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mercredi, 03 octobre 2012

XVIIe Table ronde de Terre et peuple

RAPPEL :

dimanche 7 octobre, XVIIe Table ronde de Terre et peuple à Rungis (94)

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Siria: L’errore di calcolo della Turchia!

Siria: L’errore di calcolo della Turchia!

Dr Amin Hoteit, Mondialisation , al-Thawra

Ex: http://aurorasito.wordpress.com/

Quando la Turchia ha preparato il suo ruolo di “Direttore Regionale della ricolonizzazione” come “potenza neo-ottomana” o “moderno califfato islamico“, ha pensato che avrebbe fatto strada senza problemi, data la mancanza di strategia araba, l’isolamento dell’Iran e l’evoluzione delle condizioni regionali che hanno reso Israele incapace di mantenere consistente il proprio ruolo, secondo le teorie di Shimon Peres, promuovendo l’idea di un “Nuovo o Grande Medio Oriente“, basata sul “pensiero sionista” e il “denaro arabo“.

La Turchia ha veramente pensato che questo fosse il modo migliore per garantirsi la leadership della regione, per iniziare, poi del mondo musulmano … confortata in questo dai suoi punti di forza economici, dalle sue buone relazioni con i popoli di tanti stati indipendenti dell’Asia centrale, il suo passato musulmano assieme a un presente che dimostrerebbe la capacità degli “islamisti” nel prendere le redini dello Stato turco e neutralizzare l’ostacolo dell’Esercito “guardiano della laicità”, istituito da Ataturk!

In base a questa visione, la Turchia, o meglio il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ha lanciato la sua strategia di “zero problemi“, pensando che le avrebbe permesso di attraversare le frontiere dei confinanti e far dimenticare le tragedie storiche commesse contro diversi popoli e stati della regione, prima di involarsi verso il suo nuovo sogno imperiale… Quindi “conquistata” la causa palestinese, causa centrale per gli arabi e i musulmani [per i popoli e i regimi non asserviti all'Occidente e ad Israele], ha iniziato a tessere relazioni strategiche con diversi paesi della regione, a partire dal più vicino e più importante: la Siria! In effetti, in un libro pubblicato nel 2001, Davutoglu, il teorico del “zero problemi” aveva sottolineato che la Turchia non poteva realizzare i propri progetti imperialistici che partendo dalla Siria, passo preliminare per assicurarsi il sogno della profondità strategica!


In questo caso, si deve rilevare che la Siria ha risposto positivamente alla nuova politica di apertura della Turchia e, in piena fiducia, aveva stabilito una partnership strategica con uno stato ancora membro della NATO, che “coltivava un rapporto speciale con Israele“, pensando che questo nuovo approccio permettesse almeno di garantirsi la sua neutralità nel conflitto con il nemico sionista e, eventualmente, affidargli alcune missioni nel quadro di questo stesso conflitto, in cui non avrebbe più dimostrato un palese sostegno verso Israele.
Ma la Turchia non è stata onesta e aveva previsto l’esatto opposto di quello che offriva, non appena l’aggressione occidentale, agli ordini dei piani degli Stati Uniti basati sulla strategia intelligente del “soft power“, si è abbattuta sulla Siria, è entrata nel suo ruolo di “regista sul campo dell’aggressione” e si è messa a “dare lezioni” avvalendosi della lingua condiscendente dei colonizzatori, come se la Siria fosse ancora parte dell’Impero Ottomano! Ciò fu chiaramente il suo primo errore di calcolo, in quanto la nuova moda neo-ottomana incontrava la resistenza araba siriana, proibendogli di ripristinare un passato che ne ignorasse la dignità e la sovranità; ciò ha innescato la furia e l’odio in cui i leader turchi si sono pubblicamente immersi, nel tentativo di minare dall’interno la Siria.


A questo punto, la Turchia ha svolto il ruolo di cospiratore su due livelli:
· A livello politico, ha sponsorizzato i gruppi di agenti dei servizi segreti di vari paesi e varie figure revansciste cariche di odio o di vendetta, assetate di potere, prima di organizzare un cosiddetto “Consiglio nazionale siriano” [CNS], che in realtà è al soldo di servizi ed interessi stranieri in Siria. In questo modo, pensava che questo falso consiglio sarebbe stata un’alternativa alle legittime autorità siriane… Secondo errore di calcolo, poiché essendo il CNS nato come strumento della discordia straniera, si è evoluto verso una discordia interna maggiore, trasformandosi in un cadavere putrefatto, così divenendo un peso per i suoi creatori, e per la Turchia per prima!


· Sul piano militare, si è trasformata in una base di raccolta dei terroristi di tutte le nazionalità, attaccando la Siria prima dell’esecuzione di un’operazione militare internazionale di cui sarebbe stata la punta di lancia, raccogliendone i frutti trasformandola nel cortile dell’impero neo-ottomano rinato dalle ceneri… Terzo errore di calcolo manifesto, dopo che una simile operazione, cosiddetta “internazionale”, si era rivelata impossibile, ciò ha spinto la Turchia a non concentrarsi che su sordide azioni terroristiche sul suolo siriano! Il partito al governo in Turchia aveva, infine, puntato tutte le sue speranze sul terrorismo internazionale, e aveva immaginato che la Siria sarebbe crollata in poche settimane, aprendo la via di Damasco al nuovo sultano ottomano… Quarto errore di calcolo, davanti a una Siria in cui tutte le componenti statali e civili resistevano alla marea terroristica, ritenuta infrangibile, la  Turchia è ritornata a quella dura realtà che non si era degnata di prevedere.
In effetti, la Turchia aveva immaginato che la difesa siriana e quella dei suoi alleati regionali dell’”asse della resistenza“, in perfetto accordo con il fronte del rifiuto emergente sulla scena internazionale, non avrebbe potuto resistere nel caso di uno scontro così ben condotto e che, in ogni caso, l’avrebbe dovuto affondare… Quinto errore di calcolo, particolarmente pericoloso vista l’evoluzione del teatro delle operazioni a scapito delle sue velleità. Non citeremo che le conseguenze fondamentali:

1. Definitivo fallimento della Turchia nella sua guerra terroristica contro la Siria, condotta congiuntamente al “campo occidentale degli aggressori“… Inoltre, ora è fermamente convinta che non è possibile rovesciare il governo siriano, il popolo siriano è l’unico in grado di deciderlo.


2. Fallimento degli sforzi della Turchia a favore di un intervento militare diretto, volto a trasformare la prova, ora che tutti i suoi tentativi di creare  “zone di sicurezza“, “zone cuscinetto“, “corridoi umanitari” o qualsiasi altra scusa che consentisse l’intervento militare straniero in Siria, sono falliti miseramente di fronte alla resistenza siriana, alla fermezza iraniana e alla coerenza russa nel loro rifiuto concertato di un tale risultato, anche se avessero dovuto arrivare a un confronto militare internazionale, mentre la Turchia ed i suoi alleati non erano preparati a tale possibilità.


3. La grave angoscia della Turchia sul futuro dei gruppi terroristici che ha accolto sul suo territorio e diretto contro la Siria sotto la supervisione degli Stati Uniti; ciò dovrebbe ricordarci che il fenomeno degli “afghani arabi” è diventato un problema per il paese che li ha spinti a combattere contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, dove una volta che le truppe sono partite sono diventati dei “veterani disoccupati“, minacciando ogni sorta di pericoli; una situazione non molto diversa da quella che potrà incontrare la Turchia, oggi! E’ per questo motivo che si è affrettata a chiedere il soccorso degli Stati Uniti nell’aiutarla a prevenire questa probabile piaga… E’ per questo motivo che recentemente le forze di sicurezza dei due paesi si sono incontrate e che, contrariamente a quanto è stato riportato dai media, non hanno parlato dello sviluppo dei preparativi finali per l’intervento militare in Siria, ma di difendere la Turchia, che teme per la propria incolumità in caso di una controffensiva lanciata dalla cittadella siriana che resiste alla sua violenta aggressione per mezzo di interposti terroristi.


4. L’ansia non meno grave della Turchia per certi dossier che sono sul punto di esplodere, mentre cerca di nasconderli con la sua presunta politica di “zero problemi” trasformata in pratica nella politica di “zero amici“; il più pericoloso di questi casi è l’ostilità dei popoli, di gran lunga superiore a quella dei governi. Così, quattro temi principali minacciano l’essenza dello Stato turco e perseguitano i suoi dirigenti:
· Il dossier settario: la Turchia ha ritenuto che accendendo il fuoco settario in Siria, si sarebbe salvata dall’incendio. Ha dimenticato che la sua popolazione è ideologicamente e religiosamente eterogenea, e che lo stesso fuoco potrebbe bruciare data la sua vicinanza geografica; cose che sembra aver capito ora…
· Il dossier nazionalista: la Turchia ha pensato che potesse contenere il movimento nazionalista curdo… un altro errore di calcolo, perché questo movimento è diventato così pericoloso che l’ha costretta a riconsiderare seriamente la sua politica globale nei confronti di esso.
· Il dossier politico: la Turchia ha immaginato che basandosi sulla NATO potesse ignorare le posizioni dei paesi della regione e d’imporre la sua visione basata sui propri interessi, ma ora è sempre più politicamente isolata, i paesi sulla cui amicizia sperava di contare nell’aggressione contro la Siria, si sono allontanati per paura della sua smisurata ambizione, e i paesi che ha trattato da nemici, al punto di pensare che potesse dettargli i propri ordini o di schiacciarli, si sono dimostrati in grado di resistere con una forza che l’ha sconcertata… lasciandola nella situazione inaspettata di “zero amici“!
· Il dossier della sicurezza: la Turchia cerca invano di negare il declino della sicurezza nel suo territorio, diventata estremamente penosa per i suoi commercianti e soprattutto per coloro che lavorano nel settore del turismo e che hanno perso più del 50% delle loro entrate normali nel corso degli ultimi sei mesi!


Tutto ciò mostra che la Turchia si trascina dietro gli USA, supplicandoli di farla uscire dal pantano in cui è sprofondata! Non solo ha fallito nella sua aggressione contro la Siria, e ha rivelato la falsità della sua politica e di tutte le sue dichiarazioni, ma non è neanche più sicura di salvare le carte che ancora pensa di detenere, ora che gli eventi di Antiochia, le rivendicazioni armene, gli attacchi curdi, gli oppositori interni alle politiche del governo attuale, e la mancanza di cooperazione assieme alla sfiducia dei paesi della regione, sono diventati fattori che, tutti insieme, possono generare turbolenze verso i piani imperialistici di Erdogan e del suo ministro degli Esteri; ricordando, in questo caso, l’aneddoto del giardiniere innaffiato!

Il dottor Amin Hoteit è un analista politico, esperto di strategia militare e generale di brigata in pensione libanese.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Engdahl: Western Intervention in Syria Creates Bloodshed and Civil War

Engdahl: Western Intervention in Syria Creates Bloodshed and Civil War

Aujourd'hui, gouverner, c'est se faire voir...

Ex: http://zentropa.info/

La mise en scène de la vie privée des hommes publics est-elle un avatar de la personnalisation du pouvoir sous la Ve République ou traduit-elle une évolution plus profonde ?

Le pouvoir, royal ou républicain, a toujours été une représentation faite de signes, de symboles, d’images. Mais jamais il ne s’est résumé à cela. Il est verbe, mais aussi action, projet, décision. Aujourd’hui, la parole politique se croit performative. On s’imagine que dire, c’est faire ou que se montrer, c’est exister. Parfois oui, mais il y a toujours un réel qui ne se laisse pas faire.

Le renoncement à l’action patiente au profit de l’immédiateté de la parole et de la visibilité obscène de la posture a commencé dans les années 1980, quand Mitterrand a laissé le journaliste Yves Mourousi poser ses fesses sur son bureau de présentateur de TF1 lors d’un entretien en parler « chébran ». Avant lui, Giscard avait convoqué les médias pour jouer de l’accordéon.

Derrière cette volonté d’être « comme tout le monde » se cache mal la certitude de ne pas être n’importe qui. Les politiques, qui autrefois visaient à rassembler les Français, ne pensent plus qu’à leur ressembler. Au prix d’une coupure avec ce qu’Orwell appelait la « décence commune ». J’aime ce mot : commun, même s’il a été dévalué et sali par le communisme. Commun, cela évoque le bien commun, qui reste en principe la visée ultime de l’action politique ; et aussi le sens commun, qui n’est pas le bon sens auquel Sarkozy faisait appel à répétition, mais le sens partagé dans ce qu’on appelait autrefois une société.

Il y a donc une sorte de vulgarisation de la parole publique ?

Une mutation profonde, oui. Les politiques s’adressent à ceux qu’on ne peut plus vraiment appeler des citoyens ni des sujets, mais des individus de masse. Quelle honte qu’un Berlusconi dans un pays de haute culture, qu’un Sarkozy dans un pays de littérature revendiquent le parler vulgaire pour parler au « vulgaire », c’est-à-dire au peuple tel que le voient ceux qui se croient appelés à le séduire pour le dominer ! Les dirigeants parlent au peuple ? Non, les « people » parlent à ceux qui n’en seront jamais ; « people » désignant justement ceux que les gens du peuple à la fois envient parce qu’ils ont mieux réussi qu’eux, et méprisent parce qu’ils les devinent enfermés dans le peu d’être que leur laisse leur appétit d’avoir.

De même qu’il n’y a plus de différence entre vie privée et vie publique, la langue publique, autrefois proche du français écrit (Blum, de Gaulle), est non seulement une langue parlée, mais mal parlée. Une langue privée, pleine de sous-entendus égrillards, de dérapages « caillera », de mots empruntés au vocabulaire de l’économie ou du sport que l’on croit seuls compréhensibles par le public.

Est-ce la conséquence de l’hypermédiatisation de la démocratie ?

Au stade actuel, l’on ne médiatise plus seulement une politique mais l’homme politique lui-même, son image rectifiée parfois par la chirurgie esthétique et toujours par des conseillers en look. Au bout de cette double dégradation du pouvoir et de la parole, on voit aujourd’hui le ridicule des hommes politiques poussant la chansonnette dans les émissions de variétés, comme Copé ou Jospin. Vulgarité des puissants que résume la détestable expression répétée par les médias : « première dame de France ». A quand son inscription dans ce fourre-tout qu’est notre Constitution ?

La médiatisation a tué l’action publique. Gouverner, c’est prévoir, disait l’adage. Aujourd’hui, gouverner, c’est se faire voir. Un point, c’est tout. La politique était naguère une scène : meetings, estrades, arène du Parlement. Elle est devenue écran, miroir où gouvernants et gouvernés se regardent en reflets pixellisés.

La sphère politique n’obéit-elle pas à une forme banale d’individualisme contemporain ?

Les politiciens souffrent d’une dépendance qui ne leur est pas propre mais qui atteint chez eux la dimension d’une véritable addiction à l’image : ne se sentir être que si une caméra le confirme. La télévision est pour eux ce qu’est devenu le portable pour chacun de nous : un objet transitionnel rassurant. Culte du moi, narcissisme des petites différences, perte de tout trait singulier : la même dérive frappe les hommes politiques comme les hommes ordinaires. Le dévoilement - par eux-mêmes d’abord - de la vie privée des hommes publics est l’un des traits de cette culture de la perversion narcissique qui nous surprit sans nous faire rire lorsque naguère, devant les caméras, un premier ministre montra son vélo, un autre accepta de parler de fellation, et un président de la République, un été à Brégançon, n’hésita pas à exposer son pénis vigoureux à l’objectif des photographes.

Sans doute la psychopathologie des dirigeants a-t-elle changé comme celle de l’ensemble des individus dans nos sociétés postmodernes : de moins en moins de névrosés et de plus en plus de personnalités narcissiques, parfois de pervers. L’homme politique est sans doute « normal » (non au sens d’une règle morale, mais d’une norme statistique), lorsqu’il devient fou. Fou de lui-même comme tant d’individus aujourd’hui. « L’homme qui n’aime que soi, disait Pascal, quand il se voit ne se voit pas tel qu’il est mais tel qu’il se désire. » Le moi n’est pas toujours haïssable, mais lorsque, en politique, il prend la place du « je », il verse dans l’autopromotion du vide. Qui ne se souvient du « Moi président », anaphore quinze fois répétée par François Hollande, dans son débat avec Nicolas Sarkozy…

Le narcissisme est-il incompatible avec la démocratie ?

Dans les sociétés de narcissisme, les électeurs comme leurs élus sont centrés sur la réalisation persistante d’eux-mêmes au détriment de la relation aux autres, figés sur le présent et incapables de différer leur satisfaction. Peut-être les Français n’ont-ils que la classe politique qu’ils méritent.

Le « moi-isme » règne sur les écrans postmodernes. De Facebook à Twitter en passant par les reality-shows, tout le monde parle et personne ne dit rien. Comme le règne de l’autofiction dans la littérature exhibe l’auteur plus que son oeuvre, la vie intime de nos contemporains devient virtuelle. Il n’y a plus d’images privées, de significations privées. Il y a la même différence entre la démocratie représentative et la démocratie directe qu’entre un portrait et un instantané rectifié par Photoshop.

Je tiens à ce mot de représentation, essentiel à la démocratie. On disait autrefois : « faire des représentations » aux princes, pour désigner des critiques ou des demandes d’une société divisée et contradictoire. Cela fait place aujourd’hui, dans la démocratie participative et interactive, à la « présentation » de soi par soi. L’ère des médias désigne justement un état de fait où les médias ne médiatisent plus rien, mais transmettent vers le haut les résultats des sondages et vers le bas les « éléments de langage ». Les sondages, multipliés avant même de prendre une décision, et souvent dictant une décision, ne datent pas non plus de Sarkozy et de son conseiller, Patrick Buisson. Gérard Colé, conseiller de Mitterrand, avalisait déjà toutes les mesures gouvernementales, et cette emprise de la communication sur l’action permit aux Pilhan et Séguéla de servir la droite puis la gauche, ou inversement.

La politique n’a-t-elle pas besoin de récits, et le pouvoir, d’incarnation ?

Les grands récits sont morts avec le siècle passé : révolution, Etat, nation… Mais les politiques croient que les électeurs attendent toujours qu’on leur raconte non plus l’Histoire mais des histoires, comme aux enfants pour qu’ils s’endorment. De Gaulle ne disait pas aux Français ce qu’ils voulaient entendre, ni ce qu’il croyait qu’ils voulaient entendre, mais ce qu’il voulait leur faire entendre. L’image ment, mais elle fait rêver.

La démocratie a un pilier, disait Hannah Arendt, la séparation entre vie privée et vie publique. Or, on assiste aujourd’hui à un double mouvement : d’une part la publicisation de la vie privée, y compris amoureuse (inaugurée par Sarkozy, poursuivie par Hollande) ; de l’autre, la privatisation de la sphère publique sous l’effet à la fois du rétrécissement du domaine d’intervention de l’Etat et de la multiplication d’ « affaires » relevant, pour le moins, du conflit d’intérêts. Ce mouvement se double d’un autre, qui brouille plus encore les repères : d’une part la sexualisation de la vie des responsables politiques, alors que la sexualité est au plus intime de la vie privée ; d’autre part la politisation des questions sexuelles, comme en témoignent les projets de l’actuel gouvernement sur le harcèlement sexuel, le mariage gay, voire la suppression de la prostitution…

La démocratie commence par la reconnaissance de la nécessité d’un pouvoir légitime et, comme le dit le grand psychanalyste anglais Donald Winnicott, par « l’acceptation qu’il ne soit pas fait selon nos désirs mais selon ceux de la majorité ». Elle s’arrête quand le pouvoir ne se contente pas d’être obéi mais veut être aimé. Français, encore un effort pour être démocrates !

Michel Schneider

Obamas Amerika: Tyrannei und Dauerkrieg

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Obamas Amerika: Tyrannei und Dauerkrieg

Während einer Zeremonie im Weißen Haus unterzeichnete er das berüchtigte Militärkommissionsgesetz (MCA). Dieses Gesetz erlaubte Folter als offizielle Politik.

Dieses Gesetz gewährte ebenso umfassende nicht verfassungskonforme Vollmachten, angeblich, um des Terrorismus Verdächtigte und deren Mitmacher (einschließlich US Bürger) zu verhaften, zu verhören und anzuklagen, auf unbestimmte Zeit (und ohne Beweis) in Militärgefängnissen in Haft zu nehmen, und ihnen die Habeas Corpus Rechte und andere konstitutionelle Schutzrechte vorzuenthalten.

Es erlaubt Präsidenten, jede Person an jedem Ort als einen „unrechtsmäßigen feindlichen Kämpfer“ zu bezeichnen, deren Verhaftung anzuordnen, sie in Sicherheitsverwahrung zu nehmen und ihr alle Rechte zu verweigern.

Am selben Tag unterzeichnete Bush in aller Ruhe das Nationale Verteidigungsautorisierungsgesetz für das Finanzjahr 2007. Darin eingeschlossen waren die versteckten Sektionen 1076 und 333. Bedeutende Medienzaren ignorierten diese.

obamathemightywarrior.jpgSie änderten das Aufstandsgesetz von 1807 und das Posse Comitatus Gesetz von 1878. Diese Gesetze untersagten den Einsatz von Bundes- und Nationalgardetruppen zur Durchsetzung von Gesetzen innerhalb des Landes, ausgenommen, dieser ist verfassungsmäßig erlaubt oder ausdrücklich vom Kongress während eines Aufstandes oder anderer nationaler Notstandssituationen genehmigt.

Von jetzt an kann die Exekutive per Diktat Notstandsvollmachten beanspruchen, das Kriegsrecht verhängen, die Verfassung aus „Nationaler Sicherheit“ aufheben, und Bundes- und/oder Nationalgardetruppen auf US Straßen einsetzen, um jegliche Art von Unruhe – einschließlich rechtsmäßige und friedliche Proteste – zu unterbinden.

Es geht um die Abschaffung fundamentaler First Amendment Freiheiten, ohne die alle anderen (Freiheiten) in Gefahr sind. Diese Freiheiten umfassen freie Meinungsäußerung, Versammlungsfreiheit, Religionsfreiheit und das Recht, Petitionen an die Regierung für Wiedergutmachung zu richten. Nicht mehr.

2009 sicherte Obama durch das Unterzeichnen des Nationalen Verteidigungsautorisierungsgesetzes für 2010 die Kontinuität des Militäreinsatzes zu. Dessen versteckte Sektion 1031 enthielt das Gesetz für Militärkommissionen von 2009. Der Begriff „nicht-privilegierter feindlicher Kriegsteilnehmer“ ersetzte (den bis dahin geltenden Begriff) „ungesetzlicher feindlicher Kombattant/Kämpfer.“

Die Sprache hat sich zwar geändert, nicht aber die Absicht oder die Unrechtsmäßigkeit. Obama übertrifft Bushs Extremismus. Guantanamo und andere Foltergefängnisse bleiben offen. US Bürger werden genauso unrechtsmäßig behandelt wie ausländische Staatsangehörige. Die Lage verschlechtert sich zunehmend.

Am 31 Dezember unterzeichnete (d)er (Präsident) das Nationale Verteidigungsautorisierungsgesetz (NDAA). Es gibt Präsidenten uneingeschränkte Macht, Verhaftungen durch das Militär anzuordnen und US Bürger auf unbestimmte Zeit zu inhaftieren, allein auf der Grundlage von unbestätigten Anschuldigungen der Mitgliedschaft in einer Terrorgruppe.

Konstitutioneller, gesetzlicher sowie auf internationalem Recht beruhender Schutz sind wirkungslos. Amerikas Militär kann jedermann aufgreifen und in Foltergefängnisse werfen, ihn auf unbestimmte Zeit ohne Anklage und Prozess festhalten, allein auf der Grundlage von Verdächtigung, fadenscheinigen Behauptungen oder ganz ohne Grund.

Zuvor autorisierte Obama per Dekret die Inhaftierung jeder zur nationalen Sicherheitsgefahr erklärten Person. Speziell für Guantanamo-Häftlinge bestimmt, trifft dies jetzt auf jede Person zu, einschließlich US Bürger im In- und Ausland.

Zusätzlich erhielten CIA Agenten und Todesschwadrone der Sondereinsatzkommandos die Autorisierung durch den Präsidenten, ausgesuchte US Bürger im Ausland zu ermorden. Diese Personen können für irgendeinen oder auch gar keinen Grund gejagt und kaltblütig ermordet werden.

Ab dem 31. Dezember (2011) kann jedermann, einschließlich US Bürger, an jedem Ort eine nationale Sicherheitsgefahr genannt und per Anklage für schuldig erklärt werden. Aktivisten, die sich Amerikas Imperium widersetzen, riskieren Verhaftung, dauerhafte Sicherheitsverwahrung oder Ermordung.

Genau so ergeht es für soziale Gerechtigkeit Demonstrierende. Militärverliese oder FEMA Lager erwarten sie. Kriegsrecht kann dies unter Inanspruchnahme einer „Notstandsituation im Katastrophenfall“ ermöglichen. Die ursprüngliche Senatsvorlage nahm US Bürger davon aus. Obama verlangte deren Einbeziehung (unter dieses Gesetz).

Unverletzliche Rechte gelten nicht mehr. Protestieren gegen imperiale Gesetzlosigkeit, soziale Ungerechtigkeit, Verbrechen großer Firmen, Korruption der Regierung oder das von der und für die reiche Elite funktionierende politische Washington kann kriminalisiert werden. Dasselbe trifft auf die freie Rede, die Versammlungsfreiheit, die Religionsfreiheit oder irgendetwas zu, das Amerikas Recht ungestraft zu töten, zu zerstören und zu plündern in Frage stellt.

Es ist offiziell. Tyrannei ist in Amerika angekommen. In der Nation zu leben ist unsicher geworden. Es gibt keinen Ort, sich zu verstecken. Sie kommen zu Jedem, der sich Ungerechtigkeit widersetzt.

Gesetzlosigkeit zu Hause und im Ausland

Sie zielen auch auf unabhängige Staaten. Es geht darum, sie abhängig zu machen. Taktiken umfassen Drohungen, Destabilisierung, Gewalt, Sanktionen und Krieg, falls andere Methoden versagen.

Im Jahre 2011 wurde Lybien zu NATOs letztem Leichenhaus. Für Profit wurde es geplündert und zerstört. Seit Monaten wird Syrien gnadenlos ins Visier genommen. Weiterer Druck wird aufgebaut. Alles ist möglich in der Zukunft, einschließlich der Barbarei, die Lybien zugefügt wurde.

Danach kommt der Iran. Washington verfolgt dieses Thema aggressiv.

Taktiken umfassen Provokationen, Unterwanderung, falsche Beschuldigungen, Isolation, verdeckte oder direkte Konfrontation, Cyberkrieg, sehr harte Sanktionen, die gefährlich nahe an Kriegshandlungen kommen.

In den letzten fünf Jahren wurden vier Runden Sanktionen verhängt. Im Dezember hat der Kongress eine weitere Runde veranlasst. Sie sind in dem Nationalen Verteidigungsautorisierungsgesetzes (NDAA) für 2012 enthalten. Sie zielen darauf ab, ausländische Banken zu bestrafen, die mit Teherans Zentralbank Geschäfte machen. Sie ist der Hauptzahlungsweg im Ölgeschäft. US Firmen, einschließlich Banken, können schon nicht mehr Geschäfte mit dem Iran machen.

Zusätzliche Maßnahmen erweiterten Sanktionen für Firmen in ölverwandten Bereichen, einschließlich von Investitionen, dem Verkauf von Raffinerieausrüstungsgegenstände und -produkten sowie Dienstleistungen über 5 Millionen Dollar jährlich.

Am 31. Dezember hat Obama das Gesetz unterzeichnet. Er hat 180 Tage, es anzuwenden. Er nennt es die bisher härteste Maßnahme, indem er sagt:

„Unsere Absicht ist es, dieses Gesetz nach einem zeitlich gestaffelten Verfahren anzuwenden, um Auswirkungen auf den Ölmarkt zu vermeiden und sicherzustellen, dass dies nur den Iran und nicht den Rest der Welt schädigt.“

Es liegt in seinem Ermessensspielraum, Ausnahmen zuzulassen, vorausgesetzt sie sind in Amerikas nationalem Interesse. Energieanalysten befürchten, das Inkraftsetzen (dieses Gesetzes) bedeutet höhere Ölpreise mit negativen Folgen. Andere befürchten, Konfrontation könnte dem Schikanieren folgen.

Marinekommandeur Konteradmiral Habibollah Sayyari sagte, Irans Marinekräfte können als Antwort auf feindliche westliche Handlungen die Strasse von Hormus leicht blockieren.

Er sprach einen Tag, nachdem der Vizepräsident Mohammad Reza Rahimi gewarnt hatte, nicht ein Tropfen Öl würde die Straße von Hormus passieren, sollten Irans Ölexporte sanktioniert werden. Wenn dem so ist, kann erwartet werden, dass die Energiepreise in die Höhe schießen werden, bis die normale Durchflussmengen wieder erreicht sind. Eine direkte Konfrontation ist ebenfalls zu erwarten, möglicherweise und einschließlich einer direkten US-Iranischen Konfrontation.

Irans Nuklearprogramm als Ziel zu nehmen, ist eine List. Teheran besteht darauf, es sei friedlich. Nichts beweist bisher das Gegenteil. Der neueste Geheimdienstkonsensus vom März 2011 stimmt damit überein. Es wurde kein Beweis einer Waffenentwicklung gefunden. Um was es wirklich geht, ist Regimewechsel. Gründe hierfür werden als Vorwand erfunden.

Als Ergebnis wird alles möglich, einschließlich eines möglicherweise vernichtenden allgemeinen Krieges mit auf Irans unterirdische Anlagen gerichteten Atomwaffen.

Egal wie hoch das Risiko, Obama scheint sich auf das Undenkbare hinzubewegen. Mehr dazu wird folgen.

 

Stephen Lendman wohnt in Chicago und kann unter lendmanstephen@sbcglobal.net erreicht werden.

Bitte besuchen Sie auch seinen Blog unter sjlendman.blogspot.com und hören Sie sich auf Progressive Radionachrichtenstunde und dem Progressiven Radionetzwerk an Donnerstagen um 10:00 Uhr US Central Time und an Samstagen und Sonntagen mittags führende Diskussionen mit ausgesuchten Gästen an. Um das Anhören zu erleichtern, sind alle Diskussionen archiviert.

http://www.progressiveradionetwork.com/the-progressive-news-hour/

Artikel auf Englisch: Obama’s America: Tyranny and Permanent War

Übersetzt von Karl Kaiser

Cahier Nimier aux éditions de L'Herne

Vient de paraître:

Cahier Nimier aux éditions de L'Herne

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A partir de 1956, Roger Nimier entre en A partir de 1956, Roger Nimier entre en correspondance avec Céline en tant que conseiller éditorial pour la maison Gallimard. Les liens avec le reclus de Meudon ne cesseront de se resserrer. Au sommaire de ce 99è Cahier, plusieurs articles consacrés à Céline : Frédéric Vitoux « Le fantôme de Nimier à Meudon », les textes de Roger Nimier « Donnez à Céline le Prix Nobel ! », « Céline » (Bulletin de la NRF), des textes de Marcel Aymé et Marc Henrez et enfin une correspondance inédite Céline-Nimier. Consultez le sommaire complet ici.
 
Roger Nimier, L'Herne, 384 pages, 39 €, 2012.
Commande possible sur Amazon.fr.


Cinquante ans après, si déconcertant qu’ait été ce destin, le public et la critique n’en ont pas fini avec Roger Nimier. L’attestent son oeuvre au format de poche et plusieurs essais récents. Aucun livre, pourtant, ne met pleinement sous les yeux cette expérience singulière, vécue entre les années 1940 et 1960. Ce Cahier veut combler ce manque.
 
Il ambitionne ainsi de tenir le rôle de passeur auprès du lecteur actuel.

En 1948, Roger Nimier s’impose à l’âge de vingt-trois ans avec son premier roman, Les Épées. S’attaquant sans tarder à l’ordre intellectuel et moral instauré après la Libération, il se livre à des provocations qui lui valent bientôt des ennemis et une réputation de factieux. Mauriac, Julien Green et Marcel Aymé n’en désignent pas moins Le Hussard bleu en 1950 pour le Goncourt, avant que la revue de Jean-Paul Sartre fasse de ce roman l’emblème d’un groupe littéraire. Cinq autres titres ont déjà paru quand le hussard annonce en 1953 qu’il abandonne le roman pour longtemps. Rupture de ce silence, D’Artagnan amoureux présage à l’automne 1962 un retour, quand survient l’accident mortel.
 
Lancée à la face d’une époque jugée décevante, l’exigence de style qui caractérise Roger Nimier s’est exercée dès le début à la fois dans le roman, la chronique et la critique. Mais elle a aussi conduit l’écrivain à jouer un personnage. Ce Cahier en esquisse donc la mise en scène, avant de s’attacher successivement aux trois volets de l’oeuvre.

Entretien, journal poème, correspondances et autres formes, un matériau varié tente de rendre cette multiplicité à travers le temps.

Tout au long de ce volume, afin de restituer l’écrivain dans sa diversité, documents originaux et témoignages entrent dans une polyphonie de points de vue. Celle-ci s’oppose délibérément à une vision dont la cohérence serait dictée par la volonté de prouver, ou inspirée par le seul souci d’admirer.

Si l’oeuvre compte une quinzaine de volumes, ce Cahier étend la connaissance de l’auteur en rendant accessibles d’importants écrits encore dispersés, ou totalement inédits.
Pour l’interprétation, il apporte les analyses actuelles de critiques et d’écrivains, sans exclure la reprise d’articles significatifs ou fondateurs.

Ainsi se développe une réponse à la question que posent une oeuvre et une figure qui résistent incontestablement au temps. Ainsi surtout peut naître, on l’espère, la tentation de relire Roger Nimier, ou de le découvrir enfin.

 
Roger Nimier, L'Herne, 384 pages, 39 €, 2012.
Commande possible sur Amazon.fr.
 

Produire des « Etats Ratés »

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Produire des « Etats Ratés »

Global Research, septembre 08, 2012 - http://www.mondialisation.ca/
Z Magazine
 

Africas-Failed-States.jpgEn réalité ledit géant faussement paranoïaque s’est démené comme un beau diable pour produire des semblants de menaces à peu près crédibles, surtout depuis la chute de « l’empire du mal » que ce pays avait toujours prétendu « contenir ». Dieu merci, après quelques tentatives sporadiques de cristalliser l’attention sur le narco-terrorisme, puis sur les armes de destruction massive de Saddam Hussein, le terrorisme islamique tomba littéralement du ciel pour offrir à cette défunte menace un digne successeur, découlant tout naturellement de l’hostilité du monde arabe aux libertés américaines et de son refus de laisser à Israël la possibilité de négocier la paix et de régler pacifiquement ses désaccords avec les Palestiniens.

En plus d’optimiser les massacres et les ventes d’armes qui en découlent, les États-Unis devenaient aussi de facto le premier producteur d’États ratés, à l’échelle industrielle. Par État raté, j’entends un État qui, après avoir été écrasé militairement ou rendu ingérable au moyen d’une déstabilisation économique ou politique et du chaos qui en résulte, a presque définitivement perdu la capacité (ou le droit) de se reconstruire et de répondre aux attentes légitimes de ses citoyens. Bien sûr, cette capacité de production des États-Unis ne date pas d’hier – comme le montre l’histoire d’Haïti, de la République Dominicaine, du Salvador, du Guatemala ou de ces États d’Indochine où les massacres marchaient si bien. On a d’ailleurs pu constater récemment une prodigieuse résurgence de cette production d’États ratés, occasionnellement sans hécatombes, comme par exemple dans les ex-républiques soviétiques et toute une kyrielle de pays d’Europe de l’Est, où la baisse des revenus et l’accroissement vertigineux du taux de mortalité découlent directement de la « thérapie de choc » et de la mise à sac généralisée et semi-légale de l’économie et des ressources, par une élite appuyée par l’Occident mais aussi plus ou moins organisée et soutenue localement (privatisation tous azimuts, dans des conditions de corruption optimales).

Une autre cascade d’États ratés découlait par ailleurs des « interventions humanitaires » et changements de régime menés par l’OTAN et les USA, plus agressivement que jamais depuis l’effondrement de l’Union Soviétique (c’est à dire depuis la disparition d’une « force d’endiguement » extrêmement importante bien que très limitée). Ici, l’intervention humanitaire en Yougoslavie a servi de modèle. La Bosnie, la Serbie et le Kosovo furent changés en États ratés, quelques autres s’en sortirent chancelants, tous assujettis à l’Occident ou à sa merci, avec en prime la création d’une base militaire US monumentale au Kosovo, le tout érigé sur les ruines de ce qui avait jadis été un État social démocrate indépendant. Cette belle démonstration des mérites d’une intervention impériale inaugura la production d’une nouvelle série d’États ratés : Afghanistan, Pakistan, Somalie, Irak, République Démocratique du Congo, Libye – avec un programme similaire déjà bien avancé aujourd’hui en Syrie et un autre visiblement en cours dans la gestion de la dite « menace iranienne », visant à renouer avec l’heureuse époque de la dictature pro-occidentale du Shah.

Ces échecs programmés ont généralement en commun les stigmates caractéristiques de la politique impériale et d’une projection de puissance de l’Empire. Ainsi par exemple l’émergence ou/et la légitimation (ou la reconnaissance officielle) d’une rébellion ethnique armée qui se pose en victime, mène contre les autorités de son pays des actions terroristes visant parfois ouvertement à provoquer une réaction violente des forces gouvernementales, et qui appelle systématiquement les forces de l’Empire à lui venir en aide. Des mercenaires étrangers sont généralement amenés à pied d’œuvre pour aider les rebelles ; rebelles indigènes et mercenaires étant généralement armés, entraînés et soutenus logistiquement par les puissances impériales. Ces dernières s’empressent bien sûr d’encourager et soutenir les initiatives des rebelles pour autant qu’elles leur paraissent propres à justifier la déstabilisation, le bombardement et finalement le renversement du régime cible.

Le procédé était flagrant durant toute la période du démantèlement de la Yougoslavie et dans la production des États ratés qui en sont issus. Les puissances de l’OTAN ayant alors pour objectif l’éclatement de la Yougoslavie et l’écrasement de sa composante la plus importante et la plus indépendante, à savoir la Serbie, elles encouragèrent à la rébellion les éléments nationalistes des autres républiques de la fédération, pour lesquelles le soutien voire l’engagement militaire de l’OTAN sur le terrain était naturellement acquis. Le conflit n’en fut que plus long et vira au nettoyage ethnique, mais pour ce qui est de la destruction de la Yougoslavie et de la production d’États ratés, ce fut une réussite (Cf. Herman et Peterson, “The Dismantling of Yugoslavia,” [Le démantèlement de la Yougoslavie], Monthly Review, octobre 2007). Assez curieusement, c’est avec l’aval et la coopération de l’administration Clinton et de l’Iran qu’on importa entre autres mercenaires, des éléments d’Al-Qaïda en Bosnie puis au Kosovo, pour aider à combattre le pays cible : la République Serbe[4]. Mais Al-Qaïda comptait aussi parmi les rangs des “combattants de la liberté” engagés dans la campagne de Libye, et elle est aussi une composante notoire (même le New York Times le reconnaît désormais, fut-ce avec un peu de retard) du changement de régime programmé en Syrie (Rod Nordland, “Al Qaeda Taking Deadly New Role in Syria Conflict”, New York Times, 24 juillet 2012). Bien sûr, Al-Qaïda avait aussi été auparavant une pièce maîtresse du changement de régime [de 1996][5] en Afghanistan, puis un élément clé du retournement de situation du 11 septembre (Ben Laden, leader rebelle saoudien de premier rang, d’abord sponsorisé par les États-Unis, puis lâché par ses sponsors, se serait ensuite retourné contre eux avant d’être diabolisé puis éliminé par ces derniers).

Ces programmes impliquent toujours une habile gestion des atrocités commises, qui permet de pouvoir accuser le gouvernement agressé d’avoir commis des actes de violence graves à l’encontre des rebelles et de leurs partisans, et ainsi de le diaboliser efficacement afin de pouvoir justifier une intervention plus massive. Cette méthode a joué un rôle clé pendant les guerres de démantèlement de la Yougoslavie, et probablement bien davantage encore dans la campagne de Libye et dans celle de Syrie. Elle doit d’ailleurs beaucoup à la mobilisation d’organisations internationales, qui prennent activement part à cette diabolisation en dénonçant les atrocités imputables au dirigeant visé, voire en le poursuivant et condamnant d’office au pénal. Dans le cas de la Yougoslavie, le Tribunal Pénal International pour l’ex Yougoslavie (TPIY), mis en place par l’ONU, travailla main dans main avec les puissances de l’OTAN pour s’assurer que la seule mise en accusation des autorités serbes suffirait à justifier toute action que les USA et l’OTAN décideraient d’entreprendre. Magnifique illustration cette mécanique, la mise en examen de Milosevic par le Procureur du TPIY fut lancée précisément au moment où (en mai 1999) l’OTAN décidait de bombarder délibérément les infrastructures civiles serbes pour accélérer la reddition de la Serbie – alors que ces bombardements mêmes étaient des crimes de guerre caractérisés menés en totale violation de la Charte des Nations Unies. Or c’est précisément le procès de Milosevic qui permit aux médias de détourner l’attention du public des exactions désobligeantes et illégales de l’OTAN.

De même, à la veille de l’agression de la Libye par l’OTAN, le procureur de la Cour Pénale Internationale (CPI) s’empressa de lancer des poursuites contre Mouammar Kadhafi sans même avoir jamais demandé le lancement d’une investigation indépendante, et alors qu’il était notoire que la CPI n’avait jusqu’ici jamais poursuivi personne d’autre que des chefs d’États africains non alignés sur l’Occident. Ce curieux mode de « gestion de la légalité » est un atout inestimable pour les puissances impériales et s’avère extrêmement utile dans la perspective d’un changement de régime comme dans la production d’États ratés.

Interviennent aussi des organisations humanitaires ou de « promotion de la démocratie », soi disant indépendantes, à l’instar de Human Rights Watch, de l’International Crisis Group ou de l’Open Society Institute, qui régulièrement se joignent au cortège impérial en dressant l’inventaire des seuls crimes possiblement imputables au régime cible et à ses dirigeants, ce qui contribue notablement à radicaliser la polarisation des médias. L’ensemble permet la production d’un environnement moral favorable à une intervention plus agressive au nom de la défense des victimes.

S’ajoute ensuite le fait que, dans les pays occidentaux, les dénonciations ou allégations d’atrocités commises – que viennent renforcer les images de veuves éplorées et de réfugiés démunis, les preuves apparemment patentes d’exactions odieuses et l’émergence d’un consensus sur la « responsabilité de protéger » les populations victimes du conflit – émeuvent profondément une bonne partie des milieux libertaires et de gauche. Nombre d’entre eux en viennent alors à hurler avec les loups et à s’en prendre eux aussi au régime cible, pour exiger une intervention humanitaire. Les autres s’enfoncent généralement dans le mutisme, rendus perplexes, certes, mais craignant surtout de se voir accusés de « soutenir des dictateurs ». L’argument des interventionnistes est que, au risque de sembler soutenir l’expansion de l’impérialisme, on se doit de faire exception lorsque des choses particulièrement graves ont lieu et que tout le monde chez nous s’indigne et demande qu’on intervienne. Mais on se doit aussi, pour se montrer authentiquement de gauche, de tenter une micro-gestion de l’intervention pour contenir l’attaque impériale – en exigeant par exemple qu’on s’en tienne à une interdiction de survol en Libye[6].

Mais les États-Unis eux-mêmes ne sont pas l’une des moindres réussites de cette production d’États ratés. A l’évidence, aucune puissance étrangère ne les a jamais écrasés militairement, mais la base même de leur propre population a payé un tribut extrêmement lourd à leur système de guerre permanente. Ici, l’élite militaire, de même que ses alliés du monde de l’industrie, de la politique, de la finance, des médias et de l’intelligentsia, a très largement contribué à l’aggravation de la pauvreté et de la détresse généralisée, à la désintégration des services publics et à l’appauvrissement du pays, en maintenant la classe dirigeante, paralysée et compromise, dans l’incapacité de répondre correctement aux besoins et attentes de ses citoyens ordinaires, malgré l’augmentation constante de la productivité par tête et du PNB. Les excédents y sont intégralement captés par le système de guerre permanente et par la consommation et l’enrichissement d’une petite minorité qui – dans ce que Steven Pinker dans Better Angels of Our Nature appelle une période de « recivilisation » – combat agressivement pour pouvoir mener sa captation bien au-delà de la simple monopolisation des excédents, jusqu’au transfert direct des revenus, biens et droits publics de la vaste majorité de ses concitoyens (qui se démènent). En tant qu’État raté comme dans bien d’autres domaines, les États-Unis sont incontestablement une nation d’exception !

 

Article original en anglais : FOG WATCH: Manufacturing Failed States by Edward S. Herman

Traduit de l’anglais par Dominique Arias pour Investigaction.

Edward S. Herman est Professeur Émérite de Finance à la Wharton School, Université de Pennsylvanie. Économiste et analyste des médias de renommée internationale, il est l’auteur de nombreux ouvrages dont : Corporate Control, Corporate Power (1981), Demonstration Elections (1984, avec Frank Brodhead), The Real Terror Network (1982), Triumph of the Market (1995), The Global Media (1997, avec Robert McChesney), The Myth of The Liberal Media: an Edward Herman Reader (1999) et Degraded Capability: The Media and the Kosovo Crisis (2000). Son ouvrage le plus connu, Manufacturing Consent (avec Noam Chomsky), paru en 1988, a été réédité 2002 aux USA puis en 2008 au Royaume Uni.

 

Notes :


 


[1] Ndt : États ratés (failed states), terme de diplomatie internationale qui désigne les États incapables de maintenir ou développer une économie saine, fait écho à « rogue states » (États voyous) et à « smart states » (États malins : en l’occurrence ceux qui, à l’instar des États-Unis, évitent de déclencher et de mener officiellement eux-mêmes les guerres qui leur profitent.

[2] Ndt : Proxies, groupes paramilitaires ou mercenaires formés, armés, financés et soutenus ou dirigés par une ou plusieurs Grandes puissances pour déstabiliser un pays cible. Les conflits dits « de basse intensité » ou « dissymétriques » menés ainsi indirectement sont appelés « proxy wars ». bien que souvent présentée comme telle, une proxy war est tout sauf une guerre civile.

[3] Ndt : Dans les médias et le cinéma américain, les États-Unis sont fréquemment représentés comme un pauvre « géant pitoyable », malhabile et balourd. Cette représentation permet de minorer les crimes de guerre et crimes contre l’humanité commis délibérément et sciemment par ce pays, en les faisant passer pour autant de bourdes et de maladresses parfaitement involontaires. Le terme  « casualties » (négligences) désigne par exemple les victimes civiles d’exactions militaires, lorsque celles-ci sont commises par les USA ou leurs alliés.

[4] Cf. : Unholy Terror [terreur impie ou invraisemblable ou contre nature, l'acception de Unholy étant très large], de John Schindler, article particulièrement démonstratif sur ce sujet et qui, de fait, n’apparaît plus nulle part, sauf sur Z-Magazine ! Voir ici mon “Safari Journalism: Schindler’s Unholy Terror versus the Sarajevo Safari’s Mythical Multi-Ethnic Project”, Z Magazine, avril 2008

[5] Ndt : Afghanistan : Renversement de la monarchie 1978

Invasion soviétique en soutien au nouveau régime : 1979-1989

Guerre civile pro/anti-islamistes :1990-1996

Coup d’État et prise de pouvoir des Talibans : 1996

Début de l’intervention de Ben Laden dans le conflit : 1984

Création d’Al-Qaïda : 1987

[6] Cf. Gilbert Achcar, “A legitimate and necessary debate from an anti-imperialist perspective,” [Un débat légitime et nécessaire à partir d’une perspective anti-impérialiste] ZNet, 25 mars 2011; et ma réponse dans “Gilbert Achcar’s Defense of Humanitarian Intervention,” [Gilbert Achar prenant la défense d’une intervention humanitaire] MRZine, 8 avril 2011, concernant “les finasseries de la gauche impérialiste”.

mardi, 02 octobre 2012

La invasión musulmana de Hispania. De Guadalete a Covadonga (711-722)

La invasión musulmana de Hispania. De Guadalete a Covadonga (711-722)

por José Fermín Garralda Arizcun

El artículo valora la importancia histórica del tema, su marco histórico y el desgarro interior de Hispania como causa de la invasión musulmana, las cuatro primeras expediciones, deteniéndose en el misterioso “conde don Julián”, la expedición de contacto de Tarif y la expedición de invasión, la batalla de Guadalete y la expedición de conquista por Musa. Y termina con una reflexión sobre la “Pérdida y recuperación de España”

Don_Pelayo.jpg1. Importancia histórica de un gran tema

Llama la atención –introduzcamos- que, en este año de 2011, se guarde silencio sobre el 1.300 aniversario de la invasión de Hispania por los musulmanes. No se trata de una conmemoración, sino de un recuerdo que por varios motivos no puede dejarse de hacer.

No preguntemos el por qué de este silencio. Las Armas del Gobierno español están hoy combatiendo en la Libia de Gadafi, con sus bien buscados aliados. No sabemos si el motivo del silencio es no querer excitar a los musulmanes recordándoles su invasión de Hispania, convertida hoy en un lugar de reciente e intensa emigración, mientras España combate en Libia en apoyo a los rebeldes al Gobierno constituido. No creemos que recordar aquella invasión de 711 implique, sin más, poner hoy guardia a unos u otros, pues ello mostraría una escasa madurez personal y social por una u otra parte. Ahora bien, creo que “la cosa” no va por ahí. Es mejor pensar que el silencio sobre el significado del año 711 es porque Guadalete supone hablar de Covadonga (722).

 


Este tema, es uno de los principales de la historia de la Cristiandad occidental, Según el historiador José Orlandis:

“(…) el dramático y repentino final del Reino visigodo español fue una catástrofe histórica tan absoluta y de tal magnitud que resulta comprensible que, a lo largo de doce siglos, las generaciones sucesivas no hayan cesado de plantearse interrogantes y proponer respuestas que pueden dar la clave de un acontecimiento que todavía hoy sigue resultando sorprendente”.
 
Este acontecimiento conlleva muchas sorpresas. Sorpresas sobre quienes trajeron a los norteafricanos, sobre la enorme ingenuidad política de aquellos agentes, sobre los aliados internos de los musulmanes (un vasto clan nobiliario, algunos clérigos politizados, y la minoría hebrea), sobre lo que se pudo hacer por parte de los hispano visigodos y no se hizo como fue una sana reacción, y sobre la reacción final de una minoría cristiana que, si bien estaba interinamente vencida, no se dejaba derrotar. Tras un grano como semilla –la Fe religiosa- salieron cinco Reinos hispánicos y, al fin, la corona de las Españas, o de España, según se prefiera.

Sorprende la rapidez y contundencia como los musulmanes subordinados al califato Omeya de Damasco se impusieron a la monarquía visigoda, que daba una imagen de poder. Sorprende cómo los invasores provocaron el hundimiento, por arte de ensalmo, de una monarquía hispano goda, que parecía consolidada después de tres siglos. Sorprende el final de toda la estructura política, social, cultural y económica de un reino como el visigodo, que junto con el reino Franco y quizás el reino Ostrogodo, fue uno de los pocos reinos importantes que configuraron los germanos tras invadir el Imperio romano.

Este desplome fue sorprendente e inesperado tanto para los cristianos como para los musulmanes, y, lógicamente, también para los traidores al último rey hispanogodo, Rodrigo. Pues bien, esta larga y ardua página preparatoria que se abrirá de ocho siglos de historia de España, la continuarán la labor de España en la Cristiandad europea durante los 200 años posteriores, y la recreación de toda América, inmenso continente de inconmensurable espacios y grandiosa belleza, con una población sinceramente católica e hispánica al menos hasta hoy.

Sorprende que un reducido o discreto Ejército musulmán, tuviese tan buenos resultados, y ocasionase el hundimiento de su enemigo, el reino visigodo. De por sí, la invasión sólo podía producir algún quebranto, ya por el número de los combatientes, ya porque su retaguardia estaba muy alejada de la península, ya porque el nexo de unión de ambos lados del Estrecho era tan frágil como la inexperiencia naval de los musulmanes.

En conclusión: las razones del hundimiento de la monarquía visigoda hay que buscarlas sobre todo en el lado hispano. Por eso, hay que explicar previamente la crisis de la monarquía goda.

 

Ahora bien, a pesar de la crisis interna y global de Hispania, lo decisivo para el hundimiento del reino de Toledo fue la invasión del Islam. Lejos de la hipótesis estructural, afirmará Orlandis:

 

“Esta crisis intestina, que le restó capacidad de resistencia (al reino visigodo), facilitó el hundimiento de la Monarquía visigoda ante el empuje musulmán. Pero hay que reconocer que la invasión árabe fue el factor capital en la desaparición del Reino de Toledo y que el curso de los acontecimientos hubiera sido, con toda probabilidad, completamente distinto, de no haberse producido el asalto procedente del exterior”.

 

 

Veremos que la derrota visigoda frente al Islam se debió particularmente a los aspectos siguientes: a la división entre la nobleza goda, a la decadencia moral del rey Witiza, la traición del clan de los witizanos una vez fallecido el rey Witiza, y a las agitadas actividades de la minoría judía, que tanto había sufrido durante algunos reinados godos, aunque hubiese prosperado mucho en el último gobierno del rey Witiza. Es decir, el reino visigodo cayó por la sorpresa de los hispanogodos y no darse cuenta de lo que estaba ocurriendo, por la división política, por el juego del invasor de presentarse como aliado de una facción nobiliaria, por la falta de jefes naturales, por la incapacidad para unirse frente a un enemigo común, por la falta de una reacción a tiempo confiando en que “no pasaba nada” esencialmente diferente a lo vivido hasta entonces, por la crisis que atravesaban no pocos eclesiásticos, la inmoralidad de costumbres en las élites, y las complicidades interiores con los invasores.

Sabemos que el año 711 fue el comienzo de una larga invasión, pues durante 800 años se sucedieron las invasiones islámicas de la península Ibérica desde el Norte de África. Si bien comenzaron con el conde don Julián, Tariq y Musa, después llegarán aportes sirios y árabes y, sobre todo, numerosas oleadas musulmanas, norteafricanas y guerreras hasta el fanatismo, de almorávides (siglo XII), almohades (siglo XIII, con las Navas de Tolosa en 1212) y los benimerines (siglo XIV). Ahí está también la amenaza turca sobre la Granada de Boabdil, amenaza continuada en los siglos XVI y comienzos del XVII. Incluso Felipe V de Borbón, llevó sus Armas al Norte de África a comienzos del s. XVIII.

Conocíamos las responsabilidades del conde don Julián, pero no creíamos que fuesen tantas. No obstante, como no hay mal que por bien no venga, al fin se formó España, dominadora del Orbe, cuna de San Ignacio, espada de Roma, cuya constitución y grandeza fue la unidad católica, pues, como decía Menéndez y Pelayo sobre la unidad de España, España no tiene otra unidad.

2. Marco Histórico y desgarro interior de Hispania como causa de la invasión musulmana

2.1. Desgarro Interior

En la monarquía hispano goda se había roto el espíritu público, esto es, el concepto de pueblo y de monarquía para el bien común. ¿Por qué? Citemos varios motivos:

1º Las clientelas nobiliarias originaron fuertes clanes político-familiares, y a menudo estos se enfrentaron entre sí por el poder del trono. La aristocracia visigoda, antaño guerrera, originó enfrentamientos en su seno. Incluso politizó a los obispos de Sevilla y Toledo, que eran del clan witizano. Los visigodos habían perdido sus virtudes castrenses. Debido a esta división, las resistencias que los hispanogodos presentaron a los islamitas fueron aisladas; de ofrecer un frente común, los musulmanes no podían haber aguantado debido a su escaso número y al ir desplazándose hacia el norte lejos de sus bases de abastecimiento.

2º La desmoralización popular se refleja en la excesiva carga fiscal y la desmovilización militar del pueblo. Aumentó mucho el número de siervos fugitivos, así como el de suicidios, que llegó a preocupar a los obispos hispanogodos, lo que muestra el desequilibrio psíquico de muchos individuos. Por su parte, el holandés Dozy ha pintado un oscuro retrato de la sociedad hispano visigoda y de la Iglesia en Hispania, debido quizás a su fanatismo anticlerical. Más bien habrá que señalar que dicha Iglesia ofreció resistencia al nuevo estado de cosas y que estimulará los núcleos de resistencia en las montañas del norte de Hispania.

3º La crisis económica se expresó en el envilecimiento de la moneda, y el enrarecimiento del comercio exterior. Ahora bien -y fruto de un inmoderado afán de acumular síntomas de decadencia-, no se debe incidir demasiado en ella, porque también existieron otras crisis –hambres y pestes- durante las dos centurias anteriores, por ejemplo en los reinados de Ervigio y Egica (Orlandis). Si hubo hambres en los años 707 y 709, en 710 hubo una estupenda cosecha.

4º Fue continuo el conflicto con los judíos debido a las prevaricaciones de los falsos conversos. Ello hizo que los Concilios XII, XIII y XVI de Toledo decretasen unos cánones restrictivos para su libertad. A ello los hebreos sumaron diversas conspiraciones, sobre todo la del año 694, fraguada entre los hebreos hispanos y los de Ultramar, provocando así la singular dureza en los cánones del Concilio XVII de Toledo. En este punto, observo una dicotomía entre la prudencia de Orlandis y lo que recogen otros autores. Para Orlandis: “Es imposible comprobar lo que pudiera haber de verdad en estas noticias, aunque la conducta observada por los judíos españoles cuando se produjo la invasión islámica obliga –dice- a no descartarlas a priori como una pura invención”. Por otra parte, ¿no es difícil que todo un concilio inventase semejante conspiración? Menéndez y Pelayo da por cierta dicha conspiración “contra la seguridad del Estado”. También la afirma el holandés Dozy, aportando interesantes detalles, confirmados por la Enciclopedia Judaica Castellana. Dozy señala que:

“(…) hacia 694 (…) proyectaron una sublevación general, de acuerdo con sus correligionarios de allende del Estrecho, donde varias tribus beréberes profesaban el Judaísmo y donde los judíos desterrados de España habían encontrado refugio. La rebelión probablemente debía estallar en varios lugares a la vez, en el momento en que los judíos de África hubiesen desembarcado en las costas de España (…)”.

También será muy importante la aportación de los hebreos en la preparación y desarrollo de la invasión islamita, desde alentar a los islamitas a realizar la invasión, y darles medios, hasta ayudarles a mantener con guarnición las ciudades que los islamitas y witizanos conquistaban

5º La crisis eclesiástica afectó al clero y sobre todo al episcopado, lo que choca con la labor de los 17 concilios toledanos, y las grandes figuras de la Iglesia hispanogoda, por ejemplo san Julián de Toledo que convocó el XV Concilio y, san Félix, arzobispo de Toledo, que convocó el XVII Concilio en esta ciudad. Así pues, entre los obispos hubo una progresiva germanización y una cada vez mayor presencia aristocrática. Que hubiese más talante señorial que espíritu eclesiástico, lo muestran don Oppas, arzobispo de Sevilla, y Sisberto, obispo de Toledo.

6º Es muy posible que los witizanos creyesen al comienzo que los musulmanes iban únicamente a apoyarles para que accediesen al trono, y que luego tendrían que darles la recompensa. Esta bien podría ser la plaza de Ceuta, tesoros, o bien una parte del sur de España como Atanagildo hizo y entregó a los bizantinos por el apoyo prestado.

7º Es muy probable que los hispanogodos no advirtiesen el peligro que suponía la presencia y correría islamita. Quizás creyesen que los witizanos debían seguir apoyándose en los musulmanes al no haber vencido totalmente a los partidarios de Rodrigo, o bien porque este último estaba vivo.

A ello se suma el empuje de la guerra santa de los islamitas dispuesta en el Corán y seguida literalmente durante los primeros siglos. En realidad, el Corán no admite interpretaciones. Esta nueva y joven religión ofrecía una mística de combate superior al espíritu desprevenido de los hispanos, y sobre todo al hecho de que estos no advertían el peligro que suponían los invasores.

2.2. Marco Histórico

El marco fue el siguiente. El rey Egica (687-702), que fue un monarca enérgico, quiso garantizar la sucesión al trono asociando a él a su hijo Witiza, que por vía de aprendizaje y cooptación fue enviado a gobernar el antiguo reino de los suevos, allá en Galicia. Witiza fue ungido rey de Gallecia en el año 700. Ambos, Egica y Witiza -padre e hijo- hicieron frente a varias sublevaciones nobiliarias, que reprimieron con dureza, apartando a los culpables de cargos del oficio palatino y confiscándoles sus bienes. Seguramente fue Egica quien de ambos más decisión mostró en la represión de los rebeldes.

Muerto Egica, su hijo Witiza fue el único rey (702-710). Witiza inició una política de atracción de los nobles desobedientes pero sin resultado alguno. Si inicialmente dio pruebas de ser un buen rey, al poco tiempo mostró una gran debilidad política, corrupción moral, anuló la legislación antijudía para a continuación favorecer mucho a los hebreos. A pesar de ello, Witiza sufrió la sublevación de un tal Pelayo, hijo del Fafila que había muerto en sus manos por ser responsable de una anterior sublevación. Pues bien, parece que este Pelayo fue el caudillo e Covadonga, el primer caudillo o príncipe –no rey- de Asturias.

Según Albanés, el despotismo de Witiza hizo que el célebre Eudon (algún autor dice que seguramente hebreo) provocase una conjura, de modo que la nueva junta o senado creado pensó como rey en Rodrigo, nieto de Receswinto. En breve, en el año 710 murió Witiza, joven, con menos de 30 años. Dejó tres hijos: Akhila, Olmundo y Ardabastro. ¿Quién ocupará un trono ambicionado por los linajes o clanes? Según unos, la mayoría de los nobles legalizó el reinado de Rodrigo, y según otros –los que omiten la conjura de Eudon- la aristocracia rechazó los intentos de poner a Akhila, “y procedió a la designación de un sucesor a la corona, sistema raramente aplicado en la práctica, pero (…) legal” (Orlandis). A efectos prácticos era lo mismo. Ocupó el trono un nuevo rey, Rodrigo. Aunque este era, sin duda, el rey legítimo, sufrirá la sublevación de los seguidores de los hijos de Witiza, que se apoyarán en los islamitas (y hebreos, que habían sufrido la legislación y política hispano goda) para ser después conquistados por los guerreros del Islam. El clan witizano dirigido por los hermanos del difunto Witiza –don Oppas obispo de Sevilla y Sisberto arzobispo de Toledo- “no se resignará a su derrota y planeó la conquista del trono con ayuda extranjera” (Orlandis). No obstante, la ayuda exterior no era algo nuevo, pues Atanagildo había logrado ser rey con auxilio de Bizancio en el año 555, y Sisenando con apoyo del reino franco en el 631.

Al otro lado del estrecho, aunque todavía no alzado el poder musulmán, los witizanos podían apoyarse en los muslines. Por su parte, independientemente o de forma coordinada, también podían actuar los hebreos favorecidos por Witiza entre los no pocos hebreos expulsados de Hispania. Es ahora cuando entra en escena el conde don Julián, que introdujo a los musulmanes en España.

3. Las cuatro primeras expediciones

3.1. El misterioso Conde D. Julián


El llamado conde don Julián era -al parecer- de origen bizantino, aunque pudiera ser godo o tener otro origen. Recordemos que Bizancio estuvo presente en el Norte de África, desde Cartago a Ceuta, desde el s. VI. Don Julián –la leyenda le llamará “conde don Julián”- era tributario o “cliente” de Witiza. Existen relatos legendarios que nos refieren los ultrajes que recibió del rey don Rodrigo, de los que prescindimos además de no ser creíbles. Mandaba el presidio de Ceuta, que quizás fuese el refugio más perfecto para los witizanos ansiosos de la revancha contra Rodrigo. Fue el intermediario del grupo witizano. Pues bien, ¿de qué fue responsable ante la Historia el conde don Julián, si prescindimos de la fantástica reivindicación de don Julián por el novelista Juan Goytisolo (México, 1966)?

El conde entró en contacto con el gobernador árabe de la zona occidental de África del Norte, llamado Musa-ben-Nusayr, que buscaba consolidar el dominio musulmán en la zona de Magreb. Recordemos el escaso éxito que tuvo la religión islámica entre los beréberes. Musa residía en Trípoli, y tenía su segundo, un tal Tarik, gobernando el Magreb (Marruecos) con sede en Tánger.

Las primeras proposiciones de don Julián a Tarik inspiraron a los musulmanes serios recelos. A ello se añadía la gran dificultad de los musulmanes para cruzar el estrecho, debido al hecho de desconocer del arte de la navegación, a carecer de barcos, y a convertirse el Estrecho en un mar bravío por la confluencia de las aguas atlánticas y mediterráneas.

Don Julián quiso convencer a los musulmanes ofreciéndoles hechos y no sólo palabras. Así, hizo una expedición de sondeo dirigida contra la península, formada sólo por cristianos. Esta expedición regresó a Ceuta a finales de 709 con mucho botín y la importante información de la falta de resistencia visigoda. La noticia llegó a Musa y, después, al califa de Damasco. Interesa saber que el califa omeya estaba al tanto de estos asuntos. Los musulmanes mostraron suspicacias, además del temor del califa porque las recientes conquistas musulmanas todavía no se habían consolidado. Crecer en territorios y población sin consolidar la ocupación del lugar podía ser muy contraproducente.

Por parte musulmana todo eran suspicacias, incapacidades y temores, mientras que por parte de don Julián, los witizanos y los hebreos, todo era allanar caminos, dar apoyos, y mostrar facilidades de botín.

En efecto, los muslines no actuaban solos. Según Sánchez-Albornoz:

“Tariq y Muza contaron enseguida con dos formidables quintas columnas: los witizanos, que constituían una facción nobiliaria y poderosa, y los judíos, hasta allí perseguidos, y en tres años conquistaron raudos Hispania” (Sánchez-Albornoz, “El drama de la formación…”).

3.2. La expedición de contacto de Tarif

En julio de 710, un puñado de 400 hombres al mando de Tarif-ben-Malluk, que era un liberto, embarcaron en cuatro navíos proporcionados, al parecer y de nuevo, por el conde don Julián. Los 400 hombres se distribuían en 300 infantes y 100 caballeros. Desembarcaron en Tarifa, lugar que recibió el nombre del jefe musulmán. La expedición de saqueo (gazúa) fue un éxito, pues, sin encontrar resistencia alguna, se tomó un abundante botín, del que destacaban bellas mujeres. La codicia del desierto parecía insaciable: disminuyeron los recelos y los magrebíes decidieron emprender campañas más potentes, con idea incluso de intervenir en la península de una forma sólida y efectiva. La expedición fue de contacto y una tentativa exitosa.

3.3. Tarik y la expedición de Invasión. La Batalla de Guadalete (711-714)

Debido al botín recogido, Muza envió una nueva expedición de invasión y conquista. La dirigió un guerrero diferente al anterior: Tarik ben Ziyad (Tariq o Taric). Para unos autores era una persona de oscuro origen. Manuel Riu señala que era persa de Hamadán. Ello no impide que según el rabino Jacob S. Raisin, Tarik era “un judío de la Tribu de Simeón”, hijo de Cahena, converso al Islam. Tarik gobernaba Tánger a las órdenes de Musa. Debido al éxito de la anterior expedición, la nueva gazúa la componían las cuatro naves ya utilizadas, más otras nuevas, buscando con ellas mantener un tráfico fluido entre las dos columnas de Hércules, a ambos lados del estrecho. De nuevo intervino el conde don Julián para asesorar sobre el terreno y para aportar la colaboración de sus partidarios.

Según el rabino Raisin, la invasión de la España goda la realizaron “doce mil judíos y moros”. La expedición estuvo bien preparada porque aprovechó la ocasión de que el rey Rodrigo estaba muy ocupado combatiendo una rebelión al Norte de España, al parecer contra los vascones sublevados en Pamplona. Según R. C. Albanés, esta sublevación la promovió la comunidad hebrea de dicha Pompaelo.

¿La fecha de la invasión?: el 27-IV-711. La expedición llegó a Calpe, que luego se llamará Gibraltar (de Yabal Tarik o montaña de Tarik). Con la retaguardia en Gibraltar, Tarik se dirigió a la bahía de Algeciras, que llamarán “Isla Verde”. Como sólo tenía 7.000 hombres y todavía muchos recelos hacia la oferta de don Julián, debía tener precauciones. Entre dichos hombres había una gran mayoría de berberiscos y libertos, y sólo unos 50 árabes. Pensó ir a Sevilla, para lo cual solicitó refuerzos. A pesar de que su superior Musa le envió 5.000 beréberes –lo que indica que estaba muy comprometido-, y los witizanos le apoyaron fuertemente, estos 12.000 hombres todavía no eran suficientes para que Tarik tomase la iniciativa. Esto es significativo de la insuficiencia y escaso número de musulmanes llegados de África durante mucho tiempo, lo que refleja los graves errores de los hispanogodos.

A las dos o tres semanas de la invasión, la noticia llegó al monarca don Rodrigo. Conocedor de lo que ocurría en la Bética, el rey se trasladó con rapidez a Córdoba, donde organizó un ejército de 40.000 soldados. Una pregunta surge ahora: ¿es que el monarca visigodo era un simple sargento al ir de aquí para allá, en vez de tener un Ejército organizado con unos mandos capaces de todo?

Inicialmente, los musulmanes eran colaboradores de una insurrección witizana contra el rey legítimo que era Rodrigo. Pero pronto fue al revés. No obstante, las dudas de Tarik no eran infundadas debido a los escasos apoyos que recibían los witizanos por parte de la población. Como los refuerzos recibidos de África no eran tan elevados, y quizás porque los beréberes habían sido convertidos al Islam recientemente, Tarik solicitó ayuda por segunda vez.

Rodrigo, reunió en Córdoba a los nobles hispanogodos, y quizás pensó que la rapidez sería su mejor aliada, para que los refuerzos africanos no se uniesen con los witizanos de Sevilla. En Sevilla estaba don Oppas y en Toledo don Sisberto, con sus tropas, ambos arzobispos traidores y hermanos de Witiza.

La batalla de Guadalete.
Sánchez Albornoz ha estudiado con detalle la localización del lugar de la batalla y las primeras actuaciones de los invasores. El lugar de la batalla fue la orilla del río Guadalete (Wadi-Lakka), cerca de Arcos de la Frontera. Riu señala que fue a orillas del río Guadarranque, entre la Torre de Cartagena y Gibraltar. Los árabes hablan de cien mil cristianos, pero es una cifra exagerada para magnificar la victoria de los invasores. Tarik tenía unos 17.000 beréberes y africanos, a los que se sumaron los witizanos.

La batalla de Guadalete se desarrolló entre el 19 al 26 de julio, quizás el día 23. El factor decisivo fue la formación del Ejército de don Rodrigo, pues las alas estaban dirigidas por los partidarios de Akhila -hijo del difunto rey Witiza-, concretamente por los witizanos el arzobispo de Sevilla, don Oppas, y Sisberto, arzobispo de Toledo ya citados. La batalla duró dos días, con ventaja inicial para los visigodos debido a la caballería de la que carecían los berberiscos. Ahora bien, en el momento en el que los islamitas quisieron retroceder ya en lo más duro del combate, las alas del ejército con el arzobispo Oppas se retiraron y cambiaron sus armas de dueño, dejando solo a don Rodrigo en el centro del ataque general. Don Julián también estaba ahí. El rey visigodo fue incapaz de frenar el choque en condiciones tan desiguales, y fue derrotado.

Al parecer, Rodrigo murió en la batalla y su cadáver fue río abajo, pues se encontró a su caballo, sólo, junto a la orilla. Ahora bien, es posible que el cadáver no encontrado fuese recogido por los fieles o “gardingos” del séquito del rey, pues según la “Crónica Rotense” (s. IX), en la población portuguesa de Viseo se encontró un sepulcro con la inscripción: “Aquí yace Rodrigo, el último rey de los Godos” (Orlandis). Los restos del Ejército hispanogodo se retiraron hacia Córdoba. La derrota visigoda permitió a los musulmanes reforzar su caballería, facilitando su movilidad y haciendo posible la dispersión de sus tropas. Sin embargo, Tarik les persiguió, les dio alcance, y les derrotó de nuevo en Astiog (Écija). Como prueba de la traición de los witizanos, Sánchez-Albornoz cita, entre otros testimonios, el del Ibn al Qutiya -descendiente de Sara, nieta de Witiza-, quien dejó escrito con orgullo que sus abuelos habían traído consigo el Islam a la península.

Las cifras de las tropas de ambos bandos no son seguras. Hemos dicho que las fuentes islámicas citan 100.000 cristianos, y las cristianas un total de 187.000 enemigos del rey Rodrigo. Dichas fuentes no son creíbles. Ambas cifras son exageradísimas. Por su parte, Collins menciona 2.500 cristianos y 1.900 invasores. Lewis hace ascender el número a 33.000 y 12.000 respectivamente. Al fin, lo más probable es que fuesen 40.000 del rey Rodrigo frente a 25.000 musulmanes, witizanos y hebreos. Luego vino la traición en plena batalla, que ha quedado viva en el recuerdo de los españoles.

A continuación, Tarik dividió sus tropas en tres secciones. La primera sitió Córdoba, que fue ocupada antes del 20 de agosto. La segunda fue hacia Granada y Málaga, con el objeto de recibir el apoyo en nombre de los witizanos o bien que se rindiesen los rodriguistas leales. La tercera, con él al frente, se dirigió hacia Toledo, para impedir que los realistas se reorganizasen. Los signos de descomposición interna anteriores al 711 se mostraron a la luz. Incluso el arzobispo de Toledo, Sinderedo, abandonó la defensa del Reino y huyó a Roma. Muchos otros le imitaron. Este es un elemento más para hacernos cargo de la situación. El 11 de noviembre del 711 la fuerte capital del Reino hispano visigodo se rindió a la Media Luna porque los hebreos abrieron las puertas de la ciudad. Tarik encontró una gran parte del inmenso botín que el rey godo Alarico tomó cuando saqueó Roma hacía 300 años, antes de llegar a Francia.

La táctica de Tarik era evitar que los hispanogodos se agrupasen. Tenía que perseguirlos. En la rapidez estaba su éxito. Por eso, siguió hacia el Noroeste: Guadalajara, Osma, Castrogeriz y Amaya (al Norte de Palencia). Musa, desde la actual Libia, estaba al corriente de estos éxitos, pero la envidia le corroía. Tarik hacía su campaña, su guerra, se separaba de sus propias directrices, ganaba oro, y mostraba una espectacular empresa a los ojos del mundo conocido. ¿Qué directrices tenía Tarik? Tras Guadalete, Tarik debía detenerse a la espera de instrucciones. Pero él siguió adelante, hacia el Norte. Esto, además de una desobediencia a Musa, era imprudente porque se iba separando de sus bases y debilitando sus fuerzas. Desde luego, cualquier apoyo de la minoría judía era inestimable. De nuevo Tarik pidió tropas auxiliares a Musa. La política de Musa tenía que cambiar, pues inicialmente estaba encaminada a consolidar su posición en el Norte de África y ampliar sus dominios hacia en Atlántico, no hacia el Norte. Desde Amaya, Tarik fue a Astorga y de ahí se volvió a Toledo, agotado.

Según numerosos autores de origen musulmán, hebreo, y otros nada sospechosos de antisemitismo como Amador de los Ríos, o bien cristianos, los hebreos patrocinaron la invasión con hombres y dinero, con dirigentes; no pocos hebreos del norte de África entraron con los islamitas, los que estaban en Hispania abrieron las puertas de las principales ciudades (por ejemplo Toledo), y en todas partes aportaron piquetes de tropas y guarniciones para custodiar las ciudades que los islamitas no podían proteger. Seguramente los hebreos se consideraron vencedores. Esto continuó en tiempos de Musa. Ya hemos citado el motivo: la legislación de los Concilios de Toledo contraria a los judaizantes, y los cánones del XVII Concilio toledano, que fueron muy perjudiciales para los hebreos debido a la conspiración ocurrida contra la seguridad del Reino. Aunque apoyaron a los muslines, con el tiempo serán mal tratados por ellos al igual que los cristianos.

3.4. Expedición de conquista por Musa (712-714), “Pérdida y recuperación de España”

De nuevo estamos ante una expedición de conquista, pero también fue de consolidación. Musa organizó un ejército de alta calidad: no lo formaban beréberes sino 18.000 árabes, sirios y las nuevas aristocracias musulmanas. Era junio de 712. Casi un año de Guadalete. Musa llegó a Algeciras. El nuevo jefe quería plantear la campaña de una manera diferente a la de Tarik, para mostrar así que era él quien mandaba. De esta manera, se propuso consolidar su dominio sobre el Sur peninsular. Reconquistó Medina Sidonia, Alcalá de Guadaira y Carmona. El hecho que Medina Sidonia se hubiera perdido antes, significa que los hispano visigodos del lugar no querían entregarse. Llega a Sevilla, que puso una débil resistencia. La guarnición visigoda de Sevilla se retiró voluntariamente a la próxima región de Niebla, en la actual Jaén.

Musa puso la mirada en Mérida. Esta ciudad era una de las más importantes de Hispania por su raigambre, su población, su riqueza comercial, la pluralidad de gentes y su situación. Los principales partidarios del rey Rodrigo se habían refugiado en ella. Si Mérida aguantaba –y a ello estaban dispuestos sus jefes y su población-, los moros se detendrían y además verían cómo otras ciudades les podían imitar.

Mérida significó el primer descalabro de Musa. Esta ciudad aguantó desde los inicios del invierno de 712 hasta final de mes de junio de 713. Incluso Sevilla se sublevó. Musa envió a su hijo a sofocar la rebelión de Sevilla con gran dureza, lo que hizo, además de controlar los focos rebeldes de Niebla, Beja y Ossonoba, y dominar Andalucía hasta Murcia. Mientras Musa mantenía el sitio a Mérida, su hijo Adb-al-Aziz-ibn-Muza logró la capitulación del conde godo Teodomiro de Murcia, con capital en Orihuela, en abril de 713. Teodomiro fue sometido sin lucha y pactó con el islamita. En el pacto se reconoce a Tudmir ibn Gandaris (Teodomiro), a su familia y a la población de siete ciudades (Balantala, Elche, Iyih, Locant, Lorca, Mula, Oriola), la protección de Alá y su profeta, su libertad y la de sus gentes, y poder seguir siendo cristianos y conservar sus iglesias. A cambio, Teodomiro debería comunicar cualquier noticia que afectase a la seguridad de los musulmanes, y su pueblo debía abonar fuertes tributos, es decir, cada hombre un dinar, cuatro almudes de trigo, cuatro de cebada, cuatro medidas de vinagre, una medida de miel y otra de aceite, mientras que el esclavo abonaría la mitad de esto. Estos tributos eran muy fuertes. Dichas capitulaciones fueron revalidadas más adelante por el califa Marwan. Todo ello indica cierta autonomía en el “Estado” de Teodomiro, valorado por los historiadores de manera diferente (Valdeavellano, Ubieto, Sanchis y Guarner, Soldevila, Lacarra etc.). Esta autonomía más adelante se oscurecerá para de nuevo reaparecer cuando una de las divisiones administrativas del emirato independiente de Córdoba sea la cora o provincia de Teodomiro.

Mientras tanto, el sitio de Mérida se prolongaba, aunque fue ocupada el 30-VI-713. Estos éxitos, más el tesoro encontrado en Mérida, permitió a Musa llegar a Toledo para que Tarik le rindiera cuentas. La entrevista, realizada en Almaraz (el Encuentro), en la confluencia del Tiétar con el Tajo, fue turbulenta. Tarik fue humillado, siendo uno de los motivos de la ira de Musa la forma como este había repartido los tesoros.

Musa llegó a Toledo y aquí estuvo el invierno del 713 al 714. Desde la antigua capital hispanogoda, se encargó de dominar el sur de Hispania, informar al califa de Damasco, y darle cuenta de las abundantes riquezas.

Ya con el buen tiempo, pues los ejércitos lo necesitaban para las campañas, Musa y Tarik se dirigieron con éxito hacia Zaragoza (714) y Medinacelli, mientras el conde visigodo Casius (iniciará la familia Banu Quasi de Tudela), que gobernaba Borja y Tarazona, apostató al convertirse al Islam para conservar su gobierno. En Zaragoza, Musa recibió un primer mensaje del califa para que viajase a Damasco. No se sabe a ciencia cierta cómo Musa ocupó Cataluña, pues discrepan la Crónica del Moro Rasis y las investigaciones de los historiadores Claudio Sánchez-Albornoz y de Abadal.

En realidad, en Cataluña gobernaba uno de los hijos de Witiza, Akhila, que era un firme aliado de los musulmanes. Ya no sabemos si ellos eran aliados de aquel o, más bien, aquel de ellos. El hecho es que Akhila y sus hermanos, Olmondo y Ardabastro, estaban en Damasco, “negociando con el califa las condiciones de un acuerdo que les permitiera mantener en España la situación de privilegio que ansiaban y que les indujo a buscar el apoyo árabe” (Luis V. Díaz Martín). Asegurada Cataluña por Musa debido a no temer nada de este lugar, y además sin llegar a ocuparla –salvo Tarragona-, se dirigió al Oeste: hacia Bribiesca y Astorga. Se discute su Musa entró en Asturias; Sánchez Albornoz afirma que pudo enviar una pequeña tropa pero sin consecuencias. Ya estaban por aquí los partidarios de Rodrigo. De Astorga, fue a Galicia, logrando la conquista de la fortificada ciudad de Lugo como límite Norte máximo de su expansión por la península. 

Estando en Lugo, Musa recibe un segundo mensaje del califa para que viajase a Damasco. Después de dejar todo bien seguro, y a su hijo Abd al-Aziz al cargo de Sevilla en calidad de gobernador (amir), Musa, acompañado de Tarik, fue a Damasco, poco antes del fallecimiento del califa al-Walid. La llegada a Damasco se realizó con mucho botín y hasta 30.000 prisioneros (Riu). El nuevo califa, Sulayman, dejó de lado a Musa, quien al pronto falleció en el más completo olvido. 

No sólo interesa la rápida conquista de Hispania, sino que a pesar de la debilidad musulmana los hispanogodos no se rebelaron. Aceptaron de hecho la situación. Divididos entre witizanos y rodriguistas, sin verdaderas élites y sin rey, no sólo fueron vencidos sino que fueron derrotados por decadentes. Una parte de los visigodos, los witizanos, se habían entregado al vencedor, aunque inicialmente creían que iban a servirse del musulmán. Esperaban su recompensa, que no fue el trono sino los 3.000 fundos patrimoniales del rey visigodo. Así, “A la traición de los hijos y fieles de Witiza siguió la de los generales vencedores. En lugar de entregar el reino a quienes les habían llamado y auxiliado, proclamaron la soberanía del califa de Damasco” (Sánchez-Albornoz, “El drama de la formación…”). 

Pero no toda Hispania estaba ocupada por los musulmanes: sólo había en ella un reducido ejército islamita y en lugares concretos. Sobre todo había sumisión en muchos gobernadores territoriales, entre ellos Teodomiro de Murcia y Casio del Alto Ebro. En muchas zonas, sobre todo las rurales –la población por entonces era predominantemente rural- la presencia musulmana era escasísima. En muchas ciudades y fortificaciones los efectivos islamitas no eran suficientes. Las élites visigodas y los obispos hispano visigodos parece que habían desaparecido. Los witizanos podían haber abandonado a los musulmanes, aunque los hebreos quizás siguiesen apoyando a estos últimos. Los musulmanes junto con los hebreos no eran más poderosos que los hispano visigodos unidos. En absoluto. Hubo resistencias locales o parciales, pero fracasaron por la desunión; muy diferente se hubiera escrito la historia si los hispanogodos hubiesen presentado batalla todos juntos. Por otra parte, y como aporte demográfico, a mediados del siglo VIII “no sobrepasarían la cifra de treinta mil las gentes llegadas a las playas hispanas desde el otro lado del Mediterráneo (Sánchez-Albornoz). Según Riu, cuando en el 741, con ocasión del alzamiento de los beréberes contra los árabes, lleguen entre 7.000 y 12.000 sirios, el total de musulmanes llegan a Hispania oscilaría entre los 21.000 y 36.000 islamitas, que estaban establecidos al sur y conservaron su agrupación por tribus, distribuidas por distritos militarizados. Otros autores señalan 35.000 invasores, procedentes de los 17.000 de Tarik y 18.000 de Musa. Una vez repuestos de la sorpresa de la invasión, y debido a las posteriores guerras civiles entre los musulmanes, los cristianos hubieran podido expulsar en poco tiempo a los islamitas. Ahora bien, una vez perdidas las diversas ocasiones, fue la fundación del dominio Omeya independiente en Hispania lo que perdió la península para los cristianos, exigiéndoles una costosa reconquista.

Es muy posible que la vida ordinaria de campesinos, artesanos y pequeños comerciantes hubiese seguido igual que antes, que la Iglesia mantuviese intacto su ministerio y su organización, y que los jefes anteriores mantuviesen sus puestos aunque subordinados a los islamitas. Quizás los witizanos, sin reconocimiento alguno por parte de los invasores, considerasen reyes a los hijos de Witiza, pues una crónica mozárabe señala los nombres de “Achila regnavit annos III, Ardobastus regnavit annos VI”. No obstante, al no serles reconocido poder político alguno por los islamitas, los sucesores de Witiza se fusionaron con la aristocracia árabe. 

Muchos nobles visigodos se habían rendido a los musulmanes, que ocuparon la península más por capitulación y pacto que por victoria militar. Estos nobles siguieron gobernando sus territorios. A unos se les exigía la sumisión completa a las autoridades musulmanas por haber opuesto alguna resistencia (capitulación), como hacían los romanos con las ciudades estipendiarias. A otros, los gobernadores los musulmanes les reconocían cierta autonomía política mediante pacto, como es el caso de Teodomiro. Algunos nobles no tuvieron reparo en islamizarse como el citado conde Casius del Ebro. En ambos casos, los cristianos podrían seguir siéndolo siempre que pagasen el impuesto de capitación (yizya), es decir, un impuesto personal o per capita, así como el tributo de la contribución territorial (jaray). Estos tributos eran muy onerosos para muchos pobladores y “seguidores del Libro” en la península. Esta era la proclamada tolerancia hacia los cristianos. Añadamos a ello las persecuciones en Córdoba (San Eulogio, s. IX) y otros lugares. Muchos siervos y colonos que estaban bajo la jurisdicción pre-feudal de un señor visigodo, ahora cambiarán de señor y será un musulmán, lo que no significo “una renovación general de la agricultura, ni del sistema de propiedad agraria” (Riu). 

El hijo de Musa se dedicó a una labor de pacificación. Se acercó a los seguidores de don Rodrigo, y quizás se casase con la viuda de Rodrigo, llamada Ailo o Egilona. Temeroso el califa del acercamiento del hijo de Musa a los vencidos, en marzo de 716 ordenó su decapitación. Esto indica que todo lo ocurrido en España interesaba directamente al califa. Quizás fuese el momento de la rebelión, pero ningún hispanogodo se movió. 

Del 716 al 719, el nuevo gobernador al-Hurr puso en práctica el acuerdo firmado entre el califa de Damasco y los hijos de Witiza. Estos renunciaban al título de rey, de manera que toda la península estaba bajo el poder del califa. También renunciaban a cargo y rango alguno independiente o al margen del dominio musulmán. A cambio de ello, el califa les reconocía la propiedad de tres mil fundos, que eran los bienes patrimoniales de la corona visigótica. Sin embargo, la nobleza de Cataluña y Septimania no aceptó la renuncia de Akhila, hijo de Witiza, y nombró como rey a Ardón, que fue el último monarca godo. Este rey estableció su capital en Narbona, hasta que el emir al-Samh conquiste esta ciudad (720). Hemos dicho que en Hispania aún quedaba al Islam mucho territorio y población por dominar, a lo que añadía el hecho que los musulmanes preferían la conquista de otras tierras para tomar botín, al esfuerzo de asentarse, trabajar y consolidarse en la península. El Islam penetró en las Galias, por Aquitania en el año 721, Provenza, Borgoña (725) y Gascuña (Poitiers, 732), pero fracasó. Súmese a esto las guerras civiles entre los árabes, sirios y beréberes en la Hispania dominada.

Más adelante, el dominio islamita de la península oscurecerá la presencia de los cristianos en ella, a pesar de la resistencia de san Eulogio y otros muchos en Córdoba y otros lugares. Los hebreos no seguirán mejor suerte, a pesar del apoyo prestado a los islamitas durante la invasión. 

Resistencia y triunfo de Covadonga de los cristianos. El Islam fracasó en Poitiers (732) y en Covadonga (722). Pelayo no fue un invento posterior, sino que existió. Hay que decir esto ante algunos intencionados escritores amigos de la negación. Al parecer, fue hijo del tal Fafila ya mencionado, gobernador de Tuy, muerto por Witiza por una conspiración. De ahí que Pelayo pudiera ser partidario del rey Rodrigo. También pudo ser un “espatiario” o miembro de la guardia real de Toledo. Eso sí, era noble de origen, pues de otra manera no hubiera tenido poder de convocatoria entre los refugiados godos, ni hubiera sido un jefe indiscutido. Al parecer, inicialmente colaboró con Munuza, gobernador islamita de Gijón, y luego fue a Córdoba de donde se escapó. Su oposición a los musulmanes no fue casual, sino intencionada. Las circunstancias la hicieron posible, y hasta le pudo mover el hecho de que el gobernador de Gijón había incluido a su hermana en su harén. Perseguido por Munuza, Pelayo se propuso levantarse contra la dominación musulmana. Muchos cristianos habían huido a Asturias, lo que explica que al llegar los islamitas a varias ciudades estas estuviesen desiertas. 

En 718 había un foco de inquietud en Asturias, mientras los islamitas estaban en Cataluña y la Septimania. Covadonga no fue un invento posterior, sino que también existió. Hubo combate. En 722 los islamitas hicieron retroceder a Pelayo, para luego enviar un destacamento que, como ha demostrado Sánchez-Albornoz, fue derrotado en Covadonga -“Cova Dominica”- el 28-V-722. (Hace 1.289 años… y ¡todavía seguimos hablando de este magno hecho!). El metropolitano de Toledo, esto es, el witizano don Oppas que de nuevo aparece en escena, iba en la expedición del Islam “con la intención de convencer a los insurrectos de lo insensato de su tentativa, (y) es hecho prisionero” (Díaz Martín). Aunque en la escaramuza de Covadonga sólo fue vencida la vanguardia o un destacamento de las tropas de Munuza, esta victoria se convirtió en un símbolo y en una gran gesta. Las cifras de mil cristianos contra veinte mil musulmanes son fantásticas. La proyección moral del hecho fue incalculable. Según Díaz Martín:

 

“los restos de la vanguardia que, después del choque, huían, se despeñaron o se ahogaron en las agrestes tierras de los Picos de Europa; el resto del ejército, con el que Munuza, temeroso, abandonaba la región, fue sorprendido por los astures en Olalies”.

 

Años después, es probable que Pelayo tuviese una “decidida voluntad de mantener una postura hostil frente a los invasores”, lo que se consolidará más adelante. Cuando Pelayo muera en 737, le sucederá su hijo Favila o Fafila “como si de un rey godo se tratara”. Según varios historiadores, sería alzado al estilo godo, por el pequeño ejército que era el pueblo armado. Diez años después de la victoria de Covadonga, el ejército franco derrotó a los musulmanes en Poitiers (732). Dos batallas decisivas: Covadonga fue una brillante escaramuza con una proyección de 800 años… hasta hoy, y Poitiers fue una gran batalla que dejó en manos de los hispanos la expulsión de los islamitas del resto de la Cristiandad. Y lo hicieron en la forja del espíritu. En las Navas de Tolosa de 1212 la Cruzada en Hispania se convertirá en Cruzada de toda la Cristiandad. El peligro almohade era muy grave, límite. Y los cristianos cumplieron con creces. Para la toma de Granada en 1492, España ya estaba formada, a la espera del ingreso de Navarra como Reino “por si” en 1513 y 1515, la que ya estaba en alma como lo demostró Sancho VII el Fuerte en las Navas de Tolosa trescientos años antes.
Al terminar el siglo XV: “Pronto iba a resucitar el clima bélico y religioso tradicional de nuestra Edad Media y, por él dominados, íbamos a enfrentar las tormentas de la Modernidad” (Sánchez Albornoz). De nuevo para el homo hispanicus, “Donde una puerta se cierra otra se abre”: mantener y recobrar la Cristiandad, vencer al Turco en Lepanto, conquistar Túnez, y descubrir y civilizar América dando todo un continente, la inmensidad de América y Filipinas, a la Iglesia y la civilización cristiana.

 


Fuentes:

  1. Cristianas: Chronicon Moissiacense (s. IX), Chronicón de Isidoro Pacense, Crónica de Alfonso III, De Rebus Hispaniae del arzobispo Rodericus Toletanus (Rodrigo de Toledo) (s. XIII), Chronicon del obispo Lucas Tudensis (Lucas de Tuy) (Era 733), Cristiano anónimo mozárabe (754), Ximénez de Rada; Chronicon Sebastián de Salamanca,

  2. Musulmanas: Ibn al-Athir, Crónica El Kamel; Al – Himiyari; Al-Nuwayri, Historia de los musulmanes de España y África, escrita hacia 1320; Al-Makkari; Abjar Machmua, Crónica anónima del s. XI; Crónica anónima de Abderramán III, escrita hacia 1010; Fath Al-Andalus; Ibn – Khaldoun (s. XIV), Historia de los berberes ; Ibn abd-Hakam, Historia de la conquista del al-Andalus; Abdalá, las “Memorias del último rey zirí de Granada, escritas hacia 1095, editadas por Lévi-Provençal y E. García Gómez en 1980; Isa Ben Ahamad al Razí, Anales palatinos del califa Alhakam II, escritos hacia 990; Sa’id al-Andalusí, Libro de las categorías de las naciones, escrito hacia 1070.

 

Bibliografía:

Además de autores como A. Ballesteros Beretta, Lacarra, J. Mª. Font-Ruis, Emilio García Gómez, Z. García Villada, García Tolsá, Ramón Menéndez-Pidal, Sanchis y Guarner, Soldevila, Antonio Ubieto, Luis G. de Valdeavellano, Historia de España, José Vicens Vives, Lévi-Provençal, citemos los siguientes:

  1. ALBANÉS, Ricardo, Los judíos a través de los siglos, México, 1939

  2. AMADOR DE LOS RÍOS, José, Historia de los judíos de España y Portugal, Madrid, 1875.

  3. DÍAZ MARTÍN, Luis Vicente, “Constitución de la Monarquía asturiana (711-822)”, en Historia General de España y América, Madrid, Rialp, tomo III: El fallido intento de un Estado hispánico musulmán (711-1085), 1991, 658 pp., p. 3-38.

  4. DOZY Reinhart, Histoire des musulman d’Espagne, Leiden, 1932.

  5. Enciclopedia judaica castellana, México, 1948, 4 vols.

  6. GARCÍA MORENO, L. A., El fin del Reino visigodo de Toledo, Madrid, 1975

  7. MARIANA, Juan de, Historia General de España, diferentes ediciones.

  8. MARQUÉS DE LOZOYA, Historia de España, Barcelona, Salvat, v. I, 1977, 434 pp., pág. 217-238.

  9. MENÉNDEZ Y PELAYO, Marcelino, Historia de los heterodoxos españoles. Las ediciones son numerosas.

  10. ORLANDIS, José, Historia de España. La España visigótica, Madrid, Gredos, 1977, 331 pp. Las citas recogidas en estas páginas, proceden del anterior libro de síntesis. ÍDEM. El poder real y la sucesión al trono en la monarquía visigoda, El cristianismo en la España visigoda etc.

  11. RIU, Manuel, Lecciones de Historia medieval, Barcelona, Ed. Teide, 4ª ed. actualizada 1975, 686 pp.

  12. SÁNCHEZ-ALBORNOZ, Claudio, Orígenes de la Nación española. Estudios críticos sobre la Historia del reino de Asturias, Oviedo, Tomo I, 1972-1975; España, un enigma histórico, Barcelona, EDHASA, 1977, 2 vols., vid. Tomo I, 720 pp.; El drama de la formación de España y los españoles, Madrid, 2003, 67 pp.; “El Senatus visigodo. Don Rodrigo rey legítimo de España, Rev. “Cuadernos de Historia de España” (CHE), VI (1946), p. 5-99; “Otra vez Guadalete y Covadonga”, CHE, I y II (1944) p. 11-114; “Dónde y cuándo murió don Rodrigo, último Rey de los Godos”, CHE, III (1945), p. 5-105.

  13. También pueden añadirse los historiadores hebreos Graetz, Learssi, Kastein, Pessin, Sachar, Raisin, que explican el apoyo de los judíos a los musulmanes durante la invasión.

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José Fermín Garralda Arizcun

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GEERT WILDERS: CRÓNICA DE UN FRACASO PREVISIBLE

GEERT WILDERS:
CRÓNICA DE UN FRACASO PREVISIBLE

Las elecciones legislativas celebradas en los Países Bajos el pasado 12 de septiembre dieron la victoria al VVD (Partido Liberal de derecha) dirigido por el primer Ministro Mark Rutte, que tendrá que pactar con los laboristas, los otros vencedores de la cita electoral para formar nuevo gobierno. Se trata de dos partidos europeístas moderados y vinculados a la clase política oficialista del país;  fieles cumplidores de las órdenes de los tecnócratas de Bruselas.
La izquierda troszkista no logra los resultados positivos que anunciaban las encuestas, los verdes no crecen, mientras que democristiano y liberales de izquierda pierden fuelle, aunque alguno de ellos podría entrar en la coalición gubernamental.
Sin embargo el gran derrotado de esa noche electoral, es el político nacional-liberal Geert Wilders, puesto que su partido, el PVV pierde la mitad de sus diputados. Y lo que es peor para Wilders, entre la opinión pública se extiende  la sensación es que el PVV irá desinflándose paulatinamente: tulipán de un día.
Las razones de este fracaso son claras: unos ocasionales, otros estructurales. Y en ambos casos de difícil remisión por la formación.
Wilders, decidió desde un primer momento que no quería convertir a su PVV en un partido convencional, con órganos internos, militancia, cuadros de mandos o formación. Temía que ellos pudieran modificar la línea que él mismo tenía marcada para el PVV. De hecho su partido no admitía afiliados normalmente -había una asociación de simpatizantes de Geert Wilders- y la imagen que proyecta el PVV es la de un partido sometido a las decisiones únicas y caprichosas de una persona, incapaz de general a su alrededor un equipo de colaboradores eficaz; algo que la sociedad neerlandesa considera una fracaso.
El PVV convirtió las elecciones en un referéndum sobre el futuro del euro. Y el riesgo de convertir unas elecciones en lo que no son le explotó en sus manos. La apuesta por una salida unilateral del euro es un argumento “populista” cuando se trata de llamar la atención, pero es percibido como una peligrosísima aventura cuando se vota en serio, más aún en una sociedad tan acostumbrada a la “sensatez” como es la neerlandesa.
El intento de convertir las elecciones generales en un plebiscito sobre el euro, jugó doblemente en contra del PVV, primero por el motivo expuesto más arriba, segundo porque hizo que desplazara de su mensajes los dos argumentos que le habían servido para lograr los éxitos anteriores: la islamización y la inseguridad. Una lección clara, la de que cada partido debe mantener sus ideas-fuertes con las que ha hacerse presente en el discurso político.
La orientación en materia de política exterior impuesta por Wilders al PVV le ha valido el aislamiento y el vacío del resto de las fuerzas identitarias europeas. Aislamiento querido y buscado por el propio Wilders declarando “no quiero estar con racistas como el Vlaams Belang o el Front National” y también por las fuerzas identitarias, el líder del FPÖ austriaco, HC Strache declaró: “considero que Geert Wilders es humo de paja que pronto se extinguirá. No aspiro a ninguna colaboración con él en razón de sus posiciones frente al mundo árabe. Alguien que hace afirmaciones como por ejemplo que los árabes deben ser expulsados más allá del Jordán o que ha iniciado quemas del Corán no puede ser nuestro aliado” .En este sentido el aislamiento de Wilders recuerda al de su antecesor político Pim Fortuny –conocido homosexual- sobre el que Jean Marie Le Pen manifestó “no tenemos ningún contacto político ni personal. No solemos frecuentar los mismos lugares”.
En política exterior, Wilders ha declarado, y lo hizo en su viaje a Jerusalén, la total sumisión de su partido a los intereses de Israel, y de su protector en la zona, los Estados Unidos. Los Países Bajos son una de las zonas de la Unión Europea con menor grado antisemitismo, pero es obvio que a nadie le gusta que su país sea sumiso de una potencia extranjera en política exterior, sino que la misma se defina según los propios intereses nacionales.
La pregunta es ahora, ¿Sobrevivirá Wilders a este fracaso? ¿EL PVV sigue siendo el tercer partido del país? Mientras tanto un nuevo partido nacionalista ha sugerido en los Países Bajos, el DPK del antiguo diputado Hero Brinkman, que fundado hace poco tiempo no ha podido estructurarse lo suficiente como preparar la campaña electoral y no ha logrado ningún escaño en estas elecciones. Mucho nos temeos que el DPK copia y repite mucho de los errores del PVV. Difícil panorama para construir una alternativa identitaria y social neerlandesa.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya

Le Qatar est-il en train d'acheter la France et sa diplomatie ?

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Le Qatar est-il en train d'acheter la France et sa diplomatie à grands coups d'investissements ?

http://www.atlantico.fr/users/karim-sader

Le Qatar accumule les investissements en France. Foot, immobilier, banlieues... Avec son poids financier, le pays semble se donner les moyens de mettre sous pression la diplomatie française, qui n'ose pas froisser son "généreux ami"...

La mise initiale était de 50 millions d'euros. Ce sera finalement 1 milliard d'euros que le Qatar investira dans les banlieues françaises défavorisées.

Atlantico : Petite monarchie pétrolière et gazière du golfe Persique, le Qatar a choisi d'investir massivement en France et en Europe, dans le sport (avec le rachat du PSG), dans l'immobilier, les banlieues (lire notre article : Arnaud Montebourg renonce à son hold-up sur les 50 millions d'euros promis par le Qatar aux banlieues et double la mise)... Où va-t-il s’arrêter ?

Karim Sader : La succession des crises financière de 2008 et économique de 2009-2010 ayant plongé les économies occidentales dans la récession aura été une aubaine pour le Qatar. A contre-courant de la grande tendance internationale, le riche émirat gazier affichait une croissance économique insolente, dopée avant tout par sa production de GNL (gaz naturel liquéfié) dont Doha est devenu le premier producteur mondial l’an dernier.
 
Bénéficiant d’une conjoncture interne extrêmement favorable, avec l’absence de toute contestation politique et sociale, qui, au contraire de l’Arabie ne contraint pas le régime à acheter la paix sociale à grand renfort de pétrodollars, la dynastie des Al-Thani avait dès lors les mains libres pour investir son surplus de richesses à l’étranger. En ces temps de crise, les investissements qataris, très bien accueillis par des économies occidentales en crise, ont permis à l’Emirat de réaliser d’importantes plus-values en profitant de la période de récession pour racheter des capitaux à des prix très attractifs.   

Si on y regarde de plus près, ces investissements n'ont aucun effet durables. Ne sont-ils pas avant tout un moyen d'asseoir la diplomatie qatarie ?

Effectivement, j’aurais tendance à penser que les investissements tous azimuts du Qatar à l’étranger s’apparentent davantage à des achats compulsifs qu’à une réelle stratégie de long terme, qui pourrait par exemple servir à assurer la diversification économique du pays, qui demeure largement dépendant du secteur des hydrocarbures.

En réalité, derrière cette politique de placements massifs se cache une véritable angoisse existentielle ! J’entends par là que le Qatar cherche par-dessus tout à compenser sa vulnérabilité géopolitique et militaire, ainsi que sa faiblesse démographique. Pour cela, le minuscule émirat, coincé entre les deux mastodontes régionaux que sont l’Arabie et l’Iran, a besoin d’exister à l’étranger en semant ses investissements dans des domaines divers et variés.

N’oublions pas que si le Qatar est assis sur les troisièmes réserves mondiales de gaz, sa position géographique le met à l'avant-poste d’une confrontation entre l’Iran cherchant à se doter du feu nucléaire et des Etats-Unis dont les plus importantes bases militaires – hors frontières américaines – se trouvent justement en territoire qatari.

Par conséquent, en étant l’otage des tensions régionales et dépourvues d’un « hard power » le Qatar a fini par développer une sorte de « complexe » qui le pousse à cultiver son rayonnement à l’international, par le biais de son soft power dont la finance, le sport et Al-Jazeera sont les principaux piliers.  

Peut-on dire que l’implication du Qatar dans le financement des banlieues s’inscrit dans cette même dynamique ?

L’implication du Qatar dans le financement des projets de jeunes entrepreneurs des banlieues suscitent de vives passions, car il ne s’agit pas d’un investissement anodin. Je dirais tout d’abord qu’il est symptomatique du phénomène de mondialisation, à travers lequel un Etat géographiquement éloigné parvient à tisser des liens avec une communauté en contournant le sacro-saint modèle de l’Etat-Nation qui est clairement en faillite dans nos démocraties occidentales. C’est du moins ce que laissait présager la première mouture du projet, qui a vu une association d’élus issus de la diversité venir frapper directement à la porte du Qatar. Ce dernier a certainement sauté sur l’occasion pour accroître sa visibilité internationale – ce qui constitue une véritable obsession pour les dirigeants de ce minuscule émirat qui cherche en permanence à soigner son image de marque.

J’ajoute par ailleurs que cet investissement suscite d’autant plus de controverses qu'il intervient clairement dans l'une des fonctions régaliennes de l’Etat, à savoir la politique d’intégration socio-économique des banlieues. Il semble toutefois que les responsables français tentent à présent d’y ajouter une participation de l’Etat ainsi que d’étendre la stratégie de financement à « d’autres départements défavorisés », sans doute pour contrecarrer les accusations de communautariste lié à un projet dont les détracteurs considèrent qu’il vise des zones majoritairement peuplées de citoyens issus de l’immigration arabo-musulmane.

Nicolas Sarkozy et François Hollande ont-il fait preuve d'une approche diplomatique différente à l'égard de l'émirat ?

La réappropriation du projet franco-qatari pour le financement des banlieues, initié sous Sarkozy, par la nouvelle équipe socialiste au pouvoir semble attester d’une forme de continuité dans le partenariat économique entre les deux Etats. Je serais toutefois plus prudent concernant la nature de l’alliance diplomatique, notamment sur les questions relatives au Moyen-Orient. Le changement de locataire à l’Elysée a forcement un impact dans la nature des relations entre les dirigeants. Pour rappel, le couple Sarkozy-Bruni entretenait des rapports amicaux avec l’Emir et son épouse « préférée », la cheikha Mozah. Ainsi l’émir Hamad était devenu dès 2007 le joker diplomatique de la politique arabe de Sarkozy.

Or, ces relations de proximité ont parfois porté préjudice à la France, dans la mesure où ils ont irrité le puissant royaume saoudien qui ne supporte pas que le Qatar lui fasse de l’ombre, tout comme d’autres pétromonarchies du Golfe en rivalité avec Doha, tel que les Emirats-Arabes-Unis. Certaines entreprises françaises en auraient fait les frais, se retrouvant mis en échec sur de nombreux contrats, qu’il s’agisse de la vente de rafales à Abou Dhabi ou bien du TGV à l’Arabie…

Je pense que le nouveau pouvoir socialiste a tendance à rééquilibrer ses rapports avec Doha au profit des autres puissances sunnites – à l’instar de la politique qui fût menée du temps de Jacques Chirac – et ce, tout en maintenant d’excellentes relations bilatérales avec l’Emirat. Notons toutefois que le cercle des amitiés franco-qataries comporte également de nombreuses personnalités du Parti Socialiste ; de Manuel Valls à Ségolène Royal, en passant par Arnaud Montebourg, tous se sont rendu à Doha dans le cadre d’évènements divers…

Vraisemblablement, le Qatar est très actif dans la crise syrienne : financements douteux, bataille médiatique...  Comment peut-on expliquer le silence français sur ce point ?

Il est incontestable que le Qatar a tiré le plus grand bénéfice de cette dynamique des « printemps arabes » en sponsorisant les mouvements de contestation de Tunis au Caire, en passant par Benghazi et Damas. Mais très vite, les orientations pro-islamistes de l’Emirat, qui a soutenu et financé les campagnes électorales des Frères Musulmans et de leurs ramifications régionales, ont suscité les interrogations de ses partenaires occidentaux, l’Europe en particulier.
 
Dans le cas de la France, du moins sous le mandat de Sarkozy, je ne pense pas qu'on puisse parler de « silence ». Pour mémoire, certains comportements du Qatar en Libye (ingérence dans les affaires intérieures et soutiens aux mouvements jihadistes radicaux) avaient suscité la fureur de Sarkozy, lequel n’avait pas hésité à rappeler l’émir à l’ordre. Par ailleurs de plus en plus de voix critiques se font entendre quant à l’agenda panislamique du Qatar à travers le monde, y compris dans l’Hexagone.

Quoiqu’il en soit, sur le dossier syrien, Français et Qataris sont en parfaite concordance, œuvrant à la chute du régime de Bachar al-Assad. Pour ce faire, Paris ne saurait se passer du rôle actif de Doha qui sert (comme il a servi en Libye) d’intermédiaire direct dans le soutien apporté à l’insurrection.  Des divergences dans l’agenda de la transition post-Assad pourraient toutefois émerger entre français et qataris : si Paris entend favoriser la formation d’un gouvernement transitoire qui puisse garantir la survie de toutes les minorités (alaouites, chrétiens, druzes, kurdes,…), il est fort à parier que les orientations pro-sunnites de Doha conduisent l’Emirat à appuyer un nouveau pouvoir qui soi dominé par la majorité sunnite, type Frères Musulmans…

Propos recueillis par Charles Rassaert

Karim Sader est politologue et consultant, spécialiste du Moyen-Orient et du Golfe arabo-persique. Diplômé de l’Institut d’Etudes Politiques de Paris et de l’Université Saint Joseph de Beyrouth, il a été chargé de recherches au Ministère de la Défense, à l’Institut des Hautes Etudes de Défense Nationale (IHEDN), ainsi qu’à l’Observatoire des Pays Arabes à Paris.  Son champ d’expertise couvre plus particulièrement l’Irak et les pays du Golfe où il intervient auprès des entreprises françaises dans leurs stratégies d’implantation et de consolidation. Contribuant au débat relatif à l’actualité et aux sujets stratégiques de la région, il intervient régulièrement auprès de nombreux médias en France et à l’étranger et compte plusieurs publications dans des revues spécialisées.

Le numéro 55 de la revue Rébellion

 
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Le numéro 55 de la revue Rébellion
 
SOMMAIRE
 
ÉDITORIAL
Hollande trouve son chemin de Damas.

ACTUALITES
La gauche contre le peuple.
Charles Robin démonte l'idéologie libérale.

DOSSIER
 
BALKANS. L'EUROPE MEURTRIE
La guerre contre la Serbie.
Laboratoire des "guerres humanitaires".
En première ligne au kosovo.
 
Entretien avec Slobodan Despot
 
Balkans. L'éclatement programmé de
Alexis-Gilles Troude.

IDEES
L'encaillement des Clercs. Réflexion sur les
travaux de François de Négroni.
 
Jacob Burckhardt et la communauté locale des citoyens.

CULTURE
 
Child of the black Sun.
Entretien avec Boyd Rice.

Chronique 
Le début de la fin & Autres
Causeries crépusculaires. Eric Werner.
 
Vogelsang ou la mélancolie du vampire
Christopher Gérard.
 
Le numéro est disponible contre 4 euros ( port compris)
à notre adresse :
 
Rébellion - RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02
http://rebellion.hautetfort.com/

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12 octobre : soirée Livr'arbitres à Paris

12 octobre :

Soirée Livr'arbitres à Paris

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lundi, 01 octobre 2012

Redessiner la carte du Moyen Orient

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Redessiner la carte du Moyen Orient

 

Entretien avec Jeremy Salt (Université Bilkent/Ankara)

 

Propos recueillis par Claudio Gallo pour http://www.eurasia-rivista.org/

 

Jeremy Salt est professeur d’histoire et de politique du Moyen Orient à l’Université de Bilkent, près d’Ankara. Son livre, intitulé “La destruction du Moyen Orient” constitue un brillant compte-rendu des cent dernières années d’histoire de la région, un ouvrage entièrement dépourvu des clichés orientalistes. La revue italienne de géopolitique “Eurasia” a demandé au Prof. Salt de nous expliquer les actuelles transformations à l’oeuvre au Moyen Orient et aussi de nous donner des précisions sur l’inextricable question kurde. Les Kurdes en Syrie, en Irak, en Iran et en Turquie ne cessent de parler de l’émergence prochaine d’un “Grand Kurdistan”.

 

Q.: Le Président syrien Bachar Al-Assad vient de donner carte blanche aux Kurdes du Nord de la Syrie. Cela pourrait-il constituer un “casus belli”, enclenchant une guerre entre Damas et Ankara?

 

JS: Il me paraît excessif de dire que Bachar Al-Assad a donné carte blanche aux Kurdes de Syrie. Il me paraît donc plus vraisemblable de dire que, dans le chaos total et diffus qui s’est abattu sur le territoire syrien tout entier, Bachar Al-Assad n’a pas pu empêcher les Kurdes de prendre le contrôle des régions où ils vivent et qui sont proches des frontières turques. Il est certain aussi qu’Al-Assad n’a nulle envie d’ouvrir un front contre les Kurdes alors qu’il essaie de neutraliser les groupes armés partout ailleurs dans le pays.

 

Si cette situation pourra ou non constituer un casus belli dépend de la lecture que fera le gouvernement turc de la situation; assurément, il sera alarmé à la perspective de voir se former une enclave kurde dans le Nord de la Syrie, qui favorisera la possibilité de créer un “Grand Kurdistan” dans un futur plus ou moins proche. Ces complications pouvaient être prévues mais elles n’ont pas été envisagées, il y a un peu plus d’un an, quand la Turquie a décidé de s’opposer au gouvernement syrien.

 

Q.: Ankara entretient un lien direct avec l’administration kurde dans le Nord de l’Irak, passant ainsi au-dessus de Bagdad. Selon vous, quel est là l’objectif de la diplomatie turque?

 

JS: Pour le moment, il me paraît difficile d’interpréter les actions de la diplomatie turque ou de saisir l’objectif qu’elle cherche à atteindre aujourd’hui dans la région. Si nous jettons un regard rétrospectif sur les aléas de la politique étrangère turque jusqu’au début de l’année 2012, nous pouvons constater que les deux politiques annoncées par le gouvernement AKP, celles du “soft power” et celle du “zero problems”, ont bien fonctionné sous l’impulsion du ministre des affaires étrangères, Ahmet Davutoglu. La Turquie développait de solides relations de coopération avec ses voisins orientaux. Or la décision d’oeuvrer à un “changement de régime” en Syrie a complètement bouleversé cette perspective.

 

Les Etats-Unis et les pays du Golfe seront certainement reconnaissants envers la Turquie pour le rôle clef qu’elle a joué dans la campagne actuelle qui vise à faire tomber le gouvernement syrien. Cependant les coûts de cette option seront énormes pour la Turquie. Outre la rupture totale avec Damas, l’option anti-Al-Assad a affaibli considérablement les relations avec l’Irak et l’Iran; de plus, la Turquie est désormais en porte-à-faux avec la Russie.

 

Tout cela aurait pu être prévu, il y a un an, au moment où la Turquie, pour la première fois, a manifesté sa volonté de s’opposer au gouvernement de Damas qui a des liens très étroits avec l’Iran, fournit des installations portuaires à la flotte russe et qui, en plus, a eu des liens forts avec la Russie (comme, dans le passé, avec l’URSS) pendant plus d’un demi-siècle.

 

L’Irak s’est toujours opposé, dès le départ, à la politique turque en Syrie. D’abord parce que l’Irak ressent encore les conséquences de l’intervention occidentale de 2003 et aussi, partiellement, parce que la Turquie a développé des relations particulières avec le “gouvernorat” kurde du Nord aux dépens du gouvernement de Bagdad.

 

La Turquie entretient désormais des relations commerciales étroites avec le Nord de l’Irak. Il est tout à fait plausible d’affirmer que cette position, adoptée par Ankara, est dictée par le commerce, le pétrole et l’importance stratégique que revêt ce Kurdistan nord-irakien dans l’alliance qui lie la Turquie à l’Occident, ainsi qu’aux Etats arabes du Golfe, et l’oppose, ipso facto, à la Syrie et à l’Iran, à rebours des critères de la diplomatie néo-ottomane, dite de “zero problems”.

 

Il faut rappeler ici que plus de 60% des Irakiens sont chiites; l’élément sectaire de la politique irakienne revient à la surface chaque fois que l’on enregistre des attentats contre des Chiites ou lorsque l’on a émis des accusations graves contre le vice-président irakien, musulman sunnite, Tareq al-Hashimi, soupçonné d’organiser des “escadrons de la mort” anti-chiites. Al-Hashimi a quitté le territoire irakien et le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan est parmi ceux qui prennent sa défense.

 

Q.: L’indépendance est-elle à l’ordre du jour dans l’agenda du Président de la région kurde nord-irakienne Massoud Barzani?

 

JS: Le “gouvernorat” kurde du Nord irakien est déjà virtuellement indépendant en tous domaines, sauf que cette indépendance ne figure pas encore sur les cartes de la région. Il dispose d’une armée puissante, officiellement décrite comme une “force de sécurité” et développe une ligne de conduite politique propre, indépendante de la volonté du gouvernement de Bagdad. Une déclaration formelle d’indépendance n’est plus, sans doute, qu’une question de temps, de trouver des circonstances propices.

 

Barzani n’a jamais dissimulé ses vues: pour lui, une grande partie de l’Anatolie orientale turque est en réalité le “Kurdistan occidental”. L’inclusion de ce territoire, dans son ensemble, à un “Etat kurde” constituerait donc l’objectif final. Tout cela ne nous permet pas de comprendre aisément la nature des relations entre la Turquie et le Kurdistan du Nord irakien, ni celles qui président aux relations entre Ankara et le gouvernement central irakien.

 

Ces derniers mois, les Kurdes ont surtout mis en avant leurs propres intérêts. On l’a vu lorsque Barzani, récemment, a joué les médiateurs lors d’un colloque des Kurdes syriens, en leur demandant la réconciliation. Dès l’instant où les Kurdes syriens ont aligné dans leurs rangs une faction du PKK (Parti des Travailleurs Kurdes), le premier ministre turc était furieux.

 

La Turquie est donc en état d’alerte depuis le réveil des Kurdes de Syrie.

 

Q.: La chute d’Al-Assad en Syrie pourrait-elle amener à créer un Etat kurde?

 

JS: Les répercussions d’un éventuel effondrement de l’Etat syrien s’avèreraient révolutionnaires dans la région et personne n’est à même, aujourd’hui, de prévoir les choses, sauf qu’il y restera bien des ruines et de la misère. Pour le moment, cet effondrement ne peut constituer un objectif sérieux et il est peut probable qu’un nouveau gouvernement syrien, issu des forces anti-Al-Assad, veuille, lui aussi, l’émergence d’un “Grand Kurdistan”, vu les effets imprévisibles qui pourraient s’ensuivre.

 

Un gouvernement post-Assad pourrait se montrer complaisant à l’égard des Kurdes mais il ne voudra certainement pas voir s’instaurer un chaos qui menacerait ses intérêts dans toute la région. Une sorte d’Etat kurde a émergé en Irak suite à l’invasion de 2003 et à l’occupation dans les années suivantes, mais je ne pense pas qu’une situation similaire sera acceptée par tous en Syrie.

 

Q.: L’Iran est-il en train de jouer la carte kurde contre la Turquie?

 

JS: Ces deux Etats ont toujours joué l’un contre l’autre les cartes qu’ils avaient à leur disposition. C’est ce que l’on appelle la diplomatie. Tant l’Iran que la Turquie ont un problème kurde que leurs gouvernements respectifs peuvent exploiter, tant dans la région qu’en dehors d’elle. Ils l’ont fait dans le passé. Pour ces deux Etats, exploiter le problème kurde peut comporter des risques de répercussions.

 

Mais il n’y a pas de preuves, actuellement, que l’Iran utilise la carte kurde contre la Turquie, à moins que quelque chose m’ait échappé. Le danger majeur vient de la partie septentrionale de l’Irak, où le PKK et son équivalent iranien entretiennent des bases opératives.

 

C’est donc d’Irak et non d’Iran que les militants kurdes —terroristes selon le gouvernement turc— ont généralement lancé leurs opérations contre la Turquie.

 

Q.: Il semble que nous soyons revenu aux temps de la destruction de l’Empire ottoman, au début du 20ème siècle. Pensez-vous que cette comparaison est valide?

 

JS: Ce que nous pouvons d’ores et déjà percevoir derrière les scènes d’horreur qui se déroulent en Syrie, c’est la tentative plus explicite de donner une forme nouvelle au Moyen Orient, exercice qui a commencé dès la première guerre mondiale. Les Accords Sykes-Picot de 1916 ont figé les paramètres géostratégiques du Moyen Orient moderne; ces paramètres ont cessé de fonctionner pour les puissances impérialistes ou post-impérialistes et pour leurs alliés dans la région.

 

Nous avons traversé des phases multiples dans cette histoire récente du Proche- et du Moyen-Orient mais, quoi qu’il en soit, c’est bien l’Etat national qui a encaissé toutes les tensions, a résisté à toutes les frictions auxquelles il a été soumis. Parmi les phases traversées, rappelons d’abord celle de la crise de Suez en 1956, puis celle de l’attaque israélienne contre l’Egypte et la Syrie en 1967, attaque soutenue par l’Occident, et, enfin, la tentative israélienne d’instaurer un gouvernement fantoche au Liban. Le point focal qui attire toutes les attentions est la région que l’on appelle depuis toujours le “Croissant fertile”; aujourd’hui, c’est dans cette région que se trouvent l’Irak, la Syrie, le Liban et la Palestine/Israël.

 

La région entière se prêterait parfaitement à un véritable effondrement ethnico-religieux si l’Occident faisait le premier pas.

 

L’invasion de l’Irak a été suivie de la destruction de l’Irak en tant qu’Etat unitaire. La nouvelle constitution irakienne, écrite à Washington (comme les constitutions irakienne et égyptienne d’avant 1940 avaient été rédigées à Londres, respectivement en 1920 et en 1930), a transformé un Etat séculier en un Etat reposant sur des bases confessionnelles et sectaires. On a établi un Etat central faible et, en même temps, on a favorisé l’émergence d’un “gouvernorat” kurde dans le Nord, devenu de plus en plus puissant au fil du temps. On a confié l’avenir de la ville pétrolière de Kirkouk à un futur référendum, ce qui a enclenché une véritable guerre démographique, dès le moment où les Kurdes ont cherché à obtenir le nombre suffisant d’habitants kurdes pour faire pencher la balance en leur faveur, tant dans la ville intra muros qu’en dehors d’elle.

 

La Syrie pourrait se prêter à un scénario similaire de démantèlement sur bases ethniques et religieuses, si la forme d’Etat actuellement au pouvoir venait à s’effondrer. En 1918, les puissances impérialistes ont divisé le Moyen Orient selon des critères qui leur paraissaient favorables à l’époque. Aujourd’hui, elles projettent un nouveau démantèlement et cherchent à redessiner la carte de la région, pour que la nouvelle donne aille dans le sens de leurs intérêts. Ce n’est pas un hasard si ce programme coïncide à la perfection avec les plans stratégiques à long terme d’Israël.

 

La Russie et la Chine sont pleinement conscientes du processus en cours. On peut donc dire que la situation actuelle peut se concevoir comme l’extension, au 21ème siècle, de la “Question d’Orient” ou du “Grand Jeu”, soit la lutte entre la Russie et la Grande-Bretagne. Il est sûr et certain que la lutte pour la Syrie donnera forme pour longtemps aux futurs Levant et Moyen Orient. Dans tous les cas de figure, les acteurs locaux peuvent d’ores et déjà être considérés comme les perdants du jeu.

 

(Claudio Gallo est rédacteur d’articles de politique internationale pour le quotidien italien “La Stampa”).

 

(Cet entretien est paru dans “La Stampa” et sur le site http://atimes.com/ en langue anglaise et sur le site http://www.ariannaeditrice.it/ en date du 13 septembre 2012).

Jeremy Salt: 23 razones por las que no debe aceptar sin crítica la visión occidental de la revuelta en Siria

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Jeremy Salt: 23 razones por las que no debe aceptar sin crítica la visión occidental de la revuelta en Siria

A medida que la insurrección siria avanza dando bandazos hacia la guerra civil, es preciso poner freno a la propaganda que se difunde por los medios de comunicación occidentales y que es aceptada acríticamente por muchos que deberían estar mejor informados. He aquí, pues, una matriz de posiciones sobre lo que está pasando en este importante país de Oriente Medio.


1. Siria ha sido un estado mujabarat (de inteligencia) desde que el temible Abdel Hamid Al Serraj dirigiera los servicios de inteligencia, como el deuxième bureau, en los años 50. El estado autoritario que se desarrolló desde que el antiguo presidente sirio Hafez Al Asad tomó el poder en 1970 ha aplastado a todos los disidentes sin piedad. En ocasiones, la alternativa ha sido él o ellos. La ubicua presencia del mujabarat es un hecho desagradable en la vida de los sirios, pero cuando Siria es un objetivo central del asesinato y la subversión llevados a cabo por Israel y los servicios de inteligencia occidentales, cuando ha sido atacada militarmente de forma reiterada, cuando ha tenido una gran parte de su territorio ocupada, y cuando sus enemigos están buscando continuamente oportunidades para derribar al gobierno, es difícil decir que el mujabarat no es necesario.

2. No hay duda de que la mayor parte de las personas que se manifiestan en Siria quiere una transición pacífica hacia una forma democrática de gobierno. Y tampoco hay duda de que los grupos armados que operan tras las manifestaciones no tienen ningún interés en la reforma. Quieren destruir al gobierno.

3. Ha habido manifestaciones muy grandes de apoyo al gobierno. Hay malestar por la violencia de las bandas armadas y por la injerencia extranjera y el aprovechamiento de la situación por parte de gobiernos y medios de comunicación extranjeros. A los ojos de muchos sirios, su país está siendo, una vez más, blanco de una conspiración internacional.

4. Cualquiera que sea la verdad de las acusaciones vertidas contra las fuerzas de seguridad, los grupos
armados han matado a cientos de policías, soldados y civiles, en total probablemente unos mil hasta este momento. Los civiles muertos son profesores universitarios, médicos e incluso, recientemente, el hijo del gran mufti de la república. Las bandas armadas han masacrado, emboscado, asesinado, atacado edificios gubernamentales y saboteado líneas férreas.

5. El presidente sirio Bashar al Asad disfruta de una gran popularidad. A pesar de situarse en la cúspide del sistema, es un error calificarlo como dictador. El verdadero dictador es el sistema en cuanto tal. El verdadero poder en Siria —afianzado durante cinco décadas— se encuentra en el ejército y los servicios de inteligencia, y en menor grado en la estructura del gobernante partido Baaz. Estos son los verdaderos poderes que se oponen al cambio. Las manifestaciones representaron una oportunidad para que Asad transmitiera el mensaje de que el sistema tenía que cambiar.

6. A la vista de las grandes manifestaciones que se celebraron a principios de este año, el gobierno presentó, finalmente, un programa de reformas. Esto fue rechazado de plano por la oposición. Ni siquiera se hizo el menor intento de poner a prueba la buena fe del gobierno.

7. La afirmación de que la oposición armada al gobierno ha comenzado hace poco es una total mentira. Los asesinatos de soldados, policías y civiles, a menudo con extrema brutalidad, ha venido sucediendo prácticamente desde el principio.

8. Los grupos armados están bien armados y bien organizados. Grandes cantidades de armamento han entrado en Siria de contrabando desde Líbano y Turquía. Se trata de escopetas, ametralladoras, kalashnikovs, lanzacohetes RPG, granadas de mano de fabricación israelí y gran cantidad de explosivos. No está claro quién está suministrando estas armas, pero alguien lo está haciendo y alguien las está pagando. Los interrogatorios de miembros de bandas armadas apuntan en la dirección del Movimiento del Futuro del ex primer ministro libanés Saad Hariri, testaferro de EEUU y Arabia Saudí, cuya influencia se extiende más allá del Líbano.

9. La oposición armada al régimen parece estar patrocinada, en gran medida, por la ilegalizada Hermandad Musulmana. En 1982, el gobierno sirio aplastó sin piedad un levantamiento iniciado por la Hermandad en la ciudad de Hama. Muchos miles murieron y parte de la ciudad fue destruida. La Hermandad tiene dos objetivos primordiales: la destrucción del gobierno baazista y la destrucción del estado laico en favor de un sistema islamista. Es casi palpable la sed de venganza.

10. Los grupos armados tienen fuerte apoyo desde el exterior, aparte del ya conocido o indicado. El exiliado exvicepresidente y ministro de Exteriores sirio Abdel Halim Jadam, que viven en París, ha estado haciendo campaña desde hace años para derribar el gobierno de Asad. Recibe apoyo financiero de EEUU y la Unión Europea. Burhan Ghalioun, apoyado por Catar como líder del Consejo Nacional establecido en Estambul, también vive en París y también está presionando en Europa y Washington para un cambio de régimen.
Estos y Mohamed Riad Al Shaqfa, líder de la Hermandad Musulmana en Siria, son receptivos a una “intervención humanitaria” desde el exterior, siguiendo el modelo libio (otros están en contra). La promoción de los exiliados como una alternativa de gobierno recuerda a la forma en que EEUU utilizó a los exiliados iraquíes (el denominado Congreso Nacional Iraquí) antes de la invasión de Irak.

11. Las informaciones de los medios de comunicación occidentales sobre la situación en Libia y Siria ha sido pésima. La intervención de la OTAN en Libia ha sido la causa de una masiva destrucción y miles de muertos. Tras la invasión de Irak, la guerra es otro importante crimen internacional cometido por los gobiernos de EEUU, Gran Bretaña y Francia. La ciudad libia de Sirte ha sido bombardeada día y noche durante dos semanas, sin que los medios de comunicación occidentales hayan prestado atención alguna a la gran destrucción y a las pérdidas de vidas que ha ocasionado. Estos medios de comunicación occidentales no han intentado verificar las informaciones que salían de Sirte y que hablaban de bombardeos de edificios civiles y la muerte de centenares de personas. La única razón para ello solo puede ser que la horrible verdad pudiera hacer descarrilar toda la operación de la OTAN.

12. En Siria, los mismos medio de comunicación han seguido el mismo patrón de desinformación. Se ha ignorado o esquivado la evidencia de matanzas generalizadas de las bandas armadas. Se ha invitado a la audiencia a no creer las declaraciones del gobierno y creer, sin embargo, las declaraciones de los rebeldes, a menudo realizadas en nombre de organizaciones de derechos humanos europeas o estadounidenses. Se han dicho muchas mentiras descaradas, al igual que se dijeron en Libia y durante la invasión de Irak. Algunas, al menos, han sido descubiertas.
Personas de las que se dijo que habían sido asesinadas por fuerzas de la seguridad del estado han aparecido vivas. Los hermanos de Zainab Al Hosni dijeron que esta había sido secuestrada por fuerzas de seguridad, asesinada y su cuerpo desmembrado. Este espeluznante relato, difundido por Al Yazira y Al Arabiya entre otros medios, es totalmente falso. Zainab está viva, aunque ahora, por supuesto, la táctica de la propaganda es afirmar que la que ha aparecido no es ella, sino una doble. Al Yazira, el periódico británico The Guardian y la BBC se han distinguido por su apoyo ciego a todo lo que desacredite al gobierno sirio. La misma línea está siendo seguida por los principales medios de comunicación en EEUU. Al Yazira, en particular, que se ha distinguido por sus informaciones sobre la revolución egipcia, ha perdido toda su credibilidad como agencia de noticias independiente.

13. Al tratar de destruir el gobierno sirio, la Hermandad Musulmana tiene un objetivo común con EEUU, Israel y Arabia Saudí, cuya paranoia sobre el Islam chií ha alcanzado su punto culminante con el levantamiento de Bahréin. WikiLeaks ha revelado la impaciencia de EEUU para atacar a Irán. En su lugar, ha buscado la destrucción de las relaciones estratégicas entre Irán, Siria y el grupo chií libanés Hezbolá. EEUU y los saudíes quieren destruir el régimen baazista, dominado por alauíes, por diferentes motivos, pero lo importante es que quieren destruirlo.

14. Estados Unidos está haciendo todo lo posible por arrinconar a Siria. Está dando apoyo financiero a líderes de la oposición exiliados. Ha intentado (y ha fracasado, gracias a la oposición de Rusia y China) que el Consejo de Seguridad de la ONU apruebe un amplio programa de sanciones. Sin duda, lo intentará de nuevo, y en función de cómo evolucione la situación, podría proponer, con el apoyo de Gran Bretaña y Francia, una resolución para crear una zona de exclusión aérea que pudiera abrir la puerta a una intervención militar extranjera.
La situación es fluida y, sin duda, se estarán desarrollando todo tipo de planes de contingencia. La Casa Blanca y el Departamento de Estado están haciendo declaraciones amenazantes un día sí y otro también. Provocando abiertamente al gobierno sirio, el embajador de EEUU, acompañado por el embajador francés, viajó a Hama antes de las oraciones del viernes. Teniendo en cuenta la historia de sus injerencias en los países de Oriente Medio, es inconcebible que EEUU e Israel, junto con Francia y Gran Bretaña, no estén implicados en este levantamiento más allá de lo que ya se conoce.

15. Mientras se concentran en la violencia del régimen sirio, los gobiernos de EEUU y Europa —sobre todo Gran Bretaña— han ignorado totalmente la violencia dirigida contra él. Su propia violencia, infinitamente mayor en Libia, Irak, Afganistán y otros lugares, ni siquiera entra en escena. Turquía se ha unido a la campaña contra Siria con gusto, yendo más allá incluso que aquellos.
En unos pocos meses, la política regional de “cero problemas” de Turquía ha cambiado completamente. Turquía prestó su apoyo al ataque de la OTAN contra Libia, después de que se inhibiera inicialmente. Se ha enfrentado a Irán por su política sobre Siria y al aceptar, a pesar de la fuerte oposición doméstica, alojar una instalación estadounidense de radares de misiles claramente dirigida contra Irán. Los norteamericanos dicen que compartirán los datos de la instalación con Israel, que ha rechazado pedir disculpas a Turquía por el asalto del Mavi Marmara, sumiendo las relaciones turco-israelíes en una crisis. Así, Turquía ha pasado de “cero problemas” a una política regional repleta de problemas con Israel, Siria e Irán.

16. Aunque algunos miembros de la oposición siria han hablado en contra de cualquier intervención extranjera, el Ejército Sirio Libre ha dicho que su objetivo es conseguir una zona de exclusión aérea en el norte del país. Una zona de exclusión aérea tendría que ser impuesta, y ya hemos visto cómo esto condujo en Libia a una destrucción masiva de infraestructuras, la muerte de miles de personas y la apertura de las puertas para un nuevo periodo de dominación occidental.

17. Si el gobierno sirio es derribado, serán cazados hasta el último baazista y alauita. En un gobierno dominado por la Hermandad Musulmana, el estatus de las minorías y de las mujeres retrocedería.

18. Por medio de la ley de responsabilidad de Siria y de las sanciones que ha impuesto la Unión Europea, EEUU ha estado intentando destruir al gobierno sirio durante 20 años. El desmantelamiento de los estados árabes unificados gracias a las divisiones étnico-religiosas ha sido un objetivo de Israel durante décadas. Allí donde va Israel, le sigue EEUU, naturalmente. Los frutos de esta política pueden verse en Irak, donde los kurdos han creado un estado independiente en todo salvo en su nombre y donde la constitución, escrita por EEUU, separa al pueblo de Irak en kurdos, sunníes, chiíes y cristianos, destruyendo la lógica unificadora del nacionalismo árabe. Irak no ha conocido un momento de paz desde que los británicos entraron en Bagdad en 1917.
En Siria, las divisiones étnico-religiosas (árabes musulmanes sunníes, kurdos musulmanes sunníes, drusos, alauitas y varias sectas cristianas) hacen que el país sea vulnerable ante la promoción de las discordias sectarias y la eventual desintegración del estado árabe unificado, que los franceses trataron de impedir en los años 20.

19. La destrucción del gobierno baazista en Siria sería una victoria estratégica de incalculable valor para EEUU e Israel. El arco
central de las relaciones estratégicas entre Irán, Siria y Hezbolá quedaría partido, dejando a Hezbolá geográficamente aislada, con un gobierno musulmán sunní hostil en puertas, y por tanto, con la alianza Irán-Hezbolá más desprotegida ante un ataque militar de EEUU e Israel. Por casualidad o no, la “primavera árabe”, tal como se ha desarrollado en Siria, ha colocado en las manos de EEUU e Israel una palanca con la que pueden lograr su objetivo.

20. Un gobierno egipcio o sirio dominado por la Hermandad Musulmana no tiene por qué ser necesariamente hostil a los intereses norteamericanos. Queriendo ser considerado un miembro respetable de la comunidad internacional y otro buen ejemplo de “Islam moderado”, es probable y posible que un gobierno egipcio dominado por la Hermandad Musulmana esté de acuerdo en mantener el tratado de paz con Israel tanto tiempo como sea posible (es decir, hasta que otro ataque a gran escala de Israel contra Gaza o Líbano lo haga absolutamente indefendible).

21. Un gobierno sirio dominado por la Hermandad Musulmana estaría próximo a Arabia Saudí y sería hostil a Irán, Hezbolá y los chiíes de Irak, sobre todo a los vinculados con Muqtada Al Sader. Defendería de boquilla la causa palestina y la liberación de los Altos del Golán, pero sus políticas prácticas no serán, probablemente, muy diferentes del gobierno que está intentando derribar.

22. El pueblo sirio tiene derecho a exigir democracia y a conseguirla, pero ¿de cualquier forma y a cualquier coste? El fin de las matanzas y unas negociaciones sobre reformas políticas son, sin duda, el camino a seguir, no la violencia que amenaza con desgarrar el país. Lamentablemente, es la violencia y no un acuerdo negociado lo que mucha gente quiere en Siria y lo que también quieren muchos gobiernos que vigilan y esperan su oportunidad. Ninguno sirio puede beneficiarse realmente de esto, piensen lo que piensen.
Su país está encaminándose hacia una guerra civil sectaria, quizá con intervención extranjera y, con toda probabilidad, hacia un caos a mucha mayor escala que lo visto hasta ahora. No habrá una rápida recuperación si el estado se colapsa o es derribado. Como Irak, y probablemente como Libia, Siria podría entrar en un periodo de agitación sangrienta que podría durar años. Al igual que Irak, quedaría completamente fuera de combate como estado capaz de defender los intereses árabes, lo que significa, evidentemente, hacer frente a EEUU e Israel.

23. En última instancia, ¿a qué intereses serviría este desenlace?
 

Jeremy Salt
Jeremy Salt es profesor de historia y política de Oriente Medio en la universidad de Bilkent, en Ankara, Turquía.
Ha publicado The Unmaking of the Middle East: A History of Western Disorder in Arab Lands. Jeremy Salt,  (University of California Press, 2009)

Europe : la nef des fous?

Europe : la nef des fous?

 
 

Les discours des dirigeants européens semblent de moins en moins cohérents avec la réalité. Aucune prise de conscience de la situation de la croissance européenne ne semble d’actualité.

“La nef des fous”, Jérôme Bosch (1450-1516)

Les dirigeants européens sont-ils embarqués dans une «nef des fous» digne de ce que Sebastien Brant décrivait au 15e siècle dans un des premiers romans européens? On ne serait pas loin de le croire si l’on prend la peine d’observer la situation. Ainsi, Mario Monti a bombé le torse lundi en affirmant que l’Italie a «contribué à mettre en place des politiques de croissance en Europe».

Mettre en place des politiques de croissance! Celui-là même qui, par sa politique, a cassé le peu de croissance qui restait à l’Italie. Et alors que l’on venait d’apprendre que son propre gouvernement avait révisé à la baisse sa prévision de contraction du PIB de la péninsule de 1,2 à 2,4%!

Mais sans doute n’y a-t-il là aucune contradiction puisque l’OCDE qui tenait la conférence où s’exprimait le président du conseil italien a appelé à «poursuivre les réformes du gouvernement italien» qui, précisément, ont plongé le pays dans la crise.

Croissance et austérité ensemble

Mais de ce côté-ci des Alpes, la schizophrénie n’est pas moindre. Ce mardi matin sur France Inter, le ministre français des Affaires européennes n’avait que la «réorientation de la politique européenne vers la croissance» à la bouche. Et pour entamer cette réorientation, Bernard Cazeneuve n’avait pas mieux à proposer que le vote du pacte budgétaire qui va peser sur l’activité de ces 5 prochaines années et va surtout, par son lien avec le MES, confirmer l’étranglement des pays en difficulté. Non, il avait également une autre proposition à formuler: le maintien de l’objectif d’un déficit public à 3% du PIB l’an prochain, manière la plus certaine de plonger la France dans le cercle vicieux de la dépression.

Plus d’efforts

Faut-il un ultime exemple de ce délire pathologique? La chancelière Angela Merkel a jugé que l’Europe va devoir «faire des efforts» pour «sortir plus forte» de la crise. Par «efforts», la chancelière entendait des «douloureuses réformes» et des «politiques budgétaires plus responsables».

Autrement dit, l’Europe doit encore aller plus loin dans l’austérité. C’est du reste ce que vise précisément le pacte budgétaire tant vanté par le gouvernement français. Or, cette politique «d’efforts» que mène la chancelière en Europe depuis 2010 a contribué à plonger l’Europe à nouveau dans la récession. Lundi, le très mauvais indice Ifo montrait que l’économie allemande est à son tour frappée par la vague issue de cette politique. Mais peu importe.

La dérive dépressive européenne

 

Le bateau Europe va à vau-l’eau. Il se dirige droit vers les récifs de la dépression. Mardi, Standard & Poor’s promettait un recul du PIB de la zone euro de 0,8 % cette année. Et les moteurs de croissance de la région sont désormais tous éteints. Tout se passe comme si la Grèce, loin d’être le cas isolé et «exotique» que l’on nous a présenté depuis deux ans, était en fait le précurseur de ce qui menaçait l’Europe.

La BCE, qui a pourtant déclenché avec ses annonces du début du mois de septembre cette euphorie des dirigeants européens, ne semble rien pouvoir faire. Baisser ses taux serait inutile, ils sont déjà vainement à un niveau historiquement bas. Quant à sa politique de rachat de titres souverains, elle est soumise à des conditions déflationnistes qui n’auront certes pas d’effets positifs sur la croissance.

Reste évidemment le «pacte de croissance» et ses fameux 120 milliards d’euros dont se vantent tant les dirigeants français. Son effet est évidemment nul. Passons même sur ses effets concrets, les révisions à la baisse de toutes les prévisions pour 2013 prouvent assez l’inefficacité de cet amas de mesures hétéroclites et recyclées. Le pire est encore ailleurs: nul n’a pris ce plan au sérieux, le choc de confiance si nécessaire pour les plans de relance n’a pas eu lieu. Et c’est pourtant au nom de ce plan que l’on entend imposer l’austérité généralisée.

Position morale

Mais si la position des dirigeants européens n’est pas cohérente, c’est qu’en réalité, elle est plus morale qu’économique. Elle est basée sur l’idée d’une pseudo faute budgétaire des Européens qui devra être réparée par la souffrance. Et elle se dissimule derrière le vieil argument europhile: quiconque se place en opposition aux dirigeants européens est «populiste» et, partant, discrédité. Ce qui est commode et permet d’avancer l’absence d’alternative à cette politique.

C’est pourquoi, ceux qui tentent de s’opposer au pacte budgétaire ou au MES sont immédiatement discrédités, comme l’ont été en 2005 ceux qui se plaçaient dans le camp du «non» à la constitution. Bernard Cazeneuve qui, ce matin, prétendait qu’il n’y a pas de «non fondateur» doit certainement s’en souvenir: il faisait alors partie des chefs de file des «nonistes».

On connaît la chanson

80 ans après les effets dramatiques de la politique de déflation salariale et budgétaire des gouvernements européens, leurs successeurs sont aujourd’hui en passe de faire les mêmes erreurs. Du reste, les années 1930 sont tellement à la mode que les chefs de gouvernement européens n’hésitent pas à remettre au goût du jour le fameux succès de Ray Ventura de 1935: «tout va très bien, madame la marquise»…

La Tribune

Alle Staaten sollen das Recht haben, gleichwertig und gleichberechtigt die Weltpolitik zu gestalten

Alle Staaten sollen das Recht haben, gleichwertig und gleichberechtigt die Weltpolitik zu gestalten

UN-Menschenrechtsrat schafft das Mandat des Unabhängigen Experten zur Förderung einer demokratischen und gleichberechtigten Weltordnung

Interview mit Professor Dr. iur. et phil. Alfred de Zayas

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

zayas.jpgthk. Professor Dr. iur. et phil. Alfred de Zayas wurde am 23. März zum Unabhängigen Experten bei der Uno zur Förderung einer demokratischen und gleichberechtigten Weltordnung vom Menschenrechtsrat ernannt. Er ist der erste, der dieses neu geschaffene Mandat übernehmen durfte, um so im Bereich der Demokratisierung der Uno und der in ihr vereinten Nationalstaaten wirken zu können. Bereits in der Herbstsession des Uno-Menschenrechtsrates hat Alfred de Zayas seinen ersten Bericht vorgelegt und ist dabei auf grosse Zustimmung gestossen. Der Unabhängige Experte, der eine lange Karriere an der Uno aufweist, war, wie er selbst sagte, nicht ganz unerwartet zu diesem Amt gekommen, da er sich schon sehr lange mit der Frage der Ausgestaltung echter, das heisst direkter Demokratie, wie sie in der Schweiz existiert, beschäftigt hat. Mit seinem Mandat möchte sich Alfred de Zayas für den Frieden und die Gleichwertigkeit der Völker einsetzen. Zeit-Fragen hat Professor de Zayas an der Uno in Genf getroffen.

Zeit-Fragen: Herr Professor de Zayas, wie muss man die Aufgabe Ihres Mandats verstehen?

Prof. Dr. de Zayas: Die Aufgabe bedeutet eine Synthese von bürgerlichen, politischen, wirtschaftlichen, kulturellen und sozialen Rechten. Es ist ein versöhnliches Mandat, das auf Zusammenarbeit bzw. Solidarität abzielt. Die Staaten des Nordens, des Südens, des Ostens und des Westens sollen sich in diesem Mandat finden und darin etwas Verbindendes sehen. Es ist ein konstruktives Mandat, das auf den Zielen und Grundsätzen der Uno-Charta aufbaut. Es ist also kein Mandat, das gegen einen bestimmten Staat, gegen eine bestimmte Region, gegen eine bestimmte Philosophie oder Ideologie zielt.
Hier geht es um zweierlei: um eine Demokratisierung auf der nationalen Ebene, aber auch auf der zwischenstaatlichen, internationalen Ebene.

Was muss man sich unter einer Demokratisierung auf internationaler Ebene vorstellen?

Wir brauchen eine Weltordnung, die wirklich demokratisch ist, die sich an den Bedürfnissen der Menschen orientiert. Das bedeutet, dass alle Staaten daran beteiligt werden müssen. Bei Entscheidungen, die das Zusammenleben auf unserer Welt betreffen, müssen alle Staaten als Vertreter ihrer Völker etwas zu sagen haben. Diese Gleichberechtigung, die Gleichwertigkeit aller, ist zentral im Text der Resolution 18/6, die das Mandat begründet hat. Ich werde mich sehr genau an den Wortlaut der Resolution halten, wie ich bereits in meinem ersten Bericht gezeigt habe.

Was soll damit erreicht werden?

Die Staaten der sogenannten dritten Welt, die Staaten des Südens, möchten eine Weltordnung, die auf Gerechtigkeit basiert. Sowohl der Handel als auch die Verteilung der Ressourcen muss gerecht geschehen. Die Kluft zwischen Arm und Reich darf nicht weiter vergrössert, sondern muss verkleinert werden. Ohne dass ich bestimmte Staaten nennen muss, kann ich die Thematik erkenntnistheoretisch so behandeln, dass ich Begriffe wie Demokratie, Gerechtigkeit, Gleichwertigkeit, Gleichberechtigung, Selbstbestimmung und nationale Identität mit Leben füllen kann.

Wie ist hier Ihre Vorgehensweise?

Es finden sich bei den Vereinten Nationen enorme Quellen dazu. Ich werde mich dabei auf die Berichte von ehemaligen Rapporteuren stützen, auf Studien der Unterkommission der ehemaligen Menschenrechtskommission, des Menschenrechtsrates selbst oder auf Studien der Generalversammlung. Gewiss beabsichtige ich keine Wiederholung dessen, was bereits gemacht worden ist. Ich werde aber darauf aufbauen. Wie Sie wissen, war ich Sekretär des Menschenrechtsausschusses und Chef der Beschwerdeabteilung. Auch die Jurisprudenz des Ausschusses steht mir zur Seite.

Wie schätzen Sie den Wirkungsgrad dieses Mandats ein?

Ich bin sehr optimistisch, was das Mandat anbetrifft, weil bereits viele positive Reaktionen bei mir angekommen sind, seitdem ich ernannt und meine E-Mail-Adresse an der Uno für alle bekannt wurde, nämlich ie-internationalorder(at)ohchr.org. NGO, Intergouvernamentale Organisationen, Staaten, zivile Organisationen und einzelne Personen haben sich mit konkreten Vorschlägen bei mir gemeldet – zum Beispiel, wie sie mein Mandat verstehen, wo sie die Prioritäten sehen usw. Diese Anliegen und Vorschläge nehme ich ernst. Ich werde alles genauestens studieren. Bereits in meinem Bericht an den Menschenrechtsrat habe ich unter Absatz 11 eine Liste von Themenvorschlägen, die ich von Interessierten erhalten habe, zitiert. Ich werde diese Vorschläge natürlich bevorzugt behandeln.

Was entsteht aus all diesen Anregungen und Anfragen?

Ich werde mit hoher Wahrscheinlichkeit einen Bericht über den Begriff der Partizipation bzw. der Teilnahme der Menschen an der politischen Gestaltung in der Demokratie schreiben, aber über die Mitbestimmung auf der nationalen und internationalen Ebene, über Fragen der Manipulierung der öffentlichen Meinung usw. schreiben. Diese Studien werde ich dann nächstes Jahr dem Menschenrechtsrat vorlegen. Dabei geht es innerstaatlich nicht nur um das Wahlrecht, sondern auch um das Recht, politische Regeln mitzugestalten. Demokratische Wahlen alle vier Jahre sind eine gute Sache, aber man muss wirkliche Optionen haben und nicht nur pro forma stimmen. Die Bevölkerung muss auch die Gelegenheit haben, die Aussenpolitik authentisch mitzugestalten, so dass Regierungen nicht mehr gegen den Willen der Bevölkerung Aussenpolitik betreiben können.
International gesehen, sollten die UN bzw. der Sicherheitsrat insofern reformiert werden, dass mehr internationale Teilnahme bzw. Demokratie verwirklicht wird.

Im Oktober sprechen Sie vor der Generalversammlung. Worum geht es dort?

Ja, ich muss einen anderen ausführlicheren Bericht der Generalversammlung präsentieren. In diesem Bericht identifiziere ich eine Reihe von Hindernissen und versuche, gute Praktiken zu nennen und der Generalversammlung Empfehlungen zu unterbreiten. Das wird am 30. Oktober 2012 in New York – deo volente – geschehen. Ich werde sehen, welche Reaktionen die Staaten in der Generalversammlung auf meinen Bericht zeigen, was sie mir vorschlagen werden.

Wie kann man die Grundlagen des demokratischen Zusammenlebens anderen Ländern vermitteln? Ein «arabischer Frühling» oder militärische Interventionen der Nato helfen hier sicher nicht weiter.

Ich verstehe mein Mandat nicht als ein Mandat des Naming and Shaming. Mein Mandat ist, wie bereits gesagt, ein konstruktives, das helfen soll, diese Begriffe überall gleich zu verstehen. Wenn ich Demokratie sage, sollte das mehr oder weniger dasselbe sein, was auch eine Person in Nordamerika, Südamerika, Australien, Osteuropa, China, Indien oder Afrika darunter versteht. Es darf nicht sein, dass Demokratie à la carte verstanden wird, genauso wenig, wie es inakzeptabel ist, dass das Völkerrecht nach Belieben angewandt wird. Eines der Haupthindernisse für den Weltfrieden und das Erreichen einer demokratischen und gerechten «Weltordnung» ist nämlich, dass viele Staaten das Völkerrecht nicht gleichmässig anwenden, hier sagen sie ja und dort nein. Ohne bestimmte Staaten kritisieren zu wollen, möchte ich auf diese fundamentale Problematik hinweisen. Letztlich glaube ich, um ein englisches Wort zu verwenden: «The bottomline is participation.»

Das bedeutet?

Das heisst, die Bürger müssen an der Politik teilhaben und mitgestalten können, und zwar direkt. Das Modell der direkten Demokratie bietet hier enorm viel. Man muss die Möglichkeit haben, eine Gesetzgebung zu initiieren. Die Möglichkeit zur Prüfung von Gesetzen durch Referenden, aber auch die Möglichkeit, Regierungsbeamte bzw. Politiker zur Rechenschaft zu ziehen, wenn sie eine ganz andere Politik führen, als sie versprochen haben – das muss das Wesen der Demokratie sein. Die gewählten Politiker müssen belangt werden können, wenn sie das Versprechen, das sie dem Bürger gegeben haben, gebrochen und somit das Vertrauen missbraucht haben. Darum muss es eine Möglichkeit geben, diese Personen aus dem Amt zu entfernen. Bei uns in den USA gibt es dafür den Begriff des Recall oder Impeachment.
Ich werde also das Modell der direkten Demokratie genau studieren. Es geht um die Frage, wie man dieses Modell mit gewissen Abänderungen in anderen Ländern anwenden könnte. Allerdings muss man bei jedem Land seine Historie, seine Kultur, seine Tradition und seine individuellen Vorstellungen des Zusammenlebens berücksichtigen.

Welche Rolle hat für Sie dabei der Nationalstaat?

Genauso wie im antiken Griechenland mit der Polis ein Staat entstanden ist, in dem die Bürger an der Politik teilnehmen konnten, so soll es für die einzelnen Länder auch gelten. Also der Nationalstaat ist bei diesem Vorgang entscheidend. International gesehen möchten wir, dass alle Staaten das Recht haben, gleichwertig und gleichberechtigt die Welt­politik zu gestalten. Aber auch intern, also national gesehen, müssen die Bürger eines bestimmten Staates für die eigene Identität, für die eigene Kultur die für sie richtigen Gesetze annehmen und eine Politik wählen, die die Menschenrechte und die Würde von allen Bürgern gewährt.

Herr Professor de Zayas, wir wünschen Ihnen viel Erfolg bei der Ausgestaltung Ihres Mandats und danken Ihnen herzlich für das Gespräch.    •

Leser werden von Professor de Zayas herzlich gebeten, Ihre Vorstellungen an ie-internationalorder(at)ohchr.org zu verschicken.

dimanche, 30 septembre 2012

Lepanto - La gran Bataja - Serata di storia veneta

20:04 Publié dans Evénement | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : lépante, événement, italie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Les déclarations d’Edward Luttwak à “La Stampa”

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Les déclarations d’Edward Luttwak à “La Stampa”

 

Le printemps arabe n’a été qu’une illusion! L’Amérique doit se retirer!

 

La Stampa a proposé récemment un entretien avec Edward Luttwak, historien et stratégiste américain. Ce belliciste à tous crins, ce “super-faucon”, qui avait été si souvent l’une des voix les plus dures parmi les exposants de l’intelligence stratégique américaine, dont le débat en Italie s’était fait l’écho, semble exprimer aujourd’hui la pensée rénovée d’une partie de l’établissement au sein de l’hegemon qui découvre de nouveaux rapports de force défavorables à Washington et décide un repli général. Mais quand ce repli aura-t-il lieu? En attendant, bonne lecture...

 

luttWP.jpgLuttwak: “Nous devons nous retirer du monde musulman, en n’y laissant qu’une présence stratégique minimale pour gérer nos intérêts”. Selon Edward Luttwak, analyste auprès du “Center for Strategic and International Studies”, la vague protestataire de ces dernières semaines sanctionne la fin d’une illusion: “Les néocons ont imaginé que la démocratie arriverait au Moyen Orient dès l’élimination de Saddam et le Président Obama s’est également fourvoyé en croyant que le dialogue la ferait avancer. Du moins, pour le moment, la démocratie n’intéresse pas le monde musulman. Nous devons abandonner nos rêves et nous concentrer, avec réalisme, sur nos intérêts”.

 

Q.: Que va-t-il se passer dans les pays arabes?

 

EL: Une explosion généralisée portée par une idéologie anti-américaine et un ressentiment contre les Occidentaux.

 

Q.: Par quoi aura-t-elle été provoquée?

 

EL: Par la pauvreté, l’insatisfaction économique, la marginalisation, le sentiment que cette partie du monde va une fois de plus rater le train. La culture judéo-chrétienne dit à ses ouailles qu’en ce monde il faut souffrir parce que la récompense arrivera seulement au paradis. L’islam, en revanche, promet des satisfactions terrestres: dès lors tout échec est inacceptable.

 

Q.: Donc le “printemps arabe” n’a pas changé les choses?

 

EL: Il faut que, dans nos têtes, une chose soit bien claire: les manifestations et émeutes ne se sont pas déclenchées parce que les gouvernements en place étaient trop peu démocratiques mais parce qu’ils étaient trop laïques. La famille du Tunisien Mohamed Bouazizi, qui s’était immolé par le feu, a déclaré qu’il avait commis son geste parce qu’il s’était senti outragé quand un fonctionnaire de sexe féminin lui avait refusé une licence. Le problème était donc que Ben Ali avait octroyé trop de charges à des fonctionnaires féminins. Ces révoltes ont donc apporté les élections mais non pas la démocratie. Les musulmans ne s’intéressent pas à une démocratie qui légifère puisque les lois ont déjà été données par Dieu par le biais du Coran. Dans de telles conditions, le vote ne sert qu’aux extrémistes pour arriver au pouvoir avec le soutien d’une majorité de la population.

 

Q.: Pourquoi avons-nous manqué notre appui à ce “printemps”?

 

EL: Nous avons commis plusieurs erreurs: avoir envahi l’Irak, avoir cru au “printemps” et avoir aidé les opposants libyens à renverser Khadafi. Quand celui-ci favorisait des attentats et cherchait à se doter d’armes de destruction massive, alors, oui, il aurait été juste de frapper. Mais une fois qu’il y avait renoncé et qu’il s’occupait de ses propres affaires, il fallait le laisser tranquille à son poste.

 

Q.: L’attaque de Benghazi était-elle prévisible?

 

EL: Tous savaient qu’à Dernah les hommes d’Al-Qaeda circulaient ouvertement sans se cacher, en plein jour.

 

Q.: Alors, aujourd’hui, que doivent faire les Etats-Unis?

 

EL: Parachever le retrait hors d’Afghanistan, éviter d’intervenir en Syrie, supprimer les aides économiques et toute implication dans les affaires de la région. Pendant quelques temps, il faut laisser les musulmans régler leurs comptes entre eux.

 

Q.: Et ainsi on ne risquera plus de subir des attentats en Occident...

 

EL: Nous devons certes maintenir une petite présence stratégique et ne frapper que lorsque nous prenons connaissance d’un camp d’entraînement ou que nous avons un affrontement direct avec des groupes terroristes. Nous prendrons le pétrole où nous le pourrons, par exemple en Arabie Saoudite. Nous devons aussi développer nos propres ressources énergétiques et veiller à nos seuls intérêts.

 

(entretien repris sur http://www.ariannaeditrice.it/ en date du 21 septembre 2012).

De Franche-Comté en de Lage Landen

3de Ronde Tafel van www.eurorus.org  :

De Franche-Comté en de Lage Landen (Robert Steuckers)

Op vrijdag 28 september 2012 vond in het Euro-Rus Centrum in Dendermonde de 3de Ronde Tafel plaats. In een vol huis vertelde Robert Steuckers, bevoorrechte vriend van Euro-Rus, uitgebreid over de Franche-Comté, een geopolitiek belangrijke regio in Europa en zeer belangrijk voor de Lage Landen.

In zijn eigen stijl vertelde hij over de hele geschiedenis van deze regio. Het verhaal begon van voor de Romeinse periode tot en met vandaag.

Hij kon zeer moeilijk verbergen dat dit een iets ander soort voordracht is dan hij meestal gewend is : het was duidelijk dat hij een emotionele band heeft met de Franche-Compté. Verschillende malen kon hij zijn bewondering voor de schoonheid van de regio niet verbergen. De aanwezigen werden overstelpt met tientallen en tientallen gegevens en feiten. Ja, soms was het zwaar.

Laat het duidelijk wezen : dit alles aan de hand van een paar eenvoudige notities.

Het was een zeer technische en historische voordracht. Deze zware boterham werd nadien weggespoeld met een paar leuke dranken.

De tekst en de beelden van deze voordracht zullen dit jaar nog verschijnen.

samedi, 29 septembre 2012

LOUIS DUMONT: HOLISMO HIERÁRQUICO

ELEMENTOS Nº 33.

LOUIS DUMONT: HOLISMO HIERÁRQUICO

 
Enlace Revista electrónica

Enlace Revista formato pdf


SUMARIO.-

Louis Dumont: estructuralismo, jerarquía e individualismo, 
por Robert Parkin

La influencia de Louis Dumont: Evolución teórica de Alain de Benoist,
por Diego L. Sanromán

Gloria o maldición del individualismo moderno según Louis Dumont, 
por Verena Stolcke

La historia entre antropólogos: Dumont y Salhins, por Gladis Lizama Silva

Las formas del holismo: Mauss y Dumont,
por Ángel Díaz de Rada

La racionalidad de la cultura occidental: Weber y Dumont, 
por Aparecido Francisco dos Reis

Individualismo y modernidad, 
por Julio Mejía Navarrete

Los errores y confusiones de Louis Dumont. A propósito de “la autonomía” o "emancipación” de la Economía, 
por Francisco Vergara

Individuo y sociedad: un estudio sobre la perspectiva jerárquica de Louis Dumont,
por Clara Virginia de Queiroz Pinheiro

Individualismo y colectividad a partir del concepto tiempo,
por Patricia Safa

El Homo Hierarchicus de Louis Dumont,
por Carmen Arias Abellán

La ideología del sistema de castas en Louis Dumont,
por Ishita Banerjee
 
À quoi bon aller en Inde?, 
por Rogelio Rubio
 
 

Guillaume Faye à Nantes

 Guillaume Faye à Nantes

fayenaoned

La crise civilisationnelle que traverse l’Europe amène à s’interroger sur l’avenir des peuples en Europe

2997844101_1_5_XtWKkvTD.jpg

La crise civilisationnelle que traverse l’Europe amène à s’interroger sur l’avenir des peuples en Europe

Entretien avec Jean-Marc Fonseca dit « Barbajohan »

L’émission de radio sur Internet, « Méridien Zéro », vient de commencer un cycle consacré aux « patries charnelles » de la France. Après la Bretagne, il y a eu la Corse. Espérons que viendront ensuite la Normandie, le Pays basque, la Flandre, la Bourgogne, la Franche-Comté, l’Alsace, la Lorraine, la Savoie, l’Arpitanie, la Provence, les Pays d’Oc, la Catalogne et… le Pays nissart ! Découvrons par cet entretien une histoire méconnue, hors de Paris et de sa centralité pesante.

 

Europe Maxima

Après la Grèce, l’Espagne, l’Italie, le Portugal…, on nous annonce que ce sera bientôt le tour de la France. D’aucuns prédisent que la monnaie unique est condamnée à plus ou moins long terme. Qu’adviendra-t-il de nos « patries charnelles » ? Nous sommes en droit de nous poser des questions sur le futur de ce continent et des peuples qui y habitent. C’est pourquoi nous sommes allé à la rencontre de Jean-Marc Fonseca, délégué du M.C.P.N. (Mouvement citoyen du Pays niçois – Motou citadin dou Païs nissart) afin de connaître la position de ce mouvement et les solutions novatrices qu’il propose.

Robert Marie Mercier : Jean-Marc Fonseca, bonjour. Je suis très heureux de pouvoir vous rencontrer aujourd’hui car nous allons pouvoir enfin connaître « lou pastre rebel » dont certains de nos lecteurs ont pu apprécier les « coups de gueule » sur les réseaux sociaux ainsi que les Contes et histoires que vous signez « Barbajohan ». Mais, en plus, nous saisissons l’occasion d’inviter le délégué provisoire du M.C.P.N. (Mouvement citoyen du Pays niçois – Motou citadin dou Païs nissart) à nous parler de ce mouvement qui est en train de se mettre en place chez nous, mais aussi chez nos voisins.

Jean-Marc Fonseca : Aco mi fa plesi de poudè veni soubre lou vouostre sit…Cela me fait plaisir de pouvoir venir sur votre site… et je vous en remercie. Et, c’est une satisfaction réelle de pouvoir m’exprimer sur un média pour y apporter mon point de vue sans être censuré en aucune façon.

 

R.M.M. : Avant de nous lancer dans un débat de fond, pourriez-vous, Jean-Marc, nous dire quelles sont vos origines familiales, votre parcours jusqu’à aujourd’hui et ce qui vous a conduit vers cette forme d’action que vous développez à présent ?

 

J.-M.F. : Pour ce qui est de mes origines familiales, un mesclun ben nissart, du côté de mon grand-père maternel (Brignoni – Porraz) des États de Savoie. Du côté du grand-père paternel (Fonseca : Valencians – Catalans) immigrés en Algérie (Oranais) après 1848. Mon père, jeune sous-officier de carrière, a connu ma mère à Nice en 1939 alors que son unité se trouvait dans les environs du Mont Ours, puis il a été transféré sur le front de la Meuse. Après s’être évadé, il a rejoint Nice, car il ne connaissait personne en France. Instructeur itinérant de maquis; il m’a certainement passé l’idée du devoir de Résistance et le goût du baroud. Enfin quand je pense que mes deux épouses successives sont de famille corse, j’espère que mes enfants comme moi ne seront jamais soumis.

R.M.M. : Une fois évoquée votre histoire familiale, pouvez-vous nous faire connaître votre parcours professionnel ?

 

J.-M.F. : Oh là, je pourrai vous faire un roman : allergique à l’éducation nationale; je n’ai évidemment aucun diplôme issu de cette « vénérable institution ». Berger saisonnier très jeune, puis manutentionnaire à l’aéroport, puis ouvrier, enfin grâce à l’armée française, deux ans dans un centre de réadaptation où j’ai passé un brevet de technicien en électronique. Cela m’a donné l’envie des études jusqu’au C.N.A.M. Mais par chance j’ai toujours aimé lire et j’ai plutôt une bonne mémoire; ce qui fait qu’en réalité, je n’ai jamais cessé d’étudier et d’apprendre. Après avoir travaillé pour une entreprise dans le secteur de la défense (logistique, documentation technique, systèmes de formation et d’instruction). J’ai terminé ma carrière professionnelle (d‘immigré esclave salarié) comme directeur technique d’un grand groupe de télévision (A.B. Production – A.B. Télévision). Enfin après avoir participé au lancement et à la mise au point la télévision numérique par satellite en France. J’ai tout arrêté ! Je m’étais toujours dit à cinquante balais, je m’arrêterai et je retournerai faire le berger dans mes montagnes. C’est en gardant que j’ai pris conscience que je pouvais être utile à la cause de mon pays.

 

R.M.M. : Et je suppose que vous avez eu, comme la plupart d’entre nous un cheminement politique qui vous a amené où vous en êtes aujourd’hui.

 

J.-M.F. : Je vais, peut-être, faire bondir certains de vos lecteurs, ou les désorienter, mais, puisque vous me donnez la parole librement, je vais vous tracer mon parcours…

À 13 – 15 ans, j’avais plutôt des idées proche de ce qu’on appellerait aujourd’hui l’extrême droite nationale, conséquence logique de l’éducation de M. Jules Ferry.

Avec toutefois un gros bémol, c’est mon grand-père qui par tradition orale m’a transmis une partie importante de ce que je sais : les livres sur la véritable histoire du Comté de Nice n’existaient pas ou bien se trouvaient relégués  aux oubliettes (je souligne ici le remarquable travail d’Alain Roullier Lorens en ce qui concerne l’édition d’ouvrage sur l’histoire de notre Comté). Et puis, j’entendais toujours mon grand-père dire : « Ah, si nous étions restés indépendants en 1860, nous vivrions certainement plus heureux qu’aujourd’hui »… Cela se passait en 1956. C’est aussi mon grand-père qui, souvent en cachette de ma mère, me parlait et m’apprenait le nissart (1) que l’on parlait dans la rue et dans les métiers beaucoup plus qu’aujourd’hui. Bref, jeune, je me sentais avant toute chose Nissart (2) et je ressentais le fait que nous n’étions pas tout à fait des Français comme les autres.

R.M.M. : Donc, à ce moment là,  vous lancez dans le combat régionaliste ?

 

J.-M.F. : Pas du tout, je n’avais pas encore conscience de la nécessité absolue de retrouver notre souveraineté et, il faut le dire, les hommes politiques locaux (pas comme ceux d’aujourd’hui complètement asservis au pouvoir central de la République française), avaient pour la plupart un attachement à notre terre et à notre culture. Donc, nous étions plutôt dans une position de résistance au pouvoir établi et à son omniprésente « société de consommation »… Sur ce, arrive Mai 68, avec toute l’effervescence qui l’entoure et nous sommes une bande d’une douzaine de garçons, tous de milieu modeste, avec des pères ex-militaires puis A.S. ou O.R.A. (puis de nouveaux, campagne de France – Allemagne) et pour certains l’Indo. Nos pères, pour certains, ont viré à l’anti-gaullisme depuis la guerre d’Algérie. Il n’est pas question de soutenir le pouvoir gaulliste en place. Par ailleurs, le socialisme soviétique ne nous est pas sympathique. Ce sont d’autres copains de la bande dont les pères avaient été F.T.P. qui nous mettrons en contact avec les « pro-Chinois » tel qu’on les appelait à l’époque. En attendant aussi méfiant à l’égard des Américains que des Russes et croyant à la possibilité d’une Révolution, nous prenons le maquis dans la Haute-Tinée avec armes et bagages.

 

R.M.M. : Carrément le maquis ? Mais pourquoi, le mouvement étant parti des facultés, s’éloigner des centres de décision ?

 

J.-M.F. : L’idée (qui d’ailleurs s’est avérée fausse) est alors la suivante et elle découle directement des opérations qu’avaient montées, en 43 – 44, nos géniteurs.

La révolution se fera dans les villes, les forces de répressions exerceront donc leurs activités surtout sur les villes.

De petits groupes nomades, connaissant bien leur terrain, capable de monter des coups de main, de disparaître sur des positions préparées à l’avance et bénéficiant de la complicité des populations attireront sur elles une partie des forces de répressions qui feront défaut dans les villes.

 

R.M.M. : Pour ma part (un grand nombre de mes amis aussi), m’étant dégagé  des groupuscules politiques qui ne menaient à rien et conscient qu’il y avait un préalable culturel à l’action politique, je rejoins un groupe qui, s’étant fortement inspiré de la philosophie d’Antonio Gramsci, s’est mis à contester la société de consommation et son corollaire l’« homo economicus » bien avant que naisse le Mouvement du 22 Mars, parti de la fac’ de Nanterre, et qui allait amener « Mai  68 ». Par la suite, nous aurons quelques contacts avec les situationnistes, mais étant résolument tournés vers une action « métapolitique », nous ne nous engageons aucunement dans une mouvance politique  révolutionnaire, les conditions de celle-ci n’étant pas réunies. Nous pensions que la pensée dominante n’était pas prête pour faire cette révolution, ce qui sera confirmé par la suite. Confirmez-vous cela ?

J.-M.F. : Évidemment, la Révolution n’a pas eu lieu, même le P.C.F. n’en voulait pas, et en octobre, aux premières neiges, amaigris et affamés, nous nous sommes, alors, auto-démobilisés.

Rentrés en ville, nous  sommes montés à Carlone, avons repris des contacts, les étudiantes étaient jolies et sexuellement plus libres et comme nous  étions limite « Lumpen et prolos (3) », la bagarre entre bandes, et parfois contre les flics, ça nous connaissait: nous avons été de suite adopté par les étudiants gauchistes.

Au début, je n’y comprenais mancou (4) entre les trotskistes de diverses tendances, les maoïstes, les marxistes-léninistes chinois, les marxistes-léninistes albanais, les anarcho-quelque chose, le P.S.U. et même le P.N.O. – qui à l’époque était plus nissart qu’occitan de mes souvenirs de pastrouil (5) avec François Fontan.

De toute façon, nous étions trop indépendants et rebelles, ne reconnaissant pas la hiérarchie suprême souvent descendue de Paris pour rester longtemps dans la même organisation. J’ai passé mon temps à me faire virer, mais j’ai beaucoup appris. Et surtout j’ai commencé à lire autre chose que Bleck le Roc, Opalong Cassidi, Cochise et Battler Brighton, les lectures d’adolescent de l’époque.

 

R.M.M. : Alors, une fois l’échec de ce « mouvement romantique » qu’était Mai 68 consommé, qu’avez-vous fait ensuite ?

 

J.-M.F. : Oh, plein de choses… car nous avions toutefois une conscience « écologique » : nous avons coupé les clôtures des villas qui nous empêchaient l’accès à la mer, nous avons réalisé quelques sabotages de chantiers tels Isola 2000, Marina Baies des Anges … En fait tout cela, c’était parce que l’on se sentait dépossédés, par les puissance de l’argent et le tourisme, de notre territoire. Voilà comment cela a commencé. Mais rien n’a vraiment changé depuis.

 

R.M.M. : Je suppose que durant les années 70, vous avez redécouvert, comme la plupart d’entre nous, notre culture, mise au rancard par les institutions françaises, au travers de professeurs comme André Compan ou d’artistes comme Mauris, Pelhon et Sauvaigo ?

J.-M.F. : Oui, comme toute une génération, j’ai eu ces guides et j’ai continué la lutte au niveau politique avec  une certaine radicalisation du type « mili-poli » ou « poli-mili » (6) comme disent les Basques ou les Irlandais et des expériences dans d’autres pays. Treize ans après Mai 1968, c’est le tour de Mai 1981 avec l’arrivée de la gauche au pouvoir, on souffle, mais c’est aussi une période d’extrême démobilisation entre les gouvernements de « gauche » et ceux de cohabitation : on se retrouve face à un manque de perspectives, sauf parmi les organisations indépendantistes.

 

R.M.M. : Déjà des déçus du socialisme ?

 

J.-M.F. : Et oui, déjà. Les années 1999 – 2005 seront mises à profit pour réfléchir sur le fait que, dans un espace fini, la croissance et le développement ne peuvent être infinis. Travailler justement sur la notion même de développement, sur la critique de la critique de l’idéologie du progressisme, s’intéresser aux civilisations des peuples premiers (ce que d’aucuns ont zappé par idéologisme débile concernant la lutte au Chiapas).

Et enfin s’apercevoir qu’il n’y avait rien de bon dans le système techno-industriel de la marchandisation du monde. Enfin, constater que, pour les peuples enracinés, ce système niveleur et assimilateur, disposant de moyens colossaux, n’avait pas été capable de les éradiquer en deux siècles.

Ceux-ci (à l’exemple des Mapuches) possédaient dans leurs cultures et leurs traditions à la fois les moyens de résister et de construire une autre société. D’où le fait de rompre avec la dictature de la pensée binaire Droite – Gauche. Les autres pages qui nous permettrons de recouvrer notre indépendance et nos libertés, nous sommes en trains de les écrire.

R.M.M. : Même si nous n’avons pas suivi des chemins identiques, je vois que notre démarche est similaire dans la mesure où nous avons évolué par rapport à une certaine vision du monde et ne sommes pas resté enfermés dans des schémas idéologiques sclérosés. Vous, comme moi, et bien d’autres que nous rencontrons aujourd’hui, ont fait la même démarche de dépasser les « présupposés idéologiques » dans la mesure où nous avons bien compris que le débat actuel et les confrontations en devenir, ne sont plus entre la droite et la gauche mais bien entre les tenants d’une société technomorphe américanocentrée universaliste standardisante (basée sur le « marché ») et les tenants de sociétés enracinées diverses et multiples proche de la nature (basées sur l’humain).

 

J.-M.F. : La ligne de démarcation ne passe plus par les thèmes Droite – Gauche, répartitionnistes, réformistes ou indignés, mais entre ceux qui sont capables d’apporter pour leur pays des réponses pour l’après-développement, l’après-croissance et les autres. Nous ne pouvons plus vivre comme des riches, des nantis, des privilégiés. Il va falloir devenir raisonnable pour simplement survivre frugalement.

Il n’y a plus de progression possible, la route de l’idéologie du toujours plus débouche sur du vide et comme il n’y a rien en face,  il n’y a même pas la possibilité d’imaginer un pont. Comme le disait un ami qui « milite » toujours au Parti niçois : « Il faut, aussi, avoir le courage de dire aux gens que notre niveau de vie sera plus frugal que celui qu’ils connaissent aujourd’hui et que c’est le prix à payer pour recouvrer nos libertés. »

 

R.M.M. : Oui, nous serons sûrement amené à vivre de façon plus frugale (mais est-ce qu’avec la crise du Système, ce ne sera pas le cas de la plupart des pays ?) mais d’un autre côté, nous pourrons distribuer les « richesses » générées à ceux de notre peuple qui en ont besoin à l’inverse d’aujourd’hui où les Niçois sont ponctionnés pour satisfaire les touristes et remplir les caisses d’une région et d’un État qui leurs sont étrangers. En fait, vous pensez qu’il faut changer de modèle.

 

J.-M.F. : Le combat que nous menons ne consiste pas à interchanger un personnel politique made in France par un personnel politique made in chez nous ou à amener le drapeau français pour le remplacer par le nôtre sans changer le cours des choses.

Il s’agit aussi de mener un combat émancipateur pour ne pas reproduire le même système que celui que nous a imposé la puissance coloniale.

C’est pour cela que la ligne de démarcation entre les différents groupes ou organisations (indépendantistes, régionalistes, autonomistes, séparatistes…) passe par l’affirmation d’un programme et d’une ligne politique et non pas seulement par le désir de séparation territoriale.

Nous sommes à la fois dans une politique de « Front unitaire » ou de « Front national de libération » vis-à-vis de l’État jacobin français (ou cavourien en ce qui concerne l’Italie), c’est-à-dire la constitution d’un rapport de force face à un ennemi identifié comme commun, mais aussi dans la constitution d’un rapport de force destiné à construire un autre projet de société et de civilisation. Et c’est sur ce plan que tout se joue.

 

R.M.M. : Je vois que nous nous rejoignons dans notre analyse. Nous n’avons cessé de dire qu’il ne servait à rien de se débarrasser de la « tutelle » française si on gardait le modèle de société que l’on nous a imposé depuis 152 ans. Nous avons toujours dit à ceux qui critiquent tout ce qui se fait dans le domaine culturel niçois (en dénigrant et en caricaturant à l’extrême toutes les associations et autres groupements musicaux, théâtraux, culinaires) qu’il ne servirait à rien d’avoir un Comté de Nice libéré s’il n’y avait plus de Niçois, plus d’organisation territoriale niçoise, plus de langue niçoise, plus de musique niçoise, plus de culture niçoise. Nous pensons, à l’image de tous les peuples qui se sont libérés, que le préalable culturel et structurel est fondamental.

 

J.-M.F. : Entre les différents mouvements de libération du Comté de Nice, il y a peu de différences d’interprétation sur les faits juridiques ou historiques. Par contre déjà sur l’analyse du système politique et économique français surgissent des contradictions. Des groupes comme la L.R.L.N., le Parti niçois, la Ligue savoisienne et même le Gouvernement « provisoire » de Savoie, font l’impasse sur la critique du système de développement français, car, semble-t-il, ils n’ont pas pour perspectives d’en changer.

Quand nous communiquons, nous ne devons pas nous contenter de fustiger l’aspect colonial immédiat, mais il nous faut pousser plus loin l’analyse et l’argumentaire, car nous nous adressons aussi aux victimes de ce système qui ont, hélas, assimilé l’idéologie jacobine et « progressiste » française du modèle dominant universel et à qui nous devons faire la démonstration des aberrations qu’il contient… Quant à la question de l’enracinement topique, il ne peut être dissocié de l’aspect culturel , et la reconquête de la langue est primordiale. Encore faut-il utiliser cette langue non seulement pour ses aspects « folklorique » mais, aussi, prouver que nos langues sont vivantes y compris dans l’expression politique de l’analyse de la situation actuelle et des propositions qui en découlent

L’art du bon forgeron, c’est d’être capable de mettre et de travailler deux fers au feu, c’est ce que nous devons tenter de faire.

 

R.M.M. : Pouvez-vous préciser votre pensée ?

 

J.-M.F. : En juin 2008, j’avais écrit ce texte : « Davan la fin do faiou » (7) :

« C’est fini, l’ingénierie financière a atteint ses limites ; elle n’est plus capable de générer les masses d’effets financiers et les profits qui ont soutenu la marche de l’économie dite virtuelle dont l’économie réelle tirait sa croissance et sa compétitivité.

De fait elle n’est plus capable de réaliser les profits qui soutenaient la croissance de notre niveau de vie.

Le monde de la finance finit par avouer ses limites, mais nous nous refusons de l’entendre comme nous nous sommes refusés depuis quarante ans d’écouter le message des vrais écologistes.

Notre modèle de développement, notre modèle sociétal est terminé.

Que l’on parle de rigueur, de décroissance, d’austérité, peu importe, c’est fini : il n’y aura plus de miracle ou de relance.

D’ailleurs cet espèce de Léviathan insaisissable que l’on appelle le « Marché » l’a bien compris lui, quelles que soient les mesures annoncées par nos politiques, de quelques bords dont ils se réclament : la bête s’affole.

Parce que la Bête n’est que le reflet de nous-mêmes, de nos besoins, de nos envies et de notre propre désarroi.

Notre modèle de progrès social et idéologique basé sur l’industrialisation du monde et le développement des techno-sciences a fait long feu :  que l’on se définisse comme partisan de l’économie de marché (capitalisme) ou partisan de l’économie sociale et solidaire (humanitaro-progressisme), il n’est pas possible de croître indéfiniment dans un espace fini. »

 

R.M.M. : En effet, vous aviez anticipé la crise.

 

J.-M.F. : Nos ressources énergétiques à bas coût ne vont pas tarder à s’épuiser, des changements climatiques sont en cours, la perte de notre biodiversité nous conduira inévitablement à des épizooties animales ou végétales de plus en plus fréquente. Quant aux technologies de substitution ou extrêmes, elles nous font prendre de jour en jour des risques inconsidérés : Tchernobyl, forages B.P., O.G.M., nanotechnologies, etc.

Les abeilles sont en train de disparaître  et nous sous félicitons de pouvoir remplacer, dans le coca, le sucre par de la Stévia. (Au secours, sauvons la recherche !)

Notre rapport au monde, à l’environnement qui nous entoure, n’est devenu qu’un rapport de force basé sur l’intérêt fonctionnel à court terme : nous avons perdu le sens des mesures et même le simple « bon sens ».

Tout est devenue valeur négociable, l’amitié s’est transformée en relationnel, le malheur fait augmenter le P.I.B., un bien commun (une ressource naturelle, un paysage) devient un produit touristique et une idée à la base généreuse se transforme en quelques années en un produit commercialisable. N’est-ce pas, chers alternatifs ?

En quelques années, le volume financier généré par les associations « dites  humanitaires »  (O.N.G. diverses) dépasse celui généré par l’industrie automobile.

Investir dans le malheur des autres est devenu un des meilleurs placements. Ce n’est pas un hasard si les grandes écoles privées et l’université s’investissent dans ce domaine.

L’humanitaire et l’environnement qui sont devenus les territoires mystiques des nouveaux missionnaires occidentaux.

 

R.M.M. : Alors que les églises se vident, la société « laïque » est devenue « christianomorphe » induisant la compassion, la culpabilisation (et son corollaire, l’humanitarisme) et l’on s’aperçoit que les structures qui ont servi de modèle dans le passé sont devenues obsolètes.

J.-M.F. : Ce n’est pas que notre modèle sociétal qui s’écroule : État-nation, consensus républicain, démocratie par délégation, libertés aseptisées. C’est notre modèle de civilisation.

Et ce modèle a cessé de faire rêver. Pire encore,  il ne nous apparaît pas d’autres solutions que de continuer le même chemin. En montagne, si l’on arrive devant un abysse avec son troupeau, on fait demi-tour, l’on rebrousse chemin, et l’on cherche un passage pour contourner l’obstacle. Nos « décideurs », les édiles politiques que nous élisons (avec un tel taux de réussite et un tel taux d’abstention que leur légitimité doit être contestée) continuent à faire avancer le troupeau dans la même direction.

Faisons semblant de faire différent pour essayer de continuer pareil. Cette phrase digne d’une cour d’école semble être devenu le slogan de nos chers « décideurs ».

En ce qui concerne notre modèle français républicain, il est encore plus obsolète que les autres : jacobin, parisianiste, imbu de lui-même, le coq gaulois continue à chanter les deux pieds dans le fumier. Toute sa légitimité repose en grande partie sur des impostures historiques longuement entretenues par l’éducation nationale et les médias. On continue d’encenser les grands hommes de l’histoire de France ceux qui ont renforcé le rôle centralisateur et omnipotent de l’État et ont participé à la fondation du mythe de la nation unique et civilisatrice, voire d’une virtuelle « race française » (de 1791 à 1945). Un des pires massacreur de l’humanité, Napoléon Buonaparte, reste ainsi un héros de l’histoire de France. Autres personnages peu recommandables: Charles Martel qui pilla surtout l’Occitanie, François Ier, Louis XIV, l’ensemble des dirigeants de la Convention et du Directoire, Napoléon III (celui des massacres d’insurgés au coup d’État dans le Var et les Alpes-de-Haute-Provence en 1851, celui de l’annexion de Nice et de la Savoie), Adolphe Thiers, Jules Ferry etc.

Il ne s’agit plus aujourd’hui de changer de logiciel ou d’améliorer celui que nous utilisons, il s’agit de se poser la question de savoir si, pour travailler la terre, faire pousser des légumes et se nourrir, une bêche n’est pas plus efficace qu’un ordinateur.

Parce qu’il ne faut pas nous leurrer, pour la génération de nos petits-enfants et de leur descendance, le problème essentiel ne sera pas celui du taux d’allongement de l’âge de la retraite ou de l’augmentation des cotisations sociales, ce sera celui des besoins élémentaires : l’accès à l’eau et à la terre pour se nourrir dans un monde où la guerre de tous contre tous sera devenue la règle du jeu.

 

R.M.M. : Mais on ne peut occulter le « fait démographique » qui pèse sur l’avenir harmonieux de notre planète (et de nos territoires). Nous sommes sept milliards d’individus et les « faiseurs d’opinions » se réjouissent que nous soyons toujours plus nombreux. Quand vous parlez de l’accès à l’eau et à la terre, on ne peut nier ce paramètre.

 

J.-M.F. : La question démographique est effectivement une question cruciale à aborder, mais elle est, de toute façon, liée au modèle développement.

Jean de Savoie avait, d’ailleurs, posé ce  principe : « Comment pérenniser les ressources d’un territoire de façon à les transmettre aux générations futures ? »

Il y a donc, de fait, une limite démographique à un territoire donné, ses ressources ne sont pas extensibles et pour qu’elles le demeurent pour les autres générations, il faut qu’elles soient utilisées de manière raisonnable (c’est-à-dire soutenables et reproductibles).

Le modèle de développement urbain universaliste n’a pas intégré cette vision des choses, puisque, compte tenu du prix de l’énergie (qui se répercute immédiatement sur le transport), il s’est contenté d’aller piller les ressources des autres peuples, leur imposant par ailleurs la vision réductrice de la civilisation occidentale.

La maîtrise de la démographie est fondamentale. Dans son ouvrage Traité de polémologie, Gaston Bouthoul, qui analyse la démographie comme facteur de guerre explique comment les civilisations anciennes avaient résolu le problème avant l’invention de la contraception chimique et malgré le taux de mortalité qui ne permettait pas toujours de réguler le phénomène. Il s’agissait par diverses méthodes de réguler l’aspiration à procréer des diverses classes d’âges. Nos partisans modernes et « progressistes » du multipliez-vous et croissez mettent en avant le fait qu’accédant au niveau de vie d’opulence occidentale : les femmes mieux éduquées ont moins d’enfants. Certes, mais ils oublient qu’une famille de ce type pèse cinq à huit fois plus sur l’équilibre de la planète qu’une famille de paysans de huit enfants du Viêt-Nam ou du Bengale.

 

R.M.M. :  Dans ce cas, ne pensez vous pas que les trois grandes religions du Livre (c’est-à-dire les monothéismes) sont un frein à cette régulation ?

 

J.-M.F. : Il est vrai que nous sommes entrés dans l’ère de la pensée la plus obscure de la civilisation humaine qui consiste à placer la vie biologique de la personne humaine au-dessus de toutes les autres vies, voire des autres valeurs. L’aspect uniquement matérialiste de la pensée humaine moderne considère aujourd’hui la mort comme l’ennemi de la vie, alors que, durant des siècles, nous l’avons considéré comme une étape. En fait c’est que nous avons perdu le sens au bénéfice de l’utile et du fonctionnel. Nous sommes arrivé à un degré de civilisation ou nous refusons à la fois l’accident, c’est à dire l’intrusion du hasard, et aussi jusqu’à l’expression « mourir de causes naturelles ». Peu importe que nous nous soyons seulement transformés en objet de consommation et non en sujet de notre vie. La vision « humanitaire et progressiste » de l’histoire, rejoignant ainsi la vision « libérale et  capitaliste »,  a tout fait d’ailleurs pour imposer ces fameuses versions universalistes des sociétés humaines en diabolisant les aspects spirituels, familiaux, claniques et traditionnels qui représentaient le principal obstacle à la modernité et en développant à outrance les liens d’interdépendance au système techno-industriel de la marchandisation du monde.

 

R.M.M. : Mais on nous rétorquera que la dépendance au Système a pour corollaire une protection de l’individu.

 

J.-M.F. : Ceci est un énorme mensonge. Ne vous faites pas d’illusion sur la capacité de l’État français à vous protéger en fonction de vos capacités de soumission. L’État s’est affalé deux fois dans notre histoire contemporaine en juin 1940 et en mai – juin 1968. Il suffirait de pas grand-chose pour qu’il disparaisse durant une période : un accident technologique majeur par exemple.

Plus un organisme développé est complexe et centralisé, et plus il est fragile.

Qu’avons-nous à espérer du modèle français et de son système politique ? Entre la famille des libéraux-démocrates sociaux (la droite) et les sociaux-démocrates libéraux (la gauche), nous donne-t-on véritablement un choix ? Entre les héritiers, aujourd’hui prétendument réformateurs, du léninisme et ceux des totalitarismes bruns, quel est le moins pire ? C’est en cela que le concept du slogan « Ni droite ni gauche » ne se résume pas à une référence seulement idéologique ou historique, voire à un mot d’ordre nationaliste, mais bien à une remise en question du système existant.

Entre être un citoyen sous tutelle ou un sujet libre et responsable, quel sera votre choix ?

R.M.M. : C’est donc remettre complètement en question notre façon « d’être au monde » ?

 

J.-M.F. : Absolument, il faut rompre avec un État fondé sur la contrainte pour retrouver nos « valeurs ancestrales ». Le Comté de Nice a constitué pendant des siècles une confédération de communes librement associées entre elles, dont l’économie était essentiellement autosuffisante et localisée.

Malgré les dégradations (bétonnage de nos côtes et de nos montagnes, destruction d’écosystèmes importants), nous disposons encore d’atouts majeurs : des terres peu polluées, de l’eau, une réserve de biomasse importante et un climat encore propice.

Alors ! Pourquoi pas ? Pourquoi ne pas faire valoir notre droit et reprendre nos libertés afin de construire un autre modèle de développement pendant qu’il en est encore temps.

Nous savons les efforts qu’il nous faut faire pour constituer un cheptel, pour qu’une terre nous nourrisse sans l’épuiser, pour entretenir un filet d’eau dans la montagne. Nous savons que la valeur d’un arbre ne se mesure pas qu’en stère de bois de chauffage ou en kilo de pâte à papier et qu’une prairie de fauche ne se mesure pas qu’en bottes de foin.

 

R.M.M. : Vous parlez d’agriculture dans notre pays, mais elle semble être de plus en plus menacée aujourd’hui. Quand on sait qu’avec les terres fertiles que nous avons dans notre Comté, nous produisions 90  % de nos besoins en fruits et légumes au début du XXe siècle alors qu’aujourd’hui cette production locale ne représente que 10 % de nos besoins, quelle serait la solution envisagée ?

J.-M.F. : On ne peut parler d’agriculture dans nos pays de montagnes, que ce soit dans le Comté de Nice, en Corse, en Provence, en Sardaigne (voire en « Occitanie » de montagne) en faisant l’impasse sur les réalités historiques.

C’est le système techno-industriel de la marchandisation du monde, ce que d’aucuns adorent mystiquement sous l’appellation de progrès auquel ils associent un hypothétique sens de l’histoire, qui a tué notre agriculture.

Deux phénomènes se sont conjugués pour en arriver à la disparition de l’agriculture dans nos pays.

Le premier est l’équivalent de l’enclosure (9) qui débute très tôt en Angleterre verra son application en France grâce aux suites de la Révolution française de 1789 qui favorise la propriété privée au détriment du droit d’usage et des communaux.

Pendant des siècles (de la civilisation du Bégo à la colonisation romaine), les tribus du Comté de Nice sont régies par la loi des « manses ». Chaque famille a droit à un lot de terre clôturée où il y établit une habitation, loge les bêtes, la basse-cour, et cultive une partie potagère. Cette propriété privée est volontairement limitée et nul pour s’agrandir ne peut acheter la manse du voisin (10). Tout le reste est commun (et non communal) et se réparti en termes de droits d’usage déterminés par les habitants d’un territoire. Chaque famille envoyant un représentant homme ou femmes à l’assemblée des « communeux ». Ces traditions traverseront en partie l’Empire romain, la féodalité, l’administration des ducs de Savoie, et céderont après la première occupation française (1792 – 1814). Les derniers vestiges : les droits de « bandites » qui découlent des droits de libres affouages, de glanage et de vaines pâtures seront abolies en 1962.

Jusqu’à l’établissement du chemin de fer (1870 – 1892) (11), l’agriculture est essentiellement vivrière à cause des difficultés de déplacements, seules les terres à proximité immédiate des villes suscitent des échanges économiques de produits agricoles. Il ne serait jamais venu à l’idée d’un paysan de la Haute-Roya, de la Tinée, de la Vésubie, ou du Haut-Var de descendre vendre ses surplus sur les villes de la côte. Mais les progrès des moyen de communication sont aussi à double tranchant : le modèle d’agriculture de nos pays n’est plus concurrentiels avec celui des grandes plaines fertiles de la France. La charrue vient de tuer l’araire (12).

La minoterie à vapeur vient d’étouffer le moulin (à vent, à eau ou à sang) (13).

Une autre institution viendra achever notre agriculture au nom d’une « égalité des territoires de la République Française » qui ne veut pas tenir compte justement de la diversité de ces terroirs. Ce sont les droits de succession et les mesures dissuasives visant à abroger l’indivision (14). À partir du moment où le revenu agricole diminue par fait de concurrence, les paysans de nos contrées ne sont plus en mesure de payer les droits de successions aussi, générations après générations, ils vont vendre petits bouts par petits bouts leur patrimoine aux touristes et aux spéculateurs. Ce phénomène est lui aussi lié au progrès des moyens de transport dans les années 1965 – 1985. L’autoroute de l’Estérel sera le départ de la disparition des maraîchers de la plaine du Var et de nos collines et si le développement du fret aérien permet aux horticulteurs de commencer à exporter, ils s’apercevront trente ans plus tard que les importations venues d’ailleurs commencent à les concurrencer sérieusement. Surtout pour leurs collègues en fruits et légumes. Les wagons et les camions frigorifiques, et surtout Nestlé avec son lait en poudre ou concentré, signeront la fin des vacheries du Comté de Nice (15).

Et je ne parlerai pas des dégâts de la P.A.C. et de son système de subvention qui pour l’élevage se révèle encore plus catastrophique, plutôt que de protéger nos exploitations des importations; on a choisi de compenser la différence de prix par un système d’exploitation qui favorise la possession d’hectares et la médiocrité du produit. Pour l’agriculture, on a favorisé la facture des semences et celle de l’eau au détriment aussi de la qualité de la récolte.

Lorsque l’on passe la frontière administrative avec la Ligurie ou le Piémont; la lecture du paysage est significative. Sur la Côte, non loin du bord de mer subsistent encore de nombreuses exploitations de fruits et légumes et dès que l’on attaque les collines et la montagne, on sent la présence encore active d’exploitation agricole. Il n’est pas étonnant que « slow food » soit une idée italienne.

Il n’est pas possible de sauver nos terres agricoles et de relancer une agriculture alimentaire et non de micro-niches réservée à une clientèle de « Bo-Bos résidents » ou de touristes de passages, sans remettre en cause, les causes fondamentales qui nous ont conduites à la situation actuelle. Il faut geler les terres agricoles ou celles qui sont susceptibles de le redevenir par des mesures draconiennes qui remettent en cause l’industrie touristique et les plans d’urbanisation; mais aussi par des mesures incitatives sur la transmission et la cession de terres agricoles à des agriculteurs. Sans qu’il soit nécessaire comme sous les lois françaises d’avoir un niveau Bac + 4 pour prétendre être éleveur ou cultivateur. Il faut exonérer de taxe et de droit de succession les terres lorsqu’elles sont destinées à des agriculteurs de la famille qui reprendront tout ou partie d’une exploitation.

Il faut taxer plus lourdement les grandes surfaces qui refuseraient de vendre moins de trente pour cent de produits locaux. Donner la priorité sur les marchés aux producteurs locaux même si ceux-ci ne peuvent occuper une place tout au long de l’année. Il faut simplifier les démarches administratives et les règlements qui ne sont là que pour favoriser la concurrence internationale et l’industrie agro-alimentaire. Taxer les produits au kilomètre parcouru en tenant compte des zones montagnes.

Le débat est ouvert, y compris avec les organisations agricoles locales dont on souhaiterait qu’elles fassent preuve d’un peu plus d’imagination et un peu moins d’idéologie.

 

R.M.M. : Vous évoquiez les Bo-Bos résidents et autres touristes, mais que dire de la « colonisation » de notre territoire par l’apport de population (un peu comme en Cisjordanie) ?

 

J.-M.F. : Une immigration qui coûte cher aux populations du Comté de Nice et dont on ne parle jamais ! Je veux, par exemple, parler des emplois de très haut niveau.

« Si le chômage augmente, c’est parce que nous créons des emplois » déclare, provocateur, Christian Estrosi. « Notre territoire compte des emplois de très haut niveau, et ces salariés viennent avec leurs conjoints, qui deviennent parfois demandeurs d’emploi », explique le président de la Métropole Nice – Côte d’Azur. Ce phénomène de chômeurs par ricochet représenterait de 500 à 750 personnes selon la C.C.I.

S’ils viennent avec leurs conjoints(-tes), c’est bien parce qu’on les faits venir d’ailleurs, car il reste évident, pour les décideurs français, que plus de 150 ans de colonisation, n’ont pas permis aux populations indigènes ou autochtones d’acquérir les formations et le niveau nécessaire à l’exercice de responsabilités à haut niveau. D’ailleurs il n’y a qu’à voir à qui sont confiés, par les municipalités de Nice qui se sont succédées, les postes de cadres supérieurs. Et cette situation se confirme, de jour en jour, avec les CANCA, les Métropoles et autres E.P.A. et O.I.N.

Seulement personne n’ose soulever le problème d’une discrimination positive qui serait en faveur non pas des « familles niçoises de sang bleu » mais au moins de celles qui résident à Nice et qui y ont pris racine.

La droite locale a peur que les responsables qu’elle emploie fassent un jour passer la sensibilité au patrimoine du « Païs Nissart » au-dessus des intérêts financiers et électoraux des clans en place. Quant à la gauche, c’est au nom de l’égalité républicaine et de la France territoriale une et indivisible qu’elle a toujours favorisé les clans parisianistes.

Ainsi ce phénomène conduit-il à une paupérisation accrue de notre population qui n’est pas sans conséquences, car qui dit hauts revenus dit spéculation foncière et immobilière jusque dans l’arrière-pays donc impossibilité pour les actifs niçois de se loger près du bassin d’emploi et, d’autre part, empêche les jeunes agriculteurs de s’installer pour « travailler au pays ».

Un deuxième aspect de ce phénomène est la pression constante sur les salaires et l’emploi :  en effet, les conjoint ou conjointes de ces hauts cadres immigrés à haut revenus peuvent souvent se satisfaire d’emplois à tiers-temps ce qui induit une rémunération concurrentielle, car, pour ceux-ci, cela ne constitue, bien souvent,  qu’un revenu d’appoint voire de l’argent de poche. On peut aisément imaginer que les projets O.I.N., Grand Stade, Nice Grand-Arénas, etc., vont largement amplifier ce phénomène.

Mais, comme toujours, aucun homme (ou femme) politique qui se propose de prendre en main les destinées des populations de Nice et de notre Comté n’osent soulever le problème ou faire des proposition visant à changer cet état de fait, on continue à réitérer les mêmes erreurs.

 

R.M.M. : D’où l’émergence du M.C.P.N. (Mouvement citoyen du Pays niçois) dont vous êtes le délégué provisoire ?

J.-M.F. : Exactement, cela est venu comme une conclusion évidente de discussions et analyses que nous avons eu entre amoureux de cette terre du Comté de Nice venus d’horizons fort divers mais conscient de l’échec des démarches politiques entreprises depuis très longtemps dans ce pays. Ces démarches ont toutes échouées car elles se sont inscrites dans le schéma conventionnel  défini par l’État français avec les règles du jeu de la « République une et indivisible ». Il nous a paru évident que le combat était perdu d’avance. C’est pourquoi, nous étant débarrassés de nos « présupposés idéologiques », nous avons tous fini par nous rencontrer pour définir une autre forme d’action inspiré du slogan employé par la branche politique de l’I.R.A. en Irlande « Sinn Féin » qui veut dire « Nous seuls ».

 

R.M.M. : Et qu’avez-vous produit, quelles actions avez-vous menées ?

 

J.-M.F. : Parce que nous sommes des gens responsables, nous n’avons rien voulu lancer sans être prêts à répondre aux questions que l’on ne manquera pas de nous poser et sans avoir un programme relativement complet à proposer. Mais cette période de réflexion a été vraiment intense dans l’élaboration de nos travaux préparatoires: recherches historiques, réflexion politique, travail sur une charte du M.C.P.N., travail de fond sur une « nouvelle constitution », rencontre avec d’autres mouvements citoyens (Piémontais, Savoisiens, Genevois, Ligure…), avancée sur la constitution d’un Arc Alpin, etc. Vous voyez nous ne sommes pas restés les bras croisés.

 

R.M.M. : Et vous comptez lancer, effectivement, le Mouvement citoyen du Pays niçois (Motou citadin dou Païs nissart) à quel moment ?

 

J.-M.F. : Nous prévoyons de tenir une réunion publique (à laquelle la presse sera, bien sûr, invitée) après la rentrée des grandes vacances en septembre (la date va être bientôt définie) pour présenter notre mouvement et l’inscrire dans le paysage niçois.

 

R.M.M. :  Et vous avez des manifestations prévues par la suite ?

 

J.-M.F.: Je ne récuse aucunement les opérations d’agit-prop (agitation-propagande) que nous pourrions être amenés à faire, en fonction de l’actualité, mais je pense que notre grand rendez-vous avec le peuple de Nice et de son Comté aura lieu en 2014. En effet, deux ans après les élections d’aujourd’hui, la France sera loin d’être sortie de l’ornière et les déçus seront nombreux. Cela correspondra au deux-centième anniversaire de la Restauration sarde, qui signe la fin de l’occupation française, mais également aux élections municipales (voire des nouvelles entités territoriales) et là il faudra aller au charbon et mettre les mains dans leur « cloaque politicien » pour participer, c’est-à-dire présenter des candidats dans les petites communes de montagnes. Car en Savoie comme chez nous, la résistance et la libération sont toujours venues des montagnes, quelles que fussent les époques. Cela permettra entre autre aux communes de retrouver leurs libertés  face à la volonté centralisatrice des Métropoles (Nice, Menton) qui ont calqué leur mode de fonctionner sur le modèle de la « République jacobine française ».

 

R.M.M. : Jean-Marc, nous souhaitons, donc, longue vie au M.C.P.N. et vous remercions de nous avoir accordé de votre temps pour permettre à nos lecteurs d’être informés de ce qui touche à leur avenir tout en étant un signe d’espoir.

J.-M.F. : Je tiens aussi à vous remercier de m’avoir ouvert les pages de votre  site pour me permettre de m’exprimer, et, ce sans aucune censure, ce que je tiens à souligner, car c’est quelque chose qui est devenu presque impossible de nos jours dans les médias traditionnels.

Notes

1 : Le nissart est la langue du pays niçois.

2 : Le Nissart est l’habitant enraciné du Pays niçois.

3 : L’auteur fait référence au Lumpenprolétariat pour désigner le sous-prolétariat.

4 : Ici dans le sens de « rien ».

5 : Discussion

6 : Référence au militaro-politique ou politico-militaire…, voir l’I.R.A., E.T.A., le F.L.N.C.

7 : Avant la fin des haricots.

8 : Au moment de cet entretien, il n’y avait pas encore eu Fukushima (note de R.M.M.).

9 : Le mouvement des enclosures fait référence aux changements qui, dès le XIIe siècle mais surtout à partir de la fin du XVIe et au XVIIe siècle ont transformé, dans certaines régions de l’Angleterre, une agriculture traditionnelle dans le cadre d’un système de coopération et de communauté d’administration des terres (généralement champs de superficie importante, sans limitation physique) en système de propriété privée des terres (chaque champ étant séparé du champ voisin par une barrière, voire bocage). Les enclosures marquent la fin des droits d’usage, en particulier des communaux, dont bon nombre de paysans dépendaient.

On peut trouver plusieurs raisons à ce mouvement d’enclosure :

— une raison juridique : les potentats locaux souhaitaient conserver l’exclusivité des terres mais l’absence de cadastre nécessitait de matérialiser les limites foncières;

— une raison « naturelle » : les haies permettent de parquer les animaux et de se protéger des bêtes errantes;

— une raison « environnementale » : les haies absorbent l’eau et les fossés ayant permis la surélévation desdites haies drainent cette eau. On crée soit des haies d’arbres fruitiers (pour améliorer la production agricole) soit des ronciers pour mieux encore défendre les parcelles.

Mais la raison fondamentale est la suppression des droits d’usage (vaine pâture, communaux) qui permet la liberté des assolements.

Le mouvement des enclosures a commencé en Angleterre au XVIIe siècle. Des champs ouverts et pâturages communs cultivés par la communauté, ont été convertis par de riches propriétaires fonciers en pâturages pour des troupeaux de moutons, pour le commerce de la laine alors en pleine expansion. Il s’est ensuivi un très fort appauvrissement de la population rurale de l’époque, entraînant parfois des mouvements de révolte, comme dans les Midlands en 1607.

Selon l’historien Patrick Verley, « l’historiographie a longtemps centré son attention sur le phénomène des enclosures et sur ses conséquences sociales, mais elles ne constituent pas une révolution agricole, elles n’en constituent qu’un préalable, qui n’entraîne pas automatiquement un progrès de la production et de la productivité ».

10 : Un moyen d’éviter l’accumulation du capital.

11 : C’est l’invention de la dynamite qui permettra l’essor du réseau routier de montagne.

12 : L’araire à été l’outil le plus utilisé dans nos terroirs depuis la fin du Néolithique jusque dans les années 1900. En effet et avant les Bourguignons (La terre et le sol), nos paysans incultes et rétrogrades (voire réactionnaires) avaient compris qu’en retournant la terre, on bouleversait l’équilibre des couches qui compose un sol fertile. L’araire ne retourne pas le sol, mais le fend et le décompacte sur une profondeur maximale de 14 à 15 cm.

13 : Voir « Le secret de maître Cornille » dans Les Lettres de mon Moulin d’Alphonse Daudet.

14 : Le Crédit Fonciers de France jouera d’ailleurs un rôle essentiel dans la confiscation des terres des Niçois dès l’arrivée du train en gare de Nice (promesse de Napoléon III motivant l’annexion de Nice) en prêtant à faible taux aux investisseurs étrangers et en refusant le crédit aux autochtones s’ils n’étaient pas cautionnés par un intérêt étranger (Français ou Européen, voire Brésilien).

15 : C’étaient les camions de la S.A.P. qui retournaient depuis les vallées sur Nice en fin d’après-midi qui se chargeaient du ramassages des bidons de lait dans les villages et les déposaient devant la laiterie Otto Bruck (située rue de France).

Propos recueillis par Robert Marie Mercier.

• D’abord mis en ligne sur Racines du Pays niçois, le 5 mai 2012.


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vendredi, 28 septembre 2012

Les terroristes de l’OTAN visent la Syrie et l’Algérie

 

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Tony CARTALUCCI:

Les terroristes de l’OTAN visent la Syrie et l’Algérie

 

Les dirigeants occidentaux admettent que les opérations de l’OTAN en Libye ont joué un rôle de premier plan dans la consolidation de la fraction AQUIM d’Al-Qaeda (= “Al-Qaeda pour un Maghreb Islamique”).

 

Bruce Riedel de la “Brookings Institution”, un organisme qui est financé par 500 entreprises consignées dans la fameuse liste de “Fortune”, a écrit, dans un article intitulé “The New Al Qaeda Menace”, que l’AQUIM est désormais mieux armé qu’auparavant à cause de l’intervention de l’OTAN en Libye et que les bases du mouvement au Mali, et ailleurs en Afrique du Nord, sont désormais opérationnelles pour une activité terroriste sur le long terme dans toute la région.

 

Tant l’AQUIM que son homologue libyen, le “Groupe des Combattants Libyens Islamiques” ou, en anglais, LIFG, ont tous deux été placés sur la liste du Département d’Etat américain comme “organisations terroristes étrangères”. Ces deux organisations figurent également sur les listes noires du “Home Office” britannique. Quant aux Nations Unies, elles considèrent, elles aussi, que ces deux groupes sont de nature terroriste.

 

Malgré cela, l’intervention militaire en Libye a été perpétrée par l’Occident avec l’assentiment de l’ONU, tout en étant parfaitement conscient que les militants qui téléguidaient la dite “révolution démocratique” étaient bel et bien les continuateurs des actions terroristes violentes, commises depuis des décennies par “Al Qaeda”. L’Occident savait parfaitement de quoi il retournait tout simplement parce que ce sont les services secrets occidentaux qui, pendant trente ans, ont armé et soutenu ces “moudjahiddins”. Dans le cas libyen, ils ont été particulièrement bien chôyés par Londres et Washington.

 

De plus, il faut savoir que l’armée américaine elle-même a établi une documentation minutieusement tenue à jour de tous les terroristes étrangers qui ont combattu en Irak et en Afghanistan. Cette documentation montre que le plus haut pourcentage de ces combattants venait des villes libyennes de Benghazi et Darnah, toutes deux considérées comme le berceau de la “révolte pour la démocratie” en Libye.

 

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Tous ces faits, énumérés ici, prouvent qu’il y a eu préméditation et mensonge: le lieu même où s’est subitment ravivé le cartel activiste, rien qu’en l’espace d’une seule nuit, s’est transformé en un “avant-poste bien aguerri et armé jusqu’aux dents”, disposant de blindés et de pilotes d’avions à réaction. Cet avant-poste était fin prêt à déclencher une guerre sans merci contre le régime du leader libyen Khadafi. En réalité, il n’y avait rien de “spontané” dans cette révolte: nous avons là-bas, en Libye, le fruit de trente années de soutien occidental. Les puissances occidentales, en effet, ont toujours fourni en secret armements et soutien logistique à ces groupes mobiles de combattants sur n’importe quel territoire de l’espace islamique: ce soutien ne se terminera pas parce que Khadafi est tombé.

 

Les terroristes du LIFG se sont immédiatement envolés vers leur nouveau front oriental, la Syrie, et leur nouveau front occidental, le Mali. Donc en dehors des frontières de la Libye. La structure logistique, dont ils bénéficient, s’est continuellement perfectionnée pendant cette dernière décennie, au cours de leurs opérations en Irak et en Afghanistan. Le commandant du LIFG, Abdoul Hakim Belhaj, se trouvait déjà en novembre 2011 sur la frontière turco-syrienne pour fournir de l’argent, des armes et des combattants terroristes, issus des rangs du LIFG, le tout sous la supervision des services secrets occidentaux. Il fournissait également les rebelles syriens en argent et en armements que les Etats-Unis recyclaient via les Etats du “Conseil de Coopération du Golfe” (GCC) comme le Qatar et l’Arabie Saoudite. Dès ce moment, on a pu confirmer, de source sûre, que les militants libyens se sont hissés à tous les postes de commandement des brigades de combattants étrangers qui sévissent en Syrie.

 

Comme l’a admis Bruce Riedel de la “Brookings Institution”, les armes, récoltées par le LIFG, se sont retrouvées aussi sur le front occidental, au Mali. L’Algérie craignait depuis longtemps un tel scénario, dès l’intervention de l’OTAN en Libye. Les craintes algériennes étaient parfaitement justifiées, comme on peut désormais le constater. Il nous parait également intéressant de noter que ce Riedel, en août 2011, cherchait déjà à créer les circonstances d’un bouleversement en Algérie, car, dans un article significativement intitulé “L’Algérie sera la prochaine à tomber”, il imaginait déjà en toute clarté la déstabilisation et la chute du régime algérien actuel.

 

Il y a un an, Riedel tentait de soutenir l’hypothèse que le dit “Printemps arabe” se diffuserait en Algérie dès qu’il aurait triomphé dans la Libye voisine. Dans cet article, Riedel oubliait, bien entendu, d’expliquer ce qu’étaient ces “printemps arabes”, alors que cela saute désortmais aux yeux du monde entier: par “Printemps arabe”, Riedel entendait, in petto, la subversion appuyée par les Etats-Unis et, plus spécialement, l’appui aux militants terroristes armés par l’OTAN et issus d’Al-Qaeda.

 

Les Etats-Unis arment partout les terroristes d’Al Qaeda et les soutiennent ouvertement. Ils font le lit d’Al-Qaeda en Syrie. De toute évidence, la fameuse guerre contre le terrorisme, annoncée urbi et orbi par les présidents américains, est une formidable escroquerie, une escroquerie sans précédent, perpétrée aux dépens de millions de vies, qui ont été détruites, et pour un coût sociale et économique incalculable. L’OTAN, bien consciente des conséquences, est en train de fabriquer en Afrique du Nord, au Proche- et Moyen Orient, des “califats” artificiels, qu’elle soutient au détriment des peuples qu’elle gruge dans l’intention bien nette de perpétuer une guerre globale. Prenant leur inspiration dans les pages du roman “1984” de Georges Orwell, les dirigeants de l’Alliance Atlantique créent de toutes pièces une guerre artificielle pour appuyer les intérêts des consortiums économico-financiers, pour traduire dans le réel leurs stratégies internes et internationales. La “menace contre la civilisation occidentale”, que l’on brandit si souvent pour fustiger artificiellement les combattants djihadistes dans les médias, est en réalité une “légion étrangère” au service des intérêts économiques et financiers de l’Occident, qui traduit dans le réel et à l’échelle globale, la politique extérieure de Wall Street et de Londres, selon des modalités et en des lieux où aucune autre force occidentale n’a jamais pu agir.

 

Le Blitzkrieg terroriste dans le monde arabe ne se terminera pas en Syrie. Il continuera à frapper, si on le consent, en Iran, dans les montagnes du Caucase et même en Russie, sur les confins occidentaux de la Chine voire dans l’ensemble du Sud-Est asiatique. C’est un mélange d’ignorance, d’apathie et de complicité, dans le chef des populations occidentales, qui amène celles-ci à soutenir une “guerre au terrorisme”, alors que, paradoxalement, une telle guerre ne leur apportera que d’affreux déboires, des horreurs bien réelles, dont nous allons assez rapidement hériter, alors que ces mêmes agences médiatiques (noyautées par les néo-conservateurs d’Outre-Atlantique, ndt) affirmaient que nous pourrions les éviter à la condition que nous nous engagions sans hésiter dans cette “longue guerre”.

 

Nous sommes en train de soutenir les machinations politiques de nos politiciens et nous soutenons simultanément les intérêts économiques et financiers des consortiums qui favorisent ce programme belliciste. Cette politique a déjà permis d’offrir des havres régionaux bien sécurisés aux terroristes (utiles). Si le bellicisme continue à miner encore davantage les gouvernements séculiers —et finalement modérés— du monde arabo-musulman et s’il favorise l’éviction de ces régimes, nous encaisserons de plein fouet un “blowback”, un retour de flamme, nous glanerons la vengeance des vaincus humiliés et nous subirons encore bien d’autres conséquences de cette politique étrangère qui n’a d’autre visée que de détruire des équilibres. Rien qu’imaginer que cette folle politique d’immixtion permanente ne finira jamais fait froid dans le dos, surtout qu’elle nous infligera des retours de flamme, notamment sous la forme d’attaques “fausse bannière”, face auxquelles les attentats du 11 septembre 2001 ne seront que de la petite bière.

 

Déjà nous souffrons des effets d’une crise économique et de l’amplification d’un appareil sécuritaire mis en place par nos propres polices. Tant que nous nous aplatirons devant ce programme belliciste, sans jamais le contester, et tant que nous ne revenons pas à la raison, les choses iront de mal en pire.

 

Tony CARTALUCCI.

(article mis en ligne sur le site http://www.ariannaeditrice.it/ en date du 2 septembre 2012).

C’est toujours à l’Est que se lève le monde…

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C’est toujours à l’Est que se lève le monde…

Entretien avec Gilles Arnaud

L’agence russe Itar-Tass a organisé, du 4 au 7 juillet 2012, un forum mondial rassemblant 213 médias de plus de cent pays à Moscou. Parmi les participants se trouvait une délégation de l’Agence2Presse, comprenant les trois directeurs exécutifs de la branche vidéo des Éditions d’Héligoland. À son retour de Russie, nous avons rencontré Gilles Arnaud.

Le Magazine national des Seniors : Vous avez participé au deuxième Sommet mondial des médias (W.M.S. en anglais) organisée par l’agence Itar-Tass à Moscou les 5, 6 et 7 juillet dernier. Quel était le thème de ce colloque ?

 

Gilles Arnaud : Le thème général était les « Médias globaux : défis du XXIe siècle ». En clair, les enjeux d’Internet dans l’information et la désinformation des masses, le rôle des journalistes et de l’État dans l’équilibre des pouvoirs. Les nouveaux médias comme les télévisions connectées, les réseaux sociaux… Il est évident que le métier traditionnel du journaliste a considérablement évolué avec l’urgence de l’information.

La nécessaire vérification de sources multiples peut passer à la trappe devant l’obligation du scoop

 

L.M.N.S. : Mais pourquoi est-ce une agence russe qui organise ce forum ?

 

G.A. : Sans doute parce que la Russie a été confrontée à une virulente campagne de désinformation lors de ses élections présidentielles. On a vu les médias occidentaux ne relayer que les informations et les témoignages de l’opposition, sans trop d’ailleurs se soucier de leur crédibilité. Ou assimiler le peuple russe à quelques centaines de manifestants urbains, dans un pays qui compte 140 millions d’habitants et est le plus étendu du monde. Ou trafiquer des photos pour illustrer des manifestations anti-Poutine pas assez importantes. Ou faire croire que les opposants à Vladimir Poutine ne sont qu’un seul bloc, alors que c’est un agglomérat de groupes aussi différents que des néo-nazis en allant aux L.G.T.B. (lesbiennes, gays, trans- et bisexuels). Aucun média occidental n’a informé ses lecteurs du rôle des blogueurs et des associations financées par les États-Unis dans ces manifestations de rue fort peu spontanées. Ce manque total d’objectivité et d’honnêteté a beaucoup choqué les Russes, car, qu’on le croit ou non, il y a de très nombreux médias d’opposition en Russie, et le réseau Internet est très bien développé. L’information est plus libre qu’en France.

 

L.M.N.S. : Votre délégation était importante ?

 

G.A. : L’Agence2Presse a dépêché sur place ses trois directeurs opérationnels, et nous nous étions attachés les services de trois interprètes.

 

L.M.N.S. : Quels étaient les autres médias français présents à ce sommet ?

 

G.A. : (Rires !) En fait il y avait huit Français accrédités à ce sommet : les trois directeurs de l’Agence2Presse, leurs trois interprètes… et les deux dirigeants d’Havas dont Jacques Séguéla. C’est-à-dire qu’à part une agence de presse de réinformation et un publiciste manipulateur d’opinions ayant travaillé pour Mitterrand et Sarközy, il n’y avait aucun media français. Cela reflète l’état désastreux de la presse française. À n’en pas douter, les raisons de cette absence remarquée sont d’ordre idéologique. Elle reflète bien le profond mépris affiché par la caste médiatique occidentale. Seulement, ce que cette caste n’a pas encore compris, c’est que le monde continue de tourner sans elle, et que les « petits » d’autrefois ont remplacé l’admiration certaine qu’ils portaient aux grands médias occidentaux par une méfiance et un rejet qui scelle la fin d’une hégémonie aussi prétentieuse qu’obsolète. L’intervention du Ministre des médias du Congo-Kinshasa a été, sur cette question, d’une remarquable actualité et faite dans un français qui a depuis longtemps déserté les salles de rédaction françaises!

 

L.M.N.S. : Et vous pourquoi avez-vous répondu favorablement à l’invitation d’Itar-Tass ?

 

G.A. : L’Agence2Presse est très présente aux côtés de la représentation consulaire russe en France, puisqu’elle a notamment diffusé en direct et en français l’investiture du Président Poutine le 7 mai 2012. Nous apprécions la liberté d’esprit et de ton qui caractérise les diplomates et les media russes. Nous avions assisté à un autre colloque médiatique organisée par des journalistes russes en mars dernier à Strasbourg. Nous étions là encore les seuls Français présents, et les interventions nous avaient marqué par leur franchise. La richesse des contacts noués à cette occasion nous a fait entrevoir le IIe W.M.S. comme une opportunité unique de rencontrer des confrères du monde entier.

 

L.M.N.S. : Croyez-vous qu’un tel sommet aurait pu se tenir en France ?

 

G.A. : Sur un plan purement technique, sans doute. Il n’y a pas de raisons valables pour affirmer l’inverse. Néanmoins, il est fort probable que la présence de certaines délégations aurait été mal vue ou à tout le moins déconsidérée chez nous. Pour aller plus loin, disons que la plupart des interventions des participants n’auraient pu s’exprimer de la même manière en France où un seul avis aurait prédominé. La pensée unique a encore de beaux jours devant elle. Lors du Congrès de Strasbourg, par exemple, suite à une intervention musclée de Alexandre Sevastianov (un polémiste et écrivain russe renommé), un technocrate de Bruxelles présent sur la tribune a déclaré : « Vous n’avez pas le droit de dire ça! »… Stupeur dans la salle. Mêmes ceux qui n’étaient pas d’accord avec Sevastianov ont protesté contre les propos du technocrate, en lui disant que s’il avait le droit de ne pas être d’accord, il ne pouvait interdire à quiconque de s’exprimer… Moscou a permis de laisser entendre de nombreuses réclamations contre la presse occidentale, son monopole mondial et sa supériorité souvent déplacée. Cela aurait été difficilement envisageable à Paris ou à Londres. Il n’y a plus de liberté de pensée ou de parole en Occident, c’est un fait.

 

L.M.N.S. : Avez-vous pu participer aux débats ?

 

G.A. : Nous y avions été invités par Itar-Tass, notamment pour exposer nos réalisations en matière de T.V. connectées. Nous avons pu exposer comment nous organisions techniquement et financièrement nos télés sur Internet, en illustrant nos propos avec T.V.NormanChannel, qui est un peu notre vitrine technologique. Et en fait cela a intéressé des pays comme l’Ossétie, soucieuse de développer une télévision professionnelle à moindre coût.

 

L.M.N.S. : Ne pensez-vous pas que ce genre de rencontres internationales soient plus des opérations de relations publiques d’envergure que de véritables sources de résolutions des problèmes mondiaux ?

 

G.A. : Oui et non. Il est clair que ce ne sont pas les grandes déclarations de principes prises lors de la plénière finale qui vont modifier sensiblement l’état de la presse dans le monde. Mais ce grand rendez-vous est indispensable pour prendre le pouls du « pays réel » de la presse mondiale, et de mesurer la volonté de résistance aux manipulations de masse. Il est plus facile de résister dans son coin, si l’on se sait en harmonie de pensée avec des centaines de médias dans le monde. Et il n’y a que ces « grand-messes » pour permettre ces rencontres. Non, ce colloque d’Itar-Tass est réellement de salubrité publique !

 

L.M.N.S. : Comment percevez-vous l’horizon médiatique après ces trois jours de congrès ?

 

G.A. : Il est clair qu’il existe des volontés de par le monde pour renverser l’uniformisation médiatique que l’on connaît actuellement et que tous sont demandeurs d’échanges d’informations, de reportages, et de relais à l’étranger. Dans notre volonté de créer une télévision nationale, nous sommes bien conscients qu’il nous faudra des partenaires à l’étranger. Nous ne serons pas en mesure d’envoyer des journalistes aux quatre coins du monde. Dès lors, ou l’on se contente de resservir la soupe frelatée des agences occidentales, où nous allons directement chercher l’information sur place, auprès des journaux, des télés, des agences de presse locales. Je ne sais pas pourquoi, mais je pense que même si la vérité n’est jamais toute entière du même côté, elle sera beaucoup plus proche de ces sources locales que présente dans les dépêches de l’A.F.P., de la B.B.C. ou de Reuters !

 

L.M.N.S. : Quels sont les contacts que vous avez pu nouer sur place alors ?

 

G.A. : Il y en a beaucoup et il est difficile de dresser une liste exhaustive. Disons que nous retiendrons particulièrement les échanges fructueux avec nos collègues d’Ossétie, de Roumanie, d’Indonésie et du Congo. De la même manière, nous avons pu conclure des accords de collaboration avec l’agence iranienne Mehr, et bien entendu avec Itar-Tass et la radio La Voix de la Russie.

 

L.M.N.S. : Pour vous quel a été l’événement marquant de ce sommet ?

 

G.A. : La passe d’armes entre le directeur de la B.B.C. qui demandait fort hypocritement une totale liberté de la presse dans les pays de l’« Axe du Mal » (Russie, Iran, Syrie, Venezuela, etc.) et la délégation iranienne en session plénière. Le responsable de l’agence Mehr a rappelé à cette occasion que le seul pays qui avait qualifié ses propres ressortissants de pillards lors de manifestations sociales en août 2011 tout en interdisant l’accès des quartiers à la presse, en censurant les réseaux sociaux, en désactivant les téléphones portables, était justement… le Royaume-Uni.

 

L.M.N.S. : Était-ce votre premier voyage en Russie ?

 

G.A. : C’était le deuxième en réalité pour l’Agence2Presse. Nous nous étions déjà rendus à Moscou en octobre 2011. C’est donc une ville que nous connaissions un peu, puisque nous y séjournons à chaque fois plusieurs semaines, et que nous avons retrouvée avec plaisir. Nous allons d’ailleurs y retourner tous les mois, dans le cadre d’une coopération avec Voix de la Russie. Et nous allons probablement aider le plus grand groupe universitaire privée de Russie à se doter d’une télévision interne en connexion avec ses différentes facultés, réparties sur onze oblasts (régions). C’est un beau projet, qui nous demandera sans doute de rester sur place quelques mois.

 

L.M.N.S. : Est-ce que la Russie que vous avez pu voir correspond à l’image qui est véhiculée dans la plupart des médias ?

 

G.A. : Nous n’avons peut-être pas encore une connaissance suffisante de la Russie pour nous permettre de donner un avis définitif, mais il est certain que la plupart des clichés que nous connaissons tous, à savoir une corruption endémique, un autoritarisme contraire à la démocratie, une opposition muselée, et bien d’autres, sont en grande partie faux. Nous avons au contraire pu prendre acte du fait que la presse et la liberté des médias en général était extrêmement dynamique, et ne semblait pas souffrir d’une quelconque censure. Lors de notre séjour, il y a eu d’importantes inondations dans le sud du pays, et les débats sur les causes de la catastrophe ont été lancés immédiatement et sans volonté de nier les éventuelles responsabilités humaines et étatiques. De plus, on sait sur un tout autre aspect que d’importantes mesures ont été prises et appliquées pour lutter contre la corruption quotidienne de certains agents de l’État qui avaient acquis de mauvaises habitudes. Personnellement, nous n’avons pas eu à subir d’éventuelles tracasseries administratives que d’aucuns colportent en affirmant qu’il s’agit d’une constante pour tout étranger venant en Russie.

 

L.M.N.S. : Avez-vous un regret ?

 

G.A. : Sur le congrès en lui-même et son organisation, aucun. Il faut vraiment saluer la réussite d’Itar-Tass et des bénévoles de l’Université de journalisme de Moscou qui ont rempli leur mission avec brio et disponibilité. Après, on éprouve toujours une certaine tristesse lorsque que de tels événements prennent fin, et qu’il faut rentrer au pays.

 

L.M.N.S. : Vous ne voulez plus travailler en France ?

 

G.A. : Si, bien sûr ! Nous avons toujours la volonté de créer cette télé nationale, qui serait la source de réinformation permettant à toutes les structures de notre famille de pensées de s’exprimer et de donner à leur combat une audience jamais atteinte jusqu’à présent. Mais nous sommes sans cesse confronter à la division et aux manques de financement. Nous supportons seuls le développement de ce pôle multimédia depuis quatre ans, sans aucune aide financière. C’est très lourd. Nous utilisons de la haute technologie, et devons suivre une veille technologique permanente. Il est vrai que travailler en Russie est plus facile. Quand la décision est prise, une fois le projet étudié et les relations humaines nouées, les fonds sont mis à disposition. On peut se consacrer à la mission, sans perdre son temps en ronds de jambe ou en mendiant la tranche suivante du financement.

 

L.M.N.S. : Vous conseillerez à nos lecteurs d’aller en Russie ?

 

G.A. : Bien sûr ! Moscou est la plus grande ville d’Europe, c’est la destination idéale d’un week-end. Personne ne peut oublier ses premiers pas sur la Place rouge ! Même ses stations de métro sont des musées. Le renouveau spirituel qui a accompagné les présidences Poutine est palpable dans tous ses monuments. Et puis il y a Saint-Pétersbourg, et toutes ces petites villes qui sont des joyaux d’architecture et d’histoire, comme Novgorod ou Voronej. Pour les plus sportifs, il y a aussi toutes les étendues de la Sibérie, ou la Carélie. Quand on est à Moscou, il ne faut pas oublier que la Russie s’étend encore 7000 km plus loin, à l’Est, vers Vladivostok. Il n’y aucune doute sur le fait que notre soleil se lève à l’Est et que nous n’en sommes qu’au réveil de ce géant.

 

Propos recueillis par Franck Le Dun.

 

Entretien d’abord paru dans Le Magazine national des Seniors, n° 16, juillet 2012, et mis en ligne sur le site d’Agence2Presse, le 24 juillet 2012.


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jeudi, 27 septembre 2012

La nouvelle “sainte-alliance” entre la CIA et Al-Qaeda

Igor IGNATCHENKO:

La nouvelle “sainte-alliance” entre la CIA et Al-Qaeda

 

 

PCN-SPO_cfr_sur_al-qaida_et_asl_2012_08_12_FR.jpgLa Syrie est inondée de terroristes en tous genres. Al-Qaeda vient d’y commettre une série d’actes terroristes. D’après l’ancien commandant de l’Académie navale turque, l’Amiral Türker Erturk, ces actes ont été commis avec l’assentiment des Etats-Unis. L’Amiral turc affirme que l’Occident et ses alliés arabes ont décidé de réitérer le “scénario du Salvador”, en comptant davantage, pour parachever le travail, sur les groupes terroristes que sur l’opposition politique. Les attentats suicides de Damas le confirment.

 

Il faut se rappeler ici les opérations qui ont visé la déstabilisation du Salvador: elles aussi ont fait appel à des attentats suicides, téléguidés par John Negroponte, devenu par la suite ambassadeur des Etats-Unis en Irak et par Robert Ford, futur ambassadeur américain en Syrie.

 

Peter Oborne, journaliste commentateur du “Daily Telegraph”, confirme que les Etats-Unis et la Grande-Bretagne ont récemment intensifié leur coopération clandestine avec Al-Qaeda, afin de fédérer tous les efforts possibles contre le gouvernement syrien légitime. Dans son article “Syria’s Crisis is Leading Us to Unlikely Bedfellows” (= “La crise syrienne nous amène d’étranges compagnons de lit”), Oborne souligne que les actions terroristes de Damas, commises l’an dernier, présentaient toutes les mêmes signes distinctifs de ceux commis par l’organisation terroriste en Irak. Selon ce journaliste britannique, les militants d’Al-Qaeda sont arrivés en Syrie par la Libye en empruntant le “corridor turc”. Peter Oborne considère que “la triple alliance Washington/Londres/Al-Qaeda” constitue une grave menace pour le Royaume-Uni.

 

Omar al-Bakri, un extrémiste religieux résidant au Liban a confessé dans un entretien au “Daily Telegraph” que les militants d’Al-Qaeda, soutenus par le mouvement al-Mustaqbal de Saad al-Hariri, se sont infiltrés en Syrie via le Liban. Au cours d’une conférence de presse tenue à Benghazi, le ministre des affaires étrangères irakien, Hoshyar Zebari, a confirmé le fait qu’Al-Qaeda s’infiltre en Syrie tout au long de la frontière irakienne dans le but d’aller commettre des attaques terroristes ou de transporter des armes.

 

“The Guardian” a publié récemment un article intitulé “Syria Would Be Disastrous for Its People”; l’auteur, Sami Ramadani, explique qu’une alliance entre les Etats-Unis et Al-Qaeda a pris forme. Les Etats-Unis et la Turquie ont la ferme intention de déstabiliser la Syrie, en utilisant, pour ce faire, les fonds de la rente prétrolière que leur fournissent le Qatar et l’Arabie Saoudite. Tandis que Hillary Clinton cherche à convaincre la communauté internationale que l’intervention en Syrie est une démarche nécessaire, la CIA est impliquée activement dans l’appui logistique à Al-Qaeda et dans l’entraînement des militants djihadistes. C’est désormais bien connu: les Etats-Unis et leurs alliés de l’OTAN ont recruté des chefs d’organisations terroristes et des criminels de droit commun, en provenance de tous les pays du monde, pour en faire des mercenaires et pour les infiltrer en Syrie afin d’y parfaire des opérations spéciales, après les avoir entraînés dans des camps situés en Turquie ou au Liban. Par exemple, à Homs, un membre de la mission d’observation de la Ligue Arabe, qui travaille pour les services spéciaux irakiens, a été fort surpris d’y rencontrer des mercenaires pakistanais, irakiens et afghans. Il fut particulièrement impressionné de constater que certains d’entre eux l’avaient jadis enlever, lui, en Irak. Il est donc important de noter aussi que plus d’une centaine de ces mercenaires en provenance de pays arabes ou autres, dont un nombre significatif de légionnaires français, ont été capturés par les autorités syriennes lorsqu’elles ont repris la ville de Homs.

 

Hala Jaber, un correspondant du “Sunday Times”, est certain, quant à lui, que les extrémistes religieux et les mercenaires étrangers, infiltrés en Syrie depuis les pays limitrophes, ont contribué au déchaînement des violences, afin de mettre un terme aux missions des observateurs internationaux. Hala Jaber a souligné que les appels des cheikhs saoudiens à pénétrer en Syrie ont été suivis par des dizaines de personnes venues du Liban, de Tunisie, d’Algérie, d’Arabie Saoudite, de Libye, d’Egypte, de Jordanie et du Koweit,: elles étaient toutes fanatisées par le désir de créer un califat arabe en Syrie et dans la région.

 

“The British Times” a publié un article, en janvier 2012, qui démontrait que l’Arabie Saoudite et le Qatar étaient liés par un accord secret pour financer l’acquisition d’armements au bénéfice de l’opposition syrienne, afin que celle-ci puisse renverser le régime de Bachar al-Assad. Il existe également un accord secret liant, d’une part, l’Arabie Saoudite et le Qatar, et, d’autre part, l’opposition syrienne; il a été forgé après la réunion des ministres des affaires étrangères des nations de la Ligue Arabe au Caire, en janvier 2012. Un représentant de l’opposition syrienne avait déclaré au quotidien britannique que l’Arabie Saoudite avait offert toute l’assistance souhaitée. Et il avait ajouté que la Turquie, elle aussi, avait pris une part active dans le soutien à l’opposition, en fournissant des armes le long de la frontière turco-syrienne.

 

Mehmet Ali Ediboglu, un député de la province turque de Hatay, a déclaré au journal “National”, un organe publié dans les Emirats Arabes Unis, qu’une grande quantité d’armes d’origine turque se trouvait en Syrie. Ediboglu appartenait à la délégation du “Parti Populaire républicain” turc qui s’était rendue en Syrie en septembre 2011. Des fonctionnaires syriens avaient montré aux membres de cette délégation des photos de camions chargés d’armes qui déchargeaient leur cargaison dans le désert situé dans la zone-tampon entre les “checkpoints” le long de la frontière entre la Turquie et la Syrie. L’entretien du député turc révèle aussi que les armes auraient été commandées et payées par les “Frères Musulmans”.

 

Le site israélien “Debka”, proche des services de renseignement du Mossad, révélait, en août 2011, que l’OTAN avait offert, au départ du territoire turc, des systèmes de défense anti-aériens portables, des armes anti-chars, des lance-granades et des mitrailleuses lourdes aux forces de l’opposition syrienne. Et le site “Debka” ajoutait: “Les rebelles syriens ont reçu un entraînement en Turquie”. L’OTAN et les Etats-Unis ont organisé une campagne pour recruter des milliers de volontaires musulmans, en provenance de divers pays, pour renforcer les rangs des rebelles syriens. L’armée turque a ensuite entraîné ces volontaires et leur a assuré un passage sécurisé à travers la frontière.

 

Selon “The Guardian”, l’Arabie Saoudite est prête à offrir une assistance financière aux militants de l’ “armée syrienne libre”, tout en incitant les militaires de l’armée régulière à la désertion et en augmentant la pression exercée sur le gouvernement d’Al-Assad. Riyad a mis ses plans bien au point avec Washington et les autres Etats arabes. Comme l’ont bien noté les médias britanniques, en faisant référence à des sources anonymes en provenance de trois capitales arabes, l’idée de base ne vient pas des Saoudiens mais plutôt de leurs alliés arabes: ceux-ci, en effet, visent l’élimination de la souveraineté syrienne. L’encouragment à la désertion coïncide avec la fourniture d’armes aux rebelles syriens. “The Guardian” affirme que ses entretiens avec de hauts fonctionnaires de pays arabes lui ont révélé que les fournitures d’armes saoudiennes et qataries, comprenant des fusils automatiques, des lance-grenades et des missiles anti-chars, ont commencé à la mi-mai 2011. Les interlocuteurs arabes du “Guardian” ont expliqué que l’accord final pour envoyer aux rebelles les armes déposées en Turquie a été obtenu à grand peine car Ankara insistait fortement pour que l’opération soit couverte diplomatiquement par les Etats arabes et par les Etats-Unis. Les auteurs de cet article ont également ajouté que la Turquie a autorisé la création d’un centre de commandement à Istanbul, chargé de coordonner les lignes logistiques après consultation avec les chefs de l’ “armée syrienne libre” en Syrie. Des journalistes du “Guardian” ont assisté au transfert des armes dans les premiers jours de juin 2011, dans une localité proche de la frontière turque.

 

Un journal aussi réputé que le “New York Times” a également rapporté que la CIA avait organisé les fournitures en armements et équipements à l’opposition syrienne. D’après les sources du quotidien new-yorkais, des experts au service de la CIA ont travaillé à la distribution illégale de fusils d’assaut, de lanceurs de missiles anti-chars et d’autres types de munitions à l’opposition syrienne. Les armes et les munitions ont été transportées en Syrie notamment avec l’aide des réseaux des “Frères Musulmans” syriens, prétend Eric Schmitt, auteur de l’article. Les fonds destinés à payer ces fusils, ces lance-grenades et ces systèmes blindicides ont été partagés entre la Turquie, l’Arabie Saoudite et le Qatar. Les agents de la CIA ont foruni assistance sur place pour que les cargaisons soient acheminées de leurs dépôts à leurs destinations. Les agents américains ont pu aussi aider les rebelles à organiser un réseau élémentaire de renseignement et de contre-espionnage pour combattre Bachar Al-Assad. Andrea Stone, du “Huffington Post”, confirme cette information.

 

On retiendra le fait que les agents de la CIA ont travaillé à partir de postes situés dans le Sud de la Turquie, dès mars 2011, en conseillant à l’Arabie Saoudite, au Qatar et aux Emirats Arabes Unis quels étaient les éléments de l’ “armée syrienne libre” qu’ils devaient armer. En outre, le vice-président du “Parti trvailliste” turc, Bulent Aslanoglu, a confirmé qu’environ 6000 personnes de nationalités arabes diverses, d’Afghans et de Turcs ont été recrutés par la CIA au départ des Etats-Unis pour commettre des attentats terroristes en Syrie.

 

L’alliance entre les Etats-Unis et Al-Qaeda ne trouble guère une personnalité comme Reuel Marc Gerecht, ancien agent de la CIA et “Senior Follower” auprès de la “Foundation for Defence of Democracies”. Dans les pages du “Wall Street Journal”, Gerecht appuie la nécessité “de mener une opération musclée de la CIA au départ de la Turquie, de la Jordanie et aussi du Kurdistan irakien”. Il pense en outre que l’ “implication limitée” de la CIA contre Al-Assad, portée à la connaissance du public par les médias occidentaux, n’annulera pas en termes concrets les efforts entrepris par ceux qui cherchent à abattre le régime au pouvoir en Syrie. Gerecht insiste surtout sur le fait “qu’Al-Assad, qui dépend de la minorité chiite-alaouite, soit de 10 à 15% de la population syrienne, pour étoffer ses forces militaires, n’aura pas la force de lutter contre l’insurrection si celle-ci se présente sur des fronts multiples”. Cet intellectuel, ancien agent des services et aujourd’hui recyclé dans le bureau d’études de la “Foundation for Defence of Democracies”, pense “qu’une approche coordonnée, téléguidée par la CIA, pour tenter d’envoyer des armes anti-chars, anti-aériennes et anti-personnel à travers les vides sécuritaires des frontières, que le régime ne contrôle pas, ne s’avèrera pas difficile. Le manque d’hommes du régime et la géographie de la Syrie, avec ses montagnes de faible altitude, ses steppes arides et ses déserts malaisés d’accès, rendront le pays probablement très vulnérable aux coups de l’opposition si cette opposition dispose d’une puissance de feu suffisante”. L’ancien agent de la CIA se montre sûr que cette action en Syrie ne constituera pas une entreprise difficile à réaliser: “De même, quand la CIA a renforcé son aide aux forces afghanes anti-soviétiques en 1986-87, les effectifs impliqués (à l’extérieur comme à Washington) étaient infimes, peut-être deux douzaines. Une opération agressive en Syrie nécessitera peut-être plus d’aide en personnel de la CIA que l’opération afghane mais ce seront moins de cinquante officiers américains qui travailleront avec les services alliés”.

 

D’après Gerecht, c’est surtout le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan qui a rompu avec Al-Assad de manière irréversible. La Jordanie, le pays arabe qui bénéficie des rapports les plus étroits avec les Etats-Unis, est aussi hostile à Damas. En outre, le vétéran de la CIA assure que le Kurdistan irakien, toujours plus encadré de fonctionnaires américains sur son propre sol, donnera à la CIA une bonne marge de manoeuvre, Washington ayant promis aux Kurdes son soutien dans tout conflit qui pourrait les opposer à Bagdad ou à Téhéran.

 

Igor Ignatchenko.

(Source: http://www.eurasia-rivista.org , http://sitoaurora.altervista.org/ & http://aurorasito.wordpress.com/ repris sur http://www.ariannaeditrice.it/ en date du 11 eptembre 2012).

 

 

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