Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

vendredi, 30 octobre 2009

Intervista a Vladimir I. Jakunin

 

mackinder_max.jpg

INTERVISTA A VLADIMIR I. JAKUNIN

 


a cura di Daniele Scalea e Tiberio Graziani -Eurasia / http:://www.italiasociale.org/

All'inizio del XX secolo, Halford Mackinder scrisse nel suo celebre saggio The Geographical Pivot of History dell'importanza geostrategica delle ferrovie: egli pensava che le strade ferrate transcontinentali costruite dai Russi in Eurasia controbilanciassero il potere marittimo dei popoli anglosassoni, inaugurando una nuova era nei rapporti tra mare e terra e tra Europa e Asia. Lei pensa che le ferrovie russe abbiano ancora una così grande importanza geostrategica?

Lo sviluppo delle infrastrutture dei trasporti è sempre stato visto attraverso il prisma del posizionamento strategico del paese. Si valutava il suo significato economico, sociale e militare-difensivo. Nell'epoca della globalizzazione il trasporto ferroviario non ha perso minimamente la propria importanza dal punto di vista dell'economicità, del rispetto dell'ambiente e della rapidità che caratterizzano il trasporto di merci e persone. Inoltre, se è diminuito il suo potenziale ruolo strategico-militare, in virtù della nuova realtà bellica, il suo significato geopolitico, a mio parere, non ha fatto che aumentare. A ciò contribuisce lo sviluppo dei legami politici ed economici tra i paesi, la necessità di rispondere alle esigenze delle economie dei paesi sviluppati nello svolgimento delle operazioni di importazione ed esportazione nell'ambito della cooperazione commerciale estera, la possibilità di garantire l'accesso al mare dei cosiddetti «paesi di mezzo», l'opportunità di sviluppare in senso reciprocamente vantaggioso i corridoi di trasporto internazionali. E anche la possibilità di uno sviluppo non conflittuale delle relazioni economiche e di offrire assistenza alla realizzazione di infrastrutture ferroviarie per lo sviluppo delle economie di altri paesi, conformemente alle aspirazioni geopolitiche di questa o quella nazione. Un brillante esempio del conseguimento non conflittuale di obiettivi geopolitici reciprocamente vantaggiosi può essere fornito dalla cooperazione di molti paesi e compagnie nello sviluppo del corridoio Ovest-Est lungo il percorso della «Transiberiana».

Vi sono progetti di privatizzazione di RZhD (la compagnia ferroviaria russa). Crede possibile che lo Stato russo si privi d'una quota di maggioranza in un simile settore strategico?

L'attuale legislazione russa esclude la privatizzazione delle infrastrutture ferroviarie della Russia. E benché si possa ipotizzare in linea teorica che nel tempo, sussistenti determinate condizioni politiche ed economiche, ciò sia possibile, è altamente probabile che la Russia proseguirà la riforma del trasporto ferroviario assegnando i diversi tipi di attività (per esempio il trasporto merci, il trasporto passeggeri, la costruzione e manutenzione delle infrastrutture, il trasporto di containers, la logistica e via dicendo) a compagnie indipendenti e privatizzando queste compagnie interamente o in parte.

Cos'è cambiato nelle relazioni tra Russia e Unione Europea dopo la guerra russo-georgiana della scorsa estate?

Questo è un tema a sé stante ed esigerebbe un'approfondita analisi a parte. Mi limiterò a osservare che sulla percezione delle cause e degli effetti del conflitto in Ossezia del Sud, nei paesi dell'Unione Europea e negli Stati Uniti, hanno notevolmente influito tutti i vecchi pregiudizi sulla «pericolosità» della Russia per i «piccoli» paesi europei. A questo ha contribuito non poco la macchina informativo-propagandistica dei mezzi di informazione occidentali. Questo atteggiamento è profondamente mutato solo quando vari giornalisti occidentali, mesi dopo la conclusione della fase più «calda» del conflitto georgiano-ossetino nel quale la Russia era stata trascinata, hanno pubblicato notizie reali sulle azioni condotte dalle autorità e dai militari georgiani in Ossezia, notizie che hanno sconvolto l'opinione pubblica occidentale.
Per quanto concerne le relazioni politiche tra la Russia e gli Stati Uniti, il palese coinvolgimento della precedente amministrazione al fianco del regime di Saakasvili non ha fatto che accrescere la sfiducia.

Nell'ultimo decennio l'economia russa ha pienamente recuperato dai diffìcili momenti degli anni '90. Nella seconda parte dell'estate 2008, tuttavia, il prezzo del petrolio è crollato ed i mercati azionar! russi hanno sofferto gravi perdite. Le prospettive di recupero economico della Russia sono ancora buone?

Oggi la crisi finanziaria si è trasformata in una crisi economica globale ed è opportuno interrogarsi sulle sue cause e sulle sue conseguenze. Senza entrare nel dettaglio, è possibile concludere che la sua sistematicità è il risultato della realizzazione acritica e dogmatica dei punti essenziali della teoria economica neo-liberista, cioè quelli riguardanti la completa eliminazione dello Stato dalla sfera della gestione dello sviluppo economico. Le azioni più recenti, condotte praticamente da tutti gli Stati sviluppati del mondo, dimostrano palesemente il fallimento di questa teoria. Per quanto concerne le prospettive economiche della Russia, esse subiscono l'influsso di una serie di fattori negativi e d'altri positivi. Tra i fattori negativi possiamo elencare il noto orientamento all'esportazione dell'economia, l'incompiutezza della riforma istituzionale, l'insufficiente sviluppo del mercato, l'assenza di un ampio strato di piccole e medie imprese, la lacunosità del sistema bancario e l'assenza, per esempio, di leggi che sanciscano l'obbligo della partecipazione di organizzazioni sociali e professionali e della comunità di esperti alla formulazione delle decisioni governative. Tra gli aspetti positivi, che ci permettono di guardare con ottimismo alle prospettive economiche del paese, includiamo naturalmente la riforma istituzionale attualmente in corso, l'unione del mondo degli affari e delle élites politiche attorno alla dirigenza dello Stato, una base di risorse tra le più ricche e richieste del mondo, risorse umane sufficienti e ben formate (non ostante le conseguenze demografiche degli anni Novanta), l'importante integrazione della Russia nel sistema economico e finanziario mondiale e, infine, riserve finanziarie molto sostanziose accumulate negli anni passati. Attualmente molto — se non tutto -dipenderà dall'efficacia e dalla tempestività dei provvedimenti anticrisi del governo e del mondo imprenditoriale della Russia.

Ritiene che l'attuale crisi economica e finanziaria possa contribuire a cambiare la struttura geopolitica e le gerarchie internazionali, in particolare favorendo l'emergere d'un nuovo ordine mondiale multipolare?

In effetti il mondo multipolare è emerso già molto prima della fase «calda» della crisi finanziaria, come è stato riconosciuto da esperti ben noti negli ambienti politici e scientifici come il professor F. Fukuyama, Z. Brzezinski, H. Kissinger, l'accademico E. Primakov; dai capi di Stato europei e sudamericani, dell'India, della Cina, della Russia; da organizzazioni della società civile e non-governative come il Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà», dalle Nazioni Unite, dall'UNESCO e molte altre istituzioni. Mi sembra, in pratica, che si possa parlare di un mondo variegato con elementi di pluralità, come riconosciuto dagli autori citati. Di per sé la crisi molto probabilmente produrrà un inasprimento delle contrapposizioni già esistenti tra i vettori di sviluppo del sistema mondiale: unipolarismo contro multipolarismo. Non sarà facile prevederne l'esito. Tuttavia è molto probabile che il ritorno a un mondo unipolare non sarà meno difficoltoso della costruzione di un mondo più giusto.
È ora più o meno ovvio quanto segue: in primo luogo, l'uscita dalla crisi avverrà in un lasso di tempo piuttosto lungo; in secondo luogo, durante quella fase, segnata dalla necessità di ricorrere a provvedimenti cruciali per uscire dalla crisi, avverrà una ricostruzione dell'ordine mondiale, ormai obsoleto, con una ridistribuzione piuttosto radicale dei beni su scala globale; infine, è ormai generalmente riconosciuto che l'attuale struttura del sistema economico-finanziario abbia esaurito le proprie risorse tecnologiche per ciò che riguarda il rinnovamento e l'evoluzione dell'uomo nella sua attività di valorizzazione e sviluppo del mondo. Ed è proprio adesso che sono necessari radicali cambiamenti sociali e civili a livello globale (anche nell'interesse dei promotori di tali cambiamenti).

In che modo un nuovo sistema multipolare potrebbe contribuire a favorire il dialogo tra le civiltà?

Con lo sviluppo, su basi scientifiche, di un sistema d'opinioni che riconosca come sia il dialogo tra le civiltà, e non lo scontro, lo strumento per prevenire conflitti a livello geopolitico, culturale, religioso o geoeconomico. Col rafforzamento del ruolo svolto dalla società civile dei diversi paesi nella formulazione delle ambizioni strategiche delle élites di governo, e coli'influenza della collettività su queste élites non solo attraverso i modi d'espressione della cosiddetta «volontà popolare» già collaudati e in una certa misura orientati da queste élites, ma anche attraverso i metodi del dialogo diretto tra civiltà condotto dai rappresentanti delle diverse civiltà. Questi rappresentanti non sono le organizzazioni e le autorità internazionali, che non conducono un dialogo bensì negoziati, ma gli individui o le organizzazioni non-governative.
Nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà», un lavoro efficace e mirato per controllare la realizzazione dei diversi piani di questa trasformazione può essere organizzato come segue:
1) la creazione da parte di un gruppo di esperti e analisti di un Thesaurus (struttura di subordinazione) dei postulati, delle convinzioni e dei valori politici, etico-morali, economico-sociali e via dicendo, più comunemente impiegati nelle discussioni sulla crisi globale;
2) lo svolgimento di diverse iniziative da parte del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» per armonizzare i risultati analitici ottenuti con gli attori influenti e con le parti interessate alla trasformazione;
3) l'organizzazione di una campagna di informazione su vasta scala, impiegando i mezzi di informazione interattivi e altre strutture, per l'efficace e rapida introduzione di rappresentazioni coerenti, componente necessaria nel contesto della comunicazione globale sui temi attuali dell'agenda globale;
4) lo svolgimento di un regolare monitoraggio delle reazioni a tale informazione, al fine di valutare la risposta del pubblico alle proposte formulate;
5) in base ai risultati dell'analisi ed alla sintesi di queste reazioni, la pianificazione e realizzazione di dialoghi regionali, specialistici, di ricerca ecc. (impiegando i metodi già sperimentati dalle iniziative del Forum Pubblico Mondiale) al fine di ratificare le decisioni concordate e selezionate in maniera mirata.
La necessità di tali iniziative nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» e di strutture simili è giustificata dal fatto che le attuali ricette scientifiche e politiche per uscire dalla crisi circolano in ristrette comunità altamente specializzate, non hanno alcun fondamento legittimo e si impongono alla più ampia pratica internazionale, come accade per esempio con le idee del neo-liberismo, attraverso metodi, politici e d'altro tipo, di natura coercitiva.

In qualità di presidente e cofondatore del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» potrebbe farci un resoconto delle sue attività a partire dal 2002?

Riteniamo che negli ultimi sei anni i partecipanti al Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» siano riusciti a creare una piattaforma pubblica, unica nel suo genere, di interazione tra le civiltà per l'analisi e la descrizione dei caratteri fondamentali della nostra epoca, nonché adeguati strumenti di dialogo tra le civiltà nel contesto delle più importanti sfide del nostro tempo: la globalizzazione, il dialogo tra le culture e le religioni, l'influenza delle tendenze economiche mondiali sui rapporti tra le civiltà, l'inammissibilità dell'imposizione forzata dei propri valori a un'altra civiltà, la creazione di un mondo unipolare e molti altri problemi. La «Prima Dichiarazione di Rodi» e le sue conclusioni non solo sono ampiamente note, ma sono anche alla base di una serie di accordi internazionali sulla cooperazione tra Stati. La Conferenza del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» si svolge già da sei anni con cadenza annuale nell'isola di Rodi, ed è oggetto di grande attenzione. Nel 2008 vi hanno partecipato circa 500 rappresentanti di più di 64 paesi. Prosegue con successo il programma di sviluppo della comunità in rete di «Dialogo di civiltà», e molto altro. In generale mi sembra che questa attività meriti una valutazione positiva. Ritengo che sia giunto il momento di passare dalla constatazione di un interesse per il dialogo all'esercizio di un'influenza controllata sui processi sociali, impiegando a tal fine tutte le risorse delle organizzazioni non-governative internazionali, degli amici rappresentanti delle comunità di esperti, mezzi di informazione e confessioni religiose. Naturalmente qui dobbiamo impegnarci ulteriormente per strutturare questo interesse con l'obiettivo di trasformarlo in uno strumento di influenza pubblica sullo sviluppo mondiale.

A suo parere quali sono i comuni settori d'interesse che andrebbero rafforzati e sviluppati tra Russia e Unione Europea?

Innanzi tutto, agli interessi strategici della Russia e dell'Unione Europea risponde una tendenza all'approfondimento dell'integrazione nella sfera umanistica e in quella economica, in particolare nel settore del trasporto ferroviario in quanto area di reciproco interesse del tutto priva di conflitti: infatti, una tale cooperazione può avere esito positivo solo se le compagnie dei trasporti condividono gli stessi obiettivi.

Considerando la posizione strategica dell'Italia nel mezzo del Mar Mediterraneo e, soprattutto, la sua «alleanza» asimmetrica con gli USA nel contesto della NATO, crede che Washington permetterà a Roma di sviluppare relazioni politiche e militari con Mosca?

Mi sembra che la domanda sia posta in modo scorretto, laddove si chiede se «Washington possa permettere qualcosa all'Italia». Pur nella chiara alleanza strategica con la NATO e con gli Stati Uniti, nell'emergente condizione di multipolarismo l'Italia è libera di determinare da sola il sistema dei propri interessi geopolitici, e ha ripetutamente dimostrato la propria sostanziale posizione di indipendenza in tutta una serie di eventi controversi verificatisi in tempi recenti. Pertanto ritengo che, finché al mondo esisteranno i confini degli Stati nazionali, continueranno a esistere anche i cosiddetti «interessi nazionali» e le aspirazioni geopolitiche dei governi, e questo influenzerà lo sviluppo di una cooperazione internazionale, e difficilmente esisterà un paese in grado di affermare di essere assolutamente libero da questa influenza.
Roma è la capitale dell'Italia ma anche il centro della Cristianità cattolica. Durante gli ultimi anni, malgrado la promozione d'un dialogo ecumenico ed inter-ecclesiastico con la Cristianità russo-ortodossa, il Vaticano ha esteso le proprie attività in Russia ed in alcuni paesi ex sovietici (ad esempio in Kazakistan). Tra queste attività, possiamo menzionare la creazione di nuove diocesi cattoliche senza neppure interpellare le Chiese ortodosse. Tenendo conto che, nel corso di tali iniziative, il Vaticano ha spesso chiesto a Mosca un maggiore rispetto dei diritti umani-al pari d'alcune ONG o apparati politici occidentali — crede vi siano legami tra le strategie di Washington e quelle del Vaticano?
Ogni chiesa, anche all'interno degli Stati laici, resta parte della società e, quando tocca la sfera della morale e tanto più delle relazioni pubbliche o internazionali, spesso riflette gli atteggiamenti socio-politici dominanti. A mio parere ciò vale effettivamente per alcuni aspetti dell'attività del Vaticano. Dato che il cattolicesimo è ampiamente diffuso nel mondo occidentale, è possibile che nelle sue posizioni sui principali temi risenta dell'influenza ideologica degli Stati Uniti che sono la guida riconosciuta di quel mondo. È possibile che questo sia anche una conseguenza dell'attività economica dello Stato del Vaticano e della sua dipendenza dall'economia statunitense. Il Concilio Vaticano II ha affermato che le altre religioni possono essere condotte attraverso il dialogo sulle posizioni della mentalità europea, in quanto identità più evoluta. Per questo il Concilio ha ampliato la sfera del dialogo, ha riconosciuto la possibilità del dialogo con le altre religioni e le altre civiltà: allo scopo di assimilarle gradualmente. La storia del cattolicesimo dimostra in maniera convincente cosa sia questa linea di dialogo. Le chiese del mondo e le principali confessioni devono, riteniamo, contribuire a instaurare un dialogo efficace tra i popoli. Il problema di un ampio dialogo pubblico è che le principali forze sociali e i partecipanti alla collaborazione internazionale tendono spesso a difendere le proprie posizioni, a persuadere gli altri della loro giustezza, a ricevere conferma delle proprie convinzioni. La religione, al contrario, ha sempre invitato ad affermare il punto di vista della verità universale, ad abbandonare l'insieme delle convinzioni inevitabilmente contingenti e a porsi sul cammino del rinnovamento, del miglioramento di sé. La mentalità individualista agli occhi della coscienza religiosa coincide sempre con il peccato e l'errore. Indubbiamente gli sforzi delle Chiese e delle confessioni permettono di innalzare il livello e la cultura del dialogo tra le organizzazioni pubbliche e le strutture internazionali. È necessario che il dialogo sociale non si concentri solo sui problemi immediati, benché comunque importanti, della politica e della vita sociale. In questo caso il nostro dialogo verrà ripreso e sviluppato, estendendosi a nuovi problemi o aspetti della soluzione di vecchi problemi, cui la coscienza collettiva contemporanea non è in grado di arrivare. Ci sembra che nel miglioramento del dialogo collettivo la Chiesa e le confessioni siano chiamati a fornire una nuova forma di servizio all'uomo e a conseguire una propria sfera pratica di realizzazione della verità e della forza delle proprie rivelazioni. Riteniamo che le profonde tradizioni e potenzialità delle organizzazioni religiose e dei contatti interconfessionali apporteranno un inestimabile contributo al dialogo tra le civiltà. E speriamo che la Chiesa e le confessioni assumano un ruolo attivo nelle nostre iniziative future.

(traduzione dall'originale russo di Manuela Vittorelli)

* Vladimir Ivanovic Jakunin è presidente del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» e della Rossijskie Zheleznye Dorogi, la compagnia ferroviaria dello Stato russo. Tra il 1985 ed il 1991 ha fatto parte della missione diplomatica sovietica presso le Nazioni Unite (gli ultimi tre anni come primo segretario). Dal 2000 al 2003 è stato vice-ministro dei trasporti della Federazione Russa.


18/05/2009

00:15 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, russie, eurasie, eurasisme, asie, entretiens | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 27 octobre 2009

Général Lebed: Mémoires d'un soldat

alexanderlebed.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Général Lebed: mémoires d'un soldat

 

Le Général Lebed sera-t-il un jour le Président de la Russie? Nul ne le sait. Mais la parution en français de ses mémoires, consacrés principalement à son séjour en Afghanistan, permet de voir que c'est un homme de caractère. Le livre se termine par une interview réalisée par le Général Henri Paris. A la question: «Est-ce que le capitalisme vous semble un système plus juste? Et si non, quelle est la voie sociale qui vous semble appropriée pour la Russie?», Lebed répond: «Il me semble que le socialisme et le capitalisme appartiennent au passé. Si nous essayons, comme le prônent certains réformateurs actuels, de faire en vingt ans le parcours que le monde occidental a fait en deux cents ans, nous n'arriverons qu'à nous placer encore plus désespérément à la traîne. Rien de bon n'en sortira. C'est pourquoi la voie purement capitaliste est inacceptable. Il y a à cela une autre raison très importante: la population du pays. Les Russes ont été élevés dans les conditions du socialisme. Ils sont très différents des Occidentaux. Les milieux d'habitation sont également différents. Par conséquent, des choses qui semblent évidentes en Occident ne fonctionnent pas en Russie. Je suis arrivé aux conclusions suivantes. Premièrement: même l'expérience la plus remarquable de quelqu'un d'autre est avant tout celle de quelqu'un d'autre, pas la nôtre. C'est pourquoi il est tout simplement impossible de transposer l'expérience d'autrui sur notre sol à nous, de la copier fidèlement. Deuxièmement: le monde entre dans une ère complètement nouvelle, celle de l'information. Il ne faut donc pas se traîner dans la queue des nations développées, mais faire un grand bond par-dessus l'abîme du retard et s'occuper de choses qui ont de grandes perspectives, comme le développement de systèmes informatiques, la création d'un réseau de communications d'importance stratégique entre l'Est et l'Ouest. Alors, nous aurons une chance d'atteindre un bon niveau, de nous placer aux premiers rangs, non pas pour faire peur au monde, mais pour l'équilibrer. Car, actuellement, notre monde penche d'un côté, et un monde unipolaire a déjà fait la preuve qu'il n'était ni sûr ni stable. On ne peut pas être toujours fort, partout et à tout jamais. Il me semble que, pour la Russie, la voie la plus acceptable est de prendre le meilleur de notre expérience du passé (et l'on sait bien que tout n'était pas mauvais chez nous) et le meilleur du libéralisme, de les réunir et de les faire passer à travers le prisme de notre mentalité, pour que cela “prenne racine” sur notre sol. Nous suivrons dans ce cas notre propre voie. J'ai suffisamment étudié la question pour affirmer que chaque pays possède une base nationale qui lui est propre. Il y a une base française, russe, américaine, japonaise. Tout le reste s'y superpose. Les choses ne peuvent pas fonctionner autrement. Imaginez que des pays très démocratiques comme l'Italie ou la Norvège échangent leurs législations respectives. Vous imaginez l'horreur que cela donnerait? Alors, il ne faut pas faire des bêtises aussi évidentes. Voilà pourquoi je m'efforce de construire cette voie du bon sens, cette voie du possible, en attirant ce qu'il y a de meilleur de droite et de gauche, et en essayant de passer au milieu. Je suis convaincu qu'il n' y a pas d'autre chemin».

 

Pierre MONTHÉLIE.

 

Général Lebed, Les Mémoires d'un soldat, Editions du Rocher, 1998, 372 pages, 145 FF.

dimanche, 25 octobre 2009

Nouvelle alliance entre grandes puissances?

358x283.jpgPeter SCHOLL-LATOUR:

Nouvelle alliance entre grandes puissances?

 

Le Président Barack Obama a renoncé à installer un bouclier anti-missiles en Pologne et une gigantesque station radar en République Tchèque. On a interprété cet abandon un peu trop vite comme un signe de faiblesse. Pourtant le président américain a de bonnes raisons de rechercher  de meilleures relations avec la Russie.

 

Obama se rend compte qu’une confrontation avec la Russie irait à l’encontre des intérêts américains sur le long terme. Surtout en ce qui concerne l’Afghanistan car, là, un changement décisif est survenu. Jusqu’ici les forces armées américaines avaient pu compter sur un  approvisionnement logistique efficace et sans heurts à travers le Pakistan: ces voies d’accès au théâtre afghan sont désormais devenues extrêmement difficiles. Dans l’avenir, l’approvisionnement de l’armée américaine devra se faire principalement via les anciennes républiques soviétiques  d’Asie centrale mais aussi via le territoire russe lui-même: une disposition qui est depuis longtemps déjà une réalité pour les Allemands. Le contingent allemand de l’ISAF, en effet, se fait depuis des années par la base aérienne de Termes, située sur le frontière méridionale de l’Ouzbékistan. 

 

Compte tenu de cette nouvelle situation, il apparaît de plus en plus clairement que la Russie, elle aussi, serait menacée si des forces radicales islamistes prenaient le pouvoir à Kaboul. Moscou craint surtout une extension rapidement du mouvement des talibans au Tadjikistan, en Ouzbékistan et éventuellement au Kirghizistan, ce qui mettrait un terme au pouvoir des potentats locaux qui proviennent encore de l’ancien régime soviétique.

 

L’affirmation de l’ancien ministre allemand de la défense, Peter Struck (SPD), qui disait que “l’Allemagne se défendait sur l’Hindou Kouch”, mérite aujourd’hui d’être corrigée. En réalité, c’est la Russie que l’on défend dans l’Hindou Kouch. Car, au-delà des Etats de la CEI, c’est-à-dire dans le territoire de la Fédération de Russie elle-même, vivent 25 millions de musulmans qui pourraient devenir un sérieux foyer de troubles. Washington vient donc de reconnaître qu’il y a une convergence d’intérêts entre Russes et Américains en Asie centrale, alors que le Président George W. Bush l’avait nié, en se cramponnant sur de vieilles certitudes.

 

La Chine, elle aussi, a intérêt à combattre toute forme de radicalisme islamiste depuis que la minorité turcophone des Ouïghours se dresse contre Pékin au nom de l’islam. Voilà pourquoi le conseil de sécurité des Nations-Unies est inhabituellement unanime pour prolonger le mandat de l’ISAF en Afghanistan.Mais je doute qu’à Berlin on reconnaisse ce changement profond qui  anime les politiques des grandes puissances. Les Allemands refusent toujours de reconnaître que leur engagement en Afghanistan constitue un acte de guerre et feignent de croire benoîtement qu’ils doivent aller là-bas pour construire des écoles pour fillettes et mettre tout en oeuvre pour que les femmes ne doivent pas circuler voilées. Ce sont là, à coup sûr, des perspectives intéressantes mais qui ne légitiment pas en suffisance d’y envoyer des soldats  allemands, avec le risque éventuel qu’ils s’y fassent tuer.

 

Peter SCHOLL-LATOUR.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°43/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

A PARAITRE:

Début novembre  paraîtra en Allemagne le nouvel ouvrage du très prolifique Peter Scholl-Latour: “Die Angst des weissen Mannes – Eine Welt im Umbruch”, Propyläen Verlag, Berlin 2009, 24,90 euro.

 

Basic Bakunin

bakuninxxxx.gif

 

Basic Bakunin

Republished from the (British) Anarchist Communist Federation’s original pamphlet in 1993 by P.A.C. (Paterson Anarchist Collective) Publications. This electronic version has the extra ACF text added to the PAC version, for more completeness.

 

“The star of revolution will rise high above the streets of Moscow, from a sea of blood and fire, and turn into a lodestar to lead a liberated humanity”
-Mikhail Bakunin

Preface

The aim of this pamphlet is to do nothing more than present an outline of what the author thinks are the key features of Mikhail Bakunin’s anarchist ideas.

Bakunin was extremely influential in the 19th century socialist movement, yet his ideas for decades have been reviled, distorted or ignored. On reading this pamphlet, it will become apparent that Bakunin has a lot to offer and that his ideas are not at all confused (as some writers would have us think) but make up a full coherent and well argued body of thought. For a detailed but difficult analysis of Bakunin’s revolutionary ideas, Richard B. Saltman’s book, “The Social and Political Thought of Michael Bakunin” is strongly recommended. Ask your local library to obtain a copy.

Class

Bakunin saw revolution in terms of the overthrow of one oppressing class by another oppressed class and the destruction of political power as expressed as the state and social hierarchy. According to Bakunin, society is divided into two main classes which are fundamentally opposed to each other. The oppressed class, he variously described as commoners, the people, the masses or the workers, makes up a great majority of the population. It is in ‘normal’ time not conscious of itself as a class, though it has an ‘instinct’ for revolt and whilst unorganized, is full of vitality. The numerically much smaller oppressing class, however is conscious of its role and maintains its ascendancy by acting in a purposeful, concerted and united manner. The basic differences between the two classes, Bakunin maintained, rests upon the ownership and control of property, which is disproportionately in the hands of the minority class of capitalists. The masses, on the other hand, have little to call their own beyond their ability to work.

Bakunin was astute enough to understand that the differences between the two main classes is not always clear cut. He pointed out that it is not possible to draw a hard line between the two classes, though as in most things, the differences are most apparent at the extremes. Between these extremes of wealth and power there is a hierarchy of social strata which can be assessed according to the degree to which they exploit each other or are exploited themselves. The further away a given group is from the workers, the more likely it is to be part of the exploiting category and the less it suffers from exploitation. Between the two major classes there is a middle class or middle classes which are both exploiting and exploited, depending on their position of social hierarchy.

The masses who are the most exploited form, in Bakunin’s view, the great revolutionary class which alone can sweep away the present economic system. Unfortunately, the fact of exploitation and its resultant poverty are in themselves no guarantee of revolution. Extreme poverty is, Bakunin thought, likely to lead to resignation if the people can see no possible alternative to the existing order. Perhaps, if driven to great depths of despair, the poor will rise up in revolt. Revolts however tend to be local and therefore, easy to put down. In Bakunin’s view, three conditions are necessary to bring about popular revolution.

They are:

  • sheer hatred for the conditions in which the masses find themselves
  • the belief the change is a possible alternative
  • a clear vision of the society that has to be made to bring about human emancipation

     

Without these three factors being present, plus a united and efficient self organization, no liberatory revolution can possibly succeed.

Bakunin had no doubts that revolution must necessarily involve destruction to create the basis of the new society. He stated that, quite simply, revolution means nothing less than war, that is the physical destruction of people and property. Spontaneous revolutions involve, often, the vast destruction of property. Bakunin noted that when circumstances demanded it, the workers will destroy even their own houses, which more often than not, do not belong to them. The negative, destructive urge is absolutely necessary, he argued, to sweep away the past. Destruction is closely linked with construction, since the “more vividly the future is visualized, the more powerful is the force of destruction.”

Given the close relationship between the concentration of wealth and power in capitalist societies, it is not surprising that Bakunin considered economic questions to be of paramount importance. It is in the context of the struggle between labor and capital that Bakunin gave great significance of strikes by workers. Strikes, he believed, have a number of important functions in the struggle against capitalism. Firstly they are necessary as catalysts to wrench the workers away from their ready acceptance of capitalism, they jolt them out of their condition of resignation. Strikes, as a form of economic and political warfare, require unity to succeed, thus welding the workers together. During strikes, there is a polarization between employers and workers. This makes the latter more receptive to the revolutionary propaganda and destroys the urge to compromise and seek deals. Bakunin thought that as the struggle between labor and capital increases, so will the intensity and number of strikes. The ultimate strike is the general strike. A revolutionary general strike, in which class conscious workers are infused with anarchist ideas will lead, thought Bakunin, to the final explosion which will bring about anarchist society.

Bakunin’s ideas are revolutionary in a very full sense, being concerned with the destruction of economic exploitation and social/political domination and their replacement by a system of social organization which is in harmony with human nature. Bakunin offered a critique of capitalism, in which authority and economic inequality went hand in hand, and state socialism, (e.g. Marxism) which is one sided in its concentration on economic factors whilst, grossly underestimating the dangers of social authority.

State

Bakunin based his consistent and unified theory upon three interdependent platforms, namely:

  • human beings are naturally social (and therefore they desire social solidarity)
  • are more or less equal and,
  • want to be free

     

His anarchism is consequently concerned with the problem of creating a society of freedom within the context of an egalitarian system of mutual interaction. The problem with existing societies, he argued, is that they are dominated by states that are necessarily violent, anti-social, and artificial constructs which deny the fulfillment of humanity.

Whilst there are, in Bakunin’s view, many objectionable features within capitalism, apart from the state, (e.g. the oppression of women, wage slavery), it is the state which nurtures, maintains and protects the oppressive system as a whole. The state is defined as an anti-social machine which controls society for the benefit of an oppressing class or elite. It is essentially an institution based upon violence and is concerned with its maintenance of inequality through political repression. In addition the state relies upon a permanent bureaucracy to help carry out its aims. The bureaucratic element, incidentally, is not simply a tool which it promotes. All states, Bakunin believed, have internal tendencies toward self perpetuation, whether they be capitalist or socialist and are thus to be opposed as obstacles to human freedom.

It might be objected that states are not primarily concerned with political repression and violence and indeed that liberal democratic states, in particular, are much interested in social welfare. Bakunin argues that such aspects are only a disguise, and that when threatened, all states reveal their essentially violent natures. In Britain and Northern Ireland this repressive feature of state activity has come increasingly to the fore, when the state has been challenged to any significant degree, it has responded with brutal firmness.

And developments within Britain over the last couple decades tend to substantiate another feature of the state which Bakunin drew attention to, their tendency toward over increasing authoritarianism and absolutism. He believed that there were strong pressures in all states whether they are liberal, socialist, capitalist, or whatever, toward military dictatorship but that the rate of such development will vary, however according to factors such as demography, culture and politics.

Finally, Bakunin noted that states tend toward warfare against other states. Since there is no internationally accepted moral code between states, then rivalries between them will be expressed in terms of military conflict. “So long as there’s government, there will be no peace. There will only be more or less prolonged respites, armistices concluded by the perpetually belligerent states; but as soon as a state feels sufficiently strong to destroy this equilibrium to its advantage, it will never fail to do so.”

bakunin.jpgBourgeois Democracy

Political commentators and the media are constantly singing the praises of the system of representative democracy in which every few years or so the electorate is asked to put a cross on a piece of paper to determine who will control them. This system works good insofar as the capitalist system has found a way of gaining legitimacy through the illusion that some how the voters are in charge of running the system. Bakunin’s writings on the issue are of representative democracy were made at the time when it barely existed in the world. Yet he could see on the basis of a couple of examples (the United States and Switzerland) that the widening of the franchise does little to improve the lot of the great mass of the population. True, as Bakunin noted, middle class politicians are prepared to humble themselves before the electorate issuing all sorts of promises. But this leveling of candidates before the populace disappears the day after the election, once they are transformed into members of the Parliament. The workers continue to go to work and the bourgeoisie takes up once again the problems of business and political intrigue.

Today, in the United States and Western Europe, the predominant political system is that of liberal democracy. In Britain the electoral system is patently unfair in its distribution of parliamentary seats, insofar as some parties with substantial support get negligible representation. However, even where strict proportional representation applies, the Bakuninist critique remains scathing. For the representative system requires that only a small section of the population concern itself directly with legislation and governing (in Britain a majority out of 650 MP’s (Members of Parliament)).

Bakunin’s objections to representative democracy rests basically on the fact that it is an expression of the inequality of power which exists in society. Despite constitutions guaranteeing the rights of citizens and equality before the law, the reality is that the capitalist class is in permanent control. So long as the great mass of the population has to sell its labor power in order to survive, there can not be democratic government. So long as people are economically exploited by capitalism and there are gross inequalities of wealth, there can not be real democracy. As Bakunin made clear, economic facts are much stronger than political rights. So long as there is economic privilege there will be political domination by the rich over the poor. The result of this relationship is that representatives of capitalism (bourgeois democracy) “posses in fact, if not by right, the exclusive privilege of governing.”

A common fiction that is expounded in liberal democracies is that the people rule. However the reality is that minorities necessarily do the governing. A privileged few who have access to wealth, education and leisure time, clearly are better equipped to govern than ordinary working people, who generally have little free time and only a basic education.

But as Bakunin made clear, if by some quirk, a socialist government be elected, in real terms, things would not improve much. When people gain power and place themselves ‘above’ society, he argued, their way of looking at the world changes. From their exalted position of high office the perspective on life becomes distorted and seems very different to those on the bottom. The history of socialist representation in parliament is primarily that of reneging on promises and becoming absorbed into the manners, morality and attitudes of the ruling class. Bakunin suggests that such backsliding from socialist ideas is not due to treachery, but because participation in parliament makes representatives see the world through a distorted mirror. A workers parliament, engaged in the tasks of governing would, said Bakunin, end up a chamber of “determined aristocrats, bold or timid worshipers of the principle of authority who will also become exploiters and oppressors.”

The point that Bakunin makes time and time again in his writings is that no one can govern for the people in their interests. Only personal and direct control over our lives will ensure that justice and freedom will prevail. To abdicate direct control is to deny freedom. To grant political sovereignty to others, whether under the mantle of democracy, republicanism, the people’s state, or whatever, is to give others control and therefore domination over our lives.

It might be thought that the referendum, in which people directly make laws, would be an advance upon the idea of representative democracy. This is not the case according to Bakunin, for a variety of reasons. Firstly, the people are not in a position to make decisions on the basis of full knowledge of all the issues involved. Also, laws may be a complex, abstract, and specialized nature and that in order to vote for them in a serious way, the people need to be fully educated and have available the time and facilities to reflect upon and discuss the implications involved. The reality of referenda is that they are used by full-time politicians to gain legitimacy for essentially bourgeois issues. It is no coincidence that Switzerland, which has used the referendum frequently, remains one of the most conservative countries in Europe. With referenda, the people are guided by politicians, who set the terms of the debate. Thus despite popular input, the people still remain under bourgeois control.

Finally, Bakunin on the whole concept of the possibility of the democratic state: For him the democratic state is a contradiction in terms since the state is essentially about force, authority and domination and is necessarily based upon an inequality of wealth and power. Democracy, in the sense of self rule for all, means that no one is ruled. If no one rules, there can be no state. If there is a state, there can be no self rule.

Marx

Bakunin’s opposition to Marxism involves several separate but related criticisms. Though he thought Marx was a sincere revolutionary, Bakunin believed that the application of the Marxist system would necessarily lead to the replacement of one repression (capitalist) by another (state socialist).

Firstly, Bakunin opposed what he considered to be the economic determinist element in Marx’s thought, most simply stated that “Being determines consciousness.” Put in another way, Bakunin was against the idea that the whole range of ’super structural’ factors of society, its laws, moralities, science, religion, etc. were “but the necessary after effects of the development of economic facts.” Rather than history or science being primarily determined by economic factors (e.g. the ‘mode of production’), Bakunin allowed much more for the active intervention of human beings in the realization of their destiny.

More fundamental was Bakunin’s opposition to the Marxist idea of dictatorship of the proletariat which was, in effect, a transitional state on the way to stateless communism. Marx and Engles, in the Communist Manifesto of 1848, had written of the need for labor armies under state supervision, the backwardness of the rural workers, the need for centralized and directed economy, and for wide spread nationalization. Later, Marx also made clear that a workers’ government could come into being through universal franchise. Bakunin questioned each of these propositions.

The state, whatever its basis, whether it be proletarian or bourgeois, inevitably contains several objectionable features. States are based upon coercion and domination. This domination would, Bakunin stated, very soon cease to be that of the proletariat over its enemies but would become a state over the proletariat. This would arise, Bakunin believed, because of the impossibility of a whole class, numbering millions of people, governing on its own behalf. Necessarily, the workers would have to wield power by proxy by entrusting the tasks of government to a small group of politicians.

Once the role of government was taken out of the hands of the masses, a new class of experts, scientists and professional politicians would arise. This new elite would, Bakunin believed, be far more secure in its domination over the workers by means of the mystification and legitimacy granted by the claim to acting in accordance with scientific laws (a major claim by Marxists). Furthermore, given that the new state could masquerade as the true expression of the people’s will. The institutionalizing of political power gives rise to a new group of governors with the same self seeking interests and the same cover-ups of its dubious dealings.

Another problem posed by the statist system, that of centralized statist government would, argued Bakunin, further strengthen the process of domination. The state as owner, organizer, director, financier, and distributor of labor and economy would necessarily have to act in an authoritarian manner in its operations. As can be seen by the Soviet system, a command economy must act with decision flowing from top to bottom; it cannot meet the complex and various needs of individuals and, in the final analysis, is a hopeless, inefficient giant. Marx believed that centralism, from whatever quarter, was a move toward the final, statist solution of revolution. Bakunin, in contrast opposed centralism by federalism.

Bakunin’s predictions as to the operation of Marxist states has been borne out of reality. The Bolsheviks seized power in 1917, talked incessantly of proletarian dictatorship and soviet power, yet inevitably, with or without wanting to, created a vast bureaucratic police state.

Unions

Most of the left in Britain view the present structures of trade unions in a positive light. This is true for members of the Labor Party, both left and right, the Communist Party, the Militant Tendency and many other Marxist organizations. These bodies wish to capture or retain control of the unions, pretty much as they stand, in order to use them for their own purposes. As a result, there are frequently bitter conflicts and maneuverings within the unions for control. This trend is most apparent in the C.P.S.A. where a vicious anti-communist right wing group alternates with the Militant Tendency and its supporters for control of the union executive and full time posts. The major exception to this is the Socialist Workers Party which advocates rank and file organization, so long as the S.W.P. can control it.

Bakunin laid the foundations of the anarchist approach to union organization and the general tendency of non-anarchist unions to decay into personal fiefdoms and bureaucracy over a century ago. Arguing in the context of union organization within the International Working Mens Association, he gave examples of how unions can be stolen from the membership whose will they are supposed to be an expression of. He identified several interrelated features which lead to the usurpation of power by union leaders.

Firstly, he indicated a psychological factor which plays a key part. Honest, hardworking, intelligent and well meaning militants win through hard work the respect and admiration of their fellow members and are elected to union office. They display self sacrifice, initiative and ability. Unfortunately, once in positions of leadership, these people soon imagine themselves to be indispensable and their focus of attention centers more and more on the machinations within the various union committees.

The one time militant thus becomes removed from the every day problems of the rank and file members and assumes the self delusion which afflicts all leaders, namely a sense of superiority.

Given the existence of union bureaucracies and secret debating chambers in which leaders decide union actions and policies, a ‘governmental aristocracy’ arises within the union structures, no matter how democratic those structures may formally be. With the growing authority of the union committees etc., the workers become indifferent to union affairs, with the exception Bakunin asserts, of issues which directly affect them e.g. dues payment, strikes etc. Unions have always had great problems in getting subscriptions from alienated memberships, a solution which has been found in the ‘check off’ system by which unions and employers collaborate to remove the required sum at source, i.e. from the pay packet.

Where workers do not directly control their union and delegate authority to committees and full-time agents, several things happen. Firstly, so long as union subscriptions are not too high, and back dues are not pressed too hard for, the substituting bodies can act with virtual impunity. This is good for the committees but brings almost to an end the democratic life of the union. Power gravitates increasingly to the committees and these bodies, like all governments substitute their will for that of the membership. This in turn allows expression for personal intrigues, vanity, ambition and self-interest. Many intra-union battles, which are ostensibly fought on ideological grounds, are in fact merely struggles for control by ambitious self seekers who have chosen the union for their career structure. This careerism occasionally surfaces in battles between rival leftists, for example where no political reasons for conflict exist. In the past the Communist Party offered a union career route within certain unions and such conflicts constantly arose.

Presumably, within the Militant Tendency, which also wishes to capture unions, the same problem exists.

Within the various union committees, which are arranged on a hierarchical basis (mirroring capitalism), one or two individuals come to dominate on the basis of superior intelligence or aggressiveness. Ultimately, the unions become dominated by bosses who hold great power in their organizations, despite the safeguards of democratic procedures and constitutions. Over the last few decades, many such union bosses have become national figures, especially in periods of Labor government.

Bakunin was aware that such union degeneration was inevitable but only arises in the absence of rank and file control, lack of opposition to undemocratic trends and the accession to union power to those who allow themselves to be corrupted. Those individuals who genuinely wish to safeguard their personal integrity should, Bakunin argued, not stay in office too long and should encourage strong rank and file opposition. Union militants have a duty to remain faithful to their revolutionary ideals.

Personal integrity, however, is an insufficient safeguard. Other, institutional and organizational factors must also be brought into play. These include regular reporting to the proposals made by the officials and how they voted, in other words frequent and direct accountability. Secondly, such union delegates must draw their mandates from the membership being subject to rank and file instructions. Thirdly, Bakunin suggests the instant recall of unsatisfactory delegates. Finally, and most importantly, he urged the calling of mass meetings and other expressions of grass roots activity to circumvent those leaders who acted in undemocratic ways. Mass meetings inspire passive members to action, creating a camaraderie which would tend to repudiate the so called leaders.

(Electronic Ed- From this, one can conclude that Bakunin was a major inspiration for the anarcho-syndicalist movement.)

Revolutionary Organization

Above all else, Bakunin the revolutionary, believed in the necessity of collective action to achieve anarchy. After his death there was a strong tendency within the anarchist movement towards the abandonment of organization in favor of small group and individual activity. This development, which culminated in individual acts of terror in the late nineteenth century France, isolating anarchism from the very source of the revolution, namely the workers.

Bakunin, being consistent with other aspects of his thought, saw organization not in terms of a centralized and disciplined army (though he thought self discipline was vital), but as the result of decentralized federalism in which revolutionaries could channel their energies through mutual agreement within a collective. It is necessary, Bakunin argued, to have a coordinated revolutionary movement for a number of reasons. Firstly, is anarchists acted alone, without direction they would inevitably end up moving in different directions and would, as a result, tend to neutralize each other. Organization is not necessary for its own sake, but is necessary to maximize strength of the revolutionary classes, in the face of the great resources commanded by the capitalist state.

However, from Bakunin’s standpoint, it was the spontaneous revolt against authority by the people which is of the greatest importance. The nature of purely spontaneous uprisings is that they are uneven and vary in intensity from time to time and place to place. The anarchist revolutionary organization must not attempt to take over and lead the uprising but has the responsibility of clarifying goals, putting forward revolutionary propaganda, and working out ideas in correspondence with the revolutionary instincts of the masses. To go beyond this would undermine the whole self-liberatory purpose of the revolution. Putchism has no place in Bakunin’s thought.

Bakunin then, saw revolutionary organization in terms of offering assistance to the revolution, not as a substitute. It is in this context that we should interpret Bakunin’s call for a “secret revolutionary vanguard” and “invisible dictatorship” of that vanguard. The vanguard it should be said, has nothing in common with that of the Leninist model which seeks actual, direct leadership over the working class. Bakunin was strongly opposed to such approaches and informed his followers that “no member… is permitted, even in the midst of full revolution, to take public office of any kind, nor is the (revolutionary) organization permitted to do so… it will at all times be on the alert, making it impossible for authorities, governments and states to be established.” The vanguard was, however, to influence the revolutionary movement on an informal basis, relying on the talents of it’s members to achieve results. Bakunin thought that it was the institutionalization of authority, not natural inequalities, that posed a threat to the revolution. The vanguard would act as a catalyst to the working classes’ own revolutionary activity and was expected to fully immerse itself in the movement. Bakunin’s vanguard then, was concerned with education and propaganda, and unlike the Leninist vanguard party, was not to be a body separate from the class, but an active agent within it.

The other major task of the Bakuninist organization was that it would act as the watchdog for the working class. Then, as now, authoritarian groupings posed as leaders of the revolution and supplied their own members as “governments in waiting.” The anarchist vanguard has to expose such movements in order that the revolution should not replace one representative state by another ‘revolutionary’ one. After the initial victory, the political revolutionaries, those advocates of so-called workers’ governments and the dictatorship of the proletariat, would according to Bakunin try “to squelch the popular passions. They appeal for order, for trust in, for submission to those who, in the course and the name of the revolution, seized and legalized their own dictatorial powers; this is how such political revolutionaries reconstitute the state. We on the other hand, must awaken and foment all the dynamic passions of the people.”

 

Anarchy

Throughout Bakunin’s criticisms of capitalism and state socialism he constantly argues for freedom. It is not surprising, then, to find that in his sketches of future anarchist society that the principle of freedom takes precedence. In a number of revolutionary programs he outlined which he considered to be the essential features of societies which would promote the maximum possible individual and collective freedom. The societies envisioned in Bakunin’s programs are not Utopias, the sense of being detailed fictional communities, free of troubles, but rather suggest the basic minimum skeletal structures which would guarantee freedom. The character of future anarchist societies will vary, said Bakunin depending on a whole range of historical, cultural, economic and geographical factors.

The basic problem was to lay down the minimum necessary conditions which would bring about a society based upon justice and social welfare for all and would also generate freedom. The negative, that is, destructive features of the programs are all concerned with the abolition of those institutions which lead to domination and exploitation. The state, including the established church, the judiciary, state banks and bureaucracy, the armed forces and the police are all to be swept away. Also, all ranks, privileges, classes and the monarchy are to be abolished.

The positive, constructive features of the new society all interlink to promote freedom and justice. For a society to be free, Bakunin argued, it is not sufficient to simply impose equality. No, freedom can only be achieved and maintained through the full participation in society of a highly educated and healthy population, free from social and economic worries. Such an enlightened population, can then be truly free and able to act rationally on the basis of a popularly controlled science and a thorough knowledge of the issues involved.

Bakunin advocated complete freedom of movement, opinion, morality where people would not be accountable to anyone for their beliefs and acts. This must be, he argued, complete and unlimited freedom of speech, press and assembly. Freedom, he believed, must be defended by freedom, for to “advocate the restriction of freedom on the pretext that it is being defended is a dangerous delusion.” A truly free and enlightened society, Bakunin said, would adequately preserve liberty. An ordered society, he thought, stems not from suppression of ideas, which only breeds opposition and factionalism, but from the fullest freedom for all.

This is not to say that Bakunin did not think that a society has the right to protect itself. He firmly believed that freedom was to be found within society, not through its destruction. Those people who acted in ways that lessen freedom for others have no place; These include all parasites who live off the labor of others. Work, the contribution of one’s labor for the creation of wealth, forms the basis of political rights in the proposed anarchist society. Those who live by exploiting others do not deserve political rights. Others, who steal, violate voluntary agreements within and by society, inflict bodily harm etc. can expect to be punished by the laws which have been created by that society. The condemned criminal, on the other hand, can escape punishment by society by removing himself/herself from society and the benefits it confers. Society can also expel the criminal if it so wishes. Basically thought, Bakunin set great store on the power of enlightened public opinion to minimize anti-social activity.

Bakunin proposed the equalization of wealth, though natural inequalities which are reflected in different levels of skill, energy and thrift, should he argued be tolerated. The purpose of equality is to allow individuals to find full expression of their humanity within society. Bakunin was strongly opposed to the idea of hired labor which if introduced into an anarchist society, would lead to the reintroduction of inequality and wage slavery. He proposed instead collective effort because it would, he thought, tend to be more efficient. However, so long as individuals did not employ others, he had no objection to them working alone.

Through the creation of associations of labor which could coordinate worker’s activities, Bakunin proposed the setting up of an industrial assembly in order to harmonize production with the demand for products. Such an assembly would be necessary in the absence of the market. Supplied with statistical information from the various voluntary organization who would be federated, production could be specialized on an international basis so that those countries with inbuilt economic advantages would produce most efficiently for the general good. Then, according to Bakunin, waste, economic crisis and stagnation “will no longer plague mankind; the emancipation of human labor will regenerate the world.”

Turning to the question of the political organization of society, Bakunin stressed that they should all be built in such a way as to achieve order through the realization of freedom on the basis of the federation of voluntary organizations. In all such political bodies power is to flow “from the base to the summit” and from “the circumference to the center/” In other words, such organizations should be the expressions of individual and group opinions, not directing centers which control people.

On the basis of federalism, Bakunin proposed a multi-tier system of responsibility for decision making which would be binding on all participants, so long as they supported the system. Those individuals, groups or political institutions which made up the total structure would have the right to secede. Each participating unit would have an absolute right to self-determination, to associate with the larger bodies, or not. Starting at the local level, Bakunin suggested as the basic political unit, the completely autonomous commune. The commune, on the basis of universal suffrage, would elect all of its functionaries, law makers, judges, and administrators of communal property.

The commune would decide its own affairs but, if voluntarily federated to the next tier of administration, the provincial assembly, its constitution must conform to the provincial assembly. Similarly, the constitution of the province must be accepted by the participating communes. The provincial assembly would define the rights and obligations existing between communes and pass laws affecting the province as a whole. The composition of the provincial assembly would be decided on the basis of universal suffrage.

Further levels of political organization would be the national body, and, ultimately, the international assembly. As regards international organization, Bakunin proposed that there should be no permanent armed forces, preferring instead, the creation of local citizens’ defense militias. Disputes between nations and their provinces would be settled by an international assembly. This assembly, if required, could wage war against outside aggressors but should a member nation of the international federation attack another member, then it faces expulsion and the opposition of the federation as a whole.

Thus, from root to branch, Bakunin’s outline for anarchy is based upon the free federation of participants in order to maximize individual and collective well being.

Bakunin’s Relevance Today

Throughout most of this pamphlet Bakunin has been allowed to speak for himself and any views by the writer of the pamphlet are obvious. In this final section it might be valuable to make an assessment of Bakunin’s ideas and actions.

With the dominance of Marxism in the world labor and revolutionary movements in the twentieth century, it became the norm to dismiss Bakunin as muddle-headed or irrelevant. However, during his lifetime he was a major figure who gained much serious support. Marx was so pressured by Bakunin and his supporters that he had to destroy the First International by dispatching it to New York. In order that it should not succumb to Anarchism, Marx killed it off through a bureaucratic maneuver.

Now that Marxism has been seriously weakened following the collapse of the USSR and the ever increasingly obvious corruption in China, Bakunin’s ideas and revolutionary Anarchism have new possibilities. If authoritarian, state socialism has proved to be a child devouring monster, then libertarian communist ideas once again offer a credible alternative.

The enduring qualities of Bakunin and his successors are many, but serious commitment to the revolutionary overthrow of capitalism and the state must rank high. Bakunin was much more of a doer than a writer, he threw himself into actual insurrections, much to the trepidation of European heads of state. This militant tradition was continued by Malatesta, Makhno, Durruti, and many other anonymous militants. Those so-called anarchists who adopt a gradualist approach are an insult to Anarchism. Either we are revolutionaries or we degenerate into ineffective passivism.

Bakunin forecast the dangers of statist socialism. His predictions of a militarized, enslaved society dominated by a Marxist ruling class came to pass in a way that even Bakunin could not have fully envisaged. Lenin, Trotsky and Stalin outstripped even the Tsars in their arrogance and brutality. And, after decades of reformist socialism which have frequently formed governments, Bakunin’s evaluations have been proved correct. In Britain we have the ultimate insult to working people in the form of “socialist Lords”. For services to capitalism, Labor MP’s are ultimately granted promotion to the aristocracy.

Bakunin fought for a society based upon justice, equality and freedom. Unlike political leaders of the left he had great faith in the spontaneous, creative and revolutionary potential of working people. His beliefs and actions reflect this approach. So, revolutionaries can learn much of value from his federalism, his militancy and his contempt for the state, which, in the twentieth century, has assumed gigantic and dangerous proportions, Bakunin has much to teach us but we too must develop our ideas in the face of new challenges and opportunities. We must retain the revolutionary core of his thought yet move forward. Such is the legacy of Bakunin.

With this in mind, the Anarchist Communist Federation is developing a revolutionary anarchist doctrine, which whilst being ultimately based on Bakunin’s ideas, goes much further to suit the demands of present-day capitalism. Ecological issues, questions of imperialist domination of the world, the massive oppression of women, the automation of industry, computerized technology etc. are all issues that have to be tackled. We welcome the challenge!

 

FURTHER READING

There are two main compilations of Bakunin’s works which are quite readily available through public libraries. They are “Bakunin on Anarchy” edited by Sam Dolgoff and “The Political Philosophy of Bakunin” edited by G.P. Maximoff. Also worth looking at, if you can get hold of them are “The Basic Bakunin – Writings 1869-1871″ edited by Robert M. Cutler and “Mikhail Bakunin – From Out of the Dustbin”, edited by the same person.

For an understanding of the full profundity of Bakunin’s ideas, there is nothing to match “The Social and Political Thought of Michael Bakunin” by Richard B Saltman. This American publication should be available through your local library.

Bakunin’s works currently available:

  • “God and the State”
  • “Marxism, Freedom and the State” (edited by K.J. Kenafik)
  • “The Paris Commune and the Idea of the State”
  • “Statism and Anarchy” (heavy going) ed. Marshall Shatz.

mercredi, 21 octobre 2009

Le regard de Dominique Venner sur le destin des armées blanches

38a2d72b.jpg

 

 

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

Le regard de Dominique Venner sur le destin des Armées blanches

 

Pour la Russie et la Liberté,

Nous sommes prêts, nous les Kornilovtzy,

A nous jeter à l'eau,

A nous jeter au feu!

Marchons au combat, au sanglant combat!

Chant de marche des Volontaires, Campagne du Kouban, 1918.

 

Lors du cinquantième anniversaire du coup d'État bolchévique en 1967, on assista dans le monde entier, et tout spécialement en France, à une débauche de propagande et de bourrage de crâne en faveur du régime rouge: ce fut le délire, un délire soigneusement organisé, subsidié et contrôlé par les “Organes”. Combien d'intellos parisiens n'ont pas émargé aux fonds secrets soviétiques? Certains (les mêmes parfois) touchent aujourd'hui d'autres chèques...  Ainsi va (leur) monde... En réaction contre cette désinformation, il y eut le livre de Marina Grey et de Jean Bourdier consacré aux Armées blanches (Stock 1968, paru en Livre de Poche, n°5116). Marina Grey est la fille du Général Dénikine, qui commanda la fameuse Division de Fer lors de la Première Guerre mondiale: le Maréchal Foch et Churchill ont dit de lui qu'il avait contribué à la survie des Alliés sur le front ouest. Anton Dénikine, pourtant acquis aux idées libérales et critique à l'égard des insuffisances de Nicolas II, sera Régent de Russie et l'un des principaux chefs blancs.

 

Sa fille, née en Russie libre, a écrit une excellente évocation de l'épopée des Vendéens russes, ces rebelles qui, refusant la servitude et la terreur bolchéviques, se battent à un contre cent avec un panache extraordinaire. Cette étude écrite comme un roman, se fondait sur des archives privées d'émigrés, des revues parues en exil, à Buenos Aires, Paris ou Bruxelles (saluons au passage Sa Haute Noblesse feu le capitaine Orekhoff, éditeur à Bruxelles de La Sentinelle  et, en 1967, du Livre blanc sur la Russie martyre!),  des mémoires rédigés en russe par des officiers rescapés du génocide communiste (au moins dix millions de morts pour la Guerre civile). P. Fleming, le frère de Ian, avait signé un beau livre sur l'amiral blanc Koltchak et plus tard, Jean Mabire avait sorti la belle figure d'Ungern de l'oubli dans un roman, qui a marqué toute une génération. Mais les Blancs, malgré ces efforts, restaient des maudits, bien plus en Occident qu'en Russie occupée!

 

Vers 1980, un texte du samizdat russe expliquait que, dans les cinémas soviétiques des années 70, lorsqu'on montrait des Gardes blancs (vrais ou non, mais montrés du doigt comme des vampires), souvent les jeunes se levaient d'un bloc, sans un mot. Un de ces adolescents avait écrit à une revue émigrée, une superbe lettre ouverte aux derniers Blancs pour leur dire son admiration. La SERP nous offre toujours un bel enregistrement de marches de l'ancienne Russie et les Cosaques de Serge Jaroff nous restituaient les chants des Blancs... autrement plus beaux que les chœurs de la défunte Armée rouge qui, pourtant, avaient une classe indéniable par rapport aux misérables chansonettes des armées anglo-saxonnes qu'on tente de nous faire passer pour le comble du génie.

 

Mais voilà que Dominique Venner, déjà auteur d'une Histoire de l'Armée rouge (ouvrage couronné par l'Académie française), vient combler ce vide regrettable. Il s'attaque à la Guerre civile, épisode soigneusement occulté de l'histoire soviétique. L'hagiographie marxiste passait sous silence la résistance des Blancs, ou alors ne parlait que de “bandes” de réactionnaires au service du capital, etc. Venner s'est replongé dans cette époque tout compte fait mal connue: peu de livres en langue occidentale, censure générale sur le sujet (tabou dans les universités européennes, alors que les chercheurs américains ont publié pas mal de thèses sur les Blancs), et surtout blocage mental sur ces épisodes qui contredisent la version officielle des faits pour une intelligentsia européenne qui subit encore une forte imprégnation marxisante, souvent inconsciente: une résistance populaire à la “révolution” communiste ne va pas dans le “sens de l'histoire”! Comme le dit justement Gilbert Comte dans le Figaro littéraire du 6 novembre 1997: «Triste modèle des démissions de l'intelligence, quand l'histoire écrite par les vainqueurs devient la seule qu'il soit possible d'écouter». On connaît cela pour d'autres épisodes de notre histoire et le procès Papon, une gesticulation inutile, en est le dernier (?) exemple. Il n'y a pas qu'à Moscou que les procès sont des farces orwelliennes...

 

Venner a donc lu des témoignages écrits à chaud (voyageurs, diplomates, journalistes), ce qui lui permet de rendre l'esprit de l'époque. Une seule critique vient à l'esprit à la lecture de son beau livre: peu de sources russes et pas de témoignages de première main. Il est vrai que pour trouver des rescapés des Armées blanches en 1996... Mais ces hommes, officiers, civils, soldats ont laissé des écrits: mémoires, archives, articles dans la presse émigrée. Paris, Kharbine en Mandchourie, Bruxelles, Berlin ou Buenos Aires furent des centres actifs de l'Emigratziya.  Les revues, journaux, livres rédigés par des combattants blancs se comptent par centaines. Il y a là une masse de documents énorme à analyser. Il existe encore des Associations de la Noblesse russe où de Volontaires qui possèdent des archives du plus haut intérêt et les archives soviétiques doivent aussi receler des trésors... Mais ne faisons pas les difficiles! Le travail de Venner est une réussite complète. Signalons seulement qu'il reste du pain sur la planche pour de futurs chercheurs!

 

Venner étudie les Rouges et les Blancs, ce qui est neuf: il analyse les points forts et les faiblesses des uns et des autres. Sa description des événements est précise, militaire: il montre bien à quel point la guerre fut atroce. Surtout, il prouve que les Blancs, ces “vaincus” de l'histoire officielle, ne furent pas loin de l'emporter sur les Rouges. Fin 1919, Lénine s'écrie: «nous avons raté notre coup!». C'est Trotsky qui sauvera le régime, avec ses trains blindés et sa vision très militariste de la révolution. Il y a d'ailleurs chez Lev Davidovitch Bronstein un côté fascistoïde avant la lettre!

 

Pour la Russie, l'alliance avec la France fut une catastrophe: l'Etat-Major impérial est fidèle à ses promesses, jusqu'à la folie. Mal armée (usines d'armement peu productives), mal commandée (généraux incapables), sans doute trahie au plus haut niveau (la Tsarine ou son entourage), l'armée russe subit une terrible saignée: 2,5 millions de tués en 1915! Ces millions de moujiks tués ou estropiés sauvent la France du désastre: si le plan Schlieffen ne réussit pas à l'ouest, c'est en partie grâce aux divisions sacrifiées de Nicolas II. En 1940, ce même plan, actualisé (frappes aériennes et panzers) réussira grâce à l'alliance de fait germano-russe (pacte Ribbentrop-Molotov). En 1917, l'armée est à bout, et 1a personnalité du monarque, une vraie fin de race, n'arrange rien. Seul le Grand-Duc Nicolas aurait pu sauver la mise, après la mort de Stolypine (assassiné en 1911 par un revolutionnaire juif), ce qui fut un désastre pour toute l'Eurasie. Les trop vagues projets de coup d'état militaire visant à renverser ce tsar incapable ne se réalisent pas... mais le corps des officiers est préparé à lâcher ce dernier, que même le roi d'Angleterre n'a pas envie de sauver.

 

Ce sont des officiers comme Alexeiev ou Korniloff, futurs chefs blancs, qui joueront un rôle dans son abdication tardive. Preuve que les Blancs n'étaient pas des nostalgiques de l'ancien régime, mais des officiers qui souvent servent d'abord Kerenski, même s'ils méprisent à juste titre ce bavard incapable (un politicien). On peut d'ailleurs se demander si le ralliement au régime rouge de tant d'officiers tsaristes n'a pas été partiellement facilité premièrement par les revolvers (Nagan, au départ une conception liégeoise) délicatement braqués dans leur nuque, mais aussi par le dégoût inspiré par la cour de Nicolas II. Dénikine lui-même avait été scandalisé par le lâchage par le tsar de son meilleur ministre, Stolypine.

 

Un des nombreux mérites du livre de Venner est de camper tous ces personnages historiques avec un talent sûr. Le portrait de Lénine, qui était la haine pour le genre humain personnifiée, celui de Trostky, sont remarquables. Venner montre bien que là où les Bolchéviks trouvent face à eux une résistance nationaliste, ils sont vaincus, comme en Finlande, en Pologne. Les armées de paysans attachés à leurs traditions ancestrales sont toujours plus fortes que celles des révolutionnaires citadins, fanatiques mais divisés en chapelles. Un des mérites du livre est d'insister sur la respansabilité de Lénine dans le génocide du peuple russe: c'est lui qui met en place le système du goulag, et non Staline. Les premiers camps d'extermination communistes datent de l'été 1918. Toutes ces ignominies, dont Hitler ne fut qu'un pâle imitateur, découlent de l'idéologie marxiste, qui est celle de la table rase (au moins 25 millions de tués de 1917 à 1958!). La révolution blochévique vit une véritable colonisation de la Russie par des étrangers: Polonais, “Lettons”, et surtout des Juifs, animés d'une haine viscérale pour la Russie traditionnelle, qui ne leur avait jamais laissé aucune place au soleil.

 

Cette révolution est en fait le début d'une gigantesque guerre civile d'ampleur continentale: le fascisme, le nazisme sont des ripostes à cette menace, avec toutes les conséquences que l'on sait. L'historien allemand Ernst Nolte l'a très bien démontré au grand scandale des historiens établis qui aiment à répéter les vérités de propagande dans l'espoir de “faire carrière”. Mais ces vérités, dûment démontrées en Allemagne ou dans les pays anglo-saxons, passent mal en France où sévit encore un lobby marxisant, qui impose encore et toujours ses interdits. Voir les déclarations ridicules de Lionel Jospin, impensables ailleurs en Europe. Voir le scandale causé par le livre de S. Courtois sur les 85 millions de morts du communisme, qui réduit à néant les constructions intellectuelles du négationnisme des établissements, qui, s'ils ont souvent trahi leurs idéaux de jeunesse, ont gardé intactes leur volonté de pourrir notre communauté. Mais ces viles canailles politiques n'ont plus l'ardeur de la jeunesse: ils ne croient plus en rien et n'ont plus au cœur que la haine et le ressentiment pour toutes les innovations qui pointent à l'horizon. A leur tour de connaître la décrépitude et le mépris, des 20 à 30% de jeunes qu'ils condamnent au chômage, en dépit de leur beaux discours sur le “social”. Remercions Venner de nous avoir rendus, avec autant de sensibilité que d'érudition, les hautes figures de l'Amiral Koltchak, des généraux Dénikine, Korniloff ou Wrangel, de tous ces officiers, ces simples soldats blancs, héros d'autrefois qui nous convient à résister sans faiblir aux pourrisseurs et aux fanatiques.

 

Patrick CANAVAN.

 

Dominique VENNER, Les Blancs et les Rouges. Histoire de la guerre civile russe, Pygmalion 1997. 293 pages, 139 FF.

 

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, russie, tsars, tsarisme, guerre civile russe, 1917 | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 19 octobre 2009

The Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia

264515072_small2.jpgThe Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia
Reframing the History of World War II


Global Research, October 2, 2009

As tensions mount between the U.S. and the North Atlantic Treaty Organization (NATO) on one side and Moscow and its allies on another, the history of the Second World War is being re-framed to demonize Russia, the legal successor state and largest former constituent republic (pars pro toto) of the Union of Soviet Socialist Republics (U.S.S.R.). In 2009, the U.S.S.R. and the Nazi government of Germany started being portrayed as the two forces that ignited the Second World War.

The historicity behind such a narrative is incorrect and nothing can be further from the truth in regards to Moscow. The security of the European core of the Soviet Union was the main objective of the Kremlin as well as the recovery of lost territory. The Soviet government was also aware of war plans against the Soviet Union. Adolph Hitler thought Britain would join Germany in war against the Soviets, even until the latter part of the Second World War.

This discourse in itself is part of a broader roadmap to control Eurasia through the encirclement of any rival powers, such as Russia and China. To understand the geo-politics and strategic nature of the encirclement of Russia and China by the U.S. and NATO, as well as the Eurasian alliance being formed by Moscow and Beijing as a counter-measure, one must look at the historic Anglo-American drive to cripple and contain any power in Eurasia.

Geography is the basis of the social evolution of traditional power, whether in feudal societies or in industrial societies. For example the property ownership of the landed class, which originally was the nobility, gave rise to the factory system. The rise of financial power is somewhat different, but yet it is also tied to geography.

The United States, India and Brazil are all “natural great powers” — a term coined herein. Natural great powers are states that are bound, with time, to develop or evolve into major hubs of human production because of their geographic configuration or nature’s blessings. In the Eurasian landmass, above all others, there are three states that we can call natural great powers; these states are Russia, China, and India. They have large territories and vast resources and, due to the two former factors, possess great human capacity that can lead to major productivity.

Without human capacity, however, geography and resources are meaningless, and therefore any impairment of population growth or social development through war, civil strife, famine, political instability and/or economic instability can obstruct the emergence of a natural great power. This is exactly what has been happening in the Russian Federation and its earlier predecessors, the U.S.S.R. and the Russian Empire, for the last two hundred years - from the numerous episodes of civil war, the First World War, and the Second World War, to the Yeltsin era and the problems in Caucasia. This is also why the declining population of Russia is a major worry for the Kremlin. If left undisturbed, such nation-states like China and Russia, would dominate the global economy and, by extension, international politics.

This is exactly what Anglo-American foreign policy has been trying to prevent for almost three centuries, first strictly under British clout and then later through combined British and American cooperation. In Europe, the containment policy was first applied to France for centuries and later, after German unification under Prince Otto von Bismarck, to Germany. Later the policy was expanded in scope to all Eurasia (the proper geographic extension of Europe or the “Continent”, as the British called it).

Part of this policy included the prevention of Russian access to the shores of the Mediterranean Sea or the Persian Gulf, which would threaten British trade and eventually maritime supremacy. This is one of the main reasons that the British and French played Czarist Russia and Ottoman Turkey against one another and militarily supported the Ottoman Empire in the Crimean War, when the possibility of Russia, under Catherine II, gaining Ottoman territory on the Mediterranean Sea seemed real.

Why did the Soviets and Chinese Bear the Brunt of the Burden in the Second World War?

The U.S.S.R. and China suffered the greatest material, demographic and overall losses in the Second World War. A quantitative comparative overview and cross-examination of the casualty figures of Britain, the United States, the Soviet Union and China will show the staggering differences between the so-called “Western Allies” and the so-called “Eastern Allies.”

Britain suffered 400,000 casualties and the U.S. suffered just over 260,000 casualties. U.S. civilian casualties were virtually non-existent and no U.S. factories were even touched. On the other hand, the U.S.S.R. had about 10 million military casualties and 12 to 14 million civilian casualties, while China had about 4 to 5 million military casualties and civilian casualties that have been estimated in the range of 8 to 20 million deaths.

Suffering can not be qualified or quantified, but much is overlooked in regards to the Soviet Union and China. Without question the Soviet Union and China lost the greatest ratio of their populations amongst the major Allies. In many cases the casualties of the series of civil wars in the Soviet Union (which saw foreign involvement and even intervention) and the casualties of the Japanese invasion of China (30 million people, starting before 1939) are not counted as Second World War casualties by many historians in Western Europe and the Anglosphere

Most the fighting in the Second World War also took place in the territories of China and Russia. Both Eurasian giants also faced the greatest destruction of infrastructure and material loss, which set their development back by decades. The agricultural and industrial capacity of China alone was cut in half. The Axis, specifically Germany and Japan (two economic rivals of the U.S. and Britain), also were crippled. In contrast, the U.S. was virtually untouched, while Britain as a state was totally depended on U.S. patronage. [1]

U.S. Economic Expansion: Global Wars and the Growth of U.S. Industrial and Economic Might

Both the First World War and the Second World War managed to eliminate any economic rivalry or challenge to U.S. corporations. While Europe and Asia were ravaged by war, the U.S. inversely grew economically. U.S. industrial might grew by leaps and bounds, while the industrial capacities of Europe and Asia were destroyed by both Allied and Axis sides in the Second World War and by the Allies and the Central Powers in the First World War.

By the end of the the Second World War, the U.S. literally owned half the global economy through loans, American foreign investment and war debts. U.S. economic expansion and the American export boom were unprecedented in the scale that took place during the period from 1910-1950, all of which was tied to the Eurasian warscape. Also, it was also only the U.S. that had the economic resources to rebuild the economies and industrial capacities of Europe and Asia, which it did with strings attached. These strings involved favourable treatment of U.S. corporations, preferential trade with the U.S., and the setting up of U.S. branch plants.

1945 was the beginning of Pax Americana. Even much of the foreign aid provided by the U.S. government (with the approval of Congress), to facilitate the reconstruction of European states, flowed back into the private bank accounts of the owners of U.S. corporations, because American firms were awarded many reconstruction-related contracts. War had directly fuelled the industrial might of the United States, while eliminating other rivals such as the Japanese who were a major economic threat to U.S. markets in Asia and the Pacific.

Just to show the extent of the American objectives to handicap their economic rivals one should look at the handling of Japan from 1945 till about October 1, 1949. After the surrender of Tokyo to the U.S. on the U.S.S. Missouri and the start of the American occupation and administration of Japan, the Japanese economy began to rapidly decline because of the calculated neglect of the U.S. through the office of the Supreme Commander of the Allied Powers (SCAP). In economic terms, the Japanese case was initially very similar to that of Anglo-American occupied Iraq.
 
In late-1949 all this began to change. Almost overnight, there was literally a complete change, or a flip-flop, in U.S. policy on Japan. It was only after October 1, 1949 when the People’s Republic of China was declared by Mao Zedong and the Communist Party of China that the U.S. began to allow Japan to recover economically, so as to use it as a counter-weight to China. As a side note, in a case of irony, the quick change in American policy regarding Japan allowed the U.S. to overlook the Japanese policy of not allowing foreign investment, which is one of the reasons for the economic success of Japan and one of the reasons why the financial elites of Japan form part of the trilateral pillar of the global economy along with the elites of the U.S. and Western Europe.

The “Open Doors” Policy of the Anglo-American Establishment

Anglo-American elites also made it clear that they wanted a global policy of “open doors” through the 1941 Atlantic Charter, which was a joint British and American declaration about what post-war international relations would be like. It is very important to note that the Atlantic Charter was made before the U.S. even entered the Second World War. The events and description above was the second clear phase behind the start of modern neo-liberal globalization; the first phase was the start of the First World War. In both wars the financial and corporate elite of the U.S., before the entry of the U.S. as a combatant, had funded both sides through loans and American investment, while they destroyed one another. This included the use of middlemen and companies in other countries, such as Canada.

The creation of the U.S. Federal Reserve in 1913, before the First World War and the U.S. domestic (not foreign, because of the regulations of other states) de-coupling of the gold standard from the U.S. dollar in 1933, before the Second World War, were required beforehand for the U.S. domination of other economies. Both were steps that removed the limits and restrains on the number of U.S. dollars being printed, which allowed the U.S. to invest and loan money to the warring states of Europe and Asia.

Norman Dodd, a former Wall Street banker and investigator for the U.S. Congress, who examined  U.S. tax-exempt foundations, revealed in a 1982 interview that the First World War was anticipated by U.S. elites in order to further manage the global economy. [2] War or any form of large-scale traumatic occurences are the perfect events to use for restructuring societies, all in the name of the war effort and the common good. Civil liberties and labour laws can be suspended, while the press is fully censored and opposition figures arrested or demonized, while corporations and governments merge in close coordination and under the justification of the war effort. This was true of virtually all sides in the First World War and the Second World War, from Canada to Germany under Adolph Hitler.
 
In contrast to the views of its own citizens, the American government was never really neutral during both the First World War and the Second World War. The U.S. was funding and arming the British at the start of the Second World War. Also before the American entry in the Second World War, the U.S., Canada, and Britain started the process of joint war planning and military integration. Before the Japanese attacked Pearl Harbour on December 7, 1941 the U.S. and Canada, which was fighting Germany, on  August 17, 1940 signed the Ogdensburg Agreement, which was an agreement that spelled out joint defence through the Permanent Joint Board of Defence and joint war planning against Germany and the Axis. In 1941, the Hyde Park Agreement formally united the Canadian and American war economies and informally united the U.S., Canadian, and British economies. The U.S. and British military command would also be integrated. In part, the monetary arrangement that was made through these war transactions between the U.S., Canada, and Britain would become the basis for the Bretton Woods formula.
 
Also, the empires of Britain, France, and other Western European states were not dismantled just due to the fact that they were all degraded because of the Second World War, but because of Anglo-American economic interests. The imperialist policies of these European states made it mandatory for their colonies to have preferential trade with them, which went against the “open doors” policy that would allow U.S. corporations to penetrate into other national economies, especially ones that were ravaged by war and thus perfect for U.S. corporate entrance.
 

The Reasons for the German-Soviet Non-Aggression Pact
 
Britain and the U.S. also deliberately delayed their invasion of Western Europe, calculating that it would weaken the Soviets who did most the fighting in Europe’s Eastern Front. This is why the U.S. and Britain originally invaded North Africa instead of Europe. They wanted the Third Reich and the Soviet Union to neutralize one another.

The German-Soviet Non-Aggression Pact or the Ribeentrop-Molotov Pact caused shock waves in Europe and North America when it was signed. The German and Soviet governments were at odds with one another. This was more than just because of ideology; Germany and the Soviet Union were being played against one another in the events leading up to the Second World War, just as how previously Germany, the Russian Empire, and the Ottoman Empire were played against one another in Eastern Europe [3]

This is why Britain and France only declared war on Berlin, in 1939, when both the U.S.S.R. and Germany had invaded Poland. If the intentions were to protect Poland, then why only declare war against Germany when in reality both the Germans and the Soviets had invaded? There is something much deeper to be said about all this.

If Moscow and Berlin had not signed a non-aggression agreement there would have been no declaration of war against Germany. In fact Appeasement was a deliberate policy crafted in the hope of allowing Germany to militarize and then allowing the Nazi government the means, through military might, to create a common German-Soviet border, which would be the prerequisite to an anticipated German-Soviet war that would neutralize the two strongest land powers in Europe and Eurasia. [4]

British policy and the rationale for the non-aggression pact between the Soviets and Germans is described best by Carroll Quigley. Quigley, a top ranking U.S. professor of history, on the basis of the diplomatic agreements in Europe and insider information as an professor of the elites explains the strategic aims of British policy from 1920 to 1938 as:

[T]o maintain the balance of power in Europe by building up Germany against France and [the Soviet Union]; to increase Britain’s weight in that balance by aligning with her the Dominions [e.g., Australia and Canada] and the United States; to refuse any commitments (especially any commitments through the League of Nations, and above all any commitments to aid France) beyond those existing in 1919; to keep British freedom of action; to drive Germany eastward against [the Soviet Union] if either or both of these two powers became a threat to the peace [probably meaning economic strength] of Western Europe [and most probably implying British interests]. [5]

In order to carry out this plan of allowing Germany to drive eastward against [the Soviet Union], it was necessary to do three things: (1) to liquidate all the countries standing between Germany and [the Soviet Union]; (2) to prevent France from [honouring] her alliances with these countries [i.e., Czechoslovakia and Poland]; and (3) to hoodwink the [British] people into accepting this as a necessary, indeed, the only solution to the international problem. The Chamberlain group were so successful in all three of these things that they came within an ace of succeeding, and failed only because of the obstinacy of the Poles, the unseemly haste of Hitler, and the fact that at the eleventh hour the Milner Group realized the [geo-strategic] implications of their policy [which to their fear united the Soviets and Germans] and tried to reverse it. [6]

It is because of this aim of nurturing Germany into a position of attacking the Soviets that British, Canadian, and American leaders had good rapports (which seem unexplained in standard history textbooks) with Adolph Hitler and the Nazis until the eve of the Second World War.

In regards to appeasement under Prime Minister Neville Chamberlain and its beginning under the re-militarization of the industrial lands of the Rhineland, Quigley explains:

This event of March 1936, by which Hitler remilitarized the Rhineland, was the most crucial event in the whole history of appeasement. So long as the territory west of the Rhine and a strip fifty kilometers wide on the east bank of the river were demilitarized, as provided in the Treaty of Versailles and the Locarno Pacts, Hitler would never have dared to move against Austria, Czechoslovakia, and Poland. He would not have dared because, with western Germany unfortified and denuded of German soldiers, France could have easily driven into the Ruhr industrial area and crippled Germany so that it would be impossible to go eastward. And by this date [1936], certain members of the Milner Group and of the British Conservative government had reached the fantastic idea that they could kill two birds with one stone by setting Germany and [the Soviet Union] against one another in Eastern Europe. In this way they felt that two enemies would stalemate one another, or that Germany would become satisfied with the oil of Rumania and the wheat of the Ukraine. It never occurred to anyone in a responsible position that Germany and [the Soviet Union] might make common cause, even temporarily, against the West. Even less did it occur to them that [the Soviet Union] might beat Germany and thus open all Central Europe to Bolshevism. [7]

The liquidation of the countries between Germany and [the Soviet Union] could proceed as soon as the Rhineland was fortified, without fear on Germany’s part that France would be able to attack her in the west while she was occupied in the east. [8]

In regards to eventually creating a common German-Soviet, the French-led military alliance had to first be neutralized. The Locarno Pacts were fashioned by British foreign policy mandarins to prevent France from being able to militarily support Czechoslovakia and Poland in Eastern Europe and thus to intimidate Germany from halting any attempts at annexing both Eastern European states. Quigley writes:

[T]he Locarno agreements guaranteed the frontier of Germany with France and Belgium with the powers of these three states plus Britain and Italy. In reality the agreements gave France nothing, while they gave Britain a veto over French fulfillment of her alliances with Poland and the Little Entente. The French accepted these deceptive documents for reason of internal politics (...) This trap [as Quigley calls the Locarno agreements] consisted of several interlocking factors. In the first place, the agreements did not guarantee the German frontier and the demilitarized condition of the Rhineland against German actions, but against the actions of either Germany or France. This, at one stroke, gave Britain the right to oppose any French action against Germany in support of her allies to the east of Germany. This meant that if Germany moved east against Czechoslovakia, Poland, and eventually [the Soviet Union], and if France attacked Germany’s western frontier in support of Czechoslovakia or Poland, as her alliances bound her to do, Great Britain, Belgium, and Italy might be bound by the Locarno Pacts to come to the aid of Germany. [9]

The Anglo-German Naval Agreement of 1935 was also deliberately signed by Britain to prevent the Soviets from joining the neutralized military alliance between France, Czechoslovakia, and Poland. Quigley writes:

Four days later, Hitler announced Germany’s rearmament, and ten days after that, Britain condoned the act by sending Sir John Simon on a state visit to Berlin. When France tried to counterbalance Germany’s rearmament by bringing the Soviet Union into her eastern alliance system in May 1935, the British counteracted this by making the Anglo-German Naval Agreement of 18 June 1935. This agreement, concluded by Simon, allowed Germany to build up to 35 percent of the size of the British Navy (and up to 100 percent in submarines). This was a deadly stab in the back of France, for it gave Germany a navy considerably larger than the French in the important categories of ships (capital ships and aircraft carriers), because France was bound by treaty to only 33 percent of Britain’s; and France in addition, had a worldwide empire to protect and the unfriendly Italian Navy off her Mediterranean coast. This agreement put the French Atlantic coast so completely at the mercy of the German Navy that France became completely dependent on the British fleet for protection in this area. [10]

The Hoare-Laval Plan was also used to stir Germany eastward instead of southward towards the Eastern Mediterranean, which the British saw as the critical linchpin holding their empire together and connecting them through the Egyptian Suez Canal to India. Quigley explains:

The countries marked for liquidation included Austria, Czechoslovakia, and Poland, but did not include Greece and Turkey, since the [Milner] Group had no intention of allowing Germany to get down onto the Mediterranean ‘lifeline.’ Indeed, the purpose of the Hoare-Laval Plan of 1935, which wrecked the collective-security system by seeking to give most Ethiopia to Italy, was intended to bring an appeased Italy in position alongside [Britain], in order to block any movement of Germany southward rather than eastward [towards the Soviet Union]. [11]

Both the Soviet Union, under Joseph Stalin, and Germany, under Adolph Hitler, ultimately became aware of the designs for the planning of a German-Soviet war and because of this both Moscow and Berlin signed a non-aggression pact prior to the Second World War. The German-Soviet arrangement was largely a response to the Anglo-American stance. In the end it was because of Soviet and German distrust for one another that the Soviet-German alliance collapsed and the anticipated German-Soviet war came to fruition as the largest and deadliest war theatre in the Second World War, the Eastern Front.

The Origins of the Russian Urge to Protect Eurasia

With this understanding of the Anglo-American strategic mentality of weakening Eurasia the ground can be paved for understanding the Russian mentality and mind frame for protecting themselves through protecting their European core and uniting  Eurasia through such organizations as the Warsaw Pact, the Collective Security Treaty Organization (CSTO), and the Shanghai Cooperation Organization (SCO), and such Russian policies as the Primakov Doctrine and allying Moscow with Iran and Syria.

As spheres of influence were carved in Europe, it was understood that Greece would fall into the Anglo-American orbit, while Poland, Bulgaria, Romania, Albania, Yugoslavia, and Czechoslovakia would fall within the Soviet orbit. Due to this understanding the Red Army of the Soviet Union watched as the Greek Communists were butchered and the British militarily intervened in the Greek Civil War. The reason for these agreements involving spheres of influence in Europe was that the Soviets wanted a buffer zone to protect themselves from any further invasions from Western Europe, which had been plaguing the U.S.S.R. and Czarist Russia.

In reality, the Cold War did not start because of Soviet aggression, but because of a long-standing historic impulse by Anglo-American elites to encircle and control Eurasia. The Soviet Union honoured its agreement with Britain and the U.S. not to intervene in Greece, which even came at the expense of Yugoslav-Soviet relations as Marshal Tito broke with Stalin over the issue. This, however, did not stop the U.S. and Britain from falsely accusing the Soviets of supporting the Greek Communists and declaring war on the Soviets through the Truman Doctrine. This move was a part of the Anglo-American  bid to encircle the Soviet Union and to control Eurasia. Today this policy, which existed before the First World War and helped spark the Second World War, has not changed and Anglo-American elites, such as Zbigniew Brzezinski, still talk about partitioning Russia, the successor state of the Soviet Union.

Mahdi Darius Nazemroaya is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization (CRG) specializing in geopolitics and strategic issues.

NOTES

[1] British elites, however, had managed to incorporate themselves into the economic livelihood of the U.S., forming an Anglo-American elite and effectively separating themselves from the interests of the majority of British citizens.

[2] Mahdi Darius Nazemroaya, Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a “New Middle East”, Centre for Research on Globalization (CRG),
November 18, 2006.

[3] Mahdi Darius Nazemroaya, The “Great Game”: Eurasia and the History of War, Centre for Research on Globalization (CRG),
December 3, 2007.


[4] China at this time was already being limited by Japan and before that by combined Japanese, Russian, and Western European policies. This would leave Germany and the U.S.S.R. as the two main threats to Anglo-American interests.

[5] Carroll Quigley, The Anglo-American Establishment: From Rhodes to Cliveden (San Pedro, California: GSG & Associates Publishers, 1981), p.240.

[6] Ibid., p.266.

[7] Ibid., p.265.

[8] Ibid., p.272.

[9] Ibid., p.264.

[10] Ibid., pp.269-270.

[11] Ibid., p.273.



dimanche, 18 octobre 2009

Europa-Russia-Eurasia: una geopolitica "orizzontale"

PremongolEurasia.png

 

EUROPA-RUSSIA-EURASIA:

 

UNA GEOPOLITICA "ORIZZONTALE"

 

 

 

di  Carlo Terracciano / Ex: http://eurasiaunita.splinder.com/

 

"L'idea eurasiatica rappresenta una fondamentale revisione della storia politica, ideologica, etnica e religiosa dell'umanità; essa offre un nuovo sistema di classificazione e categorie che sostituiranno gli schemi usuali. Così l'eurasiatismo in questo contesto può essere definito come un progetto dell'integrazione strategica, geopolitica ed economica del continente eurasiatico settentrionale, considerato come la culla della storia e la matrice delle nazioni europee".

Aleksandr Dugin

Continenti e geopolitica

 

L'Eurasia è un continente "orizzontale", al contrario dell'America che è un continente "verticale". Cercheremo di approfondire poi questa perentoria affermazione analizzando la storia e soprattutto la geografia, in particolare eurasiatica. Terremo ben presente che in geopolitica la suddivisione dei continenti non corrisponde a quella accademica, ancor oggi insegnata nelle nostre scuole fin dalle elementari, e che, comunque, se un continente è "una massa di terre emerse e abitate, circondata da mari e/o oceani", è evidente che l'Europa, come continente a sé stante (assieme ad Asia, Africa, America e Australia), non risponde neanche ai requisiti della geografia scolastica. Ad est infatti essa è saldamente unita all'Asia propriamente detta. La linea verticale degli Urali, di modesta altezza e degradanti a sud, è stata posta ufficialmente come la demarcazione trai due continenti, prolungata fino al fiume Ural ed al Mar Caspio; ma non ha mai rappresentato un vero confine, un ostacolo riconosciuto rispetto all'immensa pianura che corre orizzontalmente dall'Atlantico al Pacifico. La nascita e l'espansione della Russia moderna verso est, fino ad occupare e popolare l'intera Siberia, non è altro che la naturale conseguenza militare e politica di un dato territoriale: la sostanziale unità geografica della parte settentrionale della massa eurasiatica, la grande pianura che corre dall'Atlantico al Pacifico, distinta a sud da deserti e catene montuose che segnano il vero confine con l'Asia profonda.

Nel suo libro Pekino tra Washington e Mosca (Volpe, Roma, 1972) Guido Giannettini affermava: "Riassumendo, dunque, il confine tra il mondo occidentale e quello orientale non sta negli Urali ma sugli Altai". Inseriva quindi anche la Russia con la Siberia in "occidente" e ne specificava di seguitole coordinate geografiche: "la penisola anatolica, i monti del Kurdistan, l'altopiano steppico del Khorassan, il Sinkiang, il Tchingai, la Mongolia, il Khingan, il Giappone". Semplificando possiamo dire che il vero confine orizzontale tra le due grandi aree geopolitiche della massa continentale genericamente eurasiatica è quello che separa l'Europa (con la penisola di Anatolia) più la Federazione Russa, con tutta la Siberia fino a Vladivostok, dal resto dell'Asia "gialla" (Cina, Corea Giappone); nonché dalle altre aree geopoliticamente omogenee (omogenee per ambiente, storia, cultura, religione ed economia) dell'Asia (Vicino Oriente arabo-islamico, mondo turanico, Islam indoeuropeo dal Kurdistan all'Indo, subcontinente indiano, Sudest asiatico peninsulare e insulare fino all'Indonesia). Più che di un confine di tipo moderno si potrebbe parlare, specie nell'Asia centrale, di un limes in senso romano, di una fascia confinaria più o meno ampia che separa popoli e tradizioni molto differenti. In termini politici, specie dopo la dissoluzione dell'URSS, potremmo comunque porre questo confine asiatico attorno al 50° parallelo, per poi proseguire con gli attuali confini di stato tra Federazione Russa a nord e Cina-Mongolia-Giappone.

Del resto, in questo XXI secolo dell'era volgare la nuova concezione eurasiatista delle aree geopolitiche e geoeconomiche omogenee supera le concezioni politiche vetero­nazionaliste otto-novecentesche, basate su confini ritagliati a linee rette con squadra e compasso. Al contrario si considerano "aree" che spesso si sovrappongono ed integrano, come una serie di anelli concatenati tra loro (tipo i cerchi colorati della bandiera olimpica): ad esempio, l'arca mediterranea è certamente un'unità geopolitica in un mare interno, quasi chiuso agli oceani, che, come dice il suo stesso nome, rappresenta la medianità, il baricentro, il ponte tra le terre prospicienti. Ciò non toglie che i paesi europei che si affacciano sul sistema marittimo Mediterraneo - Mar di Marinara - Mar Nero facciano certamente parte integrante dell'Europa, a sua volta prolungamento occidentale dell'Asia settentrionale, cioè dello spazio russo-siberiano.

Come si noterà, le varie unità omogenee della massa eurasiatica sono disposte tutte in senso orizzontale. La geografia del Mondo Antico, di tutta la massa che con un neologismo potremmo definire Eufrasia, penetrata da un sistema marittimo interno, va in questo senso: da ovest ad est (o viceversa), nel senso dei paralleli. È lo stesso senso di marcia seguito dai ReitervöIker, i "popoli cavalieri" che corsero l'intera Eurasia fin dai più remoti tempi preistorici, i tempi dei miti e delle saghe dell'origine. È lo stesso tragitto, da est a ovest, delle invasioni che dalle steppe dell'Asia centralesi rovesciarono sulla penisola occidentale europea in ondate successive: quelle che noi definiamo "invasioni barbariche", nel periodo della caduta dell' Impero Romano. Poi vennero Tamerlano e Gengiz-Khan; quindi i Turchi, dapprima in Anatolia e poi nei Balcani.

 

 

Siberia russa

 

"Precisamente del Sur de Siberia y de Mongolia provencan las oleadas de los llamados 'bárbaros' que, a través de las estepas que rodean el Caspio y el Mar Negro, llegaron a Europa y cambiaron tanto su faz durante los primeros siglos de nuestra Era" (Alexandr Dugin, Rusia. El misterio de Eurasia, Madrid, GL 88,1992, p. 127).

Precedentemente la grande epopea araba dell'Islam, conquistatala penisola arabica, si era espansa sia verso ovest - nel Sahara e in Spagna – sia verso est - nel Vicino Oriente e fino al centro dell'Asia. Con l'avvento dell'età moderna sarà proprio la Russia, liberatasi dal dominio dell'Orda d' Oro e riunificata attorno al Principato di Moscoviti, a percorrere la strada lineare da ovest ad est. "Jermak è il Pizarro della Russia, l'uomo che sottomise la Siberia e la donò allo zar Ivan il Terribile. E con lui la famiglia degli Stroganoff e in generale i Cosacchi" (Juri Semionov, La conquista della Siberia, Sonzogno, Piacenza, 1974). Nell'arco di appena un secolo, dalla salita al trono di Ivan IV il Terribile nel 1547 alla scoperta dello stretto di Bering nel 1648, la conquista della Siberia è un fatto compiuto. Un evento quasi sconosciuto nei nostri testi di storia, ma che rappresenta e sempre più rappresenterà in futuro un fattore determinante per gli equilibri planetari, come intuì anche il geopolitico inglese Mackinder all'inizio del secolo scorso.

Lo spazio è potenza, anche uno spazio vuoto. La Siberia, con la sua vastità ancora in massima parte intatta, con le sue risorse energetiche e minerali, con la sua posizione, rappresenta una potenzialità unica per l' Eurasia, cioè per l'Europa e la Russia insieme: la possibilità di una possibile autarchia da contrapporre alla globalizzazione mondialista americanocentrica. La Siberia rappresenta per tutta l'Europa fino agli Urali quello che fu il "Far West" per le tredici colonie dei nascenti Stati Uniti: è il nostro "Far East"! Ma HeartIand mackinderiano può essere difeso solo con il controllo di tutta la penisola Europa e delle sue coste atlantiche. Come ben sanno i Russi dal '700 in poi.

Dal XVIII al XX secolo la Russia fu mira dell'espansionismo da occidente. Svezia, Francia, Germania hanno tentato invano di conquistare da ovest ad est lo spazio vitale russo: sempre e comunque in linea orizzontale, seguendo la conformazione geografica del continente.

E, in senso inverso, sarà l'impero russo, oramai divenuto sovietico, a espandere verso ovest la propria influenza dopo la Seconda Guerra Mondiale (la "Grande Guerra Patriottica" per i Russi), mentre gli USA conquisteranno la parte occidentale, marittima e oceanica della penisola europea.

 

 

La NATO in marcia verso l’Heartland

 

All'inizio dell'ultimo decennio del secolo scorso, il crollo implosivo dell'URSS e l'avanzata ad est della NATO portano le truppe e i missili USA nei paesi dell'ex blocco sovietico, del Patto di Varsavia, e della stessa URSS (paesi baltici). La talassocrazia americana, già padrona incontrastata degli oceani mondiali, penetra a fondo nel cuore d'Eurasia, all'assalto degli ultimi bastioni di resistenza rappresentati dalle potenze terrestri russa e cinese.

Pensare che la Russia possa fare a meno dell'Europa peninsulare (e viceversa l'Europa della Russia) di fronte a questa avanzata finale è assolutamente contrario alla geostrategia quanto al semplice buon senso. Consideriamo innanzitutto che l'Europa di cui parliamo non è una libera e sovrana unità di stati indipendenti, se non formalmente. In realtà dal '45 in poi il continente è sotto l'egemonia statunitense, cioè della talassocrazia atlantica. Con qualche rara eccezione, come in parte la Francia erede del gollismo, e con la conferma della Gran Bretagna quale appendice americana in Europa.

La NATO, non a caso, dal 1949 fino al crollo dell'URSS si estendeva su tutti gli stati europei rivieraschi dell'Atlantico e del Mediterraneo, per chiudere al Patto di Varsavia ogni accesso marittimo, isolando l' URSS e strangolandola nella sua dimensione territoriale: tanto estesa quanto chiusa alle grandi acque oceaniche e ai mari caldi interni. Dopo il fallimento dell'avventura afgana, preliminare ad uno sbocco all'Oceano Indiano che spezzasse l'accerchiamento nella massa eurasiatica, il contraccolpo derivato dalla sconfitta e dal ripiegamento ha mandato in frantumi l'oramai artificiosa struttura dell'impero sovietico, demotivato anche ideologicamente e stremato economicamente da un apparato militare obsoleto e chiaramente inadatto alle sfide del presente.

Oggi poi l'Alleanza Atlantica, lungi dall'essersi dissolta per "cessato pericolo", si è estesa sempre più ad est, toccando nel Baltico i confini russi. L'Ucraina è già sulla via dell'integrazione occidentale, il Caucaso è in fiamme, la Georgia è saldamente in mano a Washington.

Non è certo con la sola, ipotetica, alleanza di medie potenze regionali asiatiche che Mosca può pensare di vincere la partita con Washington; partita mortale, esiziale per la sua stessa integrità territoriale e sopravvivenza come impero.

Quello a cui punta l'America di Bush, di Brzezinski (ebreo di origine polacca) e di tutti i loro sodali biblici è semplicemente l'annientamento della Russia come entità storico-politica. L'alternativa alla Federazione Russa attuale è il ritorno al Principato di Moscovia, tributario stavolta di un'altra "Orda d'Oro", ben peggiore: quella dei finanzieri di Wall Street.

Da un punto di vista geopolitico russocentrico, l'unica sicurezza per i secoli a venire non può esser rappresentata che dal controllo sotto qualsiasi forma delle coste della massa eurasiatica settentrionale, quelle coste che si affacciano sui due principali oceani mondiali, l'Atlantico e il Pacifico. E se Vladivostok è la "porta d'Oriente" (e tale può restare, in accordo e collaborazione con il colosso nascente cinese, indirizzando Pechino al Pacifico e appoggiandone le giuste rivendicazioni perla restituzione di Taiwan), è ad occidente che si giocherà la partita decisiva: quella della salvezza della Russia come della liberazione dell'Europa dal giogo americano. Fino alla Manica, al Portogallo, a Reykjavik. O l'Europa si integrerà in una sfera di cooperazione economica, politica e militare con Mosca (il famoso asse Parigi­-Berlino-Mosca), o sarà usata nell'ambito NATO dagli americani come una pistola puntata su Mosca. L'esperienza del Kossovo e della guerra alla Serbia dovrebbe aver insegnato qualcosa.

L'unica sicurezza per una potenza continentale estesa come la Federazione Russa è il controllo delle coste, di isole e penisole della sua area geopolitica di interesse; in caso contrario, l'Europa sarebbe prima o poi usata come un ariete americano per sfondare le porte della Federazione e dissolverla nelle sue cento realtà etno-politico-religiose.

La tentazione di risolvere per sempre la "questione russa" (anticipando anche lo sviluppo della Cina come grande potenza economica e militare) è forte, specialmente oggi che Washington resta l'unica superpotenza dominante nel globo.

L'Heartland, il "Cuore della Terra", è a portata di mano. La talassocrazia USA ha occupato buona parte di quel Rimland, di quell"'Anello Marginale" eurasiatico che era stato individuato dal geopolitico americano Spykman già durante la Guerra Mondiale. E Russia e Cina sono gli ultimi reali ostacoli a quella conquista definitiva dell'Isola del Mondo, ossia dell'Eurasia, che concluderebbe la conquista americana del pianeta. Le truppe a stelle e strisce sono a Kabul e a Bagdad, ma con basi avanzate anche a Tiblisi, Taškent, Biškek. Iran e Siria, potenziali alleati, sono sotto il mirino delle armate americane e dei missili atomici di Israele. E anche se l'occupazione a stelle e strisce dell'Iraq non è andata secondo i piani del Pentagono, è certo che le truppe americane non lasceranno il paese, le sue basi militari, i suoi pozzi petroliferi, neanche molti anni dopo le elezioni farsa del 2005.

 

 

Oriente e Occidente

 

Certo l'integrazione di due realtà complesse e per molto tempo separate, come sono Europa e Russia, non sarà semplice e immediata; d'altronde non lo fu neanche la creazione di Stati nazionali quali la Spagna, la Francia e specialmente l'Italia. Eppure oriente e occidente sono destinati ad incontrarsi e fondersi. L'Europa Unita dei capitali, dei mercati, della tecnologia, ma sradicata dalle proprie tradizioni e valori, trova nella Russia dei grandi spazi siberiani, della potenza militare nucleare e delle materie prime, una Russia ancora in parte legata alle proprie tradizioni, il suo stesso naturale proseguimento geografico, politico, storico, culturale. Una parte possiede quel che manca all'altra.

A questo punto va inserita una precisazione sui concetti di "Oriente" e "Occidente" conforme alla prospettiva eurasiatista di Dugin e della scuola geopolitica russa in generale. In un te­sto dell'ottobre 2001, intitolato "La sfida della Russia e la ricerca dell'identità", Aleksandr Dugin affermava tra l'altro: "Gli eurasiatisti considerano tutta la situazione presente da una loro peculiare prospettiva [rispetto ai nazionalisti slavofili e ai neosovietisti]: nemico principale è la civiltà occidentale. Gli eurasiatisti fanno proprie tutte le tesi antioccidentali: geopolitiche, filosofiche, religiose, storiche, culturali, socioeconomiche, e sono pronti ad allearsi con tutti i patrioti e con tutti coloro che propugnano una 'politica di potere' (derzhavniki) - siano essi di destra o di sinistra – che miri a salvare la 'specificità russa' di fronte alla minaccia della globalizzazione e dell'atlantismo". E ancora: "Per noi eurasiatisti, l'Occidente è il regno dell' Anticristo, il "luogo maledetto". Ogni minaccia contro la Russia viene dall'Occidente e dai rappresentanti delle tendenze occidentaliste in Russia".

È ovvio che Dugin, pensatore formatosi sul pensiero tradizionale, sulla cultura europea di Nietzsche, Guénon, Evola ecc., non confonde affatto l'Europa con l'Occidente, tant'è vero che di seguito indica giustamente il nemico comune dell'Uomo nell'atlantismo, nel Nuovo Ordine Mondiale, nella globalizzazione americanocentrica, ecc. ecc. La contrapposizione tra Oriente e Occidente, specialmente se riferita all'Europa del XX secolo, è, in termini politici e geografici, un' invenzione della propaganda atlantista, dopo la spartizione dell'Europa stessa a Jalta.

 

 

Quale Europa?

 

Possiamo anche aggiungere che la stessa contrapposizione "razziale" tra euro-germanici e slavi, assimilati alla "congiura ebraica" sulla base dell'esperienza della rivoluzione bolscevica in Russia e non solo, fu uno dei grandi errori della Germania, la quale, proprio per questo, perse la guerra, l'integrità territoriale e l'indipendenza. Valida in parte nella prima fase rivoluzionaria, tale contrapposizione non tenne conto della svolta staliniana in politica interna, né del rovesciamento di prospettiva tra Rivoluzione e Russia attuata dal dittatore georgiano, considerato dai russi "l'ultimo zar" rosso del paese: non la Russia come strumento e trampolino di lancio della "rivoluzione permanente" trotzkista in Europa, ma al contrario il marxismo come strumento ideologico-politico di conquista per iI rinato impero russo-sovietico.

Riproporre questa contrapposizione tra Europei, a ruoli rovesciati, sarebbe esiziale per i Russi oggi quanto lo fu per i Tedeschi ieri. La scuola geopolitica tedesca di Haushofer, al contrario, aveva sempre auspicato un'alleanza geostrategica tra Germania e Russia, estesa fino all'estremo limite dell'Eurasia, all'Impero del Sol Levante, bastione oceanico contro l'ingerenza espansionistica dell' imperialismo USA nel Pacifico.

Per oltre mezzo secolo l' Europa è stata divisa dai vincitori tra un Est e un Ovest; la Germania, tra una Repubblica Federale ad ovest e la DDR a est; la sua capitale, cuore d'Europa, tra Berlino Est e Berlino Ovest. Su questo falso bipolarismo per conto terzi si è giocata, per quasi mezzo secolo, la "guerra fredda" delle due superpotenze. "Fredda" in Europa, ma ben "calda" nel resto del mondo, in Asia, Africa e America Latina, con guerre, rivoluzioni, decolonizzazione, colpi di stato, dittature militari, invasioni, blocchi economici, minacce nucleari e via elencando. L’antitesi tra un'Europa "occidentale", progredita e democratica ed un Est "slavo" aggressivo e minaccioso, retrogrado e inaffidabile, è il residuo politico del passato prossimo, un rottame della Guerra Fredda, ma anche uno strumento dell'attuale politica di Bush e soci per tenere a freno un'Europa avviata all'unità economica, affinché non riconosca nella Russia il naturale complemento del proprio spazio geoeconomico vitale, bensì vi veda un pericolo sempre incombente. Il caso Ucraina, con ancora una volta europei e americani schierati contro la Russia, è la cartina di tornasole di queste posizioni residuali sorte dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale, la Guerra Civile Europea per eccellenza.

Errore mortale quindi identificare Europa ed Occidente. Esiziale per l'Europa, ma soprattutto per la Russia e in ogni caso per l'Eurasia comunque intesa.

Certo l'Europa/Occidente a cui pensano gli eurasiatisti di Mosca è quella sorta dalla Rivoluzione francese, l'Europa degli "Immortali Principi" dell'89,dell'Illuminismo prima e del Positivismo poi, del modernismo e del materialismo estremo. Si tratta di quell'Occidente che ha tentato a più riprese di invadere lo spazio vitale russo, per poi attuare sul corpo vivo della Santa Russia ortodossa uno degli esperimenti politico-sociali più disastrosi della storia. Ebbene: questo "Occidente" ed i suoi falsi miti sono il nemico oggettivo anche dell'Europa, cioè della penisola eurasiatica d'occidente. L'Europa della tradizione, della vera cultura, della civiltà latina-germanica-slava. Alla fine del ciclo è l' antitradizione quella che coinvolge tutto il globo e travolge ogni distinzione, senza limiti né confini: a est, ad ovest, a nord, a sud. Sarebbe un errore, ripetiamolo, da pagare in futuro a caro prezzo, confondere le politiche dei singoli governi europei di oggi, o anche quella della UE in generale, con la realtà storica e geografica, con la geopolitica appunto, che vede Europa-Russia-Siberia come un unico blocco, una inscindibile unità geografica. Infatti essa ha prodotto per secoli e secoli una storia comune fatta sia di conflitti che di scambi, di reciproci imprestiti culturali, artistici, religiosi, economici, politici.

 

 

Russia vichinga, bizantina, tartara

 

Da un punto di vista etnico, la tendenza degli studi storici e geografici presso la scuola geopolitica russa contemporanea è quella di rivalutare la componente "orientale", in particolare l'influsso delle popolazioni nomadi dell'Asia centrale sulla formazione della Russia moscovita; influenza che avrebbe determinato una specificità "eurasiatica" dal Principato di Moscoviti all'Impero zarista, dalla Russia sovietica (in particolare nell'epoca staliniana) fino all'attuale Federazione Russa, che attraverso la C.S.I. (Comunità degli Stati Indipendenti) dovrebbe far recuperare a Mosca il ruolo egemone sui territori islamici dell'Asia Centrale: quelli, per inciso, che oggi sono sottoposti alla pressione statunitense, dopo l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq. In questo contesto, la qualità "eurasiatica" non si riferirebbe tanto ad una realtà geopolitica unitaria da Reykjavik a Vladivostok, bensì ad una diversità tutta russa, rispetto sia alla parte occidentale sia all'Asia "gialla" vera e propria.

Gli autori citati da Dugin, Trubeckoj, Savickij, Florovskij e soprattutto Lev Gumilev (del quale è stato tradotto in italiano il fondamentale studio Gli Unni. Un impero di nomadi antagonista dell'antica Cina, Einaudi, Torino 1972) hanno rivalutato il ruolo, misconosciuto dai filoccidentalisti, della componente asiatica della Russia. L'influenza mongolo-tatara, il regno dell'Orda d'Oro che nel XIII secolo investì i territori russi e l'Europa orientale, arrivando fino a Cattaro sull'Adriatico, viene considerata determinante nella formazione della presunta specificità dell'"anima russa" e della corrispondente autocrazia politica e sociale. Quella che in passato rappresentava per gli studiosi occidentali e per i Russi occidentalizzati una macchia, un marchio per la Russia, è tradotto oggi dai neo-eurasiatisti in un dato positivo: si tratta di un fattore che segna la differenza nei confronti di un Occidente corrotto e corruttore, sicché le steppe d'Asia e la componente di sangue tataro vengono a recuperare le radici di un radicamento "altro", senza per questo confondersi con i popoli asiatici. In tal modo viene affermata una specificità eurasiatica differenziata, rispetto ai popoli d'occidente e a quelli d'oriente. Tutt'al più, la Russia è un ponte di passaggio, il "regno mediano" tra le due ali della massa eurasiatica genericamente intesa. Non europei, non asiatici, ma russi, cioè eurasiatici! In quanto tali, i Russi sono interessati ad una "sfera geopolitica" (potremmo definirla senza giri di parole con il termine geopolitico di spazio vitale?)che recuperi a Mosca le terre già sovietiche del centro dell'Asia, ed associ nuovi partner regionali fino al Golfo Persico e all'Oceano Indiano: Turchia, Iran, India.

Questo revisionismo storico dei neo-eurasiatisti russi del secolo appena trascorso e del XXI ineunte è certamente giusto e positivo rispetto allo sbilanciamento della proiezione, tutta occidentalista, iniziata da Pietro il Grande (di cui la capitale baltica, da lui voluta tre secoli or sono per proiettare il paese verso ovest e sui mari, è il simbolo più evidente) e proseguita con Caterina la Grande giù giù fino ai Romanov.

Ma, come sempre avviene, un' estremizzazione rischia di rovesciarsi nell'estremizzazione di segno contrario.

Aparte la devastante incursione del 1237 su Rjazan, Mosca e Vladimir, è al 1240 che si fa risalire il dominio del Canato dell'Orda d'Oro sulla Russia, cioè le conquiste occidentali di Batu, nipote di Temujin-Gengis Khan (1162-1227) e fondatore di questo regno gengiskhanide. Nello stesso anno tuttavia il principe Aleksandr, Duca di Novgorod e Granduca di Vladimir, combatteva contro gli Svedesi al fiume Neva (da cui il soprannome onorifico di Nevskij)e due anni dopo sconfiggeva l'Ordine Teutonico al lago Peipus (lo scontro reso celeberrimo anche dal film di Ejzenštein); poi faceva atto formale di sottomissione all'Orda. Così fece Mosca, che creò la propria fortuna quale tributaria dei Tartari presso le altre città russe.

Ma il dominio mongolo fu molto blando. Karakorum, capitale e baricentro dell'espansione, lontanissima. Un piccolo numero di baskaki (sorveglianti) furono insediati nelle città principali; ma solo la nobiltà e non il popolo ebbe un rapporto diretto, di vassallaggio, con i nuovi dominatori delle steppe, con l'istituzione dello jarlyk, cioè l'autorizzazione a governare. Già alla fine del XIII secolo il confine dell'Orda correva sotto la linea Viatka-Ninj Novgorod - Principato di Rjazan, mentre il Grande Principato di Mosca espandeva i suoi confini e iniziava la lunga marcia verso l'unificazione dei Russi. Con il Principato di Novgorod, di Tver, di Pskov, di Rjazan, Mosca era solo tributaria dell'Orda d'Oro. Nel 1480, con un semplice schieramento di eserciti sul fiume Ugra, senza quasi combattere, si poteva considerare finita la dominazione mongola sulla Moscovia e la Russia centro-settentrionale. Due secoli e mezzo.

A confronto di questi eventi nella formazione della Russia e dei Russi ci sono da ricordare i quattro secoli precedenti: in particolare influenza esercitata dalla popolazione vichinga dei Variaghi, pacificamente fusi con gli Slavi autoctoni, che li avevano chiamati a governarli. L'origine della Rus' è narrata in varie Cronache, la più nota delle quali è la Cronaca degli anni passati (1110-1120 circa, probabilmente ripresa da un manoscritto originale di sessanta anni prima). Dell'860 è l'attacco di Askold e Dir, sovrani di Kijev, a Costantinopoli. Poi vennero le imprese semi-leggendarie di Rjurik, dalla penisola scandinava a Novgorod, fondatore di una dinastia che regnerà fino al 1598. E poi Igor, "guerriero vichingo vagabondo e pagano, sebbene portasse un nome interamente slavo" (Robin Milney-Gulland e Nikolai Dejevsky, Atlante della Russia e dell'Unione Sovietica, Istituto Geografico De Agostani, Novara, 1991). E figlio Vladimir si convertirà al cristianesimo nel 988 d.C., trascinando la Russia alla fede ortodossa dipendente da Costantinopoli, ma soprattutto introducendola da allora in poi nel consesso della cultura e degli stati europei. Una conversione che a quei tempi comportava anche una nuova cultura, libri, architettura religiosa e civile e, in particolare, un nuovo assetto politico, modellato su quello del l'Impero Romano d' Oriente, del quale un giorno Mosca si proclamerà erede come "Terza Roma", ergendosi quindi a depositaria delle glorie di Roma antica e di Costantinopoli: cioè occidente e oriente dell'Europa. È evidente da tutto ciò, dalla storia, dalla geografia, dalla fede e dalla cultura, quale sia stato il peso dell'Europa (quella della Tradizione e non quella moderna dei Lumi),su tutta la Russia. Fu certo un peso preponderante, anche sotto l'aspetto etnico e culturale, rispetto a quello, pur importante, del successivo khanato mongolo; combattendo contro il quale, i Russi svilupparono nei secoli posteriori una coscienza nazionale. Dugin stesso è, nella sua figura, l'esempio nobile delle ascendenze nordico-vichinghe della Rus'.

Sarebbe dunque veramente assurdo contrapporre l'etnia slava (con la sua componente tatara) all'Europa germanica ed a quella latina, magari identificando l'Europa latino-germanica con l'occidente "atlantico" e con la mentalità razionalista, positivista e materialista propria degli ultimi secoli e resasi egemone particolarmente in America.

Le varie "famiglie" linguistiche europee hanno un'unica origine, un solo ceppo, radici comuni nell'Eurasia e nel Nord. E fanno parte a pieno titolo dell'Europa anche popoli come quelli ugrofinnici (Ungheresi, Finlandesi, Estoni), arrivati nella penisola continentale in epoche successive, da quel crocevia di popoli che fu il centro dell'Asia. E che dire dei Baschi o dei Sardi, popoli di origini controverse? Contrapporre le genti dell'est e dell'ovest dell'Europa, lo ripetiamo, sembra la riproposizione, fatta al contrario, di quella propaganda razziale che vedeva negli Slavi "razze inferiori" da sottomettere e utilizzare come manodopera servile. Fu una posizione ideologica che determinò in buona parte l'esito disastroso della Seconda Guerra Mondiale per chi si fece portatore non dell'indipendenza e unità dell'Eurasia, bensì di una visione razziale che comportava l'antagonismo tra gli Europei; una posizione condannata peraltro proprio dalla scuola geopolitica germanica di Haushofer, il quale vedeva giustamente nelle potenze talassocratiche anglofone il vero nemico comune di Tedeschi, Russi, Giapponesi: di tutta l'Eurasia, ad occidente come ad oriente.

 

 

Nord-Sud, Est-Ovest

 

I termini che Dugin pone in contrapposizione, oriente ed occidente, necessitano di un'ulteriore precisazione. Occidente non è una caratterizzazione geografica, più di quanto non lo sia oriente. L'occidente dell'America è l'Asia, la quale, a sua volta, ha nel continente americano il proprio oriente.

In realtà oggi "Occidente" e "Oriente" (ma, soprattutto dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, "il Nord e il Sud del mondo") sono designazioni economiche, politiche, sociali di quelle potenze che rappresentano la parte industrialmente, finanziariamente e tecnologicamente avanzata del globo. E "G8", gli otto "grandi", è il club esclusivo che li raccoglie. Il Giappone è "Occidente" allo stesso titolo di USA e UE. La Cina si avvia a divenirlo, come la Russia che già lo è.

Allora, se ancora di Occidente ed Oriente si può e si deve parlare, la linea di demarcazione deve essere posta trai due emisferi, tra le due masse continentali separate dai grandi oceani: l'Occidente per antonomasia, la terra dell'occaso, del tramonto, la Terra Verde della morte è l'America, il Mondo "Nuovo" della fine del ciclo.

L'Oriente, o meglio il Mondo Antico, il mondo della Tradizione, sarà allora l'Europa, l'Asia, l'Africa; l'Eurasia in particolare, cioè l'intera Europa con la Russia e la Siberia, sarà la terra dell'alba radiosa di un nuovo cielo, ma anche la terra dell'origine dei popoli indoeuropei, la terra degli avi iperborei. Uno spazio vitale strategico peri destini mondiali, da riscoprire ritornando all'origine polare delle stirpi arie che, millenni e millenni or sono, la catastrofe climatica disperse dalla sede originaria del nord, verso est, sud, ovest, come semenze di quelle grandi civiltà che hanno fatto la storia e modellato la geografia del mondo antico. In questo contesto e solo in esso allora le collocazioni geografiche si armonizzano perfettamente con quelle della geografia sacra, della morfologia della storia, della tradizione ciclica, ma anche con la lotta di liberazione dell'intero continente dalla morsa mortale in cui lo costringe il blocco marittimo della talassocrazia imperialista USA.

 

 

Un mondo multipolare

 

Certo non ci nasconderemo che Europa, Russia, Asia hanno anche notevoli differenze tra loro. Lo ribadiamo: le civiltà d'Eurasia, pur traendo linfa vitale dall'unica matrice d'origine, hanno sviluppato nei secoli caratteristiche specifiche proprie: lingue, culture, legislazioni, arti e mestieri, fedi religiose, costumi e stili di vita, modelli di governo differenziati. È una ricchezza nella differenza, nella diversità, che rappresenta ora, alla fine dei tempi, il patrimonio forse più importante della nostra Eurasia, minacciata mortalmente dal monoculturalismo americano, da quell'American way of life che i selvaggi senza radici (le recisero approdando nel "Nuovo Mondo", nella "Seconda Israele") hanno imposto a tutti i popoli vinti e sottomessi o (quando fosse impossibile piegarli) sterminati. Il genocidio dopo l'etnocidio. Il più grande sterminio di massa dell'umanità: i 15 milioni di nativi amerindi trucidati dai "colonizzatori" yankee. Tutto questo come necessaria premessa per l'edificazione del loro Nuovo Ordine Mondiale, del Governo Unico Planetario, con sede ovviamente a Washington-Boston-New York, in attesa di esser portato a Sion!

"Gli eurasiatisti difendono logicamente il principio della multipolarità, opponendosi al mondialismo unipolare imposto dagli atlantisti. Come poli di questo nuovo mondo, non vi saranno più gli Stati tradizionali, ma un gran numero di nuove formazioni culturalmente integrate ('grandi aree'), unite in 'archi geoeconomici' ('zone geo-economiche')". Parole sacrosante di Dugin nel III capitolo del saggio intitolato La visione eurasiatista. Principi di base della piattaforma dottrinale eurasiatista.

Da discutere semmai, in termini geografici e storici, quindi geopolitici, sono proprio gli spazi privilegiati di queste grandi aree integrate. Geopoliticamente parlando, è indubbio che per Eurasia si debba intendere in primo luogo l'integrazione della grande pianura eurasiatica settentrionale dal canale della Manica allo stretto di Bering. Attorno a questo spazio vitale imperiale europeo, si affiancano in strati orizzontali successivi le altre realtà geopolitiche d'Asia e Africa, quelle sopra descritte, nel senso dei paralleli. L'Eurasia Unita sarà la garante della libertà, dell' indipendenza, dell' identità di queste altre realtà, di questi spazi vitali affiancati, contro l'egemonismo talassocratico delle stelle e strisce.

 

 

America o Americhe?

 

Ancor più. Bisognerà garantire che nei secoli futuri l'imperialismo mondialista dei fondamentalisti biblici della "Seconda Israele" non rialzi la testa e riprenda forza. Una forza che fin dall'inizio trasse energie, risorse, ricchezza dallo sfruttamento di tutto il resto del continente americano a sud del Rio Grande. L’America Latina, centrale-caraibica e meridionale, ha una propria storia, una propria cultura, un proprio spazio geopolitico e geoeconomico, che può svilupparsi liberamente e fruttuosamente solo se svincolato dal gigante a nord.  Al contrario, oggi il pericolo più grande è che il NAFTA possa conglobare, oltre al Messico, tutto il Centro America e l'altra metà del continente.

Già nei tempi precolombiani le culture autoctone si erano completamente differenziate, pur traendo tutte origine dalle migrazioni siberiane, avvenute attraverso lo stretto di Bering tra i 40.000 e i 10.000 anni fa. Ma mentre nelle vaste pianure del Nord America i cacciatori nomadi seguivano i branchi di bisonti, divisi in tribù, con uno stile di vita e riti non molto dissimili da quelli dei cacciatori siberiani cultori dello sciamanesimo, nell'America Centrale e Meridionale fiorivano raffinate civiltà di coltivatori-allevatori, imponenti insediamenti urbani, religioni che riuscirono ad elaborare straordinari calendari con l'accurata osservazione astronomica, pittura, architettura, scultura, scienza, medicina che non temevano di rivaleggiare con le più avanzate civiltà d'Eurasia. Con la scoperta dell'America da parte di Colombo e con le successive invasioni europee (inglesi, francesi, olandesi a nord, ispano-lusitani al centro e al sud), le differenze si sono accentuate. Infatti, nonostante stragi, distruzioni culturali, malattie, schiavismo, imposizione della nuova religione, nella parte latina delle Americhe le popolazioni autoctone sono sopravvissute allo sterminio; nei nuovi stati, prima coloniali e poi nazionali, si sono venute a trovare in una posizione subordinata, a volte integrandosi e mischiandosi agli Europei. Dal Chiapas al Perù, dal Centro America alla Bolivia, passando per il Venezuela di Chavez, gli eredi degli antichi imperi meso-americani e andini oggi tornano alla ribalta, riprendono in mano le redini del proprio destino e, spesso, sono i più strenui difensori della diversità culturale latino-indio-americana contro l' influenza dei gringos nordisti e l'invadenza distruttiva delle loro multinazionali.

Vediamo dunque distintamente come l'America, diversamente dall'Eurasia e dall'Africa settentrionale, sia un "continente verticale". Da Nord a Sud, dallo stretto di Bering alla Terra del Fuoco, oltre diecimila anni or sono scesero le popolazioni siberiane: gli "indiani", i nativi americani poi sopraffatti e sterminati dall'invasione marittima da occidente. A loro volta gli Stati Uniti estenderanno la conquista ed egemonia da nord a sud: in Messico, nei Carabi e nell'America Centrale (il "cortile di casa" degli yankee), giù fino all'America meridionale, alla punta del Cile e all'Argentina. Dove peraltro, a smentire la Dottrina Monroe dell"'America agli Americani", l'Union Jack sventola ancora sulle Isole Malvinas argentine, anche grazie all'appoggio USA ai cugini inglesi. E dopo la conquista delle Americhe, seguendole indicazioni geopolitiche di Mahan gli Stati Uniti si lanciarono sul Pacifico e verso le coste dell'Asia. (Alfred Thayer Mahan, L'influenza del potere marittimo sulla storia. 1660-1783, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1994).

Dunque due "sensi", due direzioni opposte per le masse continentali dei due emisferi, rappresentanti ciascuno una diversa visione del mondo, ed assunti oggi a simboli dell'eterno scontro fra la Terra e il Mare, fra tellurocrazia e talassocrazia, ma anche tra mondo della tradizione e mondo moderno, tra identità dei popoli della terra e globalizzazione mondialista.

Ambigua quindi, quando non falsa e fuorviante, la distinzione tra Oriente ed Occidente. A questa caratterizzazione delle forze in campo tra Est e Ovest, possiamo aggiungere anche la suddivisione del pianeta in sfere d'influenza "verticali", praticamente da Polo a Polo: vi fa riferimento lo stesso Dugin sia nell' articolo sul primo numero di "Eurasia" (L'idea eurasiatista), sia in altri scritti più o meno recenti, come quelli raccolti e pubblicati in Italia dalle edizioni Nuove Idee, nel volume dal titolo Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia.

 

 

Geopolitica "orizzontale" e geopolitica "verticale"

 

E qui veniamo ad affrontare il nodo centrale di queste chiose ai recenti articoli di Dugin, i quali potrebbero apparire come uno spostamento di prospettiva rispetto alle posizioni espresse dallo stesso autore dieci e più anni or sono, cioè al tempo del traumatico crollo dell'impero rosso, di cui Dugin (geopolitico moscovita di formazione tradizionale e traduttore di Evola) aveva ben compreso con largo anticipo l'irreversibile crisi.

Nell'articolo su "Eurasia" Dugin considera un ventaglio di possibilità per la realizzazione dell' "idea eurasiatista" dal punto di vista di Mosca, in particolare prospettando "l'Eurasia [dei] tre grandi spazi vitali, integrati secondo la latitudine": "tre cinture eurasiatiche" che si distendono in verticale sui continenti seguendone le meridiane. Ovviamente il nostro autore aveva premesso un "vettore orizzontale dell'integrazione, seguito da una direttrice verticale"; ma indubbiamente la seconda prospettiva sembra quella prevalente nel pensiero attuale di Dugin e, probabilmente, in quello degli strateghi dell'era Putin. Proprio nella pagina seguente si afferma a chiare lettere che "La struttura del mondo basata su zone meridiane è accettata dai maggiori geopolitici americani che mirano alla creazione del Nuovo Ordine Mondiale e alla globalizzazione unipolare" (!) L'unico "punto d'inciampo" sarebbe semmai rappresentato proprio dall'esistenza o meno di uno spazio geopolitico verticale, "meridiano", della Russia in Asia centrale, con la diramazione di tre assi principali: Mosca-Teheran, Mosca-Delhi, Mosca-Ankara. In quanto all'altro emisfero, l'egemonia USA, seguendo in questo caso la naturale disposizione geografica del continente (o due continenti, nord e sudamericano?) sarebbe assicurata dal Canada a Capo Horn. Proprio come recita la famigerata Dottrina Monroe: "l'America agli Americani", sottintendendo ovviamente ai nord-americani, i WASP statunitensi con il contorno di immigrati e neri integrati. L'attuale Amministrazione Bush è un tipico spaccato di questo assunto. Con l'aggiunta, semmai, che agli Americani del nord spetta sì tutta l' America, ma anche... il resto del mondo.

I loro geopolitici, passati e presenti, conoscono bene infatti la lezione mackinderiana sull'HeartIand, sul suo controllo per il dominio dell' intera Eurasia e quindi dell’"Isola del Mondo" e quindi delle "fasce marginali" (vedi lezione Afghanistan). In sintesi da Alfred T. Mahan a Spykman, passando per Mackinder, fino ai contemporanei Brzezinski, Huntington e ai vari neo-cons della lobby ebraico-sionista militante in Usa: i Perle, i Pipes, i Wolfowitz, i Cheney, i Kagan, i Kaplan, i Kristol, ma anche Ledeen e il e il vecchio Kissinger, pur con qualche differenza, e tanti altri. Consigliamo in proposito la lettura de I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, a cura di Jim Lobe e Adele Oliveri (Feltrinelli, Milano, 2003).

Anche la suddivisione per sfere d'influenza verticale non è certo nuova, né tanto meno inventata da Dugin. Risale pari pari al grande padre della geopolitica tedesca ed europea, Karl Haushofer ed alle sue panidee: la Pan-America con guida USA, l'Eurafrica centrata sul III Reich con l'aggiunta del Vicino Oriente, la Pan-Russia estesa fino allo sbocco all'Oceano Indiano attraverso Iran e India, ma priva dello sbocco siberiano al Pacifico settentrionale, assegnato dal geopolitico monacense alla sfera di Coprosperità Asiatica ovviamente a guida nipponica.

La suddivisione duginiana segue lo stesso schema, ma con le modifiche dovute alla situazione politica internazionale attuale: la Pan-Eurasia a guida russa comprende tutti i territori ex-sovietici, il Vicino Oriente, l'Iran, il Pakistan, l'India, ma anche la Siberia fino a Vladivostok. La zona asiatica vera e propria si incentra oggi su Pechino. L'area americana comprende anche Islanda e isole britanniche (ma non la Groenlandia!) ecc...

Tanto per cominciare la suddivisione di Karl Haushofer è completamente superata, essendo propria ad un preciso periodo storico, cioè quello della Seconda Guerra Mondiale e del colonialismo europeo in Africa. Anche perché, in termini di geopolitica propriamente detta, l'Africa non è un' unità geopolitica unica, ma comprende almeno tre distinte unità. Il Nord-Africa, col Magreb, fa parte della più vasta unità geopolitica del Mediterraneo, di cui rappresenta la sponda sud. Poi c'è la vastissima fascia desertica del Sahara-Sahel, che rappresentala vera divisione, il "mare di sabbia" navigato soltanto dalle carovane di mercanti che importavano sale, spezie, schiavi. Infine, a sud, I'"Africa Nera", a sua volta composta di varie sottodivisioni. Come il cosiddetto "Corno d' Africa", una realtà sia geopolitica che etnica a sé stante.

Anche l'Asia odierna ha ben poco a che vedere con quella che Haushofer conosceva e tanto ammirava: specialmente il Giappone, o per dir meglio l'Impero Nipponico, oggi ridotto al rango di vassallo americano e base delle truppe, delle navi, dei missili USA puntati contro le coste orientali dell'Eurasia. L'Iran della Rivoluzione Islamica dell'Imam Khomeini ha rimescolato le carte di tutto il Vicino Oriente, dove, dal 1948, si èinstallato lo stato sionista di Israele, fidato baluardo invalicabile dell' imperialismo americano; piazzato proprio nel baricentro della massa eurasiatico-africana, a ridosso delle sue vie marittime interne, esso taglia a metà l'Umma islamica e la "Mezzaluna Fertile" del sistema potamico irriguo (Delta del Nilo ­- Giordano/Mar Morto - Tigri Eufrate).

Chi pensa che possa un domani esistere un "sionismo filo-eurasiatista" non ha evidentemente molto chiara la storia, la geografia e la stessa visione religioso-messianica che ha permesso all'entità sionista di installarsi proprio in quelle terre geostrategicamente così decisive per il controllo dell'intera massa eurasiatica e africana. Gli ebrei russi della diaspora tornati in Israele non sono russi: sono ebrei e israeliani a tutti gli effetti, e la Russia è il loro nemico storico, forse ancor più della Germania oramai domata.

È singolare poi, che parlando di Asia e di "sfere d'influenza e/o cooperazione" si tenda spesso a sminuire se non addirittura ignorare il ruolo decisivo della Cina. La storia da secoli e la geografia da sempre hanno delimitato lo spazio vitale del colosso asiatico (come anche è il caso dell' India). Russia e Cina sono destinate ad una stretta collaborazione che si basi sulla non ingerenza nelle rispettive sfere di appartenenza e nel riconoscimento di quella altrui.

È nell'interesse dell'imperialismo egemone statunitense metterei due colossi d'Asia l'uno contro l'altro; suo massimo danno è vederli alleati. Interesse della Russia è appoggiare la Cina nelle sue naturali rivendicazioni territoriali, a cominciare da Taiwan; ciò aprirebbe a Pechino lo sbocco al l'Oceano Pacifico, in aperta competizione con la talassocrazia USA in uno spazio marittimo che Washington considera un "lago americano", essendo propria di ogni potenza di questo tipo la spinta ad occupare entrambe le coste marittime su cui si affaccia.

 

 

Eurasia unita e lotta di liberazione

 

 

 

 

Alle pan-idee "verticali" haushoferiane, che interpretate alla luce dell'assetto internazionale attuale, assumono oggi vago sapore neocolonialista (l'esatto contrario delle posizioni anticoloniali del padre della geopolitica tedesca), noi sostituiamo la visione di una collaborazione paritaria e integrata fra realtà geopolitiche omogenee disposte a fasce orizzontali in Eurasia ed Africa.

Tale politica non esclude, ma semmai la allarga, la prospettiva dughiniana delle aree integrate verticali; essa infatti favorisce la creazione di una potenza "terrestre", quella nata dal l'unione di Europa e Federazione Russa, che allargherebbe al mondo la sua politica estera di collaborazione. Ciò permetterebbe a tutto il "Terzo Mondo" di sottrarsi al ricatto economico e finanziario nordamericano, riconoscendo nella grande potenza del Nord-Eurasia lo stato guida della lotta di liberazione mondiale antimondalista, la potenza veramente capace di contrastare l'egemonismo USA su tutte le aree geopolitiche della massa eurasiatica, delle "Afriche" e delle "Americhe".

A conclusione di queste brevi chiose all'intervento di Dugin, il cui contributo alla dottrina geopolitica e alla lotta di liberazione eurasiatica resta fondamentale, vogliamo riallacciarcialle stesse conclusioni del suo saggio L'idea eurasiatista.

 

 

La nuova Weltanschauung

 

L'eurasiatismo è una Weltanschauung (ecco il vero Dugin, formatosi alla cultura mitteleuropea!), una visione del mondo onnicomprensiva che, avendo come priorità la società tradizionale, "riconosce l'imperativo della modernizzazione tecnica e sociale". Il postmodernismo eurasiatico "promuove un'alleanza di tradizione e modernità come impulso energetico, costruttivo, ottimistico verso la creatività e la crescita". Come filosofia "aperta", l'eurasiatismo non potrà esser dogmatico e certo sarà differenziato nelle varie versioni nazionali: "Tuttavia, la struttura principale della filosofia rimarrà invariata". I valori della tradizione, il differenzialismo e pluralismo contro il monoculturalismo ideologizzante del liberal-capitalismo; la difesa delle culture, dei diritti delle nazioni e dei popoli, contro l'oro e l'egemonia neocoloniale del ricco Nord del mondo. "Equità sociale e solidarietà umana contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo". Verrebbe quasi da dire: il sangue (e il suolo) contro l'oro"!

Certo, la Terra contro il Mare: la terra degli avi contro il mare indifferenziato eppur sempre mutevole, percorso da moderni pirati, eredi di quei "corsari", che erano dotati dalla corona inglese di "lettere di corsa" per depredare ed uccidere in nome e a maggior gloria di Sua Maestà Britannica. Pirati odierni in giacca e cravatta, che con un tratto di penna fanno la fortuna o la disgrazia di popoli e continenti. E per chi non si piega alla logica del "libero mercato" imposta dalla moderna pirateria finanziaria internazionale, restano sempre gli "interventi umanitari", le "missioni di... pace (eterna), i "missili intelligenti". Come in Serbia, come in Afghanistan, come in Iraq, come ieri in Corea o in Vietnam, a Cuba, in America Latina, in Africa e ancor prima in Europa, in Giappone, ovunque. Forse domani in Iran, in Siria, in Sudan, di nuovo in Corea. Forse anche in Russia e in Cina.

Intanto le "rivoluzioni di velluto" sono arrivate a Kiev e a Tiblisi, circondando la Russia, insidiando la Cina, sottomettendo il Vicino Oriente, dove il progetto del "Grande Israele" è quasi cosa fatta. La Terza Guerra Mondiale (la quarta dopo quella "fredda", anch'essa vinta dagli Stati Uniti) è già cominciata, è in atto. Se dobbiamo porre una data ufficiale, scegliamo senza dubbio l'11 settembre 2001, il giorno in cui l'Amministrazione Bush ha ottenuto (sapremo mai come?) la sua Pearl Harbour, il suo 7 dicembre '41, cioè la giustificazione per un'aggressione mondiale preordinata nei mesi ed anni precedenti, specie approfittando del crollo dell'URSS di dieci anni prima. Proprio con l'Afghanistan come primo obiettivo.

La Russia è stata ingannata e condotta a collaborare con il suo nemico mortale sulla comune piattaforma della "lotta al terrorismo islamico"; è stata inchiodata alla guerra cecena, con il suo strascico di errori ed orrori da entrambe le parti, mentre la superpotenza USA si assicurava posizioni strategiche decisive nel cuore d'Eurasia.

 

 

Tsunami America

 

La talassocrazia americana opera come un devastante tsunami!

L'onda della potenza marittima nordamericana invade la terra in profondità e distrugge tutto quel che trova sul suo cammino: uomini, società, economie, culture, identità, storia, coscienza geopolitica, fedi, civiltà.

Dove passa, è morte, fame, distruzione, miseria, lacrime e sangue. È il Diluvio Universale del terzo millennio dell'Era Volgare.

Ma l'Eurasia è grande, troppo estesa e popolata anche per questo Leviatano moderno. E l'Eurasia propriamente detta, col suo retroterra logistico siberiano, l'Heartland di mackinderiana memoria è ancora abbastanza vasta e potenzialmente ricca in materie e uomini per resistere e respingere l'attacco del Rimland occupato dall'invasione marittima.

 

 

La volontà e la via

 

Cosa manca allora a tutt'oggi ?

La volontà, solo la volontà, nient'altro che la volontà. La volontà che è potere, che è fare, è quindi agire nello spazio vitale geopolitico assegnato dalla natura e dalla storia. La volontà di élites dirigenti rivoluzionarie d'Eurasia che, puntandolo sguardo ben oltre i ristretti limiti del veteronazionalismo sciovinista, sappia raccogliere la bandiera delle lotte di liberazione identitaria dei suoi popoli. Ma una simile volontà, scaturita da una fede indiscussa nei valori tradizionali, deve alimentarsi di una retta conoscenza dei fatti, della storia e della geografia, della geopolitica e delle sue leggi.

L'eurasiatismo sarà allora la bandiera, la spada e il libro di questa lotta titanica e veramente decisiva per i destini del pianeta nei prossimi secoli. Eurasiatismo come liberazione e unificazione statuale, imperiale, dell'unità geopolitica euro-siberiana, da Reykjavik a Vladivostok. Eurasiatismo come sistema di alleanze e sfere di cooperazione con tutti gli altri "spazi geopoliticamente omogenei" dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina. Quindi eurasiatismo come sacra alleanza di tutti gli sfruttati, di tutti i "diseredati della terra", come li definiva l'Imam Khomeini, contro tutti gli sfruttatori e i depredatori mondialisti delle multinazionali. Contro i corruttori dei popoli, contro gli apolidi del capitale, gli "eletti"... da nessuno che preparano l'avvento del Nemico dell'Uomo, la catastrofe dell'Armageddon, che pure li travolgerà. Eurasiatismo infine come contrapposizione, lotta senza quartiere tra civiltà e civilizzazione, tradizione e mondo moderno, terra e mare, imperium e imperialismo, comunitarismo e liberal-capitalismo.

Se un giorno la Russia (attraverso le sue élites politiche, militari, culturali, economiche e spirituali) saprà riconoscere il proprio ruolo guida, tradizionale e rivoluzionario, in questo "scontro dei continenti", lo dovrà essenzialmente ad una piena comprensione della geopolitica, dell'eurasiatismo, della Weltanschauung che esso rappresenta. E lo dovrà in massima parte a Dugin e a tutti quei geopolitica d'Eurasia che seppero indicare la via sulla quale indirizzare la volontà.

mardi, 13 octobre 2009

Rusia espera detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU en Europa

Rusia espera detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU en Europa

Rusia espera conocer los detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU (DAM) en Europa en las consultas bilaterales previstas para el próximo 12 de octubre en Moscú, informó hoy el ministerio ruso de Asuntos Exteriores.

“Contamos con que la parte estadounidense nos suministrará información detallada y completa sobre las nuevas iniciativas de la administración sobre la creación del DAM”, dijo un funcionario del departamento de prensa de esa cartera a RIA Novosti.

En las consultas, la delegación rusa estará presidida por el viceministro Serguei Riabkov y la delegación estadounidense por la subsecretaria de Estado para el Control de Armamento Ellen Tauscher.


Recientemente, el presidente estadounidense, Barack Obama y el jefe del Pentágono Robert Gates anunciaron correcciones a los planes del DAM en Europa, que inicialmente tenía previsto la creación de una estación de radar en la República Checa y el emplazamiento de misiles interceptores en Polonia.

Los nuevos planes de EEUU no suponen una renuncia al emplazamiento de elementos del DAM en el territorio europeo sino que posterga ese proceso para el año 2015.

La nueva estructura del DAM incluidos los elementos terrestres se desarrollará en cuatro etapas y deberán estar operativas para el año 2020.

Moscú siempre se manifestó en contra de la configuración inicial del DAM estadounidense en Europa porque consideraba que la estación de radar en territorio checo, y los misiles en el polaco, amenazaban su seguridad nacional al alterar el equilibrio estratégico nuclear entre Rusia y EEUU.

Extraído de RIA Novosti.

jeudi, 08 octobre 2009

Le pont ferroviaire eurasiatique, nouvelle route de la soie!

file00000049.jpg

Le pont ferroviaire eurasiatique,

nouvelle route de la soie du XXIe siècle !

par Alexandre LATSA ( http://www.agoravox.fr )

De la conquête de la Sibérie à l’Amérique russe, de Lisbonne à Vancouver, en passant par Pékin, petit résumé du gigantesque pont ferroviaire Transeurasien et Transcontinental en construction...

La conquête de l’Est

Lorsque le tsar Ivan IV conquiert Kazan en 1554, la Russie tarit définitivement, par la force, le flot des invasions nomades, venues de l’Est. Désormais, elle se tourne vers cet immense territoire. En 1567, deux cosaques traversent la Sibérie et reviennent de Pékin en racontant les immenses territoires et les possibilités commerciales avec l’empire du milieu. Le tsar concédera alors à des marchands de fourrure, les Stroganoff des territoires « à l’Est » (en fait en Sibérie occidentale). Ceux-ci feront appel à 800 cosaques, sous commandement de Yermak pour les protéger.
A la toute fin du XVIe siècle, la conquête russe du far-est est lancée, elle mènera les colons russes jusqu’aux portes de San Francisco...

De l’Oural au Pacifique

Les chasseurs de fourrure traversent la Sibérie en moins de cinquante ans, et installent des bases sur la route de l’Est, Iénisséisk en 1619, Iakoutsk en 1632, puis la ville d’Okhotsk. En 1649, à l’extrême est de la Sibérie. Au Sud, les Atamans russes affronteront les Chinois pour la conquête de l’Amour. Yeroïeï Khabarov met en déroute une troupe de plusieurs milliers de Chinois avant de reperdre la région et que la paix de Nertchinsk (1689) ne laisse la zone aux Mandchous. Les chasseurs russes remontent alors vers le Nord, et l’Est. Entre 1697 et 1705, le Kamtchatka est conquis. Un mercenaire danois, Vitus Behring, entreprendra une traversée de la Sibérie puis de la mer d’Okhotsk pour enfin traverser, en 1728, le détroit qui porte son nom.
En 1741, moins de deux cents ans après l’expédition de Yermak, les Russes abordent l’Amérique du Nord.

L’Amérique russe

Cette conquête s’accentuera dans la deuxième partie du XVIIIe siècle, non pour des raisons politiques, le pouvoir russe se désintéressant provisoirement de l’Amérique russe, mais purement commerciales, sous la pression des chasseurs de fourrures, livrés à leur seule ingéniosité et à leur volonté de négoce avec l’Asie. En 1761, ils mettent pied en Alaska. Une « Compagnie américaine » est même créée en 1782 pour « organiser » l’écoulement de fourrure russe en Chine, et contrer les Anglais qui écoulent eux la fourrure du Canada via le cap de Bonne-Espérance. En 1784, Alexandre Baranov, aventurier et trappeur russe fonda un empire commercial de vingt-quatre comptoirs permanents entre le Kamtchatka et la Californie. Le pouvoir russe dès lors prend conscience de l’énorme avantage que lui procure cette situation. Baranov sera nommé gouverneur de la zone, puis anobli, avant de se voir confier de déployer la « Compagnie russo-américaine » (qui gère tout le commerce de fourrure du Pacifique) le plus au Sud possible. En 1812, Fort Ross est créé, au nord de San Francisco. La présence russe est à son apogée en Amérique.

Le déclin de l’Amérique russe

Cette mainmise russe sera pourtant de courte durée. Concurrencé par les Anglais en Extrême-Orient, soumis à des révoltes occasionnelles des indigènes « nord-américains » (Aléoutes, Esquimaux, Indiens), le pouvoir russe se focalisera sur la Sibérie du Sud, jugée plus accessible de la capitale et tout aussi frontalière des pays d’Asie et de leurs débouchés commerciaux. En 1841, Fort Ross est abandonné et, en 1858, la frontière russo-chinoise est quasi stabilisée, l’Amour étant de nouveau rattachée à la Russie. En 1860, la « Compagnie russo-américaine » ne fait plus le poids face à son concurrent anglais (la Compagnie de la baie d’Hudson) et son « bail » n’est pas renouvelé.

En outre, l’effort consenti pour la guerre de Crimée (opposant la Russie avec la Grande-Bretagne, la France, l’Autriche, le Piémont et la Turquie, obligeant la Russie à se défendre de Saint-Pétersbourg à Novo Arkhangelsk, en Amérique du Nord) rendait difficilement tenable le front américain, menacé par les Britanniques. Le coût excessif de cette « colonie » et l’incapacité militaire russe à la défendre face aux Britanniques fit germer l’idée d’une cession à l’Amérique (alliée d’alors contre la Couronne). Le traité de vente de l’Alaska fut signé le 30 mars 1867.

Du Transcanadien au Transsibérien

En 1891 (alors que le projet avait été mis sur table dès 1857 par le comte Mouraviev), Alexandre III décrète la construction d’une immense voie ferrée qui reliera l’Oural à Vladivostock, sur les rives du Pacifique. Ce choix sera déterminé par les débouchés commerciaux envisagés avec l’Asie du Sud-Est, mais aussi la nécessité de renforcer les « villes ports » de l’Extrême-Orient (face à la militarisation de la Chine à sa frontière avec la Russie) et la marine militaire du Pacifique. La voie sera terminée en 1904, passant par la Mandchourie (sur du lac Baikal). La perte de ce territoire en 1907 rendra nécessaire la création d’une ligne de contournement, passant au « nord » du lac, c’est la seconde ligne, dite BAM (Baikal-Amour-Magistral), qui sera terminée elle en 1916.

En outre, les Russes s’inspirent de leurs concurrents anglais qui ont eux lancé dès 1871 une ligne de chemin de fer entre la côte Est et la côte Ouest du Canada, avec un double but : le transport des matières premières et surtout l’unification territoriale du Canada. Le premier Transcanadien joindra le Pacifique en 1886.

Le projet fou : la jonction ferroviaire Eurasie-Amérique

En 1849, un gouverneur du Colorado élabore un projet fou : un tunnel « sous » le détroit pour faciliter la traversée entre la Russie et l’Amérique. A cette époque, l’Alaska est pourtant encore russe. Le projet réapparaîtra au début du XXe siècle, un architecte français, Loic de Lobel, le présentant au tsar Nicolas II, moins de quarante ans après que son grand-père a cédé l’Alaska aux Etats-Unis. Les changements géopolitiques majeurs du demi-siècle qui suivirent ne laissèrent pas beaucoup de place à la coopération russo-américaine. En 1945, la guerre froide fait de ces deux monstres, qui se partagent le monde, des ennemis jurés. Le délabrement post-soviétique ne permet pas de relancer l’idée.

En septembre 2000 pourtant, à Saint-Pétersbourg, a lieu une « Conférence eurasiatique sur les transports », cinq grands couloirs de développement furent définis sur le continent :

- le couloir Nord, via le Transsibérien, de l’Europe vers la Chine, la Corée et le Japon ;

- le couloir central, de l’Europe méridionale à la Chine, via la Turquie, l’Iran et l’Asie centrale ;

- le couloir Sud, de l’Europe méridionale vers l’Iran, puis remontant vers la Chine par le Pakistan et l’Inde ;

- le couloir Traceca, d’Europe de l’Est à l’Asie centrale, par les mers Noire et Caspienne ;

- un couloir Nord-Sud combinant le rail et le transport maritime (Caspienne), de l’Europe du Nord à l’Inde.

Plus récemment, en mai 2007, une conférence intitulée « Les mégaprojets de l’Est russe » eut lieu à Moscou, ayant pour but de dévoiler les grands projets de l’Etat pour lutter contre le sous-développement et le sous-peuplement des régions de Sibérie et renforcer l’axe Est de la Russie. La conférence était présidée par un ancien gouverneur de l’Alaska, Walter Hickel, également secrétaire à l’Intérieur des Etats-Unis et ardent supporter du « projet fou » depuis les années 1960.

A cette occasion, fut dévoilé le nouveau projet de voie ferrée reliant la Russie à l’Amérique, à l’étude au Conseil d’études des forces productrices russes (CEFP). Son vice-président, Viktor Razbeguine, en a dévoilé les grands traits : la construction d’une immense artère reliant les continents « Eurasie-Amérique », de Iakoutsk en Sibérie orientale jusqu’à Fort Nelson au Canada, le tout via un tunnel sous le détroit de Béring long de 100 à 110 kilomètres ce qui en ferait de loin le plus long de la planète.

La voie ferrée assurerait l’accès aux ressources hydro-énergétiques de l’Extrême-Orient et du Nord-Ouest des Etats-Unis, et permettrait de construire des lignes HT et un passage de câbles par le détroit, en reliant les systèmes énergétiques des deux pays. Cette artère pourrait assurer le transport de 3 % des cargaisons du monde. La durée et la construction de l’ensemble devrait prendre de quinze à vingt ans. Le chiffre d’affaires des échanges commerciaux générés pourrait atteindre 300 à 350 milliards de dollars, toujours selon Viktor Razbeguine et le retour sur investissement attendu sur trente ans, après l’accession du chemin de fer à sa capacité projetée de 70 millions de tonnes de marchandises par an.

Sa construction pourrait en outre créer entre 100 000 et 120 000 emplois et revivifier la région Sibérie orientale, avec pourquoi pas la création de nouvelles villes et d’immenses zones agro-industrielles.

Outre le « link » des systèmes énergétiques de l’Ours et de l’Aigle, le président de l’IBSTRG (Interhemispheric Bering Strait Tunnel and Railroad Group), un « lobby tripartite Russie-Canada-Etats-Unis  » qui défend le projet de son côté depuis 1992, affirme : «  Le sous-sol de la Sibérie extrême-orientale regorge d’hydrocarbures, mais aussi de métaux rares, pas encore exploités précisément à cause de l’absence de communications  ». Ce sont ces trésors enfouis qui devraient selon lui permettre de lever les fonds pour lancer la voie ferrée de Iakoutsk, mais aussi le début des travaux sous le détroit. L’IBSTRG a en outre confirmé lors de la conférence de l’Arctique sur l’énergie (AES) en octobre 2007 que le projet passerait par l’utilisation de mini-réacteurs nucléaires mobiles, transportées par rail, route ou navire, ainsi que par l’énergie hydroélectrique pour l’expansion du réseau ferroviaire.

Les regards sont aujourd’hui tournés vers le gouverneur de l’immense région de Tchoukotka, que devrait traverser l’artère, également homme le plus riche du pays car, comme l’a affirmé le représentant du ministère russe de l’Economie, Maxime Bistrov, le fonds fédéral d’investissement finance des projets uniquement s’ils sont déjà soutenus par des entreprises privées ou avec l’aide de financements régionaux... A bon entendeur.

Quoi qu’il en soit, les différents promoteurs du tunnel fondent l’espoir que les pays du G8 soutiendront le projet. Sinon, des entreprises asiatiques, japonaises en priorité, ont déjà proposé leur aide. Le principal atout de ces liaisons ferroviaires transcontinentales n’est pas uniquement de transporter des marchandises plus rapidement, mais « intégrées à de véritables corridors de développement, elles participeront au désenclavement des pays et des régions dépourvus d’accès maritime » et, plausiblement, introduiront les futures lignes à très haute vitesse (magnétique ?) qui permettront de traverser l’Eurasie encore plus vite.

Le TransEurasien, route de la soie du XXIe siècle

Le 7 mai 1996 à Pékin, Song Jian, président de la Commission d’Etat chinoise pour la science et la technologie présentait le « Pont terrestre eurasiatique comme le tremplin d’une nouvelle ère économique pour une nouvelle civilisation humaine ». Douze ans plus tard, le 9 janvier 2008, s’est élancé le premier train « eurasiatique » de marchandise reliant Pékin à Hambourg. Le train a relié les deux villes après avoir traversé la Chine, la Mongolie, la Russie, la Biélorussie, la Pologne et l’Allemagne (soit plus de 10 000 km) en seulement quinze jours.

Lors du sommet de l’APEC en 2006, le président russe Vladimir Poutine évoquait la perspective d’une nouvelle configuration de l’Eurasie, reposant sur : « des projets conjoints à large échelle dans les transports, l’énergie et les communications ». Au même sommet, l’ancien président sud-coréen Kim Dae-Jung avait lui assuré que : « les chemins de fer Transcoréen, Transsibérien, Tnansmongol, Transmanchourien et Transchinois formeront cette "route ferroviaire de la Soie", reliant l’Asie du Nord-Est à l’Europe en passant par l’Asie centrale...  »
La glorieuse route de la soie du passé renaîtra ainsi sous la forme d’une "route ferroviaire de la soie", faisant ainsi entrer l’Eurasie dans une ère de prospérité.

"Je veux récupérer mon empire", aurait lancé Vladimir Poutine lors d’une rencontre internationale à huis clos. A en croire la position qu’est en train de prendre la Russie, aiguillon entre l’Europe, l’Asie et l’Amérique du Nord, sur la plaque eurasiatique, on peut sans doute le croire...

SOURCES :

- Philippe Conrad sur CLIO

- Catherine SAUER BAUX sur STRATISC

- Wikipédia

- Le Figaro magazine

- Arctic.net

- Ria Novosti

- Solidarité et progrès

- La Tribune

- L’association « Amitié France Corée »

- Xinhua.net

- La Voix de la Russie

mercredi, 07 octobre 2009

Russia is the future of Europe!

Peasantgirlwbread.jpg

 

Russia is the future of Europe !

Alexander LATSA ( http://alexandrelatsa.blogspot.com )

"There is no longer any doubt that with the end of the Cold War a lengthier world development period came to an end, spanning 400-500 years during which European civilization had dominated in the world. The historical West had consistently advanced on the edge of this dominance."

" The new stage is occasionally defined as “post-American.” But, of course, this is not a “world after the US” and even less so without the US. It is a world where as a result of the rise of other global centers of power and influence the relative significance of America’s role dwindles, as was already the case over recent decades in the global economy and trade. Leadership is an entirely different question though; it’s above all the question of achieving harmony within a circle of partners, of the ability to be the first, but among equals."

"To define the content of an emerging world order, such terms as multipolar, polycentric and nonpolar are also put forward"

"We do not share the concerns that the current reconfiguration in the world will unavoidably lead to “chaos and anarchy.” There goes the natural process of the formation of a new international architecture – political as well as financial-economic – which would correspond to the new realities."

"Russia conceives itself as being a part of European civilization having common Christian roots"

"The rigid Anglo-Saxon model of economic and social development is again, as it did in the 1920s, beginning to wobble.the global financial-economic architecture was largely created by the West to suit its own needs. And now that we watch the generally recognized shift of financial-economic power and influence towards the new fast-growing economies, such as China, India, Russia and Brazil, the inadequacy of this system to the new realities becomes obvious. In reality, a financial-economic basis is needed which would conform to the polycentricity of the contemporary world.
The manageability of world development can’t be restored otherwise." 


*****


More than a year after Sergei Lavrov’s assertions (June 2008), the only report that comes to mind is that the financial crisis has totally confirmed those assertions. At the dawn of the autumn 2009, the Western world is about to leave History by the smallest door, after having transmitted its metastasis to the whole humanity. In this world in transition, it would be good to wonder what game the European populations intend to play.

At that time where the line breakages are less and less legible, it would be good to remember that the only chance of survival of the Europeans is to get out of the suicidal atlantist rut and to develop a true and integrated collaboration with the Federation of Russia. This European-Russian partner could contribute to peace within Heartland, in the hart of this new multi polar and decentralized world. 

In a multi polar and decentralized world the European unity is unavoidable

Far from the ideal of psychology armchair, the reality of tomorrow is based on demography and economy. The decrease of America’s influence is also proved by the increase of many other actors: Brazil, Russia, India, China and the Arab Muslim world, both rich in energy and human capital. The world population reaches 6, 5 billions of inhabitants and will be over the 9 billions in 2050.  Europe counts today 758 millions inhabitants 91/3 of the EU0 and should see its population fall down, between 564 millions and 632 millions inhabitants i.e. 7 % to 8% of the world population and less than 20% of the GDP (about the same than China on its own).

France as an example should count 70 millions inhabitants in 2050, i.e. 0,8% of the world population, 1 inhabitant out of 3 being more than 60 years old and half of its youngest population being mainly African and from Northern Africa.

In this context, and despite the punchy speeches of credible and interesting personalities (Nicolas DuPont Aignant, Paul Marie Couteaux or Jean Pierre Chevènement to only quote those), the way out of the EU and the return to a national sovereignty is surely the very last solution to think of.

The EU is imperfect to 99%, because being led by Brussels, and under the influence of ‘’the American party’’, who treats Europe as an American colony.

Worse the Americans (who wish first to maintain their dominating position and defend their own interests) do not want a united and powerful Europe. This Europe may not follow them in their military offensives or even oppose to them diplomatically and maybe militarily.
This is the reason why the Americans try everything in order to have their Troy horse entering the EU (Turkey) in order to create dissension and destabilize a homogeneous whole on its way.

Let us not forget, at last, that Turkey is the second army of NATO and with Israel the pawn of America in the Near East, while occupying Cyprus.
This is the reason why America has done everything in order to persuade De Gaulle not to obtain the nuclear independency and to stop France to exit the NATO commandment.
An independent France would be a prelude to an independent Europe. The latter could lead to the worse situations for the US strategists: the loss of the advantages gained at the end of the World War II with the occupation of Western Europe and therefore the loss of the Heartland western side.

This is also the reason why some strategists of the ‘American party’ in Europe have understood the necessity to support the EU refusals through the anti EU and the Europhobic parties such as Ireland with the Libertas candidate.

More recently, the Europhobic Philippe de Villiers has also joined the atlantist party of Nicolas Sarkozy, UMP, a party though openly pro EU, after that UMP has had France joining the NATO commandment.

The loss of sovereignty for the European countries is a process that went through 2 stages.

* The first one is the end of the empires, originating from the Westphalia treaty, supporting the national identity concept (nation state) as the primary identity. This “nationalisation” of the European identities has generated the 30 years war that destroyed our continent in the first half of the 20th century. Strange coincidence, the Westphalia treaty ended a European civil war that lasted 30 years.
* The second is the stage of the fragmentation into regions. This process, are we told, is very progressive politically (i.e. regions would be the ultimate stage of the European integration). But it is in fact the result of a deliberate external political process aiming at weakening Europe, by fragmenting in small pieces that are left with neither economical independence nor military sovereignty.

This was the case in particular for Eastern Europe, e.g. Czechoslovakia, Yugoslavia or the USSR, for obvious reasons: Those nations are not under the western influence since long so they are suspected of being hostile to the Euro –Atlantic Axis.

Of course, it is no surprise that most of the regionalist European political parties are also the most Europhiles and the ones fighting most actively for a NATO expansion and a Euro – Atlantic integration.

Those same political alignments are shared by the Brussels commissioners, devoted agents of the American interests in Europe.

The Europe of Brussels is of course the opposite of the powerful and independent Europe that we want. The EU made of flesh, the reel EU (the non legal one) is the only aim to defend in order for the Europeans to control their destiny and to become more than spectators, to become actors.

The world of tomorrow though will probably not be a more opened world than the one we know. It surely will be a world made of blocks in conflict, conflict for territories zones and civilisations.
In this world of increasing tensions the key for Europe is to gain a structure of defence that belongs to it and allows her to protect its interests and citizens.
In that sense, the proposals of President Medvedev on the necessity of creating a Pan European structure of security (replacing NATO) are a real challenge and the most interesting one, for Europe.

In a multi polar world, let us exit NATO and create a continental and NON Atlantic defence’s system.

NATO is a military alliance created is 1949 in order to face USSR, but also in order to avoid a new risk to Europe (as it had been the case with Germany). Fast, this alliance, under the Anglos Saxons’ influence, led to the creation of a competing alliance in the other bloc, the soviet one, in 1955: ‘’ The Warsaw Pact’’. This double alliance split up the world in two rival blocs, until 1958 while the De Gaulle France decided to leave the Anglo Saxon block and to develop its own nuclear programme.

In 1966, France leaves the NATO commandment and the NATO HQ moves from Paris to Brussels, which is still the case nowadays. Brussels hosts the European institutions as well as the NATO ones. 30 years later in 1995, the French President Jacques Chirac started the negotiations to get back into the integrated commandment of NATO. This return was confirmed and focalized by President Sarkozy on the 17th March 2009.

Why this return ? What were the motivations of France to become an essential NATO actor ?

NATO has got today only two essential functions, both in the interest of America and both against the European interests.
First it has become a conquest weapon of the Eurasian heartland by America and its extension towards the East and the Russian borders. New nations are asked to join under wrong justifications, i.e. the historical fear of a Russian imperialism.  But this imperialism does not exist any longer. Only the American strategists keep it alive at perfection.

Under the pretext of entering the Euro-Atlantic partnership, NATO installs itself in the hart of Europe, pushes Russia back towards its own eastern borders and divides Europe once more, with the installation of American bases in front of the Russian borders.

This is the real aim of the Serbia campaign. Serbia is an ally of Russia in the logic of the Pentagon. With the bondsteel base but also the orchestrated revolution in Ukraine, the aim of America was to implement an American base in Crimea, in order to respond to the Russian base.

Since the 11/09/NATO has become a crusaders army at the eyes of the Muslim world, the same American strategists trying to convince us that NATO is a protection against the aggressive and terrorist Islamism.
No need though to be a scientist in order to understand that the Iraq and Afghanistan campaigns, if they could be won (which will probably not be the case) will not defeat ‘’terrorist’’ Islamism. Islamism is used today like an excuse in order to justify much older geopolitical objectives. Do we not suspect that the Afghanistan attack has been justified by the 11th September, but planned much before and that its reel aim had been the implementation of US troops in the heart of Eurasia?

Can we, without laughing, believe that the baathist Iraq of Saddam Hussein was one of the vectors of the world Islamist terrorism, or targeted for its petrol dwells?

Domination wars of the USA are wars aiming at controlling the natural resources that are concentrated (apart from Arctic) in the Arab peninsula, Iraq, Iran, Persian Gulf, Southern Russia (Caucasus) and Afghanistan.

Those resources conflicts are provoked by wrong motives, which are not Europe’s one. Worse, they may lead Europe to ethnical and religious tensions on ‘’its’’ territory.

Yugoslavia disintegration showed us how much a security structure was essential in order to maintain its harmony and face the external destabilizations. The recent Kosovo issue has perfectly shown that Europe is the bridge head that serves the USA who attack and invade Eurasia. America therefore creates tensions between European populations and in particular with Russia, to whom the ‘’Serbia’’ warning was addressed.

The vote of the Silk road strategy Act by the US Congress in 1999 was aimed at ‘’favouring’ the independence of the Caucasus and the Central Asian countries and at creating a land bridge in order to divert the road of the Silk Road to the Turkish harbours, therefore a NATO country.

The BATCH oil pipeline that passes by Georgia is following the same strategy and also partly explains the development of the military assistance to Georgia, since the arrival at power of Mikhaïl Saakachvili.

In a multi polar world with many centres, we could avoid a continental disintegration
In 1999 despite the attack on Serbia and after 10 years of total collapse, the assumption by Vladimir Poutine straightens Russia up and replaces the country at the front of the word political scene. Europe has toppled over NATO (by its participation to the bombing of Serbia). Russia, China, and the Muslim nations of Central Asia create in 2001 the Shanghai organisation as well as the OSTC in 2002. Those military Eurasian and inter-religious alliances aim at replying to the double Chinese and Russian surrounding by the American army and at defending the Eurasian regional well defined area.
Zbigniew Brezinski said: «The Eurasian strategy of the USA brought Russia and China closer. The two continental powers are building a real military alliance in order to face the Anglo Saxon coalition and its allies. » 


The American offensive towards the East (from Berlin to Kiev) has materialized in two majors steps, from 1996 until 2009.

In 1996, GUUAM was born. It regroups Georgia, Uzbekistan, Ukraine, Azerbaijan and Moldavia.
Those nations wish to get out of the post soviet bosom, right after the Berlin wall fall and while Russia was collapsing. It is not surprising that those nations who have strategic geographical positions, consequently have been the victims of revolutions financed by the CIA (orange revolution, tulips, roses and recently in Moldavia too after the elections). They also have been the victims of changes of western regimes. The most representative members of this association are the observers, Turkey and Latvia (!).
Nevertheless those regimes have not made it through, despite the expectations of their supporters (integration to NATO and EU, improvement of life).
On the contrary, those overthrown regimes have degraded economically and no integration into the euro-atlantist model occurred.

This is the reason why the departure of Uzbekistan in 2005 and the absence of concrete realization of the organization have led the latter to become inexistent politically. In May 2006 the political scientist Zardust Alizadé from Azerbaijan expressed his doubts regarding the development of the alliance and of the alliance’s ‘’practical results’’.

Today, the second step sees a quite aggressive materialization through the creation of a new front that we may call GUA (Georgia, Ukraine, and Arctic). In Georgia: the political incapacity of the president has pushed the American strategists to launch a military operation in August 2008. This operation failed because the Russian army has replied with a lot of strength and has liberated the territories of Ossetia and Abkhazia.  This conflict is the first conflict opposing Russia to America out of the Russian borders. The previous conflict had been the Whabitt destabilization in Chechnya, instigated mainly by the CIA.

In Ukraine the recent conflicts about gas show the growing tensions and a bright observer recently said that ‘’ a limited conflict, under the pretext of a territorial dispute, will surely burst and lead to a rupture of the gas’ supplies for a more or less long period of time. Those gas crises are provoked in order to train the Europeans to get used to such cuts.’’

Artic would need another article just for itself. I invite my readers to read my previous articles on the topic here and there and to consult the blog « zebrastationpolaire ».

Those manoeuvres of surroundings, of containment and of destabilization have various objectives:
-  To control the Black sea the Caspian and Baltic seas perimeters as they are essential zones of transit between the East and the West.
- To control the future corridors of energy in particular via a building project of oil and gas pipelines going round Russia but linking the regions of the Caspian sea with the ones of the Black and the Baltic sea.
- To spread the NATO influence further East in the heart of Eurasia in order to reduce the sphere of influence of Russia (on its close stranger) but mainly in Europe, and avoid a potential development of the Chinese influence towards Central Asia.  

Of course, a non experienced reader will tell me that the Russians and the Americans have never stopped to fight since 1945 and that globally this is not the business of Europe and of the Europeans. Well, this is exactly the contrary.

In a multipolar world with many centres, the Euro-Russian Alliance is the key stone for peace on the continent.
The consequences we told you about in this article are dramatic for Europe. They will cut Europe from Russia at a civilization, geopolitical, political and energetic level.
They will create a new wall in Europe, not in Berlin but in the heart of Ukraine, separating the West (under the American influence) from the East (under the Russian influence).
In a more pragmatic way this fracture nearly cuts the Orthodox Europe from the catholic and protestant Europe, underlining the theory of S.Hungtinton in his book « The shock of civilisations ». Last, let us note that China, a crucial geopolitical and economical actor, probably sees Europe (through NATO) as co-responsible of the surrounding situation that it (China) faces, West (military American bases in central Asia) and East (the Pacific along its shores, with also many American bases).
This rupture with two essential actors that are Russia (the biggest country in the world) and China (the most populated country of the world) are very serious.

In case of growing tensions with NATO and OCS, France and the other European countries would be in a conflict with an organisation that nearly groups together, one man out of three in the world, covers 32, 3 millions of km² et resources wise groups together 20 % of the petroleum world resources, 38% of natural gas, 40% coal and 50% uranium.

This strategy of separation of Russia and Europe and of Western and the centre will limit Europe in a micro territory slot in the west of the continent and will cut t from the huge possibilities that a partnership with Russia would offer.  
·         Europe needs Russia energy wise because Russia has got the gas and the petroleum resources that Europe needs. Russia is a stable supplier as its relation with Turkey proves it. Turkey has no supply problem. Just remember that the supply cuts during the war with Ukraine were due to the latter, but funnily enough the media have made Russia guilty).  The topic ‘’energy’’ is essential because Europe under the American commandment is proposed very risky alternatives, as for instance to replace Russia by Turkey (A NATO country aiming at becoming an EU member!). . This replacement of Russia by Turkey would also mean to have Nabbuco instead of South Stream and to participate to conflicts for energy (like Iraq). Europe could surely avoid all those troubles.
·         Europe needs the fabulous Russian potential, the human one (140 millions inhabitants), and the geographical one (17 millions km2 and its opening on the Pacific). Europe would therefore become a crucial actor, especially with the Asian world, the latter being in a full development process.
·         Russia also needs Europe and the Europeans not only for allocating its primary resources but also for its technologies and human capital that it could use to fight against it depopulation at the East of Oral. Last but not least it needs Europe like a natural and complementary ally, originating from the same civilisation.

This Euro- Russian unity is the only warrant of peace and independence for the continent populations. It is vital, it is strongly advised, because the Western European and the Russians belong to the same civilisation first of all.

As Natalia Narotchnitskaïa recently said in Paris during a colloquy:

 « The real cooperation between Russia and Europe could give a new energy to our continent, at the dawn of the third millenary. The big roman – German and Russo- Orthodox cultures share one and only one apostolic foundation, the Christian and spiritual one. Europeans, whether they are western or Russians, have given to the world the biggest examples of the orthodox and Latin spirituality.’’

These are the reasons why Russia is the future of Europe.

mardi, 06 octobre 2009

L'avenir de l'Europe, c'est la Russie!

L’avenir de l’Europe, c'est la Russie!


par Alexandre Latsa ( http://alexandrelatsa.blogspot.com )
 "Nul doute deja, que la fin de «la guerre froide» a marque la fin d'une etape plus longue du developpement international – 400-500 ans, durant lesquels la civilisation europeenne a domine dans le monde. L'Occident historique s'est toujours propulse a la pointe de cette domination".

"La nouvelle etape est parfois definie comme «post-americaine». Mais, certes, ce n'est pas le «monde d'apres les USA» et d'autant plus sans les USA. C'est un monde, ou, a la suite de la montee d'autres centres globaux de la force et de l'influence, l'importance relative du role de l'Amerique se reduit, comme cela avait deja eu lieu au cours des dernieres decennies dans l'economie et le commerce globaux. Le leadership est un tout autre probleme, avant tout celui de l'obtention de l'entente parmi les partenaires, de la capacite d'etre premier, mais parmi ses égaux".

" Pour definir le contenu de l'ordre mondial en formation, on avance aussi les termes comme multipolaire, polycentrique, non-polaire".

"Nous ne partageons pas les craintes, que la reconfiguration actuelle qui se passe dans le monde mene inevitablement « au chaos et a l'anarchie ». On observe le processus naturel de la formation d'une nouvelle architecture internationale – tant politique, que financiere et economique, qui repondrait aux realites nouvelles".

"La Russie se voit comme une partie de la civilisation europeenne, qui possede les racines chretiennes communes".

"Le dur modele anglo-saxon du developpement socio-economique presente de nouveau des rates, comme dans les annees 20 du ХХe siecle.l'Occident avait pour beaucoup cree l'architecture financiere et economique globale a son image. Et actuellement, ou l'on est en presence du deplacement reconnu par tous de la force financiere et economique vers les nouvelles economies en croissance rapide comme la Chine, l'Inde, la Russie, le Bresil, il devient evident que ce systeme n'est pas adequat aux realites nouvelles. Au fond, on a besoin d'une base financiere et economique, qui correspondait au polycentrisme du monde contemporain".


***
Plus d'un an après ses propos tenus par Sergei Lavrov (en juin 2008) un seul constat s'impose, la crise financière les a totalement confirmés. A l'aurore de cet automne 2009, l'occident s'apprête à sortir de l'histoire par la petite porte, après avoir transmis ses métastases à l'humanité toute entière. Dans ce monde en re-configuration, il est bon se se demander quelle est la place que les peuples du continent Européen entendent jouer.

A l'heure ou les lignes de fractures sont de plus en plus illisibles, il est bon de rappeler que la seule chance de survie des peuples  Européens survivent est de sortir de l'ornière atlantiste suicidaire et de développer une collaboration poussée et intégré avec la fédération de Russie, afin que ce binôme "Euro-Russe" contribue à maintenir la paix sur le Heartland, au sein de ce nouveau monde multipolaire et polycentrique.

Dans un monde polycentrique et multipolaire, l’unite Européene est inévitable
Loin de l'idéalisme politique de comptoir, la réalité du monde de demain passe par l'économie et la démographie. La baisse d'influence de l'Amérique se traduit également par une augmentation de l'influence de nombres d'autres acteurs (BRIIC, monde arabo-musulman riche en énergie et en capital humain ..).  La population de la planète atteint aujourd'hui 6,5 milliards d'habitants et devrait dépasser les 9 milliards en 2050. L'europe, qui compte aujourd'hui 728 millions d'habitants (dont 1/3 hors de l'UE) devrait voir 
sa population tomber à entre 564 millions et 632 millions d'habitants, soit représenter entre 7 et 8% de la population mondiale et moins de 20% du PIB soit à peu près autant que la Chine seule (!). La France pour prendre un exemple devrait compter elle 70 millions d'habitants en 2050, soit 0,8% de la population mondiale, un habitant sur trois ayant plus de 60 ans (!) et la moitié la plus jeune de sa population étant à cet moment la d’origine extra-européene, principalement Afro-maghrébine.

Dans ce contexte, et malgré les discours percutants de personnalités crédibles et intéressantes (nicolas dupont aignant, paul marie couteaux ou jean pierre Chevènement pour ne citer qu’eux) la sortie de l’UE et le retour au « souverainisme » national est probablement la dernière des solutions à envisager. L’UE est certes imparfaite à 99% mais elle est imparfaite en ce qu’elle est dirigée par Bruxelles, qui est une officine du « parti américain » qui traite l’Europe en colonie américaine.
Pire les Américains (qui souhaitent avant tout maintenir leur position dominante et défendre leurs interets) ne souhaitent pas une Europe unie et puissante, apte à ne pas les suivre dans leurs offensives militaires illégales ou même à s’y opposer, diplomatiquement, voir militairement. C’est la raison pour laquelle les Américains font « tout » pour rentrer leur cheval de troie (Turque) dans l’Europe, afin d’y semer la discorde et de déstabiliser un ensemble homogène en création. N’oublions pas enfin que la Turquie, seconde armée de l’OTAN, est avec Israêl le pion de l’Amérique au proche orient, et que celle-ci occupe militairement l’Europe (Chypre).

C’est la raison pour laquelle les Américains ont tout fait pour dissuader De Gaulle d’obtenir l’indépendance nucléaire et de sortir du commandement intégré de l’OTAN. Parcequ’une France indépendante, prélude à une Europe indépendante pouvait entraîner la pire des situations envisageables pour les stratèges US, perdre l’avantage pris à la fin de la guerre (l’occupation de l’europe de l’ouest) et donc la main mise sur la façade « ouest » du heartland.

C’est également la raison pour laquelle certains stratèges du « parti américain » en Europe ont parfaitement compris l’interet a appuyer les « refus » de l’UE en soutenant des partis « anti UE » et Europhobes comme ce fus ouvertement le cas en Irlande avec le candidat Libertas par exemple. Plus récemment, le Bruxellophobe Philippe de Villiers a lui aussi rejoint le parti Atlantiste de Nicolas Sarkosy, l’UMP, pourtant ouvertement Europhile et après que celui ci ai fait rejoindre à la France le commandement intégré de l’OTAN.

La perte de souveraineté des pays Européens est un processus qui a traversé deux stades principaux.
* Le premier est celui de la fin des empires, issu du traité de westphalie et qui prône l’identité nationale (l’état nation) comme identité première. Cette ‘nationisation’ des identités Européennes a crée les conditions de la guerre de 30 ans qui a ravagé notre continent dans la première moitié du 20ième siècle. Curieux hasard, le traité de westphalie mettait lui également fin à une guerre civile européenne de 30 ans.
* Le second stade est celui de la régio-fragmentation. Ce processus que l’on nous affirme comme éminemment politico-progressiste (les régions seraient le stade ultime de l’intégration politique européenne) est en fait le résultat d’un processus politique extérieur volontaire afin d’affaiblir l’Europe en la morcelant en entité qui de par leur petite taille n’ont plus aucune autonomie économique ni de souveraineté militaire. Cela a été particulièrement le cas pour l’est de l’Europe comme en Tchécoslovaquie, en Yougoslavie ou en URSS, pour des raisons évidentes : ces nations ne « baignant » dans le bain Occidental que depuis peu elles étaient suspectes de réticence à l’alignement euro-atlantique.
Quoi alors de plus étonnant que les partis Européens les plus éminemment régionalistes soient les partis les plus européistes et les actifs en faveur de l’extension de l’OTAN et de l’intégration euro-atlantique. Ces mêmes « lignes » politiques sont partagées par les commissaires de Bruxelles, agents zélés des intérêts Américains en Europe.
Evidemment cette Europe de Bruxelles est évidemment l’inverse de l’Europe puissante et indépendante que nous voulons. L’union Européenne charnelle et réelle (et non légale) est néanmoins le seul objectif à défendre pour que les Européens maîtrisent leur destin et redeviennent acteur et non seulement spectateurs. Hors le monde de demain ne sera probablement pas un monde plus « ouvert » que celui que nous connaissons, ce sera plausiblement un monde d’affrontements, de conflits de blocs, de territoires, de zones et de civilisations. Dans ce monde de tension croissante, la clef pour l’Europe est de se doter d’une structure de défense qui lui appartienne et lui permette de protéger ses intérêts et ses citoyens. En ce sens, les propositions du président Medvedev sur la nécessité de créer une structure de sécurité Pan-Européenne (remplaçant l’OTAN) sont un défi réellement intéressant pour l’Europe.

Dans un monde polycentrique et multipolaire, sortir de l’OTAN et créer une défense continentale non atlantique.
L’OTAN est une alliance militaire constituée en 1949 pour faire face à l’URSS mais aussi au risque futur d’une nouvelle situation pour l’Europe comme celle-ci avait connu avec l’Allemagne. Rapidement, cette alliance sous la coupe des anglo saxons entraîna la constitution d’une alliance concurrente dans l’autre bloc (soviétique) en 1955 : « le pacte de Varsovie ». Cette double alliance scinda le monde en deux blocs rivaux jusqu’en 1958, lorsque la France de De Gaulle décida de quitter le bloc anglo-saxon et de développer son propre programme nucléaire. En 1966, la France quitte le commandement de l’OTAN, et le siège de l’OTAN est déplacé de Paris à Bruxelles, ce qui est toujours le cas aujourd’hui, Bruxelles hébergeant donc et les institutions Européennes, et celles de l’OTAN. Retour dans le giron moins de 30 ans plus tard puisqu’en 1995, le président Français Chirac entama les négociations de retour au sein du commandement intégré de l’OTAN, retour avalisé et effectué par le président Nicolas Sarkosy le 17 mars 2009.

Il convient dès lors de se demander quelles sont les raisons de ce retour de la France en tant qu’acteur essentiel au sein de l’OTAN. Celle-ci n’a en effet aujourd’hui que deux fonctions principales, qui sont les deux dans le pur intérêt de l’Amérique mais vont toalement à l’encontre des intérêts Européens.
Tout d’abord elle est devenue une arme de conquête du heartland Eurasien par l’Amérique et en ce sens, son extension à l’est, vers les frontières de la Russie, passe par l’adhésion de nations nouvelles (nouvelle Europe) pour des motifs erronés, qui sont la crainte historique d’un impérialisme Russe qui n’existe pas mais que les stratèges américains entretiennent parfaitement.

Sous couvert d’entrée dans le  « partenariat euro-atlantique », l’OTAN s’installe directement dans le cœur de l’Europe afin de pousser la Russie dans ses retranchements orientaux et de diviser une nouvelle fois l’Europe en installant ses bases militaires devant la frontière Russe. C’est le but réel de la campagne de Serbie (la Serbie étant un pion Russe dans la logique du Pentagone) avec la base bondsteel mais également de la révolution orchestrée en Ukraine, le but étant d’installer une base Américaine en crimée, en lieu et place de la base Russe actuelle.
Depuis le 11/09/2001 également, l’OTAN s’est transformée en « armée » de croisés au yeux du monde musulman, les mêmes stratèges tentant de nous persuader que l’OTAN est un rempart contre l’islamisme agressif et terroriste. Pourtant nul besoin d’être savant pour comprendre que la campagne d’Irak et celle d’Afghanistan, si elles devaient être gagnées (ce qui ne sera vraisemblablement pas le cas) ne vaincraient pas le « terrorisme Islamique ». L’Islamisme est aujourd’hui utilisé comme bouclier et paravent pour justifier des objectifs géopolitiques bien antérieurs. Ne suspecte t’on pas que l’attaque de l’Afghanistan ait été justifié par le 11/09 mais planifiée bien avant et que son but réel soit l’implantation de troupes US au cœur de l’Eurasie ? Peut on sans rire croire que l’Irak baathiste de saddam hussein ai été un des vecteurs du terrorisme islamique mondial, ou plutôt visée pour ses puits de pétrole ?

Les guerres de domination de l’empire Américain sont des guerres pour la maîtrise des ressources naturelles, qui sont concentrées (hormis en Arctique) entre la péninsule Arabe, l’Irak, l’Iran, le golfe Persique, le sud Russie (caucase) et l’Afghanistan.  Hors ces conflits énergétiques déclenchés sur des faux motifs ne sont pas ceux de l’Europe. Pire ils sont susceptibles d’entrainer l’europe dans des tensions ethniquo-religieuses sur « son » territoire. La désintégration de la Yougoslavie nous a montré à quel point une structure de sécurité était essentielle pour maintenir son harmonie et faire face aux déstabilisations de l’extérieur.

L’affaire récente du Kosovo a parfaitement démontré à quel point l’europe sert de tête de pont aux américains pour « attaquer » et « conquérir » l’Eurasie, et donc la Russie tout en créant des tensions entre peuples Européens et surtout avec la Russie, à qui « l’avertissement » Serbe était adressé. Point d’orgue de cette politique de conquête, le vote du Silk road strategy Act par le congrès US en 1999 destiné à « favoriser l’indépendance des pays du Caucase et d’Asie centrale et à créer un  pont terrestre détournant le commerce de ces pays avec l’ouest (qui passe actuellement par le territoire russe) vers le trajet de l’antique Route de la Soie aboutissant aux ports turcs, donc à un pays de l’OTAN. L’oléoduc BTC qui passe par la Georgie s’inscrit dans cette stratégie et explique en partie le développement de l’assistance militaire à la Géorgie depuis l’arrivée au pouvoir de Mikhaïl Saakachvili.

Dans un monde polycentrique et multipolaire, éviter la désintégration continentale.
Toujours en 1999, malgré l’attaque de la Serbie, et après 10 ans d’effondrement total, la prise de pouvoir de Vladimir Poutine va redresser la Russie et replacer celle ci sur le devant de la scène politique mondiale. L’Europe ayant basculé vers l’OTAN (participation des nations européennes à l’agression contre la Serbie), la Russie, la Chine et les nations musulmanes d’Asie centrale créent en 2001 
l’Organisation de Shanghai ainsi que l’OSTC en 2002. Ces alliances militaires eurasiatique et inter-religieuses ayant pour but de répondre au double encerclement Russe et Chinois par l’armée Américaine et à défendre le pré-carré régional eurasiatique.  Comme le disait Zbigniew Brezinski : « La stratégie eurasiatique des Etats Unis a suscité en réaction un rapprochement entre la Russie et la Chine. Les deux puissances continentales sont en train de construire une véritable alliance militaire face à la coalition anglo-saxonne et à ses alliés. » 

Cette offensive Américaine vers l’est (de Berlin à Kiev) s’est matérialisée en deux étapes essentielles, de 1996 à 2009.
* En 1996 est créé l'organisation GUUAM qui regroupe Géorgie, Uzbékistan , Ukraine, Azerbaïdjan et Moldavie. Ces nations désirent à l’époque « sortir » du Giron post soviétique après la chute du mur et dans un contexte d’effondrement de l’état Russe. Il n’est pas surprenant que ces nations aient des positions géographiques 
stratégiques et par conséquent aient été victimes des révolutions de couleur financées par les ONG proches de la CIA (révolution orange, des tulipes, des roses et récemment en Moldavie après les élections) ainsi que des changements de régimes pro Occidentaux liés. Symbole de la « couleur » de cette association, les membres observateurs sont la Turquie et la Lettonie (!). Néanmoins ces régimes renversés n’ont pas obtenu les résultats escomptés par leur supporters (intégration dans l’OTAN et l’UE, amélioration du niveau de vie ..) mais au contraire ont entrainé une dégradation de la situation économique et aucune intégration dans le système euro-atlantique. C’est la raison pour laquelle le départ de l’Ouzbékistan en 2005 et l’absence de réalisation concrète de l’organisation l’ont mise en sommeil politique et qu’en mai 2006, le politologue azerbaïdjanais Zardust Alizadé exprimait encore ses doutes quant aux « perspectives de développement de l'alliance, et l'obtention de résultats pratiques ».

* Aujourd’hui, la seconde étape se matérialise agressivement via l’apparition d’un nouveau front, que l’on peut appeler le GUA (Georgie, Ukraine, Arctique).
En Géorgie : l’incapacité politique du président a incité les stratèges Américains à lancer une opération militaire en août 2008, celle-ci ayant néanmoins échoué puisque l’armée Russe a répondu avec force et a « libéré » les territoires d’Ossétie et d’Abkazie. Ce conflit est le premier conflit de la Russie avec l’Amérique hors des frontières Russes (la précédente étant la déstabilisation Wahabitte en Tchétchénie, fomentée en grande partie par la CIA).
En Ukraine les récents conflits gaziers témoignent des tensions grandissantes et un observateur éclairé jugeait récemment que « un conflit limité, sous le prétexte d'un litige territorial, devrait éclater entraînant une rupture des fournitures de gaz pour une période plus ou moins lingue, les crises gazières sont provoquées afin d'entraîner les consommateurs européens à une telle coupure ».

L’arctique nécessitant un développement propre, j’incite mes lecteurs à lire mes précédents articles à ce sujet (ici et la) et à consulter le blog de « 
zebrastationpolaire » à ce sujet.

Ces manœuvres d’encerclement, d’endiguement et de déstabilisation ont divers objectifs :
-  Contrôler les pourtours des mers noire, caspienne et baltique, zone  essentielles et de transit entre l’orient et l’occident.
- Maîtriser les futurs corridors énergétiques, notamment via un projet de construction d’oléo- et gazoducs contournant la Russie mais reliant les régions de la Caspienne, de la mer Noire et de la Mer Baltique.
- Etendre l’influence de l’OTAN le plus à l’est, au cœur de l’Eurasie afin de réduire la sphère d’influence de la Russie (sur son étranger proche) mais surtout en Europe et empêcher un éventuel développement de l’influence Chinoise vers l’asie centrale
Évidemment un lecteur non averti me dira que les russes et les américains n’ont cessé de s’affronter depuis 1945 et que globalement, ce n’est pas l’affaire de l’Europe et des Européens. Hors c’est précisément l’inverse…

Dans un monde polycentrique et multipolaire, l’alliance Euro-Russe, clef de voute de la paix sur le continent.
Les conséquences sus cités sont absolument dramatiques pour l’Europe. Elles ont pour conséquences de nous couper de la Russie sur un plan civilisationnel, géopolitique, politique et énergétique ou encore de créer un nouveau mur en Europe, non plus à berlin mais au cœur de l’Ukraine, en séparant l’Ouest (ensemble sous influence Américaine) de l’Est (ensemble sous influence Russe). Plus prosaiquement, cette ligne de fracture coupe « presque » l’Europe orthodoxe de l’europe catholico-protestante, reprenant la vision des civilisations séparées de S. Hungtinton dans son ouvrage « le choc des civilisations ». Enfin il est à noter que la Chine, acteur géopolitique et économique majeur, juge probablement l’Europe (via l’OTAN) co-responsable de la situation d’encerclement total qu’elle subit, que ce soit à l’ouest (
ring centro-asiatique) et à l’est (dans le pacifique devant ses côtes). Cette rupture avec deux acteurs essentiels que sont la Russie (le pays le plus grand du monde) et la Chine (le pays le plus peuple du monde) sont doublement graves. En cas de tension croissante entre l’OTAN et l’OCS, la France et les pays d’Europe Occidentale seraient en conflit avec une organisation qui regroupe presque un homme sur trois dans le monde, couvret 32,3 millions de km² et comprend au niveau des ressources énergétiques 20 % des ressources mondiales de pétrole, 38 % du gaz naturel, 40 % du charbon, et 50 % de l'uranium.

Cette stratégie de séparation de la Russie et de l’Europe de l’ouest et du centre a en outre comme conséquence de « limiter » l’Europe dans un micro territoire encastré à l’ouest du continent et de la couper des possibilitées immenses que lui offriraient un partenariat avec la Russie.

·         L’Europe à besoin de la Russie au niveau énergétique car la Russie dispose des réserves de gaz et de pétrole dont l’Europe à besoin. La Russie est un fournisseur stable comme le prouve sa relation avec la Turquie qui ne souffre elle d’aucun problème d’approvisionnement (il faut rappeller que les coupures d’approvisionnement lors de la guerre du gaz avec l’Ukraine étaient dus à cette dernière mais que les « médias » ont curieusement désignés la Russie comme coupable). La  question énergétique est essentielle car l’Europe sous commandement Américain se voit proposer des alternatives à hauts risques, comme celui de remplacer la Russie par la Turquie (pays de l’otan candidat à l’UE !) comme fournisseur énergétique (Nabucco au lieu de south stream) ou encore de participer à des conflits pour l’énergie (Irak) dont elle pourrait se passer.

·         L’Europe a besoin du fabuleux potentiel que représente la Russie, tant le potentiel humain avec ses 140 millions d’habitants, que géographique avec ses 17 millions de Km² et le débouché sur le pacifique. Elle deviendrait ainsi un acteur de premier plan notamment avec le monde asiatique, qui en en plein développement.

·         La Russie à également besoin de l’Europe et des Européens, tant pour l’acheminement de ses matières premières que pour ses technologies ou son capital humain, qu’elle pourrait utiliser afin de combler le dépeuplement à l’est de l’oural. Enfin et surtout, elle a besoin de l’Europe comme d’un allié naturel, complémentaire car issu de la même civilisation.

En effet cette unité Euro-Russe (seule garante de paix et d'indépendance pour les peuples du continent) n'est pas seulement vitale, elle est souhaitable car les Européens d'Occident ou de Russie appartiennent avant tout à la même civilisation.

Comme le disait récemment Natalia Narotchnitskaïa lors d’un colloque à Paris : « La vraie coopération entre la Russie et l’Europe pourrait cependant donner un nouvel élan à notre continent à l’aube du troisième millénaire. Les grandes cultures romano-germanique et russe-orthodoxe partagent un seul et même fondement apostolique, chrétien et spirituel. Les Européens, qu’ils soient Occidentaux ou Russes, ont donné au monde les plus grands exemples de la spiritualité latine et orthodoxe ».

Voilà pourquoi l’avenir de l’Europe, c'est la Russie.

lundi, 28 septembre 2009

Medvedev en Suisse

swisstxt20090921_11246331_3.jpg

 

Medvedev en Suisse

 

Medvedev se rendra en Suisse prochainement, pour une réunion de travail, immédiatement avant le sommet du G20 prévu à Pittsburgh aux Etats-Unis. Michael Ambuhl, le ministre suisse des affaires étrangères, a annoncé la couleur: “La Suisse a le désir de se faire une idée que ce qu’est la Russie aujourd’hui, en abandonnant les vieux stéréotypes de la guerre froide”. Quant à Hans Rudolf Merz, président de la Confédération Helvétique, il a déclaré: “La Russie est un pays stratégique. L’énergie, les fournitures de gaz et de pétrole sont des questions extrêmement importantes. Voilà pourquoi nous devons cultiver des relations”. Pour sa part, Medvedev a dit, très judicieusement, que “la Suisse est un pays libre de tout préjugé et en dehors des blocs”.

 

Cette parole n’est pas anodine, aussi peu anodine que celle d’Ambuhl. Elle exhorte, indirectement, tous les Etats d’Europe à se débarrasser de préjugés fabriqués par un certain “soft power”, à jeter aux orties tous les réflexes conditionnés qui empêchent de sortir de l’ornière (atlantiste) et d’envisager l’avenir en toute sérénité, à penser en dehors de toutes les logiques incapacitantes imposées jadis par les blocs. Mais le bloc soviétique n’existe plus. Il n’existe plus qu’un seul bloc qui impose, à la plupart des pays d’Europe, des “préjugés”: c’est le bloc rassemblé autour de Washington et de l’OTAN. Un bloc qui tente par tous les moyens de pérenniser les “stéréotypes de la guerre froide” qu’Ambuhl demande d’abandonner.

 

Le voyage de Medvedev en Suisse est l’occasion de forger entre Russes et Suisses des liens étroits sur les plans de l’énergie et des finances. Mais c’est aussi l’occasion de rendre hommage à la seule politique souverainiste qui soit: celle de la neutralité. Parce que la neutralité est, simultanément, une volonté de ne pas se laisser embrigader dans les errements de l’internationalisme américain. Et soit dit en passant, cet internationalisme-là n’est pas un concert volontaire de nations souveraines et libres, mais un cosmopolitisme régenté par un hegemon qui ne tolère aucune originalité comportementale. Le liant qui soude vaille que vaille ce cosmopolitisme ne relève pas d’une nécessité mais d’une propagande, inlassablement répétée par mille et un canaux médiatiques. Une propagande fabriquée de “préjugés” et de “stéréotypes”.

00:23 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : europe, affaires européennes, russie, suisse, actualité | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Le combat slave

skan_adress_006_ue__186.jpg

 

ARCHIVES de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Le combat slave:

Entretien avec Alexandre Konstantinovitch Belov

 

Notre interlocuteur Alexandre K. Belov est un homme d'une force mentale rare. Il a visiblement intégré le sens du combat intégral et l'élévation spirituelle qui lui don­nent une maîtrise de son art impressionnante. A. K. Belov rentre d'une tournée en Europe, où sa candidature a été retenue pour organiser des cours d'art martial slave dans les écoles de la police italienne. A cette occasion, il a été accueilli par nos amis milanais de Sinergie/Italia. J'ai eu personnellement l'insigne honneur de le ren­contrer à son domicile à Moscou le 11 avril 1996 (G. Sincyr).

 

Q.: Dois-je vous appeler Belov ou Sélidor, qui est votre surnom?

 

AKB: Comme vous voulez. Sélidor est un surnom païen. C'est un nom “guerrier”. Mais je vous rappelle que les Russes sont les derniers en Europe à avoir gardé la tradition purement indo-européenne de s'appeler d'un nom patronymique.

 

Q.: Quand avez-vous commencé à vous occuper du “combat slave”?

 

AKB: J'ai inventé ce type d'art martial. J'ai commencé à le mettre au point à partir de 1972. A la fin des an­nées 70, je pratiquais le karaté et j'avais obtenu le grade supérieur, la “ceinture noire”. Mais plus tard, le karaté a été interdit; j'ai alors entamé des recherches dans nos propres traditions et j'ai découvert une forme de combat russe très intéressante et très puissante. C'est en 1986 que j'ai achevé mon travail de rénovation de la pratique de cet art martial traditionnel oublié que j'ai appelé “combat slave”.

 

Q.: Quelles différences y a-t-il entre le “combat slave” et les autres formes de com­bat à mains nues?

 

AKB: Le “combat slave” est un système d'attaque. Nous ne nous défendons pas, nous attaquons. Le principe d'un combat de défense est absurde, à mes yeux, et n'est pas conforme aux mentalités des Spartiates et des Chevaliers européens. Le combat d'attaque est un combat honnête, sans procédés perfides. Cette tradition est à l'opposé de la tradition orientale. Celle-ci imite les mouvements des animaux alors que nous, nous imitons ceux des armes. Imiter les animaux constitue une perversité pour l'homme. Même chose pour les horoscopes orientaux: ils disent par exemple “c'est l'année du cochon” et ceux qui sont nés cette années-là disent “je suis un cochon”. Ce sont là des simplismes que je trouve dévalori­sants.

 

Q.: Pourtant, il y a un culte du loup chez les Promores, les habitants de la côte de la Mer Blanche?

 

AKB: Le Loup est le totem des tribus guerrières. Mon totem est le Loup Bleu.

 

Q.: Où en est la communauté païenne à Moscou?

 

AKB: En 1994, une scission a traversé le mouvement païen. Nous nous sommes séparés des païens qui n'avaient que des intérêts mercantiles, pour former une véritable communauté de guerriers. Le guerrier ne peut pas être fondamentalement un chrétien. En effet, comment concilier le métier des armes, le métier de la guerre, avec le précepte chrétien d'aimer son ennemi? Au combat, le guerrier hait son ennemi, sinon il ne peut pas le combattre efficacement. Un vrai guerrier sera toujours un païen. En tant que Russes et que Slaves, nous vénérons essentiellement Peroun, le Dieu du Tonnerre dans la mythologie de nos ancêtres.

 

Q.: Combien de membres compte votre communauté?

 

AKB: Nous sommes environ 40.000.

 

Q.: Coopérez-vous avec d'autres organisations païennes?

 

AKB: Non, avec aucune autre organisation. A mon grand regret, je ne connais aucune organisation qui re­cherche tout à la fois force et sagesse.

 

Q.: Vous préparez la création d'un grand mouvement. Pouvez-vous nous en dire quelques mots?

 

AKB: Notre objectif est de créer en Russie une communauté de professionnels de la guerre, du combat et de la défense, structurée par des référentiels païens. Pour moi, tout guerrier est un prolétaire: il ne pos­sède que sa force. Et seule sa force compte dans sa fonction. Je ne tiens pas le prolétariat pour une classe, mais pour un degré de développement mental.

 

(propos recueillis par Gilbert Sincyr et traduits par Anatoli M. Ivanov).

dimanche, 27 septembre 2009

Aux fils d'Ungern, qui par un bel été rouge à Pékin...

ungern.jpg

 

 

AUX FILS D’UNGERN,

QUI PAR UN BEL ETE ROUGE A PEKIN…

 

Laurent Schang

 

La nature est ainsi faite, malgré les deuils de nos proches, la proximité des cimetières « Ô France, vieux pays de la terre et des morts ! » , il est des aînés, des figures, au sens latin du mot, qu’on n’imagine pas devoir mourir un jour. Qui aurait l’idée saugrenue de peindre la baie de Saint-Malo sans son phare ? Afin de retarder l’instant fatidique, il plut au poète d’inventer un baume, une formule magique à l’usage des bonnes gens, et l’on ne parle plus de la perte de l’être cher mais de sa disparition, comme si la personne avait tourné le coin de la rue pour ne jamais revenir. Infinie pitié de la langue française… Disons donc, avec Monsieur le curé, que Jean Mabire a disparu le 29 mars dernier dans sa quatre-vingtième année, au terme d’une existence bien remplie, et restons-en là.

Par ma faute, notre relation épistolaire, je n’ose écrire notre amitié, était plutôt mal partie. Dans un article où j’encensais le travail de recherche effectué par un ex officier de l’armée soviétique sur la vraie vie du baron Ungern, Le Khan des steppes,* j’avais commis l’injustice toute journalistique de féliciter l’auteur pour l’abondance de ses sources, comparée à leur absence supposée dans la biographie romancée de Jean Mabire, Ungern le baron fou, parue en 1973. Je dis supposée parce que, sûr de mon fait, je ne m’étais pas donné la peine, élémentaire, de vérifier l’information avant de rédiger mon papier. Deux semaines plus tard, l’article paraissait dans un supplément littéraire à gros tirage. Sans se démonter, Jean Mabire m’écrivit au journal, un carton ferme mais poli accompagné d’une photocopie de sa bibliographie six pages complètes, impossibles à rater, en fin de livre. Honte à moi ! J’ai oublié depuis le contenu de ma réponse mais j’en devine la nature. L’imprudence est un péché de jeunesse et Mabire, je m’en rendrais compte au fil du temps, n’aimait rien tant qu’aller à la rencontre de ses jeunes lecteurs. J’ai conservé ce carton imprimé, un des rares écrits de sa main, et je le conserve encore dans son enveloppe, comme le plus précieux des autographes. La mansuétude n’était pas la moindre de ses qualités, je ne tarderais pas non plus à m’en apercevoir. En guise d’excuse, me connaissant j’ai dû lui griffonner à peu près ceci : « Cher Jean Mabire, (…) chose exceptionnelle chez moi, (…) pourtant, j’ai lu deux fois votre Ungern, (…) la première dans sa version de poche, la seconde dans sa réédition sous un nouveau titre : Ungern le dieu de la guerre, (…) mon livre de chevet, (…) Les Hors-la-loi, (…) Mourir à Berlin, (…) Les Samouraï, (…) L’Eté rouge de Pékin » Etc., etc. Rien que la vérité en somme.

S’en suivit dès lors une correspondance ininterrompue entre l’élève et son maître, même si au final, à relire ses lettres tapées à la machine, l’impression d’un commerce d’égal à égal domine. Jean Mabire m’y exposait l’avancée de son travail, ses projets de livres, et ils étaient nombreux, se souvenait des amis perdus, Roger Nimier, Dominique de Roux, Philippe Héduy, mais surtout, il m’interrogeait. Car derrière le bourreau d’écriture, le vénérable malouin curieux de tout, se cachait d’abord un éternel jeune homme, toujours inquiet de son époque et des siens. J’en veux pour preuve nos échanges de point de vue sur Israël – sa fascination pour les kibboutzim, leur idéologie de la charrue et de la grenade –, l’avenir de l’Union européenne, la subite redécouverte de Nietzsche, « le moins allemand des philosophes allemands », après les décennies de purgatoire. Vraiment, Christopher Gérard, dont on lira plus loin l’article, a raison de qualifier Jean Mabire d’honnête homme.

J’ai évoqué plus haut sa bonté d’âme, il me faut maintenant raconter l’extraordinaire générosité avec laquelle il me fit si souvent profiter des chefs-d’œuvre de sa collection. Mabire connaissait ma passion pour l’Extrême-Orient des années 30. Du rarissime Shanghai secret, petit bijou de reportage signé Jean Fontenoy aux portraits japonais de Sur le chemin des Dieux, de Maurice Percheron, des cadeaux de Jean Mabire mon préféré, avec son ex-libris frappé sur la page de garde, je ne compte plus le nombre de livres reçus par la poste en cinq ans. Combien en eut-il de ces gestes spontanés envers moi ? « Et va la chaîne de l’amitié… » me disait-il. Plus modestement, je lui envoyais mes nouvelles, des articles découpés dans la presse, sur l’histoire des ducs de Lorraine, la guerre de 1870, et mon livre dédicacé. Ainsi respections-nous l’antique principe du don et du contre don. « Chacun sert où il peut », aimait-il à me répéter en signe d’encouragement, lui qui confessait n’avoir été pleinement heureux qu’une fois dans sa vie en dehors de sa bibliothèque, en Algérie, où il servit de 58 à 59 sous l’uniforme de capitaine d’un commando de chasse.

Je n’insisterai pas sur la carrière du romancier ni sur la prodigalité de l’écrivain militaire, une centaine de livres, sans parler des rééditions. S’agissant du régionaliste normand, du fédéraliste européen, je renvoie le lecteur à l’entretien qui suit. Pour le détail de son œuvre, les intéressés trouveront sur Wikipédia une biobibliographie très correcte et des liens vers d’autres sites.

Jean Mabire n’aura pas vécu assez pour feuilleter la réédition de L’Eté rouge de Pékin, enrichie de sa préface inédite.** Dans son dernier courrier, déjà très affecté par la maladie, il me faisait part de sa tristesse de voir les rangs se dégarnir un peu plus autour de lui chaque année. Il n’en poursuivait pas moins d’arrache-pied la rédaction d’un essai sur la vie et l’œuvre du lieutenant-colonel Driant, de son nom de plume le capitaine Danrit, un soldat à sa mesure, rendu célèbre au début du siècle précédent par ses romans d’anticipation et tué en 1916 à la tête des 56e et 59e chasseurs, au deuxième jour de la bataille de Verdun. Une belle mort, aurait-il dit, la mort rêvée du centurion.

Jean je peux bien l’appeler Jean à présent avait choisi la voie martiale de l’écriture pour mieux se faire entendre dans ce pays « devenu silencieux et bruyant ». Il s’est tu avec, je l’espère, le sentiment du devoir accompli.

 

Jean Mabire, Paris 8 février 1927 – Saint-Malo 29 mars 2006

 

* Léonid Youzéfovitch, Editions des Syrtes, 2001.

** Editions du Rocher, 2006. Sur la genèse de ce livre, cf. l’entretien avec Eric Lefèvre ci-après.

Vers un Axe Berlin-Moscou?

gerhard-schroder-459796.jpg

 

 

 

 

ARCHIVES de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

 

Vers un Axe Berlin-Moscou?

 

Même si leurs cultures et leurs évolutions historiques respectives ont été très différentes, la Russie et l'Allemagne ont depuis longtemps un point commun, celui de n'avoir qu'imparfaitement assimilé le modèle occidental moderne; face à celui-ci, les deux pays ont suivi des évolutions “anormales”, de formes et d'ampleurs très différentes. Au cours des deux siècles qui viennent de s'écouler, la conscience de soi dans ces deux pays a été confrontée à des phénomènes culturels et politiques dérivés d'une modernité qu'ils ont désirée ou refusée mais qui, dans tous les cas de figure, a germé dans des milieux substantiel­lement anglais ou français. Allemands et Russes ont donc perçu ces milieux comme fondamentalement étrangers à eux et les ont rejettés.

 

Ensuite, la différence entre l'Allemagne et la Russie est moindre qu'entre l'Allemagne et l'Occident sur les plans de la géopolitique et de la géoculture, si bien que l'on peut affirmer que les catégories intellectuelles élaborées par les Allemands pour répondre aux questions de l'identité nationale allemande peuvent être reprises et repensées sans problème majeur dans le contexte russe. Signalons notamment que, dès les slavophiles de la première génération, la pensée russe a fait sienne la nostalgie des conservateurs ro­mantiques allemands: une société traditionnelle, communautaire et organique qu'ils opposaient à la so­ciété moderne, mécanique, atomisée et désacralisée (c'est l'antinomie spenglérienne entre Kultur et Zivilisation, et celle de Tönnies entre la Gemeinschaft et la Gesellschaft). Les difficultés à assimiler cette modernité occidentale ont débouché en Allemagne et en Russie sur l'affirmation de deux systèmes totali­taires, qui, quoique de signes opposés, étaient tous deux fondés sur le refus du modèle politico-culturel de l'Occident.

 

Le totalitarisme allemand a été battu militairement. Après cette défaite, la partie occidentale de l'Alle­ma­gne a connu une intégration rapide et sans heurts dans les communautés européennes et dans le systè­me occidental. Le totalitarisme russe, en revanche, s'est désintégré de l'intérieur, victime de son échec politique total. Aujourd'hui, ces deux pays  —l'Allemagne réunifiée et la nouvelle Russie postsovié­tique—  sont à la recherche d'une identité nouvelle, d'un nouveau rôle à jouer: le premier le cherche en Europe, le second dans tout l'espace eurasiatique. Tous deux suscitent de l'inquiétude: l'Allemagne parce que son poids politique commence à égaler son poids économique; la Russie parce qu'elle est en­core une très grande puissance militaire et qu'elle est géopolitiquement instable.

 

En un certain sens, la montée en importance de l'une correspond au déclin de l'autre, du moins en Europe centrale et orientale. Mais ce processus ne semble pas induire de la conflictualité entre les deux pays, au contraire, on semble revenir à un meilleur équilibre dans leurs zones d'influence respectives. Depuis la dissolution de l'URSS et la chute du Mur de Berlin, les rapports germano-russes sont de plus en plus in­tenses parce qu'il y a désormais confluence objective de bon nombre de leurs intérêts géopolitiques et économiques.

 

une européanisation sur un mode allemand

 

Du reste, même si l'Allemagne et la Russie se sont retrouvée chaque fois dans des camps opposés au cours des deux guerres mondiales, il serait erroné de penser que leurs consciences nationales se sont, sous la dictée des événements, pensées brusquement en opposition irréductible l'une à l'autre. En fait les deux guerres mondiales ont interrompu momentanément des processus de profonde interaction politique et culturelle entre les deux pays, comme on avait pu l'observer aux XVIIIième et XIXième siècles. Au cours de cette période la Russie s'est européanisée essentiellement sur un mode allemand et protestant (du point de vue russe, c'est là un mode “occidental”), a entretenu des rapports étroits  —y compris dy­nastiques—  avec le monde germanique et a maintenu un rapport de solide complicité avec la Prusse, autre puissance bénéficiaire de la partition de la Pologne. Les affrontements germano-russes pendant les suicides européens de 1914-18 et de 1939-45 et dans le conflit idéologique entre national-socialisme et communisme stalinien sont des exceptions et non pas la norme dans les rapports germano-russes.

 

anti-occidentalisme et germanophilie

 

On ne sera dès lors pas surpris d'apprendre que dans les milieux nationalistes russes actuels les posi­tions anti-occidentales s'accompagnent souvent de fortes tendances germanophiles. On peut l'observer par exemple dans le programme géopolitique énoncé par Jirinovski, personnage qui, malgré ses écarts verbaux, n'est pas aussi confus et velléitaire qu'on pourrait le croire à première vue (1). Ses incohérences et ses improvisations ne doivent pas nous empêcher de discerner chez lui un programme géopolitique suffisamment clair, où il pose la Russie comme opposée à la Chine et au monde islamique (surtout turc), et envisage de s'allier en Europe avec l'Allemagne, à l'égard de laquelle Jirinovski  —comme beaucoup de Russes d'hier et d'aujourd'hui—  nourrit des sentiments complexes, où se mêlent la peur et l'admiration. Le projet de Jirinovski semble reprendre quelques-uns des points essentiels du Pacte Molotov-Ribbentrop d'août 1939, notamment ceux qui impliquent un partage entre l'Allemagne et la Russie de l'Europe centrale et orientale: division de la Pologne, absorption de l'Autriche, de la République Tchèque et de la Slovénie par l'Allemagne, des républiques baltes, de l'Ukraine, de la Biélorussie et de la Moldavie par la Russie (2).

 

En d'autres occasions, Jirinovski semble songer non pas à une partition pure et simple de ces territoires, mais à des zones d'influence bien définies. Quoi qu'il en soit, le “projet” nationaliste et panslaviste de Jirinovski tente de récréer, de concert avec l'Allemagne, les solides liens économiques et culturels qui, pendant deux siècles, avaient contribué au développement de la Russie; de cette façon, il reprend à son compte  —et très clairement—  la ligne de la politique impériale pré-révolutionnaire.

 

«Elementy» et l'eurasisme

 

Dans l'orbite du néo-nationalisme russe, nous trouvons une autre option pro-allemande, qui ne se réfère pas à la ligne idéologico-politique du panslavisme mais à une forme d'anti-occidentalisme extrême, l'eurasisme. Dans cette perspective, l'alliance stratégico-militaire entre la Russie et l'Allemagne est con­sidérée comme l'axe porteur d'un espace eurasiatique et continental opposé au monde atlantique. Cette thématique est centrale dans une revue comme Elementy, organe officiel du néo-eurasisme russe.

 

Dans le premier numéro de cette revue, on trouve le compte-rendu d'une table ronde qui a eu lieu en 1992 à Moscou à l'Académie d'Etat-Major russe sur le thème “La Russie, l'Allemagne et les autres”. Parmi les participants, outre quelques représentants de la “nouvelle droite” européenne, il y avait les Généraux Klokotov, Pichev et Iminov, qui, tous trois, enseignent à cette Académie. Tous les participants se sont dits convaincus de la nécessité d'un puissant tandem politique et militaire germano-russe pour stabiliser le continent européen (3).

 

Le troisième numéro d'Elementy  publie des réflexions sur le rôle de l'Allemagne dans une rubrique intitu­lée “Le bloc continental” (4), reprend un article de Moeller van den Bruck (1876-1925), figure centrale de la Révolution Conservatrice allemande après 1918 («L'Allemagne entre l'Europe et l'Occident»). Cet article affirme la spécificité culturelle allemande et insiste sur la nécessité d'avoir des liens privilégiés avec la Russie pour permettre à l'Europe de se soustraire au déclin provoqué par l'“occidentalisation” moderne (5).

 

les thèses du Colonel Morozov

 

Mais, toujours dans ce n°3 d'Elementy, l'article qui exprime au mieux cette nouvelle tendance germano­phile du néo-eurasisme russe, est celui du Colonel E. Morozov, intitulé «Les relations germano-russes: l'aspect géostratégique» (6). Pour le Colonel Morozov, le rapprochement germano-russe a des motifs his­toriques: depuis Pierre le Grand, on constate que quand les deux pays sont alliés, ils en tirent des avan­tages considérables. Et des motifs géopolitiques: l'un est au centre de l'Europe, l'autre au centre de l'Eurasie. Les difficultés d'un éventuel rapprochement germano-russe sont les suivantes: elles sont d'ordre psychologique, car Russes et Allemands se méfient les uns des autres depuis les deux conflits sanguinaires de ce XXième siècle; elles sont ensuite d'ordre stratégique: l'Allemagne s'étend vers l'Est, ce qui est inévitable vu la faiblesse des petits Etats qui “se situent entre Stettin et Taganrog et entre Tallin et la Crète”, et vu la crise actuelle que traverse la Russie. Mais l'expansion économique allemande ac­tuelle ne heurte pas fondamentalement les intérêts vitaux de la Russie. Ces difficultés doivent être sur­montées, d'après Morozov, en prenant conscience des énormes avantages stratégiques qu'une alliance entre les deux pays pourrait apporter, surtout dans la double perspective de redéfinir les espaces euro­péens et de redimensionner la présence américaine en Europe et le rôle global de Washington dans le monde.

 

De telles thèses sont largement diffusées dans les rangs de l'opposition nationale-communiste et dans les hautes sphères de l'armée; elles acquerront du poids, deviendront de plus en plus visibles, si la situa­tion politique oblige à renforcer ces secteurs-là de la société russe. Mais dans ce cas, il n'est pas dit que l'hypothétique nouvel axe germano-russe soit réellement praticable, à moins que l'Allemagne réunifiée décide d'abandonner la politique d'intégration européenne que la RFA avait suivie sans réticence depuis les années 50. Mais ça, c'est un autre problème.

 

Aldo FERRARI.

(article paru dans Pagine Libere, n°11-12/1995).

 

Notes:

(1) Cf. «Le mie frontiere», entretien de Vladimir Jirinovski avec Rolf Gauffin, in Limes, n°1/1994, pp. 25-32.

(2) Sur Jirinovski circule un essai récent, confus et prétentieux, rédigé par deux “spécialistes” se dissimulant derrière des pseudo­nymes. En trad. it.: G. Frazer & G. Lancelle, Il libretto nero di Zirinovskij, Garzanti, Milano, 1994.

(3) Cfr. Elementy, n°1/1992, pp. 22-25.

(4) Cfr. Elementy, n°3/1993, pp. 21-22.

(5) Ibidem, pp. 30-33.

(6) Cfr. Elementy, n°5/1994, pp. 26-30.

samedi, 26 septembre 2009

L'axe paneuropéen Paris Berlin Moscou

2825116777_08__SCLZZZZZZZ_.jpg

 

L’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou

En 2002 sortait Paris – Berlin – Moscou par Henri de Grossouvre (1). Un an après, l’actualité semblait avaliser cette perspective avec le refus de la France, secondée par l’Allemagne et la Russie, de cautionner l’aventure étatsunienne en Irak. Cependant, l’invasion de ce pays, puis l’arrivée à la Chancellerie et à l’Élysée d’atlantistes patentés avortèrent cet axe embryonnaire et surtout de circonstance. Sept ans plus tard, Marc Rousset relance le concept qui présente l’avantage de dépasser à la fois le strict souverainisme national et l’utopie mondialiste.

Imposant, l’ouvrage est aussi stimulant. Nourri par les lectures d’Yves-Marie Laulan, Samuel Huntington, Julien Freund, Carl Schmitt, Alain de Benoist, Régis Debray, Emmanuel Todd, etc., Marc Rousset prend note de l’échec essentiel de la présente construction européenne et offre une alternative : l’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou.

La Françallemagne ou le chaos multiculturel


Hostile à l’adhésion turque, l’auteur s’inquiète de la sous-natalité des Européens et de son terrible corollaire, l’immigration extra-européenne de peuplement. Pour lui, les petits égoïsmes nationaux devraient s’estomper au profit d’une réconciliation des « deux poumons » de l’Europe : l’ensemble occidental romano-protestant et son pendant oriental orthodoxe. L’auteur de La nouvelle Europe de Charlemagne (1995) conçoit l’Europe de l’Ouest comme un espace « néo-carolingien » organisé autour d’une unité politique étroite entre Paris et Berlin. Marc Rousset veut la Françallemagne. « Y aura-t-il un jour un État franco-allemand comme il en fut naguère de l’Autriche-Hongrie ? La France et l’Allemagne constituent une continuité spatiale de plus de cent quarante millions d’habitants. La restauration de l’espace communautaire franc est la tâche dévolue tant aux Français qu’aux Allemands. Elle est la condition préalable à toute unité européenne […]. La France et l’Allemagne sont liées par une Schicksalgemeinschaft, une “ communauté de destin ”, affirme-t-il » (p. 133) (2). Plus loin, il ajoute sans hésiter qu’« il n’y a que la Françallemagne augmentée éventuellement de l’Italie, de l’Espagne, des États de Bénélux et de l’Autriche pour présenter un bloc suffisamment homogène, puissant et crédible, capable de s’appuyer ou de s’allier avec la puissance russe » (p. 532).

Or l’homogénéité ethnique, gage et/ou facteur de la puissance selon l’auteur, est-elle encore possible quand on connaît la déliquescence multiraciale de nos sociétés ? « Une société multi-ethnique conduit tout droit inexorablement, au mieux à des troubles et des affrontements, au pire au chaos et à la guerre civile, car il lui manque la philia, la fraternité sincère, réelle et profonde entre les citoyens » (p. 523), observe-t-il avec lucidité. Une France européenne ne présuppose-t-elle pas au préalable le retour au pays massif et inconditionnel des allogènes ?

Marc Rousset dénonce avec raison l’islamisation du continent, mais il ne voit pas que ce phénomène n’est que la conséquence inévitable de l’immigration. Plus grave, l’auteur reproduit sur l’islam les lieux communs les plus banaux. Il apporte son soutien à Robert Redeker, grand contempteur naguère du mouvement national. Il assimile l’islamisme à un « nouveau totalitarisme » (p. 300) ou à un « fascisme vert » (p. 301), ce qui est erroné et préjudiciable. Le concept de totalitarisme fait l’objet de discussions animées au sein de la communauté historienne. Quant à assimiler l’islamisme au fascisme, n’est-ce pas s’incliner devant l’« antifascisme » obsessionnel et perdre  la bataille du vocabulaire ? Enfin, vouloir, à la suite de quelques musulmans « éclairés », un « islam des Lumières » (p. 290), n’est-ce pas une ingérence dans une matière qui n’intéresse pas au premier chef les Européens ? Est-il vraiment indispensable de promouvoir la modernisation et/ou l’occidentalisation de l’islam, c’est-à-dire la contamination de cette religion par le Mal moderne, matérialiste et individualiste ?

L’économie comme instrument de la puissance

La dépression démographique n’est pas le seul défi à une possible entente paneuropéenne. Suivant le prix Nobel d’économie Maurice Allais, l’auteur conteste le libre-échange et la mondialisation, la « fuite des cerveaux » et la désindustrialisation. Il rappelle qu’« avec la délocalisation de son tissu industriel et depuis peu de ses services informatiques et de gestion, l’Europe perd chaque année des centaines de milliers d’emplois. Ce furent d’abord les emplois les moins qualifiés. Ce sont aujourd’hui des métiers à haute technicité qui sont externalisés vers l’Asie » (p. 49). Il s’effraie par ailleurs de la généralisation des emplois précaires du fait de la concurrence exacerbée planétaire aussi bien là-bas où le pauvre hère travaille dix heures par jour pour un salaire misérable qu’ici avec la pression exercée sur les rémunérations par les étrangers clandestins délinquants réduits en esclavage par un patronat immonde. Il craint en outre que l’essor des services à la personne ne soit « favorisé [que] par le contexte d’inégalité sociale croissante » (p. 55). Bref, « il est vital pour l’Europe de ne pas rester à l’écart du monde industriel moderne, de concevoir un développement industriel fort, créateur d’emplois pour la prochaine génération, d’assurer un renouvellement de son tissu manufacturier » (p. 56), clame  cet ancien directeur général chez Aventis, Carrefour et Veolia.

Cependant, l’industrie et le tertiaire à haute valeur ajoutée ne doivent pas mésestimer la caractère stratégique de l’agriculture. À rebours des thèses sociologiques du cliquet ou d’un secteur agricole surproductiviste et sans presque de paysans, on a la faiblesse de croire qu’une économie humainement satisfaisante suppose un équilibre entre les secteurs primaire, secondaire et tertiaire. Les questions agricole et nutritionnelle sont en passe de devenir des enjeux majeurs du XXIe siècle. Avec la maîtrise de l’eau douce et le contrôle des ressources naturelles énergétiques, la quête de terres arables devient une priorité, car elles sont à l’origine, par l’auto-suffisance qu’elle induit, de la souveraineté alimentaire. Signalons que dans cette recherche bientôt éperdue, l’Europe détient un atout considérable avec les immenses Terres noires fertiles de Russie et, surtout, d’Ukraine (3). Ce simple fait inciterait l’Europe, la France et l’Allemagne, à régler en arbitres le contentieux entre Moscou et Kiyv afin de rendre effective une entente géopolitique respectueuse de tous les peuples.

Surmonter les querelles nationales !


Concernant les relations entre l’Ukraine et la Russie, notre désaccord est total avec Marc Rousset. S’appuyant sur l’historiographie conventionnelle française, il mentionne la « Russie de Kiev » alors que le terme « Russie » n’apparaît qu’en 1727. Il aurait été plus juste de parler de « Rous’ » ou de « Ruthénie ». Certes, « pour les Russes, l’Ukraine est une partie intégrante de la Russie, une simple annexe de Moscou » (p. 363). Cela implique-t-il de nier l’existence du peuple ukrainien ? Marc Rousset le pense puisqu’il affirme que « l’identité ukrainienne n’existe pas. Cette identité, exception faite de la Galicie, est une variante de l’identité russe et non une nationalité constituée qui s’interposerait durablement entre Russie, Pologne et Slaves du    Sud » (p. 367). Ignore-t-il que la langue ukrainienne s’est formalisée deux décennies avant la langue russe ? L’auteur se fourvoie quand il explique que « le russe et l’ukrainien sont si proches que deux locuteurs parlant chacun sa langue se comprennent sans interprète » (p. 367). Autant écrire qu’un Castillan et un Catalan se comprennent sans mal… relevons une autre erreur : « à Kiev, il est difficile de trouver un panneau autre qu’en russe » (p. 366). En réalité, l’ukrainien domine largement l’espace public de la capitale de l’Ukraine. Sait-il enfin que les dirigeants de la « Révolution orange », Viktor Iouchtchenko et Yulia Timochenko, viennent des confins orientaux, russophones, du pays et non de Galicie ?

L’axe paneuropéen ne pourra pas faire l’économie d’une résolution équitable et sereine des lancinantes questions nationalitaires inter-européennes. La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou compenserait la complexe problématique impériale russe. Les Russes n’ont toujours pas fait le deuil de leur empire, tsariste puis soviétique, d’où cette politique agressive envers l’étranger proche (4) qui, par méfiance, se place sous la protection illusoire de l’O.T.A.N. Le projet paneuropéen de puissance transcenderait la frustration légitime de nos amis russes en un salutaire désir de renaissance géopolitique tant pour la Russie que pour les Allemands et les Français.

Comment alors acquérir cette puissance ? Force est de constater qu’à part les Russes, Français et Allemands ne se préoccupent guère de ce sujet. Le confort émollient de la Modernité les châtre psychologiquement. L’héroïsme est dévalorisé, remplacé par l’héroïne. En Afghanistan, les soldats allemands protestent contre leurs conditions de vie qu’ils jugent trop sommaires. Plus de soixante ans de rééducation mentale commencent à se payer et l’addition sera lourde. On aboutit au même constant en France. Le salut viendrait-il de la guerre économique mondiale ? En effet, le « nouveau continent » appliquerait la préférence communautaire, l’autarcie des grands espaces, le patriotisme économique et une coopération franco-germano-russe fort intense. « Il est temps que la France, l’Allemagne et la Russie coopèrent davantage pour de grands projets dans de nombreux d’une façon volontariste, que l’Eurosibérie se décide à enrayer son déclin, que les jeunes Européens désabusés, à l’égoïsme matérialiste hypertrophié, sortent de la torpeur passive et annihilante de la société de consommation futile et frustrante avec ses gadgets inutiles et loufoques, de l’idéologie américaine de la marchandise passion avec l’argent pour seul horizon, se guérissent d’une certaine forme de sida mental conduisant au renoncement à leur identité propre, à un idéal, au dépassement de soi » (p. 12). De ce fait, face à la montée des périls vitaux, « les Européens doivent […] se tourner vers les occidentalistes de la Russie, pousser les feux d’une réconciliation russo-ukrainienne et russo-géorgienne en lieu et place de la gifle inacceptable, du casus belli, que représenterait pour la Russie l’entrée de l’Ukraine et de la Géorgie dans l’O.T.A.N. » (p. 527).

Quel avenir pour le continent paneuropéen ?


L’enjeu est considérable. « L’Europe doit-elle être simplement un sous-ensemble d’un empire transatlantique à direction américaine, ou est-elle, au contraire, un moyen pour les nations européennes de contrebalancer, avec l’aide de la Russie, les menaces […] ainsi que le poids de “ l’Amérique-monde ” ? L’Europe occidentale doit-elle, tel un paquet bien ficelé, continuer à être intégrée au One World dirigé depuis Manhattan ? » (p. 12). Anxieux, Marc Rousset se demande si l’idée européenne « serait un moyen de créer enfin cette “ Troisième Rome ” dont ont toujours rêvé séparément la France, l’Allemagne et la Russie » (p. 198). « Cette Eurosibérie, prévient-il, serait véritablement indépendante, ne menacerait personne, mais personne également, que ce soit la Chine, les États-Unis ou l’Islam ne pourrait non plus véritablement indépendante la menacer. C’est pourquoi la France et l’Allemagne devraient remodeler l’architecture européenne en concertation avec la Russie » (pp. 198 – 199).

Dans ce plaidoyer se retrouve l’impératif démographique. Marc Rousset rappelle que l’Extrême-Orient russe est un quasi-désert humain tandis que sur l’autre rive de l’Amour vivent des millions de Chinois. Une alliance avec la Françallemagne renforcerait la Russie face à Pékin. « Un droit à l’occupation doit donc être reconnu aux peuples européens sur l’espace allant du nord du Portugal au détroit de Behring, en incluant le Nord-Caucase et la totalité de l’espace sibérien. Sur cet espace, cinq cents millions d’Européens et cent cinquante millions de Russes devraient pouvoir prolonger jusqu’à Vladivostok les frontières humaines et culturelles de l’Europe » (p. 46).

Il importe néanmoins de ne pas confondre les thèses de Marc Rousset avec les visions de Guillaume Faye ou les ratiocinations d’Alexandre Del Valle. « Nous croyons en l’Eurosibérie comme un simple concept géographique, mais en aucun cas à un empire eurosibérien qui aurait pu être réalisé par l’U.R.S.S. si elle avait gagné la Guerre froide et occupé l’Europe de l’Ouest. L’Eurosibérie de facto et de jure avec une seule capitale ne peut être réalisée que par une nation dominante disposant des ressources militaires, humaines et naturelles nécessaires, ce qui n’est le cas aujourd’hui d’aucune nation européenne, Russie incluse » (p. 532).

Dans ce cadre grand-européen, quelle en serait la langue institutionnelle et véhiculaire ? Sur ce point, M. Rousset surprend ! Il dénie tout droit à l’anglais d’être la lingua franca de l’Europe-puissance. Il soutient le multilinguisme, mais se détourne des langues vernaculaires, ce qui est dommage. Est-il partisan du retour au latin ? A priori oui, mais, après un examen minutieux, il l’estime inadapté à notre époque. Le français aurait-il toute sa chance comme le suggéra naguère l’archiduc Otto de Habsbourg-Lorraine ? Ce serait l’idéal parce que la langue de Stendhal est réputée pour sa richesse, sa clarté et son exactitude. Marc Rousset craint néanmoins qu’on accuse la France d’impérialisme linguistique. Il se déclare finalement favorable à l’espéranto. Envisagé comme une langue universelle, l’espéranto est surtout une marque du génie européen. Il serait une langue utilitaire européenne appropriée qui ne froisserait aucune susceptibilité linguistique tant nationale que régionale. On ne peut que partager ici son raisonnement.

La nouvelle Europe sur terre et… sur mer !


Le destin de la nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou serait-il uniquement continental, terrien ? Marc Rousset n’en doute pas et reprend à son compte la célèbre dichotomie géopolitique entre la Terre et la Mer. Or l’Union européenne dispose d’un domaine d’Outre-mer (dont de nombreux archipels non peuplés), ce qui en fait potentiellement la première puissance maritime au monde. Il est fâcheux que l’auteur accepte cette opposition désormais classique, mais fallacieuse. Non, la France n’est pas qu’une « nation terrienne » (p. 36) ! Au-delà des succès navals de Louis XVI et des échecs en mer de Napoléon Ier, rappelons  que l’amiral Darlan joua un rôle capital  dans la création d’une remarquable flotte de guerre à la fin de la IIIe République. Des remarques similaires s’appliquent à la Russie qui dispose d’une immense façade littorale arctique prise jusqu’à maintenant plusieurs mois par an par les glaces. Mais si le fameux « réchauffement climatique » se manifestait, la Russie ne deviendrait-elle pas de fait une puissance navale ? Songeons déjà qu’au temps de l’Union soviétique, les navires de l’Armée rouge patrouillaient sur toutes les mers du globe, preuve manifeste d’une indéniable volonté thalassocratique…

Il ne faut pas que ces quelques critiques gâchent le thème central de l’essai de Marc Rousset. Il a écrit, il y a neuf ans, Les Euroricains qui était un cri d’alarme contre la « yanquisation » du « Vieux Monde ». À cette colonisation globale, il apporte maintenant une solution envisageable à la condition que les hommes politiques saisissent le Kairos et que s’établisse sur tout notre continent une communion d’esprit bien aléatoire actuellement. Le dilemme est posé : nos contemporains accepteront-ils d’être des sujets transatlantiques ou bien des citoyens paneuropéens ? Accepteront-ils l’abêtissement ou le redressement ? Comprendront-ils enfin que la France et l’Europe, que nos nations et l’Europe ne s’opposent pas, mais se complètent ? Louis Pauwels concluait son « Adresse aux Européens sans Europe » par cette évidence : « Qui s’étonnerait, à y bien regarder, du peu de patriotisme de la jeunesse française ? Trop peu d’Europe éloigne de la patrie. Beaucoup d’Europe y ramène. Ils seront patriotes quand nous serons européens. » (5)

Georges Feltin-Tracol

Notes


1 : Henri de Grossouvre, Paris – Berlin – Moscou. La voie de l’indépendance et de la paix, L’Âge d’Homme, 2002.

2 : On peut dès lors très bien imaginer que Strasbourg devienne la capitale françallemande, ce qui faciliterait le transfert à Bruxelles de toutes les institutions européennes.

3 : L’Arabie saoudite vient ainsi d’acquérir en Ukraine des milliers d’hectares de terres fertiles.

4 : On appelle « l’étranger proche » les États issus de l’éclatement de l’U.R.S.S. et que le Kremlin considère comme son aire d’influence traditionnelle.

5 : Louis Pauwels, Le droit de parler, Albin Michel, 1981.

• Marc Rousset, La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou. Le continent paneuropéen face au choc des civilisations, Godefroy de Bouillon, 2009, 538 p., préface de Youri Roubinski, 37 €.

dimanche, 20 septembre 2009

Rusia y Dinamarca estudian tender el gasoducto Nord Stream por territorio danés

450px-NorthStream.png

Rusia y Dinamarca estudian tender el gasoducto Nord Stream por territorio danés

El jefe del Gobierno ruso, Vladímir Putin, sostuvo hoy una conferencia telefónica con su homólogo danés Lars Lokke Rasmussen, con quien estudió la posibilidad de tender el gasoducto Nord Stream (Corriente Norte) a través de la zona económica exclusiva de Dinamarca.

“Las partes examinaron la posibilidad de construir un tramo del gasoducto en la zona económica exclusiva de Dinamarca”, informó el portavoz del Gobierno ruso, Dmitri Peskov.

Al principio, cuando el proyecto llevaba el nombre de Gasoducto de Europa del Norte, se pensaba tenderlo hasta el Reino Unido. Pero luego, los parámetros del proyecto cambiaron y recibió el nombre de Nord Stream. Finalmente se decidió tenderlo hasta el territorio alemán.


El gasoducto Nord Stream será una nueva ruta de exportación del gas ruso principalmente a Alemania, Reino Unido, Holanda, Francia y Dinamarca. Su extensión alcanzará 1.220 km y el primer tramo deberá entrar a funcionar en 2010.

Extraído de RIA Novosti.

~ por LaBanderaNegra en Septiembre 16, 2009.

jeudi, 17 septembre 2009

A. Chauprade: la Russie, obstacle majeur sur la route de l'Amérique-Monde

RUSSIE-POUTINE.jpg

Aymeric Chauprade : La Russie, obstacle majeur sur la route de « l’Amérique-monde» 

[1]Alors que les Etats-Unis tentent, depuis le 11 septembre 2001, d’accélérer leur projet de transformation du monde à l’image de la société démocratique et libérale rêvée par leurs pères fondateurs, les civilisations non occidentales se dressent sur leur chemin et affirment leur volonté de puissance.

La Russie, en particulier constitue un obstacle géopolitique majeur pour Washington. Elle entend défendre son espace d’influence et montrer au monde qu’elle est incontournable sur le plan énergétique.

L’un des auteurs classiques de la géopolitique, Halford J. Mackinder (1861-1947), un amiral britannique, qui professa la géographie à Oxford, défendait comme thèse centrale que les grandes dynamiques géopolitiques de la planète s’articulaient autour d’un cœur du monde (heartland), l’Eurasie. Pivot de la politique mondiale que la puissance maritime ne parvenait pas à atteindre, l’Eurasie avait pour cœur intime la Russie, un Empire qui « occupait dans l’ensemble du monde la position stratégique centrale qu’occupe l’Allemagne en Europe ».

Autour de cet épicentre des secousses géopolitiques mondiales, protégé par une ceinture faite d’obstacles naturels (vide sibérien, Himalaya, désert de Gobi, Tibet) que Mackinder appelle le croissant intérieur, s’étendent les rivages du continent eurasiatique : Europe de l’Ouest, Moyen-Orient, Asie du Sud et de l’Est.

Au-delà de ces rivages, par-delà les obstacles marins, deux systèmes insulaires viennent compléter l’encadrement du heartland : la Grande-Bretagne et le Japon, têtes de pont d’un croissant plus éloigné auquel les États-Unis appartiennent.

Selon cette vision du monde, les puissances maritimes mondiales, les thalassocraties que défend Mackinder, doivent empêcher l’unité continentale eurasiatique.

Elles doivent donc maintenir les divisions est/ouest entre les principales puissances continentales capables de nouer des alliances (France/Allemagne, Allemagne/Russie, Russie/Chine) mais aussi contrôler les rivages du continent eurasiatique.

Cette matrice anglo-saxonne, que l’on peut appliquer au cas de l’Empire britannique au XIXe siècle, comme à celui de la thalassocratie américaine au XXe siècle, reste un outil pertinent pour comprendre la géopolitique d’aujourd’hui.

La théorie de Mackinder nous rappelle deux choses que les thalassocraties anglo-saxonnes n’ont jamais oubliées : il n’y a pas de projet européen de puissance (d’Europe puissance) sans une Allemagne forte et indépendante (or l’Allemagne reste largement sous l’emprise américaine depuis 1945) ; il n’y pas d’équilibre mondial face au mondialisme américain sans une Russie forte.

L’Amérique veut l’Amérique-monde ; le but de sa politique étrangère, bien au-delà de la seule optimisation de ses intérêts stratégiques et économiques du pays, c’est la transformation du monde à l’image de la société américaine. L’Amérique est

messianique et là est le moteur intime de sa projection de puissance. En 1941, en signant la Charte de l’Atlantique, Roosevelt et Churchill donnaient une feuille de route au rêve d’un gouvernement mondial visant à organiser une mondialisation libérale et démocratique. Jusqu’en 1947, l’Amérique aspira à la convergence avec l’URSS dans l’idée de former avec celle-ci un gouvernement mondial, et ce, malgré l’irréductibilité évidente des deux mondialismes américain et soviétique. Deux ans après l’effondrement européen de 1945, les Américains comprirent qu’ils ne parviendraient pas à entraîner les Soviétiques dans leur mondialisme libéral et ils se résignèrent à rétrécir géographiquement leur projet : l’atlantisme remplaça provisoirement le mondialisme.

Puis, en 1989, lorsque l’URSS vacilla, le rêve mondialiste redressa la tête et poussa l’Amérique à accélérer son déploiement mondial. Un nouvel ennemi global, sur le cadavre du communisme, fournissait un nouveau prétexte à la projection globale : le terrorisme islamiste. Durant la Guerre froide, les Américains avaient fait croître cet ennemi, pour qu’il barre la route à des révolutions socialistes qui se seraient tournées vers la Russie soviétique. L’islamisme sunnite avait été l’allié des Américains contre la Russie soviétique en Afghanistan. Ce fut le premier creuset de formation de combattants islamistes sunnites, la matrice d’Al Qaida comme celle des islamistes algériens… Puis il y eut la révolution fondamentaliste chiite et l’abandon par les Américains du Shah d’Iran en 1979. Le calcul de Washington fut que l’Iran fondamentaliste chiite ne s’allierait pas à l’URSS, contrairement à une révolution marxiste, et qu’il offrirait un contrepoids aux fondamentalistes sunnites.

Dans le monde arabe, ce furent les Frères musulmans qui, d’Egypte à la Syrie, furent encouragés. Washington poussa l’Irak contre l’Iran, et inversement, suivant le principe du « let them kill themselves (laissez-les s’entretuer) » déjà appliqué aux

peuples russe et allemand, afin de détruire un nationalisme arabe en contradiction avec les intérêts d’Israël. L’alliance perdura après la chute de l’URSS. Elle fut à l’œuvre dans la démolition de l’édifice yougoslave et la création de deux Etats musulmans en Europe, la Bosnie-Herzégovine puis le Kosovo.

L’islamisme a toujours été utile aux Américains, tant dans sa situation d’allié face au communisme durant la Guerre froide, que dans sa nouvelle fonction d’ennemi officiel depuis la fin de la bipolarité. Certes, les islamistes existent réellement ;

ils ne sont pas une création imaginaire de l’Amérique ; ils ont une capacité de nuisance et de déstabilisation indéniable. Mais s’ils peuvent prendre des vies, ils ne changeront pas la donne de la puissance dans le monde.

La guerre contre l’islamisme n’est que le paravent officiel d’une guerre beaucoup plus sérieuse : la guerre de l’Amérique contre les puissances eurasiatiques.

Après la disparition de l’URSS, il est apparu clairement aux Américains qu’une puissance continentale, par la combinaison de sa masse démographique et de son potentiel industriel, pouvait briser le projet d’Amérique-monde : la Chine. La formidable ascension industrielle et commerciale de la Chine face à l’Amérique fait penser à la situation de l’Allemagne qui, à la veille de la Première Guerre mondiale, rattrapait et dépassait les thalassocraties anglo-saxonnes. Ce fut la cause première de la Première Guerre mondiale.

Si la Chine se hisse au tout premier rang des puissances pensent les stratèges américains, par la combinaison de sa croissance économique et de son indépendance géopolitique, et tout en conservant son modèle confucéen à l’abri du démocratisme occidental, alors c’en est fini de l’Amérique-monde. Les Américains peuvent renoncer à leur principe de Destinée manifeste (Principle of Manifest Destiny) de 1845 ainsi qu’au messianisme de leurs pères fondateurs, fondamentalistes biblistes ou franc-maçons.

Alors que l’URSS venait à peine de s’effondrer, les stratèges américains orientèrent donc leurs réflexions sur la manière de contenir l’ascension de la Chine.

Sans doute comprirent-ils alors toute l’actualité du raisonnement de Mackinder. Les Anglo-Saxons avaient détruit le projet eurasiatique des Allemands, puis celui des Russes ; il leur fallait abattre celui des Chinois. Une nouvelle fois la Mer voulait faire pièce à la Terre.

La guerre humanitaire et la guerre contre le terrorisme seraient les nouveaux prétextes servant à masquer les buts réels de la nouvelle grande guerre eurasiatique : la Chine comme cible, la Russie comme condition pour emporter la bataille.

La Chine comme cible parce que seule la Chine est une puissance capable de dépasser l’Amérique dans le rang de la puissance matérielle à un horizon de vingt ans. La Russie comme condition parce que de son orientation stratégique découlera largement l’organisation du monde de demain : unipolaire ou multipolaire.

Face à la Chine, les Américains entreprirent de déployer une nouvelle stratégie globale articulée sur plusieurs volets :

* L’extension d’un bloc transatlantique élargi jusqu’aux frontières de la Russie et à l’ouest de la Chine.

* Le contrôle de la dépendance énergétique de la Chine.

* L’encerclement de la Chine par la recherche ou le renforcement d’alliances avec des adversaires séculaires de l’Empire du Milieu (les Indiens, les Vietnamiens,les Coréens, les Japonais, les Taïwanais…).

* L’affaiblissement de l’équilibre entre les grandes puissances nucléaires par le développement du bouclier anti-missiles.

* L’instrumentalisation des séparatismes (en Serbie, en Russie, en Chine, et jusqu’aux confins de l’Indonésie) et le remaniement de la carte des frontières (au Moyen-Orient arabe).

Washington a cru, dès 1990, pouvoir faire basculer la Russie de son côté, pour former un vaste bloc transatlantique de Washington à Moscou avec au milieu la périphérie européenne atlantisée depuis l’effondrement européen de 1945. Ce fut

la phrase de George Bush père, lequel en 1989 appelait à la formation d’une alliance « de Vladivostok à Vancouver » ; en somme le monde blanc organisé sous la tutelle de l’Amérique, une nation paradoxalement appelée, par le contenu même de son idéologie, à ne plus être majoritairement blanche à l’horizon 2050.

L’extension du bloc transatlantique est la première dimension du grand jeu eurasiatique. Les Américains ont non seulement conservé l’OTAN après la disparition du Pacte de Varsovie mais ils lui ont redonné de la vigueur : premièrement l’OTAN est passé du droit international classique (intervention uniquement en cas d’agression d’un Etat membre de l’Alliance) au droit d’ingérence. La guerre contre la Serbie, en 1999, a marqué cette transition et ce découplage entre l’OTAN et le droit international. Deuxièmement, l’OTAN a intégré les pays d’Europe centrale et d’Europe orientale. Les espaces baltique et yougoslave (Croatie, Bosnie, Kosovo) ont été intégrés à la sphère d’influence de l’OTAN. Pour étendre encore l’OTAN et resserrer l’étau autour de la Russie, les Américains ont fomenté les révolutions colorées (Géorgie en 2003, Ukraine en 2004, Kirghizstan en 2005), ces retournements politiques non violents, financés et soutenus par des fondations et des ONG américaines, lesquelles visaient à installer des gouvernements anti-russes. Une fois au pouvoir, le président ukrainien pro-occidental demanda naturellement le départ de la flotte russe des ports de Crimée et l’entrée de son pays dans l’OTAN.

Quant au président géorgien il devait, dès 2003, militer pour l’adhésion de son pays dans l’OTAN et l’éviction des forces de paix russes dédiées depuis 1992 à la protection des populations abkhazes et sud-ossètes.

À la veille du 11 septembre 2001, grâce à l’OTAN, l’Amérique avait déjà étendu fortement son emprise sur l’Europe. Elle avait renforcé l’islam bosniaque et albanais et fait reculer la Russie de l’espace yougoslave.

Durant les dix premières années post-Guerre froide, la Russie n’avait donc cessé de subir les avancées américaines. Des oligarques souvent étrangers à l’intérêt national russe s’étaient partagés ses richesses pétrolières et des conseillers libéraux proaméricains entouraient le président Eltsine. La Russie était empêtrée dans le conflit tchétchène, remué largement par les Américains comme d’ailleurs l’ensemble des abcès islamistes. Le monde semblait s’enfoncer lentement mais sûrement dans l’ordre mondial américain, dans l’unipolarité.

En 2000, un événement considérable, peut-être le plus important depuis la fin de la Guerre froide (plus important encore que le 11 septembre 2001) se produisit pourtant : l’accession au pouvoir de Vladimir Poutine. L’un de ces retournements de l’histoire qui ont pour conséquences de ramener celle-ci à ses fondamentaux, à ses constantes.

Poutine avait un programme très clair : redresser la Russie à partir du levier énergétique. Il fallait reprendre le contrôle des richesses du sous-sol des mains d’oligarques peu soucieux de l’intérêt de l’Empire. Il fallait construire de puissants opérateurs pétrolier (Rosneft) et gazier (Gazprom) russes liés à l’Etat et à sa vision stratégique. Mais Poutine ne dévoilait pas encore ses intentions quant au bras de fer américano-chinois. Il laissait planer le doute. Certains, dont je fais d’ailleurs partie puisque j’analysais à l’époque la convergence russo-américaine comme passagère et opportune (le discours américain de la guerre contre le terrorisme interdisait en effet momentanément la critique américaine à propos de l’action russe en Tchétchénie), avaient compris dès le début que Poutine reconstruirait la politique indépendante de la Russie ; d’autres pensaient au contraire qu’il serait occidentaliste. Il lui fallait en finir avec la Tchétchénie et reprendre le pétrole. La tâche était lourde. Un symptôme évident pourtant montrait que Poutine allait reprendre les fondamentaux de la grande politique russe : le changement favorable à l’Iran et la reprise des ventes d’armes à destination de ce pays ainsi que la relance de la coopération en matière de nucléaire civil.

Pourquoi alors l’accession de Poutine était-elle un événement si considérable ?

Sans apparaître à l’époque de manière éclatante, cette arrivée signifiait que l’unipolarité américaine, sans la poursuite de l’intégration de la Russie à l’espace transatlantique, était désormais vouée à l’échec, et avec elle, par conséquent, la grande stratégie visant à briser la Chine et à prévenir l’émergence d’un monde multipolaire.

Au-delà encore, nombre d’Européens ne perçurent pas immédiatement que Poutine portait l’espoir d’une réponse aux défis de la compétition économique mondiale fondée sur l’identité et la civilisation. Sans doute les Américains, eux, le comprirent-ils mieux que les Européens de l’Ouest. George Bush n’en fit-il pas l’aveu lorsqu’il avoua un jour qu’il avait vu en Poutine un homme habité profondément par l’intérêt de son pays ?

Le 11 septembre 2001 offrit pourtant l’occasion aux Américains d’accélérer leur programme d’unipolarité. Au nom de la lutte contre un mal qu’ils avaient eux-mêmes fabriqués, ils purent obtenir une solidarité sans failles des Européens (donc plus d’atlantisme et moins « d’Europe puissance »), un rapprochement conjoncturel avec Moscou (pour écraser le séparatisme tchétchéno-islamiste), un recul de la Chine d’Asie centrale face à l’entente russo-américaine dans les républiques musulmanes ex-soviétiques, un pied en Afghanistan, à l’ouest de la Chine donc et au sud de la Russie, et un retour marqué en Asie du Sud-est.

Mais l’euphorie américaine en Asie centrale ne dura que quatre ans. La peur d’une révolution colorée en Ouzbékistan poussa le pouvoir ouzbek, un moment tenté de devenir la grande puissance d’Asie centrale en faisant contrepoids au grand frère russe, à évincer les Américains et à se rapprocher de Moscou. Washington perdit alors, à partir de 2005, de nombreuses positions en Asie centrale, tandis qu’en Afghanistan, malgré les contingents de supplétifs qu’elle ponctionne à des Etats européens incapables de prendre le destin de leur civilisation en main, elle continue de perdre du terrain face à l’alliance talibano-pakistanaise, soutenue discrètement en sous-main par les Chinois qui veulent voir l’Amérique refoulée d’Asie centrale.

Les Chinois, de nouveau, peuvent espérer prendre des parts du pétrole kazakh et du gaz turkmène et construire ainsi des routes d’acheminement vers leur Turkestan (le Xinjiang). Pékin tourne ses espoirs énergétiques vers la Russie qui équilibrera à l’avenir ses fournitures d’énergie vers l’Europe par l’Asie (non seulement la Chine mais aussi le Japon, la Corée du Sud, l’Inde…).

Le jeu de Poutine apparaît désormais au grand jour. Il pouvait s’accorder avec Washington pour combattre le terrorisme qui frappait aussi durement la Russie. Il n’avait pas pour autant l’intention d’abdiquer quant aux prétentions légitimes de la Russie : refuser l’absorption de l’Ukraine (car l’Ukraine pour la Russie c’est une nation sœur, l’ouverture sur l’Europe, l’accès à la Méditerranée par la mer Noire grâce au port de Sébastopol en Crimée) et de la Géorgie dans l’OTAN. Et si l’indépendance du Kosovo a pu être soutenue par les Américains et des pays de l’Union européenne, au nom de quoi les Russes n’auraient-ils pas le droit de soutenir celles de l’Ossétie du Sud et de l’Abkhazie, d’autant que les peuples concernés eux-mêmes voulaient se séparer de la Géorgie ?

Mackinder avait donc raison. Dans le grand jeu eurasiatique, la Russie reste la pièce clé. C’est la politique de Poutine, bien plus que la Chine (pourtant cible première de Washington car possible première puissance mondiale) qui a barré la route à Washington. C’est cette politique qui lève l’axe énergétique Moscou (et Asie centrale)-Téhéran-Caracas, lequel pèse à lui seul ¼ des réserves prouvées de pétrole et près de la moitié de celles de gaz (la source d’énergie montante). Cet axe est le contrepoids au pétrole et au gaz arabes conquis par l’Amérique. Washington voulait étouffer la Chine en contrôlant l’énergie. Mais si l’Amérique est en Arabie Saoudite et en Irak (1ère et 3e réserves prouvées de pétrole), elle ne contrôle ni la Russie, ni l’Iran, ni le Venezuela, ni le Kazakhstan et ces pays bien au contraire se rapprochent. Ensemble, ils sont décidés à briser la suprématie du pétrodollar, socle de la centralité du dollar dans le système économique mondial (lequel socle permet à l’Amérique de faire supporter aux Européens un déficit budgétaire colossal et de renflouer ses banques d’affaires ruinées).

Nul doute que Washington va tenter de briser cette politique russe en continuant à exercer des pressions sur la périphérie russe. Les Américains vont tenter de développer des routes terrestres de l’énergie (oléoducs et gazoducs) alternatives à la toile russe qui est en train de s’étendre sur tout le continent eurasiatique, irriguant l’Europe de l’Ouest comme l’Asie. Mais que peut faire Washington contre le cœur énergétique et stratégique de l’Eurasie ? La Russie est une puissance nucléaire.

Les Européens raisonnables et qui ne sont pas trop aveuglés par la désinformation des médias américains, savent qu’ils ont plus besoin de la Russie qu’elle n’a besoin d’eux. Toute l’Asie en croissance appelle le pétrole et le gaz russe et iranien.

Dans ces conditions et alors que la multipolarité se met en place, les Européens feraient bien de se réveiller. La crise économique profonde dans laquelle ils semblent devoir s’enfoncer durablement conduira-t-elle à ce réveil ? C’est la conséquence positive qu’il faudrait espérer des difficultés pénibles que les peuples d’Europe vont endurer dans les décennies à venir.

Aymeric CHAUPRADE

Source du texte : ACADÉMIE DE GÉOPOLITIQUE DE PARIS [2]


Article printed from :: Novopress.info Flandre: http://flandre.novopress.info

URL to article: http://flandre.novopress.info/5057/aymeric-chauprade-la-russie-obstacle-majeur-sur-la-route-de-l%e2%80%99amerique-monde/

URLs in this post:

[1] Image: http://flandre.novopress.info/wp-content/uploads/2009/09/chauprade_barbe.jpg

[2] ACADÉMIE DE GÉOPOLITIQUE DE PARIS: http://www.strategicsinternational.com/

mardi, 01 septembre 2009

Variations autour du thème "Russie"

russie-316.jpg

 

 

Robert STEUCKERS:

 

Variations autour du thème “Russie”

 

Discours de Robert Steuckers lors du colloque de la “nouvelle alternative solidariste” à Ruddervoorde/Bruges, 11 octobre 2008

 

La Russie  –vous l’entendez et le lisez chaque jour dans les médias du système—  est l’objet d’une inlassable propagande, toujours dénigrante et négative, d’un harcèlement permanent des esprits, qui la campent comme un immense foyer où se succèdent sans discontinuité horreurs et entorses à la “bonne gouvernance”; cette propagande a été bien réactivée depuis la “Guerre d’août” dans le Caucase, il y a deux mois. Cette propagande négative, cette “Greuelpropaganda” (“gruwelpropaganda”), n’est pas nouvelle, car, les historiens le savent, elle s’est déjà déployée dans l’histoire des deux derniers siècles, essentiellement pour deux faisceaux de motifs:

 

Premier faisceau de motifs:

D’abord à cause de l’autocratisme de certains tsars: Paul I, qui voulait marcher avec Napoléon contre l’Inde britannique et démontrait, par cette volonté, que la maîtrise de la Mer Noire et de la Caspienne permettait à terme de déboucher en Inde, arsenal civil et source de profit pour la puissance dominante anglaise; et Nicolas I, qui a entamé la marche des armées russes en direction du Caucase et de l’Asie centrale; ce tsar voulait régler la question d’Orient en liquidant l’Empire ottoman, ce qui a déclenché la Guerre de Crimée. Ce reproche d’autoritarisme fait partie d’un arsenal propagandiste récurrent car il s’adresse également à des tsars d’ouverture tels Alexandre II, qui lance un programme d’industrialisation, de modernisation et de libération des serfs, ou Nicolas II, qui sera tantôt ange tantôt démon, selon les fluctuations de la géopolitique anglaise, qui entendait d’abord ébranler la Russie pour s’emparer des pétroles du Caucase puis s’allier à elle dans le cadre de l’Entente pour faire pièce à une Allemagne devenue ennemie principale, prenant ainsi, au titre de cible première des propagandes dénigrantes, le relais de l’Empire des Tsars comme le démontre d’excellente manière le géopolitologue suédois William Engdahl dans son ouvrage sur la guerre du pétrole (1). Nicolas II partage avec les Mexicains Zapata et Pancho Villa le triste honneur d’avoir été tout à la fois, en l’espace de quelques années seulement, tyran sanguinaire et brave allié. Les deux Mexicains, rappellons-le, voulaient nationaliser les pétroles de leur pays, les arracher aux tutelles britannique et yankee... L’an passé, nous avons eu à déplorer la disparition de Henri Troyat, de l’Académie Française, écrivain de souche russe et arménienne, qui nous a laissé des biographies de tous les tsars: elles nous expliquent en long et en large les grands axes de leur politique, dans un langage clair et limpide, accessible à tous, sans jargon. Je conseille à chacun de vous de s’y référer.

 

Deuxième faisceau de motifs:

Ensuite à cause du bolchevisme et de la bolchevisation de la Russie, après 1917, la démonisation propagandiste se focalise sur l’idéologie et la pratique du communisme. Elle a la tâche bien plus facile car le tsarisme était moins démonisable que le soviétisme. Le monde catholique belge et flamand, notamment, dépeint la Russie soviétisée comme le foyer du mal absolu, surtout pour empêcher tout envol du communisme en Belgique même; la publication de l’album d’Hergé, “Tintin au pays des Soviets” relève, pour ne donner qu’un seul exemple, de cet anti-communisme catholique et militant des années 20 et 30. Cette propagande anti-soviétique a laissé des traces: en dépit de l’effondrement définitif de l’Union Soviétique et de la débolchevisation de la Russie, les réflexes anti-russes mobilisés pour combattre le soviétisme, notamment la propagande en faveur de l’OTAN, restent ancrés dans les mentalités, incapables d’intégrer les nouvelles donnes géopolitiques d’après 1989. A cet anti-communisme, mis en sourdine à partir de 1941 pour raisons d’union sacrée contre le nazisme et pour couvrir les agissements de la résistance communiste (en tant qu’instrument de la “guerilla warfare”), succède un anti-stalinisme, partagée par certains communistes ailleurs dans le monde; cet anti-stalinisme prête tous les travers du communisme à la seule gestion stalinienne de l’Union Soviétique. Comme Nicolas II, tyran sanguinaire puis “bon père des peuples de toutes les Russies” selon la propagande londonienne, Staline sera un monstre, puis le brave “Uncle Joe”, puis le “petit père des peuples” puis à nouveau un dictateur infréquentable.

 

Dans mon article, intitulé “La diplomatie de Staline” (cf. http://euro-synergies.hautetfort.com), et dont la teneur m’a été souvent reprochée (2), j’ai souligné l’originalité, après 1945, de la diplomatie soviétique, qui pariait sur des rapports bilatéraux entre puissances et non sur une logique des blocs, du moins au départ. De fait, le pacte de Varsovie nait en 1955 seulement, après la mort du leader géorgien. Ce Pacte a bétonné la logique des blocs et est l’oeuvre du post-stalinisme que Douguine dénonce, aujourd’hui à Moscou, comme une émanation d’un certain “atlanto-trotskisme”. En dépit d’atrocités comme l’élimination des koulaks dans les terres noires et si fertiles d’Ukraine, qui a privé l’Union Soviétique d’une paysannerie capable de lui assurer une totale autonomie alimentaire, et comme les épurations du parti et de l’armée lors des grandes purges de 1937, il faut objectivement mettre à l’acquis de la période stalinienne tardive les notes de 1952, proposant la neutralisation de l’Allemagne sur le modèle prévu pour l’Autriche, en accord avec le filon “austro-marxiste” de la social-démocratie autrichienne.

 

Déstalinisation et logique des blocs

 

La volonté de réhabiliter les rapports bilatéraux entre puissances, selon les vieux critères avérés de la diplomatie classique, et le projet de neutralisation d’une large portion du centre de l’Europe entre l’Atlantique et la frontière soviétique, dont l’arsenal industriel allemand appelé à renaître de ses cendres (“les Hitlers vont et viennent, l’Allemagne demeure”), sont deux positions qui ont l’une et l’autre déplu profondément à Washington et entraîné ipso facto une propagande anti-stalinienne puis, dans la foulée, la déstalinisation, au profit d’une logique des blocs parfaitement schématique, qui condamnait l’Europe à la division et la stagnation, au blocage géopolitique permanent. La déstalinisation, en dépit de la “bonne figure” qu’elle se donnait, interdisait de revenir au message de la fin de l’ère stalinienne: diplomatie classique et neutralisation de l’Allemagne.

 

La Chine actuelle, partiellement héritière de ce communisme de la fin des années 40 et du début des années 50, préconise des relations internationales basées sur des rapports bilatéraux, dans le respect des identités politiques des acteurs de la scène internationale, en dehors de toute  formation de blocs et de toute idéologie “immixtionniste” (wilsonisme, stratégie cartérienne et reaganienne des “droits-de-l’homme”, etc.) (cf. nos articles sur la question: Robert Steuckers, “Les amendements chinois au ‘nouvel ordre mondial’” & “Modernité extrême-orientale et modèle juridique ‘confucéen’”; ces deux  articles sont repris dans: Robert Steuckers, “Le défi asiatique et ‘confucéen’ au ‘nouvel ordre mondial’”, Synergies Européennes, Forest, 1998; les deux textes figurent dorénavant sur: http://euro-synergies.hautetfort.com).

 

Le retour des thématiques anti-autocratiques

 

Avec Poutine et Medvedev, la propagande habituelle recompose les thématiques de l’anti-autocratisme, de l’hostilité à tout pouvoir non seulement fort mais simplement solide, à celle des résidus de communisme, dans le sens où toute réorganisation des anciennes terres de l’Empire russe et toute velléité de contrôler l’économie et le marché des matières premières s’assimilent à un retour au communisme. Ce sont des pièges dans lesquels il ne faut pas tomber, en tenant compte des arguments suivants:

-          la Russie a besoin d’un pouvoir plus contrôlant que les terres situées à l’Ouest du sous-contient européen, la coordination des ressources de son immense territoire exigeant davantage de directivité;

-          dans une perspective européenne et russe, le contrôle pacifique de l’Asie centrale, du Caucase, de la Caspienne et de la Mer Noire est un atout géopolitique et géostratégique important, dont il ne faut pas se défaire avec légèreté, sous peine de voir triompher le voeu le plus cher de la géopolitique anglo-saxonne, dont les fondements ont été théorisés par Halford John Mackinder et Homer Lea dans la première décennie du 20ème siècle;

-          la démonisation de la Russie a une forte odeur d’hydrocarbure; chaque étape historique de cette démonisation est marquée par l’un ou l’autre enjeu pétrolier; hier comme aujourd’hui, dans le Caucase;

-          le communisme, en tant que messianisme qui s’exporte et ébranle les équilibres politiques des nations voisines, a cessé d’exister et les réflexes défensifs que son existence dictait n’ont plus lieu d’être et vicient, s’ils jouent encore, la perception de la réalité actuelle;

-          la propagande anti-russe d’hier et d’aujourd’hui participe de la stratégie immixtionniste et internationaliste mise en oeuvre à Londres hier, à Washington depuis la présidence de Teddy Roosevelt et du système wilsonien; elle a eu pour résultat de torpiller toutes les  oeuvres d’unification continentale et de faire, à terme, de l’Europe un nain politique, en dépit de son gigantisme économique.

 

L’historiographie dominante fait donc de la Russie un croquemitaine et cette historiographie est dictée aux agences médiatiques, à la presse internationale, par des officines basées à Londres ou à Washington. Il s’agit désormais, dans les espaces de liberté comme le nôtre, de contrer les poncifs toujours récurrents de cette propagande et de se référer à une autre interprétation de l’histoire, à une historiographie alternative, différente aussi de l’historiographie soviétique/communiste (liée à l’historiographie anglo-saxonne pour les événements de la seconde guerre mondiale).

 

Le souvenir de “Pietje Kozak”

 

Dans le cadre restreint du mouvement flamand, il faut se rappeler que sans les cosaques d’Alexandre I, les provinces sud-néerlandaises n’auraient jamais été libérées du joug napoléonien et que leur identité culturelle et linguistique aurait disparu à tout jamais si elles étaient demeurées des départements français. Si un quartier s’appelle “Moscou” à Gand, c’est en souvenir des libérateurs cosaques, conduits par “Pietje Kozak”, dont les chevaux avaient galopé d’Aix-la-Chapelle aux rives de l’Escaut, en passant par Bruxelles, où ils avaient campé à la Porte de Louvain, l’actuelle Place Madou. Les cosaques n’ont pas laissé de mauvais souvenirs. Ils ne sont pas restés longtemps: ils ont foncé vers Paris, tandis que les Gantois volontaires étaient incorporés dans l’armée prussienne, armée pauvre, levée en masse, selon les consignes de Clausewitz, qui voulait faire pièce à la conscription républicaine puis napoléonienne. Cette armée devait vivre sur la population, notamment sur la rive orientale de la Meuse que la Prusse convoitait, en inquiétant les Anglais, qui voyaient une grande puissance s’approcher d’Anvers et occuper une vallée mosane menant directement au Delta et au Hoek van Holland, à une nuit de navire à voile de Londres, comme au temps de l’Amiral De Ruyter. Les réquisitions prussiennes ont laissé de mauvais souvenirs, surtout en pays de Liège, dans les Ardennes et le Condroz. Les Anglais, eux, payaient tout ce qu’ils prenaient et se taillaient bonne réputation: c’est là qu’il faut voir l’origine de l’anglophilie belge.

 

Après l’effondrement du système napoléonien qui avait l’avantage peut-être d’unir l’Europe mais le désavantage de le faire au nom des philosophades modernistes de la révolution française, l’Europe acquiert, à Vienne en 1814-15, une sorte d’unité restauratrice. Ce sera la Pentarchie, le concert des cinq puissances (Prusse, Russie, Angleterre, Autriche, France) dont le territoire s’étend de l’Atlantique au Pacifique. Nous avons donc pour la première fois dans l’histoire un espace européen et eurasien entre les deux plus grands océans du globe. La cohérence de cet espace demeure un idéal et une nostalgie, en dépit des faiblesses de cette Pentarchie, sur lesquelles nous reviendrons. Rappellons qu’elle subsistera à peu près intacte jusqu’en 1830 et que les premières lézardes de son édifice datent justement de cette année fatidique de 1830, de la révolte belge de Bruxelles, où Français et Britanniques acceptent les exigences des insurgés, les uns dans l’espoir d’absorber petit à petit le pays; les autres pour briser l’unité des Pays-Bas, qui alliaient de considérables atouts à l’aube de la révolution industrielle: une industrie métallurgique liégeoise, des mines de charbons de Mons à Maastricht, une bonne industrie textile en Flandre et dans la Vallée de la Vesdre, une flotte hollandaise impressionnante et des colonies en voie de développement en Insulinde (Indonésie), un pôle germanique continental et littoral aussi attrayant, sinon plus attrayant, pour les populations d’Allemagne du Nord que la Prusse et le Brandebourg (3). Tandis que Français et Britanniques favorisaient la sécession belge, les autres puissances européennes y voyaient une première entorse à la cohésion “pentarchique” et le triomphe d’un particularisme stérile.

 

La Doctrine de Monroe contre la Pentarchie

 

Preuve des potentialités immenses de la “Pentarchie”: c’est à l’époque de sa plus forte cohésion que les puritains d’Amérique du Nord s’en inquiètent, tout en devinant les potentialités de leur propre vocation continentale et bi-océanique dans le Nouveau Monde. La proclamation de la Doctrine de Monroe en 1823 constitue un défi américain à cette formidable cohésion européenne qui s’impose sur la masse continentale eurasiatique (4). Il fallait de l’audace pour oser ainsi défier les cinq puissances de la Pentarchie. Avec un culot inouï, sans avoir à l’époque les moyens de défendre sa politique sur le terrain, James Monroe a osé prononcer ce programme d’exclusion des puissances européennes, à commencer par l’Espagne affaiblie, car si la Pentarchie l’avait voulu, elle se serait partagé le Nouveau Monde en zones d’influence et les treize colonies rebelles n’auraient pas pu dépasser les Appalaches ni atteindre le bassin du Mississippi si Bonaparte n’avait pas eu la funeste idée de leur vendre la Louisiane en 1803.

 

La Guerre de Crimée (5) va définitivement rompre la cohésion de la Pentarchie et inaugurer l’ère des compositions et recompositions d’alliances qui conduiront à l’explosion de 1914, à la première guerre mondiale et à l’implosion de la culture européenne. Le Tsar Nicolas I entendait parachever le travail de liquidation de l’Empire ottoman, commencé en 1828, où les flottes anglaise, française et russe, de concert, avaient forcé le Sultan à concéder l’indépendance à la Grèce, qui aura un roi bavarois. L’objectif du Tsar était de liquider progressivement l’Empire ottoman, corps étranger à la Pentarchie sur le sous-continent européen, en protégeant puis en accordant l’indépendance aux sujets chrétiens (orthodoxes) de la Sublime Porte. La logique du Tsar est continentaliste: il veut un élargissement de “l’ager pentarchicus” et la ré-occupation de positions statégiques-clefs que les impérialités européennes, romaines et byzantines, avaient tenues avant les raz-de-marée arabe et ottoman. L’élargissement de “l’ager pentarchicus” impliquait, après la parenthèse de l’indépendance grecque soutenue par tous, d’englober tout le territoire maritime pontique et de débouler, partiellement ou par nouvelles petites puissances orthodoxes interposées, dans le bassin oriental de la Méditerranée, avec la Crète et Chypre, à proximité de l’Egypte. La logique de l’Angleterre est, elle, maritime, thalassocratique. Pour le raisonnement impérial anglais, l’Empire des Tsars, avec ses immenses profondeurs territoriales et ses énormes ressources, ne peut pas s’avancer aussi loin vers le Sud, peser de tout son poids sur la ligne maritime Malte-Egypte, au risque de couper la voie vers les Indes, car on compte déjà à Londres percer bientôt l’isthme de Suez.

 

Le centre névralgique de l’Empire britannique n’est plus en Europe

 

Les préoccupations anglaises du temps de la Guerre de Crimée (1853-1856) demeurent actuelles, à la différence près que ce sont désormais les Américains qui les font valoir. Pour Londres hier et pour Washington aujourd’hui, la Russie, ni aucune autre puissance européenne d’ailleurs, ne peut avoir la pleine maîtrise de la Mer Noire ni disposer d’une bonne fenêtre sur la Méditerranée orientale. En 1853, Londres prendra fait et cause pour la Turquie, entraînant la France dans son sillage, et les deux puissances occidentales ruinèrent ainsi définitivement la notion féconde et apaisante de Pentarchie: elles sont responsables devant l’histoire de toutes les catastrophes qui ont saigné l’Europe à blanc depuis la Guerre de Crimée. L’unité et la cohésion de l’Europe ne comptent pas pour Londres et Paris, puissances excentrées par rapport au coeur du sous-continent. L’Occident s’alliera avec n’importe quelle puissance ou n’importe quelle peuplade extérieure à l’Europe pour détruire toute force de cohésion émanant du centre rhénan, danubien ou alpin de notre sous-continent. Cette stratégie de trahison et d’anti-européisme avait commencé avec François I, le Sultan et Barberousse au 16ème siècle (6); l’Angleterre vole, elle, au secours de l’Empire ottoman moribond, prolonge la servitude des peuples balkaniques en ne montrant aucune solidarité avec des Européens croupissant sous un joug musulman, parce que le centre névralgique de la puissance britannique ne se situe plus en Europe, ni même dans la métropole anglaise, mais en Inde. L’Angleterre possède donc un empire dont le centre, sur le globe, est le sous-continent indien; bien qu’hegemon, elle se situe en périphérie de l’espace-tremplin initial, du coeur même de son propre empire et combat tout ce qui, autour de l’Inde, pourrait, à moyen ou long terme, en réalité ou en imagination, en menacer l’intégrité territoriale. Les logiques française et anglaise de la seconde moitié du 19ème siècle ne sont donc plus euro-centrées mais exotiques. Ce glissement scelle la fin de la cohésion pentarchique.

 

C’est à la suite de la Guerre de Crimée que le terme “Occident” devient péjoratif en Russie. Nul autre que Dostoïevski ne l’a expliqué aussi clairement que dans son “Journal d’un écrivain”. En 1856, quand la Russie doit accepter les clauses humiliantes de la paix, une première césure traverse l’Europe pentarchique, une césure qui constitue une première étape vers l’épouvantable cataclysme d’août 1914. En effet, la césure sépare désormais une Europe occidentale (France et Angleterre), d’une Europe centrale et orientale (Prusse, Russie, Autriche-Hongrie). En dépit de la méfiance autrichienne avant et pendant la Guerre de Crimée, qui voyait d’un mauvais oeil la Russie qui tentait de s’installer dans le delta du Danube en prenant sous sa protection les principautés roumaines (Valachie et Moldavie), de confession orthodoxe. Sous l’impulsion de Bismarck, les trois puissances impériales chercheront à reproduire, à elles seules, la cohésion de la Sainte-Alliance. Après l’unification allemande de 1871, on parlera de “l’alliance des trois empereurs” (“Drei-Kaiserbund”). Bismarck exhortera les Autrichiens à ne pas succomber aux tentations occidentales, ce qui sera d’autant plus aisé que l’Autriche n’a jamais eu de colonies extra-européennes.

 

La crainte de voir renaître un Empire russo-byzantin sur le Bosphore

 

Le théoricien le plus pertinent de la “Pentarchie” fut incontestablement Constantin Frantz (7): c’est lui qui a démontré que “l’excentrage” exotique de l’Angleterre en direction des Indes principalement et de la France en direction de l’Afrique (Algérie, Saint-Louis/Dakar, Côte d’Ivoire, Gabon, avant 1860) brisait la cohésion de l’Europe et pouvait induire sur son territoire des conflictualités générées ailleurs. La Guerre de Crimée est la première conflagration inter-européenne après 1815, dont les motivations dérivent de préoccupations extra-européennes: l’Angleterre ne veut pas d’une flotte russe en Méditerranée orientale parce que cela menace l’Egypte et comporte le risque de voir s’installer des postes et bases russes en Mer Rouge, avec accès à l’Océan Indien; la France n’en veut pas davantage car une flotte russe dans les bases auparavant ottomanes risque de menacer l’Algérie fraîchement conquise, qui, rappelons-le, était tout de même la base la plus avancée des Ottomans en Méditerranée occidentale au 16ème siècle. La crainte partagée par Paris et Londres en 1853 était de voir se reconstituer, sur les débris de l’Empire ottoman, un empire russo-byzantin rechristianisé capable, avec les réserves russes, de contrôler les principaux points stratégiques à la charnière des masses continentales asiatiques et africaines, et de remplacer ainsi l’Empire ottoman. Cette crainte n’existait pas encore vingt-cinq ans auparavant, au moment de l’accession de la Grèce à l’indépendance: la France n’avait pas encore débarqué ses troupes en Algérie et l’Angleterre escomptait simplement faire de la Grèce un satellite plus solide que le seul petit cordon d’îles ioniennes, dont elle avait fait, en 1815, une république sous protectorat anglais.

 

Revenons à la propagande anti-russe actuelle: elle remonte à l’époque de la Guerre de Crimée. Aujourd’hui encore, les linéaments de cette propagande et les motifs géopolitiques qu’elle dissimule ou travestit demeurent et s’utilisent toujours. Et montrent plus de virulence dans la sphère anglo-saxonne et en France qu’ailleurs en Europe, mis à part les pays de l’est fraîchement libéré du communisme. Les cénacles, journaux, publications des milieux dits “nationalistes” ou “nationaux-conservateurs” de l’Occident français et anglais évoquent bien moins souvent une alliance euro-russe que leurs pendants d’Europe centrale germanique (Allemagne, Autriche). En Flandre, nous assistons à une contagion anglaise, à une véritable “anglo-saxonnite aigüe”, totalement contraire aux intérêts européens de cette région liée à la Rhénanie-Westphalie, et improductive pour tout combat métapolitique face au danger français, à l’heure où la conquête n’est plus militaire ou culturelle mais économique.

 

Les “nouveaux philosophes”, instruments de la russophobie

 

La propagande anti-russe, et aujourd’hui hostile à Poutine, fonctionne à merveille dans la sphère linguistique anglo-saxonne. C’est au départ d’officines de moins en moins britanniques et de plus en plus américaines qu’elle se déploie sur la planète entière. En France, cette propagande se distille, sous un déguisement différent, au départ, non pas de cercles conservateurs ou nationaux-conservateurs, mais de réseaux trotskistes, d’obédience affichée ou infiltrés dans les cénacles syndicaux ou socialistes et surtout au départ des niches médiatiques et journalistiques où s’est incrustée la secte des “nouveaux philosophes”, à cheval entre une gauche nouvelle (les fameuses deuxième et troisième gauches) et une droite atlantiste, molle, libérale et “orléaniste” qui cherche à tourner le dos au gaullisme. Ce bastion, bien positionnée sur le carrefour entre droite centriste et gauche centriste, permet à cette propagande de s’insinuer partout et d’empêcher l’éclosion d’une pensée géopolitique alternative, non atlantiste, qui pourrait émerger dans plusieurs franges politiques potentielles, aujourd’hui houspillées dans les marges de la politique dominante et souvent décriées comme “extrémistes”: communiste, gaulliste (dans le sens de Couve de Meurville), nationaliste, souverainiste ou néo-maurrassienne.

 

La Guerre de Crimée a donc fracassé définitivement la Pentarchie, la seule cohésion européenne de l’ère moderne et contemporaine. Néanmoins, le conflit dominant, celui dont les enjeux  géopolitiques avaient le plus d’envergure territoriale car ils concernaient et la Terre du Milieu  (sibérienne et centre-asiatique) et l’Océan du Milieu (l’Océan Indien avec le sous-continent indien), demeurait le conflit russo-britannique. Le conflit franco-prussien de 1870-71, perçu comme essentiel en France ou en Allemagne car il était local, reste marginal, malgré tout, malgré son importance, malgré qu’il est l’une des sources majeures des deux conflits mondiaux du 20ème siècle.

 

Versailles ou le retour de la politique de Richelieu

 

Cependant, la permanence du conflit anglo-russe aux confins de l’Hindou Kouch, la rivalité entre Londres et Saint-Pétersbourg en Asie centrale et la volonté française de revanche et de reconquête de l’Alsace et de la Lorraine thioise vont peser d’un poids suffisant pour modifier la donne entre 1871 et 1914. La France va investir en Russie, afin d’avoir un “allié de revers”, comme François I s’était allié au Sultan et aux pirates barbaresques pour prendre le Saint-Empire et l’Espagne en tenaille et faire échouer l’offensive espagnole et vénitienne en Afrique du Nord et en direction de la Méditerranée orientale. On ne mesure pas encore complètement l’impact désastreux de cette politique. La politique française des investissements en Russie, mieux connue sous l’appelation des “emprunts russes” va contribuer à la dislocation progressive de l’alliance des “Trois Empereurs”, ultime résidu de l’esprit de la Pentarchie de 1814. A ce projet de s’adjoindre le “rouleau compresseur russe”, s’ajoutera une volonté maçonnique d’émietter l’espace de la “monarchie danubienne” austro-hongroise, de fractionner l’Europe centrale et orientale en autant de petits Etats que possible, tous condamnés à la dépendance ou à l’inviabilité économique: ce sera une réactualisation de la politique de Richelieu, visant la “Kleinstaaterei” dans les Allemagnes (pluriel!), qui trouvera un nouvel aboutissement dans le Traité de Versailles.

 

Bismarck serait indubitablement parvenu à maintenir la cohésion de l’alliance des Trois Empereurs. Ses successeurs n’auront pas cette intelligence politique et ce “feeling” géopolitique. Ils laisseront libre cours, sans réagir de manière opportune, à cette politique française de satellisation de la Russie. Quand celle-ci bascule définitivement dans le camp français, la politique alternative de l’Allemagne sera d’aller chercher dans l’Empire ottoman moribond un espace pour écouler les biens d’exportation de sa nouvelle industrie et y puiser des matières premières. Cette politique heurtera la volonté russe de trouver un débouché au-delà des Dardanelles, en direction de la Méditerranée orientale, de Suez et de l’Egypte et la volonté britannique de maintenir ou de créer un verrou partant du Caire pour aboutir à Calcutta au Bengale, afin de parachever, avec les possessions anglaises d’Afrique et d’Australie, une domination absolue sur l’ensemble des rivages de l’Océan Indien.

 

Une vingtaine d’années pour parfaire l’Entente

 

Il faudra cependant une vingtaine d’années pour consolider l’alliance que sera l’Entente entre Londres, Paris et Saint-Pétersbourg. Les sources de conflits potentiels demeurent latentes entre l’Angleterre et la France, en Indochine où l’Angleterre accepte, bon gré mal gré, que les Français contrôlent la façade pacifique de cette Indochine mais n’acceptent aucune extension de ce contrôle en direction du Siam et du Golfe du Bengale. De même, l’Angleterre voit d’un mauvais oeil la conquête violente  puis la pacification de Madagascar par le Général Gallieni (qu’ils détesteront même au plus fort de la bataille de la Marne en 1914, alors que cette bataille a décidé du sort de la guerre en faveur des alliés). Ensuite, l’affaire de la prise de contrôle par les Britanniques du Canal de Suez ne s’est pas apaisée rapidement, a connu des rebondissements, surtout, notamment, quand l’expédition du Capitaine Marchand en direction de Fachoda au Soudan laissait présager une installation française sur les rives du Nil, axe liant l’Egypte à l’Afrique du Sud.

 

Une présence française sur le Nil aurait pu briser la cohésion territoriale de l’Empire britannique en Afrique en s’alliant soit à la Somalie sous domination italienne soit à l’Abyssinie chrétienne soit au Congo belge. Il y aurait eu une présence européenne continentale  sur une portion importante du littoral africain de l’Océan Indien, avec, d’une part, une grande profondeur territoriale, reliant l’Atlantique à l’Océan du Milieu, et d’autre part, une base navale (et, plus tard, un porte-avion) malgache en face du Mozambique portugais, du Tanganyka alors allemand et surtout des mines d’Afrique du Sud, où demeurait une population boer rebelle, partiellement d’ascendance française. Imagine-t-on aujourd’hui quelle puissance aurait pu avoir un bloc colonial européen, regroupant les colonies françaises, belges, allemandes et portugaises et les Etats indépendants boers? La Mer Rouge aurait été contrôlée à hauteur d’Aden et de Djibouti par une constellation européenne germano-turque, italienne et française. Pour Londres, l’un des résultats les plus intéressants de la première guerre mondiale a été de contrôler la Mer Rouge de Suez à Aden, d’y éliminer toute présence germano-turque et, indirectement, française, la France sortant exsangue de la Grande Guerre.

 

Ratzel, Tirpitz et le réveil de l’Allemagne

 

Dans les années 90 du 19ème siècle, les Russes se rendent encore maîtres de l’actuel Tadjikistan et exercent une influence prépondérante sur le “Turkestan chinois” au nord du Tibet. Tandis que pour contrer ce gain de puissance, les Anglais annexent à l’Empire des Indes les régions afghanes aujourd’hui pakistanaises et que l’on appelle la “zone ethnique” pachtoune, actuellement en pleine rébellion et sanctuaire des rebelles talibans en lutte contre l’occupation de l’Afghanistan. Entre 1890 et 1900, rien ne laissait augurer une alliance anglo-russe, tant les conflits potentiels s’accumulaient encore le long des frontières afghanes. Le très beau film “Kim”, d’après une nouvelle de Rudyard Kipling, met en scène un Indien musulman local, fidèle à la Couronne britannique, et des explorateurs russes, soupçonnés d’espionnage et de venir soulever les tribus hostiles à la présence anglaise. Le scénario du film se déroule précisément dans les années 90 du 19ème siècle.

 

Après la guerre des Boers et l’élimination impitoyable de leurs deux républiques libres d’Afrique australe, période où l’Angleterre victorienne avait été honnie dans toute l’Europe, l’Allemagne devient l’ennemi numéro un, parce qu’elle développe des stratégies commerciales efficaces, concurrence les produits industiels britanniques partout dans le monde, se met à construire une flotte sous l’impulsion du géopolitologue Friedrich Ratzel et de l’Amiral von Tirpitz, exerce une influence prépondérante dans les “Low Countries”, propose une “Union de la Mittelafrika” à la Belgique et au Portugal susceptible de ruiner les projets de Cecil Rhodes et surtout réorganise l’Empire Ottoman pour un faire un espace complémentaire de son industrie (un “Ergänzungsraum”), coupant la route des Russes vers Constantinople et occupant des positions stratégiques en Méditerranée orientale, en prenant, avec l’Autrriche-Hongrie et ses marins dalmates, le relais de Venise la “Sérénissime” dans cet espace maritime, en face de Suez et sur un segment important de la route maritime vers l’Inde.

 

Mackinder et le “Terre du Milieu”

 

Malgré l’émergence, pour Londres, d’un “danger allemand”, la Russie demeure implicitement l’ennemi principal dans le dicours que tient Halford John Mackinder en 1904, pour expliquer, par la géographie, la dynamique Terre/Mer de l’histoire, où l’Angleterre tient la Mer et les Indes et la Russie, la Terre et l’Asie centrale, rebaptisée “Terre du Milieu” et posée comme inaccessible à l’instrument naval de la puissance anglaise. Mackinder tire en quelque sorte le signal d’alarme en cette année 1904, parce que, contrairement à l’époque de la Guerre de Crimée, la Russie commence, sous l’impulsion de Sergueï Witte, à se doter d’un réseau de chemins de fer et d’une ligne ferroviaire transsibérienne qui lui procurent désormais la capacité militaire de transporter rapidement des troupes vers la Mer Noire, le Caucase, l’Asie centrale et l’Extrême-Orient. Sur le plan technologique, la donne a donc changé. La Russie, handicapée par l’immensité de ses territoires et les problèmes logistiques qu’ils suscitent, venait d’acquérir un supplément non négligeable de mobilité terrestre. Elle pèse d’un poids plus considérable sur les “rimlands”, dont la Perse et l’Inde, qui donnent accès à l’Océan Indien, “Océan du Milieu”.

 

De facto, la Russie devient la protectrice de la Chine, après la guerre sino-japonaise de 1895, ce qui lui permet de faire passer le Transsibérien à travers la riche province chinoise de Mandchourie. Cette Russie plus mobile, grâce au chemin de fer, et donc plus “dangereuse”, inquiète l’Angleterre: elle doit dès lors être tenue en échec par une politique d’endiguement et par la constitution d’un “cordon sanitaire” de petites puissances dépendantes de la principale thalassocratie de la planète. Mieux: la politique extrême-orientale de la Russie, face aux anciennes et nouvelles puissances asiatiques de la région, reçoit le plein aval de Guillaume II d’Allemagne, qui détourne ainsi la Russie du Danube et désamorce les conflits potentiels avec l’Autriche-Hongrie; face à ces encouragements allemands, l’Angleterre, qui voit en eux un danger de plus pour ses intérêts, entend ramener, à terme, la Russie en Europe, pour qu’elle agisse contre l’Autriche, principal allié de l’Allemagne montante.

 

La Russie avance ses pions vers le Pacifique

 

L’Entente se dessine: la France finance la Russie, mais la lie ainsi à elle, et l’Angleterre dispose de deux “spadassins continentaux” pour abattre la puissance qu’elle juge la plus dangereuse pour elle, avec le sang de leurs millions de conscrits. Sergueï Witte préconisait une politique de petits pas en Extrême-Orient: l’acquisition par l’Allemagne de la base chinoise de Tsingtao précipite les choses, oblige les Russes à abandonner leur modération initiale et à revendiquer et occuper Port Arthur; du coup, les Anglais s’emparent de Weihaiwei. Les puissances s’abattent sur la Chine, grignotent sa souveraineté pluriséculaire, déclenchant une révolte xénophobe, celles des Boxers, soutenue in petto par l’Impératrice douairière. Pour mater cette révolte, les puissances organisent une expédition punitive, au cours de laquelle les Russes prennent l’ensemble de la Mandchourie. Via Kharbin et Moukden, le Transsibérien est prolongé jusqu’à Port Arthur: du coup, la Russie est présente dans les eaux chaudes du Pacifique (8). L’Amiral Alexeïev, gouverneur de la région, entreprend l’exploitation du port et de la nouvelle base navale puis lorgne directement vers la péninsule coréenne, susceptible de fournir un pont territorial entre Vladivostok et Port Arthur. Sur le cours du fleuve Yalou, les Russes découvrent de l’or. La politique d’Alexeïev heurte le Japon qui convoite la Corée. Le scénario est en place pour une nouvelle guerre. Cette fois contre le Japon, avec le désavantage que cette guerre est très impopulaire, ne correspond pas aux mythes politiques habituels du peuple russe, qui veut toujours un élan vers Constantinople, les Balkans et l’Egée.

 

En 1905, lors de la guerre russo-japonaise, l’Angleterre et déjà les Etats-Unis, soutiennent le Japon, archipel en lisière du “rimland” sino-coréen. Le Japon devient ainsi le petit soldat asiatique de la première politique d’endiguement, immédiatement après le discours de Mackinder. La propagande contre Nicolas II, posé comme “bourreau” de son peuple, bat son plein. Quelques cercles révolutionnaires perçoivent de mystérieux financements. La flotte russe de la Baltique, qui part du Golfe de Finlande pour porter secours à celle du Pacifique, ne peut s’approvisionner en charbon le long de son itinéraire, dans les bases britanniques, les plus  nombreuses. Résultat: le désastre de Tchouchima.

 

Notons, dans ce contexte, l’ignoble hypocrisie de la France, qui avait promis monts et merveilles à son “allié” russe, mais l’a froidement laissé tomber face au Japon, pour ne pas désobliger l’Angleterre. Jeu dangereux car, un moment, cette trahison a failli ramener la Russie dans un système d’alliance comprenant l’Allemagne sans exclure la France. L’Axe Paris-Berlin-Saint-Pétersbourg a failli voir le jour en octobre 1904. La France a refusé et le Tsar, dépendant des fonds français, n’a pas signé. En juillet 1905, deuxième tentative de rétablir une unité européenne avec l’Allemagne, la France et la Russie, lors de l’entrevue entre Guillaume II et Nicolas II dans l’île suédoise de Björkö. Ces entretiens ne relèvent que de la bonne volonté des deux monarques qui ne bénéficiaient d’aucun contre-seing ministériel. Une fois de plus, la France refuse, tablant sur son alliance anglaise et sur les avantages immédiats que lui procurait celle-ci au Maroc. Pour les Anglais, l’affaiblissement de la Russie, suite à sa défaite face au Japon, ne permettait plus aucune manoeuvre dangereuse en direction de l’Inde. Elle n’est donc plus l’ennemi principal.

 

Terrible année 1905

 

La Russie, battue par le Japon et fragilisée par les menées révolutionnaires, assouplit ses positions: elle est mûre pour entrer dans l’Entente franco-britannique, signée en 1904. Pire, à l’humiliation militaire succède un dissensus civil de nature révolutionnaire: dès juillet 1904, les nihilistes assassinent le ministre de l’intérieur Plehwe; en janvier 1905, une manifestation menée par le Pope Gapone tourne au carnage; en février 1905, c’est au tour du Grand-Duc Serge d’être assassiné; des troubles surgissent en Mandchourie sur l’arrière des troupes; en juin, des mutineries éclatent sur les bâtiments de la flotte de la Mer Noire, dont le fameux cuirassé Potemkine; en octobre 1905, Lénine organise un premier mouvement révolutionnaire à Saint-Pétersbourg, qui débute par une grève générale; les frondes paysannes procèdent à des “illuminations”, c’est-à-dire des incendies de châteaux ou de bâtiments publics, dans les provinces; les Baltes s’attaquent à l’aristocratie allemande et incendient ses domaines; en décembre 1905, Lénine frappe à Moscou mais les troupes sont revenues de Mandchourie et le mouvement bolchevique est maté. Witte, rappelé aux affaires, lance le “Manifeste d’Octobre”, promettant la création d’une Douma dûment élue et des réformes. En 1906, quand la Russie renonce à sa politique d’expansion extrême-orientale, quand elle accepte de nouveaux prêts français, les troubles intérieurs cessent “miraculeusement”; le Tsar, de “monstre” qu’il était, redevient un “brave homme”.

 

En 1907, Britanniques et Russes signent un accord sur le dos de la Perse des Qadjars décadents, se partageant le pays en zones d’influence. L’année suivante, 1908, est marquée par deux événements majeurs: l’annexion par l’Autriche de la Bosnie-Herzégovine et la révolution des “Jeunes Turcs”. En dépit des menées franco-britanniques pour créer la discorde entre Vienne et Saint-Pétersbourg, les relations austro-russes étaient au beau fixe. En juin, les Autrichiens envisagent de construire une voie ferrée à travers le Sandjak de Novi Pazar, afin d’organiser la péninsule balkanique selon leurs intérêts. Cette intention provoque imméditement un renforcement des liens entre la Russie et la Grande-Bretagne, suite à l’entrevue entre Nicolas II et Edouard VII à Reval. En juillet, les “Jeunes Turcs” triomphent, réclament une constitution et des élections, auxquelles sont conviés les habitants de Bosnie-Herzégovine, administrés par les Autrichiens mais toujours citoyens ottomans. La Russie craint que les “Jeunes Turcs” donnent une vitalité nouvelle à la Turquie, s’allient aux Français et aux Britanniques, comme lors de la Guerre de Crimée, et reprennent la vieille politique de verrouiller les Détroits. La révolution des “Jeunes Turcs” rapproche Autrichiens et Russes. Ährental et Iswolski, ministres des affaires étrangères, lors des accords secrets de Buchlau en Moravie, seraient convenus de la politique suivante: 1) L’Autriche-Hongrie abandonne ses projets ferroviaires dans le Sandjak de Novipazar; 2) Vienne promet de soutenir tous les efforts russes en vue de déverrouiller les Détroits. Forts de ces accords, les Autrichiens annexent en octobre 1908 la Bosnie-Herzégovine, sans en référer aux Italiens et aux Allemands, leurs alliés réels ou théoriques au sein de la Triplice. Les Bulgares en profitent pour se déclarer totalement indépendants de la Turquie. Les épouses monténégrines de deux Grands-Ducs russes et du Roi d’Italie, hostiles à Vienne, incitent les partis bellicistes et interventionnistes à combattre toute politique autrichienne dans les Balkans. Stolypine ne veut pas la guerre, oblige les bellicistes à la modération, mais la Russie n’a plus aucun appui en Europe pour soutenir ses visées sur les Détroits. Les diplomates  britanniques, tels l’Ambassadeur Nicolson et Sir Eyre Crowe, répandront la légende que les Autrichiens, et derrière eux, les Allemands, sont les seuls et uniques responsables du verrouillage des Détroits. En 1909, l’Angleterre appuie les prétentions françaises sur le Maroc, en échange d’une reconnaissance définitive de la prépondérance anglaise en Egypte.

 

De l’assassinat de Stolypine à l’attentat de Sarajevo

 

En 1911, avec l’assassinat de Stolypine par un révolutionnaire exalté, toutes les chances d’éviter un conflit germano-russe et austro-russe s’évanouissent. Sazonov, beau-frère de Stolypine et successeur d’Iswolski, opte pourtant pour une politique pacifiste et suscite une dernière entrevue entre Guillaume II et Nicolas II à Postdam, où Bethmann-Hollweg et Kiderlen-Wächter tenteront, pour la dernière fois, de sauver la paix, en proposant aux Russes de se joindre au projet de chemin de fer Berlin-Bagdad et de les associer à une future ligne ferroviaire dans le nord de la Perse. Mais les bellicistes ne désarmaient pas: l’ambassadeur russe à Belgrade, Hartwig, appuie le mouvement grand-serbe contre l’Autriche; Delcassé ordonne la marche des troupes françaises sur Fez au Maroc, bouclant ainsi la conquête définitive du royaume chérifain, où l’Allemagne perd tous ses intérêts; Lloyd George menace directement l’Allemagne. Celle-ci cède au Maroc, en acceptant, pour compensation, une bande territoriale qu’elle adjoindra à sa colonie du Cameroun. En Europe, elle est bel et bien encerclée. Le scénario est prêt: il n’attend plus qu’une étincelle; ce sera l’attentat de Sarajevo, le 28 juin 1914.

 

En 1918, quand l’Allemagne perd définitivement la guerre et que la Russie devient bolchevique, plusieurs voix s’élèvent, à gauche et à droite de l’échiquier politico-idéologique, pour réclamer une nouvelle alliance germano-russe. Ces tractations conduiront aux accords de Rapallo entre Tchitchérine et Rathenau (1922). L’Allemagne et la Russie maintiendront des rapports privilégiés, notamment sur le plan de la coopération militaire, jusqu’en 1935, date où Hilter décide de réintroduire le service militaire obligatoire, de réoccuper la Rhénanie et de relancer un programme de réarmement.

 

En 1936, avec l’Axe Rome-Berlin et la création du Pacte Anti-Komintern, les liens sont rompus avec la Russie soviétisée. Quand éclate la guerre civile espagnole, l’Allemagne soutient les nationalistes de “l’Alzamiento nacional” et l’URSS les Républicains du “Frente Popular”, qui comptent les communistes dans leurs rangs. Le soutien à Franco rapproche définitivement l’Allemagne de l’Italie, mais les communistes espagnols et leurs alliés soviétiques se désolidarisent du bloc, d’abord uni, du “Frente Popular” et se heurtent aux autres factions militantes de gauche, anarchistes et trotskistes (POUM), dans les territoires contrôlés par les Républicains espagnols, notamment à Barcelone, contribuant à la ruine définitive du “Frente Popular” et à l’effondrement de ses forces armées. Après la victoire du camp franquiste et l’émiettement du camp des gauches, tout est en place pour rapprocher l’Axe, et plus particulièrement l’Allemagne, de l’URSS. En août, le fameux Pacte germano-soviétique, ou Pacte Ribbentrop-Molotov, est signé à Moscou. L’Allemagne est libre pour tourner toutes ses forces vers l’Ouest, tout en recevant pétrole et céréales soviétiques. L’idylle durera jusqu’en 1941, quand Molotov, déjà inquiet de la politique balkanique des Allemands, ne peut admettre leur contrôle définitif de la Yougoslavie et de la Grèce. Ces dissensus, renforcés par les menaces réelles que les Anglais faisaient peser sur le Caucase à portée des appareils de la RAF, constituent les préludes de l’Opération Barbarossa, déclenchée le 22 juin 1941. Les rapports germano-russes entre 1918 et 1945 méritent à eux seuls qu’on leur consacre un séminaire entier. Ce n’est pas notre propos aujourd’hui. C’est pourquoi je demeurerai bref sur ce thème pourtant capital afin de comprendre la dynamique du siècle (9).

 

Pas d’Europe libre si la bipolarité Est/Ouest persiste

 

Après 1945, la Guerre Froide s’installe avec le blocus de Berlin et le coup de Prague. Elle durera plus de quarante ans, imprègnera les esprits car tous imaginaient que cette situation allait perdurer pour les siècles des siècles. Dans ce contexte bipolaire, où l’idéologie semblait dominer, l’Europe était coupée en deux, l’Allemagne était traversée par un Rideau de Fer et partagée en deux républiques antagonistes; le Danube, artère centrale de l’Europe, était bloqué peu après Vienne; l’Elbe, principal fleuve de la plaine nord-européenne, qui mène de Prague à Hambourg, était coupée dès l’hinterland immédiat de ce grand port. Une telle Europe n’était plus qu’un comptoir atlantique. Dans les années 50, elle possédait encore pleinement son poumon extérieur colonial. Dès la décolonisation des premières années des “Golden Sixties”, ce poumon n’est plus garanti et le palliatif des multinationales, qui créent de l’emploi et remplacent les vocations coloniales, plonge l’Europe dans une dépendance dangereuse. Voilà le contexte politique international dans lequel émergera la conscience politique de ma génération. Pour ma part, elle émergera cahin-caha à partir de mes quatorze ans; après cinq ou six années de tâtonnements, vers 1975-76, nos groupes informels, plutôt des groupes de copains, inspirés par la postérité de l’école des cadres de “Jeune Europe”, innervés par de nouvelles lectures et stimulés par de nouvelles donnes politiques, en arrivent à la conclusion générale qu’il est impossible de donner un avenir libre à la portion occidentale de l’Europe si la bipolarité Est/Ouest persiste.

 

Dans le contexte belge, Pierre Harmel avait tenté une ouverture à l’Est, en multipliant les rapports bilatéraux entre la Belgique et de petites puissances du bloc communiste, telles la Pologne, la Roumanie ou la Hongrie. Il agissait de manière pragmatique, sans s’aligner sur la France de De Gaulle, qui, en tant que France, demeure toujours un danger pour l’intégrité psychologique et territoriale de notre pays (qui est, avec le G.D. du Luxembourg et avec ses frontières complètement démembrées au sud, le dernier lambeau indépendant du Grand Lothier de médiévale mémoire). Harmel n’imitait pas pour autant l’Ostpolitik de Willy Brandt, avec son discours empreint de ce sens allemand de la culpabilité, qui, en Belgique, n’était évidemment pas de mise. Harmel entendait restituer une “Europe Totale”, détacher le sous-continent de la logique figée des blocs. Ces efforts furent malheureusement de courte durée et, dans son propre parti, on ne l’a guère suivi. Après l’ère Harmel, l’ère Vanden Boeynants est arrivée, avec une politique atlantiste, pro-OTAN et philo-américaine. Plus tragique bien que moins visible: l’échec du “harmélisme” diplomatique signifie aussi la fin du catholicisme politique cohérent en Belgique, héritier de la tradition bourguignonne et impériale hispano-autrichienne. La Belgique oublie alors qu’elle a incarné cette tradition dans l’histoire de ces cinq derniers siècles, avec un brio inaltérable, et elle accepte, avec “Polle Pansj” (“Popol Boudin”, alias Vanden Boeynnants) et ses successeurs, le statut misérable de petit pion subalterne sur l’échiquier atlantiste. 

 

Kissinger “drague” la Chine de Mao

 

Dans ce contexte, postérieur aux agitations de 1968, la donne générale, sur l’échiquier international, était en train de changer: pour disloquer le bloc communiste eurasien, reposant sur le pilier chinois et le pilier soviétique, pour embrayer sur un conflit bien réel qui venait de surgir au sein de ce bloc rouge, soit la guerre chaude sino-soviétique le long du fleuve Amour, la diplomatie américaine de Kissinger, posant pour principe que Moscou demeure et restera l’ennemi principal, va “draguer” la Chine de Mao et nouer avec elle, dès 1971-72, des relations diplomatiques normales, tout en la soutenant en Asie orientale contre l’URSS. Cette diplomatie repose, une fois de plus, sur les théories géopolitiques de Mackinder et de ses disciples: dans l’optique de ces théories, il convient, le cas échéant, de soutenir une puissance du rimland (ou “inner crescent”), ou une alliance de moindres puissances du rimland, contre la puissance détentrice de la “Terre du Milieu”. Les maoïstes de mai 68 basculeront partiellement dans le camp américain contre les “mouscoutaires”: Washington avait déjà déployé ses propres “communistes”, principalement d’obédience trotskiste ou issus de l’ancien POUM de la Guerre Civile espagnole; à ceux-ci s’adjoindront bientôt des maoïstes, forts de la nouvelle alliance Washington/Pékin.

 

Avec la disparition, à l’avant-scène, de Harmel et de sa politique des rapports bilatéraux entre petites puissances du bloc occidental et petites puissances du bloc oriental, et avec la disparition, dans les marges militantes de la politique, de “Jeune Europe” de Jean Thiriart, qui visait une libération de notre sous-continent des tutelles américaine et soviétique, aucun champ d’action politique réel et concret ne s’offrait encore à nous. Nous vivions les prémisses de la “Grande Confusion”, avec des lignes de fracture qui scindaient désormais tous les camps qui avaient été présents sur le terrain avant la réconciliation sino-américaine. Cette grande confusion frappait essentiellement les groupes activistes de gauche mais ne permettait pas davantage de clarté dans les petites phalanges européistes et nationales révolutionnaires.

 

Rapprochement euro-russe, seule solution viable

 

Dans l’optique de la mouvance “Jeune Europe” des années 60, les deux superpuissances étaient posées et perçues comme également nuisibles à l’éclosion d’une Europe libre. Quand Washington se rapproche de la Chine et que le bloc rouge se scinde en deux puissances antagonistes, “Jeune Europe” ne peut plus préconiser ni des alliances ponctuelles et partielles entre petites puissances des deux blocs (comme lors du voyage de Thiriart en Roumanie) ni une alliance de revers avec la Chine pour obliger l’URSS à lâcher du lest en Europe danubienne. Le bloc sino-américain devient une menace pour l’Europe et, ipso facto, un rapprochement euro-russe apparaît comme la seule solution viable à long terme pour les tenants de la Realpolitik. Ce pas, le Général italien e.r. Guido Gianettinni, Jean Thiriart et l’écrivain franco-roumain Jean Parvulesco le franchiront, en étayant leurs positions d’arguments solides.

 

Entre-temps, en 1975, les Etats-Unis abandonnent le Sud-Vietnam exsangue au Nord vainqueur et pro-soviétique et déclenchent aussitôt, avec leurs nouveaux alliés chinois, une guerre sur la frontière sino-tonkinoise et arment, via la Chine, le Cambodge de Pol Pot pour harceler en Cochinchine le nouveau Vietnam réunifié. Le Vietnam sera ainsi neutralisé et cessera d’être une “poche de résistance” sur le rimland du Sud-Est asiatique, désormais étendu à la Chine, comme c’était prévu d’ailleurs sur toutes les cartes dessinées par l’école anglo-saxonne de géopolitique de Mackinder à Lea et à Spykman. Plus personne, aujourd’hui, surtout dans les jeunes générations, ne s’imagine encore quel était l’état de confusion mentale au sein des gauches militantes, où se disputaient âprement mouscoutaires, trotskistes, maoïstes pro-albanais, autogestionnaires titistes, maoïstes anti-soviétiques, partisans et adversaires de Pol Pot ou de Ho Chi Minh. Ce chaos a scellé la fin de la gauche militante classique entre 1975 et 1978-79, quand l’émiettement en chapelles antagonistes ne permettait plus de faire émerger un bloc politique offensif et viable. Les gauches dures, juvéniles et révolutionnaires, sont mortes, faute d’avoir eu un raisonnement géopolitique cohérent. Pire, parce qu’elles avaient auparavant accepté des raisonnements géopolitiques étrangers à leur propre nation ou nation-continent.

 

Carter et les “droits de l’homme”, Reagan et l’ “Empire du Mal”

 

Avec l’arrivée au pouvoir du démocrate Jimmy Carter à Washington en 1976, nous entrons de plein pied dans la période de gestation de l’univers mental qui règne aujourd’hui et qui est de  plus en plus ressenti comme étouffant. Les termes fétiches de la “political correctness” se mettent en place, avec l’introduction de la diplomatie dite des “droits de l’homme” et avec une opposition républicaine qui s’aligne sur les thèses du néo-libéralisme, par ailleurs propagées par Margaret Thatcher en Grande-Bretagne. En 1979, celle-ci inaugure l’ère néo-libérale qui prend fin avec la crise de cet automne 2008. En 1980, quand Reagan accède à la présidence américaine, sa version du néo-libéralisme, les “reaganomics”, vont étayer et non effacer la diplomatie cartérienne des “droits de l’homme”, et la mettre à la sauce apocalyptique en évoquant un “empire du Mal”, prélude à “l’Axe du Mal” de Bush junior.

 

En Europe, le discours sur les “droits de l’homme” oblitère tout et une partie de la gauche militante émiettée, orpheline, va marcher dans le sens de ce nouveau “subjectivisme” bien médiatisé, base philosophique première de la méthodologie hyper-individualiste du néo-libéralisme de Hayek, Friedmann, etc. Le moteur de cette nouvelle synthèse, dans une France marquée par l’étatisme gaulliste et communiste, sera le discours des “nouveaux philosophes”, porté essentiellement, en ces années-charnières, par deux écrits de Bernard-Henry Lévy, “Le Testament de Dieu” et “L’idéologie française”. Ce dernier constituant un véritable instrument de diabolisation de toutes les forces politiques françaises car, toutes, indifféremment, porteraient en elles les germes d’un fascisme ou d’une dérive menant à un univers concentrationnaire.

 

Les ingrédients idéologiques des deux manifestes de Lévy, dont les assises philosophiques sont finalement bien ténues, vont houspiller dans la marginalité politico-médiatique les discours plus militants de mai 68 et aussi, ce qui est plus grave parce que plus stérilisant, tout cet ensemble de pensées, de théories et de réflexions que Ferry et Renaud appelleront la “pensée 68”. Cette dernière constitue un dépassement intellectuel séduisant du simple militantisme étudiant et ouvrier de l’époque, qui était imbibé de ces vulgates rousseauistes et communistes (typiquement françaises) et avait reçu la bénédiction du vieux Sartre (“ne pas désespérer Billancourt”).

 

Potentialités de la “French Theory”, magouilles des “nouveaux philosophes”

 

Cette “pensée 68”, que les universitaires américains nomment dorénavant la “French Theory”, englobe Deleuze, Guattari, Lyotard et Foucault: elle est accusée, en gros par ses critiques parisiens, néo-philosophes à la Lévy ou néo-quiétistes à la Comte-Sponville, inquisiteurs tonitruants ou apologètes doucereux du ronron consumériste, de privilégier dangereusement la “Vie” contre le “droit”, d’opter tout aussi dangereusement pour des méthodologies généalogisantes et archéologisantes de nietzschéenne mémoire, etc. Pour le réseau, finalement assez informel, des “nouveaux philosophes”, “maîtres penseurs” allemands du 19ème (Glucksmann) et phares de la “French Theory” doivent céder la place à “un marketing littéraire et philosophique” (selon la critique cinglante que fit Deleuze de leur pandémonium médiatique), soit à un “prêt-à-penser” bien circonscrit qui se pose comme l’attitude intellectuelle indépassable qui va mettre bientôt un terme définitif aux horreurs de l’histoire, qui déboucheraient invariablement sur l’univers concentrationnaire décrit par Soljénitsyne dans “L’Archipel Goulag”. Les “nouveaux philosophes” et assimilés sont les “vigilants” qui veillent à ce qu’advienne la fin de l’histoire (Fukuyama) et que l’humanité aboutisse enfin à la grande quiétude antitotalitaire. La clique parisienne des “nouveaux philosophes” et assimilés entend représenter “l’espérance radicale de la disparition du mal”. L’antithèse de la pensée des maîtres penseurs, qui génèreraient l’univers concentrationnaire, se trouve tout entière concentrée dans le discours sur les droits de l’homme, inauguré par Carter, et constitue l’instrument premier pour lutter contre “l’Empire du Mal” et tous ses avatars, comme le voulaient Reagan et, plus tard, le père et le fils Bush. Le discours des “nouveaux philosophes” correspond donc bel et bien aux objectifs généraux de l’impérialisme américain, et son apparition dans le “paysage intellectuel français” n’est certainement pas l’effet du hasard: on peut sans trop d’hésitation le considérer comme une production habile et subtile des agences médiatiques d’Outre-Atlantique, fers de lance du “soft power” américain.

 

Ce glissement idéologique hors du questionnement inquiétant de la “French Theory”, a été systématiquement appuyé par les médias, qui ont écrasé toutes les nuances et les subtilités du discours politico-idéologique, pire, ne les tolèrent plus au nom d’une tolérance préfabriquée; il s’est opéré dès l’avènement de Thatcher au pouvoir à Londres et s’est considérablement renforcé quand Reagan a accédé à la Présidence américaine. Le passé maoïste militant de certains exposants, majeurs ou mineurs, de la “nouvelle philosophie” de Glucksmann, Lévy et autres homologues avait permis à Guy Hocquenghem d’ironiser dans une “Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary”. L’image est aussi pertinente que percutante: des maoïstes, jadis rabiques admirateurs sans fard des excès de la “révolution culturelle”, sont effectivement devenus “salonfähig”, dès le rapprochement sino-américain de la première moitié des “Seventies”. Dénominateur commun: l’anti-soviétisme. Ce soviétisme que leurs camarades trotskistes appelaient, pour leur part, le “panzercommunisme”. Donc, on peut aisément conclure que nos anciens révolutionnaires trotskistes ou maoïstes des barricades parisiennes avaient bien davantage que quelques points en commun avec Zbigniew Brzezinski. Celui-ci, rappellons-le, était l’avocat, au sein de la diplomatie américaine, d’une nouvelle alliance avec la Chine et le principal partisan d’une destruction de l’URSS par démantèlement de ses glacis caucasiens et centre-asiatiques. Plus tard en Afghanistan, il préconisera une alliance avec les mudjahiddins et, finalement, avec les talibans.

 

Le grand retour de la pensée slavophile

 

En Union Soviétique, la période qui va de 1978 à 1982 (année de la disparition de Brejnev) est marquée par une tout autre évolution intellectuelle. On assistait à une véritable “révolution conservatrice”, à un retour aux sources de la “russéité”, aux linéaments de la slavophilie du 19ème siècle, à un retour de Dostoïevski. La figure emblématique de ce renouveau “völkisch” (folciste) et slavophile a été sans conteste l’écrivain Valentin Raspoutine (10). Pour cet écrivain aux accents ruralistes, les notions de mémoire, de souvenir, de continuité sont cardinales et primordiales. Pour Raspoutine, la conscience n’est telle que parce qu’elle se souvient et s’inscrit dans des continuités imposées par le flux vital (et donc par l’histoire particulière du peuple dont le “je” fait partie). Une action humaine n’est justifiable moralement que si elle s’imbrique dans une continuité, que si elle lutte contre les manigances de ceux qui veulent, par intérêt particulier ou égoïste, provoquer des discontinuités. Le thème littéraire du déracinement et de l’aliénation (par rapport aux origines) implique celui de la perte simultané de l’intégrité morale. On l’avait déjà lu chez le Norvégien Knut Hamsun. L’oubli de son propre passé plonge l’homme dans la dépravation morale, la laideur d’âme.

 

Cette position philosophique fondamentale heurte de front les idéologies modernes de la “tabula rasa”, dont le communisme fut l’avatar le plus caricatural. Du jacobinisme ou du babouvisme français de la fin du 18ème siècle au communisme, court, sans discontinuité aucune, un fil rouge qui ne produit rien de bon, rien que germes et bacilles de déclin et de dépravation. Au moment où l’Union Soviétique atteignait son apogée, le faîte de sa puissance, et justifiait son existence et ses succès par une idéologie “progressiste” qui avait la prétention de laisser derrière elle tous les legs du passé, émergeait au sein même de la société soviétique un éventail de thèmes littéraires dont la teneur philosophique était radicalement différente de l’idéologie officielle. Je me souviens encore, dans ce contexte, avoir acheté, à la “Librairie de Rome”, avenue Louise, et à la “Librairie du Monde Entier”, gérée par le PCB, un exemplaire de “Sciences sociales”, revue de l’Académie de l’Union Soviétique, avec un long article de Boris Rybakov sur le paganisme russe avant la conversion au christianisme, et l’exemplaire de “Lettres soviétiques” consacré à la réhabilitation de Dostoïevski et édité, à l’époque, par Alexandre Prokhanov, l’éditeur de “Dyeïenn” et “Zavtra”, que j’allais rencontrer à Moscou en 1992. Les textes de Rybakov paraîtront dans les années 90 aux PUF.

 

“Occidentalistes” et “Slavophiles” dans la dissidence et dans l’établissement

 

Outre les articles de Wolfgang Strauss en Allemagne (11), l’ouvrage le plus significatif, à l’époque, qui explicitait, en le critiquant de manière fort acerbe, ce renouveau slavophile était dû à la plume d’un dissident exilé aux Etats-Unis: Alexander Yanov (graphie allemande: Janow), attaché à l’Institute of International Studies de Berkeley (Université de Californie). Pour donner ici les grandes lignes de l’ouvrage de Yanov (12), disons qu’il subdivisait, de manière assez binaire, le paysage politico-intellectuel de l’URSS de Brejnev, comme le champ d’affrontement entre “Zapadniki” (“occidentalistes”) et “Narodniki” (“populistes” voire “völkische/folcistes” ou, plus exactement, ce que nous appellons, nous, en Flandre, les “volkgezinden” ou au Danemark, les “folkeliger”). Yanov, émigré aux Etats-Unis se posait incontestablement comme un occidentaliste et fustigeait les nouveaux Narodniki ou néo-slavophiles, en les campant comme “dangereux”. Yanov, cependant, expliquait à ses lecteurs américains que la dissidence soviétique comptait en son sein des “zapadniki” et des “narodniki” (dont il convenait de se défier, bien entendu!), tout comme dans les hautes sphères du pouvoir soviétique où se côtoyaient également occidentalistes et populistes. Parmi les grandes figures qui tendaient vers le populisme, Yanov comptait Soljénitsyne. Sa conclusion? En URSS, fin des années 70, les populistes et les étatistes avaient gagné du terrain, par rapport aux occidentalistes, et constituaient in fine la force métapolitique majeure en Union Soviétique, une force certes non officielle et sous-jacente, mais néanmoins déterminante. Cette domination implicite des “Narodniki” sur les esprits devait, selon Yanov et bon nombre de dissidents occidentalistes, inciter les Etats-Unis et les atlantistes à la vigilance car, communiste ou non, la Russie demeurait un danger parce que son essence était intrinsèquement “dangereuse”, rétive aux formes “civilisées” de la gouvernance à l’occidentale ou à l’anglo-saxonne. Cette attitude “russophobe”, Soljénitsyne la fustigera avec toute la véhémence voulue, dans son tonifiant pamphlet “Nos pluralistes”. Nous nous empressons d’ajouter que la critique du “narodnikisme” sous toutes ses formes, nouvelles ou anciennes, et que les tirades haineuses que Soljénitsyne lui-même a dû essuyer, démontrent, toutes, que la russophobie qui visait les tsars du dix-neuvième siècle ou qui se profilait derrière un certain anti-soviétisme n’est pas prête à disparaître dans les discours occidentaux.

 

L’époque de la fin du brejnevisme était donc marquée par la nouvelle alliance sino-américaine, par le déploiement des thèses de Brzezinski chez les stratégistes du Pentagone et des services secrets, par la mise en place d’une russophobie déjà post-soviétique dans ses grandes lignes, et ensuite par l’alliance entre les Etats-Unis et les fondamentalistes wahhabites et, enfin, par l’élimination du Shah avec la création, de toutes pièces, d’un chiisme fondamentaliste et offensif en Iran. La carte du monde s’en trouve sensiblement modifiée: la cassure nette et duale, propre de l’hégémonisme duopolistique de Yalta, fait place à une plus grande complexité, notamment par l’avènement du facteur islamiste, voulu, dans un premier temps, par les stratégistes américains. Forts de cette alliance avec les mudjahhidins afghans, armés de missiles Stinger, les Etats-Unis tentent d’avancer leurs pions en Europe en déployant leurs fusées Pershing en Allemagne, face aux SS-20 soviétiques. En cas d’affrontement direct entre l’OTAN et le Pacte de Varsovie, l’Allemagne, le Benelux, l’Autriche, l’Alsace et la Lorraine risquaient d’être vitrifiés. Cette éventualité, peu rassurante, fit aussitôt renaître en Allemagne le mouvement neutraliste, oublié depuis les années 50. Pour nous, le mouvement neutraliste a été incarné principalement par la revue allemande “Wir Selbst”, fondée en 1979 par Siegfried Bublies dans l’intention de dégager le mouvement national de sa cangue passéiste, de ses nostalgies stériles et de ses rodomontades ridicules. Bublies entretenait en Flandre des relations amicales avec les fondateurs de la revue “Meervoud” qui existe toujours.

 

De la rhétorique des “droits de l’homme” à la guerre permanente

 

Le combat contre le déploiement des missiles en Europe a connu son apogée dans les années 1982-83, portée essentiellement par une gauche pacifiste, que l’on accusait d’être “crypto-communiste” et, par conséquent, d’être stipendiée par Moscou. Mais cette hostilité au bellicisme de l’OTAN n’était pas le propre des seuls mouvements pacifistes de gauche et d’extrême gauche. Ailleurs sur l’échiquier politique, bon nombre d’esprits s’inquiétaient des nouvelles rhétoriques cartériennes et reaganiennes, qui contaminaient les milieux libéraux et conservateurs, voire d’extrême droite, et avaient pour corollaire évident de miner les principes de la diplomatie traditionnelle. En effet, la rhétorique des “droits de l’homme”, maniée dans les médias par les démocrates cartériens et les “nouveaux philosophes”, ruinait le principe cardinal de non-ingérence dans les affaires intérieures des autres Etats, propre de la diplomatie traditionnelle. Quand le Républicain Reagan ajoute à cette pernicieuse rhétorique “immixtionniste”, le langage apocalyptique des fondamentalistes religieux américains, les principes de la diplomatie metternichienne, la logique des traités de Westphalie et de Vienne, reculent encore d’une case. Le processus de déliquescence de la diplomatie classique s’achèvera quand les néo-conservateurs de l’entourage de Bush-le-Fils, décrèteront tout de go que le respect de ces principes est un “archaïsme frileux”, indigne des Américains, posés comme “les fils virils du dieu Mars”, et l’indice le plus patent de la lâcheté de la “Vieille Europe”, gouvernée par “les pleutres fils de la déesse Vénus”. Pour nous, à partir de 1983-84, ce sera le Général Jochen Löser, ancien Commandeur de la 24ème Panzerdivision de la Bundeswehr, qui énoncera les lignes directrices de nos argumentaires (13) : la rhétorique des “droits de l’homme” rend impossible l’exercice de la diplomatie classique; les dissensus internes, qu’elle exploite via les médias et les agences qui les informent, ne trouvent plus aucune solution équilibrée, s’en trouvent pérennisés, inaugurant de la sorte des cycles de “guerres longues”; les “droits de l’homme”, contrairement aux apparences, n’ont pas été hissés au rang d’idéologie dominante pour faire triompher sur la planète entière un humanisme de bon aloi, mais pour amorcer un processus infini de guerres, de révolutions et de troubles.

 

Le mouvement neutraliste, tel que nous le concevions au début des années 80, reposait donc sur trois piliers: 1) le refus du déploiement de missiles en Europe, afin d’éviter la transformation définitive de notre sous-continent en “son et lumière”; 2) le refus de perpétuer la logique des blocs, avec la dissolution de l’OTAN et du Pacte de Varsovie et la création d’un vaste espace neutre en Europe centrale, de la Mer du Nord à Brest-Litovsk et de la Laponie à l’Albanie; cet espace neutre devait organiser un système défensif performant sur le mode helvétique; il ne refusait donc ni les forces armées ni le principe du citoyen-soldat à l’instar des pacifistes de gauche; 3) il entendait revenir aux principes de la diplomatie classique et refusait de ce fait d’embrayer sur les discours imposés par les médias (ou le “soft power”). Le neutralisme, en prenant le contre-pied du prêt-à-penser médiatique, s’avérait un espace de liberté, face à la “novlangue” planétaire, si bien fustigée par George Orwell dans “1984”.

 

Nous avons eu la naïveté de croire à l’avènement d’une “Maison Commune” européenne

 

Si le mouvement neutraliste avait pu distiller ses arguments pendant une période plus longue, imprégner plus durablement les esprits, la pensée politique diffuse en Europe aurait pu générer des anti-corps. Mais l’effervescence anti-missiles et les réflexions neutralistes se sont étalées sur quatre années seulement. Dès 1984-85, Gorbatchev lance deux idées: celle, très positive, de “Maison Commune européenne” et, celle, double, de “perestroïka” et de “glasnost”, de réforme et de transparence. Ce changement de discours à Moscou mine définitivement le communisme soviétique traditionnel. Entre 1989 et 1991, en effet, le communisme en tant que bloc monolithique disparaît du paysage politique international. Notre conclusion à l’époque: s’il n’y a plus de communisme, il ne peut plus y avoir d’animosité à l’endroit des peuples d’au-delà de l’ancien Rideau de Fer. Les motifs d’un conflit éventuel n’existaient plus. Nous avons eu la naïveté de croire à l’avènement d’une Maison Commune européenne pacifiée, à l’ouverture d’une ère marquée par un esprit plus ou moins équivalent à celui qui se profilait derrière l’idée de paix perpétuelle chez Kant.

 

Rapidement, l’idée universaliste armée du communisme soviétique allait faire place à un néo-conservatisme, dérivé de la matrice du trotskisme américain et new-yorkais. Alliant le néo-libéralisme, nouvelle grande idéologie universaliste, à ce trotskisme fidèle à la notion de révolution permanente mais habilement masqué par une phraséologie conservatrice et puritaine, le néo-conservatisme va se  consolider en deux étapes: la première, avec Reagan, constituera un “mixtum” de paléo-conservatisme, d’anti-fiscalisme, de néo-libéralisme et, en politique internationale, d’une diplomatie en apparence plus classique qu’avec les droits de l’homme de Carter mais néanmoins érodée par une phraséologie apocalyptique (l’Empire du Mal, etc.). Reagan prend finalement le relais de Nixon, dernier président américain à avoir appliqué plus ou moins correctement les règles de la diplomatie classique. Mais, tout en prenant le relais de Nixon, il doit tenir compte des acquis ou des avancées de l’anti-diplomatie cartérienne, basée sur l’idéologie des droits de l’homme. Cependant, le langage apocalyptique s’atténuera pendant son second mandat.

 

Le néo-conservatisme crypto-trotskiste met un terme définitif à la diplomatie classique

 

Avec Bush le père commencent les tentatives de forcer la main aux instances internationales et de passer à de véritables offensives sur le terrain, la Russie d’Eltsine n’opposant aucun veto crédible. Clinton renouera, notamment pendant la Guerre des Balkans contre la Serbie, avec l’idéologie des droits de l’homme, prétendument bafouée par Milosevic dans la province du Kosovo. Avec Bush le fils, le néo-conservatisme crypto-trotskiste met un terme définitif à la diplomatie classique, la brocarde comme une “vieillerie” incapacitante, propre justement de la “Vieille Europe” et de la Russie (posée souvent comme “stalinienne” ou “néo-stalinienne” depuis l’avènement de Vladimir Poutine). Ce rejet de la diplomatie classique et des règles de bienséance internationale est l’indice le plus patent qui permet de démontrer, outre les liens et itinéraires personnels des exposants majeurs du  néo-conservatisme, que le néo-conservatisme est en réalité un trotskisme dans la mesure où il affine la notion de “révolution permanente” en abolissant toutes les règles en vigueur, toutes les règles communément acceptées, et en recréant un monde incertain, où le recours aux guerres et aux invasions redevient un mode de fonctionnement tout à fait naturel et acceptable. Le “Big Stick Policy” de Teddy Roosevelt est désormais au service d’une bande trotskiste qui entend plonger le monde dans un chaos permanent (assimilé à la “révolution”).

 

C’est uniquement avec le recul que l’on perçoit clairement les vicissitudes de cette politique américaine et son jeu d’avancées et de reculs, camouflé par l’alternance des Démocrates et des Républicains au gouvernail du pouvoir. L’accession à la magistrature suprême aux Etats-Unis de Bush le père constitue aussi l’arrivée des pétroliers texans qui savent à tout moment se souvenir que la puissance américaine dérive du contrôle des hydrocarbures dans le monde, et en particulier dans la péninsule arabique et le Golfe Persique. La crainte d’un prochain “pic” pétrolier implique la volonté de contrôler le maximum de puits dans cette région afin de garantir l’hégémonie globale de Washington, au moins jusqu’à la fin du 21ème siècle. D’où le projet PNAC (“Project for a New American Century”). Les chanceleries européennes savent parfaitement que l’Amérique entend perpétuer son hégémonisme en contrôlant les sources d’hydrocarbures moyen-orientales au détriment de toutes les autres puissances du globe et que le rejet de la diplomatie classique finit par être un “modus operandi” commode pour imposer sa volonté sans discussion ni débat ni concertation. Mais ces mêmes chanceleries sont incapables d’opposer, par manque de volonté et de cohérence intellectuelle, par fascination imbécile du modèle américain, une métapolitique européenne générale, un “soft power” européen capable de distiller dans les esprits, via les médias, des raisonnements et de “grandes idées incontestables” contrairement à leur homologue américaine, “grandes idées incontestables” véhiculées par les grandes agences médiatiques d’Outre Atlantique.

 

Les “blanches vertus” du démocratisme planétaire

 

L’Amérique est maîtresse du monde non seulement parce qu’elle contrôle les hydrocarbures mais aussi et surtout parce qu’elle forge, répand et impose les opinions dominantes dans le monde, spécialement en Europe. En 1999, quand le “bon apôtre” Clinton, posé comme tel parce que “démocrate” donc de “gauche”, lance ses bombardiers contre Belgrade, les pays européens de l’OTAN emboîtent le pas sans régimber. Depuis Franklin Delano Roosevelt, le démocrate qui avait lancé la croisade contre l’Europe allemande en 1941, la “bonté” politique, les blanches “vertus” du démocratisme planétaire sont incarnées, avant tout, par les démocrates américains. Par conséquent, si on ne suit pas leurs injonctions, on plonge dans le “mal”, dans le “crypto-nazisme” ou dans une résurgence quelconque de l’hitlérisme. Cet immense simplisme est profondément ancré dans les mentalités contemporaines et malheur à qui tente de l’extirper comme une mauvaise herbe! De fait, les réseaux pro-américains sont nés, en Europe, dans les années 40, sous l’impulsion de l’Administration Roosevelt, d’obédience démocrate; l’atlantisme militant avait au départ un ancrage plutôt social-démocrate (à l’exception de Schumacher en Allemagne de l’Ouest), que conservateur ou même libéral au sens européen du terme à l’époque.

 

La participation des pays européens de l’OTAN, France chiraquienne comprise, aux bombardements des villes serbes, est l’indice d’un parfait “écervèlement politique”: la politique de Clinton et de son adjointe Madeleine Albright (qui a eu pour étudiante Condoleezza Rice; vous avez dit continuité?) réintroduisait indirectement la Turquie dans les Balkans, en détachant de la Serbie comme de la Croatie, et en dépit des peuplements serbes ou croates, les anciennes provinces ottomanes du tronc commun, induisant ainsi l’émergence d’une “dorsale islamique” de la Méditerranée à l’Egée et à la Mer Noire. Tous les Etats voisins s’en trouvaient fragilisés: la Macédoine, la partie de la Grèce entre Thessalonique et la frontière turque, la Bulgarie qui compte de dix à quinze pourcents de musulmans, souvent ethniquement turcs, sans compter la sécession du Kosovo, prévisible dès 1998. De plus, les minorités non musulmanes au sein des nouveaux Etats majoritairement musulmans sont menacées à  terme en Albanie, au Kosovo, en Macédoine.

 

La création délibérée du chaos dans les Balkans n’est pas une politique démocrate, qui s’opposerait à une politique républicaine antérieure. Elle s’inscrit bien au  contraire dans une parfaite continuité. Bush le père, Républicain, installe ses troupes en lisière de l’Irak de Saddam Hussein, contrôle l’espace aérien irakien et prépare ainsi la seconde manche, soit l’invasion totale de l’Irak, qui aura lieu, sous le règne de son fils, en 2003. Clinton, Démocrate, lui, s’empare du tremplin de l’Europe en direction du Proche et du Moyen Orient depuis l’épopée d’Alexandre le Grand. La maîtrise des Balkans et celle de la Mésopotamie participent d’une seule et même stratégie grand-régionale. L’empire macédonien-hellenistique d’Alexandre le Grand, l’empire ottoman ont toujours maîtrisé à la fois les Balkans et la Mésopotamie au faîte de leur puissance. C’est une loi de l’histoire. Les stratégistes américains s’en souviennent.

 

Les réseaux pro-américains étaient au départ socialistes

 

La guerre contre la Yougoslavie résiduaire de Milosevic en 1999, premier conflit de grande envergure en Europe depuis 1945, est donc le fait d’un président et d’une équipe issus du parti démocrate américain. C’est la raison pour laquelle les puissances européennes, grandes et petites, ont suivi comme un seul homme, contrairement à ce qui allait se passer en 2003, lors de l’invasion de l’Irak. Cette unanimité s’explique tout simplement parce que l’Europe place toujours sa confiance dans une Amérique démocrate, en se méfiant de toute Amérique républicaine. Pourquoi? Parce que, je le répète, les réseaux pro-américains ont émergé, lors de la seconde guerre mondiale, sous la double impulsion du Président américain et de son épouse Eleonor et que l’atlantisme militant, le “spaakisme” dit chez nous le Prof. Coolsaet de l’Université de Gand, avait un ancrage socialiste plutôt que conservateur (Pierre Harmel s’efforcera au contraire de se dégager de la logique des blocs, que Spaak avait bétonné).

 

En transformant le tremplin balkanique en une zone contrôlée par les Etats-Unis, le tandem Clinton/Albright neutralisait la région à son profit: celle-ci n’allait plus pouvoir constituer un atout pour le bloc centre-européen germano-centré ni pour une Russie régénérée qui aurait fait valoir ses anciens intérêts dans les Balkans. En 1999, l’Europe a perdu tous les atouts potentiels qu’elle avait gagnés à partir de 1989. Elle les a perdus parce qu’elle n’a pas cultivé le sens de son unité, parce qu’elle n’a pas une vision claire de son destin géopolitique. En 2001, suite aux “attentats” de New York, l’Amérique parachève son projet “alexandrin” en s’emparant rapidement de la zone orientale de l’antique Empire du chef macédonien. En 2003, lorque le fils Bush entend terminer le travail de son père en Mésopotamie, l’Europe semble se réveiller et crée autour de Paris, Berlin et Moscou un front du refus que les services américains fragilisent aussitôt en semant le dissensus entre cet “Axe”, nouveau et contestataire, et de petites puissances comme les Pays-Bas, la Pologne, la République Tchèque et les Pays Baltes, tout en bénéficiant de l’appui de la Grande-Bretagne et de la pusillanimité de l’Espagne et de l’Italie. On se souviendra de la distinction opérée entre “Vieille Europe”, aux réflexes dictés par la diplomatie classique, et “Nouvelle Europe”, alignée sur la logique du fait accompli des néo-conservateurs.

 

“Révolutions colorées” et pétrole

 

Les services américains et le soft power de Washington, vont s’activer pour vider l’Axe Paris Berlin Moscou de son contenu: de Villepin en France est éliminé de la course à la présidence, à la suite d’un dossier de corruption sans doute préfabriqué, au bénéfice de Sarközy, qui mènera, comme on le sait, une politique pro-atlantiste. Le social-démocrate allemand Schröder devra céder la place à Angela Merkel, plus sceptique face au bloc continental européen, plus prompte à tenir compte des exigences des Etats-Unis. Schröder demeure toutefois en place, en gérant de main de maître les relations énergétiques entre l’Allemagne et la Russie. Les révolutions orange, qui ont éclaté en Ukraine, en Géorgie, en Serbie (avec “Otpor”) ou au Kirghizistan ne sont donc pas les seules interventions des services et du soft power: en Europe occidentale aussi la politique est manipulée en sous-main, l’indépendance nationale et/ou européenne minée à la base dès qu’elle tente de s’affirmer, par le biais de la manipulation des élections et des factions. Dans l’avenir, un bloc européen indépendant devrait s’abstenir de reconnaître les gouvernements issus de “révolutions colorées”.

 

En Géorgie, le pouvoir mis en place par la “révolution des roses” a pour objectif de garantir le bon déroulement de la politique pétrolière américaine dans le Caucase et en lisière de la Caspienne. Pour les stratégistes américains, la Géorgie doit être un espace de transit pour les oléoducs et gazoducs amenant les hydrocarbures du Caucase et de la Caspienne vers la Mer Noire et vers la Méditerranée via la Turquie. De là, ils parviendraient en Europe sous le contrôle américain. Le malheur de l’Europe, c’est de ne pas avoir de pétrole. Nous devons acheter la majeure partie de nos hydrocarbures en Arabie Saoudite ou dans les Emirats par l’intermédiaire de consortiums américains. L’affrontement russo-géorgien de l’été 2008, à propos de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud, a pour enjeu réel l’énergie. Pour échapper à la dépendance énergétique, l’Europe doit tenter, par tous les moyens techniques possibles, d’abord, de réduire cette dépendance pétrolière en pariant sur des sources propres comme l’énergie nucléaire et toutes les autres sources imaginables et réalisables, selon une optique de diversification adoptée mais non parachevée en son temps par la France gaullienne. Les panneaux solaires constituent une première alternative parfaitement généralisable dans notre pays: en effet, pourquoi les ménages qui constituent notre nation ne pourraient-ils pas générer leur propre électricité domestique, ou une bonne part de celle-ci, sans passer par des fournisseurs contrôlés par l’étranger comme “Electrabel”, entièrement aux mains de l’ennemi héréditaire français, qui occupe depuis trois siècles et demi près des trois quarts du territoire du Grand Lothier! Certaines voix nous disent: par année, le nombre de journées d’ensoleillement est trop restreint en Belgique par rapport à la zone méditerranéenne pour constituer une alternative au pétrole. Peut-être. Mais un pays comme la Norvège, disposant pourtant de pétrole propre, la technique des panneaux solaires génère 50% de l’énergie domestique de ses ménages dans un pays où l’ensoleillement moyen est bien plus réduit que chez nous. Notre objectif premier est la réduction graduelle de la dépendance, non pas l’obtention immédiate d’une autarcie totale.

 

Pacte de Shanghai et initiatives ibéro-américaines

 

Nous venons de voir que l’emprise américaine sur notre politique étrangère est complète. Elle détermine aussi notre politique énergétique. L’Amérique séduit les esprits (ou plutôt les masses écervelées) par le truchement de son soft power omniprésent. Le princpal danger qui nous guette dans l’immédiat en Europe est la disparition graduelle et silencieuse des espaces encore neutres. Les pays qui ont gardé le statut de neutralité lorgnent de plus en plus vers l’OTAN. Je rappelle que notre position initiale, calquée sur celle du Général Jochen Löser dans les années 80 en Allemagne fédérale, visait au contraire l’élargissement de l’espace neutre en Europe. Non le contraire! Löser entendait élargir le statut de la Suisse, de l’Autriche, de la Yougoslavie, de la Finlande et de la Suède aux deux Allemagnes, aux Etats du Benelux, à la Pologne, à la Tchécoslovaquie et à la Hongrie. Aujourd’hui, ces trois derniers  pays font partie de l’OTAN et en sont même devenus les élèves modèles. De fiers représentants de la “Nouvelle Europe”, telle que l’a définie Bush jr. L’Europe, totalement abrutie par les propagandes distillées par le soft power, ne peut constituer, pour l’instant, dans les conditions actuelles, un espace de renouveau politique, exemplaire pour la planète entière. Les seuls môles de résistance cohérents se situent aujourd’hui en Asie et en Amérique latine. En Asie, la résistance s’incarne dans le “Pacte de Shanghai” et en Amérique latine dans les initiatives du Président vénézuélien Hugo Chavez, alliant, avec les autres contestataires ibéro-américains, les corpus doctrinaux péronistes, castristes et continentalistes qui, fusionnés, permettent aux Etats ibéro-américains de créer des structures unitaires capables de refouler l’ingérence traditionnelle des Etats-Unis dans leurs affaires politiques et économiques, au nom d’une idéologie soi-disant panaméricaniste, forgée au temps de la politique du “Big stick” de Teddy Roosevelt.

 

Sans le “Pacte de Shanghai” et sans la volonté indépendantiste et continentaliste des Ibéro-Américains, la domination américaine sur le monde serait totale, comme elle est quasiment totale en Europe depuis la  liquidation du gaullisme par Sarközy et le “mobbing” systématique de la Suisse et de l’Autriche (affaires Waldheim et Haider). Les espaces potentiels de résistance se font de plus en plus rares: il reste des bribes de gaullisme en France, de bons réflexes neutralistes en Allemagne, une volonté de conserver le statut de neutralité en Autriche, en Suisse et en Suède; l’opinion  publique en Belgique, d’après un sondage récent, craint davantage les initiatives bellicistes américaines que celles de la Russie de Poutine (en dépit de la propagande russophobe du “Soir”), alors qu’en Allemagne, où la russophilie de bon nombre de cercles établis est plus solidement ancrée, Washington et Moscou sont mis sur pied d’égalité.

 

“Volksgezindheid” et solidarisme

 

Pour faire éclore un môle de résistance en Flandre, il me paraît opportun de dire aujourd’hui qu’il devrait reposer sur deux piliers: la “volksgezindheid” (le populisme au sens défini par la tradition herdérienne ou par la tradition slavophile russe) et le solidarisme. La “volksgezindheid” est un sentiment plus profond que le “nationalisme” car il ne découle pas uniquement d’une option politique mais aussi et surtout d’un amour du passé et de la culture du peuple dont on ressort. Le terme “nationalisme”, de surcroît, recouvre des acceptions bien différentes selon les pays (14). L’utiliser peut semer la confusion, tandis que le terme “volksgezind”, lui, indique bien la teneur de notre propre tradition. Le solidarisme est un terme délibérément choisi pour remplacer celui de “socialisme”, désormais grevé de trop d’ambiguïtés ou assimilé à des déviances de tous ordres qui font que les socialistes officiels sont tout sauf socialistes. Le solidarisme devra exprimer dans l’avenir un socialisme sans atlantisme (à la Spaak ou à la Claes), un socialisme sans les “consolidations” à la Di Rupo (quand il s’agissait de privatiser la RTT pour qu’elle devienne “Belgacom”), un socialisme qui défende la solidarité de tous les producteurs directs de biens et de services contre les féodalités administratives et parasitaires. Un tel solidarisme découle aussi, pour ceux qui ont encore une culture classique, de la fameuse “fable de l’estomac” de la tradition romaine: “tous les organes de la communauté populaire servent les autres et construisent de concert l’harmonie”.

 

Une volonté de renouveau politique général basée sur la “volksgezindheid” et le solidarisme fera immédiatement se dresser devant elle des ennemis implacables. L’affirmation des valeurs populaires et solidaires implique automatiquement de désigner leurs ennemis, selon la formule de Carl Schmitt. Identifions-en trois aujourd’hui: 1) les médias formatés par le soft power américain; 2) l’idéologie néo-libérale, nouvel universalisme araseur des spécificités populaires et des politiques sociales, permettant le renouveau des élites (au sens où l’entendait Gaetano Mosca et Vilfedo Pareto); 3) l’idéologie festiviste qui noie les peuples dans l’impolitisme.

 

Le cas Verstrepen

 

“Volksgezindheid” et solidarisme impliquent de lutter contre tous les phénomènes culturels qui ne découlent pas naturellement d’une matrice populaire (la nôtre ou celle d’un autre peuple réel) mais nous  sont imposés par le soft power internationaliste et cosmopolite. Un exemple: vous vous rappelez tous de ce journaliste branché, Jürgen Verstrepen, égaré, on ne sait trop pourquoi, dans le mouvement national flamand, où il s’était fait élire. Dans un entretien récent, accordé à l’hebdomadaire de variétés “Dag allemaal”, ce Verstrepen se plaignait du “passéisme” de ses co-listiers, qui chantaient des chants traditionnels, qu’il posait d’emblée comme “ringards” ou désuets, un “ringardisme” et une désuétude qui suscitait chez lui un avatar de ce même effroi ressenti par les dévots devant les oeuvres réelles ou supposées du Malin. Toute expression de la culture vernaculaire suscite donc en lui, à l’entendre, le dégoût du progressiste, pour qui rien d’antérieur aux panades médiatiques ou de différent d’elles n’a le droit d’exister. Et plutôt que d’aller se recueillir dans une belle abbaye bourguignonne, comme son parti le lui avait suggéré, il préférait flâner dans un “mall” pour se choisir des fringues branchés, des bouts de chiffon marqués d’un logo, en compagnie d’une autre députée-gadget, allergique aux racines. Inconsciemment, dans son entretien à “Dag allemaal”, Verstrepen révélait un état de choses bien contemporain: la lutte entre le vernaculaire matriciel, les racines et la culture traditionnelle, d’une part, et le médiatiquement branché, d’autre part. Reste une question: comment conciliait-il, ce Verstrepen, dans son cerveau soumis à l’homogénéisation postmoderniste, ce culte dévot du médiatiquement branché et son aspiration à lutter contre le “politiquement correct”? On ne peut aduler l’un et lutter contre l’autre: on ne peut, de notre point de vue, que les rejeter tous deux. On ne peut être atlanto-hollywoodien, succomber à la séduction du babacoolisme californocentré et se réclamer simultanément d’un “nationalisme” en lutte contre l’idéologie liberticide du “politiquement correct”. Verstrepen incarne bien l’incohérence de bon nombre de nos contemporains dans la Flandre d’aujourd’hui. Espérons que la crise va leur dessiller les mirettes. Car le soft power a promu le néo-libéralisme, cause de la crise, en même temps que les manipulations médiatiques, les modes (captatrices d’attentions) et le festivisme.

 

“Volksgezindheid” et solidarisme impliquent donc de lutter contre toutes les formes de néo-libéralisme que l’on nous a imposées depuis Thatcher et Reagan, depuis le début de la décennie 80. Nos admonestations, jusqu’ici, surtout celles, au début de notre aventure, de Georges Robert et Ange Sampieru, n’y ont rien changé. G. Robert et A. Sampieru étaient très attentifs aux productions des éditions “La Découverte” qui amorçaient déjà la critique du libéralisme outrancier qui pointait à l’horizon. Aujourd’hui, dans le monde occidental, l’américanosphère, l’espace euro-atlantique, dans la Commission européenne complètement inféodée à l’idéologie néo-libérale, la domination de cette idéologie est totale. Et la crise de ce début d’automne 2008 laisse entrevoir quelles en seront les conséquences catastrophiques, avec pour seule consolation que le système a appris à freiner les effets des crises et des récessions, à les délayer dans le temps. La crise prouve que la recette néo-libérale ne fonctionne pas: tout simplement. En attendant, les délocalisations perpétrées depuis près d’une trentaine d’années laissent l’Europe privée d’un tissu de petites et moyennes industries, pourvoyeuses de travail, et affligée d’un secteur tertiaire improductif qui n’offre que des emplois détachés du réel de la production et injecte dans les mentalités une idéologie délétère du “non-travail” (dénoncée très tôt par Guillaume Faye dans un texte que de Benoist avait refusé de publier). Cette idéologie du non-travail est aussi celle du festivisme: elle a servi d’édulcorant intellectuel pour justifier le processus de démantèlement de nos tissus industriels locaux, par le truchement des délocalisations vers l’Extrême-Orient, l’Afrique du Nord ou la Turquie (surtout le textile) et pour exalter le travail non productif du secteur tertiaire, devenu dangereusement inflationnaire.

 

Néo-libéralisme et altermondialisme

 

L’avènement du néo-libéralisme a été rendu possible par une bataille métapolitique. On se rappellera l’engouement pour Hayek, qu’on exhumait de l’oubli en même temps que les “think tanks” de Mme Thatcher dès la fin des années 70. On insistait principalement sur son pamphlet “The Road to Serfdom” et non pas tant sur les dimensions organiques (et parfois intéressantes) de sa théorie économique, axée sur la notion de “catallaxie” (laisser faire les choses naturellement sans interventions étatiques volontaristes). L’infiltration néo-libérale du discours dominant a surtout été le fait des “nouveaux philosophes”, dont nous venons d’expliciter le rôle, et de personnages ultra-médiatisés comme Jacques Attali, biographe de banquiers, et Alain Minc, propagateur principal de la nouvelle vulgate dans les gazettes conservatrices. Nul mieux que François Brune, collaborateur du “Monde Diplomatique”, n’a défini l’idéologie contemporaine, dans son ouvrage “De l’idéologie, aujourd’hui” (Ed. Parangon/L’Aventurine, Paris,  2003): “L’idéologie est omniprésente: dans les sophismes de l’image, le battage événémentiel des médias, les rhétoriques du politiquement correct, les clameurs de la marchandise. Machine à produire du consentement, elle démobilise le citoyen en le vouant à l’ardente obligation de consommer, de trouver son identité dans l’exhibition mimétique (ndlr: niet waar, Meneer Verstrepen?), sa liberté dans l’adhésion au marché, et son salut dans la ‘croissance’... C’est cela l’idéologie d’aujourd’hui: une vaste grille mentale, faussement consensuelle, qui prescrit à chacun de se taire dans son malheur conforme, et qui aveugle nos sociétés sur la catastrophe planétaire où ses modèles socio-économiques entraînent les autres peuples” (présentation de l’éditeur).

 

Le système, en lançant l’opération du néo-libéralisme dès la fin des années 70, devinait bien que cette idéologie finirait par rencontrer assez vite des résistances diverses. Deux objectifs allaient dès lors être les siens: 1) empêcher la fusion de ces résistances telles que l’avait préconisée le théoricien ex-communiste Roger Garaudy (soit empêcher les complots “rouges-bruns”, comme s’y sont employés le journal “Le Monde” de Plenel à Paris et certains cercles ou personnalités autour du PTB/PvdA en Belgique); 2) créer une résistance artificielle (l’altermondialisme), de manière à neutraliser toute résistance réelle. L’altermondialisme énonce un tas d’idées intéressantes et séduisantes. Mais il les énonce sans une assise politico-étatique et géographique précise, sans un ancrage tellurique, condition sine qua non pour lui conférer une épaisseur réelle. Tout empire, et tout challengeur d’empire, s’arc-boute sur un terrain: l’hegemon américain d’aujourd’hui ne fait pas exception. Il dispose d’un territoire aux dimensions continentales. Il pratique le protectionnisme et une bonne dose d’autarcie, tout en prêchant aux autres de ne pas adopter les mêmes attitudes et en les maintenant ainsi en état de faiblesse. Si l’hegemon développe un “réseau”, il le fait au départ d’une vaste base logistique, soit au départ de son propre territoire biocéanique, de l’Atlantique au Pacifique, et de son prolongement pacifico-arctique, l’Alaska. Pour créer l’illusion d’une résistance planétaire, les services de diversion ont forgé le concept de “réseau” (qui a séduit le “parigogot” de Benoist, l’homme qui cherche sans cesse le statut de vedette du jour, au détriment de toute rigueur de jugement).

 

Ce n’est pas le “réseau” qui est contestataire mais les vieilles strucutres étatiques et impériales

 

L’altermondialisme militant entend être le seul grand réseau contestataire de l’établissement mondial. Mais depuis les émeutes bien médiatisées de Gênes ou de Nice, on ne voit pas très bien quel ébranlement du système en place ce fameux “réseau” a pu produire. La thèse de Michael Hardt et Toni  Negri sur l’“Empire”, dont les assises seront “un jour” définitivement sapées par le “réseau altermondialiste”, s’avère un leurre. Au temps de la Guerre Froide, les services américains avaient su faire émerger des “communistes de Washington” (pour reprendre l’expression de Jean Thiriart); il recycle désormais, en la personne de Toni Negri, d’anciens “terroristes” pour une opération de diversion d’envergure planétaire, qui absorbe et neutralise la contestation, en la médiatisant, en la transformant en un pur “spectacle” (Guy Debord), car nos contemporains, formatés comme les citoyens d’Océania, dans le “1984” d’Orwell, croient davantage aux images (télévisées) qu’aux faits (vécus), au spectacle qu’au réel. La résistance au système mondialiste américano-centré ne se retrouve pas, en réalité, dans un “réseau” planétaire de contestataires “babacoolisés” ou de nervis shootés à la cocaïne mais provient bien davantage de structures étatiques et impériales classiques, profondément ancrées dans le temps passé: Groupe de Shanghai avec une Chine aux traditions politiques millénaires, une Russie de Poutine qui retrouve sa mémoire, un indépendantisme ibéro-américain dans l’esprit du Mercosur et du président vénézuélien Chavez.

 

Combattre le festivisme

 

Enfin, après le “soft power” et le “néo-libéralisme”, le troisième aspect du système général d’ahurissement des masses et de déracinement, qu’il s’agit de combattre à outrance, est représenté par l’ambiance “festiviste”, celle que dénonçait avec force vigueur le philosophe français, récemment et prématurément décédé, Philippe Muray. Dans son tout dernier ouvrage, “Festivus festivus” (Fayard, 2006), Muray prononce un réquisitoire aussi virulent que tonifiant contre ce qu’il appelle le festivisme, mode de fonctionnement des sociétés occidentales avancées. Dans le long entretien, qu’est ce livre, avec la journaliste et philosophe vraiment non conformiste Elizabeth Lévy, Muray, dans son chant du cygne, fustige une société qui fonctionne uniquement sur le mode de la fiction médiatique, un mode qui vise la désinhibition totale, l’exhibition de tout ce qui auparavant était “privé”, “intime” et “secret” (dont évidemment les attributs et les pratiques sexuels). Le pouvoir, explique Muray, s’exercera avec une acuité maximale, quand les dernières enclaves du “secret” seront divulguées et exhibées, quand les dernières limites et les dernières distances (et les distances sociales font la civilisation, la promiscuité l’abolissant) auront été franchies et supprimées. La télévision avec ses émissions exhibantes (“Loft Story”, etc.) est l’instrument de ce pouvoir qui annonce la fête permanente et l’impudeur universelle, dans l’intention d’évacuer les îlots de “sériosité”, établie ou alternative, afin d’empêcher tout retour à un passé moins trivial ou toute préparation d’un futur cohérent. L’impudeur universelle brouille toutes les frontières et annonce un amalgame planétaire de promiscuité et d’indifférenciation, sous le signe de l’infantilisme “touche-pipi” et de l’ “adultophobie”.

 

Dans un ouvrage antérieur, intitulé “Désaccord parfait”, Muray qualifiait de “société disneylandisée” toute société “où les maîtres sont maîtres des attractions et les esclaves spectateurs ou acteurs de celles-ci”. Le “soft power” va donc imaginer et préfabriquer des “attractions”, pour tuer dans l’oeuf toute pensée libre, toute spontanéité créatrice ancrée dans le génie populaire, en substituant au créateur libre et spontané issu du peuple (celui de Rabelais et des carnavals contestataires) l’animateur officiel ou subsidié, et subsidié seulement après être passé sous les fourches caudines de l’idéologie imposée, après avoir appris son unique leçon qu’il répétera jusqu’à la consommation des siècles. Le “néo-libéralisme” va prospérer en marge de cette grande fête artificielle, forgée de toutes pièces, bien encadrée par de petits flics à gueule de bon apôtre, en dépit de son  désordre apparent, qui étouffera d’emblée toute révolte vraie. Par l’action des anciens contestataires arrivés au pouvoir, le “mixtum compositum” de mai 68 se réduira ainsi progressivement à ses seules dimensions festives, libidineuses et ludiques, tirées, par les agents de l’OSS, du livre “Eros et civilisation” d’Herbert Marcuse voire des vulgates caricaturales issues du freudo-marxisme de Reich, dont ils fabriqueront un “prêt-à-penser” allant dans le sens de leurs desseins. Dans son meilleur ouvrage, désormais un classique, “L’Homme unidimensionnel”, Marcuse craignait l’avènement d’une humanité formatée, réduites à ses seuls besoins matériels; il avait raison; mais les règles de ce formatage, c’est lui, probablement à son corps défendant, qui les a fournies au système. On a formaté et on a trouvé l’édulcorant dans sa définition de l’ “éros”, que l’on a quelque peu sollicitée pour les besoins de la cause. Ce ne sont pas les rigidités du monde totalitaire du “1984” d’Orwell mais le “Brave New World” de Huxley, avec ses paradis artificiels, que l’on tente de nous infliger.

 

Mort du “zoon politikon” et mort des peuples

 

Les bourgmestres (ou “maires”) de Paris et de Berlin, Delanoë et Wowereit, ou l’échevin Simons de Bruxelles, tout le socialisme français actuel (surtout à la gauche de Ségolène Royale) ont pour objectif stratégique réel (et à peine occulté) d’occuper les “citoyens” à toutes sortes de festivités, de concerts, de happenings, de “gay prides”, de “zinneke parades”, de manifestations antiracistes ou autres, afin qu’ils ne s’occupent plus directement de politique, afin qu’ils oublient définitivement ce qu’ils sont, la trajectoire dont ils procèdent. L’objectif? Eradiquer l’essence de l’homme qui est, dit Aristote, un “zoon politikon”. Il s’agit de distraire à tout prix l’imaginaire humain de toute tradition ou réalité historique. En Occident, dans le complexe atlantiste franco-anglo-américain selon la définition qu’en donnait mon professeur Peymans fin des années 70, la domination des castes mercantiles ou du tiers-état bourgeois français, a percuté, abîmé et détruit les ressorts les plus intimes des peuples (Irlande exceptée), si bien que Moeller van den Bruck, le traducteur de Dostoïevski, pouvait affirmer que quelques décennies de “libéralisme” suffisaient pour détruire définitivement un peuple.

 

Le festivisme, mode par lequel s’exprime le despotisme contemporain, contribue à donner l’assaut final aux ressorts intimes des peuples: il en pénètre le noyau le plus profond et y sème la déliquescence. Philippe Muray, pour revenir à lui, réactualise de manière véritablement tonifiante la critique de la “société du spectacle”, énoncée dans les années 60 par Guy Debord et l’école situationniste, tout en jetant un éclairage neuf et très actuel sur le processus de dissolution à l’oeuvre dans la sphère occidentale.

 

Lega Nord et FPÖ

 

Pour articuler une résistance à l’échelle européenne, pour traduire dans les faits nos options philosophiques et nos aspirations historiques, deux partis identitaires peuvent nous servir de modèle: la Lega Nord d’Italie du Nord et la FPÖ autrichienne. Je ne vois pas grand chose d’autre. Pourquoi? Parce que ce sont les deux seuls mouvements identitaires de masse qui affichent ou ont affiché clairement des options “non-occidentistes”. La “Lega Nord” et son quotidien “La Padania” ont eu une attitude très courageuse en 1999, quand l’OTAN bombardait la Serbie. Le journal et le “Senatur” Umberto Bossi n’ont pas hésité à fustiger vertement les Américans et leurs complices bellicistes en Europe. Ensuite, à la base de cette ligue, il y a un manifeste, “Come cambiare?” (“Comment changer?”), dû à la plume du grand juriste Gianfranco Miglio. Ce manifeste dénonce les travers de la partitocratie italienne, qui est si semblable à la nôtre. Les leçons de Miglio peuvent donc être directement retenues par tout militant politique de chez nous. La clarté des arguments et des suggestions de Miglio, que j’ai eu l’honneur de rencontrer en 1995 dans sa magnifique bibliothèque privée à Côme, nous permettrait de développer rapidement l’esquisse d’un contre-pouvoir (cf.: “L’Italie toute chamboulée...”, Entretien avec Gianfranco Miglio, propos recueillis par Andreas K. Winterberger, in; “Vouloir”, n°109-113, octobre-décembre 1993;  Alessandro Campi, “Au-delà de l’Etat, au-delà des partis: la théorie politique de Gianfranco Miglio”, in: “Vouloir”, n°109-113, oct.-déc. 1993; Luciano Pignatelli, “Les idées pratiques de Gianfranco Miglio:  comment changer le système politique italien”, in: “Vouloir”, n°109-113, oct.-déc. 1993; “Quelques questions à Gianfranco Miglio”, propos recueillis par Francesco Bergomi, in: “Vouloir”, n°109-113, oct.-déc. 1993; Robert Steuckers, “La Ligue lombarde”, in: “Le Crapouillot”, nouvelle série, n°119, mai-juin 1994; “L’Etat moderne est dépassé!”, Entretien avec le Prof. Gianfranco Miglio, propos recueillis par Carlo Stagnaro, in: “Nouvelles de Synergies Européennes”, n°46, juin-juillet 2000; “Pour une Europe impériale et fédéraliste, appuyée sur ses peuples”, Entretien avec le Prof. Gianfranco Miglio, propos recueillis par Gianluca Savoini, in: “Nouvelles de Synergies Européennes”, n°48, octobre-décembre 2000).

 

Dans l’orbite de la FPÖ, l’hebdomadaire “zur Zeit”, dirigé par Andreas Mölzer à Vienne, recèle chaque semaine des pages d’actualité internationale sans concession aucune à l’américanisme ambiant. Jörg Haider est décédé ce matin dans un accident d’automobile mais, en dépit de sa rupture récente avec la FPÖ et de son option personnelle en faveur de l’adhésion turque, il demeurera pour moi l’auteur impassable du livre-manifeste “Die Freiheit, die ich meine” (= “La liberté comme je l’entends”). La partitocratie autrichienne présentait, avant les coups de butoir de la FPÖ, d’étonnantes analogies avec la nôtre. La critique générale du système politique autrichien, telle que Haider l’a formulée, est très technique comme celle de Miglio. Mais elle ne recourt à aucun langage abscons. Et suggère des pistes pour sortir de l’impasse politique. La clarté de ces manifestes a donné à la “Lega Nord” et à la FPÖ une formidable impulsion dans les débats publics et, partant, dans les batailles électorales (cf. Robert Steuckers, “Autriche: Haider, le Capitaine du pays”, in: “Le Crapouillot”, nouvelle série, n°119, mai-juin 1994; “Nous sommes en avance sur notre temps!”, Entretien avec Jörg Haider, propos recueillis par Andreas Mölzer, in: “Au fil de l’épée” recueil n°8, février 2000; “Rafraîchir la mémoire des coalisés anti-Haider!”, in: “Au fil de l’épée”, recueil n°8, février 2000; Mauro Bottarelli, “Haider contre Chirac: non à l’UE centraliste et parisienne – la bonne santé de l’économie autrichienne”, in: “Au fil de l’épée”, recueil n°12, août 2000 – article traduit du quotidien “La Padania”, 11 juillet 2000).

 

Les succès constants de ces partis, leur impact indéniable sur le débat politique et sur les réformes en cours prouvent que les deux manifestes, que j’évoque ici, recèlent bel et bien les bonnes recettes. Si elles valent pour l’Autriche et pour l’Italie, elles devraient valoir pour nous, vu que les systèmes politiques de ces deux pays et leurs dysfonctionnements sont similaires et comparables aux nôtres. Et, qui plus est, la vision géopolitique de ces deux formations est européiste et anti-atlantiste, éléments essentiels pour une critique solide et positive du système en place qu’aucun parti ou mouvement n’a repris chez nous, rendant du même coup caduque toute efficacité concrète.

 

Les hommes de gauche qui ont opéré les bon aggiornamenti...

 

Pour nous servir d’inspiration complémentaire, nous ajouterions le corpus établi par des personnalités de gauche, devenues non conformistes au fil du temps, comme la famille de Rudy Dutschke ou son compagnon Bernd Rabehl, qui s’expriment régulièrement dans l’hebdomadaire berlinois “Junge Freiheit”; ou comme Günther Rehak en Autriche, ancien secrétaire du Chancelier socialiste Bruno Kreiski; en Suisse romande, toujours dans l’arc alpin, le mouvement “Unité populaire” parvient à nous livrer chaque semaine sur l’internet des analyses ou des réflexions dignes d’intérêt pour tous ceux qui rêvent à l’avènement d’un solidarisme qui soit capable de dépasser les contradictions et les enlisements du socialisme établi. En Italie, le quotidien romain “Rinascita”, issu du nationalisme classique, se présente actuellement comme le journal de la “sinistra nazionale” et opte pour une perspective européiste et eurasiste, anti-impérialiste et anti-capitaliste. Nos sources d’inspiration ne doivent pas se limiter aux seuls mouvements qui se donnent, à tort ou à raison, les étiquettes de “national”, de “régionaliste” ou d’ “identitaire”. Des cénacles, anciennement ou nouvellement classés à gauche sur les échiquiers politiques en Europe, ont procédé avec intelligence aux bons aggiornamenti: ils ont refusé toutes les involutions en direction des pistes suggérées par la “nouvelle philosophie” et ses satellites et ont rejeté l’attitude de ceux qui, en dépit de leur vibrant militantisme d’il y a quelques décennies, demeurent, par paresse intellectuelle, des “compagnons de route” des partis sociaux-démocrates partout en Europe. La posture du “compagnon de route” est le plus sûr moyen de s’enliser, de faire du sur place, d’entrer dans la spirale infernale du déclin, un déclin engendré par le “mimétisme” qui ne produit plus aucune différence (ni “différAnce” pour faire un clin d’oeil à Derrida), mais reproduit sans cesse, sur un ton morne, le même et le même du même. C’est le plus sûr moyen de devenir les béni-oui-oui du système, ses chiens de Pavlov.

 

La création d’un espace stratégique euro-sibérien est inséparable d’un remaniement complet de nos institutions nationales, dans le sens de la “volksgezindheid” et du solidarisme, dans le sens de la critique anti-partitocratique de Miglio et Haider, afin d’immuniser totalement ces institutions contre les bacilles du soft power jacobin ou américain.

 

C’est tout ce que j’ai voulu vous dire cet après-midi.

 

Robert Steuckers,

Octobre 2008.

 

 

NOTES :

(1)     William ENGDAHL, “Pétrole – une guerre d’un siècle – L’ordre mondial anglo-américain”, Ed. Jean-Cyrille Godefroy, Paris, 2007.

(2)     La parution de cet article, dans une publication du “Parti Communautariste National-Européen” avait induit l’inénarrable comploteur parisien Alain de Benoist, via son zélé vicaire campinois, à exciter un brave citoyen allemand, membre de la “DESG” (= “Deutsch-Europäische Studiengemeinschaft”), une association basée à Hambourg qui s’apprêtait alors à fusionner avec “Synergies Européennes”, à tenter un ultime baroud (de  déshonneur) pour torpiller cette fusion. L’homme, honnête, naïf et manipulé, a échoué dans ses manoeuvres. Il s’est dûment excusé quelques mois plus tard, à l’occasion d’un séminaire DESG/Synergies sur les relations germano-russes et euro-russes et sur la problématique de l’eurasisme, tenu à Lippoldsberg. Il avait enfin compris que l’instigateur de cette bouffonerie était un comploteur pathologique et que son vicaire n’était qu’un pauvre bas-de-plafond. Forcément: pour servir un tel maître...

(3)     Cf. L. SIMMONS, “Van  Duinkerke tot Königsberg – Geschiedenis van de Aldietsche Beweging”, Uitgeverij B.  Gottmer, Nijmegen,1980. Voir également: Alan SPANJAERS, “Constant Hansen”, in: “Branding”, n°2/2008.

(4)     Dexter PERKINS, “Storia della dottrina di Monroe”, Il Mulino, Bologna, 1960.

(5)     Alain GOUTTMAN, “La Guerre de Crimée 1853-1856, la première guerre moderne”, Perrin, 1995; vor également : “The Collins Atlas of Military History”, Collins, London, 2004.

(6)     Jacques HEERS, “Les Barbaresques - La course et la guerre en Méditerranée – XIV°-XVI° siècle”, Perrin, Paris, 2001-2008.

(7)     Robert STEUCKERS, “Constantin Frantz”, in: “Encyclopédie des Oeuvres philosophiques”, PUF, 1992.

(8)     Richard MOELLER, “Russland – Wesen und Werden”, Goldmann, Leipzig, 1941.

(9)     L’ouvrage le plus complet pour aborder cette thématique si complexe est le suivant: Gerd KOENEN, “Der Russland-Komplex – Die Deutschen und der Osten 1900-1945”, C. H. Beck, Munich, 2005.

(10)  Günther HASENKAMP, “Gedächtnis und Leben in der Prosa Valentin Rasputins”, Otto Harrassowitz, Wiesbaden, 1990.

(11)  Wolfgang STRAUSS, “Die Neo-Slawophilen – Russlands konservative Revolution”, in: “Criticon”, Munich, n°44, 1977. Cf. Robert STEUCKERS, “Wolfgang Strauss: les néo-slavophiles ou la révolution conservatrice dans la Russie d’aujourd’hui”, in “Pour une renaissance européenne”, Bruxelles, n°21, 1978.

(12)  Alexander YANOV, “The Russian New Right – Right-Wing Ideologies in the Contemporary USSR”, Institute of International Studies, University of California, Berkley, 1978.

(13)  Cf. Robert STEUCKERS, “Adieu au Général-Major Jochen Löser”,  in: “Nouvelles de Synergies  Européennes”, n°50, mars-avril 2001. Cf.  également: Detlev KÜHN, “En souvenir d’un soldat politique de la Bundeswehr: le Général-Major Hans-Joachim Löser”, ibidem. Ces deux textes figurent sur: http://euro-synergies.hautetfort.com .

(14)  Cf. nos deux études sur le nationalisme: Robert STEUCKERS, “Pour une typologie opératoire des nationalismes”, in: “Vouloir”, n°73/74/75, printemps 1991; Robert STEUCKERS, “Pour une nouvelle définition du nationalisme”, in: “Nouvelles de Synergies Européennes”, n°32, janvier-février 1998 (texte d’une conférence prononcée à Bruxelles le 16 avril 1997). On  peut lire ces deux textes sur: http://euro-synergies.hautetfort.com.

dimanche, 30 août 2009

Short note on the Pacts of August 1939

pactsigning.jpg

 

 

Short note on the Pacts of August 1939

(The Pact of Mutual Help between UK  and  Poland

and the Molotov-Ribbentrop Pact)

Tiberio Graziani *

Considering the alliances signed by the insular Great Britain in the frame of their secular anti-European power politics, finalized at containing and defeating the aims of friendship and / or integration among the nations of the European Continent, it is worth mentioning - as an illustrative example - the Pact of  Mutual Help between the UK and Poland, signed in London on 25 August 1939.

As known, the Anglo-Polish Friendship Treaty, signed by Lord Halifax and Count Rczynski, was a deliberate violation (1) of the similar Treaty that Germany and Poland had signed on 26 January 1934, and, above all, an explicit interference in the delicate relations between the National Socialist Reich and USSR; Berlin and Moscow, in fact, just two days earlier, on 23 August, had signed a non-aggression treaty, known to history as the Molotov-Ribbentrop Pact, named after their respective foreign ministers.

 

In this case, the United Kingdom intended  to use - as part of a diplomatic-military device, theoretically equal, -  the strategic position of Poland as a "splitter" between two continental powers in order to affect, simultaneously, both the creation of a potential axis Moscow -Berlin and the German-Polish agreements, and thereby removing any future potential perspective of welding / integration between the European Peninsula and the Asian continental mass.

The disturbing action devised by London, through a fine texture of diplomatic activities, which U.S. were involved (2), was perfectly consistent with British geopolitical doctrine, whose exploitation of the tensions between the continental nations constituted a key pillar of  its equilibrium policy (balance of power).

 

 

1. Some months before, on 19 May 1939, a Mutual Help Agreement between France and Poland (probably on U.S. and U.K. request) was signed in Paris by Polish ambassador Juliusz Lukasiewicz  and French Minister of Foreign Affairs, Georges Bonnet. For Berlin, and under some aspects for Moscow too, the  two Mutual Help Agreement constituted a sort of threat for the continental peace.

 

2.  We refer to meetings among U.S. Ambassador William Christian Bullitt, Jr. and the Polish Ambassadors Potocki and Lukasiewicz, which occurred in France in November 1938 and February 1939;  see  Giselher Wirsing, Roosevelt et l'Europe (Der Kontinent Masslose), Grasset, Paris, 1942, p. 266.

 

 

* Eurasia. Rivista di studi geopolitici (Eurasia. Journal of Geopolitical Studies – Italy)

www.eurasia-rivista.org

direzione@eurasia-rivista.org

 

vendredi, 28 août 2009

Association Solidarité Enfants de Beslan

liberation-otages-beslan1.jpg

 

 

Association Solidarité Enfants de Beslan (ASEB)

 

Section belge

 

 

 

Chers amis,

 

Vous avez pu constater au fil des années la profondeur et la constance de notre engagement en faveur des survivants du massacre de Beslan et, de manière générale, contre toutes les actions terroristes qui visent des enfants. Vous savez comment nous nous impliquons dans la pétition européenne pour faire du 1er septembre la Journée européenne de solidarité avec les enfants victimes du terrorisme. Vous savez, d’autre part, comment nous réagissons toujours à la désinformation systématique dont les Russes sont victimes à ce sujet.

 

Comme l’an dernier, une cérémonie de commémoration du drame de Beslan est prévue le 1er septembre prochain à 19 heures au Centre culturel et scientifique russe, au n°19 de la rue du Méridien à Bruxelles. Nous en avions arrêté le programme avec le directeur du Centre en accord avec l’Ambassadeur de Russie. Sur les six interventions inscrites, nous avions à en assumer une en français et une en néerlandais, les autres étant faites en russe, par l’Ambassadeur et le directeur du Centre et par des représentants des colonies ossète et russe.

 

Nous sommes à présent avertis que nos amis russes croient préférable de se réserver l’exclusivité de ce programme. Il convient dès lors que vous soyez prévenus que tant Renaissance Européenne, Terre & Peuple et Euro-Rus que l’ASEB ne font plus partie des invitants. Pour ce qui nous concerne, nous allons consacrer à présent toutes nos énergies à participer à la manifestation que l’ASEB organise à la mémoire de la tragédie de Beslan, comme chaque année depuis 2005, le 1er septembre prochain à 19 heures, à Paris, sur l’esplanade du palais du Trocadero.

 

Dès que nous aurons l’explication de la décision, pour nous incompréhensible, de nos amis russes, nous ne manquerons pas de vous la faire connaître. Nous vous prions de croire en attendant à notre entier dévouement à la cause d’une paix fraternelle sur l’ensemble de l’Eurosibérie, où les enfants feront l’objet d’une protection particulièrement attentive.

 

 

Jean-Jacques de Hennin                                                            

Georges Hupin

jeudi, 06 août 2009

Russie/Chine: grandes manoeuvres sur le front oriental

russie-chine-21.jpg

 

 

 

Russie/Chine: grandes manoeuvres sur le front oriental

 

22 juillet 2009: la “Mission de Paix 2009” vient de commencer. Il s’agit de manoeuvres militaires russo-chinoises qui se poursuivront dans les territoires les plus orientaux des deux  pays jusqu’au 26 juillet. Les opérations ont été planifiées pour 1300 militaires russes et autant de Chinois. Cent soixante véhicules blindés, dont des chars d’assaut, des avions et des hélicoptères participeront aux exercices. Ces manoeuvres ont pour but de renforcer la coopération entre les forces armées de Moscou et de Beijing, qui seront peut-être appelées à affronter les menaces du monde contemporain: le terrorisme et l’extrémisme. C’est ce qu’a déclaré le 22 juillet le chef d’état-major russe, le général Nikolaï Makarov. Mais ces manoeuvres n’ont pas été organisées à titre préventif seulement. Les protagonistes veulent faire entendre au monde un message bien précis par la voix du Général Makarov: “Les exercices militaires de ‘Mission de Paix 2009’ doivent démontrer à la communauté internationale que les forces armées de la Russie et de la Chine ont bel et bien la capacité  d’assurer la stabilité et la sécurité dans la région”. En clair: cela signifie que les adversaires du “Groupe de Shanghai” doivent se retirer du Turkestan oriental (Sinkiang), de l’Asie centrale et, aussi, bien sûr, de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud.

 

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 23 juillet 2009, trad. franç.: Robert Steuckers).

mercredi, 05 août 2009

Géorgie: l'opposition veut un dialogue avec Moscou

georgie.jpg

 

 

Géorgie: l’opposition veut un dialogue avec Moscou

 

Il n’y a rien de pire, pour un pays, puissant ou non, que de s’engager dans un “angle mort”  et d’y rester coincé. Car il n’en sort plus. Il lui est inutile d’attendre le bon vouloir de ses alliés: il doit se retrousser les manches et agir seul, se dépatouiller sans l’aide de personne. C’est le point de vue que semble avoir adopté le chef de l’opiniâtre opposition géorgienne, Irakli Alasania. Le 22 juillet dernier, il a accordé un entretien au quotidien russe “Kommersant” où il évoquait la nécessité de normaliser les rapports entre Moscou et Tbilissi. Il a déclaré: “C’est simple: il n’y a pas d’autre solution, il faut rétablir les relations russo-géorgiennes. Ni la Russie ni la Géorgie ne peuvent promouvoir une stabilité durable dans la région sans entamer un dialogue direct”.

 

Le jeune leader de l’opposition, qui est aussi le président du parti libéral-démocratique “Notre Géorgie”, est convaincu que, dans un avenir proche, il sera possible de négocier directement avec le Kremlin. Tout simplement parce que, comme il l’a dit, il n’y a pas d’autre solution.  Alasania est aussi l’un des candidats potentiels pour les futures élections présidentielles, quand Saakachvili ne pourra plus briguer de mandat supplémentaire. Pour Alasania, il serait idiot de commettre les mêmes erreurs impardonnables que son prédécesseur. Pendant ce temps, l’actuel gouvernement géorgien perd du crédit jour après jour et continue à hurler au scandale lorsque les autorités russes rendent une visite officielle, sans y être autorisées par Tbilissi, à la République indépendante d’Ossétie du Sud, jadis territoire géorgien. 

 

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 23 juillet 2009, trad.  franç.: Robert Steuckers).

mardi, 28 juillet 2009

Paris, au Sénat: le colloque sur Beslan

beslan3.jpg

 

 

Paris, au Sénat

LE COLLOQUE SUR BESLAN

 

Le 6 juin dernier s’est tenu à Paris, au Palais du Luxembourg, un colloque sur le thème ‘La solidarité européenne avec les enfants victimes du terrorisme’. Un des objectifs, non déclaré sur les invitations, est le lancement d’une pétition au Parlement européen. Pour obtenir de lui que le 1er septembre, anniversaire de la prise d’otages de loin la plus importante de toute l’histoire, devienne une journée de solidarité avec tous les enfants victimes du terrorisme. Les invitations avaient été lancées par l’ASEB, l’Association Solidarité avec les enfants de Beslan. Le colloque était présidé par Henri-Paul Falavigna, président de l’ASEB qui en a pris l’initiative, sous le patronnage du Sénateur Patrice Gélard, président du Groupe d’Amitié France-Russie. Le message de bienvenue de l’Ambassadeur Orlov a parfaitement fait comprendre qu’il avait parfaitement compris l’entreprise et qu’on pouvait compter les uns sur les autres.

 

Le colloque a bénéficié des contributions de :

Henri-Paul Falavigna, qui a rappelé d’entrée de jeu que la Croix-Rouge Internationale avait dénombré, parmi les enfants rescapé de la tuerie de Beslan, quarante cas graves pour lesquels un patronage amical serait salutaire, en tout cas psychologiquement. Pour le moment, dix familles françaises assurent ce service affectueux, pour l’essentiel par des échanges de lettres, de photos, de petits souvenirs. Il est nécessaire que trente parrainages supplémentaires soient trouvés.

Le professeur Jean-Pierre Arrignon, qui enseigne l’histoire du moyen âge de la Russie, notamment à l’EHESS, a retracé sous l’intitulé ‘Les Alains de la Russie à l’Europe’ les origines de ces Indo-européens, qui constituent aujourd’hui l’essentiel de la population d’Ossétie-Alanie. Tous les livres d’histoire de l’antiquité évoquaient déjà les Scythes et les Sarmates. Sénèque, Lucain et Flavius Josèphe attestent la présence des Alains dans ces régions et Strabon parle des Roxolans, ce qui signifie Alains lumineux. Effectivement, Ammien Marcellin, qui les décrit, au IVe siècle, les voit grands et beaux avec des cheveux tirant sur le blond. Et vivant dans des cités mouvantes composées de chariots. Le professeur Arrignon recommande la traduction par Georges Dumézil de leur légende sur les Nartes, parue dans la collection Gallimard Unesco sous le titre ‘Le livre des héros’. Sous un premier grand choc qu’il subissent, celui des Huns, les Alains vont refluer jusqu’en Gaule, où ils laisseront des souvenirs de leur passage, notamment dans la toponymie (Alençon). La cavalerie des Alains sera là pour arrêter Attila devant Orléans. Et pour récupérer enfin leur patrie caucasienne. Ils s’étendent alors vers le sud de la chaîne montagneuse, établissant une Alanie nouvelle. Au Xe siècle, ils sont partie intégrante du glacis défensif du khanat des Kazars et par là de l’Empire byzantin. Guillaume de Ruysbroek vantera la qualité de leurs artisans armuriers. Au XIIIe siècle, les Alains subissent un second grand choc, celui des Mongols. C’est finalement sous la pression de Tamerlan qu’ils se replieront sur leurs montagnes.

Dimitri de Kochko, journaliste et président de l’association France-Oural, a présenté son film ‘Retour sur Beslan’, avec son émouvante interview du président de la République d’Ossétie-Alanie, dont les enfants étaient présents dans l’école et ont survécu au drame. Il a recueilli de nombreux témoignages des enfants, qui confirment qu’il n’y a pas eu, comme l’a prétendu aussitôt la presse libre, d’assaut des force d’intervention, dont le bouclage était si maladroit que certains terroristes ont pu profiter de la surprise pour s’échapper

L’Ambassadeur Jean Perrin, qui connaît particulièrement la région, ayant été en poste en Iran et en Azerbaïdjan, a relaté son séjour à Tshinkivali, en août 2008. Il a pu ainsi dénoncer la désinformation systématique commise par notre presse sur l’offensive géorgienne contre l’Ossétie du Sud. Il a pu constater que les cibles des Georgiens étaient les infrastructures, ponts, ministères, écoles, université, hôpitaux.

Christian Maton, vice-président de l’ASEB, a présenté le film ‘Les enfants de Beslan en France’ (été 2008), compte-rendu du séjour d’une vingtaine de petits rescapés à l’invitation de l’ASEB. La réussite de l’entreprise a dépassé les attentes. Il s’agira à présent de faire de la seconde édition un succès aussi complet.

Jean-Jacques de Hennin, enfin, a apporté le témoignage de la détermination de l’équipe belge à militer pour que le 1er septembre soit institué Journée européenne de la solidarité avec les enfants victimes du terrorisme. Son texte est repris ci-après.

 

POURQUOI NOUS MILITONS

Monsieur l’Ambassadeur, monsieur le président, mesdames, messieurs,

Pour leur commodité, les professeurs d’histoire découpent la matière en grandes périodes, les faisant débuter à partir d’événements qui devraient, en bonne logique, être significatifs. Mais il n’en est pas toujours ainsi et leurs élèves ne doivent pas bien comprendre, par exemple, pourquoi le moyen âge, et ses temps prétendument obscurs, s’achève le 29 mai 1453, lorsque le Sultan Mehmet II entre à cheval dans la Basilique Sainte Sophie et la traverse au galop. En quoi, pour ces étudiants, ce geste provocateur et symbolique marquerait-il particulièrement le crépuscule de la sauvagerie des âges frustes en même temps que l’aube brillante de la renaissance des temps antiques ?

 

Nous répète-t-on assez aujourd’hui que notre époque est une charnière ? Sa marque, c’est sans doute la massification des populations et la manipulation des masses, par la propagande, par la médiatisation, par la communication. La terreur fait partie des moyens de manipuler les masses, pour déstabiliser ceux dont elles sont la base. A cet égard, on peut dire que la tragédie de Beslan est un événement particulièrement significatif de notre époque, et même doublement significatif. C’est un paroxysme dans l’horreur terroriste et, paradoxalement, c’est en même temps une aube d’espérance dans la renaissance de la paix, la paix royale, la paix impériale, interne à chaque peuple et entre les peuples comme prétendait à l’être la paix romaine, la Pax Romana.

 

Le drame de Beslan est un paroxysme du terrorisme, par le choix de sa cible, la plus innocente qu’on puisse trouver, et par le choix de la fête de la rentrée des classes, et bien sûr par la cruauté de son exécution. Il est vrai qu’il ne faut pas distiller sans fin dans nos cœurs le souvenir du martyre de ces enfants, leur frayeur et leur désarroi, le tourment désespérant de la soif, les tortures morales des familles, leur mortelle attente, leur révolte, leur colère, leur horreur, leur incrédulité, leurs espoirs trompés. Il n’est pas salutaire de ressasser indéfiniment ces images lamentables. Il faut même se garder d’en banaliser l’atrocité, pour ne pas risquer d’inciter des névrosés à la surenchère. C’est clairement le ton que nous donnent les monuments commémoratifs. Il vaut mieux, pour la bonne propagande, pour la propagation du bien, de la paix, de la fraternité entre les peuples, tenter de tirer des leçons de vie de la mémoire de l’horreur. C’est ici que réside le miracle, le second aspect signifiant du drame de Beslan, plus signifiant encore que l’horreur de l’horreur, l’espoir qui veut en renaître.

 

Victime de ces découpages et de ces recompositions qui étaient si fréquents à la grande époque de la discordance du concert des nations, la Belgique serait, dit-on chez nous, un enfant perdu que l’Angleterre a fait dans le dos de la France. Les Belges, sans être des experts en relations interethniques, sont assez ferrés sur la matière pour apprécier ce que les Ossètes ont fait après avoir été les victimes de cette abomination et pour proclamer que c’est un modèle d’humanité, un modèle pour l’humanité.

 

Car pour nous il est admirable, il est encourageant, il est enthousiasmant que les autorités de la ville de Beslan et de la République d’Ossétie-Alanie, comme celles de la Fédération, aient su alors trouver les mots, les gestes, les images, les raisons pour retenir leur peuple d’embrayer sur la spirale de la vengeance, comme l’avaient prémédité les inspirateurs de la tuerie. Ils ont su transformer leur logique de haine et de mort en une logique de confiance et de vie. Pour que les petits martyrs n’aient pas souffert pour rien, mais pour que leur sacrifice inaugure une ère nouvelle d’espérance et de paix. Nous sommes reconnaissant à l’excellent artiste qui a conçu l’Arbre du Chagrin d’avoir préféré le langage clair de l’art populaire au langage trop souvent hermétique de l’art moderne. Car pour tous le message est limpide, de ces mères qui lancent vers le ciel, de leurs bras ouverts comme des branches, un vol de petits anges dont les ailes sont des feuilles, symboles de renaissance. Et que les enfants morts deviennent ainsi les génies vivants de la paix, les anges gardiens de sa fragilité.

 

Participe de la même justesse, la discrète évocation du supplice de la soif qu’ont enduré les petits martyrs. Il n’y aura eu dans l’histoire des hommes que peu de peuples capables d’exprimer aussi bien leur communion avec la souffrance des leurs que par ce mémorial de la soif, avec ses deux mains de bronze tendues qui offrent à nos mémoires ce fin filet d’eau. N’est pas moins émouvant le souvenir de l’abnégation des hommes des forces de sécurité, qui se sont sacrifiés dans l’espoir de sauver des enfants. A l’égard de leurs veuves et de leurs orphelins, ce beau monument nous lave de la honte que nous éprouvons à cause de notre presse, dite libre, qui s’est précipitée pour calomnier ces héros.

 

Pour nous, le drame de Beslan marque, si pas la fin du terrorisme, en tout cas le début de l’ère nouvelle. Nous ne dirons jamais assez notre gratitude au peuple de Beslan et d’Ossétie-Alanie de compter tant de poètes et d’être aussi ouvert à la poésie, à l’aube de cette ère nouvelle, en un temps où elle est particulièrement nécessaires à la compréhension et à l’amitié entre les peuples d’Europe. Le préalable évident à cette amitié entre les peuples européens, c’est leur équilibre interne. Nous espérons dès lors fermement que le 1er septembre deviendra bientôt dans toute l’Europe la journée de la mémoire et de la solidarité.

                                                                                           Jean-Jacques de Hennin

 

LA PETITION

(elle existe dans toutes les langues de la Communauté européenne)

Nous, femmes et hommes, scandalisés par l’attentat terroriste perpétré sur 1300 otages à Beslan, en Ossétie-Alanie le 1er septembre 2004 et consternés par l’indifférence constatée à l’égard des 1000 survivants, tous atteints de pathologies physiques et psychologiques, appelons les parlementaires européens, la Commission européenne et le Conseil de l’Europe à Strasbourg à proclamer le 1er septembre, en mémoire de 186 petites victimes des terroristes à Beslan, Journée de solidarité européenne avec les enfants victimes du terrorisme.

(Pour signer la pétition, http://www.beslan.f  ou Torrestraat 76, 9200 Dendermonde)

lundi, 27 juillet 2009

Caucase: échec au terrorisme

fin_operation_antiterroriste_tchechenie_russie432.jpg

 

 

Caucase: échec au terrorisme

 

 

Plus de quarante terroristes ont été tués ou arrêtés récemment au cours d’une opération spéciale menée dans la zone frontalière entre la Tchétchénie et l’Ingouchie. L’agence de presse RIA Novosti l’annoncé le 15 juillet dernier, en rapportant le contenu d’un communiqué du ministère ingouche de l’intérieur, Rouslan Meïriev. L’opération anti-terroriste avait commencé le 16 mai 2009 et avait occupé jour et nuit les forces armées des deux républiques autonomes de la  Fédération de Russie. Selon le ministère, personne ne connaît le nombre de combattants qui se cachent  dans  les forêts ou les montagnes. Une chose est certaine désormais: ils ont de moins en moins d’effectifs sur lesquels ils peuvent vraiment compter. “Les membres des formations illégales”, précise un membre du ministère de l’intérieur ingouche, “se déplacent continuellement d’un territoire à l’autre. Aujourd’hui ils sont dispersés et isolés; nos opérations sont un succès car ils  ne sont plus en mesure de commettre des attentats à grande échelle”. Mais  le travail de nettoyage n’est pas terminé.  Chaque jour qui passe permet aux troupes loyales de Tchétchénie et d’Ingouchie de découvrir de nouvelles cachettes d’armes et de munitions.

 

(article paru dans  “Rinascita”, Rome, 16  juillet 2009).