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dimanche, 23 mai 2010

Alessandro Herzen alla scoperta dell' "Ultima Thule"

Alessandro Herzen alla scoperta dell' "Ultima Thule"

di Francesco Lamendola

Ex:
http://www.juliusevola.it/

Herzen.gifIl nome di Aleksandr Herzen (1812-1870) è familiare a quanti conoscono, anche superficialmente, la storia della Russia moderna: è quello del massimo esponente del populismo russo, amico di Michaìl Bakunin e fondatore del leggendario giornale La Campana. (1) Qui però non vogliamo parlare di lui, ma del maggiore dei figli che ha avuto da Natalia Ogareva (1817-1852), lui pure di nome Aleksandr, nato in Russia, a Vladimir, il 13 giugno 1839 e morto in Svizzera, a Losanna, il 24 agosto 1906, dopo una vita errabonda e irrequieta. Dopo di lui nascono Natalia, nel 1844 (morta nel 1936) e Olga, nel 1850 (morta nel 1853, come pure due fratelli maschi che muoiono prima di diventare adulti).

Dopo una giovinezza trascorsa in Gran Bretagna, Alessandro Herzen junior si trasferisce in Svizzera, a Berna, come tanti altri esuli russi di idee liberali o democratiche, cui non sorride l'idea di vivere in Russia sotto l'autocrazia zarista. Nella capitale della Confederazione Elvetica egli segue i corsi del fisiologo tedesco Maurizio Schiff, laureandosi in medicina nel 1861. Quando, due anni dopo - nel 1863 - Schiff si trasferisce in Italia come professore di anatomia e fisiologia a Firenze e fonda, in via Gino Capponi, il Laboratorio di fisiologia umana, Herzen lo segue e lavora nella capitale provvisoria del Regno d'Italia come suo assistente. L'attività dei due studiosi, però, dà esca a una violenta polemica sulla vivisezione. Nel 1873 si giunge addirittura a un processo, poiché alcuni nobili fiorentini accusano lo Schiff di turbare la quiete a causa di certi "ululati strazianti e grida di dolore [...degli] animali viventi come cani, gatti, ed ogni altra specie di animali". Herzen partecipa alla polemica con uno scritto vivace e battagliero intitolato Gli animali martiri, i loro protettori e la fisiologia. (2) In esso, fra l'altro, sostiene che "Gli animali martiri degli esperimenti fisiologici sono poca cosa rispetto agli animali martiri delle altre attività dell'uomo (sostentamento, comodo, lusso, "ghiottoneria", ignoranza, capriccio, ferocia e vanagloria, divertimento)". Da Firenze e dall'Italia, la polemica si amplifica e rimbalza in tutta Europa, coinvolgendo importanti giornali stranieri, tra i quali il Times di Londra e il Daily News; né accenna a placarsi se non dopo la partenza di Schiff dalla città in riva all'Arno. Il suo giovane assistente, comunque, ha potuto farvisi numerose amicizie, tanto che quando - nel 1876 - Schiff lascia Firenze, egli viene chiamato a ricoprire la cattedra del maestro. Herzen rimane all'Istituto di Studi superiori per altri cinque anni, fino al 1881, quando il suo temperamento inquieto lo spinge a lasciare l'Italia, per andare ad insegnare all'Accademia di Losanna. Egli si muove nel contesto del positivismo di fine Ottocento e, come epistemologo, elabora una forma di materialismo dinamico, analogo a quello professato, allora, dal fisiologo olandese Jakob Moleschott (1822-1893), autore di importanti studi sulla respirazione dei tessuti e sulla fisiologia dei nervi cardiaci, e dal geologo e chimico norvegese Johan Herman Lie Vogt (1858-1932), autore di studi fondamentali sui processi di cristallizzazione nelle scorie dei forni. Tra le sue opere scientifiche ricordiamo almeno Analisi fisiologica del pensiero umano, pubblicata a Firenze nel 1879, e - in francese - Le cerveau et l'activité cérebrale, edita a Parigi nel 1889. (3)

A noi, della sua esistenza cosmopolita dei suoi molteplici interessi culturali, importa qui il periodo fiorentino, perché nel corso di esso egli decide di partecipare ad una spedizione scientifica verso l'Artide e precisamente all'isola di Jan Mayen, nel 1861. Sperduta fra la Norvegia e l'Islanda, l'isola (372,5 kmq.) è leggermente più grande di Maiorca, la maggiore delle Baleari e, benché geograficamente appartenga all'Europa, trovandosi a 71° di latitudine Nord e a 8°30' di longitudine Ovest rientra nella zona polare, in pieno Mare di Groenlandia. (550 km. a Nord-est dell'Islanda).. Ha pressappoco la forma di un femore lungo 53,7 km. ed è allineata da Nord-est a Sud-ovest, con le due parti montuose collegate da un istmo di soli 2,5 km. che ospita due lagune d'acqua dolce. La sommità meridionale, chiamata Sörlandet, tocca gli 843 m. con la Elisabethtoppen (che però, a quella latitudine, corrispondono a un'alta montagna delle Alpi), mentre la parte settentrionale o Norlandet, assai più vasta, culmina nel massiccio vulcanico del Beerenberg, a 2.277 metri s. l. m., ricoperto da una calotta glaciale, con una decina di lingue che scendono fino al mare. Il cratere, largo più di 1 km., ha una cavità profonda 200 m. e interamente riempita di ghiaccio; dai 300 m. di quota le sue pendici sono coperte di neve e ghiaccio. L'ultima eruzione del vulcano risale al 1732; poi, nel 1818, è stata osservata una notevole fuoriuscuta di vapori, che in piccola parte sono ancora visibili. Le coste dell'isola sono alte e precipiti, innalzandosi da fondali profondi tra i 2 e i 3.000 m.; le ripe presentano in più punti un'altezza di 300 metri e sono a strapiombo, specialmente sul versante settentrionale e orientale del Beerenberg.(4) Scoperta da Henry Hudson nel 1608, che la chiamò con il suo nome, Jan Mayen fu riscoperta e ribattezzata più volte negli anni successivi, ha ricevuto il suo nome definitivo da un capitano olandese nel 1614. Il clima è il bizarro risultato dell'incrociarsi di due correnti marine, una calda e una fredda: la Corrente del Golfo e la Corrente della Groenlandia orientale. Le temperature medie invernali registrano una media di - 6°, quelle estive fra 5° e 6°. D'inverno l'isola è interdetta alle navi a causa del pack, e questa è una delle ragioni per cui, benché sia stata più volte raggiunta da cacciatori e coloni, non è mai stata abitata permanentemente fino al 19121, quando i Norvegesi vi hanno installato una stazione radio e meteorologica. Tra il 1958 e il 1963 vi è stato costruito un campo di atterraggio per gli aerei destinati a rifornire i meteorologi che lavorano nella stazione, situata presso la costa occidentale; ma, quando la vista la spedizione scientifica italiana del 1861, questa terra isolata e sperduta, una delle più solitarie del mondo, non è popolata che da una fauna ricchissima di uccelli marini e migratori e di mammiferi (5) Tra questi ultimi, la volpe artica sulla terra e le foche nel mare erano quelli maggiormente cacciati dall'uomo. La flora vanta la presenza di 51 specie complessive.

Questa, dunque, l'isola che Aleksandr Herzen visita nel 1861, quando ha soli 22 anni ma un forte spirito d'osservazione e una marcata curiosità scientifica. Parla e scrive l'italiano piuttosto bene; ma la sua relazione di viaggio non viene pubblicata che nove anni dopo, sul Bollettino della Società Geografica Italiana, col titolo assai modesto di Una gita a Jan Mayen. (6) Ma è tempo di cedere la parola al giovane Herzen, nel cui racconto sentiamo lo stupore e al tempo stesso l'acutezza dello sguardo di una mente pervasa di spirito scientifico.

"Da quando abbiamo lasciato la Norvegia, noi non abbiamo letteralmente veduto che il cielo e l'acqua; il 10 e l'11 [agosto 1861] abbiamo ancora trovato dei porci marini (Phocaena) e qualche balena; i primi venivano a centinaia a giuocare, a far capitomboli ed a nuotare cercando chi primo passasse la prora dello schooner; le balene al contrario, non si facevano vedere che da lontano; era al disotto della loro volontà occuparsi di noi; esse si divertivano a lanciare maestosamente un potente getto d'acqua colle loro nari, ed a percuotere le onde colla loro immensa coda, producendo un suono similea lontanissimo cannoneggiamento. Rari uccelli avevano ancora attraversata l'aria, tutti palmipedi, soprattutto dei gabbiani di differenti specie. Qualche Cyanaea ed Aurelia, le meduse più comuni di queste regioni furono gli ultimi animali invertebrati che noi potemmo scoprire nell'acqua ed anche questi finalmente sparirono…

"A misura che avanzavamo, la Procellaria glacialis diveniva di più in più frequente; noi non l'avevamo scorta che rarissimamente lungo la costa norvegiana, e sempre da lontano. Qui potevamo studiarne a piacere il volo e le abitudini. È un uccello grande come un gabbiano ordinario, d'un bianco giallognolo con mantello grigio. Il suo volo è pesante ed imbarazzato, allorché vuole elevarsi, ma graziosissimo, elegante e rapido allorché sdrucciola sulla superficie dei cavalloni, inclinando le sue ali immobili secondo l'ondulazione loro e sfiorando qualche volta colla punta di una di esse la cresta aguzza d'un'onda più alta… Non potevamo a meno di meravigliarci del loro numero, e soprattutto della facilità colla quale essi trovavano di che nutrirsi, mentre, colla più grande attenzione, ci era impossibile scoprire nell'acqua la più piccola traccia di esseri viventi…

"
[Il giorno 19, a tavola]
il capitano ci dichiarò con sicurezza ch'egli aveva verificato il suo calcolo, e che noi dovevamo in questo stesso giorno, verso le 4 dopo mezzogiorno, o battere le rocce di Jan Mayen colla prua della nave od oltrepassare l'isola senza vederla a causa della nebbia. Vi fu un momento di silenzio, non sapevamo che dire, tutti desideravamo girar di bordo, ma nessuno aveva il coraggio d'essere il primo a proporlo francamente. Il capitano si alza da tavola e va sul ponte, per vedere se tutto è in ordine; noi restiamo un poco pensierosi, e continuiamo a masticare in silenzio. Ad un tratto il capitano apre con fracasso l'invetriata della nostra cabina e grida con tutta la forza dei suoi polmoni: - Venite, salite, presto, si vede Jan Mayen! -. Ci alziamo subito, con un sol movimento, i piatti rotolano, i bicchieri si rompono, il cane si getta sopra la salsa rovesciata e noi ci precipitiamo sul ponte.

"- Dove, dove?-. - Là, là…nella nebbia. - - Ma non vedo nulla!-. È troppo tardi, tutto è sparito, si è scoperta un momento la cima del vulcano, ma la cortina nebbiosa si è subito rinchiusa…un momento dopo la nebbia si dirada in un punto che il vento scaccia dinanzi a sé, si apre, si chiude, si riapre di nuovo, e sparisce. Di nuovo una lacuna nelle nubi, si avvicina alla montagna, ma tornerà a chiudersi come le altre prima di lasciar intravedere… Ah! Eccola! Una maestosa vetta, coperta di neve e di ghiaccio, apparisce nell'azzurro del cielo, brillante, diafana; ma la nebbia l'inviluppa nuovamente, e noi attendiamo invano la grazia d'un secondo colpo d'occhio. In quel momento il cielo si oscura, la nebbia diviene d'uno spessore impenetrabile. Al livello del mare si stendeva una zona d'un violetto carico, quasi nero; vi si distingueva di tanto in tanto la schiuma delle onde lanciata ad un'altezza prodigiosa; le onde non battevano evidentemente su d'una riva unita, ma venivano a rompersi con violenza contro rupi scoscese o contro i bordi taglienti d'una cintura di ghiaccio…

"
[L'indomani] il mare rassomigliava meno che nei giorni antecedenti al piombo liquido, la nebbia lasciava distinguere i contorni delle nubi, ornati delle tinte calde e vive dell'aurora, di quando in quando ci sembrava scoprire, dietro le masse di nebbia che scorrevano silenziosamente lungo le onde, qualche cosa d'immobile, un'indicazione di ghiaccio, un'ombra di rocce; l'orizzonte si rischiara al Nord-est; le colonne di nebbia spariscono una dietro l'altra, diventano diafane, passano più rapidamente davanti i contorni ancora incerti, ma sempre più determinati, e qualche momento più tardi abbiamo davanti a noi il Baerenberg in tutta la splendidezza della sua nudità, arrossendo ai primi raggi del sole. La sua enorme sommità, a 7.000 piedi al disopra il livello del mare, coperta di neve, brillava gaiamente al sole e rifletteva delle tinte ardenti d'oro, e di rosa delicato; nove ghiacciaie [ la forma maschile "ghiaccio" non aveva ancora, alla metà dell'Ottocento, soppiantato quella femminile in uso già dal settecento, "ghiacciaia": nota di F. Rodolico]
increspate e fesse serpeggiavano sui fianchi della montagna, trasparenti come smeraldo fin nel mare; le ondate schiumanti venivano a rompersi qua, contro i ghiacci ridenti e diafani, là contro le rocce nere e lugubri. Il mare era d'un celeste carico, il cielo ancora pallido, un silenzio assoluto regnava intorno a noi, non vi era traccia alcuna d'essere umano, era un momento veramente grandioso e noi restammo molto tempo senza parlare…

"
[Nella]
mattinata… la costa diviene più distinta; incontriamo più frequentemente dei pezzi di ghiaccio strappati ai piedi delle ghiacciaie; gli uccelli marini di tutte le specie diventano più numerosi ed in mezzo ad essi l'antica nostra conoscenza, la Procellaria glacialis; dei piccoli uccelli neri nuotano, s'immergono e spariscono; dei grandi uccelli bianchi volano pesantemente; la nostra venuta mette tutta questa popolazione dalle piume, in un'agitazione straordinaria; è un andare e venire, correre, tuffarsi, nuotare senza posa, e tutto questo con un'aria profondamente seria, come se adempissero ad un loro sacro dovere. Le loro opinioni a nostro riguardo, circa alle nostre intenzioni pacifiche o bellicose non si accordavano niente affatto, almeno a giudicarne dai suoni stridenti de abbominevolmente falsi che uscivano dai loro becchi largamente aperti, la produzione dei quali sembrava sovente costasse loro uno sforzo considerevole. Speravo ancora, ed il mio cuore si contraeva a questa folle speranza, incontrare in qualche lontano ridotto l'ultimo rappresentante della nobile razza degli Alca impennis!

"A misura che noi ci avvicinavamo, l'aspetto della montagna diveniva sempre più fantastico e variato. Le rocce mostravano, su di un fondo uniformemente opaco, delle tracce ora rosse, ora gialle, indicanti i diversi strati della lava; vi erano dei punti d'un verde bellissimo, ma non potevamo distinguere se era erba, muschio, o qualche massa minerale. Le superfici liscie che le ghiacciaie presentavano al mare, si elevavano perpendicolarmente, come mura di smeraldo, si sentiva di quando in quando affondarsi qualche massa di ghiaccio, diveniva evidente che noi non potevamo abbordare, le onde urtavano le rocce con tal violenza, , che non osavamo nemmeno tentare la prova; esse ammucchiavansi di più come per prendere uno slancio e gittarsi quindi confusamente da una roccia all'altra, per coprire colla loro schiuma le più ardite aguglie…

"
[Solo dopo qualche giorno fu possibile lo sbarco] sopra una lunga diga posta fra il mare ed un piccolo lago d'acqua dolce, che ha forse trenta metri di larghezza per due chilometri di lunghezza. Si può traversare a guado in quasi tutti i punti… I grandi uccelli bianchi, i soli che io desideravo possedere, non si lasciarono avvicinare; corsi invano un'intiera ora, il fucile sempre armato, senza arrivare a tirare un colpo solo; mi misi allora a cercare delle piante e delle pietre. Non si vedeva che di quando in quando qualche piccola pianta mal cresciuta, che uscivano appena dalle screpolature della lava; le loro foglie erano quasi secche e pallide; sembravano avessero paura di mostrarsi al giorno e cercassero qualche briciola d'un nutrimento parco in quei fessi oscuri, dove il vento dimentica per caso un po' di polvere. Sulla lava stessa non vi era che qualche traccia di vegetazione crittogama, un muschio giallognolo copriva il lembo umido delle colline: ma il nero ed il grigio predominavano dappertutto. Regnava un silenzio perfetto: niente si muoveva; soli, gli ammassi di lava mi circondavano sparpagliati nel modo più strano, essi stessi di forme fantastiche e stravaganti, rassomiglianti alle ruine di una città abbandonata, costrutta da esseri favolosi, estranei a noi; quelle punte, quegli angoli taglienti mi facevano l'effetto d'edifizi, di torri, di chiese, resti affondati d'un mondo del tutto diverso. Dimenticai me stesso per qualche tempo in mezzo a quelle forme misteriose e m'immaginai che davanti a me passasse la processione magica che Heine vide, dalla capanna d'Uraka, allorché andò ad uccidere Atta Troll, il terribile orso di Ronceval [episodio del poemetto satirico Atta Troll del grande poeta tedesco Enrico Heine, 1799-1856; n. di F. Rodolico]
… Un grido sperduto mi richiamò da tali fantasticherie: uno dei grandi uccelli bianchi, oggetto dei miei desideri, circolava al disopra della mia testa; impugnare il fucile e sparare fu affare d'un istante; l'uccello cadde ai miei piedi; lo credetti morto, ma quando andai a prenderlo, ebbe ancora la forza di mordermi fortemente il dito; era una specie di gabbiano piuttosto raro…

"Dopo il pasto, decidemmo di traversare l'isola al punto più stretto e meno elevato, onde vedere la costa del Nord. Prendemmo i nostri fucili nella vaga speranza d'incontrare delle volpi, le cui tracce erano così numerose intorno a noi. Marciando, trovammo rimasugli d'uccelli evidentemente divorati dalle volpi, ma non potemmo trovare una sola di queste… Mi contentai di avanzarmi fino al punto culminante del colle, ove ebbi sull'Oceano glaciale, la vista la più estesa. Con mia grande sorpresa vidi svolgersi a me davante, verso il Nord-ovest, un mare perfettamente chiaro, un orizzonte lontano che non presentava alcun indizio di ghiaccio. La linea tremante dell'orizzonte non era interrotta che in due punti: all'est della corona colossale del Baerenberg ed all'Ovest da una collina, un cratere secondario, la cui tinta nera contrastava colla bianchezza di quella faccia…

"Infrattanto il sole si avvicinava all'orizzonte, le lave prendevano una tinta d'un rosso carico, come se esse si riscaldassero nuovamente e volessero muoversi, ardenti, distruggendo spietatamente tutto quanto esse incontrassero sul loro cammino."
(7)

Da queste pagine si ricava l'impressione di uno scrittore che sa equilibrare l'aspetto scientifico della relazione di viaggio, prendendo nota degli strati geologici e delle specie di uccelli, con quello propriamente letterario, mostrando capacità di tratteggiare scene umoristiche, come quella del cane che si getta sopra la salva rovesciata; poetiche, come quella della prima luce dell'alba che si fa strda tra la nebbia, animando il grandioso paesaggio dell'isola; e quasi di evocazione surreale, come quello scenario di rocce che, nel gran silenzio, pare animarsi dei profili d'una ciclopica città perduta. Ricaviamo inoltre l'impressione che Herzen abbia intrapreso la lunga e rischiosa crociera nei mari nebbiosi a nord della Scandinavia inseguendo un suo sogno segreto e quasi inconfessabile: la riscoperta dell'alca gigante, speranza rivelatasi purtroppo illusoria. Infatti, come scrive il naturalista svizzero Vinzenz Ziswiler, "L'irresponsabile razzia [delle uova] fu fatale già nel secolo scorso all'alca gigante (Alca impennis). Questa - la più grande della famiglia degli Alcidi, le cui ali, come nel pinguino, non erano più atte al volo, era già sterminata intorno al 1850. Solamente pochi e preziosi esemplari conservati nei musei permettono oggi di farci un'idea di questo uccello." (8) Dispiace invero quel colpo di fucile nel magico, arcano silenzio di Jan Mayen, e quel grande uccello colpito a morte, senza un'ombra di rincrescimento, per amore della scienza; così come, anni dopo, in nome della scienza sosterrà il buon diritto di vivisezionare le cavie nel Museo di Storia naturale di Firenze… Ma tant'è,: nonostante qualche venatura romantica (si noti, ad esempio, quel riferimento ad Heinrich Heine), Herzen è pur sempre uno scienziato positivista, che avrebbe considerato una forma di sentimentalismo quella di impietosirsi per il destino di qualche uccello artico. In ciò sta il limite della sua impostazione culturale, almeno dal nostro punto di vista di uomini del XXI secolo: ora che i ghiacci dell'Artico si stanno sciogliendo, ora che tante e tante altre specie animali e vegetali sono andate estinte a causa della "civiltà"; ora che gli sconvolgimenti climatici e ambientali rischiano di privarci, per sempre, di un pianeta ospitale e accogliente in cui vivere.

Note

(1) HERZEN, Aleksandr (senior), Passato e pensieri, Milano, Mondadori, 1970

(2) HERZEN, Alessandro, Gli animali martiri, i loro protettori e la fisiologia, introd. A cura di Giovanni Landucci, Firenze, Giunti, 1997 (in Appendice: Sopra il metodo seguito negli esperimenti sugli animali viventi nel Museo di Storia Naturale di Firenze, cenni del prof. Maurizio Schiff).

(3) PALMERINI, Agostino, voce H. della Enciclopedia Italiana, ed. 1949, vol. XVIII

(4) AHLMANN, Hans von, voce J. M. della Enc. Ital., vol. XVIII

(5) Cfr. il Milione. Enciclopedia di tutti i paesi del mondo, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1968, vol. 4, p. 141

(6) HERZEN, Alessandro, Una gita a Jan Mayen, in Boll. Della Reale Soc. Geogr. Ital., fasc. 5 (parte 3 a) del 15 novembre 1870

(7) RODOLICO, Francesco (a cura di), Meraviglie della natura negli avventurosi viaggi degli esploratori italiani dell'Ottocento, Firenze, Le Monnier, 1968, pp. 1-5.

(8) ZISWILER, Vinzenz, Animali estinti e in via di estinzione, Milano, Mondadori, 1975, p. 27.

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jeudi, 20 mai 2010

Les trois épicentres de la révolution eurasienne

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Pietro FIOCCHI:

 

Les trois épicentres de la révolution eurasienne

 

L’ambassadeur russe auprès de l’OTAN, Dmitri Rogozine, possède une sorte de sixième sens pour toutes les questions atlantiques: “Selon moi”, a-t-il dit le 4 mai 2010, “la Géorgie n’a pas encore de réelle prospective en vue pour son adhésion à l’Alliance parce que les problèmes qu’elle affronte en Abkhazie et en Ossétie du Sud demeurent irrésolus” et, par conséquent, “un pays qui n’a pas de frontières définies et est continuellement secoué de guerres civiles ne peut devenir membre de l’OTAN”.

 

La Géorgie dans le Caucase

 

L’ambassadeur fait référence au cas des deux républiques qui, il y a vingt ans, se sont déclarées indépendantes du gouvernement géorgien et qui, depuis 2008 jusque aujourd’hui, ont été reconnues par la Russie, le Nicaragua, le Vénézuela et Nauru. L’Abkhazie et l’Ossétie du Sud sont toutefois considérées comme des “territoires occupés” par les Géorgiens et aussi par l’eurocratie bruxelloise et par Washington qui, en bonne diligence, ont promis à leur allié Saakashvili de l’aider à remettre les “choses en place”. On veut donc que les deux républiques, ou “territoires occupés”, reviennent sous le contrôle de la Géorgie. En pratique, tout pas en cette direction augmente les possibilités d’un affrontement avec la Russie: le Kremlin, en effet, a promis de protéger la souveraineté territoriale des deux républiques caucasiennes, en vertu d’accords conclus et par la présence de bases militaires aujourd’hui en construction.

 

Si la Géorgie entrait effectivement au sein de l’Alliance atlantique, les tensions augmenteraient et présenteraient un réel danger. Pour éviter la guerre, il faut avoir conscience des positions antagonistes et percevoir qu’elles recèlent de fait le danger de mondialiser le conflit.

 

Dans cette optique, Rogozine a mis en exergue les dynamiques possibles dans la région: “les Géorgiens seront exploités au maximum afin qu’ils envoient des troupes en Afghanistan; ils seront traités comme des animaux auxquels on fait miroiter une carotte en la balançant sous leur museau. Tbilissi ne peut adhérer à l’OTAN parce que la Géorgie ne peut en devenir membre; l’Alliance atlantique devra ou reconnaître l’indépendance de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud ou accepter les anciennes frontières de la Géorgie, tracées par Staline. C’est là une éventualité impensable, donc Tbilissi restera partenaire de l’OTAN mais son adhésion ne se fera pas dans un futur proche”.

 

Incertitudes au Kirghizistan

 

Passons maintenant du Caucase à l’Asie centrale: nous débouchons dans un espace où la Russie et les intérêts atlantistes s’opposent.

 

Cas atypique et, depuis le récent coup d’Etat, objet de toutes les attentions: le Kirghizistan. Dans cette ex-république soviétique cohabitent très proches les unes des autres des troupes russes et américaines, respectivement stationnées dans les bases de Kant et de Manas. Nous avons là un paradoxe qui pourrait bien ne plus durer très longtemps. Une fois les élections politiques et présidentielles, prévues pour le prochain automne, Bichkek prendra une décision définitive.

 

Aujourd’hui déjà, le gouvernement des Etats-Unis doit débloquer 15 millions de dollars qui serviront à payer partiellement le loyer de la base aérienne concédée aux Américains. Pour terminer, Washingbton devra débourser un total de 60 millions de dollars (c’est-à-dire trois fois autant que la somme déboursée jusqu’à l’an passé). Cette somme devra être payée chaque année sinon les locataires seront expulsés. Au Kirghizistan, la situation est donc précaire aussi.

 

Coopération russo-kazakh

 

En revanche, la coopération russo-kazakh, elle, semble de bonne augure. Les rapports entre les deux pays se sont consolidés. Moscou et Astana, depuis l’été, ont scellé un nouvel accord sur l’enrichissement de l’uranium à usage civil. C’est une nouveauté: les pays qui voudront développer leur industrie nucléaire pourront accéder aux technologies d’enrichissement disponibles. C’est tout à la fois une invitation à Téhéran et une garantie pour l’Iran à aller de l’avant dans son programme atomique.

 

Pietro FIOCCHI / p.fiocchi@rinascita.eu .

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 mai 2010; trad. franç.: Robert Steuckers ; cf.: http://www.rinascita.eu  ).

mercredi, 19 mai 2010

Il nuovo accordo russo-ucraino: un'interpretazione geopolitica

Il nuovo accordo russo-ucraino: un’interpretazione geopolitica

di Alessio Bini

Fonte: eurasia [scheda fonte]


* Alessio Bini è dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna)
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Il nuovo accordo russo-ucraino: un’interpretazione geopolitica

I fatti in breve

Il Presidente Viktor Janukovič ha mantenuto la parola data: durante la campagna elettorale presidenziale aveva promesso, in caso di vittoria, di condurre le relazioni con il potente vicino russo fuori dalla situazione di stallo che si era venuta a creare durante la presidenza di Viktor Juščenko. La promessa è stata mantenuta e lo scorso 21 aprile si è concretizzata in un nuovo trattato tra i due Paesi. In quell’occasione, il Presidente della Federazione Russa Dmitrij Medvedev ed il suo omologo ucraino Viktor Janukovič si sono incontrati nella città Kharkiv, situata nella parte orientale dell’Ucraina, per stipulare un accordo che segna una nuova ed importante tappa nelle relazioni tra Russia ed Ucraina.

I cosiddetti accordi di Kharkiv sono caratterizzati dalla volontà di tenere unite questioni militari, strategiche ed economiche.

Il trattato ha una dimensione geopolitica che non può e non deve essere sottovalutata. Mosca ottiente un’estensione di 25 anni (vale a dire fino al 2042 con la possibilità di rimanere fino al 2047) del contratto di affitto delle infrastrutture portuali a Sebastopol, città in cui è ormeggiata la sua flotta del Mar Nero mentre Kiev ottiene come contropartita un aumento per quell’affitto (circa 1.8 miliardi di dollari all’anno) e una riduzione per 10 anni del prezzo del gas russo pari a 100 dollari ogni 1000 metri cubi o, nel caso in cui il prezzo dell’oro blu dovesse scendere sotto i 330 dollari ogni 1000 metri cubi, uno sconto del 30%. Poichè i vertici ucraini hanno già fatto sapere che gradirebbero ricevere l’affitto della base di Sebastopol sotto forma di gas, l’intesa è stata ribattezzata ‘gas for fleet deal’.

 


Questo accordo è paragonabile, per importanza geopolitica, a quello stipulato nel maggio 1997 tra Eltsin e Kučma al fine di mettere termine al contenzioso nato dalle discussioni sul futuro della ex flotta sovietica ancorata a Sebastopol (flotta che contava allora circa 835 vascelli). In quell’occasione la Russia ottenne, tramite contratto di affitto di durata ventennale (con scadenza 2017), la gestione delle infrastrutture portuali cittadine. Curiosamente, ma solo per coloro che non hanno molta dimestichezza con le questioni russo-ucraine, anche allora entrò nelle discussioni la questione del gas: infatti l’Ucraina accettò di trasferire alla Russia buona parte delle navi ottenute dall’accordo di spartizione al fine di coprire parte del debito che si era accumulato nel corso degli anni. Senza alcun intento malizioso, vogliamo ricordare come quelli fossero anni non sospetti: infatti l’Ucraina riceveva gas ad un prezzo veramente basso e Vladimir Putin, accusato oggi da molti di usare con spietato cinismo l’arma delle risorse emergetiche russe al fine di soggiogare i territori ex sovietici, era un personaggio sconosciuto ai più.

I rispettivi parlamenti hanno già ratificato il trattato migliorando il clima tra i due Paesi e rendendo la strada verso altri accordi su questioni strategiche quali l’industria aeronautica e la cooperazione nucleare civile molto meno impervia. A tal proposito è degno di nota quanto affermato da Kostjantyn Gryščenko, attuale Ministro degli esteri ucraino, che parlando della imminente visita del Presidente Russo a Kiev dice di aspettarsi non solo gesti simbolici da parte di Medvedev ma soprattutto concreti passi verso l’implementazione di progetti volti a cementare le relazioni bilaterali in sfere importanti della vita politica ed economica dei due Paesi. Tutto ciò permette alla Russia di mantenere e rafforzare la propria presenza in Ucraina, Paese ritenuto vitale per la propria sicurezza contro i tentativi più o meno dichiarati di accerchiamento da parte dell’Alleanza Atlantica.

Nelle loro dichiarazioni ufficiali entrambi i governi sostengono che l’accordo sia vantaggioso per entrambi e si richiama l’attenzione sui guadagni di natura strategica da parte della Federazione Russa e su quelli di natura economica da parte dell’Ucraina. Si parla infatti di questo accordo come un esempio di win-win situation.

Non è certo nostra intenzione negare che entrambi gli Stati ottengono dei risultati concreti ed importanti, tuttavia, concentrando la nostra attenzione sugli aspetti più propriamente geopolitici ci sembra che dal tavolo dei negoziati emerga una realtà differente e meno bilanciata, una situazione caratterizzata dalla presenza di un ‘vincitore’, cioè Mosca, e di uno ‘sconfitto’, vale a dire Kiev. Riteniamo che tale situazione abbia origine dalla differenza esistente tra la Federazione Russa, uno Stato dotato di una dirigenza che persegue con una certa coerenza gli interessi geopolitici del Paese e l’Ucraina, uno Stato che fin dalla sua indipendenza sembra incapace di esprimere una dirigenza autorevole ed in grado di tracciare prima e promuovere poi gli interessi nazionali e che per questo condanna il proprio Paese a giocare il ruolo di perno piuttosto che di attore geopolitico.

Fin dal principio ci sembra corretto e doveroso chiarire che l’accordo stipulato a Kharkiv il 21 aprile scorso non è ancora stato reso pubblico (e forse non lo sarà mai), di conseguenza l’analisi geopolitica che ci proponiamo di elaborare si baserà, da un lato, su ciò che i protagonisti hanno reso pubblico di tale accordo (vale a dire informazioni utili ed importanti) e, dall’altro, sulle tendenze di medio e lungo periodo che ci sembra caratterizzino le relazioni tra i due Paesi.

 

Perchè la Russia vince

 

Dall’accordo stipulato qualche settimana fa a Kharkiv la Federazione Russa ottiene un risultato molto importante, vale a dire la permanenza nel porto si Sebastopol della propria Flotta del mar Nero. L’importanza di questo risultato è difficilmente sottovalutabile e riposa su molti fattori. Innanzittutto il prolungamento dell’affitto ha un significato identitario: volenti o nolenti, il volto di Sebastopol è stato modellato dal popolo russo che ha fondato la città poco dopo la conquista militare del Khanato tataro di Crimea nel 1783 e che vi ha lasciato un’impronta indelebile. A sua volta, la città ed i gesti di eroismo e di sacrificio compiuti dai russi in quel preciso luogo sono entrati a pieno titolo nella mitologia e nella memoria collettiva di questo popolo. Una volta preso atto di tutto ciò si capisce perchè gli abitanti di Sebastopol dichiarino orgogliosamente la propria identità russa e vedano nella Flotta non uno strumento al servizio di politiche neo-imperialiste russe, come qualche commentatore occidentale sostiene, bensì un simbolo in cui identificarsi e di cui essere orgogliosi.

Con molta probabilità la partenza della Flotta nel 2017, anno in cui i russi avrebbero dovuto lasciare Sebastopol secondo quanto pattuito nell’accordo siglato nel 1997, sarebbe stato un vero e proprio choc per l’intera nazione, un evento da evitare a tutti i costi!

Sia chiaro che quanto appena detto non significa che la città, o peggio ancora l’intera penisola di Crimea, debba tornare sotto la sovranità di Mosca, come molti politici e intellettuali russi pensano, ma chiarire come in quell’angolo di mondo l’identità russa sia vissuta come un fatto naturale e che, di conseguenza, ogni tentativo di negare ciò da parte di molti, nazionalisti ucraini in primis, non può che generare tensioni che indeboliscono l’Ucraina e che si irradiano su tutta la regione del mar Nero, una regione importante per la stabilità e la pace mondiale.

Altrettanto importante è il significato strategico della permanenza della Flotta russa a Sebastopol: sebbene della temibile Flotta sovietica e dei suoi 800 e più vascelli rimanga solo il ricordo (e per molti, la nostalgia), i russi a Sebastopol mantengono ancora un dispositivo militare credibile e temibile composto da circa 50 vascelli da guerra e 12 di supporto.

La Flotta russa è più potente di tutte le flotte degli altri Paesi rivieraschi messe assieme e la potenza dei suoi vascelli più importanti potrebbe permetterle di ottenere la vittoria su nemici più potenti.

Tutto ciò permette alla Russia di adempiere ad un triplice compito ritenuto irrinunciabile:

 

  • garantire la sicurezza dei suoi confini meridionali, ritenuti da Mosca un’area altamente instabile e foriera di problemi;
  • mantenere un controllo ed una presenza attiva nel bacino del mar Nero al fine di scoraggiare i progetti politici antagonisti sostenuti da altri (Stati e/o Alleanze) e proteggere i propri corridoi energetici esistenti ed in via di progettazione;
  • mantenere una posizione ben salda da cui partire per proiettare la propria potenza nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Indiano, bacini su cui Mosca non nasconde la propria volontà di giocare le proprie carte;

 

Mosca è perfettamente cosciente del fatto che la Flotta del Mar Nero sta diventando sempre più obsoleta (basti dire che è ancora in servizio una nave varata nel lontano 1915) e necessita di investimenti consistenti e mirati. Secondo il parere autorevole di molti esperti di affari militari russi, nei prossimi anni la Flotta dovrebbe ricevere, al fine di sostituire i vascelli più datati, circa 50 navi da guerra di nuova generazione. Se tale ricambio avverrà dipenderà da molti fattori, soprattutto di natura economica.

Quella degli investimenti è quindi una questione strategica centralissima da cui dipenderà la futura credibilità navale russa. Detto ciò, vogliamo comunque ribadire che l’aver mantenuto la base a Sebastopol è un successo strategico indiscutibile che ci mostra come la Russia abbia compreso a fondo il principio secondo cui la geopolitica non ammette vuoti. Nel corso della sua storia Mosca ha più volte toccato con mano tale principio, alcune volte sfruttandolo a proprio favore altre volte subendolo, spesso con conseguenze drammatiche (l’avanzamento della NATO verso l’Europa Orientale durante la fase di debolezza che la Russia ha attraversato negli anni novanta è un esempio che i russi non dimenticheranno tanto facilmente). Nel caso di Sebastopol, la Russia ha capito che se la Flotta russa avesse dovuto lasciare la città nel 2017 la posizione russa nel Mar Nero si sarebbe indebolita a dismisura portando ad un arretramento fino alla costa orientale del bacino. Non solo, dal momento che l’Ucraina non avrebbe avuto le risorse necessarie da investire per subentrare in modo autorevole con la propria marina a quella russa, si sarebbe aperto un vuoto (una vera e propria finestra di opportunità) che altri Stati, o Alleanze, avrebbero riempito tempestivamente al fine di conquistare una posizione che fino a quel momento la presenza russa gli aveva impedito di ottenere.

 

Last but not least, bisogna prendere in considerazione il significato economico della permanenza della Flotta russa a Sebastopol. Anche in questo caso la Russia sembra proprio aver riportato una vittoria. Come il Presidente Medvedev ha ammesso il prezzo pagato per il rinnovo dell’affitto delle strutture portuali a Sebastopol non è poi così alto. La Russia pagherà ogni anno all’Ucraina 1.8 miliardi di dollari, pagamento che, come già accennato, avverrà non in contanti ma sotto forma di gas.

Inoltre bisogna prendere anche in considerazione altri costi che con l’accordo la Russia non è obbligata a sostenere. Infatti, potendo lasciare il grosso della propria Flotta del Mar Nero a Sebastopol la Russia non è obbligata a fare investimenti massicci al fine di sviluppare la base russa a Novorossijsk e a trovare una soluzione abitativa adeguata per l’equipaggio che attualmente vive a Sebastopol. Chiaramente, poter risparmiare in un momento complesso e difficile come quello in cui ci troviamo a vivere è di per se un elemento di cui andare orgogliosi. Non solo, quel denaro risparmiato può essere usato per investimenti più urgenti come il rinnovo della Flotta. Tutto questo, combinato con la valenza strategica della permanenza a Sebastopol di cui abbiamo detto sopra ci fa capire perchè quella russa è una vera e propria vittoria.

Se veniamo poi alla questione dello sconto sul prezzo del gas applicato dalla Russia all’Ucraina capiamo anche in questo ambito che la Russia non ha dovuto compiere rinunce dolorose, anzi. Come detto, la Russia si impegna a ridurre per 10 anni il prezzo del gas russo per una somma pari a 100 dollari ogni 1000 metri cubi o, nel caso in cui il prezzo dell’oro blu dovesse scendere sotto i 330 dollari ogni 1000 metri cubi, uno sconto del 30%. Qualcuno potrebbe vedere in questo sconto un’abdicazione della Russia (e di GAZPROM) al principio più volte ribadito negli ultimi anni di voler innalzare i prezzi di vendita del gas russo agli ex Paesi sovietici al fine di raggiungere i livelli di mercato ed un’ennesima riprova della strumentalità con cui Mosca usa le proprie risorse energetiche. A ben vedere le cose stanno in modo diverso: il gesto compiuto da Mosca, che il Cremlino ha dipinto come un gesto magnanimo seppur costoso volto ad aiutare concretamente un Paese amico ad uscire dalla crisi, in realtà ha avuto un costo relativamente contenuto. Vediamo di capire perchè: la crisi ha ridotto i consumi in Europa e le compagnie europee hanno chiesto e ottenuto di rivedere al ribasso i prezzi concordati al punto che, ad esempio, alla fine di aprile il Regno Unito pagava 183 dollari ogni mille metri cubi di gas e la Germania 210. Di conseguenza lo sconto che la Russia applica all’Ucraina rende comunque la bolletta di Kiev più costosa rispetto a quella degli acquirenti dell’Unione Europea. Quindi Mosca compie un gesto importante, soprattutto per la propria immagine pubblica, che è costato molto meno di quanto in realtà voglia far credere poichè quello che viene definito uno sconto non fa altro che portare il prezzo del gas venduto all’Ucraina vicino ai livelli pagati dai Paesi europei durante questo periodo di flessione dei consumi.

In conclusione, ci sembra che la Russia stia dimostrando di essere un Paese in grado di perseguire i propri obiettivi geopolitici in modo calibrato ed intelligente, cosa che, come presto cercheremo di dimostrare, l’Ucraina sembra incapace di fare.

 

Perchè l’Ucraina perde

 

L’Ucraina è un Paese che si trova ad affrontare una fase decisamente critica della propria esistenza come Stato indipendente. Le difficoltà economiche e la crisi politica in corso ormai da anni si intrecciano senza soluzione di continuità creando una situazione che in certi momenti sembra essere fuori controllo. A farne le spese sono la popolazione, messa all’angolo dalle ristrettezze economiche, e la credibilità del Paese, incapace di proporsi come interlocutore affidabile e soggetto geopolitico attivo che riesce a promuovere i propri interessi nelle relazioni internazionali. Sembra evidente come in questo momento la credibilità del Paese agli occhi di molti Stati sia abbastanza bassa, ed il comportamento defilato dell’Unione Europea e degli USA ne sembrano la riprova.

La nuova amministrazione sta cercando di dare una svolta alla politica interna ed estera del Paese rispetto al vicolo cieco in cui l’avevano condotta il Presidente ed il Primo Ministro precedenti. La volontà di riallacciare i rapporti con la Russia dopo la breve e fallimentare parentesi arancione fa parte di questo progetto. Questo obiettivo ci appare giusto, doveroso e sensato, visto e considerato che la Russia gioca un ruolo importantissimo nelle faccende ucraine (e vice versa). Ciò che invece non ci convince è il modo con cui l’Ucraina si propone e si muove nella politica internazionale. Sebbene sia più che doveroso concedere al nuovo Presidente il beneficio del dubbio, le speranze che egli sappia dare una svolta decisiva al sistema ucraino ci sembrano molto basse. La spiegazione di ciò riposa nel fatto che Janukovič è, in un certo senso, parte del problema (come del resto chi lo ha preceduto) che affligge il Paese e non certo la soluzione. Non dobbiamo mai dimenticare che il potere di Janukovič si basa su una rete di interessi politici, economici e criminali che è totalmente disinteressata delle sorti del Paese e che pensa solo ed esclusivamente al proprio tornaconto personale. Fin dall’indipendenza le istituzioni ucraine sono state così deboli e delegittimate che hanno finito per essere facile preda degli interessi particolari.

Venendo al caso concreto, ci preme ribadire che l’Ucraina detiene una delle reti di distribuzione del gas più sviluppate al mondo e la sua importanza nell’assicurare la sicurezza energetica del Continente europeo è così grande che i progetti russi volti a scavalcare Kiev, cioè il Nord ed il South Stream, non impediranno che il 50% del gas russo continui a transitarvi (attualmente ve ne transita più del 70%). Ora questa vera e propria gallina dalle uova d’oro nelle mani degli ucraini ha un problema: è obsoleta e necessita dunque di investimenti volti a modernizzarla e, perchè no, espanderla. Investimenti che devono anche combinarsi a massicci sforzi volti a rendere il settore economico del Paese meno inefficiente ed affamato di energia. Purtroppo però, ad oggi, non è stato fatto nulla degno di nota ed il gas non è visto come un patrimonio strategico di cui il Paese dovrebbe servirsi al fine di rafforzare la propria posizione geopolitica in un’area del mondo abbastanza problematica bensì continua ad essere trattato come un settore in cui tuffarsi al fine di speculare e guadagnarsi un posto d’onore tra le fila delle elite parassitarie di questo Paese. Ci sembra che l’ultimo accordo stipulato tra Russia ed Ucraina il 21 aprile non faccia altro che confermare quanto appena detto. Vediamo di capire perchè. L’Ucraina si è seduta al tavolo delle trattative al fine di ottenere benefici economici, visto e considerato che la situazione del Paese era ed è tutt’altro che rosea. Poichè la nuova amministrazione non era (e tuttora non è) intenzionata a tagliare la spesa per i servizi sociali (che anzi ha contribuito ad innalzare) ed il Fondo Monetario Internazionale non era pronto a riprendere le discussioni per lo scongelamento dell’ultima tranche di 16,4 miliardi di dollari di un prestito concesso al Paese (la causa del congelamento fu proprio l’innalzamento della spesa sociale proposta dal Partito delle Regioni ed approvata dal parlamento durante il premierato di Julia Timošenko che avrebbe sforato il tetto imposto del 6% al deficit pubblico), l’amministrazione Janukovič individua nella diminuzione del prezzo del gas russo l’unica possibile soluzione a cui il Paese può guardare al fine di risolvere i problemi economici, almeno a breve termine. Dalle trattative tra i due governi scaturisce l’accordo di Kharkiv del 21 aprile.

Ora, ciò che ci porta a dire che l’Ucraina è uscita sconfitta dal tavolo dei negoziati sta nel fatto che riteniamo abbia ottenuto qualcosa, uno sconto sul gas in cambio del prolungamento dell’affitto della base di Sebastopol ai russi, che poteva essere raggiunto senza una concessione così grande ed importante. Come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, i Paesi europei hanno rinegoziato il prezzo del gas con la Russia ed alcuni pagano un prezzo anche inferiore rispetto a quello pagato dagli ucraini.

Gli ucraini si sono detti pienamente soddisfatti dicendo di essere riusciti a portare a casa un ottimo accordo che permetterà all’Ucraina di risparmiare 3-4 miliardi di dollari all’anno e che ha permesso l’adozione del bilancio (approvato lo stesso giorno in cui il Parlamento ucraino, in una seduta burrascosa in cui è volato di tutto, dalle uova alle bombe carta, ha ratificato l’accordo con la Russia) che permette di tenere il deficit sotto al 6% e permette quindi di riaprire le discussioni con il FMI.

A ben vedere non c’è molto di cui essere soddisfatti, perchè, a nostro avviso:

  • tenendo conto dei tagli ai prezzi fatti dalla Russia ai Paesi Europei a causa della diminuzione dei consumi non vi è nessuno vero sconto sul prezzo del gas e Kiev avrebbe potuto ottenere la cifra pattuita senza fare una concessione come quella fatta su Sebastopol;
  • non è detto che il FMI sia disposto a pagare l’ultima tranche all’Ucraina visto e considerato che l’accordo, che permette al deficit pubblico di scendere matematicamente sotto la soglia del 6%, non rimuove chiaramente le cause che hanno portato all’esplosione dei conti pubblici ucraine, cause che vanno ricercate nelle mancate riforme che le elite politiche non vogliono intraprendere e nella corruzione dilagante. Si tratterà poi di vedere se sussistono le condizioni politiche per il pagamento dell’ultima tranche e qui molto dipenderà da Washington;
  • Poichè riteniamo che la permanenza della Flotta russa del Mar Nero a Sebastopol sia un elemento di stabilità per l’Ucraina, almeno fino a quando non sarà pronta a subentrare alla Russia in modo autorevole e a rivendicare un ruolo di primo piano per sè nel Mar Nero, riteniamo che l’aver prolungato il contratto ai russi è una scelta saggia, tuttavia, a nostro avviso, non lo sono nè i modi, nè i tempi;

 

Riprendendo il terzo punto al fine di approfondire meglio la questione, riteniamo che l’Ucraina avrebbe dovuto:

 

  • chiedere una contropartita reale, e non accontentarsi di uno sconto fittizio;
  • prendere più tempo, fosse anche pochi mesi in più, per arrivare ad una modifica della Costituzione al fine di prevedere lo stazionamento di truppe straniere sul proprio territorio in modo da evitare logoranti sedute parlamentari in cui governo e opposizione si lanciano accuse reciproche dimenticando i veri problemi del Paese;
  • prolungare il contratto d’affitto per un numero di anni uguale (e non superiore come accade adesso dove i russi offrono uno ‘sconto’ sul gas per dieci anni e gli ucraini concedono la base di Sebastopol per ben venticinque anni) al numero di anni per cui i russi si impegnano a elargire benefici;

  • chiedere precise garanzie nel caso in cui la Russia entri in guerra e la sua base di Sebastopol diventi un bersaglio lecito;

 

Detto ciò vogliamo anche ribadire che l’obiettivo di una politica estera ucraina degna di questo nome non è e non può essere quello di sfidare e contenere la Russia, bensì quello di avere con essa rapporti amichevoli, mutualmente fruttuosi e bilanciati. Se questo non accade significa che manca nel Paese una dirigenza in grado di comprendere quali siano gli interessi del Paese e come promuoverli nell’arena internazionale. Nel caso specifico, l’attuale accordo non farà altro che rafforzare ed arricchire gli oligarchi che sostengono il Presidente e che si erano già arricchiti a discapito della popolazione e degli interessi nazionali. Inoltre, il fatto che si siano levate voci, e non solo dall’opposizione, che per un attimo hanno messo in discussione il trattato appena ratificato, non fa altro che alimentare il sospetto, purtroppo sostenuto da molti fatti, che l’Ucraina sia un Paese incapace di rispettare gli accordi presi. Questo chiaramente intacca la credibilità del Paese.

E’ chiaro che quando un Paese con le idee confuse e una dirigenza inesistente come l’Ucraina si confronta con un Paese come la Russia, dove esiste una guida molto più consapevole di quali obiettivi il Paese deve raggiungere, non può aversi un risultato equilibrato.

 

 

 

 

Conclusione

 

Poichè l’argomento di discussione di questa nostra breve analisi è stata la dimensione geopolitica del nuovo accordo russo-ucraino sulla Flotta e sul gas stipulato in aprile non abbiamo ampliato la nostra discussione alle altre questioni chiave che caratterizzano le relazioni tra i due Paesi; se lo avessimo fatto avremmo comunque rafforzato e non indebolito la tesi centrale della nostra analisi e cioè che dall’accordo tra Russia e Ucraina la seconda esce sconfitta a causa delle proprie debolezze interne e dell’incapacità della dirigenza nazionale, passata e presente, di intraprendere i passi necessari volti a rafforzare la posizione del proprio Paese nell’arena internazionale.

Qualcuno pensa che l’Ucraina dovrebbe rafforzarsi al fine di scrollarsi di dosso il giogo russo, ma questa idea è sbagliata e profondamente pericolosa per la stabilità ucraina visto e considerato che la Russia gioca e continuerà a giocare in ogni caso un ruolo chiave per la politica, l’economia e la sicurezza ucraina. La verità è che Kiev deve rafforzare il proprio sistema interno, cominciando dalle riforme economiche, al fine di poter proiettare e tutelare i propri interessi nell’arena internazionale e di diventare un interlocutore affidabile per tutti, Russia in primis. Nonostante ciò che pensano molti, Mosca non sa che farsene di un Paese debole, in preda ad un’instabilità cronica ed inaffidabile: crediamo al contrario che il Cremlino abbia bisogno di un interlocutore affidabile che sappia avanzare le proprie richieste e difenderle in modo credibile, un Paese che dopo aver sottoscritto un impegno poi lo rispetta fino in fondo. L’incapacità ucraina di essere un interlocutore del genere danneggia tuttti: l’Unione Europea, la Russia e soprattutto la stessa Ucraina che lentamente ed inesorabilmente perde credibilità e la capacità di essere un soggetto geopolitico.

Nessuno dovrebbe sorprendersi dunque se la Russia, con le sue idee (tendenzialmente) chiare ed i suoi obiettivi geopolitici coerenti ottiene delle vittorie geopolitiche a scapito dell’Ucraina, come quella verificatasi in occasione dell’accordo di Kharkiv, una vittoria che è destinata a pesare sugli equilibri regionali per molti decenni a venire.

 

 

Arctique et hydrocarbures: les accords russo-norvégiens

Andrea PERRONE:

Arctique et hydrocarbures: les accords russo-norvégiens

 

Moscou et Oslo signent un accord sur les frontières maritimes arctiques et mettent un terme à plus de quarante années de controverses

 

carte_norvege_fr.gifLe 27 avril 2010, le Président russe Dmitri Medvedev terminait sa visite de deux jours en Norvège, visite qui avait eu pour but de renforcer les relations bilatérales entre les deux pays et d’innover dans le domaine de la coopération énergétique.

 

En présence d’un parterre bien fourni d’entrepreneurs et d’industriels norvégiens, le chef du Kremlin a souligné que son pays voulait améliorer le partenariat stratégique et énergétique avec la Norvège et trouver une issue à la querelle qui oppose Moscou et Oslo pour la maîtrise des eaux territoriales dans la Mer de Barents, dont les fonds recèlent de vastes gisements de ressources énergétiques.

 

La visite de Medvedev a également permis de conclure un accord historique sur les frontières maritimes dans l’Océan Glacial Arctique, après quarante années de querelles irrésolues. Le premier Ministre norvégien, Jens Stoltenberg, l’a annoncé lors d’une conférence de presse à Oslo, tenue avec le Président russe. “C’est une journée historique”, a déclaré Stoltenberg, “car nous avons trouvé la solution à une question importante, demeurée ouverte, et qui opposait la Norvège à la Russie”. “Nous sommes voisins”, a ajouté pour sa part Medvedev, “et nous voulons coopérer”. Stoltenberg a ensuite souligné que les deux pays se sont mis d’accord sur tout et a précisé que l’accord conclu était “optimal et bien équilibré”. “Cette solution”, a poursuivi le Premier Ministre norvégien, “représente plus qu’une délimitation territoriale sous la surface de l’océan; il s’avère important pour le développement de bonnes relations de voisinage”.

 

L’enjeu? Une zone de 175.000 km2, situés à proximité de l’archipel des Spitzbergen (qui appartient à la Norvège) et l’île de la Nouvelle-Zemble (qui fait partie de la Fédération de Russie). En 1978 déjà, un accord était entré en vigueur qui consentait aux deux pays de pêcher dans la zone mais sans régler définitivement la question des frontières maritimes. Or la question était épineuse, surtout parce que les experts pensent que dans le fond de l’Océan Arctique se trouvent d’énormes réserves de gaz naturel et de pétrole. La signature de l’accord par les ministres des affaires étrangères norvégien et russe s’est effectuée la veille du départ de Medvedev pour le Danemark, où il s’est rendu pour une visite officielle de deux jours (les 27 et 28 avril 2010).

 

En juillet 2007, la Russie et la Norvège avaient déjà signé une déclaration de principe pour délimiter les zones offshore du Fjord de Varanger (Varangerfjorden) dans la Mer de Barents: cette fois, les diplomates russes et norvégiens ont décidé de trouver un accord pour les autres frontières maritimes dans la même zone arctique, riche en gaz et en pétrole. La Norvège est le troisième exportateur mondial d’or noir, après l’Arabie Saoudite et la Russie. Oslo possède encore d’abondantes réserves de gaz naturel et s’intéresse au gisement russe de Shtokman, situé dans la partie orientale de la Mer de Barents et à l’exploitation d’autres gisements dans la presqu’île de Jamal, toujours sur territoire russe. La compagnie norvégienne Statoil, qui contrôle 24% des actions émises sur ces gisements, a réussi, fin avril 2010, lors du nouvel accord russo-norvégien à convaincre les Russes de passer à la réalisation du projet d’exploitation du riche gisement de Shtokman, dont Gazprom possède 51% des actions et la société française Total, 25%. Le 13 juillet 2007, Gazprom et Total ont signé un accord-cadre pour financer et construire les infrastructures du gisement. Le 25 octobre de la même année, une déclaration de principe de même nature avait été scellée entre la compagnie d’Etat russe et l’instance qui allait devenir l’actuelle Statoil norvégienne. Le 21 février 2008, les trois compagnies fondent un consortium commun à Zoug en Suisse.

 

Le soir suivant, Medvedev partait pour Copenhague, où plus aucun chef d’Etat russe ne s’était rendu depuis la visite de Nikita Khrouchtchev en 1964. L’actuel chef du Kremlin a rencontré le 28 avril 2010 les plus hautes autorités du Royaume du Danemark pour discuter d’accords commerciaux et régler les investissements danois dans les secteurs russes de l’énergie et de l’agriculture, sans oublier, bien évidemment, les questions qui touchent à la sécurité de l’Europe.

 

Andrea PERRONE / a.perrone@rinascita.eu

(article issu de “Rinascita”, Rome, 28 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers ; http://www.rinascita.eu ).

Entretien avec R. Steuckers sur les événements du Daghestan et les attentats de Moscou

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

Entretien de Robert Steuckers sur les événements du Daghestan et les attentats de Moscou

 

Propos recueillis par Robert KORTENHORST

 

Robert KORTENHORST : En septembre 1999, de spectaculaires attentats ont frappé la Russie en plein cœur : des immeubles ont volé en éclats, il y a eu des dizaines de morts et des centaines de blessés. Les attentats sont-ils liés, comme on l’a dit, à la rébellion islamiste, partie de la Tchétchénie vers le Daghestan ?

 

Robert STEUCKERS : Je voudrais d’abord rendre un hommage ému à toutes les victimes innocentes de cette abominable tragédie. Ensuite, je veux déplorer ici le manque d’humanité de nos médias qui se disent « humanistes » face à cette abomination. Voilà des victimes du terrorisme aveugle qui ne valent apparemment pas une larme de la part des professionnels de l’indignation. Certes, ces victimes sont russes et européennes, donc elles sont, sans doute, a priori coupables de quelque chose, qu’elles ignorent… On oublie que la révolte islamiste tchétchène n’a pas été spontanée, il y a quelques années, mais qu’elle rencontrait un objectif géopolitique et géo-économique bien clair : contrôler l’acheminement des pétroles et des gaz de la Caspienne qui transitent par des oléoducs traversant cette république autonome non russe de la Fédération de Russie. Les intérêts américains veulent que ces matières premières passent par l'Azerbaïdjan et la Turquie, qu’elles arrivent dans des ports méditerranéens turcs (Ceyhan), afin que les armateurs occidentaux (pour la plupart anglo-saxons) en assurent la répartition dans le monde. Les Etats-Unis ne souhaitent pas que ces pétroles et gaz passent par la Russie, la Mer Noire et arrivent en Europe par le trafic fluvial sur le Danube. Dans ce cas, le commerce international du pétrole leur échapperait complètement à moyen terme. L’allié turc est suffisamment faible sur le plan structurel pour demeurer totalement inféodé aux intérêts américains. Ce n’est pas le cas de la Russie, de la Serbie et de l’Allemagne, puissances en mesure de contrôler le Danube, la Mer Noire, les oléoducs nord-caucasiens et la Caspienne.

 

Quant au Daghestan, c’est un territoire traversé du Sud au Nord par un grand oléoduc qui draine le pétrole vers la Tchétchénie et la côte russe de la Mer Noire via une bifurcation vers l’Ouest, d’une part, vers la Volga qui mène à Moscou et au cœur de la Russie, d’autre part. En lisant la carte, on comprend tout !

 

Ensuite, les conflits de ces récentes années et de ces derniers mois sont étroitement liés, ce que ne nous disent pas les médias aux ordres. Je voudrais rappeler ici :

Que l’Allemagne a réalisé, il y a deux ou trois ans, un très vieux projet qui remonte à Charlemagne. Le système fluvial du Main et du Rhin (donc de la Meuse et de l’Escaut par le biais des Canaux Wilhelmina,  Juliana et Albert) est désormais lié par un canal à très grand gabarit au système danubien. Une voie fluviale très importante, quasi aussi importante que la Méditerranée, traverse tout le continent européen, de la Mer du Nord (Rotterdam) à la Roumanie (Constantza). Pour les Etats-Unis et l’Angleterre, puissances maritimes, c’est un défi considérable, un enjeu vital. A terme, sur le théâtre européen, l’exploitation de ce système fluvial, signifie le ressac inéluctable des armateurs et des flottes commerciales maritimes anglaises et américaines (ou battant pavillons de complaisance, panaméen ou libérien). L’Allemagne est un partenaire de l’OTAN trop important pour qu’on l’attaque de front. Il fallait briser la synergie fluviale ailleurs : la Serbie était le maillon faible, parce qu’on pouvait plus aisément la démoniser. L’objectif principal de la guerre de ce printemps était justement de détruire les ponts du Danube à hauteur de Belgrade et de Novi Sad, ce qui bloque le trafic danubien, en direction de l’Autriche et de l’Allemagne en provenance de la Mer Noire, en direction de l’Ukraine et de la Russie en provenance d’Europe centrale. Au sein des Balkans, la Croatie est également perdante, puisque ses fleuves (la Drave et la Save) sont des affluents du Danube, de même que la Grèce, qui reçoit bon nombre de biens d’importation via le Danube et les voies routières et ferroviaires Belgrade-Salonique. Toute l’Europe est victime de la Guerre du Kosovo : je veux dire l’Europe honnête qui travaille et produit, l’Europe des bons pères de famille qui élèvent leurs enfants et veulent leur donner un avenir, pas l’Europe des manipulateurs médiatiques, des mafieux imbriqués dans les processus de décision politique, des dirigeants falots et irresponsables qui la dirigent, des faux intellectuels qui s’érigent en professeurs de morale, mais accordent un blanc-seing à des crimes aussi abominables que ceux qui viennent d’être perpétrés à Moscou.

 

Les guerres entre l’Azerbaïdjan et l’Arménie, la guerre de Tchétchénie et du Daghestan, la guerre du Kosovo et la problématique kurde en Turquie orientale sont étroitement liées. On peut dire sans grande exagération que c’est une troisième guerre mondiale. La révolte islamique tchétchéno-daghestanaise est un prétexte pseudo-religieux et pseudo-nationaliste : l’enjeu, c’est le pétrole de la Caspienne.

 

RK : Doit-on craindre des attentats en Belgique comme à Moscou ?

 

RS : Pas directement. Car l’armée belge n’est nullement en mesure d’intervenir sur la route du pétrole, à l’instar de l’armée russe. Cependant, l’arme du terrorisme aveugle peut être utilisée pour faire fléchir toute puissance européenne qui se mettrait à ruer dans les brancards. Rappelons tout de même les attentats du GIA dans les métros parisiens, il y a quelques années. Ensuite, chez nous, à Bruxelles, peu avant l’arrestation du Kurde Öçalan, Saint-Josse et Schaerbeek ont été le théâtre d’une véritable guérilla urbaine, où des nuées de jeunes Turcs, souvent mineurs d’âge, ont saccagé et incendié des immeubles appartenant aux communautés kurde et araméenne (cette dernière, chrétienne-orthodoxe de rite particulier, est étrangère à la question kurde mais coupable de ne pas accepter la terreur de l’Etat kémaliste turc !). La presse, même celle du régime laxiste et multiculturaliste, a souligné que cette émeute ultra-violente a été téléguidée par certains services de l’ambassade, avec la présence d’une équipe de télévision turque qui filmait avec complaisance l’œuvre des terroristes en herbe de nos vieux quartiers bruxellois. Cette émeute est un acte de guerre, sans déclaration préalable, sur notre sol national ! Je reste pantois devant l’inertie de notre gouvernement : pas de renvoi immédiat de l’ambassadeur de Turquie, pas de rappel de notre propre ambassadeur, pas de veto à l’OTAN, pas d’exigence formelle de payer et de réparer tous les dégâts commis et de dédommager les victimes belges et étrangères, pas d’excuses exigées du gouvernement turc, pas de sanctions contre les émeutiers, pas de dissolution des associations responsables de ce « dérapage contrôlé », pas de plainte du « Centre d’Egalité des Chances » contre le racisme anti-kurde (les Kurdes sont des Mèdes indo-européens et ne sont pas de souche turque) et anti-araméen (les Araméens sont des Sémites chrétiens et ne sont pas davantage de souche turque).

 

En théorie, à Bruxelles comme à Moscou ou à Paris, les attentats terroristes contre des objectifs civils sont désormais possibles. On sait que l’armée française tente d’organiser une riposte (isolement des quartiers d’émeutiers en coupant l’eau, le gaz et l’électricité, opération conjointes de blindés et d’hélicoptères, etc.). La Suisse prévoit également des mesures, comme vient de le dire le Général Peter Regli, chef de l’UNA, les services de renseignements militaires helvétiques (cf. Thurgauer Zeitung, 2 juin 1999). Je ne crois pas que des mesures préventives aient été prises chez nous… Malgré la présence de sites stratégiques importants dans les quartiers dangereux : Gares du Midi (avec le terminal des TGV et Eurostar), du Nord et de Schaerbeek. Jupiter rend aveugles ceux qu’il veut perdre…

 

mardi, 18 mai 2010

Nagorno-Karabakh: une éventuelle médiation iranienne?

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Nagorno-Karabakh: une éventuelle médiation iranienne?

 

 

 

Dans le conflit du Nagorno-Karabakh, qui oppose l’Arménie à l’Azerbaïdjan, Moscou ne s’opposerait nullement à une éventuelle médiation de Téhéran

 

Dans l’urgence, toute aide est la bienvenue: Moscou ne s’opposerait donc pas à l’offre que vient de faire Téhéran. Les Iraniens ont en effet proposé d’organiser un sommet des ministres des affaires étrangères de l’Azerbaïdjan, de l’Arménie et de l’Iran pour régler le conflit du Nagorno-Karabakh qui oppose depuis 1988 Erivan à Bakou. Le porte-paroles de la diplomatie russe, Andreï Nesterenko, a fait connaître cette proposition iranienne le 30 avril 2010. Mais ce sera seulement si la rencontre aura bel et bien lieu, et sur base des résultats atteints, que l’on pourra parler d’une éventuelle médiation iranienne dans le règlement du conflit, a précisé Nesterenko.

 

(note parue dans “Rinascita”, Rome, 1 mai 2010; http://www.rinascita.eu ).

mardi, 11 mai 2010

Medvedev à Buenos Aires - Nucléaire et multiculturalisme

medvedev-argentina-2.jpgAlessia LAI:

Medvedev à Buenos Aires

 

Nucléaire et multilatéralisme

 

Revenant du sommet sur la sécurité nucléaire qui s’était tenu à Washington, le président russe Dmitri Medvedev s’est rendu le 14 avril 2010 à Buenos Aires, capitale de l’Argentine. Son objectif? Renforcer les relations entre la Russie et ce pays d’Amérique latine. Il est ainsi le premier chef d’Etat russe à rendre visite à l’Argentine depuis les 125 ans que les deux pays entretiennent des relations bilatérales. Medvedev a offert à l’Argentine “l’occasion de coopérer dans le secteur énergétique”. Outre la signature d’accords portant sur la coopération culturelle ou sur les domaines de la recherche spatiale, de l’exploitation forestière, du sport, des hydrocarbures et des transports, les pourparlers russo-argentins ont surtout mis l’accent sur la coopération nucléaire à des fins pacifiques.

 

Le directeur général du consortium d’Etat russe pour l’énergie atomique “Rosatom”, Sergueï Kirienko, au cours d’une rencontre entre Medvedev, d’autres représentants du gouvernement russe et des entrepreneurs argentins, a eu l’occasion d’annoncer l’offre russe à l’Argentine de construire “une troisième centrale nucléaire”, tout en ajoutant que le gouvernement de Cristina Fernandez “décidera l’année prochaine comment répondre” à cette offre. Il faut savoir que déjà “un quart de l’énergie argentine est générée à l’aide de turbines russes”, a rappelé Medvedev. Russes et Argentins ont profité de l’occasion pour renforcer quelques liens politiques et stratégiques, ce qui a certes troublé le sommeil des anciens patrons du pays, liés aux Etats-Unis. Cristina Fernandez a souligné, pour sa part, que “le monde a changé, que la tension Est-Ouest appartient désormais au passé; outre de nouveaux acteurs globaux, nous avons de nouveaux dirigeants en Amérique du Sud qui sont animés par une vision différente de ce que doivent être les relations internationales, c’est-à-dire être axées justement sur ce multilatéralisme que cherche à promouvoir l’actuel gouvernement argentin”.  

 

Nous avons donc affaire à un nouvel élément clef dans la construction du futur monde multipolaire: le processus d’intégration latino-américain qui a généré des institutions comme l’UNASUR, l’ALBA, Pétrocaribe, qui agissent et interagissent pour mener à l’union de toutes les nations latino-américaines, lesquelles veulent devenir actrices à part entière sur la scène internationale et non plus être exclues des décisions qui affectent le sort de la planète ou reléguées au rang d’actrices de seconde zone.

 

“Nous ne sommes l’arrière-cour de personne, nous voulons des relations sérieuses et normales avec tous les pays du monde”, a souligné la Présidente d’Argentine.

 

Alessia LAI,

a.lai@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 16  avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu/ ).

Russie et Danemark: coopération énergétique

DANEMARK.gifAndrea PERRONE:

Russie et Danemark: coopération énergétique

 

Medevedev en visite officielle à Copenhague: renforcement du partenariat stratégique et énergétique entre la Russie et le Danemark

 

Le Président russe Dmitri Medvedev a entamé un voyage en Europe du Nord dans le but de souder un partenariat énergétique, de renforcer les relations bilatérales et multilatérales dans la zone arctique et la coopération en matières de haute technologie et d’énergies renouvelables.

 

Mercredi 28 avril 2010, Medvedev se trouvait au Danemark. Le chef du Kremlin y a atterri et y a été accueilli par la Reine Margarete II et par le Premier Ministre Lars Lokke Rasmussen. Le thème privilégié de cette rencontre au sommet, qui doit sceller la coopération russo-danoise, a été l’énergie, plus particulièrement la construction du gazoduc North Stream.

 

Le Président russe, en participant à un sommet d’affaires russo-danois, a souligné qu’il s’avère surtout nécessaire “de créer un critère général et des réglementations pour la coopération énergétique du futur”. Ensuite: “Il s’avère nécessaire de mettre à l’ordre du jour des normes et des réglementations internationales pour la coopération énergétique”, a poursuivi le chef du Kremlin, “parmi lesquelles une nouvelle version de la Charte de l’énergie”. La Russie a déjà présenté à ses interlocuteurs un document de ce type, dans l’espoir que les Danois feront de même, de leur côté. Medvedev a ensuite rappelé que le secteur énergétique représente un secteur clef de la coopération entre la Russie et le Danemark. Moscou et Copenhague, a souligné le Président russe, ont désormais visibilisé leur contribution à la sécurité énergétique en Europe et leur souhait de voir se diversifier les routes d’acheminement du gaz, dont le gazoduc North Stream. Il a ensuite adressé ses meilleurs compliments au Danemark, premier pays à avoir participé à la construction du gazoduc et à avoir permis son passage à travers sa propre zone économique. La réalisation du gazoduc North Stream, a poursuivi Medvedev, rendra possible, non seulement la satisfaction des besoins en gaz du Danemark, mais aussi son rôle d’exportateur de gaz vers les autres pays européens, tandis que les contrats à long terme dans les secteurs du pétrole et du gaz naturel pourront garantir le partenariat énergétique russo-danois pour les trente prochaines années. Medvedev a également mis en exergue la participation des entreprises danoises dans les programmes de mise à jour et de rentabilisation des implantations énergétiques dans diverses régions de Russie. Le premier ministre danois et le chef du Kremlin ont ensuite signé, au terme de la rencontre, une série d’accords portant pour titre “partenariat au nom de la modernisation” et visant la coopération dans le secteur de la haute technologie et le développement de l’économie russe dans certaines régions de la Fédération de Russie, comme le Tatarstan.

 

Andrea PERRONE,

a.perrone@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 29 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu ).

lundi, 10 mai 2010

Prof. Dachitchev: Réponse à la "Lettre ouverte" des intellectuels occidentaux contre Poutine

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Prof. Dr. Viatcheslav DACHITCHEV:

Réponse à la “Lettre ouverte” des intellectuels occidentaux contre Poutine

 

Daschitschew.jpgLe Professeur Viatcheslav Dachitchev, historien et expert ès questions allemandes, a été l’un des principaux conseillers de Gorbatchev et l’avocat au Kremlin de la réunification allemande. Nous avons déjà eu l’occasion de publier des entretiens avec lui ou des extraits de ces meilleurs essais [ http://www.harrymagazine.com/200407/turquia.htm ; http://ch.altermedia.info/index.php?p=641#more-641 ; tous deux sur la question de l’adhésion turque à l’UE; “Gorbatchev et la réunification allemande” & “Le combat de Poutine contre les oligarques”, in “Au fil de l’épée”, recueil n°48, août 2003].

 

Aujourd’hui, le Prof. Dachitchev réagit à la “Lettre ouverte” des intellectuels occidentaux, dirigée contre le Président Vladimir Poutine, accusé de détruire la démocratie en Russie. Sans hésiter, le Prof. Dachitchev a pris la plume pour présenter des contre-arguments dans les colonnes de l’hebdomadaire nationaliste allemand, la “National-Zeitung”, qui paraît à Munich. L’objectif du professeur : réfuter les arguments fallacieux avancés par les politiciens américains et les intellectuels qui leur sont inféodés, dans cette “Lettre ouverte”, dont l’objectif est de déstabiliser Poutine et la Russie. Dachitchev part du principe que “déclencher une guerre terroriste en bonne et due forme contre la Russie” coïncide avec les élections américaines. La guerre de Tchétchénie, en effet, apporte à Washington plusieurs avantages stratégiques importants. La  machine propagandiste US peut ainsi détourner l’attention de l’opinion publique internationale de l’expansionnisme américain en acte et accuser les seuls dirigeants russes d’enfreindre les droits de l’homme. La situation actuelle de la Russie est peu enviable, parce qu’elle sort à grand peine du marasme dans lequel la politique américaine l’a plongée, en pariant systématiquement sur le clan d’Eltsine. Voici la première partie de la réfutation rédigée par le Prof. Dachitchev :

 

Prélude à une nouvelle “Guerre Froide”?

 

L’élite dirigeante aux Etats-Unis a besoin d’une Russie faible, qui, comme beaucoup d’autres pays européens, puisse être maintenue à la remorque de Washington. Elle craint aussi de perdre sa “cinquième colonne” en Russie. Le 29 septembre dernier, 115 “intellectuels” et politiciens américains et européens ont publié une “Lettre ouverte” aux chefs d’Etat et de gouvernement de l’UE  et de l’OTAN (pourquoi pas aux Nations Unies?) qui constitue de facto une attaque agressive contre le gouvernement du Président Poutine. Comment faut-il interpréter cette lettre? Quels sont les objectifs poursuivis par sa diffusion?

 

Avant toute chose, cette lettre témoigne que la politique américaine vise encore et toujours à affaiblir la Russie. La façon dont la “Lettre” décrit la politique du Président Poutine, surtout après les événements de Beslan en Ossétie, n’est rien d’autre qu’une démolition en règle. Pour washington, ce qui importe, c’est d’organiser une campagne propagandiste visant à refaire de la Russie un ennemi pour l’opinion publique américaine et européenne, afin de pouvoir exercer une pression constante sur les plans politique, économique et militaire et de pouvoir la justifier.  Ou bien est-ce carrément le début d’une nouvelle “Guerre Froide” contre le “Super-Etat voyou”?

 

Les néo-conservateurs tirent les ficelles

 

Personne, et encore moins Poutine, ne conteste le fait qu’une véritable démocratie serait un bien pour la Russie. Cependant, les signataires de cette “Lettre ouverte” devraient surtout penser à l’essentiel; et cet essentiel n’est-il  pas, aujourd’hui, pour la communauté internationale, d’éviter une nouvelle guerre mondiale, qui pourrait se déclencher à la suite de la politique américaine qui vise à établir une hégémonie globale? Mais il serait naïf de croire que les signataires veulent vraiment éviter cette conflagration universelle. Car, parmi ceux qui ont initié et signé cette “Lettre”, on trouve les tireurs de ficelles néo-conservateurs  comme William Kristol et Robert Kagan, tous deux fondateurs du “Projet pour un nouveau siècle américain”, expression de leur lobby idéologique.

 

En Russie aussi, une campagne  hystérique contre Poutine est menée tambour battant, justement par les mêmes cercles et cénacles qui, sous Eltsine, avaient ruiné et pillé le pays et le peuple. Ils craignent aujourd’hui de perdre tout pouvoir et toute influence. Ils se sont rassemblés au sein de  “Comité 2008” et d’une “Fédération des forces justes”. Leur objectif consiste à renverser Poutine. Ils font dans la pure démagogie et rendent le Président responsable indirectement du massacre effroyable de Beslan. Ils posent ses réformes du système politique russe comme une volonté de réduire les droits de l’homme à rien. Pourtant, malgré leurs cris, ils oublient de se soucier du problème majeur de la Russie d’aujourd’hui : 41% de la population russe végètent sous le seuil de la pauvreté ou l’avoisinnent dangereusement. Pour Alexandre Lifschitz  —l’ancien ministre des finances d’Elstsine—  ces millions de pauvres gens sont des “alluvions sociaux”. Pour Andreï Piontkovski  —un russophobe bien connu—  le Président Poutine est le “problème majeur” de la Russie. Le politologue Satarov, qui appartient lui aussi à l’entourage d’Eltsine et dont le nom sert à désigner le péché actuel de l’intelligentsia russe (on parle de “saratovisme”), prétend avoir trouvé les moyens de “freiner Poutine”. Ainsi, la tragédie de Beslan a contribué à faire reconnaître ceux qui sont en faveur et ceux qui sont en défaveur des intérêts nationaux de la Russie.

 

Les dangers pour la Russie

 

C’est quelque part exact : l’action terroriste abominable qui a été perpétrée à Beslan en Ossétie a épouvanté le monde entier et a permis à la caste dirigeante russe, rassemblée autour de Poutine, de procéder à une appréciation nouvelle des dangers et des défis qui menacent la Russie. Il est exact de dire aussi que l’affaire de Beslan provoquera une transformation essentielle dans la politique russe, sur les plans de la politique intérieure, de la politique extérieure et de la politique militaire.

 

Après la fin officielle et formelle de la “Guerre Froide”, la Russie avait réduit ses budgets militaires de manière spectaculaire : le chiffre était passé de 200 milliards à 12 milliards de dollars. Les budgets américains, en revanche, avaient gonflé pour atteindre  des dimensions gigantesques et dépasser les chiffres du temps de la “Guerre Froide”. Vu la pression américaine, la Russie a dû tripler son budget militaire au cours de ces cinq dernières années. Les plans soumis en août dernier pour les dépenses militaires de 2005 prévoient une augmentation de 28% pour atteindre le chiffre de 573 milliards de roubles. Après l’action terroriste tchétchène de Beslan, ces budgets seront encore augmentés. Selon des déclarations officielles, une bonne part de ce budget devra assurer la parité avec les Etats-Unis en matière de fusées nucléaires.

 

Pourquoi ? Parce que le facteur qui pèse le plus sur la Russie depuis la fin de la Guerre Froide, sur les plans géopolitique, géostratégique et géo-économique est indubitablement la politique américaine. Après le démontage du système totalitaire soviétique, après que Gorbatchev ait renoncé définitivement au messianisme communiste et à sa politique hégémoniste, après l’effondrement de l’Union Soviétique, on a pu croire que les tensions entre les Etats-Unis et la Russie disparaîtraient et qu’une situation nouvelle naîtrait, apportant dans son sillage les conditions d’une paix durable et d’une vision constructive de la politique internationale. En réalité, rien de tout cela n’est advenu, bien au contraire !

 

Le programme : bétonner l’hégémonie définitive des Etats-Unis  sur le globe

 

La Doctrine Bush a pour assises les programmes géopolitiques visant à bétonner l’hégémonie définitive des Etats-Unis sur le globe. Ces programmes dérivent du “Project for a New American Century” (PNAC), élaboré au printemps de l’année 1997, et d’autres projets émanant des centres de réflexion néo-conservateurs.

 

Quelques mois après l’élaboration de ce PNAC, est paru un article dans la revue “Foreign Affairs”, qui s’intitulait : “Pour une géostratégie eurasiatique”. Il était dû à la plume de Zbigniew Brzezinski et révélait ouvertement et sans vergogne les  plans américains. C’est-à-dire les suivants:

è    Les Etats-Unis doivent devenir la seule et unique puissance dirigeante en Eurasie. Car qui possède l’Eurasie possède aussi l’Afrique.

è    La tâche principale de cette politique globale des Etats-Unis consiste à élargir leur principale “tremplin” géostratégique en Europe, en poussant les pions, que sont l’OTAN et l’UE, aussi loin que possible vers l’Est, y compris aux Pays baltes et à l’Ukraine.

è    Il faut empêcher toute bonne intégration au sein même de l’UE, de manière à ce que celle-ci ne  puisse pas devenir une puissance mondiale à part entière.

è    L’Allemagne  —qui sert de base à l’hégémonie américaine en Europe—  ne pourra jamais devenir une puissance mondiale; son rôle doit être limité à des dimensions strictement régionales.

è    La Chine  —soit l’”ancrage asiatique” de la stratégie euro-asiatique des Etats-Unis, doit, elle aussi, demeurer une simple puissance régionale.

è    La Russie doit être éliminée en tant que grande puissance eurasienne; à sa place, il faut créer une confédération d’Etats mineurs, qui seront la république de Russie d’Europe, la république sibérienne et la république d’Extrême Orient.

 

On le constate : les objectifs géopolitiques des Etats-Unis mènent tout droit à un télescopage pur et simple entre les intérêts russe et ceux de Washington.

 

Viatcheslav DACHITCHEV,

Moscou.

[article paru dans la “National-Zeitung”, n°42, 8 octobre 2004].

jeudi, 06 mai 2010

Le alleanze centroasiatiche e la crisi dell'Impero

tran_asian_road.jpgLe alleanze centroasiatiche e la crisi dell'Impero

di Giulietto Chiesa - Simone Santini

Fonte: Clarissa [scheda fonte]

 Ci sono continui movimenti nel cuore dell'Asia, un'area geopolitica cruciale. Ne parliamo con Giulietto Chiesa, profondo conoscitore delle vicende che si intrecciano in quella regione del pianeta. Le domande che gli rivolgiamo cercano di approfondire un tema che in Italia i media affrontano con pochi articoli svogliati. Le risposte portano la nostra attenzione su scenari diversi da come appaiono a prima vista, sullo sfondo della crisi dell'Impero.


Si hanno nuove rivelazioni circa uno stretto legame tra la nuova dirigenza kirghisa, che ha preso il potere nello stato centro-asiatico le scorse settimane, e Israele.
Allo stesso tempo, però, si era subito verificato che Mosca non fosse ostile al nuovo corso ed avesse in qualche modo abbandonato l'ex presidente Bakiev, reo di aver troppo tenuto i piedi in due scarpe, una russa e una americana. Giulietto Chiesa, secondo lei è possibile che ci si possa trovare di fronte ad un accordo russo-israeliano con gli americani a guardare dalla finestra?

Ho visto le notizie. A me pare che non soltanto e non tanto Israele sia dietro i movimenti della Otumbaeva, ma sempre gli Stati Uniti. Certi viaggi si fanno per ottenere finanziamenti anche individuali. Ma i fili dei collegamenti portano simultaneamente a Washington, e Tel Aviv e anche a Mosca, dove i filoamericani non mancano. Una cosa è certa: Putin ha scaricato Bakiev. Il resto è appeso a negoziati complessi che si chiariranno quando Otumbaeva renderà note le sue decisioni sulla base americana.

Prima del caso kirghiso si era gia avuto il caso della Georgia, lo strategico paese caucasico finito nell'orbita filo-occidentale ma anche di Israele dopo l'ascesa al potere di Saakashvili con la “rivoluzione colorata” del 2003. Alcuni “dietrologi” hanno visto lo zampino dei consiglieri militari israeliani che hanno spinto i georgiani alla disastrosa avventura del 2008 quando tentarono di riprendere con la forza la regione/repubblica secessionista dell'Ossetia del Sud. Di fatto fornendo, sul piatto d'argento della prevedibile reazione russa, sia la stessa Ossetia sia l'Abkhazia. Ancora un accordo segreto tra Russia e Israele?

Non credo proprio. Israele ha giocato per proprio conto, pensando alla Georgia come base per l’attacco futuro all’Iran. Israele ha amici importanti al Pentagono. Che hanno contribuito a dare il via libera a Saakashvili. Essere agente e consigliere del Mossad non significa automaticamente essere intelligente. Certo che hanno fatto un pessimo servizio a Saakashvili. Ma che volessero fare un favore a Putin e Medvedev proprio non lo credo.

In un’analisi a carattere geopolitico avevamo indicato come l'Asia centrale potesse essere conformata dall'azione di poteri transnazionali come un nuovo “spazio vitale” per trasformarlo da possibile scenario di accordo strategico tra Russia e Cina in un terreno di sfida e scontro tra le stesse due potenze seconda la logica del “divide et impera”. Lo ritiene possibile?

No, non lo ritengo questo il disegno. L’Asia centrale è area parzialmente aperta alle influenze molteplici americane e russe. Non ci sono confini. Ciascuno si muove per portare via terreno di manovra all’avversario. E’ una lotta sotto il tappeto che accompagna il dialogo pubblico. La Kirghisia in particolare è piuttosto un occhio aperto sulla Cina che non uno sfregio alla Russia.

Su un piano piu generale, che tipo di convergenza di interessi esiste tra Russia e Israele? Quali sono i gruppi ed i centri di potere piu attivi in Russia pro-Israele? Si puo parlare di centri lobbistici (associazioni, think tank, gruppi di pressione, reti accademiche, giornali) che svolgano un ruolo simile a quanto sappiamo avvenire, ad esempio, negli Stati Uniti?

Tutti gli oligarchi rimasti in Russia hanno ottimi rapporti personali con Israele. Ma mi pare che li gestiscano personalmente. Non vedo grandi finanziamenti a think tank, o giornali. Salvo Kommersant. Nulla di simile, comunque alla situazione in America, dove le lobby israeliane sono talmente potenti che spesso non e’ chiaro se siano loro a governare gli Stati Uniti. A Mosca queste cose di possono fare, ma con maggiori difficolta’ e sempre al riparo da troppa pubblicita’.

In questo ambito puo esistere una differenza di approccio tra Putin e Medvedev? I due rispondono a logiche differenti?

Su questo punto mi pare che non ci siano indizi di differenze, neppure di stile.

Veniamo al "Dossier Iran". Il capo di stato maggiore russo, il generale Nikolai Makarov, ha piu volte dichiarato che sarebbe “disastroso” arrivare ad una guerra con Teheran anche per gli stessi interessi di Mosca. L'atteggiamento della dirigenza politica appare, anche se non esplicitamente, piu morbido. Detto brutalmente, secondo lei come finira con l'Iran e quale sara l'atteggiamento della Russia?

In caso di attacco contro l’Iran, sia Russia che Cina non faranno nulla. Diranno che non sono d’accordo, condanneranno. Punto e basta. Mosca e Pechino sanno che sia USA che Israele hanno l’opzione pronta. Ma pensano entrambi che per chi attacca sara’ una sconfitta politica e psicologica. Forse l’ultima guerra “tradizionale”, nel senso di bombardamente a tappeto, che gli USA faranno. Poi ci si preparera’ ad altro tipo di scontri, molto piu’ grandi e pericolosi.
Direi che stanno sulla riva del fiume a veder passare il cadavere di Obama.
Del resto piu’ che cercare di dissuadere non possono fare. Altrimenti finirebbero anche loro nel mirino dell’Impero malato. La “morbidezza” che esplicitano e’ pura tattica d’immagine. Per accreditarsi come partners. Ma, come l’America non li ha mai considerati partners, cosi’ loro pensano che non si possa essere partner con l’America.


Intervista a Giulietto Chiesa di Simone Santini (Clarissa.it - Megachip). 


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

A. Dugin: "Russia strongly rejects any presence of US Navy in the Black Sea

Aleksandr Dugin – „Russia strongly rejects any presence of US Navy in the Black Sea”

CP: – Mr. Dugin, we daily see demonstrations of the people in all major parts of the world. It’s a democratic way to express their disagreement. In Russia, the radical measures of the authorities but also the inability of the opposition led the right to protest in ridiculous. Population doesn’t believe in this „institution” of citizen. Maybe that’s why Kaliningrad episode was so much fuss. How see you this episode ?

AD: – There are some problemes with the functioning of democracy in Russia, I agree. But I think that there is the very big problem with the democracy as such in the West and in the other part of the world. The mass protest actions couldn’t reach the only real goal – to overthrow the capitalist system based on the expropriation of  the real value of human work. The democracy on the global scale is bogus. It is completeness faked. What we call «democracy» is an Spectacle, with or without special glasses. Namely: in the advanced societies the Spectacle is very impressive as the 3D technology as in Avatar movie. In the more tradition societies, like Russia, with less davanced technologies, the illusions of Spectacle are much poorer. We, Russsians, are living in the first stage of capitalist lie. So our Spectacle of democracy is bad and the cruelty of capitalist exploitation is not masked properly.

The capitalism is something that is not compatible with the real democracy, human right and freedom and social justice. The only difference that I see consists in the fact that modern Russian capitalism is much cruder.

CP: – Remaining at the public perception. In Kaliningrad, the population turned out to be enthusiastic at speech of opposition leaders who rushed to claim disapproval of Putin’s regime (I say Putin and stop because nobody  protests against Medvedev !). What errors underlying opposition to failure as a legitimate political force that must be taken into account ? What should be done to change the things ?

AD: – The problem is that now we haven’t real opposition in Russia. The majority is disinterested in politics and aproves in general features the course and discourse of Putin. Medvedev proves to be nothing at all, so he is not mentioned. The only group that is moving still are the marginals, paid by USA and other NATO countries, without political programm and having the only goal – distabilize the situation and to cause the problems to Putin’s souvereign rule. Sometime they manage get mass support – as in Kaliningrad case – but it is casual and without any effect on the national scale. In the distant zones of Russia the social problems are really very serious and that is the reason of some action of protest. Not associated with opposition politics. But in the USA, we are witness at much more animated mass action that usally lead nowhere. In my view, the Kaliningrad case is overestimated in the West. In Russia nobody knows and doesn’t wants to know either.

CP: Media spoke of a future presidential party. What would be the logic and purpose of setting up a party of President Medvedev ? It spoke at a time of possible fractionation United Russia party. We’ll witness at a migration to a presidential party ?

AD: – There has been some speculation on this subject. But nobody speaks clear of such possibility yet. I doubt that it would be possible. Medvedev is completely zero as the man. Political man, I mean. United Russia is not the real political party either, but it is fully under Putin control. So for create „presidential party”, we need a real President. But that is exactly what we lack.

CP: – What means exactly in your view that “United Russia is not the real political party” ?

AD: I mean the United Russia is an organisation without a clear ideology, without any political ideas, programms or common goals, existing only on the basis of Putin’s personal popularity and the political technology of the power in Kremlin, with zero grade of the autonomy. That is not good nor bad, just the state of affairs corresponding to the concrete historic situation. On that note as such.

CP: – Recently, Russia has changed protective speech on Iran issue. Then returned at more good feelings. And after has tightened speech… What is the real vision ? or Russian criticism just was a momentary attitude in the context of recently ended negotiations on START 2 ? We are talking about a very important treaty with global implications, so it is important each argument.

AD: – Iranian nuclear issue is likely to worry many leaders. But I think that the Russia has no reason at all to support West in its anti-Iranian position and considers Iran to be rather geopolitical ally of Russia. The NATO contrarily is regarded as possible enemi. That explains the ambivalent attitude of Russia in time. Russia had itself arguments that were useful in negotiations on START 2. We look carefully developments in the Iranian problem. But a decision to sign to sanction Iran would be only if there are conclusive evidences. Iran is our friend. It could turn once to becom nuclear friend. So is Israel. Israel is friend of USA and possesses the nuclear weapon. So is Pakistan also. Geopolitical speaking, there should be the symmetry.

CP: – For that spoke about START 2, it said that Russia’s anger (about the location of the missile shield elements in Eastern Europe) was still clamp for use in negotiations. U.S. officials said that last year ago Russia knew where will be new locations shield. And recently, Secretary of State Hillary Clinton said that these two are very different and not conditional on one another. So, Russia feels really threatened or just claim an reason to negotiate ?

AD: – Yes, Russia feels threatened because NATO keeps moving Eastward from the end of 80-s. Any step of NATO in the Eastern direction is a confirmation of the reasonability of our concerns. No one can persuade us that all this are friendly. The real frindly step was made by Gorbachov dissolving the Warsaw Pact. What followed ? The move on NATO to the East. It is unfriendly step and correctly perceived as an agression. All the other similar initiatives should be regarded and analized in this light.

CP: – Analysts argue that non-involvement of Western in elections in Ukraine were a fair trade with Russia on the location of the shield elements in the Black Sea. What do you think about ? Moreover, these two aspects – Ukraine as a buffer and new location of shield elements – something radically change on geopolitical building in this area ?

AD: – The Ukraine is the part of Russian influence. So the West has nothing to do with this. And the Orange Revolution is over. Russia strongly reject any presence of USA NAVI in the Blacksea. We will not tolerate the american vision of Caucases. Or the plan of the Greater Middle East project. I think that the Ukraine will be part of Russian-Eurasian defense system. Or this defensive system not included shield of U.S. I don’t see such cooperation possible. At least, not in this context.

Gabriela Ionita

mercredi, 05 mai 2010

Le partenariat russo-serbe dans les Balkans

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Bernhard TOMASCHITZ:

Le partenariat russo-serbe dans les Balkans

 

Le partenariat historique entre la Russie et la Serbie vit un renouveau depuis quelques années. Moscou était aux côtés de Belgrade lorsqu’il a fallu se battre contre l’indépendance du Kosovo, voulue par les Etats-Unis. Le puissant allié de Belgrade étend également son bras protecteur sur les Serbes de Bosnie qui se défendent contre le centralisme que veut imposer l’Etat de Bosnie-Herzégovine, ce qui aurait pour conséquence de mettre un terme à la large autonomie dont bénéficie la “Republika Srpska”. “Les citoyens de Bosnie-Herzégovine doivent décider eux-mêmes de leur avenir; par conséquent, on peut réinterpréter les accords de Dayton sur base d’un accord entre la Republika Srpska et la Fédération musulmane-croate, ainsi qu’entre elles et toutes les autres minorités ethnique qui y vivent”, a déclaré en novembre 2009 Vitali Tchourkine, ambassadeur russe auprès de l’ONU.

 

Le soutien russe à la Serbie ne signifie pas la résurrection pure et simple de l’alliance historique entre les deux peuples: derrière ce soutien, se profilent des considérations stratégiques objectives. Ce sont elles qui donnent le ton. Après que tous les nouveaux Etats issus de la dislocation de la Yougoslavie soient devenus ou adhérents de l’OTAN ou sont en passe d’entrer au sein du Pacte nord-atlantique, au vif déplaisir de Moscou, la Serbie reste le seul Etat dans les Balkans qui ne s’est pas soumis à l’hégémonisme américain. “La Russie, à cause de l’extension des zones d’influence américaines, court le danger d’être progressivement exclue du Sud-Est de l’Europe. Les Etats-Unis ont, depuis la fin de la guerre froide et dans le sillage des conflits en ex-Yougoslavie, largement étendu leur présence politique dans les Balkans occidentaux et, par le biais de l’OTAN ou d’alliances bilatérales en matière de sécurité, bétonné leur prééminence géostratégique dans la région”: telle est l’analyse de Dusan Reljic de l’institut berlinois “Stiftung Wissenschaft und Politik”. Depuis que la Russie est sortie de l’ère des faiblesses que fut l’époque d’Eltsine dans les années 90 et qu’elle a retrouvé une conscience politique bien profilée et la fait valoir en politique étrangère, elle s’oppose tout naturellement aux tentatives américaines d’asseoir l’hégémonie des Etats-Unis dans les Balkans.

 

Cela explique aussi pourquoi Moscou, par exemple, s’oppose à la politique de faire de la Bosnie-Herzégovine un Etat centralisé, politique préconisée par les Etats-Unis et l’Union Européenne. Dans le cas d’un régime centralisateur, la République serbe de Bosnie, qui s’oppose à toute adhésion à l’OTAN, perdrait son droit de veto. La Russie cherche donc à façonner à son avantage le cours politique dans les Balkans via la Serbie et les Serbes ethniques. Belgrade cependant est quasiment contrainte d’accepter le partenariat. Car sans l’aide de la Russie, qui possède un droit de veto au Conseil de Sécurité de l’ONU, la Serbie se retrouverait seule et isolée, livrée sans la moindre protection aux appétits de Washington et ne pourrait pas faire valoir ses intérêts nationaux légitimes, surtout quand il s’agira demain d’empêcher la sécession définitive du Kosovo.

 

Les efforts du Kremlin, qui tente de lier fermement la Serbie à lui, gènent et agaçent les Etats-Unis, puissance étrangère à l’espace européen qui cherche à placer les Balkans tout entiers sous son contrôle. Pour arrimer définitivement le plus grand et le plus peuplé des Etats ex-yougoslaves aux “structures euro-atlantiques”, on fait miroiter à la Serbie l’adhésion à l’Union Européenne que réclame effectivement Belgrade. Au printemps 2009, le secrétaire général de l’OTAN à l’époque, Jaap de Hoop Scheffer, avait déclaré que c’était devenu “pratique courante” de coupler l’adhésion à l’UE à l’adhésion à l’OTAN. Peu auparavant, l’ambassadeur russe en Serbie, Alexandre Konunzine, avait rappelé à Belgrade sa neutralité militaire officielle. Seule la Russie pouvait être pour la Serbie un “partenaire stratégique” et non le contraire, fit savoir un diplomate.

 

L’idée d’adhérer à l’OTAN, le pacte militaire dominé par les Etats-Unis, n’est guère populaire en Serbie. Les souvenirs de la guerre menée par l’OTAN contre la Serbie en 1999 sont encore trop douloureux; officiellement, cette guerre d’agression avait eu pour but de protéger les Albanais du Kosovo. Cette guerre, gérée en dépit des principes du droit des gens car elle avait été déclenchée sans l’approbation préalable du Conseil de Sécurité de l’ONU, avait coûté la vie à près de 3000 Serbes, dont beaucoup de civils. Ensuite, parce que des usines chimiques avaient été bombardées, l’environnement avait été considérablement pollué. En mai 2009, lors d’un sondage du “Centre pour les élections libres et la démocratie” (Belgrade), 39% des personnes interrogées se déclaraient en faveur d’une adhésion à l’UE mais seulement 16% en faveur d’une adhésion simultanée à l’OTAN et à l’UE. Toutefois, au cours des années écoulées, l’engouement partiel des Serbes pour l’UE s’est atténué. Pourquoi? A cause de l’attitude partisane de l’eurocratie bruxelloise dans la question du Kosovo et à cause des conditions jugées très “dures” qu’impose cette eurocratie aux Serbes pour qu’ils puissent se rapprocher de l’Union. Ces attitudes ont laissé des traces, ont provoqué amertume et suspicion; c’est pourquoi l’ “option russe” n’a pas été abandonnée. En octobre 2008, le ministre serbe de la défense nationale, Dragan Sutanovac, avait déclaré au quotidien français “Le Figaro”: “Si l’UE ne nous ouvre pas les portes.... nous trouverons  d’autres solutions avec la Russie”.

 

Sans que l’Occident ne semble s’en être aperçu, Moscou, au cours de ces dernières années, a travaillé inlassablement, en étant bien conscient de ses priorités et de ses objectifs, pour devenir, pour la Serbie et les autres pays de la région, un partenaire économique incontournable. Dans le déploiement de cette stratégie, les consortiums pétroliers Lukoil et Gazprom ont joué un rôle de premier plan. Si les choses se déroulent selon les voeux de Moscou, l’importance de la Serbie croîtra encore. En effet, l’embranchement septentrional du gazoduc “South Stream” amènera du gaz naturel russe vers l’Europe centrale en passant notamment par des territoires serbes. Parmi les effets positifs pour Belgrade, il y a, bien sûr, le gain de prestige politique mais aussi l’opportunité de lever des taxes de transit pour ce gaz naturel, ce qui constituera une nouvelle source de revenus pour le pays.

 

Bernard  TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

 

L'ombre de la CIA sur Kiev

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SYNERGIES EUROPEENNES – BRUXELLES / ROME – décembre 2004

 

 

L’ombre de la CIA sur Kiev

 

Les Fondations Soros et Ford, la Freedom House et la CIA financent les “révolutions démocratiques” dans le monde

 

Le sort de la “révolution orange” en Ukraine, Monsieur James Woolsey y tient. Il ne peut en être autrement, puisqu’il est le directeur de la “Freedom House”, une organisation non gouvernementale américaine qui possède des sièges à Washington, New York, Budapest, Bucarest, Belgrade, Kiev et Varsovie. Elle se définit comme “une voix claire et forte qui veut la démocratie et la liberté pour le monde” et qui s’active “pour promouvoir les valeurs démocratiques et pour s’opposer aux dictatures”. Ce Monsieur James Woolsey dirige une brochette de politiciens, d’universitaires, d’industriels et d’intellectuels “transversaux”. Ce Monsieur James Woolsey a été, il y a quelques années, en 1995, le directeur de la CIA avant de s’occuper à “exporter la démocratie et la liberté dans le monde”. Grâce aux efforts d’innombrables activistes, issus de la “Freedom House”, et grâce à l’assistance économique, si charitable, d’autres organismes, comme ceux, bien connus, que sont les Fondations Soros et Ford, ce Monsieur James Woolsey  —dont les “honnêtes activités” s’étendent maintenant sur plus de soixante années—  peut désormais concentrer ses efforts dans “la lutte pour la liberté”, dans des pays meurtris et abrutis par une quelconque mélasse dictatoriale. Le palmarès de Woolsey et de ses amis est impressionnant : ils ont soutenu le “Plan Marshall” en Europe, favorisé la création de l’OTAN dans les années 40 et 50, multiplié leurs activités au Vietnam  pendant et après la guerre menée par ce peuple contre les Américains; ils ont financé Solidarnosc en Pologne et l’opposition “démocratique” aux Philippines dans les années 80.

 

Ce sont là les activités les plus médiatisées de cette “bonne” ONG et c’est sans compter les actions de “vigoureuse opposition aux dictatures” en Amérique centrale, au Chili, en Afrique du Sud ou durant le “Printemps de Prague”. Elle a aussi favorisé l’opposition à la présence soviétique en Afghanistan. Elle a excité les conflits inter-ethniques en Bosnie et au Rwanda. Elle s’est opposée à la “violation des droits de l’homme” à Cuba, au Myanmar, en Chine et en Irak. Elle s’est ensuite montrée hyper-active dans l’exportation de la “démocratie et de la liberté” dans les républiques de l’ex-URSS et dans l’ex-Yougoslavie post-titiste. C’est précisément dans cette ex-Yougoslavie, où le “mal” était personnifié par le Président Slobodan Milosevic, que notre ONG a peaufiné ses stratégies d’intervention, afin de les exporter ensuite en d’autres contrées, où le contexte est plus ou moins analogue. Notre bon Monsieur Woolsey a donc accueilli au sein de son organisation Stanko Lazendic et Aleksandar Maric, deux activistes serbes, peu connus de nos médias, mais qui ont joué un rôle-clef dans la chute de Milosevic. Ces deux personnages figurent parmi les fondateurs du mouvement étudiant “Optor” (= “Résistance”), aujourd’hui dissous, mais absorbé par le “Centre pour la révolution non violente” de Belgrade. Peu de temps avant la chute de Milosevic, le 5 octobre 2000, les militants d’Optor ont été invités en Hongrie, dans les salons de l’Hôtel Hilton de Budapest, où un certain Monsieur Robert Helvy leur a prodigué des cours intensifs sur les méthodes du combat non violent. Ce Monsieur Robert Helvy est un colonel à la retraite de l’armée américaine, vétéran du Vietnam. Robert Helvy a admis, face à la presse étrangère, avoir été, en son temps, engagé par l’Institut International Républicain, l’IRI, basé à Washington, afin de former les jeunes cadres militants d’Optor. Stanko Lazendic a révélé que le colonel était présent lors des séminaires : “Mais quand nous sommes allés là-bas, jamais nous n’avions pensé qu’il pouvait travailler pour la CIA. Ce qu’il a enseigné, nous l’avons appris d’autres personnes”.

 

Aujourd’hui, les méthodes qui ont été enseignées au tandem “Lazendic & Maric” pour le compte de la “Freedom House” sont en train d’être appliquées en Ukraine. Elles consistent à “exporter le Verbe démocratique” de maison en maison, d’université en université, de place publique en place publique. Un travail analogue s’effectue en Biélorussie, mais, dans ce pays, la mayonnaise ne semble pas prendre. En Ukraine, en revanche, les deux Serbes sont particulièrement actifs dans la formation et l’encadrement des militants et des cadres du mouvement “Pora” (= “C’est l’heure”), qui est inféodé à Iouchtchenko et a reçu la bénédiction de Madeleine Albright et de Richard Holbrooke, les deux stratèges de l’exportation de la “démocratie atlantiste”. La CIA, entre-temps, aide la “révolution orange” en marche depuis 2002 déjà, dès qu’elle a libéré 50.000 dollars pour créer la plate-forme internet de l’ONG qui s’oppose au duumvirat Kouchma-Yanoukovitch. Ensuite, elle a libéré 150.000 dollars pour créer un groupe de pression à l’intérieur du Parlement. Et encore 400.000 autres dollars pour former des candidats aux élections locales et des cadres syndicaux. Cette stratégie ressemble très fort à celle qui vient d’être appliquée en Géorgie, lors de la “révolution des roses”, où Washington à soutenu Saakashvili. Maric est arrivé mardi 30 novembre à l’aéroport de Kiev, sans donner d’explication quant à sa présence dans la capitale ukrainienne. Lazendic vient de confirmer, dans un interview, “que son compagnon n’avait pas été autorisé à entrer sur le territoire ukrainien”, “tant que ses papiers ne seraient pas tous en ordre”. La carrière ukrainienne de ce Monsieur Maric a donc été interrompue, en dépit de sa grande expérience de commis voyageur à la solde de Washington en Géorgie et en Biélorussie. Lazendic, lui, se vante d’avoir “fait des séjours démocratiques” en Bosnie et en Ukraine. Le mouvement “Pora”, “actif dans la diffusion des valeurs démocratiques et dans l’opposition aux dictatures”, est désormais privé des lumières du sieur Maric. Mais que l’on soit sans crainte, les “démocrates” peuvent toujours envoyer leur contribution financière au “mouvement orange”, via un compte de la “JP Morgan Bank” de Brooklyn, New York.

 

Siro ASINELLI,

Article paru dans “Rinascita”, Rome, 2 décembre 2004.

lundi, 03 mai 2010

Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

Metafisica della guerra: Ungern (Sternberg) Khan

Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

khan.jpgIl caos ribollente che emerse dalla rivoluzione russa del 1917 portò a galla ogni sorta di relitto. Fu come un’enorme ondata tellurica che si rovesciò sull’Europa orientale e sull’Asia centrale, dando la stura a oscuri patrimoni psicologici, a paure ancestrali, a vendette primitive che sembravano relegate a secoli lontani. La rivoluzione sovietica è stata non di rado paragonata più a un cataclisma cosmico che a una rivolta sociale di qualche proletariato industriale. Piuttosto, fu una specie di arcaica guerra di razze, un riaffacciarsi nella storia del diritto dell’orda, un dilagare del terrore e di antichissime, perdute memorie di delitto e di magia criminale.

Quando Ferdinand Antoni Ossendowski – lo scrittore polacco che visse in diretta l’esperienza della guerra civile e che nel 1922 pubblicò il famoso Bestie, Uomini, Dei – affermò che dietro le forze evocate dal bolscevismo agivano misteri occulti e superstizioni primordiali, non faceva che sollevare il coperchio di un calderone, il cui contenuto era rimasto sempre ignoto, ma ben presente all’Europa, il presentimento di un incubo.

L’Asia come mistero, come ventre spaventoso di ogni sciagura, uno spazio demoniaco sempre incombente. La rivoluzione sovietica agì sulla psiche occidentale con questi contorni di incontrollabile tregenda. In questo modo, le tradizioni solari legate al Levante, le mistiche asiatiche di liberazione, vennero sepolte sotto una spessa cortina di terrore. Pensiamo a cosa ha scritto Nolte circa le origini prime del Nazionalsocialismo. Reazione istintiva e radicale alle notizie traumatiche che provenivano da Est: reazione di sangue, prima ancora che di ideali politici. Reazione di pelle e di istinti agli eventi che, una volta di più, a Oriente aprivano la porta al mostruoso irrompere di entità terrorizzanti per ogni europeo. Nuovi Gengiz-Khan, nuovi tartari, nuove tragedie riapparivano all’orizzonte. Tutta una letteratura europea, diciamo così “di viaggio”, sorse sin dai primi anni Venti in Europa, ad alimentare la sensazione che l’Asia di nuovo si fosse messa in moto, con tutto il carico dei suoi spaventosi giacimenti memoriali. Basta ricordare che Ossendowski, autore di una quindicina di libri su questi temi, all’epoca riscosse un grande successo editoriale in tutta Europa.

Ad esempio, nel suo libro L’ombra dell’Oriente tenebroso, risalente al 1923 e pubblicato in Italia nel 1928, scrisse che il bolscevismo aveva scoperchiato i fondali asiatici della storia, accendendo fiamme in tutto l’Oriente, dalla Siberia alla Cina, dal Tibet alla Mongolia e a alla stessa India. Una vendetta di razze schiave? «Del giorno della vendetta adesso cantano i Kirghisi, i Kalmuchi, i Djoungari, i Buriati, i Tartari e gli arditi capi dei khunkhusi cinesi… Questo è intanto lo scopo principale della “grande” rivoluzione russa, rivoluzione dei nomadi, dei suicidi, degli stregoni e delle streghe, dei flagellanti e di tutti gli altri “diavoli” e quasi mostri apocalittici…». Si capisce che, con una simile prosa, gli animi in Europa facessero presto a surriscaldarsi. E a correre ai ripari, agitando simboli radicali di difesa, di identità e di salvezza comune. La culla del Fascismo.

In un altro suo libro, L’uomo e il mistero in Asia, tradotto in italiano nel 1926, Ossendowski parlò ancora dei suoi viaggi siberiani e mongolici, descrisse la barbarie ottusa accanto al permanere di leggende d’amore, il convivere del magismo superstizioso accanto a medievali ascetismi. Come quello del “monaco nero” incontrato nella terra degli Ainu. Un fanatico illuminato che risuonava di un sinistro rumor di catene ad ogni movimento: portava indosso delle verigi, catene incrociate sulla schiena a mo’ di cilicio. Personaggi di questa fatta, in una cornice di sangue, fuoco e massacri – secondo la «vocazione al genocidio del comunismo sin dalle sue origini» – contribuivano potentemente a mobilitare le coscienze occidentali.

Difatti, non fu per caso che ancora nel 1930 Malaparte, allora direttore de “La Stampa”, incaricò il giornalista Corrado Tedeschi di fare un lungo viaggio in Asia centrale. Ne uscì Siberia rossa e Manciuria in fiamme, pubblicato da Barbèra nel 1931. E di nuovo furono racconti di orrore allo stato puro. I bassifondi umani erano dappertutto, uscivano ancora allo scoperto come danze macabre. Squadre di banditi cinesi a caccia di coreani da abbattere… cosacchi sbandati che ammazzavano a fucilate i cercatori d’oro e di ginseng… e poi sciami di fuggiaschi vaganti nella zona dell’Ussuri: «come jene, finivano a morsi i corpi dei coreani uccisi dai konkusi…».

La figura del barone Romàn Fiodòrovic von Ungern-Sternberg appartiene a questo contesto. La leggenda si è impadronita di lui, ma la storia ne presenta ugualmente dei contorni credibili. Comandante di una divisione asiatica di cavalleria anti-comunista, autoproclamatosi generale, guidava col pugno di ferro una sparuta unità di forse un migliaio di guerrieri raccogliticci, volontari tibetani, guardie bianche, cosacchi del Baikal, mongoli, buriati… Erano tutto quanto rimaneva della contro-rivoluzione, dopo il tracollo dell’esercito di Kolchak alla fine del 1919… Braccati dalle masse bolsceviche e dalle truppe dei “signori della guerra” cinesi, in un’area che dalla Transbaikalia raggiungeva l’estremo Oriente siberiano. Spalleggiato dalle poche forze degli atamani anti-bolscevici, Ungern-Sternberg fece storia marginale, ma vera, fatta di violenza, brutalità e distruzione.

Consapevole che il terrore lo si batte soltanto col terrore, attuò la terra bruciata e combattè il comunismo col ferro e col fuoco. Personaggio romanzesco. E, infatti, gli sono stati dedicati romanzi storici, fedeli alle tracce lasciate dagli archivi e dalle fonti diplomatiche, ma arricchiti dalla vena descrittiva. Ad esempio, nel 1995 Renato Monteleone scrisse Il quarantesimo orso. La saga d’un “barone pazzo” tra le rovine dell’Impero zarista, pubblicato da Gribaudo. Adesso le Edizioni di Ar pubblicano Il dio della guerra di Jean Mabire, uscito in Francia nel 1987. E l’autore definisce il suo scritto proprio una fusione tra la finzione romanzesca e il saggio storico.

Portatore di una singolare mistura di religiosità paganeggiante, sensitiva, tradizionalista, Ungern-Sternberg, ben presto ribattezzato Ungern-Khan, si presenta come uno dei più caratteristici tra i “tipi” umani fondamentalisti mobilitati in Europa come reazione al bolscevismo. Favorevole al reinsediamento dello Zar sul trono, ma ben conscio delle scarse probabilità di pervenire al successo, era dominato da quella rigida etica dell’ordine interiore che gli faceva preferire l’istinto di lotta e la mistica della guerra ai calcoli sulla riuscita materiale delle sue azioni. Alla maniera di Nietzsche, proclamava che «solo una cosa conta: diventare ciò che si è e fare ciò che si deve». E ardeva, in quest’uomo agitato da forze ferree e da visioni trascinanti, lo stesso fuoco mistico delle saggezze orientali.

Come ha scritto anni fa in un articolo Pio Filippani Ronconi, il “barone pazzo” andava medianicamente alla ricerca di una sapienza occulta da risvegliare, provocando gli eventi con un «senso magico del destino», che ben si inseriva in quella lotta apocalittica tra la luce e la tenebra che eresse il muro d’odio di cui rimase intriso tutto il secolo XX. Contro la tenebrosa sovversione che avanzava a valanga, Ungern-Sternberg volle dunque «evocare misticamente il principio opposto, quello solare, che segnava il suo stendardo».

Jean Mabire – in questo suo testo affascinante, che racchiude il segreto storico non della sola Russia, ma dell’intera Europa del Novecento – aggiunge di suo alcune memorabili pennellate descrittive. Come quando, nel corso di una drammatica conversazione con Ossendoswski in una iurta desolata, fa annunciare al barone la profezia: «Vedo già quell’orrore sul mondo: la morte degli individui e delle nazioni! Sotto i colpi del terrore o delle comodità, non fa differenza. Poi verrà il caos, il nulla. La fine della Storia». Ebbro e insieme lucido, capace di lampeggianti visioni, agitato da divinazioni e da sogni di dominio metafisico, il “barone pazzo”, sulla soglia della catastrofe e della finale vittoria sovversiva, si apriva dunque ad annunci apocalittici, rafforzando il suo alone di semidio. Qualcosa di cui le cronache riportano che fosse veramente circondato, almeno agli occhi dei suoi fanatici seguaci, come in un’aura di violento potere spirituale.

Oltre a questi tratti luciferini – nel senso del principio di luce condannato alla sconfitta – Ungern-Sternberg veicolava anche gli antichi miti tantrici delle affiliazioni iniziatiche. Mano militare dello Hutuktu di Urga – terza incarnazione di Maitreya, il Buddha venturo, dopo il Dalai Lama e il Pancet Lama –, Ungern-Khan riviveva la leggenda del “Re del Mondo”, il sovrano invisibile, e cercava febbrilmente di attuare le predizioni dell’agarttha Shambala, la “inafferrabile Terra degli Iniziati”. Tutto ciò, al fine di restaurare il grande ciclo cosmico scaturito dal Kalachakra, la “ruota del tempo”. Mabire, a un certo punto del suo racconto storico, descrive la cruda scena del dialogo tra la strega zigana e il barone baltico-ungherese: ai vaticini di morte della donna, rapita da possessione sciamanica, risponde l’uomo, ormai invasato al punto da ritenersi veramente il “dio della guerra” scaturito dalle profondità asiatiche: «Morirò presto! Ma che importa! Il mio corpo morirà, non il mio sogno… E nell’ultima battaglia, il Re del Mondo uscirà dal suo palazzo sotterraneo…». Sottesi a questi scenari letterariamente incisivi, c’erano viventi tradizioni di potere – e di potere metafisico – che ancora in quei decenni di rivolgimento avevano un loro ruolo anche politico, prima che tutto diventasse soltanto suggestivo richiamo culturale.

Nei pochi mesi in cui Ungern-Sternberg tenne il governo a Urga, dal febbraio al luglio 1921, prima di essere abbandonato dai suoi ultimi fedeli, quindi catturato, processato dai rossi e fucilato, effettivamente si verificò il singolare caso di una cerca reale di qualcosa di irreale. A metà strada tra il monaco guerriero, lo spietato persecutore del sovversivismo e l’ispirato evocatore di tradizioni ancestrali, Ungern-Khan adombrò una sorta di ribellione eurasista contro il mondo moderno, condotta sotto simboli solari. Dal punto di vista militare, la sua avventura non ebbe molta rilevanza. Ne ebbe una dal punto di vista dello stile caratteriale e spirituale.

Mabire rimarca che il generale-barone morì solitario e tradito: «Fino all’ultimo, rimase fedele all’unico uomo che avesse mai riconosciuto come capo: se stesso». Ma, secondo Filippani Ronconi, il suo destino si proiettò nella storia: «Nello stesso tempo… il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della Thule-Gesellschaft».

* * *

Tratto da Linea del 17 aprile 2009.


Luca Leonello Rimbotti

samedi, 01 mai 2010

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Firmata l’intesa, fra Mosca e Oslo, sui confini dell’Oceano Artico dopo 40 anni di insanabili contrasti

Andrea Perrone

Si è conclusa ieri la visita di due giorni del presidente russo Dmitrij Medvedev in Norvegia per rafforzare le relazioni, l’innovazione e la cooperazione energetica con Oslo.


medNorv.jpgAlla presenza di un folto gruppo di imprenditori e industriali il capo del Cremlino ha sottolineato che il suo Paese vuole migliorare la partnership strategica dell’energia con la Norvegia e trovare una via d’uscita alla disputa che contrappone Mosca e Oslo per le acque territoriali del Mare di Barents, i cui fondali possiedono vasti giacimenti di risorse energetiche.
La visita di Medvedev ha garantito anche il raggiungimento di uno storico accordo sul confine nel Mar Glaciale Artico, dopo 40 anni di insanabili contrasti. Ad annunciarlo è stato il premier norvegese, Jens Stoltenberg (nella foto con Medvedev) a Oslo, in una conferenza stampa congiunta con il presidente russo. “È un giorno storico - ha dichiarato Stoltenberg - abbiamo trovato la soluzione a una questione importante rimasta aperta tra Norvegia e Russia”. “Siamo vicini - ha aggiunto da parte sua Medvedev - e vogliamo cooperare”. Stoltenberg ha sottolineato che i due Paesi si sono accordati su tutto precisando che l’accordo è stato “ottimo e bilanciato”. “Questa soluzione - ha proseguito il primo ministro norvegese - è più di una linea di confine sotto l’Oceano. È per lo sviluppo di buone relazioni di vicinato”.
In gioco una zona di 175.000 chilometri quadrati posta tra l’arcipelago delle Spitzbergen (che appartengono alla Norvegia) e l’isola di Novaja Zemlija (di proprietà della Russia). Già dal 1978 è in vigore un accordo che consente a entrambi i Paesi di pescare in quell’area, ma la questione dei confini marittimi era rimasta incompleta. Una questione spinosa, anche perché gli esperti ritengono che nell’Artico si trovino enormi riserve di gas naturale e petrolio. La firma dell’accordo, da parte dei ministri degli Esteri di Oslo e Mosca, è giunto in serata prima della partenza di Medvedev per la Danimarca dove si recherà per una visita di due giorni (27-28 aprile).
Nel luglio 2007 Russia e Norvegia avevano già firmato un’intesa per delimitare le aree offshore del Varangerfjord nel Mare di Barents: questa volta hanno deciso di accordarsi su altri confini sempre nella stessa area, ricca di gas e petrolio. La Norvegia è il terzo esportatore mondiale di “oro nero” dopo l’Arabia Saudita e la Russia. Oslo possiede però anche abbondanti riserve di gas naturale ed è interessata al giacimento russo di Shtokman, situato nella parte orientale del Mare di Barents e allo sfruttamento di quello della penisola di Jamal, sempre in territorio russo. La compagnia norvegese Statoil, che controlla il 24% del pacchetto azionario, con l’accordo di ieri tra Mosca e Oslo, è riuscita a convincere la Russia a mettere in atto la realizzazione del progetto per lo sfruttamento del ricco giacimento di Shtokman, di cui Gazprom possiede un 51% e la società francese Total il 25 per cento. Il 13 luglio 2007 Gazprom e Total hanno firmato un accordo quadro per finanziare e realizzare le infrastrutture del giacimento. Il 25 ottobre dello stesso anno un’analoga intesa è stata siglata fra la compagnia di Stato russa e l’odierna Statoil norvegese. Il 21 febbraio 2008 è stato fondato un consorzio fra le tre compagnie a Zug, in Svizzera.
In serata poi Medvedev è giunto a Copenaghen dove nessun leader russo si è più recato dall’ultima visita di Nikita Krusciov, nel lontano 1964. L’attuale capo del Cremlino si incontrerà oggi con le massime autorità della Danimarca per discutere di accordi commerciali e investimenti danesi nel settori russi dell’energia e dell’agricoltura, nonché della sicurezza europea.


28 Aprile 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=1799

vendredi, 30 avril 2010

Moi, l'interprète de Staline

Staline.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Moi, l'inteprète de Staline

Valentin M. BERESCHKOW, Ich war Stalins Dolmetscher. Hinter den Kulis­sen der politischen Weltbühne, Univer­sitas, München, 1991, 517 S., DM 48, ISBN 3-8004-1228-4.

Parues dès 1949 sous le titre de Statist auf diplo­matischer Bühne  (Figurant sur la scène diplo­matique), les mémoires de l'interprète de Hitler, le Dr. Paul Schmidt constituent un ouvrage de référence majeur sur l'histoire du IIIième Reich et de sa politique étrangère, un ouvrage qui défie les années. On ne peut en dire autant des mé­moires que vient de publier l'interprète de Sta­line, Valentin M. Bereschkow (en graphie fran­­cisée: Berechkov). Celui-ci, né en 1916, est l'un des derniers survivants de l'entourage im­médiat du dictateur soviétique. Les pages qu'il consacre à son enfance et à sa jeunesse, ses étu­des et son service militaire dans l'armée rouge, sont pourtant très intéressantes et riches en in­formations de toutes sortes.

Par l'intermédiaire de ses supérieurs hiérar­chiques à l'armée, Berechkov est entré de plein pied dans le saint des saints de la grande poli­tique soviétique. Grâce à ses connaissances lin­­guistiques de très grande qualité, il est rapi­dement devenu l'un des collaborateurs les plus proches de Staline. Ce qu'il nous raconte à pro­pos du dictateur géorgien relève de la «pers­pec­tive du valet de chambre». Berechkov s'efforce en effet de présenter Staline comme un homme aimable, bon compagnon de tous les jours, in­ca­pable de faire le moindre mal à une mouche en privé. Berechkov confesse qu'il n'en croyait pas ses oreilles quand le pouvoir sovié­tique se mit à dénoncer les crimes de Staline à partir de 1956. C'est bien ce qui distingue l'ouvrage de Berech­kov des mémoires de Krouchtchev et de toutes les biographies conven­tionnelles de Staline...

Le livre de Berechkov nous révèle des anecdotes ou des secrets de première importance lorsqu'il aborde les tractations engagées par Staline avec Ribbentrop, Churchill ou Roosevelt. En fait, rien de tout cela n'est bien neuf mais est replacé sous un jour nouveau. Ce qui intéressera le lecteur en premier lieu sont évidemment les passages qui traitent du rapport entre Staline et l'Allemagne. Berechkov tient absolument à blanchir Staline; pour l'interprète, le dictateur soviétique ne sa­vait rien des préparatifs allemands d'envahir l'URSS à l'été 1941. Staline refusait d'ajouter foi aux avertissements dans ce sens. Quand l'atta­que s'est déclenchée, il en fut si choqué qu'il se retira du monde pendant dix jours, in­capable de prendre les décisions politiques et mi­litaires qui s'imposaient.

Berechkov défend donc Staline avec véhémence et insistance, ce qui est d'autant plus suspect que plus d'une analyse politique récente démontre que Staline avait en toute conscience adopté une «stratégie sur le long terme» (Ernst Topitsch), visant à faire basculer l'Union Soviétique dans la guerre. Berechkov cherche donc, selon toute vrai­semblance, à dépeindre un Staline «sau­veur de la Russie» dans la «grande guerre pa­trio­tique» quoique criminel sur le plan inté­rieur. Pour savoir ce qu'il en est exactement, il faudra attendre que soient enfin ouvertes au pu­blic les archives soviétiques. En attendant, les assertions de Berechkov doivent être accueillies avec circonspection.

Hans Cornelius.

(recension parue dans Junge Freiheit, März 1991).

 

jeudi, 29 avril 2010

Après Katyn: vers un axe Berlin-Varsovie-Moscou?

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Après Katyn : vers un axe Berlin-Varsovie-Moscou ?

Entretien avec Michel Drac par Jean-Michel Vernochet

Ex: http://www.geopolintel.fr/

Jean-Michel Vernochet - Quelles conséquences le tragique accident aérien de Katyn qui a couté la vie à l’élite polonaise d’obédience atlantiste, auront-elles sur les relations russo-polonaises ?

Michel Drac – À mon humble avis, ce n’est qu’une péripétie. L’évolution géopolitique de la Pologne, comme celle de n’importe quel État, est prédéterminée, en amont par des décisions gouvernementales relatives à un ensemble de contraintes économiques et stratégiques. Disons que le renouvellement forcé des élites polonaises va probablement accélérer les mutations futures du positionnement polonais, mais l’évolution de fond sera peu affectée. Ce n’est qu’une question de tempo.

JMV - Dans quel contexte faut-il interpréter l’amorce de rapprochement russo-polonais perceptible à Katyn ?

M.D - Depuis la chute de l’URSS, la stratégie atlantiste vise à encercler la Russie. Pour l’Alliance euratlantique il n’y a qu’un seul rival économique potentiel, la Chine, et une seule puissance géopolitique capable, en s’alliant avec Pékin, de définir un pôle de puissance rival de la puissance anglo-américaine au sein de la future gouvernance globale : la Russie. Il est donc essentiel, pour les élites de Washington (et de Londres) d’empêcher la Russie d’occuper une position centrale au sein d’une future économie continentale eurasiatique. Le point coaxial de cette grande stratégie atlantiste se trouve en Asie centrale (d’où la priorité accordée par Obama à l’Afghanistan), mais il existe une multitude de terrains secondaires (jusqu’au face-à-face Colombie – Venezuela). Une nouvelle guerre « très froide » oppose ainsi l’Organisation de Coopération de Shanghai (OCS) à l’OTAN, l’un des champs de bataille secondaires de cette nouvelle « guerre froide » étant bien entendu l’ancien glacis soviétique.

Là, il faut empêcher la Russie de reconstituer, sous des formes nouvelles, la zone d’influence moscovite (Ukraine, Biélorussie, Pays Baltes, Pologne, Balkans et Europe danubienne). Depuis la « libération » de l’Europe de l’Est, cette stratégie s’est développée suivant trois axes principaux : instrumentaliser un nouveau « Drang nach Osten » allemand vers l’Europe danubienne ; susciter des conflits dans les Balkans en réveillant des antagonismes ancestraux et ce afin de justifier une présence militaire OTAN désormais permanente ; mettre sous contrôle les ex-républiques soviétiques, soit par une colonisation économique et une mise en endettement systématique (Pays Baltes), soit par des « révolutions colorées » fabriquées par les réseaux Soros comme en Ukraine. Tout cela n’a d’ailleurs rien de vraiment original : c’est écrit en toutes lettres dans le Grand Échiquier (1997) de Zbigniew Brzezinski, tout comme dans les travaux du Project for a New American Century (1)…

Le centre de gravité de ce dispositif est-européen était jusqu’à présent la Pologne, allié des É-U. Varsovie, à la chute du mur de Berlin en 1989, a hérité d’un impressionnant passif historique. La Russie puis l’Union soviétique ont en effet mis la Pologne sous leur talon de fer. L’alliance russe, pour Varsovie, était à ce titre impensable jusqu’à présent. Symétriquement, l’entente avec Berlin est tout aussi difficile. Même si le parti des expulsés n’existe plus depuis longtemps au Bundestag (2), il reste le souvenir de l’épouvantable occupation 1939-1944. Varsovie a donc joué, sans aucun complexe et jusqu’à présent, depuis l’effondrement soviétique de 1991, la carte américaine : intégration dans l’OTAN, bouclier anti-missiles, et cætera…

En somme, deux histoires se superposent. Il y a d’un côté l’histoire contemporaine, celle où se livre une nouvelle guerre froide, structurée par les concepts-clefs de « guerre de quatrième génération » (guerre de l’information) et de « soft power », la méthode Soros. Une guerre froide qui oppose un empire en déclin, mais agressif (l’anglosphère), à une nouvelle nation, la Russie post-soviétique encore très fragile et dont le destin reste à écrire. Et il y a d’un autre côté le souvenir d’une histoire passée, celle de la Pologne, un pays martyr. Il semble qu’en allant à Katyn, Poutine ait voulu faire passer un message aux Polonais. Ce message, c’était : la nouvelle histoire n’est pas l’ancienne histoire, la nouvelle Moscou n’est pas l’ancienne Moscou, n’ayez pas une lutte anti-impérialiste de retard. À en juger par les réactions polonaises, le message a été reçu. Varsovie vient de comprendre que dans cette « nouvelle histoire » Moscou ne sera plus forcément le prédateur, notamment parce que l’influence au sens fort (le soft power, le pouvoir invisible), a remplacé la domination comme instrument prioritaire dans le cadre de la grande stratégie hégémonique des États-Unis.

JMV - Vous faites le lien à propos de l’évolution des rapports russo-polonais avec l’intensification des relations Berlin - Moscou…

M.D - L’Allemagne pratique, depuis sa défaite en 1945, une habile politique de « suivisme » : entre 1946 et 1962, elle devient l’usine modèle du Plan Marshall. Entre 1962 et 1968, elle joue la bascule entre De Gaulle et les Américains, avec le conflit soigneusement agencé, au sein même de la droite d’affaires, entre Ludwig Erhard et Franz-Josef Strauss. Après 68, elle prend acte de l’échec gaulliste et se transforme en poste avancé de la stratégie de détente initiée par les États-Unis pour piéger l’URSS. Après 1989, Berlin se laisse encore une fois instrumenter par les É-U en se faisant déléguer – sous-traiter dirait-on aujourd’hui – par son protecteur américain, la tâche de coloniser économiquement l’Europe centrale et danubienne. Mais à partir du « sacre » de Poutine à Moscou, une nouvelle ère commence. Pendant qu’en façade, Berlin reste le protectorat soumis de la puissance anglo-saxonne, dans les coulisses, le patronat allemand s’active. Tandis que l’économie ultra-financiarisée anglo-saxonne implose, un « groupe de travail stratégique germano-russe » lancé par Vladimir Poutine et Gerhard Schröder, accompagne le travail logistique de l’industrie allemande. Là encore, il s’agit de résumer des informations disponibles par ailleurs : les statistiques du commerce et de l’investissement allemand en Russie et dans les zone d’influence russe sont éloquentes, en Biélorussie, en Asie Centrale et ailleurs. L’arrivée au pouvoir de la très atlantiste Angela Merkel n’y a pas sur le fond changé grand-chose. Pour l’instant, le développement des liens germano-russes se poursuit dans l’ambiguïté et la pénombre médiatique. Difficile à dire jusqu’à quel point ce mariage morganatique sera toléré par les Atlantistes, lesquels comptent en profiter pour introduire le cheval de Troie allemand dans une économie russe bien verrouillée par le Kremlin, ou si, tout simplement, les intérêts économiques bien compris du patronat allemand, autrement dit un pur pragmatisme, l’emportent sur toutes autres considérations. Il faut observer ce mouvement avec attention, sachant qu’il peut avoir deux significations opposées, et que le Diable sera dans les détails… ou n’y sera pas. De ce point de vue, il n’est pas surprenant que Berlin laisse Moscou pousser ses pions en Pologne. Moscou, de son côté, a laissé le patronat allemand s’implanter largement en Biélorussie. L’Allemagne, dont l’économie a été reconfigurée depuis dix ans pour s’intégrer dans celle des pays émergents, est en train de s’intégrer structurellement au projet eurasiatique. L’économie mène ici la géopolitique… La péripétie polonaise n’est de fait qu’un épisode dans un mouvement d’ensemble. L’Eurasie s’organise pour pouvoir se passer outre les exigences de la thalassocratie anglo-américaine. C’est dans cette tendance lourde que Poutine a voulu inscrire les Polonais, dissipant les fantômes d’une autre histoire, dont les enseignements sont désormais caducs. En arrière-plan, la question du gazoduc baltique, bien sûr.

JMV -Pour nous Français, il s’agit d’une bonne ou d’une mauvaise nouvelle ?

M.D - Les deux. Bonne nouvelle, parce qu’avec un axe Berlin – Moscou, via Varsovie, en construction, l’étau où l’alliance germano-américaine nous avait enfermés depuis vingt ans se desserre. En tout cas une position d’atlantisme inconditionnel sera de plus en plus difficile à tenir pour Berlin, il lui faudra tôt ou tard faire des choix. Mauvaise nouvelle, parce que l’Allemagne se met en situation de renégocier à son avantage les rapports de force au sein de l’Union Européenne. Mais le bon l’emporte tout de même. Si le rééquilibrage allemand entre atlantisme et eurasisme doit se confirmer, une fois Merkel passée de mode, nos dirigeants retrouveront sans doute une marge de manœuvre. Reste à savoir s’ils l’utiliseront. Les électeurs français feraient bien d’y réfléchir, dans l’hypothèse où les élections présidentielles opposeraient Strauss-Kahn à Villepin, en 2012.

(1) Le Project for a New American Century (PNAC) était un think-tank néoconservateur, actif dans les années 90-2000, financé pour l’essentiel par les industries américaines de l’armement et qui regroupa, sous la présidence William Clinton, les hommes qui devaient constituer l’épine dorsale de la future Administration Bush. Le PNAC recommandait en particulier le renforcement de la présence militaire étatsunienne en Europe de l’Est et du Sud-Est, à la charnière de deux théâtres d’opération : face à la Russie (préoccupation des mondialistes) et face au monde musulman (préoccupation des pro-israéliens). (2) Le parti des expulsés a représenté, jusque dans les années 60, la dizaine de millions d’Allemands chassés de Prusse, Poméranie, Silésie et Sudètes, lors de la gigantesque épuration ethnique – aujourd’hui totalement oubliée - planifiée par les soviétiques avec la collaboration du 10 Downing street dans la foulée de leur victoire en 1945.

Michel Drac est économiste, auteur de « Crise ou coup d’Etat ? » et « Crise économique ou crise du sens ? », deux ouvrages qui analysent la dépression contemporaine comme le contrecoup de l’implosion occidentale.

Jean Michel Vernochet pour Geopolintel

mercredi, 28 avril 2010

D. Rogozine: Non au NATO-centrisme!

Dimitri Rogozine : « Non au NATO-centrisme et à l’encerclement de la Russie »

 

 

rogozin.jpgPour le numéro consacré à La Russie et le système multipolaire de la revue italienne Eurasia (Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici – http://www.eurasia-rivista.org/ ) une interview exclusive de Dimitri Rogozine, ambassadeur de la Fédération Russe à l’OTAN, par Tiberio Graziani et Daniele Scalea sur l’avenir de l’OTAN (« déchirée par des problèmes nationaux, financiers et idéologiques ») et de la coopération avec la Russie.

 

L’ambassadeur a critiqué la « Nato-centrisme » et relancé la proposition du  président russe Medvedev pour un accord sur la sécurité européenne qui « tourne vers l’extérieur tous les canons du continent », en empêchant l’irruption d’un nouveau conflit en Europe.

 

On y a évidemment abordé le thème de l’Afghanistan, aire dans laquelle la convergence d’intérêts entre Moscou et l’Alliance Atlantique est plus forte, bien que Rogozine n’ait pas épargné quelques traits contre l’OTAN. L’ambassadeur a de fait affirmé qu’on ne peut pas « évaluer positivement le bilan des activités de l’ISAF », et que si aujourd’hui les troupes atlantistes quittaient le pays, le régime de Karzaï  durerait moins que celui du communiste Najibullah après le retrait des soldats soviétiques. Une sortie hâtive de l’OTAN hors d’Afghanistan déstabiliserait l’Asie Centrale et poserait de « nouveaux défis » à la Russie, mais Rogozine a voulu préciser que l’appui de Moscou à l’Alliance atlantique n’est pas inconditionnel : l’ambassadeur s’est déclaré « extrêmement indigné » par la réticence de l’OTAN à détruire les cultures de pavot d’opium, dont dérive l’héroïne qui envahit la Russie ; réticence qui contraste avec les bombardements réguliers des bases de narcotrafiquants en Colombie. « N’est-ce pas parce que la cocaïne est dirigée vers les Etats-Unis et l’héroïne, par contre, vers la Russie ? »  se demande de façon rhétorique Rogozine, en précisant que la patience des Russes « a atteint ses limites ».

 

Enfin Rogozine a montré de l’inquiétude pour « la politique d’encerclement de la Russie avec des bases militaires au sud et à l’ouest » par les Usa, souhaité le renforcement du Traité de Sécurité collective qui lie la Russie à de nombreux autres pays ex-soviétiques, et critiqué l’ingérence de l’OTAN dans les questions concernant l’Arctique.

 

L’interview de 4 pages à l’ambassadeur Rogozine, qui a abordé bien d’autres thèmes encore, peut être lue en version intégrale sur le numéro 1/2010 de la revue de géopolitique Eurasia, consacré à La Russie et le monde multipolaire

 

Publié sur le site Eurasia, rivista di studi geopolitici

http://www.eurasia-rivista.org/3896/d-rogozin-no-al-nato-centrismo-ed-allaccerchiamento-della-russia

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

 

 

dimanche, 25 avril 2010

Michail Bulgakow: Hundeherz

heartdog.jpgMichail Bulgakow: Hundeherz

Claus M. WOLFSCHLAG

Ex: http://www.sezession.de/

Letztes Jahr weilte ich im Frühherbst in Lettland. Nachdem ich in einem Club in Riga ein Konzert der rührigen lettischen Reggae-Formation „Hospitalu iela“ erleben durfte, unterhielt ich mich backstage mit einem Bandmitglied, woraus sich in den Folgemonaten ein kleiner Schriftverkehr entwickelte. Der Musiker machte mich auf ein Werk des russischen Schriftstellers Michail Bulgakow aufmerksam: Hundeherz.

Das Werk ist eine frühzeitige, schonungslose Kritik am Sowjetkommunismus, in eine phantastische Groteske gekleidet. Die Geschichte spielt in Moskau im Winter 1924/25, also kurz nach Lenins Tod. Der erfolgreiche Schönheitschirurg Filipp Filippovich Preobrazhensky hat sich auch nach der Oktoberrevolution einen bürgerlichen Lebensstil bewahrt. Er wohnt weiterhin in einem einst eleganten Apartment-Haus mit Portier in einer edel eingerichteten 7-Zimmer-Wohnung mit angeschlossener Praxis, Köchin und Hausmädchen. Dem Druck des proletarischen Hauskomitees, die Wohnung zu verkleinern und Räumlichkeiten an zugeteilte Proletarier abzutreten, kann er sich durch seine guten Beziehungen zu Oberen der Parteihierarchie, die zu seinen Patienten gehören, entziehen.

Für seine Experimente gabelt er eines Tages einen halbverhungerten Straßenhund auf, den er mit seinem Assistenten wieder aufpeppelt. Dem Hund verpflanzt er schließlich operativ die Hypophyse und Hoden eines kürzlich verstorbenen Menschen, eines – wie sich herausstellt – einstigen Kriminellen und Alkoholikers. Dieses Experiment führt zu einem völlig unerwarteten Ergebnis. Der Hund verliert in den Folgetagen sein Fell, beginnt auf den Hinterbeinen zu gehen, bekommt zunehmend menschliche Züge und fängt schließlich zu sprechen an.

Nach einiger Weile hat Professor Preobrazhensky einen ausgewachsenen Menschen in seiner Wohnung, allerdings einen der unangenehmen Sorte. Nicht nur daß er keinerlei Tischmanieren hat, daß er sich ständig betrinkt, unflätig flucht und randaliert, er wächst auch zunehmend in das Gesellschaftssystem hinein. Das proletarische Hauskomitee sieht in dem Homunculus einen brauchbaren Genossen und beginnt mit der politischen Indoktrination. Bald singt Poligraf Poligrafovich Sharikov, wie sich der Hund alsbald nennt, Lieder gegen die Bourgeoisie, kritisiert die bürgerliche Lebensweise des Professors, fordert gleiche Rechte.

Poligraf Poligrafovich Sharikov macht dann gar noch Karriere im bürokratischen Apparat, wird Leiter einer Abteilung gegen streunende Tiere, hält Reden auf Parteiversammlungen, zu denen begeistert geklatscht wird, läßt seine Macht spielen, lügt und intrigiert. Als er schlußendlich Professor Preobrazhensky der konterrevolutionären Umtriebe denunziert, eskaliert die Lage.

Auch wenn Professor Preobrazhensky eine Rolle als „mad scientist“ zugewiesen wird, kann er teils als Verkörperung des Autors bewertet werden. Michail Bulgakow (1891-1940) war diplomierter Arzt und gilt als großer Satiriker der russischen Literatur. In den Wirren der russischen Bürgerkriegszeit nach dem Ersten Weltkrieg geriet er zwischen die Fronten, war erst medizinisch bei der Ukrainischen Republikanischen Armee tätig, desertierte dann und arbeitete in gleicher Funktion in der Roten Armee. Dann landete er bei den südrussischen Weißen Garden und bei tschetschenischen Kosaken. 1921 zog er nach Moskau, publizierte dort für Zeitschriften, veröffentlichte Prosastücke für eine in Berlin erscheinende Exilantenzeitung und schrieb Theaterstücke. Tiere dienten ihm als Figuren dazu, verschlüsselt Gesellschaftskritik zu üben.

bulg1926.gifBulgakow, mit einer Aristokratentochter verheiratet, lebte inmitten des Sowjetsystems auf einer der dort vorhandenen bürgerlichen Inseln, da das System weiterhin auf Vertreter der alten Intelligenz, auf Ärzte, Kulturschaffende, Wissenschaftler angewiesen war. Ab 1930 wurden die Werke Bulgakows nicht mehr veröffentlicht und keine Theaterstücke mehr aufgeführt. In mißlicher materieller Lage wandte er sich an die politische Führung, ihm entweder die Emigration oder eine Arbeit als Regie-Assistent zu verschaffen. Stalin persönlich rief Bulgakow, dessen Werke er offenbar mit Amusement selber gelesen hatte, an und versprach Hilfe. So arbeitete Bulgakow bis zu seinem Tod 1940 als Regie-Assistent und Übersetzer, unter anderem im Bolschoi-Theater.

Hundeherz war ebenso wie ein darauf basierendes Theaterstück 1926 verboten worden. Die Geschichte konnte deshalb erstmals 1968 in einer russischen Exilzeitung publiziert werden. Erst durch Glasnost und Perestroika unter Michael Gorbatschow war es möglich, das Buch 1987 auch in der Sowjetunion bekannt zu machen. 1988 konnte Vladimir Bortko den Stoff für das russische Fernsehen verfilmen, in einem seltsam antiquiert wirkenden Sepia-Stil.

Hundeherz ist eine Satire auf die utopischen Versuche, die menschliche Natur hin zu einem „Neuen Menschen“ zu verändern. Ein selbstherrlicher Wissenschaftler, der tiefgehend in die Natur eingreift, schafft unfreiwillig das neue Geschöpf. So wie Preobrazhensky für eine kauzig-versnobbte Bourgeoisie steht, so verkörpert der Homunculus Sharikov alle negativen Elemente des Proletariats. Vor allem die herrlichen Tischreden des Professors laden dazu ein, Bortkos Film anzusehen. Preobrazhensky beschwert sich erfrischend offen darüber, daß die ungehobelten Proletarier seine Perserteppiche verschmutzen, macht sich über eine Frau des Hauskomitees lustig, die sich wie ein Mann kleidet. Er verlautbart, daß er das mittlerweile tonangebende Proletariat nicht leiden könne, daß er es für den Verfall der guten Sitten und zunehmende Diebstähle verantwortlich macht. Er fragt rhetorisch, ob Karl Marx geschrieben hätte, daß man die Haupteingangstür seines Hauses zu schließen habe, um statt dessen nur noch den Hintereingang benutzen zu dürfen. Beim Essen erklärt er, daß man vor dem Diner keine bolschewistische Zeitung lesen solle, da dies auf den Magen schlage. Als sein Assistent ihn erinnert, daß es nur noch bolschewistische Zeitungen gäbe, antwortet er, daß man deshalb überhaupt keine Zeitung mehr lesen solle. In einem Experiment hätte er zudem nachweisen können, daß Leser der KP-Parteizeitung Pravda unter schwindenden Kniereflexen, Depressionen und Gewichtsverlust gelitten hätten.

Unfreiwillig wird Preobrazhensky aber dennoch zum Vollstrecker der kommunistischen Ideologie. Er schafft den „Neuen Mensch“ aus einem Hund. Warum solle man einen Menschen erschaffen wollen, wenn dies doch jede Frau auf natürliche Weise könne, fragt sich der Professor im Laufe der Handlung schließlich selbstkritisch. Der Homunculus nutzt die sozialen Verhältnisse hingegen rücksichtslos für seine Interessen und eine letztlich parasitäre Existenz. Appellen des autoritär auftretenden Professors, sich zu einem Kulturwesen zu verfeinern, entzieht er sich, um sich zum egoistischen Machtmenschen zu entwickeln. Er findet sich ein in ein Regime, in dem ein Hund reibungslos Karriere machen kann. Preobrazhensky und sein Assistent ahnen, welches menschenfeindliche Potential in diesem Geschöpf lauert und beschließen, rechtzeitig die Reißleine zu ziehen.

Manche Bilder des Films symbolisieren den beginnenden Verfall des kommunistischen Systems: bröckelnde Fassaden, löchrige Straßen, die Stromausfälle, die es, nach Aussage des Professors, zu zaristischer Zeit nicht gegeben hätte. Hinzu kommt die beginnende Ahnung des noch folgenden Terrors: Das aggressive Hauskomitee, das sozialen Druck gegen Besitzende im Privatbereich aufzubauen versucht, der Kult um die allumfassende Regelung durch die Bürokratie, die Kolonnen der Roten Armee, die Kampflieder singend durch die Straßen marschieren.

Ein außergewöhnliches Filmwerk der späten Sowjetunion, von ernstem Hintergrund und doch zugleich sehr heiter. Bei youtube ist es in mit englischen Untertiteln in 14 Teilen zu sehen.

vendredi, 23 avril 2010

Kirgisistan: eine "umgekehrte" Farbenrevolution?

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Kirgisistan: eine »umgekehrte« Farbenrevolution?

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Das entlegene zentralasiatische Land Kirgisistan wird von einem anscheinend sehr gut geplanten Aufstand gegen den post-sowjetischen Diktator, Präsident Kurmanbek Bakijew, erschüttert. Einiges deutet darauf hin, dass Moskau mehr als ein beiläufiges Interesse an einem Regimewechsel hegt und versucht, nach dem Muster der von Washington betriebenen Rosen-Revolution 2003 in Georgien oder der Orangenen Revolution 2004 in der Ukraine eine eigene Version einer »Farben-Revolution« zu inszenieren. Zumindest ist die Entwicklung von erheblicher strategischer Bedeutung für die militärische Sicherheit im Herzland, d.h. für China, Russland und andere Länder.

Die meisten Berichte über die Ereignisse der vergangenen Tage stammen von russischen Medien, die vermelden, der Premierminister habe gegenüber der von der Opposition ernannten Führerin der Übergangsregierung, Rosa Otunbajewa, seinen Rücktritt erklärt. Laut RIA Novosti hat die Opposition »die Lage im Griff«, Bakijew sei – so hieß es unmittelbar danach – an Bord seines Dienstflugzeugs mit unbekanntem Ziel aus der Hauptstadt geflohen.

Vordergründig war der Anlass für die Proteste die Entscheidung der bisherigen Regierung, die Tarife für Energie und Telekommunikation drastisch anzuheben; die Opposition warf der von den USA unterstützten autoritären Regierung Bakijew darüber hinaus zügellose Korruption vor.

Die vereinigten kirgisischen Oppositionsparteien verlangen jetzt den offiziellen Rücktritt des bisherigen Präsidenten Kurmanbek Bakijew und die Entlassung aller seiner entfernten Verwandten und Spießgesellen aus Regierungsämtern.

Das US-Außenministerium versucht verzweifelt, den Status Quo aufrecht zu erhalten und ruft die Opposition zur »Verhandlung« und zum »Dialog« mit der von den USA finanzierten Präsidentschaft Bakijew auf. Entgegen anderslautenden Meldungen erklärte das State Department, die Regierung von Präsident Kurmanbek Bakijew sei noch im Amt.

 

Geopolitische Bedeutung

Für Washington ist das winzige zentralasiatische und fünf Millionen Einwohner zählende Binnenland an der Grenze zu der politisch heiklen chinesischen Provinz Xinjiang von großer geopolitischer Bedeutung. Seit den Anschlägen vom 11. September 2001 unterhält Washington einen großen Luftwaffenstützpunkt in Kirgisistan, offiziell zur Unterstützung der Streitkräfte in Afghanistan. Militärisch gesehen verschafft dieser Militärstützpunkt mitten in Zentralasien dem Pentagon eine wichtige Ausgangsposition, denn von dort aus könnten Angriffe gegen China, Russland und andere Ziele geführt werden, einschließlich gegen Kasachstan, das sich zu einem zunehmend wichtigeren Energielieferanten für China entwickelt.

Bakijew war 2005 auf einer Welle von US-finanzierten Demonstrationen, denen man den Namen »Tulpen-Revolution« gab, an die Macht gekommen. Wie die Orangene Revolution von Washingtons handverlesenem Kandidaten Wiktor Juschtschenko in der Ukraine, der versprach, sein Land in die NATO zu führen, oder wie die Rosen-Revolution von Washingtons Zögling Michail Saakaschwili, war Bakijews Tulpen-Revolution von 2005 vom State Department finanziert und bis ins Detail inszeniert worden. Das Ganze ging so weit, dass die »Oppositions«-Zeitungen in einer mit amerikanischem Geld aufgebauten Druckerei gedruckt wurden.

Das Ziel der USA bestand darin, auch das Schlüsselland Kirgisistan in den eisernen Ring von US- und NATO-Stützpunkten zu integrieren, mithilfe dessen Washington die wirtschaftliche und politische Zukunft sowohl Chinas wie auch Russlands hätte diktieren können.

Der Rückschlag für die Orangene Revolution in der Ukraine bei den jüngsten Wahlen und die Wahl eines neutralen Präsidenten Wiktor Janukowitsch – der versichert hat, die Ukraine werde der NATO nicht beitreten – scheint nur der erste von vielen, im Stillen von Moskau unterstützten Schritten zu sein, um an der Peripherie zumindest wieder den Anschein von Stabilität zu erwecken.

Es ist nicht klar, in welchem Maß und ob überhaupt Washington in der Lage ist, den »eigenen« Mann, Bakijew, zu stützen. Gegenwärtig sieht es nach einer großen geopolitischen Niederlage für Washington in Eurasien aus. Wir werden die Lage weiter beobachten und darüber berichten.

 

Mittwoch, 14.04.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik

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mercredi, 21 avril 2010

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

di Tiberio Graziani

Fonte: eurasia [scheda fonte]

http://www.ilfaromag.com/sport/wp-content/uploads/2009/10/russia2.jpg


Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.

Considerazioni sullo scenario attuale

Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.

Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.

Gli attori egemoni

Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.

La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.

La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:

  1. le politiche di modernizzazione;

  2. le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;

  3. la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.

Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.

I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.

In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.

Gli attori emergenti

La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).

Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.

Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.

Gli inseguitori-subordinati e i subordinati

La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.

Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).

L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.

Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).

Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.

Gli esclusi

Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.

Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.

La riscrittura delle nuove regole

I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.

Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.

È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.

Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.

Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.

A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.

La centralità della Russia

La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.

Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.

Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa

Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:

  1. riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;

  2. contenimento delle spinte secessionistiche;

  3. uso “geopolitico” delle risorse energetiche;

  4. politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;

  5. costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;

  6. tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;

  7. costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).

Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.

La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).

Chiave di volta del nuovo ordine mondiale

In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.

Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo

Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.

Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.

****

1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.

2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.

3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.

5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.

6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.

7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.

10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.

11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.


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dimanche, 18 avril 2010

Tsarigrad ou le rêve brisé

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

Trouvé sur : http://www.polemia.com/campagne.php?cat_id=31&iddoc=664
[Visitez souvent le site de l’association “Polemia” de Jean-Yves Le Gallou!!]

Fabien de STENAY :

Tsarigrad ou le rêve brisé

"Je me répète lentement, pour bien m'en pénétrer, cette phrase mélancolique d'un vieux prince Bibesco : « La chute de Constantinople est un malheur personnel qui nous est arrivé la semaine dernière »." Com­me le montre la fin amère du fameux roman de Jean Raspail « Le Camp des Saints », la chute de Constan­tinople reste dans l'imaginaire européen symbole de fatalité, de perte irréversible et d'autant plus dou­loureuse. Pourtant, avec le reflux de l'Empire ottoman à partir du XVIIIe siècle, il s'en fallut de peu pour que la Seconde Rome revînt aux mains des Européens. Mais, comme souvent, ce fut la division de ceux-ci qui ruina tous les espoirs.

 

Dans l'Europe restaurée du Congrès de Vienne et de la Sainte Alliance, la Russie s'était assignée la mission de garantir l'ordre sur le continent.

 

Dès le début de son règne, le tsar Nicolas Ier (1825-1855) fit du contrôle des détroits - « les clefs de la maison » - le second objectif de sa diplomatie pour des raisons au moins autant mystiques que straté­gi­ques. La politique de grande fermeté qui suivit vis-à-vis de la Sublime Porte déboucha en 1828 sur une guerre. L'armée russe fut victorieuse, et l'avantageux traité d'Andrinople fut conclu le 14 septembre 1829 : la Russie obtenait les bouches du Danube, des territoires caucasiens, ainsi que le libre passage à travers les détroits pour ses navires marchands. Enfin, les provinces de Moldavie et de Valachie obte­naient leur autonomie et leur placement sous protectorat russe (tout en restant officiellement rattachées à l'Empire ottoman). Les armées du tsar approchaient des Balkans.

 

Toutefois, les principes arrêtés par Alexandre Ier restaient de vigueur : on se contentait d'affaiblir l'Em­pire ottoman, tout en maintenant son intégrité territoriale. Dès le début des années 1830, cette politi­que relativement modérée porta ses fruits : le sultan demanda en 1833 l'aide russe contre le soulèvement du pacha d'Egypte Mehmet Ali. En retour, un traité d'assistance mutuelle fut signé entre les deux Empi­res; une clause secrète interdisait à l'Empire ottoman d'ouvrir les Dardanelles aux bâtiments de guerre étrangers.

 

Les grandes puissances européennes, en premier lieu l'Angleterre, contestèrent le privilège accordé aux Russes, et un nouveau conflit turco-égyptien donna l'occasion d'un nouveau traité : la convention des Dé­troits, entre l'Autriche, la France, la Grande-Bretagne, la Prusse et la Russie, par laquelle les Britanniques obtinrent que les détroits soient interdits, en temps de paix, à tout navire autre que turc.

 

La Russie conservait toutefois des droits sur les populations chrétiennes de l'Empire ottoman, en parti­culier dans les Balkans.

 

Aussi, quand, en 1852, Napoléon III obtint la restitution de douze lieux saints de Palestine à l'Eglise ca­tholique qui les avait perdus en 1808 au profit de l'Eglise orthodoxe, la diplomatie russe perçut le succès français comme une menace. Au début de l'année suivante, le tsar proposa donc au gouvernement bri­tannique un plan de partage de l'Empire ottoman excluant Napoléon III : l'Egypte reviendrait à l'Angleterre tandis que la Russie obtiendrait les Principautés roumaines, la Serbie, la Bulgarie ainsi que le contrôle des détroits. Mais le projet ne pouvait qu'échouer : le tsar négligeait la force des ambitions françaises, et surtout l'hostilité des Anglais comme des Autrichiens à l'avancée russe dans les Balkans. Après une nouvelle guerre russo-turque et la destruction de la flotte ottomane le 30 novembre 1853 à Sinope, la France et l'Angleterre entrèrent en guerre contre le tsar. La guerre de Crimée se poursuivit pendant plus de deux ans et aboutit à une débâcle russe. Le nouveau tsar Alexandre II, à la tête d'une Russie en net recul, con­sacra alors une bonne partie de son énergie à réformer son Empire, et renonça pour le moment à son expansion balkanique.

 

Le climat des années 1870 renoua en partie avec celui qui suivit le Congrès de Vienne : en 1873, une al­liance des trois empereurs (Allemagne, Autriche-Hongrie, Russie) ayant pour but de préserver l'équilibre européen semblait rejouer la Sainte-Alliance.

 

Mais pour le tsar, cette place qui lui était donnée devait servir de tremplin à une nouvelle politique bal­kanique conforme à la poussée du nationalisme et du panslavisme dans l'opinion russe. Celle-ci avait en ef­fet commencé à s'engager passionnément dans la « question d'Orient » au nom de la cause panslave. Mos­cou, « troisième Rome », devait non seulement défendre les intérêts des minorités slaves et orthodoxes de l'Empire ottoman, mais aussi libérer ceux-ci du joug turc et reprendre pied à Constantinople. De plus en plus, la cité du Bosphore était désignée dans la langue russe sous le nom fortement connoté de Tsarigrad, « la ville des empereurs ». Des comités panslaves se formèrent dans les grandes villes (Mos­cou, Saint-Pétersbourg, Kiev, Odessa…), et nourrissaient leur idéologie par les écrits de plumes presti­gieuses, comme Danilevski ou Dostoïevski. Ce dernier écrivait par exemple dans le « Journal d'un écri­vain » : « Le chemin du salut exige que la Russie, et pour son propre compte, s'empare de Constantinople, car la Russie seule a le droit de dire qu'elle est à la hauteur de la tâche ». Certes, le gouvernement russe se méfiait de cette surenchère, mais elle contribua néanmoins au renforcement de l'engagement russe dans les Balkans, au moment même où les minorités orthodoxes de l'Empire ottoman se révoltèrent.

 

Le mouvement lancé en juillet 1875 par les paysans orthodoxes de Bosnie contre leurs seigneurs musul­mans se généralisa en effet à l'ensemble des Balkans.

 

Devant la féroce répression turque et l'entrée en guerre de la Serbie et du Monténégro, la Russie tint na­turellement à intervenir. Prudente, elle attendit la garantie de la neutralité autrichienne pour déclarer la guerre aux Ottomans, en avril 1877. L'engagement russe fut massif et, malgré la vive résistance tur­que, les troupes du Tsar entrèrent dans Andrinople, à 200 Km de Constantinople, en janvier 1878. Le 3 mars suivant, le traité de San Stefano entérinait la victoire de la Russie, qui obtenait de plus des terri­toires arméniens et roumains. L'Empire ottoman dut reconnaître formellement l'indépendance de la Ser­bie, du Monténégro, de la Roumanie, et accepter l'autonomie d'une grande Bulgarie englobant la Ma­cédoine.

 

Toutefois, ce traité bilatéral russo-turc, bien qu'il témoignât du dynamisme retrouvé de la politique bal­kanique russe, se heurta à l'hostilité des diplomaties autrichienne et anglaise qui voyaient d'un mauvais œil cette grande Bulgarie, vaste Etat slave client de la Russie. Les autorités russes durent bientôt ac­cepter le principe d'une conférence internationale; celle-ci se déroula à Berlin en juin et juillet 1878, sous l'égide du chancelier Bismarck et en présence des dirigeants européens de tout premier plan. La Russie dut renoncer à l'autonomie de la Grande Bulgarie et accepter que la Bosnie-Herzégovine fût occupée par l'Autriche-Hongrie. Malgré le dynamisme de la politique balkanique d'Alexandre II, la fin de son règne fut donc marquée par l'opposition virulente des Autrichiens et des Anglais, bientôt rejoints par l'Allemagne : en 1879, une nouvelle alliance, la Duplice, réunissait les Empires autrichien et allemand face à la Russie.

 

Le combat pour Tsarigrad restait toutefois une préoccupation au moins inconsciente de l'impérialisme russe. « Ce damné mirage de Constantinople », comme fait dire Soljénitsyne à l'un des personnages de «Novembre Seize», allait jouer un rôle dans les négociations qui menèrent à la Première Guerre Mon­diale et qui la rythmèrent.

 

En 1912, lors des guerres menées contre la Turquie par les Etats balkaniques, la Russie soutint ces der­niers en faisant bien comprendre à tous que la question constantinopolitaine était un domaine réservé du Tsar. Mais surtout, la mise en place de la Triple Entente impliquait un accord entre Saint-Pétersbourg et Londres : en 1905, la France avait en effet refusé de suivre les cousins Guillaume II et Nicolas II dans leur projet de grande alliance continentale, concocté à Björkö. Après cet échec, le réarmement naval de l'Allemagne inquiéta la Russie, qui, en 1907, n'eut d'autre choix que de suivre la France dans son alliance avec l'Angleterre, bien que cette dernière eût soutenu le Japon dans la guerre de 1904-1905. Mais malgré l'accord tacite de ses alliés à l'enlèvement de Constantinople aux Turcs, la Russie savait qu'elle ne pourrait faire admettre celui-ci aux Autrichiens qu'à la faveur d'une guerre victorieuse.

 

C'est donc après le déclenchement du conflit européen en août 1914 (la Russie ne déclara la guerre à la Turquie qu'en novembre) que commencèrent les manœuvres, militaires comme diplomatiques, autour de la Ville de Constantin.

 

En 1915, Anglais et Français montèrent l'opération des Dardanelles, en vue d'occuper Constantinople et de négocier sa remise à la Russie. Mais devant la résistance menée par Mustafa Kemal et le général allemand Liman von Sanders, l'offensive fut abandonnée après plusieurs mois meurtriers, et ce malgré l'épuisement imminent de l'armement turc: le retrait de l'amiral anglais De Robeck, commandant en chef de l'opéra­tion, stupéfia les Turcs qui ne pensaient pas pouvoir tenir plus longtemps ; il n'est pas impossible que la victoire ait été délibérément évitée. Mais ce n'est pas la dernière occasion manquée dans cette affaire.

 

À partir de la fin de 1916, des négociations secrètes furent ouvertes entre Vienne et Paris, par l'in­termédiaire des princes de Bourbon-Parme, frères de l'impératrice Zita et officiers dans l'armée belge. En février 1917, Charles Ier d'Autriche fit savoir qu'il était prêt à accepter, non seulement la restitution à la France de l'Alsace-Moselle (et même des places enlevées au second traité de Paris en 1815), au sujet de laquelle il fallait encore convaincre Guillaume II, ignorant tout de ces tractations, mais aussi la souve­raineté russe sur Constantinople : sans le soutien autrichien dans les Balkans, il était impossible aux Turcs de résister à une offensive de la Russie et de ses alliés. Le 24 mars, Charles Ier mit ses propo­sitions par écrit, celles-ci restant toutefois encore secrètes.

 

Mais le 31 mars 1917, Clemenceau convainquit le nouveau ministre des Affaires étrangères Ribot de rom­pre les pourparlers engagés par son prédécesseur Briand. Entre-temps, la révolution avait éclaté en Rus­sie, et celle-ci allait bientôt se retirer du conflit ; pendant que Lénine et Trotsky s'activaient en secret, Ribot trahissait les engagements de la France en révélant, aux Italiens d'abord, puis à tous, les propo­sitions autrichiennes. Les révolutionnaires de Petrograd et les radicaux de Paris mettaient fin à un vieux rêve en passe de s'accomplir.

 

Seuls de rares rêveurs espèrent encore que la Seconde Rome et Sainte-Sophie seront un jour libérées. En­core cet espoir n'est-il souvent guère plus qu'une illusion romantique.

 

Toutefois, il n'est pas exclu qu'un jour, peut-être plus proche qu'on ne l'imagine, l'Europe enfin unie ou tout du moins solidaire puisse récupérer l'antique cité fondée au VIIe siècle A.C. par les Grecs de Mégare, élevée au rang de capitale impériale par Constantin le Grand et phare de l'Europe orientale pendant un millénaire. Car si Nietzsche nous apprend que la volonté de puissance est un moteur de l'histoire, n'oublions pas pour autant combien peut être grande la puissance de la volonté.

 

Fabien de STENAY,

(10/10/2003 - © POLEMIA).

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samedi, 17 avril 2010

Il caso Némirovsky: vita, morte et paradossi di un'ebvrea antisemita

Il caso Némirovsky:
vita, morte e paradossi di un’ebrea antisemita

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 Cinque anni fa la Francia riscoprì all’improvviso una scrittrice che aveva dimenticato. Si chiamava Irène Némirovsky, era una russa di origine ebraica, era morta in un campo di concentramento nell’estate del 1942. Per un caso straordinario, le figlie avevano custodito fino a quel 2004 una valigia che conteneva la produzione letteraria materna, dattiloscritti, diari, appunti, e fra essi c’era il manoscritto del romanzo a cui Irène aveva lavorato dal giorno della disfatta bellica della Francia, giugno-luglio 1940, fino in pratica al momento in cui i gendarmi francesi si erano recati nella sua casa di campagna e l’avevano portata via. Suite française era il titolo scelto e per quanto nei piani della sua autrice esso prevedesse ancora un volume, relativo a come quel conflitto sarebbe finito, era omogeneo e a sé stante nelle due parti che lo componevano. Pubblicato a mezzo secolo di distanza, il romanzo ebbe un successo clamoroso, vinse dei premi, riportò alla ribalta il nome Némirovsky.

Anche in Italia il suo è stato un caso letterario. È Adelphi, infatti, l’editore che ne ha comprato i diritti e da Il ballo a David Golder, da Jézabel a Come mosche d'autunno a, appunto, Suite francese, ogni titolo si è rivelato un successo e ha contribuito a fare del suo autore uno dei più venduti e dei più citati. Poiché nel corso della sua vita Irène scrisse una decina di romanzi e una quarantina di racconti, il fenomeno è destinato a continuare nel tempo.

Adesso ancora Adelphi manda in libreria La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (traduzione di Graziella Cillario, pagg, 516, euro 23), uscita due anni fa in Francia da Grasset, una biografia molto ben documentata grazie alla quale del personaggio sappiamo praticamente tutto, compreso il forte tasso autobiografico della sua produzione, in pratica una sorta di reinvenzione artistica della sua famiglia, degli ambienti in cui visse, dei suoi gusti, delle sue passioni e dei suoi odii. E tuttavia, in questo saggio, così come nel successo che ha arriso a quanto finora è stato via via pubblicato, resta un elemento di ambiguità che nessuno si decide veramente a sciogliere e sul quale vale la pena di riflettere. Lo facciamo con tutta la delicatezza del caso, ma crediamo ne valga la pena.

Il fatto che la Némirovsky, intellettuale ebrea di origine, per quanto convertita al cattolicesimo, sia stata una vittima della «soluzione finale» hitleriana, potrebbe spiegare di primo acchito il perché di tanto interesse di pubblico e di critica: una sorta di risarcimento postumo per un nome che pure, negli anni Trenta, aveva goduto di risonanza, una sorta di mea culpa nei confronti di chi si era identificata con la Francia, la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, e dalla Francia in fondo era stata abbandonata e poi tradita... Nel 1929 David Golder, il suo romanzo d’esordio per Grasset, vendette 60mila copie, ebbe una riduzione teatrale e una cinematografica, quest’ultima per la regia di Julien Duvivier, che andò persino alla Mostra del Cinema di Venezia del 1932...

E però, se si va più a fondo, un po’ tutta la narrativa della Némirovsky è un susseguirsi di ritratti e di ambienti in cui la «razza ebraica», come si sarebbe detto un tempo, non appare nella sua luce migliore, ma è spesso e volentieri un concentrato di avarizia e di cupidigia, di odio e di crudeltà, di disordine sociale e morale, di incapacità e/o non volontà di assimilazione, di vera e propria «razza a parte» insomma, nemica a tutti e in fondo nemica anche a se stessa...

C’è di più: russa di nascita (Kiev, 1901), la Némirovsky fugge dal suo Paese nel momento in cui i bolscevichi prendono il potere: la sua famiglia appartiene alla buona borghesia degli affari, lei ha l’educazione classica di chi fra istitutrici e lezioni private non si mischia al contatto promiscuo delle scuole pubbliche, passa le vacanze sulla Costa Azzurra, soggiorna ogni anno a Parigi... È una «russa bianca», insomma, con un padre banchiere e finanziere, una madre che pensa soltanto alle toilettes e agli amanti, un treno di vita che l’esilio, prima in Finlandia, poi in Svezia, infine in Francia, non muta più di tanto: appartamento sulla Rive droite, in pratica affacciato sugli Champs Elisées, studi alla Sorbona, estati a Biarritz o a Dauville... L’anticomunismo, insomma, è un dato acquisito, qualcosa che Irène respira fin da ragazza: ha fatto in tempo a vedere lo scoppiare della rivoluzione, i processi sommari, i saccheggi e i massacri. Non lo dimenticherà mai.

Infine, c’è un altro elemento da aggiungere al puzzle finora composto e alla ambiguità che lo circonda. Nel suo decennio letterario la Némirovsky scrive in linea di massima per testate che appartengono al largo spettro della destra francese, ha Robert Brasillach fra i suoi critici più entusiasti, ma anche più avvertiti quanto alla sua arte, ai suoi pregi e ai suoi difetti, frequenta Paul e Hélene Morand... Non è una scrittrice di politica, certo, non si interessa più di tanto alle ideologie, certo, ma è naturaliter di quel mondo borghese, antiparlamentare, antidemocratico, anticomunista, con qualche simpatia per il fascismo, con molte perplessità sul nazionalsocialismo, nazionalista e quindi attento al suolo, al sangue, alla radici, che è il mondo della destra francese della prima metà degli anni Trenta.

La Némirovsky, insomma, faceva parte di quel milieu di ebrei antisemiti di cui oggi non si riesce quasi più ad avere un’idea, ma che fra le due guerre mondiali esistette e spesso fu intellettualmente maggioritario: un atteggiamento etico ed estetico, il disprezzo per l’oro e per l’usura, per chi era considerato un senza patria, per chi rimaneva chiuso nel suo piccolo mondo di tradizioni e di riti.

Siamo di fronte, dunque, a un destino particolarmente tragico perché la Némirovsky è, come dire, vittima dei suoi «amici», non dei suoi nemici. Nelle lettere che Michel Epstein, il marito, scriverà a Otto Abetz, il potente capo della cultura tedesca in terra di Francia, si sottolinea in fondo proprio questo: l’essere anticomunista, il non avere tenerezza per gli ebrei, il fatto che i suoi libri continuino a essere pubblicati, che insomma non sia nella lista nera degli scrittori da dimenticare... Non è nazista Irène, certo che no, e non può sapere quale tragedia politica e morale sarà il nazismo, e il suo iniziale credere in Pétain non vuol dire augurarsi sterminio da un lato, sudditanza dall’altro. Abituati a ragionare con la testa del presente sulla realtà del passato, si fa fatica a capire le scelte di campo, le motivazioni, le speranze e le illusioni. Irène non penserà mai di mettersi in salvo perché crede di essere già in salvo: fa parte dell’intellighentia, di una nazione che ama e difende i suoi scrittori, è legata da sentimenti di amicizia con intellettuali e politici che ora godono di un peso maggiore rispetto agli anni di pace, è, insomma, nella stessa barca dei «vincitori».
Perché dovrebbero buttarla a mare, perché le dovrebbero fare del male? È per questa ambiguità che non si salvò. È questa ambiguità che ancora oggi fa velo a cosa veramente fu la Francia (e non solo la Francia) di ieri.


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vendredi, 09 avril 2010

Pas d'Europe unie sans la Russie!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Pas d'Europe unie sans la Russie

 

Article de Vladimir Simonov,

commentateur politique de RIA-Novosti, 24 février 2004.

 

Les ultimatums posés à la Russie dans l'histoire contemporaine n'ont jamais aidé leurs auteurs à atteindre leurs objectifs.

 

La déclaration conjointe adoptée lundi à Bruxelles à la rencontre des chefs des diplomaties des pays membres de l'Union européenne rappelle beaucoup un ultimatum. L'Union européenne évoque devant la Russie les "graves conséquences" qu'entraînerait son refus d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération conclu en 1997 aux nouveaux pays qui adhéreront à l'UE le 1er mai.

 

Moscou souhaite revoir cet accord, car la Russie a des échanges commerciaux avec les pays d'Europe de l'Est, nouveaux membres de l'Union européenne en vertu de traités dont les délais n'expireront pas vers mai prochain, loin s'en faut.

 

L'UE s'y oppose catégoriquement. Selon la déclaration adoptée à Bruxelles, l'Accord de partenariat et de coopération doit s'étendre automatiquement aux nouveaux membres du club européen. Bruxelles laisse entendre par là que l'élargissement de l'Union européenne est une affaire intérieure de l'organisation et qu'elle le restera même si cela ne plaît pas à Moscou. Mais le problème est ailleurs: les belles formules de la "Stratégie générale de l'UE à l'égard de la Russie", document fondamental adopté en juin 1999 par le Conseil de l'Europe à Cologne, garderont-elles leur sens après l'élargissement de l'UE? Ce document mentionne maintes fois des objectifs stratégiques de l'UE comme "l'intensification de la coopération avec la Russie", la création d'une "Russie prospère", d'une "économie de marché florissante dans l'intérêt de tous les peuples de la Russie", etc.

 

Cependant, Bruxelles ne peut pas ne pas comprendre que l'extension automatique des normes de l'Accord de partenariat et de coopération à 10 nouveaux membres de l'UE portera un coup dur aux intérêts économiques de la Russie. Les dizaines de traités et d'accords commerciaux et économiques qui sont aujourd'hui en vigueur seront résiliés. L'exportation d'aluminium, de céréales, d'engrais chimiques et de combustibles nucléaires vers l'Europe centrale et en Europe de l'Est se heurtera à une multitude de facteurs négatifs.

 

Bref, selon les estimations des experts russes et occidentaux, l'élargissement d'après la variante que Bruxelles essaie d'imposer à Moscou causera à l'économie russe un préjudice d'au moins 300 millions d'euros, ce qui permet de juger des propos sur le souci de créer une "Russie prospère".

 

Il est à remarquer qu'en refusant à Moscou le droit de défendre ses intérêts contre les conséquences négatives de l'élargissement de l'UE, ses membres n'ont pas l'intention de sacrifier leurs propres droits à l'autodéfense.

 

Ainsi, 14 des 15 membres de l'Union européenne adoptent en hâte, ces derniers mois, toutes sortes de lois et de normes qui leur permettraient de réduire considérablement l'arrivée d'immigrés des pays qui adhéreront au club européen le 1er mai. La Belgique introduit des restrictions sur l'octroi des permis de travail qui seront en vigueur pendant les deux années suivant l'élargissement de l'UE, sans donner d'éclaircissements à ce sujet. L'Allemagne prévoit de prolonger ces restrictions jusqu'à 7 ans. Les Pays-Bas établissent le quota de 22 000 ouvriers immigrés par an pour ceux qui arrivent des pays d'Europe de l'Est. La Grande-Bretagne les prive de la plupart des allocations sociales.

 

Personne n'a l'intention d'étendre automatiquement aux nouveaux membres de l'Union européenne les règles conformes à la situation précédant le 1er mai 2004.

 

Se rendant compte de l'absence de logique des exigences présentées à Moscou d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération à 25 pays (aujourd'hui, il concerne 15 pays), Bruxelles veut noyer cette iniquité dans son mécontentement face à la politique intérieure des autorités russes.

 

Dans la même déclaration conjointe, les ministres des Affaires étrangères de l'UE rappellent la violation des droits de l'homme en Tchétchénie, "l'imperfection du système électoral russe", ils proposent à Moscou de ratifier dans les plus brefs délais le protocole de Kyoto sur le réchauffement du climat global et de récupérer les immigrés illégaux russes expulsés par les pays de l'UE.

 

Moscou connaît ses côtés faibles mieux que n'importe quel critique. La Russie est prête à accepter graduellement les valeurs européennes, mais, pour l'instant, elle déploie ses efforts principaux en vue de remplacer l'économie centralisée par l'économie de marché. La Russie traverse une période transitoire dramatique et voudrait compter sur la compréhension, la coopération et le partenariat de l'UE, et pas seulement sur les observations critiques formulées sur un ton sans appel à son adresse.

 

Pour l'instant, Moscou soupçonne de plus en plus que l'élargissement de l'Union européenne dans sa variante actuelle représente probablement une tentative de créer un espace européen sans la participation de la Russie, ou bien une zone géopolitique où le rôle réservé à la Russie serait secondaire, celui de pays de seconde zone.

 

Multipliant les prétentions et les exigences adressées à Moscou, Bruxelles méprise en même temps les intérêts nationaux de la Russie. L'exigence d'étendre automatiquement l'Accord de partenariat et de coopération aux nouveaux membres de l'UE ne fait que mettre en lumière un problème plus important. Le mémorandum du ministère russe des Affaires étrangères envoyé fin janvier à la Commission européenne en parle de manière plus détaillée. L'élargissement de l'Union européenne serait moins douloureux, laisse entendre ce document, si les milieux dirigeants de Bruxelles comprenaient mieux ce que la Russie veut obtenir de l'UE.

 

Elle ne veut rien d'extraordinaire et, d'autant moins, rien d'injustifié du point de vue des intérêts nationaux réels de la grande puissance européenne qui assure 36 % des livraisons de gaz et 10 % de celles de pétrole aux pays de l'UE.

 

La Russie voudrait participer plus dignement à l'adoption de décisions au sein de l'Union européenne, à plus forte raison après l'adhésion à cette organisation des pays d'Europe centrale et d'Europe de l'Est, ses partenaires économiques traditionnels. Moscou saluerait les tarifs commerciaux plus équitables de l'UE pour l'acier, les produits pharmaceutiques, le matériel aéronautique et les technologies nucléaires russes.

 

La Russie ne comprend pas non plus pourquoi l'Union européenne hésite à inviter l'Estonie, surtout la Lettonie, c'est-à-dire ses nouveaux membres, à garantir l'accès aux valeurs européennes pour la minorité russophone de ces pays, notamment la liberté d'étudier et de développer sa culture en langue maternelle.

Moscou compte sur une attitude moins indifférente de Bruxelles vis-à-vis du problème du transit de Kaliningrad et, dans un avenir prévisible, envers les voyages sans visas entre la Russie et l'UE.

 

Le problème principal se profile derrière cette avalanche de souhaits, de prétentions et de remarques critiques qui s'accroît dans les rapports entre la Russie et l'Union européenne: dans quelle mesure Bruxelles est-il prêt au partenariat stratégique réel, et non déclaratif, avec Moscou, partenariat décrit d'une manière si attrayante dans l'Accord de 1997 ? D'ailleurs, il ne faut pas oublier un axiome: il est impossible de créer la communauté paneuropéenne sans la présence de la Russie.

 

Vladimir SIMONOV.

mardi, 06 avril 2010

South Stream: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

»South Stream«: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Während Moskau inzwischen zahlreiche politische Hindernisse beim Bau der »Nord Stream«-Gaspipeline nach Greifswald in Deutschland überwinden konnte, konzentriert Washington seine geopolitische Strategie auf den Aufbau einer zweiten Front im russisch-amerikanischen »Pipelinekrieg«: eine durch die Türkei verlaufende südosteuropäische Konkurrenz-Pipeline namens »Nabucco«. Der Name ist von der berühmten Verdi-Oper entlehnt, die vom erzwungenen Exil des hebräischen Volkes unter dem babylonischen König Nebukadnezar handelt. Washington setzt sich ganz offen für das Projekt »Nabucco«-Pipeline ein. Moskau dagegen wirbt für das eigene Projekt, die »South Stream«, eine südeurasische Schwesterpipeline zur »Nord Stream« im nördlichen Teil Europas. Für beide Seiten steht enorm viel auf dem Spiel.

South_Stream_map.pngAm 12. Dezember 2009 gab die Regierung von Bulgarien – ehemaliges Mitgliedsland des Warschauer Pakts und heute NATO- und EU-Mitglied – bekannt, man werde sich ungeachtet erheblichen Drucks vonseiten Washingtons an Moskaus South-Stream-Projekt beteiligen.

Im Juni 2007 haben Gazprom und der italienische Energiekonzern ENI eine Absichtserklärung über Planung, Finanzierung, Bau und Betrieb der South Stream unterzeichnet. ENI, der größte italienische Industriekonzern, der in den 1950er-Jahren vom legendären Enrico Mattei gegründet worden ist, befindet sich teilweise in Staatsbesitz und ist seit Anfang der 1970er-Jahre in Gasgeschäften mit Russland tätig.

Der Offshore-Abschnitt der South Stream wird in einer Länge von ca. 550 Kilometern von der russischen zur bulgarischen Küste in einer Tiefe von bis zu zwei Kilometern durch das Schwarze Meer verlaufen; die volle Kapazität der Pipeline wird 63 Milliarden Kubikmeter, also mehr als die der Nord Stream, betragen.

In Bulgarien wird sich die South Stream in zwei Stränge teilen, der nördliche Strang verläuft über Rumänien, Ungarn und die Tschechische Republik nach Österreich, der südliche durch Bulgarien nach Süditalien. Die neue Gaspipeline soll 2013 in Betrieb genommen werden.

Gazprom hat vertraglich zugesichert, Italien bis 2035 mit Gas zu versorgen, South Stream ist dabei die wichtigste Lieferroute. Das Unternehmen South Stream AG, ein Joint Venture zu gleichen Teilen zwischen Gazprom und ENI, ist in der Schweiz eingetragen. Bisher hat Gazprom Transitabkommen für die Pipeline mit Serbien, Griechenland und Ungarn geschlossen. (1) Darüber hinaus hat das Unternehmen im Januar 2008 51 Prozent der Anteile des serbischen staatlichen Energiemonopolisten NIS aufgekauft, um sich die Präsenz in diesem Land zu sichern.

Welchen Druck Washington bezüglich der Beteiligung an der russischen South Stream auf Bulgarien ausübt, wurde daran deutlich, dass Bulgarien sich im Dezember 2009 auch zur Beteiligung an dem Nabucco-Projekt verpflichtet hat. Gegenüber der Presse kommentierte der bulgarische Regierungschef Boyko Borisov die doppelte Unterschrift: »Nabucco bedeutet für die Europäische Union eine Priorität, gleichzeitig kommt die russische South Stream sehr schnell vorankommt; fast täglich beteiligen sich weitere europäische Länder daran.« (2) 

Am 3. März 2010 hat die neue kroatische Regierung von Ministerpräsidentin Jadranka Kosor eine Vereinbarung mit dem russischen Ministerpräsidenten Wladimir Putin unterzeichnet, nach der die Pipeline über kroatisches Gebiet geführt werden darf. Ein neu gegründetes Joint Venture zu gleichen Anteilen wird den Bau ausführen.

Laut Kosor liefert die Vereinbarung »Über Bau und Nutzung einer Gaspipeline auf kroatischem Territorium« den rechtlichen Rahmen für die Beteiligung Kroatiens an South Stream und ermöglicht den beteiligten Parteien die Bildung eines Joint Ventures zu gleichen Teilen. Zwei Tage später schien der Zuspruch zu dem Gazprom-Projekt bereits lawinenartig gewachsen: die bosnische Republika Srpska kündigte an, auch sie werde sich an der South-Stream-Gaspipeline beteiligen. Sie schlägt den Bau einer 480 Kilometer langen Pipeline in Nord-Bosnien vor, die an die South Stream angeschlossen werden soll. Damit ist die Zahl der Länder, die entsprechende Verträge mit Gazprom unterzeichnet haben, auf sieben angewachsen. (3)

Zusätzlich zur bosnischen Republika Srpska sind mittlerweile Bulgarien, Ungarn, Griechenland, Serbien, Kroatien und Slowenien Partner von Gazprom. Das entspricht praktisch derselben Route über den Balkan wie bei der umstrittenen Bagdad-Bahn, die in den britischen Machenschaften, die letztendlich nach der Ermordung des österreich-ungarischen Thronfolgers Erzherzog Franz Ferdinand zum Ersten Weltkrieg führten, eine äußerst wichtige Rolle spielte. (4)

Die zentrale Frage der beiden konkurrierenden Pipelineprojekte South Stream und Nabucco ist nicht, wer das transportierte Gas kaufen wird. Wie bereits erwähnt, geht man allgemein davon aus, dass die Nachfrage nach Erdgas in Europa in den kommenden Jahren dramatisch steigen wird. Wichtiger ist die Frage, woher das Gas stammen wird, das die Pipeline füllt. Hier hat Moskau jetzt offensichtlich alle Trümpfe in der Hand.

Zusätzlich zu dem Gas, das direkt von den russischen Gasfeldern stammt, wird ein erheblicher Teil des durch die South Stream transportierten Gases aus Turkmenistan und Aserbaidschan kommen, ein weiterer Teil möglicherweise aus dem Iran. Im Dezember 2009 reiste der russische Präsident Dmitri Medwedew zur Unterzeichnung umfangreicher Vereinbarungen über eine Kooperation im Bereich Energie nach Turkmenistan.

Bis zum Zerfall der Sowjetunion im Jahr 1991 zählte Turkmenistan als Turkmenische Sozialistische Sowjetrepublik oder TuSSR zu den Teilrepubliken der Sowjetunion. Das Land grenzt im Südosten an Afghanistan, im Süden und Südwesten an den Iran, im Osten und Nordosten an Usbekistan, im Norden und Nordwesten an Kasachstan und im Westen an das Kaspische Meer. Bisher war die russische Gazprom der dominierende Wirtschaftspartner des Landes, in dem erst kürzlich neue Gasvorkommen bestätigt worden sind. Das Gas aus Turkmenistan ist für die Lieferkette von Gazprom sehr bedeutsam, und das bereits seit der Zeit, als Turkmenistan noch zur Sowjetunion gehörte und Teil der sowjetischen Wirtschaftsinfrastruktur war.

Als der »auf Lebenszeit gewählte Präsident« Saparmyat Nyasov, der auch als »Türkmenbaşy« oder »Führer der Turkmenen« bekannt war, im Dezember 2006 unerwartet verstarb, weckte dies in Washington die Hoffnung, den neuen Präsidenten Gurbanguly Berdimuhamedow von Russland lösen und unter amerikanischen Einfluss bringen zu können. Bislang allerdings ohne großen Erfolg.

Das Abkommen zwischen Medwedew und Berdimuhamedow vom Dezember umfasste neue Vereinbarungen über langfristige Lieferung von turkmenischem Gas an Gazprom, mit dem entweder die South-Stream-Pipeline direkt gefüllt werden oder die entsprechende Menge russischen Gases ersetzt werden soll – was bedeutet: Nabucco zieht den kürzeren.

 

Nabucco auf dem Trockenen …

Mit ihrer aktiven Pipeline-Diplomatie der vergangenen Monate setzen Russland und die Gazprom dem Nabucco-Projekt, der von Washington favorisierten Alternative, schwer zu. Mit der geplanten Nabucco-Pipeline soll die Region um das Kaspische Meer und der Nahe Osten über die Türkei, Bulgarien, Rumänien, Ungarn mit Österreich verbunden werden, und von dort aus sollen die Gasmärkte in Zentral- und Westeuropa beliefert werden. Bei einer Länge von ca. 3300 Kilometern würde sie von der georgisch-türkischen und/oder iranisch-türkischen Grenze nach Baumgarten in Österreich führen. Sie soll parallel zu der bereits bestehenden, von den USA unterstützten Ölpipeline Baku-Tiflis-Erzurum verlaufen und jährlich 20 Milliarden Kubikmeter Gas transportieren. Zwei Drittel der geplanten Pipeline würden über türkisches Gebiet verlaufen.

Nach seinem zweitägigen Ankara-Besuch im April 2009 sah es zunächst so aus, als habe US-Präsident Obama einen Sieg für Nabucco errungen, denn der türkische Ministerpräsident Erdogan willigte ein, das Projekt nach mehrjähriger Verzögerung im Juli 2009 mit seiner Unterschrift abzusegnen. Nabucco ist Teil der amerikanischen Strategie, die vollständige Kontrolle über die Energieversorgung nicht nur der EU-Länder, sondern ganz Eurasiens zu übernehmen. Die Pipeline wurde explizit so geplant, dass sie nicht über russisches Territorium führt; die Kooperation zwischen Russland und Westeuropa im Bereich Energie soll dadurch geschwächt werden. Diese bisherige Kooperation war ihrerseits ein maßgeblicher Beweggrund für die deutsche und französische Regierung, dem Druck aus Washington für die Aufnahme Georgiens und der Ukraine in die NATO nicht nachzugeben.

Heute steht die Zukunft von Nabucco in den Sternen, denn die russische Gazprom hat sich langfristige Verträge mit praktisch allen potenziellen Gaslieferanten für Nabucco gesichert. Nabucco sitzt also auf dem Trockenen. Deshalb werden jetzt Aserbaidschan, Usbekistan, Turkmenistan, Iran und Irak als potenzielle Lieferanten für Nabucco umworben.

Bisher war Aserbaidschan als Hauptgaslieferant für Nabucco vorgesehen. Die großen aserbaidschanischen Ölvorkommen hat sich ein anglo-amerikanisches Konsortium unter Führung der BP bereits gesichert, das unabhängig von Moskau Öl aus Baku am Kaspischen Meer nach Westen transportiert. Die Ölpipeline Baku-Tiflis-Ceyhan war ein wichtiges Motiv für Washington, 2004 die »Rosen-Revolution« in Georgien zu unterstützen, die den Diktator Micheil Saakaschwili an die Macht brachte.

Im Juli 2009 reisten Russlands Präsident Medwedew und Gazprom-Chef Alexei Miller gemeinsam nach Baku und unterzeichneten dort einen langfristigen Vertrag über den Kauf der gesamten Erdgasproduktion auf dem dortigen Offshore-Gasfeld Shah Denzi II, auf das auch die Planer von Nabucco spekuliert hatten. Aserbaidschans Präsident Alijew spielt anscheinend ein Katz-und-Maus-Spiel mit Russland auf der einen und mit der EU und Washington auf der anderen Seite. In der Hoffnung, dabei den höchstmöglichen Preis herauszuschlagen, versucht er, beide gegeneinander auszuspielen. Gazprom hat eingewilligt, den ungewöhnlich hohen Preis von 350 Dollar für 1.000 Kubikmeter Shah-Deniz-Gas zu bezahlen – eine offensichtlich politisch, nicht wirtschaftlich motivierte Entscheidung der Regierung in Moskau, die die Mehrheitsbeteiligung an Gazprom hält. (5) Anfang Januar 2010 gab die Regierung von Aserbaischan auch den Verkauf von einem Teil ihres Gases an den benachbarten Iran bekannt, ein weiterer Rückschlag für die Belieferung für Nabucco. (6)

Selbst wenn Aserbaidschan einwilligen sollte, Gas zu verkaufen und selbst wenn Nabucco dieses zu vergleichbaren Bedingungen wie Gazprom kaufen würde, so reichte das aserbaidschanische Gas alleine nach Auskunft von Branchenkennern nicht aus, die Pipeline zu füllen. Woher könnte das verbleibende Volumen kommen? Eine Möglichkeit wäre der Irak, die andere der Iran. Doch beides würde Washington, vorsichtig formuliert, gewaltige geopolitische Probleme bereiten.

Zurzeit ist nicht einmal ein Minimal-Abkommen zwischen der Türkei und Aserbaidschan über die Lieferung von aserbaidschanischem Öl in Sicht. Trotz der 2009 mit großer Fanfare bekannt gegebenen Entscheidung der türkischen Regierung, dem Nabucco-Projekt beizutreten, befinden sich die Gespräche zwischen der türkischen und aserbaidschanischen Regierung in der Sackgasse. Trotz wiederholter Interventionen vonseiten des amerikanischen Sondergesandten für eurasische Energiefragen, Richard Morningstar, ein Abkommen zustande zu bringen, sind die Gespräche derzeit noch immer blockiert. Washingtons Nabucco-Träume wurden zusätzlich getrübt, als die österreichische OMV, ein weiterer wichtiger Nabucco-Partner, Ende Januar gegenüber der Nachrichtenagentur Dow Jones erklärte, Nabucco werde nicht gebaut, wenn es keine ausreichende Nachfrage gebe. (7)

Auch andere in Washington ins Spiel gebrachte Optionen wären problematisch. Um beispielsweise irakisches Gas in die Nabucco-Pipeline einzuspeisen, müsste dieses auf irakischer und türkischer Seite über kurdisches Gebiet transportiert werden, was der jeweiligen kurdischen Minderheit eine willkommene neue Einkommensquelle bescheren würde – und das kommt in Istanbul gar nicht gut an. Den Iran hat Washington gegenwärtig als Gaslieferanten wegen der Spannungen über das iranische Atomprogramm nicht auf der Rechnung; wichtiger ist allerdings noch der enorme iranische Einfluss auf die Zukunft des Irak mit seiner mehrheitlich schiitischen Bevölkerung.

Usbekistan und Turkmenistan verfügen zwar beide über erhebliche Erdgasvorkommen, kommen jedoch politisch und geografisch schwerlich als Gaslieferanten für ein im Kern anti-russisches Projekt infrage. Ihre entfernte Lage bedeutet darüber hinaus enorme Kosten, denn dieses Gas wäre erheblich teurer als das vom Konkurrenten Gazprom über die South-Stream-Pipeline transportierte.

In klassischer Manier byzantinischer Diplomatie hat der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan sowohl Russland als auch den Iran eingeladen, sich an dem Nabucco-Projekt zu beteiligen. Laut RIA Novosti erklärte Erdogan: »Wir möchten, dass sich der Iran an dem Projekt beteiligt, wenn es die Bedingungen erlauben, und hoffen ebenfalls auf die Beteiligung Russlands.« Während Putins Besuch in Ankara im August 2009, also nur wenige Wochen nach der formellen Unterzeichnung des Nabucco-Vertrags mit den USA, gewährte die Türkei dem staatlichen russischen Erdgasmonopolisten Gazprom die Nutzung der territorialen Gewässer im Schwarzen Meer. Russland will die South-Stream-Pipeline nach West- und Südeuropa durch das Schwarze Meer führen. Im Gegenzug sagte Gazprom den Bau einer Pipeline vom Schwarzen Meer zum Mittelmeer über türkisches Gebiet zu. (8)

Anfang Januar 2010 bestärkte die türkische Regierung während eines zweitägigen Moskau-Besuchs von Ministerpräsident Erdogan, bei dem über Energie und die Süd-Kaukasus-Region gesprochen wurde, die entstehenden Bindungen an Russland. Washingtons Radio Liberty spricht von einer »neuen strategischen Allianz« zwischen den früheren erbitterten Gegnern im Kalten Krieg. Die Türkei ist schließlich auch Mitglied der NATO. (9)

Diese Entwicklung ist keine vorübergehende Modeerscheinung. In den Medien beider Länder ist von einer russisch-türkischen »strategischen Partnerschaft« die Rede. (10) Heute bildet die Türkei den größten Markt für den Export von russischem Öl und Gas. Beide Länder beraten auch über russische Pläne für den Bau des ersten Kernkraftwerks in der Türkei zur Deckung des dortigen Energiebedarfs. Der Handel zwischen beiden Ländern erreichte im vergangenen Jahr ein Volumen von 38 Milliarden Dollar; damit war Russland der größte Handelspartner der Türkei. Für die nächsten fünf Jahre wird eine Steigerung um etwa 300 Prozent erwartet, dementsprechend bildet sich in der Türkei eine solide und wachsende pro-russische Handelslobby. Die beiden Länder verhandeln derzeit konkret über weitere Handelsabkommen in Höhe von ca. 30 Milliarden Dollar, einschließlich des geplanten Kernkraftwerks in der Türkei sowie der Gaspipelines South Stream und Blue Stream zwischen Russland und der Türkei sowie einer Ölpipeline Samsun–Ceyhan von Russland an die türkische Mittelmeerküste. (11)

Doch den Nabucco-Befürwortern, besonders denen in Washington, droht noch manch anderer politische Sprengsatz: So verabschiedete das türkische Parlament zwar am 4. März 2010 ein Gesetz zum Bau der Nabucco-Pipeline, doch am selben Tag stimmte der Auswärtige Ausschuss des US-Repräsentantenhauses für eine nicht-bindende Resolution, in der die Morde an den Armeniern in der Zeit des Ersten Weltkriegs als Völkermord bezeichnet werden.

Sofort nach diesem Votum wurde der türkische Botschafter aus Washington zurückgerufen. Immerhin kann genau dieses Votum zu einer engeren Zusammenarbeit zwischen Moskau und Ankara in Fragen von beiderseitigem Interesse führen, South Stream eingeschlossen.

Die Europäische Union hat gerade ein drei Milliarden Dollar schweres Konjunkturpaket bewilligt, das auch 273 Millionen Dollar für Nabucco beinhaltet. Angesichts erwarteter Gesamtkosten von elf Milliarden Dollar bedeutet dieser Betrag nicht gerade eine überwältigende Unterstützung für Nabucco. Außerdem liegt das Geld bis zum endgültigen Start von Nabucco auf Eis, was darauf hindeutet, dass die EU-Länder weit weniger darauf erpicht sind als Washington, bei der riskanten Gegenstrategie Nabucco zu Moskaus South Stream mitzumachen. Die EU hat erklärt, das Geld werde für andere Zwecke verwendet, falls es zwischen den Nabucco-Befürwortern und Turkmenistan nicht innerhalb von sechs Monaten zu einer Einigung über die Gaslieferung käme.

Das zeitliche Zusammentreffen der Neutralisierung eines NATO-Beitritts der Ukraine mit dem Beginn des Baus der strategisch wichtigen Nord-Stream-Pipeline von Russland nach Deutschland sowie Russlands Pläne für die South-Stream-Gaspipeline hat die Nabucco-Pipeline, Washingtons Gegenmaßnahme, praktisch wertlos gemacht. Durch diese Entwicklungen ist gewährleistet, dass Russland wichtigster Energielieferant für Europa bleibt. In den vergangenen Jahren ist der Anteil russischer Energielieferungen nach Europa auf fast 30 Prozent aller Energieimporte gestiegen, beim Erdgas ist Russland sogar der wichtigste Lieferant. (12) Das Ganze hat weitreichende strategische und geopolitische Bedeutung, was Washington sicher nicht entgangen sein dürfte.

 

 

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(1) Gazprom, »Major Projects: South Stream«, unter http://old.gazprom.ru/eng/articles/article27150.shtml

(2) Trend, »Bulgaria ready to participate in both South Stream and Nabucco«, Baku, Aserbaidschan, 5. Dezember 2009, unter http://en.trend.az

(3) Olja Stanic, »Bosnian Serbs to join Russia-led gas pipeline«, Reuters, 5. März  2005, Banja Luka, Bosnien, unter http://in.reuters.com/article/oilRpt/idINLDE6241B920100305

(4) Mehr über diese faszinierende und fast vergessene Geschichte der deutsch-britischen imperialen Rivalität in Bezug auf die Bagdad-Bahn im Vorfeld des Ersten Weltkriegs siehe: F. William Engdahl, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung,  Kopp Verlag, Rottenburg, 3. Auflage 2008, S. 42ff. (Englische Originalausgabe: A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, Pluto Press, London 2004, pp. 22–28)

(5) Mahir Zeynalov, »Azerbaijan-Gazprom agreement puts Nabucco in jeopardy, Today’s Zaman« 16. Juli 2009, unter http://www.todayszaman.com/tz-web/sabit.do?sf=aboutus

(6) Saban Kardas, »Delays in Turkish-Azeri Gas Deal Raises Uncertainty Over Nabucco«, Eurasia Daily Monitor, Jhrg. 7, Heft 39, 26. Februar 2010

(7) Ebenda

(8) Rian Whitmore, »Moscow Visit by Turkish PM Underscores New Strategic Alliance«, Radio Liberty/Radio Free Europe, 13. Januar 2010, unter http://www.rferl.org/content/Moscow_Visit_By_Turkish_PM_Underscores_New_Strategic_Alliance/1927504.html

(9) Ebenda

(10) Faruk Akkan, »Turkey and Russia move closer to building strategic partnership«, RIA Novosti, 15. Januar 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_foreign_media/20100115/157554880.html

(11) RIA Novosti, »Russian delegation to discuss Turkey nuclear power plant plan«, Ankara, 18. Februar 2010, unter http://en.rian.ru/world/20100218/157927131.html

(12) Kommersant, »Nabucco's future depends on Turkmenistan«, Moscow, 9. März 2010, unter http://en.rian.ru/papers/20100309/158135872.html

 

Mittwoch, 31.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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