril 2010

Moi, l'interprète de Staline

Staline.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Moi, l'inteprète de Staline

Valentin M. BERESCHKOW, Ich war Stalins Dolmetscher. Hinter den Kulis­sen der politischen Weltbühne, Univer­sitas, München, 1991, 517 S., DM 48, ISBN 3-8004-1228-4.

Parues dès 1949 sous le titre de Statist auf diplo­matischer Bühne  (Figurant sur la scène diplo­matique), les mémoires de l'interprète de Hitler, le Dr. Paul Schmidt constituent un ouvrage de référence majeur sur l'histoire du IIIième Reich et de sa politique étrangère, un ouvrage qui défie les années. On ne peut en dire autant des mé­moires que vient de publier l'interprète de Sta­line, Valentin M. Bereschkow (en graphie fran­­cisée: Berechkov). Celui-ci, né en 1916, est l'un des derniers survivants de l'entourage im­médiat du dictateur soviétique. Les pages qu'il consacre à son enfance et à sa jeunesse, ses étu­des et son service militaire dans l'armée rouge, sont pourtant très intéressantes et riches en in­formations de toutes sortes.

Par l'intermédiaire de ses supérieurs hiérar­chiques à l'armée, Berechkov est entré de plein pied dans le saint des saints de la grande poli­tique soviétique. Grâce à ses connaissances lin­­guistiques de très grande qualité, il est rapi­dement devenu l'un des collaborateurs les plus proches de Staline. Ce qu'il nous raconte à pro­pos du dictateur géorgien relève de la «pers­pec­tive du valet de chambre». Berechkov s'efforce en effet de présenter Staline comme un homme aimable, bon compagnon de tous les jours, in­ca­pable de faire le moindre mal à une mouche en privé. Berechkov confesse qu'il n'en croyait pas ses oreilles quand le pouvoir sovié­tique se mit à dénoncer les crimes de Staline à partir de 1956. C'est bien ce qui distingue l'ouvrage de Berech­kov des mémoires de Krouchtchev et de toutes les biographies conven­tionnelles de Staline...

Le livre de Berechkov nous révèle des anecdotes ou des secrets de première importance lorsqu'il aborde les tractations engagées par Staline avec Ribbentrop, Churchill ou Roosevelt. En fait, rien de tout cela n'est bien neuf mais est replacé sous un jour nouveau. Ce qui intéressera le lecteur en premier lieu sont évidemment les passages qui traitent du rapport entre Staline et l'Allemagne. Berechkov tient absolument à blanchir Staline; pour l'interprète, le dictateur soviétique ne sa­vait rien des préparatifs allemands d'envahir l'URSS à l'été 1941. Staline refusait d'ajouter foi aux avertissements dans ce sens. Quand l'atta­que s'est déclenchée, il en fut si choqué qu'il se retira du monde pendant dix jours, in­capable de prendre les décisions politiques et mi­litaires qui s'imposaient.

Berechkov défend donc Staline avec véhémence et insistance, ce qui est d'autant plus suspect que plus d'une analyse politique récente démontre que Staline avait en toute conscience adopté une «stratégie sur le long terme» (Ernst Topitsch), visant à faire basculer l'Union Soviétique dans la guerre. Berechkov cherche donc, selon toute vrai­semblance, à dépeindre un Staline «sau­veur de la Russie» dans la «grande guerre pa­trio­tique» quoique criminel sur le plan inté­rieur. Pour savoir ce qu'il en est exactement, il faudra attendre que soient enfin ouvertes au pu­blic les archives soviétiques. En attendant, les assertions de Berechkov doivent être accueillies avec circonspection.

Hans Cornelius.

(recension parue dans Junge Freiheit, März 1991).

 

jeudi, 29 avril 2010

Après Katyn: vers un axe Berlin-Varsovie-Moscou?

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Après Katyn : vers un axe Berlin-Varsovie-Moscou ?

Entretien avec Michel Drac par Jean-Michel Vernochet

Ex: http://www.geopolintel.fr/

Jean-Michel Vernochet - Quelles conséquences le tragique accident aérien de Katyn qui a couté la vie à l’élite polonaise d’obédience atlantiste, auront-elles sur les relations russo-polonaises ?

Michel Drac – À mon humble avis, ce n’est qu’une péripétie. L’évolution géopolitique de la Pologne, comme celle de n’importe quel État, est prédéterminée, en amont par des décisions gouvernementales relatives à un ensemble de contraintes économiques et stratégiques. Disons que le renouvellement forcé des élites polonaises va probablement accélérer les mutations futures du positionnement polonais, mais l’évolution de fond sera peu affectée. Ce n’est qu’une question de tempo.

JMV - Dans quel contexte faut-il interpréter l’amorce de rapprochement russo-polonais perceptible à Katyn ?

M.D - Depuis la chute de l’URSS, la stratégie atlantiste vise à encercler la Russie. Pour l’Alliance euratlantique il n’y a qu’un seul rival économique potentiel, la Chine, et une seule puissance géopolitique capable, en s’alliant avec Pékin, de définir un pôle de puissance rival de la puissance anglo-américaine au sein de la future gouvernance globale : la Russie. Il est donc essentiel, pour les élites de Washington (et de Londres) d’empêcher la Russie d’occuper une position centrale au sein d’une future économie continentale eurasiatique. Le point coaxial de cette grande stratégie atlantiste se trouve en Asie centrale (d’où la priorité accordée par Obama à l’Afghanistan), mais il existe une multitude de terrains secondaires (jusqu’au face-à-face Colombie – Venezuela). Une nouvelle guerre « très froide » oppose ainsi l’Organisation de Coopération de Shanghai (OCS) à l’OTAN, l’un des champs de bataille secondaires de cette nouvelle « guerre froide » étant bien entendu l’ancien glacis soviétique.

Là, il faut empêcher la Russie de reconstituer, sous des formes nouvelles, la zone d’influence moscovite (Ukraine, Biélorussie, Pays Baltes, Pologne, Balkans et Europe danubienne). Depuis la « libération » de l’Europe de l’Est, cette stratégie s’est développée suivant trois axes principaux : instrumentaliser un nouveau « Drang nach Osten » allemand vers l’Europe danubienne ; susciter des conflits dans les Balkans en réveillant des antagonismes ancestraux et ce afin de justifier une présence militaire OTAN désormais permanente ; mettre sous contrôle les ex-républiques soviétiques, soit par une colonisation économique et une mise en endettement systématique (Pays Baltes), soit par des « révolutions colorées » fabriquées par les réseaux Soros comme en Ukraine. Tout cela n’a d’ailleurs rien de vraiment original : c’est écrit en toutes lettres dans le Grand Échiquier (1997) de Zbigniew Brzezinski, tout comme dans les travaux du Project for a New American Century (1)…

Le centre de gravité de ce dispositif est-européen était jusqu’à présent la Pologne, allié des É-U. Varsovie, à la chute du mur de Berlin en 1989, a hérité d’un impressionnant passif historique. La Russie puis l’Union soviétique ont en effet mis la Pologne sous leur talon de fer. L’alliance russe, pour Varsovie, était à ce titre impensable jusqu’à présent. Symétriquement, l’entente avec Berlin est tout aussi difficile. Même si le parti des expulsés n’existe plus depuis longtemps au Bundestag (2), il reste le souvenir de l’épouvantable occupation 1939-1944. Varsovie a donc joué, sans aucun complexe et jusqu’à présent, depuis l’effondrement soviétique de 1991, la carte américaine : intégration dans l’OTAN, bouclier anti-missiles, et cætera…

En somme, deux histoires se superposent. Il y a d’un côté l’histoire contemporaine, celle où se livre une nouvelle guerre froide, structurée par les concepts-clefs de « guerre de quatrième génération » (guerre de l’information) et de « soft power », la méthode Soros. Une guerre froide qui oppose un empire en déclin, mais agressif (l’anglosphère), à une nouvelle nation, la Russie post-soviétique encore très fragile et dont le destin reste à écrire. Et il y a d’un autre côté le souvenir d’une histoire passée, celle de la Pologne, un pays martyr. Il semble qu’en allant à Katyn, Poutine ait voulu faire passer un message aux Polonais. Ce message, c’était : la nouvelle histoire n’est pas l’ancienne histoire, la nouvelle Moscou n’est pas l’ancienne Moscou, n’ayez pas une lutte anti-impérialiste de retard. À en juger par les réactions polonaises, le message a été reçu. Varsovie vient de comprendre que dans cette « nouvelle histoire » Moscou ne sera plus forcément le prédateur, notamment parce que l’influence au sens fort (le soft power, le pouvoir invisible), a remplacé la domination comme instrument prioritaire dans le cadre de la grande stratégie hégémonique des États-Unis.

JMV - Vous faites le lien à propos de l’évolution des rapports russo-polonais avec l’intensification des relations Berlin - Moscou…

M.D - L’Allemagne pratique, depuis sa défaite en 1945, une habile politique de « suivisme » : entre 1946 et 1962, elle devient l’usine modèle du Plan Marshall. Entre 1962 et 1968, elle joue la bascule entre De Gaulle et les Américains, avec le conflit soigneusement agencé, au sein même de la droite d’affaires, entre Ludwig Erhard et Franz-Josef Strauss. Après 68, elle prend acte de l’échec gaulliste et se transforme en poste avancé de la stratégie de détente initiée par les États-Unis pour piéger l’URSS. Après 1989, Berlin se laisse encore une fois instrumenter par les É-U en se faisant déléguer – sous-traiter dirait-on aujourd’hui – par son protecteur américain, la tâche de coloniser économiquement l’Europe centrale et danubienne. Mais à partir du « sacre » de Poutine à Moscou, une nouvelle ère commence. Pendant qu’en façade, Berlin reste le protectorat soumis de la puissance anglo-saxonne, dans les coulisses, le patronat allemand s’active. Tandis que l’économie ultra-financiarisée anglo-saxonne implose, un « groupe de travail stratégique germano-russe » lancé par Vladimir Poutine et Gerhard Schröder, accompagne le travail logistique de l’industrie allemande. Là encore, il s’agit de résumer des informations disponibles par ailleurs : les statistiques du commerce et de l’investissement allemand en Russie et dans les zone d’influence russe sont éloquentes, en Biélorussie, en Asie Centrale et ailleurs. L’arrivée au pouvoir de la très atlantiste Angela Merkel n’y a pas sur le fond changé grand-chose. Pour l’instant, le développement des liens germano-russes se poursuit dans l’ambiguïté et la pénombre médiatique. Difficile à dire jusqu’à quel point ce mariage morganatique sera toléré par les Atlantistes, lesquels comptent en profiter pour introduire le cheval de Troie allemand dans une économie russe bien verrouillée par le Kremlin, ou si, tout simplement, les intérêts économiques bien compris du patronat allemand, autrement dit un pur pragmatisme, l’emportent sur toutes autres considérations. Il faut observer ce mouvement avec attention, sachant qu’il peut avoir deux significations opposées, et que le Diable sera dans les détails… ou n’y sera pas. De ce point de vue, il n’est pas surprenant que Berlin laisse Moscou pousser ses pions en Pologne. Moscou, de son côté, a laissé le patronat allemand s’implanter largement en Biélorussie. L’Allemagne, dont l’économie a été reconfigurée depuis dix ans pour s’intégrer dans celle des pays émergents, est en train de s’intégrer structurellement au projet eurasiatique. L’économie mène ici la géopolitique… La péripétie polonaise n’est de fait qu’un épisode dans un mouvement d’ensemble. L’Eurasie s’organise pour pouvoir se passer outre les exigences de la thalassocratie anglo-américaine. C’est dans cette tendance lourde que Poutine a voulu inscrire les Polonais, dissipant les fantômes d’une autre histoire, dont les enseignements sont désormais caducs. En arrière-plan, la question du gazoduc baltique, bien sûr.

JMV -Pour nous Français, il s’agit d’une bonne ou d’une mauvaise nouvelle ?

M.D - Les deux. Bonne nouvelle, parce qu’avec un axe Berlin – Moscou, via Varsovie, en construction, l’étau où l’alliance germano-américaine nous avait enfermés depuis vingt ans se desserre. En tout cas une position d’atlantisme inconditionnel sera de plus en plus difficile à tenir pour Berlin, il lui faudra tôt ou tard faire des choix. Mauvaise nouvelle, parce que l’Allemagne se met en situation de renégocier à son avantage les rapports de force au sein de l’Union Européenne. Mais le bon l’emporte tout de même. Si le rééquilibrage allemand entre atlantisme et eurasisme doit se confirmer, une fois Merkel passée de mode, nos dirigeants retrouveront sans doute une marge de manœuvre. Reste à savoir s’ils l’utiliseront. Les électeurs français feraient bien d’y réfléchir, dans l’hypothèse où les élections présidentielles opposeraient Strauss-Kahn à Villepin, en 2012.

(1) Le Project for a New American Century (PNAC) était un think-tank néoconservateur, actif dans les années 90-2000, financé pour l’essentiel par les industries américaines de l’armement et qui regroupa, sous la présidence William Clinton, les hommes qui devaient constituer l’épine dorsale de la future Administration Bush. Le PNAC recommandait en particulier le renforcement de la présence militaire étatsunienne en Europe de l’Est et du Sud-Est, à la charnière de deux théâtres d’opération : face à la Russie (préoccupation des mondialistes) et face au monde musulman (préoccupation des pro-israéliens). (2) Le parti des expulsés a représenté, jusque dans les années 60, la dizaine de millions d’Allemands chassés de Prusse, Poméranie, Silésie et Sudètes, lors de la gigantesque épuration ethnique – aujourd’hui totalement oubliée - planifiée par les soviétiques avec la collaboration du 10 Downing street dans la foulée de leur victoire en 1945.

Michel Drac est économiste, auteur de « Crise ou coup d’Etat ? » et « Crise économique ou crise du sens ? », deux ouvrages qui analysent la dépression contemporaine comme le contrecoup de l’implosion occidentale.

Jean Michel Vernochet pour Geopolintel

mercredi, 28 avril 2010

D. Rogozine: Non au NATO-centrisme!

Dimitri Rogozine : « Non au NATO-centrisme et à l’encerclement de la Russie »

 

 

rogozin.jpgPour le numéro consacré à La Russie et le système multipolaire de la revue italienne Eurasia (Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici – http://www.eurasia-rivista.org/ ) une interview exclusive de Dimitri Rogozine, ambassadeur de la Fédération Russe à l’OTAN, par Tiberio Graziani et Daniele Scalea sur l’avenir de l’OTAN (« déchirée par des problèmes nationaux, financiers et idéologiques ») et de la coopération avec la Russie.

 

L’ambassadeur a critiqué la « Nato-centrisme » et relancé la proposition du  président russe Medvedev pour un accord sur la sécurité européenne qui « tourne vers l’extérieur tous les canons du continent », en empêchant l’irruption d’un nouveau conflit en Europe.

 

On y a évidemment abordé le thème de l’Afghanistan, aire dans laquelle la convergence d’intérêts entre Moscou et l’Alliance Atlantique est plus forte, bien que Rogozine n’ait pas épargné quelques traits contre l’OTAN. L’ambassadeur a de fait affirmé qu’on ne peut pas « évaluer positivement le bilan des activités de l’ISAF », et que si aujourd’hui les troupes atlantistes quittaient le pays, le régime de Karzaï  durerait moins que celui du communiste Najibullah après le retrait des soldats soviétiques. Une sortie hâtive de l’OTAN hors d’Afghanistan déstabiliserait l’Asie Centrale et poserait de « nouveaux défis » à la Russie, mais Rogozine a voulu préciser que l’appui de Moscou à l’Alliance atlantique n’est pas inconditionnel : l’ambassadeur s’est déclaré « extrêmement indigné » par la réticence de l’OTAN à détruire les cultures de pavot d’opium, dont dérive l’héroïne qui envahit la Russie ; réticence qui contraste avec les bombardements réguliers des bases de narcotrafiquants en Colombie. « N’est-ce pas parce que la cocaïne est dirigée vers les Etats-Unis et l’héroïne, par contre, vers la Russie ? »  se demande de façon rhétorique Rogozine, en précisant que la patience des Russes « a atteint ses limites ».

 

Enfin Rogozine a montré de l’inquiétude pour « la politique d’encerclement de la Russie avec des bases militaires au sud et à l’ouest » par les Usa, souhaité le renforcement du Traité de Sécurité collective qui lie la Russie à de nombreux autres pays ex-soviétiques, et critiqué l’ingérence de l’OTAN dans les questions concernant l’Arctique.

 

L’interview de 4 pages à l’ambassadeur Rogozine, qui a abordé bien d’autres thèmes encore, peut être lue en version intégrale sur le numéro 1/2010 de la revue de géopolitique Eurasia, consacré à La Russie et le monde multipolaire

 

Publié sur le site Eurasia, rivista di studi geopolitici

http://www.eurasia-rivista.org/3896/d-rogozin-no-al-nato-centrismo-ed-allaccerchiamento-della-russia

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

 

 

dimanche, 25 avril 2010

Michail Bulgakow: Hundeherz

heartdog.jpgMichail Bulgakow: Hundeherz

Claus M. WOLFSCHLAG

Ex: http://www.sezession.de/

Letztes Jahr weilte ich im Frühherbst in Lettland. Nachdem ich in einem Club in Riga ein Konzert der rührigen lettischen Reggae-Formation „Hospitalu iela“ erleben durfte, unterhielt ich mich backstage mit einem Bandmitglied, woraus sich in den Folgemonaten ein kleiner Schriftverkehr entwickelte. Der Musiker machte mich auf ein Werk des russischen Schriftstellers Michail Bulgakow aufmerksam: Hundeherz.

Das Werk ist eine frühzeitige, schonungslose Kritik am Sowjetkommunismus, in eine phantastische Groteske gekleidet. Die Geschichte spielt in Moskau im Winter 1924/25, also kurz nach Lenins Tod. Der erfolgreiche Schönheitschirurg Filipp Filippovich Preobrazhensky hat sich auch nach der Oktoberrevolution einen bürgerlichen Lebensstil bewahrt. Er wohnt weiterhin in einem einst eleganten Apartment-Haus mit Portier in einer edel eingerichteten 7-Zimmer-Wohnung mit angeschlossener Praxis, Köchin und Hausmädchen. Dem Druck des proletarischen Hauskomitees, die Wohnung zu verkleinern und Räumlichkeiten an zugeteilte Proletarier abzutreten, kann er sich durch seine guten Beziehungen zu Oberen der Parteihierarchie, die zu seinen Patienten gehören, entziehen.

Für seine Experimente gabelt er eines Tages einen halbverhungerten Straßenhund auf, den er mit seinem Assistenten wieder aufpeppelt. Dem Hund verpflanzt er schließlich operativ die Hypophyse und Hoden eines kürzlich verstorbenen Menschen, eines – wie sich herausstellt – einstigen Kriminellen und Alkoholikers. Dieses Experiment führt zu einem völlig unerwarteten Ergebnis. Der Hund verliert in den Folgetagen sein Fell, beginnt auf den Hinterbeinen zu gehen, bekommt zunehmend menschliche Züge und fängt schließlich zu sprechen an.

Nach einiger Weile hat Professor Preobrazhensky einen ausgewachsenen Menschen in seiner Wohnung, allerdings einen der unangenehmen Sorte. Nicht nur daß er keinerlei Tischmanieren hat, daß er sich ständig betrinkt, unflätig flucht und randaliert, er wächst auch zunehmend in das Gesellschaftssystem hinein. Das proletarische Hauskomitee sieht in dem Homunculus einen brauchbaren Genossen und beginnt mit der politischen Indoktrination. Bald singt Poligraf Poligrafovich Sharikov, wie sich der Hund alsbald nennt, Lieder gegen die Bourgeoisie, kritisiert die bürgerliche Lebensweise des Professors, fordert gleiche Rechte.

Poligraf Poligrafovich Sharikov macht dann gar noch Karriere im bürokratischen Apparat, wird Leiter einer Abteilung gegen streunende Tiere, hält Reden auf Parteiversammlungen, zu denen begeistert geklatscht wird, läßt seine Macht spielen, lügt und intrigiert. Als er schlußendlich Professor Preobrazhensky der konterrevolutionären Umtriebe denunziert, eskaliert die Lage.

Auch wenn Professor Preobrazhensky eine Rolle als „mad scientist“ zugewiesen wird, kann er teils als Verkörperung des Autors bewertet werden. Michail Bulgakow (1891-1940) war diplomierter Arzt und gilt als großer Satiriker der russischen Literatur. In den Wirren der russischen Bürgerkriegszeit nach dem Ersten Weltkrieg geriet er zwischen die Fronten, war erst medizinisch bei der Ukrainischen Republikanischen Armee tätig, desertierte dann und arbeitete in gleicher Funktion in der Roten Armee. Dann landete er bei den südrussischen Weißen Garden und bei tschetschenischen Kosaken. 1921 zog er nach Moskau, publizierte dort für Zeitschriften, veröffentlichte Prosastücke für eine in Berlin erscheinende Exilantenzeitung und schrieb Theaterstücke. Tiere dienten ihm als Figuren dazu, verschlüsselt Gesellschaftskritik zu üben.

bulg1926.gifBulgakow, mit einer Aristokratentochter verheiratet, lebte inmitten des Sowjetsystems auf einer der dort vorhandenen bürgerlichen Inseln, da das System weiterhin auf Vertreter der alten Intelligenz, auf Ärzte, Kulturschaffende, Wissenschaftler angewiesen war. Ab 1930 wurden die Werke Bulgakows nicht mehr veröffentlicht und keine Theaterstücke mehr aufgeführt. In mißlicher materieller Lage wandte er sich an die politische Führung, ihm entweder die Emigration oder eine Arbeit als Regie-Assistent zu verschaffen. Stalin persönlich rief Bulgakow, dessen Werke er offenbar mit Amusement selber gelesen hatte, an und versprach Hilfe. So arbeitete Bulgakow bis zu seinem Tod 1940 als Regie-Assistent und Übersetzer, unter anderem im Bolschoi-Theater.

Hundeherz war ebenso wie ein darauf basierendes Theaterstück 1926 verboten worden. Die Geschichte konnte deshalb erstmals 1968 in einer russischen Exilzeitung publiziert werden. Erst durch Glasnost und Perestroika unter Michael Gorbatschow war es möglich, das Buch 1987 auch in der Sowjetunion bekannt zu machen. 1988 konnte Vladimir Bortko den Stoff für das russische Fernsehen verfilmen, in einem seltsam antiquiert wirkenden Sepia-Stil.

Hundeherz ist eine Satire auf die utopischen Versuche, die menschliche Natur hin zu einem „Neuen Menschen“ zu verändern. Ein selbstherrlicher Wissenschaftler, der tiefgehend in die Natur eingreift, schafft unfreiwillig das neue Geschöpf. So wie Preobrazhensky für eine kauzig-versnobbte Bourgeoisie steht, so verkörpert der Homunculus Sharikov alle negativen Elemente des Proletariats. Vor allem die herrlichen Tischreden des Professors laden dazu ein, Bortkos Film anzusehen. Preobrazhensky beschwert sich erfrischend offen darüber, daß die ungehobelten Proletarier seine Perserteppiche verschmutzen, macht sich über eine Frau des Hauskomitees lustig, die sich wie ein Mann kleidet. Er verlautbart, daß er das mittlerweile tonangebende Proletariat nicht leiden könne, daß er es für den Verfall der guten Sitten und zunehmende Diebstähle verantwortlich macht. Er fragt rhetorisch, ob Karl Marx geschrieben hätte, daß man die Haupteingangstür seines Hauses zu schließen habe, um statt dessen nur noch den Hintereingang benutzen zu dürfen. Beim Essen erklärt er, daß man vor dem Diner keine bolschewistische Zeitung lesen solle, da dies auf den Magen schlage. Als sein Assistent ihn erinnert, daß es nur noch bolschewistische Zeitungen gäbe, antwortet er, daß man deshalb überhaupt keine Zeitung mehr lesen solle. In einem Experiment hätte er zudem nachweisen können, daß Leser der KP-Parteizeitung Pravda unter schwindenden Kniereflexen, Depressionen und Gewichtsverlust gelitten hätten.

Unfreiwillig wird Preobrazhensky aber dennoch zum Vollstrecker der kommunistischen Ideologie. Er schafft den „Neuen Mensch“ aus einem Hund. Warum solle man einen Menschen erschaffen wollen, wenn dies doch jede Frau auf natürliche Weise könne, fragt sich der Professor im Laufe der Handlung schließlich selbstkritisch. Der Homunculus nutzt die sozialen Verhältnisse hingegen rücksichtslos für seine Interessen und eine letztlich parasitäre Existenz. Appellen des autoritär auftretenden Professors, sich zu einem Kulturwesen zu verfeinern, entzieht er sich, um sich zum egoistischen Machtmenschen zu entwickeln. Er findet sich ein in ein Regime, in dem ein Hund reibungslos Karriere machen kann. Preobrazhensky und sein Assistent ahnen, welches menschenfeindliche Potential in diesem Geschöpf lauert und beschließen, rechtzeitig die Reißleine zu ziehen.

Manche Bilder des Films symbolisieren den beginnenden Verfall des kommunistischen Systems: bröckelnde Fassaden, löchrige Straßen, die Stromausfälle, die es, nach Aussage des Professors, zu zaristischer Zeit nicht gegeben hätte. Hinzu kommt die beginnende Ahnung des noch folgenden Terrors: Das aggressive Hauskomitee, das sozialen Druck gegen Besitzende im Privatbereich aufzubauen versucht, der Kult um die allumfassende Regelung durch die Bürokratie, die Kolonnen der Roten Armee, die Kampflieder singend durch die Straßen marschieren.

Ein außergewöhnliches Filmwerk der späten Sowjetunion, von ernstem Hintergrund und doch zugleich sehr heiter. Bei youtube ist es in mit englischen Untertiteln in 14 Teilen zu sehen.

vendredi, 23 avril 2010

Kirgisistan: eine "umgekehrte" Farbenrevolution?

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Kirgisistan: eine »umgekehrte« Farbenrevolution?

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Das entlegene zentralasiatische Land Kirgisistan wird von einem anscheinend sehr gut geplanten Aufstand gegen den post-sowjetischen Diktator, Präsident Kurmanbek Bakijew, erschüttert. Einiges deutet darauf hin, dass Moskau mehr als ein beiläufiges Interesse an einem Regimewechsel hegt und versucht, nach dem Muster der von Washington betriebenen Rosen-Revolution 2003 in Georgien oder der Orangenen Revolution 2004 in der Ukraine eine eigene Version einer »Farben-Revolution« zu inszenieren. Zumindest ist die Entwicklung von erheblicher strategischer Bedeutung für die militärische Sicherheit im Herzland, d.h. für China, Russland und andere Länder.

Die meisten Berichte über die Ereignisse der vergangenen Tage stammen von russischen Medien, die vermelden, der Premierminister habe gegenüber der von der Opposition ernannten Führerin der Übergangsregierung, Rosa Otunbajewa, seinen Rücktritt erklärt. Laut RIA Novosti hat die Opposition »die Lage im Griff«, Bakijew sei – so hieß es unmittelbar danach – an Bord seines Dienstflugzeugs mit unbekanntem Ziel aus der Hauptstadt geflohen.

Vordergründig war der Anlass für die Proteste die Entscheidung der bisherigen Regierung, die Tarife für Energie und Telekommunikation drastisch anzuheben; die Opposition warf der von den USA unterstützten autoritären Regierung Bakijew darüber hinaus zügellose Korruption vor.

Die vereinigten kirgisischen Oppositionsparteien verlangen jetzt den offiziellen Rücktritt des bisherigen Präsidenten Kurmanbek Bakijew und die Entlassung aller seiner entfernten Verwandten und Spießgesellen aus Regierungsämtern.

Das US-Außenministerium versucht verzweifelt, den Status Quo aufrecht zu erhalten und ruft die Opposition zur »Verhandlung« und zum »Dialog« mit der von den USA finanzierten Präsidentschaft Bakijew auf. Entgegen anderslautenden Meldungen erklärte das State Department, die Regierung von Präsident Kurmanbek Bakijew sei noch im Amt.

 

Geopolitische Bedeutung

Für Washington ist das winzige zentralasiatische und fünf Millionen Einwohner zählende Binnenland an der Grenze zu der politisch heiklen chinesischen Provinz Xinjiang von großer geopolitischer Bedeutung. Seit den Anschlägen vom 11. September 2001 unterhält Washington einen großen Luftwaffenstützpunkt in Kirgisistan, offiziell zur Unterstützung der Streitkräfte in Afghanistan. Militärisch gesehen verschafft dieser Militärstützpunkt mitten in Zentralasien dem Pentagon eine wichtige Ausgangsposition, denn von dort aus könnten Angriffe gegen China, Russland und andere Ziele geführt werden, einschließlich gegen Kasachstan, das sich zu einem zunehmend wichtigeren Energielieferanten für China entwickelt.

Bakijew war 2005 auf einer Welle von US-finanzierten Demonstrationen, denen man den Namen »Tulpen-Revolution« gab, an die Macht gekommen. Wie die Orangene Revolution von Washingtons handverlesenem Kandidaten Wiktor Juschtschenko in der Ukraine, der versprach, sein Land in die NATO zu führen, oder wie die Rosen-Revolution von Washingtons Zögling Michail Saakaschwili, war Bakijews Tulpen-Revolution von 2005 vom State Department finanziert und bis ins Detail inszeniert worden. Das Ganze ging so weit, dass die »Oppositions«-Zeitungen in einer mit amerikanischem Geld aufgebauten Druckerei gedruckt wurden.

Das Ziel der USA bestand darin, auch das Schlüsselland Kirgisistan in den eisernen Ring von US- und NATO-Stützpunkten zu integrieren, mithilfe dessen Washington die wirtschaftliche und politische Zukunft sowohl Chinas wie auch Russlands hätte diktieren können.

Der Rückschlag für die Orangene Revolution in der Ukraine bei den jüngsten Wahlen und die Wahl eines neutralen Präsidenten Wiktor Janukowitsch – der versichert hat, die Ukraine werde der NATO nicht beitreten – scheint nur der erste von vielen, im Stillen von Moskau unterstützten Schritten zu sein, um an der Peripherie zumindest wieder den Anschein von Stabilität zu erwecken.

Es ist nicht klar, in welchem Maß und ob überhaupt Washington in der Lage ist, den »eigenen« Mann, Bakijew, zu stützen. Gegenwärtig sieht es nach einer großen geopolitischen Niederlage für Washington in Eurasien aus. Wir werden die Lage weiter beobachten und darüber berichten.

 

Mittwoch, 14.04.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik

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mercredi, 21 avril 2010

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

di Tiberio Graziani

Fonte: eurasia [scheda fonte]

http://www.ilfaromag.com/sport/wp-content/uploads/2009/10/russia2.jpg


Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.

Considerazioni sullo scenario attuale

Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.

Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.

Gli attori egemoni

Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.

La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.

La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:

  1. le politiche di modernizzazione;

  2. le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;

  3. la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.

Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.

I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.

In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.

Gli attori emergenti

La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).

Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.

Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.

Gli inseguitori-subordinati e i subordinati

La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.

Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).

L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.

Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).

Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.

Gli esclusi

Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.

Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.

La riscrittura delle nuove regole

I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.

Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.

È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.

Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.

Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.

A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.

La centralità della Russia

La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.

Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.

Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa

Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:

  1. riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;

  2. contenimento delle spinte secessionistiche;

  3. uso “geopolitico” delle risorse energetiche;

  4. politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;

  5. costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;

  6. tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;

  7. costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).

Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.

La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).

Chiave di volta del nuovo ordine mondiale

In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.

Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo

Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.

Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.

****

1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.

2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.

3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.

5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.

6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.

7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.

10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.

11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.


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dimanche, 18 avril 2010

Tsarigrad ou le rêve brisé

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

Trouvé sur : http://www.polemia.com/campagne.php?cat_id=31&iddoc=664
[Visitez souvent le site de l’association “Polemia” de Jean-Yves Le Gallou!!]

Fabien de STENAY :

Tsarigrad ou le rêve brisé

"Je me répète lentement, pour bien m'en pénétrer, cette phrase mélancolique d'un vieux prince Bibesco : « La chute de Constantinople est un malheur personnel qui nous est arrivé la semaine dernière »." Com­me le montre la fin amère du fameux roman de Jean Raspail « Le Camp des Saints », la chute de Constan­tinople reste dans l'imaginaire européen symbole de fatalité, de perte irréversible et d'autant plus dou­loureuse. Pourtant, avec le reflux de l'Empire ottoman à partir du XVIIIe siècle, il s'en fallut de peu pour que la Seconde Rome revînt aux mains des Européens. Mais, comme souvent, ce fut la division de ceux-ci qui ruina tous les espoirs.

 

Dans l'Europe restaurée du Congrès de Vienne et de la Sainte Alliance, la Russie s'était assignée la mission de garantir l'ordre sur le continent.

 

Dès le début de son règne, le tsar Nicolas Ier (1825-1855) fit du contrôle des détroits - « les clefs de la maison » - le second objectif de sa diplomatie pour des raisons au moins autant mystiques que straté­gi­ques. La politique de grande fermeté qui suivit vis-à-vis de la Sublime Porte déboucha en 1828 sur une guerre. L'armée russe fut victorieuse, et l'avantageux traité d'Andrinople fut conclu le 14 septembre 1829 : la Russie obtenait les bouches du Danube, des territoires caucasiens, ainsi que le libre passage à travers les détroits pour ses navires marchands. Enfin, les provinces de Moldavie et de Valachie obte­naient leur autonomie et leur placement sous protectorat russe (tout en restant officiellement rattachées à l'Empire ottoman). Les armées du tsar approchaient des Balkans.

 

Toutefois, les principes arrêtés par Alexandre Ier restaient de vigueur : on se contentait d'affaiblir l'Em­pire ottoman, tout en maintenant son intégrité territoriale. Dès le début des années 1830, cette politi­que relativement modérée porta ses fruits : le sultan demanda en 1833 l'aide russe contre le soulèvement du pacha d'Egypte Mehmet Ali. En retour, un traité d'assistance mutuelle fut signé entre les deux Empi­res; une clause secrète interdisait à l'Empire ottoman d'ouvrir les Dardanelles aux bâtiments de guerre étrangers.

 

Les grandes puissances européennes, en premier lieu l'Angleterre, contestèrent le privilège accordé aux Russes, et un nouveau conflit turco-égyptien donna l'occasion d'un nouveau traité : la convention des Dé­troits, entre l'Autriche, la France, la Grande-Bretagne, la Prusse et la Russie, par laquelle les Britanniques obtinrent que les détroits soient interdits, en temps de paix, à tout navire autre que turc.

 

La Russie conservait toutefois des droits sur les populations chrétiennes de l'Empire ottoman, en parti­culier dans les Balkans.

 

Aussi, quand, en 1852, Napoléon III obtint la restitution de douze lieux saints de Palestine à l'Eglise ca­tholique qui les avait perdus en 1808 au profit de l'Eglise orthodoxe, la diplomatie russe perçut le succès français comme une menace. Au début de l'année suivante, le tsar proposa donc au gouvernement bri­tannique un plan de partage de l'Empire ottoman excluant Napoléon III : l'Egypte reviendrait à l'Angleterre tandis que la Russie obtiendrait les Principautés roumaines, la Serbie, la Bulgarie ainsi que le contrôle des détroits. Mais le projet ne pouvait qu'échouer : le tsar négligeait la force des ambitions françaises, et surtout l'hostilité des Anglais comme des Autrichiens à l'avancée russe dans les Balkans. Après une nouvelle guerre russo-turque et la destruction de la flotte ottomane le 30 novembre 1853 à Sinope, la France et l'Angleterre entrèrent en guerre contre le tsar. La guerre de Crimée se poursuivit pendant plus de deux ans et aboutit à une débâcle russe. Le nouveau tsar Alexandre II, à la tête d'une Russie en net recul, con­sacra alors une bonne partie de son énergie à réformer son Empire, et renonça pour le moment à son expansion balkanique.

 

Le climat des années 1870 renoua en partie avec celui qui suivit le Congrès de Vienne : en 1873, une al­liance des trois empereurs (Allemagne, Autriche-Hongrie, Russie) ayant pour but de préserver l'équilibre européen semblait rejouer la Sainte-Alliance.

 

Mais pour le tsar, cette place qui lui était donnée devait servir de tremplin à une nouvelle politique bal­kanique conforme à la poussée du nationalisme et du panslavisme dans l'opinion russe. Celle-ci avait en ef­fet commencé à s'engager passionnément dans la « question d'Orient » au nom de la cause panslave. Mos­cou, « troisième Rome », devait non seulement défendre les intérêts des minorités slaves et orthodoxes de l'Empire ottoman, mais aussi libérer ceux-ci du joug turc et reprendre pied à Constantinople. De plus en plus, la cité du Bosphore était désignée dans la langue russe sous le nom fortement connoté de Tsarigrad, « la ville des empereurs ». Des comités panslaves se formèrent dans les grandes villes (Mos­cou, Saint-Pétersbourg, Kiev, Odessa…), et nourrissaient leur idéologie par les écrits de plumes presti­gieuses, comme Danilevski ou Dostoïevski. Ce dernier écrivait par exemple dans le « Journal d'un écri­vain » : « Le chemin du salut exige que la Russie, et pour son propre compte, s'empare de Constantinople, car la Russie seule a le droit de dire qu'elle est à la hauteur de la tâche ». Certes, le gouvernement russe se méfiait de cette surenchère, mais elle contribua néanmoins au renforcement de l'engagement russe dans les Balkans, au moment même où les minorités orthodoxes de l'Empire ottoman se révoltèrent.

 

Le mouvement lancé en juillet 1875 par les paysans orthodoxes de Bosnie contre leurs seigneurs musul­mans se généralisa en effet à l'ensemble des Balkans.

 

Devant la féroce répression turque et l'entrée en guerre de la Serbie et du Monténégro, la Russie tint na­turellement à intervenir. Prudente, elle attendit la garantie de la neutralité autrichienne pour déclarer la guerre aux Ottomans, en avril 1877. L'engagement russe fut massif et, malgré la vive résistance tur­que, les troupes du Tsar entrèrent dans Andrinople, à 200 Km de Constantinople, en janvier 1878. Le 3 mars suivant, le traité de San Stefano entérinait la victoire de la Russie, qui obtenait de plus des terri­toires arméniens et roumains. L'Empire ottoman dut reconnaître formellement l'indépendance de la Ser­bie, du Monténégro, de la Roumanie, et accepter l'autonomie d'une grande Bulgarie englobant la Ma­cédoine.

 

Toutefois, ce traité bilatéral russo-turc, bien qu'il témoignât du dynamisme retrouvé de la politique bal­kanique russe, se heurta à l'hostilité des diplomaties autrichienne et anglaise qui voyaient d'un mauvais œil cette grande Bulgarie, vaste Etat slave client de la Russie. Les autorités russes durent bientôt ac­cepter le principe d'une conférence internationale; celle-ci se déroula à Berlin en juin et juillet 1878, sous l'égide du chancelier Bismarck et en présence des dirigeants européens de tout premier plan. La Russie dut renoncer à l'autonomie de la Grande Bulgarie et accepter que la Bosnie-Herzégovine fût occupée par l'Autriche-Hongrie. Malgré le dynamisme de la politique balkanique d'Alexandre II, la fin de son règne fut donc marquée par l'opposition virulente des Autrichiens et des Anglais, bientôt rejoints par l'Allemagne : en 1879, une nouvelle alliance, la Duplice, réunissait les Empires autrichien et allemand face à la Russie.

 

Le combat pour Tsarigrad restait toutefois une préoccupation au moins inconsciente de l'impérialisme russe. « Ce damné mirage de Constantinople », comme fait dire Soljénitsyne à l'un des personnages de «Novembre Seize», allait jouer un rôle dans les négociations qui menèrent à la Première Guerre Mon­diale et qui la rythmèrent.

 

En 1912, lors des guerres menées contre la Turquie par les Etats balkaniques, la Russie soutint ces der­niers en faisant bien comprendre à tous que la question constantinopolitaine était un domaine réservé du Tsar. Mais surtout, la mise en place de la Triple Entente impliquait un accord entre Saint-Pétersbourg et Londres : en 1905, la France avait en effet refusé de suivre les cousins Guillaume II et Nicolas II dans leur projet de grande alliance continentale, concocté à Björkö. Après cet échec, le réarmement naval de l'Allemagne inquiéta la Russie, qui, en 1907, n'eut d'autre choix que de suivre la France dans son alliance avec l'Angleterre, bien que cette dernière eût soutenu le Japon dans la guerre de 1904-1905. Mais malgré l'accord tacite de ses alliés à l'enlèvement de Constantinople aux Turcs, la Russie savait qu'elle ne pourrait faire admettre celui-ci aux Autrichiens qu'à la faveur d'une guerre victorieuse.

 

C'est donc après le déclenchement du conflit européen en août 1914 (la Russie ne déclara la guerre à la Turquie qu'en novembre) que commencèrent les manœuvres, militaires comme diplomatiques, autour de la Ville de Constantin.

 

En 1915, Anglais et Français montèrent l'opération des Dardanelles, en vue d'occuper Constantinople et de négocier sa remise à la Russie. Mais devant la résistance menée par Mustafa Kemal et le général allemand Liman von Sanders, l'offensive fut abandonnée après plusieurs mois meurtriers, et ce malgré l'épuisement imminent de l'armement turc: le retrait de l'amiral anglais De Robeck, commandant en chef de l'opéra­tion, stupéfia les Turcs qui ne pensaient pas pouvoir tenir plus longtemps ; il n'est pas impossible que la victoire ait été délibérément évitée. Mais ce n'est pas la dernière occasion manquée dans cette affaire.

 

À partir de la fin de 1916, des négociations secrètes furent ouvertes entre Vienne et Paris, par l'in­termédiaire des princes de Bourbon-Parme, frères de l'impératrice Zita et officiers dans l'armée belge. En février 1917, Charles Ier d'Autriche fit savoir qu'il était prêt à accepter, non seulement la restitution à la France de l'Alsace-Moselle (et même des places enlevées au second traité de Paris en 1815), au sujet de laquelle il fallait encore convaincre Guillaume II, ignorant tout de ces tractations, mais aussi la souve­raineté russe sur Constantinople : sans le soutien autrichien dans les Balkans, il était impossible aux Turcs de résister à une offensive de la Russie et de ses alliés. Le 24 mars, Charles Ier mit ses propo­sitions par écrit, celles-ci restant toutefois encore secrètes.

 

Mais le 31 mars 1917, Clemenceau convainquit le nouveau ministre des Affaires étrangères Ribot de rom­pre les pourparlers engagés par son prédécesseur Briand. Entre-temps, la révolution avait éclaté en Rus­sie, et celle-ci allait bientôt se retirer du conflit ; pendant que Lénine et Trotsky s'activaient en secret, Ribot trahissait les engagements de la France en révélant, aux Italiens d'abord, puis à tous, les propo­sitions autrichiennes. Les révolutionnaires de Petrograd et les radicaux de Paris mettaient fin à un vieux rêve en passe de s'accomplir.

 

Seuls de rares rêveurs espèrent encore que la Seconde Rome et Sainte-Sophie seront un jour libérées. En­core cet espoir n'est-il souvent guère plus qu'une illusion romantique.

 

Toutefois, il n'est pas exclu qu'un jour, peut-être plus proche qu'on ne l'imagine, l'Europe enfin unie ou tout du moins solidaire puisse récupérer l'antique cité fondée au VIIe siècle A.C. par les Grecs de Mégare, élevée au rang de capitale impériale par Constantin le Grand et phare de l'Europe orientale pendant un millénaire. Car si Nietzsche nous apprend que la volonté de puissance est un moteur de l'histoire, n'oublions pas pour autant combien peut être grande la puissance de la volonté.

 

Fabien de STENAY,

(10/10/2003 - © POLEMIA).

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samedi, 17 avril 2010

Il caso Némirovsky: vita, morte et paradossi di un'ebvrea antisemita

Il caso Némirovsky:
vita, morte e paradossi di un’ebrea antisemita

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 Cinque anni fa la Francia riscoprì all’improvviso una scrittrice che aveva dimenticato. Si chiamava Irène Némirovsky, era una russa di origine ebraica, era morta in un campo di concentramento nell’estate del 1942. Per un caso straordinario, le figlie avevano custodito fino a quel 2004 una valigia che conteneva la produzione letteraria materna, dattiloscritti, diari, appunti, e fra essi c’era il manoscritto del romanzo a cui Irène aveva lavorato dal giorno della disfatta bellica della Francia, giugno-luglio 1940, fino in pratica al momento in cui i gendarmi francesi si erano recati nella sua casa di campagna e l’avevano portata via. Suite française era il titolo scelto e per quanto nei piani della sua autrice esso prevedesse ancora un volume, relativo a come quel conflitto sarebbe finito, era omogeneo e a sé stante nelle due parti che lo componevano. Pubblicato a mezzo secolo di distanza, il romanzo ebbe un successo clamoroso, vinse dei premi, riportò alla ribalta il nome Némirovsky.

Anche in Italia il suo è stato un caso letterario. È Adelphi, infatti, l’editore che ne ha comprato i diritti e da Il ballo a David Golder, da Jézabel a Come mosche d'autunno a, appunto, Suite francese, ogni titolo si è rivelato un successo e ha contribuito a fare del suo autore uno dei più venduti e dei più citati. Poiché nel corso della sua vita Irène scrisse una decina di romanzi e una quarantina di racconti, il fenomeno è destinato a continuare nel tempo.

Adesso ancora Adelphi manda in libreria La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (traduzione di Graziella Cillario, pagg, 516, euro 23), uscita due anni fa in Francia da Grasset, una biografia molto ben documentata grazie alla quale del personaggio sappiamo praticamente tutto, compreso il forte tasso autobiografico della sua produzione, in pratica una sorta di reinvenzione artistica della sua famiglia, degli ambienti in cui visse, dei suoi gusti, delle sue passioni e dei suoi odii. E tuttavia, in questo saggio, così come nel successo che ha arriso a quanto finora è stato via via pubblicato, resta un elemento di ambiguità che nessuno si decide veramente a sciogliere e sul quale vale la pena di riflettere. Lo facciamo con tutta la delicatezza del caso, ma crediamo ne valga la pena.

Il fatto che la Némirovsky, intellettuale ebrea di origine, per quanto convertita al cattolicesimo, sia stata una vittima della «soluzione finale» hitleriana, potrebbe spiegare di primo acchito il perché di tanto interesse di pubblico e di critica: una sorta di risarcimento postumo per un nome che pure, negli anni Trenta, aveva goduto di risonanza, una sorta di mea culpa nei confronti di chi si era identificata con la Francia, la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, e dalla Francia in fondo era stata abbandonata e poi tradita... Nel 1929 David Golder, il suo romanzo d’esordio per Grasset, vendette 60mila copie, ebbe una riduzione teatrale e una cinematografica, quest’ultima per la regia di Julien Duvivier, che andò persino alla Mostra del Cinema di Venezia del 1932...

E però, se si va più a fondo, un po’ tutta la narrativa della Némirovsky è un susseguirsi di ritratti e di ambienti in cui la «razza ebraica», come si sarebbe detto un tempo, non appare nella sua luce migliore, ma è spesso e volentieri un concentrato di avarizia e di cupidigia, di odio e di crudeltà, di disordine sociale e morale, di incapacità e/o non volontà di assimilazione, di vera e propria «razza a parte» insomma, nemica a tutti e in fondo nemica anche a se stessa...

C’è di più: russa di nascita (Kiev, 1901), la Némirovsky fugge dal suo Paese nel momento in cui i bolscevichi prendono il potere: la sua famiglia appartiene alla buona borghesia degli affari, lei ha l’educazione classica di chi fra istitutrici e lezioni private non si mischia al contatto promiscuo delle scuole pubbliche, passa le vacanze sulla Costa Azzurra, soggiorna ogni anno a Parigi... È una «russa bianca», insomma, con un padre banchiere e finanziere, una madre che pensa soltanto alle toilettes e agli amanti, un treno di vita che l’esilio, prima in Finlandia, poi in Svezia, infine in Francia, non muta più di tanto: appartamento sulla Rive droite, in pratica affacciato sugli Champs Elisées, studi alla Sorbona, estati a Biarritz o a Dauville... L’anticomunismo, insomma, è un dato acquisito, qualcosa che Irène respira fin da ragazza: ha fatto in tempo a vedere lo scoppiare della rivoluzione, i processi sommari, i saccheggi e i massacri. Non lo dimenticherà mai.

Infine, c’è un altro elemento da aggiungere al puzzle finora composto e alla ambiguità che lo circonda. Nel suo decennio letterario la Némirovsky scrive in linea di massima per testate che appartengono al largo spettro della destra francese, ha Robert Brasillach fra i suoi critici più entusiasti, ma anche più avvertiti quanto alla sua arte, ai suoi pregi e ai suoi difetti, frequenta Paul e Hélene Morand... Non è una scrittrice di politica, certo, non si interessa più di tanto alle ideologie, certo, ma è naturaliter di quel mondo borghese, antiparlamentare, antidemocratico, anticomunista, con qualche simpatia per il fascismo, con molte perplessità sul nazionalsocialismo, nazionalista e quindi attento al suolo, al sangue, alla radici, che è il mondo della destra francese della prima metà degli anni Trenta.

La Némirovsky, insomma, faceva parte di quel milieu di ebrei antisemiti di cui oggi non si riesce quasi più ad avere un’idea, ma che fra le due guerre mondiali esistette e spesso fu intellettualmente maggioritario: un atteggiamento etico ed estetico, il disprezzo per l’oro e per l’usura, per chi era considerato un senza patria, per chi rimaneva chiuso nel suo piccolo mondo di tradizioni e di riti.

Siamo di fronte, dunque, a un destino particolarmente tragico perché la Némirovsky è, come dire, vittima dei suoi «amici», non dei suoi nemici. Nelle lettere che Michel Epstein, il marito, scriverà a Otto Abetz, il potente capo della cultura tedesca in terra di Francia, si sottolinea in fondo proprio questo: l’essere anticomunista, il non avere tenerezza per gli ebrei, il fatto che i suoi libri continuino a essere pubblicati, che insomma non sia nella lista nera degli scrittori da dimenticare... Non è nazista Irène, certo che no, e non può sapere quale tragedia politica e morale sarà il nazismo, e il suo iniziale credere in Pétain non vuol dire augurarsi sterminio da un lato, sudditanza dall’altro. Abituati a ragionare con la testa del presente sulla realtà del passato, si fa fatica a capire le scelte di campo, le motivazioni, le speranze e le illusioni. Irène non penserà mai di mettersi in salvo perché crede di essere già in salvo: fa parte dell’intellighentia, di una nazione che ama e difende i suoi scrittori, è legata da sentimenti di amicizia con intellettuali e politici che ora godono di un peso maggiore rispetto agli anni di pace, è, insomma, nella stessa barca dei «vincitori».
Perché dovrebbero buttarla a mare, perché le dovrebbero fare del male? È per questa ambiguità che non si salvò. È questa ambiguità che ancora oggi fa velo a cosa veramente fu la Francia (e non solo la Francia) di ieri.


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vendredi, 09 avril 2010

Pas d'Europe unie sans la Russie!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Pas d'Europe unie sans la Russie

 

Article de Vladimir Simonov,

commentateur politique de RIA-Novosti, 24 février 2004.

 

Les ultimatums posés à la Russie dans l'histoire contemporaine n'ont jamais aidé leurs auteurs à atteindre leurs objectifs.

 

La déclaration conjointe adoptée lundi à Bruxelles à la rencontre des chefs des diplomaties des pays membres de l'Union européenne rappelle beaucoup un ultimatum. L'Union européenne évoque devant la Russie les "graves conséquences" qu'entraînerait son refus d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération conclu en 1997 aux nouveaux pays qui adhéreront à l'UE le 1er mai.

 

Moscou souhaite revoir cet accord, car la Russie a des échanges commerciaux avec les pays d'Europe de l'Est, nouveaux membres de l'Union européenne en vertu de traités dont les délais n'expireront pas vers mai prochain, loin s'en faut.

 

L'UE s'y oppose catégoriquement. Selon la déclaration adoptée à Bruxelles, l'Accord de partenariat et de coopération doit s'étendre automatiquement aux nouveaux membres du club européen. Bruxelles laisse entendre par là que l'élargissement de l'Union européenne est une affaire intérieure de l'organisation et qu'elle le restera même si cela ne plaît pas à Moscou. Mais le problème est ailleurs: les belles formules de la "Stratégie générale de l'UE à l'égard de la Russie", document fondamental adopté en juin 1999 par le Conseil de l'Europe à Cologne, garderont-elles leur sens après l'élargissement de l'UE? Ce document mentionne maintes fois des objectifs stratégiques de l'UE comme "l'intensification de la coopération avec la Russie", la création d'une "Russie prospère", d'une "économie de marché florissante dans l'intérêt de tous les peuples de la Russie", etc.

 

Cependant, Bruxelles ne peut pas ne pas comprendre que l'extension automatique des normes de l'Accord de partenariat et de coopération à 10 nouveaux membres de l'UE portera un coup dur aux intérêts économiques de la Russie. Les dizaines de traités et d'accords commerciaux et économiques qui sont aujourd'hui en vigueur seront résiliés. L'exportation d'aluminium, de céréales, d'engrais chimiques et de combustibles nucléaires vers l'Europe centrale et en Europe de l'Est se heurtera à une multitude de facteurs négatifs.

 

Bref, selon les estimations des experts russes et occidentaux, l'élargissement d'après la variante que Bruxelles essaie d'imposer à Moscou causera à l'économie russe un préjudice d'au moins 300 millions d'euros, ce qui permet de juger des propos sur le souci de créer une "Russie prospère".

 

Il est à remarquer qu'en refusant à Moscou le droit de défendre ses intérêts contre les conséquences négatives de l'élargissement de l'UE, ses membres n'ont pas l'intention de sacrifier leurs propres droits à l'autodéfense.

 

Ainsi, 14 des 15 membres de l'Union européenne adoptent en hâte, ces derniers mois, toutes sortes de lois et de normes qui leur permettraient de réduire considérablement l'arrivée d'immigrés des pays qui adhéreront au club européen le 1er mai. La Belgique introduit des restrictions sur l'octroi des permis de travail qui seront en vigueur pendant les deux années suivant l'élargissement de l'UE, sans donner d'éclaircissements à ce sujet. L'Allemagne prévoit de prolonger ces restrictions jusqu'à 7 ans. Les Pays-Bas établissent le quota de 22 000 ouvriers immigrés par an pour ceux qui arrivent des pays d'Europe de l'Est. La Grande-Bretagne les prive de la plupart des allocations sociales.

 

Personne n'a l'intention d'étendre automatiquement aux nouveaux membres de l'Union européenne les règles conformes à la situation précédant le 1er mai 2004.

 

Se rendant compte de l'absence de logique des exigences présentées à Moscou d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération à 25 pays (aujourd'hui, il concerne 15 pays), Bruxelles veut noyer cette iniquité dans son mécontentement face à la politique intérieure des autorités russes.

 

Dans la même déclaration conjointe, les ministres des Affaires étrangères de l'UE rappellent la violation des droits de l'homme en Tchétchénie, "l'imperfection du système électoral russe", ils proposent à Moscou de ratifier dans les plus brefs délais le protocole de Kyoto sur le réchauffement du climat global et de récupérer les immigrés illégaux russes expulsés par les pays de l'UE.

 

Moscou connaît ses côtés faibles mieux que n'importe quel critique. La Russie est prête à accepter graduellement les valeurs européennes, mais, pour l'instant, elle déploie ses efforts principaux en vue de remplacer l'économie centralisée par l'économie de marché. La Russie traverse une période transitoire dramatique et voudrait compter sur la compréhension, la coopération et le partenariat de l'UE, et pas seulement sur les observations critiques formulées sur un ton sans appel à son adresse.

 

Pour l'instant, Moscou soupçonne de plus en plus que l'élargissement de l'Union européenne dans sa variante actuelle représente probablement une tentative de créer un espace européen sans la participation de la Russie, ou bien une zone géopolitique où le rôle réservé à la Russie serait secondaire, celui de pays de seconde zone.

 

Multipliant les prétentions et les exigences adressées à Moscou, Bruxelles méprise en même temps les intérêts nationaux de la Russie. L'exigence d'étendre automatiquement l'Accord de partenariat et de coopération aux nouveaux membres de l'UE ne fait que mettre en lumière un problème plus important. Le mémorandum du ministère russe des Affaires étrangères envoyé fin janvier à la Commission européenne en parle de manière plus détaillée. L'élargissement de l'Union européenne serait moins douloureux, laisse entendre ce document, si les milieux dirigeants de Bruxelles comprenaient mieux ce que la Russie veut obtenir de l'UE.

 

Elle ne veut rien d'extraordinaire et, d'autant moins, rien d'injustifié du point de vue des intérêts nationaux réels de la grande puissance européenne qui assure 36 % des livraisons de gaz et 10 % de celles de pétrole aux pays de l'UE.

 

La Russie voudrait participer plus dignement à l'adoption de décisions au sein de l'Union européenne, à plus forte raison après l'adhésion à cette organisation des pays d'Europe centrale et d'Europe de l'Est, ses partenaires économiques traditionnels. Moscou saluerait les tarifs commerciaux plus équitables de l'UE pour l'acier, les produits pharmaceutiques, le matériel aéronautique et les technologies nucléaires russes.

 

La Russie ne comprend pas non plus pourquoi l'Union européenne hésite à inviter l'Estonie, surtout la Lettonie, c'est-à-dire ses nouveaux membres, à garantir l'accès aux valeurs européennes pour la minorité russophone de ces pays, notamment la liberté d'étudier et de développer sa culture en langue maternelle.

Moscou compte sur une attitude moins indifférente de Bruxelles vis-à-vis du problème du transit de Kaliningrad et, dans un avenir prévisible, envers les voyages sans visas entre la Russie et l'UE.

 

Le problème principal se profile derrière cette avalanche de souhaits, de prétentions et de remarques critiques qui s'accroît dans les rapports entre la Russie et l'Union européenne: dans quelle mesure Bruxelles est-il prêt au partenariat stratégique réel, et non déclaratif, avec Moscou, partenariat décrit d'une manière si attrayante dans l'Accord de 1997 ? D'ailleurs, il ne faut pas oublier un axiome: il est impossible de créer la communauté paneuropéenne sans la présence de la Russie.

 

Vladimir SIMONOV.

mardi, 06 avril 2010

South Stream: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

»South Stream«: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Während Moskau inzwischen zahlreiche politische Hindernisse beim Bau der »Nord Stream«-Gaspipeline nach Greifswald in Deutschland überwinden konnte, konzentriert Washington seine geopolitische Strategie auf den Aufbau einer zweiten Front im russisch-amerikanischen »Pipelinekrieg«: eine durch die Türkei verlaufende südosteuropäische Konkurrenz-Pipeline namens »Nabucco«. Der Name ist von der berühmten Verdi-Oper entlehnt, die vom erzwungenen Exil des hebräischen Volkes unter dem babylonischen König Nebukadnezar handelt. Washington setzt sich ganz offen für das Projekt »Nabucco«-Pipeline ein. Moskau dagegen wirbt für das eigene Projekt, die »South Stream«, eine südeurasische Schwesterpipeline zur »Nord Stream« im nördlichen Teil Europas. Für beide Seiten steht enorm viel auf dem Spiel.

South_Stream_map.pngAm 12. Dezember 2009 gab die Regierung von Bulgarien – ehemaliges Mitgliedsland des Warschauer Pakts und heute NATO- und EU-Mitglied – bekannt, man werde sich ungeachtet erheblichen Drucks vonseiten Washingtons an Moskaus South-Stream-Projekt beteiligen.

Im Juni 2007 haben Gazprom und der italienische Energiekonzern ENI eine Absichtserklärung über Planung, Finanzierung, Bau und Betrieb der South Stream unterzeichnet. ENI, der größte italienische Industriekonzern, der in den 1950er-Jahren vom legendären Enrico Mattei gegründet worden ist, befindet sich teilweise in Staatsbesitz und ist seit Anfang der 1970er-Jahre in Gasgeschäften mit Russland tätig.

Der Offshore-Abschnitt der South Stream wird in einer Länge von ca. 550 Kilometern von der russischen zur bulgarischen Küste in einer Tiefe von bis zu zwei Kilometern durch das Schwarze Meer verlaufen; die volle Kapazität der Pipeline wird 63 Milliarden Kubikmeter, also mehr als die der Nord Stream, betragen.

In Bulgarien wird sich die South Stream in zwei Stränge teilen, der nördliche Strang verläuft über Rumänien, Ungarn und die Tschechische Republik nach Österreich, der südliche durch Bulgarien nach Süditalien. Die neue Gaspipeline soll 2013 in Betrieb genommen werden.

Gazprom hat vertraglich zugesichert, Italien bis 2035 mit Gas zu versorgen, South Stream ist dabei die wichtigste Lieferroute. Das Unternehmen South Stream AG, ein Joint Venture zu gleichen Teilen zwischen Gazprom und ENI, ist in der Schweiz eingetragen. Bisher hat Gazprom Transitabkommen für die Pipeline mit Serbien, Griechenland und Ungarn geschlossen. (1) Darüber hinaus hat das Unternehmen im Januar 2008 51 Prozent der Anteile des serbischen staatlichen Energiemonopolisten NIS aufgekauft, um sich die Präsenz in diesem Land zu sichern.

Welchen Druck Washington bezüglich der Beteiligung an der russischen South Stream auf Bulgarien ausübt, wurde daran deutlich, dass Bulgarien sich im Dezember 2009 auch zur Beteiligung an dem Nabucco-Projekt verpflichtet hat. Gegenüber der Presse kommentierte der bulgarische Regierungschef Boyko Borisov die doppelte Unterschrift: »Nabucco bedeutet für die Europäische Union eine Priorität, gleichzeitig kommt die russische South Stream sehr schnell vorankommt; fast täglich beteiligen sich weitere europäische Länder daran.« (2) 

Am 3. März 2010 hat die neue kroatische Regierung von Ministerpräsidentin Jadranka Kosor eine Vereinbarung mit dem russischen Ministerpräsidenten Wladimir Putin unterzeichnet, nach der die Pipeline über kroatisches Gebiet geführt werden darf. Ein neu gegründetes Joint Venture zu gleichen Anteilen wird den Bau ausführen.

Laut Kosor liefert die Vereinbarung »Über Bau und Nutzung einer Gaspipeline auf kroatischem Territorium« den rechtlichen Rahmen für die Beteiligung Kroatiens an South Stream und ermöglicht den beteiligten Parteien die Bildung eines Joint Ventures zu gleichen Teilen. Zwei Tage später schien der Zuspruch zu dem Gazprom-Projekt bereits lawinenartig gewachsen: die bosnische Republika Srpska kündigte an, auch sie werde sich an der South-Stream-Gaspipeline beteiligen. Sie schlägt den Bau einer 480 Kilometer langen Pipeline in Nord-Bosnien vor, die an die South Stream angeschlossen werden soll. Damit ist die Zahl der Länder, die entsprechende Verträge mit Gazprom unterzeichnet haben, auf sieben angewachsen. (3)

Zusätzlich zur bosnischen Republika Srpska sind mittlerweile Bulgarien, Ungarn, Griechenland, Serbien, Kroatien und Slowenien Partner von Gazprom. Das entspricht praktisch derselben Route über den Balkan wie bei der umstrittenen Bagdad-Bahn, die in den britischen Machenschaften, die letztendlich nach der Ermordung des österreich-ungarischen Thronfolgers Erzherzog Franz Ferdinand zum Ersten Weltkrieg führten, eine äußerst wichtige Rolle spielte. (4)

Die zentrale Frage der beiden konkurrierenden Pipelineprojekte South Stream und Nabucco ist nicht, wer das transportierte Gas kaufen wird. Wie bereits erwähnt, geht man allgemein davon aus, dass die Nachfrage nach Erdgas in Europa in den kommenden Jahren dramatisch steigen wird. Wichtiger ist die Frage, woher das Gas stammen wird, das die Pipeline füllt. Hier hat Moskau jetzt offensichtlich alle Trümpfe in der Hand.

Zusätzlich zu dem Gas, das direkt von den russischen Gasfeldern stammt, wird ein erheblicher Teil des durch die South Stream transportierten Gases aus Turkmenistan und Aserbaidschan kommen, ein weiterer Teil möglicherweise aus dem Iran. Im Dezember 2009 reiste der russische Präsident Dmitri Medwedew zur Unterzeichnung umfangreicher Vereinbarungen über eine Kooperation im Bereich Energie nach Turkmenistan.

Bis zum Zerfall der Sowjetunion im Jahr 1991 zählte Turkmenistan als Turkmenische Sozialistische Sowjetrepublik oder TuSSR zu den Teilrepubliken der Sowjetunion. Das Land grenzt im Südosten an Afghanistan, im Süden und Südwesten an den Iran, im Osten und Nordosten an Usbekistan, im Norden und Nordwesten an Kasachstan und im Westen an das Kaspische Meer. Bisher war die russische Gazprom der dominierende Wirtschaftspartner des Landes, in dem erst kürzlich neue Gasvorkommen bestätigt worden sind. Das Gas aus Turkmenistan ist für die Lieferkette von Gazprom sehr bedeutsam, und das bereits seit der Zeit, als Turkmenistan noch zur Sowjetunion gehörte und Teil der sowjetischen Wirtschaftsinfrastruktur war.

Als der »auf Lebenszeit gewählte Präsident« Saparmyat Nyasov, der auch als »Türkmenbaşy« oder »Führer der Turkmenen« bekannt war, im Dezember 2006 unerwartet verstarb, weckte dies in Washington die Hoffnung, den neuen Präsidenten Gurbanguly Berdimuhamedow von Russland lösen und unter amerikanischen Einfluss bringen zu können. Bislang allerdings ohne großen Erfolg.

Das Abkommen zwischen Medwedew und Berdimuhamedow vom Dezember umfasste neue Vereinbarungen über langfristige Lieferung von turkmenischem Gas an Gazprom, mit dem entweder die South-Stream-Pipeline direkt gefüllt werden oder die entsprechende Menge russischen Gases ersetzt werden soll – was bedeutet: Nabucco zieht den kürzeren.

 

Nabucco auf dem Trockenen …

Mit ihrer aktiven Pipeline-Diplomatie der vergangenen Monate setzen Russland und die Gazprom dem Nabucco-Projekt, der von Washington favorisierten Alternative, schwer zu. Mit der geplanten Nabucco-Pipeline soll die Region um das Kaspische Meer und der Nahe Osten über die Türkei, Bulgarien, Rumänien, Ungarn mit Österreich verbunden werden, und von dort aus sollen die Gasmärkte in Zentral- und Westeuropa beliefert werden. Bei einer Länge von ca. 3300 Kilometern würde sie von der georgisch-türkischen und/oder iranisch-türkischen Grenze nach Baumgarten in Österreich führen. Sie soll parallel zu der bereits bestehenden, von den USA unterstützten Ölpipeline Baku-Tiflis-Erzurum verlaufen und jährlich 20 Milliarden Kubikmeter Gas transportieren. Zwei Drittel der geplanten Pipeline würden über türkisches Gebiet verlaufen.

Nach seinem zweitägigen Ankara-Besuch im April 2009 sah es zunächst so aus, als habe US-Präsident Obama einen Sieg für Nabucco errungen, denn der türkische Ministerpräsident Erdogan willigte ein, das Projekt nach mehrjähriger Verzögerung im Juli 2009 mit seiner Unterschrift abzusegnen. Nabucco ist Teil der amerikanischen Strategie, die vollständige Kontrolle über die Energieversorgung nicht nur der EU-Länder, sondern ganz Eurasiens zu übernehmen. Die Pipeline wurde explizit so geplant, dass sie nicht über russisches Territorium führt; die Kooperation zwischen Russland und Westeuropa im Bereich Energie soll dadurch geschwächt werden. Diese bisherige Kooperation war ihrerseits ein maßgeblicher Beweggrund für die deutsche und französische Regierung, dem Druck aus Washington für die Aufnahme Georgiens und der Ukraine in die NATO nicht nachzugeben.

Heute steht die Zukunft von Nabucco in den Sternen, denn die russische Gazprom hat sich langfristige Verträge mit praktisch allen potenziellen Gaslieferanten für Nabucco gesichert. Nabucco sitzt also auf dem Trockenen. Deshalb werden jetzt Aserbaidschan, Usbekistan, Turkmenistan, Iran und Irak als potenzielle Lieferanten für Nabucco umworben.

Bisher war Aserbaidschan als Hauptgaslieferant für Nabucco vorgesehen. Die großen aserbaidschanischen Ölvorkommen hat sich ein anglo-amerikanisches Konsortium unter Führung der BP bereits gesichert, das unabhängig von Moskau Öl aus Baku am Kaspischen Meer nach Westen transportiert. Die Ölpipeline Baku-Tiflis-Ceyhan war ein wichtiges Motiv für Washington, 2004 die »Rosen-Revolution« in Georgien zu unterstützen, die den Diktator Micheil Saakaschwili an die Macht brachte.

Im Juli 2009 reisten Russlands Präsident Medwedew und Gazprom-Chef Alexei Miller gemeinsam nach Baku und unterzeichneten dort einen langfristigen Vertrag über den Kauf der gesamten Erdgasproduktion auf dem dortigen Offshore-Gasfeld Shah Denzi II, auf das auch die Planer von Nabucco spekuliert hatten. Aserbaidschans Präsident Alijew spielt anscheinend ein Katz-und-Maus-Spiel mit Russland auf der einen und mit der EU und Washington auf der anderen Seite. In der Hoffnung, dabei den höchstmöglichen Preis herauszuschlagen, versucht er, beide gegeneinander auszuspielen. Gazprom hat eingewilligt, den ungewöhnlich hohen Preis von 350 Dollar für 1.000 Kubikmeter Shah-Deniz-Gas zu bezahlen – eine offensichtlich politisch, nicht wirtschaftlich motivierte Entscheidung der Regierung in Moskau, die die Mehrheitsbeteiligung an Gazprom hält. (5) Anfang Januar 2010 gab die Regierung von Aserbaischan auch den Verkauf von einem Teil ihres Gases an den benachbarten Iran bekannt, ein weiterer Rückschlag für die Belieferung für Nabucco. (6)

Selbst wenn Aserbaidschan einwilligen sollte, Gas zu verkaufen und selbst wenn Nabucco dieses zu vergleichbaren Bedingungen wie Gazprom kaufen würde, so reichte das aserbaidschanische Gas alleine nach Auskunft von Branchenkennern nicht aus, die Pipeline zu füllen. Woher könnte das verbleibende Volumen kommen? Eine Möglichkeit wäre der Irak, die andere der Iran. Doch beides würde Washington, vorsichtig formuliert, gewaltige geopolitische Probleme bereiten.

Zurzeit ist nicht einmal ein Minimal-Abkommen zwischen der Türkei und Aserbaidschan über die Lieferung von aserbaidschanischem Öl in Sicht. Trotz der 2009 mit großer Fanfare bekannt gegebenen Entscheidung der türkischen Regierung, dem Nabucco-Projekt beizutreten, befinden sich die Gespräche zwischen der türkischen und aserbaidschanischen Regierung in der Sackgasse. Trotz wiederholter Interventionen vonseiten des amerikanischen Sondergesandten für eurasische Energiefragen, Richard Morningstar, ein Abkommen zustande zu bringen, sind die Gespräche derzeit noch immer blockiert. Washingtons Nabucco-Träume wurden zusätzlich getrübt, als die österreichische OMV, ein weiterer wichtiger Nabucco-Partner, Ende Januar gegenüber der Nachrichtenagentur Dow Jones erklärte, Nabucco werde nicht gebaut, wenn es keine ausreichende Nachfrage gebe. (7)

Auch andere in Washington ins Spiel gebrachte Optionen wären problematisch. Um beispielsweise irakisches Gas in die Nabucco-Pipeline einzuspeisen, müsste dieses auf irakischer und türkischer Seite über kurdisches Gebiet transportiert werden, was der jeweiligen kurdischen Minderheit eine willkommene neue Einkommensquelle bescheren würde – und das kommt in Istanbul gar nicht gut an. Den Iran hat Washington gegenwärtig als Gaslieferanten wegen der Spannungen über das iranische Atomprogramm nicht auf der Rechnung; wichtiger ist allerdings noch der enorme iranische Einfluss auf die Zukunft des Irak mit seiner mehrheitlich schiitischen Bevölkerung.

Usbekistan und Turkmenistan verfügen zwar beide über erhebliche Erdgasvorkommen, kommen jedoch politisch und geografisch schwerlich als Gaslieferanten für ein im Kern anti-russisches Projekt infrage. Ihre entfernte Lage bedeutet darüber hinaus enorme Kosten, denn dieses Gas wäre erheblich teurer als das vom Konkurrenten Gazprom über die South-Stream-Pipeline transportierte.

In klassischer Manier byzantinischer Diplomatie hat der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan sowohl Russland als auch den Iran eingeladen, sich an dem Nabucco-Projekt zu beteiligen. Laut RIA Novosti erklärte Erdogan: »Wir möchten, dass sich der Iran an dem Projekt beteiligt, wenn es die Bedingungen erlauben, und hoffen ebenfalls auf die Beteiligung Russlands.« Während Putins Besuch in Ankara im August 2009, also nur wenige Wochen nach der formellen Unterzeichnung des Nabucco-Vertrags mit den USA, gewährte die Türkei dem staatlichen russischen Erdgasmonopolisten Gazprom die Nutzung der territorialen Gewässer im Schwarzen Meer. Russland will die South-Stream-Pipeline nach West- und Südeuropa durch das Schwarze Meer führen. Im Gegenzug sagte Gazprom den Bau einer Pipeline vom Schwarzen Meer zum Mittelmeer über türkisches Gebiet zu. (8)

Anfang Januar 2010 bestärkte die türkische Regierung während eines zweitägigen Moskau-Besuchs von Ministerpräsident Erdogan, bei dem über Energie und die Süd-Kaukasus-Region gesprochen wurde, die entstehenden Bindungen an Russland. Washingtons Radio Liberty spricht von einer »neuen strategischen Allianz« zwischen den früheren erbitterten Gegnern im Kalten Krieg. Die Türkei ist schließlich auch Mitglied der NATO. (9)

Diese Entwicklung ist keine vorübergehende Modeerscheinung. In den Medien beider Länder ist von einer russisch-türkischen »strategischen Partnerschaft« die Rede. (10) Heute bildet die Türkei den größten Markt für den Export von russischem Öl und Gas. Beide Länder beraten auch über russische Pläne für den Bau des ersten Kernkraftwerks in der Türkei zur Deckung des dortigen Energiebedarfs. Der Handel zwischen beiden Ländern erreichte im vergangenen Jahr ein Volumen von 38 Milliarden Dollar; damit war Russland der größte Handelspartner der Türkei. Für die nächsten fünf Jahre wird eine Steigerung um etwa 300 Prozent erwartet, dementsprechend bildet sich in der Türkei eine solide und wachsende pro-russische Handelslobby. Die beiden Länder verhandeln derzeit konkret über weitere Handelsabkommen in Höhe von ca. 30 Milliarden Dollar, einschließlich des geplanten Kernkraftwerks in der Türkei sowie der Gaspipelines South Stream und Blue Stream zwischen Russland und der Türkei sowie einer Ölpipeline Samsun–Ceyhan von Russland an die türkische Mittelmeerküste. (11)

Doch den Nabucco-Befürwortern, besonders denen in Washington, droht noch manch anderer politische Sprengsatz: So verabschiedete das türkische Parlament zwar am 4. März 2010 ein Gesetz zum Bau der Nabucco-Pipeline, doch am selben Tag stimmte der Auswärtige Ausschuss des US-Repräsentantenhauses für eine nicht-bindende Resolution, in der die Morde an den Armeniern in der Zeit des Ersten Weltkriegs als Völkermord bezeichnet werden.

Sofort nach diesem Votum wurde der türkische Botschafter aus Washington zurückgerufen. Immerhin kann genau dieses Votum zu einer engeren Zusammenarbeit zwischen Moskau und Ankara in Fragen von beiderseitigem Interesse führen, South Stream eingeschlossen.

Die Europäische Union hat gerade ein drei Milliarden Dollar schweres Konjunkturpaket bewilligt, das auch 273 Millionen Dollar für Nabucco beinhaltet. Angesichts erwarteter Gesamtkosten von elf Milliarden Dollar bedeutet dieser Betrag nicht gerade eine überwältigende Unterstützung für Nabucco. Außerdem liegt das Geld bis zum endgültigen Start von Nabucco auf Eis, was darauf hindeutet, dass die EU-Länder weit weniger darauf erpicht sind als Washington, bei der riskanten Gegenstrategie Nabucco zu Moskaus South Stream mitzumachen. Die EU hat erklärt, das Geld werde für andere Zwecke verwendet, falls es zwischen den Nabucco-Befürwortern und Turkmenistan nicht innerhalb von sechs Monaten zu einer Einigung über die Gaslieferung käme.

Das zeitliche Zusammentreffen der Neutralisierung eines NATO-Beitritts der Ukraine mit dem Beginn des Baus der strategisch wichtigen Nord-Stream-Pipeline von Russland nach Deutschland sowie Russlands Pläne für die South-Stream-Gaspipeline hat die Nabucco-Pipeline, Washingtons Gegenmaßnahme, praktisch wertlos gemacht. Durch diese Entwicklungen ist gewährleistet, dass Russland wichtigster Energielieferant für Europa bleibt. In den vergangenen Jahren ist der Anteil russischer Energielieferungen nach Europa auf fast 30 Prozent aller Energieimporte gestiegen, beim Erdgas ist Russland sogar der wichtigste Lieferant. (12) Das Ganze hat weitreichende strategische und geopolitische Bedeutung, was Washington sicher nicht entgangen sein dürfte.

 

 

__________

(1) Gazprom, »Major Projects: South Stream«, unter http://old.gazprom.ru/eng/articles/article27150.shtml

(2) Trend, »Bulgaria ready to participate in both South Stream and Nabucco«, Baku, Aserbaidschan, 5. Dezember 2009, unter http://en.trend.az

(3) Olja Stanic, »Bosnian Serbs to join Russia-led gas pipeline«, Reuters, 5. März  2005, Banja Luka, Bosnien, unter http://in.reuters.com/article/oilRpt/idINLDE6241B920100305

(4) Mehr über diese faszinierende und fast vergessene Geschichte der deutsch-britischen imperialen Rivalität in Bezug auf die Bagdad-Bahn im Vorfeld des Ersten Weltkriegs siehe: F. William Engdahl, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung,  Kopp Verlag, Rottenburg, 3. Auflage 2008, S. 42ff. (Englische Originalausgabe: A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, Pluto Press, London 2004, pp. 22–28)

(5) Mahir Zeynalov, »Azerbaijan-Gazprom agreement puts Nabucco in jeopardy, Today’s Zaman« 16. Juli 2009, unter http://www.todayszaman.com/tz-web/sabit.do?sf=aboutus

(6) Saban Kardas, »Delays in Turkish-Azeri Gas Deal Raises Uncertainty Over Nabucco«, Eurasia Daily Monitor, Jhrg. 7, Heft 39, 26. Februar 2010

(7) Ebenda

(8) Rian Whitmore, »Moscow Visit by Turkish PM Underscores New Strategic Alliance«, Radio Liberty/Radio Free Europe, 13. Januar 2010, unter http://www.rferl.org/content/Moscow_Visit_By_Turkish_PM_Underscores_New_Strategic_Alliance/1927504.html

(9) Ebenda

(10) Faruk Akkan, »Turkey and Russia move closer to building strategic partnership«, RIA Novosti, 15. Januar 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_foreign_media/20100115/157554880.html

(11) RIA Novosti, »Russian delegation to discuss Turkey nuclear power plant plan«, Ankara, 18. Februar 2010, unter http://en.rian.ru/world/20100218/157927131.html

(12) Kommersant, »Nabucco's future depends on Turkmenistan«, Moscow, 9. März 2010, unter http://en.rian.ru/papers/20100309/158135872.html

 

Mittwoch, 31.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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lundi, 05 avril 2010

Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

dimanche, 04 avril 2010

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Russlands Position als wichtigster Energielieferant für Deutschland und die EU scheint gefestigt, die Orangene Revolution ist de facto rückgängig gemacht. Jetzt richtet sich die russische Politik vermehrt ostwärts auf den Energiebedarf des dortigen Kooperationspartners China, des ehemaligen Feindes in der Zeit des Kalten Krieges. Diese Entwicklung sorgt im Pentagon für Kopfschmerzen und schlaflose Nächte, denn hier wird Halford Mackinders schlimmster Albtraum wahr – die friedliche wirtschaftliche Vereinigung der Region, die er das Herzland der Weltinsel nannte.

Moskau orientiert sich gen Osten

gaz-russe-via-ukraine.jpgEnde 2009 hat Moskau genau zum geplanten Zeitpunkt und zur großen Überraschung Washingtons nach vierjähriger Bauzeit die Ostsibirien-Pazifik-Pipeline (East Sibiria Pacific Ocean, ESPO) in Betrieb genommen. Der Bau der Ölpipeline hat etwa 14 Milliarden Dollar gekostet. Sie ermöglicht Russland nun den direkten Export von Öl aus den ostsibirischen Feldern nach China sowie nach Südkorea und Japan – ein großer Schritt zu einer engeren wirtschaftlichen Integration zwischen Russland und China. Die Pipeline verläuft zum etwas nördlich der chinesischen Grenze gelegenen Ort Skoworodino am Fluss Bolschoi Newer. Dort wird das Öl für den Transport zum Pazifikhafen Kozmino in der Nähe von Wladiwostok zurzeit noch auf Eisenbahntankwagen umgeladen. Allein der Bau dieser Station hat zwei Milliarden Dollar gekostet. Dort können täglich bis zu 300.000 Barrel Rohöl verladen werden. Das Öl, das von vergleichbarer Qualität ist wie die im Nahen Osten geförderten Sorten, dominiert mittlerweile den Markt in der Region. Der russische staatliche Pipelinemonopolist Transneft hat noch einmal zwölf Milliarden Dollar in die 2.700 Kilometer lange Pipeline durch die ostsibirische Wildnis investiert, die eine Verbindung zu den verschiedenen, von den russischen Großunternehmen Rosneft, TNK-BP und Surgutneftegaz erschlossenen Ölfelder in der Region herstellt.

Der Anschluss zum Endhafen Kozmino soll 2014 fertiggestellt sein, der Bau verschlingt noch einmal zehn Milliarden Dollar. Die Gesamtpipeline hat dann eine Länge von 4.800 Kilometern, das ist mehr als die Strecke von Los Angeles nach New York. Darüber hinaus haben sich Moskau und Peking auf den Bau eines Abzweigs von Skoworodino nach Daqing in der nordostchinesischen Provinz Heilongjiang geeinigt. Die Provinz ist das Zentrum der chinesischen petrochemischen Industrie, dort findet sich auch das größte Erdölfeld in China. Nach der Fertigstellung werden pro Jahr etwa 80 Milliarden Tonnen sibirisches Öl über die Pipeline transportiert und 15 Milliarden Tonnen über einen weiteren Abzweig aus China.

Welche Wichtigkeit man im energiehungrigen China dem russischen Öl beimisst, zeigt sich daran, dass China Russland ein Darlehen über 25 Milliarden Dollar gewährt hat, als Gegenleistung für Öllieferungen in den nächsten zwei Jahrzehnten. Im Februar 2009, als der Ölpreis von seinem vorherigen Höchststand von 147 Dollar pro Barrel innerhalb weniger Monate auf 25 Dollar pro Barrel gefallen war, standen der russische Rosneft-Konzern und der Pipeline-Betreiber Transneft kurz vor dem Zusammenbruch. Peking reagierte damals sehr schnell und sicherte sich die künftige Lieferung von Öl aus den sibirischen Feldern: Die staatliche Chinesische Entwicklungsbank bot Rosneft und Transneft Darlehen in Höhe von zehn bzw. 15 Milliarden Dollar an, insgesamt also eine Investition über 25 Milliarden Dollar für den beschleunigten Bau der Pazifik-Pipeline. Russland versprach seinerseits die Erschließung weiterer neuer Felder sowie den Bau des ESPO-Abschnitts nach Daqing von Skorowodino bis zur chinesischen Grenze, eine Entfernung von knapp 70 Kilometern. Außerdem werden mindestens 300.000 Barrel Öl der sehr gefragten schwefelarmen Sorte Sweet Crude an China geliefert. (1)

Jenseits der russischen Grenze, auf der chinesischen Seite, will Peking eine eigene knapp 1.000 Kilometer lange Pipeline nach Daqing bauen. Das chinesische Darlehen wurde mit sechs Prozent Zinsen vergeben, das russische Öl müsste also für 22 Dollar pro Barrel an China verkauft werden. Heute liegt der Ölpreis international wieder bei durchschnittlich 80 Dollar pro Barrel – China macht also wirklich ein sehr gutes Geschäft. Anstatt nun über den vereinbarten Preis neu zu verhandeln, ist man in Moskau offensichtlich zu der Erkenntnis gekommen, dass der strategische Vorteil der Verbindung mit China den möglichen Einnahmeverlust wettmacht. Man behält sich die Preisfestsetzung für das restliche Öl vor, das durch die ESPO-Pipeline bis zum Pazifik zu anderen asiatischen Märkten fließt.

Während die Energiemärkte in Westeuropa die Aussicht auf relativ stabile Nachfrage bieten, boomen die Märkte in China und ganz Asien. Deshalb orientiert sich Moskau deutlich gen Osten. Ende 2009 hat die russische Regierung einen umfassenden Energiebericht mit dem Titel Energy Blueprint for 2030 (zu Deutsch: Energieplan für 2030) herausgegeben. Darin werden umfangreiche inländische Investitionen in die ostsibirischen Ölfelder gefordert, es ist die Rede von einer Verschiebung der Ölexporte nach Nordostasien. Der Anteil der russischen Exporte in die Asien-Pazifik-Region soll von acht Prozent im Jahr 2008 im Verlauf der nächsten Jahre auf 25 Prozent steigen. (2) Das hat sowohl für Russland als auch für Asien, besonders für China, bedeutende Konsequenzen.

China hat Japan bereits vor einigen Jahren als zweitgrößter Öl-Importeur nach den Vereinigten Staaten überholt. China misst der Frage der Energiesicherheit große Bedeutung bei, deshalb ist Ministerpräsident Wen Jiabao soeben zum Leiter eines ressortübergreifenden Nationalen Energierats ernannt worden, der Chinas Energiepolitik koordinieren soll. (3)

 

Russland beginnt mit der Lieferung von LNG-Gas nach Asien

Wenige Monate vor Fertigstellung der ESPO-Ölpipeline zum Pazifik hat Russland mit der Lieferung von Flüssig-Erdgas (Liquified Natural Gas, LNG) innerhalb des Projektes Sachalin-II begonnen, einem Joint Venture unter Führung von Gazprom, an dem auch die japanischen Konzerne Mitsui und Mitsubishi sowie die britisch-niederländische Shell beteiligt sind. Russland sammelt mit dem Projekt unschätzbar wichtige Erfahrungen auf dem sehr schnell wachsenden LNG-Markt, d.h. einem Markt, der nicht auf den Bau langfristig festgelegter Pipelines angewiesen ist.

China macht auch anderen Ländern der ehemaligen Sowjetunion Offerten, um sich künftige Energielieferungen zu sichern. Ende 2009 wurde der erste Abschnitt der Zentralasien-China-Pipeline, die auch als Turkmenistan-China-Pipeline bekannt ist, fertiggestellt. Sie befördert Erdgas aus Turkmenistan über Usbekistan nach Südkasachstan und verläuft parallel zu der bereits bestehenden Pipeline Buchara–Taschkent–Bischkek–Almaty. (4)

In China schließt die Pipeline an die bestehende West-Ost-Gaspipeline an, die quer durch das Land verläuft und weit entfernt gelegene Städte wie Schanghai und Hongkong versorgt. Etwa 13 Milliarden Kubikmeter sollen 2010 über diese Pipeline transportiert werden, die Menge soll bis 2013 auf über 40 Milliarden Kubikmeter steigen. Später soll über diese Pipeline mehr als die Hälfte des chinesischen Erdgasverbrauchs gedeckt werden.

Es war die erste Pipeline, über die Gas aus Zentralasien nach China gebracht wurde. Die Pipeline aus Turkmenistan, die 2011 in Betrieb genommen werden soll, wird mit einem aus Westkasachstan kommenden Strang verbunden. Sie wird Erdgas von mehreren kasachischen Feldern nach Alashankou in der chinesischen Provinz Xingjiang befördern. (5) Kein Wunder, dass die chinesischen Behörden alarmiert waren, als im Juli 2009 Unruhen unter den dort lebenden ethnischen Uighuren ausbrachen. Die chinesische Regierung beschuldigte den in Washington ansässigen Weltkongress der Uighuren und dessen Vorsitzende Rebiya Kadeer, den Aufstand angezettelt zu haben. Der Weltkongress unterhält angeblich enge Verbindungen zu der vom US-Kongress unterstützten und mit Regimewechseln erfahrenen Nicht-Regierungs-Organisation National Endowment for Democracy. (6) Xinjiang wird für den künftigen Energiefluss in China immer wichtiger.

Entgegen den Behauptungen einiger westlicher Kommentatoren stellt die Turkmenistan-China-Pipeline keineswegs eine Bedrohung für Russlands Energiestrategie dar. Sie festigt vielmehr die wirtschaftlichen Verbindungen zu den Mitgliedsländern der Shanghai Cooperation Organization (SCO). Gleichzeitig wird darüber ein erheblicher Teil des Gases aus Turkmenistan nach China transportiert, der sonst über die von Washington favorisierte Nabucco-Pipeline geflossen wäre. Aus geopolitischer Sicht kann dies für Russland nur von Vorteil sein, denn ein Erfolg von Nabucco würde für Russland erhebliche Einbußen an wirtschaftlichem Einfluss bedeuten.

Die 2001 von den Staatschefs Chinas, Kasachstans, Kirgisistans, Russlands, Tadschikistans und Usbekistans in Shanghai gegründete SCO hat sich mittlerweile zu Mackinders schlimmsten Albraum entwickelt – in ein Instrument enger wirtschaftlicher und politischer Kooperation zwischen den Schlüsselländern Eurasiens, unabhängig von den Vereinigten Staaten. In seinem 1997 erschienenen Buch The Grand Chessboard (deutscher Titel: Die einzige Weltmacht: Amerikas Strategie der Vorherrschaft) hat Brzezinski unverblümt erklärt: »… lautet das Gebot, keinen eurasischen Herausforderer aufkommen zu lassen, der den eurasischen Kontinent unter seine Herrschaft bringen könnte und damit auch für Amerika eine Bedrohung darstellen könnte. Ziel dieses Buches ist es deshalb, im Hinblick auf Eurasien eine umfassende und in sich geschlossene Geostrategie zu entwerfen.« (7) Später schreibt er warnend: »Von nun an steht Amerika vor der Frage, wie es mit regionalen Koalitionen fertig wird, die es aus Eurasien herauswerfen wollen und damit seinen Status als Weltmacht bedrohen.« (8)

Nach den Ereignissen vom September 2001, die viele russische Geheimdienstexperten nicht für das Werk einer Gruppe von bunt zusammengewürfelten muslimischen Al-Qaeda-Fanatikern halten wollten, hat die SCO genau die Gestalt einer ernsten Bedrohung angenommen, vor der der Mackinder-Schüler Brzezinski gewarnt hat. Bei einem Interview mit The Real News bemängelte Brzezinski jüngst auch das Fehlen einer kohärenten Eurasien-Strategie bei der Regierung Obama, vor allem in Afghanistan und Pakistan.

 

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(1) Greg Shtraks, »The Start of a Beautiful Friendship? Russia begins exporting oil through the Pacific port of  Kozmino«, Jamestown Foundation Blog, Washington D.C., 11. Dezember 2009, unter http://jamestownfoundation.blogspot.com/2009/12/start-of-beautiful-friendship-russia.html

(2) Ebenda

(3) Moscow Times, »Putin Launches Pacific Oil Terminal«, 29. Dezember 2009, unter http://www.themoscowtimes.com

(4) Zhang Guobao, »Chinese Energy Sector Turns Crisis into Opportunities«, 28. Januar 2010, unter www.chinadaily.com.cn

(5) Isabel Gorst, Geoff Dyer, »Pipeline brings Asian gas to China«, Financial Times, London, 14. Dezember 2009

(6) Reuters, »China calls Xinjiang riot a plot against its rule«, 5. Juli 2009, unter http://www.reuters.com/article/idUSTRE56500R20090706

(7) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and It's Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1998 (Paperback), p. xiv. Deutsche Ausgabe: Die einzige Weltmacht – Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Beltz Quadriga Verlag, Weinheim und Berlin 1997, S. 16

(8) Ebenda, S. 86f.

 

Donnerstag, 01.04.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mercredi, 31 mars 2010

Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

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Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am 14. Februar 2010 hatte die Wahlkommission der Ukraine Viktor Janukowytsch in der heiß umkämpften Stichwahl für das Amt des Staatspräsidenten zum Sieger erklärt. Seine unterlegene Gegnerin ist Julija Tymoschenko, die ehemalige Premierministerin und Galionsfigur der Orangenen Revolution. So sehr sich Washington jetzt auch bemüht, den Ereignissen etwas Positives abzugewinnen, sie bedeuten definitiv das Ende der einst umjubelten »Orangenen Revolution«. – Nun fragt sich, was dieses Scheitern der Orangenen Revolution in der Ukraine zum jetzigen Zeitpunkt für die Zukunft des Eurasischen Herzlandes – so bezeichnete der britische Geopolitiker Halford Mackinder einst diese Region – bedeutet. Noch wichtiger ist die Frage, was es für das Pentagon bedeutet, das seit 20 Jahren unentwegt versucht, gemäß dem gefährlichen und überehrgeizigen Plan der sogenanntenFull Spectrum Dominance Russland als Militärmacht zu schwächen, letztendlich sogar auszuschalten.

Um die langfristige Bedeutung der Wahl in der Ukraine für die globale geopolitische Balance zu verstehen, sollten wir die Orangene Revolution von 2004 noch einmal Revue passieren lassen. Damals war Viktor Juschtschenko der handverlesene Kandidat Washingtons, insbesondere der Neokonservativen im Umfeld der Bush-Regierung, die bemüht waren, die historischen und wirtschaftlichen Verbindungen der Ukraine zu Russland zu kappen und das Land gemeinsam mit dem Nachbarland Georgien in die NATO aufzunehmen.

 

Die wirtschaftliche und politische Geografie der Ukraine

Ein Blick auf die Landkarte zeigt die strategische Wichtigkeit der Ukraine, und zwar sowohl für die NATO als auch für Russland. Im Osten grenzt das Land direkt an Russland, außerdem verlaufen russische Gaspipelines nach Westeuropa über ukrainisches Gebiet. Über diese Pipelines werden rund 80 Prozent des exportierten russischen Gases transportiert, die Russland lebenswichtige Einnahmen – in Dollar – bringen.

Um eine wirksame Verteidigung gegen die wachsende Einkreisung des russischen Territoriums durch die NATO aufrechterhalten zu können, ist Russland ebenso dringend auf die Nutzungsrechte für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol angewiesen, den Heimathafen der russischen Schwarzmeerflotte. Gemäß einem russisch-ukrainischen Abkommen nutzt die Flotte außerdem noch den Hafen Odessa. Dieser wichtige bilaterale Vertrag über die Nutzungsrechte der Schwarzmeerflotte läuft, sofern er nicht verlängert wird, 2017 aus. Nach dem russisch-georgischen Konflikt im August 2008 hatte der ukrainische Präsident Juschtschenko laut über eine vorzeitige Beendigung des Vertrages nachgedacht, was Moskau seiner strategisch wichtigsten Marinebasis beraubt hätte. Die russische Marine nutzt Sevastopol, seit Russland 1783 die gesamte Region annektiert hat.

In der an Russland grenzenden Ost-Ukraine leben über 15 Millionen Russen, dieses Gebiet ist dank seiner äußerst fruchtbaren Böden noch immer buchstäblich der Brotkorb für Osteuropa. 2009 war die Ukraine nach den USA und der EU noch vor Russland und Kanada der drittgrößte Getreideexporteur der Welt. (1) Die berühmte schwarze Erde der Ukraine, Chernozem, gilt als fruchtbarster Boden der Welt, man findet sie auf zwei Dritteln der Fläche des Landes. (2) Die Region in der Umgebung der Flüsse Dnjepr und Dnjestr ist das einzige Gebiet auf der Welt, in dem die sogenannte »süße« schwarze Erde eine Breite von 500 Kilometern erreicht. Der Boden gehört zu den größten Reichtümern des Landes, weil er sehr gute Ernten garantiert. Westliche Agrobusiness-Unternehmen wie Monsanto, Cargill, AMD und Kraft Foods lecken sich angeblich angesichts der Aussichten auf ein Ende der internen politischen Pattsituation in der Ukraine in der Hoffnung auf satte Gewinne aus dieser Region bereits die Finger. (3)

Das Gebiet Donetzk im östlichen Donezbecken oder Donbass ist die politische Basis des neu gewählten Präsidenten Janukowytsch. Es ist die bevölkerungsreichste Region der Ukraine und das Zentrum der Kohle-, Stahl- und Metallindustrie, ferner gibt es Wissenschaftszentren und Universitäten. Die Kohle-, Gas- und Ölvorkommen im ukrainischen Donbass-Becken werden auf 109 Milliarden Tonnen geschätzt.

Insgesamt zählt die Ukraine zu den Gebieten mit den reichsten Rohstoffvorkommen in ganz Europa. Die großen Granit-, Graphit- und Salzvorkommen bilden eine reiche Quelle für die Metall-, Porzellan- und chemische Industrie, die Keramikwaren und Baumaterialien herstellen. (4)

Kurz: die Eroberung der Ukraine im Jahr 2004 bedeutete für Washington einen Gewinn von höchster strategischer Bedeutung auf dem Weg zur »Full Spectrum Dominance« – so die Bezeichnung des Pentagon für die Kontrolle über den gesamten Planeten: Boden, Luftraum, Ozeane und Weltraum. Schon 1919 schrieb der britische Vater der Geopolitik in seinem einflussreichen Buch Democratic Ideals and Reality (zu Deutsch: Demokratische Ideale und Wirklichkeit):

Wer Osteuropa regiert, der beherrscht das Herzland – Wer das Herzland regiert, der beherrscht die Weltinsel – Wer die Weltinsel regiert, der beherrscht die ganze Welt. (5)

Mackinder rechnete die Ukraine und Russland zum Herzland. Als Washington mit dem de facto von den USA organisierten Putsch namens Orangene Revolution die Ukraine von Russland absprengte, kam man damit dem Ziel der vollständigen Beherrschung nicht nur Russlands und des Herzlands, sondern ganz Eurasiens, einschließlich eines dadurch eingekreisten China, einen gewaltigen Schritt näher. Kein Wunder, dass die Regierung Bush-Cheney so viel Energie darauf verwendete, ihren Mann, Juschtschenko, als Präsident und De-facto-Diktator an die Macht zu bringen. Er sollte die Ukraine in die NATO führen. Was er für seine Landsleute tat, das bekümmerte die Planer von Bushs Politik herzlich wenig.

Hätte der ebenfalls handverlesene Präsident von Georgien, der per Rosen-Revolution ins Amt gekommene Michail Saakaschwili, im August 2008, also wenige Wochen vor der Abstimmung der NATO-Minister über eine Mitgliedschaft Georgiens und der Ukraine, nicht Truppen losgeschickt, um die abtrünnigen Regionen Süd-Ossetien und Abchasien Georgien wieder einzukassieren, dann hätte Juschtschenko mit den entsprechenden Plänen vielleicht sogar Erfolg gehabt. Nach der schnellen militärischen Antwort Russlands, durch die der georgische Vorstoß gestoppt und Saakaschwilis zusammengewürfelten Truppen eine vernichtende Niederlage beigebracht wurde, bestand auch keine Aussicht mehr, dass Deutschland oder andere Mitgliedsländer einer NATO-Mitgliedschaft zustimmen und sich damit dazu verpflichten würden, Georgien oder der Ukraine in einem Krieg gegen Russland beizustehen. (6)

 

Die Bedeutung der Orangenen Revolution

Die »Revolution«, die Viktor Juschtschenko auf einer Welle von amerikanischen Dollars und mit Unterstützung amerikafreundlicher »Nicht-Regierungs-Organisationen« (NGOs) ins Amt gebracht hat, war ursprünglich bei der von Washington finanzierten RAND Corporation ausgeheckt worden. RAND hat die Bewegungsmuster von Bienenschwärmen und ähnliche Phänomene studiert und die Ergebnisse auf moderne mobile Kommunikation, Textübertragung und zivile Proteste als Taktik für Regimewechsel und verdeckte Kriegsführung angewendet. (7)

Die Transformation der Ukraine von einer früheren unabhängigen Sowjetrepublik zu einem pro-amerikanischen Satellitenstaat gelang im Jahr 2004 mithilfe der sogenannten »Orangenen Revolution«. Die Aufsicht führte damals John Herbst, der im Mai 2003 zum amerikanischen Botschafter in der Ukraine ernannt worden war, nur wenige Monate vor Beginn der Unruhen. Beschönigend beschrieb das US State Department die Aktivitäten des Botschafters:

»Während seiner Amtszeit war er bemüht, die amerikanisch-ukrainischen Beziehungen zu verbessern und zum fairen Ablauf der Präsidentschaftswahl in der Ukraine beizutragen. In Kiew war er Zeuge der Orangenen Revolution. Botschafter John Herbst hatte zuvor als US-Botschafter in Usbekistan eine entscheidende Rolle dabei gespielt, einen amerikanischen Stützpunkt aufzubauen, mit dessen Hilfe die Operation Enduring Freedom in Afghanistan durchgeführt werden konnte.« (8)

Washington entschied sich dann für Viktor Juschtschenko als den richtigen Mann für den inszentierten Regimewechsel. Der damals 50-Jährige war zuvor Gouverneur der Zentralbank der Ukraine gewesen und hatte in dieser Position in den 1990er-Jahren im Rahmen der brutalen »Schocktherapie« des IWF die Deindustrialisierung des Landes betrieben. Juschtschenkos IWF-Programm hatte für seine Landsleute verheerende Folgen. Die Ukraine wurde 1994 gezwungen, die Devisenkontrollen aufzuheben und die Währung abstürzen zu lassen. Als Zentralbankchef führte Juschtschenko die Aufsicht über die geforderten Abwertungsmaßnahmen, die innerhalb weniger Tage zu einem Anstieg der Preise für Brot um 300 Prozent, für Strom um 600 Prozent und beim öffentlichen Transport um 900 Prozent führte. Bis 1998 waren die Reallöhne in der Ukraine im Vergleich zu 1991, als die Ukraine ihre Unabhängigkeit erklärte, um 75 Prozent gesunken. Ohne Zweifel war Juschtschenko der richtige Mann, um Washingtons Pläne in der Ukraine umzusetzen. (9)

Juschtschenkos in Chicago geborene Frau Kateryna, eine amerikanische Staatsbürgerin, hatte während der Regierungszeit von Reagan und H.W. Bush für die US-Regierung und das State Department gearbeitet. Sie war als Vertreterin der US-Ukraine Foundation in die Ukraine gekommen. Im Vorstand dieser Stiftung saß Grover Norquist, der zu den einflussreichsten Republikanern in Washington zählte. Norquist wurde damals allgemein »Geschäftsführer des rechten harten Kerns« genannt, er war der entscheidende Mann, der rechtsgerichtete Organisationen für die Unterstützung der Präsidentschaft George W. Bush gewann. (10)

Kernpunkt von Juschtschenkos geschickter Präsidentschaftskampagne war sein Eintreten für den Beitritt der Ukraine zur NATO und zur Europäischen Union. Bei seiner Kampagne kamen massenweise orangefarbene Fahnen, Banner, Poster, Ballons und andere Requisiten zum Einsatz, was unweigerlich zur Folge hatte, dass die Medien fortan von einer »Orangenen Revolution« sprachen. Washington finanzierte »demokratische« Jugendgruppen, die eine wichtige Rolle bei der Organisation gewaltiger Massendemonstrationen spielten. Diese Demonstrationen trugen wesentlich zu Juschtschenkos Erfolg bei der Wiederholung der angefochtenen Wahl bei.

In der Ukraine trat Juschtschenkos Bewegung mit dem Motto »Pora« (»Es ist Zeit«) an. Dabei mischten Leute mit, die aus der »Rosen-Revolution« in Georgien bekannt waren, wie beispielsweise Givi Targamadse, Vorsitzender des georgischen Parlamentsausschusses für Sicherheit und Verteidigung, ein ehemaliges Mitglied des georgischen Liberty Institute oder die Jugendgruppe Kmara. Die ukrainischen Oppositionsführer zogen die Georgier über Techniken der gewaltlosen Auseinandersetzung zu Rate. Die georgischen Rockbands Zumba, Soft Eject und Green Room, die die Rosen-Revolution unterstützt hatten, organisierten 2004 ein Solidaritätskonzert in Kiew zur Unterstützung von Juschtschenkos Kampagne. (11)

Auch die PR-Firma Rock Creek Creative aus Washington spielte eine bedeutende Rolle bei der Orangenen Revolution, sie entwickelte eine Website mit dem orangefarbenen Logo und zum sorgfältig gewählten Farbenthema. (12)

Juschtschenko unterlag 2004 bei der Wahl zunächst gegen Janukoytsch. Verschiedene Elemente trugen zu dem Eindruck bei, die Ergebnisse seien gefälscht, die Öffentlichkeit verlangte daraufhin die Wiederholung der Stichwahl. Mit der Hilfe von Pora und anderen Jugendgruppen sowie speziellen Wahlbeobachtern und in enger Koordination mit wichtigen westlichen Medien wie CNN und BBC wurde die Wahl im Januar 2005 wiederholt. Juschtschenko gewann mit knapper Mehrheit und erklärte sich zum Präsidenten. Dem Vernehmen nach hat das US State Department etwa 20 Millionen Dollar ausgegeben, um in der Ukraine ein Amerika genehmes Wahlergebnis zu gewährleisten. (13)

Dieselben von den USA unterstützten NGOs, die in Georgien aktiv gewesen waren, waren auch für das Ergebnis in der Ukraine verantwortlich: das Open Society Institute von George Soros, Freedom House (dem damals der ehemalige CIA-Direktor James Woolsey vorstand), das National Endowment for Democracy und seine Ableger, das National Republican Institute und das National Democratic Institute. Berichten aus der Ukraine zufolge waren die amerikanischen NGOs gemeinsam mit der konservativen US-Ukraine Foundation im ganzen Land aktiv, sie halfen der Protestbewegung von Pora und Znayu und schulten wichtige Wahlbeobachter. (14)

Präsident Viktor Juschtschenko, Washingtons Mann in Kiew, machte sich sofort daran, die wirtschaftlichen Verbindungen mit Russland zu kappen, unter anderem wurde die Lieferung von russischem Erdgas nach Westeuropa über ukrainische Transit-Pipelines unterbrochen. Mit diesem Schritt versuchte Washington, die EU-Länder, besonders Deutschland, davon zu überzeugen, Russland wäre ein »unzuverlässiger Partner«. Etwa 80 Prozent des russischen Erdgases wurde über Pipelines exportiert, die in der Ära der Sowjetunion gebaut worden waren, als die beiden Länder noch eine politische und wirtschaftliche Einheit bildeten. (15) Juschtschenko arbeitete auch eng Präsident Michail Saakaschwili zusammen, Washingtons Mann im Nachbarland Georgien.

Das Endergebnis der Wahl in der Ukraine Anfang 2010 zeigt, dass die Wähler Juschtschenko, den »Helden« der Orangenen Revolution, mit überwältigender Mehrheit ablehnen: er erhielt kaum fünf Prozent der abgegebenen Stimmen. Nach fünf Jahren des wirtschaftlichen und politischen Chaos wünschen sich die Menschen in der Ukraine offensichtlich zumindest etwas Stabilität. Meinungsumfragen in der Ukraine haben ergeben, dass die Mehrheit den Beitritt zur NATO ablehnt.

In westlichen Medien wird der neue ukrainische Präsident Viktor Janukowytsch als eine Art Marionette Moskaus dargestellt, doch das scheint völlig falsch. Die meisten seiner Unterstützer aus der Industrie wünschen sich harmonische Wirtschaftsbeziehungen mit der Europäischen Union und mit Russland gleichermaßen.

Janukowytsch hat bekannt gegeben, dass ihn seine erste Auslandsreise nicht nach Moskau, sondern zu Gesprächen mit führenden Vertretern der EU nach Brüssel führen wird. Danach wird er sofort nach Moskau fliegen, wo Präsident Medwedew bereits jetzt eine verbesserte Zusammenarbeit signalisiert hat, als er Russlands Botschafter in die Ukraine entsandte, dessen Ernennung nach Monaten politischer Spannungen zwischen Juschtschenko und Moskau zunächst auf Eis gelegt worden war.

Das Wichtigste ist jedoch, dass Janukowytsch entgegen den unablässigen Versuchen seines Vorgängers, die Ukraine auf Drängen Washingtons in die NATO zu bringen, angekündigt hat, er werde sich in Brüssel nicht mit NATO-Vertretern treffen. In Interviews mit ukrainischen Medien erklärte Janukowytsch unmissverständlich, er beabsichtige nicht, die Ukraine in die EU oder – was für Moskau noch wichtiger ist – in die NATO zu führen.

Janukowytsch hat versprochen, seine Aufmerksamkeit stattdessen auf die Wirtschaftskrise und die Korruption in der Ukraine zu konzentrieren. An die Adresse Moskaus gerichtet versichert er, Russland sei in einem Konsortium willkommen, das gemeinsam für die Betreuung des Gaspipeline-Netzes in der Ukraine zuständig sein soll. Damit erhält Moskau den Einfluss zurück, den Juschtschenko und dessen ehrgeizige Premierministerin Julija Tymoschenko unterbinden wollten. Ein anderes wichtiges Signal, das in NATO-Kreisen nicht gerade für Begeisterung sorgt, ist Janukowytschs Ankündigung, er werde den für Russland strategisch wichtigen Nutzungsvertrag für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol verlängern, der 2017 ausläuft. (16)

 

Russlands neues geopolitisches Kalkül

Es ist offensichtlich, dass sich Janukowytschs erbitterte Gegnerin im Wahlkampf, die Veteranin der Orangenen Revolution und ehemalige Premierministerin Julija Tymoschenko, nachdrücklich dessen Politik widersetzt, weil sie ihre eigenen politischen Ambitionen verfolgt und als schlechte Verliererin bekannt ist. Nachdem sie mit der Anfechtung des Wahlergebnisses vom Februar vor ukrainischen Gerichten gescheitert ist, erklärte sie, sie werde Janukowytsch mit ihrer Parlamentskoalition blockieren. Normalerweise hätte sie als Premierministerin zurücktreten müssen, als Janukowytschs Wahlsieg (mit einer Mehrheit von einer Million Stimmen) bestätigt wurde, was dieser nach seiner Wahl am 10. Februar auch verlangt hat. Sie weigerte sich jedoch. Als Präsidentschaftskandidatin war sie von Bundeskanzlerin Angela Merkel und anderen führenden Politikern in der EU bevorzugt worden. (17)

Der Sieg von Janukowytsch wurde von einigen der mächtigsten Unternehmer-Oligarchen des Landes unterstützt, darunter Rinak Akhmetow, der der reichste Mann der Ukraine und Fußballmilliardär ist. Wie Janukowytsch stammt er aus der Stahlregion im Osten der Ukraine. Auch Dmitry Firtash, ein Gashändler und Milliardär, der gemeinsam mit dem russischen Konzern Gazprom das Gasunternehmen RosUkrEnergo betreibt; Premierministerin Tymoschenko hatte im vergangenen Jahr seine Handelsgeschäfte untersagt.

Das Parlament der Ukraine sprach sich am 3. März bei einem Misstrauensvotum mit 243 von 450 Stimmen mehrheitlich gegen die amtierende Regierung von Premierministerin Tymoschenko aus. Für Tymoschenkos Fraktion der Orangenen Revolution von 2004 bedeutete das den Todesstoß. Jetzt bietet sich die Chance, die seit der Orangenen Revolution von 2004 bestehende politische Pattsituation unter den politischen Fraktionen der Ukraine zu durchbrechen. Janukowytsch ist am Zug. (18)

Bevor sie eine führende Rolle bei der Orangenen Revolution übernahm, war Julija Tymoschenko Anfang der 1990er-Jahre Präsidentin der ukrainischen Firma United Energy Systems gewesen, einem privaten Importeur von russischem Erdgas in die Ukraine. In Moskau warf man ihr vor, sie habe Ende der 1990er-Jahre große Mengen gestohlenen russischen Erdgases weiterverkauft und Steuern hinterzogen. Deswegen verpasste man ihr in der Ukraine den Spitznamen »Gasprinzessin«.

Darüber hinaus wurde ihr vorgeworfen, sie habe ihrem politischen Mentor, dem ehemaligen Premierminister Pavlo Lazarenko, Schmiergelder dafür gezahlt, dass ihre Firma die Gasversorgung des Landes in der Hand behielt. (19) Lazarenko wurde in Kalifornien wegen Erpressung, Geldwäsche, Betrug und Verschwörung zu einer Haftstrafe verurteilt, in der Ukraine wird ihm ein Mord zur Last gelegt. (20)

Wenn man davon ausgeht, dass Janukowytsch jetzt in der Lage ist, das Land nach der Niederlage der Regierung Tymoschenko wie angekündigt zu stabilisieren, dann bedeutet das für Moskau eine deutliche Verschiebung der tektonischen Platten des Eurasischen Herzlands, selbst bei einer strikt neutralen Ukraine.

Zunächst ist die strategische militärische Einkreisung Russlands – über die versuchte Rekrutierung Georgiens und der Ukraine in die NATO – eindeutig blockiert und damit vom Tisch. Der russische Zugang zum Schwarzen Meer über die ukrainische Krim scheint ebenfalls gesichert.

Tatsächlich bedeutet die Neutralisierung der Ukraine einen gewaltigen Rückschlag für Washingtons Strategie der völligen Einkreisung Russlands. Der Bogen von aktuellen oder künftigen NATO-Mitgliedsländern an der Peripherie Russlands und dem noch immer engen Verbündeten Belarus – von Polen bis zur Ukraine und nach Georgien – ist durchbrochen. Der weißrussische Präsident Alexander Lukaschenko hat einer Rosen-Revolution à la Ukraine erfolgreich widerstanden, indem er der Finanzierung von Lukaschenko-feindlichen NGOs durch das State Department einen Riegel vorgeschoben hat. Belarus verfolgt noch immer weitgehend eine zentrale Planwirtschaft, sehr zum Missfallen der freimarktwirtschaftlich orientierten westlichen Regierungen, ganz besonders der in Washington. Weißrussland unterhält enge wirtschaftliche Verbindungen zu Russland, die Hälfte des Außenhandels wird mit Russland abgewickelt, ein Beitritt zur NATO oder zur EU ist nicht geplant. (21)

Diese veränderte geopolitische Konfiguration in Zentraleuropa nach der Niederlage der Orangenen Revolution bedeutet einen großen Schub für Russlands langfristige Energie-strategie – eine Strategie, die man auch als »Russlands Nord-Süd-Ost-West-Strategie« bezeichnen könnte.

 

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(1) Press Trust of India, 2009: »Ukraine Becomes World’s Third Largest Grain Exporte«, unter http://blog.kievukraine.info/2009_12_01_archive.html.

(2) Stepan P. Poznyak, »Ukrainian Chornozem: Past, Present, Future«, Beitrag zum 18. World Congress of Soil Science, 9.–15. Juli 2006, unter http://www.ldd.go.th/18wcss/techprogram/P12419.HTM.

(3) Amerikanische Handelskammer in der Ukraine, Chamber Members, unter http://www.chamber.ua/.

(4) KosivArt, »Ukraine Natural Resources«, unter http://www.kosivart.com/eng/index.cfm/do/ukraine.natural-resources.

(5) Halford J. Mackinder, Democratic Ideals and Reality, 1919, Nachdruck 1942, Henry Holz and Company, S. 150.

(6) F. William Engdahl, »Entry into NATO Put Off Indefinitely«, unter http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11277. Deutsche Version »NATO-Beitritt Georgiens und der Ukraine auf unbestimmte Zeit vom Tisch«, 4. Dezember 2008, unter: http://info.kopp-verlag.de/redakteure/f-william-engdahl/browse/12.html.

(7) John Arquilla, David Ronfeldt, Swarming and the Future of Conflict, Santa Monica, RAND, 2000.

(8) US Department of State, John E. Herbst Biography, unter http://state.gov/r/pa/ei/biog/67065.htm.

(9) Michel Chossudovsky, »IMF Sponsored ›Democracy‹ in the Ukraine«, 28. November 2004, unter http://www.globalresearch.ca/articles/CH0411D.htm.

(10) Kateryna Yushchenko, Biographie, auf My Ukraine: Persönliche Website von Viktor Juschtschenko, 31. März 2005, unter http://www.yuschenko.com.ua/eng/Private/Family/2822/

(11) Wikipedia, Orange Revolution, unter http://en.wikipedia.org/wiki/Orange_Revolution, deutsch unter http://de.wikipedia.org/wiki/Pr%C3%A4sidentschaftswahlen_in_der_Ukraine_2004 

(12) Andrew Osborn, »We Treated Poisoned Yushchenko, Admit Americans«, The Independent, Großbritannien, 12. März 2005, unter http://www.truthout.org/article/us-played-big-role-ukraines-orange-revolution.

(13) Dmitry Sudakov, »USA Assigns $20 million for Elections in Ukraine, Moldova«, Pravda.ru, 11. März 2005.

(14) Nicolas, »Forces Behind the Orange Revolution«, Kiev Ukraine News Blog, 10. Januar 2005, unter http://blog.kievukraine.info/2005/01/forces-behind-orange-revolution.html.

(15) Jim Nichol u.a., »Russia’s Cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(16) Yuras Karmanau, »Half-empty chamber greets Ukraine’s new president«, Associated Press, 25. Februar 2010, unter http://news.yahoo.com/s/ap/20100225/ap_on_re_eu/eu_ukraine_president.

(17) Inform: Bloc of Yulia Tymoshenko Release #134, »EPP Throws Weight Behind Tymoshenko«, 16. Dezember 2009, unter http://www.ibyut.com/index_files/792.html.

(18) Stefan Wagstyl und Roman Oleachyk, »Ukraine Election Divides Oligarchs«, London, Financial Times, 15. Januar 2010.

(19) TraCCC, Pavlo Lazarenko: »Is the Former Ukrainian Prime Minister a Political Refugee or a Financial Criminal?«, Organized Crime and Corruption Watch, Bd. 2, Nr. 2, Sommer 2000, Washington, D.C., American University Transnational Crime and Corruption Center.

(20) Ian Traynor, »Ukrainian Leader Appoints Billionaire as his PM«, The Guardian, 24. Januar 2005.

(21) Botschaft der Vereinigten Staaten in Minsk, US Government Assistance FY 97 Annual Report, United States Embassy in Minsk, Weißrussland, 1998, unter: http://belarus.usembassy.gov/assistance1997.html.

 

Donnerstag, 25.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mardi, 30 mars 2010

Terreur à Moscou !

Terreur à Moscou !
Je ne m'étendrais pas sur les évènements tragiques de ce lundi 29 mars 2010. Je présente mes sincères condoléances à tous ceux, Russes ou pas qui ont souffert des évènements de ce jour.

Je vous livre une analyse qui me semble intéressante, celle de Xavier MOREAU sur RealpolitikTV:

On retrouvera sans doute derrière cet acte, des terroristes caucasiens, peut-être tchétchènes ou ingouches, mais cela n'a guère d'importance. La situation en Tchétchénie est normalisée, et un attentat à Moscou, aussi sanglant soit-il n'a aucune chance de déstabiliser le pouvoir tchétchène. Il faudrait pour cela, s'en prendre directement au Président Khadirov. Ce n'est donc pas une action des indépendantistes, dans un but de reconnaissance politique. 
Cette opération est un acte de guerre contre la Russie, sans autre mobile que de déstabiliser son administration. Elle a été planifiée avec soin comme le confirme la simultanéÏté des attaques et la présence de femmes accompagnant les deux kamikazes. Les deux stations visées sont également symboliques, l'une correspond au siège du FSB, l'autre à l'agence de presse gouvernementale, RIA Novesti.
Cette constatation réduit les possibilités sur le ou les instigateurs présumés. La Russie ne manquera certainement pas de soupçonner son voisin géorgien, qu'elle accuse d'abriter des camps de terroristes, notamment dans les gorges de Pankisi. Le Président géorgien, abandonné peu à peu par l'Occident, chercherait ainsi à provoquer la Russie, en entraînant une riposte militaire, qui le ferait passer de nouveau pour une victime de « l'impérialisme russe ». Ce serait un élément supplémentaire pour maintenir la Géorgie dans un état de crise permanent, et de tenter ainsi de sauver son pouvoir chancellant.
Les services de sécurité intérieure russes ont été très efficaces ces dernières années pour retrouver les auteurs des différents attentats qui ont frappé la Russie. Il y a de fortes chances qu'ils réussissent une nouvelle fois à identifier les terroristes. Si la piste géorgienne s'avère être la bonne, il faut souhaiter que la Russie ne tombe pas dans le piège qui lui est tendu.

Russlands Energie-Strategie für Nord- und Westeuropa

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Russlands Energie-Strategie für Nord- und Westeuropa

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Wenn sich Russlands Nachbarland Ukraine neutral verhält und sich die innenpolitische Lage dort stabilisiert, bedeutet das für Moskau weit mehr, als dass die militärische Bedrohung durch Washington entschärft wird. Denn jetzt kann Russland den einen besonderen Hebel nutzen, der dem Land neben der verbliebenen und noch immer schlagkräftigen Atomstreitmacht verblieben ist, nämlich den Export von Erdgas. Während Russland über die weltweit größten Reserven verfügt, herrscht in Westeuropa, ja sogar in Großbritannien, lebhafte Nachfrage, da die Vorräte in der Nordsee allmählich zur Neige gehen. Der Ostsee-Pipeline von Russland nach Norddeutschland kommt deshalb besondere Bedeutung zu.

Nach Schätzungen westeuropäischer Industriekreise wird die Nachfrage nach Erdgas in den Ländern der Europäischen Union in den kommenden 20 Jahren im Vergleich zu heute um etwa 40 Prozent wachsen. Der Anstieg geht vor allem auf das Konto der Stromerzeugung, weil Erdgas hierfür als saubere und sehr effiziente Energiequelle gilt. Während der Bedarf also steigen wird, geht die Förderung auf den Gasfeldern in Großbritannien, den Niederlanden und anderen EU-Ländern allmählich zurück. (1) Wenn die Ukraine nun von ihrer feindseligen Haltung Moskau gegenüber auf eine »blockfreie« Neutralität – um einen Ausdruck von Janukowytsch zu gebrauchen – umschwenkt, die zunächst auf die Stabilisierung der russisch-ukrainischen Erdgas-Geopolitik konzentriert, eröffnen sich für Russland plötzlich weit stabilere wirtschaftliche Optionen, mit denen der versuchten militärischen und wirtschaftlichen Einkreisung durch Washington begegnet werden kann.

Als Juschtschenko und Saakaschwili in der Ukraine bzw. in Georgien das Zepter übernahmen und gemeinsam mit Washington auf einen NATO-Beitritt hinarbeiteten, konnte Russland unter Putin praktisch nur noch die Energiekarte spielen, um zumindest den Anschein wirtschaftlicher Sicherheit aufrechtzuerhalten. Russland verfügt über die mit Abstand größten Erdgasreserven der Welt. Die zweitgrößten Reserven befinden sich übrigens nach Schätzung des amerikanischen Energieministeriums im Iran, den Washington ja ebenfalls im Visier hat. (2)

Heute verfolgt Russland erkennbar eine faszinierende, äußerst komplexe Energiestrategie. Die Energievorräte werden als diplomatischer und politischer Hebel benutzt, um »Freunde zu gewinnen und die Menschen (in der EU) zu beeinflussen«. Dmitri Medwedew, Putins Nachfolger im Präsidentenamt, ist geradezu prädestiniert für diese Gaspipeline-Geopolitik, denn er war zuvor Vorsitzender des staatlichen Gazprom-Konzerns.

Hoher Einsatz beim eurasischen Schachspiel

In gewissem Sinne ähnelt die eurasische Landmasse heute einem dreidimensionalen geopolitischen Schachspiel zwischen Russland, der Europäischen Union und Washington. Bei dem Spiel geht es für Russland um das Überleben als funktionierende Nation, was Medwedew und Putin offensichtlich auch bewusst ist.

Zu der versuchten militärischen Einkreisung Russlands durch die USA gehörten nicht nur die Rosen- und die Orangene Revolution in den Jahren 2003 und 2004, sondern auch die höchst provokative Pentagon-Politik der Raketen-»Verteidigung«, in deren Rahmen von den USA (nicht von der NATO) befehligte Raketenbasen in Schlüsselländern des ehemaligen Warschauer Pakts, an der unmittelbaren Peripherie errichtet wurden. Als Reaktion verfolgt Moskau jetzt eine eindrucksvolle und hochkomplexe Pipeline-Strategie, die man der amerikanischen Militärstrategie der Einkreisung durch die NATO, der Stationierung von Raketen und der »Farbenrevolutionen«, einschließlich der versuchten Destabilisierung des Iran im vergangenen Sommer durch eine »Grüne Revolution«, oder auch »Twitter Revolution«, wie Hillary Clinton sie salopp nannte, entgegensetzt. Die USA zielten darauf ab, Russland zu isolieren und die potenzielle strategische Allianz in ganz Eurasien zu schwächen.

Für Russland, das erst kürzlich Saudi-Arabien von der Position als größter Erdölproduzent und -exporteur der Welt verdrängt hat, bedeutet der Erdgas-Verkauf im Ausland einen bedeutenden Vorteil, denn Moskau kann den Preis und den Markt für Erdgas besser bestimmen. Anders als beim Erdöl, dessen Preis der strikten Kontrolle von Big Oil (und dessen Mittätern von der Wall Street, wie Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP MorganChase) unterliegt, ist es für die Wall Street viel schwieriger, den Preis für Erdgas zu manipulieren, schon gar nicht durch kurzfristige Spekulation wie beim Erdöl.

Da Erdgas anders als Erdöl vom Bau kostspieliger Pipelines oder LNG-Tanker und LNG-Terminals abhängig ist, wird der Preis normalerweise in langfristigen Lieferabkommen zwischen Verkäufern und Kunden festgelegt. Das bietet für Moskau einen gewissen Schutz vor Preismanipulationen wie 2008/2009 beim Ölpreis durch die Wall Street, als dieser von einem Rekordhoch von 147 Dollar pro Barrel auf unter 30 Dollar nur wenige Monate später gedrückt wurde. Diese Manipulationen hatten verheerende Folgen für Moskaus Einkünfte aus dem Erdölexport, und das genau zu dem Zeitpunkt, als die weltweite Finanzkrise auch russische Banken und Unternehmen von weiteren Krediten abschnitt.

Mit Janukowytsch als ukrainischem Präsidenten scheint nun der Weg frei für geregelte Verträge mit der russischen Gazprom über die Erdgasversorgung in der Ukraine und die Durchleitung nach Westeuropa. Genau die Hälfte der in der Ukraine verbrauchten Energie wird aus Erdgas erzeugt und der größte Teil davon, ca. 75 Prozent, stammt aus Russland. (3)

Jetzt scheint eine tragfähige Einigung zwischen der russischen und der ukrainischen Regierung über den Preis für das importierte russische Gas erreicht worden zu sein. Im Januar 2010 hat die Ukraine einem Gaspreis zugestimmt, der ähnlich hoch ist wie der in Westeuropa, gleichzeitig erhält sie jedoch von der russischen staatlichen Gazprom deutlich höhere Gebühren für die Durchleitung russischen Gases nach Westeuropa. Etwa 80 Prozent der russischen Gasexporte liefen bisher über die Ukraine. (4)

Das wird sich allerdings unter Russlands langfristiger Pipeline-Strategie drastisch ändern, die darauf abzielt, das Land in Zukunft weniger verwundbar durch politische Umwälzungen wie die Orangene Revolution 2004 in der Ukraine zu machen.

Die politische Bedeutung von Nord Stream

Nach der Orangenen Revolution in der Ukraine 2004 verfolgt Moskau die Strategie, die Pipelines nach Westen langfristig nicht mehr durch die Ukraine oder Polen zu führen. Deshalb wird die durch die Ostsee verlaufende Gaspipeline Nord Stream von Russland direkt nach Deutschland gebaut. Der polnische Außenminister Radek Sikorski ist ein in Washington ausgebildeter Neokonservativer. Als Verteidigungsminister war er zuvor maßgeblich an dem Abkommen über die Stationierung der amerikanischen Raketenabwehr beteiligt. Unter Sikorski ist Polen heute eng an die NATO gebunden, ein Aspekt davon ist die Zustimmung zu Washingtons einseitig provokativer Politik der Raketenstationierung. Außerdem versucht er immer wieder, bislang allerdings ohne Erfolg, den Bau der Nord Stream zu blockieren.

Nord Stream war für Russland besonders wichtig, so lange es so aussah, als ob es Washington gelänge, die Ukraine nach der Orangenen Revolution in die NATO zu ziehen. Heute ist die alternative Ostseepipeline für Russland aus anderen Gründen wichtig.

nordstream.jpgDie Nord-Stream-Gaspipeline verläuft von dem russischen Hafen Vyborg nahe St. Petersburg nach Greifswald in Norddeutschland durch die Ostsee in internationalen Gewässern, sie umgeht also sowohl die Ukraine als auch Polen. Als Nord Stream als Joint Venture der beiden deutschen Gasgesellschaften E.ON und BASF und der russischen Gazprom angekündigt wurde – mit dem ehemaligen Bundeskanzler Gerhard Schröder als Vorstand –, verglich Sikorski, damals polnischer Außenminister, das deutsch-russische Gasabkommen mit dem Pakt zwischen Molotow und Ribbentrop, dem 1939 geschlossenen Pakt zwischen Nazideutschland und der Sowjetunion, die damals Polen unter sich aufteilten. (5)

 Sikorskis Logik war vielleicht nicht so ganz präzise, das emotionale Bild dagegen sehr.

Ende 2009 genehmigten auch Schweden und Finnland nach Dänemark die Trassenführung für die Pipeline durch ihren Teil der Ostsee. Mit dem Bau des milliardenschweren Projekts soll im April dieses Jahres begonnen werden, die erste Gaslieferung ist für 2011 vorgesehen. Nach Fertigstellung einer zweiten Parallelpipeline, mit deren Bau 2011 begonnen werden soll, wird Nord Stream voraussichtlich 55 Milliarden Kubikmeter Gas pro Jahr durch die Pipelines leiten, nach Angaben auf der Website von Nord Stream genug, um 25 Millionen Haushalte in Europa mit Gas zu versorgen.

Da Nord Stream dann als wichtigste Lieferroute direkt von Russland zu den wichtigsten Kunden in Deutschland verläuft, und da ein stabiles Transitabkommen durch die Ukraine ausgehandelt worden ist, wird eine Unterbrechung der Gazprom-Lieferungen nach Nordeuropa sehr unwahrscheinlich. Durch Nord Stream wird Gazprom in die Lage versetzt, eine flexiblere Gas-Diplomatie zu betreiben, und Störungen der Lieferung, zu denen es in den vergangenen Jahren in der Ukraine wiederholt gekommen war, werden dann weniger Probleme bereiten.

Ende 2009 hat sich der russische Präsident Dmitri Medwedew in Minsk mit Vertretern aus Belarus (Weißrussland) getroffen, genau zu der Zeit, als Nord Stream die letzten politischen Hürden nahm. Medwedew sagte, Russland denke über den Bau eines zweiten Strangs der großen Jamal-Europa-Pipeline durch Belarus nach, falls es die Nachfrage in Europa erforderlich mache: »Ich bin überzeugt: je mehr Möglichkeiten für die Lieferung von russischem Gas nach Europa bestehen, desto besser für Europa und Russland.« (6)

Darüber hinaus hat Großbritannien soeben einen langfristigen Vertrag mit Gazprom für den Import von Gas über die Nord Stream unterzeichnet – auch das ist eine bedeutsame geopolitische Veränderung. Mehr als vier Prozent der Gasnachfrage sollen 2012 durch diese Lieferung gedeckt werden. Großbritannien wird damit von einem Netto-Gasexporteur zu einem Netto-Importeur. Gegenwärtig bestehen zusätzlich zu den Verträgen der Gazprom mit Deutschland und Großbritannien noch Lieferverträge mit Dänemark, den Niederlanden, Belgien und Frankreich, sie wird dadurch auf dem Energiemarkt der EU zu einem maßgeblichen Faktor.

 

___________

(1) »Eurogas (Europand Union of the National Gas Industry), Natural Gas Demand and Supply: Long-Term Outlook to 2030«, Brüssel 2007, unter: www.eurogas.org/.../Eurogas%20long%20term%20outlook%20to%202030%20-%20fina.

(2) Jim Nichol u.a., »Russia’s cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(3) US Energieministerium, »Ukraine Country Analysis Brief, Energy Information Administration«, August 2007, Washington DC, unter http://www.eia.doe.gov/cabs/Ukraine/Full.html.

(4) »International Energy, Russia to supply 116 bn cm of gas to Europe via Ukraine in 2010«, Peking, 19. November 2009, unter http://en.in-en.com.

(5) Simon Taylor, »Why Russia's Nord Stream is winning the pipeline race«, 29. Januar 2009, EuropeanVoice.com, unter http://www.europeanvoice.com/article/imported/why-russia%E2%80%99s-nord-stream-is-winning-the-pipeline-race/63780.aspx.

(6) RIA Novosti, »Russia pledges 30–40% discount on gas for Belarus in 2010«, 23. November 2009, unter http://en.rian.ru.

 

Freitag, 26.03.2010

Kategorie: Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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Rusia, clave de boveda del sistema multipolar

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RUSIA, CLAVE DE BÓVEDA DEL SISTEMA MULTIPOLAR

 de Tiberio Graziani *

 

El nuevo sistema multipolar está en fase de consolidación. Los principales actores son los EE.UU., China, India y Rusia. Mientras la Unión Europea está completamente ausente y nivelada en el marco de las indicaciones-diktat procedentes de Washington y Londres, algunos países de la América meridional, en particular Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay manifiestan su firme voluntad de participación activa en la construcción del nuevo orden mundial. Rusia, por su posición central en la masa eurasiática, por su vasta extensión y por la actual orientación imprimida a la política exterior por el tándem Putin-Medvedev, será, muy probablemente, la clave de bóveda de la nueva estructura planetaria. Pero, para cumplir con tal función epocal, tendrá que superar algunos problemas internos: entre los primeros, los referentes a la cuestión demográfica y la modernización del país, mientras, en el plano internacional, tendrá que consolidar las relaciones con China e India, instaurar lo más pronto posible un acuerdo estratégico con Turquía y Japón y, sobre todo, tendrá que aclarar su posición en Oriente Medio y en Oriente Próximo.

 

               Consideraciones sobre el escenario actual

 

Con el fin de presentar un rápido examen del actual escenario mundial y para comprender mejor las dinámicas en marcha que lo configuran, proponemos una clasificación de los actores en juego, considerándolos ya sea por la función que desempeñan en su propio espacio geopolítico o esfera de influencia, ya sea como entidades susceptibles de profundas evoluciones  en base a variables específicas.

El presente marco internacional nos muestra al menos tres clases principales de actores. Los actores hegemónicos, los actores emergentes y, finalmente, el grupo de los seguidores y de los subordinados. Por razones analíticas, hay que añadir a estas tres categorías una cuarta, constituida por las naciones que, excluidas, por diversos motivos, del juego de la política mundial, están buscando su función.

 

                        Los actores hegemónicos

 

Al primer grupo pertenecen los países que, por su particular postura geopolítica, que los identifica como áreas pivote, o por la proyección de su fuerza militar o económica, determinan las elecciones y las relaciones internacionales de las restantes naciones. Además, los actores hegemónicos influyen directamente también sobre algunas organizaciones globales, entre las cuales se encuentran el Fondo Monetario Internacional (FMI), el Banco Mundial (BM), y la Organización de las Naciones Unidas (ONU). Entre las naciones que presentan tales características, aunque con matices diversos, podemos contar a los Estados Unidos, China, India y Rusia.

La función geopolítica que actualmente ejercen los EE.UU. es la de constituir el centro físico y el mando del sistema occidental nacido al final de la Segunda Guerra Mundial. La característica principal de la nación norteamericana, con respecto al resto del planeta, está representada por su expansionismo, llevado a cabo con una particular agresividad y mediante la extensión de dispositivos militares a escala global. El carácter imperialista debido a su específica condición de potencia marítima le impone comportamientos colonialistas hacia amplias porciones de lo que considera impropiamente su espacio geopolítico (1). Las variables que podrían determinar un cambio de función de los EE.UU. son esencialmente tres: a) la crisis estructural de la economía neoliberal; b) la elefantiasis imperialista; c) las potenciales tensiones con Japón, Europa y algunos países de la América centro-meridional.

China, India y Rusia, en cuanto naciones-continente de vocación terrestre, ambicionan desempeñar sus respectivas funciones macro-regionales en el ámbito eurasiático sobre la base de una común orientación, por otra parte, en fase de avanzada estructuración. Tales funciones, sin embargo, están condicionadas por algunas variables entre las cuales destacamos:

 

a) las políticas de modernización;

b) las tensiones debidas a las deshomogeneidades sociales, culturales y étnicas dentro de sus propios espacios;

c) la cuestión demográfica que impone adecuadas y diversificadas soluciones para los tres países.

 

Por cuanto respecta a la variable referente a las políticas de modernización, observamos que, al estar estas demasiado interrelacionadas en los aspectos económico-financieros con el sistema occidental, de modo particular con los Estados Unidos, a menudo quitan a las naciones eurasiáticas la iniciativa en la arena internacional, las exponen a las presiones del sistema internacional, constituido principalmente por la triada ONU, FMI y BM (2) y, sobre todo, les imponen el principio de la interdependencia económica, histórico eje de la expansión económica de los EE.UU. En relación a la segunda variable, observamos que la escasa atención que Moscú, Pekín y Nueva Delhi prestan a la contención o solución de las respectivas tensiones endógenas ofrece a su antagonista principal, los Estados Unidos, la ocasión de debilitar el prestigio de los gobiernos y obstaculizar la estructuración del espacio eurasiático. Finalmente, considerando la tercera variable, apreciamos que políticas demográficas no coordinadas entre las tres potencias eurasiáticas, en particular entre Rusia y China, podrían a la larga crear choques para la realización de un sistema continental equilibrado.

Las relaciones entre los miembros de esta clase deciden las reglas principales de la política mundial.

En consideración de la presencia de hasta 4 naciones-continente (tres naciones eurasiáticas y una norteamericana) es posible definir el actual sistema geopolítico como multipolar.

 

                        Los actores emergentes

 

La categoría de los actores emergentes reagrupa, en cambio, a las naciones que, valorando particulares bazas geopolíticas o geoestratégicas, tratan de desmarcarse de las decisiones que les imponen uno o más miembros del restringido club del primer tipo. Mientras la finalidad inmediata de los emergentes consiste en la búsqueda de una autonomía regional y, por tanto, en la salida de la esfera de influencia de la potencia hegemónica, que ha de llevarse a cabo mediante articulados acuerdos y alianzas regionales, transregionales y extracontinentales, la finalidad estratégica está constituida por la participación activa en el juego de las decisiones regionales e incluso mundiales. Entre los países que asumen cada vez más la connotación de actores emergentes, podemos enumerar a Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay, la Turquía de Recep Tayyip Erdoğan, el Japón de Yukio Hatoyama y, aunque con alguna limitación, Pakistán. Todos estos países pertenecen, de hecho, al sistema geopolítico llamado “occidental”, guiado por Washington. El hecho de que muchas naciones de lo que, en el periodo bipolar, se consideraba un sistema cohesionado puedan ser hoy señaladas como emergentes y, por tanto, entidades susceptibles de contribuir a la constitución de nuevos polos de agregación geopolítica induce a pensar que el edificio puesto a punto por los EE.UU. y por Gran Bretaña, tal y como lo conocemos, está, de hecho, en vías de extinción o en una fase de profunda evolución. La creciente “militarización” que la nación guía impone a las relaciones bilaterales con estos países parece sustanciar la segunda hipótesis. La común visión continental de los emergentes sudamericanos  y la realización de importantes acuerdos económicos, comerciales y militares constituyen los elementos base para configurar el espacio sudamericano como futuro polo del nuevo orden mundial (3).

Los actores emergentes aumentan sus grados de libertad en virtud de las alianzas y de las fricciones entre los miembros del club de los hegemónicos así como de la conciencia geopolítica de sus clases dirigentes.

El número de los actores emergentes y su colocación en los dos hemisferios septentrionales (Turquía y Japón) y meridional (países latinoamericanos) además de acelerar la consolidación del nuevo sistema multipolar, trazan sus dos ejes principales: Eurasia y América indiolatina.

 

                        Los seguidores-subordinados y los subordinados

 

La designación de actores seguidores y subordinados, aquí propuesta, pretende subrayar las potencialidades geopolíticas de los pertenecientes a esta clase con respecto a su transición a las otras. Hay que calificar como seguidores-subordinados a los actores que consideran útil, por afinidad, intereses varios o por condiciones históricas particulares,  formar parte de la esfera de influencia  de una de las naciones hegemónicas. Los seguidores-subordinados reconocen al país hegemónico la función de nación-guía. Entre estos podemos mencionar, por ejemplo, la República Sudafricana, Arabia Saudí, Jordania, Egipto, Corea del Sur. Los subordinados de este tipo, dado que siguen a los EE.UU. como nación guía, a menos que surjan convulsiones provocadas o gestionadas por otros, compartirán su destino geopolítico. La relación que mantienen estos actores y el país hegemónico es de tipo, mutatis mutandis, vasallático.

En cambio, se pueden considerar completamente subordinados los actores que, exteriores al espacio geopolítico natural del país hegemónico, padecen su dominio. La clase de los países subordinados está marcada por la ausencia de una conciencia geopolítica autónoma o, mejor todavía, por la incapacidad de sus clases dirigentes de valorar los elementos mínimos y suficientes para proponer y, por tanto, elaborar una doctrina geopolítica propia. Las razones de esta ausencia son múltiples y variadas, entre estas podemos mencionar la fragmentación del espacio geopolítico en demasiadas entidades estatales, la colonización cultural, política y militar ejercida por la nación hegemónica, la dependencia económica hacia el país dominante, las estrechas y particulares relaciones que mantienen el actor hegemónico y las clases dirigentes nacionales, que, configurándose como auténticas oligarquías, están preocupadas más de su supervivencia que de los intereses populares nacionales que deberían representar y sostener. Las naciones que constituyen la Unión Europea entran en esta categoría, con excepción de Gran Bretaña por la conocida special relationship que mantiene con los EE.UU. (4).

La pertenencia de la Unión Europea a esta clase de actores se debe a su situación geopolítica y geoestratégica. En el ámbito de las doctrinas geopolíticas estadounidenses, Europa siempre ha sido considerada, desde el estallido de la Segunda Guerra Mundial, una cabeza de puente tendida hacia el centro de la masa eurasiática (5). Tal papel condiciona las relaciones entre la Unión Europea y los países exteriores al sistema occidental, en primer lugar, Rusia y los países de Oriente Próximo y de Oriente Medio. Además de determinar el sistema de defensa de la UE y sus alianzas militares, este particular papel influye, a menudo incluso profundamente, en la política interior y las estrategias económicas de sus miembros, en concreto, las referentes al aprovisionamiento de recursos energéticos (6) y de materiales estratégicos, así como las elecciones en materia de investigación y desarrollo tecnológico. La situación geopolítica de la Unión Europea parece haberse agravado ulteriormente con el nuevo curso que Sarkozy y Merkel han imprimido a las respectivas políticas exteriores, dirigidas más a la constitución de un mercado trasatlántico que al reforzamiento del europeo.

Las variables que, en el momento actual, podrían permitir a los países miembros de la Unión Europea pasar a la categoría de los emergentes tienen que ver con la calidad y el grado de intensificación de sus relaciones con Moscú en referencia a la cuestión del aprovisionamiento energético (North y South Stream), a la cuestión de la seguridad (OTAN) y a la política próximo y medio-oriental (Irán e Israel). Que lo que acabamos de escribir es algo posible lo demuestra el caso de Turquía. A pesar de la hipoteca de la OTAN que la vincula al sistema occidental, Ankara, apelando precisamente a las relaciones con Moscú en lo referente a la cuestión energética, y asumiendo, respecto a las directivas de Washington, una posición excéntrica sobre la cuestión israelo-palestina, está en el camino hacia la emancipación de la tutela americana (7).

Los seguidores y subordinados, debido a su debilidad, representan el posible terreno de choque sobre el que podrían confrontarse los polos del nuevo orden mundial.

 

Los excluidos

 

En la categoría de los excluidos entran lógicamente todos los otros estados. Desde un punto de vista geoestratégico, los excluidos constituyen un obstáculo a las miras de uno o más actores de los actores hegemónicos. Entre los pertenecientes a este grupo, asumen un particular relieve, con respecto a los EE.UU. y el nuevo sistema multipolar, Siria, Irán, Myanmar y Corea del Norte. En el marco de la estrategia estadounidense para cercar la masa eurasiática, de hecho, el control de las áreas que actualmente se encuentran bajo la soberanía de esas naciones representa un objetivo prioritario que ha de ser alcanzado a corto-medio plazo. Siria e Irán se interponen a la realización del proyecto norteamericano del Nuevo Gran Oriente Medio, es decir, al control total sobre la larga y amplia franja que desde Marruecos llega a las repúblicas centroasiáticas, auténtico soft underbelly de Eurasia; Myanmar constituye una potencial vía de acceso en el espacio chino-indio a partir del Océano Índico y un emplazamiento estratégico para el control del Golfo de Bengala y del Mar de Andamán; Corea del Norte, además de ser una vía de acceso hacia China y Rusia, junto al resto de la península coreana (Corea del Sur) constituye una base estratégica para el control del Mar Amarillo y del Mar del Japón.

Los excluidos más arriba citados, en base a las relaciones que cultivan con los nuevos actores hegemónicos (China, India, Rusia) y con algunos emergentes podrían entrar nuevamente en el juego de la política mundial y asumir, por tanto, un importante papel funcional en el ámbito del nuevo sistema multipolar. Este es el caso de Irán. Irán goza del status de país observador en el ámbito de la OTSC, la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva, considerada por muchos analistas la respuesta rusa a la OTAN, y es candidato al ingreso en la Organización para la Cooperación de Shangai, entre cuyos miembros figuran Rusia, China y las repúblicas centroasiáticas. Además, tiene sólidas relaciones económico-comerciales con los mayores países de la América indiolatina.

 

                

                

               La reescritura de las nuevas reglas

 

Los países que pertenecen a la clase de los actores hegemónicos anteriormente descrita tratan de proyectar, por primera vez después de la larga fase bipolar y la breve unipolar, su influencia sobre todo el planeta con la finalidad de contribuir, con recorridos y metas específicas, a la realización de la nueva configuración geopolítica global. A finales de la primera década del siglo XXI se asiste, por tanto, al retorno de la política mundial, articulada esta vez en términos continentales (8). La puesta en juego está constituida, no sólo por el acaparamiento de los recursos energéticos y de las materias primas, por el dominio de importantes nudos estratégicos, sino, sobre todo, considerando el número de actores y la complejidad del escenario mundial, por la reescritura de nuevas reglas. Estas reglas, resultantes de la delimitación de nuevas esferas de influencia, definirán, con toda probabilidad durante un largo periodo, las relaciones entre los actores continentales y, por tanto, también un nuevo derecho. No ya un derecho internacional exclusivamente construido sobre las ideologías occidentales, sustancialmente basado en el derecho de ciudadanía como se ha desarrollado a partir de la Revolución Francesa y en el concepto de estado-nación, sino un derecho que tenga en cuenta las soberanías políticas tal y como se manifiestan y se estructuran concretamente en los diversos ámbitos culturales de todo el planeta.

Los Estados Unidos, aunque actualmente se encuentren en un estado de profunda postración causado por una compleja crisis económico-financiera (que ha evidenciado, por otra parte, las carencias y debilidades estructurales de la potencia bioceánica y de todo el sistema occidental), por el duradero impasse militar en el teatro afgano y por la pérdida del control de vastas porciones de la América meridional,  prosiguen, sin embargo, en continuidad con las doctrinas geopolíticas de los últimos años, con la acción de presión hacia Rusia, área geopolítica que constituye su verdadero objetivo estratégico con  vistas a la hegemonía planetaria. En el momento actual, la desestructuración de Rusia, o, por lo menos, su debilitamiento, representaría para los Estados Unidos, no sólo un objetivo que persigue al menos desde 1945, sino también una ocasión para ganar tiempo y poner remedios eficaces para la solución de su propia crisis interna y para reformular el sistema occidental.

Precisamente, teniendo bien presente tal objetivo, resulta más fácil interpretar la política exterior adoptada recientemente por la administración Obama con respecto a Pekín y Nueva Delhi. Una política que, aunque tendente a recrear un clima de confianza entre las dos potencias euroasiáticas y los Estados Unidos, no parece dar en absoluto los resultados esperados, a causa del excesivo pragmatismo y de la exagerada ausencia de escrúpulos que parecen caracterizar tanto al presidente Barack Obama como a su Secretaria de Estado, Hillary Rodham Clinton. Un ejemplo de esa ausencia de escrúpulos y del pragmatismo, así como de la escasa diplomacia, entre otros muchos, es el referente a las relaciones contrastantes que Washington ha mantenido recientemente con el Dalai Lama y con Pekín.

Tales comportamientos, dadas las condiciones de debilidad en que se encuentra la ex hyperpuissance, son un rasgo del cansancio y del nerviosismo con que el actual liderazgo estadounidense trata de enfrentarse y taponar el progresivo ascenso de las mayores naciones eurasiáticas y la reafirmación de Rusia como potencia mundial. Las relaciones que Washington cultiva con Pekín y Nueva Delhi trascurren por dos vías. Por un lado, sobre la base del principio de interdependencia económica y mediante la ejecución de específicas políticas financieras y monetarias, los EE.UU. tratan de insertar a China e India en el ámbito del que denominan como sistema global. Este sistema, en realidad, es la proyección del occidental a escala planetaria, ya que las reglas en las que se basaría son precisamente las de este último. Por otro lado, a través de una continua y apremiante campaña denigratoria, la potencia estadounidense trata de desacreditar a los gobiernos de las dos naciones eurasiáticas y de desestabilizarlas, sirviéndose de sus  contradicciones y de sus tensiones internas. La estrategia actual es sustancialmente la versión actualizada de la política llamada de congagement (containment, engagement), aplicada, esta vez, no sólo a China sino también, parcialmente, a India.

Sin embargo, hay que subrayar que el dato cierto de esta administración demócrata, que tomó posesión en Washington en enero de 2009, es la creciente militarización con la que tiende a condicionar las relaciones con Moscú. Más allá de la retórica pacifista, el premio Nobel Obama, de hecho, sigue, con la finalidad de alcanzar la hegemonía global, las líneas-guía trazadas por las precedentes administraciones, que se reducen, de forma sumamente sintética, a dos: a) potenciación y extensión de las guarniciones militares; b) balcanización de todo el planeta según parámetros  étnicos, religiosos y culturales.

rusland_retreat.jpgAnte la clara y manifiesta tendencia de los EE.UU. hacia el dominio global –en los últimos tiempos marcadamente sustentada por el corpus ideológico-religioso veterotestamentario (9) más que por un cuidadoso análisis del momento actual que llevase la impronta de la Realpolitik –China, India y Rusia, al contrario, parecen ser bien  conscientes de las condiciones actuales que les llaman a una asunción de responsabilidades tanto a nivel continental como global. Tal asunción parece desarrollarse mediante acciones tendentes a la realización de una mayor y mejor articulada integración eurasiática así como mediante el apoyo de las políticas pro-continentales de los países sudamericanos.

 

                        La centralidad de Rusia

 

La reencontrada estatura mundial de Rusia como protagonista del escenario global impone algunas reflexiones de orden analítico para comprender su posicionamiento tanto en el ámbito continental como global, así como también las variables que podrían modificarlo a corto y medio plazo.

Mientras en relación a la masa euroafroasiática, la función central de Rusia como su heartland, tal y como fue sustancialmente formulada por Mackinder, es nuevamente confirmada por el actual marco internacional, más problemática y más compleja resulta, en cambio, su función en el proceso de consolidación del nuevo sistema multipolar.

 

Espina dorsal de Eurasia y puente eurasiático entre Japón y Europa

 

Los elementos que han permitido a Rusia reafirmar su importancia en el contexto eurasiático, muy esquemáticamente, son:

a)      reapropiación por parte del Estado de algunas industrias estratégicas;

b)      contención de los impulsos secesionistas;

c)      uso “geopolítico” de los recursos energéticos;

d)     política dirigida a la recuperación del “exterior próximo”;

e)      constitución del partenariado Rusia-OTAN, como mesa de discusión destinada a contener el proceso de ampliación del dispositivo militar atlántico;

f)       tejido de relaciones a escala continental, orientadas a una integración con las repúblicas centroasiáticas, China e India;

g)      constitución y cualificación de aparatos de seguridad colectiva (OTCS y OCS).

 

Si la gestión, antes de Putin y ahora de Medvedev, del agregado de elementos más arriba considerados ha mostrado, en las presentes condiciones históricas, la función de Rusia como espina dorsal de Eurasia, y, por tanto, como área gravitacional de cualquier proceso orientado a la integración continental, sin embargo, no ha puesto en evidencia su carácter estructural, importante para las relaciones ruso-europeas y ruso-japonesas, es decir, el de ser el puente eurasiático entre la península europea y el arco insular constituido por Japón.

Rusia, considerada como puente eurasiático entre Europa y Japón, obliga al Kremlin a una elección estratégica decisiva para los desarrollos del futuro escenario mundial: la desestructuración del sistema occidental. Moscú puede conseguir tal objetivo con éxito, a medio y largo plazo, intensificando las relaciones que cultiva con Ankara por cuanto respecta a las grandes infraestructuras (South Stream) y poniendo en marcha otras nuevas con respecto a la seguridad colectiva. Acuerdos de este tipo provocarían ciertamente un terremoto en toda la Unión Europea, obligando a los gobiernos europeos a tomar una posición neta entre la aceptación de una mayor subordinación a los intereses estadounidenses o la perspectiva de un partenariado euro-ruso (en la práctica, eurasiático, considerando las relaciones entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi), que respondiera en mayor medida a los intereses de las naciones y de los pueblos europeos (10). Una iniciativa análoga debería ser tomada por Moscú con respecto a Japón, incluyéndose como socio estratégico en el contexto de las nuevas relaciones entre Pekín y Tokio y, sobre todo, poniendo en marcha, siempre junto a China, un proceso apropiado de integración de Japón en el sistema de seguridad eurasiático en el ámbito de la Organización para la Cooperación de Shangai (11).

 

Clave de bóveda del nuevo orden mundial

 

Con respecto al nuevo orden mundial, Rusia parece poseer los elementos base para cumplir una función epocal, la de clave de bóveda de todo el sistema. Uno de los elementos está constituido precisamente por su centralidad en el ámbito eurasiático como hemos expuesto anteriormente, otros dependen de sus relaciones con los países de la América meridional, de su política en Oriente Próximo y en Oriente Medio y de su renovado interés por la zona ártica. Estos cuatro factores resultan problemáticos ya que están estrechamente ligados a la evolución de las relaciones existentes entre Moscú y Pekín. China, como se sabe, ha estrechado, al igual que Rusia, sólidas alianzas económico-comerciales con los países emergentes de la América indiolatina, lleva en Oriente Medio y en Oriente Próximo una política de pleno apoyo a Irán y, además, manifiesta una gran atención por los territorios siberianos y árticos (12). Considerando lo que acabamos de recordar, si las relaciones entre Pekín y Moscú se desarrollan en sentido todavía más acentuadamente eurasiático, prefigurando una especie de alianza estratégica entre los dos colosos, la consolidación del nuevo sistema multipolar se beneficiará de una aceleración, en caso contrario, sufrirá una ralentización o entrará en una situación de estancamiento. La ralentización o el estancamiento proporcionarían el tiempo necesario para que el sistema occidental pudiera reconfigurarse y volviera a entrar, por tanto, en el juego en las mismas condiciones que los otros actores.

 

El nudo gordiano de Oriente Próximo y de Oriente Medio – la obligación de una elección de campo

 

Entre los elementos más arriba considerados, referentes a la función global que Rusia podría desempeñar, la política próximo y medio-oriental del Kremlin parece ser la más problemática. Esto es así a causa de la importancia que este tablero representa en el marco general del gran juego mundial y por el significado particular que ha asumido, a partir de la crisis de Suez de 1956, en el interior de las doctrinas geopolíticas estadounidenses. Como se recordará, la política rusa, o mejor, soviética, en Oriente Próximo, después de una primera orientación pro-sionista de los años 1947-48, que, por otra parte, se extendió hasta febrero de 1953, cuando se consumó la ruptura formal entre Moscú y Tel Aviv, se dirigió decididamente hacia el mundo árabe. En el sistema de alianzas de la época, el Egipto de Nasser se convirtió en el país central de esta nueva dirección del Kremlin, mientras el neo-estado sionista representó el special partner de Washington. Entre altibajos, Rusia, tras la licuefacción de la URSS, mantuvo esta orientación filo-árabe, aunque con algunas dificultades. En el cambiado marco regional, determinado por tres acontecimientos principales: a) inserción de Egipto en la esfera de influencia estadounidense; b) eliminación de Irak; c) perturbación del área afgana que atestiguan el retroceso de la influencia rusa en la región y el contextual avance, también militar, de los Estados Unidos, el país central de la política próximo y medio-oriental rusa está lógicamente representado por la República Islámica de Irán.

Mientras esto ha sido ampliamente comprendido por Pekín, en el marco de la estrategia orientada a su reforzamiento en la masa continental euroafroasiática, no se puede decir lo mismo de Moscú. Si el Kremlin no se da prisa y declara abiertamente su elección de campo a favor de Teherán, disponiéndose de esa manera a cortar el nudo gordiano que constituye la relación entre Washington y Tel Aviv, correrá el riesgo de anular su potencial función en el nuevo orden mundial.

 

* Director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org

 

(Traducido por Javier Estrada)

 

 

1. El sistema occidental, tal y como se ha afirmado desde 1945 hasta nuestros días, está estructuralmente compuesto por dos principales espacios geopolíticos distintos, el angloamericano y el de la América indiolatina, a los que se añaden porciones del espacio eurasiático. Estas últimas están constituidas por Europa (península eurasiática y cremallera euroafroasiática) y por Japón (arco insular eurasiático). La América indiolatina, Europa y Japón han de ser considerados, por tanto, en relación al sistema « occidental », más propiamente, como esferas de influencia de la potencia del otro lado del Océano.

2. La ONU, el FMI y el BM, en el ámbito de la confrontación entre el  sistema occidental guiado por los EE.UU. y las potencias eurasiáticas, de hecho, desempeñan la función de dispositivos geopolíticos por cuenta de Washington.

3. Por cuanto respecta al redescubrimietno de la vocación continental de la América centromeridional en el ámbito del debate geopolítico, madurado en relación a la oleada globalizadora de los últimos veinte años, nos remitimos, entre otros, a los trabajos de Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; señalamos, además, la reciente publicación de Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (dirección editorial a cargo de Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L'eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milán 2006.

5. Por motivaciones geoestratégicas análogas, siempre referentes al cerco de la masa eurasiática, los EE.UU. consideran Japón una de sus cabezas de puente, muy semejante a la europea.

6. En el específico sector del gas y del petróleo, la influencia estadounidense y, en parte, británica determinan la elección de los miembros de la UE respecto a sus socios extra-europeos, a las rutas para el transporte de los recursos energéticos y la proyección de las consiguientes infraestructuras.

7. Un enfoque teórico referente a los procesos de transición de un Estado de una posición de subordinación a una de autonomía respecto a la esfera de influencia en que se inscribe, ha sido recientemente tratado por el argentino Marcelo Gullo en el ensayo La insubordinación fundante. Breve historia de la construcción  del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. A tal respecto, son significativos los llamamientos constantes de Caracas, Buenos Aires y Brasilia a la unidad continental. En el apasionado discurso de toma de posesión de la presidencia de Uruguay, que tuvo lugar en la Asamblea general del parlamento nacional el 1 de marzo de 2010, el recién elegido José Mujica Cordano, ex tupamaro, subrayó con vigor que “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Eso también en consideración de la  política “prosionista” que Washington lleva en Oriente Próximo y en Oriente Medio. Véase a tal propósito el largo ensayo de J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milán, 2007 (Hay versión española, El lobby israelí, Taurus, 2007).

10. Una hipótesis de partenariado euro-ruso, basado en el eje París-Berlín-Moscú, fue propuesto en un contexto diverso del actual en el brillante ensayo de Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausana 2002.

11. La ampliación de las estructuras continentales (globales en el caso de la OTAN) de seguridad y defensa parece ser el índice del grado de consolidación del sistema multipolar. Además de la OTAN, la OTSC y las iniciativas en el ámbito de la OCS, hay que recordar también el Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de  la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 Marzo 2010.

 

vendredi, 26 mars 2010

Energie voor Europa: het belang van goede banden met Rusland en Iran

EnergieHet internationale grootkapitaal is ambitieus. Het wil zoveel als mogelijk haar macht uitbreiden. Elkeen die in de weg staat, moet “geneutraliseerd” worden . Na pogingen in Servië, Georgië, Oekraïne, Kirgizië, Oezbekistan, Irak en anderen is nu Iran aan de beurt. Het gebruikte trukje is eenvoudig. Ofwel organiseert de CIA en aanverwante organisaties door aanvoer van letterlijk hele kisten vol dollars “spontane betogingen”, ofwel bombardeert men het land en zijn bevolking.

In het Midden-Oosten bevinden zich een paar landjes die niet zwichten voor de duivelse wellustige gulzigheid van het internationale grootkapitaal. Palestina en Syrië zijn bij ons even bekend als Iran.

De opkomst en groei van de BRIC-landen (Brazilië, Rusland, India en China) maken het leven van de Amerikaanse economische bovenlaag zuur. Heel wat olie- en gasreserves liggen in landen die de VS beschouwen als “kwaadaardig”.

De vraag naar olie en gas neemt wereldwijd toe. De energieproductie concentreert zich meer en meer op landen met grote reserves zoals Rusland, het Midden-Oosten, Iran, Venezuela, enzovoort. De grootste wereldeconomieën worden meer en meer afhankelijk van energie-invoer uit deze landen. De importafhankelijkheid stijgt tot boven de 80% voor de VS, de EU-landen, China en India. Net als de andere veelverbruikers Japan en Zuid-Korea zullen de Europese landen – uitgezonderd Rusland - zo goed als volledig afhankelijk worden van invoer. Met andere woorden : de importafhankelijkheid van 80% zal nog toenemen naar een getal dat zich niet ver van de 100% bevindt. Dit is een voor ons uitermate zwakke positie. Een ietsje meer Europese actie zou meer dan welkom zijn. Het valt op dat Europa er door middel van de alles verlammende Europese Unie passief bij staat.  

Er zijn een paar belangrijke geografische aspecten waar we rekening moeten mee houden : met Europa als continent (omdat wij nu eenmaal hier wonen); met de energieleveranciers en met energiecorridors (transport van energie). De belangrijkste vraag voor ons luidt : wie levert ons de nodige energie en langs welke wegen wordt deze tot bij ons gebracht ? De Europese landen zijn het aan zichzelf verplicht om het eigen belang voorop te stellen. Maar het gebeurt niet.

Iran en de Straat van Hormuz

Iran is net als Rusland een belangrijke energieleverancier.  Het land is echter totaal omsingels door VS-gezinde regeringen en de daarbijhorende Amerikaanse troepen zoals Saoudi-Arabië, Irak (waar de VS nu de door hun gebrachte chaos misbruiken om er aan de macht te zijn), Pakistan en het chaotische Afghanistan. Iets verder bevindt zich het oorlogszuchtige Israël. Rusland-Iran

Belangrijk voor olieuitvoer is de Straat van Hormuz. Deze 21 kilometer brede watercorridor verbindt de Perzische Golf (gelegen aan de zuidkust van Iran) met de Indische Oceaan.  Aan de andere kant van de Perzische golf liggen Saoudi-Arabië, de Verenigde Arabische Emiraten en in het verlengde van de Perzische Golf, de Golf van Oman, bevindt zich het Sultanaat Oman. In de geopolitiek wordt het belang van waterwegen nooit onderschat. De Straat van Hormuz is één van de drukst bevaarde waterwegen. Dagelijks passeren er 17 miljoen vaten olie en 31 miljoen ton vloeibaar gas. De productievolumes van de VS, Europa, Rusland en Azië zullen met de jaren afnemen waardoor de productie in het Midden-Oosten aan belang zal toenemen. Europese landen kunnen zich op deze veranderende situatie beter goed voorbereiden. Het Internationaal Energie Agentschap (IEA) voorspelt dat het olievervoer door de Straat van Hormuz  zal verdubbelen. Men schat dat er dagelijks spoedig 35 miljoen vaten per dag zullen passeren. Ook het gasvervoer zal er enorm toenemen. De Straat van Hormuz wint zienderogen aan belang als energiecorridor van de wereldeconomie. De goede verstaander begrijpt waarom de VS met alle macht deze regio helemaal in handen willen hebben en waarom ze niet opgezet zijn met het “lastige” Iran. De VS importeren via deze Straat dagelijks 2,5 miljoen vaten olie. De regio wordt voor een groot deel door de VS gecontroleerd. Zij beschouwen Iran als een “gevaar”. Iran bevindt zich in een perfecte strategische positie om er de doorgang van olie en gas te bedreigen. Iraanse leiders hebben al gedreigd de olietransporten te verhinderen indien het land wordt aangevallen. Israël zal een zware verantwoordelijkheid op zich nemen indien het zelf Iran aanvalt of de aanval aan de VS-troepen overlaat (via de almachtige Israel-lobby in de VS). De gevolgen van een aanval op Iran zullen het transport en de de prijs van de olie niet in het voordeel van de Europese consument doen evolueren.

Ook de Chinezen beschouwen de Amerikaanse dominantie van de Straat als een bedreiging. In dit kader werden er al contracten afgesloten met Abu Dhabi om de Straat van Hormuz te omzeilen en olie via pijpleidingen naar China te brengen. Hoofdaannemers zijn twee dochterfirma’s van het Chinese staatsbedrijf CNPC.

Oekraïne en de Zwarte Zee

De gasproductie neemt in Europa zienderogen af terwijl de vraag toeneemt. De aanvoer van gas naar Europa gebeurt hoofdzakelijk door pijpleidingen. Zuid-Europa wordt bevooraad via Noord-Afrika, Trinidad-Tobago en het Midden-Oosten. Noord-west Europa krijgt gas van Noorwegen en Rusland. Oost-Europa is helemaal afhankelijk van Russische aanvoer.

Geheel Europa is nu al voor 25% afhankelijk van Russisch gas. Hiervan komt 80% binnen via de Oekraïnse corridor en 20% via Wit-Rusland. De grote afhankelijkheid van de Oekraïnse corridor veroorzaakte veel ongemak bij de Europese landen en bij Rusland omdat het land tijdens de pro-westerse periode de pijpleidingen liet verrotten. Hierdoor vermindert de doorvoer van gas jaarlijks aanzienlijk. De winsten op transitvergoedingen verdwenen veelal in diepe zakken terwijl er zo goed als geen onderhoud werd gedaan. Het is in het belang van alle  partijen (West-Europa, Oekraïne en Rusland) dat de huidige nieuwe regering onder Janoekovitsj  orde schept, de corruptie aanpakt, en mee kan bijdragen aan het bevorderen van goede relaties tussen Rusland, Oekraïne en de Europese landen.

De Europese landen en Rusland waren tot 2004 accoord dat er een Baltische pijpleiding van Rusland naar Duitsland moest komen. Deze zou gewoon door de Baltische Zee lopen. Nu heeft Europa geen zin meer omdat de Baltische landen en Polen dit plots niet meer zien zitten. De Baltische landen en Polen hebben een pattent op  “Russen pesten”.  Zij vrezen dat ze met de komst van de pijpleiding door zee niet meer over een “pest- en verhindermogelijkheden” beschikken. Ook vrezen ze vele transitinkomsten te missen. Een onbegrijpelijk anti-Russisch gedrag gezien deze landen extreem afhankelijk zijn van Russische energie. 

Om de problematische Oekraïnse corridor te omzeilen werken Russen en Italianen aan een nieuwe pijpleiding via de Zwarte Zee en Turkije. De Zwarte Zee is heel belangrijk voor Rusland. Het voert langs daar heel veel olie uit komende vanuit het Russische binnenland en Kaspische Zee. Deze pijpleiding vormt zware concurrentie voor de Nabucco-pijpleiding, die ooit bedoeld was om Iraans gas naar Europa te brengen. Ondanks het gegeven dat deze pijpleiding een verbinding legt tussen Iran en Azerbeidjan enerzijds en West-Europa anderzijds, hebben de VS de aanleg van deze lijn actief gesteund. Als dat geen bemoeienis is in onze zaken ! Gezien Iran niet zomaar naar de Atlantische pijpen danst, wilde men zich in het Atlantische kamp in andere Kaspische landen bevoorraden zoals Turkmenistanen Azerbeidjan. Maar Turkmeens gas wordt voornamelijk door de Russen opgekocht. Een deel dient voor de Russische markt, een ander deel(tje) wordt doorverkocht aan de rest van Europa.  De Europese landen strijden dus in twee blokken – Rusland tegenover de rest van Europa - om Kaspische energie. Intussen heeft ook China zijn geopolitieke belangen en plannen in de Kaspische regio laten zien.

De corridor van Xinjiang

De economische bonzen hebben allen hun oog laten vallen op Centraal-Azië. Japan had na de val van de Sovjet-Unie sterke ambities in die regio, ambities die het moest opbergen wegens politieke hinderpalen. China’s vraag naar meer en meer energie leidde naar het opdrogen van Chinese energietransporten naar Japan.

Centraal-Aziatische grondstoffen dragen bij aan de verdere ontwikkeling van Oost-Azië. Chinese energiebedrijven trachten de energierijke Chinese regio Xinjiang te integreren met de omgeving. Sinds 2006 stroomt er olie van Kazachtstan naar China. Deze pijleidingen zullen door getrokken worden naar de olierijke Kaspische Zee-regio. China sloot ondertussen overeenkosten met Oezbekistan, Turkmenistan en Kazachstan. Verder hebben de Russen een plan om gas uit West-Siberië over het Altajgebergte naar Xinjiang te voeren.  De Russen hebben steeds een grote voorkeur gehad om met Europa zaken te doen, maar de EU heeft onder Amerikaanse druk Ruslands uitgestoken hand steeds geweigerd. De Russen zijn niet van gisteren en besluiten dan maar om zich op hun eigen achtertuin te wenden : Centraal-Azië en China. Dit scenario komt sterk overeen met wat het Amerikaanse grootkapitaal wenst : Rusland weghouden van de rest van Europa en verder richting Azië wegdringen.

Hoewel Xinjiang zelf 25 miljoen ton olie en 16 miljoen ton gas produceert, volstaat dit niet om de energienoden van de energieverslindende Chinese kust te bevredigen. Als energiecorridor naar Centraal-Azië en Rusland is Xinjiang in Noord-West China uitermate belangrijk.  De grens met Pakistan neemt ook aan belang toe. De Chinezen hebben al miljarden geïnversteerd in de Pakistaanse haven Gwadar, gelegen aan de Arabische Zee. Wie de kaart bekijkt, ziet dat de haven op amper 400 kilometer van de Straat van Hormuz ligt . De haven biedt toegang tot de Perzische Golf en de Zee van Oman. Midden-Oosterse en Afrikaanse energietransporten worden met dit strategisch punt enorm ingekort. Nu wordt er nog veel geïmporteerd via de Straat van Malakka. De Straat van Malakka is de belangrijkste route tussen de Indische Oceaan en de Stille Oceaan. Hier worden alle belangrijke Aziatische economieën (India, China, Japan, Zuid-Korea en Taiwan) met elkaar verbonden. Er varen jaarlijks meer dan 50.000 schepen doorheen. Men kan makkelijk begrijpen dat China deze drukke en voor hen lange route wil inkorten. Daarbij komt de moeilijkheid dat de Straat niet diep genoeg is – amper 25 meter -  om de zwaarste olietankers door te laten.

Het Panamakanaal

Het Panamakanaal is zeer belangrijk en hoofdzakelijk aangelegd voor de Amerikaanse economie. Het werd in 1914 aangelegd om de route tussen New York en San Francisco de helft korter te maken. Vandaag zien we dat het Panamakanaal een belangrijke energiecorridor vormt tussen Latijns-Amerika en Oost-Azië. Hugo Chavez, president van Venezuela en groot tegenstander van de VS, beschouwt het kanaal als primordiaal voor de ontwikkeling van de energisector van zijn land. Venezuela beschikt over zware olie en bevat potentieel veel olievelden. Het kan mettertijd de belangrijkste olieleverancier van de wereld worden. Chavez heeft terecht de hele energiesector genationaliseerd. De opbrengsten moeten aan het hele volk ten goede komen en niet aan enkelen, zoals bijvoorbeeld in de VS en in Rusland. Chinese en Russische bedrijven vervangen er de Amerikaanse. China importeert nu al duizenden tonnen olie uit Venezuela en wil het aantal opdrijven. Ook Japan heeft zijn zinnen op de Venezuelaanse olie gezet. Alle Latijns-Amerikaanse olie richting Azië wordt langs het Panamakanaal vervoerd. In 1999 droegen de VS de eigendomsrechten over het kanaal over aan Panama. Het bedrijf Hutchinson-Whampoa van de Hong Kong-Chinese oligarch Li Ka-Shing kocht zich een controlerend belang in waarmee hij meer specifiek beide kanten van het kanaal controleert. Hiermee zijn de Chinese belangen veilig gesteld.

De VS zijn wereldmijd oppermachtig. Maar er groeit concurrentie. Rusland kan steeds beter om met zijn energieproductie en de transitzones. China en India staan aan de deur te kloppen om in de hoogste afdeling mee te dingen naar de kampioenstitel.

Besluit :

China heeft begrepen wat de Europese landen niet willen begrijpen : het opkomen zonder limieten voor het eigen belang. Iran is het enige niet door de VS gedomineerd land in de olierijke Kaspische regio. De Chinezen weten dit en handelen er naar. De vandaag zeer passieve Europese landen staan voor de keuze : of blijven meeheulen met de VS, die ons al 65 jaar bezetten, ons Kosovo aan de hand heeft gedaan en Turkije aan ons been willen lappen, ofwel accoorden sluiten met vrije landen zoals Rusland, Iran en Venzuela. In het kader van een remigratiepolitiek is het trouwens steeds goed om met bepaalde landen goede banden te hebben.

De Europese landen hebben de mogelijkheid om wereldwijd een rol van belang te spelen. Om een rol van belang te spelen moet men eerst en vooral binnenlands stevig op de benen staan. De Europese Unie is een nefaste contructie die best wordt opgeheven. In de plaats kan een verbond (overlegorgaan) komen van vrije landen en volkeren. De EU is één van de verlengstukken van de NAVO, die op zijn beurt de militaire arm is van het internationale grootkapitaal. De NAVO strijdt niet voor een rechtvaardige wereld – want dan zouden ze Israël moeten aanvallen – maar voor de economische belangen van een bepaalde economische kaste.

De Lage Landen zijn volledig importafhankelijk wat betreft primordiale levensbehoeften : voedsel en energie. Onze landbouw wordt doelbewust ten voordele van Amerikaanse genetisch gemanipuleerde import vernietigd. Energie uit fossiele brandstoffen hebben we opgegeven. Onze Europese politici hebben ons lot verbonden aan dat van de goede wil van de VS. De VS hebben echter een eigen politieke agenda : Europa zo veel mogelijk verzwakken. Zij beschouwen ons nog steeds als een gevaarlijke potentiële concurrent.

In afwachting van de ontbinding van de Europese Unie (als instituut) en de oprichting van een Europees overlegorgaan, kunnen de lage Landen best nu al uit de EU stappen. Dan kunnen we zelf vrij en ongebonden akkoorden sluiten met Rusland, Iran, Venezuela en andere belangrijke geopolitieke gebieden en landen.

Kris Roman
N-SA coördinator Buitenlandse Contacten

N-SA coördinator geopolitieke denktank "Euro-Rus"

samedi, 20 mars 2010

L'ombre de la CIA sur Kiev

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Siro ASINELLI:
L’ombre de la CIA sur Kiev

Les Fondations Soros et Ford, la Freedom House et la CIA financent les “révolutions démocratiques” dans le monde

or1.jpgLe sort de la “révolution orange” en Ukraine, Monsieur James Woolsey y tient. Il ne peut en être autrement, puisqu’il est le directeur de la “Freedom House”, une organisation non gouvernementale américaine qui possède des sièges à Washington, New York, Budapest, Bucarest, Belgrade, Kiev et Varsovie. Elle se définit comme “une voix claire et forte qui veut la démocratie et la liberté pour le monde” et qui s’active “pour promouvoir les valeurs démocratiques et pour s’opposer aux dictatures”. Ce Monsieur James Woolsey dirige une brochette de politiciens, d’universitaires, d’industriels et d’intellectuels “transversaux”. Ce Monsieur James Woolsey a été, il y a quelques années, en 1995, le directeur de la CIA avant de s’occuper à “exporter la démocratie et la liberté dans le monde”. Grâce aux efforts d’innombrables activistes, issus de la “Freedom House”, et grâce à l’assistance économique, si charitable, d’autres organismes, comme ceux, bien connus, que sont les Fondations Soros et Ford, ce Monsieur James Woolsey  —dont les “honnêtes activités” s’étendent maintenant sur plus de soixante années—  peut désormais concentrer ses efforts dans “la lutte pour la liberté”, dans des pays meurtris et abrutis par une quelconque mélasse dictatoriale. Le palmarès de Woolsey et de ses amis est impressionnant : ils ont soutenu le “Plan Marshall” en Europe, favorisé la création de l’OTAN dans les années 40 et 50, multiplié leurs activités au Vietnam  pendant et après la guerre menée par ce peuple contre les Américains; ils ont financé Solidarnosc en Pologne et l’opposition “démocratique” aux Philippines dans les années 80.

Ce sont là les activités les plus médiatisées de cette “bonne” ONG et c’est sans compter les actions de “vigoureuse opposition aux dictatures” en Amérique centrale, au Chili, en Afrique du Sud ou durant le “Printemps de Prague”. Elle a aussi favorisé l’opposition à la présence soviétique en Afghanistan. Elle a excité les conflits inter-ethniques en Bosnie et au Rwanda. Elle s’est opposée à la “violation des droits de l’homme” à Cuba, au Myanmar, en Chine et en Irak. Elle s’est ensuite montrée hyper-active dans l’exportation de la “démocratie et de la liberté” dans les républiques de l’ex-URSS et dans l’ex-Yougoslavie post-titiste. C’est précisément dans cette ex-Yougoslavie, où le “mal” était personnifié par le Président Slobodan Milosevic, que notre ONG a peaufiné ses stratégies d’intervention, afin de les exporter ensuite en d’autres contrées, où le contexte est plus ou moins analogue. Notre bon Monsieur Woolsey a donc accueilli au sein de son organisation Stanko Lazendic et Aleksandar Maric, deux activistes serbes, peu connus de nos médias, mais qui ont joué un rôle-clef dans la chute de Milosevic. Ces deux personnages figurent parmi les fondateurs du mouvement étudiant “Optor” (= “Résistance”), aujourd’hui dissous, mais absorbé par le “Centre pour la révolution non violente” de Belgrade. Peu de temps avant la chute de Milosevic, le 5 octobre 2000, les militants d’Optor ont été invités en Hongrie, dans les salons de l’Hôtel Hilton de Budapest, où un certain Monsieur Robert Helvy leur a prodigué des cours intensifs sur les méthodes du combat non violent. Ce Monsieur Robert Helvy est un colonel à la retraite de l’armée américaine, vétéran du Vietnam. Robert Helvy a admis, face à la presse étrangère, avoir été, en son temps, engagé par l’Institut International Républicain, l’IRI, basé à Washington, afin de former les jeunes cadres militants d’Optor. Stanko Lazendic a révélé que le colonel était présent lors des séminaires : “Mais quand nous sommes allés là-bas, jamais nous n’avions pensé qu’il pouvait travailler pour la CIA. Ce qu’il a enseigné, nous l’avons appris d’autres personnes”.

Aujourd’hui, les méthodes qui ont été enseignées au tandem “Lazendic & Maric” pour le compte de la “Freedom House” sont en train d’être appliquées en Ukraine. Elles consistent à “exporter le Verbe démocratique” de maison en maison, d’université en université, de place publique en place publique. Un travail analogue s’effectue en Biélorussie, mais, dans ce pays, la mayonnaise ne semble pas prendre. En Ukraine, en revanche, les deux Serbes sont particulièrement actifs dans la formation et l’encadrement des militants et des cadres du mouvement “Pora” (= “C’est l’heure”), qui est inféodé à Iouchtchenko et a reçu la bénédiction de Madeleine Albright et de Richard Holbrooke, les deux stratèges de l’exportation de la “démocratie atlantiste”. La CIA, entre-temps, aide la “révolution orange” en marche depuis 2002 déjà, dès qu’elle a libéré 50.000 dollars pour créer la plate-forme internet de l’ONG qui s’oppose au duumvirat Kouchma-Yanoukovitch. Ensuite, elle a libéré 150.000 dollars pour créer un groupe de pression à l’intérieur du Parlement. Et encore 400.000 autres dollars pour former des candidats aux élections locales et des cadres syndicaux. Cette stratégie ressemble très fort à celle qui vient d’être appliquée en Géorgie, lors de la “révolution des roses”, où Washington à soutenu Saakashvili. Maric est arrivé mardi 30 novembre à l’aéroport de Kiev, sans donner d’explication quant à sa présence dans la capitale ukrainienne. Lazendic vient de confirmer, dans un interview, “que son compagnon n’avait pas été autorisé à entrer sur le territoire ukrainien”, “tant que ses papiers ne seraient pas tous en ordre”. La carrière ukrainienne de ce Monsieur Maric a donc été interrompue, en dépit de sa grande expérience de commis voyageur à la solde de Washington en Géorgie et en Biélorussie. Lazendic, lui, se vante d’avoir “fait des séjours démocratiques” en Bosnie et en Ukraine. Le mouvement “Pora”, “actif dans la diffusion des valeurs démocratiques et dans l’opposition aux dictatures”, est désormais privé des lumières du sieur Maric. Mais que l’on soit sans crainte, les “démocrates” peuvent toujours envoyer leur contribution financière au “mouvement orange”, via un compte de la “JP Morgan Bank” de Brooklyn, New York.

Siro ASINELLI,
Article paru dans “Rinascita”, Rome, 2 décembre 2004.

vendredi, 19 mars 2010

Mikhalkov, la France et la Russie

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Mikhalkov, la France et la Russie

Nikita Mikhalkov a donné une ITV a Telerama que vous pouvez trouver ici

"Le monde ressemble de plus en plus à la boutade géniale de Woody Allen : « J'ai pris un cours de lecture rapide et j'ai pu lire Guerre et paix en vingt minutes : ça parle de la Russie. » C'est vrai que vous cliquez sur Internet et hop, vous avez Anna Karénine résumé en cinq lignes. Ça devient franchement débile".

"La Russie a connu une crise grave. Et elle commence à s'en relever. Ce pays, je l'ai parcouru de fond en comble – contrairement à certains dirigeants qui croient le connaître parce qu'ils vont de Moscou à Saint-Pétersbourg. Je ne peux plus supporter ces supposés intellos qui discutent entre eux de problèmes qui les concernent".

" Après la perestroïka, l'Europe s'est réjouie. Puis, elle a été saisie d'effroi : qu'est-ce que ces sauvages de Russes allaient bien pouvoir inventer, maintenant qu'ils étaient libres ?... La chère Europe panique vite. Et elle a tendance à s'illusionner sur elle-même : elle croit que vingt-sept vieillards pourront, par miracle, se métamorphoser en un seul adolescent sain et vigoureux. Elle commence juste à s'apercevoir que ça ne marche pas ainsi".

"L'Europe aurait dû accueillir cette Russie déboussolée, empêtrée dans les excès d'un capitalisme sauvage. Lui sourire, l'aider. Mais vous avez choisi de rester fidèles à d'autres amitiés. Pas sûr que vous ayez eu raison : vous allez voir comment Obama va traiter l'Europe, d'ici quelque temps".

"Qu'est-ce qu'il vous reste, en France ? Votre gastronomie, géniale. Votre culture, magnifique : Orsay, le Louvre... L'Europe est un musée. Qu'elle le reste. L'énergie, aujourd'hui, vient de l'Inde, de la Chine, demain de l'Afrique... C'est avec eux désormais que la Russie va traiter".

"Poutine un autocrate ? Mais c'est incroyable, cette certitude que vous avez de savoir, mieux que les autres, ce qui convient à tout le monde ! Poutine, que vous méprisez tant, a rendu aux Russes leur dignité perdue. Si vous ne comprenez pas ça, vous ne comprendrez rien à ce pays". 

"J'ai regardé la façon dont l'Europe se fichait de lui lorsqu'en 2007, à Munich, lors de la conférence sur la politique de sécurité, il mettait en garde les Américains contre leur politique dans les Balkans et en Albanie, qui pouvait selon lui provoquer une nouvelle guerre froide. Je regardais les participants et je voyais que, même s'ils étaient d'accord avec le discours de Poutine, ils le démoliraient pour ne pas déplaire aux Américains, qui, pour la plupart, ne connaissent rien aux Balkans et ne sauraient pas où situer l'Albanie. Mais voilà : tout était joué d'avance".

"Mais, encore une fois, qui vous dit que votre mode de vie est meilleur que celui... des Afghans ? Ou des Arabes" ?

" La démocratie est plus facile à appliquer quand on est calé sur le même fuseau horaire. En France, il est 13 heures à Paris, à Lyon et à Marseille. Chez nous, quand 21 heures sonnent à Moscou, il est midi au Kamtchatka ".

"La Russie c'est un continent à part, la Russie. C'est l'Eurasie."

" Je suis russe, orthodoxe. Je me sens russe et orthodoxe où que j'aille : voilà ma vérité. Je suis un patriote ... Je suis prêt à accepter n'importe quelle opinion et n'importe quelle culture, à condition qu'on ne me l'impose pas. Mais si quelqu'un m'oblige à suivre sa voie, je l'envoie se faire foutre".

"British" link to Beslan child massacre

 

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Archives: Oct./8/2004 http://ca.altermedia.info/

“British” link to Beslan child massacre

 



A terrorist amongst the group responsible for the Beslan school massacre last month, in which 300 people, half of them children, died turns out to be a British citizen who attended the infamous Finsbury Park mosque in north London where Abu Hamza used to preach.

 

Two other members of the group, loyal to Chechen warlord and terrorist Shamil Basayev, are also believed to have been active at the mosque until less than three years ago.

Algerians

Russian security sources described Kamel Rabat Bouralha, 46 years old, as an aide of Basayev. The three men, all Algerian-born immigrants given asylum in Britain, travelled to Chechnya from London to take part in fighting there in 2001.

Russian authorities have identified most of the 33 men who occupied the school in Beslan last month and they include two Algerians in their mid-30s called Osman Larussi and Yacine Benalia, both based in London until recently. Like Bouralha, they too attended Finsbury Park mosque and joined the network of groups loyal to Basayev on arrival in Chechnya.

Firing range uncovered

Former associates in London confirmed that Bouralha had been a frequent visitor at Finsbury Park mosque where Abu Hamza preached from around 2000. This is the same mosque where the Metropolitan Police discovered a firing range and ammunition beneath the floors in a cellar.

 

According to Russian security sources, there are up to 300 Arab mercenaries operating with rebel formations in Chechnya. This fact defeats the lie used by the ‘ apologists for terror ‘ like Vanessa Redgrave, a celebrity Marxist and leading light in the Islamo-Soviet front in Britain, who insists that the war in Chechnya is a “defensive” one by Chechens against Russia and not part of a global jihad (or holy war). Vanessa Redgrave in her role as an apologist for terror guaranteed the £50,000 bail of Akhmed Zakayev, an Chechen warlord wanted by Russia, until he was given asylum in Britain by Jack Straw even though he was implicated in scores of murders in Russia and Chechnya.

London’s role as centre of terror web

It is to Britain’s shame that thousands of Afghanistan trained ex-Taliban, Algerian terrorists, Chechen warlords and other various murderous bandits from around the world have turned London into “Londonistan"; the centre of terror-recruiting and now the terror-exporting capital of the world.

 

Under both Labour and Tory governments the open borders of Britain and the insane asylum system have been used to wage war against the innocent of the world. Britain’s MI5 and MI6 estimate that at least seven to ten thousand Afghanistan trained Islamic terrorists are resident in Britain. These are the many thousand “ticking bombs” in our towns and cities waiting for the right time to wage war upon us in our own homes and streets.

 

 

jeudi, 18 mars 2010

Une analyse dissonante de la décennie postsoviétique

Une analyse dissonante de la décennie postsoviétique


Je vous traduis ci-dessous un texte de Sublime Oblivion, l'étude est très intéressante et va bien à l'encontre des aprioris que nos médias nous donnent sur l'espace Eurasien.

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Cela fait 20 ans que l'URSS a disparue et que les pays de l'ex bloc de l'est sont devenues des acteurs à part entière de l'économie de marché. Cela fait 20 ans que l'on nous présente ses pays divisés en 3 groupes principaux, ceux qui ont parfaitement réussis leur transition démocratique et libérale (les tigres Baltes), et les autres, soit des états qui seraient des états socialistes de marché (Biélorussie) et ceux qui seraient des économies fondées uniquement sur les matières premières (Russie).

Sublime Oblivion a utilisé de nombreuses sources (les statistiques de Angus Madison, les chiffres de la CIA et les projections du FMIpour 2010 afin de créer un nouvel indice : "Indice post soviétique de l'analyse de l'évolution du produit intérieur brut annuel par habitant, en parité de pouvoir d'achat (PPA)", cet indice est basé sur une référence départ de "100" pour l'année 1989 (chute du mur). 
De façon "surprenante", la Biélorussie, nation décriée et que l'on nous fait passer pour une économie 1/3 mondiste et une dictature politique, cette économie socialiste de marché est plus productive qu'elle ne l'était en 1989 et devance largement ses pairs de l'espace post soviétique. En outre, la Biélorussie reste un des états les plus "équilibrés socialement" du monde. Après le chaos des années 90 (suite à la chute du mur) l'économie Biélorusse s'est bien redressée (bénéficiant certes de ressources pétrolières à bas prix par le voisin et ami Russe) mais également sachant parfaitement développer une industrie assez efficace (tracteurs, frigidaires, camions, réfrigérateurs, produits électroniques ..) dont la production est écoulée dans tout l'espace Eurasiatique. Evidemment, l'évolution part d'assez bas, la Biélorussie était un des états les plus pauvres du monde industrialisé et si le pays est attractif pour les retraités et les pensionnaires (les pensions y sont par exemple plus élevées qu'en Russie) ce n'est pas (encore?) un état jugé attractif pour les jeunes européens.
Les tigres Baltes ont subi une très forte croissance dans les années 2000 et cela jusqu'en aout 2008. Ces états que l'on nous présentait comme des modèles de stabilité et de démocratie (sauf pour les 30% de citoyens Russophones) ont en effet attirés les investissements financiers étrangers et finalisés et réussis leur intégration dans l'UE. Et puis dès le début de la crise, les investisseurs ont pris peur et les crédits ont été retirés du pays. Dès lors le château de cartes d'est effondré. Les états Baltes ont été de loin les états les plus touchés en Europe par la crise économique. Leur totale fragilité et l'illusoire solidité économique est alors apparue au grand jour. Aujourd'hui les pronostics les plus optimistes envisagent un retour à la situation de 2007 au mieux 2014 (!). D'ici la il est plausible que les états subissent une grosse émigration de population, tout comme l'Ukraine, vers l'ouest mais aussi vers la Russie ce qui à terme renforcerait le poids politique / économique de la Russie dans ces différents pays.
La Russie justement, à de loin la plus importante économie de la région post soviétique.  Suite à cela, on peut différencier 2 périodes différentes :1989 - 1999 : un tzar faible (Eltsine) était soumis à de puissants Boyards (les Oligarques) qui défendaient chacun leurs intérêts (personnels) mais surtout une vision politique (en partie dictée de l'étranger) : ne pas permettre de retour à un pouvoir politique fort (qui les auraient empêcher de piller le pays) et surtout empêcher le retour des communistes au pouvoir (afin de pouvoir se présenter comme rempart contre ces derniers devant l'Occident et ainsi justifier leur existence).
2000 -..... : un tzar fort a repris le pouvoir et inversé les tendances. Grâce à un retour en force du politique et en bénéficiant du prix élevés des matières premières, ce tzar fort (poutine) a relancé la machine économique et transformé les boyards insoumis en servants dociles ou en les neutralisant complètement.
Bien sur la performance économique de la Russie est insuffisante encore aujourd'hui mais c'est le pays qui revient du plus loin et la décennie Poutine à sauvé le pays du néant et de la catastrophe, ce qui aurait déstabilisé tous les pays voisins. En outre la Russie, comme les pays Baltes était déjà relativement industrialisée et n'a donc pas pu bénéficier d'une croissance ultra forte comme les pays Baltes (investissements financiers bien plus faible) ou la Biélorussie (croissance par une industrialisation forte).  les lecteurs doivent bien comprendre que pendant la première partie de son règne, le pouvoir Russe n'a pas pu se focaliser sur le développement économique mais sur empêcher l'implosion du pays. Il est relativement accepté aujourd'hui que Poutine a empêché l'effondrement mais que c'est Medvedev qui va désormais guider la barque et se charger de la modernisation du pays.

Il a été dit partout que la Russie allait s'effondrer et que la crise allait la frapper de plein fouet. Pourtant j'ai répété ci et la que la crise a touché la Russie "avant" les pays Occidentaux, les sorties de capitaux (poussés par les Américains dès la crise en Georgie) et la baisse des matières premières, ainsi que l'effondrement boursier ayant commencé dès le mois d'aout 2008. Il n'est pas secret non plus que la très grande majorité des gros groupes Russes (d'état notamment) avaient concocté des crédits auprès de banques et d'organismes de crédits Occidentaux et Américains et que les marchés émergents ont été les premiers touchés par les "coupures" de crédits par ces mêmes organismes lorsque la crise a commencé a réellement se faire sentir. Dès lors les coup bas des spéculateurs ont contribué à affaiblir la Russie. Pourtant la Russie se trouve aujourd'hui dans une situation bien meilleure que ses voisins et tous les pronostics sérieux envisagent une sortie de crise pour ce premier trimestre, voir une croissance relativement fortepour l'année 2010 en Russie. Sa solidité politique et ses énormes réserves de change (les 3ièmes au monde) sont en effet deux atouts majeurs pour les années qui viennent (lire à ce sujet cette analyse sur la crise en Russie).
La pire performance de l'espace post soviétique vient de l'Ukraine que l'on nous montre depuis 2005 comme éventuel futur membre de l'UE (!). Pourtant, jusque dans les années 2004, 2005 ce pays était dans la situation de la Biélorussie et recevait autant de gaz à très bas prix que la Biélorussie. Sa position proche de l'UE (via la Pologne marché en plein développement) est également un "plus" non négligeable. En outre le pays à depuis 2005 les faveurs de l'UE et des Occidentaux (Américains en tête, surtout depuis la révolution Orange), alors comment se fait il que ce pays soit moins dynamique que ses voisins ?La raison essentielle est que l'Ukraine n'a jamais réellement décollé ni quitté ses réflexes désastreux des années 90. Cet problème grave d'identité qui frappe le peuple (tiraillé entre son est orthodoxe et son Ouest "uniate") à de graves conséquences. Tout d'abord il enlève toute légitimité (à hauteur de 50%) à tous les politiques (d'ou la faiblesse du Tzar Ukrainien de l'après chute du mur). Cette absence de stabilité politique empêche tout investissement étranger, notamment dans sa partie pauvre et Occidentale, pro Européenne, alors que son est riche et industriel bénéficie lui des crédits et des investissements Russes. C'est une des raisons de l'échec des Orangistes, qui en plus totalement fait cesser la croissance (jusque la pourtant à 2 chiffres), d'avoir ruiné l'état en tentant d'appliquer des réformes libérales sous forme d'un copié collé archaïque, ont laissé une corruption "bien plus" endémique qu'en Russie ou dans les autres états de l'espace post Soviétique, tout en coupant une partie de population de ses racines et de liens amicaux avec son créditeur le plus puissant et le mieux disposé : la Russie. Peut être que l'élection de Ianoukovitch est la meilleure chose qui puisse arriver à ce pays, a savoir un nouveau tzar (moins faible) car adoubé par et l'est et l'ouest et qui tente de replacer l'Ukraine la ou elle doit être, hors de l'OTAN, hors d'une UE ruinée et en décomposition, et dans le nouvel espace douanier Eurasiatique en construction.

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Ci dessous un schéma des autres principales économies (moins développées) d'ex URSS.
L'Azerbaijan est en tête de ces pays, principalement grâce au développement de sa production pétrolière, qui a été multipliée par cinq depuis le début des années 2000. L'utilisation des revenus de ces matières premières à largement contribué à la hausse des revenus / habitants. Une explication identique prévaut pour le Kazakhstan, dont l'évolution de 1991 à 2010 est une croissance supérieure à la Russie (la production de pétrole du Kazakhstan à été multipliée par 4 entre 1991 et 2008). 
En comparaison, la Russie ne produit que 22.6% d'énergie combustible de plus en 2008 que en 1992. La production de pétrole a atteint son apogée en 1998 (11,5 millions de barrels) et à baissé en 1992 (7,8 millions de barrels) pour remonter en 2008 (9,8 millions de barrels).  Des facteurs géologiques mais également politiques (affaire Youkos) ont contribué à ce fait. Depuis le milieu des années 2000, la croissance repose grandement sur une croissance intérieure stimulée par la grande distribution, les transports, la production et la finance ..).

L'Arménie a également connu une croissance relativement forte malgré l'absence de ressources naturelles et une situation géographique difficile notamment un voisinage Turque hostile, un conflit militaire avec un autre voisin hostile, l'Azerbaïdjan, une frontière avec une Georgie s'éloignant de la Russie et au sud l'Iran. (Il est facile d'imaginer que la très forte diaspora Arménienne à travers le monde a contribué à financer l'économie nationale et cela un peu sur le modèle Chypriote ou Libanais).
La Georgie n'a pas de résultats très probants. Le dynamisme de la révolution des roses a été un peu plus fort que après la révolution Orange en Ukraine mais le résultat est très faible pour une nation partant de très bas. Le comparatif avec l'Arménie est sans pitié, et la Georgie ne peut que se contenter d'un mieux que la Moldavie, qui n'est pas une référence en soi. Selon l'analyse de Irakli Rukhadze and Mark Hauf, la Georgie depuis 2003 a en effet été victime d'une émigration massive, d'une hausse de la pauvreté conséquente, accompagnée et poussée par une désindustrialisation violente. La corruption d'état y règne selon les auteurs, le gouvernement faisant payer les business indépendants (de l'état) pour leur éviter toutes poursuites. Cette pression politique n'est pas le fait de la Georgie, elle est relativement présente dans l'ex espace soviétique, néanmoins concernant la Georgie on peut se poser la question de l'image qu'on souhaite en donner dans les médias Occidentaux et la réalité du terrain.
Enfin l'Ouzbékistan a connu une croissance et une évolution bien meilleure que le Tajikistan. L'Ouzbékistan est pourtant une économie non réformée, autoritaire (bien plus que la Biélorussie) mais qui part vraiment de très bas. Le Tadjikistan a lui subi une terrible guerre civile dans les années 1990 (entre communistes et Islamistes) qui a tué près de 100.000 personnes et aujourd'hui c'est le pays le moins avancé de l'espace post soviétique en ce qui concerne la transition démographique (revenu utilisé / nouveau né). Le Kyzgyzstan se situe entre l'Ouzbékistan et le Tajikistan, les résultats du Turkménistan sont eux du niveau de l'Ouzbékistan, je rappelle à mes lecteurs que le Turkménistan est un régime politique très autoritaire et stable qui base ses revenus sur le pétrole et le gaz (5ème producteur au monde) mais également le coton.
L'avenir ?
La Russie a un plan de modernisation, et le ressources financières, administratives et humaines pour le mener à bien, ainsi que la volonté politique nécessaire. Il est plausible que si le pouvoir se maintient dans ces états, la Russie, la Biélorussie et le Kazakhstan continueront à connaître des taux de croissances élevés et un fort développement économique. Ces états ont un fort capital humain et semblent travailler en commun, comme le démontre la récente union douanière. Il est plausible et même certain que l'Ukraine rejoigne cet ensemble Eurasien dans les prochaines années.

EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Russia

EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Rusia

Para Moscú, la inacción de los Estados Unidos y la OTAN para combatir el tráfico de drogas en Afganistán, se traducen en una guerra no declarada contra Rusia.

El embajador ruso para la OTAN, Dmitry Rogozin, fustigó a la alianza por su falta de vigilancia sobre el tráfico de estupefacientes en el país asiático.

Afganistán produce alrededor del 90% del opio del mundo. Las drogas afganas entran en Rusia y Asia Central antes que en Europa Occidenta, y son responsables de la muerte de 30 mil rusos anualmente, dijo Rogozin.

Moscú sostuvo, también, que la producción de droga dentro de las fronteras afganas se ha incrementado 10 veces desde el 2001, año en que la OTAN liderada por los Estados Unidos invadieron ese país.


Hoy hay más de 100 mil tropas invasoras lideradas por los Estados Unidos en Afganistán; sin embargo, lejos están los invasores de lograr estabilizar el país. Desde el inicio del año 122 soldados de las fuerzas invasoras han muerto, producto de la resistencia afgana.

Extraído de La República.

mercredi, 17 mars 2010

L'OTAN: un pacte militaire en quête de sens

Bernhard TOMASCHITZ :

L’OTAN : un pacte militaire en quête de sens

 

Désormais, l’OTAN veut agir globalement pour asseoir l’hégémonie américaine

 

otan1.jpgDeux décennies après la fin de la Guerre Froide, l’OTAN est toujours à la recherche de nouveaux objectifs. On peut déjà deviner dans quelle direction portera la « nouvelle stratégie », décidée fin 2009 lors du Sommet de l’OTAN. L’Alliance atlantique cherche surtout à se donner une nouvelle justification en optant pour des missions en dehors de la zone où elle est sensée agir, des missions qualifiées en anglais de « out of area ». « A une époque d’insécurité globalisée, nous devons amorcer une défense au-delà de nos frontières », a déclaré le Secrétaire général de l’OTAN, Anders Fogh Rasmussen, lors d’une conférence sur la sécurité tenue à Munich.

 

Aujourd’hui déjà, le pacte militaire occidental et ses membres s’efforcent de se défendre « hors zone », notamment en Afghanistan. Dans le pays où se dresse la chaine montagneuse de l’Hindou Kouch, stationne une « armée de protection », l’ISAF, qui est placée sous le commandement de l’OTAN ; elle y agit toutefois sur base d’une résolution du Conseil de Sécurité de l’ONU. Dans l’avenir pourtant, on envisage de faire intervenir l’OTAN sans l’autorisation des Nations Unies, lorsque ses intérêts, ou mieux, les intérêts de Washington, sont en jeu. Car l’OTAN doit devenir, comme l’estime son Secrétaire général Rasmussen, un « forum consultatif pour les questions internationales de sécurité ».

 

Avec cette revendication globale d’hégémonie, on cherche bien évidemment à protéger, surtout contre la Chine, la position hégémonique des Etats-Unis dans le monde. Finalement, l’OTAN, comme le soulignait Rasmussen à Munich, « est surtout et avant tout une alliance transatlantique ; notre centre de gravité restera l’alliance entre l’Europe et l’Amérique du Nord ». Mais comme l’OTAN et les Etats-Unis ne pourront plus agir seuls désormais, il leur faut systématiquement mobiliser « d’autres acteurs importants » et on songe en premier lieu à la Russie. Dans ce contexte, c’est surtout le contrôle des immenses richesses du sol russe qui joue le rôle primordial, richesses que recèlent la Sibérie et l’Extrême Orient russes, peu peuplés.

 

Depuis longtemps dans le collimateur de Washington se trouvent également les incalculables réserves de matières premières des républiques centre-asiatiques, surtout celles de gaz et de pétrole. Dans le projet d’amener ces Etats dans la sphère d’influence américaine, la Turquie joue un rôle clef parce qu’elle possède d’étroites affinités linguistiques et culturelles avec les peuples turcophones d’Asie centrale. La Turquie, membre de l’OTAN, a des « intérêts spéciaux en Asie centrale », comme le dit avec insistance Zbigniew Brzezinski, conseiller toujours très influent pour la Sécurité nationale et cela, depuis le temps où il servait l’ancien président américain Jimmy Carter.

 

Pour ce qui concerne les manœuvres destinées à contrôler la Russie, les stratèges de Washington et du Quartier Général de l’OTAN à Mons en Belgique semblent suivre une double stratégie : d’une part, ils essaient de mettre la Russie devant le fait accompli en élargissant continuellement l’OTAN en direction des frontières russes ; d’autre part, ils misent sur le facteur temps. Zbigniew Brzezinski pense que les « ambitions impériales » de la Russie constituent actuellement un frein à l’inclusion de la Russie dans une « communauté euro-atlantique ». Mais il espère, en même temps, qu’une nouvelle génération de dirigeants russes reconnaîtra bientôt que renoncer aux « ambitions impériales » va dans le sens des « intérêts fondamentaux de la Russie ». Ensuite, Brzezinski espère que le terrible déclin démographique de la Russie poussera Moscou dans les bras de l’Occident. Encerclé par 500 millions d’Européens à l’Ouest et 1,5 milliard de Chinois à l’Est, le Kremlin, pour assurer un contrôle sur ses propres matières premières situées dans des régions peu peuplées, n’aurait, d’après les arguments avancés par Brzezinski, pas d’autre choix que de coopérer avec l’OTAN.

 

Mais la Russie, pour de bonnes raisons, ne perçoit pas l’OTAN comme un partenaire potentiel mais comme un adversaire. Le 5 février 2010, le jour même où l’on ouvrait la Conférence de Munich sur la sécurité, le Président Dimitri Medvedev donnait son blanc seing à la nouvelle doctrine militaire russe, destinée à demeurer en vigueur jusqu’en 2020. Dans le document qui établit cette doctrine, les militaires russes critiquent le fait que « les infrastructures militaires de l’OTAN » se rapprochent de plus en plus des frontières de la Russie ; ils estiment en outre que la mise en place d’un « système stratégique anti-missiles » constitue une menace pour la sécurité de la Russie et, qui plus est, une entorse à « l’équilibre global des forces ». Certes, on peut dire que le gouvernement d’Obama a renoncé à installer un système anti-missiles en Pologne et en Tchécoslovaquie mais, en lieu et place de cette installation préalablement prévue par les Américains, on apprend qu’un « traité bilatéral » vient d’être signé avec la Roumanie, prévoyant la mise en place d’un système de même type dans ce pays d’ici à l’année 2015, afin, prétend-on, de parer à la menace de missiles iraniens. Les militaires russes réservent toutefois leurs critiques les plus acerbes au plan américain de déployer des navires Aegis, disposant de missiles SM-3, dans les eaux de la Mer Noire. Car, selon les clauses du Traité de Montreux de 1936, auquel tant la Russie que la Roumanie ont adhéré, les navires de guerre de pays non riverains ne peuvent circuler plus de 21 jours consécutifs en Mer Noire.

 

Moscou observe aussi avec grande méfiance la constitution en août 2009 du « Conseil des Sages de l’OTAN » qui a pour tâche d’élaborer les nouvelles stratégies du pacte militaire. La présidente de ce caucus de douze personnalités n’est autre que l’ancienne ministre américaine des affaires étrangères, Madeleine Albright. Lors de son mandat, en 1999, l’OTAN avait attaqué la Serbie par la voie des airs. Parmi les autres membres de « Conseil des Sages », il faut compter Geoff Hoon. Ce Britannique était le ministre des affaires étrangères du gouvernement Blair, lorsqu’en mars 2003, la Grande-Bretagne avait fait entrer ses troupes en Irak, aux côtés de celles des Etats-Unis.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans l’hebdomadaire viennois « zur Zeit », n°7/2010 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).