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vendredi, 20 février 2009

Lev Nikolaevic Gumilëv

Martino Conserva / Vadim Levant, Lev Nikolaevic Gumilëv, pp. 83.

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Quarto titolo della collana “Quaderni di Geopolitica”, quest’opera differisce dalle precedenti perché non è la pubblicazione commentata d’un testo inedito, bensì una biografia. Anche la scelta del soggetto, a prima vista, potrebbe apparire insolita per l’argomento della collana; ma ciò, appunto, solo a prima vista, a quanti volessero ridurre la geopolitica ad una pura analisi contingente dei rapporti internazionali. Tale, evidentemente, non è l’opinione degli Autori: Vadim Levant e Martino Conserva. Quest’ultimo è un economista milanese, già specialista d’analisi di rischio paese e dei mercati finanziari internazionali presso una delle maggiori banche italiane, ancora oggi collaboratore di riviste finanziarie, ma appassionato di arte, filosofia e storia.

Egli risiede, con la famiglia, a San Pietroburgo, dove, quando ancora si chiamava Leningrado, Vadim Ridovic Levant ha condotto i suoi studi storici. Per una curiosa inversione di tendenze, se l’economista Conserva ha finito con lo scrivere di storia e filosofia, lo storico Levant è oggi dirigente d’una società russo-cinese! Dicevamo, dunque, che i due Autori non hanno questa visione riduttiva della geopolitica, ma la estendono anche all’indagine storica della vicenda umana relazionata all’ambiente. Tale è senz’altro il caso di Lev Nikolaevic Gumilëv, celeberrimo storico, filosofo e geografo russo. Una piccola parte della propria notorietà, egli la dovette all’uomo e alla donna che lo generarono nel 1912, i poeti Nikolaj Stepanovic Gumilëv e Anna Andreevna Achmatova. Purtroppo per lui, in vita questi nobili natali finirono col perseguitarlo: dalla fucilazione del padre nel 1921, il nuovo corso bolscevico fu per il giovane Gumilëv un vero e proprio incubo. Dal 1935 iniziò a fare avanti e indietro dalle carceri ai lavori forzati (in totale, tra prigionia, campi di lavoro e confino, 13 anni di segregazione), sempre per delazioni che il più delle volte la stessa giustizia sovietica avrebbe poi riconosciute come infondate. Ma, riabilitazione o no, resta il fatto che il pur geniale Gumilëv riuscì a laurearsi solo a 36 anni, non ottenne mai la carica di professore universitario e poté tenere i propri corsi di “studio dei popoli” solo in maniera informale, semiclandestina. Fondatore della scuola etnologica russa, elaboratore di teorie originalissime, Lev Nikolaevic rimase sempre un intellettuale isolato perché troppo indipendente, spesso e volentieri attaccato dalla intelligencija ufficiale. Basti per tutti l’aneddoto, nello stesso tempo divertente e tragico, riportato da Levant e Conserva. Nel 1974 Gumilëv, che già s’era imposto all’attenzione per diverse pubblicazioni, decise di conseguire il dottorato in geografia, siccome, essendo nell’organico di quella facoltà ma laureato in storia, rischiava d’esserne espulso col pretesto che non era “specialista”. La sua dissertazione di dottorato, L’etnogenesi e la biosfera della terra (fulcro dell’omonimo capolavoro che avrebbe pubblicato in seguito), fu riconosciuta dagli stessi esaminatori come un’opera d’altissimo profilo, ma, proprio per questo, ritenuta «superiore al livello di una elaborazione di dottorato e, pertanto, non una tesi di dottorato»; come dire: bocciato perché troppo bravo! Eppure lo studioso, che nel frattempo cominciava già a mietere riconoscimenti all’estero, rifiutò sempre di fuggire e di lasciare il paese che, nonostante tutti i torti e i soprusi arbitrariamente inflittigli, amava intensamente. Tanto più dolorosa dovette apparirgli, allora, la campagna denigratoria condotta negli anni ‘80 contro di lui da sedicenti “patrioti”, in realtà vetero-nazionalisti con sfumature xenofobe, che l’accusavano d’essere un nemico della Russia. Nel frattempo, proseguiva contro di lui l’ostracismo degli accademici, e nel 1981 gli fu anzi vietato di pubblicare alcunché. Gumilëv accolse con scetticismo anche la perestrojka, e fu proprio Juri Afanas’ev, uno dei suoi teorici, a condurre l’ultimo grande attacco contro il pensiero dello storico e geografo. Lev Nikolaevic giunse vecchio e malato alla caduta della “cortina di ferro”: innumerevoli inviti gli giungevano dall’estero, ma le sue condizioni di salute, e non più il regime, gl’impedivano ora di muoversi. Per lo meno, dal 1992 la Russia cominciò a tributare a Gumilëv i sacrosanti onori che meritava: successi editoriali per i suoi libri, inviti a dibattiti televisivi e radiofonici, lezioni pubbliche delle sue teorie. Ma l’anziano studioso, amareggiato dal tragico crollo di quella patria che, come Socrate, aveva amata benché gli fosse stata carnefice, riuscì solo ad assaggiare la tanto sospirata popolarità, perché proprio nel 1992 terminò la sua esistenza terrena. I concittadini pietroburghesi parteciparono commossi e in massa ai funerali, accompagnando la bara fino alla tumulazione nel Monastero Aleksandr Nevskij, dove riposa anche il celebre eroe eponimo. In Italia una sola opera di Gumilëv è stata finora pubblicata: Gli Unni, dalla Einaudi nel 1972. L’aspetto del suo pensiero che interessa più gli Autori, e che viene analizzato nella seconda parte dell’opera, è invece la teoria dell’etnogenesi. In estrema sintesi (chi leggerà l’opera potrà avere maggiori e più esatti particolari), Gumilëv vedeva i popoli come organismi collettivi viventi, i quali attraversano diverse fasi di crescita e caduta, regolate dall’elemento della passionarietà (ch’è sentimento sia individuale sia collettivo), ossia «l‘aspirazione ad agire, senza alcuno scopo evidente, o in base a scopi illusori», incontrollabile e inevitabile. Non poteva mancare, inoltre, un capitolo su Gumilëv e la geopolitica. A differenza degli studiosi già presi in esame dai “Quaderni di Geopolitica” (Haushofer e Von Leers), Gumilëv si guardò sempre bene dall’elaborare tesi propriamente geopolitiche (un po’ perché non gli interessava, un po’ perché aveva già problemi a sufficienza con le autorità sovietiche). Tuttavia, i suoi studi sono stati fondamentali per la nascita della contemporanea scuola geopolitica russa. Innanzitutto, Gumilëv con le sue opere ha rivalutato senza mezzi termini i popoli orientali e il loro apporto alla nascita della Russia: non a caso l’Università Nazionale Eurasiatica di Astana (capitale del Kazakistan) è stata intitolata proprio a lui. Ne consegue, inoltre, ch’egli ha svuotato il patriottismo russo delle possibilità d’una deriva xenofoba e piccolo-nazionalistica, riconoscendo il carattere multietnico e le molteplici radici culturali della Russia - o, per altri versi, l’unità indissolubile dell’Eurasia, quell’Eurasia che era già da decenni al centro dell’elaborazione geopolitica anglosassone e che ora, finalmente, veniva riconosciuta nella sua unità d’insieme anche a Mosca. Notano gli Autori come la concezione gumilëviana dell’Eurasia quale unione tra “Foresta” (gli Slavi) e “Steppa” (i nomadi turanici) ricalchi esattamente il tema di Halford Mackinder della Russia quale grande nemica degli Anglosassoni, in quanto riunificatrice delle forze del “Cuore della Terra” (Heartland). Lev Nikolaevic fu anche definito “l’ultimo eurasiatista”, ed egli accettò di buon grado questo titolo. Ci piace allora concludere con una frase dello stesso Gumilëv (non prima di segnalare che l’opera comprende anche un Glossario dei concetti e dei termini e una Bibliografia scientifica, un esplicito invito all‘approfondimento rivolto al lettore): «Tesi eurasiatista: occorre cercare non tanto nemici - ce ne sono tanti! - quanto amici, questo è il supremo valore nella vita». Un insegnamento di Gumilëv che meriterebbe davvero d’essere appreso e fatto proprio da tutti. Daniele Scalea ("Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici", 1/2006)

jeudi, 19 février 2009

A Geopolitica russa

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A Geopolítica Russa: De Pedro “O Grande” a Putin, a “Guerra‑Fria”, o Eurasianismo e os Recursos Energéticos

Tenente‑General PilAv Eduardo Eugénio Silvestre dos Santos

“A política de um Estado está na sua geografia”.
Napoleão1

“A Rússia é uma charada, embrulhada num mistério, dentro de um enigma”
Winston Church

 

Introdução

Apesar do termo “Geopolítica” ter sido utilizado pela primeira vez pelo cientista político sueco Johan Rudolph Kjellen, apenas no final do século XIX, vários intelectuais importantes tinham já escrito sobre a influência da geografia na conduta da estratégia global das nações, e os confrontos pelo domínio de territórios e populações perdem‑se na neblina dos tempos. O termo surgiu na era da rivalidade imperialista entre 1870 e 1945, quando os impérios em competição travavam inúmeras guerras, gerando, alterando e revendo as linhas de poder que eram as fronteiras do mapa político mundial.2
Existem inúmeras definições de “Geopolítica”. Aqui se deixam algumas que, na opinião do autor, melhor reflectem e abrangem o pleno âmbito do termo:
Kjellen definiu‑a como o “estudo da influência determinante do ambiente na política de um Estado”. Para a Escola de Munique de Haushofer é “a ciência da vinculação geográfica dos fenómenos políticos”. Para N. Spykman, era “o planeamento da política de segurança de um país em termos dos seus factores geográficos”.3 Mais modernamente, G. O’Tuathail afirma que é “o modo de relacionar dinâmicas locais e regionais com o sistema global como um todo”4 e, em conjunto com J. Agnew, o mesmo autor escreve que “estuda a geografia da política internacional, particularmente a relação entre o ambiente físico (localização, recursos, território, etc.) e a conduta da política externa”.5
Na história do mundo, existem, em competição constante, duas aproxi mações às noções de espaço e terreno – a terrestre e a marítima. Na História antiga, as potências que se tornaram em símbolos da “civilização marítima” foram a Fenícia e Cartago. O império terrestre que se lhes opunha era Roma. As Guerras Púnicas foram a imagem mais clara da oposição “terra‑mar”. Mais modernamente, a Grã‑Bretanha tornou‑se o “pólo” marítimo, sendo poste riormente substituído pelos EUA. Tal como a Fenícia, a Grã‑Bretanha utilizou o comércio marítimo e a colonização das regiões costeiras como o seu instrumento básico de domínio. Criaram um padrão especial de civilização, mercantil e capitalista, baseada acima de tudo nos interesses materiais e nos princípios do liberalismo económico. Portanto, apesar de todas as variações históricas possíveis, pode dizer‑se que a generalidade das civilizações marítimas tem estado sempre ligada ao primado da economia sobre a política.
Por seu lado, Roma representava uma amostra de uma estrutura de tempo de guerra, autoritária, baseada no controlo civil e administrativo, no primado da política sobre a economia. É um exemplo de um tipo de colonização puramente continental, com a sua penetração profunda no continente e assimi lação dos povos conquistados, automaticamente romanizados após a conquista. Para os Eurasianistas, na História moderna, os seus sucessores são os Impérios Russo, Austro‑Húngaro e Alemão.

2. Retrospectiva Histórica da Ásia Central

A história da Ásia Central foi condicionada pelas migrações de pastores nómadas das estepes desde muito cedo, provavelmente 4000 AC. Segundo Mehdi Amineh, podem considerar‑se cinco períodos históricos: o pré‑islâmico (Ciro, Alexandre e a dinastia Sassanida; remonta ao século II AC a “rota da seda”, que tornou possível o comércio entre o Ocidente e o Oriente, o Norte e o Sul da Ásia), o islâmico (dinastias Ummayad e Abbasid), o mongol (Genghis Khan e sucessores), o dos séculos XVI ao XIX, e o russo‑soviético.6 No âmbito deste trabalho interessam particularmente os dois últimos.
Para entender mais completamente o que se pretende expor neste trabalho, temos de recuar na história russa até ao início do século XIII, pois nessa época teve lugar um acontecimento catastrófico que deixou marcas indeléveis no carácter nacional russo. Em 1206, um génio militar analfabeto de nome Teumjin, conhecido para a posteridade como Genghis Khan, teve o sonho de conquistar o mundo, tarefa que ele cria lhe ter sido confiada por Deus para executar. Nos 30 anos seguintes, ele e os seus sucessores quase o conseguiam. Nessa época, a Rússia consistia apenas em cerca de uma dúzia de principados, frequentemente em guerra uns com os outros. Entre 1223 e 1240, não tendo conseguido unir‑se para combater o inimigo comum, caíram um a um perante a implacável máquina de guerra mongol. O sistema político que o domínio mongol criou era muito descentralizado (sistema de “khanatos” – semelhantes a principados – onde o “khan” era uma espécie de senhor feudal, sujeitos a tributos obrigatórios pesadíssimos pelos mongóis), e o resultado inevitável foi um jugo tirânico dos príncipes vassalos sobre os seus súbditos, cuja sombra ainda hoje se faz sentir na Rússia.
Durante cerca de 250 anos, os russos estagnaram e sofreram a opressão da “Horda Dourada”, termo pelo qual os mongóis ficaram conhecidos. Entre tanto, aproveitando as circunstâncias e a fraqueza militar, os vizinhos europeus da Rússia (principados alemães, Lituânia, Polónia e Suécia) foram ocupando partes do seu território.
Raramente uma experiência deixou cicatrizes tão profundas e perenes na psicologia de uma nação, explicando grande parte da sua xenofobia, a sua política externa muitas vezes agressiva, e a histórica aceitação da tirania interna.7 Para George Kennan, encarregado de negócios dos EUA em Moscovo no início da “guerra‑fria” e estudioso da política externa soviética, as fontes principais da conduta soviética eram determinadas pela história e geografia russas. “A cautela e a flexibilidade soviéticas são atitudes solidificadas nas lições da história russa: séculos de batalhas entre forças nómadas na vastidão de planícies desprotegidas”.8
O homem a quem os russos devem a sua liberdade face à opressão mongol foi Ivan III, “o Grande”, príncipe de Moscovo, no final do século XV. A máquina de guerra mongol, tão temida no início, tinha entretanto perdido a vontade e o gosto de lutar, acomodando‑se e não sendo já invencível. O poderoso império de Genghis Khan colapsou no Ocidente, ficando reduzido apenas a três “khanatos” dispersos: Kazan (2, Fig. 1), Astrakhan (1, Fig. 1) e Crimeia. Ivan IV, “o Terrível”, um dos sucessores de “o Grande”, reconquistou os dois primeiros (1553 e 1555), anexando‑os a Moscovo, que se expandia rapidamente, com a finalidade de evitar invasões, recolher as produções e capturar populações para vender como escravos. Apenas restou a Crimeia como último reduto tártaro, em virtude de ter a protecção do Império Otomano, que via nele um importante baluarte contra os russos. Foi a partir do Principado de Moscovo que, a partir de meados do século XIV, com a derrota dos tártaros na batalha do rio Ugra (5, Fig. 1), se foi cimentando e alargando o Império Russo. A ameaça mongol tinha assim sido eliminada, deixando o caminho aberto para uma das maiores empresas coloniais da história: a expansão da Rússia para Oriente, na Ásia. A partir de 1580, o comércio de peles começou a atrair os russos para a Sibéria, bem para além dos Urais. A expansão russa só terminou quando o Oceano Pacífico foi atingido, sendo comparável em muitos aspectos à conquista americana do Oeste.9 No seu apogeu o Império Russo incluía, além do território russo actual, os estados bálticos (Lituânia, Letónia e Estónia), a Finlândia, Cáucaso, Ucrânia, Bielorússia, boa parte da Polónia (antigo reino da Polónia), Moldávia (Bessarábia) e quase toda a Ásia Central. (Fig. 2) “A História prova que o espaço e a posição têm influído no destino político de cada território (...) O espaço, quando existe, cria a grande potência.”10
Durante o século XVI, o Império Persa tentou impedir o Império Otomano de ter acesso à “Rota da Seda” e ganhar o monopólio desta fonte de riqueza. A guerra entre estes dois impérios fez com que os “khanatos” asiáticos perdessem o seu poder e ressurgissem as forças tribais, causando o declínio económico da Ásia Central no século XVII. No fim do século XVIII, devido ao crescente comércio entre as tribos da Ásia Central e a Rússia, deu‑se uma nova dinâmica à vida económica e política. É também nesta altura que se dá a progressiva sedentarização das tribos nómadas, o que contribuiu bastante para a centralização política da região.

3. A Expansão Russa

Pode recuar‑se na “geopolítica” russa até finais do século XVII, e afirmar que, pelo menos desde essa época, a Rússia perseguiu dois objectivos estratégicos:
– um, Constantinopla, levada por um lado pelo sonho da libertação dos cristãos ortodoxos, mas que lhe daria também o controlo do Bósforo e dos Dardanelos e, logo, o acesso ao Mediterrâneo;
– o outro, tentar chegar à Índia; alguns políticos britânicos continuavam contudo a pensar que “o objectivo real da Rússia era, não a Índia, mas Constantinopla: para manter a Grã‑Bretanha sossegada na Europa, devia mantê‑la ocupada na Ásia”.11
O primeiro dos Czares a tentar modernizar a Rússia foi Pedro “o Grande”, já da dinastia Romanov, na transição do século XVII para o XVIII. Para tal, enviou uma embaixada diplomática à Europa Ocidental e construiu S. Petersburgo, que imaginou como uma porta de ligação comercial e cultural com a Europa. Porém, tendo esgotado o tesouro combatendo simultaneamente a Suécia e o Império Otomano, chegaram‑lhe notícias, no início do século XVIII, da descoberta de ricos jazigos de ouro na Ásia Central, nas margens do Amu‑Darya, o que o fez virar a atenção para aí e para a Índia. Cerca de 50 anos mais tarde, Catarina “a Grande” voltou a dar sinais de interesse pela Índia. Catarina era uma expansionista e não era segredo que sonhava em expulsar os turcos de Constantinopla e controlá‑la. Não conseguiu conquistar nem Constantinopla nem a Índia, mas apoderou‑se do “khanato” da Crimeia nos finais do século XVIII, e o seu sucessor Alexandre I recuperou à Pérsia os territórios do Cáucaso. Em 1801, anexou o antigo e independente reino da Geórgia, que a Pérsia considerava estar na sua esfera de influência. Em 1804, avançou ainda mais para Sul, cercando Yerevan, capital da Arménia (Fig. 3), uma possessão cristã do Xá, ameaçando Constantinopla.
O Mar Negro tinha deixado de ser um “lago turco” e os russos começaram a construir uma gigantesca base naval em Sebastopol (4, Fig. 1), ficando os seus vasos de guerra a dois dias de Constantinopla. A presença da Rússia no Próximo Oriente e no Cáucaso começava a preocupar ao Império Britânico. Porém, entretanto, surgiu Napoleão! Este ofereceu ajuda ao Xá para rechaçar os russos, em troca da utilização da Pérsia como caminho de passagem para invadir a Índia, o que fez parar o avanço russo. Em 1807, após subjugar a Áustria e a Prússia, derrotou os russos em Friedland, forçando‑os a aderir ao “bloqueio continental”, destinado a isolar e a derrotar a Grã‑Bretanha.12
Após a derrota de Napoleão em 1812, o Czar Alexandre solicitou, no Congresso de Viena, a modificação do mapa político da Europa, exigindo o controlo da Polónia. Perante a forte oposição britânica, Alexandre I concordou em dividi‑la com a Áustria e a Prússia, ficando contudo com a parte de leão. No século XIX, as guerras na Europa para fomentar revoluções ou conquistar território, eram vistas como ameaças ao “equilíbrio de poder” entre os Estados dominantes, as grandes potências. Mas a dicotomia entre a Europa e os outros continentes era reforçada pela combinação frequente entre uma “terra‑mãe” e uma periferia trazendo uma experiência colonial para perto de “casa”. Nos EUA e na Rússia, por exemplo, não existia uma separação clara nem fronteiras físicas óbvias.13
A trégua entre a Rússia e a Pérsia no Cáucaso (a Pérsia acabou por aceitar a soberania russa entre o Cáucaso e o Mar Cáspio e em grande parte do Azerbaijão), fez virar as atenções de S. Petersburgo para a Ásia Central. O “Grande Jogo”, a luta subtil mas persistente pelo controlo das vastas terras situadas entre o Mar Cáspio, a Pérsia e a Índia, “a jóia da coroa” do Império Britânico, a Sul, tinha começado.
O “Grande Jogo” é um termo atribuído a Arthur Connolly, utilizado para descrever a rivalidade e o conflito estratégicos entre os Impérios Britânico e Russo, pela supremacia na Ásia Central. O termo foi popularizado posteriormente por Rudyard Kipling, na sua obra “Kim”. O período clássico do “Grande Jogo” decorre desde aproximadamente 1815 até à Convenção Anglo‑Russa de 1907. Após a revolução bolchevique de 1917, existiu uma segunda fase.14
Existiam apenas duas rotas possíveis para um exército russo, suficientemente grande para ter sucesso, atingir a Índia:
– uma seria partindo de Orenburg (3, Fig. 1 e 3), capturar Khiva (2, Fig. 3) e Balkh (6, Fig. 3), atravessar o Hindu Kush, como tinha feito Alexandre “o Grande”, e dirigir‑se a Kabul; daí marcharia para Jalalabad, atravessaria o Desfiladeiro Khyber (K, Fig. 4) para Peshawar e chegaria ao rio Indo; esta rota, embora mais longa, tinha mais água que a rota alternativa, através do Karakorum, e evitava os confrontos com os perigosos Turcomenos;
– a outra rota possível implicava a captura de Herat (7, Fig. 3), que seria utilizada como ponto de apoio logístico. Daí marchariam por Kandahar (Z, Fig. 4) e Quetta (Q, Fig. 4) para o Desfiladeiro Bolan (B, Fig. 4). Herat poderia ser atingida através de um acordo com a Pérsia, ou atravessando o Cáspio para Astrabad.
Em qualquer dos casos, um invasor teria de passar pelo Afeganistão! No século IV DC, Alexandre, o Grande, conquistou todo o império persa, à excepção da província Bactro‑Sogdiana, o Afeganistão de hoje. No século XIII, Genghis Khan abandonou a campanha no Afeganistão, em virtude da resistência tenaz e das pesadas baixas sofridas.15 Desde o colapso do grande império Durrani, fundado em meados do século XVIII, que o Afeganistão estava no centro de uma intensa e incessante luta pelo poder. Não existia unidade real entre os afegãos, meramente alianças temporárias, quando e onde era vantajoso para os respectivos líderes tribais. O Império Britânico sentiu isso bem na pele. “Se os afegãos, como nação, estiverem determinados a resistir aos invasores, as dificuldades tornar‑se‑iam intransponíveis”, afirmou um oficial britânico em serviço na Índia. Esta frase explica o interesse britânico em manter o Afeganistão forte e unido por um líder central em Kabul.16 Explica ainda uma grande parte da história mais moderna deste país.
Em 1833, uma enorme frota de navios de guerra russos posicionou‑se perto de Constantinopla, encerrando uma cadeia de acontecimentos iniciada dois anos antes, com uma revolta do governador do Egipto, então nominalmente parte do Império Otomano. Cercou Damasco e avançou pela Anatólia na direcção de Constantinopla com um poderoso exército, querendo destronar o sultão. Este apelou ao auxílio britânico, cujos governantes hesitaram. Mais lesto foi o Czar Nicolau I, que lhe ofereceu prontamente auxílio. Perante a situação, o sultão teve de aceitar reconhecido esse auxílio, que veio por termo à rebelião. A armada russa retirou, mas os turcos passaram a ser pouco mais do que um protectorado do Czar e, nos termos do tratado de paz, poderiam fechar os Dardanelos a todos os navios de guerra estrangeiros, se S. Petersburgo assim o desejasse. Estes desenvolvimentos colocaram de sobreaviso o Império Britânico, que via no alargamento da armada russa e nas suas posições no Cáucaso uma cabeça‑de‑ponte para lançar investidas posteriores contra a Turquia e contra a Pérsia.
Até então, os estrategistas consideravam que o poder da Rússia era apenas defensivo, a coberto da fortaleza inexpugnável com que a natureza a tinha contemplado – o seu clima e os seus desertos – conforme Napoleão tinha descoberto à sua própria custa. Mas, na realidade, desde o reinado de Pedro “o Grande”, os súbditos do Czar tinham aumentado quatro vezes, de 15 para quase 60 milhões. Ao mesmo tempo, as fronteiras da Rússia tinham avançado cerca de 800 km em direcção a Constantinopla e cerca de 1 500 em direcção a Teerão, a uma razão de mais de 50 000 km2 por ano. Na Europa, as conquistas russas sobre a Suécia montavam a metade da área original daquele reino, e sobre a Polónia eram quase iguais à área de todo o Império Austríaco. Todo este território tinha sido conseguido furtivamente, através de astúcia e pequenas invasões sucessivas, nenhuma delas suficientemente importante para causar fricções importantes com os outros poderes europeus.17
No início do século XIX, a maior parte das paragens da Ásia Central não estava cartografada. As cidades de Bukhara (10, Fig. 3), Khiva, Merv e Tashkent (12, Fig. 3) eram praticamente desconhecidas dos estrangeiros. No final do referido século, a expansão imperial czarista ameaçava colidir com o domínio e a ocupação crescentes do sub‑continente indiano, e os dois impérios jogaram um jogo subtil de exploração, espionagem e diplomacia imperialista, o já referido “Grande Jogo”, em toda a Ásia Central. O conflito ameaçou sempre uma eventual guerra entre as partes, sem contudo nunca ter chegado a um confronto directo. O ponto nevrálgico da actividade foi, como já foi dito, o Afeganistão.
Da perspectiva britânica, a expansão czarista ameaçava a Índia. À medida que as tropas russas começaram a conquistar “khanato” após “khanato”, os britânicos temeram que o Afeganistão se tornasse numa área de preparação para uma invasão russa da Índia. Mas, em vez de tentar estabelecer uma liderança forte e amistosa que pudesse proteger a Índia contra invasões russas, levou mesmo a um dos piores desastres da história militar britânica. Em 1838, a Grã‑Bretanha lançou um ataque ao Afeganistão (1.ª Guerra Anglo‑Afegã), e impôs um regime “fantoche”. O regime durou pouco tempo, insustentável sem apoio militar britânico significativo. Em 1842, a multidão atacou as tropas inglesas nas ruas de Kabul e a guarnição acordou uma retirada protegida. Infelizmente para os britânicos, os afegãos não cumpriram o acordado e cerca de 4 500 militares e 12 000 apoiantes pereceram durante a retirada. A 1.ª Guerra Anglo‑Afegã foi um golpe devastador no seu orgulho e prestígio. O desastre russo em Khiva (1839) não se pode comparar a este. No seguimento desta humilhante derrota, os britânicos refrearam as suas ambições sobre o Afeganistão.18
Entre meados de 1857 e meados de 1858, os britânicos viram‑se a braços com a “Revolta da Índia”, amotinação dos cipaios indianos. Após essa rebelião, os sucessivos governos britânicos passaram a ver o Afeganistão como um estado‑tampão. Porém, os russos continuaram a avançar para Sul, em direcção àquele estado e, em 1865, anexaram formalmente Tashkent e, três anos depois, Samarcanda (11, Fig. 3) e Bukhara. Em 1870, foi a vez de Khiva. O controlo russo estendia‑se então até à margem Norte do rio Amu‑Darya.19
O Czar Nicolau I visitou a Rainha Vitória, então com 25 anos, em Londres em 1844. A sua principal preocupação era o futuro do Império Otomano, “o homem doente da Europa”, como lhe chamava. Confessou estar muito preocupado com o que poderia acontecer quando ele se desfizesse, algo que temia estar eminente. As duas partes concordaram que o sultão deveria ser mantido no trono enquanto tal fosse possível. Concordaram também em consolidar as suas fronteiras, subjugando vizinhos problemáticos. No período de “détente” que se seguiu, os russos avançaram as suas praças‑fortes através das estepes cazaques até às margens do Syr‑Darya, cerca de 400 km a leste do Mar de Aral. Os britânicos, por seu turno, conseguiram anexar o Sind e colocar líderes favoráveis a governar o Punjab e a Caxemira.
Porém, em 1853, as boas relações cessaram. Em 1848, tinham estalado revoluções nacionalistas em várias capitais europeias (Paris, Berlim, Viena, Roma, Praga, Budapeste, etc.) entre governantes e governados, entre lei e desordem, entre aqueles que tinham e aqueles que queriam ter.
Considerando‑se o guardião dos locais santos do Cristianismo na Terra Santa, então parte integrante do Império Otomano, o Czar Nicolau invadiu as províncias setentrionais dos Balcãs, alegadamente para proteger os cristãos eslavos daquela região, ignorando um ultimato dos turcos para retirar, pondo uma vez mais os dois países em guerra. Os britânicos e os franceses, determinados a manter os russos afastados do Próximo Oriente, aliaram‑se ao sultão. A Guerra da Crimeia, que ninguém queria e que poderia facilmente ser evitada, tinha começado.
No Outono de 1854, franceses e britânicos sitiaram Sebastopol, a grande base naval russa no Mar Negro, considerando que a sua captura e destruição asseguraria a independência da Turquia. O cerco durou quase um ano e a rendição russa tornou‑se inevitável, ao mesmo tempo que o Czar Nicolau I adoecia e morria em Março de 1855. Após a rendição de Sebastopol, a Áustria ameaçou juntar‑se à coligação e o novo Czar, Alexandre III, acedeu a assinar um acordo preliminar de paz. Os russos foram fortemente penalizados na região do Mar Negro, banidas que foram todas as bases e navios de guerra daquele mar, cederam a foz do Danúbio e várias cidades capturadas aos turcos. O Mar Negro ficou desmilitarizado e a independência e integridade da Turquia garantidas. As ambições da Rússia na Europa e no Próximo Oriente tinham sido bloqueadas. Passaram 15 anos até que a Rússia denunciasse o acordo de paz e reiniciasse a construção de uma frota do Mar Negro. Ao derrotar os russos na Crimeia, a Grã‑Bretanha esperava não só afastá‑la do Próximo Oriente, mas também fazer parar a sua expansão na Ásia Central. O efeito foi, todavia, o oposto. A seguir à derrota na Guerra da Crimeia, a Rússia olhou para a Ásia Central como uma região onde a rivalidade com a Grã‑Bretanha lhe poderia ser mais favorável.20
Entretanto, o Afeganistão voltou a ser notícia. O Xá da Pérsia, aproveitando a Guerra da Crimeia, reclamou a cidade de Herat e ocupou‑a no final de 1856. Em 1863, o líder afegão reconquistou‑a.
Na década de 1850’s, os russos continuaram a expandir‑se para Leste, ao longo do rio Amur, e para Sul, em direcção à costa do Pacífico, onde hoje é Vladivostok (Fig. 5). O imperador chinês, a contas com a rebelião Taiping no Sul e, ao mesmo tempo, com as exigências francesas e britânicas para concessões de terras e outros privilégios, que degeneraram em 1856 na Segunda Guerra do Ópio, entre a China e a Grã‑Bretanha, não estava em posição de os impedir. Os russos acrescentaram assim uma enorme porção de territórios, do tamanho da França e da Alemanha juntas, ao seu já gigantesco império asiático. Em 1859, conseguiram também submeter finalmente a quase totalidade da Circassia, no Cáucaso. Em 1860 chegaram ao Pacífico, fundando Vladivostok.
Faltavam contudo os três “khanatos” independentes da Ásia Central. Aquilo que finalmente decidiu o Czar a agir, foi a Guerra da Secessão nos EUA, cujos estados sulistas tinham sido a principal fonte de abastecimento de algodão. Como resultado da guerra, o abastecimento foi cortado, afectando seriamente toda a Europa. A Rússia sabia, no entanto, que a região de Khokand (4, Fig. 3) na Ásia Central, especialmente o fértil vale de Fergana, era particularmente favorável à cultura do algodão, com potencial para produzir quanti dades substanciais desse têxtil. O Czar Alexandre III estava decidido a conquistar esses campos de algodão o mais rapidamente possível. Em 1863, a Rússia estava preparada para penetrar na Ásia Central, se bem que gradualmente. O Ministro dos Negócios Estrangeiros do Czar declarou no final de 1864, num memorando para os seus embaixadores na Europa: “A posição da Rússia na Ásia Central é idêntica à de todos os estados civilizados que entram em contacto com populações nómadas e semi‑selvagens, que não possuem uma organização social estável. Nesses casos, acontece sempre que o estado mais civilizado é forçado, no interesse da segurança das suas fronteiras e das suas relações comerciais, a exercer uma certa ascendência sobre os vizinhos com um carácter mais turbulento e agressivo, que os torna indese jáveis”. É interessante verificar a semelhança entre esta posição e a expressa no final do século XIX por Theodore Roosevelt, presidente dos EUA e conhecido pelo “corolário Roosevelt”.
Os “khanatos” de Khiva, Bokhara e Khokand dominavam, entre eles, uma vasta região de desertos, oásis e montanhas, com o tamanho de metade dos EUA, que se estendia da margem oriental do Mar Cáspio até ao Pamir. Mas, para além destas três cidades‑estado, existiam outras cidades importantes: uma era Samarcanda, capital do extinto império de Tamerlane, agora parte dos domínios de Bokhara; outra era Kashgar (5, Fig. 3), sob o domínio chinês, separada das outras por altas montanhas; finalmente, Tashkent, anteriormente independente, com os seus pomares, vinhas, pastagens e uma população de 100 000 pessoas, a cidade mais rica da Ásia Central, possessão de Khokand.21 Em 1862, Samarcanda foi absorvida pelo Império Russo, deixando apenas o “khanato” de Khiva a fazer frente ao Czar. Em 1865 ocuparam Tashkent, declarando que a ocupação era temporária, o que se sabia não ser verdade pois, algum tempo depois, foi constituído o novo “Governo Geral” do Turquestão, o que significava que os “khanatos” tinham os dias contados. Existiam três razões principais para isso:
– antes de tudo, o receio que os britânicos chegassem ali primeiro, vindos do Sul, e monopolizassem o comércio;
– depois vinha a razão do orgulho imperial; bloqueados na Europa e no Próximo Oriente, pretendiam a frustração demonstrando o seu valor militar na conquista militar da Ásia;
– finalmente, o factor estratégico; tal como o Báltico era o “calcanhar de Aquiles” da Rússia, no caso de disputa com a Grã‑Bretanha, há muito que se sabia que o ponto mais vulnerável do Império Britânico era a Índia; Tashkent era considerada a chave para a conquista e o domínio da Ásia Central.
Começaram também a melhorar significativamente as suas comunicações na Ásia Central: uma nova linha férrea vinha de S. Petersburgo até Gorki (antiga Nijni Novgorod), no Volga, onde circulavam cerca de 300 barcos a vapor até ao Mar Cáspio. O modo mais óbvio de ligar a Ásia Central à Rússia europeia era construir um porto na margem oriental do Cáspio. Eventual mente, quando Khiva fosse conquistada e os perigosos Turcomenos pacificados, uma linha férrea podia ser construída através do deserto ligando Bokhara, Samarcanda, Tashkent e Khokand.22
Em 1867, a Rússia vendeu o Alasca aos EUA por sete milhões de dólares, em virtude de, segundo eles, não ser facilmente defensável nem economicamente viável!...23
Em 1870, renunciou unilateralmente às cláusulas do acordo de paz sobre o Mar Negro, após a Guerra da Crimeia, o primeiro de uma série de movimentos que iriam fortalecer grandemente a sua posição política e estratégica na região.
No verão de 1871, ocupou o território muçulmano de Ili (8, Fig. 3), que dominava importantes passagens para a Sibéria meridional, e que se tinha recentemente rebelado contra a soberania chinesa. Tinha sido através destes desfiladeiros que as hordas de Genghis Khan tinham, séculos antes, invadido a Rússia. Este território era também rico em minérios e servia como celeiro daquela desolada região.
Em 1873, o Czar Alexandre II decidiu efectuar um ataque demolidor a Khiva. Após os revezes anteriores, em 1717 e 1839, a Rússia não queria falhar, e lançou um ataque de três direcções diferentes: de Tashkent, de Orenburg e de Kransnovodsk (13, Fig. 3) (hoje Turkmenbashi). Khiva finalmente capitulou.
Com esta acção, a Rússia adquiriu o controlo da navegação no baixo Amu‑Darya, com os correspondentes benefícios comerciais e estratégicos, bem como o domínio total da margem oriental do Cáspio. Conseguiu também uma base a partir da qual poderia ameaçar a independência da Pérsia e do Afeganistão e, à distância, a Índia. Num período de 10 anos, a Rússia tinha anexado um território com a área de metade dos EUA e conseguido uma barreira defensiva em toda a Ásia Central, do Cáucaso a Khokand, ocupada em 1875.24
Entretanto, na Europa, a Rússia voltou a envolver‑se com as outras potências, devido a divergências sobre as possessões do Império otomano nos Balcãs. O problema iniciou‑se em 1875 na Bósnia‑Herzegovina, de onde se espalhou rapidamente à Sérvia, ao Montenegro e à Bulgária. Tropas turcas mataram e massacraram alguns milhares de cristãos búlgaros. Este massacre levou o Czar, que se proclamava protector dos cristãos sob soberania turca, a um conflito latente com o Sultão. Em 1877 os russos declararam guerra à Turquia e iniciaram o avanço para Constantinopla, através dos Balcãs e, simultaneamente, da Anatólia Oriental. A resistência turca fracassou e, em 1878, os exércitos russos estavam às portas de Constantinopla, prestes a realizar o seu sonho de séculos. Porém, encontraram também a esquadra britânica fundeada nos Dardanelos, o que fez o Czar Alexandre II recuar e aceitar uma trégua com os turcos. A Bulgária adquiriu a sua independência do Império Otomano, contra a opinião britânica, e a Rússia conseguiu territórios na Anatólia Oriental. A Áustria‑Hungria aliou‑se à Grã‑Bretanha sobre o problema da Bulgária, ocupando a Bósnia‑Herzegovina, e os britânicos colocaram tropas em Malta e ocuparam Chipre, numa tentativa de fazer recuar as tropas russas de Constantinopla. No final, a crise resolveu‑se sem recurso à guerra, tendo o Sultão conseguido recuperar dois terços do território perdido.25
A tensão voltou a crescer em 1878, quando a Rússia enviou uma missão diplomática a Kabul, sem convite prévio. A Grã‑Bretanha exigiu que o homem forte do Afeganistão, Sher Ali, aceitasse também uma missão britânica. Esta foi recusada e, em retaliação, uma força de 40 000 homens atravessou a fronteira, iniciando a 2.ª Guerra Anglo‑Afegã. Esta incursão foi quase tão desastrosa como a primeira e em 1881 os ingleses voltaram a retirar de Kabul. O trono foi oferecido a Abdur Rahman, que aceitou que a Grã‑Bretanha orientasse a sua política externa enquanto ele consolidava a sua posição interna. Conseguiu dominar as rebeliões internas com eficácia brutal e reunir a maior parte do país sob o governo central.26 Os britânicos tinham conseguido assim estabelecer um estado‑tampão razoavelmente estável e com um líder amis toso, ao mesmo tempo que tinham erradicado a influência russa em Kabul.
Em 1879, quatro anos após ter anexado Khokand, a Rússia tentou atacar a cidade turcomena de Geok‑Tepe (9, Fig. 3), no limite Sul do deserto Karakum, a meio caminho entre o Cáspio e Merv, mas foi rechaçada. Foi a sua pior derrota na Ásia Central desde o ataque de má memória a Khiva, em 1717.27
Em 1881, os russos cercaram Geok‑Tepe de novo, desta vez com êxito. Em 1884 tomaram Merv, formalmente pertencente à Pérsia, levando finalmente as tribos turcomenas à capitulação e à submissão à soberania de S. Petersburgo. A rendição de Merv, conseguida de modo considerado militarmente pouco ortodoxo, foi considerada pelas autoridades britânicas, na Índia e em Londres, como sendo “de longe o passo mais importante dado pela Rússia para ameaçar a Índia”. Estas preocupações britânicas baseavam‑se na linha férrea que os russos tinham começado a construir na direcção de Merv, que quando completada, podia facilmente fazer a ligação entre as cidades e guarnições da Ásia Central e transportar tropas até à fronteira afegã. Após uma longa correspondência diplomática, representantes das duas potências (Comissão Conjunta da Fronteira Afegã) reuniram‑se perto de Merv, com a finalidade de delinear cientificamente a fronteira entre a Transcáspia russa, a Pérsia e o Afeganistão.28
Em 1884, a expansão russa despoletou nova crise quando ocupou o oásis de Pandjeh, a meio caminho entre Merv e Herat, no Afeganistão. O Xá da Pérsia, profundamente alarmado pela agressividade russa, pediu à Grã‑Bretanha para ocupar Herat antes dos russos. À beira da guerra, a Comissão Conjunta acordou que a Rússia devia abandonar Merv, mas podia reter Pandjeh. O acordo estabelecia a fronteira Norte do Afeganistão no Amu‑Darya, com perdas substanciais de território.29 A Rússia tinha conseguido mais uma vez aquilo que queria, demonstrando ser mestre na arte do “facto consumado”.
Em 1895, Londres e S. Petersburgo chegaram finalmente a acordo sobre a fronteira entre a Ásia Central russa e o Afeganistão oriental. A “falha” do Pamir estava finalmente fechada.
Em 1907, a Convenção Anglo‑Russa finalizou o período clássico do “Grande Jogo”, com a aceitação russa de que a política do Afeganistão ficava sob controlo britânico, e que conduziria todas as suas relações com aquele país através da Grã‑Bretanha, desde que esta garantisse a permanência do regime. As fronteiras manter‑se‑iam.
O Caminho‑de‑Ferro Transcaspiano foi iniciado em 1880. Em 1888 atingiu Bokhara e Samarcanda e encontrava‑se a caminho de Tashkent. A linha férrea corria paralela à fronteira com a Pérsia durante cerca de 500 km, represen tando, com a sua capacidade de transportar tropas e artilharia, uma “espada de Damócles” sobre a cabeça do Xá. Alterava drasticamente o equilíbrio estratégico na região.30
Mas a Rússia continuava a sonhar abrir para si todo o Extremo Oriente, com os seus recursos e mercados, antes dos outros “predadores” o conse guirem. O plano envolvia a construção do maior caminho‑de‑ferro jamais visto, o Trans‑Siberiano (Fig. 6). Teria mais de 7 200 km de Moscovo a Vladivostok e seria capaz de transportar mercadorias e matérias‑primas em ambos os sentidos em menos de metade do tempo que demorariam por via marítima, causando assim sérios embaraços à hegemonia da Grã‑Bretanha sobre as rotas marítimas.
Por esta altura, as maiores potências europeias estavam já empenhadas numa corrida desenfreada para conseguirem a sua parte do moribundo Império Manchu e do que lhe estava associado. Os alemães, apesar de terem partido tarde na corrida colonial, foram os primeiros a solicitar uma base naval e uma estação de carvão, algures na costa Norte da China para a sua frota do Extremo Oriente. Nas escaramuças que se seguiram, a França e a Grã‑Bretanha obtiveram outras concessões, enquanto a Rússia, fazendo o papel de protectora da China, obteve o porto de águas quentes de Port Arthur (hoje Dalian) (1, Fig. 5) e as terras em redor. Os EUA juntaram‑se também ao “leilão”, e adquiriram em 1898 o Hawai, Guam, Wake e as Filipinas, cobiçadas também por outras potências.
Em 1900, as potências europeias foram apanhadas de surpresa pela “Revolta dos Boxers”, um sentimento de forte ressentimento contra os “diabos estrangeiros” que, tirando partido da fraqueza da China, estavam a conseguir portos e outros privilégios comerciais e diplomáticos. Foram massacrados missionários cristãos, o Cônsul francês foi linchado, tendo a revolta sido dominada por uma força de intervenção de seis países que ocupou Pequim. Porém, a revolta, apesar de dominada, viria a ter consequências importantes na Manchúria, onde os russos temiam pelo seu novo caminho‑de‑ferro e onde, devido a isso, colocaram 170 000 homens.
S. Petersburgo foi fortemente pressionada para retirar esta força após a revolta ter sido dominada, mas apenas retirou cerca de um terço dela, e com grande relutância. Ficou claro que, uma vez mais, os russos jogaram no “facto consumado”.
O Japão tomou consciência, em meados do século XIX, de que se não quisesse ser colonizado como a Índia ou despedaçado como a China, devia ter um exército europeu e construir um império pela guerra.31 Tinha observado com grande apreensão o crescimento militar e naval da Rússia no Extremo Oriente, que ameaçava directamente os seus próprios interesses na região. Tinha notado particularmente a infiltração russa na Coreia, o que a colocava perigosamente perto do seu território. O Japão tinha ainda consciência que o tempo jogava contra si, pois quando o caminho ‑de‑ferro Trans‑Siberiano estivesse concluído, os russos poderiam trazer tropas em grande número, artilharia pesada e outro material de guerra. Por estas razões, os responsáveis japoneses decidiram enfrentar a ameaça russa e, em 1904, atacaram sem aviso a base naval russa de Port Arthur. A Guerra Russo‑Japonesa tinha começado.
Brilhantemente liderada pelo Almirante Togo, a frota japonesa, apesar de inferior em número e do fogo cerrado das baterias de artilharia de terra russa, conseguiu infligir baixas importantes à frota russa e minar‑lhe o moral. Tudo correu mal aos russos. Encontraram‑se sitiados e prisioneiros na base naval fortemente defendida, à medida que os japoneses, tacticamente superiores e melhor comandados, dominavam o mar. O Czar Nicolau II decidiu então enviar a frota do Báltico para o Extremo Oriente, à volta de três continentes, numa tentativa desesperada de terminar o bloqueio a Port Arthur. O conflito durou 18 meses e, no início de 1905, Port Arthur capitulou. Um mês depois, caiu o fortemente defendido centro ferroviário de Mukden (hoje Shenyang) (2, Fig. 5), 400 km a Norte de Port Arthur, que os peritos russos consideravam praticamente inexpugnável. A perda das suas praças‑fortes no Oriente para os “macacos amarelos” abalou profundamente o prestígio russo no mundo, especialmente na Ásia. As más notícias chegaram à esquadra do Báltico quando esta se encontrava ainda em Madagáscar. Apesar disso, foi determinado que esta prosseguisse com a finalidade de reconquistar os mares do Oriente aos japoneses. Estes, contudo, estavam à sua espera nos Estreitos de Tsushima, entre a Coreia e o Japão, e infligiram‑lhe uma derrota catastrófica. A humilhação russa foi total e o sonho do Czar Nicolau II de construir um novo império no Oriente pereceu para sempre. A paz foi mediada pelos EUA e assinado um acordo de paz. Ambos os países acordaram em abandonar a Manchúria, que foi devolvida à soberania chinesa. Port Arthur e o controlo de partes do Trans‑Siberiano foram transferidos para o Japão. A Coreia foi declarada independente, apesar de ficar na esfera de influência japonesa. Indirectamente, a Guerra Russo‑Japonesa levou à queda, 13 anos depois, da monarquia russa.
Em Outubro de 1917, a revolução russa levou ao colapso de toda a frente oriental da 1.ª Guerra Mundial, do Cáucaso ao Báltico. Os bolcheviques rasgaram todos os tratados assinados pelos seus predecessores. Longe de estar terminado, o “Grande Jogo” recomeçaria com renovado vigor e uma nova face, pois Lenine pretendia “pegar fogo ao Oriente” com o “evangelho” do Marxismo.32
Os Czares tinham permitido e apoiado as religiões e as instituições sociais existentes, bem como jornais e escritos em línguas turcas e persa. Esta descentralização foi destruída pela revolução bolchevista em 1917, que introduziu novas noções de nacionalidade e dividiu os territórios etnicamente heterogé neos em regiões administrativas que não respeitaram as etnias existentes. Em 1936, foram criadas as “Repúblicas Socialistas Soviéticas” da Arménia, Azerbaijão, Cazaquistão, Geórgia, Quirguizistão, Tadjiquistão, Turcomenistão e Uzbequistão.33
A revolução bolchevique de 1917 anulou os tratados existentes e deu início a uma segunda fase do “Grande Jogo”. A 3.ª Guerra Anglo‑Afegã (1919) foi precipitada pelo assassinato do líder de então, Habibullah Khan. O seu sucessor, Amanullah, declarou independência total e atacou a fronteira Norte da Índia britânica, embora com pouquíssimos resultados. O Acordo de Rawalpindi concedeu autodeterminação completa ao Afeganistão em política externa. Em Maio de 1921, o Afeganistão e a URSS assinaram um tratado de amizade. A URSS fornecia a Amanullah ajuda monetária, tecnológica e militar, fazendo desvanecer a influência britânica. Apesar disto, as relações soviético‑afegãs continuaram equívocas, tendo Amanullah oferecido abrigo aos muçulmanos fugidos da URSS, bem como aos nacionalistas indianos exilados.
O Reino Unido impôs sanções económicas e diplomáticas insignificantes, temendo que Amanullah escapasse à sua esfera de influência e percebendo que a política do governo afegão era controlar todas as tribos de língua pashtu, de ambos os lados da fronteira.
Com o advento da 2.ª Guerra Mundial, em 1940, os interesses da URSS e do Reino Unido convergiram na expulsão de um grande contingente não diplomático alemão, tido como envolvido em actividades de espionagem.
Com o fim da 2.ª Guerra Mundial e o início da “guerra‑fria”, os EUA substituíram o Reino Unido como poder global, afirmando a sua influência no Médio Oriente na extracção de petróleo, contenção da URSS e acesso a outros recursos. Este período foi baptizado por vários analistas no início dos anos 1990’s, como uma luta mais abrangente, o “Novo Grande Jogo”, face à analogia dos acontecimentos envolvendo a Índia, o Paquistão, o Afeganistão e, mais recentemente, as novas repúblicas da Ásia Central. Segundo Lutz Kleveman, a campanha russa no Afeganistão foi apenas mais um mero episódio desse “Novo Grande Jogo”.34
Hoje, os actores são diferentes e as regras do jogo neocolonial são muito mais complexas do que as de há um século atrás. Centraliza‑se nas reservas energéticas do Mar Cáspio (petróleo e gás natural). Nas suas margens e nos seus fundos, estão as maiores reservas inexploradas de combustíveis fósseis.

4. O Eurasianismo

Na geopolítica russa do final do século XIX, o Eurasianismo lutava por se sobrepor às tendências reformistas pró‑ocidentais e ao movimento eslavófilo. O papel ímpar da Rússia era juntar a rica diversidade da Eurásia numa “terceira via”, consistente com a cultura e as tradições da Ortodoxia e da Rússia.35
Baseado nas ideias de Mackinder, o Eurasianismo procurava estabelecer a identidade ímpar da Rússia, distinta da Ocidental e focava a sua atenção para Sul e Leste, sonhando numa fusão entre as populações ortodoxas e muçul manas.36 Rejeitava categoricamente o projecto do Czar Pedro para “europeizar” a Rússia, mas os termos em que se idealizava o país eram idênticos aos de um império europeu, pela simples circunstância que englobava territórios, a maioria dos quais se localizavam na Ásia, em que um grupo nacional dominava outras nacionalidades subordinadas. Defendia que a Rússia era claramente não europeia porque a vasta região ocupada, apesar de situada entre os dois continentes – Europa e Ásia – era geográfica e, logo, objectivamente separada de ambos. Era um continente em si mesmo, denominado Eurásia; além disso, a cultura russa tinha sido maioritariamente moldada por influências vindas da Ásia.37
Durante a 1.ª Guerra Mundial, surgiram os primeiros dilemas e ambiguidades, quando a Rússia se aliou à Grã‑Bretanha, à França e aos EUA, lutando contra os seus aliados geopolíticos naturais – Alemanha e Áustria – com o intuito de libertar os seus “irmãos eslavos” do domínio turco, mas também mergulhando numa revolução e numa guerra civil catastróficas.38
Estas ideias acerca da geopolítica da Eurásia e do destino do Império Russo, foram retomadas no período a seguir à 1.ª Guerra Mundial pelo etnólogo e filólogo Nikolai S. Trubetskoy, nobre russo branco, pelo historiador Peter Savitsky, pelo teólogo ortodoxo G.V. Florovsky e, posteriormente, pelo geógrafo, historiador e filósofo Lev Gumilev, defendendo a luta cultural e política entre o Ocidente e o distinto sub‑continente da Eurásia, liderado pela Rússia. Aqueles teóricos da geopolítica eurasiana analisaram com profundi dade e atenção os impérios de Genghis Khan e Otomano, entre outros, tendo‑se encontrado várias vezes em Praga com Karl Haushofer.39 Gumilev foi o criador da “teoria da etnogénese”, pela qual as nações são originárias da regularidade do desenvolvimento da sociedade, e da “teoria da paixão”, a capacidade humana para se sacrificar em prol de objectivos ideológicos. Esteve 16 anos presos no tempo de Estaline, combateu na 2.ª Guerra Mundial, esteve num campo de concentração nazi e voltou a cumprir uma sentença de 10 anos no Gulag, por actividades contra a ideologia marxista‑leninista.40
A revolução de 1917 tinha terminado com a existência formal do Império Russo, e Trubetskoy adaptou o seu pensamento ao novo estado de coisas. Os russos, antes considerados como os “donos e proprietários” de todo o território, passaram a ser “um povo entre outros” que partilhavam a autoridade. O conceito de separatismo não era aceitável para Trubetskoy, que insistia na indivisibilidade da grande região que correspondia à Eurásia, uma ideia de integralidade geográfica, económica e étnica, distinta quer da Europa, quer da Ásia. Segundo Savitsky, a Eurásia tinha sido modelada pela Natureza, que tinha condicionado e determinado os movimentos históricos e a interpenetração dos seus povos, cujo resultado tinha sido a criação de um único Estado. Devido à unidade da região derivar da Natureza, possuía a qualidade transcendente dessa mesma Natureza.41
Trubetskoy afirmava que “o substrato nacional do antigo Império Russo e actual URSS, só pode ser a totalidade dos povos que habitam este Estado, tido como uma nação multiétnica peculiar e que, como tal, possuía o seu próprio nacionalismo. Chamamos a essa nação Eurasiana, o seu território Eurásia e o seu nacionalismo Eurasianismo.”42
Para Alexander Dugin, o principal ideólogo eurasianista da actualidade, as civilizações marítimas estiveram sempre ligadas ao “primado da economia sobre a política”. Segundo ele, Mackinder demonstrou claramente que, nos últimos séculos, a cultura marítima foi sinónimo de “Atlantismo”, personifi cado no Reino Unido e nos EUA, defendendo a prioridade do individualismo, do liberalismo e da “democracia protestante”. Ao contrário, o Eurasianismo pressupunha autoritarismo, hierarquia e comunitarismo, colocando o Estado nacional acima dos interesses individuais e económicos. Dugin afirmou que a liderança de Lenine tinha um substrato eurasiano pois, contrariamente à doutrina marxista, preservou a grande unidade do espaço eurasiano do Império Russo. Por seu lado, Trotsky insistia na exportação da revolução, na sua mundialização, e considerava a URSS como algo efémero e transitório, algo que desapareceria perante a vitória planetária do comunismo; as suas ideias traziam, por isso, a marca do “Atlantismo”! Para o mesmo autor, “a grande catástrofe eurasiana foi a agressão de Hitler contra a URSS. Após a guerra fratricida e terrível entre dois países geopolítica, espiritual e metafisicamente chegados, a vitória da URSS foi de facto equivalente a uma derrota”.43

5. A “Guerra‑Fria”

Apesar da “guerra‑fria” ter sido primária e fundamentalmente um confronto entre ideologias e não sobre geopolítica – alguns autores chamam‑lhe “geopolítica ideológica” – a Geopolítica desenvolvida pelos pensadores europeus do final do século XIX foi uma matéria importante para Estaline. O Pacto de Varsóvia, integrando os países da Europa de Leste na esfera soviética, insere‑se nesse projecto geopolítico como oposição à OTAN, criando uma “zona tampão” (“buffer zone”) de estados‑satélite que impedissem a repetição dos traumas causados pelas invasões de Napoleão e de Hitler. A “guerra‑fria” fez com que a URSS utilizasse meios militares na sua zona geopolítica para fazer face a levantamentos populares na Polónia, na Hungria, na Checoslováquia e no Afeganistão, com justificações equivalentes à teoria americana do “dominó”44.
A justificação para esta atitude ficou conhecida como a “doutrina Brezhnev” (1968), onde se articulavam os limites dentro dos quais os Estados‑satélite comunistas da Europa Oriental podiam operar. Qualquer decisão desses Estados que pudesse por em causa o socialismo nesse país, os interesses fundamentais do socialismo noutros países, ou o movimento comunista a nível mundial, justificavam a intervenção militar soviética, estando o exército vermelho apenas a ajudar o povo a exercer a sua autodeterminação num sentido ideológica e geopoliticamente correcto.45 “Cada Partido Comunista é responsável não só perante o seu povo, mas também perante todos os países socialistas e o inteiro movimento comunista. (...) A soberania individual de países socialistas não se pode sobrepor aos interesses do socialismo e do movimento revolucionário mundiais. (...) Cada Partido Comunista é livre de aplicar os princípios do Marxismo‑Leninismo e do socialismo no seu país, mas não se pode desviar desses princípios”46
O “encarregado de negócios” americano em Moscovo em 1946, George Kennan, expôs o seu conceito sobre a URSS como sendo uma potência com uma determinação e uma necessidade, históricas e geográficas, de se expandir. Esta era a essência da URSS e nada podia ser feito contra tal; não se podiam estabelecer acordos com a URSS.47
A partir de 1937, como em muitos outros domínios, a reflexão estratégica deixou de existir na URSS. A URSS devia ser uma fortaleza, simultaneamente esquadrinhada, fechada no seu interior (Gulag), e hermeticamente fechada sobre o exterior. O ensino da Geopolítica foi interdito na URSS, por ser a disciplina maldita de uma Alemanha malévola.48 Toda a ciência se tornou marxista‑leninista, sendo Estaline o grande mestre. Durante os últimos anos do estalinismo, apesar do aparecimento do átomo e dos foguetões, a reflexão continuou bloqueada. De facto, o que poderiam pesar tais evoluções nos armamentos face às teorias enunciadas pelo “genial” Estaline? Apenas após a sua morte se retomou, timidamente, a reflexão sobre uma eventual guerra futura.
A ideia da não‑inevitabilidade das guerras entre os dois sistemas políticos foi aflorada por Estaline apenas na sua última intervenção pública, em Outubro de 1952, provavelmente influenciado pelas ideias de Malenkov, o seu delfim. Foi a partir dessa altura que os soviéticos aceitaram o dogma da coexistência pacífica, que iria ser retomado mais tarde, face à evolução da relação de forças entre os dois sistemas, na qual a arma atómica tinha um lugar de destaque. Contudo, durante a primeira metade da década de 50, antes de conseguir capacidade nuclear intercontinental, a URSS viveu aterrorizada pela eventualidade de uma ofensiva ocidental.49
Desde o final da 2.ª Guerra Mundial, uma figura chave na geopolítica soviética foi o General Sergey M. Shtemenko, que chegou a ser, durante os anos 60’s, comandante das forças armadas do Pacto de Varsóvia e Chefe do Estado‑Maior General da URSS. Nos seus planos estratégicos, estava, desde 1948, a penetração económico‑cultural no Afeganistão, afirmando que aquele país tinha um papel geopolítico especial, permitindo o acesso soviético ao Índico. Khrutschev tinha conceitos geoestratégicos exclusivamente baseados no emprego de mísseis intercontinentais, em detrimento das outras armas. Estava preocupado com a América Latina e insistia no conceito de “guerra nuclear intercontinental relâmpago”. Ao contrário, Shtemenko já tinha alertado que não seria sensato basear a segurança da URSS apenas em mísseis balísticos intercontinentais.50
Entre o fim dos anos 60’s e a metade dos anos 80’s, a marinha soviética conheceu uma ascensão considerável, resultado da conjugação de um projecto político, de uma visão estratégica para fazer da URSS uma potência mundial e de uma conjuntura internacional favorável a esse projecto. “Khrutschev teve bastante pena de não ter porta‑aviões durante a crise de Cuba”, dizia‑se em Moscovo. Exigiu por isso uma modernização das forças navais e o desenvolvimento de uma frota de alto mar. Por essa altura, a descolonização criou, principalmente em África, uma série de vazios políticos que interessava preencher. Este programa de construção naval reforçou o empenhamento da URSS numa política realmente mundial.
Porém, a própria configuração do território soviético não permitia o acesso permanente a mares abertos, quer por razões climatéricas (Murmansk e Vladivostok), quer por estarem “fechados” por estreitos controlados pela OTAN (estreitos turcos e dinamarqueses). Além disso, a qualidade dos navios não podia rivalizar com a dos EUA. Por isso, apesar do esforço enorme de aumento da capacidade naval, a URSS nunca conseguiu apresentar‑se como uma potência marítima capaz de conseguir obter o controlo dos mares.51
Um dos herdeiros das ideias geopolíticas e geoestratégicas de Shtemenko foi o Marechal N. V. Ogarkov, Chefe do Estado‑Maior General das forças armadas soviéticas entre 1977 e meados dos anos 80’s. Foi ele o responsável pela operação contra a Checoslováquia, em que os serviços de informações da OTAN foram confundidos por uma desinformação excelentemente conduzida, e também pela adopção de uma opção doutrinária de guerra convencional limitada na Europa, como objectivo de planeamento e modernização dos armamentos convencionais.52 Ele afirmava que a função dissuasora das armas nucleares estratégicas era um assunto arrumado e que era conveniente modernizar os armamentos clássicos. “Uma guerra mundial pode começar a ser travada, por um tempo determinado, apenas com armamentos convencionais”. Vislumbra‑se aqui uma nova concepção estratégica, um conflito desenrolado exclusivamente na Europa com armas convencionais, justificação para o acréscimo do poder militar convencional no teatro europeu. Esta dissociação entre guerra total e guerra limitada, fez com que os soviéticos aceitassem sentar‑se à mesa das negociações SALT a partir de 1968. As negociações sobre a limitação de armas estratégicas contribuíram para o aparecimento de uma nova geração de pensadores estratégicos militares na URSS.
Mas, para levar a cabo tais operações em profundidade, os soviéticos tinham de contar com o desenvolvimento muito rápido da tecnologia ocidental de armamentos de nova geração, nos anos 70’s e 80’s. Ora, a indústria soviética de armamento não parecia estar à altura dessa “revolução industrial”, face à obsolescência do seu aparelho de produção e dos seus métodos de gestão. Daí, o grito de alarme de Ogarkov em 1984.
O debate foi pois geopolítico e geoestratégico mas, ao mesmo tempo, orçamental e estrutural, e surgiu bem antes da SDI.
O discurso de Brezhnev de 18 de Janeiro de 1977 marcou a adopção formal do conceito de dissuasão na doutrina estratégica soviética. A partir de 1979, multiplicaram‑se as referências, não só à dissuasão, mas também à ideia do absurdo de uma guerra nuclear e à impossibilidade de obter uma vitória numa tal guerra. Em 1981, Brezhnev afirmou que “o equilíbrio estratégico‑militar entre a URSS e os EUA, entre a OTAN e o Pacto de Varsóvia, servia objectivamente a manutenção da paz no planeta”.
O reconhecimento da dissuasão pelo poder soviético teve como resultado a inércia de nada fazer em matéria de modernização dos armamentos convencionais e, portanto, indirectamente, em reformar o conjunto da economia soviética. Mas os dados estratégicos modificaram‑se consideravelmente a partir de 1983, após o lançamento da SDI.53 Na década de 80’s, tinha surgido uma nova geração de burocratas soviéticos, ansiosos por salvar o sistema comunista da estagnação, da corrupção e da hiper‑extensão imperial (por demais evidente na campanha militar desastrosa no Afeganistão). O nome mais sonante dessa geração foi Mikhail Gorbachev. Ao declarar que “nenhum país detém o monopólio da verdade”, assinalou o fim da “doutrina Brezhnev” como o princípio geopolítico orientador das relações entre a URSS e os regimes comunistas da Europa Oriental.54
A sua chegada ao poder, em 1985, apressou a mudança das atitudes. Para os líderes ocidentais, a vontade soviética de renunciar à “Doutrina Brezhnev” e de desistir da “luta anti‑imperialista” no Terceiro Mundo, eram sinais evidentes de que a “perestroika” era um facto real.
Quando o comunismo soviético entrou em colapso, Gorbatchev e os seus sucessores lideravam um Estado suficientemente poderoso para controlar um povo ainda amedrontado, mas demasiado fraco para administrar uma economia aberta. A evolução que se tem verificado na Rússia, sobre os escombros do regime comunista, é um processo em que as transformações políticas e económicas têm acontecido simultaneamente, mas com primazia para as políticas, tornando‑o assim ainda mais difícil. A realidade é que não existe cultura democrática na Rússia. Há muitos séculos que é um Estado imperial, muito antes de ser comunista. Este facto é fundamental para se poder analisar com rigor a sua possível evolução.

6. O “Novo” Eurasianismo

O que irá ser a Rússia? Um Estado‑Nação ou um império multinacional? Zbigniew Brzezinski afirma que “a Rússia será um império ou um estado democrático, mas nunca ambos ao mesmo tempo”.55
A evolução da orientação geopolítica da Rússia liga‑se à busca de uma identidade pós‑soviética e ao seu lugar no mundo após o colapso do comunismo.
Em grandes linhas, existem duas aproximações quanto às opções geopolíticas da Rússia: os internacionalistas liberais ou “ocidentalizadores” e os eurasianistas. Os primeiros (Gorbatchev, Kozyrev, Yeltsin, Trenin, etc.) crêem que os valores ocidentais do pluralismo e da democracia são universais e aplicáveis à Rússia. Os segundos (Dugin, Zhirinovsky, Zyuganov, Solzhenitsyn, etc.) têm linhas ideológicas nacionalistas e patrióticas que acreditam que, devido às particularidades geográficas, históricas, culturais e mesmo psicológicas, a Rússia não pode ser classificada como Ocidental ou Oriental, sendo um Estado forte e dominante na Eurásia. O Eurasianismo conseguiu reconciliar filosofias muitas vezes contraditórias como o comunismo, a religião ortodoxa e o fundamentalismo nacionalista, conquistando adeptos ao longo de todo o espectro político.
Contra o “Atlantismo”, personificando o primado do individualismo, liberalismo económico e democracia protestante – representado primariamente pelo bloco anglo‑saxónico – ergue‑se o “Eurasianismo”, personificando princípios de autoritarismo, hierarquia e o estabelecimento de um comunitarismo, sobrepondo‑se às preocupações de índole individualista e económica.56
O Partido Eurasianista foi fundado por Alexander Dugin em Maio de 2002, supostamente com apoio organizacional e financeiro do Presidente Putin que, desde que assumiu a presidência da Rússia, em Dezembro de 1999, alterou o rumo da política externa de Moscovo. De facto, o Eurasianismo, essa obscura e velha moldura geopolítica e ideológica, ganhou rapidamente impor tância, emergiu como uma força maioritária nos meios da política externa russa e, mais significativo ainda, é cada vez mais evidente na conduta daquela política pelo Presidente. Grande parte deste novo alento do Eurasianismo deve‑se a Dugin, seu principal ideólogo. Apesar do seu passado obscuro (antigo membro duma organização radical anti‑semita e, posteriormente, da Revolução Conservadora racista, Dugin é hoje considerado o principal geopolítico russo e é conselheiro de assuntos internacionais de várias figuras proeminentes da Duma. As suas ideias têm influenciado o líder do Partido Comunista, Gennady Zyuganov, o ex‑ministro da defesa Yevgeny Primakov, Vladimir Zhirinovsky e outros altos dignatários.
Dugin analisou com profundidade e atenção os trabalhos de Trubetskoy, Savitsky e Florovsky, adaptou as teorias tradicionais de Mahan e Mackinder e postulou uma luta pelo domínio internacional entre as potências terrestres – personificadas na Rússia – e as potências marítimas – principalmente os EUA e o Reino Unido. Como resultado, Dugin crê que os interesses estratégicos da Rússia devem ser orientados de um modo anti‑ocidental e para a criação de um espaço Eurasiático de domínio russo. Por outras palavras, a Rússia não poderá subsistir fora da sua essência imperial, pela sua localização geográfica e caminho histórico.57 A Rússia é uma civilização distinta, diferente do Ocidente nos seus valores culturais, bem como nos interesses e preocupações de segurança.
A ideia de Mackinder sobre a oposição geopolítica entre potências marítimas e terrestres, foi levada ao extremo por Dugin, que postulou que os dois mundos não são apenas regidos por imperativos geoestratégicos antagónicos, mas também são opostos culturalmente. As sociedades terrestres, teoriza ele, tendem normalmente a ter sistemas de valores e tradições absolutas e centralizadoras, enquanto que as sociedades marítimas são inerentemente liberais.
Muitos intelectuais russos que um dia pensaram que a vitória da sua pátria seria um resultado inevitável da história, colocam agora a sua esperança em ver regressar a Rússia à grandeza numa teoria que é, em muitos aspectos, o oposto do materialismo dialéctico. A vitória será encontrada na geografia, não na história; no espaço, não no tempo.58
“O novo império eurasiano será construído no princípio fundamental do inimigo comum: a rejeição do ‘Atlantismo”, controlo estratégico dos EUA e na recusa em aceitar valores liberais para nos dominar. Este impulso civilizacional comum será a base de uma união política e estratégica”. Dada a presente situação internacional pouco influente da Rússia, Dugin reforça a necessidade de construir alianças que sirvam para aumentar o domínio político e económico. Assim, põe ênfase num eixo Moscovo‑Teerão e na criação de uma zona de influência iraniana no Médio Oriente. Na Europa, advoga um eixo Moscovo‑Berlim, que vê como essencial para a criação de um “cordão sanitário” contra a influência ocidental no antigo bloco soviético.59
Por outro lado, o Eurasianismo opõe‑se também ao “wahabismo satânico”, que ameaça e põe em risco a sua fronteira Sul, aquilo a que W. Churchill chamou “o baixo‑ventre da Rússia”, para onde se dirigem as suas actuais aspirações de hegemonia.60 No respeitante à política externa, o Eurasianismo defende que o caminho que o Ocidente tomou é destrutivo; a sua civilização é espiritualmente vazia, falsa e monstruosa; por detrás da prosperidade económica, está uma degradação espiritual total. Os EUA exploraram a mágoa pelos ataques terroristas de 11 de Setembro, e sob a capa da luta contra o terrorismo, para fortalecer as suas posições na Ásia Central, zona de influência russa. A Europa, apesar de ser cultural, social e politicamente chegada aos EUA, tem preocupações geopolíticas, geoestratégicas e económicas semelhantes à Rússia e à Eurásia.
Quanto à política interna, pretende reforçar a unidade estratégica da Rússia, a sua homogeneidade geopolítica e a linha vertical de autoridade, reduzir a influência dos clãs oligárquicos, combater o separatismo e o extremismo, e apoiar a economia nacional.61
O que torna Dugin notório e preocupante é que o seu pensamento faz lembrar, em certos aspectos, Hitler: fala sobre capitalismo, baseado numa combinação de nacionalismo e socialismo. As suas teorias foram banidas durante a época soviética pelas suas ligações ao Nazismo, mas são hoje aceites sem relutância pelo Partido Comunista.62
O colapso da URSS e o fim da Guerra fria levou a uma alteração dramática na configuração da geopolítica da Eurásia. Uma das consequências mais importantes dessa alteração foi a aparição de novas repúblicas independentes na Ásia Central, ao longo da fronteira Sul da Rússia: Cazaquistão, Quirguizistão, Tadjiquistão, Turcomenistão e Uzbequistão na Ásia Central; Arménia, Azerbaijão e Geórgia no Cáucaso.
Dada a posição geoestratégica da região, uma área de ligação natural e de trânsito entre a Europa, o Médio Oriente e a Ásia, ela constitui um elo importante de comércio. Ao mesmo tempo, os enormes recursos petrolíferos e de gás natural da região, transformaram‑na num local de enorme competição/cooperação.
As determinantes fundamentais da postura russa presentemente, tão evidentes na governação do Presidente Putin, são o declínio acentuado do seu poder nacional na primeira metade da década de 90’s, a enorme prioridade dos problemas económicos e sociais internos, especialmente durante a presidência de Yeltsin, o conflito na Tchetchénia, o alargamento da OTAN, e o grande retraimento das suas aspirações externas, juntamente com o fim da “missão de grande potência”, e a prudente avaliação dos “objectivos/capacidades” e dos “custos/benefícios”.63
Estas considerações são fundamentais na posição da Rússia face à Ásia Central. A Rússia sempre considerou a região como o seu “quintal” estratégico, mas não teve os recursos políticos, económicos e militares para manter a sua influência na década que se seguiu ao colapso da URSS. De qualquer modo, a Rússia espera manter a sua influência na Ásia Central. A limitada definição dos seus requisitos de segurança leva a Rússia a ver aquela região como uma “zona tampão” (“buffer zone”), em especial das forças do revivalismo islâmico.64
A doutrina consensual da “vizinhança próxima” define que a Rússia quer manter um papel político, económico e estratégico preponderante naquelas ex‑repúblicas da URSS, legitimando uma intervenção militar, se necessário. Contudo, a incapacidade da Rússia implementar as necessárias reformas nas suas Forças Armadas e na sua economia, em conjunto com a hostilidade com que a sua presença é vista, limita as suas possibilidades de cooperação e faz diminuir a sua influência, em especial no Cáucaso, em detrimento dos EUA. A Rússia vê assim a sua posição na região ameaçada pela expansão militar americana e da OTAN, bem como pelos seus próprios problemas internos (a guerra na Tchechénia fez com que as relações com a Geórgia, a quem acusa abertamente de abrigar terroristas tchetchenos, se deteriorasse muito). Para contrabalançar esta situação, propôs uma cooperação triangular com a China e com a Índia através da Organização de Cooperação de Xangai (com Cazaquistão, Quirguizistão e Tadjiquistão) e estabeleceu uma relação privilegiada com o Irão.
Feng Shaolei afirma que durante a primeira fase do período pós‑guerra‑fria (1991‑1993), o vácuo geopolítico criado deveu‑se à política russa para a região. Fazendo um esforço enorme para ter relações mais estreitas com os EUA e o Ocidente, a Rússia desperdiçou muitas oportunidades de preservar a sua influência na Ásia Central, e alcançar a integração económica, política e militar, pois a maioria dos líderes da região eram antigos colegas de Boris Yeltsin no Comité Central do Partido Comunista ou tinham obtido as suas posições com a sua ajuda. Mesmo assim, apesar desta política oficial, a Rússia manteve grande influência.
Na fase seguinte, de 1994 a 1996, a Rússia perdeu o controlo sobre os acontecimentos. As ex‑repúblicas da Ásia Central evoluíram de proto‑estados para estados plenos, com os respectivos atributos.
Uma terceira fase da política russa para a Ásia Central começou na segunda metade de 1996, quando a orientação pró‑ocidental do Ministro dos Negócios Estrangeiros Andrei Kozyrev deu lugar à orientação eurasianista de Yevgenyi Primakov. A Rússia fez então esforços titânicos para restaurar a sua influência e teve um papel importante no problema dos oleodutos e gasodutos da região.
A política russa para esta região não se alterou radicalmente até 1999/2000, quando as relações com o Ocidente caíram para o nível mais baixo, em virtude da crise do Kosovo, dos ataques extremistas no Quirguizistão e no Uzbequistão e, especialmente, da ascensão de Vladimir Putin à presidência.
Entretanto, reforçava o seu controlo sobre os oleodutos e gasodutos, utilizando por vezes esse controlo como um mecanismo para controlar os Estados da região.65
A resposta dos EUA aos ataques terroristas de 11 de Setembro de 2001, fez alterar a geopolítica global. Segundo D. Trenin, a política externa seguida por Putin a partir dessa data caracterizou‑se por uma inflexão nas suas escolhas estratégicas, dando a sua concordância à colocação de forças americanas em antigas bases soviéticas na Ásia Central, e apoiando o Ocidente na sua “guerra contra o terrorismo internacional”.66 No pensamento de Putin, a versão extremista do Islão é uma das maiores ameaças para a Rússia.
Apesar disto, nos seus esforços para manter os EUA longe da região do Cáspio, o Irão encontrou um aliado inesperado na Rússia. Ambos puseram temporariamente as suas divergências de lado, para fazer frente às actividades americanas na área. A aliança russo‑iraniana pode aliás considerar‑se um dos mais importantes factos geopolíticos do pós‑guerra‑fria. Para a Rússia, uma relação estreita com o Irão pode considerar‑se como uma reacção à expansão da OTAN para a Europa Oriental. O fornecimento de material militar convencional e de tecnologia nuclear russa ao Irão é um dos aspectos fulcrais desta aliança, já que muito poucos países estão interessados em fornecer armas ao regime dos “ayatollahs”. O Irão confia na Rússia como fornecedor de armamento, dado não existirem muitos países que o queiram fazer; a Rússia também vê vantagens e lucros no fornecimento de armamento, nuclear inclusive, ao Irão.
A possível influência iraniana no fundamentalismo islâmico, na opinião pública russa, é bastante limitada e claramente exagerada pelos políticos ocidentais. Em primeiro lugar, os iranianos são etnicamente Indo‑Arianos e, portanto, bastante diferentes de outras etnias da região Sul da ex‑URSS, que são de origem turca ou caucasiana, à excepção dos Tadjiques. Em segundo lugar, o Irão pertence à facção Shiita do Islão, ao passo que a maioria da população muçulmana da Ásia Central (à excepção do Azerbaijão) é Sunita. Em terceiro lugar, as elites locais não pretendem adoptar a forma de governo teocrática imposta no Irão. Em quarto lugar, o Irão não está economicamente em posição de iniciar uma modernização estrutural na Ásia Central e no Cáucaso, apesar de possuir divisas dos petro‑dólares.
Muitos políticos e peritos russos estão bastante mais alarmados com a Turquia, devido à sua proximidade geográfica, cultural, étnica e religiosa à maioria das ex‑repúblicas soviéticas, bem como o seu potencial económico e apoio político ocidental. Além disso, o modelo secular de desenvolvimento turco pode atrair os regimes da Ásia Central que procuram exemplos para seguir.67

7. O Petróleo

Sabia‑se da existência de petróleo no Cáucaso e na Ásia Central desde o século XIII e foi factor importante no “Grande Jogo” do século XIX. No final deste século, com as capacidades tecnológicas aumentadas, a exploração das reservas petrolíferas emergiram como um factor primordial na competição, e o Jogo intensificou‑se.
Até ao início do século XX, a principal actividade económica da Ásia Central estava ligada ao algodão, ao curtimento de couro, ao processamento da lã e à fiação da seda. Durante a 1.ª Guerra Mundial, os alemães tentaram conquistar a região petrolífera de Baku, na margem ocidental do Mar Cáspio, para continuar a alimentar o esforço de guerra, o que não conseguiram. Na 2.ª Guerra Mundial, Hitler parece ter tido a mesma determinação, estando consciente em 1942 que, se falhasse o controlo do petróleo do Cáucaso, perderia a guerra.68
A data crítica para o petróleo deu‑se em 1912, quando a Marinha Inglesa decidiu converter a propulsão dos navios de combate do carvão para o petróleo. Esta transição deu aos navios britânicos uma vantagem significativa em velocidade e autonomia sobre os seus adversários, em especial a Alemanha. Mas, por outro lado, colocou a Londres um outro dilema: se bem que bastante rica em carvão, a Grã‑Bretanha tinha poucos recursos petrolíferos domésticos e ficava dependente de importações.
Expandiu os seus interesses petrolíferos ao Golfo Pérsico e fortaleceu a sua posição na Pérsia (hoje Irão). A França, por seu turno, conseguiu concessões importantes em Mosul, no Noroeste do Iraque, enquanto a Alemanha e o Japão planeavam abastecer‑se na Roménia e nas Índias Orientais Holandesas (hoje Indonésia). A tentativa japonesa de se abastecer nas Índias Orientais Holandesas levou à imposição de um embargo de exportações para o Japão o que, por seu turno, persuadiu os japoneses que uma guerra com os EUA era inevitável, levando‑os ao ataque de surpresa a Pearl Harbor. No teatro europeu, a desesperada necessidade da Alemanha em obter petróleo, levou à invasão da Rússia em 1941, para alcançar Baku.
A riqueza mineral da Ásia Central só foi, na realidade, apenas descoberta a partir de meados do século XX pois, até aí, estava restrita à margem ocidental do Mar Cáspio, junto ao Cáucaso.69
As reservas de petróleo e de gás natural da região do Mar Cáspio são sem dúvida significativas. Nos cinco países que circundam aquele mar (Azerbaijão, Cazaquistão, Irão, Rússia e Turcomenistão) estão comprovados cerca de 154x109 de barris de petróleo70 e cerca de 76,5x1012 de metros cúbicos de gás natural. Em termos de percentagem, aqueles cinco países possuem cerca de 15% das reservas mundiais comprovadas de petróleo, e cerca de 50% das de gás natural.71
Estes vastos recursos energéticos transformaram a região numa área de grande competição e de cooperação, entre actores estatais e não‑estatais, pelo controlo daqueles recursos. O fim da “guerra‑fria”, o processo de globalização e a internacionalização das actividades do Estado como consequência principal daquela, transformaram o modo como o mundo pode ser compreendido, levando a uma reformulação do conceito de geopolítica. Este contexto “pós‑guerra‑fria” é pertinente para compreender a actual geopolítica da Ásia Central.72 Novos Estados, sem experiência anterior de independência, numa região onde a dissolução da URSS criou um vazio de poder.73 De facto, a conquista da soberania alcançada pelas ex‑repúblicas soviéticas não foi apoiada e baseada em regras, normas e mecanismos políticos apropriados que assegurem uma coabitação civilizada entre a Rússia e os novos estados.

8. O Futuro

As orientações políticas russas emergentes ligam‑se à busca de uma identidade nacional renovada e do seu lugar no mundo e nos assuntos internacionais, após o colapso soviético. Daí o ressurgimento de um discurso Eurasianista na política externa, após a chegada de Putin à presidência. Esta alteração foi posteriormente acentuada com as alterações geopolíticas introduzidas pela administração Bush como resposta aos ataques terroristas de 11 de Setembro de 2001. Parece óbvio que a Rússia fez uma “escolha estratégica” ao emparceirar com o Ocidente na “guerra contra o terrorismo internacional”.
As maiores preocupações da Rússia dizem respeito ao controlo das rotas de exportação dos recursos energéticos. O maior objectivo de Moscovo é assegurar que uma parte significativa dos recursos energéticos do Cáspio seja transportada pelo sistema russo de oleodutos para o Mar Negro e, daí, para a Europa. Porém, o sistema existente de oleodutos e gasodutos da era soviética é considerado como obsoleto, feitos com materiais de qualidade duvidosa e com manutenção de má qualidade técnica, que se estão a deteriorar com o tempo. As novas repúblicas procuraram por isso outras opções para se distanciar e não depender da Rússia, e serem capazes de alcançar mercados diversificados.
Para tentar manter a sua influência nas exportações dos produtos energéticos, a Rússia apoia apenas oleodutos que passem através do seu território.74 Todavia, as tentativas russas para retardar os projectos de desenvolvimento liderados por outras potências, levaram ao estudo de rotas alternativas para levar os recursos até aos mercados, prejudicando a posição da Rússia como potência dominante na região e fazendo‑a perder o controlo sobre os recursos energéticos da região e do seu transporte.75
Para a Rússia, os alvos geopolíticos primários para a subordinação política parecem ser o Cazaquistão e o Azerbaijão. A subordinação deste último ajudaria a “selar” a Ásia Central do Ocidente, especialmente da Turquia. O Azerbaijão, encorajado pela Turquia e pelos EUA, rejeitou os pedidos russos para a manutenção de bases militares no seu território e desafiou também as exigências daquele país para um único oleoduto com terminal no porto russo de Novorossiysk, no Mar Negro. A acrescentar ao oleoduto de Baku para Supsa, na Geórgia, a Turquia, o Azerbaijão e a Geórgia assinaram em 1999 um acordo para a construção de um oleoduto ligando Baku ao porto turco de Ceyhan, no Mediterrâneo, evitando assim definitivamente o território russo. Moscovo sentiu isso como uma humilhação geopolítica que prenunciava uma grave perda de influência no Cáucaso.76 É neste contexto que se encontra a explicação mais plausível para os recentes problemas de fornecimento de gás natural à Geórgia e para o diferendo com a Ucrânia sobre o mesmo combustível.
A vulnerabilidade étnica do Cazaquistão (cerca de 40% da população é russa) torna quase impossível uma confrontação aberta com Moscovo, que pode também explorar o receio do Cazaquistão sobre o crescente dinamismo da China. Para tentar diminuir as iniciativas unilaterais de desenvolvimento das novas repúblicas, nomeadamente as duas referidas atrás, tem utilizado também a incerteza quanto ao regime legal do Mar Cáspio, ainda por acordar.
Ao bloquear ou atrasar novos projectos de oleodutos, a Rússia conseguiu vencer praticamente todos os negócios energéticos, com investimentos pequenos. Porém, o actual sistema de oleodutos não possui a capacidade para o aumento de produção que se prevê para o Cazaquistão e para o Azerbaijão e, se tiverem de construir mais, a Rússia gostaria que passassem por território seu.77
A Tchetchénia era uma região autónoma gozando já de uma larga autonomia, quando declarou unilateralmente a sua independência em 1994. A Rússia decidiu resolver o assunto pela força por duas razões principais: em primeiro lugar porque, se a Tchetchénia fosse autorizada a sair da Federação Russa, seria um perigoso precedente que outras repúblicas predominante mente islâmicas do Norte do Cáucaso (Tcherkessia, Dagestão, Kabardin‑Balkar, etc.) poderiam querer seguir; em segundo lugar, a Tchetchénia é um ponto nevrálgico na rede de oleodutos vindos do Cáspio.
Se a materialização dos planos do oleoduto para Oeste falhar, todo o petróleo do Azerbaijão irá continuar a ser transportado pelo único oleoduto existente para o mar Negro, e esse atravessa a Tchetchénia. Se a Rússia quiser lucrar com o aumento de produção no Azerbaijão, tem de manter o controlo da república a todo o custo. Grozny, capital da Tchetchénia, é o centro de uma importante rede de oleodutos que liga a Sibéria, o Cazaquistão, o Cáspio e Novorossiysk.78
Outra ameaça séria à Rússia é o trânsito, importação e consumo de droga. De acordo com estimativas da ONU, dois ou três toneladas de heroína pura são transportadas anualmente da Ásia Central. Apenas há seis ou sete anos, a Rússia era principalmente um país de passagem no fornecimento de droga à Europa. Actualmente, é já um consumidor importante.79
Neste contexto, as prioridades de Putin parecem ser: a recuperação da economia russa; a restauração da Rússia enquanto grande potência; combater o fundamentalismo islâmico; controlar e eliminar as rotas do tráfico de estupefacientes; estabelecer um novo relacionamento de segurança com a Europa e com a OTAN; e resolver a questão nuclear estratégica com os EUA.
No plano político, a Rússia tentou avançar primeiro e rapidamente para a reforma política e chegou a um presidencialismo “inflacionado”, reduzindo os poderes das outras instituições governativas.
No plano económico, a Rússia não aprendeu as duas lições fundamentais que se podem extrair da experiência histórica da evolução da democracia: promover um desenvolvimento económico autêntico e sustentado e construir instituições políticas transparentes e equilibradas. A Rússia falhou em ambos os aspectos. Está a fazer o contrário da China, que está a reformar a sua economia antes do sistema político.80
No âmbito da política de segurança, o fundamentalismo islâmico constitui a maior preocupação da Rússia. Os líderes russos consideram os “talibans” do Afeganistão e movimentos similares como ameaças ao Cáucaso e às recém‑independentes repúblicas da Ásia Central, antigas repúblicas soviéticas e ainda regiões de grande relevância para a segurança da Rússia.
Estas preocupações levaram Putin a tratar os ataques terroristas de 11 de Setembro de 2001 como uma oportunidade para cooperar com o Ocidente relativamente ao desafio fundamentalista que, de qualquer modo, sentia já estar no seu caminho.81 Após aquele evento, a Rússia começou a ajudar os EUA no problema afegão, passando toda a informação que possuía sobre terroristas islâmicos e a sua experiência no montanhoso país. Pela primeira vez desde o início da 2.ª Guerra Mundial, ambos os países tinham um inimigo comum! A Rússia concordou mesmo com a presença de tropas americanas no Uzbequistão e no Quirguizistão, porque Washington não conseguiu arranjar uma infra‑estrutura militar no Paquistão.82
Por outro lado, todavia, não hesitou em entrar em conflito com a Ucrânia, ameaçando cortar o fornecimento de gás natural, facto que não deixa de conter dois alertas: a afirmação de que não prescinde de continuar a manter a Ucrânia na sua esfera de influência, e um sério aviso à UE, face à profunda dependência energética desta.
Porém, para a Rússia, a política internacional ainda é um “jogo de soma zero”: se houver vencedores, tem de haver vencidos.
As elites ocidentais têm ultimamente empreendido uma intensa campanha na opinião pública contra Putin, desde que ele nacionalizou a Yukos Oil – após a declaração de falência desta em 2006 – e a colocou sob o controlo da Gazprom (empresa controlada pelo Estado, que detém 51% das acções), que se está a tornar numa das maiores empresas petrolíferas do mundo.
Esta medida deu‑lhe grande popularidade interna (mais de 70% de concordância com a decisão) e teve um efeito benéfico na estabilização do rublo e no aumento do nível de vida. Muitos russos recordam ainda as experiências falhadas de “mercado livre” de Yeltsin, que desbarataram a riqueza nacional e que contribuíram bastante para o declínio económico e para a perda de prestígio internacional da Rússia.
Putin está a abrir os mercados russos e a procurar satisfazer as grandes empresas petrolíferas, fazendo, ao mesmo tempo, crescer a economia russa. Crê que “a dependência mútua fortalece a segurança energética do continente europeu, criando boas perspectivas para a aproximação noutras áreas”.
O Ocidente tem criticado Putin por ter utilizado o petróleo e o gás natural para enviar “mensagens” à Geórgia e à Ucrânia. O vice‑presidente americano, Dick Cheney, chamou‑lhe mesmo “chantagem”. De qualquer modo, não é sensato irritar o homem que aquece as nossas casas e que abastece os nossos carros.
Tem razão, mas não estará a ser um pouco ingénuo? Várias civilizações têm sido trituradas para satisfazer a gula e a cobiça mundiais pelo petróleo. Poderá a Rússia ser poupada?83
Por seu lado, a Rússia tem‑se oposto tenazmente à política externa dos EUA, em assuntos que vão do Irão ao Sudão, ao Kosovo e à Coreia do Norte. Putin tem declarado que pretende um número multipolar, em vez de um unipolar. Contudo, nem a Coreia do Norte, nem o Sudão, nem o Irão têm importância estratégica fundamental para a Rússia; servem apenas para que possa ter uma voz de oposição oficial à política externa intervencionista americana. O objectivo de longo prazo é reestabelecer a influência internacional da Rússia.
A Cimeira UE‑Rússia, realizada em Outubro de 2007 em Lisboa, veio desbloquear alguns problemas existentes, tais como garantias quanto ao abastecimento energético à Europa e o levantamento do embargo da Rússia sobre carne e frescos da UE, nomeadamente da Polónia.

 

Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

Fig. 4

Fig. 5

Fig. 6

 

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___________

* Mestre em Estratégia pelo ISCSP.

___________

1 TOSTE, Octávio – “Teorias Geopolíticas”, Biblioteca do Exército, Rio de Janeiro, 1993, p. 1.

2 O’TUATHAIL, Gearóid – “Thinking critically about geopolitics”, em “The geopolitics reader”, Routledge, London, 1998, pp. 9, 15.

3 TOSTE, Octávio – obra citada, p. 31.

4 O’TUATHAIL, Gearóid – obra citada, p. 1.

5 O’TUATHAIL, Gearóid & AGNEW, John – “Geopolitics and discourse: Pratical geopolitical reasoning in american foreign policy”, em “The geopolitics reader”, p. 79.

6 AMINEH, Mehdi Parvizi – “Globalization, geopolitics and energy security in Central Asia and the Caspian region”, CEP, The Hague, 2003, p. 29.

7 HOPKINS, Peter – “The great game – The struggle for empire in Central Asia”, Kodansha International, New York, 1990, pp. 8‑13.

8 KENNAN, George – “The sources of soviet conduct”, em “Foreign Affairs” n. º 25, 1947, p. 576.

9 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 14‑15.

10 TOSTE, Octávio – obra citada, p. 9.

11 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 446.

12 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 19‑33.

13 AGNEW, John – “Geopolitics – Re‑visioning world politics”, Routledge, London, 1997, pp. 87‑93.

14 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 118.

15 CANAS, Vitalino – “Segurança e droga no Afeganistão: Chegou a altura de novas alternativas”, em “Segurança e Defesa”, n.º 1, Diário de Bordo, Novembro de 2006, p. 41.

16 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 131.

17 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 149‑164.

18 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 168, 253, 270. 19 http://en.wikipedia.org/wiki/The_Great_Game, 2006‑08‑05.

20 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 281‑292.

21 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 301‑306.

22 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 312‑317.

23 HOPKINS, Peter – obra citada, p. 409.

24 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 351‑353.

25 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 377‑381.

26 http://en.wikipedia.org/wiki/The_Great_Game, 2006‑08‑05.

27 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 388‑389.

28 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 401‑416.

29 http://en.wikipedia.org/wiki/The_Great_Game, 2006‑08‑05.

30 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 438‑445.

31 MOREAU‑DEFARGES, Philippe, “Introdução à Geopolítica”, Gradiva, Lisboa, 2003, p. 107.

32 HOPKINS, Peter – obra citada, pp. 502‑522.

33 FORSYTHE, Rosemarie – obra citada, pp. 9‑10.

34 KLEVEMAN, “The new great game: Blood and oil in Central Asia”, Atlantic Monthly Press, New York, 2003, p. 2.

35 HAHN, Gordon M. – “The rebirth of Eurasianism”, 12Jul2002, em www.therussiajournal.com/index.htm?obj=6041, 2005‑01‑10. 36 HAHN, Gordon M. – obra citada.

37 BASSIN, Mark – “Classical Eurasianism and the geopolitics of russian identity”, em www.dartmouth.edu/~crn/crn_papers/Bassin.pdf, 2005‑01‑10.

38 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20I.htm, p. 7, 2005‑01‑10.

39 DUGIN, Alexander, obra citada, p. 4, 2005‑01‑10.

40 www.vor.ru/culture/cultarch235_eng.html, 2005‑01‑10.

41 BASSIN, Mark‑ obra citada, 2005‑01‑10.

42 Ibidem.

43 DUGIN, Alexander – obra citada, pp. 2‑8, 2005‑01‑10.

44 A teoria do “dominó” (William Bullit, 1947) postulava o medo do comunismo monolítico avançar no mundo através da China e da Ásia de Sudeste. Eisenhower defendeu‑a, afirmando que a perda da Indochina causaria a queda da Ásia de Sudeste como as pedras de um jogo de dominó. Serviu como base teórica para a intervenção americana no Vietname.

45 O’TUATHAIL, Gearóid – “Cold War geopolitics – Introduction”, em “The geopolitics reader”, Routledge, Londres, 1998, pp. 52‑53.

46 BREZHNEV, Leonid – “Soberania e a obrigação internacionalista dos países socialistas”, Pravda, 1968, citado em “The geopolitics reader”, pp. 74‑75.

47 O’TUATHAIL, Gearóid – “Cold War geopolitics – Introduction”, em “The geopolitics reader”, Routledge, Londres, 1998, p. 47.

48 MOREAU‑DEFARGES, Philippe – obra citada, pp.109‑110.

49 ROMER, Jean‑Christophe – “La pensée strategique russe au Xxe siècle”, em www.stratisc.org/pub/pub_ROMER_STRU_tdm, 2005‑01‑10.

50 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20II.htm, pp. 2‑4, 2005‑01‑10.

51 ROMER, Jean‑Christophe – obra citada, 2005‑01‑10.

52 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20II.htm, pp. 7, 2005‑01‑10.

53 ROMER, Jean‑Christophe – obra citada, 2005‑01‑17.

54 WALKER, M. – “The cold war: A history”, Holt, New York, 1993, p. 290.

55 BRZEZINSKI, Zbigniew – “The premature partnership”, em “Foreign Affairs”, Vol. 73, n.º 2, JAN/FEV 1994, p. 72.

56 DUGIN, Alexander – “The great war of continents”, em www.bolsheviks.org/DOCUMENTS/THE%20GREAT%20WAR%20I.htm, 2005‑01‑10.

57 BERMAN, Ilan – “Slouching toward Eurasia?”, em www.bu.edu/iscip/vol12/berman.html, 2005‑01‑25. 58 CLOVER, Charles – “Dreams of the Eurasian heartland”, em www.geocities.com/eurasia_uk/heartland.html, 2005‑01‑25.

59 BERMAN, Ilan – obra citada, 2005‑01‑25.

60 MARKETOS, Thrassy – “Eurasianist theory: Consequences to the strategic security of the russian muslim South”, em www.cacianalyst.org/view_article.php?articleId=3281, 2007‑01‑26.

61 http://en.wikipedia.org/wiki/Eurasia_Party, 2007‑01‑27.

62 HAHN, Gordon M. – obra citada, 2005‑01‑25.

63 SHI Yinhong – “Great power politics in Central Asia today: A chinese assessment”, em “Islam, oil and geopolitics”, Rowman & Littlefield, Plymouth, 2007, p. 165.

64 DAVIS, Elizabeth Van Wie & AZIZIAN, Rouben – “Islam, oil and geopolitics in Central Asia after September 11”, em “Islam, oil and geopolitics”, p. 7.

65 FENG Shaolei – “Chinese‑Russian relations: The Central Asia angle”, em “Islam, oil and geopolitics”, pp. 203‑206.

66 TRENIN, Dimitri – “From pragmatism to strategic choice: Is Russia’s security policy finally becoming realistic?”, citado por O’LOUGHLIN, John, O’TUATHAIL, Gearóig & KOLOSSOV, Vladimir – “Russian geopolitical culture and public opinion: The masks of Proteus revisited”, em www.colorado.edu/ibs/PEC/johno/pub/Proteus.pdf

67 LOUNEV, Sergey – “Russian‑Indian relations in Central Asia”, em “Islam, oil and geopolitics”, p. 77.

68 FORSYTHE, Rosemarie – “The geopolitics of oil in the Caucasus and Central Asia: Prospects for oil exploitation and export in the Caspian basin”, Adelphi Paper 300, IISS, Oxford University Press, 1996, pp. 9‑10.

69 FORSYTHE, obra citada, p. 9.

70 Um barril de petróleo é equivalente a 159 litros, 42 galões americanos, ou 35 galões imperiais.

71 AMINEH, Mehdi Parvizi – obra citada, p. 1.

72 Ibidem

73 HANSEN, Sander – «Pipeline politics – The struggle for control of the Eurasian energy resources», Clingendael Institute, The Hague, 2003, p. 1.

74 AMINEH, Mehdi Parvizi – obra citada, pp. 74‑81.

75 CUTLER. Robert – “Cooperative energy security in the Caspian region: A new paradigm for sustainable development?”, em www.robertcutler.org/ar99gg3b.htm – 2005‑01‑25.

76 RAMONET, Ignacio – “Guerras do século XXI – Novos medos, novas ameaças”, Campo das Letras, Porto, 2002, p. 127.

77 FORSYTHE, Rosemarie – obra citada pp. 13‑17.

78 KLEVEMAN, Lutz – obra citada, pp. 53‑57.

79 LOUNEV, Sergey – obra citada, p. 181.

80 ZAKARIA, Fareed – “O futuro da liberdade – A democracia iliberal nos Estados Unidos e no mundo”, Gradiva, Lisboa, 2003, pp. 87‑90.

81 KISSINGER, Henry – obra citada, p. 296.

82 LOUNEV, Sergey – obra citada, p. 183.

83 WHITNEY, Mike – “Energy geopolitics: Putin gets mugged in Finland”, em “Global Research”, October 22, 2006.

Bibliografia

mercredi, 18 février 2009

A. Dugin: Imperium antwortet!


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Imperium antwortet

Das Interview Dugins in der Zeitung "Westi", Riga

"Westi": Zum ersten Mal forderte man, dass Amerikaner ihre Stűtzpunkte aus Mittelasien wegschaffen. Bedeuten die Deklarationen der Schanghaier Organisation fűr Zusammenarbeit ein Ende der einpolaren Welt?

Alexander Dugin: Die Schanghaier Organisation ist noch ein Entwurf multipolarer Welt. Aber das ist ein ernster Schritt zur Begrenzung der amerikanischen Hegemonie. Zu diesem Schritt treiben Russland die Handlungen der USA in “Orangen-Revolutionen” an den Grenzen Russlands. Dafűr wirkte auch ein die Position der baltischen Republiken. Alle diese Handlungen richteten Russland in Umarmung Asiens.

Und die jetztige Zusammenarbeit in Astana der Fűhrer der Schanghaier Organisation – das ist ganz neue geschichtliche Erscheinung. Das ist der Anfang neuer Ordnung des planetarischen Raumes auf multipolaren Grundlage. Die Hauptrolle hier spielt China. Die Zusammenarbeit Irans, Pakistan, Indien – das ist auch sehr folgenreich.

"Westi": Sie sind Eurasier, aber mit gewisser Besorgtheit sagen: “Russland geht in Umarmung Asiens”. Ist das nicht das Ziel der eurasischen Bewegung? Oder meinen Sie die Zusammenarbeit Russlands mit islamischen Osten? Oder mit Indien und China?

 



Alexander Dugin: Ich meinte Indien auch. Aber mit China ist die Situation schwer. China ist schwer vereinbar mit Russland. Die eurasische Integration bedeutet die speziale Beziehungen Russlands mit Europa, mit Islam und mit Indien auch. China bedeutet in Schanghaier Organisation das Zweite Pol gegnűber kranken Russland. Die enge Zusammenarbeit mit China ist heute eine ausserordentliche Massnahme. Eurasientum gäbe China ein Rechtsstatus der neutralen Macht. Eher wurde vorausgesetzt die Annäherung an Pakistan und Tűrkei. Plus – mit Teil Europas, mit der Achse Frankreich-Deutschland. Nicht mit atlantischen Gesamteuropa, sondern mit kontinentalen Europa.

Wir sehen heute in Astana zwei Verschiedenheiten vom eurasischen Projekt. Hier gibt es kein Europa. Europa beginnt heute nochmals amerikanische Provinz zu sein. Das ist heute nicht mehr als ein Aufmarschraum fűr amerikanische Streitkräften. Heute kann die Schanghaier Organisation nicht vereinbar mit Europa sein.

"Westi": Sie meinen, den Europäern kann man die Erscheinung China hier nicht erklären?

Alexander Dugin: Ja. Heute ist in Schanghaier Organisation China ein Fűhrer. China sieht, dass Russland geht weg vom eurasischen Raum, aber diesen Platz werden Amerikaner behaupten. China arbeitet jetzt eng mit Mittelasien, mit Norden Eurasiens. Natűrlich bin ich froh, das diese Organisation entstanden ist. Aber ich bin besorgt. Ich dachte, dass die Beteiligung Chinas in dieser Organisation streng dosiert wird, dass Russland ein Fűhrer im eurasischen postsowjetischen Raum wird. Ich dachte auch, dass Europa mitwirken wird in diesem Prozess.

"Westi": Erst jetzt versuchen die Media Bund Russland-China-Indien begreifen…

Alexander Dugin: Ich bin gegen einpolaren Welt. Das, was wir heute mit Schanghaier Organisation bekommen, ist besser, als schwaches Russland unter USA.

"Westi": Was haben Russen hier bekommen, und was verloren?

Alexander Dugin: Dieser strategischer Bund mit China wird den Bilanz der Kräfte in Zentralasien verändern. Wenn China seine strategischen Interesse mit uns koordinieren wird, bekommen wir schon viel. China ist der beste Partner fűr Verkauf unserer Waffen. Und was verlieren wir? Wir werden zur Zone fűr demographischen Ausdehnung Chinesen. Das ist ein grosses Problem. Und wenn wir auf Bund mit China kommen, warum integrieren wir uns nicht mit Weissrussland und Kasachstan? Fűr uns sind Indien und Iran die ausgezeichneten Partner. Aber heute sehe ich, dass nichts besseres gibt fűr Russland, wo proamerikanische Elite regiert.

"Westi": Vor kurzem sagte man in einer amerikanischen Zeitung, dass die USA ein Fehler machten, indem sie Schewardnadse in Georgien beseitigten. Denn die Perspektive seines Schicksals hat asiatische Fűhrer erschreckt.

Alexander Dugin: Ich glaube, Amerika versteht, wovon die Rede ist. Sie versteht, dass Peking, Teheran und Bombay nicht Scherz treiben. Ich glaube, dass die USA diese Situation ernst nimmt. Und jetzt werden die USA auf Russland nicht sehr drűcken. Auf drohenden Geste Moskaus werden Amerikaner systematisch reagieren. Zum Beispiel, werden vorschlagen 2008 auf den Posten des Präsidenten Russlands einen Mann stellen, der die Politik Putins forttreiben wird. Kann sein, dass Amerika Newslin zurűckschicken wird, Sakaew Moskau gibt. Aber die ernsten Kompromisse, das kann leider jetzt nicht geschehen.

"Westi": Werden die Beziehungen Lettlands mit Russland besser?

Alexander Dugin: Nein. Baltische Länder sind ein aktivistischer Vektor atlantischen Politik. Hier sind keine Veränderungen denkbar. Europabund und baltische Länder forttreiben ihre antirussische Politik. Amerika wird seine Agente in Russland bremsen, aber Lettland… Baltische Länder sind ein Hinderniss in den Beziehungen zwischen Europa und Russland.

"Westi": Aber vor kurzem ist das Referendum in Frankreich gescheitert. Diese Prozesse in Europa schwächen Europabund.

Alexander Dugin: Das Scheitern der Europaverfassung ist ein komplizierter Prozess. Diese Verfassung war proamerikanisch und war gegen Frankreich und Deutschland gerichtet. Diese Verfassung war gegen die Achse Frankreich-Deutschland gerichtet. Aber Europa vereinigt sich jetzt nicht im amerikanischen Sinne, und es vereinigt nicht in franko-germanischen Sinne.

"Westi": Vielleicht ist Russland eine besondere Zivilisation?

Alexander Dugin: Russland hatte ein einziger richtiger Weg – eurasischen Raum integrieren. Integrieren sollte man mit Frankreich und Deutschland und mit Asien, zwischen Ost und West balanzieren, multipolaren Welt schaffen. Russland ist eine abgesonderte Zivilisation mit Interessen im Osten und im Westen. Wir műssen balanzieren. Aber das kann man nicht mit dieser korrupten Elite machen. Diese Elite hat keine Ethik, keine orthodoxe und keine protestantische, wie das Max Weber schilderte.

 

Lerisa Persikowa
Nika Persikova


 
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lundi, 16 février 2009

Spengler e la Russia

Spengler e la Russia

ex: http://augustomovimento.blogspot.com



Tra le pagine più interessanti di Spengler (sopra in foto), vi sono proprio quelle dedicate alla Russia, in virtù della sue previsioni, inaspettatamente (all’epoca) confermate dai fatti attuali.

Egli ne parla diffusamente in Prussianesimo e socialismo (cap. 23), ne Il tramonto dell’Occidente (II.iii.2 e 16) e nel saggio Il doppio volto della Russia e i problemi della Germania a Est (in Forme della Politica Mondiale, Ar, 1994). Su Spengler in Russia è pesata l’opinione negativa di Lenin che l’ha cancellato dalla riflessione filosofica sovietica, ma già allora vi furono i primi attenti interpreti: dal sociologo Georges Gurvitch al mistico Nikolai Berdiaev, per non parlare delle opere dei filosofi ottocenteschi Nikolai Danilevsky e Konstantin Leontiev che ne anticipavano il modello ciclico di storia. Negli ultimi vent’anni la riflessione su Spengler è ripresa, anche grazie all’interesse riscosso presso i movimenti eurasiatico e nazionalbolscevico.

La Russia è considerata come una civiltà ancora in gestazione («La natura dei russi è la promessa di una Kultur a venire, mentre le ombre della sera si fanno sempre più lunghe sull’Occidente»), radicalmente diversa dall’Occidente, ed erede piuttosto, attraverso Bisanzio della civiltà araba, ‘magica’, per il suo innato misticismo che unisce a un certo senso dell’infinito, analogo a quello faustiano eppure più tellurico: un’anima da “uomo delle pianure” insomma, un’anima che un occidentale non può capire. Sempre per analogia, Spengler fa il paragone tra il rapporto fra Zivilisation classica e Kultur araba, e il rapporto tra Zivilisation occidentale e Kultur russa. In entrambi i casi, si verifica una “pseudomorfosi”: la Zivilisation decadente impone le proprie forme avanzate e senescenti alla giovane Kultur in fieri, soffocandone in parte lo sviluppo e imprimendole un aspetto non suo. Era stato il caso dell’Impero Romano d’Oriente apparentemente erede di Roma e della Grecia classica, ma in realtà strettamente affine ad arabi, ebrei, siriani, armeni, nestoriani, ecc.

Così è anche il caso della Russia odierna (intendendo con questa formula l’intero Impero Zarista, estendendosi fino ai Balcani e alla Turchia, con Bisanzio come nuova Gerusalemme), che ha subìto due tentativi di occidentalizzazione, dapprima con Pietro il Grande (petrinismo) e poi con Lenin (bolscevismo). Questi tentativi però toccano solo la superficie dell’anima russa, e, anzi, aumentano l’odio dei Russi nei confronti dell’Occidente, un odio simile a quello degli zeloti per Roma. Il suo destino sarebbe quello di collidere con l’Occidente, come era già successo con le guerre tra la Russia e la Francia (Guerre Napoleoniche), l’Austria-Ungheria (Prima Guerra Mondiale), e avverrà contro la Germania (Seconda Guerra Mondiale).

Lo stesso bolscevismo avrebbe il ruolo di spazzare via il petrinismo e poi consumarsi da solo per lasciare spazio alla genuina anima russa. «Premuto dagli istinti della Russia sotterranea contro l’Occidente, il bolscevismo, che aveva assunto inizialmente i tratti del petrinismo, verrà a sua volta cancellato come ultimo prodotto di questo stesso petrinismo, per completare la liberazione interna dall’ “Europa”». Si annuncia così la nascita della Kultur russa, contraddistinta da un terzo cristianesimo (dopo il cristianesimo magico delle origini e il cattolicesimo-protestantesimo faustiano), da un dominio spirituale delle campagne sulla città e da un grande afflato religioso; di tutto questo, categorie occidentali come il panslavismo sono solo la punta di un iceberg.

Questo fu scritto 80 anni prima del crollo dell’Unione Sovietica (e del bolscevismo). Adesso le previsioni di Spengler si sono avverate: la Russia riemerge dal caos della caduta dell’URSS, con una sua nuova forza e un più forte carattere nazionale, autenticamente slavo, riscoprendo la fede ortodossa, riaffermandosi come potenza e muovendo i primi passi verso un impero eurasiatico, guarda a caso proprio nei Balcani (verso la Serbia e il Kosovo) e nel Caucaso (verso l’Abcasia e l’Ossezia), scontrandosi con la potenza occidentale egemone (gli Stati Uniti). Per questo motivo, non siano frettolosi gli esegeti di Spengler nel riconoscere Putin (in foto) come uno dei Cesari dell’Occidente al tramonto: potrebbe essere un Barbarossa o un Giustiniano della nuova Russia che avanza.

samedi, 14 février 2009

USA-Russie: la guerre des bases

USA-RUSSIE : La guerre des bases…

SOURCE : THEATRUM BELLI

 

U69CAGF92KOCANVTG9ICACMY83FCAEBG8FSCADQ466YCASFPNCVCA51890QCAD2BA9CCASF0W7RCA3N1YWTCAKJCH1CCAQOHBA5CADK6HHKCAQTR1P1CAVC1MKMCAO9ZUQCCAACWKKYCAH0I9OUCAFC9PFJ.jpgRusses et Américains se livrent en ce moment à un gigantesque Monopoly stratégique en Asie centrale. A la clé, le contrôle de bases militaires.

 

« En Asie centrale, j’achète Manas… ». L’acheteur est russe, le vendeur kirghize et le perdant américain. « Dans les ex-territoires géorgiens, j’achète Otchamtchira… ». L’acheteur est russe, le vendeur abkhaze et le perdant géorgien.

 

Une gigantesque partie de Monopoly est en cours en Asie centrale, avec les Russes dans le rôle de l’investisseur acharné et les Américains dans celui du propriétaire qui voit ses biens lui échapper.

 

Le dernier revers américain a eu lieu en Kirghizstan. Les autorités de Bichkek ont définitivement décidé de fermer la base américaine de Manas après avoir reçu de Moscou un chèque de 450 millions de dollars et une annulation de dette de 180 millions de dollars.

 

Manas, créée en 2001, sert de plate-forme logistique aux troupes de la coalition internationale déployée en Afghanistan. 1 200 soldats US y sont basés, ainsi que des avions de transport et de ravitaillement en vol. La décision kirghize est jugée « regrettable » à Washington où le Pentagone étudie, de toute urgence, une solution tadjike. Le Tadjikistan serait, en effet, prêt à autoriser le transit vers l’Afghanistan de marchandises destinées à la coalition internationale, à l’exception des fournitures militaires.

 

La « guerre des bases » affecte aussi les territoires géorgiens. Les Russes vont ouvrir une base navale en Abkhazie, à un jet de grenade de la Géorgie. Ils projettent aussi d’en créer d’autres en Syrie, en Libye ou au Vietnam.

mercredi, 11 février 2009

Entretien avec Dragos Kalajic (1997)

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

Entretien avec Dragos Kalajic

 

Tandis que l'on vote en Serbie, le vent de la guerre souffle à nouveau sur les Balkans et les accords de Dayton risquent d'être balayés par les tensions provoquées par l'intransigence des Etats-Unis qui viennent de se ranger du côté de la “Dame de fer” de la République Serbe, la Présidente Plavsic.


Les principaux observateurs internationaux sont d'accord pour dire qu'une simple étincelle suffirait à embraser une situation déjà bien critique. Ils nous rappellent également que l'avenir de l'aire balkanique préoccupe non seulement les Serbes, les Bosniaques et les Croates mais aussi les Européens, les Russes et les Américains. C'est dans ce contexte que le nouveau quotidien milanais La Padania a recueilli les propos du Sénateur serbe Dragos Kalajic, co-directeur de l'Institut des Etudes géopolitiques de Belgrade. Kalajic nous a expliqué l'actuelle crise balkanique avec le regard d'un (géo)politologue serbe qui connaît bien la situation italienne.

 

DK: Les sanctions et l'embargo subis par la Serbie depuis plusieurs années ont appauvri l'économie du pays et provoqué un fort taux de chômage. Aujourd'hui encore la Serbie est isolée de la communauté internationale et le FMI déconseille d'investir chez nous, tandis qu'une caste de nouveaux riches, authentiques requins de la finance, spécule sur cette situation tragique. Ceux qui hier faisaient chez nous l'apologie du communisme se sont transformés aujourd'hui en thuriféraires de la “démocratie” capitaliste libérale. C'est un peu ce qui s'est passé en Italie après la chute du fascisme, le 25 juillet 1943...


GS: Monsieur le Sénateur, regrettez-vous le régime communiste?


DK: Absolument pas! Il me déplait que l'Europe ait utilisé deux poids deux mesures, en reconnaissant arbitrairement le droit à la sécession de la Croatie et de la Slovénie, et, en même temps, ait avalisé les frontières entre les diverses républiques yougoslaves que le régime communiste avait tracées.


GS: Mais le référendum sur la sécession en Yougoslavie a été proposé démocratiquement par Zagreb, tandis que la Serbie ne l'a pas acceptée et a envoyé des troupes...


DK: Ce référendum a été imposé par la coalition croato-musulmane à la suite d'une suggestion américaine; les Serbes, eux, voulaient suivre à la lettre la Constitution de la République de Yougoslavie. C'est la raison pour laquelle ils n'ont pas accepté la sécession: elle était contre la loi constitutionnelle. Mais parlons d'autre chose que de la guerre entre Serbes et Croates, évoquons plutôt du gros problème que pose l'émergence d'un Etat musulman en plein cœur de l'Europe.


GS: Vous voulez que nous parlions de la Bosnie?


DK: Exactement. Durant la guerre entre nous, les Serbes, et les Croates, j'ai rencontré un soldat ennemi que nous avions fait prisonnier et qui m'a dit: “Dans le futur, la Croix ne combattra plus, parce que le danger, c'est le Croissant”. L'Europe de Bruxelles et les Américains font semblant de ne pas comprendre que l'Islam vise l'“arabisation” du monde. Nous nous trouvons en tant qu'Européens en face d'une religion qui propage un totalitarisme implaccable, mais, à cause de sordides intérêts d'argent, personne n'ose le dire. Je voudrais vous rappeler qu'en mars 1992, un projet intéressant a été proposé aux parties belligérantes: la création d'une fédération de cantons ethniques en Bosnie-Herzégovine. Si ce projet avait été accepté, des flots de sang auraient été épargnés au pays. Mais c'est le leader bosniaque Izetbegovic qui a fait pression sur l'ambassadeur américain Zimmermann pour que celui-ci fasse marche arrière et retire sa signature. Ce petit jeu cynique de la superpuissance américaine, en paroles adversaire tenace de l'Islam, mais en fait grande financière et protectrice des Musulmans quand ceux-ci représentent un danger pour l'Europe.


GS: N'êtes-vous pas en train d'exagérer?


DK: En disant cela, je me base sur des données et des rapports internationaux qui n'ont jamais été démentis. Saviez-vous que les politologues turcs les plus influents annoncent l'islamisation de l'Europe dans les prochaines décennies? En 1991, la revue de géopolitique des musulmans bosniaques, Preporod (Sarajevo), donnait la parole au professeur turc Nazmi Arifi qui y préconisait l'islamisation de l'Europe par l'explosion démographique des résidents musulmans dans notre continent.


GS: En Italie, le gouvernement de l'Olivier (gauche) veut donner le droit de vote à tous les “extra-communautaires”, alors que l'immigration clandestine demeure un problème irrésolu. Que pourrait-on bien faire, selon vous, pour éviter toutes tensions futures?


DK: C'est Umberto Bossi qui a raison quand il prévoit une véritable invasion d'immigrants dans les prochaines décennies. Or vos jeunes, en Italie, ne bénéficient plus d'aucune protection sociale. Pire, les groupes de la criminalité organisée pourront recruter partout, chez vos jeunes comme chez les immigrants, des hommes désespérés et déracinés prêts à tout. Ce problème de l'exclusion et de l'immigration n'est pas l'affaire de chaque Etat en particulier, c'est un problème qui est désormais international. Hélas, les déséquilibres géopolitiques d'aujourd'hui ne laissent rien présager de bon, vu la prépondérance de l'idéologie mondialiste dans tous les gouvernements d'Europe.


GS: Depuis longtemps, vous suivez les événements d'Italie. Que pensez-vous de l'émergence d'une Padanie indépendante?


DK: Ce phénomène interpelle, à mon avis, deux dimensions politiques différentes: premièrement, la volonté réelle du peuple de se débarrasser de la fiscalité étouffante imposée par Rome et, deuxièmement, les retombées possibles de cet état d'esprit révolutionnaire. L'histoire nous enseigne que la route de l'enfer est pavée de bonnes intentions. En tant qu'observateur étranger, je ne peux qu'enregistrer les énormes différences qui existent en tous domaines entre Lombards et Siciliens, entre Vénétiens et Campagnols, etc. Ensuite, force est de constater que la carte de l'Europe se modifie sur base des ethnies et se recompose de façon telle que nous retrouverons bientôt une situation comme avant la révolution française, c'est-à-dire, pour l'Italie, à une situation d'avant le Risorgimento. A mon avis, c'est une évolution positive, qui démontrer que l'unité politique de votre péninsule est artificielle, qu'elle a été voulue par les intérêts idéologiques de la franc-maçonnerie et les intérêts matériels de la finance, mais qu'elle n'a jamais reflété la volonté populaire. Mais cette évolution, bien que positive dans bon nombre de ses aspects, recèle également un grave danger: la désagrégation des Etats nationaux pourrait aussi apporter de l'eau au moulin du mondialisme des financiers et de leurs hommes de main dans la sphère politique. Il faut donc que les peuples qui sont réellement animés du désir de liberté et de paix trouvent une voie conjugant le réveil des nations authentiques et l'émergence d'une Europe forte, non seulement sur le plan économique, mais aussi sur les plans militaire et politique. Mais si vous voulez entendre l'avis d'un homme qui vient de faire la guerre, je vous dirai que je ne crois pas que la sécession éventuelle de la Padanie provoquera un affrontement armé. En Yougoslavie, la situation était beaucoup plus compliquée, mais, vous Italiens, possédez une conscience historique qui s'étend sur trois millénaires.


(propos recueillis par Gianluca Savoini lors de l'Université d'été de “Synergies Européennes” et parus dans le quotidien La Padania, édition du 21/22 septembre 1997).

 

samedi, 07 février 2009

Sur le "Grand Jeu" - Enjeux géopolitiques de l'Asie centrale

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Le Grand Jeu

XIXe siècle, les enjeux géopolitiques

de l'Asie centrale


Paru le: 21/01/2009
Editeur : Autrement
ISBN : 978-2-7467-1088-7

Ce que l'on appelle le Grand Jeu a opposé, au XIXe siècle, les intérêts géopolitiques russes et anglais, notamment en Asie centrale, et est considéré comme un épisode majeur des relations internationales de cette époque.
Pratiquement inconnu en France, à l'exception de quelques spécialistes, le Grand Jeu s'avère pourtant fondateur et son impact sur les représentations politiques dans les élites russes, britanniques, américaines, mais aussi indiennes et chinoises ne doit pas être sous-estimé. Mais ce que les Anglo-Saxons ont baptisé le "Grand Jeu" et les Russes le "Tournoi des ombres", c'est aussi une incroyable épopée, presque romanesque, qui a fait émerger une galerie de portraits d'aventuriers, d'explorateurs, de militaires et d'espions qui ont inspiré la littérature comme le cinéma.
Aujourd'hui, le Grand Jeu redevient d'une brûlante actualité. Les affrontements, plus ou moins secrets, qui ont lieu en Asie centrale et autour de la mer Caspienne renvoient à ceux du XIXe siècle. De nouveau, l'Afghanistan et ses marges deviennent l'objet de toutes les convoitises, des lieux d'affrontements par personnes interposées et la scène de complots multiples. Une histoire à découvrir, dont la connaissance, dans toutes ses dimensions, historique, mythique et politique, s'avère plus que jamais utile pour comprendre les enjeux contemporains.

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vendredi, 06 février 2009

La Russie et la Chine font entendre leur voix à Davos

LA RUSSIE ET LA CHINE FONT ENTENDRE LEUR VOIX A DAVOS


Chine-Russie


« Réformes structurelles, plan de relance, programmes sociaux, la Chine s’est attaquée aux symptômes de la crise comme à ses racines profondes, assure-t-il. Mais ce long catalogue administré par Wen Jiabao devant les 2500 participants du WEF est aussi une leçon au monde en crise, et au monde qui a généré la crise. Pour lui, celle-ci doit son origine à des "politiques macroéconomiques non appropriées" suivies par des pays consommant trop et n’épargnant pas assez, par des pays n’ayant pas assuré une bonne surveillance de leurs marchés financiers, par des pays dont les agences de notation n’ont pas fait leur travail. Suivez le doigt levé de Wen Jiabao: c’est évidemment aux Etats-Unis que revient la responsabilité du chaos. Alors que la Chine, par sa politique "active et responsable", contribuera à la "croissance et à la stabilité du monde".


Quelques heures plus tard, en ouverture cette fois officielle du Forum, le premier ministre russe Vladimir Poutine a, sur les origines de la crise, fait une analyse quelque peu différente. "On a tendance à concentrer les critiques sur les Etats-Unis, je ne le ferai pas" a-t-il dit. Et pour cause, puisque la Chine et les Etats-Unis forment, selon lui, le couple responsable du déséquilibre, avec d’un côté celui "qui imprime l’argent nécessaire à financer sa consommation excessive" et de l’autre celui qui "fabrique des produits bon marché et encaisse les devises".


Tout oppose l’impassibilité de Wen Jiabao à la tension de Vladimir Poutine, le discours structuré du premier et celui plus décousu du second. Ils en appellent à "la modération", signe éloquent du risque de la voir s’effacer devant l’ampleur des pressions. L’un et l’autre proposent leur catalogue de solutions, qui passent sans surprise par un renforcement de la régulation et de la surveillance du système financier mondial, de nouvelles plateformes de coopération internationale et une redistribution des pouvoirs au profit des économies émergentes. (...)


Wen Jiabao et Vladimir Poutine se répondent encore avec deux proverbes. "C’est en tombant de l’arbre qu’on apprend à marcher" a dit le Chinois. "On se renforce en marchant" a dit le Russe. La crise est donc facteur d’opportunités, aussi. Mais si chacun s’accorde à demander un monde d’après-crise plus respectueux de l’écologie et des nouveaux pouvoirs, nul n’en dessine précisément les contours. Vladimir Poutine propose au surplus un système de sécurité énergétique mondial "entre tous les acteurs de la chaîne" afin d’établir une base normative et juridique qui permettrait d’éviter les crises récemment traversées, et de stabiliser les prix. "Ce serait une création aussi importante que la Communauté du charbon et de l’acier", précurseur de la Communauté européenne. Il exige enfin une moindre dépendance vis-à-vis du dollar et un meilleur contrôle des critères d’émission de la principale monnaie de réserve. »



Le Temps, 29 janvier 2009

vendredi, 30 janvier 2009

Les Etats-Unis victimes de leur ignorance

LES ETATS-UNIS VICTIMES DE LEUR IGNORANCE


Medvedev et Poutine « Il n'y a pas aux Etats-Unis le moindre débat pertinent sur l'une des puissances régionales les plus importantes du monde. Même une simple reconnaissance du fait que la Russie est effectivement une puissance régionale avec des intérêts nationaux légitimes serait déjà un exploit considérable. Admettre cette situation – qui existe indépendamment de la capacité des Etats-Unis à la reconnaître – ne signifie pas soutenir les politiques de la Russie ou, d'ailleurs, d'aimer les Russes. En fait, ces deux obstacles à un débat sérieux sur la Russie se renforcent mutuellement. Les meilleures universités des Etats-Unis et les think tanks de Washington se disputent les plus brillants esprits disponibles, américains et étrangers, en études régionales chinoises et arabes. C'est tout à fait approprié dans un pays aussi vaste et puissant que les Etats-Unis. La plupart des Américains doués de raison se refuseraient à réduire l'ensemble du monde arabe à une scène peuplée de chameaux et de harems, ou à limiter leur connaissance de la Chine aux baguettes et aux pandas. Mais s'agissant de la Russie, les Américains semblent savourer leur ignorance. La Guerre froide est terminée et la perspective d'un conflit avec l'URSS ne menace plus l'existence du genre humain. L'Amérique jubile carrément de ne pas songer un seul instant à la Russie.


Le résultat est une uniformité d'opinions mal informées parmi les penseurs de la politique étrangère au sein des partis démocrate et républicain. Si l'on examine les récentes déclarations des candidats à la présidence sur n'importe quel sujet ayant trait à la Russie, on constate qu'elles sont fondamentalement semblables. Trouver des nuances entre McCain et Obama sur la Russie est une quête aussi ésotérique que celle des revirements soviétiques à l'égard de l'Ouest dans les années 1970. Les démocrates ont une mauvaise opinion de la Russie à cause de leurs idées préconçues, tandis que l'hostilité des républicains résulte d'une fossilisation idéologique remontant à la Guerre froide. Chez les démocrates, les diplomates et les spécialistes de la Russie ont souvent des origines est-européennes et les a priori qui vont avec. Ni les racines polonaises catholiques de Zbigniew Brzezinski, ni l'origine tchèque juive de Madeleine Albright ne font d'eux des juges impartiaux de la Russie. Apparemment, la majorité des républicains qui accordaient parfois une pensée à la Russie ont été déçus que Mikhaïl Gorbatchev accepte le défi du président Reagan de laisser tomber le Mur de Berlin. Une génération plus tard, Oussama ben Laden et Al-Qaida servent d'exutoire à cette haine idéologique, mais cela ne paraît pas aussi amusant.


La situation qui en résulte est la preuve éclatante du principe selon lequel un débat éclairé produit une excellente politique. Etrangement pourtant, toute action russe, forcément considérée avec suspicion, ou inaction russe, perçue comme la confirmation que la Russie est un empire déchu, sera examinée à la loupe de l'ignorance volontaire. Quel que soit le vainqueur de l'élection présidentielle, les relations américano-russes oscilleront entre l'assoupissement et la dégradation permanente. »



Vladimir Berezansky, avocat américain spécialiste de la Russie, Le Temps, 13 octobre 2008

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vendredi, 23 janvier 2009

Zinoviev's "Homo Sovieticus": Communism as Social Entropy

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Zinoviev’s “Homo Sovieticus”: Communism as Social Entropy

Tomislav Sunic

Students and observers of communism consistently encounter the same paradox: On the one hand they attempt to predict the future of communism, yet on the other they must regularly face up to a system that appears unusually static. At Academic gatherings and seminars, and in scholarly treatises, one often hears and reads that communist systems are marred by economic troubles, power sclerosis, ethnic upheavals, and that it is only a matter of time before communism disintegrates. Numerous authors and observers assert that communist systems are maintained in power by the highly secretive nomenklatura, which consists of party potentates who are intensely disliked by the entire civil society. In addition, a growing number of authors argue that with the so-called economic linkages to Western economies, communist systems will eventually sway into the orbit of liberal democracies, or change their legal structure to the point where ideological differences between liberalism and communism will become almost negligible.

The foregoing analyses and predictions about communism are flatly refuted by Alexander Zinoviev, a Russian sociologist, logician, and satirist, whose analyses of communist systems have gained remarkable popularity among European conservatives in the last several years.

According to Zinoviev, it is impossible to study communist systems without rigorous employment of appropriate methodology, training in logic, and a construction of an entirely new conceptual approach. Zinoviev contends that Western observers of communism are seriously mistaken in using social analyses and a conceptual framework appropriate for studying social phenomena in the West, but inappropriate for the analysis of communist systems. He writes:

A camel cannot exist if one places upon it the criteria of a hippopotamus. The opinion of those in the West who consider the Soviet society unstable, and who hope for its soon disintegration from within (aside that they take their desires for realities), is in part due to the fact that they place upon the phenomenon of Soviet society criteria of Western societies, which are alien to the Soviet society.

Zinoviev’s main thesis is that an average citizen living in a communist system -- whom he labels homo sovieticus -- behaves and responds to social stimuli in a similar manner to the way his Western counterpart responds to stimuli of his own social landscape. In practice this means that in communist systems the immense majority of citizens behave, live, and act in accordance with the logic of social entropy laid out by the dominating Marxist ideology. Contrary to widespread liberal beliefs, social entropy in communism is by no means a sign of the system’s terminal illness; in fact it is a positive sign that the system has developed to a social level that permits its citizenry to better cope with the elementary threats, such as wars, economic chaos, famines, or large-scale cataclysms. In short, communism is a system whose social devolution has enabled the masses of communist citizens to develop defensive mechanisms of political self-protection and indefinite biological survival. Using an example that recalls Charles Darwin and Konrad Lorenz, Zinoviev notes that less-developed species often adapt to their habitat better than species with more intricate biological and behavioral capacities. On the evolutionary tree, writes Zinoviev, rats and bugs appear more fragile than, for example, monkeys or dinosaurs, yet in terms of biological survivability, bugs and rats have demonstrated and astounding degree of adaptability to an endlessly changing and threatening environment. The fundamental mistake of liberal observers of communism is to equate political efficiency with political stability. There are political stability. There are political systems that are efficient, but are at the same time politically unstable; and conversely, there are systems which resilient to external threats. To illustrate the stability of communist systems, Zinoviev writes:

A social system whose organization is dominated by entropic principles possesses a high level od stability. Communist society is indeed such a type of association of millions of people in a common whole in which more secure survival, for a more comfortable course of life, and for a favorable position of success.

Zinoviev notes that to “believe in communism” by no means implies only the adherence to the ruling communist elite of the unquestionable acceptance of the communist credo. The belief in communism presupposes first and foremost a peculiar mental attitude whose historical realization has been made possible as a result of primordial egalitarian impulses congenial to all human beings. Throughout man’s biocultural evolution, egalitarian impulses have been held in check by cultural endeavors and civilizational constraints, yet with the advent of mass democracies, resistance to these impulses has become much more difficult. Here is how Zinoviev sees communism:

Civilization is effort; communality is taking the line if least resistance. Communism is the unruly conduct of nature’s elemental forces; civilization sets them rational bounds.

It is for this reason that it is the greatest mistake to think that communism deceives the masses or uses force on them. As the flower and crowning glory of communality, communism represents a type of society which is nearest and dearest to the masses no matter how dreadful the potential consequences for them might be.

Zinoviev refutes the widespread belief that communist power is vested only among party officials, or the so-called nomenklatura. As dismal as the reality of communism is, the system must be understood as a way of life shared by millions of government official, workers, and countless ordinary people scattered in their basic working units, whose chief function is to operate as protective pillars of the society. Crucial to the stability of the communist system is the blending of the party and the people into one whole, and as Zinoviev observes, “the Soviet saying the party and the people are one and the same, is not just a propagandistic password.” The Communist Party is only the repository of an ideology whose purpose is not only to further the objectives of the party members, but primarily to serve as the operating philosophical principle governing social conduct. Zinoviev remarks that Catholicism in the earlier centuries not only served the Pope and clergy; it also provided a pattern of social behavior countless individuals irrespective of their personal feelings toward Christian dogma. Contrary to the assumption of liberal theorists, in communist societies the cleavage between the people and the party is almost nonexistent since rank-and-file party members are recruited from all walks of life and not just from one specific social stratum. To speculate therefore about a hypothetical line that divides the rulers from the ruled, writes Zinoviev in his usual paradoxical tone, is like comparing how “a disemboweled and carved out animal, destined for gastronomic purposes, differs from its original biological whole.”

Admittedly, continues Zinoviev, per capita income is three to four times lower than in capitalist democracies, and as the daily drudgery and bleakness of communist life indicates, life under communism falls well short of the promised paradise. Yet, does this necessarily indicate that the overall quality in a communist society is inferior to that in Western countries? If one considers that an average worker in a communist system puts in three to four hours to his work (for which he usually never gets reprimanded, let alone fears losing his job), then his earnings make the equivalent of the earnings of a worker in a capitalist democracy. Stated in Marxist terminology, a worker in a communist system is not economically exploited but instead “takes the liberty” of allocating to himself the full surplus value of his labor which the state is unable to allocate to him. Hence this popular joke, so firmly entrenched in communist countries, which vividly explains the longevity of the communist way of life: “Nobody can pay me less than as little as I can work.”

Zinoviev dismisses the liberal reductionist perception of economics, which is based on the premise that the validity or efficiency of a country is best revieled by it high economic output or workers’ standard of living. In describing the economics of the Soviet Union, he observes that “the economy in the Soviet Union continues to thrive, regardless of the smart analyses and prognoses of the Western experts, and is in fact in the process of becoming stronger.” The endless liberal speculations about the future of communism, as well as the frequent evaluations about whether capitalist y resulted in patent failures. The more communism changes the more in fact it remains the same. Yet, despite its visible shortcomings, the communist ideal will likely continue to flourish precisely because it successfully projects the popular demand for security and predictability. By contrast, the fundamental weakness of liberal systems is that they have introduced the principles of security and predictability only theoretically and legally, but for reasons of economic efficiency, have so far been unable to put them into practice. For Claude Polin, a French author whose analyses of communist totalitarianism closely parallel Zinoviev’s views, the very economic inefficiency of communism paradoxically, “provides much more chances to [sic] success for a much larger number of individuals than a system founded on competition and reward of talents.” Communism, in short, liberates each individual from all social effort and responsibility, and its internal stasis only reinforces its awesome political stability.

TERROR AS THE METAPHOR
For Zinoviev, communist terror essentially operates according to the laws of dispersed communalism; that is, though the decentralization of power into the myriad of workers’ collectives. As the fundamental linchpins of communism, these collectives carry out not only coercive but also remunerative measures on behalf of and against their members. Upon joining a collective, each person becomes a transparent being who is closely scrutinized by his coworkers, yet at the same time enjoys absolute protection in cases of professional mistakes, absenteeism, shoddy work, and so forth. In such a system it is not only impossible but also counterproductive to contemplate a coup or a riot because the power of collectives is so pervasive that any attempted dissent is likely to hurt the dissenter more than his collective. Seen on the systemic level, Communist terror, therefore, does not emanate from one central source, but from a multitude of centers from the bottom to the top of society, whose foundations, in additions to myriad of collectives, are made up of “basic units,” brigades, or pioneer organizations. If perchance an individual or a group of people succeeds in destroying one center of power, new centers of power will automatically emerge. In this sense, the notion of “democratic centralism,” derided by many liberal observers as just another verbal gimmick of the communist meta-language, signifies a genuine example of egalitarian democracy -- a democracy in which power derives not from the party but from the people. Zinoviev notes:

Even if you wipe out half the population, the first thing that will be restored in the remaining half will be the system of power and administration. There, power is not organized to serve the population: the population is organized as a material required for the functioning of power.

Consequently, it does not appear likely that communism can ever be “improved,” at least not as Westerners understand improvement, because moral, political, and economic corruption of communism is literally spread throughout all pores of the society, and is in fact encouraged by the party elite on a day-to-day basis. The corruption among workers that takes the form of absenteeism, moonlighting, and low output goes hand in hand with corruption and licentiousness of party elite, so that the corruption of the one justifies and legitimatizes the corruption of the others. That communism is a system of collective irresponsibility is indeed not just an empty saying.

IN THE LAND OF THE “WOODEN LANGUAGE”
The corruption of language in communist societies is a phenomenon that until recently has not been sufficiently explored. According to an elaborate communist meta-language that Marxist dialecticians have skillfully developed over the last hundred years, dissidents and political opponents do not fall into the category of “martyrs,” or “freedom fighters” -- terms usually applied to them by Western well-wishers, yet terms are meaningless in the communist vernacular. Not only for the party elite, but for the overwhelming majority of people, dissidents are primarily traitors of democracy, occasionally branded as “fascist agents” or proverbial “CIA spies.” In any case, as Zinoviev indicates, the number of dissidents is constantly dwindling, while the number of their detractors is growing to astounding proportions. Moreover, the process of expatriation of dissidents is basically just one additional effort to dispose of undesirable elements, and thereby secure a total social consensus.

for the masses of citizens, long accustomed to a system circumventing al political “taboo themes,” the very utterance of the word dissident creates the feeling of insecurity and unpredictability. Consequently, before dissidents turn into targets of official ostracism and legal prosecution, most people, including their family members, will often go to great lengths to disavow them. Moreover, given the omnipotent and transparent character of collectives and distorted semantics, potential dissidents cannot have a lasting impact of society. After all, who wants to be associated with somebody who in the popular jargon is a nuisance to social peace and who threatens the already precarious socioeconomic situation of a system that has only recently emerged from the long darkness of terror? Of course, in order to appear democratic the communist media will often encourage spurious criticism of the domestic bureaucracy, economic shortages, or rampant mismanagement, but any serious attempt to question the tenets of economic determinism and the Marxist vulgate will quickly be met with repression. In a society premised on social and psychological transparency, only when things get out of hand, that is, when collectives are no longer capable of bringing a dissident to “his senses,” -- which at any rate is nowadays a relatively rare occurrence -- the police step in. Hence, the phenomenon of citizens’ self-surveillance, so typical of all communist societies, largely explains the stability of the system.

In conclusion, the complexity of the communist enigma remains awesome, despite some valid insights by sovietologists and other related scholars. In fact, one reason why the study of communist society is still embryonic may be ascribed to the constant proliferation of sovietologists, experts, and observers, who seldom shared a unanimous view of the communist phenomenon. Their true expertise, it appears, is not the analysis of the Soviet Union, but rather how to refute each other’s expertise on the Soviet Union. The merit of Zinoviev’s implacable logic is that the abundance of false diagnoses and prognoses of communism results in part from liberal’s own unwillingness to combat social entropy and egalitarian obsession on their own soil and within their own ranks. If liberal systems are truly interested in containing communism, they must first reexamine their own egalitarian premises and protocommunist appetites.

What causes communism? Why does communism still appear so attractive (albeit in constantly new derivatives) despite its obvious empirical bankruptcy? Why cannot purportedly democratic liberalism come to terms with its ideological opponents despite visible economic advantages? Probably on should first examine the dynamics of all egalitarian and economic beliefs and doctrines, including those of liberalism, before one starts criticizing the gulags and psychiatric hospitals.

Zinoviev rejects the notion that the Soviet of total political consolidation that can now freely permit all kinds of liberal experiments. After all, what threatens communism?

Regardless of what the future holds for communist societies, one must agree with Zinoviev that the much-vaunted affluence of the West is not necessarily a sign of Western stability. The constant reference to affluence as the sole criterion for judging political systems does not often seem persuasive. The received wisdom among (American) conservatives is that the United States must outgun or out spend the Soviet Union to convince the Soviets that capitalism is a superior system. Conservatives and others believe that with this show of affluence, Soviet leaders will gradually come to the conclusion that their systems is obsolete. Yet in the process of competition, liberal democracies may ignore other problems. If one settles for the platitude that the Soviet society is economically bankrupt, then one must also acknowledge that the United States is the world’s largest debtor and that another crash on Wall Street may well lead to the further appeal of various socialistic and pseudosocialist beliefs. Liberal society, despite its material advantages, constantly depends on its “self-evident” economic miracles. Such a society, particularly when it seeks peace at any price, may some day realize that there is also an impossibly high price to pay in order to preserve it.

[The World and I   (Washington Times Co.), June, 1989]

Mr. Sunic, a former US professor and a former Croat diplomat, holds a Ph.D. in political science. He is the author of several books. He currently resides in Europe.

http://doctorsunic.netfirms.com

dimanche, 18 janvier 2009

Russia e Ucraina, la vera posta in gioco

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Russia e Ucraina, la vera posta in gioco

http://www.rinascita.info - Giovedì 15 Gennaio 2009 – 17:20 – Filippo Ghira



La crisi russo-ucraina sul gas, anche ieri il metano russo non è arrivato a destinazione nell’Unione europea, sembra fatta apposta per rendere più freddi, e non è una battuta visti i rigori dell’inverno, i rapporti tra Mosca e i Paesi europei e portarli a pensare se alla fine non sia un po’ troppo rischioso dipendere in maniera così considerevole dalle forniture della Gazprom. Un’idea questa che la Casa Bianca con il duo Bush e Obama e le compagnie petrolifere anglo-americane hanno tutto l’interesse ad alimentare. Soprattutto in questa fase che ha visto ridursi drasticamente le entrate valutarie russe a causa del crollo dei prezzi del petrolio e del gas, seguiti al ridimensionamento della speculazione internazionale, e per il loro ritorno ad un livello più decente. Mosca e Kiev, Gazprom e Naftogaz, si fanno la guerra l’una con l’altra scambiandosi reciproche accuse, si limitano ad osservare i Paesi europei che pure hanno mandato i loro osservatori a monitorare la situazione. Resta il fatto che, non potendo stabilire se sia la Naftogaz che ruba gas alla Gazprom o se invece sia la Gazprom che non lo pompa verso il territorio ucraino per instradarlo verso ovest, i Paesi della Ue si trovano al freddo senza il gas russo e finiscono per mettere sotto accusa entrambi i governi definiti come “inaffidabili”. Da qui deriva la tendenza di diversi di loro ad auspicare una riduzione delle forniture di gas da parte russa e un utilizzo di fornitori alternativi attraverso vie alternative ai gasdotti provenienti da est. Che sia in corso una più generale operazione di pressione su Mosca è provato però dalla massiccia fuga di capitali esteri che ha interessato la Russia dall’inizio della guerra in agosto contro la Georgia per il controllo dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Solo nel quarto trimestre del 2008 se ne sono andati 130 miliardi di dollari. L’economia russa, che è stata ulteriormente danneggiata dalla conseguente crisi della Borsa all’interno della quale, tanto per rimanere in tema, la Gazprom ha visto crollare del 67% il valore delle sue azioni, non può quindi permettersi ulteriormente di rinunciare ad entrate che le servono come il pane. Anche, e non è un aspetto da poco, per rinnovare il proprio arsenale militare. Resta da vedere se le azioni della Naftogaz e del governo ucraino siano state eterodirette proprio per incrinare sul lungo termine il fronte filo-russo dei Paesi europei. La situazione politica interna ucraina ha infatti la sua influenza che non è poca. In autunno a Kiev ci saranno le elezioni presidenziali e se l’attuale presidente, Viktor Yushenko, al potere dal 2005 dopo la rivoluzione arancione, appare fuori gioco, alle stelle sono invece le quotazioni del suo avversario di allora, il filorusso Viktor Yanukovich (votato dalle regioni orientali più vicine a Mosca) e del primo ministro, Yulia Timoshenko, già protagonista della piazza di 4 anni fa. La Timoshenko, con interessi personali nel settore energetico, ha ammorbidito di molto negli ultimi mesi le sue posizioni anti-russe, avvicinandosi anzi al Cremino. Putin e Medvedev, tanto per indurre gli ucraini a più miti consigli, continuano a far pesare velatamente la minaccia di spaccare il Paese favorendo la scissione delle regioni orientali. Una risposta indiretta sia a Bush che ad Obama che si erano detti entrambi a favore dell’entrata dell’Ucraina nella Nato con la collegata richiesta di installarvi le basi di quello scudo stellare, pensato ufficialmente contro l’Iran, in realtà da utilizzare per premere contro la stessa Russia. Un disegno contro il quale la Russia ha già risposto militarmente nel Caucaso in estate. Due azioni decise, due segnali a nuora (Georgia e Ucraina) perché suocera (gli Usa) intenda e perché non creda di poter portare il gioco troppo in là.

La dipendenza italianaed europea

Due giorni fa Silvio Berlusconi, pur prendendo atto delle difficoltà che tutti i Paesi della Ue stanno attraversando a causa delle crisi tra Mosca e Kiev, ha ribadito la sua vicinanza all’amico Putin dicendo di capire le ragioni di Gazprom. Del resto era stato il Cavaliere il principale demiurgo dell’accordo tra Eni e Gazprom che ha garantito al nostro Paese una fornitura costante da qui fino al 2045. Nel 2007, secondo i dati del ministero dello Sviluppo, l’Italia ha importato 73.882 miliardi di metri cubi. La Russia è stato il secondo fornitore (30,7%) dopo l’Algeria (33,2%). In realtà, l’Agenzia internazionale dell’Energia parla di una dipendenza minore, pari al 27% da Mosca. Gli altri fornitori sono nell’ordine la Libia (12,5%), l’Olanda (10,9%) e la Norvegia (7,5%). Mentre il restante 5,2% proviene da altri Paesi. Mosca ci invia di media 60 milioni di metri cubi di gas, una dipendenza non eccessiva, e la cui provvisoria mancanza può essere tranquillamente coperta dalle grandi riserve che ci assicurano una copertura per diverse settimane. Più legate al carro russo sono invece Paesi come Estonia, Lettonia Lituania, Finlandia e Slovacchia, dipendenti al 100% per le proprie importazioni. Molto dipendenti Bulgaria (90%), Grecia (81%) e Repubblica Ceca (78%). Ma anche Austria (67%), Ungheria (65%) e Slovenia (51%). Sotto la soglia del 50% si trovano Polonia (46%) e Germania (39%) e Romania (31%). Mosca è invece un fornitore non indispensabile per Francia (16%) e Belgio (4%).

Chi non compra nemmeno un metro cubo di gas dai russi sono invece Olanda, Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Spagna, Svezia, Cipro e Malta.
Complessivamente Mosca vende all’Unione europea circa un 25% del suo fabbisogno di gas. Sul lungo termine l’Europa, esaurendosi le proprie riserve, dovrà però aumentare le importazioni e quindi la dipendenza dall’estero. Ed in tale ottica si potranno scegliere due strade. Aumentare le importazioni dagli attuali fornitori, come appunto la Russia, o da altri come Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan. E l’appestato Iran. Oppure ricorrere all’importazione di gas liquido che dovrà essere trasformato grazie agli appositi rigassificatori. Nel primo caso, la scelta di Mosca o dei tre Paesi dell’Asia centrale comporterà due diverse scelte politiche e ovviamente due diverse implicazioni geopolitiche. Già sono stati stanziati i fondi per il gasdotto Nabucco che, collegato ai Paesi dell’Asia centrale, ne porterà il gas in Europa attraverso i Balcani bypassando la Russia. Sempre in tale ottica si muove il South Stream che collegato alla stessa filiera, collegherà la Grecia all’Italia. Disegni ai quali Mosca intende rispondere con la realizzazione del North Stream nel Baltico dalla Russia alla Germania bypassando le repubbliche baltiche filo-americane. Diverso è il caso del gas naturale liquido le cui importazioni, sempre nel 2007, hanno coperto il 13% del fabbisogno europeo. I primi fornitori restano quelli soliti: Algeria, Libia, Qatar e Nigeria. Mentre restano le incertezze sullo sviluppo del settore con la realizzazione dei gassificatori che dovrà comunque ottenere il via libera delle popolazioni locali interessate.

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dimanche, 11 janvier 2009

Poutine règle ses comptes...

POUTINE REGLE SES COMPTES


Nous sommes opposés à l’élargissement de l’OTAN en général. L’OTAN a été créée en 1949. Son objectif était la défense et la confrontation avec l’Union Soviétique, pour se protéger d’une éventuelle agression, comme on le pensait à l’époque. L’Union soviétique n’existe plus, la menace non plus, mais l’Organisation est restée. D’où la question : contre qui faites-vous "ami-ami" ? (...) Elargir l’OTAN, c’est ériger de nouvelles frontières en Europe, de nouveaux murs de Berlin, invisibles cette fois mais pas moins dangereux. La défiance mutuelle s’installe. C’est néfaste. Les blocs militaro-politiques conduisent à une limitation de la souveraineté de tout pays membre en imposant une discipline interne, comme dans une caserne. Nous savons bien où les décisions sont prises : dans un des pays leaders de ce bloc. (...)


Je ferai une autre remarque : la démocratie, c’est le pouvoir du peuple. En Ukraine, près de 80 % de la population est hostile à une adhésion à l’OTAN. Nos partenaires disent pourtant que le pays y entrera. Tout se décide donc par avance, à la place de l’Ukraine. L’opinion de la population n’intéresse plus personne ? C’est ça, la démocratie ? »



Vladimir Poutine, interviewé par Le Monde, 31 mai 2008

00:18 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : russie, poutine, géopolitique, otan, atlantisme, eurasisme, eurasie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 10 janvier 2009

La Shanghai Cooperation Organization ed il nuovo "Grande Gioco"

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La Shanghai Cooperation Organization ed il nuovo «Grande Gioco»

http://www.eurasia-rivista.org

di Andrei Areshev*

Lo sviluppo di agosto nel Caucaso e la crisi finanziaria globale dei paesi occidental, risultante dalle politiche avventurose che hanno condotto gli Stati Uniti, hanno predeterminato il bisogno di un nuovo posizionamento dei principali giocatori del mondo e del loro atteggiamento nei confronti dei punti chiave sull'agenda globale. Ciò si applica alla Russia, in primo luogo.

Convalidando le misure da prendere per evitare le minacce poste alla Russia dal sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti, il presidente russo Dmitry Medvedev, nel suo indirizzo alla nazione del 5 novembre, ha sottolineato la loro natura forzata, “abbiamo ripetutamente detto ai nostri partner che siamo aperti alla cooperazione positiva. Vorremmo neutralizzare le minacce comuni ed agiamo in tal modo insieme. Purtroppo, siamo notevolmente afflitti dalla riluttanza dei nostri partner ad ascoltarci”.

L'elezione di Barack Obama ha incontrato un grande ottimismo, sia in Europa che da determinate parti nella Russia, non dovrebbe ingannare: basta ricordare Clinton e gli attacchi aerei alla Jugoslavia che aveva ordinato. “Dovremo prendere decisioni molto difficili, anche quelle pertinenti gli affari internazionali… Ho lavorato sotto sette presidenti. Garantisco che così sarà. Posso offrirvi cinque o sei varianti, per esempio, il Medio Oriente o la Russia”. [all'inverso nella traduzione dal Russo. - edit.], ha detto durante la campagna elettorale Joseph Biden, asso degli affari esteri e nuovo vice presidente.

In questo contesto, un più dinamico ‘vettore orientale’ nella politica estera russa, volta alla cooperazione economica e militar-politica con gli alleati della Russia in Asia centrale e nella regione dell’Asia Pacifica, dovrebbe essere considerata come una cosa naturale. Stabilito negli anni ’90, come semplice meccanismo per le consultazioni sulle questioni di frontiera, l'organizzazione della cooperazione di Schang-Hai (SCO) sta trasformandosi gradualmente in un fattore importante della politica globale. Ciò è dimostrata, definitivamente, dal suo lavoro dinamico e dal vivo interesse da parte di nuovi potenziali membri. Basti dire che quattro stati nucleari, compreso l'India ed il Pakistan, finora sono stati coinvolti direttamente o indirettamente nelle sue attività. La tendenza verso l'ampliamento dell'organizzazione indica che i paesi euroasiatici più importanti sono delusi dagli Stati Uniti e stanno provando a risolvere i problemi regionali riunendo le loro forze e senza alcun mediatore.

A seguito della crisi di agosto nel Caucaso, le consultazioni politiche all'interno del SCO si sono intensificate. La sessione del Consiglio dei Ministri del SCO ha approvato un progetto di regolamento sullo status di partner dialogante dell'Organizzazione della Cooperazione di Schang-Hai, a Dushanbe, fin dal 25 luglio.

Il 28 agosto 2008 ha visto la firma della dichiarazione di Dushanbe, con le questioni economiche poste come e loro priorità, “a dispetto del contestuale rallentamento economico globale, la valuta responsabile e le politiche finanziarie, il controllo dei movimento di capitale, la sicurezza energetica ed alimentare”. Verso la fine di ottobre, Astana, la capitale del Kazakhstan, ha ospitato la sessione dei capi di governo del SCO assistiti dai primi ministri Kirghiso, Russo, Tajiko, Cinese, Uzbeco e Kazako. La sessione ha adottato le risoluzioni interessate a registrare il piano d'azione per ottenere l'attuazione del programma del commercio multilaterale e della cooperazione economica degli stati membri del SCO, specialmente, le risoluzioni sul rendiconto finanziario del SCO nel 2007, il preventivo per il 2009 ed un certo numero di altri argomenti organizzativi.

I capi di governo del SCO hanno firmato un comunicato congiunto sul risultato della sessione ed erano presenti alla firma del protocollo sullo scambio delle informazioni e sul controllo dei movimenti delle fonti di energia da parte dei servizi della dogana degli stati membri del SCO. Malgrado la mancanza di accordi innovativi, la sessione è stata tra quelle più fruttuose, poiché la crisi finanziaria alimenta l’interesse reciproco di Russia e Cina nelle varie forme di coordinazione regionale. Sarebbero state espresse l’intenzione che Mosca e Pechino vogliano usare lo SCO come moltiplicatore di forza nella promozione più dinamica delle loro idee per la riforma del sistema dei cambi attuale.

Lo SCO è divenuto un argomento influente della geopolitica. Una dichiarazione del ministero degli esteri del Kazakhstan, chiede che lo SCO sia trasformato gradualmente in un'organizzazione regionale completa.

Gli sforzi dinamici del SCO hanno apertamente infastidito Washington, che vi vede, regolarmente, il progetto di un cosiddetto 'egemonismo Cinese' e 'Imperialismo russo’. Il loro fastidio parla da sé, dati pilastri su cui si basa la politica estera di Washington in Eurasia, “malgrado i desideri dei politici francesi e cinesi, nessuna situazione di compensazioni o federazione ristabilirà un sistema di equilibrio dei poteri analogo a quello dell’Europa dei secoli diciottesimi e diciannovesimi, almeno non nell'immediato futuro.

Malgrado i desideri degli idealisti, nessuna istituzione internazionale ha dimostrato d’essere capace di un’efficace azione, in assenza del potere generato ed esercitato dagli stati [Storia ed Iperpotenze di Cohen E. La Russia nella politica globale. 2004, 5° edizione]”. Naturalmente, quando una tal alleanza o persino un suo suggerimento emerge, gli strateghi degli Stati Uniti fanno del loro meglio per screditarla e piantare un cuneo fra i suoi membri - e più presto agiscono, è miglio è. Secondo Cohen, “l'organizzazione della cooperazione di Schang-Hai è uno strumento con cui la Cina aumenta la sua influenza in Asia centrale. Questa organizzazione impedisce agli Stati Uniti di parteciparvi come osservatore, benché questa condizione sia stata data al Pakistan, all’India e all'Iran. Possibilmente, la Cina, la Russia e l'Iran proveranno almeno ad impedire a Washington di ampliare la sua presenza nella regione, se non di spodestare gli Stati Uniti dalla regione”.

Anche se tale apprensione è stata giustificata, non c’è, ovviamente, alternativa a stabilire un coordinamento fra i paesi eurasiatici, basandosi sulla fiducia e sulla massima affidabilità. Come è noto, il supporto ai mojaheddin afgani, negli anni ‘70 e ‘80, ha trasformato un paese precedentemente benestante (sul piano regionale, naturalmente) in una terra devastata e fonte del traffico di droga e del terrorismo internazionale. A seguito dell'approvazione dell'Iniziativa d’Istanbul, dell'accesso negli stati arabi del Golfo Persico, dell'entrata delle forze militari nell'Afghanistan, dell’istituzione di basi militari in Asia centrale e della disponibilità di una Georgia addomesticata e del baluardo locale della NATO, la Turchia, l'introduzione della supremazia totale degli Stati Uniti nel heartland euroasiatico sembrava avere la strada spianata. Allora, vi furono il blitzkrieg all'Irak, con l'Iran indicato quale obiettivo seguente, ma la fortuna di Bush non è durata affatto a lungo, a quel punto. Ora, la guerra permanente in Irak, costa al contribuente degli Stati Uniti oltre gli 8 miliardi di dollari al mese. Ora che i 'peacekeepers' internazionali, soprattutto Americani, hanno occupato virtualmente l'Afghanistan, ognuno ammette che la droga prodotta nel paese e, quindi, il traffico di droga ha fatto un balzo in avanti di varie volte, almeno. Ora, dopo sette anni di combattimenti in Afghanistan, vi sono colloqui per un altro accordo fra la coalizione occidentale ed i Taliban. Un tal accordo può creare i prerequisiti supplementari per l’ulteriore destabilizzazione dell'Asia centrale.

La situazione in Irak non è migliore, dove nessuno calcola le perdite civili causate dall'aggressione degli Stati Uniti. Un attacco degli Stati Uniti all'Iran, che rimane all'ordine del giorno, può provocare anche un maggior disordine sul cortile meridionale della Russia.

Nessun dubbio gli Americani stanno cercando freneticamente un'efficace risposta ai tentativi di Mosca, Pechino e dei loro alleati del SCO d’istituire un sistema di sicurezza regionale. Determinati eventi in Asia centrale indicano i possibili pericoli e le minacce alla regione nell'immediato futuro. L'idea di una penetrazione accelerata e del soggiorno a lungo termine in Asia centrale, ricca d’energia, degli Stati Uniti è lontano dall’essere vuota chiacchiera o pio desiderio.

Circola l’idea d’instaurare un forum regionale gabbato come Partnership for Cooperation and Development of Greater Central Asia per progettare, coordinare e fare funzionare un’ampia serie di programmi inventati dagli Stati Uniti. Secondo gli strateghi degli Stati Uniti, se gli Stati Uniti vorranno agire unilateralmente, dovranno ricorrere a una leadership ragionevole e, senza considerevoli spese, fungere da ostetrica per la rinascita di un’intera regione d’importanza globale.

Passi pratici sono stati pure presi. Per esempio, il ministero del commercio e l'agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti hanno concesso al Tajikistan 875.300 dollari per affrontare la scarsità d’energia elettrica. L'ambasciata degli Stati Uniti, a Dushanbe, ha dichiarato che gli Stati Uniti inoltre hanno assegnato due concessioni per complessivamente 13,4 milioni di dollari al Tajikistan, per rafforzare il confine con l'Afghanistan, il principale fornitore di droghe in Russia ed Europa, secondo la Reuters. 6,5 milioni di dollari, inoltre, sono stati spesi per la costruzione di edifici della dogana e l’equipaggiamento della guardia di frontiera al checkpoint di Power Panj. In quella zona, 180 chilometri a sud di Dushanbe, un ponte stradale da 28 milioni di dollari sponsorizzato dagli Stati Uniti, è stato ordinato nel 2007. Tuttavia, è una domanda legittima chiedersi dove la generosa cura della sicurezza degli stati centro-asiatici recentemente indipendenti si conclude e lo schieramento d'infrastrutture militari, con gli altisonanti slogan sulla 'transizione alla democrazia' comincia.

Attualmente gli Stati Uniti sono i partner commerciali più importanti del Kazakhstan. Nei primi sei mesi del 2008, il giro d'affari dei due paesi ha superato gli 1,1 miliardi di dollari. La precedente enfasi sull'investimento degli Stati Uniti nel settore dell'energia e delle materie prime, probabilmente nel complesso persisterà. L'America ha attribuito importanza al Kazakhstan nel campo della sicurezza regionale, interessata al settore chiave della cooperazione bilaterale, cosa determinata dalla situazione in Afghanistan e dagli sforzi antiterroristi degli USA. Questo punto di vista è stato sostenuto dalla visita dell'ottobre 2008 del ministro degli esteri degli Stati Uniti Condoleezza Rice ad Almaty. La signora Rice ha notato che il Kazakhstan è rimasto un pilastro della politica degli Stati Uniti in Asia centrale, durante i contrasti nella sicurezza che vanno dalla Georgia all'Afghanistan.

Washington crede che sia impossibile non solo perseguire una politica afgana, la lotta al traffico di droga e al terrorismo internazionale, ma anche organizzare un sistema di sicurezza per l’Europa e l'Asia centrale senza la cooperazione completa fra l'occidente ed il Kazakhstan. Il Kazakhstan inoltre è un partner chiave della NATO nella regione. Washington funge da forza motrice nella cooperazione fra la NATO e il Kazakhstan. Fra gli stati asiatici centrali, il Kazakhstan ha i rapporti più stretti con l'alleanza. Con l'approvazione del piano d'azione specifico d’associazione, all'inizio del 2006, il Kazakhstan ha aumentato la sua integrazione con l'alleanza Nord-Atlantica.

L'atteggiamento dei principali giocatori internazionali verso l’Uzbekistan sopra nei passati anni, si sta rivelando anch’esso. Dopo la rivolta d’Andijan il presidente Islam Karimov ha compiuto una visita a Pechino, in cui gli è stato offerto un considerevole supporto economico e politico. Quindi il presidente Uzbeco ha visitato Mosca, dopo di che il suo atteggiamento nei confronti degli Stati Uniti e la loro base aerea a Karshi-Khanabad, è diventato più duro.

La risoluzione del summit del SCO tenutosi ad Astana nel 2005, stipulato dai firmatari del SCO determinerà più accuratamente il momento per dare ospitalità alle basi militari antiterroriste degli Stati Uniti sul loro territorio, stabilito nell'ambito del pretesto della campagna antiterrorista in Afghanistan.

Inoltre Tashkent ha chiesto agli Stati Uniti di ritirare le loro forze dalla base aerea di Karshi-Khabad, ma è stato sottoposto, invece, ad una pressione politica ed economica senza precedenti, avviata da Washington e dai suoi alleati europei. Tuttavia la reazione quasi isterica dell'occidente, ha condotto rapidamente ad un marcato ripensamento verso l'Uzbekistan. Il Generale degli Stati Uniti, Martin Dempsey, Comandante del CENTCOM è andato a Tashkent il 28 agosto. La sua visita, si pensa, avesse lo scopo di un possibile ristabilimento della presenza militare degli Stati Uniti in quanto paese centro-asiatico d’importanza strategica.

Dmitry Trenin, un autorevole ricercatore del centro Carnegie di Mosca, spiega il vero significato delle installazioni militari degli Stati Uniti nella regione, “dal punto di vista di Beijing, la presenza militare degli Stati Uniti in Asia centrale è un potenziale ‘Fronte occidentale’ degli Stati Uniti contro la Cina. Utilizzando le loro basi in Uzbekistan e in Afghanistan, gli Stati Uniti possono coprire con i voli aerei, gli obiettivi strategici nella zona occidentale della Cina, compresi i suoi impianti nucleari. Inoltre, nel caso di un conflitto, gli Stati Uniti potranno colpire sia la costa Est della Cina, che le sue linee di comunicazione terrestri occidentali.

Sembra che questi fattori, che sono chiamati 'multilateralismo' in modo politicamente corretto, non dovrebbero essere trascurati, mentre sono perplesso sulla riservatezza mostrata dagli alleati della Russia nel SCO, durante la crisi osseta del sud di agosto ed al successivo riconoscimento ufficiale di Mosca dell'indipendenza delle due ex regioni autonome georgiane. I membri del SCO sono noti per sostenere completamente la Russia a porte chiusi ma ufficialmente per limitarsi all'approvazione degli sforzi della Russia a mantenere la pace in Ossetia del sud, mentre allo stesso tempo riaffermano la loro adesione al principio dell’integrità nazionale degli stati. Allo stesso tempo, è assolutamente chiaro che le dichiarazioni convenzionali dei funzionari di Pechino, nel sostenere l'integrità nazionale della Georgia, non garantiscono affatto le autorità cinesi dai problemi nelle loro zone autonome del Xinjiang e del Tibet. Questi problemi erano molto in vista sia prima che durante le Olimpiadi a Pechino.

Come è risaputo, l'interesse di Washington verso i separatisti tibetani ed i Uiguri, data da parecchio tempo ed è a lungo termine. Nel caso dell’intenzionale alimentazione del focolaio di tensioni, una 'forza internazionale per il mantenimento della pace' può ben essere schierata al confine occidentale della Cina, in modo simile allo schieramento in Kosovo. Le dure dichiarazioni ripetute contro la Cina, dai funzionari degli Stati Uniti, sono sufficienti nel fare supporre che i tentativi di destabilizzare la situazione nella PRC saranno limitati, se saranno interessati dalla situazione il Kazakhstan, il Kirghizstan, il Tajikistan e l’Uzbekistan. È più conveniente prevenire le minacce alla frontiera e cercare soluzioni comuni contro il problema afgano nel quadro del SCO.

L'approfondimento di questa cooperazione porrà i prerequisiti per una coordinazione più stretta della politica estera della Russia con quelle della Cina e degli altri alleati, anche in altri settori.. Vi è l’opinione che il principale ostacolo sulla via di una maggior efficienza dell'organizzazione della cooperazione di Schang-Hai sia la rivalità fra la Russia e la Cina. La discussione su tale rivalità è stato alimentata da vari think tanks in Russia, non risparmiando sforzi per infondere nel ceto dirigente e nel pubblico russi il timore della 'espansione Cinese', 'Reclami territoriali cinesi alla Russia', ecc.

Nel frattempo, il timore può solo facilitare la presa di decisioni chiave su argomenti strategici. Il corso generale dei rapporti all'interno del triangolo Russia - Stati Uniti - Cina difficilmente sembra evolversi verso un confronto fra Mosca e Pechino. Il PRC e la Russia hanno iniziato a competere con gli Stati Uniti per il più efficace dominio in Asia centrale. Ciò non è affatto un capriccio o una manifestazione di cosiddette ambizioni imperiali, ma un assai pertinente problema di sicurezza nazionale russa, nel contesto delle limitate infrastrutture della guardia di frontiera della Russia, al sud, e nella debolezza dei suoi alleati della coalizione antiterroristica, nella possibilità di una provocazione del crescente estremismo radicale islamico politicizzato, nella regione.

In una parola, la strategia euroasiatica degli Stati Uniti ha notevolmente facilitato la cooperazione fra la Russia e la Cina, che superano la loro rivalità. Nella nuova situazione internazionale, è vitale per la Russia che ci sia stabilità effettiva nelle zone adiacenti al suo confine. Ciò armonizza l’interesse vitale di questo paese con gli stessi interessi della Cina, dell'India e dei firmatari centro-asiatici del SCO.

Fino a che gli stadi del SCO sono interessati, l'organizzazione non sarà un blocco militare come la NATO, né una conferenza permanente aperta sulla sicurezza come l’ASEAN, ma qualcosa nel mezzo. La trasformazione del SCO in un'organizzazione capace di una efficace risoluzione, inter alia, delle questioni di difesa comune, diventerà assai più rilevante con il crescere delle tensioni sul continente euroasiatico, che viene è provocato da esterni, ed aumenterà ulteriormente. In una tal situazione, è importante prepararsi trovando le giuste risposte alle sfide di domani, impiegando l’intera gamma di mezzi disponibili.

*Strategic Culture Foundation http://en.fondsk.ru/article.php?id=1821 24.12.2008
MILITARY DIPLOMAT - 2008 - N 4-5 - p. 3-10



Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru/
http://sitoaurora.altervista.org/
http://sitoaurora.narod.ru/
http://xoomer.virgilio.it/aurorafile

La guerra del gas

 

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La guerra del gas

http://www.rinascitabalcanica.info

 



Si è tenuta oggi a Bruxelles la riunione tra il direttore esecutivo Gazprom Alexei Miller e i dirigenti della Commissione europea, per illustrare lo stato attuale della crisi di fornitura e di transito del gas attraverso il territorio ucraino. La Russia riattiverà le forniture se l'Ucraina acconsentirà l'ispezione degli osservatori europei, e garantirà successivamente il transito.

Dopo soli pochi giorni di tagli alle forniture di gas, molti Stati Europei cominciano ad essere vittima del caos e del panico, oltre che del freddo, nonostante le rassicurazioni impassibili dei rispettivi Governi.  Continua dunque ad imperversare quella che può essere definita "la guerra del gas", scatenata da Russia e Ucraina senza nessun preavviso o misura cautela per preservare tutte le controparti coinvolte, ripetendo testardamente lo stesso errore del 2006. Tra l’altro, le schermaglie dei due litiganti hanno dato vita ad una diffusa disinformazione, tra accuse reciproche e intimidazioni, sintomo evidente della reciproca responsabilità dei due operatori energetici. La regione europea orientale, e la stessa Germania, sono rimaste senza gas, e chi ne ha la possibilità ricorre alle riserve strategiche. I Balcani non hanno alcun approvvigionamento di gas, che non può essere compensato con il ricorso agli stoccaggi, ma solo alla riconversione energetica con altri combustibili più costosi. Anche l’Italia non riceve da due giorni il gas russo, registrando secondo quanto riportato dall’ENI una sostanziale interruzione del gas proveniente dal gasdotto TAG, vedendosi così costretta ad aumentare il ricorso agli stoccaggi per compensare il calo delle importazioni. Il Ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola ha stimato un’autonomia non superiore alle tre settimane, in considerazione del fatto che l’apparato infrastrutturale italiano non ha avuto negli ultimi anni delle migliorie sensibili che possano compensare l’ammanco delle forniture provenienti della Russia. Si cerca dunque di massimizzare gli approvvigionamenti dagli altri Paesi fornitori (Algeria, Libia, Norvegia, Olanda, Gran Bretagna), ma anche dalla Slovenia, a cui sono stati già richiesti circa 200 mila m3 di gas al giorno.


Nel frattempo, si è tenuta oggi a Bruxelles la riunione tra il direttore esecutivo Gazprom Alexei Miller e i dirigenti della Commissione europea, per illustrare lo stato attuale della crisi di fornitura e di transito del gas attraverso il territorio ucraino. Miller ha incontrato il Commissario europeo per l'Energia Andris Piebalgs, il Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso e il Presidente del Parlamento europeo Hans-Gert Pottering. Allo stesso tempo, nella nottata tra la giornata di mercoledì e giovedì, si è avuto un faccia-a-faccia tra i dirigenti  Gazprom e Naftogaz  Ukraine a Mosca, quali Alexei Miller e Oleg Dubina, per giungere ad un compromesso per porre fine alla crisi.   Mosca rimane ferma sulla tesi secondo cui Gazprom ha sospeso le forniture di gas verso l'Ucraina dopo che non era stato raggiunto nessun compromesso sull’accordo commerciale per il 2009 e la liquidazione degli arretrati: una minaccia inutile se non attuata. Pur assicurando che il taglio interessava solo le esportazioni di gas destinate al consumo interno dell’Ucraina, Gazprom si è detta costretta a sospendere tutte le forniture sul territorio ucraino, in quanto la società energetica ucraina Naftogas  ha deviato più di 86 milioni di metri cubi di gas russo destinato al mercato europeo,  mentre la società RosUkrEnergo non ha ricevuto 25 milioni di metri cubi dalla UGS Ucraina. Il gigante russo ha poi intimato la società ucraina di restituire, mediante le proprie riserve, il gas che non è stato ricevuto dai consumatori europei.  Al contrario, il Vice Presidente della  Naftogaz Vladimir Trikolich accusa apertamente Gazprom, e afferma che "la Russia non ha neanche cercanto di riaprire il deposito del transito del gas attraverso l'Ucraina",  e che "Gazprom ha completamente bloccato le forniture di gas per l'Ucraina e lo stesso transito di gas verso l'Europa".  Secondo Kiev, la propaganda russa è deliberatamente volta a screditare la Naftogas e lo stesso Stato ucraino, a cui vengono imputando tutte le responsabilità per la cessazione della fornitura di gas ai Paesi Europei.


 Ora la Russia chiede che sia garantito il transito del gas e l’autorizzazione del controllo da parte di osservatori internazionali come condizione per la ripresa delle forniture di gas alle frontiere.  Il Presidente russo Dmitri Medvedev ha infatti ribadito che, prima di riaprire le condutture, è necessario autorizzare il monitoraggio da parte di rappresentanti  Gazprom, Naftogaz, le autorità ministeriali dei due Paesi e gli osservatori della UE.  La controparte ucraina, da parte sua, si dice pronta a fornire il transito di gas russo verso l'Europa, come affermato da Oleg Dubina nel corso di una conferenza stampa con i giornalisti al termine dei colloqui a Mosca con Miller. "La situazione attuale e le incomprensioni derivano da questioni economiche, non da problemi politici. Essi devono essere risolte in conformità degli interessi economici delle parti", afferma Dubina, aggiungendo che l'Ucraina è pronta a garantire il transito di gas verso l’Europa, e che la parte russa deve comunque garantire la fornitura di una certa quantità di gas necessaria al funzionamento del compressore e delle stazioni di transito.  Allo stesso modo si dice favorevole ad ammettere l’ingresso sul territorio degli osservatori dell'Unione Europea per il monitoraggio di gas. "I nostri uomini sono pronti ad entrare sul territorio ucraino. Stiamo aspettando l'esito della riunione tra i capi di Gazprom e Naftogaz", ha riferito  Pottering dopo l'incontro con il Vice Primo Ministro d'Ucraina Grigory Nemyreem.


In un modo o nell’altro, sembra che la situazione stia lentamente tornando alla normalità, dopo che Mosca e Bruxelles hanno dettato delle precise condizione per lo sblocco della crisi energetica. Molto probabilmente l’emergenza rientrerà da qui a pochi giorni, viste le forti pressioni giunte dai vertici delle Istituzioni Europee e dei singoli Stati membri.  L'esito della grande crisi sarà comunque negativo, in quanto i prezzi saranno aumentati e i Paesi fornitori si sentiranno,  a maggior ragione, in balia della lotta perpetua di Mosca per il controllo della regione, sia dal punto di vista energetico che politico. Il rapporto fornitore-consumatore è stato in qualche modo incrinato, non essendovi nei fatti una strategia di cooperazione reale, al punto che basta una lite commerciale per decretare il taglio secco e totale dell’energia, senza la minima considerazione per i possibili danni economici e reali che si provocano. Il tutto si riduce ad un gioco-forza per ottenere il dominio delle proprie zone di influenza. La "guerra del gas" dichiara sconfitta innanzitutto l’Europa, impotente e impreparata nonostante le grandi strategie di diversificazione, ma anche l’Ucraina, che non è riuscita ancora una volta nel suo "colpo di Stato" contro la Russia.  Ogni strategia è stata dispiegata per portare a compimento il progetto dell’Opec del gas, e ribadire il fatto che l’Europa, l’Ucraina ed ogni altro Stato che dipende da tali fonti di energia, non possono fare a meno della Russia.

 

Fulvia Novellino

 

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vendredi, 09 janvier 2009

Moscou s'inquiète de la situation à la frontière israélo-libanaise

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Moscou s’inquiète de la situation à la frontière israélo-libanaise

http://fr.altermedia.info

La Russie a exprimé sa préoccupation par l’aggravation des tensions à la frontière israélo-libanaise où des échanges de tirs ont retenti jeudi matin, sur fond d’hostilités dans la bande de Gaza.

“Nous préconisons le strict respect de la résolution 1701 du Conseil de sécurité de l’ONU qui, on le sait, appelle Israël et le Liban à maintenir le cessez-le-feu, à oeuvrer pour un règlement durable sur la base du respect global de la Ligne bleue et à prendre des mesures de sécurité pour empêcher la reprise des hostilités”, a déclaré le ministère russe des Affaires étrangères dans un communiqué publié sur son site Internet.

La diplomatie russe a appelé Israéliens et Libanais à “faire preuve de retenue et de responsabilité”.

“Il faut éviter toute provocation susceptible de détériorer la situation dans la région où tout est interdépendant, où les tensions se sont aggravées à l’extrême en raison de la confrontation israélo-palestinienne dans la bande de Gaza”, précise le communiqué.

Quatre roquettes de type Katioucha sont tombées jeudi matin à proximité de la ville israélienne de Nahariya, faisant deux blessés. Ce tir a été revendiqué par le groupe Front populaire de la libération de la Palestine-Commandement. L’armée israélienne a aussitôt répliqué par plusieurs salves d’artillerie en direction du Liban, et des avions survolent actuellement le Liban-Sud.

mercredi, 07 janvier 2009

Démocratie à la russe: pouvoir et contre-pouvoir en Russie

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trouvé sur: http://polemia.com

« Démocratie à la russe : pouvoir et contre-pouvoir en Russie »

Par Jean-Robert Raviot

 

« Démocratie à la russe » est un ouvrage passionnant. Jean-Robert Raviot, maître de conférences à Nanterre et à Sciences-Po, y procède à un froid décryptage de la vie politique russe. Avant de nous livrer à une comparaison décapante avec la « démocratie à l’européenne », livrons-nous à quelques explications :

En moins de vingt ans la Russie est passée du « parlementarisme balbutiant de la fin de l’empire » à la « démocratie présidentialiste post-soviétique » (1) et les Russes sont rapidement devenus des adeptes de l’ « athéisme démocratique » (2), sceptiques sur les élites qui les représentent.

Le nombre des partis siégeant au Parlement n’a cessé de se réduire : dix dans la chambre élue le 12 décembre 1993 ; quatre seulement dans la Douma d’Etat élue le 2 décembre 2007.

Le vote « de conviction » ou « d’élimination » qui marquait les scrutins du début des années 1990 a cédé la place à un vote « clientéliste » et d’ « allégeance » (3), un « vote d’allégeance » qui s’est porté, en 2007, à 70% sur Russie Unie, la grande force centrale, « centriste », qui a émergé, puis s’est imposée, comme force dominante en renvoyant sur les marges extrêmes les libéraux et les communistes.

Pour Russie Unie, « la démocratie est au service de la souveraineté nationale et de la puissance » (4) ; la démocratie vise moins à « être représentative que constructive ».

C’est ainsi que la Russie est devenue avec Russie Unie un pays à parti dominant. Cette situation était déjà connue auparavant dans d’autres pays réputés démocratiques tels que le Japon, avec le Parti libéral-démocrate depuis 1945, Taiwan, avec le Kouo-Min-Tang de 1950 à 1991, le Mexique, avec le Parti révolutionnaire institutionnel de 1930 à 2003, et la Suède, avec le Parti social démocrate de 1932 à 1976.

Bien sûr, la tentation est grande dans les médias occidentaux de condamner l’évolution de la Russie dont la vie politique s’éloignerait à leurs yeux de l’idéal type de la démocratie. Jean-Robert Raviot ne cède pas à ce confort intellectuel facile. Bien au contraire, il se plaît à souligner – horresco referens – les points de convergence entre la démocratie post-soviétique et la post-démocratie européenne :

– l’inégalité d’accès aux grands médias ;
– la vie politique qui se transforme en feuilleton télévisé à épisodes ;
– le débat politique simplifié à l’extrême et n’ayant qu’une incidente réduite sur la délibération ;
– le changement des modes de scrutin ;
– la lutte contre l’ « extrémisme » pour mobiliser ses partisans et déconsidérer son opposition : certes, en Russie ce sont les « libéraux » qui jouent le rôle d’ « extrémistes » dévolu en Occident aux « nationaux », mais la mécanique de manipulation de l’opinion est la même ;
– la dictature du politiquement correct même si le politiquement correct n’est pas le même à l’est et à l’ouest : c’est le patriotisme en Russie (Russie Unie se définit comme « le parti de la réussite, du redressement national ») ; c’est le mondialisme et l’antiracisme en Occident (où l’on veut construire « une humanité hors sol et hors histoire », selon Marcel Gauchet) ;
– des procédures électives qui dans les faits visent moins à permettre au peuple de choisir ses dirigeants qu’à assurer une légitimité à l’élite au pouvoir.

A rebours du « démocratiquement correct », Jean-Robert Raviot estime finalement que loin « d’accuser un quelconque retard la Russie post-soviétique est au contraire en avance sur son temps » (5). Et d’enfoncer ainsi le clou : « Le vernis de la modernité démocratique triomphante craque et les innombrables faux-semblants politiques de l’Occident apparaissent en pleine lumière. Aux Etats-Unis, le césarisme et le népotisme, qui constituent depuis toujours la part d’ombre du système politique, se manifestent avec une évidence sans pareille. Le « phénomène bureaucratique » se déploie avec un systématisme presque caricatural dans la « construction européenne ». Les préceptes du « politiquement correct » ont partout pris les apparences d’une nouvelle religion civile officielle. Les clientélismes de toute nature semblent constituer les vrais arcanes de la décision politique. La connivence des fortunes privées et des pouvoirs publics semble devenir la règle et la possession d’un patrimoine important est la clef du succès d’un nombre croissant d’entreprises de conquête du pouvoir politique. Enfin, l’impératif de sécurité est invoqué à l’appui de dispositions généralement plébiscitées qui substituent progressivement un état d’exception permanent à l’ordre constitutionnel. A l’heure où les recettes de la « gouvernance » se substituent à l’art du gouvernement des hommes, « la démocratie occidentale redescend du piédestal sur lequel l’histoire de l’après-1945 l’avait placée dans une comparaison, forcément avantageuse, avec les totalitarismes national-socialiste et communiste (6) ».

Les Occidentaux jugent sévèrement la démocratie à la russe au regard de l’idéal démocratique. Mais la démocratie à la russe renvoie en miroir à l’Occident la vision de sa propre réalité, toujours plus éloignée des grands principes censés la fonder.

Et pourtant l’Occident continue à s’ériger en donneur de leçons alors même qu’il est plus que douteux que les chefs politiques occidentaux bénéficient auprès de leur peuple d’une estime et d’une popularité réelles aussi flatteuses que celles dont bénéficient Vladimir Poutine et Dimitri Medvedev !

Guillaume Bénec’h
Polémia
08/12/08

(1 « Démocratie à la Russe », p. 5.
(2) Op. cit., p. 8.
(3) Op. cit., p. 48.
(4) Site Internet de Russie Unie, cité dans « Démocratie à la russe », p. 10.
(5) Op. cit., p. 118.
(6) Ibid.Jean-Robert Raviot,  « La Démocratie à la russe », Ellipses, avril 2008, 160 p., 17,10 euros.

 

Guillaume Bénec’h

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mardi, 06 janvier 2009

America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare

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America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare

Tiberio Graziani / http://www.eurasia-rivista.org

L’avventurismo statunitense in Georgia e la profonda crisi economico-finanziaria che investe l’intero sistema occidentale hanno definitivamente evidenziato l’incapacità degli Stati Uniti di gestire l’attuale momento storico. I paradigmi interpretativi basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia non sembrano più essere validi per delineare i prossimi scenari geopolitici. Una lettura continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali ci permette di individuare nell’America indiolatina e nell’Eurasia i pilastri del nuovo sistema internazionale.


L’incapacità statunitense di governare


La recente questione georgiana ha definitivamente posto una pietra tombale sul cosiddetto unipolarismo statunitense e, soprattutto, sembra aver reso effettivo un sistema geopolitico articolato ormai su poli continentali, cioè un sistema multipolare.

Ciò non è stato affatto colto dalla maggior parte degli osservatori ed analisti, i quali, pur consapevoli del tramonto della “nazione indispensabile” (secondo l’ardita definizione dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright), in margine alla crisi agostana tra Mosca e Tiblisi hanno ripetutamente fatto riferimento ad un nuovo bipolarismo e ad una riformulazione della “guerra fredda”. In realtà, siamo ben lontani dalla riedizione del vecchio sistema bipolare, e non soltanto perché le motivazioni ideologiche (tra cui l’antitesi comunismo-capitalismo, totalitarismo-democrazia), che hanno caratterizzato il dopoguerra dal 1945 al 1989, e dunque fornito linfa all’equilibrio bipolare, sono venute meno, ma, soprattutto, perché grandi paesi di dimensione continentale, come la Cina, l’India e il Brasile, in conseguenza del loro sviluppo economico e grazie alla coscienza geopolitica che anima da circa un buon decennio le loro rispettive classi dirigenti, ambiscono, responsabilmente, ad assumere impegni politici, economici e sociali a livello planetario.

Bisogna subito dire, però, che il declino del sistema unipolare a guida statunitense non significa affatto la fine dell’egemonia di Washington, tuttora presente, anche militarmente, in vaste aree del Pianeta. Quella di Washington è per il momento un’egemonia ridotta, con cui le nuove entità geopolitiche dovranno confrontarsi ancora per qualche anno. Un’egemonia, teniamo a sottolineare, forse più pericolosa del passato per la stabilità internazionale, perché appunto traballante e suscettibile, pertanto, di essere gestita da Washington e dal Pentagono con scarso equilibrio, come la crisi georgiana ha ampiamente dimostrato.

La profonda crisi strutturale dell’economia degli USA (1) ha contribuito soltanto ad accelerare un processo di ridimensionamento dell’intero “sistema occidentale” che, iniziato a metà degli anni ’90, veniva tuttavia registrato solo nei primi anni dell’attuale secolo da autori come Chalmer Johnson ed Emmanuel Todd nella rispettive analisi sulle conseguenze cui gli Stati Uniti, quale unica potenza mondiale egemone, sarebbero presto andati incontro (2) e sulla decomposizione del sistema statunitense (3).

Johnson, profondo conoscitore dell’Asia, e del Giappone in particolare, osservava, tra il 1999 e il 2000, che gli USA non sarebbero stati in grado di gestire il loro rapporto con l’Asia, se avessero perseguito i “reiterati tentativi del loro governo di dominare la scena mondiale” (4). Tra i cambiamenti, già visibili, che avrebbero nel prossimo futuro delineato un nuovo quadro geopolitico, Johnson poneva la propria attenzione al crescente tentativo della Cina di emulare le altre economie dell’Asia orientale a crescita intensiva (5). Lo stesso autore, riferendosi all’impietosa analisi illustrata da David Calleo (6) nel lontano 1987 sulla disgregazione del sistema internazionale, riteneva che gli Stati Uniti di fine secolo fossero “un egemone rapace” “dotato di scarso senso d’equilibrio”.

Anche il francese Todd, come l’americano Johnson, riteneva che gli USA, a causa delle guerre in Medio Oriente e in Jugoslavia, fossero diventati, ormai, un elemento di disordine per l’intero sistema internazionale; secondo Todd, inoltre, l’interdipendenza economica era a netto svantaggio dell’economia statunitense, come la crescita del deficit economico dell’ultimo decennio indubbiamente dimostrava.

Alcuni anni dopo, nel gennaio del 2005, un acuto e brillante osservatore come Michael Lind della New America Foundation sosteneva, in un importante articolo pubblicato sul “Financial Times” (7), che alcuni Paesi eurasiatici (principalmente la Cina e la Russia) e dell’America meridionale stavano “silenziosamente” prendendo misure il cui effetto sarebbe stato quello di “ridimensionare” la potenza nordamericana.

Più recentemente (2007), Luca Lauriola (8) ha sostanzialmente ribadito gli stessi concetti, che qui riportiamo nelle parole di Claudio Mutti: “Lauriola intende dimostrare alcune tesi che possono essere schematicamente riassunte nei termini seguenti: 1) gli USA non sono più la maggiore potenza mondiale; 2) la potenza tecnologica russa supera oggi quella statunitense; 3) l'intesa strategica tra Russia, Cina e India configura un'area geopolitica alternativa a quella statunitense; 4) gli USA si trovano in una gravissima crisi finanziaria ed economica che prelude ad un vero e proprio crollo; 5) in tale situazione, la potenza statunitense è "smarrita e impazzita", sicché Mosca, Pechino e Nuova Delhi la trattano cercando di non provocare reazioni che potrebbero causare catastrofi mondiali; 6) l'amministrazione Bush prosegue imperterrita verso il precipizio, inventando continuamente menzogne che giustifichino la funzione mondiale degli USA; 7) le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; 8) l'immagine odierna degli USA non è un'eccezione della loro storia, ma riproduce fedelmente quella di sempre (dal genocidio dei Pellirosse al terrorismo praticato in Vietnam); 8) negli USA, un ruolo politico eminente viene svolto da quella medesima lobby messianica che aveva primeggiato nella nomenklatura sovietica” (9).

Ma come mai l’iperpotenza statunitense, nel breve volgere di neanche un ventennio, è sul punto di collassare? Perché un attore globale come gli USA non è stato in grado di governare ed imporre il suo tanto declamato “New Order”, democratico e liberista?

Le risposte a tali quesiti non vanno ricercate soltanto nelle, tutto sommato, facili analisi care agli economisti e/o nelle contraddizioni politiche in seno al sistema occidentale. Vanno, a nostro avviso, cercate proprio nell’analisi delle dottrine geopolitiche della potenza statunitense. Gli Stati Uniti d’America — potenza talassocratica mondiale — hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos” (10), vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità di realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale.

Due geopolitici italiani, Agostino Degli Espinosa e Carlo Maria Santoro, in epoche diverse e molto lontane tra loro, rispettivamente negli anni ’30 e ’90, hanno constatato una importante caratteristica degli USA, quella di essere inadatti a governare, ad amministrare.

Scriveva nel lontano 1932 Agostino Degli Espinosa: “L'America non vuole governare, vuole semplicemente possedere nel modo più semplice, ossia con il dominio dei suoi dollari”, e proseguiva affermando che governare “non significa unicamente imporre delle leggi e delle volontà: significa dettare una legge a cui lo spirito del popolo o dei popoli aderisca in modo che fra governo e governati si formi un’unità spirituale organizzata” (11).

Ribadiva, a distanza di oltre sessant’anni, Carlo Maria Santoro: “le potenze marittime […] non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali” (12).

La specificità talassocratica degli USA, individuata da Santoro, e l’incapacità di governare, nel senso sopra magistralmente esposto da Degli Espinosa, spiegano meglio di ogni altra analisi il declino della Potenza nordamericana. A ciò, ovviamente, vanno aggiunti anche gli elementi critici connessi al grado di espansione dell’imperialismo statunitense: dispiegamento militare, spesa pubblica, scarso senso della diplomazia.

Ad affermare l’inettitudine degli USA nel gestire l’attuale momento storico è giunto, recentemente, anche l’economista francese Jacques Sapir. Per il direttore della scuola di Parigi per gli studi delle scienze sociali (EHESS), anzi, già la crisi del 1997-1999 aveva mostrato ”que les Ètats-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays” (13). Ovviamente, per Sapir la mondializzazione è un aspetto dell’espansionismo statunitense, essendo in larga misura l’applicazione della politica americana che egli ritiene essere “una politica volontarista di apertura finanziaria e commerciale” (14). All’epoca, quando le ricette liberiste statunitensi, veicolate attraverso i diktat del Fondo monetario internazionale, fallivano in Indonesia e venivano, a ragione, duramente rifiutate da Kuala Lumpur, fu, significativamente, sottolinea Sapir, la responsabile politica economica adottata da Pechino ad assicurare la stabilità dell’Estremo Oriente.

È interessante notare che l’accelerazione del processo di ridimensionamento economico e politico degli USA (2007-2008) è avvenuto proprio quando alla guida del paese permane una gruppo di potere che si rifà alle idee dei think tank neoconservatori. I neocons, è noto, hanno spinto il più possibile Washington ad attuare negli ultimi anni — a partire almeno dal 1998, anno in cui inizia la “rivoluzione negli affari militari” — una politica estera aggressiva ed espansionista; tale politica è stata condotta in stretta coerenza con i principi veterotestamentari (l’impulso messianico come componente del patriottismo statunitense e come costante del carattere nazionale) che li contraddistinguono e con la particolare declinazione, in senso conservatore, della nota tesi trockista della rivoluzione permanente. Questa tesi, oltre a costituire, per alcuni versi, il sostrato teorico della strategia della “permanent war”, definita dal vice presidente Dick Cheney ed attuata con solerzia dall’Amministrazione Bush nel corso degli ultimi due mandati presidenziali (2000-2008), rinverdisce la caratteristica “geopolitica del caos” di Washington.

America indiolatina ed Eurasia


Se gli USA, stretti tra necessità d’ordine geostrategico (controllo della Russia e della Cina in Eurasia, del Brasile, dell’Argentina e dell’area caraibica nel proprio emisfero) e una profonda crisi economico-finanziaria, sembrano essere confusi ed oscillare tra una politica estera persino più aggressiva e muscolare rispetto al recente passato e un ripensamento realistico del proprio ruolo mondiale, i maggiori paesi eurasiatici, Russia e Cina in testa, ed i più importati paesi sudamericani, Argentina e Brasile, appaiono sempre più consapevoli delle proprie potenzialità economiche, politiche e geostrategiche.

Ciò obbliga gli analisti e i decisori politici ad utilizzare nuovi paradigmi per interpretare il presente. Gli schemi interpretativi del passato, basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia, non sembrano valere più. Sarà bene analizzare il presente, al fine di cogliere gli elementi necessari per delineare i futuri possibili scenari geopolitici, da una prospettiva continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali; in particolare, occorrerà concentrare l’attenzione sugli assi intercontinentali tra i due emisferi del Pianeta.

Il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), il nuovo asse geoeconomico tra l’Eurasia e l’America indiolatina, è ormai una realtà ben definita, capace di attrarre, nel prossimo futuro, altri paesi eurasiatici e sudamericani. Se, nel breve-medio periodo, tale asse si consoliderà, il sogno “occidentalista” inglese di una comunità euroatlantica, dalla Turchia alla California (15), e quello mondialista degli USA, incardinato sulla triade Nordmerica, Europa e Giappone, saranno destinati a rimanere tali.

Il recente vertice dei Ministri degli esteri dei paesi del BRIC (maggio 2008, Ekaterinburg, Russia), che ha confermato l’intenzione dei nuovi paesi emergenti ad intessere ulteriormente le relazioni economiche e politiche, è stato percepito dagli USA come un vero e proprio affronto. A ciò occorre anche aggiungere la riunione dei Big Five (Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa), tenutasi a Sapporo nel luglio del 2008 in concomitanza con il vertice di Hokkaido del G8.

È con l’insediamento di Putin a primo ministro della Federazione russa (agosto 1999) che iniziano ad avviarsi consistenti relazioni economiche tra la Russia e i paesi sudamericani, per poi intensificarsi nel corso degli ultimi anni fino ad assumere una decisa dimensione politica.

Mentre risale all’aprile del 2001 l’interesse della Cina verso l’America meridionale, con la storica visita del presidente Jian Zemin a diverse nazione del subcontinente americano. La Cina, alla ricerca di materie prime e di risorse energetiche per il proprio sviluppo industriale, ritiene il Brasile, il Venezuela ed il Cile partner privilegiati e strategici (si contano, ad oggi, tra i 400 e 500 accordi commerciali tra Pechino, i principali paesi sudamericani e il Messico), tanto da investirvi cospicui capitali per la realizzazione di importanti infrastrutture.

Gli interessi russi e cinesi in America meridionale, dunque, aumentano giorno dopo giorno. Il colosso russo Gazprom (insieme all’italiana ENI) sigla contratti con il Venezuela (settembre 2008) per l’esplorazione delle aree Blanquilla Est e Tortuga, nel Mar dei Caraibi, a circa 120 chilometri a nord dalla città di Puerto la Cruz (Venezuela settentrionale), e Mosca vara un piano per la creazione di un consorzio petrolifero in America meridionale. Inoltre, mentre la Lukoil firma un memorandum d´intesa con la compagnia petrolifera venezuelana, la PDVSA, Chávez si reca a Pechino (settembre 2008) per firmare una ventina di accordi commerciali con Hu Jintao, relativi a forniture agricole, tecnologiche e petrolchimiche e si impegna a fornire 500 mila barili/giorno di petrolio entro il 2010 e 1 milione entro il 2012.

Inoltre, Pechino e Caracas, facendo seguito a intese intercorse nel maggio del 2008, a settembre dello stesso anno, prendono accordi per l'installazione di una raffineria di proprietà comune in Venezuela e per la realizzazione congiunta di una flotta di quattro petroliere giganti e per l'aumento delle spedizioni di petrolio in Cina.

L’America caraibica e meridionale non sembra più essere il “cortile di casa” di Washington. Le preoccupazioni aumentano per Washington, quando il Nicaragua riconosce le repubbliche dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia, quando il Venezuela ospita bombardieri strategici russi a lungo raggio e, soprattutto, quando il processo di integrazione dell’America meridionale viene accelerato dalle strettissime intese tra Buenos Aires e Brasilia. Le relazioni tra i due maggiori paesi del subcontinente americano si sono recentemente (settembre 2008) concretizzate nell’adozione del sistema di pagamento in moneta locale (SML) per l’interscambio economico-commerciale. L’adozione del SML al posto del dollaro statunitense rappresenta un vero e proprio primo passo verso l’integrazione monetaria dell’intera area Mercosur e l’embrionale costituzione di un “polo regionale” che, verosimilmente, grazie soprattutto agli ormai consolidati rapporti con la Russia e la Cina in campo economico e commerciale, potrebbe svilupparsi nel breve volgere di un lustro.
Il nervosismo di Washington sale, inoltre, quando Pechino e Russia espandono la loro influenza in Africa e trattengono rapporti di collaborazione con l’Iran e la Siria.

Tuttavia, oltre i pur importanti e necessari accordi economici, commerciali e politici, affinché il nuovo sistema multipolare possa adeguatamente svilupparsi, i suoi due pilastri, l’Eurasia nell’emisfero nordorientale e l’America indiolatina in quello sudoccidentale, dovranno assumere, necessariamente, il controllo dei propri litorali e contenere le tensioni interne (spesso suscitate artificialmente da Washington e Londra), il loro vero tallone d’Achille.

Infatti, per far fronte agli USA — per trovare, cioè, soluzioni ragionevoli ed equilibrate che ne riducano, a livello planetario, senza ulteriori sconvolgimenti, il grado di perturbazione — Cina e Russia devono considerare che, attualmente, l’ex iperpotenza è, sì, sicuramente una nazione “smarrita”, ma pur sempre un’entità geopolitica dalle dimensioni continentali, padrona dei propri litorali e con ancora una potente flotta navale (16), presente su tutti gli scacchieri del Pianeta. Recentemente, ricordiamo, Washington ha riattivato la Quarta Flotta (per ora costituita da 11 navi, un sommergibile nucleare e una portaerei) per dimostrare, minacciosamente, il proprio impegno presso i loro partner centroamericani e sudamericani. La pur sempre temibile potenza statunitense impone all’Eurasia, principalmente alla Russia che ne costituisce il fulcro, ma anche alla Cina, di attivare una politica di integrazione, o maggiore collaborazione, verso l’area peninsulare ed insulare della massa continentale, cioè verso l’Europa ed il Giappone. È in tale contesto che occorre considerare la nuova politica del presidente Medvedev in relazione al potenziamento delle forze armate russe e, in particolare, al riammodernamento della marina militare (17). Pur se ci troviamo nell’era della cosiddetta “geopolitica dello spazio” e della geostrategia dei missili e degli scudi spaziali, l’elemento navale rappresenta, già da oggi, un importante banco di prova sul quale gli attori globali sono chiamati a sperimentare le proprie strategie per almeno il prossimo decennio, sia nei “mari interni” (Mediterraneo, Nero e Caraibico) sia negli oceani.

Al fine di comprendere appieno le future mosse della potenza d’oltreoceano, Pechino e Mosca farebbero bene a tenere a mente quanto scriveva, anni or sono, Henry Kissinger,: “Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti” (18).

In maniera perfettamente speculare a quello per l’Eurasia, un analogo discorso vale anche per l’America indiolatina. L’America indiolatina — cioè per il momento, il Brasile, l’Argentina ed il Venezuela — è obbligata per evidenti motivi geostrategici, a contenere le tensioni che alimentano l’instabilità di una parte dell’arco andino (19), in particolare quella boliviana, che costituisce il tratto territoriale che collega la costa occidentale a quella orientale del subcontinente americano. Brasilia, Buenos Aires, Santiago e Caracas — se veramente vogliono sottrarsi alla tutela statunitense — dovranno necessariamente incrementare le loro relazioni politiche e militari e porre particolare attenzione al potenziamento delle proprie flotte marine, civili e militari. Le condizioni attuali, grazie all’“amico lontano” rappresentato dalle potenze eurasiatiche, sembrano giocare a loro favore. Le condizioni attuali, è doveroso dirlo, giocano a favore anche dell’Europa e del Giappone.

Per l’equilibrio del Pianeta, tuttavia, c’è solo da sperare che gli USA prendano ragionevolmente atto del loro ridimensionamento, e non perseguano, quindi, insensate strategie di rivincita.


Note
1. L’odierna crisi economico-finanziaria risale, secondo alcuni specialisti, tra cui Jacques Sapir, a quella del triennio 1997-1999. Jacques Sapir, Le nouveau XXI siècle. Du siècle «américaine» au retour des nations, Seuil, Paris 2008, p.11. Ricordiamo che gli USA, dal 1992 al 1997, nella convinzione di essere ormai l’unica potenza mondiale, veicolarono, a sostegno della loro strategia di dominio mondiale, una “campagna ideologica volta ad aprire le economie del mondo al libero commercio e al libero movimento dei capitali su scala globale” (Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001, p. 290).
2. Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001, ediz. orig. Blowback, The Costs and Consequences of American Empire, Little Brown and Company, London 2000.
3. Emmanuel Todd, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain, Gallimard, Paris 2002. Ed. italiana, Dopo l’impero, Tropea, Milano 2003.
4. Chalmer Johnson, op. cit., p. 59.
5. Chalmer Johnson, op. cit., p. 58.
6. “Il sistema internazionale va disgregandosi non solo perché nuove potenze aggressive dotate di scarso senso dell’equilibrio cercano di dominare i paesi confinanti, ma anche perché le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace”, David. P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142, citazione tratta da Chalmer Johnson, op. cit., p. 312.
7. Michael Lind, How the U.S. Became the World's Dispensable Nation in “Financial Times”, 26 gennaio 2005.
8. Luca Lauriola, Scacco matto all'America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.
9. Claudio Mutti, Recensione a L. Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, www.eurasia-org, 27 gennaio 2008.
10. Tiberio Graziani, Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta, in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 4/2007, p. 7.
11. Agostino Degli Espinosa, Imperialismo USA, Augustea, Roma-Milano 1932-X, p.521.
12. Carlo Maria Santoro, Studi di Geopolitica, G. Giappichelli, Milano 1997, p. 84.
13. Jacques Sapir, op. cit., pp. 11-12.
14. Jacques Sapir, op. cit., pp. 63-64.
15. Sergio Romano, in merito alla politica inglese antieuropea, così rispondeva a due lettori del quotidiano “Corriere della sera”: “L' obiettivo inglese è una grande comunità atlantica, dalla Turchia alla California, di cui Londra, beninteso, sarebbe il perno e la cerniera”, Sergio Romano, Perché è difficile fare l' Europa con la Gran Bretagna, Corriere della sera, 12 giugno 2005, p. 39.
16. Riporta Alessandro Lattazione che “la flotta USA, dieci anni fa, possedeva 14 portaerei e relativi gruppi di battaglia. Oggi ne ha, sulla carta, 10 ma solo 5/6 sono operative”. Alessandro Lattanzio, La guerra è finita?, relazione presentata al FestivalStoria, Torino, 16 ottobre 2008.
17. Alessandro Lattanzio, Il rilancio navale della Russia, www.eurasia-rivista.org, 1 ottobre 2008.
18. Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634-635.
19. Come noto, gli analisti suddividono l’America meridionale in due archi: l’arco andino, costituito da Venezuela, Colombia, Ecuador, Perú, Bolivia, Paraguay e l’arco atlantico, costituito da Brasile, Uruguay, Argentina e Cile.

vendredi, 26 décembre 2008

A l'Est, du nouveau...

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - LE COURRIER DES PAYS-BAS FRANçAIS (Lille) - VOULOIR (Bruxelles) - DÉCEMBRE 1989

Ce texte issu de nos archives montre, une fois de plus, quels espoirs fous soulevaient nos coeurs au moment de la disparition du Mur de Berlin ! Nos espoirs, faut-il le dire, n'ont pas été exaucés. La responsabilité de cette trahison vient de l'impéritie et de la veulerie du personnel politique européen, que nous n'avons pas eu le courage de jeter aux poubelles de l'histoire, comme les Est-Européens avaient jeté leurs apparatchiks communistes en descendant en masse dans la rue. Et aujourd'hui, y a-t-il eu foule en Belgique pour qu'on demande l'emprisonnement et la condamnation des immondes banksters? Et des flics ripoux qui pillent les librairies? Honte sur nous !

A l'Est, du nouveau

par Fabrice GOETHALS

L'ère de Yalta s'achève. Le rideau de fer, sinistre ba-lafre portée au cœur du continent européen, a craqué le 11 septembre dernier, lorsque la Hon-grie a ouvert ses frontières à l'Ouest. Deux mois plus tard, le Mur de Berlin était démantelé sous les acclamations du peuple allemand vivant des deux côtés de la frontière, tandis que le monde entier n'en croyait pas ses yeux. Ne nous payons pas de mots. Si, depuis 1945, il y a eu en Europe des événements proprement historiques, ce sont bien ceux auxquels nous venons d'assister au cours de ces dernières semaines. Evénements symbo-liques, mais aussi annonciateurs d'une époque qui ne pourra jamais plus avoir le même visage.

La première leçon que l'on peut tirer du spectacle qui se déroule à l'Est aujourd'hui, c'est qu'il constitue un démenti flagrant à bien des théories énoncées avec aplomb par les politolo-gues occidentaux. On nous dé-crivait l'Union Soviétique comme un mal absolu, quasi onto-logique et, comme tel, incapable de se ré-former lui-même. Mikha'il Gorbatchev (dont nul n'avait non plus prévu l'arrivée au pouvoir) a répondu à sa façon à cette représentation aussi specta-culaire que fantasmatique. Le fait que la peres-troïka soit une ré-volution accomplie par le haut dément, à elle seule, les analyses classiques des soviétologues libéraux. En réalité, comme l'a noté Paul Thibaud, "le totalitarisme absolu, sans faille, n'a jamais existé. S'il existait, il serait littéralement increvable" (Le Nouvel Observa-teur,  2-11-1989). S'écroulent du même coup l'image d'une bureaucratie "indéracinable", pri-son-nière d'un lobby militaro-industriel tout puissant, et d'un pouvoir installé dans l'irréversible, qui ne pourrait s'achever que dans la guerre et le sang.

Identité allemande et "Mitteleuropa"

Mais la fin du Mur de Berlin démontre encore autre chose. Elle démontre quels sont les enjeux historiques et les forces politiques les plus es-sentiels. Elle dé-montre que, sur la longue durée, ce sont les exigences des peuples, la reven-dication identitaire des commu-nautés nationales et les lois de la géopolitique qui fi-nissent tou-jours par l'emporter. Pendant des décen-nies, les hommes politiques occidentaux  —allemands y compris—  ont feint de croire que la vieille "question allemande" pouvait être mise per-pétuellement sous le boisseau. Comme l'a dé-claré ingénument l'ancien Premier ministre bri-tannique Edward Heath: "Bien sûr, nous disions que nous croyions à la réunification, mais c'est parce que nous savions que cela n'arriverait pas!". Il faut aujourd'hui se rendre à l'évidence: le re-foulé revient toujours au galop. L'évolution de l'opinion en RFA depuis quelques années, le regain d'intérêt pour la "Mitteleuropa" étaient des signes avant-coureurs qui ne trompaient pas. Tout récemment encore, l'exode massif des Allemands de l'Est vers la RFA, via la Hongrie et la Tchécoslovaquie, a brutale-ment rappelé aux observateurs que pour les Alle-mands, la "question nationale" n'est toujours pas ré-glée, et que les jeunes Allemands sont aujourd'hui les seuls à ne pas avoir d'identité propre en Europe.

Certes, la réunification allemande n'est pas encore faite. Elle se heurtera à bien des résis-tances! Gorbatchev, d'ailleurs, souligne lui-mê-me avec force que l'existence de deux Etats allemands fait aujourd'hui partie des "réalités existantes" en Europe. Mais qu'en sera-t-il demain?

Bien que l'attitude soviétique reste éminemment pro-blématique, compte tenu de la multitude des para-mètres à prendre en compte, il est clair, con-cernant l'Allemagne, que l'intérêt des Russes est de conserver pour l'avenir quelque chose de négociable. En clair, de "vendre" la réunification le plus cher possible. Dans l'immédiat, on aurait tort de sous-estimer la dyna-mique mise en œuvre par les derniers événements.

En RDA, la libéralisation politique a en effet nécessai-rement une résonnance différente de celle qu'elle peut avoir dans les autres pays de l'Est, dont l'existence nationale n'est pas en question. La division de l'Allemagne est directe-ment liée à l'existence d'un ré-gime communiste. Que ce régime s'affaiblisse, et la frontière née de cette division apparaîtra comme plus artificielle encore.

L'histoire revient au grand galop

Rapprocher la structure politico-institutionnelle des as-pirations populaires revient alors imman-quablement à rapprocher le temps de la réunifi-cation. Rétablir la libre circulation entre les deux parties d'une ville  —et qui plus est, d'une ancienne capitale—  traversée par la frontière Est-Ouest, c'est faire en sorte que cette fron-tière perde toute signification. Après cela, toute une sé-rie de cliquets vont jouer.

Une chose est sûre, et c'est elle qui donne aux événe-ments leur véritable dimension: l'Alle-magne, du fait de sa situation géopolitique, reste au cœur de l'Europe et de ses contradictions. L'unité de l'Europe passe par la réunification allemande et, inversement, toute évolu-tion du statut de l'Allemagne ne peut à terme qu'affecter le statut de l'Europe toute entière. Pour l'heure, la grande interrogation des Occidentaux est de savoir si la réunification est "compatible avec l'Europe". En un sens, ils n'ont pas tort: dans les an-nées qui viennent, c'est la nature de la coo-pération al-lemande avec l'Est qui va déter-miner la future structure de la Communauté européenne.

Mais en même temps, leur raisonnement est fautif, précisément parce qu'en parlant d'Europe, ils n'ont en tête que la "petite" CEE. Or, l'Eu-rope ne se ramène pas à son promontoire occi-dental. Elle est un conti-nent, dont les peuples aspirent à retrouver les voies de l'autonomie, de la puissance et de l'identité, perspec-tive qui implique l'abandon de la seule logique économique et marchande et l'émergence d'une "troi-sième Europe", sortie de l'affrontement stérile des blocs.

Alors qu'aux Etat-Unis, la mode est aujourd'hui de spéculer sur la "fin de l'histoire", tout se passe au contraire comme si, brusquement, l'histoire faisait re-tour. Et de fait, c'est toute une dynamique proprement historicisante qui s'en-clen-che actuellement, prenant de court les futurologues et la classe politique, toutes nuances con-fondues. Certes, il reste bien des incerti-tudes, et nous restons mal informés sur l'exacte signification des réformes entreprises en Union Soviétique, comme sur l'avenir de la perestroïka. On peut envisa-ger des phases de recul. Mais déjà, l'essentiel est fait. Si toute l'Europe de l'Est s'ébranle, les Russes, de-main, ne pourront pas envoyer les chars partout. L'histoire redevient ou-verte, et l'on peut déjà parier que, parmi ceux qui applaudissent aujourd'hui à la destruction du Mur, il s'en trouvera beaucoup demain pour regretter à mi-vois la "stabilité" de l'époque de la guerre froide. Donner l'initiative aux peuples, sortir de la logique des blocs, c'est en effet entrer dans la zone de l'imprévisible. Mais l'histoire est faite de cette im-prévisibilité-là. Et c'est pour cela que l'homme lui-même est toujours "ouvert": il se construit historiquement.

Fabrice GOETHALS.

Texte paru dans Le Courrier des Pays-Bas Français (n°62, nov. 89), lettre mensuelle éditée par la SEDPBF. Tout courrier à SEDPBF, 46 rue Saint-Luc, 59.800 Lille. Abonnement annuel (10 numéros): 100 FF ou 650 FB.

lundi, 22 décembre 2008

Pour une nouvelle Ostpolitik

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Michael WIESBERG:

Pour une nouvelle “Ostpolitik”

Récemment, les tentatives unilatérales des Etats-Unis d’élargir l’OTAN, en y incluant la Géorgie et l’Ukraine et en contournant de la sorte des décisions antérieures et claires, lancent dans le débat quelques questions fondamentales, appelant les partenaires européens des Etats-Unis au sein de l’Alliance atlantique, dont l’Allemagne, à prendre position dans l’avenir. La situation actuelle suscite avant toute chose la question suivante: comment les relations transatlantiques futures s’agenceront-elles? La Russie ne laisse planer aucun doute: elle considère que l’élargissement de l’OTAN à la Géorgie et à l’Ukraine relève de la pure provocation. Concrètement, nous courrons le danger d’une nouvelle période de gel sinon celui d’une nouvelle Guerre Froide avec la Russie.

Ce glissement vers une nouvelle Guerre Froide ne va pas dans le sens des intérêts européens et allemands, pour plusieurs raisons. Déjà les rapports étaient fort tendus, à cause de la Guerre d’Août dans le Caucase en 2008 et du projet américain d’installer des fusées en Europe de l’est. La Russie considère qu’elle est de plus en plus menacée par l’OTAN et en particulier par les Etats-Unis. Ainsi, le Président russe Dimitri Medvedev déplore dans son discours sur l’état de la nation, tenu le 5 novembre dernier, que l’on s’active à mettre en place “un nouveau système global de missiles anti-missiles” et que la Russie est actuellement “encerclée par des bases militaires”, tandis que l’OTAN tente de s’élargir sans la moindre retenue.  Medevedev a ensuite évoqué les contre-mesures russes, qu’il a qualifiées de “contraintes et forcées”. Comme son prédecesseur Poutine, Medvedev a rappelé que le monde “ne peut être dirigé depuis une seule capitale” et a demandé que “l’architecture d’une sécurité globale” soit mise en place, qui engloberait la Russie, les Etats-Unis et l’UE.

Jusqu’à présent, les Etats-Unis ont ignoré froidement ces avances et, pire, ont poursuivi sans sourciller leur politique des coups d’épingle contre les intérêts stratégiques russes. Même les partenaires européens des Etats-Unis ne comprennent guère quels sont les motifs géopolitiques de cette attitude américaine. Expriment-elles le fait qu’une superpuissance comme les Etats-Unis soit soumise à des dynamiques spécifiques qui impliquent “un besoin permanent d’intervention”, ainsi que l’a qualifié le politologue berlinois Herfried Münkler? D’après lui, les Etats-Unis ne pourront réaffirmer leur rôle de superpuissance que s’ils s’avèrent capables de contrôler réellement les “flux de capitaux de l’économie mondiale” et de déterminer “les rythmes de l’économie mondiale”.

De telles capacités sont désormais remises en question, vu la crise financière actuelle. Dans cette optique, un rapport récent (“Global Trends 2025”), émis par le NIC (“National Intelligence Council”), explique que nous sommes au beau milieu d’une phase de transition et que nous nous acheminons vers un “nouveau système” qui s’installera graduellement au cours des vingt prochaines années. Dans ce “nouveau système”, les Etats-Unis demeureront sans conteste le “principal acteur” sur la scène internationale, mais leur position sera “moins dominante” qu’auparavant. Les Etats-Unis, poursuit le rapport, ne pourront maintenir et défendre leur statut que s’ils continuent à jouer un rôle décisif dans “l’espace eurasien”, où vivent les trois quarts de la population mondiale.  Ce n’est donc pas un hasard si les principaux challengeurs des Etats-Unis (la Chine, l’Inde et la Russie) se situent justement dans cet espace. Si les Etats-Unis y perdent leur influence, cela reviendrait à perdre leur position hégémonique sur le globe.

Mais dans cette volonté de se maintenir dans “l’espace eurasien”, les Etats-Unis butent contre une difficulté majeure: ils sont là-bas une “raumfremde Macht”, une “puissance étrangère à l’espace”; ils doivent donc se maintenir et s’affirmer sur une masse continentale où ils ne sont pas chez eux et où ils demeurent par conséquent vulnérables. Cette constellation oblige les Etats-Unis à multiplier leurs manoeuvres, à mouvoir constamment leurs pions sur l’échiquier eurasien, selon l’expression du stratégiste Zbigniew Brzezinski, aujourd’hui devenu conseiller d’Obama.  Si ces manoeuvres sont souvent dirigées contre la Russie, c’est parce que celle-ci occupe une position centrale sur cette masse continentale eurasienne.

On peut me rétorquer, ici, que la Russie n’est certainement pas la puissance la plus solide de l’espace eurasien et que, dans l’avenir, elle ne pourra guère concurrencer l’UE et la Chine. Le publiciste allemand Hauke Ritz nous explique clairement pourquoi les Etats-Unis sont néanmoins portés à affaiblir constamment la Russie. C’est parce que cette dernière, vu sa position géographique et ses richesses en matières premières, est en mesure de concrétiser des “coopérations inter-eurasiennes”, notamment sous la forme de “relations économiques approfondies” avec l’UE. L’Europe y gagnerait en “indépendance” et, à la longue, cela mettrait en danger l’orientation transatlantique de sa politique depuis 1945.

Cette vision des choses est tout à fait plausible vu la complémentarité de bon nombre d’intérêts européens et russes. Par exemple: l’Europe ne peut pas réellement assurer ses apporvisionnements énergétiques sans la Russie; quant à la Russie, elle a un besoin énorme en technologie européenne. Cette complémentarité inquiète énormément les stratégistes américains, comme l’atteste, entre autres choses, la teneur du dernier livre de Brzezinski, “The Second Chance”, paru en 2007. Il y explique qu’il faut plus ou moins isoler la Russie en scellant des accords avec l’Europe et avec la Chine. La volonté américaine d’élargir l’OTAN encore plus à l’Est correspond pleinement à ces injonctions de Brzezinski, dans le sens où elles débouchent sur un morcellement complémentaire des sphères d’influence russes.

Une telle stratégie vise à créer un système de sécurité dominé par les Etats-Unis et englobant l’ensemble du continent européen jusqu’à ces confins caucasiens. Mais elle ne résussira que si elle reçoit l’aval et le soutien inconditionnels de l’Europe. Or, dans le rapport du NIC, celle-ci est décrite, avec mépris et condescendance, comme “un géant boiteux”, incapable de transformer sa puissance économique en puissance politique. Ce qui n’empêchera pas ce “géant boiteux” de devoir tôt ou tard prendre une position claire: peut-être acceptera-t-il la logique hégémoniste des Etats-Unis mais cela équivaudra à renoncer aux intérêts propres de l’Europe. Or un renoncement pareil ne constitue nullement une option politique valable pour le long terme. Il est donc grand temps que le “géant boiteux” apprenne à marcher droit.

Michael WIEBERG.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°50/2008, traduction française: Robert Steuckers).    

 

dimanche, 21 décembre 2008

Nous allons vers une nouvelle guerre froide...

 

 

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Nous allons vers une nouvelle « Guerre Froide »…

 

Entretien avec le Prof. Dr. Peter Scholl-Latour

Propos recueillis par Moritz Schwarz

Q. : Professeur Scholl-Latour, la Russie réagit fermement au déploiement des missiles anti-missiles américains en Pologne et en République Tchèque ; elle riposte en déployant à son tour des engins balistiques à moyenne portée à Königsberg en Prusse orientale. La Guerre Froide revient-elle au galop ?

PSL : De fait, la réaction russe correspond au modèle classique de la guerre froide, à plus d’un point de vue. Les Russes répondent à ce qu’ils perçoivent comme une provocation américaine. Ils procèdent exactement comme le fit l’OTAN au début des années 80 qui, pour répondre à l’installation des fusées SS-20 soviétiques, avait déployé les Pershing-2 américaines. A cette époque, j’étais rédacteur en chef du « Stern » et, dans la rédaction, le seul à avoir pris position pour le réarmement occidental. C’est pourquoi je comprends bien les Russes aujourd’hui. Mais je reviens à votre question : « La Guerre Froide revient-elle ? ». Je réponds « Non ». Car la nouvelle « guerre froide » n’est pas l’ancienne. Raison pour laquelle j’ai intentionnellement intitulé mon livre « La voie vers la nouvelle guerre froide ».

Q. : Et qu’est-ce qui distingue la nouvelle de l’ancienne ?

PSL : L’ancienne guerre froide était bien plus prévisible que celle que nous vivons aujourd’hui. A l’époque existait un contact permanent entre Washington et Moscou. Quand la situation devenait alarmante, on utilisait le téléphone rouge et on cherchait tout de suite à aplanir la situation. On oublie un peu vite qu’Eisenhower et Khrouchtchev se sont opposés de concert au débarquement insensé des Français et des Britanniques à Suez en 1956, en leur lançant un ultimatum. De plus, n’oublions pas que les Soviétiques, avant d’entrer en Tchécoslovaquie en 1968, avaient préalablement averti les Américains.

Q. : Votre livre est finalement un recueil d’articles, ce qui lui donne un caractère purement descriptif. La pertinence analytique qui caractérise généralement vos travaux semble cette fois absente. Pensez-vous que cela satisfera vos lecteurs ?

PSL : En 2003, quand j’ai dit que la guerre en Irak pourrait se terminer par un désastre, on m’a appelé « le vieux roi des prophètes de malheurs ». Ce que je présente dans mon nouveau livre, c’est l’évolution graduelle de la situation de 2001 à nos jours. Je n’ai pas changé un seul mot dans tous les articles que j’ai sélectionnés pour ce livre : le premier date du 22 octobre 2001, alors que l’offensive contre l’Afghanistan venait de commencer, et le dernier date du 5 novembre 2008, un jour après l’élection d’Obama. Dans ce vaste éventail d’articles, le lecteur pourra aisément constater que l’évolution des choses nous portait bien à la situation actuelle et que tout était donc parfaitement prévisible.

Q. : Le blocus de Berlin en 1948 est considéré comme la « première bataille » de l’ancienne guerre froide.  Pour la nouvelle guerre froide, vous considérez que c’est l’attaque américaine contre l’Afghanistan qui constitue le premier acte, même si dans ce conflit, les Etats-Unis ne font pas face à une autre grande puissance…

PSL : La Guerre froide du passé résultait d’une confrontation bipolaire. Aujourd’hui les Etats-Unis ne sont plus la puissance hégémonique universelle. Ils en sont eux-mêmes conscients, comme le révèle d’ailleurs une étude interne des services secrets américains. La principale différence entre l’ancienne et la nouvelle guerre froide réside dans la nature multipolaire de la nouvelle confrontation. Aux côtés des rivaux traditionnels que sont les Etats-Unis et l’Union Soviétique (dont la Russie est l’héritière, ndt), de nouveaux acteurs sont entrés en lice, comme la Chine, l’Inde et le monde islamique. La guerre en Afghanistan témoigne de la nouvelle acuité de la confrontation avec l’islam.

Q. : Est-ce utile de lier les rivalités entre grandes puissances au conflit avec l’islamisme ? Samuel Huntington a forgé, pour ce conflit tout particulièrement, la notion de « choc des civilisations » ; cette notion s’avère-t-elle pertinente pour distinguer ce conflit contre l’islamisme du conflit classique entre puissances, que vous évoquez sous la formule de « guerre froide » ?

PSL : Le 21ème siècle est d’ores et déjà marqué par le parallélisme entre divers conflits. Aujourd’hui, nous nous en apercevons, notamment lors des derniers événements d’Inde, où des islamistes ont défié l’Etat indien en perpétrant le massacre de Bombay. Le terrorisme international, que l’on appelle à Washington la lutte contre « l’islamo-fascisme » alors que je préfèrerais l’appeler la « révolution islamique », est un boulet que doivent traîner tous les « global players ». Dans cette optique, il faut tenir compte d’une chose : ici les véritables acteurs ne sont pas des Etats mais des mouvements insurrectionnels diffus, soutenus par la population, qui prennent de plus en plus souvent des attitudes antioccidentales. En principe, les attentats visent les gouvernements locaux et sont antioccidentaux surtout dans la mesure où l’Occident soutient ces gouvernements. Si l’ancienne guerre froide était une grande affaire planétaire sur laquelle on pouvait encore jeter un regard synoptique, la nouvelle se caractérise surtout par ses imbrications si complexes qu’elles ne sont plus immédiatement perceptibles.

Q. : La confrontation de type classique entre les Etats-Unis et la Russie aura-t-elle encore son point de gravitation principale en Europe centrale ?

PSL : La Russie n’est plus une puissance mondiale capable d’assurer un hégémon comme le fut jadis l’Union Soviétique. Mais elle reste, malgré tout, une grande puissance. Surtout parce qu’elle dispose d’un potentiel nucléaire, qui équivaut peu ou prou à celui des Etats-Unis.

Q. : Les Russes ont envoyé récemment une flotte avec pour navire amiral le croiseur atomique « Pierre le Grand », le principal bâtiment de leur flotte de l’Arctique et le plus grand navire de guerre du monde, au Venezuela. Dans l’avenir, n’y a-t-il pas là-bas le risque d’une nouvelle crise de Cuba ?

PSL : Je ne crois pas qu’on en arrivera là mais, quoi qu’il en soit, les Russes pourront équiper le Venezuela du Président Hugo Chavez d’armes qui ne seront certes pas aussi perfectionnées que celles des Américains mais qui confèreront aux Vénézuéliens un poids militaire important dans la région. N’oublions pas que quelques temps auparavant, les Etats-Unis avaient envoyé des navires de guerre en Mer Noire pour aller cingler face au littoral de la Géorgie. Les Russes ont réagi en adoptant le même mode de comportement. Ce genre d’incident se répétera dans l’avenir jusqu’au jour où les Etats-Unis reconnaîtront qu’ils doivent traiter la Russie comme un partenaire égal.

Q. : L’ex-général américain Wesley Clark a déclaré récemment dans un entretien avec « Junge Freiheit » (Berlin ; n°36/2008) que ces gesticulations russes n’étaient rien d’autre que du « boucan et des hurlements de colère », indices de l’impuissance de Moscou…

PSL : Mouais… je me souviens, moi, du conflit des Balkans en 1999, quand ce général Clark voulait jeter les Russes manu militari hors du Kosovo. Le Général britannique Mike Jackson lui avait rétorqué : « Je ne tolèrerai pas que l’on déclenche ici une troisième guerre mondiale ». La grande erreur du gouvernement Bush a été d’acculer sans cesse la Russie et de susciter de la sorte une animosité permanente à l’endroit de Washington qui, au départ, n’existait pas.

Q. : Vous écrivez également que la nouvelle guerre froide sera marquée par un déclin relatif de la Russie assorti d’un renforcement concomitant de la Chine…

PSL : Dans l’avenir, le véritable adversaire de l’Amérique sera la Chine qui, stratégiquement parlant, deviendra, à partir de 2025, l’égale des Etats-Unis. Les Russes entretiennent certes de bonnes relations avec la Chine, mais ils se sentent néanmoins menacés par l’énorme pression démographique chinoise en Sibérie orientale, surtout dans la province de Primorié, littorale du Pacifique. Cette province connaît actuellement une immigration chinoise massive, comme on l’a toujours craint, mais aujourd’hui la Russie est consciente que ses territoires d’Extrême Orient se dépeuplent à grande échelle (i. e. perdent leur peuplement slave). Face à ce vide démographique se masse le long du fleuve Amour et en Mandchourie une population de 130 millions de Chinois, qui connaît un développement fort dynamique. Les Russes savent que leur déficit démographique  —la Russie, avec ses 142 millions d’habitants compte à peine plus de citoyens que la France et l’Allemagne réunies—  menace leur statut de grande puissance. Or l’avenir annonce encore un ressac démographique : la population russe perd chaque année 800.000 âmes. L’époque où l’on parlait du « rouleau compresseur » russe, slogan du temps de ma jeunesse, est bien révolue. Ce ressac s’avère d’autant plus dramatique qu’environ 25 millions de musulmans vivent au sein de la Fédération de Russie, appartenant majoritairement aux peuples de souche turque ; ceux-ci ont une croissance démographique en hausse contrairement aux Slaves. Face à ces problèmes russes, l’Amérique à son tour présente des symptômes d’affaiblissement. Pensons à cette tragicomédie qui se déroule actuellement face aux côtes de la Somalie où la marine américaine, si puissante, n’a pu se trouver sur place à temps pour contrer l’action des pirates locaux.

Q. : La caractéristique majeure de l’ancienne guerre froide était d’être une guerre par parties interposées. Ce type de conflits reviendra-t-il avec la nouvelle guerre froide ?

PSL : C’est déjà le cas. Mais on ne les appelle plus de la sorte. Songeons à ce propos au conflit qui vient de secouer le Caucase en août dernier, en opposant la Géorgie à la Russie pour le contrôle de l’Ossétie du Sud. Les Américains avaient déployé 140 conseillers militaires en Géorgie qui auraient pu avertir immédiatement le Pentagone des intentions offensives du Président géorgien Saakachvili. Un simple coup de fil de George Bush à Tbilissi aurait suffi pour mettre tout de suite un terme à l’aventure. Mais les Etats-Unis ont délibérément laissé venir l’épreuve de force.

Q. : Leur objectif est donc bel et bien d’étendre le territoire de l’OTAN à l’Ukraine et à la Géorgie…

PSL : Du point de vue russe, il s’agit ici, une fois de plus, d’une pure provocation. Kiev, la capitale de l’Ukraine, est considérée par l’historiographie russe comme « la mère de toutes les villes russes ». En première instance, les Etats-Unis veulent évidemment placer des oléoducs et des gazoducs, afin d’acheminer directement les richesses en hydrocarbures de l’ancienne Union Soviétique vers l’Ouest sans passer par les territoires russe et iranien. L’enjeu n’est évidemment pas la liberté de la Géorgie, une liberté fort compromise par le régime imposé par Saakachvili. Pour ce qui concerne l’Ukraine, il faut se rappeler que nous avons affaire à un pays profondément divisé.  Si les Européens avaient encore une once de courage politique, ils imposeraient à leur allié américain de cesser toute tentative d’expansion de l’OTAN vers l’Est.

Q. : Qu’est-ce que cela signifierait pour nous si l’OTAN s’élargissait à Kiev et à Tbilissi ?

PSL : D’un point de vue militaire, ce serait totalement inutile car la Russie aurait bien des difficultés à lancer une guerre d’agression contre l’Europe.

Q. : Qu’en est-il de la puissance militaire russe ? Et du nationalisme russe ?

PSL : Les Russes ont bien d’autres soucis aujourd’hui pour qu’ils songent à mener une guerre de conquête à l’Ouest. Ils ne peuvent même pas se permettre une telle agression. Ce que nous entendons dans les médias à ce sujet relève d’une pure propagande, bien ciblée contre Moscou.

Q. : Et nous devrions réagir contre les effets de cette propagande…

PSL : A Berlin, nous devrions enfin avoir le courage de dire aux Américains (ce qui irait d’ailleurs aussi dans le sens de leurs propres intérêts) : « Nous ne participons plus ! ». L’Allemagne est un partenaire important de l’OTAN et n’a nul besoin de conserver ses lumières sous le boisseau. Si la Chancelière fédérale avait de bons conseillers, elle coopèrerait étroitement avec la France mais, à l’évidence, entre elle et Sarközy, les rapports sont plutôt tendus.

Q. : Les Etats-Unis n’ont-ils que la seule Russie dans le collimateur en envisageant un tel élargissement de l’OTAN ?

PSL : Non. Il s’agit aussi de créer et de maintenir une tension permanente entre l’Europe et la Russie. Les néo-conservateurs de l’entourage de Bush veulent surtout éviter que ne se créent entre l’Allemagne et la Russie des rapports de bon voisinage, assortis d’une profonde imbrication économique et politique de leurs atouts respectifs. En disant cela, je ne plaide nullement pour un changement d’alliance : nous devons nous garder d’un nouveau Rapallo ou de répéter l’alliance russo-prussienne de Tauroggen ; pour moi, l’Allemagne doit rester orientée vers l’Atlantique ! Cependant, l’Europe et la Russie se complètent naturellement : les Russes disposent des matières premières dont nous avons besoin et nous disposons des infrastructures techniques dont la Russie a besoin pour moderniser les siennes, qui sont dans un état lamentable.

Q. : Peut-on dire que les Américains font un mauvais usage de l’OTAN ?

PSL : D’une certaine manière, oui car l’OTAN, au départ, était une alliance défensive. Les Etats-Unis cherchent désormais à transformer l’OTAN en un instrument de leur politique hégémoniste globale. Nous devrions revenir à l’ancienne et solide politique de sécurité commune qui alliait l’Europe à l’Amérique.

Q. : L’ancienne guerre froide, disait-on, avait été provoquée par les Soviétiques, qui entendaient étendre leur pouvoir à l’Europe occidentale. Si l’on suit aujourd’hui vos analyses, les Etats-Unis portent la responsabilité d’avoir déclenché la nouvelle guerre froide.

PSL : Le gouvernement de Bush porte de lourdes responsabilités à ce niveau. Que cherchait-il, par exemple, en pratiquant sa politique constante de coups d’épingle contre la Chine, politique à laquelle participent d’ailleurs les Allemands ? Les présidents Clinton et Bush Senior se sont montrés bien plus flexibles face à la Chine. La situation actuelle provient tout entière des errements idéologiques des néo-conservateurs et de la cupidité insatiable des consortiums américains du pétrole, qui cherchent à s’emparer des hydrocarbures d’Asie centrale. L’Amérique, en ce domaine, a sauvé l’honneur car sa presse est bien plus critique à l’égard de cette politique agressive des pétroliers et des néo-conservateurs que notre propre presse allemande, qui, victime d’un éclairage historique fallacieux, considère encore et toujours que les Américains sont les vainqueurs et les libérateurs de 1945.

Q. : Beaucoup placent de grands espoirs en Obama. Sera-t-il le Richard Nixon ou le Jimmy Carter de la nouvelle guerre froide, c’est-à-dire le président qui tentera de remplacer la confrontation par la coopération ?

PSL : Obama se trouve dans une situation incomparablement plus difficile que ses prédécesseurs Nixon ou Carter. S’il est intelligent, il comprendra que Moscou et Washington font face aux mêmes forces ennemies. Ainsi, nous avons les forces de la révolution islamique, que tant la Russie que les Etats-Unis considèrent comme une menace. Un jour viendra peut-être où la confrontation avec l’islamisme militant partira des républiques autonomes musulmanes du Daghestan ou du Tatarstan pour ne pas évoquer la Tchétchénie qui n’est que temporairement pacifiée. La situation actuelle est donc préoccupante parce que ni à Washington ni à Berlin on n’envisage ni n’ébauche de contre-mesures appropriées pour cette nouvelle forme de guerre froide. A Berlin, nous ne trouvons personne de nos jours qui soit capable d’énoncer une conception cohérente et définitive en matière de politique étrangère ou de stratégie. La guerre froide d’antan avait, elle, ses règles fixes et les plans défensifs de l’alliance atlantique contre l’Union Soviétique s’inscrivaient dans un cadre bien défini. A l’époque, cela paraissait tout naturel que les Etats-Unis gardassent le leadership militaire. Aujourd’hui, les intérêts respectifs de l’Europe et de l’Amérique sont tout au plus parallèles : ils ne sont en tout cas plus identiques. Le Président Obama se voit obligé de faire d’abord face à la catastrophe économique dans laquelle son pays est plongé. Mais il devra également envisager une refondation complète de l’alliance et au moins  annoncer à ses adversaires qu’il est prêt à dialoguer.

(entretien paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°50/2008 ; trad. franç. : Robert Steuckers).

 

 

 

 

 

lundi, 15 décembre 2008

Géopolitique de la Route de la Soie

La route de la Soie :

Une histoire géopolitique (Broché)

de Pierre Biarnès (Auteur), François Thual (Préface) 
Présentation de l'éditeur
Comment ne pas rêver de la route de la Soie ? Depuis les pays du Levant méditerranéen, ou depuis Moscou, jusqu'à la mer de Chine, durant une cinquantaine d'années, Pierre Biarnès n'a eu de cesse de la parcourir. Kokand, Samarkand, Boukhara, Khiva, les cités les plus fabuleuses de la vallée de la Ferghana, au cœur de l'Asie centrale, mais aussi jusque dans le Haut-Altaï en longeant les arides déserts de Gobi et du Takla-Matan, les monts du Pamir et du Tian Shan. De ces contrées partirent de terribles conquérants, les Attila, Gengis Khan, Tamerlan... Mais s'y épanouirent aussi de brillantes civilisations. Tout au long de cette route interminable, qui fut pendant plus de trois millénaires l'axe géopolitique du monde, circulèrent les caravanes de la soie et s'affrontèrent de nombreux peuples. Durant tout ce temps, la route de la Soie ne fut pas empruntée seulement par marchands et guerriers. Elle fut aussi celle des dieux ; s'y succédèrent ou y cohabitèrent les chamanistes, les zoroastriens, les bouddhistes, les juifs, les chrétiens nestoriens, les musulmans. L'auteur de la somme Pour l'Empire du monde. Les Américains aux frontières de la Russie et de la Chine, nous livre ici une nouvelle leçon magistrale d'histoire globale remplie de cartes historiques et géopolitiques.


Détails sur le produit

  • Broché: 459 pages
  • Editeur : Ellipses Marketing (8 août 2008)
  • Langue : Français
  • ISBN-10: 2729837914
  • ISBN-13: 978-2729837914

La route de la Soie : Une histoire géopolitique

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mercredi, 10 décembre 2008

Sobre las maniobras militares venezolano-rusas

¿Qué significado simbólico tienen las maniobras militares venezolano-rusas?

Las maniobras militares conjuntas de tres días realizadas por Venezuela y Rusia en el mar Caribe terminaron el día 3. Se trata de la primera presencia de la Armada Rusa en el Caribe después de terminada la Guerra Fría.

Estas maniobras, codificadas como “Venezuela-Rusia 2008”, se realizaron dentro de la Zona Económica Exclusiva de Venezuela. El día primero, Venezuela y Rusia enviaron un total de cinco buques, entre ellos, el crucero misilero nuclear “Pedro el Grande” y el gran buque antisubmarino “Almirante Chapanenko” de Rusia. Las maniobras de ese día constituyeron el contenido principal de las maniobras militares de ambos países. Con el crucero misilero nuclear “Pedro el Grande” como buque insignia, se llevaron a cabo ejercicios de coordinación para la “defensa común”. Las maniobras de ese día duraron nueve horas, con la participación de 1.600 rusos y 700 venezolanos.


En el curso de los tres días, las armadas venezolana y rusa realizaron ejercicios antiaéreos, de abastecimiento de combustible, de seguimiento de buques de guerra, de combate coordinado con helicópteros y aviones de combate así como maniobras tácticas antiterroristas y contra narcotraficantes. Luis Márquez Márquez, comandante de operaciones de la Armada Venezolana, dijo que a través de las maniobras, la Armada Venezolana aprendió de la contraparte rusa conocimientos sobre el sistema de comunicación y manejo de armas, aumentando así su capacidad defensiva.

A estas maniobras les han dado importancia altos dirigentes de las partes venezolana y rusa. El 27 de noviembre, el presidente venezolano Hugo Chávez y el visitante presidente ruso Dmitry Medevedev inspeccionaron el gran buque antisubmarino “Almirante Chapanenko” anclado en el puerto septentrional venezolano de La Guaira. Los mandatarios de ambos países visitaron las instalaciones internas y externas del buque, Medevedev explicó a Chávez los armamentos del mismo y los dos escucharon una presentación sobre las maniobras conjuntas por efectuar.

Chávez, siempre con una posición claramente anti-EEUU, mostró en esta ocasión una actitud muy prudente. Reiteró que las maniobras conjuntas tenían una “misión de paz” en lugar de desafiar a Estados Unidos. Medevedev dijo por su parte que Venezuela es uno de los socios más importantes de Rusia en América Latina y que ambos países abogan por un mundo multipolar y por respetar la soberanía nacional y los legítimos derechos de los pueblos. Rusia y Venezuela, apuntó, continuarán desarrollando su cooperación militar, la cual se mantendrá transparente observando estrictamente el derecho internacional y dentro de la esfera permisible.

Un analista señaló que el que Rusia persistiera en realizar maniobras conjuntas con Venezuela en el “patrio trasero” de los Estados Unidos muestra que Rusia hizo una respuesta directa al comportamiento de EEUU que despliega sistema antimisil en Europa Oriental y mantiene a los gobiernos anti-Rusia en sus alrededores. Pero el significado simbólico de estas maniobras conjuntas es obvio y muestra que acaba de empezar la cooperación militar venezolano-rusa.

Estados Unidos siguió de cerca estas maniobras militares, pero sostuvo que no constituyen una amenaza esencial para él. Sean McComarck, portavoz del Departamento de Estado de EEUU, manifestó: “Las maniobras militares de Venezuela y Rusia no constituyen un problema, pero las seguiremos de cerca.” Condoleezza Rice, secretaria de Estado norteamericana, dijo el 26 de noviembre que al entrar la flota rusa en aguas jurisdiccionales de Venezuela, no ha cambiado la posición ventajosa que mantiene Estados Unidos en el hemisferio occidental.

No obstante, con respecto a la acción rusa de vender armas a Venezuela, EEUU ya mostró cierta preocupación. Según se informó, el gobierno de Chávez ha firmado en los últimos años contratos de compra de armas por un monto de 4.400 millones de dólares. Rusia llegó hasta prestar mil millones de dólares a Venezuela, dejándole comprar a Rusia misiles antiaéreos “Tor-M1” y aviones cisterna “IL-78”. Venezuela también se propone comprar de Rusia transportes blindados y helicópteros artillados.

Según informaron medios de comunicación venezolanos, después de estas maniobras militares, Venezuela y Rusia mantendrán su intención para una ulterior cooperación militar. La Armada Rusa ha invitado a una flota de la Marina de Guerra venezolana a visitar Rusia, de manera que ambas partes efectuarán una serie de ítems de cooperación militar en el Mar del Norte. Venezuela ya ha llegado a ser un importante socio de cooperación en la estrategia global de Rusia.

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La Russie Obama-sceptique

LA RUSSIE OBAMA-SCEPTIQUE


Faut-il risquer de biaiser le message du président russe en mettant d’abord l’accent sur les élections américaines ? Nous en prenons le risque, parce que la vision américaine de l’ordre du monde préoccupe la Fédération de Russie, supposée devoir être “contenue”, menacée sur ses frontières, depuis des lunes – depuis des lustres – et que l’épisode géorgien a matérialisé en conflit armé des manœuvres jusque là menées au travers des “organisations non gouvernementales” financées par Washington pour appuyer, dans l’ancienne aire d’influence soviétique, les factions qui lui seraient, une fois parvenues au pouvoir, débitrices. L’expérience nous montre, avec le président géorgien Mikhaïl Saakhaschvili par exemple, que la promotion de la démocratie fait partie d’un l’habillage commode et non prioritaire. (...)


Le président Medvedev attribue sans ambiguïté la situation à l’état d’esprit américain après la chute de l’Union soviétique : “La crise financière mondiale a débuté comme une ‘crise locale’ sur le marché intérieur américain”. Si la Russie, qui a bénéficié de son intégration à l’économie mondialisée, est prête à prendre ses responsabilité, avec d’autres, pour répondre aux difficultés actuelles, il faut néanmoins “mettre en place des mécanismes qui puissent bloquer les décisions erronées, égoïstes et parfois tout simplement dangereuses prises par quelques membres de la communauté internationale.”.


Dans le droit fil des positions prises par la Russie présidée par Vladimir Poutine devant leur unilatéralisme, Dimitri Medvedev stigmatise sans détours les pratiques des Etats-Unis en matière financière : “Ils ont laissé leur bulle financière grossir pour stimuler leur croissance domestique mais ne se sont pas souciés de coordonner leurs décisions avec les autres joueurs sur le marché mondial et ont négligé même le sens de la mesure le plus élémentaire. Ils n’ont pas écouté les nombreux avertissements de leurs partenaires (y compris les nôtres). Le résultat est qu’ils ont causé des dommages, à eux-mêmes et aux autres”. C’est bien la double prétention américaine à défendre d’abord ses intérêts et à conduire les affaires du monde que la Russie continue de contester.


Ainsi, à “l’aube d’une nouvelle direction américaine” par le “phare de l’Amérique” annoncée par Barack Obama nouvel élu, la réponse est-elle immédiate. La Russie tient pour acquise la légitimité d’un monde “polycentrique”. Et elle le montre. Tout, dans la structure même du discours russe souligne combien Moscou s’est senti agressé, acculé, méjugé dans l’affaire géorgienne : le train de mesures décrites par Dimitri Medvedev y est étroitement corrélé, des efforts et ajustements entrepris à l’intérieur du pays jusqu’aux décisions défensives de protection de l’intégrité du territoire qui ont tellement inquiété les partenaires des Russes. Non seulement il n’est plus question de démanteler de nouveaux éléments de la défense nucléaire mais “nous déploierons le système des missiles Iskander dans la région de Kaliningrad pour être capables, si nécessaire, de neutraliser le système de missile anti-missile” que les Américains veulent installer en Pologne, République tchèque et Hongrie. (...)


Dans la réalité, que changerait un retour de Vladimir Poutine à la première place en termes de géopolitique russe ? Il n’y a pas de désaccord politique entre les deux hommes, tous deux veulent affirmer le rôle de leur pays dans le monde, réassurer leur influence et leur sécurité en Asie centrale et dans le Caucase, défendre les intérêts russes dans leurs échanges avec leurs grands partenaires, de la Chine (et l’Inde) à l’Union européenne, de l’Afrique et du Moyen-Orient à l’Amérique latine. Aucun des deux ne veut d’un monde conduit par la puissance américaine, quel qu’en soit le président. Tous deux font la même proposition de nouvel accord sur la sécurité européenne, discutée, souvenons-nous entre les “trois branches de la civilisation occidentale” dans un cadre “véritablement égalitaire”.


Dans la réalité, la Russie est le seul des grands pays aujourd’hui qui annonce clairement qu’elle souhaite un monde “polycentré” et des structures internationales qui reflètent cette multilatéralité – dans tous les domaines, en droit, dans le domaine de la monnaie, dans les équilibres régionaux – ce qui n’est pas illégitime. D’autres le souhaitent sans le dire, certains le craignent et regardent d’où souffle le vent. Or les Etats-Unis jusqu’ici ont écarté cette hypothèse. Le nouveau président, Barack Obama, porte-t-il une vision différente du monde ? Non, pense-t-on visiblement à Moscou. C’est ce que discours à l’Assemblée fédérale affirme : la Russie n’a pas d’intentions belligérantes. Mais elle ne se laissera pas contraindre. Il serait utile de l’entendre. »



Hélène Nouaille et Alain Rohou, Comité Valmy, 7 novembre 2008

jeudi, 04 décembre 2008

Moscou: capitale de l'Europe

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Moscou : capitale de l'Europe !

par Alexandre LATSA - http://alexandrelatsa.blogspot.com

Le Financial Times du 25 août 2008 notait amèrement que «Washington en est réduit à regarder d'autres puissances modifier le réel ». Dans une édition du Financial Times de 1991, une telle assertion aurait sans doute seulement trouvé sa place dans une rubrique "scénario catastrophe pour l'avenir " ou "science fiction". Il est vrai que la presse américaine de 1991 titrait sur d'autres evènements : l'URSS venait de s'écrouler, et avec elle le mur de Berlin. Dans les sables d'Irak, Bush père promettait a l'humanité un « Nouvel Ordre Mondial », juste, merveilleux et surtout unilatéral sous protection de la bannière étoilée pendant que l'Europe entamait son processus de réunification. Nous étions rentrés dans l'ère soit disant éternelle de la « Pax Americana » avec tous ces corrolaires, qu'ils soient militaires, financiers ou encore économiques. Certains nous prédirent meme la fin de l'histoire, l'histoire nous appris qu'ils se trompaient. La « saison unipolaire » fut pourtant de courte durée. Il ne fallut que 10 ans pour qu'un improbable attentat de grande ampleur survienne sur le territoire Américain. De la, l'empire déclencha deux conflits militaires en Afghanistan et en Irak, au nom de l'OTAN, entrainant au nom de la lutte contre le terrorisme la plupart des nations Européennes. Europe qui par deux fois, en 2004 et 2005, paya le prix lourd pour sa « collaboration » avec l'OTAN.

Moins de 20 ans après l'éffondrement de l'URSS, force est pourtant de constater que le titre du Financial Times est plus que d'actualité alors que le pays se prépare a choisir ses nouveaux dirigeants. Une guerre défensive de 5 jours, habilement gagnée par la Russie dans le sud caucase suffit a totalement enrayer le processus d'extension de l'OTAN. Pour la premiere fois, une puissance contrecarrait militairement les états-unis d'amérique. En ce mois d'août 2008, les tanks Russes qui défendirent Tsinvali venaient de faire chanceler le vieux monde, unilatéral et néo-libéral.

Contre l'OTAN, arme de l'amérique contre l'Europe

Comme le relevait très bien l'agence Novopress, il est de coutume de voir l'Amérique comme l'allié immuable de l'Europe, l'ayant sauvé des griffes des totalitarisme, bruns et rouges. Si cela est en partie vrai, on oublie pourtant en permanence que l'hégémonie Américaine s'est appuyée sur la mise sous tutelle de l'Europe. Dès la guerre de 1914, où les Etats-Unis virent l'occasion de liquider les empires européens et continentaux de l'Axe (allemand, autrichien, ottoman), d'imposer le règne du dollar contre celui de la livre sterling mais également de confisquer la suprématie sur les mers à l'Angleterre (maitrise des océans). Théodore Roosevelt déclarera meme : « Nous avons échoué à profiter de la guerre ! ». Son cousin Franklin Roosevelt, retenant la leçon, monnaiera son entrée en guerre en 43, à la conférence d'Anfa, en posant ses conditions à De Gaulle et Giraud qui durent s'engager à démanteler l'Empire colonial français dans les trente ans. En 1945 a Yalta, Roosevelt a sciemment et cyniquement livré la moitié de l'Europe à Staline, et, de ce fait, assuré le succès du communisme et son extension pour 50 ans, en maintenant la division de l'Europe et donc son affaiblissement. Aujourd'hui cette logique de subdivision de l'Europe se retrouve parfaitement, entretenue de nouveau par les strateges Américains depuis le conflit Irakien de 2004 (opposition entre la vieille / nouvelle Europe), et la politique a court terme des nouveaux entrants de l'UE, nouveaux états coloniaux Américains (que ce soit la Pologne ou les états Baltes) politique irrationelle qui suit une logique post guerre froide c'est a dire avant tout nationaliste et non pro-Européenne, et surtout anti-Russe.
Ce chantage militaro-économique se double aujourd'hui d'un chantage énergétique, puisque cette subdividion européenne « poussée » justifierait la participation des européens a des actions brutales et violentes dans le monde, au nom de la démocratie, actions qui en réalité dissimulent des tentatives de prise de contrôle de secteurs énergétiques écartant la Russie (Kosovo avec l'AMBO, l'afghanistan avec UNOCAL, la bataille pour la Caspienne, le projet Nabucco..).
Depuis la chute de l'URSS et du mur de Berlin, l'OTAN n'a pourtant plus lieu d'être. Incapable de venir a bout des « terroristes » et du « trafic d'opium Afghan » comme l'a
récemment rappellé Serguei Lavrov, l'OTAN elle devenue une organisation désuète, frappée du sceau de l'échecet qui ne reflète « plus » les intérets Européens. En effet la menace « Soviétique » et le pacte de Varsovie ayant disparus et la nouvelle menace terroriste (due a un Ben Laden formé par la CIA) considérablement moins élevée (voir inexistante) sans une participation récurrentes aux actions de l'OTAN a travers le monde.
Les Européens doivent aujourd'hui se « rendre compte » que leurs soldats font office de supplétifs de l'armée Américaine, se faisant tuer pour des guerres qui ne sont pas les leurs ! Pire, en collaborant avec l'OTAN, l'Europe se met en position conflictuelle avec des acteurs essentiels a la stabilité et la paix que cela soit dans le monde musulman (ou l'OTAN est percue comme une « alliance de croisés modernes ») mais également dans le monde eurasiatique, ou l'OTAN est vue comme un outil Américain, facteur de trouble, par les grandes puissances de demain comme la Russie, la Chine, l'Inde ou l'Iran, toutes ces puissance étant liées entre elles au sein de
l'Organisation Régionale de la Coopération de Shanghai.

Vers les regroupements continentaux et civilisationnels

Ce nouvel ordre multipolaire semble se configurer via l'émergence de grands ensembles civilisationnels et identitaires (UE, Chine, Russie, Inde ..). Ce phénomene de « regroupement » sur-régional est a l'opposé du mouvement de « morcellement » auquel œuvre l'Amérique en Europe, morcellement destiné a la constitution de petits ensembles facilement controlables économiquement et dépendants militairements (Yougoslavie, Tchécoslovaquie, projet de morcellement en trois de la Russie..). Morcellements au passage fomentés par l'OTAN et dogmatiquement attribués a « l'effondrement post soviétique ».
Ces nouveaux regroupements « auto-centrés » n'ont pas lieu qu'en Eurasie mais bel et bien sur tous les continents, que ce soit en amérique du Sud (Argentine, Brésil, Venezuela et Bolivie), sur le continent Africain, ou dans le monde musulman, Arabe ou pan-turque. Ces regroupements s'opèrent via des cœurs historiques, civilisationnels et économiques. Ces cœurs impériaux sont de facon très génerale les grandes capitales ethno-culturelles des zones concernées, a savoir Pékin pour la Chine, Tokyo pour les Japonais, Caracas ou Rio pour l'amérique du sud, les « musulmans » hésitants depuis longtemps entre La Mecque, Téhéran et Istamboul, avec une montée en puissance des musulmans d'asie. Il est a noter la place absolument unique de la Russie, au carrefour de tous les mondes, Islamique via sa position a l'OCI, Occidental via le COR, Européen par essence ou encore Asiatique de par sa géographie et sa participation a l'OCS.

L'alliance continentale Euro-Russe, source de paix dans le monde

De ces « ensembles » qui représentent de potentiels concurrents économiques voir militaires, l'Amérique en craint un bien plus que les autres : la grande Europe, ce « front continental », colosse économique et militaire, gigantesque empire de Reykavik a Vladivostok, étalé sur 11 fuseaux horaires et potentiel leader économique et militaire planétaire. La division « voulue » et « souhaitée » par les stratèges Américains date et va dans ce sens : tout faire pour empecher tout unité pan-européene ! De John O'Sullivan qui en 1845, dans "Our Manifest Destiny" écrivait : « … avec l'anéantissement de l'Europe, l'Amérique deviendra la maîtresse du monde » ou l'ouvrage de 1890, "Our Country" qui précise que : « l'Europe vieillissante n'a plus les moyens de sauvegarder les valeurs civilisatrices de l'Occident, reprises par une Amérique dynamique émergente », et conclut par la fameuse formule « Europe must perish ! » soit l'Europe doit périr (voir ici). Tout au long du 20ième siècle, l'Amérique ayant pris le contrôle des mers (se substituant a l'Angleterrre), des stratèges vont théoriser la seconde étape essentielle : la prise de contrôle des terres, notamment du « Heartland » Eurasiatique. Le chef d'œuvre ayant été exposé il y a plus de dix ans par Bzezinski dans son ouvrage « Le grand échiquier ».
L'Amérique, isolée du monde entre deux océans sait en effet parfaitement que c'est sur le continent (eurasiatique) que se joue l'avenir du monde car c'est la que sont concentrées le plus grand nombre de civilisations, le plus grand nombre d'etres humains mais aussi la grande majorité des ressources de la planete. Pour que l'Amérique ne « sorte pas » du jeu mondial et reste un leader, elle doit empêcher un autre leader d'émerger (l'alliance Russo-Allemande), et surtout se préserver d'une alliance entre futurs leaders de cette zone (euro-russie et chine par exemple).
L'Amérique s'oppose donc de plus en plus agressivement aux rapprochements Euro-Russes, que ce soit les rapprochements économiques (
North Stream), militaires (Vers Helsinki 2 ?) ou en tentant purement et simplement d'accentuer la fracture entre Européen et Russe (extension de l'OTAN a l'est, création de conflits militaires comme en Georgie et sans doute demain en Ukraine ..).
Moscou : capitale de l'EUROPE

Il y a 5.000 ans, la civilisation Européenne était dans le giron Slave, Grec et Méditerranien, et le resta pendant plus de 3.000 ans, des Mycéniens aux Grecs, puis aux Macédoniens, de Cnossos a Athènes. L'Europe bascule ensuite sous le giron Romain. C'est la pax-Romana qui durera 6 siècles et aboutira a la création de deux empires chrétiens, dits d'Occident et d'Orient. A l'Ouest, après la panique des invasions Germaniques, un embryon d'europe se construit, mélangeant christianisme et germanité, un barbare franc étant couronné empereur d'Occident à Rome.
Après Cnossos, Athènes, Rome et Aix les bains, ce sera Byzance/Constantinople, qui restera capitale unitaire (de l'Orient) de l'Europe pendant encore 8 siècles en fondant son unité sur le Christianisme et la langue Grecque « replacant » le cœur de l'Europe au bord de la méditerranée.
Les 5 siècles qui suivront verront l'orient basculer sous la nuit Ottomane pendant que l'Europe de l'ouest préparera son auto-génocide du 20ième siècle. Après la grande guerre civile de 30 ans (1914-1945), la scission entre Est et Ouest est consommée. Plus grave encore, les « cœurs » des deux euro-civilisations qui s'affrontent se sont déterritorialisés. Pour l'Europe de l'ouest, c'est désormais Washington qui fédère l'Occident libre des alliés, tandis que plus a l'est, c'est Moscou le «cœur » de l'Europe soviétique continentale. Ces deux cœurs ont chacun un projet de domination planétaire, mondiale mais un seul passera le cap du 21ieme siècle. Apres la chute du mur, pour la première fois le concept d'Europe disparait, remplacé par celui d'Occident.
L'Amérique devient le centre du monde occidental et Bruxelles une simple filiale du pentagone qui réorganise l'europe fragmentée en rythme avec son intégration militaire a l'OTAN.
Les récents évènements sont pourtant révélateurs de l'urgence pour l'Europe de s'émanciper de la tutelle américaine et de comprendre que ce projet atlantiste de l'Amérique (axe washington-bruxelles), bâti sur sur les ruines de l'europe réelle n'est en aucun cas un projet acceptable pour les peuples européens qui souhaitent vivre en paix. Les Européens ont aujourd'hui le choix : soit défendre les ruines du vieux monde occidental sous la banniere de l'OTAN, dans une logique de confrontation totale avec le reste de l'humanité, Russie en tête ; ou alors faire le choix de la collaboration continentale, via la Russie, dépassant par la meme le projet pan-européen du visionnaire Général de Gaulle (axe
Paris Berlin Moscou).

La Russie endormie sous Eltsine s'est réveillée, devenant aujourd'hui l'hyper centre de résistance a l'Américanisation forcée et a l'extension agressive et criminelle de l'OTAN. La Russie nous a prouvé récemment qu'elle était prete a défendre ses intérets mais également a collaborer avec l'Europe et à participer activement à un projet de société pacifique, multilatéral et fondé sur la concertation. Comme les Russes de 1999, les Européens de 2008 doivent sortir de leur sommeil et se libérer, tout d'abord des chaines de l'OTAN, qui s'étendent jusqu'aux frontieres Ukrainiennes et Biélorusses et pourrait les mener a un conflit avec leurs frères Russes.

L'Europe se situe « sur » le continent Eurasien, dont elle occupe la facade atlantique, tandis que la Russie elle occupe la majorité des terres, et la facade pacifique. L'Europe et la Russie sont intrasèquements liés et appartiennent au même continent, l'Eurasie ! L'Eurasie est la maison commune des Européens et des Russes, de Reykavik a Vladivostok (voir a ce sujet le discours de
Maksim Mishenko). Grâce à la Russie une autre Europe, eurasiatique se dresse face à la Petite-Europe atlantiste de Bruxelles.
Apres Athènes, Byzance, Aix la Chapelle et Constantinople, Moscou est la nouvelle capitale de l'Europe.

Moscou, 3ième Rome, an de grâce 2008.

 

samedi, 29 novembre 2008

Citaat van Dostojevski

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Citaat van Dostojevski

“’Om de wereld te hervormen moeten de mensen zelf psychisch een andere weg inslaan. Wanneer je zelf ook niet echt ieders broeder wordt, dan zal de broederschap niet aanbreken. […] Iedereen zal vinden dat hij te weinig heeft, mopperen, afgunstig zijn en de anderen naar het leven staan. U vraagt wanneer dat werkelijkheid zal worden. Dat zal werkelijkheid worden, maar eerst moeten we door een periode van menselijke vereenzaming heen’. ‘Wat voor vereenzaming’, vraag ik hem. ‘De vereenzaming die nu overal heerst, vooral in onze eeuw, maar ze is nog niet helemaal definitief, nog is haar tijd niet gekomen. Want een ieder streeft er nu naar zijn persoon zo mogelijk af te scheiden, een ieder wil in zichzelf de volheid van het leven ervaren, maar intussen leiden al zijn inspanningen in de verste verte niet tot de volheid des levens, maar tot regelrechte zelfmoord, want in plaats van te komen tot volheid van inzicht in het eigen wezen geraken zij slechts volledig vereenzaamd. In onze tijd zijn allen namelijk verdeeld in individuen, ieder zondert zich af in zijn hol, ieder mijdt de ander, houdt zich schuil, verbergt zelfs wat hij heeft en eindigt ermee dat hij door de mensen verstoten wordt en zelf de mensen verstoot. In eenzaamheid vergaart hij rijkdom en denkt: nu ben ik sterk en onafhankelijk, maar de dwaas weet niet dat hoe meer rijkdom hij vergaart, des te dieper hij wegzinkt in zelfvernietigende onmacht. Want hij is gewoon geraakt om alleen zichzelf te vertrouwen en zichzelf als een individu van het geheel af te scheiden, hij heeft zijn ziel aangeleerd niet te geloven in menselijke hulp, de mensen en de mensheid, hij siddert enkel bij de gedachte dat hij zijn geld en zijn verworven rechten kan kwijtraken.’”

(DOSTOJEVSKI, Fiodor M., De broers Karamazov, G.A. van Oorschot, Amsterdam, 2005, 369)