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vendredi, 12 octobre 2012

Signature de Richard Millet

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen und wurde laut Zeitungsbericht von der Türkei an die Rebellen geliefert

 

Redaktion

Bei der Granate, die beim Angriff auf die türkische Stadt Akçakale abgefeuert wurde, handelt es sich um ein Modell, das nur bei der NATO verwendet wird und das über die Türkei in die Hände der syrischen Rebellen gelangte, berichtet die türkische Zeitung Yurt. Die Granate tötete am vergangenen Mittwoch eine erwachsene Frau und vier Kinder der gleichen Familie.

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From Anarchism to The New Right

"From Anarchism to The New Right" with Richard Spencer and Keith Preston on Alternative Right

 

Guillaume Faye: “Al capitalismo restano due giri di roulette, poi torna il medioevo”

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Guillaume Faye: “Al capitalismo restano due giri di roulette, poi torna il medioevo”

Ma chi è questo apocalittico che con chiaroveggenza quasi oracolare aveva stabilito che il decennio 2010-2020 sarà quello della convergenza di catastrofi che rischia di mettere fine alla civiltà globalizzata? E’ un inquieto, un eccentrico, un irregolare, che da un cursus honorum di tutto rispetto – iniziato con un dottorato a Sciences Po – è precipitato nella deriva situazionista di una carriera da giornalista sul Figaro Magazine, Paris Match eVSD, più qualche performance come sceneggiatore e attore porno, e una breve stagione di animatore-vedette su Skyrock, stazione radio seguitissima da punk ed emarginati consapevoli. E’ un antimoderno lucido e sferzante, che appartiene alla schiera dei grandi insofferenti al progresso, dei refrattari ai luoghi comuni, come lo erano a loro tempo Joseph de Maistre, Baudelaire, Flaubert, Céline, e tutti i grandi intellettuali atrabiliari di tradizione francese.

“La globalizzazione è come la carne avariata”


Allineato sul fronte sulfureo della Nouvelle droite antiamericana, filosoficamente pagana e antimonoteista, Faye però è ormai un isolato della destra identitaria, dacché ha abbandonato il maestro storico e fondatore del movimento Alain de Benoist, che l’ha accusato di estremismo razzista, per poi scomunicarlo come revisionista. E infatti, tra una pausa e l’altra dei suoi pellegrinaggi negli gli Stati Uniti, per la conferenza di American Renaissance sulla minaccia demografica delle minoranze non bianche, o a Mosca, per un convegno sull’avvenire del mondo bianco, preludio alla creazione del Consiglio dei popoli di origine europea, Faye è riuscito a smarcarsi dalla destra radicale nazionalista e rivoluzionaria, accusando i suoi esponenti di aver mostrato “l’atavico spirito femmineo del collaborazionista” nei confronti dell’islam e dell’immigrazione islamica.

Così, l’ultimo denunciatore della modernità e delle sue illusioni, guarda oggi con raccapriccio alla crisi dei mercati finanziari. “La civiltà globalizzata è un po’ come la carne avariata, dove basta solo un pezzo del 10 per cento per contaminare l’insieme”, dice infatti Faye usando una metafora assai cruda. Ma le conseguenze, in realtà, sono ancora più sanguinolente: “La crisi di oggi è più grave di quella del ’29. Data l’interdipendenza del sistema finanziario globale, basta infatti una crisi dei crediti a tasso variabile, come quella dei subprime americani, che le banche rifilano a clienti non in grado di rimborsare, per provocare un effetto domino su scala planetaria. Quando le banche cominciano a crollare una dopo l’altra, è tutto il sistema mondiale che rischia di non essere più in grado di prestare soldi, dunque di investire nell’economia. Assisteremo a una recessione gigantesca, non subito, ma tra un paio d’anni, perché viviamo in un’economia globalizzata, dove non ci sono più barriere tra persone e capitali, e il virus si propaga in modo incontrollabile. Oggi, infatti, il capitalista non è più un individuo isolato, o un gruppo di speculatori invisibili, ma alberga in ognuno di noi, se è vero che un fondo pensione americano raccoglie i piccoli risparmi di milioni di persone che aspirano a una redditività del 4 per cento l’anno”.


E’ questo il dramma del mondo contemporaneo, secondo l’apocalittico Faye, che si avvicina all’analisi del nostro Giulio Tremonti ma senza condividerne gli effetti virtuosi, visto che non spetta a un cane sciolto come lui stabilire in modo solidale come innescare un’autocorrezione del sistema dominante: “L’unico modo per evitare il contagio sarebbe quello di ripristinare un sistema relativamente autarchico. Gli stati cercano di intervenire: davanti al fallimento delle banche, gli americani nazionalizzano società di credito e di assicurazioni. Ma l’economia finanziaria somiglia sempre di più a un’economia da casinò, dove chiunque ha un po’ di soldi, entra, si siede al tavolo verde e comincia a giocare alla roulette un gioco puramente speculativo ed estremamente pericoloso. Il libero scambismo mondiale è una follia. Il liberismo senza frontiere è assurdo. Provoca delocalizzazione e disoccupazione, alimentando la spirale astratta dell’economia virtuale. Bisognerebbe tornare alla terra e alla ricchezza prodotta dal lavoro, entro uno spazio chiuso. Se non si producono oggetti e nemmeno servizi, siamo in un’economia virtuale, che peraltro in Francia e in Italia si regge oramai su un debito pubblico esorbitante, che graverà sulle nuove generazioni.”

Una convergenza di catastrofi

E’ per questo che agli occhi di Faye il capitalismo potrà anche superare la crisi a breve termine, ma a lungo termine è condannato, perché è lo stesso sistema a essere degenerescente. La crisi, infatti, si ripeterà ogni quattro-cinque anni, ma finirà per diventare inesorabile a causa della “convergenza di catastrofi” che si profila all’orizzonte: “Crisi mondiale delle materie prime, dell’energia petrolifera, della domanda troppo sostenuta di India e Cina, della mancanza di acqua nell’intero pianeta”. Che fare allora davanti al prevedibile cataclisma? La risposta degli Stati Uniti per Faye, che in fondo resta un ostinato antiamericano, sembra inadeguata: “Gli Stati Uniti non sono una nazione, ma un’impresa fondata sul complesso militare industriale e per questo hanno bisogno di fare la guerra. La Cina è troppo potente, perciò adesso hanno trovato il modo di provocare la Russia”. Vista dalla Georgia, però, la provocazione sembra venire da Mosca. “In effetti anche la Russia, come l’America, ha bisogno della guerra fredda – insiste Faye – mentre l’Europa non ha i mezzi per entrare in gioco. Per questo io avevo lanciato l’idea di un’Eurosiberia, ma i russi non hanno fiducia nell’Europa atlantista. E’ comprensibile, mettiamoci al posto loro…”. Anche in fatto di libertà Faye sembra avere idee autarchiche: “Putin non offre molte garanzie sul piano delle libertà individuali, è vero, ma ai russi non interessa: pensano solo alla ricchezza, alla prosperità economica, e del resto anche in occidente se non sei ricco non puoi pubblicare grandi giornali, perciò non possiamo chiedere con innocenza alla Russia di essere democratica”.


Il problema vero per Faye è uno solo, la civiltà globalizzata, uniforme, senza frontiere. “Il rischio di conflitto aumenta, le crisi si propagano a tutta velocità, come i flussi immigratori, portatori di guerre di religione”. E’ la tesi dell’“Archeofuturismo”, il saggio del 1998, che prevedeva la catastrofe dell’inizio del XXI secolo. “Un tempo la terra era separata in grandi civiltà a compartimenti stagni. Ognuna viveva le sue crisi, senza rischio di contagio. Oggi purtroppo non è così. Per questo – spiega Faye – io difendo la teoria dell’autarchia dei grandi spazi, Eurosiberia, Africa, Asia, America del nord, America del sud, con un’economia locale sana, pulita”.


L’utopia archeofuturista proietta nel futuro il passato remoto, ma serve a correggere la fiducia nel progresso costante e ininterrotto che alberga nel cuore del contemporaneo. “Noi crediamo ai miracoli se immaginiamo che per nove miliardi di persone sarà possibile avere un livello di vita paragonabile a quello occidentale. E’ semplicemente impossibile”, spiega Faye e, per dimostrarlo, non esita a utilizzare un argomento pudicamente definito “la variabile di aggiustamento umano” che tuttavia risulta scabroso per il politicamente corretto. “La popolazione del globo terrestre tornerà a un miliardo di persone. Ci saranno stermini di massa, effetto della fame e delle carestie. E’ impossibile immaginare un tasso di crescita del sei per cento l’anno, come se avessimo sei ‘pianeta Terra’ a disposizione. Alla fine del XXI secolo, la terra avrà due velocità: una piccola minoranza vivrà come oggi, un’altra vivrà un nuovo medioevo, senza tecnologia, senza risorse”.

Nel 2100 mancherà l’energia per telefonare


Non disarma Faye nemmeno se uno insiste sul progresso che l’economia globale ha rappresentato per un miliardo di persone che ora sono in grado di mangiare. “Sono molto pessimista, è vero, ma come il medico che scopre un tumore e non dice che è un’influenza. Noi siamo ancora in balia dell’ideologia del progresso, pensiamo che sia una curva ascendente e lineare. Nel 1960 si diceva che per il 2000 saremmo andati a ballare sulla luna. Errore. Quando nacque il Concorde si disse che nel 2000 avremmo avuto tutti aerei supersonici. Altra illusione. Nel 2100 non potremo nemmeno telefonare da Parigi a Roma, perché non ci sarà energia a sufficienza. I francesi si sono accorti che c’è stato un calo del 15 per cento nel consumo di energia. Continuiamo a pensare che saremo sempre più ricchi, più felici, ma intanto non sappiamo ancora come sostituire il petrolio, mentre le fonti alternative non basteranno al fabbisogno industriale. Del resto basta leggere la storia di Roma antica di Lucien Gerphagnion, per rendersi conto come non sia la prima volta che succede nella storia dell’umanità. L’impero romano regredì enormemente con le invasioni barbariche, se pensiamo che il livello di vita dell’élite romana nel primo secolo dopo Cristo, vale a dire cent’anni dopo Cicerone, era già come quello dell’élite europea nel XIX secolo: acqua corrente, strade pavimentate. Mancava la luce elettrica, ovviamente”.


Marina Valensise
© Il Foglio, 21 settembre 2008

Fonte: http://politicainrete.it/forum/movimenti-e-cultura-politica/destra-radicale/454-guillaume-faye-e-la-crisi.html

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jeudi, 11 octobre 2012

Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël

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Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël !!!

par Mireille DELAMARE

Ex: http://www.polemia.com/    

Un article étonnant qui mérite, bien sûr, investigations et vérifications. Prélevé sur le site iranien francophone IRIB, publié en pleine campagne électorale américaine, il prévoit des changements stratégiques et géopolitiques insoupçonnables. « Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : " Preparing For A Post Israel Middle East " (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). » De quoi s’agit-il ?
Géopolitique fiction, canular, argument purement électoral, intox ? Le rapport, sinon sérieux, semble authentique si l’on tient compte des fonctions très officielles de ses auteurs. A les en croire, « la disparition du régime judéo-sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran. »
Polémia

IRIB – Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : « Preparing For A Post Israel Middle East » (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). Cette analyse de 82 pages a été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain regroupant pas moins de 16 agences dont le budget annuel dépasse les 70 milliards de dollars. Preuve donc que la disparition du régime sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran.

Ce document « Preparing For A Post Israel Middle East » conclut que les intérêts nationaux américains et israéliens divergent fondamentalement. Les auteurs de ce rapport affirment qu’Israël est actuellement la plus grande menace pour les intérêts nationaux américains car sa nature et ses actions empêchent des relations normales entre les Etats-Unis et les pays arabes et musulmans et dans une mesure croissante avec la communauté internationale.

Cette étude a [donc] été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain comprenant 16 agences avec un budget annuel de 70 milliards de dollars. Cette communauté du renseignement comprend les départements de la marine, de l’armée de terre, de l’armée de l’air, des corps de Marines, des garde-côtes, le ministère de la défense et agence de renseignement, les départements de l’Energie, de la sécurité intérieure, l’Etat, le Trésor, l’agence de lutte anti-drogue, le FBI, l’agence de sécurité nationale, l’agence de renseignement géo spécial, l’agence de reconnaissance nationale et la CIA.

Parmi les conclusions de ce rapport on trouve :

 

  • Israël, compte tenu de son occupation brutale [et] sa bellicosité, ne peut pas être sauvé, tout comme le régime d’Apartheid de l’Afrique du Sud n’a pu l’être alors même qu’Israël a été le seul pays « occidental » à entretenir des relations diplomatiques jusqu’en 1987 avec l’Afrique du Sud et a été le dernier pays à se joindre à la campagne de boycott avant que le régime ne s’effondre ;
  • la direction israélienne est de plus en plus éloignée des réalités politiques, militaires [et] économiques du Moyen-Orient en accroissant son soutien aux 700.000 colons illégaux vivant en Cisjordanie occupée ;
  • le gouvernement de coalition post-travailliste Likoud est profondément complice et influencé par le pouvoir politique et financier des colons et devra faire face à de plus en plus de soulèvements civils domestiques avec lesquels le gouvernement américain ne doit pas s’associer ou s’impliquer ;
  • le Printemps arabe et le réveil islamique a, dans une large mesure, libéré une grande partie des 1,2 milliard d’Arabes et Musulmans pour lutter contre ce qu’une très grande majorité considère comme une occupation européenne illégale, immorale et insoutenable de la Palestine et de la population indigène  ;
  • le pouvoir arabe et musulman qui s’étend rapidement dans la région comme en témoignent le Printemps arabe, le réveil islamique et la montée en puissance de l’Iran, se fait simultanément – bien que préexistant – avec le déclin de la puissance et de l’influence américaines, et le soutien des Etats-Unis à un Israël belliqueux et oppressif devient impossible à défendre ou  à concrétiser compte tenu des intérêts nationaux américains comprenant la normalisation des relations avec les 57 pays islamiques ;
  • l’énorme ingérence d’Israël dans les affaires intérieures des Etats-Unis par l’espionnage et des transferts illégaux d’armes : cela comprend le soutien à plus de 60 « organisations majeures » et approximativement 7.500 fonctionnaires américains qui obéissent aux diktats d’Israël et cherchent à intimider les médias et les organisations gouvernementales ; cela ne devrait plus être toléré ;
  • le gouvernement américain n’a plus les ressources financières ni le soutien populaire pour continuer à financer Israël. Ce n’est plus envisageable d’ajouter aux plus de 3 mille milliards de dollars d’aide directe ou indirecte d’argent des contribuables versés à Israël depuis 1967, ces derniers s’opposant à ce que l’armée américaine continue de s’impliquer au Moyen-Orient. L’opinion publique américaine ne soutient plus le financement et les guerres étatsuniennes largement perçues comme illégales pour le compte d’Israël. Cette opinion est de plus en plus partagée en Europe, en Asie et au sein de l’opinion publique internationale ;
  • les infrastructures d’occupation ségrégationniste d’Israël sont la preuve d’une discrimination légalisée et de systèmes de justice de plus en plus séparés et inégaux qui ne doivent plus être directement ou indirectement financés par les contribuables américains ou ignorés par les gouvernements des Etat-Unis ;
  • Israël a échoué comme Etat démocratique autoproclamé et le soutien financier et politique américain ne changera pas sa dérive comme Etat paria international ;
  • les colons juifs manifestent de plus en plus un violent racisme rampant en Cisjordanie soutenu par le gouvernement israélien devenu leur protecteur et leur partenaire ;
  • de plus en plus de juifs américains sont contre le sionisme et les pratiques israéliennes, inclus les assassinats et les brutalités à l’encontre des Palestiniens vivant sous occupation, les considérant comme des violations flagrantes du droit américain et international et cela soulève des questions au sein de la communauté juive américaine, eu égard à la responsabilité de protéger (R2P) (1) des civils innocents vivant sous occupation ;
  • l’opposition internationale à un régime de plus en plus d’Apartheid se fait l’écho de la défense des valeurs humanitaires américaines ou des attentes américaines dans le cadre de des relations bilatérales avec les 193 pays membres de l’ONU.

Le rapport se termine en préconisant d’éviter des alliances rapprochées auxquelles s’oppose la majeure partie du monde entier et qui condamnent les citoyens américains à en supporter les conséquences.

A l’évidence Israël va se précipiter sur ce rapport bientôt publié pour faire pression sur les deux candidats à la présidentielle américaine, Obama et Romney, pour voir qui des deux en minimisera le plus les conclusions, s’engageant même à le ranger au placard en promettant d’accroître l’aide financière et militaire à l’entité coloniale judéo-sioniste fossoyeuse de l’Empire américain.

Mireille Delmarre
IRIB (iran French Radio)
3/09/2012

Note de la rédaction : voir http://en.wikipedia.org/wiki/Responsibility_to_protect

Correspondance Polémia – 25/09/2012

Rencontre avec les Editions du Rubicon

Rencontre avec les Editions du Rubicon, nouvel acteur de l’édition non-conforme

PARIS (NOVOpress) – Fondées en septembre 2012, les Editions du Rubicon sont une nouvelle maison d’édition non-conforme qui se propose de faire connaître au plus grand nombre des « ouvrages militants », notamment étrangers, susceptibles de nourrir le combat identitaire et patriote contemporain. NOVOpress a décidé d’en savoir plus sur cette courageuse et stimulante initiative. Entretien

NOVOpress : Vous venez de fonder les « Editions du Rubicon », pouvez-vous nous dire dans quel but et quelles en sont les spécificités ?
Pour répondre à votre première question, je citerais tout simplement les quelques lignes de présentation qui figurent sur notre site Internet (www.leseditionsdurubicon.com) : “Animée par un esprit libre et non conformiste, cette maison d’édition créée en 2012, vous fera découvrir au travers de ses réalisations présentes et à venir, l’univers du livre politique. En choisissant de mener à terme des projets éditoriaux de militants engagés, nous proposons à votre esprit de partir à l’assaut de ce monde vétuste et sans foi”.

 

Rencontre avec les Editions du Rubicon, nouvel acteur de l'édition non-conforme

NOVO : Pour votre première publication, vous avez choisi de présenter et de diffuser la traduction française du livre d’Adriano Scianca « Reprendersi tutto » ou, en français, « Casapound: une terrible beauté est née ». Pourquoi ce choix et quelle a été la genèse de ce projet ?
Nous avons découvert ce livre et rencontré son auteur lors d’une expédition militante du MAS (NDLR: Mouvement d’action sociale) en mai 2011 à Rome (Tana del Tigri 2011) chez nos camarades italiens. Nous avons rencontré en Adriano Sciancca un militant politique, responsable culturel de Casapound, qui par ses écrits nous permettait de comprendre l’identité profonde du mouvement et nous explicitait les fondements et principes sur lesquels CasaPound et son action politique se fondent. Nous avons été séduits par cette approche à la fois politique et philosophique. Il se dit beaucoup de choses en France sur Casapound. L’idée de pouvoir fournir au public francophone un véritable outil de compréhension de l’essence du phénomène italien s’est donc alors naturellement imposée.

NOVO : Le livre d’Adriano Scianca est assez « dense », on y trouve de nombreuses références philosophique et il aborde des aspects politiques et sociaux très spécifiquement « italiens », la traduction d’un tel ouvrage n’a pas dû être aisée. Avez-vous rencontré des difficultés particulières ?
Le livre d’Adriano Scianca est riche, c’est vrai. Riche d’enseignements, de concepts et surtout d’inspiration. Effectivement, il aborde un certain nombre d’éléments typiquement et spécifiquement italiens qu’il a fallu annoter, expliciter.

Les échanges réguliers avec l’auteur, l’aide des camarades français vivants à Rome et notre connaissance de la politique italienne nous ont permis de surmonter les difficultés de traduction, les spécificités de langages et le tropisme politique. Ainsi, nous avons agrémenté le texte de plus de 600 notes de bas de page. Nous avons également inséré un cahier photos en couleur de 24 pages qui permet d’illustrer qualitativement l’esthétique de Casapound (flyers, affiches, décorations intérieures des lieux de vie du mouvement, manifestations de rue, concerts, etc.)

En cela, cet ouvrage n’est pas à prendre comme un mode opératoire d’applicabilité, mais plutôt comme un outil de travail militant qui doit amener tout un chacun à repenser ses modalités d’action et de réflexion politiques en vue d’un ancrage dans le réel. Avec comme seul objectif, la victoire !

NOVO : Selon vous, que peut-apporter à un lecteur français la découverte de cet ouvrage présentant les « 40 concepts » qui fondent l’action du mouvement politique et social italien Casapound ?
Tout d’abord, la lecture de ce livre permettra au lecteur de mieux cerner le mouvement des fils de la Tortue, d’apprécier le sens et les raisons de leur développement mais également de « démystifier » Casapound et de soustraire la réalité de ce mouvement aux légendes qui courent sur lui dans les milieux français.

Ensuite, soyons clairs, l’Italie n’est pas la France. Ce livre n’est donc pas à prendre comme un manuel pratique de militance mais bien plutôt comme un outil de travail et de réflexion. La puissance de cet ouvrage réside dans le fait qu’Adriano a su mettre les mots sur les enjeux majeurs de notre monde et faire de ces mots des leviers d’action. En clair, ce livre doit amener chaque lecteur à reformuler, repenser les modalités, les fondements de l’action politique dans une perspective résolument positive, réaliste et avant-gardiste.

Plus largement, ce livre nous invite à entrer en rupture pour dépasser le paradigme militant habituel et entamer une réflexion globale sur les moyens d’action efficients qui s’offrent à nous.

NOVO : Pouvez-vous nous dire un mot de l’accueil et de la réception de ce livre en France ou est-ce encore trop tôt ?

Cet ouvrage répond à une véritable attente du public francophone. L’accueil qui lui a été fait est extrêmement positif sur le fond comme sur la forme. Nous avons annoncé la sortie du livre début septembre sur les ondes de Méridien Zéro, l’émission francophone de Radio Bandiera Nera. Nous avons également réalisé un film promotionnel diffusé sur internet (vous le trouverez sur notre site) qui nous a valu d’excellents retours.

NOVO : Pour finir, pouvez-vous évoquer vos futurs projets éditoriaux ?
Nous avons un certain nombre de projets éditoriaux en soute. Nous souhaitons développer des écrits politiques de réflexion et d’action. Des écrits incisifs, taillés pour l’époque de fer qui est la nôtre. Nous voulons proposer des armes adaptées au combat d’aujourd’hui. Cependant, il nous faut rester modeste car chaque livre engage le suivant. Donc pour le moment, nous nous consacrons à la diffusion du livre sur Casapound.

Les Editions du Rubicon
21 rue Fécamp
75012 Paris

contact@leseditionsdurubicon.com

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Mitt Romney will Al-Qaida-Terroristen mit Waffen unterstützen

Mitt Romney will Al-Qaida-Terroristen mit Waffen unterstützen

Paul Joseph Watson

 

Der republikanische US-Präsidentschaftskandidat Mitt Romney versprach in einer größeren außenpolitischen Rede am 8. Oktober, die syrischen Rebellen mit Waffen zu unterstützen. Wieder einmal zeigt sich hier, dass es praktisch keinen Unterschied zwischen Romney und Obama gibt, wenn es darum geht, die Interessen des militärisch-industriellen Komplexes zu verfolgen.

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The Strategy To Challenge Globalism

The Strategy To Challenge Globalism

Natella Speranskaya

Les étrangers de Franco

legion1920.jpgLes étrangers de Franco

par Georges FELTIN-TRACOL

Le titre est paradoxal. Voilà un ouvrage qui relate l’histoire des volontaires étrangers combattant aux côtés des nationalistes pendant la Guerre d’Espagne (1936 – 1939). On sait que le camp républicain bénéficia jusqu’en 1938 du soutien des Brigades internationales voulues et constituées par Moscou et le Komintern. « Si l’histoire de ces 35 000, 45 000, 55 000, 65 000 ou 75 000 “ volontaires de la Liberté ” est bien connue, il en va bien autrement des autres combattants volontaires étrangers qui servirent, avec le même dévouement, le même courage et la même abnégation, une cause qui, par bien des aspects, fut tout aussi respectable que celle de leurs adversaires (p. 59) ».

Avec ce livre novateur dans le domaine francophone, l’auteur, Sylvain Roussillon, examine les motivations, le parcours et l’action et dresse le bilan des quelque 179 068 étrangers qui rejoignirent le camp national au sein du Tercio de la Légion étrangère, de la Phalange, des Requetès carlistes, etc. Il figure même des pages 338 à 341 un remarquable tableau consacré à leur répartition précise.

Les « Brigades internationales » de Franco est à faire impérativement lire aux jeunes militants, aux lycéens, voire aux collégiens les plus mûrs, afin qu’ils comprennent toute la complexité de l’histoire au-delà des clichés habituels professés par des enseignants souvent ignares. Outre quelques mises au point qui rectifient des lieux communs (la propagande autour de Guernica cache la tragédie du Santuario de Nuestra Senora de la Cabeza et le massacre de 800 personnes par les « Rouges »), l’auteur rappelle quelques évidences. Ainsi les combattants étrangers de Franco étaient-ils des volontaires, y compris les Allemands et les Italiens. La Légion Condor, symbole de l’intervention germanique dans le conflit, joua principalement une fonction d’intendance. « Les troupes de l’armée d’Afrique franchirent le détroit de Gibraltar pratiquement sans l’aide des avions allemands. L’apport de cette légion fut en grande partie logistique et technique. Ses faibles pertes démontrent d’ailleurs qu’elle fut peu engagée militairement (p. 86). »

Assez méfiants envers ces volontaires en raison d’un sentiment national incandescent, « les Espagnols, quel que soit leur camp auquel ils aient appartenu, avaient davantage besoin de matériels et d’armements que d’hommes (p. 330) ». Les seuls à être vraiment acceptés furent les Regulares, les troupes indigènes recrutées au Maroc espagnol auxquelles s’ajoutèrent des militants nationalistes arabes et nord-africains. Ces musulmans s’élevaient contre le discours athée et anti-religieux du gouvernement du Front populaire. On y apprend que 80 Juifs combattirent aussi du côté national parce que l’irreligion de la gauche espagnole les insupportait !

Sylvain Roussillon ne cache pas les dissensions entre ces volontaires étrangers et les autorités franquistes. Face à l’Italie mussolinienne qui projette d’annexer les Baléares et de coloniser l’Espagne, « il semble même que dans certaines unités nationalistes certains officiers nationalistes aient fêté la bataille de Guadalajara comme… une victoire espagnole sur des troupes étrangères !… (pp. 104 – 105) », les Républicains repoussant les Italiens du Corpo di truppe volontarie.

On rencontre dans les armées de Franco des Russes blancs qui poursuivent leur croisade contre le communisme, des nationalistes ukrainiens, des Asiatiques, des Sud-Américains… Les Roumains de la Garde de fer de Codreanu ne forment qu’une modeste délégation symbolique mais dont l’impact en Roumanie sera spectaculaire grâce à une formidable mise en scène funèbre… Régulièrement, Roussillon est contraint de faire des digressions significatives pour évoquer l’histoire particulière de l’engagement nationaliste. En démystifiant les Viriatos, il explique la situation du Portugal sous Salazar qui entend se débarrasser de l’intégralisme lusitanien. On retrouve une démarche similaire chez Vargas confronté à l’intégralisme brésilien. D’où proviennent les 798 Irlandais « Chemises bleues » d’Eoin O’Duffy partis pour l’Hispanie ? L’auteur y répond en mentionnant les suites des « Pâques sanglantes » de 1916 et la guerre civile de 1921. Il remarque d’ailleurs que « 24 de ces volontaires viennent d’Ulster et que l’un d’entre eux, preuve de l’extrême hétérogénéité de ce continent, sort des rangs des forces de l’ordre unionistes et protestantes de la Royal Ulster Constabulary (R.U.C.) (p. 177) ». Il n’oublie pas de signaler la grande efficacité du groupe de pression irlandais avec Joseph Kennedy auprès du Congrès des États-Unis qui maintint l’embargo sur les armes en destination de l’Espagne républicaine.

Sylvain Roussillon étudie enfin la fameuse Bandera Jeanne d’Arc et en déconstruit le mythe. Il relate les dissensions permanentes au-delà des Pyrénées entre les membres de l’Action française, des Croix-de-Feu, de la Cagoule, etc., d’où une certaine inefficacité militaire… C’est aussi l’occasion pour lui d’évoquer quelques figures. Il en profite pour récuser tout déterminisme politique avec les événements ultérieurs dont la Seconde Guerre mondiale. Si le Britannique John Amery créa en 1943 la Waffen S.S. British Free Corps, deux anciens brigadistes internationaux issus de l’I.R.A., Frank Ryan et Sean Russell, travaillèrent – eux – pour l’Abwehr ! A contrario, les Français des forces carlistes, Michel de Camaret et Auguste-Pierre Combe, se retrouveront ensuite dans la Résistance et la France libre ! Le Camelot du Roi Luc Robert estime, lui, que « son engagement aux côtés des Nationaux espagnols contre le communisme, puis dans la Résistance contre les nazis, relevait de la même logique, celle d’un homme engagé contre la barbarie, d’où qu’elle vienne (p. 252) ».

L’auteur s’intéresse aussi au Sud-Africain Roy Campbell qui se convertit au catholicisme et lutta aux côtés des carlistes de Séville avant de servir Sa Gracieuse Majesté contre le Reich entre 1940 et 1945. « En octobre 1944, Campbell fait la connaissance de C.S. Lewis [auteur de la série Le monde de Narnia - N.D.L.R.] et J.R.R. Tolkien. Le futur auteur du Seigneur des Anneaux, qui avait lui aussi pris parti pour les Nationaux lors de la guerre civile, est enthousiasmé par cette rencontre au point que l’on peut même se demander si la personnalité de Roy Campbell n’a pas en partie inspiré Tolkien pour le personnage d’Aragorn, comme en témoigne une lettre envoyée au lendemain de ce dîner à Christopher Tolkien par son père (p. 199) ». Le plus surprenant des destins est peut-être celui d’Egbert von Frankenberg und Proschlitz. Après 1945, il vivra en R.D.A., co-fondera le N.D.P.D., le Parti national-démocratique d’Allemagne nationaliste, et instruira la jeune armée est-allemande. « L’ironie de l’histoire voudra qu’il côtoie, au sein de la Nationale Volksarmee, d’autres anciens d’Espagne, engagés eux dans les Brigades internationaux (p. 80). »

L’ouvrage de Sylvain Roussillon ne tombe ni dans le manichéisme grotesque, ni dans le moralisme de pacotille; il apporte au contraire une somme de renseignements ignorés. C’est fort heureux !

Georges Feltin-Tracol

• Sylvain Roussillon, Les « Brigades internationales » de Franco. Les volontaires étrangers du côté national, préface de Pascal Le Pautremat, Via Romana, Versailles, 2012, 362 p., 24 €.


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L’incubo orwelliano

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L’incubo orwelliano. Dalla letteratura distopica al totalitarismo contemporaneo

“Fahrenheit 451” di Bradbury, pubblicato nel 1953, pare debba il suo titolo al grado termico di combustione della carta. Nel futuro descritto dal romanzo la lettura è reato

Roberto Cozzolino

Ex: http://www.rinascita.eu/  

Nella letteratura classica dei secoli passati – ed in particolare sul versante filosofico – è stata designata come “utopia” la progettazione, puramente teorica, di una futura società ideale; una società dove sarebbe finalmente verificata l’armoniosa e pacifica convivenza degli individui, resa possibile, secondo i vari Autori, dal buon governo degli amministratori ovvero dal grado di emancipazione raggiunto dalle masse od anche dal progresso tecnologico che avrebbe definitivamente liberato l’uomo dalla schiavitù del lavoro.


L’etimologia del termine associato agli artefici delle opere riconducibili a tale filone letterario, derivante dal greco “ou” e “tópos” – letteralmente “non luogo” –, indica chiaramente per gli stessi l’ovvia consapevolezza di riferirsi a realizzazioni impensabili per la loro epoca; e che potevano semmai indicare una meta ideale verso la quale tendere, o avere valore di critica sferzante della struttura sociale dell’epoca in cui vivevano; da ciò deriva il concetto esteso di utopia come fantastica chimera, qualcosa cioè che risulta estremamente difficile, se non impossibile, realizzare nell’immediato.
 
Come è noto il termine fu adottato per la prima volta da Tommaso Moro nella sua celebre opera del 1516: “De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia”, in cui si descrive una comunità che risiede, priva di problemi, nell’isola di Utopia, dove vengono applicati metodi di governo d’ispirazione democratica e socialista; in verità il neologismo filologicamente corretto avrebbe dovuto essere “atopia” (senza luogo), con l’uso dell’alfa privativo associato al sostantivo, ma si sostiene da più parti che Moro intendesse consentire un’ambivalenza del termine, riconducibile sia ad “ou” e “tópos” (non luogo) che ad “èu” e “tópos” (luogo buono). Celeberrimo precursore di Moro fu Platone, che nella sua “Politéia” (390 a.C.) propose una forma di governo che tenterà - senza successo - di impostare presso la corte del tiranno Dionigi a Siracusa: una sorta di “comunismo” guidato da filosofi e con una società divisa in classi. Altra famosa opera utopica è “New Atlantis” di Francesco Bacone, del 1626; in essa le innovazioni tecnologiche possedute dagli abitanti dell’isola di Bensalem – fantasioso toponimo derivante dalla conflazione dei nomi di Betlemme e Gerusalemme - costituiscono un enorme supporto alla felicità degli uomini, per i quali la conoscenza diventa strumento di dominio sul mondo.

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Citiamo inoltre “La città del Sole” (1602) di Tommaso Campanella – uno stato teocratico retto secondo i principi della religione naturale e basato sulla proprietà comune, riecheggiante l’epopea degli heliopolìtai di Aristonico (131 a. C.) -; “Les aventures de Télémaque, fils d’Ulysse” (1696) di François Fénélon - un viaggio didattico attraverso diversi paesi e forme di governo dell’antichità -; “Voyage en Icarie” (1840) di Étienne Cabet - un sistema di stampo socialistico dove è chiara l’influenza del comunismo egualitario di Babeuf e Buonarroti -; “News from Nowhere” (1890) di William Morris – una delle più anarchiche descrizioni di una società futura -; “Erewhon” (1872) di Samuel Butler – utopia satirica della società vittoriana -; da notare che quest’ultimo titolo é un anagramma di “nowhere”, con chiaro riferimento, come quello dell’opera di Morris, al significato di “utopia”. In questa rapidissima ed incompleta elencazione dei massimi esponenti del pensiero utopico non possiamo tacere i nomi di Owen, Fourier, Saint-Simon, Enfantin e Considérant, ovvero i massimi esponenti del cosiddetto socialismo utopistico (così definito sprezzantemente dai marxisti ortodossi, in contrapposizione al socialismo scientifico), che proposero società ideali sostenute da precise teorie sociopolitiche e che in qualche caso, forti delle loro convinzioni, finirono col rovinarsi economicamente nei tentativi falliti di realizzare i loro sogni. In concomitanza con gli utopici sistemi di società future ebbe ampio sviluppo, sin dal medioevo ma soprattutto nel Rinascimento ed oltre – ed in particolare presso i socialisti utopistici - la progettazione di complessi urbani ideali, dove erano quindi preponderanti su tutti gli altri gli aspetti urbanistici ed architettonici; dal momento che le realizzazioni antropiche sono determinate dalle varie funzioni sociali umane; e queste ultime direttamente dipendenti da orientamenti squisitamente ideologici.

Si noti peraltro che lo stesso socialismo marxista – che rimproverava agli utopisti l’assenza di un rigoroso metodo scientifico nell’analisi della società, il mancato riconoscimento della funzione storica del proletariato ed una eccessiva fiducia nelle possibilità di un riformismo basato sulla solidarietà e la filantropia - può considerarsi una grande utopia; tra l’altro densa di evidenti analogie – oltre ad altrettanto evidenti motivi di conflitto - con molti aspetti delle religioni messianiche del ceppo abramitico, come è stato efficacemente analizzato da diversi autori: ideologia intesa come ortodossia fondamentalista, aspirazioni egualitaristiche, rigida gerarchia, controllo e censura delle “eresie”, presenza di dogmi e di testi sacri, interpretazione dicotomica del mondo e fideistica certezza nella futura affermazione della giustizia universale; al punto da suggerire a Berdjaev che “il comunismo è l’insoddisfazione per il cristianesimo non realizzato”.


Verso la fine del XIX e nel corso del XX secolo prende forma un nuovo genere letterario conosciuto come anti utopia (od anche distopia, pseudoutopia, utopia negativa, cacotopia), che presenta evidenti affinità col genere utopico ma mostra, rispetto a questo, una totale inversione di segno, costituendone quasi un aspetto speculare; se infatti il romanzo utopico prospettava la futura realizzazione di una società migliore, il romanzo distopico prefigura per l’avvenire scenari da incubo, con un’umanità schiavizzata e condannata all’infelicità perpetua sotto il dominio di governi dispotici. In realtà secondo alcuni critici il primo autorevole esempio di antiutopia si ebbe già nel 1726, con la pubblicazione dei “Gulliver’s Travels” di Jonathan Swift, in cui le società immaginate possono essere considerate una grottesca satira dell’ordine sociale esistente. Tra i “moderni” precursori del genere ricordiamo H. G. Wells, che con “The time machine” (1895) ci porta in un lontano futuro per mostrarci un’umanità divisa in due fazioni antagoniste di prede e cacciatori: gli Eloi, esseri fragili e gentili ma parassitari; ed i Morlock, esseri produttivi e mostruosi che vivono nelle viscere della terra, da cui escono per dare la caccia agli Eloi e cibarsene.

“Brave New World”, scritto nel 1932 da Aldous Huxley, descrive un prossimo mondo dove tutto è sacrificabile ad un malinteso mito del progresso in cambio di un apparente benessere, e l’esasperata evoluzione scientifica, gestita da un regime totalitario, ha completamente annullato la libertà individuale. Il bellissimo e troppo poco noto “Noi” di Evgenii Ivanovich Zamjatin, scritto in pieno regime comunista ed a causa del quale l’Autore fu costretto ad espatriare – con le proprie gambe grazie all’intervento di Maxim Gorky -, ci mostra un’antiutopia, scritta in forma di diario, ambientata in un mondo dove i personaggi non hanno un nome, ma al suo posto una sigla numerica e dove tutto è ferreamente regolamentato dall’onnipresente potere. “Fahrenheit 451” di Bradbury, pubblicato nel 1953 come estensione di un racconto apparso nel 1951 (“The Fireman”), pare debba il suo titolo al grado termico di combustione della carta, in quanto nel futuro descritto dal romanzo la lettura è reato e tutti i libri devono essere bruciati, essendo sufficiente, per l’educazione delle masse, il mezzo televisivo controllato dal sistema.

Qualcuno individua chiari elementi distopici anche ne “La leggenda del grande inquisitore” di Dostoevskij, inserita nel suo ultimo lavoro: “I Fratelli Karamazov” (1879) dal sommo romanziere russo. Ma l’opera che realizza l’utopia negativa per eccellenza è, senza dubbio, “Nineteen Eighty-four” di George Orwell, scritto nel 1948 (il titolo è ottenuto scambiando tra loro le ultime due cifre che compongono tale data), dove il Grande Fratello, a capo di una enorme gerarchia costituita dal partito, controlla non solo gli individui ma anche i loro pensieri; l’Autore aveva già dato alle stampe nel 1945 l’altrettanto celebre “Animal Farm”, una feroce satira dello stalinismo scritta sotto forma di favola che, pur essendo già ultimata nel 1943, non risultava politicamente corretto pubblicare prima, dal momento che criticava la forma di governo di una nazione alleata nel recente conflitto mondiale.

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In “1984” Winston Smith, il protagonista, membro subalterno del partito che lavora alla modifica di libri ed articoli di giornale pubblicati in passato, in modo che le previsioni fatte dal partito stesso risultino veritiere, non sopporta i condizionamenti della rigida e squallida struttura sociale entro la quale è costretto a vivere e ne infrange molte regole, instaurando tra l’altro un rapporto sentimentale con una compagna, in un mondo in cui è imposta per legge la castità ed il sesso è permesso solo a fini procreativi; nel momento in cui entrambi decidono di collaborare con un’organizzazione clandestina, proprio l’individuo che avrebbe dovuto costituire il contatto col movimento di resistenza si rivela essere invece un agente della psicopolizia che, dopo averli fatti arrestare, li sottopone ad orripilanti tecniche di rieducazione sociopolitica, in modo che si trasformino in individui perfettamente mansueti ed allineati con l’ortodossia del regime.

Il cinema ha tratto massiccia e costante ispirazione dalla letteratura distopica, che per sua natura si presta ottimamente alla trasposizione filmica, spesso contaminandone il genere con altri affini - in particolare quello fantascientifico e quello di fantascienza apocalittica e post-apocalittica. Ci sembra che esistano relativamente poche pellicole che si ispirano dichiaratamente ad una delle opere letterarie citate, rimanendo molto fedeli all’impianto narrativo originario. Ricordiamo tra queste: “Fahrenheit 451” (1966) di François Truffaut, dall’omonimo racconto di Bradbury; “Nel duemila non sorge il sole” (1956) di Michael Anderson ed “Orwell 1984” (1984) di Michael Radford, entrambi ispirati al romanzo di Orwell, come il precedente “1984” (1954), adattamento televisivo di Rudolph Cartier per la BBC; “The Time Machine” (1960) di George Pal, tratto da H. G. Wells e seguito da frequenti remake. Sono invece numerosissime le pellicole liberamente ispirate al “genere” nel suo complesso ma prive di riferimenti puntuali ad una singola opera. Rinunciando ovviamente alla completezza ed all’ordine cronologico ricordiamo alcune tra le più famose: l’intramontabile “Metropolis” (1927), di Fritz Lang; “L’uomo che fuggì dal futuro” (1971), primo lungometraggio di George Lucas; “Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution” (1965), insolita incursione di Jean-Luc Godard nella fantascienza; il visionario, satirico ed al contempo agghiacciante “Brazil” (1985), di Terry Gilliam, che avrebbe dovuto chiamarsi “1984 ½” per un duplice omaggio ad Orwell e Fellini; “Soylent Green” (1973), di Richard Fleischer, ambientato in un mondo invivibile dove l’eutanasia appare come estrema risorsa; “Zardoz” (1974), di John Boorman, manifesto contro l’utopia progressista; “Rollerball” (1975) di Norman Jewison, con remake (2002) di John Campbell McTiernan, nel quale lo sport violento elargito alle masse diventa strumento di potere; “1997 Escape from New York” (1981) di John Carpenter, dove troviamo l’intera isola di Manhattan trasformata in un enorme ghetto-prigione di massima sicurezza per criminali; del medesimo regista è ”They Live” (1988), dove il potere è detenuto da insospettati alieni; “Terminator” (1984) di James Cameron, primo film di una serie che vede le macchine in guerra con gli uomini; “Twelve Monkeys” (1995), ancora di Gilliam, in cui un viaggiatore del tempo indaga sulle cause di una trascorsa epidemia della razza umana; per finire col totalitarismo virtuale di “Matrix” (1999), spettacolare trilogia dei fratelli Wachowski.


Qualunque siano, ad ogni modo, le differenze tra i vari classici distopici letterari - e tra questi e le loro più o meno fedeli rielaborazioni cinematografiche -, esistono nelle varie visioni di un futuro apocalittico alcuni elementi ricorrenti che riteniamo interessante analizzare; per cercare di capire se i loro Autori fossero solo degli intellettuali disancorati dalla realtà - e pertanto folli “profeti di sciagure” - o, al contrario, individui provvisti di una profonda capacità di analisi ed eccezionalmente lungimiranti quando ammonivano che, se si fosse continuato a percorrere certe strade, si sarebbero realizzati i terribili scenari descritti nei loro romanzi. In effetti uno dei massimi esponenti della letteratura antiutopica, il già citato Aldous Huxley, ventisette anni dopo l’uscita del suo “Brave New World” riesaminava le sue profezie alla luce di avvenimenti recenti col saggio “Brave New World Revisited” (1959), giungendo ad una conclusione inquietante: alcuni elementi dell’utopia negativa che aveva immaginato meno di tre decenni prima erano già entrati a far parte della realtà. E’ stato del resto ampiamente documentato che cambiamenti strutturali anche drastici, che la popolazione rifiuterebbe istintivamente se fossero imposti all’improvviso, vengono invece docilmente accettati se iniettati a piccole dosi nel tessuto sociale ed accompagnati da martellanti campagne massmediatiche. Altra osservazione che merita particolare attenzione è che se quasi tutti – ma non tutti – gli Autori distopici guardavano con preoccupazione, nel momento in cui scrivevano, a varie forme coeve di totalitarismo, oggi invece possiamo individuare proprio nel mondo cosiddetto “libero e democratico” molti degli aspetti più oppressivi da loro denunciati.

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Uno di questi è la presenza di una gerarchia, basata prevalentemente sul potere economico, grazie alla quale le divisioni fra classi sociali sono rigide e quasi insormontabili. Si tratta di un’esagerazione? Forse, ma il costante impoverimento della classe media, il degrado della scuola pubblica ed i costi proibitivi dell’istruzione privata, la progressiva scomparsa dello stato sociale e dell’assistenza sanitaria, l’accesso al mondo del lavoro e – di conseguenza - ad una vita dignitosa presentati non come diritto acquisito ma come conquista individuale - uniti al disinvolto uso di clientelismo, raccomandazioni e tangenti da parte della casta che detiene le leve del controllo politico - vanno esattamente in tale direzione; a questo si accompagna la proliferazione di sterminate periferie degradate in tutte le grandi metropoli, a sottolineare - oggi più che nel passato - la separazione anche fisica tra le masse proletarie ed i pochi beneficiari dei vantaggi derivanti dal contatto col potere. Una immediata conseguenza è la scomparsa dei rapporti sociali come concepiti tradizionalmente dall’uomo: le relazioni umane sono dettate esclusivamente dal dogma del vantaggio individuale e del tornaconto personale.

Altro aspetto sicuramente individuabile come comune alla letteratura anti utopistica ed alla nostra società è il reiterato tentativo di soppressione del dissenso, visto come valore negativo in opposizione al conformismo dilagante; al di là dell’apparente pluralismo e libertà di espressione, peraltro sanciti da quasi tutte le costituzioni delle moderne democrazie, risulta chiaro a tutti che, tranne rarissime eccezioni, le coalizioni che si alternano alla guida dei governi, di qualunque colore appaiano, sono sempre espressione dei medesimi gruppi di potere. La propaganda di regime e tutto l’apparato educativo favorisce nella popolazione il culto del proprio sistema di governo, cercando di convincerla che è l’unico - e probabilmente il migliore – possibile. Le voci di reale dissenso presenti vengono o infiltrate dai “servizi” e sapientemente manipolate od emarginate limitando drasticamente, con tutti i mezzi individuabili, il loro raggio d’azione. Il sistema penale inoltre comprende spesso la tortura fisica e psicologica per tutti coloro che sono semplicemente sospettati di attività eversive. Sono consentiti anche gli omicidi mirati, purché, ovviamente, finalizzati al trionfo della “democrazia”.


In molti romanzi distopici la Storia viene continuamente riscritta in modo da risultare in linea con le previsioni ed i desideri del gruppo dominante; in “1984” è previsto un “nemico” che trama costantemente ai danni del governo e contro cui la popolazione è invitata quotidianamente a sfogare tutto il proprio risentimento; nella nostra epoca siamo ormai tristemente abituati a quegli episodi noti come tattica “false flag” od alle madornali ma sempre efficaci “bugie di guerra”, finalizzate ad ottenere il consenso della popolazione per aggredire altri Stati sovrani. Tali manovre sono spesso precedute ed accompagnate dalla minuziosa creazione del nemico da odiare, l’immagine del quale viene assemblata pazientemente, giorno dopo giorno, telegiornale dopo telegiornale, ospitando sui quotidiani e nei talk show di regime l’opinione di “esperti” e le accurate analisi politiche di sedicenti “gruppi dissidenti in esilio”; si arriva a negare – contro ogni evidenza - che il personaggio oggetto della campagna di demonizzazione sia mai stato considerato amico; si presentano come veri filmati realizzati da esperti cineasti dove alcune milizie, agli ordini diretti del novello despota, si abbandonano ad ogni sorta di violenze, tanto più odiose in quanto rivolte ad esseri indifesi quali donne, vecchi, neonati; la decisione di porre fine alla criminale attività del tiranno sarà salutata con entusiasmo crescente da tutta la popolazione. Tutto ciò è naturalmente reso possibile grazie anche alla solerte complicità di una agguerrita e ben remunerata schiera di pennivendoli e gazzettieri governativi, che diffondono come vere le notizie emesse direttamente dalle centrali di disinformazione. Le eventuali e sempre più rare voci contrarie che tentino una efficace controinformazione non hanno, in genere, i mezzi idonei per contrastare in tempo utile le menzogne ufficiali.

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Altro interessante – ed eccezionalmente significativo - punto di contatto tra la realtà attuale e la letteratura distopica riguarda il divieto di revisione storica da parte dei singoli ricercatori: tale aspetto, che tra l’altro nega alla Storia il suo carattere scientifico – in quanto questa verrebbe affidata al giudizio di un tribunale piuttosto che alla libera ricerca – denuncia la scellerata volontà del pensiero unico dominante, che introducendo lo psicoreato pretende non solo il dominio sul presente ed il futuro, ma anche sul passato, secondo il motto orwelliano: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”. Sempre ad Orwell è dovuta l’introduzione del concetto di “bispensiero”, ovvero la capacità di sostenere simultaneamente due opinioni palesemente contraddittorie e di accettarle entrambe come vere – sintetizzata nello slogan del partito: “la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza, la guerra è pace” -; grazie al bispensiero attuale assistiamo oggi a “guerre umanitarie” a seguito delle quali vengono massacrati migliaia di civili ed intere nazioni sono contaminate per molti decenni futuri con sostanze radioattive; ci indottrinano fino alla nausea con tematiche antirazziste ma dobbiamo tollerare come normale l’ingombrante e criminale presenza di una entità che fa del razzismo uno dei suoi elementi fondanti; alcune situazioni negative per la moderna sensibilità – arretratezza della condizione femminile, scarso rispetto delle minoranze, presenza della pena di morte – vengono denunciate ed aspramente contestate se riferibili al “nemico” di turno, tollerate, minimizzate e addirittura ignorate se presenti nel contesto socioculturale di un alleato.

In molti romanzi anti utopisti ed in moltissimi film riferibili a tale genere le agenzie governative paramilitari sono impegnate nella sorveglianza continua dei cittadini. In alcuni casi il controllo può essere sostituito o coadiuvato da potenti e sofisticate reti tecnologiche. Alla fine dell’Ottocento Jeremy Bentham ideò un sistema di carcere, il Panopticon, pensato come una struttura radiale che consentiva ad un unico guardiano – posizionato in una torretta centrale - di vedere, non visto, tutti i detenuti e divenne un modello nella successiva progettazione di molti istituti di pena. Analogamente i cittadini dell’incubo orwelliano sono continuamente spiati dal Grande Fratello, anche nell’intimità delle loro case (per analogia con tale attitudine è stato battezzato in Italia “Grande Fratello” un reality show dove la vita quotidiana dei protagonisti viene costantemente monitorata attraverso telecamere nascoste; risulta che la maggioranza degli adolescenti affezionati a tale demenziale spettacolo di diseducazione di massa ignori i motivi della scelta del titolo). Sembra che in quella che viene ritenuta “la più grande democrazia del mondo” sia imminente la realizzazione del progetto, spacciato come beneficio sanitario, finalizzato a dotare tutti i cittadini di un chip sottocutaneo che produrrà effetti fino ad oggi impensabili in termini di libertà personale. Sicuramente molti saranno indotti ad assecondare senza protestare questo piano criminale, perché efficacemente spaventati e resi insicuri dalla incombente crisi economica, dal terrorismo e dall’incremento della criminalità.


Ancora molto numerose ed indubbiamente interessanti sono le similitudini da individuare tra le apocalittiche visioni degli universi distopici e la moderna società sedicente democratica; lasciamo il piacere di ulteriori scoperte a chi voglia dedicarsi alla lettura di queste coinvolgenti e spesso profetiche opere letterarie, ricordando il monito che Orwell rivolgeva agli intellettuali e che deve essere fatto proprio da tutti gli uomini liberi del mondo: prendere posizione chiara contro ogni tipo di totalitarismo; soprattutto, aggiungiamo noi, quando si celi camaleonticamente sotto improbabili vesti democratiche per perseguire i propri inconfessabili fini.


A tale proposito – sebbene esuli dalle presenti note - è necessario spendere qualche parola sul concetto di stato totalitario, a nostro avviso oggi usato arbitrariamente - se per tale idealtipo si accettano le connotazioni eminentemente negative codificate da Hannah Arendt (“Le origini del totalitarismo”, 1951) -, soprattutto se riferito al periodo dell’Italia fascista, anche se l’aggettivo “totalitario” veniva disinvoltamente usato, naturalmente in una accezione positiva, da Giovanni Gentile e dallo stesso Mussolini, ad indicare che “… per il fascista … nulla … ha valore fuori dallo Stato …”; se è infatti innegabile che durante il ventennio prese forma un regime autoritario è comunque risibile la tesi secondo la quale tutti gli italiani si sarebbero trasformati all’improvviso in pavidi mentecatti ipnotizzati dal gruppo dirigente, peraltro sconfessata dalla nota e storicamente accertata presenza di diverse anime all’interno del movimento; alcune delle quali, autenticamente rivoluzionarie, emersero prepotentemente quando, con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, vennero definitivamente recisi i legami con le forze reazionarie che facevano capo alla Chiesa ed al troppo piccolo re fuggiasco e traditore.


Né ci convincono le smodate lodi dei glorificatori delle democrazie occidentali, dove chi (mal)governa - grazie alle sponsorizzazioni dei potentati economici che finanziano le campagne elettorali - lo fa col consenso di una percentuale infima della popolazione, vista la crescente disaffezione per le urne degli aventi diritto al voto. L’esigenza morale sentita da tutti deve essere quella di vigilare costantemente per denunciare con forza la deriva sociale verso sistemi disumanizzanti e privi di valori condivisibili e tentare di smascherare - e contrastare con ogni mezzo - le progressioni, anche se piccole ed apparentemente innocue, tendenti all’universo schiavizzante dei regimi effettivamente totalitari.


http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=16899

mercredi, 10 octobre 2012

En Syrie l’OTAN vise le gazoduc

L’art de la guerre : en Syrie l’OTAN vise le gazoduc

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La déclaration de guerre, aujourd’hui, n’est plus d’usage. Pour faire la guerre il faut par contre encore trouver un casus belli. Comme le projectile de mortier qui, parti de Syrie, a fait 5 victimes en Turquie. Ankara a riposté à coups de canons, tandis que le parlement a autorisé le gouvernement Erdogan à effectuer des opérations militaires en Syrie. Un chèque en blanc pour la guerre, que l’Otan est prête à encaisser. Le Conseil atlantique a dénoncé « les actes agressifs du régime syrien à la frontière sud-orientale de l’Otan », prêt à déclencher l’article 5 qui engage à assister avec la force armée le pays membre attaqué. Mais déjà est en acte le « non-article 5 » -introduit pendant la guerre contre la Yougoslavie et appliqué contre l’Afghanistan et la Libye- qui autorise des opérations non prévues par l’article 5, en dehors du territoire de l’Alliance.

Eloquentes sont les images des édifices de Damas et Alep dévastés par de très puissants explosifs : œuvre non pas de simples rebelles, mais de professionnels de la guerre infiltrés. Environ 200 spécialistes des forces d’élite britanniques Sas et Sbs –rapporte le Daily Star-  opèrent depuis des mois en Syrie, avec des unités étasuniennes et françaises. La force de choc est constituée par un ramassis armé de groupes islamistes (jusqu’à hier qualifiés par Washington de terroristes) provenant d’Afghanistan, Bosnie, Tchétchénie, Libye et autres pays. Dans le groupe d’Abou Omar al-Chechen –rapporte l’envoyé du Guardian à Alep- les ordres sont donnés en arabe, mais doivent être traduits en tchétchène, tadjik, turc, en dialecte saoudien, en urdu, français et quelques autres langues. Munis de faux passeports (spécialité de la Cia), les combattants affluent dans les provinces turques d’Adana et du Hatay, frontalières de la Syrie, où la Cia a ouvert des centres de formation militaire. Les armes arrivent surtout par l’Arabie saoudite et le Qatar qui, comme en Libye, fournit aussi des forces spéciales. Le commandement des opérations se trouve à bord de navires Otan dans le port d’Alexandrette. Pendant ce temps,  sur le Mont Cassius, au bord de la Syrie, l’Otan construit une nouvelle base d’espionnage électronique, qui s’ajoute à la base radar de Kisecik et à celle aérienne d’Incirlik. A Istanbul a été ouvert un centre de propagande où des dissidents syriens, formés par le Département d’état Usa, confectionnent les nouvelles et les vidéos qui sont diffusées par des réseaux satellitaires.

La guerre Otan contre la Syrie est donc déjà en acte, avec le motif officiel d’aider le pays à se libérer du régime d’Assad. Comme en Libye, on a fiché un coin dans les fractures internes pour provoquer l’écroulement de l’état, en instrumentalisant la tragédie dans laquelle les populations sont emportées. Le but est le même : Syrie, Iran et Irak ont signé en juillet 2011 un accord pour un gazoduc qui, d’ici 2016, devrait relier le gisement iranien de South Pars, le plus grand du monde, à la Syrie et ainsi à la Méditerranée. La Syrie où a été découvert un autre gros gisement près de Homs, peut devenir un hub de couloirs énergétiques alternatifs à ceux qui traversent la Turquie et à d’autres parcours, contrôlés par les compagnies étasuniennes et européennes. Pour cela on veut la frapper et l’occuper.

C’est clair, en Turquie, pour les 129 députés (un quart) opposés à la guerre et pour les milliers de gens qui ont manifesté avec le slogan « Non à l’intervention impérialiste en Syrie ».

Pour combien  d’Italiens est-ce clair, au parlement et dans le pays ?[1]

 

Edition de mardi 9 octobre 2012 de il manifesto

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20121009/manip2pg/14/manip2pz/329867/

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

[1] Même question, évidemment, pour les députés et population français –et britanniques- qui participent par leurs impôts notamment aux opérations clandestines des forces spéciales en Syrie, NdT.

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Historique du grand jeu gazier

Une première lecture de la carte du gaz révèle que celui-ci est localisé dans les régions suivantes, en termes de gisements et d’accès aux zones de consommation :

  1. Russie : Vyborg et Beregvya
  2. Annexé à la Russie : Turkménistan
  3. Environs plus ou moins immédiats de la Russie : Azerbaïdjan et Iran
  4. Pris à la Russie : Géorgie
  5. Méditerranée orientale : Syrie et Liban
  6. Qatar et Égypte.

Carte des gisements de gaz et de pétrole, des infrastructures ainsi que des gazoducs et oléoducs du Moyen-Orient

Moscou s’est hâté de travailler sur deux axes stratégiques : le premier est la mise en place d’un projet sino-russe à long terme s’appuyant sur la croissance économique du Bloc de Shanghai ; le deuxième visant à contrôler les ressources de gaz. C’est ainsi que furent jetées les bases des projets South Stream et Nord Stream, faisant face au projet étasunien Nabucco, soutenu par l’Union européenne, qui visait le gaz de la mer Noire et de l’Azerbaïdjan. S’ensuivit entre ces deux initiatives une course stratégique pour le contrôle de l’Europe et des ressources en gaz.

Pour la Russie :

Le projet Nord Stream relie directement la Russie à l’Allemagne en passant à travers la mer Baltique jusqu’à Weinberg et Sassnitz, sans passer par la Biélorussie.

Le projet South Stream commence en Russie, passe à travers la la mer Noire jusqu’à la Bulgarie et se divise entre la Grèce et le sud de l’Italie d’une part, et la Hongrie et l’Autriche d’autre part.

Pour les États-Unis :

Le projet Nabucco part d’Asie centrale et des environs de la Mer Noire, passe par la Turquie où se situent les infrastructures de stockage, puis parcours la Bulgarie, traverse la Roumanie, la Hongrie, arrive en Autriche et de là se dirige vers la République Tchèque, la Croatie, la Slovénie et l’Italie. Il devait à l’origine passer en Grèce, mais cette idée avait été abandonnée sous la pression turque.

Nabucco était censé concurrencer les projets russes. Initialement prévu pour 2014, il a dû être repoussé à 2017 en raison de difficultés techniques. À partir de là, la bataille du gaz a tourné en faveur du projet russe, mais chacun cherche toujours à étendre son projet à de nouvelles zones.

Cela concerne d’une part le gaz iranien, que les États-Unis voulaient voir venir renforcer le projet Nabucco en rejoignant le point de groupage de Erzurum, en Turquie ; et de l’autre le gaz de la Méditerranée orientale : Syrie, Liban, Israël.

Or en juillet 2011, l’Iran a signé divers accords concernant le transport de son gaz via l’Irak et la Syrie. Par conséquent, c’est désormais la Syrie qui devient le principal centre de stockage et de production, en liaison avec les réserves du Liban. C’est alors un tout nouvel espace géographique, stratégique et énergétique qui s’ouvre, comprenant l’Iran, l’Irak, la Syrie et le Liban. Les entraves que ce projet subit depuis plus d’un an donnent un aperçu du niveau d’intensité de la lutte qui se joue pour le contrôle de la Syrie et du Liban. Elles éclairent du même coup le rôle joué par la France, qui considère la Méditerranée orientale comme sa zone d’influence historique, devant éternellement servir ses intérêts, et où il lui faut rattraper son absence depuis la Seconde Guerre mondiale. En d’autres termes, la France veut jouer un rôle dans le monde du gaz où elle a acquis en quelque sorte une « assurance maladie » en Libye et veut désormais une « assurance-vie » à travers la Syrie et le Liban.

Quant à la Turquie, elle sent qu’elle sera exclue de cette guerre du gaz puisque le projet Nabucco est retardé et qu’elle ne fait partie d’aucun des deux projets South Stream et Nord Stream ; le gaz de la Méditerranée orientale semble lui échapper inexorablement à mesure qu’il s’éloigne de Nabucco.

L’axe Moscou-Berlin

Pour ses deux projets, Moscou a créé la société Gazprom dans les années 1990. L’Allemagne, qui voulait se libérer une fois pour toutes des répercussions de la Seconde Guerre mondiale, se prépara à en être partie prenante ; que ce soit en matière d’installations, de révision du pipeline Nord, ou de lieux de stockage pour la ligne South Stream au sein de sa zone d’influence, particulièrement en Autriche.

La société Gazprom a été fondée avec la collaboration de Hans-Joachim Gornig, un allemand proche de Moscou, ancien vice-président de la compagnie allemande de pétrole et de gaz industriels qui a supervisé la construction du réseau de gazoducs de la RDA. Elle a été dirigée jusqu’en octobre 2011 par Vladimir Kotenev, ancien ambassadeur de Russie en Allemagne.

Gazprom a signé nombre de transactions avec des entreprises allemandes, au premier rang desquelles celles coopérant avec Nord Stream, tels les géants E.ON pour l’énergie et BASF pour les produits chimiques ; avec pour E.ON des clauses garantissant des tarifs préférentiels en cas de hausse des prix, ce qui revient en quelque sorte à une subvention « politique » des entreprises du secteur énergétique allemand par la Russie.

Moscou a profité de la libéralisation des marchés européens du gaz pour les contraindre à déconnecter les réseaux de distribution des installations de production. La page des affrontements entre la Russie et Berlin étant tournée, débuta alors une phase de coopération économique basée sur l’allégement du poids de l’énorme dette pesant sur les épaules de l’Allemagne, celle d’une Europe surendettée par le joug étasunien. Une Allemagne qui considère que l’espace germanique (Allemagne, Autriche, République Tchèque, Suisse) est destiné à devenir le cœur de l’Europe, mais n’a pas à supporter les conséquences du vieillissement de tout un continent, ni celle de la chute d’une autre superpuissance.

Les initiatives allemandes de Gazprom comprennent le joint-venture de Wingas avec Wintershall, une filiale de BASF, qui est le plus grand producteur de pétrole et de gaz d’Allemagne et contrôle 18 % du marché du gaz. Gazprom a donné à ses principaux partenaires allemands des participations inégalées dans ses actifs russes. Ainsi BASF et E.ON contrôlent chacune près d’un quart des champs de gaz Loujno-Rousskoïé qui alimenteront en grande partie Nord Stream ; et ce n’est donc pas une simple coïncidence si l’homologue allemand de Gazprom, appelé « le Gazprom germanique », ira jusqu’à posséder 40 % de la compagnie autrichienne Austrian Centrex Co, spécialisée dans le stockage du gaz et destinée à s’étendre vers Chypre.

Une expansion qui ne plait certainement pas à la Turquie qui a cruellement besoin de sa participation au projet Nabucco. Elle consisterait à stocker, commercialiser, puis transférer 31 puis 40 milliards de m³ de gaz par an ; un projet qui fait qu’Ankara est de plus en plus inféodé aux décisions de Washington et de l’OTAN, d’autant plus que son adhésion à l’Union européenne a été rejetée à plusieurs reprises.

Les liens stratégiques liés au gaz déterminent d’autant plus la politique que Moscou exerce un lobbying sur le Parti social-démocrate allemand en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, base industrielle majeure et centre du conglomérat allemand RWE, fournisseur d’électricité et filiale d’E.ON.

Cette influence a été reconnue par Hans-Joseph Fell, responsable des politiques énergétiques chez les Verts. Selon lui quatre sociétés allemandes liées à la Russie jouent un rôle majeur dans la définition de la politique énergétique allemande. Elles s’appuient sur le Comité des relations économiques de l’Europe de l’Est —c’est-à-dire sur des entreprises en contact économique étroit avec la Russie et les pays de l’ex Bloc soviétique—, qui dispose d’un réseau très complexe d’influence sur les ministres et l’opinion publique. Mais en Allemagne, la discrétion reste de mise quant à l’influence grandissante de la Russie, partant du principe qu’il est hautement nécessaire d’améliorer la « sécurité énergétique » de l’Europe.

Il est intéressant de souligner que l’Allemagne considère que la politique de l’Union européenne pour résoudre la crise de l’euro pourrait à terme gêner les investissements germano-russes. Cette raison, parmi d’autres, explique pourquoi elle traine pour sauver l’euro plombé par les dettes européennes, alors même que le bloc germanique pourraient, à lui seul, supporter ces dettes. De plus, à chaque fois que les Européens s’opposent à sa politique vis-à-vis de la Russie, elle affirme que les plans utopiques de l’Europe ne sont pas réalisables et pourraient pousser la Russie à vendre son gaz en Asie, mettant en péril la sécurité énergétique européenne.

Ce mariage des intérêts germano-russes s’est appuyé sur l’héritage de la Guerre froide, qui fait que trois millions de russophones vivent en Allemagne, formant la deuxième plus importante communauté après les Turcs. Poutine était également adepte de l’utilisation du réseau des anciens responsables de la RDA, qui avaient pris soin des intérêts des compagnies russes en Allemagne, sans parler du recrutement d’ex-agents de la Stasi. Par exemple, les directeurs du personnel et des finances de Gazprom Germania, ou encore le directeur des finances du Consortium Nord Stream, Warnig Matthias qui, selon le Wall Street Journal, aurait aidé Poutine à recruter des espions à Dresde lorsqu’il était jeune agent du KGB. Mais il faut le reconnaitre, l’utilisation par la Russie de ses anciennes relations n’a pas été préjudiciable à l’Allemagne, car les intérêts des deux parties ont été servis sans que l’une ne domine l’autre.

Le projet Nord Stream, le lien principal entre la Russie et l’Allemagne, a été inauguré récemment par un pipeline qui a coûté 4,7 milliards d’euros. Bien que ce pipeline relie la Russie et l’Allemagne, la reconnaissance par les Européens qu’un tel projet garantissait leur sécurité énergétique a fait que la France et la Hollande se sont hâtées de déclarer qu’il s’agissait bien là d’un projet « européen ». À cet égard, il est bon de mentionner que M. Lindner, directeur exécutif du Comité allemand pour les relations économiques avec les pays de l’Europe de l’Est a déclaré, sans rire, que c’était bien « un projet européen et non pas allemand, et qu’il n’enfermerait pas l’Allemagne dans une plus grande dépendance vis-à-vis de la Russie ». Une telle déclaration souligne l’inquiétude que suscite l’accroissement de l’influence Russe en l’Allemagne ; il n’en demeure pas moins que le projet Nord Stream est structurellement un plan moscovite et non pas européen.

Les Russes peuvent paralyser la distribution de l’énergie en Pologne dans plusieurs pays comme bon leur semblent, et seront en mesure de vendre le gaz au plus offrant. Toutefois, l’importance de l’Allemagne pour la Russie réside dans le fait qu’elle constitue la plate-forme à partir de laquelle elle va pouvoir développer sa stratégie continentale ; Gazprom Germania détenant des participations dans 25 projets croisés en Grande-Bretagne, Italie, Turquie, Hongrie et d’autres pays. Cela nous amène à dire que Gazprom – après un certain temps – est destinée à devenir l’une des plus importantes entreprises au monde, sinon la plus importante.

Dessiner une nouvelle carte de l’Europe, puis du monde

Les dirigeants de Gazprom ont non seulement développé leur projet, mais ils ont aussi fait en sorte de contrer Nabucco. Ainsi, Gazprom détient 30 % du projet consistant à construire un deuxième pipeline vers l’Europe suivant à peu près le même trajet que Nabucco ce qui est, de l’aveu même de ses partisans, un projet « politique » destiné à montrer sa force en freinant, voire en bloquant le projet Nabucco. D’ailleurs Moscou s’est empressé d’acheter du gaz en Asie centrale et en mer Caspienne dans le but de l’étouffer, et de ridiculiser Washington politiquement, économiquement et stratégiquement par la même occasion.

Gazprom exploite des installations gazières en Autriche, c’est-à-dire dans les environs stratégiques de l’Allemagne, et loue aussi des installations en Grande-Bretagne et en France. Toutefois, ce sont les importantes installations de stockage en Autriche qui serviront à redessiner la carte énergétique de l’Europe, puisqu’elles alimenteront la Slovénie, la Slovaquie, la Croatie, la Hongrie, l’Italie et l’Allemagne. À ces installations, il faut ajouter le centre de stokage de Katrina, que Gazprom construit en coopération avec l’Allemagne, afin de pouvoir exporter le gaz vers les grands centres de consommation de l’Europe de l’ouest.

Gazprom a mis en place une installation commune de stockage avec la Serbie afin de fournir du gaz à la Bosnie-Herzégovine et à la Serbie elle-même. Des études de faisabilité ont été menées sur des modes de stockage similaires en République Tchèque, Roumanie, Belgique, Grande-Bretagne, Slovaquie, Turquie, Grèce et même en France. Gazprom renforce ainsi la position de Moscou, fournisseur de 41 % des approvisionnements gaziers européens. Ceci signifie un changement substantiel dans les relations entre l’Orient et l’Occident à court, moyen et long terme. Cela annonce également un déclin de l’influence états-unienne, par boucliers antimissiles interposés, voyant l’établissement d’une nouvelle organisation internationale, dont le gaz sera le pilier principal. Enfin cela explique l’intensification du combat pour le gaz de la côte Est de la Méditerranée au Proche-Orient.

Nabucco et la Turquie en difficulté

Nabucco devait acheminer du gaz sur 3 900 kilomètres de la Turquie vers l’Autriche et était conçu pour fournir 31 milliards de mètres cubes de gaz naturel par an depuis le Proche-Orient et le bassin caspien vers les marchés européens. L’empressement de la coalition OTAN-États-unis-France à mettre fin aux obstacles qui s’élevaient contre ses intérêts gaziers au Proche-Orient, en particulier en Syrie et au Liban, réside dans le fait qu’il est nécessaire de s’assurer la stabilité et la bienveillance de l’environnement lorsqu’il est question d’infrastructures et d’investissement gaziers. La réponse syrienne fût de signer un contrat pour transférer vers son territoire le gaz iranien en passant par l’Irak. Ainsi, c’est bien sur le gaz syrien et libanais que se focalise la bataille, alimentera t-il Nabucco ou South Stream ?

Le consortium Nabucco est constitué de plusieurs sociétés : allemande (REW), autrichienne (OML), turque (Botas), bulgare (Energy Company Holding), et roumaine (Transgaz). Il y a cinq ans, les coûts initiaux du projet étaient estimées à 11,2 milliards de dollars, mais ils pourraient atteindre 21,4 milliards de dollars d’ici 2017. Ceci soulève de nombreuses questions quant à sa viabilité économique étant donné que Gazprom a pu conclure des contrats avec différentes pays qui devaient alimenter Nabucco, lequel ne pourrait plus compter que sur les excédents du Turkménistan, surtout depuis les tentatives infructueuses de mainmise sur le gaz iranien. C’est l’un des secrets méconnus de la bataille pour l’Iran, qui a franchi la ligne rouge dans son défi aux USA et à l’Europe, en choisissant l’Irak et la Syrie comme trajets de transport d’une partie de son gaz.

Ainsi, le meilleur espoir de Nabucco demeure dans l’approvisionnement en gaz d’Azerbaïdjan et le gisement Shah Deniz, devenu presque la seule source d’approvisionnement d’un projet qui semble avoir échoué avant même d’avoir débuté. C’est ce que révèle l’accélération des signatures de contrats passés par Moscou pour le rachat de sources initialement destinées à Nabucco, d’une part, et les difficultés rencontrées pour imposer des changements géopolitiques en Iran, en Syrie et au Liban d’autre part. Ceci au moment où la Turquie s’empresse de réclamer sa part du projet Nabucco, soit par la signature d’un contrat avec l’Azerbaïdjan pour l’achat de 6 milliards de mètres cubes de gaz en 2017, soit par l’annexion de la Syrie et du Liban avec l’espoir de faire obstacle au transit du pétrole iranien ou de recevoir une part de la richesse gazière libano-syrienne. Apparemment une place dans le nouvel ordre mondial, celui du gaz ou d’autre chose, passe par rendre un certain nombre de service, allant de l’appui militaire jusqu’à l’hébergement du dispositif stratégique de bouclier antimissiles.

Ce qui constitue peut-être la principale menace pour Nabucco, c’est la tentative russe de le faire échouer en négociant des contrats plus avantageux que les siens en faveur de Gazprom pour North Stream et South Stream ; ce qui invaliderait les efforts des États-Unis et de l’Europe, diminuerait leur influence, et bousculerait leur politique énergétique en Iran et/ou en Méditerranée. En outre, Gazprom pourrait devenir l’un des investisseurs ou exploitants majeurs des nouveaux gisements de gaz en Syrie ou au Liban. Ce n’est pas par hasard que le 16 août 2011, le ministère syrien du Pétrole à annoncé la découverte d’un puits de gaz à Qara, près de Homs. Sa capacité de production serait de 400 000 mètres cubes par jour (146 millions de mètres cubes par an), sans même parler du gaz présent dans la Méditerranée.

Les projets Nord Stream et South Stream ont donc réduit l’influence politique étasunienne, qui semble désormais à la traîne. Les signes d’hostilité entre les États d’Europe centrale et la Russie se sont atténués ; mais la Pologne et les États-Unis ne semblent pas disposés à renoncer. En effet, fin octobre 2011, ils ont annoncé le changement de leur politique énergétique suite à la découverte de gisements de charbon européens qui devraient diminuer la dépendance vis-à-vis de la Russie et du Proche-Orient. Cela semble être un objectif ambitieux mais à long terme, en raison des nombreuses procédures nécessaires avant commercialisation ; ce charbon correspondant à des roches sédimentaires trouvées à des milliers de mètres sous terre et nécessitant des techniques de fracturation hydraulique sous haute pression pour libérer le gaz, sans compter les risques environnementaux.

Participation de la Chine

La coopération sino-russe dans le domaine énergétique est le moteur du partenariat stratégique entre les deux géants. Il s’agit, selon les experts, de la « base » de leur double véto réitéré en faveur de la Syrie.

Cette coopération ne concerne pas seulement l’approvisionnement de la Chine à des conditions préférentielles. La Chine est amenée à s’impliquer directement dans la distribution du gaz via l’acquisition d’actifs et d’installations, en plus d’un projet de contrôle conjoint des réseaux de distribution. Parallèlement, Moscou affiche sa souplesse concernant le prix du gaz, sous réserve d’être autorisé à accéder au très profitable marché intérieur chinois. Il a été convenu, par conséquent, que les experts russes et chinois travailleraient ensemble dans les domaines suivants : « La coordination des stratégies énergétiques, la prévision et la prospection, le développement des marchés, l’efficacité énergétique, et les sources d’énergie alternative ».

D’autres intérêts stratégiques communs concernent les risques encourus face au projet du « bouclier antimissiles » US. Non seulement Washington a impliqué le Japon et la Corée du Sud mais, début septembre 2011, l’Inde a aussi été invitée à en devenir partenaire. En conséquence, les préoccupations des deux pays se croisent au moment où Washington relance sa stratégie en Asie centrale, c’est-à-dire, sur la Route de la soie. Cette stratégie est la même que celle lancée par George Bush (projet de Grande Asie centrale) pour y faire reculer l’influence de la Russie et de la Chine en collaboration avec la Turquie, résoudre la situation en Afghanistan d’ici 2014, et imposer la force militaire de l’OTAN dans toute la région. L’Ouzbékistan a déjà laissé entendre qu’il pourrait accueillir l’OTAN, et Vladimir Poutine a estimé que ce qui pourrait déjouer l’intrusion occidentale et empêcher les USA de porter atteinte à la Russie serait l’expansion de l’espace Russie-Kazakhtan-Biélorussie en coopération avec Pékin.

Cet aperçu des mécanismes de la lutte internationale actuelle permet de se faire une idée du processus de formation du nouvel ordre international, fondé sur la lutte pour la suprématie militaire et dont la clé de voute est l’énergie, et en premier lieu le gaz.

Le gaz de la Syrie

Quand Israël a entrepris l’extraction de pétrole et de gaz à partir de 2009, il était clair que le bassin Méditerranéen était entré dans le jeu et que, soit la Syrie serait attaquée, soit toute la région pourrait bénéficier de la paix, puisque le 21ème siècle est supposé être celui de l’énergie propre.

Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme les plus grandes réserves de gaz et c’est en Syrie qu’il y aurait les plus importantes. Ce même institut a aussi émis l’hypothèse que la bataille entre la Turquie et Chypre allait s’intensifier du fait de l’incapacité Turque à assumer la perte du projet Nabucco (malgré le contrat signé avec Moscou en décembre 2011 pour le transport d’une partie du gaz de South Stream via la Turquie).

La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient. Et à partir de la Syrie, porte de l’Asie, il détiendra « la clé de la Maison Russie », comme l’affirmait la Tsarine Catherine II, ainsi que celle de la Chine, via la Route de la soie. Ainsi, il serait en capacité de dominer le monde, car ce siècle est le Siècle du Gaz.

C’est pour cette raison que les signataires de l’accord de Damas, permettant au gaz iranien de passer à travers l’Irak et d’accéder à la Méditerranée, ouvrant un nouvel espace géopolitique et coupant la ligne de vie de Nabucco, avaient déclaré « La Syrie est la clé de la nouvelle ère ».

Source : Mecanoblog

A Concepção Sagrada dos Espaços

A Concepção Sagrada dos Espaços

por Orazio M. Gnerre

Ex: http://legio-victrix.blogspot.be/ 



Texto da palestra de Orazio Gnerre, do Instituto Millenium, no IIIº Encontro Nacional Evoliano em João Pessoa.

Boa noite à todos,

Com a permissão do público e do professor Dugin, começarei.

Nós definimos o tema que escolhemos para a nossa discussão, "a concepção do espaço sagrado." Como você bem sabe, a escola de pensamento do tradicionalismo integrante baseia-se sobre um determinado assunto: os conceitos polares opostos subjacentes à abordagem dialética da realidade humana são dois simetricamente opostos - Tradição e Modernidade. Por Tradição compreendemos de modo geral a abordagem do "sagrado" ao real, uma leitura simbólica da mesma que, trabalhando com o que Carl Schmitt chamou de "catolicismo romano e forma política" princípio da representação, consideraremos o plano como um reflexo do mundo imanente transcendente, como expresso sistematicamente pela filosofia platônica. É um erro, porém definir o conservadorismo como um ramo da filosofia derivada do idealismo platônico porque, em sua visão ortodoxa, é considerada a ciência que estuda a manifestação do Uno pré-existente imanente - uma revelação eterna - e as estradas a fim de acessar sua experiência direta. A abordagem tradicional também pode ser definida cosmologicamente. A modernidade é a ruptura drástica com a concepção de existência simbólica e espiritual: a chave para o que não é mais cosmológico, como é na concepção tradicional, e sim mecânico. Se o pensamento tradicional é generalizante, representante, universalizante e essencialmente metafísico, o pensamento moderno, como seu oposto radical, manifesta-se como fragmentado, mecanicista e potencialmente niilista. Digo "basicamente" niilista porque, no desenrolar do fenômeno moderno, não esgota as possibilidades (ou pelo menos, não tivemos a oportunidade de conhecer este evento), mas aprofunda-se, expandindo sua influência e aumentando o grau de entropia que contém, provando ser o tempo da grande confusão prevista por René Guénon. Mais do que um sociólogo, incluindo Jedlowsky, advertiu-nos o fato de que a suposta pós-modernidade não é outra coisa senão o fenômeno moderno que é o apenas aparentemente negar a si mesmo, ele se quebra e se expande, criando uma nuvem de "modernidade diversas", e, aparentemente contrário ao contrário, de fato, todos os participantes do mesmo projeto e relativista perspectivista que, em aparente oposição ao primeiro evento universalista e racionalista da modernidade, na verdade, partes da natureza e cartesiana subjetivista. O professor Dugin, em seu discurso na conferência internacional de Moscou "Contra o mundo pós-moderno", tem bem definida a pós-modernidade como a queda da modernidade, então a expansão, a hipertrofia do princípio da quantidade que caracteriza a própria modernidade. Também o professor Dugin tem repetidamente salientou a necessidade de uma restauração da categoria filosófica do objetivismo, em oposição à natureza subjetivista da modernidade: na verdade ele não é o único que viu no universalismo marxista e no objetivismo (assim como na derrubada da manifestação idealista tripartite do Espírito) a continuação de categorias clássicas e tradicionais de pensamento. Cito neste caso o filósofo italiano Costanzo Preve que, em conjunto com Domenico Losurdo, representam a aresta de corte efectivo da Europa neomarxista. 

 

Se, como já dissemos, Tradição e Modernidade se opõem totalmente (e não dialeticamente), aqui é que ambos se projetam de cada fenômeno, porque, na verdade, são duas chaves reais para a leitura totalizante. É evidente, portanto, que deve haver um "sagrado" (tradicional e religioso) e "profano" (moderno e niilista), mesmo com o conceito de espaço, a importância de lugares, a interpretação providencial de áreas geográficas. O principal trabalho a que deve ser feita referência quando se trata desta diferença de abordagem é "O sagrado e o profano", texto esclarecedor do historiador romeno de religiões, famoso por ser ligado ao movimento da Legião do Miguel Arcanjo, professor, então, University, em Chicago, Mircea Eliade. Em seu texto explicativo, ele salienta as diferenças irreprimíveis que existem entre um homem religioso e secular, entre um homem e um homem da tradição da modernidade, na consideração do tempo, da vida, e lugares. Especialmente este último tema é que nos interessa em particular.

 

 

Eliade parte de um pressuposto geral, que é a base da consideração do fator espaço do homem religioso, o homem da Tradição: o mundo não é real. Neste sentido, a única coisa que o homem tradicional via como real, no entanto, era o Sagrado. A objetividade hegemônica do sagrado era aquele pelo qual o homem pudesse fazer o mundo real. O homem tradicional foi o vencedor real do mundo, o verdadeiro governante dos elementos (como ele era, interiorizados no pentagrama, que milênios mais tarde tornou-se o símbolo do Império Soviético sacral), como o filho dos deuses. O antropocentrismo tradicional, longe de ser semelhante ao do Iluminismo, ao contrário do último reconheceu a primazia do sagrado, como a única verdade incontestável. Como para os seres humanos, também criados devem ser realizados, "tornar-se o que você é", afirmando que o neoplatônico Santo Agostinho chamou "o poder" - estar no poder. E ele foi o homem, na verdade, o "Subcreator" (nas palavras de John Ronald Reuel Tolkien) que consagrou lugares, fez-se sagrado, tornando o domínio do Ser brilhante, e participando da criação de Deus também na concepção agostiniana, na verdade, a única coisa que se possa imaginar está sendo a adesão (que é a revelação do Santo), onde o mal é profundo como forte é a sua separação. Mesmo hoje, arar a terra perpetuamente consagrada ao Divino de nossos pais, cujos espíritos, anjos e santos padroeiros intercedem porque não afundam no abismo da não-existência. A perene conquista do Mundo do homem tradicional, então passou através da socialização do próprio mundo. O desenvolvimento desta verdade metafísica foi implementada após a revelação de Cristo, no ideal de evangelização ou Jihad. Útil a este respeito é lembrar que, para o homem tradicional, sendo o mundo espiritual mais importante e mais "real" do que o material, a primeira batalha era travada arduamente para conquistar a nível interno, uma luta até a morte pelo assassinato de seu Ego: esse foi o simbolismo de que também tratava o Barão Julius Evola, a que esta reunião é dedicada, a Grande Guerra Santa (para São Bernardo de Claraval, um dos grandes mestres do monasticismo ocidental, que são inspirados pelos cistercienses e trapistas) ou o Grande Jihad (o profeta Maomé). A corrida espacial foi qualitativamente inferior à horizontal para vertical, a conquista de seu microcosmo, a sua transferência sobre o domínio de si mesmo do indivíduo: a sacralização de si mesmo. Como o Buda disse: ". Entre aquele que vence na batalha mil vezes mil inimigos, e apenas aquele que vence a si mesmo, este é o melhor dos vencedores de cada batalha" . Qualitativamente inferior, mas não menos importante, a conquista horizontal, que Eliade identifica com o landname da tradição germânica, foi o processo pelo qual o homem subtraíu lugares no domínio da água, sem forma, do escuro, para render-se ao domínio da forma, da terra, e da luz. Igualmente Eliade considerava que estes dois princípios arquetípicos existem não apenas no plano horizontal, mas também sobre o eixo vertical. O nível horizontal é expresso pelo conceito axis mundi, o eixo do mundo, o centro radical da realidade. É importante que o eixo do mundo é único para si mesmo, ou localizado em um lugar (poderia realmente existir ...) que pode ser verdadeiramente chamado de centro de todo o mundo. No Mundo da Tradição tudo é relativo e tudo é absoluto, porque é o completo domínio do símbolo. É no templo que o homem tradicional no centro de seu mundo, que é o templo axis mundi. Não poderia ser de outra forma, para todos aqueles que vivem na orientação ao Sagrado: O templo é o seu ponto de referência, como um lugar de encontro entre a terra e os céus. Mas o templo, sendo o eixo do mundo, não só tem o valor de Scala Coeli, a Escada aos Céus: ele também ligou o homem à polaridade oposta, o mundo do informe, as águas primordiais. Esta é a ambivalência simbólica entre os pináculos das igrejas e suas criptas. O templo é de forma que, ao mesmo tempo, permite que você suba ao céu e retenha a água. É uma função mística e exorcista.

É interessante ver que todos estes arquétipos tradicionais nós podemos encontrar também em um pensador substancialmente “laico”, embora pessoalmente muito religioso. Falamos do já mencionado católico alemão Carl Schmitt, uma das mentes mais agudas do século passado, a quem o estudo do direito e mesmo da geopolítica devem muito. Ele abordou o problema espacial/territorial em duas obras suas, que lembramos serem “O Nomos da Terra” e “Terra e Mar”, este último escrito na forma de conto. Ele identificava duas fases da história da Civilização, que chamava respectivamente terrestre e marítima, e que nós podemos associar facilmente ao Mundo da Tradição e o da Modernidade. Segundo Schmitt estas duas concepções não estão ligadas somente a limites históricos, mas também a vínculos territoriais. Este é o motivo pelo qual a concepção terrestre está estritamente ligada ao bloco continental europeu e asiático, enquanto a marítima remete à Grande Ilha, a anglosfera que define o bloco anglo-americano. A primeira concepção, a terrestre, é ligada substancialmente aos princípios tradicionais do Sagrado (que em sentido político, se transpõem na comunidade orgânica, na hierarquia, na legitimidade, e no domínio da Forma e da Política), a segunda ao invés prova ser a manifestação do profano (nas suas expressões sociais de individualismo, igualitarismo, no domínio do informe e na ausência da norma). É aqui que se demonstra claramente o quanto a contraposição da Terra consagrada e da Água está presente também no pensamento de Schmitt. Não é casual que a manifestação da modernidade ocorra gradualmente, por meio da descoberta progressiva do novo mundo. Este é um argumento que tem sido aprofundado, partindo da geografia sagrada, pelo professor Dugin, e disso falaremos mais tarde. A Norma se demonstra em Schmitt com a legítima apropriação do território por parte de uma comunidade humana, que acaba sendo precisamente a consagração da mesma: é aqui que retorna o conceito já citado de landname. O landname é válido, porém somente na estabilidade: é a estabilidade que garante a legitimidade da norma (pelo mesmo motivo pelo qual o não se ater ao ordenamento jurídico pré-existente durante uma revolução política não é considerado ilegítimo). É assim que o landname só possui sentido na perspectiva terrestre. Um dos personagens pelos quaiso pensador alemão foi mais influenciados foi o nobre espanhol Donoso Cortés, herdeiro do que foi o último baluarte contra o avanço do poder marítimo anglo-saxão, a Santa Espanha Católica. Cortés, diplomata europeu de imenso calibre, homem político sem igual e agudo pensador, conhecia bem a realidade das revoluções igualitárias de 1848 e os ambientes da Restauração, considerando que entreteve também uma correspondência com o chanceler Metternich. Nele, feroz opositor da deriva anárquica europeia, Schmitt vê o defensor por excelência da Norma, da Lei. Como Schmitt, também Cortés também estava a procura daqueles que poderiam deter o avanço do anticristo, o processo de decadência total, o kat-echon, um papel que na tradição russa é preenchido pelo Imperador, e ele o identificou (com ou sem razão) em Napoleão III. O próprio Cortés define a Inglaterra como “a Grande Meretriz” (ou seja, Babilônia), que, como é sabido, na simbologia apocalíptica indica a mãe do Anticristo. Schmitt destaca várias vezes, em “Terra e Mar”, a natureza genealógica que liga o Império Britânico aos Estados Unidos da América. A conexão resulta então muito simples, em pleno acordo com todos os movimentos de resistência à Nova Ordem Mundial, que veem nos EUA “o Grande Satã”. Na Itália há dois livros dedicados ao ensinamento antimundialista que se pode tirar do Barão Evola, um de Carlo Terracciano, conhecido e amigo do Professor Dugin, e o outro de Pietro Carini. A lição de Cortés, entre outras coisas, está ligada profundamente à obra majestosa do primeiro opositor da Revolução Francesa (etapa central do processo subversivo na Europa), Joseph de Maistre, embaixador da Savóia junto ao czar. Ele e seu irmão Xavier se comprometeram firmemente ao lado da Rússia na luta contra o jacobinismo, um no sentido político, o outro no sentido militar.

 

 

Na abordagem sacra ao estudo dos espaços, não é possível deixar de recordar o papel desempenhado pelo presente professor Aleksandr Dugin, uma importante mente de nosso século, que abarca da geopolítica à filosofia, da sociologia à metafísica. Ele, como bem explica em muitos dos seus textos, está profundamente empenhado em difundir através de suas obras o elo estreito e direto que existe entre a geopolítica e a geografia sagrada, partindo especialmente das teorias do geopolítico alemão Karl Haushofer, que, sob a guarda do alpinista e estrategista britânico Mackinder, teorizava a integração política e militar do bloco continental europeu e asiático (que ele chamou de Heartland – Coração da Terra), contra a integração igual e oposta da World-Island (a Ilha-Mundo anglo-americana). Não definindo com o termo guenoniano de “ciência sagrada” a geopolítica, o professor Dugin a enquadra no âmbito daquelas pseudo-ciências que, por não terem sido completamente racionalizadas, e preservando ainda um alto nível de generalizações, manteve vivos, ainda que inconscientemente, aqueles arquétipos tradicionais dos quais estamos tratando. Em seu texto “Da Geografia Sagrada à Geopolítica”, cujas teses confluíram sucessivamente no “Paradigma do Fim”, o professor indaga antes de tudo o significado simbólico dos pontos cardeais na contraposição geopolítica “leste-oeste” e sociológica “norte-sul”. Leste e Oeste, na dialética geopolítica do mundo bipolar, constituía claramente o binômio da contraposição mundial da guerra Fria, bem como dois modelos diferentes de abordagem da vida. Se de um lado o Leste representava a “geométrica ordem prussiana” socialista, o Oeste simbolizava ao contrário o modelo hedonista do capitalismo desenfreado. Com a queda da contraposição dos blocos, e a transição pouco estável ao mundo unipolar, essa diferença não tem sido aplacada, de fato, ela foi radicalizada. Se bem que aparentemente também o Leste do mundo tem sido influenciado pelos dogmas modernos do progresso e do crescimento econômico exponencial, não podemos deixar de notar como nele estão ressurgindo (acima de tudo graças à parcial independência geopolítica de que pode desfrutar) os modelos culturais fundamentais para uma restauração integral. A oposição Leste-Oeste, no pensamento duginiano, se revela como a manifestação da contraposição do Oriente e do Ocidente metafísicos, ou melhor, simbólicos: a eterna ambivalência do apolíneo nascer do Sol e de sua descida nas Águas ocidentais. Os termos do desafio entre os dois pólos se tornam a Ascensão e a Queda, o Nascimento e a Morte, Criação e Dissolução. Em vários textos o professor se ocupou também do significado simbólico do centro geográfico que animam este desafio titânico dos continentes. Em dois de seus trabalhos, publicados na Itália no volume “Continente Rússia”, editado em 1991, ele diz limpidamente como, em uma perspectiva sacral e simbólica, a Sibéria – centro do Continente – coincide em realidade com a Hiperbórea, e a América do Norte se corresponde ao invés com a mitológica Ilha dos Mortos, a “terra verde”, da mitologia egípcia, a segunda Atlântida, o local das práticas obscenas de cultos orgiásticos. A segunda contraposição polar se identifica ao invés com Norte e Sul que, em uma concepção profana de sublevação, representam a parte rica e a pobre do globo, Primeiro e Terceiro Mundo. Nós todos conhecemos o simbolismo que na vasta literatura tradicional permeia os Pólos, especialmente o Norte. O Norte, ponto superior do Eixo do Mundo, nada mais é que o ápice solar. O Norte representa a superabundância de riqueza espiritual, o estágio último da Ascese. O Sul (de um ponto de vista simbólico e não meramente geográfico representa o contrário. A mentalidade profana, que em tudo opera a derrubada satânica dos significados, imanentizando esta contraposição em um sentido puramente geográfico, a preencheu com o significado de riqueza e pobreza materiais. Na concepção tradicional o nórdico é aquele que retorna ao gelo, aquele que perde o elemento passional e egoístico “demasiado humano” e que transcende a dimensão humana pela heroica. Já o racismo branco anglo-saxão ou pan-germanista, levado ao ápice político pelo Império Britânico em sua escana colonial global, e pelo hitlerismo ideológico ao nível europeu, demonstrava os elementos fundamentais dessa inversão demoníaca, ainda que preservando, no segundo caso, alguns elementos simbólicos da Tradição. O próprio Barão Evola escreveu muito sobre a necessidade de formar e criar uma raça do espírito, uma elite de aristocratas do espírito. O neopaganismo hitlerista, ao qual o orientalista, historiador das religiões e ex-tenente da SS italiana Pio Filippani Ronconi deu a alcunha de “contra-iniciático”, transpôs tudo a um plano biológico, invertendo o problema.

 

Em nossa opinião, também a cessão do Alasca polar por parte da Rússia aos Estados Unidos, no século XIX, representa um passo em direção à queda do Oriente do Norte espiritual. Não se há de duvidar do fato de que, se o Alasca tivesse permanecido nas mãos do Império Russo, o movimento bolchevique, fortificado no Gelo Eterno, teria empurrados suas hordas aos próprios portões da Pátria do Capitalismo. A sorte histórica seguramente teria sido diversa. No entanto, “os caminhos do Senhor são infinitos”, e Ele opera de maneiras misteriosas.

A ideologia eurasiática revivida pelo professor Dugin, e adaptada ao contexto pós-soviético, representa um destes modelos culturais alternativos, radicalmente verdadeiros, com os quais combater arduamente a Decadência iminente, para ataca-la em seu coração, nas suas contradições mais profundas, e superá-la gloriosamente. Não há dúvida de que as ações do antimoderno atingirão o seu objetivo porque, como dito pelo Para Urbano II durante o Concílio de Clermont: “Deus vult!” – Deus o quer. A Eurásia-Rússia, perfeito centro do Continente, da Heartland, representa hoje um farol de esperança para o Oriente e para o Sul do Mundo, para os europeus orgulhosos de suas próprias tradições e não alinhados ao unipolarismo estadounidense, não só geopolítico, mas também cultural, e para todos os Povos livres que sofreram o martírio por parte dos emissários da Decadência. Penso, neste momento, no heroico povo sírio, uma cidadela de Luz, onde os filhos de Deus xiitas, católicos e ortodoxos estão lutando tenazmente contra as hordas inimigas. A Eurásia, núcleo de reconciliação dos polos, porta do templo de Jano, que se abre para gerar a Unidade do real, se mostra como o Eixo do Mundo global, o templo geográfico, o ponto de partida para o landname total, a sacralização completa do Mundo, a Era do Espírito de Joaquim de Fiore, o Reino do Ar de Carl Schmitt, a terceira concepção espacial.

AMEN.

Tradução por Raphael Machado e Álvaro Hauschild

Il y a 50 ans disparaissait Georges Desbons

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Il y a 50 ans disparaissait Georges Desbons, fidèle ami de la Croatie

 

par Christophe Dolbeau

 

Le 18 novembre 1935 à Aix-en-Provence, c’est dans un palais de Justice rempli de policiers et bardé de chicanes et de barbelés que s’ouvre le procès des Oustachis. Zvonimir Pospišil, Mijo Kralj et Ivan Raić sont accusés d’avoir pris part, le 9 octobre 1934 à Marseille, à l’attentat qui à coûté la vie au roi Alexandre de Yougoslavie et au ministre français Louis Barthou. La Cour d’Assises est présidée par M. de la Broize et quant aux inculpés, ils sont tous trois défendus par un célèbre avocat parisien, Me Georges Desbons. « L’œil ardent, le visage énergique », ce dernier s’est fait connaître « par son cran et sa combativité de tous les instants » (1) ; ce sont des associations croates de Buenos Aires et de Pittsburgh qui l’ont prié d’assurer la défense des trois accusés, ce qu’il a accepté de faire sans demander d’honoraires.

 

Très au fait des affaires yougoslaves et bien décidé à ne pas laisser ce procès servir d’habillage à une basse opération de vengeance, Me Desbons se montre d’emblée extrêmement offensif. Dès le premier jour, il s’en prend à l’interprète de service qu’il qualifie d’ « œil de la police yougoslave », ce qui lui vaut une réprimande de la Cour. Le lendemain, 19 novembre, l’avocat récidive : il attaque à nouveau l’interprète « yougoslave » (un certain Ilić), conteste les expertises psychiatriques des prévenus et proteste contre les premières irrégularités des débats. Vers 14h30, c’est le clash. S’étant vu refuser la parole, Me Desbons frappe du poing sur la table et lance au président : « Alors, c’est cela la Justice républicaine… Vous n’aurez pas la tête de ces trois hommes. Ni vous, ni votre substitut, ni votre bourreau ! » (2). Outré, le procureur général bondit de son siège et requiert la radiation immédiate de l’avocat qui rétorque aussitôt : « Rien ne me fera courber l’échine ». La Cour se retire quelques instants puis elle annonce la radiation de Me Desbons qui s’exclame : « Je ne partirai pas, je ne céderai qu’à la force ». C’est dans un brouhaha général qu’un gendarme invite alors l’avocat à se retirer : « il sort », écrit l’ancien commissaire de police Georges Paulet, « le torse droit, tête rejetée en arrière, entouré jusqu’au vestiaire par des confrères et des journalistes ». « Ma radiation », dira-t-il, « est l’honneur de ma carrière » (3).

 

Les audiences sont suspendues sine die mais il y aura quelques mois plus tard (février 1936) un second procès à l’issue duquel les accusés, défendus par d’autres avocats, échapperont finalement à la peine de mort (4).

 

De Me Desbons, cet indomptable défenseur qui n’a pas hésité un seul instant à mettre en jeu sa carrière et son gagne-pain, le grand public ne sait, hélas, pas grand-chose et le 50e anniversaire de sa disparition nous offre aujourd’hui l’occasion idoine de jeter quelque lumière sur ce personnage peu banal.

 

Juriste et fin lettré

 

Petit-fils d’un diplomate et d’un député-maire, fils d’un magistrat, Georges Anatole Eugène Desbons appartient à une famille bourgeoise du Sud-Ouest de la France, bien connue dans le milieu de l’élevage équin. Il vient au monde le 5 novembre 1889 dans la petite cité de Maubourguet, au pied des Pyrénées, et reçoit, le jour de son baptême, la bénédiction particulière de Sa Sainteté Léon XIII ; d’abord élève des écoles locales, il poursuit ensuite sa scolarité à Pau puis au Collège Stanislas, un prestigieux établissement catholique de Paris. Fidèle à la tradition familiale, il étudie le droit et s’inscrit dès 1911 au barreau de Paris tout en poursuivant ses travaux en vue de l’obtention d’un doctorat ; sa thèse (1912), qualifiée de « tout à fait remarquable », portera sur « le capitalisme et l’agriculture ». Fidèle à ses racines rurales, il témoigne alors d’un intérêt sincère pour les problèmes de la campagne comme en attestent les ouvrages qu’il consacre au Crédit Agricole (1913), à La coopération rurale au Danemark (1916, préfacé par le ministre radical-socialiste Maurice Viollette) et à La crise agricole et le remède coopératif (1917). Très éclectique, le jeune homme ne se cantonne pas au seul domaine agricole : en 1913, il s’attaque aux abus des cours martiales qu’il dénonce dans « L’agonie de la justice militaire », un article que publie La Revue Socialiste ; il aborde aussi des questions plus techniques comme Le moratorium des loyers ou encore La responsabilité civile des communes, un essai qui paraît en 1915. Exempté d’obligations militaires pour raisons médicales, il se porte néanmoins volontaire en août 1914 et rejoint le front en qualité de simple soldat : il se battra jusqu’à ce que les rigueurs des tranchées viennent à bout de sa santé. Réformé sanitaire, c’est dans l’administration qu’il continue de servir : remarqué pour ses qualités intellectuelles et connu pour être politiquement proche du centre gauche, le ministre René Viviani le nomme, en effet, sous-préfet. Affecté à ce titre dans la ville d’Uzès, Georges Desbons y déploie une grande activité en faveur de la recherche des soldats portés disparus (dont son cousin Jean, futur député) ; il publie même, en 1917, un petit opuscule (Pour le droit par le droit) destiné à aider concrètement les familles dans leurs démarches.

 

Lorsque le conflit mondial s’achève, Me Desbons n’a pas encore 30 ans mais il jouit déjà d’un certain renom et c’est peut-être en raison de cette notoriété naissante que le gouvernement monténégrin, exilé en France, lui confie la défense de ses intérêts. Avocat de la famille royale, Georges Desbons est également le conseil de la Croix-Rouge monténégrine et de l’Office Monténégrin du Commerce Extérieur. Témoin privilégié des excès auxquels se livre l’armée serbe lors de l’annexion du Monténégro, le jeune avocat n’aura dès lors de cesse de dénoncer l’iniquité des traités et les ambitions brutales de Belgrade. En 1920, il préface le petit pamphlet que le Dr Pero Šoć consacre à L’allié martyr, le Monténégro, avant de s’atteler lui-même à la rédaction d’un très gros ouvrage sur L’Agonie du Royaume de Monténégro [à ce jour, ce livre est toujours inédit]. Cet intérêt pour les Balkans l’amène ensuite à se pencher sur le cas de la Macédoine et de la Bulgarie ; paru en 1930 et salué par tout un aréopage d’éminents universitaires, son ouvrage La Bulgarie après le Traité de Neuilly, préfacé par l’ancien ministre Justin Godart, lui vaudra d’être distingué par le roi Boris III. Trois ans plus tard, son livre sur La Hongrie après le Traité de Trianon suscite à nouveau les éloges d’un large éventail de personnalités (dont le général Brissaud-Desmaillet, le Comte Teleki et Joseph Balogh de la Nouvelle Revue de Hongrie) qui toutes saluent son indépendance et son anticonformisme. 

 

Si la politique étrangère est toujours au centre de ses préoccupations, Georges Desbons est également présent sur d’autres plans : dans le domaine purement juridique où il se signale par la publication de diverses études techniques (Le commerce des chiffons et la loi de 1905 sur les fraudes ; Note sur la loi de révision du prix de vente des fonds de commerce) et dans le domaine de la politique coloniale où ses interventions sont nombreuses. Membre de la Société de Géographie Commerciale de Paris (sous l’égide de laquelle il a signé en 1929 une aimable plaquette de 20 pages, dédiée à Une richesse nationale bulgare. La culture des roses et la fabrication de l’essence de roses) et avocat de plusieurs sociétés implantées outre-mer, Me Desbons se rend à plusieurs reprises au Maroc et en Tunisie (deux pays qui salueront son action en lui décernant de hautes décorations) ; cet engagement auprès du monde des affaires ne l’empêche pas, dans le même temps, de défendre les plus humbles comme en témoigne le soutien qu’il apporte aux socialistes tunisiens ou au député progressiste martiniquais Joseph Lagrosillière. Proposé en juin 1934 pour l’attribution de la Légion d’Honneur, en raison « des services incontestables qu’il a rendus à la France coloniale », il figure en bonne place, en octobre 1935, dans le comité de parrainage de l’exposition du tricentenaire du rattachement des Antilles et de la Guyane à la France où il côtoie sénateurs, députés et gouverneurs.

 

Intégrité et indépendance

 

Tel est, en 1935, le profil de l’avocat qui accepte d’assumer la difficile tâche de défendre les Oustachis. Notable du barreau, notoirement proche de la Gauche modérée et plutôt lié à l’establishment, rien ne laisse présager la détermination avec laquelle il va s’employer à faire valoir les droits de ses sulfureux clients. Sauf que Me Desbons a certes de l’ambition et de l’entregent mais qu’il n’est aucunement opportuniste et certainement pas courtisan ; juriste méticuleux, c’est aussi quelqu’un qui connaît parfaitement les arcanes de la politique yougoslave et c’est enfin un homme intègre qui n’entend pas se prêter à une mascarade judiciaire, fût-ce au nom de la raison d’État. Pour le pouvoir – et Pierre Laval le lui avouera plus tard – il faut donc impérativement l’écarter du procès où les effets conjugués de son talent et de sa probité pourraient avoir des conséquences fâcheuses : on se servira pour cela d’un prétexte futile. Interdit de prétoire dès le second jour du procès, Georges Desbons a tout de même réussi, grâce au scandale, à enrayer la machine : le bâtonnier Émile de Saint-Auban et ses confrères n’auront plus qu’à marcher dans ses traces et au final, les accusés échapperont à la guillotine, ce qui n’était pas gagné d’avance. Au-delà du cas des trois inculpés, Me Desbons et ses collègues ont aussi secoué quelques consciences. Le député Lionel de Tastes menace d’interpeller le gouvernement à la Chambre et l’influent quotidien L’Œuvre (12.02.1936) parle ouvertement du « pot aux roses de Marseille », tandis que la revue Esprit (celle d’Emmanuel Mounier) laisse, quant à elle, au jeune sociologue Georges Duveau le soin de tirer la saine conclusion suivante : « …Un Ante Pavelić n’est pas un terroriste professionnel et si les Oustachis en sont venus à une politique d’assassinat et de violences, c’est qu’hélas, la dictature serbe leur donnait les plus tristes exemples et les provoquait aux plus féroces ressentiments. L’affaire des Oustachis prouve ce double dégoût qu’éprouvent tous les hommes de cœur devant les tyrannies policières et gouvernementales » (N°42, mars 1936, p. 998).

 

Au lendemain de l’incident d’Aix-en-Provence, le purgatoire de Georges Desbons n’est pas bien long puisqu’il est officiellement réintégré le 31 mars 1936. L’avocat peut reprendre l’exercice de son métier mais de confortable, sa situation est désormais devenue instable. Certains dossiers lui sont retirés et il lui faut se refaire une clientèle. Après avoir longtemps joui d’un fort coefficient de sympathie, il doit maintenant faire face à de venimeuses critiques : on l’accuse ici d’être fasciste et là d’être communiste (car il est hostile à la révision du Traité de Versailles comme aux accords de Munich) quand on ne le soupçonne pas d’accointances avec la franc-maçonnerie ! Blessé par cette injuste vindicte, Georges Desbons n’en poursuit pas moins son chemin, en toute indépendance. Après la défaite de 1940 et l’avènement de l’ « État Français », il campe sur des positions patriotiques et républicaines. Ancien combattant, il éprouve un grand respect pour le maréchal Pétain mais ne cautionne ni la suspension de la République ni la politique de son ami de jeunesse, Pierre Laval. Sollicité pour occuper un poste de préfet, de maire d’un arrondissement de Paris ou de président d’une Cour d’Appel, il décline d’ailleurs toutes les offres et reste fidèle à sa stricte vocation de défenseur. Résidant en zone occupée, il est en contact avec le franciscain Corentin Cloarec, un prêtre résistant (5), par l’intermédiaire duquel il apporte une aide matérielle à de nombreux enfants et à quelques familles déshéritées. Sur le plan professionnel, il prête gracieusement assistance à de nombreux résistants et réfractaires au travail obligatoire, ce qui lui vaudra d’être perquisitionné à deux reprises par la Gestapo.

 

De l’ambassade à la prison

 

N’ayant jamais perdu le contact avec ses anciens clients oustachis, Me Desbons se félicite, bien sûr, de la proclamation de l’État Indépendant Croate où il ne tarde pas – malgré les fortes réticences de l’Italie et du Reich – à être invité par les nouvelles autorités. Lors de ces visites, l’avocat met à profit les relations privilégiées qu’il entretient avec Ante Pavelić, le général Perčević et Andrija Artuković pour intercéder en faveur de quelques Français évadés des camps allemands. Désireux de lui témoigner la reconnaissance du peuple croate, le Poglavnik lui confère, le 11 janvier 1943, l’Ordre de la Couronne du Roi Zvonimir, l’une des plus hautes décorations de l’État Croate. À son corps défendant, Georges Desbons se trouve au cœur d’un imbroglio diplomatique difficile à résoudre : la France n’a reconnu la Croatie indépendante que de facto et Ante Pavelić souhaiterait obtenir une reconnaissance pleine et entière avec la désignation de Me Desbons comme ambassadeur, ce que l’héritage de Marseille rend fort délicat. En effet, le Poglavnik fait toujours l’objet en France d’une condamnation à mort, tandis que le chef du gouvernement et ministre des Affaires Étrangères français n’est autre que Pierre Laval, le successeur en 1934 de Louis Barthou ; quant au maréchal Pétain, c’est lui qui représentait l’armée française aux obsèques du roi Alexandre ! (6) Dans l’attente d’un dénouement satisfaisant, un accord commercial a été conclu par les deux pays et une permanence diplomatique est assurée à Zagreb par le consul André Gaillard ; faute d’être officiellement nommé ambassadeur, c’est donc en qualité de simple « chef de la légation française » que G. Desbons effectuera, en mars 1944, un dernier séjour à Zagreb.

 

Sitôt Paris libérée (août 1944), les ennemis de Me Desbons reprennent l’offensive, invoquant cette fois ses trois voyages en Croatie pour l’accuser de « collaboration » et de trahison. Il s’agit là, bien entendu, d’une pure calomnie mais elle conduit bel et bien l’avocat à la prison de Fresnes où il va passer plusieurs mois. Sarcastiques, les journaux de l’époque cherchent plus ou moins à le ridiculiser, à l’instar de Paris-Presse (07.02.1945) qui titre : « L’ambassade burlesque de Georges Desbons, le plus extravagant diplomate de Vichy qui ne passa que douze jours en Croatie et termina sa carrière à Fresnes ». Depuis sa cellule, l’avocat, dont la santé se détériore, tempête, proteste et exige l’abandon des poursuites. Finalement, sa libération est ordonnée en mars 1945 mais sans que la procédure soit pour autant abandonnée, ce qui ne saurait le satisfaire. « Le parquet de la Cour de Justice », écrit Le Monde (23.03.1945), « a décidé de mettre en liberté provisoire Georges Desbons, avocat au barreau de Paris, qui entretint d’étroits rapports avec le gouvernement croate et son chef Ante Pavelić. L’inculpé, qui escomptait un non-lieu, a refusé de quitter sa prison où il fait la grève de la faim depuis quatre jours ». En dépit d’un éloquent mémoire en défense et malgré les témoignages favorables de gens aussi éminents que le futur président du Conseil Antoine Pinay, les démêlées judiciaires de Georges Desbons s’éterniseront jusqu’en 1947.

 

Semper fidelis

 

Au sortir de toutes ces épreuves – dont la seule et unique cause, il faut bien le dire, est le procès de 1935 – Me Desbons ne renie rien de son engagement aux côtés des nationalistes croates. « La Croatie a droit à la Justice. Ce droit à la Justice implique la Liberté », réaffirme-t-il en 1954 dans les colonnes de l’almanach du Hrvatski Domobran. Toujours prêt à en découdre avec les diffamateurs, il demeure par ailleurs en contact épistolaire avec le Dr Ante Pavelić qu’il entretient régulièrement de diverses indiscrétions politiques que lui confient des relations bien informées et qu’il tient aussi au courant de ce qui agite la communauté croate de Paris. Approché par toutes sortes de faux amis et d’agents provocateurs qui cherchent à le compromettre, Me Desbons se tient prudemment à l’écart des intrigues, tout en exerçant discrètement son influence sur ceux qu’il appelle « les éléments purs de l’émigration ». « De chez moi », écrit-il au Père Branko Marić (7), « je suis resté l’ami fidèle de votre patrie. Dans la mesure de mes forces et de mes informations vraies, je démolis les échafaudages malhonnêtes, j’évite les erreurs qui, parfois, peuvent avoir de graves conséquences… Autrement dit, je reste identique à moi-même ». L’incontestable aura dont il jouit parmi les jeunes émigrés lui permet de contrecarrer efficacement les manœuvres ambiguës du Père Teodor Dragun, le recteur de la Mission Catholique Croate, et de son bras droit, le journaliste et poète Mato Vučetić (1892-1981), ancien attaché de presse de l’ambassade yougoslave. Hostiles au régime communiste (Vučetić est même le représentant officiel à Paris de Vlatko Maček), ces deux hommes sont également des adversaires déclarés du nationalisme croate ; associés à l’ancien député Roko Mišetić et à quelques Serbes et Slovènes, ils tentent (non sans mal) de mobiliser les expatriés croates derrière la dangereuse chimère d’une troisième Yougoslavie « démocratique ».

 

Désireux de laisser à la postérité son témoignage sur l’affaire de Marseille et de faire enfin connaître à tous ce qu’il aurait dit à Aix-en-Provence si on l’avait laissé plaider, Georges Desbons commence à réunir les pièces essentielles d’un futur gros ouvrage consacré à la question croate. Il n’en verra, hélas, pas la parution (8) car la maladie qui le mine finit par avoir raison de ses forces. Hospitalisé le 16 septembre 1962 à l’Hôpital Saint-Joseph de Paris, il y succombe le mercredi 26 septembre, aux alentours de 22h 30, après avoir reçu les derniers sacrements. Accouru quelques jours plus tôt, c’est son vieil ami, le Père Branko Marić, qui célèbrera la messe de Requiem dans la chapelle de l’hôpital. Arborant sur la poitrine, comme dans un dernier geste de défi, l’étoile de l’Ordre de la Couronne du Roi Zvonimir, le défunt sera inhumé le 1er octobre au cimetière de Saint-Cloud, en présence de deux membres de l’Académie Française et d’une délégation de jeunes patriotes croates. La Croatie venait de perdre un ami aussi fidèle que précieux.

 

 Christophe Dolbeau

 

Notes

 

(1) Georges Paulet, L’assassinat d’Alexandre 1er, Lyon, Éditions du Coq, 1949, 98.

 

(2) Ibid, 113.

 

(3) Ibid, 114.

 

(4) Seuls les accusés en fuite, Pavelić, Kvaternik et Perčević, sont condamnés à mort par contumace ; en cas d’arrestation, ils auraient eu droit à un autre procès.

 

(5) Il sera assassiné le 28 juin 1944 par des agents de l’Abwehr.

 

(6) À propos de Philippe Pétain : dans la nuit du 19 au 20 février 1973, un commando sortira clandestinement le cercueil du maréchal Pétain du cimetière de l’île d’Yeu, dans le but de le transférer à Verdun où le maréchal avait exprimé le souhait de reposer au milieu de ses soldats. Dans ce commando, qui sera arrêté trois jours après par la police, figurait le Croate Marin Špika, membre du Mouvement de Libération Croate.

 

(7) Lettre du 14 janvier 1960.

 

(8) À ce jour, seuls quelques extraits ont été publiés…

Compassion n’est pas raison

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Compassion n’est pas raison

par Pierre LE VIGAN

La compassion se porte bien. Mais qu’est-ce que la compassion ? C’est un ressenti. C’est un partage de sentiments voire une communion. C’est un « éprouvé avec », plus encore que le « souffrir avec » qu’indique l’étymologie. C’est quelque chose comme la sympathie dans la Théorie des sentiments moraux (1759) d’Adam Smith, qui fonde selon lui notre conduite morale.  La compassion est un thème de société depuis qu’elle est devenue un affect obligatoire, à l’opposé du « soyez dur » de Zarathoustra. Myriam Revault d’Allonnes souligne le « déferlement compassionnel auquel notre société est aujourd’hui en proie ». Pourquoi notre société est-elle si compassionnelle ? Ce n’est pas un hasard. C’est même un symptôme.

Une compassion qui s’étend à tout et à tous

La compassion vaut identification. En ce sens, elle est le produit d’une vision égalitaire des hommes. Dans les sociétés aristocratiques, la compassion n‘a de sens que pour ceux de sa caste et à l’intérieur de celle-ci. À l’inverse, dans les sociétés démocratiques le premier venu (ou le dernier venu si on se réfère aux flux migratoires) devient le semblable de tout le monde. Tocqueville, dans La démocratie en Amérique (1835), remarque que nos sociétés, qu’il qualifie de démocratiques, au sens où elles sont caractérisées par un égalitarisme de principe et non de situation sociale, sont unifiées autour d’un affect commun : la compassion. Il remarque que notre sensibilité se porte sur plus d’objets que ce n’était le cas pour nos pères (c’est-à-dire pour les hommes des sociétés aristocratiques). C’est que notre compassion s’étend désormais à tous les hommes, et non plus seulement à ceux de notre rang. La compassion s’est élargie.

La notion de compassion comme affect commun trouve son origine chez Rousseau même s’il emploie essentiellement les termes de pitié et de commisération. La pitié est pour l’auteur des Confessions le socle de la reconnaissance du semblable. La compassion / pitié est la conséquence de la reconnaissance de la subjectivité humaine. Elle repose tout autant sur l’amour des autres que sur l’amour de soi. La philia, l’amitié est fondée dans la philautia, l’amour de soi, ce qu’Aristote appelait l’« égoïsme vertueux ». S’aimer soi même est la condition pour aimer les autres selon Rousseau. La compassion appartient ainsi à ce que Rousseau croit être la nature de l’homme. La compassion serait même une vertu naturelle voire la mère de toutes les vertus. C’est la naissance d’une conception « moderne » des liens entre les hommes.

La compassion universelle s’accompagne de l’essor de la grande muflerie moderne

Nous vivons toujours sur cette conception comme quoi la compassion, dont la déclinaison forte est la pitié, est le mode moderne, et donc normal dans nos sociétés, du partage du sensible, de ce que l’on sent et ressent.

Cette conception pose plusieurs questions. Tout d’abord, l’extension du champ de la compassion lui fait perdre en intensité. Si on est sensible à tous les malheurs du monde on n’est pas sensible à l’un plus qu’à l’autre. La compassion universelle est par ailleurs inévitablement abstraite. Elle devient sans visage. Ou bien les visages ne sont que ceux des écrans de télévision. Force est aussi de constater que l’extension de la compassion va avec un déclin de la politesse de proximité ou encore de la civilité. De ce qu’Orwell appelait la décence ordinaire. C’est ainsi que se répand en même temps qu’une compassion universelle abstraite et obligatoire une « panbéotie » ou grande muflerie concrète, celle dont parlait Charles Péguy. Ce n’est pas le moindre paradoxe. « Le progrès de la compassion va de pair avec la régression de la civilité », note Alain Finkielkraut. Un risque qu’avait mesuré Rousseau qui écrivait : « Défiez vous de ces cosmopolitiques qui vont chercher loin dans leurs livres des devoirs qu’ils dédaignent de remplir autour d’eux (Émile ou l’éducation, 1762) ».

Compassion, tyrannie de la transparence et dictature de l’urgence

La compassion rencontre d’autres apories. Elle amène à voir les similitudes plus que les différences. A voir ce qui ressemble plus que ce qui distingue. La compassion minore ainsi les distinctions. Elle implique que nous sommes tous égaux au sens où nous serions tous semblables. Elle participe ainsi à la grande érosion moderne des diversités. La compassion implique en outre que ses objets se prêtent au jeu c’est-à-dire acceptent de se montrer en leur malheur. La compassion va avec l’exigence ou même la tyrannie de la transparence, comme nombre d’affaires judiciaires contemporaines en témoignent. La compassion va ainsi avec un effacement de la pudeur et encore de la honte. La compassion suppose en partie de sortir du registre de l’honneur et de la honte pour entrer dans celui de l’exposition voire de l’exhibition, ce qu’avait bien vu Nietzsche.

L’impatience de la pitié

En outre, la compassion, par exemple dans le cas des drames humanitaires,  tels les guerres et les famines, amène à une dictature de l’urgence. Il faut « réagir tout de suite », ne pas « tergiverser ». C’est l’impatience de la pitié. Au risque de faire n’importe quoi, voire plus de mal que de bien. Au risque d’attiser par exemple une guerre tribale, comme en Libye, au lieu de favoriser des négociations.

Il y a un extrémisme de la compassion. Il peut être terroriste. Il peut y avoir une fureur de la pitié, qui amène à déchaîner la haine contre de présumés coupables. « Les malheureux » disait Robespierre à propos du peuple souffrant. On peut penser de même qu’Hitler avait une grande compassion pour la situation difficile du peuple allemand après sa défaite de 1918. Compassion qui peut se retourner en fureur contre les prétendus responsables des malheurs du peuple.

Le problème qui se pose à nous maintenant est toutefois autre que celui des révolutionnaires de droite ou de gauche. La compassion est devenue universelle comme nous l’avons vu. Tient-elle lieu alors de politique ? Doit-on s’en satisfaire ? Pour Rousseau la compassion suppose de ne pas se prendre pour celui qui souffre. La pitié n’est pas pour Rousseau un sentiment fusionnel, elle suppose la distance de la réflexion. Il ne s’agit pas de s’identifier à l’autre mais de comprendre au contraire la différence de l’autre. Rousseau écrit : « La pitié est douce, parce qu’en se mettant à la place de celui qui souffre, on sent pourtant le plaisir de ne pas souffrir comme lui (Émile) ». La compassion ne peut donc être directement politique. Elle ne peut l’être qu’à travers des médiations. Celles-ci sont de plusieurs ordres. Il s’agit bien sûr de comprendre. Sortant de la compassion immédiate, il s’agit d’analyser ce qui se passe et pourquoi. Un exemple ? Il y a une famine en Somalie. Pourquoi le pays a-t-il éclaté en trois régions ? Le Somaliland, le Puntland, et la région de Mogadiscio ? Pourquoi la situation au Somaliland est-elle beaucoup moins dramatique ? Que faire et comment ? A-t-on une simple stratégie de communication ou une stratégie politique à long terme ?

Il s’agit aussi de savoir si toutes les compassions doivent être mises sur le même plan. Ou si « les nôtres » – et selon quel critère les juge-t-on ainsi – doivent passer avant « les autres ». Non en fonction d’une valeur plus grande « en soi » mais au nom du simple principe – par définition relatif – de la primauté de la proximité.  C’était peu ou prou la vision d’Aristote. Il parlait de « sphères d’appartenances » plus ou moins rapprochées et expliquait que la compassion commence au-delà des gens très proches de nous (car ce qui les atteindrait nous ferait peur et mal et ne provoquerait pas une simple compassion) mais ne va pas jusqu’aux gens très éloignés (pour qui prédominerait l’indifférence). La compassion est pour Aristote un « entre deux », c’est une marge.

La compassion universelle a un lien avec le politique. Elle est fondée sur l’abstraction d’un lien entre supposés semblables. Mais le lien politique est à la fois abstrait et situé. S’il va par définition au-delà du charnel (qui n’est pas politique), il n’est pas non plus universel. Il s’inscrit dans un cadre national, ou impérial, mais non pas universalisable. C’est pourquoi l’abstraction du lien compassionnel ne peut être une politique. Rousseau dit que la pitié doit conduire à la justice. Mais celle-ci ne résulte pas d’un simple ressenti. Bien entendu, celui-ci y participe. La richesse insolente de certains provoque l’indignation quand d’autres meurent de faim. Et il y a une dimension politique dans cette indignation. Mais le ressenti ne fonde jamais une justice et chacun sait au demeurant que vouloir appauvrir les riches n’a généralement pas suffi à faire mieux vivre les pauvres. La pitié non plus que la compassion ne fonde une politique et même la justice, si elle est nécessaire, n’y suffit pas. « Il y a des affects politiques fondamentaux comme la colère, comme l’indignation qui sont comme un substrat, un préalable à l’action », écrit Merleau-Ponty dans la préface de Signes. Nous sommes bien d’accord. Mais un levier, mais l’indignation-levier ne suffit pas, il faut à la politique un projet, une analyse des rapports de force, une vision, et sans doute même une poétique. La compassion dispense de la raison, et conforte les stratégies des grandes puissances et les pouvoirs de l’oligarchie.

Le principal danger qui menace de transformer la compassion universalisée en nuisance est la réduction de l’autre au même. Paul Audi note : « La pire violence que l’on puisse faire à l’autre, c’est de ne pas altériser le semblable. […] Tant que l’on altérise pas le semblable, on est dans une logique d’appropriation de la réalité de l’autre, ce qui est la pire violence que l’on puisse lui faire ». Voir l’autre comme le même, c’est décidément le mal contemporain qui, de la colonisation hier à l’immigration aujourd’hui constitue la menace principale contre l’identité des peuples.

Pierre Le Vigan

• Myriam Revault d’Allonnes, L’Homme compassionnel, Le Seuil, 2008, 103 p., 10 €.

• Paul Audi, L’empire de la compassion, Encre marine, 2011, 152 p., 19 €.


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Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat

Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat

Paul Vanden Bavière

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Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat
 

Peter Edel, De diepte van de Bosporus. Een biografie van Turkije, uitg. EPO, Berchem, 2012. 344 blz., met kleurenfoto’s. € 24

Sedert 2006, toen hij in Istanbul  in het huwelijk trad met een Turkse, woont Peter Edel in de voormalige Ottomaanse hoofdstad. En maakt hij daar geschiedenis mee, waarover hij in De diepte van de Bosporus, op een boeiende en vlot lezende manier verslag uitbrengt. Tien jaar nadat de islami(s)tische Partij voor Gerechtigheid en Ontwikkeling (AKP) van premier Recep Tayyip Erdogan aan de macht kwam, is ze er nu immers in geslaagd de macht van het kemalistische establishment te breken.

Het had anders gekund voor Peter Edel. Hij studeerde immers fotografie en design in Amsterdam – met succes zoals we merken aan de prachtige kleurenfoto’s in zijn boek – en was dus niet voorbestemd om een specialist in Turkse hedendaagse geschiedenis te worden. Het toeval hielp hier een handje mee. Peter Edel hield het niet bij de kunst, maar publiceerde in 2002, ook bij de uitgeverij EPO, De schaduw van de ster: Zionisme en antizionisme, een boek over Israël dat in Nederland ophef maakte. Van een Turkse vriendin in Amsterdam vernam hij dat een uitgever in Istanbul het boek in Turkse vertaling wou uitgeven. Diezelfde vriendin stelde hem voor aan een vriendin van haar uit Istanbul die op bezoek was. Toen Edel enkele maanden later zijn Turkse uitgever in Istanbul opzocht, ontmoette hij die vriendin-van-een-vriendin opnieuw. En van het een kwam het ander. Zo werd Peter Edel freelance journalist en fotograaf in Turkije.

De politieke veranderingen waren toen al aan de gang, maar ze hadden evengoed  kunnen doodbloeden, want een procureur probeerde in 2008 de AKP te doen verbieden op grond van antiseculiere activiteiten, wat net niet lukte. Stof om over te schrijven was er ook met de nu bijna muurvast zittende onderhandelingen over de toetreding van Turkije tot de Europese Unie en ook over de Koerdische kwestie, die sedert het mislukken van geheime besprekingen tussen de regering en de Koerdische Arbeiderspartij (PKK) vorig jaar opnieuw in een gewelddadige fase is beland.

Staatsideologie

De Turkse republiek werd na de ondergang van het Ottomaanse rijk ten gevolge van de eerste wereldoorlog in 1923 opgericht door Mustafa Kemal, een militair, die daarvoor beloond werd met de titel Atatürk, de vader der Turken. Het werk van de man is indrukwekkend te noemen. Hij schoeide het land op westerse leest en legde voor jaren de officiële staatsideologie vast: Turkije werd een seculiere islamitische eenheidstaat, met één volk en één taal, een populistische staat, met een door de staat geleide economie. Na de dood van Atatürk riep het leger zich uit tot de behoeder van de erfenis van de autoritaire leider, hierbij gesteund door een elite van politici, politiemannen, professoren en andere intellectuelen, journalisten, rechters enz. Samen vormden die de zgn. “diepe staat”, die ondanks de democratisering sedert de jaren 1950 alles onder controle hield en de partijen  binnen de door haar uitgezette lijnen hield. Als politici die lijnen overschreden pleegde het leger staatsgrepen, echte in 1960, 1971 en 1980 en een verkapte in 1997, waarbij de islamistische premier Necmettin Erbakan tot aftreden werd gedwongen. Turkije bleef, ondanks vrije verkiezingen, een autoritaire staat, met beperkingen op de vrijheid van mening en op de vrijheid in het algemeen.

Nochtans kwamen er al vlug afwijkingen van de leer. Vanaf de jaren 1950 maakte de islam geleidelijk aan een terugkeer. In 1980 gingen de militairen zelfs zover de islam openlijk te gaan steunen om het communisme te bestrijden. Maar eigenlijk is Turkije geen echte seculiere staat. Atatürk heeft wel de grote verdienste dat hij de Turken de kans gaf ongelovig of op zijn minst seculier te leven. Turkije was wél een islamitische staat, waarbij de staat de islam controleerde. Naast één taal en één volk moest Turkije ook één godsdienst hebben, en aanvankelijk ook één leider, Atatürk. Als islamitische staat was er nooit een gelijke status voor christenen, alevieten en andere religieuze minderheden. De christenen werden op grote schaal verdreven en weggepest. Ook nu nog worden de weinige resterenden gediscrimineerd. Als islamitische staat ligt de “Armeense kwestie”, dan ook gevoelig. Alhoewel de genocide van 1915 werd uitgevoerd door de leiders van de Ottomaanse staat, en de republiek er niets mee te maken had.

De door de staat geleide economie begon ook al in de jaren 1950 geleidelijk te wijken en is, merkwaardig genoeg, zonder veel verzet van het leger en de kemalisten vrijwel geheel verdwenen om plaats te maken voor een neoliberale economie, waarin ook geen plaats meer is voor gelijkheid.

Één volk, één taal

Het principe van één staat, één volk, één taal is de oorzaak, al van kort na de uitroeping van de republiek, geweest van talrijke opstanden van de Koerden. Dat principe is immers negationistisch: het negeert het bestaan van minderheden, die maar Turks moeten leren, hun identiteit vergeten, en zich integreren in de Turkse maatschappij. De laatste opstand, die nog altijd voortduurt, begon in 1984 toen de Koerdische Arbeiderspartij van Abdullah Öcalan een gewapende opstand begon.

In het kader van de strijd tegen de Koerden organiseerde de “diepe staat” doodseskaders en maakte die staat zich schuldig aan moord en foltering op grote schaal. Iedereen wist dat, maar dat kwam met volle geweld in het openbaar door het Susurluk-incident, ten gevolge van een auto-ongeval in 1996 in het plaatsje Susurluk. Daar botsten een dure Mercedes 600 SEL en een vrachtwagen. In de Mercedes vielen drie doden: een politieofficier en directeur van de politieacademie in Istanbul, Hüseyin Kocodag, een gezochte extreem-rechtse Grijze Wolf en gezochte gangster, Abdullah Catli, die o.a. verantwoordelijk was voor de moord op meer dan 100 Koerdische zakenmannen, die de PKK zouden hebben gefinancierd, en diens vriendin en gewezen schoonheidskoningin Gonca Us. De enige overlevende was Sedat Bucak, een Koerdische clanleider die met duizenden Koerdische dorpswachters de PKK bestreed.
Het gaf geen mooi beeld bij de publieke opinie toen bleek dat de Turkse leiders zich volop in de illegaliteit stortten en samenwerkten met maffiabazen en drugssmokkelaars. Wel toonde het aan hoever de staat wou gaan in het bestrijden van een op zich zeker gerechtvaardigd streven van een volk voor op zijn minst culturele autonomie. Was het niet Erdogan zelf die in 2008 tijdens een bezoek aan Duitsland tegen de Turken daar zei dat “assimilatie een misdaad tegen de menselijkheid” was?

Het Susurluk-incident droeg bij tot de deligitimering van de politieke klasse, die al in diskrediet was geraakt door een catastrofale economische politiek, die tot torenhoge inflatie en achtereenvolgende devaluaties van Turkse lira leidde. Zo werd de weg geopend naar de heerschappij van de AKP.
Die zorgde aanvankelijk voor enkele doorbraken in de onderhandelingen met de EU over toetreding, maar sedert 2005 ligt het proces grotendeels plat. Nochtans heeft Erdogan veel te danken aan de EU, die opkomt voor godsdienstvrijheid. Van die Europese houding heeft Erdogan geprofiteerd om islamiserende maatregelen te nemen, zoals het toelaten van de hoofddoek in openbare gebouwen zoals universiteiten. Het heeft hem electoraal geen windeieren gelegd bij de grotendeels gelovige Turkse bevolking, vooral dan in Centraal-Anatolië, waar hij op de financiële steun kan rekenen van islamitische zakenmannen, die tot dan toe altijd in de schaduw hadden gestaan van hun grootstedelijke collega’s, die gemakkelijker op staatssteun en andere voordelen konden rekenen.

Ook pleitte de EU voor toezicht van de regering op het leger, wat de positie van de militairen  verzwakte. Geen wonder dat dit tot geruchten over het beramen van staatsgrepen door ontevreden officieren leidde. Dat leidde leidde tot de zgn. Ergenekon-affaire, in het kader waarvan vele officieren en andere leden van de “diepe staat” werden opgepakt en gevangen werden gezet in afwachting van een uitspraak in hun proces, die nog lang op zich kan laten wachten. Uiteindelijk wierp de Turkse militaire top vorig jaar uit protest de handdoek in de ring. Waarvan Erdogan gebruik maakte om ze te vervangen en zijn mannen op hun plaatsen te benoemen. Als men daarbij bedenkt dat Erdogan er via een referendum in slaagde greep te krijgen op het gerechtelijk apparaat, dan weet men dat hij momenteel de sterke man is.

Opent dat de weg naar een echt democratisch Turkije? Peter Edel heeft daar sterke twijfels over. “In haar beleid suggereert de AKP dat ze de Turken een autoritair regime wil opleggen”, schrijft hij (blz. 315). En er redenen genoeg om hem te geloven. Er is de islamisering van de republiek, de repressie van alle oppositie (Koerden, militairen…) wat in Turkije mogelijk is onder een wet die “schuld door associatie” bestraft. Nu al zitten ongeveer 8.000 Koerden gevangen omdat ze het eens zijn met bepaalde princiepen van de Koerdische PKK. Hetzelfde geldt voor journalisten, intellectuelen die relaties hadden met personen die in het kader van Ergenekon-onderzoek opgepakte werden. Ook de vrijheid van mening en meningsuiting worden strak aan banden gehouden: een honderdtal journalisten zit in Turkije in de cel, honderden websites zijn geblokkeerd door de regering, en ga zo maar door.

Het ziet er naar uit dat Erdogan elk verzet tegen zijn regering en politiek wil uitschakelen. Ook vroegere medestanders moeten het volgens Peter Edel momenteel ontgelden. Zo werkte Erdogan in zijn strijd tegen de kemalisten jaren lang samen met Fethüllah Gülen de leider van een oerconservatie, anticommunistische en sterk pro-Amerikaanse Turkse organisatie met goede relaties met de CIA. Fethüllah Gülen zelf week na de staatsgreep van 1980 uit naar de Verenigde Staten omdat hij vreesde dat de militairen hem zou aanpakken. Hij woont er nog steeds. In Turkije begonnen zijn aanhangers politie, justitie en onderwijs te infiltreren. Nu de kemalisten uitgeschakeld zijn, ziet het er naar uit dat Erdogan de Gülenbeweging aan het aanpakken is. Vanuit zijn omgeving is al gesuggereerd dat er geen parallelle organisatie kan worden getolereerd. Met andere woorden concurrentie is ongewenst. Het hoofdstuk over de Gülenbeweging in het boek is niet alleen boeiend, maar ook interessant. Ook voor Europa omdat Gülen ondanks zijn fundamentalisme zich niet zonder succes heeft weten op te werpen als een gematigde islam-stem en in dat kader zelfs Israël, waarmee Erdogan op ramkoers zit, ondanks zijn vroeger openlijk antisemitisme, is gaan cultiveren. Vele Amerikaanse en Europese intellectuelen zijn, zoals ook blijkt uit opiniestukken in kranten, gecharmeerd geraakt door hem.

De vraag is of Erdogan erin zal slagen zijn project door te zetten of bij de volgende algemene verkiezingen zal worden afgestraft. Hij heeft Turkije wel een economische boost gegeven, maar Peter Edel meent dat de economie kwetsbaar blijkt. Op andere vlakken heeft Erdogan ronduit tegenslagen gehad. Hij is er niet in geslaagd van zijn “Koerdische opening” iets te maken. Ook zijn project van “zero conflict” , of de zgn. neo-Ottomaande diplomatie van zijn minister van Buitenlandse Zaken Ahmet Davutoglu, met zijn buren staat op de helling. Zowel met Grieken als Armenen geraken de problemen maar niet uit het slop. Vooral zijn bruuske wending in de goede relaties met Syrië, door de kant van de opstandelingen te kiezen, lijkt een ramp te worden: de relaties met Syrië, Irak en Iran, drie belangrijke handelspartners, zijn verzuurd met als gevolg dat ze de PKK steun zijn gaan geven. Met als gevolg dat de Koerden een bruggenhoofd hebben veroveren in de Turkse provincie Hakkari aan de grenzen met Irak en Iran en Turkije aan de grens met Syrië onder druk zetten – de Syrische president Bashar al-Assad heeft hen daar immers feitelijke autonomie gegeven. In eigen land heeft Erdogan er naast de Koerden ook vijanden bij gekregen onder de alevieten, zowat 20% van de bevolking (waaronder ook veel Koerden).

Eigenaardig genoeg is Erdogan erin geslaagd het kemalistisch establishment zeer klappen toe te dienen, maar op een aantal punten loopt zijn politiek gelijk met deze van dat establishment. Dat is zo in de Koerdische kwestie, en uiteindelijk ook in zijn relaties met de Arabische wereld.

 

mardi, 09 octobre 2012

Democratie, mét oogkleppen en zonder

Democratie, mét oogkleppen en zonder

Edi Clijsters

Ex: http://www.uitpers.be/

 
Democratie, mét oogkleppen en zonder
 

Robert Senelle, Emile Clement, Edgard Van De Velde, The Road to Politicial Democracy. From Plato to the Fundamental rights of the European Union, Brussel, Academic & Scientific Publishers (APS), 2012; 1072 pp.
Ludo Abicht, Gewoon volk eerst. Waarom populistisch en gemeen geen scheldwoorden zijn, Antwerpen, Houtekiet, 2012; 166 pp.

Over de lange weg naar democratie werd en wordt veel geschreven en gediscussieerd. Een goed idee dus om drie kenners een indrukwekkende  bundeling van klassieke teksten te laten samenstellen. Helaas blijft de selectie beperkt tot de burgerlijke interpretatie van politieke democratie. Een recent verschenen polemisch essay bewijst dat het ook anders kan.

Democratie is, zoals bekend, de slechtst denkbare staatsvorm, op alle nadere na. Hoe een democratie er moet uitzien, hoever ze mag of moet reiken, hoe je überhaupt zover geraakt, en hoe ze kan en moet verdedigd worden … daarover zijn al ontelbare boeken en artikels geschreven en discussies gevoerd.
Gelukkig maar. Want meningsverschillen en discussies zijn juist een uitmuntend  bewijs voor de levenskracht van een bestaande democratie en/of voor de aantrekkelijkheid van een idee.

Het is dan ook slechts een schijnbare tegenstelling dat - tenminste: in de landen die als 'liberale democratieën' gelden - over inhoud en draagwijdte van democratie wellicht nog nooit zo heftige controverse bestond als nu, nu ze toch (althans volgens ene heer Fukuyama) als enig wervend concept de twintigste eeuw heeft overleefd. Al was het maar omdat – niet voor het eerst overigens – pijnlijk duidelijk blijkt dat politieke democratie slechts een beperkt aspect uitmaakt van hoe een werkelijk democratische samenleving zou moeten functioneren.

Tegen de achtergrond van die controverse, van de democratische revoltes in ettelijke islamistische staten en van de pogingen om in voormalige sovjetstaten prille democratische ontwikkelingen zoveel mogelijk terug te dringen, verscheen bij APS een kanjer van een referentiewerk over de 'weg naar politieke democratie'. Twee auteurs zijn voormalige hoogleraren grondwettelijk recht, de derde was jarenlang directeur bij de federale Kamer van Volksvertegenwoordigers. Alle drie waren en zijn ze gefascineerd door hun onderwerp. Dat kon je opmaken uit de toelichtingen bij de presentatie van het boek; dat moet je ook afleiden uit de talloze uren lectuur, selectie, en discussie die aan de publicatie ongetwijfeld zijn voorafgegaan.

Over de funderingen van de lange weg naar politieke democratie, over de aard van de bestrating, over de valkuilen en zijstraatjes én de bakens langsheen die weg, hebben Senelle, Clément en Van de Velde 34 richtinggevende teksten bij elkaar gebracht. Door die teksten beknopt te situeren en becommentariëren (kruisverwijzingen incluis) hebben ze meteen het huiswerk al gemaakt voor vele studenten. Bovendien hebben de auteurs zich niet beperkt tot een bloemlezing, maar hebben ze die lange weg van reflectie over politieke democratie ook nog 's opnieuw bewandeld, en de belangrijkste gedachtengang(en) samengevat en verduidelijkt. Dat is allemaal heel verdienstelijk en ongetwijfeld zeer leerrrijk. En lezenswaardig, zeker. Maar...

Lege planken

Uiteraard valt over een selectie van teksten altijd wel te discussiëren. Hoe duidelijker de samenstellers van een bloemlezing hun criteria vooraf expliciteren, hoe beter. Daarna verwacht de lezer dan wel dat zij zich bij hun tekst-selectie ook aan die criteria houden. En op dat punt vallen er bij deze kanjer wel serieuze vragen te stellen. De enigszins geïnformeerde lezer/gebruiker moet namelijk vaststellen dat hij voor een indrukwekkende bibliotheek staat, waarin echter ettelijke planken opvallend leeg blijven.

Want laten wij wel wezen: denken over democratie is altijd en onvermijdelijk ook  denken over de taken, de inrichting en het functioneren van de staat. Het is altijd en onvermijdelijk ook denken over de samenleving.

Alleen: als je nu een bloemlezing uit de klassiekers van het denken over staat en samenleving iets of wat binnen de perken wil houden, is het zeker legitiem het veld waaruit je 'bloemleest' te beperken. Lees: duidelijk te omschrijven waarom bepaalde thema's en/of auteurs buiten beschouwing worden gelaten.
Een eerste en wel héél ver reikende beperking is dat alvast het zoveel grotere veld van economische en sociale democratie niet wordt bestreken. Dat is wellicht (vanwege de omvang) begrijpelijk, maar toch ook bevreemdend. Want je kàn nu eenmaal onmogelijk diepgaand en coherent nadenken over de staat – en a fortiori niet over democratie – zonder sociale en economische dimensies van de samenleving aan bod te laten komen. Dat blijkt trouwens meer dan eens uit de klassieke teksten, terwijl bijvoorbeeld Plato, Tocqueville (of Hayek of Huntington, for that matter) niet van marxistische sympathieën kunnen worden verdacht.

Daarmee is een betekenisvolle naam gevallen, die een tweede opvallende beperking moet verklaren. In hun summiere voorwoord poneren de samenstellers namelijk dat geen auteurs werden opgenomen die “pleiten voor een autocratische of politiek monolithische staat” - Karl Marx bijvoorbeeld, en Carl Schmitt, wellicht bien étonnés de se trouver ensemble.

Die motivering mag dan al een bijzonder flauw en zwak excuus zijn, ze is tenminste duidelijk. Geen woord dus van (of zelfs maar over...) bijvoorbeeld Marx, Gorz, Gramsci, e.a. Maar (alweer: bijvoorbeeld) Bakoenin duikt evenmin op, al kan die toch bezwaarlijk worden beschouwd als voorstander van een sterke staat, en al heeft hij over staat en democratie dingen geschreven die niet méér utopisch zijn dan Plato, of niet minder zinnig of controversieel dan de ideeën van Hayek of Nozick (die wél uitvoerig aan bod komen).

Ook Roberto Michels blijkt geen genade te vinden in de ogen van de samenstellers, hoewel hij met zijn (inmiddels honderd jaar oude maar hoegenaamd niet verouderde !) studie over de “ijzeren wet van de oligarchie” een werkelijk fundamentele bijdrage heeft geleverd tot het denken over democratie. Correctie: tot het kritisch nadenken over 'politieke democratie'.

Burgerlijk versus democratisch ?

Je kan je inderdaad bij het doornemen van deze bloemlezing niet van de indruk ontdoen dat de auteurs ook nog een ander criterium hebben gehanteerd, maar dan zónder het te expliciteren. Niet alleen werden economische en sociale democratie buiten beschouwing gelaten, en werd binnen de  'politieke democratie'  het blikveld ook nog eens vernauwd tot niet-marxistische opvattingen, maar bovendien wordt ook geen greintje aandacht besteed aan belangwekkende auteurs, indien die het waagden té kritisch te schrijven over de burgerlijke invulling van 'politieke democratie'.

In die zin is de selectie dubbel-zinnig klassiek: het gaat om fundamentele bijdragen, maar alleen voorzover die binnen de 'klassieke' burgerlijke opvatting over politieke democratie werken.

Wie de “weg naar democratie” met die oogkleppen bekijkt heeft aan deze bloemlezing ongetwijfeld een stevige en leerrijke brok. Maar hij (m/v) mag dan zijn oogkleppen niét afzetten, en zich niet van de burgerlijke wijs laten brengen door wat zich momenteel afspeelt bij indignados en occupiers.

Die bewegingen brengen in elk geval aan het licht dat ook – en zelfs vooral – bij hoger opgeleide jongeren de klassieke politieke democratie veel moreel krediet is kwijtgespeeld. Niet zonder reden trouwens. Over een van de fundamentele redenen buigt zich Ludo Abicht, filosoof en/maar allesbehalve een ivoren-torenbewoner.

In zijn jongste essay verstout hij zich het gangbare politiek-correcte denken over “populisme versus democratie” onderuit te halen. 'Demos' en 'populus' betekenen immers hetzelfde: volk. En wat is democratie anders dan het besef dat (en een maatschappelijke ordening waarin) de macht vanuit het volk komt én naar het volk moet terugkeren ?

Maar precies die tweede beweging is er een waar volksverlakkers van gruwen. Zij beweren wel graag dat zij “zeggen wat het volk denkt” maar hun handelen wordt hoegenaamd niet gestuurd door het belang van het volk. Zij zijn niet meer dan demagogen, waarschuwt Abicht. Edoch: door die volksverlakkers als 'populisten' te betitelen, bezondigen toonaangevende commentatoren zich aan gemakzuchtig en slordig taalgebruik, dat politiek ronduit gevaarlijk is.

Want, aldus Abicht, wie 'populisme' aanvaardt als legitieme definitie van het volksbedrog, kweekt daarmee tegelijk een ongezond elitegevoel bij de tegenstanders van de demagogen. En zo wordt de bevolking, om wie het toch zou moeten gaan, twee maal in de kou gezet: “schaamteloos misbruikt door de demagogen en daarenboven misprezen door de progressieve elite die in haar antipopulistische ijver steeds meer vervreemd geraakt van de mensen die zij beweert te verdedigen”.

De auteur zal de eerste zijn om de eretitel 'nieuwe bijbel' af te wijzen, maar … als de linkse intelligentia eindelijk tot de long overdue conclusie zou komen dat haar maatschappelijke praktijk én een aantal hardnekkige clichés aan ernstige herziening toe zijn, dan is dit boek een uitmuntende inspiratiebron.
Cruciaal in dit uitdagend onbevooroordeelde betoog (dat tegelijk getuigt van indrukwekkende belezenheid én kennis van historische en hedendaagse realiteit) is het onderscheid tussen formele gelijkheid en inhoudelijke gelijkwaardigheid.

Hetzelfde slordige taalgebruik (als symptoom van slordig denken) heeft beide termen te lang als synoniem gezien. Het failliet van de gelijkheids-ideologie is inmiddels voldoende aangetoond. Maar met de verwezenlijking van de gelijkwaardigheid is het niet veel beter gesteld.

Op tal van openbare gebouwen prijkt wel de trotse leuze Liberté – Egalité – Fraternité, en dat betekent “dat we reeds de kans gekregen en gegrepen hebben deze theoretisdhe eisen ook in de praktijk om te zetten”. Maar: “de verovering van machtscentra door voorstanders van de gelijkwaardigheid die dan niet in staat zijn gebleken hun programma uit te voeren, toont aan dat de verwijdering van externe obstakels blijkbaar niet volstaat, zolang men dit streefdoel niet tevens geïnternaliseerd heeft”

Wie – zonder oogkleppen - verder wil denken dan de paradox (ofte schijnbare tegenstelling) 'democratie-populisme' vindt bij Abicht een rijkdom aan ideeën. Waarmee andermaal is bewezen dat een boek niet dik hoeft te zijn om leerrijk te wezen.

Entretien avec le « Blocco Studentesco »

Militantisme étudiant: entretien avec le « Blocco Studentesco »



Ex: http://zentropa.info/

Tout d’abord, je vous remercie de nous avoir donné la possibilité de nous entretenir avec vous! Pourriez-vous nous parler brièvement du Blocco Studentesco pour ceux d’entre nos lecteurs qui ne sont pas déjà familiers avec vous: qui êtes-vous, et quelle est votre relation avec Casapound Italia?

Le Blocco Studentesco a été fondée en 2006 au sein de l’expérience de Casapound qui en un peu plus de deux ans a pu acquérir une grande importance dans la ville de Rome, surtout par la résonnance de sa lutte sociale pour le logement et sa proposition de loi sur le « Mutuo Sociale ». Beaucoup de jeunes garçons et de jeunes filles avaient alors approché notre mouvement et nous avons décidé de commencer à faire de la politique même au sein des écoles, de slycées et des universités en fondant un syndicat ayant le même esprit que celui qui a caractérisé l’avant-garde du mouvement Casapound.

Quelles ont été les principales raisons de la fondation d’un syndicat étudiant indépendant?

La stratégie de Casapound Italie est de s’investir dans tous les aspects de la société: politique, sport, le bénévolat, la culture, etc… Ainsi, lorsque les conditions ont été rassemblés, il a été décidé «d’entrer» dans les écoles, puis, par la suite, dans les universités. Nous avons une vision du monde et de monuments historiques très précises. Le monde de l’éducation en Italie est le paradigme et de l’enseignement qui s’opposent radicalement et celle de la gérontocratie qui domine la société italienne. Pour cette raison, nous demandons de donner plus de poids et de représentation aux étudiants, réitérant le principe de “la jeunesse au pouvoir.” Notre travail se caractérise également par un constant souci de la justice sociale, comme le démontre notre engagement en faveur de la réduction des coûts des manuels scolaires et le financement public de l’éducation.

Historiquement parlant, les activités des organisations étudiantes nationalistes finlandaises ont été plutôt inexistantes depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale. Qu’en est-il en Italie: y a-t-il eu des expériences à la votre qui méritent d’être mentionnées?

En Italie, la situation est au moins partiellement différente de celle finlandais. L’héritage du fascisme, en dépit de la “damnation mémorielle” imposée par les vainqueurs de la Seconde Guerre mondiale, ne s’est jamais éteinte au sein de notre peuple. Après la guerre, a été fondé un parti néo-fasciste, le MSI. Ce parti a toujours eu des organisations de jeunesse et d’étudiants tels que le Front de la jeunesse ou Fuan (Front d’Action National University), qui, malgré des hauts et des bas et des choix discutables de la direction du MSI, ont au fil des années effectuées un gros travail à une époque où l’extrême gauche était une force politique majeure. On peut se souvenir notamment de l’expérience des grandes manifestations étudiantes des années 70, mouvement de révolte qui a donné naissance à « Terza posizione ». Puis, dans les année 2000, la syndicalisme étudiant « nationaliste » a connu une période d’impasse avant la renaissance représenté par le Blocco Studentesco.

Vous avez également participé à plusieurs élections, avec de bons résultats, notamment 28% des des voix aux élections du secondaire en 2010, ce qui est spectaculaire pour une organisation «politiquement incorrect» comme vous l’êtes. Quels ont été vos principaux thèmes de campagne lors de ces élections?

Le Blocco a toujours obtenu des résultats électoraux considérés comme impensables il y a quelques années. Dans les écoles de la province de Rome il représente encore 25% des élèves, et cette année nous avons remporté les élections pour la représentation de l’organe représentatif élu de la deuxième Université de Rome, Tor Vergata. Les principaux thèmes de nos campagnes électorales étudiantes sont souvent les mêmes que pour notre programme national, à savoir la Jeunesse au pouvoir et de nombreuses mesures sociales. Aussi dans l’imaginaire collectif le « Blocco » se présente comme le seul véritable rempart contre hégémonie politique et culturelle de l’extrême gauche.

Pour de nombreux nationalistes le vrai pouvoir ne se trouve pas dans les mains des personnes « démocratiquement élues », et donc participer à toute élection est largement dépourvue de sens. Comment pour votre part abordez vous l’élection, pensez-vous qu’elle est une influence réelle sur le cours des choses?

Le Blocco voit l’élection en tant que moyen jamais comme une fin. Nous sommes conscients que le vrai pouvoir ne réside pas dans les organes démocratiquement élus. En ce qui concerne le monde étudiant c’est encore plus vrai car les organismes représentatifs des élèves n’ont presque jamais de véritable pouvoir. Participer aux élections est toujours une vitrine permettant de propager ses idées et d’avoir possibilité de réaliser certains projets si l’ont est éléu. En plus pour un mouvement considéré comme politiquement incorrect en effet, démontrer un large consensus est crucial, cela donne une légitimité. Nous continuons nos combats dans les rues notamment par des actions fortes telles que des « blitz » (action coups de poings où les militant investissent un lieu non autorisé pour y faire entendre leur message), des manifestations et des occupations, mais nous savons aussi que les élections peuvent aider à mener notre combat. La chose importante est de garder sa lucidité et un centrage politique et existentiel, pour ne pas être «corrompu» par le système démocratique. Nous sommes convaincus que nous pouvons réussir, peut-être que ceux qui ont «peur» de l’élection ne sont pas convaincus de s’y présenter tout en restant fidèles à eux-mêmes.

Casapound Italia est bien connu pour être plus qu’une simple organisation politique. Quel genre d’activités autres que la politique le Blocco Studentesco peut-il avoir?

Le Blocco Studentesco, contrairement à Casapound Italie, est spécialisée dans le domaine de la politique dans les écoles et les universités. Cependant, nous avons souvent en effet des activités « collatérales » telles que l’organisation de tournois sportifs, de soirées festives communautaires ou des actions de solidarité en faveur des orphelinats ou même à l’échelle internationale pour soutenir le peuple Karen.

Les universités en Europe sont malheureusement souvent devenus des bastion pour les agitateurs anti-nationaux, traditionnellement d’extrême gauche, mais aujourd’hui aussi de la droite libérale capitaliste. Avez-vous été confrontés dans votre militantisme universitaire à ces deux catégories d’individus?


Oui, bien sûr, certains d’entre nous ont également subi des tentatives d’intimidation de la part des enseignants et des directeurs pour leurs activités politiques. Avec la droite libérale, il y a essentiellement des confrontations dialectiques et idéologiques. Avec l’extrême gauche, la situation est assez différente, car on y trouve de nombreuses franges violentes. Cependant, nous sommes habitués à nous défendre, nous et notre liberté d’expression, nous ne sommes certainement pas du genre à nous laisser impressionner.

Les problèmes rencontrés par les jeunes d’aujourd’hui semblent être plus ou moins partout en Europe l’aliénation par le marché, à savoir, la soumission à la culture de consommation sens, la perte de l’identité…. Avez-vous des liens avec d’autres les mouvements de jeunesse en Europe? Quelle est votre opinion sur la possibilité d’un mouvement « Paneuropéen » de coopération?

Nous n’avons aucun lien réel avec des mouvements en particulier, mais nous observons toujours avec intérêt d’autres expériences européennes. Nous sommes toujours disponibles pour nous confronter à d’autres pays européens, comme en témoignent les rencontres avec certains mouvements d’étudiants nationalistes en Flandre ou les militants de Respuesta Estudiantil à Madrid. Probablement, au niveau de la coopération entre les différents mouvements sociaux et nationaux, il y a du travail. Il y a probablement encore beaucoup trop de fragmentation et peu d’organisations véritablement solides et cohérentes.

Quels sont les plans du Blocco Studentesco pour l’avenir?

Le but ultime, c’est la révolution. Il est nécessaire de poursuivre le travail entrepris, mais aussi d’en faire toujours davantage, de créer, de conquérir de nouveaux espaces. En Italie, nous vivons un véritable coup d’Etat réalisé par le président de la République Giorgio Napolitano sur la pression des pouvoirs financiers qui nous ont imposé un gouvernement, le gouvernement Monti, non élu par le peuple et qui met progressivement en vente notre pays. Face à cela, nous devons mener une grande bataille contre ces ennemis de l’Italie et de l’Europe, offrant un modèle de société alternatif à travers les différentes structures de Casapound en Italie.

Last but not least, je vous remercie une nouvelle fois pour cette interview. N’hésitez pas à ajouter quelques mots à l’adresse de nos lecteurs finlandais.

C’est nous qui vous remercions de votre intérêt et de votre interview!

Pas grand chose à ajouter, parce que la situation que nous vivons en Italie et en Europe est claire. Il y a juste beaucoup à faire pour faire tomber un système basé sur l’injustice sociale, la négation de l’identité et la destruction de l’esprit humain. Nous conclurons par une citation de Benito Mussolini, toujours d’actualité: «L’action force les portes sur lesquelles est écrit «interdit». L”attaque audacieuse peut toujours renverser l’obstacle. “

Salon fantastique

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Rencontre militante - Génération identitaire

L'économie, c'est la guerre

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L'économie, c'est la guerre

Agents secrets au service du big business

Dernier ouvrage de Frédéric Charpier

Les États se livrent une guerre économique aussi discrète qu’implacable. En temps de crise mondiale, il y va de leur survie.

La guerre s’étend dans le dédale des couloirs de l’Union européenne, de l’OMC, ou des institutions financières internationales. Elle s’invite dans les programmes secrets des laboratoires universitaires et des agences gouvernementales engagés dans des recherches stratégiques liées aux nanotechnologies, à la biométrie ou à la robotique.

Les soldats eux-mêmes sont le plus souvent indécelables. Agents secrets ou personnels de puissants et opaques réseaux d’influence, ils opèrent sous le couvert de grands groupes industriels, de cabinets d’enquête et de sociétés militaires privés. Ils se camouflent dans des centres de recherche et des fondations, infiltrent des ONG, n’hésitent pas à instrumentaliser ces modernes chevaux de Troie que sont les fonds d’investissement. À leur disposition, ils ont tous les moyens de l’intelligence économique : recherche, technologie, argent…

Frédéric Charpier a exploré les zones d’ombre, interrogé les acteurs et fouillé des milliers de documents. Des États-Unis à la Chine en passant par l’Irak, la Mauritanie ou Israël, il raconte les batailles, dévoile les coups tordus et les stratégies, s’interrogeant, enfin, sur la position de la France sur ce théâtre d’opération.

Frédéric Charpier, journaliste d’investigation, est l’auteur de nombreux ouvrages. Il a publié au Seuil Génération Occident (2005), La CIA en France (2008) et Une Histoire de fous. Le roman noir de l’affaire Clearstream (2009).

A. Dugin, C. Preve e M. Fini, presentano "Eurasia" a Milano

A. Dugin, C. Preve e M. Fini, presentano "Eurasia" a Milano

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lundi, 08 octobre 2012

Reeks lezingen door dr. Koenraad Elst, oriëntalist

"De Lezing"

Reeks lezingen door dr. Koenraad Elst, oriëntalist

 

 

Dr. Koenraad Elst, oriëntalist, geeft een reeks van drie lezingen over thema's die niet alleen hem maar ook u meer dan gewoon (kunnen) interesseren: Islam, boeddhisme en Ghandi.

 

Dr. Koenraad Elst schreef fel besproken boeken en zeer veel artikels over de drie onderwerpen in voornamelijk het Nederlands en het Engels. Hem aan het woord horen is leerrijk en verhelderend. Hem lezen is dat minstens evenveel.

 

Na de lezingen biedt dr. Elst zijn boeken aan en signeert.

 Er is kans tot vragen en nabespreking.

 

Voor zeer redelijke prijzen is het mogelijk drank te bekomen.

 

De eerste lezing is op dinsdag 9 oktober, 20 uur.

 

De tweede lezing is op dinsdag 13 november, 20 uur.

 

De derde lezing is op dinsdag 11 december, 20 uur.

 

Prijs: GRATIS (met dank aan het nieuwe adres).

Drank aan betaalbare prijzen.

Opgelet: aantal plaatsen beperkt tot 25 !

Inschrijven :

http://www.facebook.com/events/469606533069702/

of via

koenraad.elst@telenet.be

of via

guntercauwenberghs@gmail.com

tel 0484 08 45 85

Plaats : Torrestraat 76, Dendermonde.

 Belangrijke mededeling :

 Dit is GEEN organisatie van Euro-Rus.

De lezingen worden georganiseerd door derden. Zij maken enkel gebruik van de aangeboden faciliteiten.

Völkerrecht oder Gesinnungsjustiz?

Völkerrecht oder Gesinnungsjustiz?

Wie die Justiz in der EU Erinnerungen dekretiert und ihrem Neo-Kolonialismus Flankenschutz gibt – zum neuen Buch von Hannes Hofbauer

von Tobias Salander

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

100862~1.JPGWem würde die geneigte Leserschaft die Beantwortung von Fragen zur Einschätzung historischer Abläufe gerne anvertrauen? Poli­tikern? Solchen rechter Ausrichtung? Oder linker? Oder Geistlichen? Christlicher, muslimischer, jüdischer, hinduistischer oder anderer Herkunft? Oder Europäern? Oder lieber Asiaten oder Afrikanern? Deutschen oder Franzosen, Rumänen oder Portugiesen? Senegalesen oder Kongolesen, Marokkanern oder Südafrikanern? Palästinensern oder Israeli? Wahabbiten, Schiiten oder der Nato? China oder Russ­land? – Oder? Vielleicht doch eher der Sache und nur der Sache, also den Quellen verpflichteten Historikern, die offen sind für neue Befunde, polyperspektivisch und quellen- und ideologiekritisch vorgehen, also Interessen hinter Sachverhalten aufspüren und offenlegen – dem humanistischen und aufklärerischen Ethos verbundenen Wissenschaftern?


Nun die Fragen: Waren die Kreuzzüge ein Völkermord? Die Ausrottung der amerikanischen Urbevölkerung und die Verschleppung von Millionen von Afrikanern als Sklaven in die Neue Welt – der grösste Genozid aller Zeiten? Wie ist der Aufstand in der Vendée während der Französischen Revolution einzuschätzen? Was hat sich 1898 wirklich auf dem US-Schlachtschiff «Maine» ereignet? Welches sind die Hintergründe des Schusses von Sarajewo 1914? Und des Massenmordes an den Armeniern im Ersten Weltkrieg? Wer verhalf Lenin zu seiner komfortablen Zugsreise nach St. Petersburg? Wer zündete den Reichstag an? Was geschah in Katyn? Warum bombardierten die Alliierten die Schienenwege nach Auschwitz nicht? Warum wurden die Atombomben auf Hiroshima und Nagasaki abgeworfen? Was geschah 1956 in Ungarn wirklich? Und was im Golf von Tongking? Was, wenn Operation Northwoods von Präsident John F. Kennedy nicht als unmoralisch zurückgewiesen worden wäre? Wer griff die USS «Enterprise» an? Was bedeuten die Stasi-Verbindungen des Mörders von Benno Ohnesorg? Wodurch unterschieden sich die RAF-Terroristen der ersten und der vierten Generation? Wer steckte hinter den Terroranschlägen in Italien in den 70er und 80er Jahren? War Gladio eine Widerstandsgruppe oder eine Terrororganisation? Der Blutsonntag von Vilnius vom 13. Januar 1991 – ein neues Auschwitz? Wer steckt hinter dem «Brotschlangen»-Massaker in Sarajewo? Und hinter dem Massaker in Srebrenica? Was spielte sich in Darfur ab? Sind die Verbrechen im kommunistischen Europa gleichbedeutend mit den Verbrechen der Nazi-Diktatur? War Miloševic der neue Hitler? Wie sind die Ungereimtheiten beim Einsturz von WTC 7 am Abend des 11. Septembers 2001 zu erklären? Hatte Saddam die Atombombe?

Wozu braucht die EU das Orwellsche «Richtig-Denk»?

Fragen über Fragen, mit denen sich jeder Schüler im Laufe seiner Schulzeit auseinandersetzen muss. Und woher erhält er die Antworten oder zumindest Ansätze von Antworten oder gar das Eingeständnis, die Frage könne derzeit nicht beantwortet werden? Durch den Geschichtslehrer, der bemüht ist, den Stand der Forschung zusammenzutragen und oft darauf hinweisen muss, diese oder jene Frage sei noch nicht zu klären, da die Archive noch nicht offen seien, die Dokumente einer Sperrfrist unterliegen oder nicht mehr vorhanden sind?

Wer dies denkt, dass die Klärung von historischen Fragen ein offener Prozess sei, dass in einer Demokratie Wahrheit stets errungen werden und strenger wissenschaftlicher Prüfung standhalten muss, immer offen für Korrekturen bei neu auftauchenden Quellen und Sachverhalten, sieht sich durch gewisse Abläufe der letzten Jahre innerhalb der EU eines besseren belehrt. Was in den USA (derzeit noch?) undenkbar wäre und die gross­artige Arbeit zum Beispiel eines investigativen Journalisten wie Seymour Hersh verunmöglichen würde (Aufdeckung der wahren Hintergründe des Massakers von My Lay, der Skandale um Abu Ghraib und US-Soldaten in Afghanistan etc. etc.), nimmt in der EU immer krassere Formen an: Immer häufiger ersetzen dort nämlich seit einem entsprechenden EU-Rahmenbeschluss aus dem Jahre 2008 Gerichtsurteile die Forschung und halten unter Strafandrohung fest, wie gewisse Ereignisse zu sehen seien. Wer diese Richtersprüche nicht zur Kenntnis nimmt, weiter forscht, sie auf Grund einschlägiger Erfahrungen mit bereits aufgedeckten False-Flag-Operations, Kriegslügen und Propaganda anzweifelt und Gegenhypothesen aufstellen will, sieht sich unvermittelt vor dem Kadi und zu Gefängnis oder einer hohen Geldstrafe verurteilt. Ob dieses obrigkeitlich verordnete Orwellsche «Richtig-Denk» die enormen Demokratiedefizite der EU kaschieren soll oder ob der juristische Griff auf laufende Auseinandersetzungen wie im Balkan der 90er Jahre, wo die EU und die Nato einen völkerrechtswidrigen Angriffskrieg führten, als Flankenschutz diente – oder ob die EU gar Grosskonzernen, welche die EU-Kommission nach Belieben dirigieren, bei der Übernahme neuer Märkte Schützenhilfe leistet, mithin also neokolonialistisches Gebaren juristisch absegnet – all diesen Fragen geht das kürzlich erschienene, sorgfältig recherchierte Bändchen von Hannes Hofbauer nach. Es trägt den Titel «Verordnete Wahrheit, bestrafte Gesinnung – Rechtsprechung als politisches Instrument». Hofbauer ist Wirtschaftshistoriker und Publizist und Kenner der EU, insbesondere von deren Ost-Erweiterung, die er schon in früheren Arbeiten als «Rückkehr des Kolonialismus» bezeichnete – man denke nur an das absolutistisch anmutende Gebaren der «Hohen Repräsentanten» in Bosnien-Herzegowina, die zwar von der Uno eingesetzt sind, aber zugleich als EU-Sonderbeauftragte fungieren.

Was in der Uno-Konvention zum Völkermord steht

Völkermord ist wohl das schlimmste Verbrechen, welches die Menschheitsgeschichte kennt. Wie viele Dutzend Millionen Menschen solchen Verbrechen zum Opfer gefallen sind, darüber streiten sich die Historiker. Doch was versteht man genau unter Völkermord? Gemäss der Konvention der Uno vom 9. Dezember 1948 mit dem Titel «Verhütung und Bestrafung von Völkermord» fallen alle Handlungen darunter, die in der Absicht begangen wurden, «eine nationale, ethnische oder religiöse Gruppe als solche ganz oder teilweise zu vernichten: a) die Tötung von Mitgliedern einer Gruppe, b) die Verursachung von schwerem körperlichem oder geistigem Schaden an Mitgliedern der Gruppe, c) die vorsätzliche Auferlegung von Lebensbedingungen, die geeignet sind, ihre körperliche Vernichtung ganz oder teilweise herbeizuführen, d) die Verhängung von Mass­nahmen, die auf Geburtenverhinderung innerhalb der Gruppe gerichtet sind, e) die gewaltsame Überführung von Kindern der Gruppe in eine andere Gruppe.» (zit. nach Hofbauer, S. 27)
Entscheidend für die Tat ist nicht die Zahl der dem Morden zum Opfer gefallenen Menschen, sondern der politisch oder religiös motivierte Wille, diese Menschen zu ermorden bzw. ihre Lebensgrundlage zu zerstören.

Zwei Strafgesetze – zwei historische Wahrheiten?

Doch wer definiert nun, wann ein Verbrechen als Völkermord eingestuft werden muss? Welche Gerichte sind dafür zuständig, und welche Rolle spielen bei den Entscheiden zeitgeschichtliche oder gar geopolitische Hintergründe? Hofbauer: «Wer masst sich den Richterspruch über historische Ereignisse an, der zu einem Leugnungsverbot mit Aussicht auf Gefängnisstrafe führt? Nationale Gerichte? Der Internationale Gerichtshof in Den Haag?» Um in die Problematik einzuführen, schreibt Hofbauer im Vorwort: «Leugnung und Verharmlosung von per Gerichtsbeschluss als Völkermord, Verbrechen gegen die Menschheit oder Kriegsverbrechen dekretierten Untaten werden in immer mehr Fällen und in immer mehr Ländern strafbar. So ist ein laut geäusserter Zweifel am Völkermord in Srebrenica seit einem entsprechenden EU-Rahmenbeschluss aus dem Jahr 2008 in der gesamten Europäischen Union ein Fall für den Staatsanwalt. Das Bestreiten des armenischen Völkermordes kann einen vor ein schweizerisches Gericht bringen. Umgekehrt landet jemand, der die Vertreibung der Armenier aus Anatolien im Jahr 1915 als Völkermord bezeichnet, in der Türkei (auch im europäischen Teil) vor dem Kadi. In vier osteuropäischen EU-Ländern ist die Leugnung kommunistischer Verbrechen – wer immer diese als solche festlegt – strafwürdig. Der ‹Holodomor› wiederum muss zwischen Lwiw, Odessa und Donezk ein Verbrechen gegen die ukrainische Nation genannt werden, sonst droht ein Gerichtsverfahren.» (S. 10)

Missliebige kollektive Erinnerungen EU-weit verfolgen

Mit grosser Sorge verfolgt Hofbauer die zunehmende Verrechtlichung der Meinungsbildung und die Verfolgung «falscher» Meinungen in der EU. Ausgehend von Antirassismus-Paragraphen und Paragraphen gegen die Leugnung nationalsozialistischer Verbrechen, die in den europäischen Staaten schon lange installiert sind und ihre Funktion durchaus erfüllen, sieht Hofbauer eine Tendenz, missliebige kollektive Erinnerungen EU-weit zu verfolgen. Dass dabei die Singularität des Holocaust stillschweigend über Bord geworfen wird, nehmen die Akteure offensichtlich ohne Probleme in Kauf. «Mit der Strafbarkeit der Leugnung aller möglichen Kriegsverbrechen und Völkermorde, sobald sie nur von einem internationalen Gericht als solche identifiziert wurden, hat eine Inflation von zu bestrafender Gesinnung eingesetzt, die der ursprünglichen Sonderstellung des Holocaust (bzw. seine Verharmlosung oder Leugnung) entgegensteht und diese in gewisser Weise verhöhnt.» (S. 10)

Erinnerungsgesetze als Flankenschutz geopolitischer und wirtschaftlicher Interessen

Dass der Auschwitz-Vergleich nun für alle möglichen Untaten herhalten muss, die Hofbauer durchaus als solche anerkennt, aber in der Gewichtung als unverhältnismässig einstuft und vor allem als weiterhin der forschenden Fragestellung zugänglich einfordert – Srebrenica als neues Auschwitz, der Blutsonntag von Vilnius mit 14 Toten als neues Auschwitz, die Konflikte in Darfur als neues Auschwitz, die kommunistische Herrschaft in Polen, Tschechien, Ungarn und anderen von 1949 bis 1989 gleichrangig dem Hitler-Faschismus –, dieser Sachverhalt lässt den Historiker aus Österreich zu folgender These kommen: «Die neuen Meinungsdelikte und Erinnerungsgesetze dienen als Flankenschutz geopolitischer und wirtschaftlicher Interessen. Diese Erkenntnis war die Motivation dafür, das vorliegende Buch zu schreiben. Dies fiel mir erstmals bei der Beobachtung des jugoslawischen Zerfallsprozesses der 90er Jahre und insbesondere der vom Westen daran anschliessend betriebenen ‹Erinnerungspolitik› auf. Schon die inneren Faktoren der südslawischen Desintegration wurden von aussen dynamisiert. Zur Rechtfertigung mehrfacher poli­tischer und militärischer Interventionen vor allem in Bosnien-Herzegowina und im Kosovo muss­ten vage und unterschiedlich interpretierbare Menschrechtsargumente herhalten, während das international kodifizierte Völkerrecht gebrochen wurde. Nato und westliche Medien arbeiteten dabei Hand in Hand. Externe Interessen am Zerfall des Vielvölkerstaates wurden kleingeredet oder gänzlich verschwiegen.» (S. 10f.) Dies, so Hofbauer weiter, sei zu Unrecht geschehen: «Denn ein Blick auf die Landkarte im Jahr 2011 zeigt, wie sich die auswärtigen Interessen durchgesetzt haben: US-Soldaten betreiben den grössten Militärstützpunkt in Europa im kosovarischen Camp Bondsteel; sogenannte Hohe Repräsentanten (der EU und der Uno) verwalten Bosnien-Herzegowina und das Kosovo im längst überwunden geglaubten Kolonialstil; und die ökonomischen Herzstücke Ex-Jugoslawiens, Slowenien und Kroatien, sind bzw. werden Teil der Europäischen Union. Darum, um grösstmöglichen Nutzen aus der südslawischen Desintegration ziehen zu können, führten die westlichen Institutionen, allen voran die Nato, Krieg.» (S. 11)

Wahrheitsverordnung macht Schule

Noch während des Krieges wurde der serbische Präsident vor einem ad hoc eingerichteten Tribunal angeklagt: «Die Anklage­erhebung des Jugoslawien-Tribunals erweiterte die politischen, wirtschaftlichen und militärischen Mittel um eine rechtliche Dimension.» (S. 11)
Um die neokoloniale Eroberung abzusichern und den «richtigen» Verlauf des Konfliktes in die Gehirne der Europäer einzubrennen, hat die EU gerichtlich festgelegt, welches die Wahrheit darüber sei – und bestraft jene, welche einer Siegergeschichtsschreibung noch nie über den Weg getraut haben.


Dass diese Form von Wahrheitsverordnung Schule gemacht hat, zeigen die Haftbefehle des Internationalen Strafgerichtshofes ICC gegen Staatschefs von Ländern, gegen die der Westen Krieg führt oder führte, so gegen al-Baschir im Sudan und Gaddafi in Libyen. Hofbauer betont, dass die Bestrafung der beiden genannten Männer sicher gerechtfertigt sei, nur agiere der Gerichtshof zu einseitig. Was ist mit den Greueltaten der Gegenseite? Gehen die vom Westen als «Gute» Titulierten straffrei aus? Und mit welcher Begründung? Und die Ironie der Geschichte? Sie bestehe darin, «dass die USA als eine der hauptsächlichen Betreiberinnen dieser Verfahren den Internationalen Strafgerichtshof selbst nicht anerkennen». (S. 12) Wie bekannt, müsste Den Haag mit einer schnellen Eingreiftruppe US-amerikanischer Spezialeinheiten rechnen, welche US-Kriegsverbrecher «befreien» würden, die auf Grund von Enthüllungen wie jenen von zum Beispiel Seymour Hersh in Den Haag auf ihren Prozess warteten.

Italienische Historiker wehrten sich erfolgreich

Hofbauers Kritik an der heraufziehenden Gesinnungsjustiz im Westen kommt, wie er selber sagt, zwar von links, doch könne sich jeder liberal Denkende anschliessen, denn: «Die Empörung beginnt bei der Beschneidung der Meinungsfreiheit, die ein zutiefst bürgerliches Gut darstellt.» (S. 263) Aufrufe von italienischen und französischen Historikern aus allen politischen Lagern gegen die Gesinnungsparagraphen und die Pönalisierung von Forschung bestätigen Hofbauer in seiner Auffassung – in Italien konnte die Erinnerungsdiktatur bisher abgewendet werden, während Frankreich munter voranschreitet und absurde Diktate verhängt, beispielsweise die Loi Taubira und die Loi Mékachéra, wobei erstere gewisse Aspekte des französischen Sklavenhandels verurteilt, während das zweite Gesetz als Reaktion der Kolonialisten darauf die Reinwaschung der eigenen Kolonialgeschichte in Nordafrika und Indochina per Gericht und unter Strafandrohung verordnet. (vgl. Hofbauer, S. 57ff.). Ein Ablauf, der zeigt, wie situationsbezogen und enorm instrumentalisiert und einer Demokratie und der freien Forschung Hohn sprechend solche Erinnerungsgesetze sind.

Gesinnungsparagraphen als Folge der 9/11-Antiterror-Hysterie

Da die Gesetzesgrundlagen in Europa schon längst ausreichten, um extremistische Gruppen in Schranken zu weisen, geht es nach Hofbauer hier um etwas anderes, was nur im Kontext der neokonservativen und neoliberalen Kriegsallianz seit 9/11 zu verstehen ist: «Die in Leugnungsverbote verpackten Gesinnungsparagraphen wären ohne die politisch und medial verbreitete Anti­terror-Hysterie nicht denkbar. Über den dabei entstandenen Verlust von Bürgerrechten ist viel geschrieben worden. Die Kriminalisierung von Meinung, mit der sich das vorliegende Buch beschäftigt, geht einen Schritt weiter: Sie bedroht politische Debatten und wissenschaftliche Forschung, hegemonisiert kollektive Erinnerung, verrechtlicht historische Ereignisse und tabuisiert Begrifflichkeiten (zum Beispiel ‹Völkermord›). Die hier analysierte Gesinnungsjustiz ist Teil einer umfassender betriebenen repressiven Politik, mit der die poli­tischen Eliten der Europäischen Union ihre Verluste an gesellschaftlicher Akzeptanz kompensieren wollen. Dass dies mit Verboten und Reglementierungen gelingt, darf bezweifelt werden. Der Strafandrohung bei ‹falscher› Gesinnung kommt in diesem System die Funktion eines kleinen, aber wichtigen Rädchens zu, zielt sie doch auf den intellektuellen Diskurs.» (S. 264)

Schutz der Meinungsfreiheit als erste Bürgerpflicht

Hofbauers Buch ist eine breite Leserschaft zu wünschen. Wenn daraus eine lebhafte und ernsthafte Diskussion entsteht, auf ehrlicher und an der Würde des Menschen orientierter Grundlage, so würde das den Millionen von Opfern kriegerischer Auseinandersetzungen sicher eher gerecht als die Errichtung einer leicht durchschaubaren Gesinnungsdiktatur in Europa und im übrigen Westen. Vielleicht lassen sich einige Europäer durch die Propagandawalze noch beeindrucken und sehen den Unterschied zwischen angeblichen Werten und effektiven Interessen nicht, die hinter schönfärberischen Worten wie «humanitäre Intervention», «Schutzverantwortung», «Bombenkampagne für die Menschenrechte» der Welt verkauft werden sollen. Ganz sicher ist aber der Rest der Welt, und das sind immerhin 88 Prozent, nicht so naiv und durchschaut die Heuchelei und die Doppelbödigkeit des Westens – dies jedenfalls betont der grosse Diplomat aus Singapur, Kishore Mahbubani, wieder und wieder. Wenn also Hofbauers exakte Studie ausserhalb der westlichen Hemisphäre mit ihren 12 Prozent der Weltbevölkerung offene Türen einrennen mag, so ist ihr im Westen eine ernsthafte Rezeption nur zu wünschen. Der stolze Westen der Renaissance, des Humanismus und der Aufklärung sollte nicht in der
Lage sein, würdig ins 21. Jahrhundert zu schreiten und eines der Grundprinzipien der Demokratie, die Meinungsfreiheit, zu schützen?     •

Hannes Hofbauer, «Verordnete Wahrheit, bestrafte Gesinnung – Rechtsprechung als politisches Instrument». Wien 2011, ISBN 978-3-85371-329-7

Tous les Etats doivent avoir le droit de participer, sur un pied d’égalité, à la politique mondiale

Tous les Etats doivent avoir le droit de participer, sur un pied d’égalité, à la politique mondiale

Le Conseil des droits de l’homme de l’ONU crée le mandat pour un expert indépendant pour la promotion d’un ordre international démocratique et équitable

Interview d’Alfred de Zayas, docteur en droit et philosophie

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

De-Zayas.jpgthk. Le 23 mars, Alfred de Zayas a été désigné, par le Conseil des droits de l’homme, comme expert indépendant auprès de l’ONU pour la promotion d’un ordre international démocratique et équitable. Il est le premier à avoir le droit d’assumer ce mandat créé en septembre 2011, pour pouvoir agir dans le domaine de la démocratisation de l’ONU et au sein des Etats nationaux unis en elle. Il est entré en fonction le 1er mai 2012. Déjà lors de la session d’automne 2012 du Conseil des droits de l’homme, Alfred de Zayas a présenté son premier rapport et a obtenu une large approbation. L’expert indépendant, qui présente une longue carrière à l’ONU, n’était pas venu tout à fait de manière inattendue à cette fonction, comme il le dit lui-même, car il s’est occupé depuis très longtemps de la question de l’organisation d’une vraie démocratie, c’est-à-dire de la démocratie directe, comme elle existe en Suisse. Avec son mandat, Alfred de Zayas souhaite s’engager pour la paix et l’égalité des peuples. «Horizons et débats» a interviewé Alfred de Zayas à l’ONU à Genève.

Horizons et débats: Monsieur de Zayas, comment doit-on comprendre la mission de votre mandat?

Alfred de Zayas: La mission comporte une synthèse des droits civiques, politiques, économiques, culturels et sociaux. C’est un mandat de réconciliation qui vise la coopération et la solidarité. Les Etats du Nord, du Sud, de l’Est et de l’Ouest doivent se retrouver dans ce mandat et reconnaître dans celui-ci un lien. C’est un mandat constructif qui repose sur les objectifs et les principes de la Charte des Nations Unies. Ce n’est donc pas un mandat qui se dirige contre un Etat, une région, une philosophie ou une idéologie spécifique.
Ici, il s’agit de deux choses: d’abord d’une démocratisation au niveau national, mais aussi au niveau des relations internationales entre Etats; ensuite d’un processus pour avancer dans la direction de l’équité nationale et internationale.

Que doit-on s’imaginer par une démocratisation à un niveau international?

Nous avons besoin d’un ordre mondial qui soit réellement démocratique, qui s’oriente vers les besoins des êtres humains. Cela signifie que tous les Etats doivent y participer. Lors de décisions qui touchent la vie communautaire de notre monde, tous les Etats en tant que représentants de leurs peuples doivent pouvoir s’exprimer. Cette égalité en droits, ce traitement égalitaire de tous est central dans le texte de la Résolution 18/6 qui fonde le mandat. Je me tiendrais exactement aux termes de la résolution, comme je l’ai déjà montré dans mon premier rapport.

A quoi veut-on parvenir avec cela?

Les Etats du soi-disant tiers-monde, les Etats du Sud, voudraient un ordre mondial qui soit basé sur la justice. Aussi bien le commerce que la distribution des ressources doit se dérouler équitablement. Le clivage entre pauvre et riche ne doit pas s’agrandir, mais diminuer. Sans que je doive désigner des Etats particuliers, je peux traiter le sujet à partir des connaissances théoriques si bien que je puisse remplir d’un contenu les termes comme démocratie, justice, équité, égalité, autodétermination et identité nationale. Mais on veut aussi formuler des recommandations pratiques et pragmatiques. Il y a déjà assez de livres sur la théorie des relations internationales.

Comment procédez-vous?

On trouve un grand nombre de sources aux Nations Unies. Je m’appuierai sur les rapports d’anciens rapporteurs, sur des études de la sous-commission de l’ancienne Commission des droits de l’homme et du Conseil des droits de l’homme même, ainsi que sur des études de l’Assemblée générale. Certes, je n’ai pas l’intention de répéter ce qui a déjà été fait. Cependant, je me baserai là-dessus. Comme vous le savez, j’étais secrétaire du Comité des droits de l’homme et chef du Département de requêtes à l’Office du Haut Commissaire aux droits de l’homme. La riche jurisprudence du Comité des droits de l’homme me soutient aussi.

Comment estimez-vous le degré d’efficacité de ce mandat?

Je suis très optimiste en ce qui concerne ce mandat, parce que beaucoup de réactions positives me sont parvenues depuis ma nomination et que mon adresse courriel a été publiée au sein de l’ONU, à savoir l’adresse ie-internationalorder@ohchr.org. Les ONG, les organisations intergouvernementales, les Etats, les organisations civiles et les individus m’ont contacté en apportant des propositions concrètes – par exemple comment ils comprennent mon mandat, où ils voient les priorités etc. Je prends au sérieux ces demandes et ces propositions. J’étudierai tout cela minutieusement. Déjà dans mon rapport au Conseil des droits de l’homme, j’ai cité dans le paragraphe 11, une liste de propositions sur des sujets que j’ai reçus de personnes intéressées. Je traiterai bien sûr ces propositions en priorité.

Que se passe-t-il avec toutes ces suggestions et demandes?

J’écrirai certainement un rapport sur le terme de participation de l’être humain à l’organisation politique de la démocratie, mais au niveau national et international, sur les questions de manipulation de l’opinion publique etc. Je présenterai ces études au Conseil des droits de l’homme l’année prochaine. Si je parle de démocratie, je pense à une véritable participation. Là, il ne s’agit pas seulement du droit de vote à l’intérieur d’un Etat, mais du droit de choisir la politique concrète. Cela comporte aussi le droit de participer à l’organisation des règles politiques. Des élections démocratiques tous les quatre ans, c’est une bonne chose, mais on doit avoir de véritables options et pas seulement voter pour la forme. La population doit également avoir la possibilité d’influencer la politique extérieure authentiquement, de sorte que les gouvernements ne puissent plus pratiquer une politique extérieure contre la volonté de la population.
Du point de vue international, les Nations Unies, respectivement le Conseil de sécurité, devraient être réformés afin de garantir une participation internationale plus representative, plus authentique, autrement dit, réaliser la démocratie.

En octobre, vous parlerez devant l’Assemblée générale. De quoi s’agira-t-il?

Oui, je dois présenter un autre rapport, plus détaillé, à l’Assemblée générale. Dans ce rapport, j’identifie une série d’obstacles et je tente de nommer les bonnes pratiques et je soumettrai mes recommandations à l’Assemblée générale. Cela se passera le 30 octobre 2012 à New York – Deo volente. Je verrai comment réagissent les Etats à mon rapport lors de l’Assemblée générale et ce qu’ils me proposeront.

Comment peut-on transmettre les fondements d’une vie communautaire démocratique à d’autres pays? Un «printemps arabe» ou des interventions militaires de l’OTAN n’aident certainement pas.

Je ne conçois pas mon mandat comme un mandat de «naming and shaming». Mon mandat, comme je l’ai dit, est constructif et il doit aider à comprendre ces termes partout de la même manière. Quand je parle de démocratie, cela devrait être plus ou moins semblable à ce qu’une personne entend par là en Amérique du Nord, en Amérique du Sud, en Australie, en Europe de l’Est, en Chine, en Inde ou en Afrique. Il n’est pas possible que chacun comprenne la démocratie à sa façon, et il n’est pas acceptable non plus que chacun applique le droit international à sa guise. Un des obstacles principaux à la paix mondiale et à la création d’un «ordre mondial» démocratique et juste est que de nombreux Etats n’appliquent pas le droit international de la même façon, ici ils disent oui et là ils disent non. Sans vouloir critiquer certains Etats, je voudrais attirer l’attention sur cette problématique fondamentale. Finalement, pour utiliser une expression anglaise, je crois que «The bottomline is participation.»

Cela veut dire?

Cela veut dire que les citoyens doivent pouvoir prendre part et participer à l’organisation de la politique et ceci directement. Le modèle de la démocratie directe offre ici beaucoup d’éléments. On doit avoir la possibilité d’initier une loi. La possibilité de contrôler des lois par des référendums, mais aussi la possibilité de demander des comptes aux fonctionnaires gouvernementaux, respectivement aux hommes politiques quand ils font une toute autre politique que celle qu’ils ont promise – cela doit être l’essence de la démocratie. Les politiques élus doivent pouvoir être poursuivis, quand ils n’ont pas tenu leur promesse qu’ils ont faite aux citoyens et ainsi abusé de leur confiance. C’est pourquoi on doit pouvoir éloigner ces personnes de leurs fonctions. Chez nous aux Etats-Unis, il existe le terme de «recall» ou d’«impeachment».
J’étudierai donc exactement le modèle de la démocratie directe. Il s’agit de la question de savoir comment on pourrait appliquer ce modèle avec certaines modifications dans d’autres pays. Toutefois, on doit tenir compte pour chaque pays de son histoire, de sa culture, de sa tradition et de ses représentations individuelles de la vie communautaire.

D’après vous, quel rôle l’Etat national jouera-t-il ici?

Comme dans la Grèce antique, un Etat est né avec la Polis, où les citoyens pouvaient prendre part à la politique, cela doit valoir aussi pour les différents pays. Donc, l’Etat national est décisif dans ce processus. Du point de vue international, nous voudrions que tous les Etats aient le droit d’organiser la politique mondiale sur un pied d’égalité. Mais aussi à l’intérieur, donc au niveau national, les citoyens d’un certain Etat doivent accepter les véritables lois pour eux, pour leur propre identité, pour leur propre culture et choisir une politique garantissant les droits de l’homme et la dignité de tous les citoyens.

Monsieur De Zayas, nous vous souhaitons beaucoup de succès dans l’accomplissement de votre mandat et vous remercions de cet entretien.    •

Monsieur de Zayas invite les lecteurs à partager leurs idées en envoyant leurs propositions à l’adresse suivante: ie-internationalorder@ohchr.org
(Traduction Horizons et débats)

L’histoire est écrite par les vainqueurs, jusqu’au jour où…

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L’histoire est écrite par les vainqueurs, jusqu’au jour où…

Dominique Venner

Ex: http://www.zentropa.info/

Plus que les grandes victoires, les grandes défaites font les grandes épopées, l’Iliade pour la guerre de Troie, les Thermopyles pour les Spartiates, Numance pour les Ibères, Alésia pour Vercingétorix. Le procès et la mort de Jeanne d’Arc plus que sa victoire d’Orléans. Waterloo plus qu’Austerlitz, sans compter Camerone, Sidi Brahim, Dien Bien Phu… Charlemagne a remporté d’innombrables victoires, mais ce qui reste de lui, c’est la Chanson de Roland qui magnifie l’une de ses rares défaites.


Je pensais à ce paradoxe bien européen en regardant récemment le DVD de Braveheart de Mel Gibson. Accompagnant les images somptueuses des Highlands survolées par un aigle, des mots ouvrent le film en voix off. On les entend peu souvent : « L’histoire est écrite par ceux qui pendent les héros… » Ces mots sont une réponse à ceux qui m’interrogent sur la signification de certains de mes livres, l’histoire des Sudistes (Le blanc soleil des vaincus), celle du Baltikum, celle aussi de la sombre saga des gardes blancs pendant la guerre civile russe (Les Blancs et les Rouges). Ces livres avouent un attrait pour les vaincus courageux. Mais, courage ou pas, l’histoire des vaincus est toujours occultée, dénaturée, ou même criminalisée par les vainqueurs. Elle constitue l’enjeu posthume de conflits qui ne cesseront jamais. Après les guerres idéologiques et religieuses, les vainqueurs veulent vaincre jusqu’à la mémoire de leurs adversaires. Après dix-sept siècles, le jeune empereur Julien, très fidèle à sa propre religion, est toujours qualifié d’ « apostat », épithète infâmante imposée par l’Église devenue triomphante après son OPA réussie sur l’Empire romain à la fin du IVe siècle. Quand les vainqueurs sont habiles et puissants, les instruments de la parole publique, l’État, l’Université et l’Ecole participent à l’entreprise. Pour l’historien indépendant, tout est donc à découvrir à ses risques et périls derrière le discours officiel. Il n’y a rien de plus stimulant, mais rien de plus dangereux.


Les conflits idéologiques et quasi religieux du XXe siècle ont été annoncés par la guerre de Sécession américaine (1861-1865). Ils ont peu d’équivalent dans le passé, sinon lors du triomphe imprévu du christianisme sur le paganisme romain au IVe siècle. Les guerres de religion au XVIe et XVIIe siècle n’eurent pas le même caractère absolu puisqu’elles se terminèrent par un partage du monde entre protestants et catholiques. Il n’y eut donc pas de vrais vaincus, sauf en France avec les huguenots. Deux puissances hostiles campaient chacune sur leurs positions, affichant leur propre interprétation du passé. La nouveauté du XXe siècle tient au caractère écrasant de la défaite des uns et de la victoire des autres. Du jamais vu avec cette ampleur et cette brutalité, sinon pour les hérésies au sein des monothéismes, écrasées par les massacres, le feu et l’oubli.

Dans ma génération et les suivantes, celles qui n’étaient pas encore nées à l’époque du conflit mondial puis de la décolonisation, un certain nombre de jeunes Européens arrivant à l’âge adulte, éprouvèrent une conscience aiguë et douloureuse d’être les héritiers de défaites presque cosmiques. J’ai vécu cela au temps de la guerre d’Algérie. Pour les Français et les Européens, ce fut une défaite (politique et nullement militaire), ne pouvant que renforcer la conscience d’une catastrophe fatale. Si l’un de mes premiers livres a été consacré à l’histoire des Sudistes c’est parce que je ressentais intuitivement la défaite du « Vieux Sud » comme le premier acte de ce qui fut accompli chez nous dans la seconde moitié du XXe siècle. Jadis, j’ai lu l’Invaincu (The Unvanquished) de William Faulkner avec le sentiment exaltant et douloureux d’être immergé dans ma propre histoire. J’étais séduit par des vaincus courageux qui jamais ne se renient. Je le suis toujours.


Parfois, de façon imprévue, il arrive pourtant que les vaincus prennent leur revanche dans l’imaginaire des vivants. Il en fut ainsi pour les Sudistes avec Autant en emporte le vent, le roman et le film. Il en a été de même lorsque le président Poutine décida la réhabilitation des armées blanches et de leur chef, le général Denikine, ainsi que leur réintégration dans la mémoire russe.

Dominique Venner