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mercredi, 30 mars 2011

L'impero ittita dalle origini alla sconfitta egiziana di Kadesh

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L’impero ittita dalle origini alla sconfitta egiziana di Kadesh

La sua capitale Hattusas fu alla pari di Babilonia e di Tebe, anche se non dal punto di vista della civiltà, tuttavia per una singolarissima forza e importanza “politica”

Gianluca Padovan

Ex: http://rinascita.eu/

Alle origini
Chi c’era prima. Non è una domanda, ma un’affermazione, nel senso che prima di noi c’è sempre stato qualcuno, su questa Terra. L’eccezione la troviamo nelle profondità: sotto il livello delle acque e sotto la superficie del suolo, ovvero nelle profondità di laghi, mari, oceani e nelle grotte. A taluni di noi piace essere i primi ad arrivare in un dato posto e la certezza la possiamo avere quando varchiamo i Cancelli della Terra, spingendoci nella verticalità di quei vuoti che gli speleologi chiamano abissi.
In caso contrario, ovvero quasi sempre, nel luogo che percorriamo c’è già stato qualcuno, una civiltà è fiorita, un’altra è rimasta eclissata nella polvere dei millenni e l’essere umano si è trasferito, ha combattuto, ha scritto e ha prodotto manufatti che noi oggi cerchiamo d’interpretare. Se scaviamo troviamo sempre le nostre radici, magari sotto la collina vicina a casa nostra. E forse è meglio preservarla che demolirla con l’apertura di una cava o ricavandovi sotto un parcheggio.
Il tell è una struttura apparentemente naturale, che in lingua araba identifica un monte, una collina. In paletnologia il termine indica le colline artificiali formatesi con la sovrapposizione di strutture abitative nel corso di lunghi periodi di tempo. Quando li si scava si ha la sorpresa di sfogliare secoli e secoli di abitazioni, diligentemente costruite una sulle ceneri dell’altra. L’indagine presso il tell di Çatal Hüyük ha rivelato l’esistenza di più di dieci livelli di strutture, abitate tra il VII e il VI millennio a. Accanto vi è un secondo tell, altrettanto interessante dal punto di vista archeologico. Si trovano nella parte meridionale della Turchia, in un territorio che un tempo aveva un aspetto diverso da oggi. E i popoli chiamati Hatti o Chatti o Ittiti che successivamente giungono in Anatolia non sono i primi e nemmeno gli ultimi.
 
I biondi Ittiti
Gli Ittiti sono definiti come un antico popolo dell’Asia Minore, che riveste una grande importanza dal punto di vista politico, militare e culturale tra il XVIII e il XII sec. a. Taluni sostengono che i primi gruppi giungono nel territorio già alla metà del III millennio a., secondo l’interpretazione di alcune tavolette d’argilla assire che parlano dell’arrivo di “nuove genti”. Secondo altri la data è da fissare o alla fine del III millennio oppure agli inizi del successivo, ma ecco l’invasione vista da Lehman: “Una cosa soltanto è sicura: non irruppero improvvise e inaspettate in Anatolia da una qualche parte della terra. Quindi bande di cavalieri selvaggi non si riversarono a schiere sul paese, né orde di saccheggiatori e di predoni occuparono città e villaggi, né giunsero barbari a distruggere civiltà straniere, massacrare gli uomini e rapire le donne. Queste immagini stereotipate di popoli invasori in cerca di terra non si adattano al nostro caso” (Lehman J., Gli Ittiti, Garzanti, Milano 1997, p. 171).
Uno dei “gruppi” si stanzia al centro dell’Anatolia, in quella che viene chiamata Terra di Hatti, con capitale Hattusa. Il loro regno, unitamente agli stati vassalli, si estende dagli stretti del Bosforo e dei Dardanelli fino all’orientale Lago di Van. Hanno una lingua europea, o meglio più lingue, che scrivono in vari modi appresi dalle popolazioni locali e sviluppati: cuneiforme in lingua accadica, cuneiforme in lingua ittita, ideografico, etc. In ogni caso la maggior parte dei documenti cuneiformi su tavolette d’argilla sono in “ittito”, termine che viene applicato alla lingua ufficiale dell’impero. Chiamano sé stessi hari, “i biondi”. In una tavoletta si parla del trono del re che è in ferro, mentre in altre si leggono di conquiste, commerci, dispute. Sono uno stato federativo, con un governo centrale, il cui ordinamento sociale è suddiviso in classi, ma non rigidamente. Pare che le religioni siano diverse, convivendo in una sorta di tranquilla tolleranza. Compaiono divinità solari e un dio della tempesta, rappresentato nell’atto di reggere la scure con una mano e la folgore con l’altra.
 
Le razze bianche in oriente
Intanto giunge sulla scena anche una nuova popolazione che gli egizi chiamano Heka-Kasut, ovvero “capi dei paesi stranieri”, comunemente conosciuti con il nome di Hyksos. Sono una popolazione definita asiatica, che in realtà presenta i tipici connotati europoidi, con caratteri marcatamente xantocroici (alti, chiari di pelle, con occhi anch’essi chiari e capelli biondi, rossi, castani); dominano l’Egitto dalla fine del XVIII secolo a. fino all’inizio del XVI secolo a. Stabilitisi inizialmente nei dintorni di Avaris, loro capitale, estendono il potere su tutto l’Egitto. I re delle due dinastie Hyksos, la XV e la XVI (1730-1570 circa a.), adottarono usi e costumi egizi e si proclamarono faraoni, trascrivendo i loro nomi in geroglifici e assumendo a volte nomi egizi. Agli inizi del XVI sec. i re di Tebe si organizzarono e scacciarono gli Hyksos dall’Egitto; Ahmose, futuro fondatore della XVIII dinastia, conquista Avaris e li insegue fino in Siria.
Successivamente, tra il 1650 e il 1600 a., i sovrani ittiti Khattushili I e Murshili I penetrano in Siria e in Mesopotamia e viene posto il termine alla prima dinastia amorrea di Babilonia. Ne approfittano i Cassiti (o Kassiti, o Cossèi), popolo con forti connotati europoidi, anche loro utilizzanti il cavallo e il carro da guerra, che s’appropriano del paese governandolo fino alla metà del XII sec. a. Tali Cassiti, pare con pacifica migrazione, si erano già insediati in Mesopotamia come agricoltori, artigiani e guerrieri mercenari, provenendo dall’Elam nell’area iranica. Il tempo passa e gli Ittiti conquistano il paese dei Mitanni, stato Hurrito che in una fascia compresa tra le odierne Siria e Turchia si spinge nell’area superiore dei fiumi Eufrate e Tigri. Lo stato è governato da una monarchia ereditaria, probabilmente di stirpe indo-iranica, con una classe dominante che scrive in una lingua definita acriticamente “indoeuropea”, ovvero europea (dal momento che le migrazioni sono avvenute dall’Europa all’India e non viceversa), simile al sanscrito e all’antico persiano. Gli Hurriti fanno atto di sottomissione al re ittita Suppiluliuma attorno al 1365 a. Come gli Ittiti avanzano, ottenendo consensi, i vicini egizi non fanno attendere l’attrito.
 
Soldati egizi e guerrieri Sciardana
Circa mezzo secolo più tardi il re ittita Muwatalli non è battuto a Kadesh dal faraone Ramesse II, anche se nel tempio di Luxor gli egiziani inneggiano ad una strepitosa vittoria, ma solo per mera propaganda, per celare al popolo la sconfitta del proprio re. Kadesh, o Qadesh, si trova nell’entroterra siriano, a poco più di cento chilometri a nord di Damasco, nei pressi del Lago di Homos. Verso la fine del mese di maggio del 1300 a. (alcune fonti riportano altre date) il faraone Ramesse II guida personalmente l’esercito egizio suddiviso in quattro divisioni da circa cinquemila uomini l’una, di cui mille costituenti gli equipaggi dei cocchi. Abbiamo quindi due soldati per cocchio e quindi duecentocinquanta cocchi per ogni divisione. Si calcolerebbe così un totale di circa sedicimila fanti e arcieri, duemila cocchi con quattromila uomini che li montano; vi sono inoltre le salmerie con un numero imprecisato di persone. Una quinta divisione egizia li raggiungerà nel corso della battaglia, provenendo da Amurru. Parte della guardia reale è formata da guerrieri Sciardana “stranieri” (Shardanes, Sardani, Sardi o semplicemente Popoli del Mare) armati con lunghe spade, scudi circolari ed elmi con le corna, provenienti indicativamente dal Mare Mediterraneo (Healy M., Qades 1300 a.C. Lo scontro dei re guerrieri, Osprey Military, Ediciones del Prado, Madrid 1999, p. 43). Se guardiamo alcune statuine in bronzo del IX-VIII sec. a. rinvenute in siti nuragici, ci rendiamo conto che possono tranquillamente essere loro, i Nur. Gli abitanti della Corsica devono averli già conosciuti con spiacevoli conseguenze e hanno eretto qualche menhir antropomorfo con le loro fattezze: spade, pugnali ed elmi con le corna (Grosjean J., Virili F. L., Guide des sites Torréens de l’Age du Bronze Corse, Éditions Vigros, Paris 1979, pp. 15-17). I testi egizi li chiamano: “i guerrieri del mare, gli Sherden senza padroni, che nessuno aveva potuto contrastare. Essi vennero coraggiosamente dal mare nelle loro navi da guerra con le vele, e nessuno era in grado di fermarli, ma Sua Maestà li disperse con la forza del suo braccio valoroso e li trascinò [prigionieri] in Egitto”, e che nei rilievi egizi sono rappresentati alti, robusti, di pelle chiara” (Cimmino F., Ramesses II il Grande, Rusconi, Milano 1984, p. 95-96).
L’avversario da affrontare è il re ittita Muwatalli, al comando di un esercito forse più numeroso. Una differenza è data dal cocchio, o carro da guerra: quello ittita è montato da tre uomini, stando alle deduzioni epigrafiche. Secondo Healy lo scenario è il seguente: il fiume Oronte scorre da sud a nord e poco prima del Lago di Homos riceve da sinistra le acque dell’Al-Mukadiyah. Internamente alla confluenza vi è la città di Kadesh nuova già occupata dagli Ittiti, a nord est e quindi alla destra idrografica sorge la Kadesh vecchia, anch’essa occupata dall’esercito ittita, mentre a nord ovest il faraone pone il proprio campo con la divisione Amon e il suo seguito, apparentemente ignaro del fatto che viene tenuto sotto controllo visivo dagli Ittiti. Ma poi se ne accorge e manda a chiamare con una certa urgenza il resto dell’esercito (Healy M., op. cit., pp. 47-59.).
 
Ramesse II sconfitto a Kadesh
Si hanno due resoconti egiziani della battaglia: il Bollettino e il Poema di Pentaur. Le interpretazioni sull’esatto svolgersi dei fatti sono contrastanti, si suppone che qualcuno non abbia fatto il proprio dovere nel corso delle ricognizioni, qualcun altro non avrà invece eseguito gli ordini fino in fondo; nulla di nuovo nella Storia, in ogni caso. La divisione Ra solca velocemente la pianura alla sinistra orografica dell’Oronte, seguita a distanza dalle divisioni Pthah e Sutekh. L’obiettivo è di raggiungere l’accampamento trincerato della divisione Amon.
Le divisioni ittite, con i carri da guerra in testa, sbucano improvvisamente al di là dell’Al-Mukadiyah, piombano sul fianco destro della divisione Ra, la tagliano in due e la mettono in fuga; molti si danno al saccheggio delle salmerie, “dimenticandosi” di dare man forte per attaccare la divisione Amon. Gli Ittiti proseguono la corsa e piombano sul campo trincerato, si scompaginano combattendo sparpagliati e predando quel che riescono tra le ricche tende. Ramesse II riesce comunque a schierare la sua guardia e gli Sciardana si mostrano all’altezza della situazione; personalmente credo si comportino con valore facendo muro e bloccando l’assalto con vigore. Appena organizza i suoi carri da guerra, unendoli ai sopraggiunti superstiti della Ra, Ramesse II contrattacca. Intanto che la colonna ittita si ritira sotto la spinta della reazione avversaria, sopraggiunge una seconda ondata di carri ittiti a dare man forte, ma in ritardo sui tempi. Il risultato è che questa si trova probabilmente presa tra i cocchi di Ramesse II e la quinta divisione, la Ne’arin, che quasi inaspettatamente arriva da nord con i cavalli lanciati al galoppo. La giornata si chiude in una coltre di polvere entro cui si combatte senza coordinamento, senza più schemi tra reparti che avanzano, altri che ripiegano, altri ancora che vogliono la loro parte di bottino. Infine le divisioni ittite si ritirano non senza difficoltà alla destra orografica dell’Oronte, sui loro accampamenti, mentre le malmesse divisioni Amon e Ne’arin si riuniscono a quello che rimane della Ra. Per alcuni storici il combattimento riprende il giorno seguente, appena giungono le divisioni Pthah e Sutek, per altri no. O meglio, secondo alcune interpretazioni, il faraone passa la giornata a giustiziare alcuni superstiti della Ra, che se la sono data a gambe, tanto per dare un esempio e ricordare che la vigliaccheria è punita con la morte. Poi l’esercito egizio ripiega, ovvero se ne torna a casa, e quello ittita lo segue per un tratto: questo vuole solo dire che gli egiziani sono stati comunque battuti, fosse anche solo di stretta misura (Ibidem, pp. 44-82). Calzante o meno, tale ricostruzione non muta l’esito conclusivo, ovvero la firma del trattato di pace tra Egiziani e Ittiti. Si stipula un equo riconoscimento delle terre su cui governare attorno a quel confine che Ramesse II non è riuscito a spostare più a nord di Kadesh, con la mancata vittoria campale. Quattro interessanti versioni della vicenda sono date da Bibby, Ceram, Cimmino e da Healy (Bibby G., 4000 anni fa, Einaudi, Torino 1966, pp. 260-262. Ceram, Il libro delle rupi. Alla scoperta dell’impero degli Ittiti, Einaudi Editore, Torino 1955,, pp. 192-208. Cimmino F., op. cit., pp. 94-112. Ealy M., op. cit., pp. 44-82).
Il trattato di pace è successivamente rafforzato con il matrimonio tra Ramesse II e figlia di Hattushilish III, successore di Muwatalli. Nel carteggio di questo periodo il contenuto di una lettera inviata dal re di Hatti a Ramesse II merita di essere ricordato: “Per il ferro del quale mi scrivi, io per ora non ho ferro puro a Kizzuwatna nelle mie riserve. Non è il periodo favorevole per fare il ferro; tuttavia ho chiesto di fare ferro puro; fino ad ora non è finito, ma non appena sarà pronto te lo manderò. Per ora posso mandarti soltanto una spada di ferro” (Cimmino F., op. cit., p. 130).
 
L’importanza dell’impero Ittita
Si arriva alla fine del II millennio a. e comincia l’espansione assira con Tiglatpileser I (1112-1074): Re assiri, avidi di conquiste, premevano ai confini. Uno dei più fedeli vassalli occidentali, Madduwattas, si staccò improvvisamente, presentendo il sorgere di una nuova potenza. La regione di Arzawa accrebbe la sua influenza in modo preoccupante, e gli Ahhiyawa (forse davvero Achei, cioè Greci primitivi) andavano creando a occidente una potenza minacciosa. Il grande impero che Suppiluliumas aveva costruito e che aveva retto per un secolo, scomparve in due generazioni, nelle deboli mani di Tudhaliyas IV (1250-1220 a.C.) e in quelle ancor più deboli di Arnuwandas IV (1220-1190 a.C.). L’uno e l’altro non furono in grado né di mantenere la costruttiva politica di pace di Hattusilis, né di riprendere con la spada ciò che perdevano per via diplomatica. Su questa repentina caduta di un grande impero, molte congetture sono state avanzate. Ma la soluzione è semplice: si annunziava una nuova migrazione di popoli. E qualora si obiettasse che questo non basta a spiegare la “rapidità” del crollo di un “Imperium”, ricordiamo che nel nostro Occidente si è molto riflettuto negli ultimi centocinquanta anni, da Kant in poi, sui concetti di spazio e di tempo, ma che i concetti di “spazio storico” non sono ancora stati studiati nel loro valore relativo (Ceram, op. cit., pp. 217-219).
Pare che arrivino Misi e Frigii, che qualcuno identifica come altri Popoli del Mare; in ogni caso Hattusas brucia dopo il saccheggio. La cultura ittita sopravvive ancora per cinque secoli nelle regioni sudorientali. Poi scompare senza lasciare alcuna traccia, se non nelle tavolette d’argilla e nelle epigrafi. Kurt W. Marek, alias Ceram, conclude così il suo lavoro Il libro delle rupi. Alla scoperta dell’impero Ittita, scritto nel 1955: “Settant’anni fa gli Ittiti e il loro impero erano ancora ignoti. Ancor’oggi si insegna nelle scuole che sono stati soltanto l’impero mesopotamico e il regno d’Egitto a determinare, dal punto di vista politico-militare, la sorte dell’Asia minore e dell’Asia anteriore. Ma accanto ad essi e fra di essi ci fu per un certo tempo il grande impero ittita, con pari diritti come “terza potenza” e la sua capitale Hattusas fu alla pari di Babilonia e di Tebe, anche se non dal punto di vista della civiltà, tuttavia per una singolarissima forza e importanza “politica” (Ibidem, p. 274).
 


26 Febbraio 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=6753

mardi, 29 mars 2011

La guerre contre Kadhafi: mission confuse, stratégie dure

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Günther DESCHNER :

La guerre contre Khadafi : mission confuse, stratégie dure

 

L’Occident n’est pas logique avec lui-même : ce qu’il fait en Libye ne semble pas possible ailleurs, ni au Yémen ni à Bahrein

 

Depuis une semaine, les bombes pleuvent sur la Libye. Les Etats-Unis et une poignée de pays européens, avec, en tête, la France et l’Angleterre, mènent une guerre d’intervention en Afrique du Nord, contre l’Etat créé par le Colonel Kadhafi. Mettons entre parenthèses tous les arguments qui évoquent la « démocratie » ou les « droits de l’homme » et remarquons que c’est là la sixième guerre  —après deux guerres contre l’Irak et les guerres contre l’Afghanistan, la Somalie et la Yougoslavie—  que mène l’Occident depuis que George Bush Senior a annoncé l’avènement du « Nouvel Ordre Mondial ».

 

Aucun plan pour l’avenir de la Libye…

 

Couvert diplomatiquement par la résolution 1973 du Conseil de sécurité des Nations Unies, simple chiffon de papier, la nouvelle alliance belliciste a fait pleuvoir les bombes et les missiles sur la Libye, a ordonné une interdiction de survol du sol libyen par les appareils libyens, a détruit l’aviation de Kadhafi au sol ainsi que tous les aéroports puis annihilé tous les postes de la défense anti-aérienne et les installations C3 de tout le pays. Les frappes aériennes françaises et américaines ont visé également les colonnes de blindés et les unités d’artillerie de l’armée de terre libyenne. D’après les médias américains, des unités spéciales de l’armée britannique sont à l’œuvre dans l’Est du pays, où l’opposition à Kadhafi tient ses plus solides bastions.

 

Les alliés estiment qu’ils ont le droit d’agir de la sorte malgré la formulation imprécise du texte de la résolution. Ce texte permet l’emploi de « tous les moyens nécessaires » pour protéger les « civils et les zones habitées par des civils » contre toute attaque, c’est-à-dire d’attaquer de manière arbitraire toutes les troupes libyennes si celles-ci circulent simplement à proximité de zones habitées ou se meuvent près d’insurgés, automatiquement considérés comme des « civils ».

 

En fin de compte, le Conseil de sécurité a laissé à quelques Etats le loisir totalement arbitraire de frapper des objectifs libyens, où, quand et comment ils le souhaitent. Pourtant, dès le départ, il aurait fallu être clair : toutes les attaques aériennes font des victimes civiles, surtout si elles sont perpétrées par l’US Air Force, dont les expériences en matière de « dégâts collatéraux » sont riches et variées.

 

Il n’a pas fallu attendre longtemps pour ouïr les plaintes de la Ligue Arabe qui avait pourtant admis le principe d’une guerre contre Kadhafi et cultivé l’illusion que les attaquants n’avaient qu’un seul objectif : soulager la pression qui s’exerçait sur les insurgés de Benghazi. La Russie, la Chine, le Brésil et l’Inde émettent de concert des critiques à l’encontre des frappes aériennes qui s’avèrent de plus en plus dures.

 

L’Opération « Odyssey Dawn » est le nom qu’a donné l’alliance à l’acte de guerre qu’elle vient de commettre. Ce nom est bien choisi car les puissances concernées sont encore et toujours à la recherche de la « bonne voie ». Avec l’appui de leurs forces aériennes, les Américains, les Britanniques et les Français permettront sans aucun doute aux insurgés de prendre totalement le contrôle de la partie orientale de la Libye, soit la province de Cyrénaïque, où se trouvent bien entendu les principaux gisements pétrolifères libyens. La conquête du reste du pays ne pourra pas se faire sans l’appui de troupes au sol. Dès lors, en pratique, cela nous mènera automatiquement à la partition du pays.

 

Mais on ne perçoit aucune stratégie précise dans l’action des alliés. En effet, on ne sait rien de précis quant aux plans que concoctent les puissances occidentales pour l’avenir de la Libye. On ne peut même pas affirmer qu’il en existe ! Une chose est sûre cependant, selon l’expert ès géostratégie George Friedman, qui formule son hypothèse comme suit : « L’objectif final, qui n’a pas été avoué, mais que tous comprennent, est de forcer un changement de régime et d’en établir un nouveau avec les éléments insurgés. C’est parce qu’il faudra bien les utiliser à court terme qu’on les sauve aujourd’hui de la tenaille où les tiennent les troupes de Kadhafi. Telle est la logique politique qui se profile derrière cette action militaire ».

 

Il y a différents « degrés d’oppression »

 

Le rythme rapide avec lequel les trois puissances de l’OTAN ont fait démarrer cette guerre laisse entrevoir que les plans de l’attaque avaient été préparés de concert depuis plusieurs semaines. L’intervention militaire constituerait de la sorte une réponse aux turbulences récentes qui ont animé l’Afrique du Nord et le monde arabe, à commencer par la Tunisie pour se poursuivre en Egypte et trouver un écho dans la péninsule arabique. On ne peut pourtant pas affirmer péremptoirement que le mouvement insurrectionnel libyen relève du même contexte : enlisés et englués dans des ritournelles conceptuelles éculées, les élites occidentales croient voir, dans « l’agitation arabe » et dans l’effervescence révolutionnaire qui anime toutes les strates sociales de ces pays, une volonté de créer des « sociétés démocratiques », pures copies du modèle occidental.

 

Or la tectonique qui meut l’insurrection libyenne est bien différente : elle procède de la coalescence de revendications tribales et de l’action de figures politiques, dont les motivations et les objectifs sont différents et divergents. Elles proviennent, pour une part, des anciens adversaires de Kadhafi et, pour une autre, de son propre vivier. Tous les rebelles sont pour le moment unanimes dans leur opposition au « Frère Raïs » mais, pour le reste, rien ne les unit, aucune conviction politique commune, a fortiori aucun projet de démocratie à l’occidentale.

 

Quand Kadhafi s’est mis à résister au choc des manifestations et de l’insurrection, les politiciens occidentaux ont refait de lui un paria, après lui avoir fait une cour éhontée, afin d’obtenir des avantages dans le pétrole libyen ou pour pouvoir faire des affaires lucratives avec son régime. Le premier à en avoir profité fut bien entendu Nicolas Sarközy. Aujourd’hui, le président français se pose en acteur de premier plan dans l’Opération « Odyssey Dawn » afin de redorer son blason, passablement écorné par des révélations pénibles ; en effet, on lui reproche d’avoir bénéficié d’une manne libyenne pour le financement de campagnes électorales.

 

Mais qu’y a-t-il de neuf dans le chef de Kadhafi ? Au Bahreïn et au Yémen aussi, l’insurrection populaire connaît une recrudescence inquiétante et le conflit s’envenime entre le pouvoir et ses adversaires. En Libye, le « degré d’oppression » ne semble pas être « plus fort et plus lourd » que dans d’autres pays de régime autoritaire, a déclaré récemment Richard Falk, expert ès droit des gens et porte-paroles spéciale des Nations Unies, au micro de la chaine de télévision arabe Al-Djazira. « Mais ce n’est qu’en Libye que l’Occident intervient militairement. Il est effectivement plus difficile de retirer son amitié au Roi du Bahreïn, un bon ami des puissances occidentales ; ce Roi Hamad, ne l’oublions pas, constitue une redoute contre l’Iran et permet à la 5ème Flotte américaine de mouiller dans ses ports. Quant au Président yéménite Ali Salah, il est bel et bien un dictateur aux yeux de l’Occident mais beaucoup craignent que sans lui le Yémen ne tombe aux mains d’Al-Qaïda. Il existe donc des motivations en apparence inavouées qui expliquent les différences d’attitude face à la Libye, au Yémen et à Bahreïn mais aucune d’entre elles ne relève de la sagesse ».

 

Günther DESCHNER.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°13/2011 ; http://www.jungefreiheit.com/ ).    

Quarante ans de guerres secrètes contre la Libye

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Quarante ans de guerres secrètes contre la Libye

par Wissem Chekkat

Ex: http://www.lequotidien-oran.com/?news=5150877


Avec l'adoption de La Résolution 1973 au Conseil de Sécurité des Nations Unies à dix contre zéro et cinq abstentions, autorisant une zone d'exclusion aérienne et probablement une carte blanche à une intervention militaire occidentale financée par des pays du golfe Persique contre la Libye, ce riche pays d'Afrique du Nord fait face à l'un des derniers développements dans une longue série de plus de quarante ans de guerres secrètes menées contre son régime atypique.


Même s'il ne fait aucun doute que les revirements constants du guide de la révolution libyenne comme il se plaît à s'appeler lui-même autant que ses nombreuses erreurs en matière de politique étrangère ont donné une image assez déconcertante pour nombre de pays occidentaux, son imprévisibilité le laissait souvent isolé sur la scène régionale et internationale. Très peu de temps après son coup d'Etat militaire de 1969 contre le Roi Idris Ier, un potentat corrompu et à la solde des britanniques, Kaddafi dont le caractère imprévisible agace, devient rapidement la cible d'intenses opérations secrètes menées par les français, les britanniques, les israéliens et les américains visant à l'éliminer et à changer le pouvoir en Libye.


En 1971, un plan britannique d'invasion de la Libye en s'appuyant sur des troubles internes en Cyrénaïque visant à la libération de détenus politiques pro-monarchistes et la restauration de la monarchie échoue après quelques jours de combats durant lesquels le pays s'embrase dans un début de guerre civile. En 1977, une révolte populaire à laquelle participent des travailleurs expatriés égyptiens met à feu et à sang les villes de Tobrouk, Derna et Benghazi. Kaddafi prends la décision radicale d'expulser l'ensemble des ressortissants égyptiens établis ou de passage sur son territoire, déclenchant ainsi une crise avec l'Egypte de Sadate. La tension aux frontières entre les deux pays se transforme en duel d'artillerie. Les Américains et les Britanniques pressent le président Sadate d'envahir la Libye et d'en finir avec le Colonel «fou». Les bons offices Arabes et notamment la médiation du président Algérien Boumediène mettent fin au conflit.


En 1980, le colonel Alain de Gaigneron de de Marolles démissionne après le fiasco d'un plan français soutenant une rébellion armée à Tobrouk. Les forces gouvernementales parviennent après d'intenses combats et non sans d'énormes difficultés, à encercler les rebelles dans la région de Benghazi. En 1982, plusieurs opérations de la CIA à partir du Tchad visent l'élimination physique de Kaddafi ; ce dernier devient, à partir de 1984, une priorité aussi élevée dans l'agenda des services secrets américains que la menace soviétique.


Le financement de la guerre menée par le Tchad et la France contre la Libye a été assuré par le royaume d'Arabie saoudite, l'Egypte, le Maroc, Israël et l'Irak. Les saoudiens ont garanti 7 millions de dollars US à un groupe d'opposition, le Front national pour le salut de la Libye, activement soutenu par les services de renseignements français et la CIA. Le 8 mai 1984, un plan concerté visant l'assassinat de Kaddafi et la prise du pouvoir par l'opposition basée à l'étranger est mis en échec. L'année suivante, les Etats-Unis d'Amérique demandent à l'Egypte d'envahir la Libye et d'y renverser son gouvernement. Le président égyptien Moubarek se montre réticent et invoque un manque de ressources. Cette affaire est éventée vers la fin de l'année 1985 par la publication d'une lettre de protestation au président Reagan émanant de membres du Congrès opposés à cette démarche dans le Washington Post. En 1985, un début de guerre civile éclate en Libye. Des rebelles armés s'emparent des villes de Derna et de Baida près de Benghazi et une rébellion éclate au sein des forces armées. Les forces loyalistes arrivent à écraser la rébellion, ce qui pousse les occidentaux à envisager l'entrée en scène de l'armée égyptienne afin de soutenir la rébellion.


Ce sera un scénario presque similaire qui sera adopté vingt-six ans plus tard en 2011. Frustré par leurs multiples tentatives de reversement du régime de Kaddafi, les américains procèdent à un changement soudain de stratégie. Le 14 avril 1986, 30 chasseurs-bombardiers américains (dont des FB-111) décollant de porte-avions et à partir de bases US en Grande Bretagne et en Espagne, mènent des raids aériens sur Tripoli et Benghazi. L'opération baptisée El-Dorado Canyon visait directement l'élimination physique du Colonel Kaddafi et de sa famille. Huit des dix-huit FB-111 ayant décollé de Grande Bretagne étaient spécifiquement mobilisés pour le bombardement de la résidence du Colonel Africain incontrôlable. En représailles à cet assaut aérien, Kaddafi ordonne à ses forces de procéder à des tirs de missiles balistiques de type « Scud » sur des bases militaires US en Italie. Deux missiles sont tirés mais tombent en méditerranée. Quelque temps plus tard, un combat aérien entre des Mig-23 libyens et des F-14 Tomcat US au-dessus du littoral libyen se termine par la destruction des appareils libyens. Les médias occidentaux n'évoqueront plus avant longtemps une action militaire directe contre la Libye. Cependant, la CIA enclenche une vaste série de complots et soutient une série ininterrompue de tentatives de putschs anti-Kaddafi.


Une armée secrète est recrutée à cette fin, notamment des débris des unités libyennes capturées lors de la guerre avec le Tchad durant les années 80 et les britanniques créent, financent et soutiennent une constellation de groupes d'opposition en Libye et à l'étranger dont le Mouvement national libyen basé à Londres. Lors de la guerre Irak-Iran, la Libye s'engage aux côtés du Yémen, de la Syrie, du Soudan et de l'Algérie aux côtés de l'Iran contre l'Irak, soutenu par l'Arabie Saoudite, l'Egypte, le Koweit, la Jordanie, le Maroc et la Tunisie. Tripoli soutiendra également divers groupes qualifiés de terroristes et flirtera dangereusement avec des mouvances islamistes au Soudan.


A partir de 1990, les français et les britanniques sont derrière d'autres tentatives de déstabilisation et d'assassinat visant Kaddafi en utilisant le pouvoir fantoche de N'djaména. En 1994, une attaque à la grenade contre Kaddafi déclenche une terrible répression contre l'opposition islamiste. En 1996, une rébellion islamiste menace la Libye et on enregistre des milliers de morts dans les combats. D'autres troubles secouent le pays en 1998, 2002 et 2004, notamment lors de la chasse aux africains, récurrentes au lendemain de chaque tentative de déstabilisation du régime.


Le groupe islamique combattant libyen ou GICL, en partie soutenu par Londres, mène une guérilla larvée contre le régime et s'allie plus tard avec ce que l'on appelle la Qaida au Maghreb Islamique. En 2005, une mutinerie éclate à la prison de Abou Sélim près de Benghazi. On parle de 800 à 1600 morts selon les sources. Benghazi la frondeuse n'acceptera jamais le Colonel Kaddafi. Celui-ci le lui rendra bien. Le 17 février 2011, un appel sur Facebook lancé à partir de Londres pour commémorer le massacre de la prison de Abou Sélim dégénère en un nouvel coup d'Etat, le trente-neuvième dans les quarante ans de règne du colonel Kaddafi. Les évènements se transforment vite en guerre civile entre les deux provinces historique de Tripolitaine et de Cyrénaïque autour du contrôle des hydrocarbures. Vue comme une révolte dans le sillage des révoltes relativement Soft de Tunisie et d'Egypte, l'expérience échoue en Libye où les occidentaux sont obligés d'intervenir directement en assurant un soutien aérien aux opposants de Cyrénaïque en guerre avec le régime de Tripoli.


L'intervention est couverte par une Résolution du Conseil de Sécurité de l'ONU qui fera date. Cette fois ci, pour des raisons de politique interne, les USA sont obligés de sous-traiter la tâche à leurs alliés européens, français et britanniques en tête avec un financement de certains pays du Golfe persique, devenus partie prenante dans le conflit libyen.

Battle of Waterloo - Charge of the British Heavy Cavalry

Battle of Waterloo - Charge of the British Heavy Cavalry

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La guerra anglo-boera

La guerra anglo-boera

di Angelo Cani

Fonte: Conflitti e strategie [scheda fonte]


angloboera2.jpgDue guerre, quella degli Stati Uniti del 1898 contro la Spagna, per la conquista di Cuba e delle Filippine, e quella intrapresa dall’Inghilterra, contro le due piccole repubbliche boere: il Transvaal e lo Stato libero d’Orange, segnarono l’inizio di una nuova epoca, l’epoca dell’imperialismo e del dominio del capitale finanziario.

Nella storia del passato si erano combattute molte guerre, allo scopo di estendere il commercio e i possedimenti delle potenze imperialistiche, ma mai gli interessi del capitale monopolistico e finanziario avevano avuto un ruolo così decisivo e determinante.

La guerra anglo-boera, scoppiata nel 1899, è stata la prima guerra imperialistica.

La piccola repubblica del Transvaal, fondata nel 1837 dai discendenti dei contadini olandesi, che erano emigrati al Capo di Buona Speranza alla metà del XVII secolo, aveva goduto di una relativa pace fino al 1886, anno della scoperta dei giacimenti d’oro.

Dei 300 mila kg. d’oro, che a quei tempi si estraevano ogni mese in tutto il pianeta, 80 mila provenivano dalla piccola Repubblica. La sola Inghilterra, ogni mese, estraeva dalle proprie colonie 80 mila kg. e se si Fosse impadronita della repubblica boera, come era sua intenzione, sarebbe diventata padrona di più della metà della produzione mondiale di oro. Per questa ragione i dirigenti inglesi, subito dopo la scoperta del metallo prezioso, si attivarono per la conquista della Repubblica del Transvaal. L’impresa venne affidata a Cecil Rodes, fondatore e direttore della “Chartered Company”, capo del potente sindacato “de Beers”, che forniva il 90% della produzione diamantifera mondiale, primo ministro della Repubblica del Capo e padrone della Rhodesia. Egli preparò, molto accuratamente, un grandioso piano per creare un impero inglese che avrebbe dovuto estendersi da Città del Capo fino al Cairo. La conquista della Repubblica boera faceva parte di questo piano. I mezzi per raggiungere tale obiettivo furono i più svariati. In primo luogo, in base a un trattato imposto ai boeri nel 1884, l’Inghilterra aveva il diritto di esercitare il controllo sui rapporti di questa Repubblica con l’estero. In secondo luogo essi potevano esercitare una costante pressione sul governo boero agendo sugli immigrati inglesi che avevano ottenuto la cittadinanza della piccola Repubblica e speravano di prevalere sui boeri. In terzo luogo l’Inghilterra aveva cercato di accerchiare e isolare il Transvaal con i suoi possedimenti. Quest’ultimo tentativo fallì perché la Repubblica boera si era unita direttamente con una ferrovia con il porto portoghese Laurenco Marques situato sulla costa della baia di Delagoa. Il tentativo di conquistare, da parte del governo inglese, il controllo di questo porto e della ferrovia fallì per l’opposizione del governo portoghese dietro il quale agiva attivamente la diplomazia e il capitale tedesco che aveva già costruito la ferrovia che collegava Pretoria direttamente al mare. Inoltre per dimostrare il suo appoggio a Pretoria e per dissuadere gli inglesi il governo tedesco, nel gennaio del 1895, mandò dimostrativamente a Delagoa due navi da guerra. Sempre in questo periodo l’influenza economica, la penetrazione dei capitali e delle merci tedesche nella Repubblica boera si sviluppò considerevolmente. L’industria meccanica tedesca, i trusts elettrotecnici, le grandi ditte di costruzioni, la Società per l’industria dell’acciaio di Bochum, la fabbrica di vagoni Deutzer di Colonia, la Krupp e la Siemens trovarono in questo paese lo sbocco per la propria produzione.

angloboera1.jpgLe banche tedesche non si limitavano a partecipare alla banca del Transvaal, ma di fatto la controllavano. Nell’ottobre del 1895 la Dresdner Bank aprì a Pretoria una succursale e grande interesse mostrò anche la Deutsche Bank. Il capitale tedesco investito in Transvaal raggiungeva in questo periodo la somma di 500 milioni di marchi.

Attratti dai fantastici guadagni, accorsero nella Repubblica boera numerosi avventurieri, commercianti e industriali tedeschi. Solo nella città di Johannesburg i tedeschi immigrati erano 15000. Questi immigrati si consideravano il nucleo della nuova grande Germania nell’Africa meridionale. Il loro progetto era quello di instaurare sul Transvaal il protettorato della Germania e per questo era necessario eliminare il pericolo di un protettorato inglese. I circoli tedeschi dichiararono unanimi la loro disponibilità a difendere i boeri da un’eventuale attacco inglese.

Nell’aprile 1895 i tedeschi riuscirono, d’accordo con il Portogallo, a strappare agli inglesi il controllo sul servizio postale lungo la costa sudorientale dell’Africa. La reazione dell’Inghilterra non si fece attendere. Il 30 dicembre, con il benestare del governo, bande della “Chartered Company”, forti di oltre 800 uomini, armate di cannoni e mitragliatrici, al comando di Jamenson, stretto collaboratore di Rhodes, entrano nel territorio del Transvaal e marciano verso Johannesburg, dove si attendeva da un momento all’altro l’insurrezione organizzata da tempo sempre da Rhodes.

Il giorno dopo la notizia arriva a Berlino. Il governo reagisce: rompe le relazioni diplomatiche con l’Inghilterra, invia una unità militare a Pretoria, ordina al comandante dell’incrociatore “Seeadler”, dislocato nelle acque della baia di Delagoa, di sbarcare un reparto di fanteria marina e di inviarlo nel Transvaal. Ma quando la tensione tra Londra e Berlino sta ormai per raggiungere un punto di non ritorno sono gli avvenimenti del giorno dopo a far allentare la tensione.

Le bande di Jamenson vengono circondate dai boeri e catturate assieme al loro capo. Anche il complotto organizzato a Johannesburg Fallisce miseramente. L’incursione delle bande inglesi smascherano Rhodes di fronte alla popolazione e al governo del Transvaal che, pur contando sull’aiuto tedesco, comincia ad armarsi per potersi difendere autonomamente. Buona parte delle armi vengono acquistate in Germania. La ditta Krupp riceve, proprio in questo periodo, grandi ordinazioni di cannoni e la ditta berlinese Lewe trae grandi guadagni dalla vendita di un gran numero di fucili Mauser.

I boeri, con l’acquisto di armi belghe, fecero guadagnare molto denaro anche ad alcune ditte commerciali inglesi, le quali erano a conoscenza che tali armi sarebbero state usate contro i soldati inglesi. Ma furono soprattutto le ditte tedesche a trarre i massimi guadagni fornendo ai boeri armi per la guerra contro l’Inghilterra e contemporaneamente fornendo all’esercito inglese armi e munizioni per la guerra contro i boeri. Interesse di queste ditte era quindi quello di mantenere il più a lungo possibile lo stato di tensione nei rapporti tra inglesi e boeri.

Dopo la crisi del 1895-96 possiamo notare un graduale cambiamento del governo tedesco per quanto riguarda i rapporti anglo- boeri. Le ragioni del mutamento politico vanno ricercate nei diversi interessi del capitale tedesco.

Nella Repubblica boera oltre ai circoli della Deutsche Bank e della Darmstadt Bank, che deteneva un grosso pacco di azioni delle ferrovie del Transvaal, avevano grossi interessi anche le acciaierie Krupp, gli armatori di Amburgo e altri esportatori. Un ruolo importantissimo veniva svolto da uno dei più grandi gruppi del capitale finanziario tedesco: la Disconto – Gesellschaft. Soprattutto il capo di questa banca, il banchiere Hansemann, s’interessava proprio in questo momento della costruzione di una ferrovia che doveva collegare l’Africa orientale tedesca con l’Africa sud – occidentale tedesca. Il progetto prevedeva che la ferrovia attraversasse ilterritorio del Transvaal.

La Lega pangermanica, appoggiata dalla Disconto, si affrettò, attraverso la stampa, a sostenere tale progetto. Era però chiaro, fin dall’inizio, che questa banca da sola non avrebbe potuto assicurare il finanziamento di un’impresa così grandiosa. Il tentativo di avere l’appoggio della Deutsche Bank fallì, lo stesso avvenne con la City di Londra che era interessata alla realizzazione della linea ferroviaria, che da Città del Capo arrivava al Cairo, progettata da Rhodes.

Hansemann assieme ad una parte dei commercianti anseatici, della compagnia navale Werman e altri grandi circoli finanziari chiedeva al governo tedesco di svolgere una politica più attiva nell’Africa del sud e una lotta più incisiva per avere un peso più determinate nel Transvaal. Ma per quanto questo gruppo fosse influente, il governo tedesco doveva tener conto anche degli interessi di un altro gruppo finanziario alla cui testa si trovava la Deutsche Bank: anche questo gruppo chiedeva al governo un impegno maggiore e una politica più attiva nella Repubblica boera, ma i suoi dirigenti, molto informati sugli interessi dell’imperialismo inglese e sull’atteggiamento dei boeri, avevano cominciato ad elaborare vasti piani verso l’Impero ottomano, l’Asia sud-occidentale e la Cina. Al centro di questo grandioso piano espansionistico stava il progetto della costruzione della ferrovia, che partendo dal Bosforo passava per Bagdad e giungeva fino al Golfo Persico.

Questi circoli legati alla Deutsche Bank, dopo aver ottenuto la concessione dal governo turco per la costruzione della ferrovia, avevano incominciato, per l’impossibilità di fermare la crescente pressione dei capitalisti inglesi, a disinteressarsi degli affari del Transvaal. Infatti Siemens e gli altri dirigenti della Deutsche Bank si erano resi conto che sarebbe stato più conveniente, per il capitale tedesco, rinunciare alle mire

espansionistiche nel sud Africa e sfruttare le posizioni politiche ed economiche di cui disponevano in quella zona, per costringere l’Inghilterra a scendere a patti. Essi rivendicavano, in cambio di un loro disinteresse sulla piccola Repubblica del Transvaal, grossi compensi finanziari e coloniali. Fu così che in questi gruppi del capitale finanziario cominciò a prendere forma una linea di ritirata invece di una linea di politica attiva nella Repubblica boera. Questa politica coincideva con gli interessi delle classi dominanti: borghesia e junker.

Nella lotta tra i due gruppi del capitale finanziario tedesco, uno capeggiato dalla Deutsche e l’altro dalla Disconto, prevalse, grazie all’appoggio del governo, la tendenza che considerava più conveniente alimentare e accentuare la tensione nei rapporti tra l’imperialismo inglese e i boeri. Da un lato i circoli della lega pangermanica facevano credere ai boeri che la Germania non gli avrebbe mai abbandonati. Dall’altro lato, il Kaiser, il capo del governo von Bulow e l’ambasciatore tedesco a Londra, non rinunciavano a sondare il terreno presso il ministro inglese Salisbury , sui compensi per l’amicizia che la Germania avrebbe potuto concedere, a determinate condizioni, all’Inghilterra.

angloboera3.pngNell’estate del 1898, la diplomazia tedesca venuta a conoscenza che il governo inglese si accingeva ad approfittare della difficile situazione finanziaria in cui era venuto a trovarsi il Portogallo per mettere le mani sui suoi possedimenti coloniali, pretese dall’Inghilterra la propria parte, cioè avere libero accesso alla spartizione delle colonie portoghesi. Per rendere più convincente la sua richiesta il governo tedesco minacciò di intervenire a fianco dei boeri, di allearsi con la Russia e altre potenze rivali dell’Inghilterra, ma in realtà questo era solo un ricatto per poter aumentare le proprie pretese.

Alla fine, dopo lunghi contrasti e mercanteggiamenti, arrivano ad un accordo per la spartizione delle colonie portoghesi. Tutti i partiti dominanti accettarono tale accordo, eccezion fatta per la lega pangermanica, che aveva a cuore gli interessi della Disconto, che lo qualificò come tradimento a danno dei boeri.

Nel marzo 1899 Cecil Rhodes, per assicurarsi della neutralità dei circoli tedeschi in caso di guerra contro il Transvaal, si recò a Berlino e si impegnò: ad esercitare pressioni sulle alte sfere inglesi per strappare concessioni coloniali, particolarmente nelle isole Samoa, che i circoli della marina tedesca consideravano una importante base strategica nell’Oceania, favorire la Germania nella costruzione della linea telegrafica e della ferrovia transafricana e appoggiare la Deutsche Bank nell’Asia sud – occidentale.

La linea politica, del non intervento, del governo tedesco poggiava sul sostegno della Deutsche Bank perché vi vedeva la condizione per il successo per la sua espansione sia verso l’Asia sud-occidentale, sia verso la Cina. I circoli collegati con la Disconto -Gesellschaft non erano entusiasti, ma aspettavano anche loro i grossi vantaggi, promessi da Rhodes, per la costruzione della ferrovia africana. I Krupp e gli altri grandi magnati dell’industria bellica avevano già ottenuto grossi profitti prima della guerra e se ne aspettavano altri ancora maggiori in caso di inizio guerra .

Il 22 settembre il governo inglese, dopo essersi assicurato la neutralità della Germania, proclamò la mobilitazione di un corpo d’armata. Alcuni giorni dopo una parte considerevole venne mandata in Africa del sud.

Il 9 ottobre il presidente del Transvaal, Kruger, presentò l’ultimatum al governo inglese chiedendo di ritirare le truppe a ridosso della frontiera. Il governo inglese le respinse. Kruger, dopo aver avuto l’appoggio del presidente della Repubblica d’Orange, prese l’iniziativa e occupò il Natal. La guerra era cominciata.

La guerra inizialmente fù sfavorevole per gli inglesi. I boeri in tre distinte battaglie sconfissero le truppe britanniche. E per tre anni, prima di essere sconfitti dal potente esercito inglese nel 1902, inflissero dure perdite alle forze britanniche.

La fine della guerra anglo-boera non pose fine ai contrasti coloniali tra le potenze europee e la Germania, anzi, dopo l’accordo tra Francia e Inghilterra, firmato nel 1904, per la spartizione dell’Africa settentrionale, divennero irreversibili. Con questo accordo la Francia rinunciò alle pretese egemoniche nei confronti dell’Egitto e ne riconobbe l’influenza Inglese. l’Inghilterra si dichiarò a sua volta favorevole ad un ampliamento del dominio francese in Tunisia, Algeria e Marocco. Ma proprio in quest’ultimo paese le banche e le grosse imprese tedesche, già da tempo, avevano intrapreso una intensa e redditizia attività commerciale e non erano per niente disposte a farsi da parte. La Germania per superare i contrasti e far valere le proprie ragioni promosse una conferenza internazionale che si tenne nella città spagnola di Algesiras nel 1906.

L’incontro non eliminò nessun contrasto, anzi l’unico effetto che sortì fu l’isolamento politico e l’indebolimento economico dell’Impero tedesco. Ad esasperare ulteriormente i contrasti fu la crisi di sovrapproduzione industriale, incominciata 1907, che interessò tutti i paesi capitalistici, in particolar modo la Germania.

Nel luglio del 1911 le speranze tedesche di sfruttare i giacimenti di ferro, di piombo e manganese, in Marocco, vennero cancellate definitivamente con l’occupazione militare da parte della Francia. Venuta meno questa possibilità le industrie e le banche tedesche rivolsero l’attenzione all’area balcanica e al Medio Oriente. La Disconto fornì alla Romania, Grecia e Bulgaria prestiti per completare le loro reti ferroviarie ed elettriche mediante acquisti di materiale dalle industrie tedesche. Sempre la Disconto riescì ad ottenere la concessione per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio di Ploesti, vendendo in Germania tutto il petrolio estratto.

La Deutsche Bank portò avanti lo sfruttamento dei giacimenti di cromonell’Asia Minore e il collegamento ferroviario tra Istambul e Bagdad. L’ascesa al potere in Turchia dei “giovani Turchi” nel 1908 accentuò il legame con la Germania e le banche concessero grossi prestiti per rinnovare il suo armamentario con acquisti di materiale bellico dall’industria tedesca e in particolar modo dalla Krupp. Negli ambienti capitalistici tedeschi si fece strada l’idea di poter superare la crisi economica facendo di tutta l’area balcanica e medio-orientale un vasto mercato in grado di dare uno sbocco all’industria pesante tedesca e al contempo fornirle a basso costo le materie prime necessarie. Questo disegno del capitalismo tedesco creò però sempre più gravi tensioni internazionali.

L’Inghilterra premeva sul governo persiano per non permettere il passaggio della ferrovia nel suo territorio. La Francia cercava con tutti i mezzi di ridurre l’influenza tedesca in Serbia, Grecia, Bulgaria e Romania.

Le due guerre combattute nel 1912/13 che hanno interessato i paesi dell’area balcanica (passate alla storia come guerra balcaniche) avevano portato sull’orlo della bancarotta le nazioni che vi avevano partecipato.

Alla fine del conflitto la Serbia si rivolse per un grosso prestito alle banche tedesche, che non disponevano, per ragioni storiche, di capitali liquidi e quindi non erano in grado di concedere alcun prestito. La Serbia si rivolse allora alla Francia che, grazie alla disponibilità di capitali liquidi, non aveva difficoltà a concedere il prestito, ponendo, però, come condizione l’acquisto di merci francesi.

Anche la Romania chiese un prestito alle banche tedesche ottenendo, come la Serbia, lo stesso risultato negativo. L’unica strada percorribile, per la grande disponibilità di liquidità, era quella francese, che concesse il prestito, ma ponendo come condizione il controllo dei pozzi petroliferi già controllati dai tedeschi.

La stessa dinamica si svolse in Turchia che prima chiese alle banche tedesche il denaro per riarmare il proprio esercito e costruire le fortificazioni nei Dardanelli, ma non avendolo ottenuto si rivolse alla Francia che pone anche in questo caso come condizione l’acquisto di armi dalle proprie industrie. A questo punto l’unico sbocco alle incessanti

contraddizioni che la crisi capitalistica aveva generato, coinvolgendo tutte le potenze industrializzate, e in particolar modo la Germania che aveva l’esercito più potente del mondo, non poteva essere che la guerra.

 


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lundi, 28 mars 2011

"Aube de l'Odyssée" contre la Libye: grands principes et jeux de dupes

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« Aube de l'odyssée » contre la Libye : Grands Principes et jeux de dupes

Ex: http://www.polemia.com/ 

Qui tire les ficelles contre la Libye ? Sous le couvert des Droits de l’homme, manipulations partisanes, intérêts pétroliers et calculs politiciens font rage.

Dans l’après-midi du 19 mars, veille des cantonales, le chef de l’Etat se fendait, devant les drapeaux entrecroisés de la France et de l’Europe, d’une intervention aussi pathétique que martiale pour nous annoncer que, des peuples arabes ayant « choisi de se libérer de la servitude dans laquelle ils se sentaient depuis trop longtemps enfermés », ils « ont besoin de notre aide et de notre soutien ».

« C'est notre devoir », ajoutait Nicolas Sarkozy. « En Libye, une population civile pacifique (…) se trouve en danger de mort. Nous avons le devoir de répondre à son appel angoissé (…) au nom de la conscience universelle qui ne peut tolérer de tels crimes » et le président de la République concluait avec emphase : « Nos forces aériennes s'opposeront à toute agression des avions du colonel Kadhafi contre la population de Benghazi. D'ores et déjà, nos avions empêchent les attaques aériennes sur la ville. D'ores et déjà d'autres avions français sont prêts à intervenir contre des blindés qui menaceraient des civils désarmés. »

En effet, dix-huit Mirage et Rafale étaient mobilisés pour établir la zone d’exclusion aérienne comme l’ONU en avait finalement donné mandat, cependant que le porte-avions Charles De Gaulle recevait l’ordre de cingler vers la Tripolitaine.

Aux ordres du Pentagone

Ainsi la patrie des Immortels Principes apparaissait-elle en héraut de la conscience universelle et en fer de lance de la résistance armée au satrape de Tripoli. Seul ennui : au moment même où le petit Nicolas se livrait à ce solennel exercice d’autopromotion – présenté sur le site officiel de l’Elysée sous le titre ronflant « Crise en Libye : l'action forte, concertée et déterminée du président Nicolas Sarkozy », le vice-amiral William E. Gortney précisait du Pentagone que l'opération, baptisée Odyssey Dawn (Aube de l'odyssée), était « placée sous le commandement du général Carter F. Ham, chef du U.S. Africa Command (Africom), basé à Stuttgart (Allemagne) ». « Une force navale portant la dénomination Task Force Odyssey Dawn est commandée à la mer par l'amiral américain Samuel J. Locklear III, dont l'état-major est embarqué à bord du navire de commandement USS Mount Whitney », précisait l’amiral Gortney.

Ce que, sur le site LePoint.fr, le spécialiste militaire Jean Guisnel commentait assez cruellement : « Les autorités politiques françaises présenteront sans doute une version les plaçant en tête de gondole, mais la réalité est plus prosaïque : les Américains sont aux manettes et assurent le contrôle opérationnel de l'ensemble du dispositif (OPCON, pour Operational Control) en assurant la coordination de l'ensemble des missions et des moyens qui leur sont attribués… Les Français sont donc des « fournisseurs de moyens » à la coalition qui leur a accordé le « privilège » (ou vécu comme tel par Nicolas Sarkozy) de prendre l'air les premiers. »

En somme, dans cette affaire exhalant un fort relent de pétrole, Sarkozy serait l’estafette de la Maison-Blanche comme Giscard avait été, selon Mitterrand en 1981, « le petit télégraphiste du Kremlin ». Marine Le Pen qui, interrogée sur Europe 1 le 18 mars, mettait en garde contre le risque de guerre car « il faut être conscient que si nous engageons notre armée, d'abord il va falloir la retrouver parce qu'elle est éparpillée partout dans le monde, embourbée en Afghanistan, mais aussi parce que mener un acte de guerre contre un pays, ce n'est pas un jeu vidéo, il faut s'attendre à ce qu'il y ait une réplique », n’avait donc pas tort de se demander ensuite « si les Etats-Unis n’ont pas, une fois de plus, envoyé la France au charbon avec toutes les conséquences qui vont suivre ».

« Carnage » et lâchage… de la Ligue arabe

Ces conséquences, on les connaît :

- risque d’enlisement même si la Libye est désertique et son armée peu connue pour son efficacité (mais on se souvient quel échec fut pour Israël son intervention « Pluie d’été », pourtant apparemment sans dangers, contre le Hezbollah libanais en juillet 2006) ;
- risque de représailles terroristes ;
- risque de raz-de-marée migratoire puisque Kadhafi n’a plus aucune raison de bloquer sur son sol les candidats à l’exode vers l’Europe comme il le faisait depuis son accord avec Berlusconi ;
- et surtout revirement du monde arabo-musulman contre la « croisade occidentale » dès les premiers « dommages collatéraux », lesquels n’ont pas tardé.

Dès le 21 mars, en effet, nos pilotes étaient accusés par Libération et le Herald Tribune de s’être livrés à un « jeu de massacre » et à un « carnage », après avoir pris pour une colonne de blindés loyalistes une colonne de blindés saisis par les rebelles s’étant également emparés d’uniformes. Mais, du ciel et même avec l’aide de drones, comment reconnaître les « bons » démocrates (que l’AFP a d’ailleurs décrits « faisant les poches » des soldats tués) des « mauvais », suppôts du tyran ? Inéluctables, de telles bavures n’avaient pas été envisagées, semble-t-il, par le généralissime de l’Elysée, qui pourrait bien se retrouver en posture d’accusé si la promenade de santé tournait à la déculottée.

Au demeurant, le revirement avait été très vite amorcé : alors que, dans son allocution du 19 mars, Nicolas Sarkozy s’était targué du soutien complet d’Amr Moussa, président des Etats de la Ligue arabe – et présent au sommet de l’Elysée –, l’Egyptien se déchaînait dès le lendemain (à 14h 43) contre l’Aube de l’odyssée. Pour Moussa, candidat à la succession de Moubarak et donc soucieux de se ménager l’opinion égyptienne en vue de la présidentielle, « ce qui s'est passé en Libye diffère du but qui est d'imposer une zone d'exclusion aérienne : ce que nous voulons c'est la protection des civils et pas le bombardement d'autres civils ». Quel camouflet pour Sarkozy !

Un devoir d’ingérence très sélectif

Mais peu importe à celui-ci puisque, simultanément, dans Le Parisien, Bernard Henri Lévy lui tressait des lauriers pour s’être montré « lucide et courageux » dans le déclenchement de la « guerre juste » destinée à débarrasser la Libye « dans les délais les plus brefs, du gang de Néron illettrés qui ont fait main basse sur leur pays et l'ensanglantent, pour l'heure, impunément ».

Vive donc le devoir d’ingérence si cher à Bernard Kouchner ! Débarqué le 13 novembre 2010 du Quai d’Orsay pour incompétence, il aura remporté avec cette intervention en Libye une fameuse victoire « posthume » – dont il se réjouit d’ailleurs sans retenue, célébrant lui aussi le « courage » de Nicolas Sarkozy.

On remarquera toutefois que ce prétendu devoir s’inscrit dans une géométrie éminemment variable ainsi que le notait d’ailleurs Polémia dans son « billet » du 18 mars : « Les Occidentaux, philanthropes expérimentés, voleront au secours de la population libyenne en la bombardant. (Préservez-moi de mes amis…) Pourquoi la Libye et pas la Côte d'Ivoire ? Pourquoi Kadhafi et pas Gbagbo ? »

De même, pourquoi défendre les « résistants » de Benghazi et de Tobrouk et abandonner à leur triste sort ceux de Bahrein que, circonstance aggravante, les troupes saoudiennes et émiraties ont envahi le 14 mars à seule fin de prêter main forte au monarque de cet Etat du Golfe qui ne parvenait pas à juguler l’opposition ? Une incroyable intervention que Paris n’a pas cru devoir condamner. Quant aux Etats-Unis, ils se sont bornés à appeler leurs alliés saoudiens à la « retenue » alors qu’ils avaient fait frapper d’un embargo sauvage puis ravagé en 1990-1991, par « Tempête du désert », l’Irak coupable d’avoir envahi en août 1990 le Koweit, sa « dix-septième province ».

Et que dire du mutisme assourdissant des champions aujourd’hui autoproclamés de la conscience universelle devant la sanglante opération « Plomb durci » déclenchée fin décembre 2008 par les Israéliens contre la bande de Gaza, où la plupart des (milliers de) victimes furent des civils, de tous âges et de tous sexes ?

Les mensonges de mars

Mais on sait qu’Israël bénéficie d’une grâce d’état. Quant aux manifestants bahreinis, ils sont chiites : considérés comme vassaux de l’Iran, ils sont donc traités en supplétifs de l’« axe du mal ». On peut ainsi les réduire en charpie sans que les bonnes âmes ne s’en émeuvent, comme elles l’ont fait, à l’instar de Bernard Henri Lévy, devant les deux mille morts faits par la répression à Benghazi fin février dernier.

D’ailleurs, y en eut-il réellement deux mille ? Ce chiffre, alors avancé sur TF1, et au conditionnel, par un médecin français confiné dans son hôpital, n’a jamais été confirmé de source sûre. Il n’en est pas moins – ce qui n’est pas une première dans l’histoire – accepté sans discussion par les chancelleries occidentales et les cercles de l’OTAN.

Mais attention ! Sous le titre « Yougoslavie, Irak, Libye : les mensonges de mars », le quotidien britannique The Guardian rappelait utilement le 20 mars : « En mars 1999, on nous a dit qu’il nous fallait intervenir en Serbie parce que le président yougoslave Slobodan Milosevic avait lancé contre les Albanais du Kossovo « un génocide de type hitlérien » alors que ce qui arrivait au Kossovo était une guerre civile entre les forces yougoslaves et l’Armée de Libération du Kossovo soutenue par les Occidentaux, avec des atrocités commises des deux côtés (*). Et les proclamations sur l’arsenal de destruction massive détenu par l’Irak étaient une pure foutaise (pure hogwash) inventée pour justifier une intervention militaire… En mars 1999 comme en mars 2003, nos dirigeants nous ont menti sur les raisons réelles de notre engagement dans un conflit militaire. Comment pouvons-nous être sûrs qu’il en va différemment en mars 2011 malgré l’aval donné par l’ONU à l’intervention en Libye ? »

Le retour des faucons « néo-cons »

D’autant que les manipulateurs sont les mêmes, en commençant par Bernard Henri Lévy, à la manœuvre en Libye comme il l’avait été dans les années 1990 en Bosnie puis au Kossovo, et surtout les stratèges neo-conservative américains Paul Wolfowitz et William Kristol, ce dernier venu du trotskisme mais « partisan passionné d'Israël, de la puissance américaine et du renforcement de la présence américaine au Moyen-Orient », comme le souligne Wikipedia. Quant à Wolfowitz, secrétaire adjoint à la Défense entre 2001 et 2005 dans le gouvernement de George W. Bush puis président de la Banque mondiale jusqu’en mars 2007, c’est lui qui fabriqua la « foutaise » des armes de destruction massive irakiennes comme il l’avoua avec cynisme dans le n° de mai 2003 du magazine Vanity Fair, alors que l’Irak était crucifié. Point de détail : la nouvelle compagne de cet inquiétant personnage, Shaha Riza, est une Lybo-Britannique précédemment chargée des droits des femmes arabes à la Banque mondiale et aujourd’hui apparatchik au département d'Etat des Etats-Unis.

De son côté, le compère Kristol, auquel les frappes aériennes sur Tripoli et Syrte ne suffisent plus, préconisait le 20 mars sur FoxNews le déploiement au sol des troupes de la coalition. Contredisant Barack Obama dont il est pourtant devenu l’un des plus proches conseillers après avoir instrumentalisé Bush jr., il affirme ainsi : « Non, nous ne pouvons pas laisser Kadhafi au pouvoir et nous ne le laisserons pas au pouvoir. »

Un programme aussitôt applaudi par BHL et auquel notre président adhérera sans doute, quitte à risquer la vie de nos soldats, puisque ledit BHL est devenu son directeur de conscience et, tant pis pour l’avantageux Juppé, le vrai chef de notre diplomatie. Et tant pis également si l’opération Aube de l’odyssée favorise l’instauration d’un « Emirat islamique de la Libye orientale dans la région pétrolière de Tobrouk », avènement redouté par le ministre italien des Affaires étrangères, Franco Frattini, dans une déclaration du 22 février. Tout comme Tel Aviv finança le Hamas pour affaiblir l’OLP de Yasser Arafat, la « croisade » (dénoncée le 21 mars par Vladimir Poutine) aboutira-t-elle au remplacement de Kadhafi par des Barbus ? Beau résultat, en vérité !

Kadhafi, sinistre bouffon mais roi de Paris

Peu nous chaut évidemment le sort du colonel libyen qui, depuis des décennies, n’a eu de cesse de monter contre la France ses anciennes colonies africaines, au prix de sanglantes guerres civiles. Comme au Tchad où il soutint sans défaillance Hussein Habré, kidnappeur de Mme Claustre, assassin du commandant Galopin et, parvenu au pouvoir, responsable de plus de 40.000 morts, ce qui lui a valu le 15 août 2008 d’être condamné à mort (par contumace) pour crimes contre l'humanité par un tribunal de N'Djaména. Et nous n’oublions pas la responsabilité directe de Kadhafi dans d’innombrables actes de terrorisme, dont l’attentat de 1989 contre un avion de la compagnie française UTA – 170 morts.

Mais, justement, Sarkozy, lui, avait oublié ces faits d’armes, de même que l’impitoyable répression s’abattant depuis quarante ans sur les opposants au chef de la « Jamariya » quand, en décembre 2007, il réserva un accueil triomphal au sinistre bouffon – qui, après avoir obtenu de planter sa tente bédouine dans le parc du vénérable Hôtel de Marigny, fit d’ailleurs tourner en bourriques les services du protocole et la préfecture de Paris. Il est vrai qu’à l’époque, le président français avait cru pouvoir annoncer la signature de contrats pour une valeur d' « une dizaine de milliards d'euros ». Soit, selon Claude Guéant, alors secrétaire général de l’Elysée, « l'équivalent de 30.000 emplois garantis sur cinq ans pour les Français ». Essentiellement dans le domaine militaire puisque l’on nous faisait miroiter la vente, dans « deux ou trois mois », s’il vous plaît, de quatorze Rafale – les mêmes Rafale qui, finalement jamais achetés, bombardent aujourd’hui la Libye.

Un calcul bassement politicien

Autant que le non-respect par Kadhafi des sacro-saints droits de l’homme, et l’habituel alignement sur l’Hyperpuissance, est-ce le dépit engendré par ces illusions perdues qui a incité le chef de l’Etat à nous lancer dans l’aventure libyenne ?

Sans doute, mais même si BHL, toujours lui, félicite Sarkozy d’avoir eu « le juste réflexe – pas le calcul, non, le réflexe, l'un de ces purs réflexes qui font, autant que le calcul ou la tactique, la matière de la politique », il est difficile de ne pas voir dans la démarche présidentielle un calcul politique. Et même politicien. A l’approche d’élections annoncées comme catastrophiques pour la majorité, l’Elyséen devait à tout prix se « représidentialiser ». Quoi de mieux, pour y parvenir, que d’adopter la flatteuse posture de chef des armées, de plus arbitre planétaire des élégances morales ?

Echec sur toute la ligne. Aux cantonales du 20 mars, l’UMP, talonnée par un FN à 15,56% (résultat jamais atteint dans ce type de scrutin), n’a obtenu que 17,07% des suffrages, contre 25,04% au PS.

Alors, tout ça (car il faudra bien donner un jour le coût du ballet aérien et de la croisière du Charles-De-Gaulle) pour ça ?

Camille Galic
21/03/2011

(*) Voir notre article du 28 février « Albanie : la dictature de la corruption, meilleur allié de l'islamisation » :

Correspondance Polémia - 22/03/2011

La grande guerre de Nicolas le petit

La grande guerre de Nicolas le petit

 

Sarkozy_guerre_libye_kadhafi.jpgÉric Besson avant de se renier, alors qu’il était encore socialiste, publia un petit opuscule fort bien fait intitulé « Sarkozy l’Américain ». Il y expliquait comment les néo-con yankees mettaient tous leurs espoir dans l’élection de Nicolas Sarkozy à la présidence de la République. Ils ne le soutenaient pas, à ses yeux, comme ils soutiendraient n’importe quel candidat de droite, mais parce qu’il était le seul homme politique français important qui incarnait leurs idées. Pour eux, Nicolas Sarkozy était l’espoir d’en finir une fois pour toutes avec l’hydre à deux têtes constituée par ce qui reste du modèle social français et de la politique étrangère indépendante de la France.

Et de rappeler qu’alors qu’il était déjà candidat à la présidence de la République, Sarkozy de passage aux États-Unis n’avait pas hésité à déclarer qu’il se sentait étranger dans son propre pays, qu’il était fier qu’on l’appelle « l’américain » et qu’il considérait comme arrogant le discours d’un premier ministre français (de Villepin à l’ONU en 2003) qui a fait l’admiration du monde entier.

Au lendemain de son accession à l’Élysée, l’universitaire Jean Bricmont, n’avait pas hésité à écrire, quant à lui, que cette « victoire représente une inféodation de la France à l’étranger comme il n’y en a jamais eu dans le passé, sauf suite à des défaites militaires. »

Tout ceci pouvait sembler excessif.

Malheureusement il n’en était rien et ce qu’avaient prédit ces auteurs s’est malheureusement confirmé : la France de Sarkozy est devenu le caniche de l’oncle Sam.

L’opération en Libye nous en donne une nouvelle preuve.

La propaganda staffel des médias aux ordre nous présente dans cette affaire une « France aux commandes » et un Président « chef de guerre »… Cela avec un objectif purement politique évident : rehausser l’image du nain hongrois en chute libre dans les sondages en donnant l’impression qu’il a une véritable surface internationale et qu’il est, au moins, capable de réussir quelque chose… Fut-ce faire tuer des femmes et des enfants par des missiles téléguidés !

La réalité est plus cruelle et nous pouvons la découvrir dans la presse yankee dont les articles sont repris en France par quelques blogs et sites « mal-intentionnés ». La réalité c’est que, comme l’écrit Jean Guisnel sur Le Point.fr, « la France est placée sous commandement américain » et que Paris est uniquement un « fournisseur de moyens » de la coalition internationale engagée contre Kadhafi. Et notre journaliste d’expliquer «  Lors d’un briefing organisé samedi au Pentagone, le vice-amiral William E. Gortney a précisé que l’opération (…) est placée sous le commandement du général Carter F. Ham, chef du U.S. Africa Command (Africom), basé à Stuttgart (Allemagne). Une force navale portant la dénomination Task Force Odyssey Dawn est commandée à la mer par l’amiral américain Samuel J. Locklear III, dont l’état-major est embarqué à bord du navire de commandement USS Mount Whitney. À ce stade, les conditions précises de l’organisation de l’opération Odyssey Dawn ne sont pas entièrement définies. Les autorités politiques françaises présenteront sans doute une version les plaçant en tête de gondole, mais la réalité est plus prosaïque : les Américains sont aux manettes et assurent le contrôle opérationnel de l’ensemble du dispositif (OPCON, pour Operational Control) en assurant la coordination de l’ensemble des missions et des moyens qui leur sont attribués. La raison en est simple : alors que la coalition pourrait compter jusqu’à une vingtaine de pays dans les jours qui viennent, seuls les Américains sont en mesure de gérer un tel dispositif. Les Français sont donc des « fournisseurs de moyens » à la coalition qui leur a accordé le « privilège » (ou vécu comme tel par Nicolas Sarkozy) de prendre l’air les premiers. »

Pire, une lecture de la presse américaine permet d’apprendre que ce sont les États-Unis, seuls, qui ont décidé qu’il était enfin possible de se lancer dans l’opération diplomatique ouvrant la voie à l’emploi de la force contre la Libye et que une fois ces opérations entamées, la France sarkozyste a été placée sous commandement américain et obéit depuis au doigt et à l’œil à ce que disent et décident Hillary Clinton et le président Obama.

Ainsi, notre pays est engagé dans une opération militaire, dont on ne comprends guère le sens et dont on ignore tout de l’issue, pour des raisons qui n’ont rien à voir avec notre intérêt national mais beaucoup avec celui des États-Unis et avec l’avenir politique d’un lilliputien ambitieux.

Voici à quoi sont utilisés nos impôts (le coût de cette opex devrait rapidement se chiffrer à plusieurs dizaines, voire centaines si elle dure, millions d’euros), voici pourquoi le sang de Français sera peut-être versé demain !

Mais que Nicolas le petit et ses sbires n’aient crainte, tout se paie (parfois pas uniquement dans les urnes…) et le peuple de France a commencé à faire l’addition. La vague bleu marine de dimanche pourrait bien n’être encore qu’une vaguelette en comparaison des élections futures !

Gaddafi und Merkel

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Baal Müller

Gaddafi und Merkel

 

Ex; http://www.jungefreiheit.de/

Die der untergehenden DDR entstammende Wendehalsigkeit, mit der sich Angela Merkel derzeit beinahe zur Atomkraftgegnerin wandelt und außenpolitisch plötzlich an der Seite Rußlands und Chinas wiederfindet, wird ihrer Partei trotz „German Angst“ und Pazifismus keine Sympathiepunkte bei den bezitterten Landtagswahlen in Baden-Württemberg einbringen. Auch das als Sieg interpretierte Wahlergebnis der CDU in Sachsen-Anhalt – 32,5 Prozent bei 51,2 Prozent Wahlbeteiligung – kann kaum als Wende betrachtet werden.

So pazifistisch sind die Deutschen nämlich gar nicht; es kommt auf die Feindbilder und deren Inszenierung an: Gegen den Irak-Krieg und für Gerhard Schröders – von der „Transatlantikerin“ Merkel bekämpften – Kurs war eine Mehrheit, weil George W. Bush gegenüber Saddam Hussein damals als größere Friedensbedrohung galt (zumal letzterer, anders als die von Afghanistan aus operierende Al-Kaida, den Westen nicht akut bedrohte) und weil die Propaganda von den irakischen Massenvernichtungswaffen allzu unglaubwürdig erschien.

Auf der Seite der palavernden Zauderer

Der heutige amerikanische Gegenspieler des allgemein als irrer Despot dargestellten Gaddafi ist freilich der Friedens(Nobelpreis-)Engel Obama, dem niemand einen als „Kreuzzug gegen das Böse“ verbrämten Krieg ums Öl ernsthaft zutraut. Zudem zeigen die Massenmedien junge, für Demokratie kämpfende Menschen, die man doch nicht im Stich lassen darf. Endlich ist klar, wer gut und wer böse ist! Und Merkel hat sich in den Augen „werteorientierter“ Gutmenschen mit ihrem um das Überleben seiner Partei ringenden Außenminister auf die Seite der palavernden Zauderer, also de facto der Bösen, verrannt.

Dem Häuflein aus Merkel-CDU, in Agonie liegender FDP und prinzipiell antiwestlicher Linkspartei steht eine ebenso schillernde Front gegenüber, allen voran die obersten Einpeitscher grüner Kriegspolitik, Joschka Fischer und Daniel Cohn-Bendit: Ersterer schämt sich in der Süddeutschen für das „Versagen unserer Bundesregierung“ und wirft dem Außenminister in seiner Flegelsprache vor, „den Schwanz einzuziehen“; letzterer preist im Spiegel-Interview eine „Befreiungsbewegung, die es fast aus eigener Kraft geschafft hätte, einen Diktator zu stürzen“, und bemüht – ähnlich wie Fischer seinerzeit ein drohendes Auschwitz auf dem Balkan erfand – allen Ernstes das Warschauer Ghetto als Parallele zur Rebellenhochburg Bengasi.

Hintermänner der libyschen Freiheitskämpfer ausgeblendet

Führte Gaddafi nicht selbst 1969 in den Augen der „antiimperialistischen“ Linken eine „Befreiungsbewegung“ an, als er den libyschen König Idris stürzte, sodann die Ölvorräte des Landes verstaatlichte, die Alphabetisierung der Bevölkerung vorantrieb und trotz der ungeheuren Bereicherung seines Clans den allgemeinen Wohlstand steigerte? Und warum erfahren wir eigentlich so wenig über Organisationen, Geldgeber und Hintermänner der heutigen libyschen „Freiheitskämpfer“, von denen sogar der Spiegel berichtet, daß sie tatsächliche oder vermeintliche Gaddafi-Anhänger massakrieren?

Die auf westliche Geheimdienstaktivitäten spezialisierte Zeitschrift Geheim vom 19.03.2011 nennt vor allem die „National Front for the Salvation of Libya“, die „Libyan Constitutional Union“ sowie die „Islamic Fighting Group“, die seit vielen Jahren geheimdienstlich unterstützt würden. Seit Beginn des Aufstandes hätten auch militärische Spezialeinheiten in Libyen operiert, den Rebellen Waffen geliefert und logistische Hilfe geleistet. Der Krieg gegen Gaddafi – der sein Öl, worauf Michael Wiesberg in seiner JF-Kolumne vom 14. März hingewiesen hat, in Zukunft vor allem nach China und Indien exportieren wollte – habe somit schon lange vor der UN-Resolution 1973 begonnen.

Wahlkampf statt souveräner Außenpolitik

Dazu paßt, daß diese nicht nur, wie zunächst allgemein gefordert, die Einrichtung einer Flugverbotszone, sondern auch die Bekämpfung von Bodentruppen zum Schutz der Zivilbevölkerung erlaube. Da Gaddafi aufgrund seiner gewaltigen, wahrscheinlich im Süden an den Grenzen zu Tschad und Niger gebunkerten, Goldreserven zu einer längeren Kriegführung fähig ist, wird man wohl sukzessive weitere Maßnahmen ergreifen müssen.

Deutschland hat, wie der Ex-Generalinspekteur der Bundeswehr Klaus Naumann (CSU) bejammert, „zum ersten Mal seit 1949 einen Alleingang gewagt“ – ob man darin nicht nur hilflosen Wahlkampf, sondern eine eigenständige Außenpolitik erkennen kann, ist fraglich, aber zumindest kein Grund, sich dafür mit Naumann, Fischer oder Cohn-Bendit, zu „schämen“.

Baal Müller, freier Autor und Publizist, geboren 1969 in Frankfurt/Main, studierte Germanistik und Philosophie in Heidelberg und Tübingen; 2004 Promotion zum Dr. phil. Für die JF schreibt er seit 1998. 2005 legte er eine belletristische Neubearbeitung des Nibelungenliedes vor. Jüngste Buchveröffentlichung: Der Vorsprung der Besiegten – Identität nach der Niederlage, Schnellroda 2009. Er ist Inhaber des Telesma-Verlags

 

 

Zitat: Joachim Fernau

 

Der „Staat“ hat mich nie gekannt, nie angesehen. Ich habe ihn immer nur kennengelernt, wenn er wie ein von der Sauftour heimkehrender Vater mich entdeckte und prügelte. Fallen Sie nicht auf die Lüge hinein, dass Vaterland gleich Staat ist.

Joachim FERNAU.

 

L’ « Etat » ne m’a jamais reconnu, ne m’a jamais honoré. Je ne l’ai connu que d’une façon : comme on connaît un père qui revient fin saoul après une virée dans les bistrots, qui vous trouve dans la maison et vous rosse. Ne tombez jamais dans l’erreur de croire que la patrie équivaut à l’Etat.

Joachim FERNAU.

 

Never was I recognized nor honoured by the “State”. I’ve only known it in a single way : as a shit-faced father coming home after having done all the pubs and who discovers and smacks you. Never believe the lie that tells you that Fatherland equals State.

Joachim FERNAU. 

dimanche, 27 mars 2011

Libye: le "médiamensonge", arme suprême

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Libye : le « médiamensonge » arme suprême

Ex: http://www.polemia.com/

Michel Collon a plublié sur son site un article assez virulent en cinq points, dans lequel il dénonce la médiatisation complaisante et partisane des événements libyens. Nous ne partageons pas forcément l’intégralité du contenu, mais nous invitons nos lecteurs à se rendre sur ce site pour en prendre connaissance. Il est très éclairant.

Au moment où Polémia organise sa deuxième cérémonie des Bobards d’Or le 5 avril prochain, il nous paraît intéressant de le leur signaler. En plus et en avant goût de notre manifestation, nous reproduisons le point 5 qui traite d’un sujet qui nous est cher : le « médiamensonge », que l’on retrouve pratiquement à l’origine de chaque conflit. C’est le thème de Michel Collon.

En fin d’article, on trouvera  les références de cette publication qui a pour titre : 

Cinq remarques sur l’intervention contre la Libye
et dont les cinq points sont :

  1. Humanitaire, mon œil !
  2. Qui a le droit de « changer de régime » ?
  3. Les buts cachés
  4. La « communauté internationale » existe-t-elle ?
  5. Chaque guerre est précédée d’un grand médiamensonge

Chaque guerre est précédée d’un grand médiamensonge.

Même dans la gauche européenne, on constate une certaine confusion : intervenir ou pas ? L’argument massue « Kadhafi bombarde les civils » a pourtant été démenti par des sources occidentales et des sources de l’opposition libyenne. Mais répété des centaines de fois, il finit par s’imposer.

Etes-vous certains de savoir ce qui se passe vraiment en Libye ? Quand l’Empire décide une guerre, l’info qui provient de ses médias est-elle neutre ? N’est-il pas utile de se rappeler que chaque grande guerre a été précédée d’un grand médiamensonge pour faire basculer l’opinion ? Quand les USA ont attaqué le Vietnam, ils ont prétendu que celui-ci avait attaqué deux navires US. Faux, ont-ils reconnu des années plus tard. Quand ils ont attaqué l’Irak, ils ont invoqué le vol des couveuses, la présence d’Al-Qaida, les armes de destruction massive. Tout faux. Quand ils ont bombardé la Yougoslavie, ils ont parlé d’un génocide. Faux également. Quand ils ont envahi l’Afghanistan, ce fut en prétendant qu’il était responsable des attentats du 11 septembre. Bidon aussi.

S’informer est la clé.

Il est temps d’apprendre des grands médiamensonges qui ont rendu possibles les guerres précédentes.

Michel Collon
20/03/2011

Source :

Cinq remarques sur l’intervention contre la Libye, à lire sur :
http://www.michelcollon.info/Cinq-remarques-sur-l-intervention.html

Correspondance Polémia – 22/03/2011

Krebszahlen steigen weltweit...

Krebszahlen steigen weltweit, da in den Entwicklungsländer immer mehr amerikanische Nahrungsmittel gegessen und US-Produkte genutzt werden

David Gutierrez

Die Zahl der Krebskranken steigt weltweit an, besonders aber in den Industrienationen, heißt es in einem Bericht, der von der Amerikanischen Krebsgesellschaft (ACS) anlässlich des Weltkrebstages in der Fachzeitschrift der Gesellschaft – CA: A Cancer Journal for Clinicians – veröffentlicht wurde. In dem Bericht heißt es weiter, 2008 wurden schätzungsweise 12,6 Millionen neue Krebsfälle diagnostiziert und 7,6 Millionen Menschen starben an Krebs. Die überwältigende Mehrzahl dieser Fälle – 7,1 Millionen Erkrankungen und 4,8 Million Todesfälle – trat in den Industrienationen auf. Die Verbreitung einer sogenannten »Wohlstandskrankheit« wie Krebs auf die ärmeren Länder kann unter anderem darauf zurückgeführt werden, dass in diesen Regionen in zunehmendem Maße ungesunde Lebensweisen wie zum Beispiel Rauchen, Sesshaftigkeit und eine schlechte Ernährungsweise übernommen werden.

 

 

Die Forscher weisen darauf hin, dass ein Drittel der Krebstoten 2008 durch einfache Maßnahmen wie etwa Aufhören zu rauchen, weniger trinken von Alkohol, eine gesündere Ernährungsweise und mehr körperliche Bewegung sowie eine Reduzierung des Infektionsrisikos hätte verhindert werden können. Mehr als 7.300 Menschenleben könnten so täglich gerettet werden.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/medizin-und-gesundheit/gesundes-leben/david-gutierrez/krebszahlen-steigen-weltweit-da-in-den-entwicklungslaender-immer-mehr-amerikanische-nahrungsmittel-.html

Beslan: des victimes modèles

 

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BESLAN:  DES VICTIMES MODELES

 

par Georges HUPIN

 

Les princes qui nous gouvernent retirent généralement du terrorisme et des terroristes plus d’effets et d’utilité qu’ils n’en retirent des victimes du terrorisme. Nous ne songeons pas ici aux cyniques qui osent financer les services de terroristes dans le but de déstabiliser leurs concurrents, bien que les exemples de ce type de stratégie ne soient pas rares. Nous visons simplement ici les effets et utilités de la grande presse, tant publique que privée, qui donne en général incomparablement moins de visibilité aux victimes du terrorisme qu’à leurs bourreaux.

 

C’est notamment ce thème du peu de visibilité des victimes du terrorisme qui a été traité à Bruxelles le vendredi 11 mars dernier, dans un colloque international organisé par la DG Justice de la Commission européenne à l’intention des organisations européennes de défense des victimes du terrorisme. Dans leur nombre, il y avait l’association France-Europe-Beslan que nous nous félicitons de soutenir. Hors l’importante délégation française, menée par Guillaume Denoix de Saint Marc, il y avait dans la soixantaine des représentations à ce colloque des délégués d’associations espagnoles, italiennes, néerlandaises, britanniques. France-Europe-Beslan était représentée par son président Christian Maton et, pour sa section belge, par Georges Hupin.

 

En séance, il a été souligné entre autres que généralement le terrorisme ne paie pas, que dans la masse revendicatrice, qui est naturellement attentiste, les revendicateurs ‘modérés’ ne sont souvent que des radicaux patients, aussi violents en fin de compte qu’est violente la lente étreinte de l’anaconda, que dans notre monde de médiatisation qui formate les masses, le terrorisme est une forme de manipulation violente de ces masses, que cette violence qui vise les populations innocentes est criminelle, qu’elle ne fait pas que des victimes directes, tués, blessés ou disparus, mais aussi un grand nombre de victimes indirectes parmi tous leurs proches dont la vie reste marquée. On notera d’ailleurs que presque tous les intervenants au colloque étaient personnellement touchés par le terrorisme, soit comme survivant d’un attentat, soit comme proches d’une victime directe. Le colloque a rassemblé en fait un réseau mondial de survivants, d’orphelins ou de veufs, de parents de victimes directes. Tous s’accordent sur l’objet du colloque : Faire jouer aux victimes du terrorisme, directes et indirectes, un rôle de prévention contre la radicalisation violente des revendications.

 

Sur le plan de la prévention de la radicalisation, le comportement de la population d’Ossétie du nord est un modèle d’une importance exceptionnelle. Pas seulement parce que la tuerie de Beslan est, en matière de crime terroriste le summum de l’odieux. D’abord par le choix de la cible : une concentration de jeunes enfants. Ensuite par le nombre des victimes prises en otage : plus de 1.300. Enfin par les circonstance de sa mise en oeuvre : la fête de la rentrée des classes d’une grande école primaire, ‘Jour de la connaissance’ célébré avec les parents et les grands parents, les petits frères et sœurs. A Beslan, ce 1er septembre 2004, Ils étaient tous endimanchés et enrubannés pour la cérémonie, avec ses discours, ses récitations, ses chants et ses fleurs. Et puis soudain c’est l’horreur, les cris, les coups de feu  tirés par une bande d’une trentaine de terroristes qui débarquent de camions en tenue de taliban. Le paroxysme est atteint dans la cruauté avec laquelle l’action terroriste va être menée : les enfants et les parents sont parqués vaille que vaille dans la salle de gymnastique; les bandits, -c’est comme cela que les enfants les appellent alors- ;pour marquer aussitôt leur détermination dans les esprits de leurs otages, abattent sous leur yeux plusieurs pères qui protestaient et ils jettent leurs cadavres depuis l’étage sur les pavés de la cour.

 

C’est alors la stupeur chez les enfant ; les terroristes braillent qu’ils vont faire tout sauter et ils installent des explosifs répartis dans la salle et un dispositif de mise à feu qu’un terroriste maintient pressé sous le regard de tous. Le soleil d’été qui commence à monter fait que dans la salle bondée la chaleur devient bientôt étouffante. Les enfants ont soif, mais on leur refuse à boire. Ils se mettent à pleurer, mais s’arrêtent bientôt, terrorisés par les hurlements Deux membres du commando, des femmes, s’insurgent contre cette inhumanité, qui visiblement n’était pas à leur programme : elles sont exécutées. Et ce n’est là encore que le début d’un long calvaire qui va durer trois jours et deux nuits, dans cette salle où il n’y a pas assez de place pour que tout le monde puisse s’étendre.

 

Le second jour est aussi torride que le premier et les cadavres exposés au soleil commencent à se décomposer. Certains enfants, déshydratés, délirent. Ils sont obsédés par l’image du robinet de la cour de récréation, qui est tout proche et qu’ils croient entendre, car il fuit effectivement goutte à goutte dans un chuintement aigu. La seconde nuit est interminable et, le troisième jour, dans la touffeur écrasante de midi, soudain, une énorme explosion, suivie de deux autres. Une maladresse probable du terroriste préposé au dispositif de mise à feu qui, fatigue ou tension, a relâché sa pression sur le ressort du déclencheur ? La presse occidentale accuse aussitôt Vladimir Poutine d’avoir lancé ses forces spéciales dans un assaut intempestif. C’est lui le tueur des otages de combattants de la liberté ! Or les troupes spéciales russes ne sont même pas présentes dans le pays, car l’état fédéral a tenu à laisser l’opération à la responsabilité de la police locale. Celle-ci ne dispose malheureusement pas de la formation spécifique. Surpris par les explosions, ses hommes ont aussitôt foncé vers l’école dans l’espoir de sauver des enfant, sans prendre le temps d’enfiler leurs gilets pare-balles. Car, lorsque la poussière est retombée, des enfants se sont précipité au dehors, vers la liberté, vers l’eau. Mais les terroristes postés dans les étages les ont tirés dans le dos et de nombreux policiers payeront alors de leur vie leur généreux dévouement.

 

Toutefois, il n’est pas salutaire de ruminer indéfiniment ces images lamentables. Il faut même se garder d’en banaliser l’atrocité, pour ne pas risquer d’inciter des névrosés à la surenchère. C’est bien le ton de l’exemple que nous donnent les Ossètes : pour la bonne propagande, pour la propagation du bien et de la paix, il faut tirer de la mémoire du mal des leçons de vie. Plus signifiant que la mémoire du drame, il y a l’horreur de l’horreur et l’espoir qui veut en renaître.  C’est ici que réside le miracle de Beslan.

 

Victime des découpages et des recompositions qui étaient si fréquents à la belle époque de la discordance du concert des nations; la Belgique serait, dit-on, un enfant perdu que l’Angleterre aurait fait dans le dos de la France. Les Belges, sans être des experts en relations interethniques, sont assez ferrés sur la matière pour apprécier ce que les Ossètes ont fait après avoir été les victimes de l’abomination du terrorisme. Et pour proclamer que c’est un modèle pour l’humanité, un modèle d’humanité.

 

C’est à partir du moment où la fusillade a cessé et où, incrédule, la population ossète de Beslan (80%) compte ses morts et ses blessés, qu’elle va se comporter de manière exemplaire. Elle va accepter de suivre son président (il a eu deux enfants parmi les otages) qui veut à tout prix l’empêcher de tomber dans le piège qui lui est tendu par les stratèges du terrorisme. Le risque que cette large majorité, des Ossètes orthodoxes, se rue alors pour se venger sur les minorités musulmanes ingouches et tchétchènes est vertigineux, dans ce Caucase où tout le monde possède une arme et où la ‘loi du sang’ ne laisse pas aux Corses le monopole de la vendetta. Le peuple ossète doit compter un pourcentage élevé de poètes, qui ont su alors trouver les mots, les gestes, les symboles qui sont parvenus à retenir les tempéraments les plus chauds de mettre le feu aux poudres. Et de déclencher le bain de sang sur lequel les terroristes devaient avoir compté pour déterminer l’internationalisation de la question.

 

Mais le peuple ossète a fait mieux encore, il a trouvé la manière de reconstruire la paix, dans le pays, mais d’abord dans les cœurs, en transformant une logique de haine et de mort en une logique de confiance et de vie. Il est admirable que dans le cimetière spécial qu’elles ont aménagé pour les martyrs, les autorités de la ville aient opté, de préférence à l’art abstrait, pour un art populaire lisible au premier regard : le mémorial de ‘L’Arbre du Chagrin’ dresse ses trois silhouettes de femmes dont les bras dressés vers le ciel ouvrent leurs branches sur un vol de petits anges dont les ailes sont des feuilles symbole de la vie renaissante. N’est pas moins émouvante la reconnaissance du supplice de la soif qu’ont enduré tous les petits martyrs de Beslan, dont certains pour survivre n’ont pas hésité à boire leur urine, dont d’autres sont morts d’épuisement dans les bras de leur maman.  Il n’y aura eu dans l’histoire des hommes que peu de peuples pour exprimer aussi bien leur communion à la souffrance des leurs que par ces deux énormes mains de bronze du Mémorial de la Soif qui présentent au passant un fin filet d’eau. Il évoque le robinet de la cour de récréation qui a obsédé des petits agonisants, ce robinet qui, horrible dérision, était impossible à fermer et à dix pas d’eux à peine continuait de laisser fuir son eau sur le sol.

 

N’est pas moins émouvant le troisième monument du cimetière de Beslan, dédié aux hommes des forces de sécurité ossètes qui se sont sacrifiés et qui sont morts une seconde fois quand ils ont été calomniés pour de basses raisons d’opportunité politique.  Ils sont morts dans l’idéal des guerriers, s’oubliant eux-mêmes pour protéger les leurs. Le mémorial qui évoque avec une belle sobriété leur geste héroïque ne peut qu’apporter aux veuves et aux orphelins qu’ils ont laissés la consolation d’un légitime fierté et d’une mémoire à cultiver.

 

Nous devons être reconnaissant au peuple ossète pour l’exemple qu’il a su donner aux hommes d’une pleine reconnaissance des victimes du terrorisme dans l’affirmation de valeurs de paix : les petits anges de l’Arbre du Chagrin, les enfants morts deviennent les génies vivant de la paix, les protecteurs de la fragilité d’une paix toujours recommencée. Nous devons savoir gré aux Ossètes de disposer de l’esprit de poésie, vital aujourd’hui pour l’amitié entre tous les peuples d’Europe, une paix comme y prétendait jadis Rome, la Pax Romana.

 

Georges Hupin

Futurist Manifesto of Lust

Futurist Manifesto of Lust


Valentine de Saint-Point

http://www.unknown.nu/futurism/lust.html

A reply to those dishonest journalists who twist phrases to make the Idea seem ridiculous;
to those women who only think what I have dared to say;
to those for whom Lust is still nothing but a sin;
to all those who in Lust can only see Vice, just as in Pride they see only vanity.

désir.jpgLust, when viewed without moral preconceptions and as an essential part of life’s dynamism, is a force.

Lust is not, any more than pride, a mortal sin for the race that is strong. Lust, like pride, is a virtue that urges one on, a powerful source of energy.

Lust is the expression of a being projected beyond itself. It is the painful joy of wounded flesh, the joyous pain of a flowering. And whatever secrets unite these beings, it is a union of flesh. It is the sensory and sensual synthesis that leads to the greatest liberation of spirit. It is the communion of a particle of humanity with all the sensuality of the earth.

Lust is the quest of the flesh for the unknown, just as Celebration is the spirit’s quest for the unknown. Lust is the act of creating, it is Creation.

Flesh creates in the way that the spirit creates. In the eyes of the Universe their creation is equal. One is not superior to the other and creation of the spirit depends on that of the flesh.

We possess body and spirit. To curb one and develop the other shows weakness and is wrong. A strong man must realize his full carnal and spiritual potentiality. The satisfaction of their lust is the conquerors’ due. After a battle in which men have died, it is normal for the victors, proven in war, to turn to rape in the conquered land, so that life may be re-created.

When they have fought their battles, soldiers seek sensual pleasures, in which their constantly battling energies can be unwound and renewed. The modern hero, the hero in any field, experiences the same desire and the same pleasure. The artist, that great universal medium, has the same need. And the exaltation of the initiates of those religions still sufficiently new to contain a tempting element of the unknown, is no more than sensuality diverted spiritually towards a sacred female image.

Art and war are the great manifestations of sensuality; lust is their flower. A people exclusively spiritual or a people exclusively carnal would be condemned to the same decadence—sterility.

Lust excites energy and releases strength. Pitilessly it drove primitive man to victory, for the pride of bearing back a woman the spoils of the defeated. Today it drives the great men of business who run the banks, the press and international trade to increase their wealth by creating centers, harnessing energies and exalting the crowds, to worship and glorify with it the object of their lust. These men, tired but strong, find time for lust, the principal motive force of their action and of the reactions caused by their actions affecting multitudes and worlds.

Even among the new peoples where sensuality has not yet been released or acknowledged, and who are neither primitive brutes nor the sophisticated representatives of the old civilizations, woman is equally the great galvanizing principle to which all is offered. The secret cult that man has for her is only the unconscious drive of a lust as yet barely woken. Amongst these peoples as amongst the peoples of the north, but for different reasons, lust is almost exclusively concerned with procreation. But lust, under whatever aspects it shows itself, whether they are considered normal or abnormal, is always the supreme spur.

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The animal life, the life of energy, the life of the spirit, sometimes demand a respite. And effort for effort’s sake calls inevitably for effort for pleasure’s sake. These efforts are not mutually harmful but complementary, and realize fully the total being.

For heroes, for those who create with the spirit, for dominators of all fields, lust is the magnificent exaltation of their strength. For every being it is a motive to surpass oneself with the simple aim of self-selection, of being noticed, chosen, picked out.

Christian morality alone, following on from pagan morality, was fatally drawn to consider lust as a weakness. Out of the healthy joy which is the flowering of the flesh in all its power it has made something shameful and to be hidden, a vice to be denied. It has covered it with hypocrisy, and this has made a sin of it.

We must stop despising Desire, this attraction at once delicate and brutal between two bodies, of whatever sex, two bodies that want each other, striving for unity. We must stop despising Desire, disguising it in the pitiful clothes of old and sterile sentimentality.

It is not lust that disunites, dissolves and annihilates. It is rather the mesmerizing complications of sentimentality, artificial jealousies, words that inebriate and deceive, the rhetoric of parting and eternal fidelities, literary nostalgia—all the histrionics of love.

We must get rid of all the ill-omened debris of romanticism, counting daisy petals, moonlight duets, heavy endearments, false hypocritical modesty. When beings are drawn together by a physical attraction, let them—instead of talking only of the fragility of their hearts—dare to express their desires, the inclinations of their bodies, and to anticipate the possibilities of joy and disappointment in their future carnal union.

Physical modesty, which varies according to time and place, has only the ephemeral value of a social virtue.

We must face up to lust in full conciousness. We must make of it what a sophisticated and intelligent being makes of himself and of his life; we must make lust into a work of art. To allege unwariness or bewilderment in order to explain an act of love is hypocrisy, weakness and stupidity.

We should desire a body consciously, like any other thing.

Love at first sight, passion or failure to think, must not prompt us to be constantly giving ourselves, nor to take beings, as we are usually inclined to do so due to our inability to see into the future. We must choose intelligently. Directed by our intuition and will, we should compare the feelings and desires of the two partners and avoid uniting and satisfying any that are unable to complement and exalt each other.

Equally conciously and with the same guiding will, the joys of this coupling should lead to the climax, should develop its full potential, and should permit to flower all the seeds sown by the merging of two bodies. Lust should be made into a work of art, formed like every work of art, both instinctively and consciously.

We must strip lust of all the sentimental veils that disfigure it. These veils were thrown over it out of mere cowardice, because smug sentimentality is so satisfying. Sentimentality is comfortable and therefore demeaning.

In one who is young and healthy, when lust clashes with sentimentality, lust is victorious. Sentiment is a creature of fashion, lust is eternal. Lust triumphs, because it is the joyous exaltation that drives one beyond oneself, the delight in posession and domination, the perpetual victory from which the perpetual battle is born anew, the headiest and surest intoxication of conquest. And as this certain conquest is temporary, it must be constantly won anew.

Lust is a force, in that it refines the spirit by bringing to white heat the excitement of the flesh. The spirit burns bright and clear from a healthy, strong flesh, purified in the embrace. Only the weak and sick sink into the mire and are diminished. And lust is a force in that it kills the weak and exalts the strong, aiding natural selection.

Lust is a force, finally, in that it never leads to the insipidity of the definite and the secure, doled out by soothing sentimentality. Lust is the eternal battle, never finally won. After the fleeting triumph, even during the ephemeral triumph itself, reawakening dissatisfaction spurs a human being, driven by an orgiastic will, to expand and surpass himself.

Lust is for the body what an ideal is for the spirit—the magnificent Chimaera, that one ever clutches at but never captures, and which the young and the avid, intoxicated with the vision, pursue without rest.

Lust is a force.

samedi, 26 mars 2011

L'affaire libyenne et l'Opération "Odyssey Dawn"

 

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Communiqué de SYNERGIES EUROPEENNES – 23 mars 2011

 

L’affaire libyenne et l’Opération « Odyssey Dawn »

 

Il va de soi que nous sommes contre l’intervention militaire actuelle lancée contre la Libye du Colonel Khadafi. D’abord parce qu’elle est une intervention américaine en Méditerranée et que les Etats-Unis n’ont rien à faire en Méditerranée et que leur présence en ces eaux revient à nier toute souveraineté européenne en Europe même. Ensuite, l’intervention américaine, moins intempestive qu’en Afghanistan ou en Irak, est appuyée par un tandem franco-britannique. On sait, depuis la moitié du 19ème siècle, que tout tandem entre ces deux puissances occidentales est contraire aux intérêts généraux de l’Europe et que toute réédition de l’Entente implique soit la guerre soit une issue contraire à ces intérêts généraux de notre continent. Les positions allemandes, russes et chinoises sont les bonnes : Berlin a raison de tourner le dos à une nouvelle Entente Paris/Londres et de préférer in petto l’alignement sur la sagesse du Groupe BRIC ; Moscou y voit une nouvelle intervention occidentale ruinant les efforts du dégel entrepris depuis la perestroïka de Gorbatchev ; et la Chine demeure fidèle à ses principes de non intervention et de non immixtion dans les affaires intérieures des pays tiers, surtout en Afrique.

 

Un des motifs majeurs de l’intervention occidentale est bien entendu de s’emparer du pétrole libyen, dont Khadafi avait suggéré la vente prioritaire aux Chinois et aux Indiens. L’intervention dans le cadre de l’Opération « Odyssey Dawn » est intéressante à plus d’un titre :

 

-          Obama n’apparaît plus comme le pacificateur américain, issu de la communauté afro-américaine qui allait allègrement gommer les aspérités de la gestion néoconservatrice de Bush. On sait désormais partout que Républicains ou Démocrates sont également bellicistes, que l’Âne ou l’Eléphant sont tout autant va-t’en-guerre. Pire : Bush avait demandé l’avis du Congrès pour lancer les opérations en Afghanistan ou en Irak. Obama s’est passé de l’avis des parlementaires américains. Mais on nous chantera, à gauche comme à droite de l’échiquier politique, dans les colonnes des gazettes politiquement correctes, qu’il est, dans le fond, dans sa bonne nature d’Afro-Américain, plus démocrate que les autres…

 

-          Sarközy choisit la fuite en avant : les sondages fiables et le résultat des dernières cantonales en France montrent que ses actions sont fortement en baisse. Il faut de la gloriole, il faut détourner l’attention du peuple vers des épopées faciles pour faire oublier une gestion néolibérale qui a hérissé le peuple de France contre son UMP. Sarközy a également trahi le gaullisme, l’esprit diplomatique offensif de Couve de Murville qui jamais n’aurait déclenché une intervention aux côtés des Britanniques et des Américains contre un pays arabe client en Méditerranée.

 

-          Les Britanniques sont finalement les plus logiques dans l’affaire : la Libye, ils la convoitent depuis toujours. Ils avaient pris le relais d’Atatürk, organisateur des tribus senoussi du Sud contre les Italiens. Au départ de l’Egypte et du Soudan, les Britanniques avaient incité les Senoussi à lutter contre la mainmise de l’Italie sur cette partie hautement stratégique du Sahara, à hauteur de la zone de turbulences qu’est aujourd’hui le Darfour soudanais. Le Roi Idriss, renversé par Khadafi en 1969, était un personnage arabe folklorique mis en place par Londres qui, en retour, exploitait le pétrole libyen. Les Britanniques espèrent remettre un Senoussi en place : à leurs yeux, ce serait un juste retour des choses.

 

-          L’Italie, conquérante de la Tripolitaine et de la Cyrénaïque contre les Turcs ottomans en 1911, a conservé des intérêts importants en Libye, malgré l’expulsion des Italiens par Khadafi au début de son règne. Les relations commerciales italo-libyennes ont toujours été de bonne ampleur. Berlusconi n’est entré dans l’opération « Odyssey Dawn » que contraint et forcé : sa position en Italie même est chancelante et il espère un appui des Etats-Unis. Mais la diplomatie italienne enrage de voir la place de l’Italie prise par la France, qui cherche sans doute des compensations pétrolières et surtout, probablement, à exploiter les nappes phréatiques du sous-sol libyen (par l’intermédiaire de la « Lyonnaise des Eaux » ?), et qui enrage aussi d’assister au retour des Britanniques dans la région. Le ministre Frattini veut un cadre « OTAN » pour l’Opération, ce que Sarközy refuse. Et la Lega Nord, partie prenante du gouvernement Berlusconi, refuse l’intervention, en demeurant dans sa bonne logique anti-interventionniste, celle qu’elle avait déployée lors de l’attaque criminelle de l’OTAN contre la Serbie en 1999.

 

-          Le Belgique, elle, cherche a prouver « urbi et orbi » qu’elle existe encore malgré la crise politique qui la frappe depuis juin 2010, la rendant incapable de former un gouvernement au bout de neuf mois de négociations. L’unanimité du parlement pour légitimer « Odyssey Dawn » laisse pantois : sur tous les parlementaires présents, aucun n’est donc capable de formuler une analyse un tant soit peu cohérente de la situation en Méditerranée et de la position importante que revêt la Libye, en dépit des frasques de son leader. On notera que les députés populistes flamands ont communié dans cet occidentalisme et cet atlantisme de mauvais aloi au même titre que tous les autres pitres de notre guignol politicien, prenant ainsi des positions diamétralement opposées à celle de ses alliés de la Lega Nord et aussi, dans une moindre mesure, de ses alliés de la FPÖ autrichienne et des Allemands qui lui sont proches. On sourit aussi dans sa barbe quand on sait que le relais en Belgique de Bernard-Henri Lévy, conseiller de Sarközy ès matières libyennes, a été Guy Verhofstadt, l’ancien leader de la fameuse coalition arc-en-ciel, qui a prononcé un discours belliciste tonitruant, caractérisé par une faiblesse déplorable sur le plan de l’argumentation factuelle. Le même Verhofstadt qui recevait en grande pompe Khadafi à Bruxelles en 2004, quand Washington venait de décider qu’il « n’était plus un méchant ». On sourit également quand on s’aperçoit que les députés du VB ont suivi Verhofstadt, qu’ils vilipendaient naguère. L’entrée en « guerre » de la Belgique a été illégalement décidée par un gouvernement d’affaires courantes, prouvant une fois de plus une inféodation atlantiste navrante. Et un abandon de la politique plus circonspecte de Pierre Harmel.

 

Le personnage de Khadafi pose évidemment problème : nous n’avons plus affaire au jeune et fringant Colonel modernisateur qui, sanglé dans un uniforme impeccable et bras nus, siégeait aux côtés d’émirs bédouins auxquels il prêchait la fraternité arabe. Nous avons désormais affaire à un homme vieillissant, affublé d’accoutrements bizarres et ne donnant plus l’impression de l’ardeur, de la modernité et de l’innovation. On oublie que Khadafi a eu des débuts très prometteurs. Et que les réalisations concrètes de son régime méritent tout de même l’admiration : création d’un bon système médical/hospitalier, mise sur pied d’un système d’éducation meilleur que dans les pays arabes voisins, bonne gestion de la manne pétrolière et redistribution à la population et, enfin, last but not least, l’exploitation des immenses nappes phréatiques du sous-sol saharien, via le projet de « Great Man Made River ». Jusqu’ici, quelques fermes collectives seulement fonctionnaient grâce à l’irrigation en provenance de ces nappes phréatiques ; le projet allait se concrétiser à grande échelle dans les mois prochains. La Tunisie de Ben Ali et l’Egypte de Moubarak s’y intéressaient. L’Egypte, on le sait, parvient à grand peine à satisfaire les besoins en eau de sa population : le Nil ne suffit plus. Certes Khadafi s’est enrichi personnellement,  mais ni plus ni moins (et plutôt moins…) que certains de ses collègues. La redistribution est toutefois mieux agencée en Libye.

 

Voyons maintenant le côté pile. Il y a l’imprévisibilité du Colonel. Ses foucades inacceptables du point de vue diplomatique : l’expulsion des Italiens, l’affaire des infirmières bulgares, volontaires pour structurer son système hospitalier (affaire qui, elle, aurait mérité une intervention plus musclée de la part de tous les Etats européens), la participation au mobbing contre la Suisse et la rétention d’otages helvétiques (affaire où l’Europe est restée étrangement silencieuse), les soutiens plus ou moins déguisés à des terroristes ou à des actes terroristes (Lockerbie, la discothèque berlinoise), mais on sait qu’en matière de terrorisme, le scepticisme est de mise car, pour Washington, le terroriste d’hier pour devenir l’allié de demain et vice-versa, comme ce fut d’ailleurs bien le cas pour Khadafi. D’ennemi, celui-ci est devenu ami puis redevenu ennemi.  Les Français reprochaient l’intervention de Khadafi au Tchad mais, le Tchad demeure tout de même, géographiquement parlant, l’arrière-cour de la Libye, que celle-ci soit ottomane, sous tutelle italienne ou britannique, ou indépendante. Khadafi s’est aligné dès 2006, cela n’a servi à rien : tous les candidats à l’alignement savent désormais à quoi s’en tenir !

 

La force de Khadafi, au temps de sa gloire de jeune et bel officier, a été son incontestable charisme et sa volonté de moderniser un pays qui n’existait pas en réalité. La Libye est un territoire où se juxtaposent un grand nombre de tribus. La population obéit à des logiques tribales et non pas à l’idée d’un Etat central et moderne. Dans l’esprit de la population, la division du territoire en deux vilayets ottomans (Tripolitaine et Cyrénaïque) correspond peu ou prou à deux ensembles de tribus, séparés par plus de mille kilomètres de désert. Khadafi a fédéré cette population éclatée en tribus. Ce pacte fédéral a été rompu récemment et une partie des tribus a réclamé une révision du pacte, des redistributions et un réaménagement du pouvoir : dissensus sans doute provisoire, où s’est immiscé un Occident prompt à exploiter les manifestations centrifuges dans les Etats qui se défendent bien sur le plan de la gouvernance.

 

Khadafi a certes une logique islamique mais non islamiste : contrairement aux intégrismes habituels, de facture hanbalite ou wahhabite, qui fondent leurs démarches sur le Coran, certes, mais aussi sur les hadiths, les commentaires et les ajouts divers des ulémas. Ce sont ces addenda post-coraniques qui encombrent l’islam d’archaïsmes qui déplaisent notamment aux Occidentaux mais aussi à tous les modernisateurs et les nationalistes arabes. Khadafi a prôné un islam exclusivement coranique, sans les exégèses ou interprétations postérieures dont se réclament hanbalites et wahhabites. Ce coranisme khadafiste débouche sur l’idée d’une « Troisième Voie Universelle », théorisée à l’époque où le monde était encore scindé en deux camps, ceux de la Guerre Froide entre orbes communiste et capitaliste. Empressons-nous de dire que cette « Troisième Voie Universelle », bien que sympathique dans ses intentions, nous est toujours apparue comme extrêmement faible sur le plan intellectuel et théorique : si quelques petits comploteurs se réclamant d’une « Troisième Voie » ont pondu des dithyrambes enflés sur cette théorie khadafienne ou se sont bousculés dans les auditoires de Tripoli dans l’espoir de récolter une manne sonnante et trébuchante, nous n’avons pas participé à la farce et nous avons préféré potasser les « non-conformistes des années 30 » ou les idées gaulliennes de participation et d’intéressement (Loichot). Histoire de rester européens. Et contents de l’être.

 

La fragilité de l’édifice politique khadafien vient de ce fond anthropologique des Libyes, demeuré foncièrement tribal. Ce sont les tribus qui remettent l’édifice en question. Il convient de replacer cette révolte des tribus (surtout celles de Cyrénaïque et du Sud-Est anciennement senoussi, selon certains observateurs) dans un cadre plus général : force est de constater que les Américains lâchent depuis quelques décennies leurs anciens alliés et hommes de main devenus âgés et malades. Ce fut le cas du malheureux Shah d’Iran en 1978-79. C’est le cas de Moubarak aujourd’hui, et aussi, bien sûr, de Ben Ali, celui qui avait évincé le vieux Bourguiba… Washington entend gérer ainsi les transitions et casser simultanément des logiques fortes au sein des Etats alliés, car, on l’oublie trop souvent, depuis Clinton, les Etats-Unis raisonnent comme s’ils n’avaient plus d’alliés mais seulement, face à eux, des « alien societies », auxquelles il ne faut pas nécessairement demeurer fidèles. Moubarak a bien servi la cause de Washington et de Tel Aviv : pour ce faire, il a sans doute bénéficié de mannes assez plantureuses, avec lesquels il a réalisé des projets d’infrastructure pour rendre son pays plus fort. Il est vieux et malade. On va l’évincer, non pas par le soutien clair et sans fard à des putschistes comme en Iran en 1953, mais en créant un désordre apparemment « spontané » dans les rues d’Egypte. Derrière cette effervescence populaire, l’armée s’empare discrètement du pouvoir. Washington, contrairement à ce qui s’est passé en Iran en 1978-79, n’est pas passé par le détour du fondamentalisme islamiste pour éliminer un allié devenu trop puissant et donc potentiellement dangereux : les Frères musulmans, qui ont cru profité de la révolte populaire égyptienne, ont été mis échec et mat ; en compensation, on leur permet de se défouler sur les Coptes.

 

En Libye, les insurgés appartiennent à des tribus moins gâtées par Khadafi et les siens. Pour l’observateur allemand Günther Deschner, il s’agit surtout des Warfalla, matés une première fois en 1993. La Libye fait donc face à un risque : l’éclatement du pays en deux nouvelles entités étatiques, la Cyrénaïque et la Tripolitaine, selon les frontières internes à l’espace ottoman avant la conquête italienne de 1911. D’un point de vue européen, une telle transition, patronnée par Washington, ne serait guère valable. Il conviendrait de maintenir l’unité de la Cyrénaïque et de la Tripolitaine sous une forme ou sous une autre, centralisatrice, fédérale ou confédérale, pour éviter une réédition de la sécession kosovare. L’important, pour l’Europe, c’est de conserver sur la rive sud de la Méditerranée, les acquis positifs du régime khadafiste, c’est-à-dire le système d’éducation, le système médical/hospitalier, la gestion du pétrole avec redistribution des dividendes à la population et la gestion des eaux issues des nappes phréatiques, car ces acquis constituent un excellent modèle pour l’ensemble des pays d’Afrique du Nord. En effet, une telle gestion fixe la population sur son sol et ne la condamne pas à l’émigration vers l’Europe. Dans cette optique, un régime post-khadafiste qui maintiendrait intacts les acquis de la gestion positive du Colonel (et nous débarrasserait de ses foucades inadmissibles) mériterait la coopération européenne. Les effets bénéfiques du projet de « Great Man Made River » permettrait d’avoir, aux portes de l’Europe, un immense jardin irrigué à la place d’un désert infertile, ce qui, comme nous venons de le dire, fixerait les populations nord-africaines sur leur sol natal, dans leur espace arabo-berbère, et fournirait à l’Europe des surplus qui accentueraient la nécessaire indépendance alimentaire qu’elle doit viser, notamment en matière de fruits et légumes. Ces projets d’irrigation avaient été formulés dans les années 40 par le tandem germano-italien mais avaient été prestement « oubliés » par les libérateurs britanniques qui avaient hissé le Roi Idriss sur le trône, pour récompenser les efforts de guerre anti-italiens des Senoussi, instruments d’une « low intensity warfare » inspirée par Lawrence d’Arabie.

 

La Libye de Khadafi a attiré d’ailleurs une immigration marocaine, algérienne et tunisienne, qui combat aujourd’hui sous le drapeau vert (coranique) de Khadafi contre les néo-senoussistes.

 

Enfin, l’intervention n’est pas de mise à nos yeux car l’Europe devrait avoir d’autres priorités, d’autres dangers à éliminer à ses portes : le Maroc qui lorgne sur les Canaries espagnoles, vise à englober les Presidios de la côte méditerranéenne (Ceuta et Melilla), comme l’a prouvé l’incident de l’Ile de Perejil en juillet 2002 et qui continue à produire 70% du cannabis consommé en Europe. L’UE avait donné des subsides aux agriculteurs du Rif pour qu’ils s’adonnent à des cultures de substitution. On s’est bien vite aperçu que la manne européenne a servi à tripler voire à quadrupler le territoire où était cultivé le cannabis. Cet état de choses aurait mérité une intervention musclée, sous la forme d’un bombardement à l’agent orange des champs où est cultivée cette drogue mortelle pour la stabilité de nos sociétés. De même, les navires qui participent à l’opération « Odyssey Dawn » feraient œuvre bien plus utile en traquant les trafiquants qui franchissent chaque jour la Méditerranée entre les côtes marocaines et les côtes andalouses sur des embarcations ultra-rapides contenant chacune une bonne tonne de cannabis. Les hélicoptères européens pourraient faire de magnifiques cartons…

 

Ensuite, autre danger bien plus mortel que les dérapages de Khadafi en proie à la révolte de certaines tribus libyennes : la Turquie qui laisse délibérément ouvertes ses frontières de Thrace à toute l’immigration d’Anatolie, du Kurdistan et de l’Asie centrale, menace la Grèce en Egée, occupe Chypre. Et, par la voix de son premier ministre islamiste Erdogan, envisage de créer partout en Europe des espaces sociaux turcs, soustraits de facto à l’autorité des pouvoirs autochtones, voire des espaces turco-mafieux directement protégés par Ankara. Par deux fois, Erdogan a réitéré la menace, a appelé les Turcs d’Europe à refuser l’intégration : à Cologne en février 2008, à Düsseldorf en février 2011. Les menées turques en Thrace, en Egée et à Chypre, les discours d’Erdogan à Cologne et à Düsseldorf sont des menaces bien plus graves pour l’Europe que les rodomontades récentes de Khadafi en Italie où il a prêché son islam coranique devant un parterre de figurantes sémillantes, recrutées par Berlusconi dans des agences de mannequins, un Berlusconi qui est un incontestable connaisseur en la matière. Pour la Turquie, l’adhésion à l’UE n’a qu’un seul objectif : le pillage des systèmes de sécurité sociale par l’envoi du trop-plein démographique anatolien et kurde, voire des pays avec lesquels la Turquie a signé des accords de libre circulation, en Asie centrale turcophone et au Proche-Orient (Syrie, Liban, Jordanie), selon des logiques historiques pantouranienne ou néo-ottomane. Cette défiance à l’endroit de la Turquie ne doit pas nous empêcher de nous féliciter qu’Ankara a brisé la cohésion du machin OTAN  (quand va-t-il enfin disparaître…?) dans le sillage de l’Opération « Odyssey Dawn » : la Turquie, depuis Erbakan, prédécesseur islamiste d’Erdogan, avait renoué avec la Libye ; 30.000 coopérants turcs s’y étaient établis et viennent de rentrer dare-dare en Anatolie. Le néo-ottomanisme turc nous dérange moins en Libye qu’en Egée ou à Chypre.  

 

La déstabilisation de toute l’Afrique du Nord, Maroc excepté, risque de provoquer un exode nord-africain vers l’Europe. Nous en voyons les signes avant-coureurs à Lampedusa au large de la Sicile. La Libye formait barrage pour deux raisons : elle absorbait une main-d’œuvre nord-africaine et freinait l’exode d’Afrique venu d’au-delà du Sahara (en réclamant une aide européenne). Sans un régime stable en Libye, cette barrière n’existera plus. Il aurait donc mieux valu que les choses restassent en leur état (« res sic stantibus »).     

Libyen: Grösster Militäreinsatz seit der Irak-Invasion

Libyen: Größter Militäreinsatz seit der Irak-Invasion – auf dem Weg in langwierige Kampfhandlungen

Prof. Michel Chossudovsky

Unverblümte Lügen der internationalen Medien: Bomben und Raketen werden als Instrumente des Friedens und der Demokratisierung gepriesen: Hier geht es nicht um ein Eingreifen aus humanitären Gründen. Der Krieg in Libyen eröffnet einen neuen Kriegsschauplatz. In der Großregion Naher und Mittlerer Osten sowie Zentralasien existieren drei unterschiedliche Kriegsschauplätze: Palästina, Afghanistan und der Irak. Vor unseren Augen entwickelt sich ein vierter Kriegsschauplatz der USA und der NATO in Nordafrika und erhöht das Risiko einer Eskalation. Diese vier Kriegsschauplätze sind funktionell miteinander verbunden; sie sind Teil einer integrierten militärischen Agenda der USA und der NATO.

 

 

Die Luftangriffe auf Libyen wurden schon seit Jahren von den Planungsstäben des Pentagon vorbereitet, wie der frühere NATO-Kommandeur General Wesley Clark bestätigte. Operation Odyssey Dawn wird als die »größte militärische Intervention des Westens in der arabischen Welt seit der Invasion des Irak vor genau acht Jahren« bezeichnet. (»Russia: Stop ›indiscriminate‹ bombing of Libya«, Taiwan News Online, 19. März 2011)

Dieser Krieg ist Teil des Kampfes um Erdöl.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/prof-michel-chossudovsky/libyen-groesster-militaereinsatz-seit-der-irak-invasion-auf-dem-weg-in-langwierige-kampfhandlunge.html

El debate sobre la "Nouvelle Droite"

URKULTUR Nº 5.- EL DEBATE SOBRE LA "NOUVELLE DROITE".
[Vínculos con el documento en pdf para imprimir, arriba a la derecha de este blog]
Editorial.
Sebastian J. Lorenz
La Nueva Derecha en Europa: una revisión crítica.
Diego L. Sanromán
La Nueva Derecha del año 2000.
Alain de Benoist y Charles Champetier
El balance de la Nueva Derecha.
Guillaume Faye

Declaraciones de Robert Steuckers sobre la Nueva Derecha.
Marc Lüdders
Los fundamentos filosóficos de la Nueva Derecha.
Michael Toriguian
Nueva Derecha y Revolución Conservadora: una síntesis ideológica.
Sebastian J. Lorenz
La apropiación de la «Revolución Conservadora» por la Nueva Derecha.
Roger Griffin
La Nueva Derecha y la reformulación metapolítica.
Miguel Ángel Simón
La influencia de la Nueva Derecha en los partidos neopopulistas europeos.
Joan Antón Mellón

Fürs Vaterland. L'epopea dei Corpi Franchi

Fürs Vaterland. L’epopea dei Corpi Franchi

 Autore: Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/


Il Freikorps Roßbach. Uno dei Freikorps più celebri, fu impegnato nella Prussia occidentale e sul Baltico.

Il Freikorps Roßbach. Uno dei Corpi Franchi più celebri, fu impegnato nella Prussia occidentale e sul Baltico.


Nella Germania devastata del primo dopoguerra, travolta dalla crisi economica, dalla guerra civile, dallo sfascio dello Stato, ci fu un nucleo di uomini che non rimasero a guardare: la Repubblica di Weimar, nata dal crollo del 1918 e scossa da una serie di insurrezioni comuniste, che dettero vita alle effimere “repubbliche dei consigli”, era anche attraversata da tentativi di contro-rivoluzione: un putsch dietro l’altro, ma nessuno di essi riuscì a rovesciare il pur fragile governo socialdemocratico. Questo, infatti, si resse praticamente soltanto grazie al paradossale aiuto che gli fornirono i Corpi Franchi, cioè quei gruppi nati spontaneamente fra giovani e soldati appena smobilitati, che si raccoglievano attorno a capi militari carismatici ed efficienti: una specie di compagnie di ventura, che sorsero qua e là in tutta la Germania.


Non difendevano la Repubblica, che anzi disprezzavano. Difendevano la Germania. Contro le sollevazioni dei “rossi” e contro le infiltrazioni che, a Est come a Ovest, minacciavano i labili confini, non ancora stabiliti dalla pace di Versailles e completamente aperti. A Occidente, la Francia sobillava il separatismo renano; a Oriente la Polonia appena risorta voleva accaparrarsi più terra tedesca che poteva; e intanto l’Armata Rossa di Trotzkij spingeva verso la Germania. Lenin lo aveva detto: per fare la rivoluzione mondiale bisogna prendere in tutti i modi la Germania. Contro questa folla di nemici sorse un pugno di combattenti: bande irregolari, civili armati alla meglio, oltre a veterani delle trincee della Grande Guerra.


Nella zona baltica, in Curlandia, nella Pomerania e nell’Alta Slesia contese alla Polonia, nella Ruhr occupata dai Francesi, nella Renania, a Berlino: ovunque ci fosse da contrastare la sovversione si trovavano uomini disposti a morire. Questi “lanzichenecchi”, come li chiamò Jünger, erano nazionalisti radicali, alcuni rimpiangevano la Germania imperiale del Kaiser, ma molti altri vedevano invece in quella lotta l’occasione per fare una rivoluzione nazionale. Ma, ben più che ideologi, erano uomini d’azione. Con una sola idea in testa: difendere il Reich in ogni modo e in ogni luogo. Questo mondo di ribelli, di straordinari guerrieri moderni, trovò il suo realistico epos nel famoso romanzo I proscritti di Ernst von Salomon, pubblicato nel 1929 e presto divenuto il testo di riferimento per comprendere un’epoca e una serie di intricate vicende, che altrimenti – specialmente fuori dalla Germania – sarebbero state del tutto ignorate.


Oggi le Edizioni Ritter ci propongono un eccezionale documento in materia: la prima traduzione italiana di un altro testo di von Salomon, Freikorps. Lo spirito dei Corpi Franchi, uscito in Germania nel 1936 col titolo Storia recente, un documento che si raccomanda sia per la scarsità della bibliografia sull’argomento, sia per la statura dell’autore. Von Salomon, coinvolto nell’omicidio politico del ministro degli Esteri Walther Rathenau, per il quale venne condannato nel 1922 a cinque anni, in precedenza, negli anni caldi dell’immediato primo dopoguerra, fu presente in molti teatri guerreschi, dalla repressione dei moti comunisti a Berlino alla lotta antibolscevica nelle regioni baltiche, a quella anti-polacca nella Slesia settentrionale.


Il libro, breve ma denso e trascinante, è un formidabile ritratto dell’epoca e degli uomini che si mossero in quegli scenari mutevoli e irti di incognite. Idealismo combattentistico, fedeltà al capo del proprio corpo e alla terra tedesca, coscienza di essere circondati dall’odio dei nemici e dall’incomprensione del governo centrale; il quale molto spesso, sotto le minacce dell’Intesa (Francia e Inghilterra), si piegava a intimare sgomberi di zone già riconquistate dai Freikorps dopo sanguinosi combattimenti. Ma la frustrante situazione non era tale da ingenerare scoramento in quegli uomini dall’eccezionale temperamento. Scrive von Salomon che «il “lanzichenecco” del dopoguerra tedesco non si vendeva. Si donava». I giovani che accorrevano in quelle file fondevano i loro ideali in un’unica forma: «i vari aspetti ideologici di ogni orientamento, in voga a quell’epoca, agirono insieme e non è un caso che molti concetti sorti dai movimenti giovanili si siano precipitati a trovare nei Corpi Franchi una nuova patria spirituale». Aggregazioni rapide sul campo, mobilità, capacità di impegnare anche battaglie con armi pesanti fornite di straforo dall’esercito, slancio e senso del sacrificio. Queste doti permisero a formazioni, come ad es. quella del Reggimento Reinhard, il primo a costituirsi a Berlino, o il Corpo Franco Rossbach, o la Brigata Ehrhardt, di fronteggiare situazioni catastrofiche, come quella orientale, dove si profilava «lo spaventoso pericolo dell’insurrezione dell’Asia alle porte dell’Europa», come scrive von Salomon.


Un reparto della Brigata Ehrhardt

Un reparto della Brigata Ehrhardt


Un’etica rigida, ma guidata da un «forte valore affettivo» per quelle terre tedesche da riconquistare al germanesimo e sulle quali non pochi combattenti speravano un giorno di radicarsi: l’ideale di acquisire una tenuta agricola nella Pomerania o nella Prussia Orientale redente, come asserisce von Salomon, era diffuso, al fine di «rafforzare l’elemento tedesco e conquistare così per il Reich un nuovo baluardo, se non una nuova provincia». L’universo dei Freikorps, destinato a scomparire all’improvviso così come era sorto, al momento della stabilizzazione dei confini e della situazione politica interna, rappresentò in ogni caso un momento alto della tenuta nazionale, in un momento tragico della storia tedesca. Qualcosa che, in Italia, può essere paragonato al legionarismo fiumano, ugualmente mobilitatosi per proteggere un fronte compromesso dai trattati di pace, e non a caso ricordato di passata da von Salomon come «prima espressione dello spirito fascista». Ed anche nella memoria storica tedesca la vicenda rimase esemplare del volontarismo spontaneo, tanto che – come ricorda nell’introduzione Maurizio Rossi, che svolge un’esauriente ricostruzione del quadro storico entro cui operarono i Freikorps - il Nazionalsocialismo si disse erede di quelle vicende e di quegli uomini, ben rappresentati dalla figura di Schlageter, l’ex-combattente dei Corpi Franchi e poi iscritto alla NSDAP: finendo fucilato dai Francesi nel 1923 per terrorismo nella zona della Ruhr, divenne una delle icone più celebrate dell’eroismo post-bellico.


Difatti: «Il Nazionalsocialismo – sottolinea Rossi – aveva comprensibilmente tutto l’interesse di esaltare la logica continuità ideale tra lo spirito dei volontari dei Freikorps, rimarcandone l’immagine di comunità combattente rivoluzionaria e interclassista mobilitata contro i nemici esterni e interni del Reich, e il combattentismo delle SA, ponendo così in evidenza il ruolo svolto dal movimento nazionalsocialista come risolutore della questione nazionale e sociale ed unico artefice della rinascita spirituale della Germania».


Estranei agli intrighi e ai compromessi con i quali il governo di Weimar si screditava davanti all’opinione pubblica, i membri dei reparti volontari accorrevano là, dove c’era un pericolo immediato: badando alla concretezza, e non alle convenienze politiche del momento, essi contribuirono spesso a creare dei fatti compiuti, per cui molte zone poterono rimanere al Reich (ad es. Memel) solo perché c’erano stati uomini disposti a morire per mantenerle tedesche: «Il soldato di quell’epoca – commentava von Salomon – non capiva più le tortuosità misteriose della strategia governativa, agiva secondo un impulso guerriero». Poi venne la smobilitazione: «I Corpi Franchi si difendevano isolatamente con battaglie sempre nuove contro l’avversario, che li inseguiva senza tregua. Fortemente decimati, laceri, mezzi morti di fame, vacillanti per la stanchezza, ma con una disciplina incrollabile, giunsero infine […] alla frontiera tedesca, dove le truppe del Reichswehr dovevano accoglierli e smistarli rapidamente in quartieri di riposo qua e là nel Reich, fino al loro completo smembramento».


Diversi di loro finiranno oppositori del Terzo Reich (come Edgar Jung), alcuni si defilarono ma vi convissero (come von Salomon). Molti altri confluirono nel Nazionalsocialismo, come ad es. Erich Koch, che divenne Gauleiter della Prussia Orientale.


* * *


Tratto da Linea del 5 febbraio 2011.




Luca Leonello Rimbotti

vendredi, 25 mars 2011

Libyen: Zwischen Stamm und Staat

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Martin J.G. Böcker


Libyen: Zwischen Stamm und Staat

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

In Libyen erleben wir in diesen Wochen, welch enorme Macht die Stämme haben. Der Staat zerfällt, weil sie die Machtfrage stellen. Der Konflikt dauert an, weil Ghaddafis Familie nicht schwach genug ist, um weggefegt zu werden. Und währenddessen kommt die Frage auf, was eigentlich nach dem libyschen Krieg passieren soll? Ein ehrliches Ziel wäre: Ein stabiles Libyen, das Öl liefert – und keine Flüchtlinge. Ein hehres, aber vorerst unrealistisches Ziel wäre: Die Etablierung einer Demokratie, die diesen Namen verdient hat.

Dieser Prozeß wäre wohl „langwierig“ und „von Rückschlägen“ gezeichnet, wie es Wolfram Lacher von der Stiftung Wissenschaft und Politik euphemistisch formuliert. Die Konkurrenz zwischen Stamm und Staat ist ein Phänomen, welches in Libyen nun mit aller Macht zu Tage tritt, aber wohl für ganz Europa mitsamt seiner Peripherie von immer größerer Bedeutung werden könnte.

Gewaltmonopol und Beamte notwendig

Für das Verhältnis zwischen den Stämmen und einem Staat lohnt ein Blick auf das Werden der westlichen Demokratie: Laut Max Weber war die „gewaltsame Herrschaft“ mit einem „Monopol legitimer physischer Gewaltsamkeit“ unabdingbar. Das setzte einen funktionierenden Verwaltungsstab und einen politischen Enteignungsprozeß voraus. Der Verwalter war also nicht mehr im Besitz des Verwalteten; er bestritt seinen persönlichen Unterhalt nicht mehr durch das verwaltete Gut. Vielmehr lebte er von Unterhaltszahlungen, die er von einer herrschenden Instanz erhielt. Sprich: Er wurde verbeamtet. Nur so war das Werden der westlichen Demokratie möglich.

Daraus ergab sich die Ausdifferenzierung, welche die technische, bürokratische, ökonomische und politische Überlegenheit des Westens bedingte. Gleichzeitig bedeutete sie aber auch den Abschied von der emotionalen, pathetischen oder abhängigen Bindung an den Fürsten, also den Abschied vom Grund für Treue. Der Nationalismus scheint als Ersatz für diese Bindung nur von vorübergehender Wirkung gewesen zu sein.

Vorstaatliche Patronage- und Stammesstrukturen

Die Stärke des bürokratischen Westens bedingt also gleichzeitig dessen Schwäche. Denn – wie zum Beispiel Thorsten Hinz in seinem Essay über die „Zurüstung zum Bürgerkrieg“ dargestellt hat – manche Zeitgenossen empfinden die Energie arabischer und türkischer Großfamilien (also Patronage- und Stammesstrukturen) in den europäischen Innenstädten als Bedrohung für die europäisch-christliche Kultur. Durch ihren Zusammenhalt und ihre familiäre Bindung ist sie der deutschen Vater-Mutter-Kind-Familie in mancher Hinsicht überlegen.

Aber: Wenn uns schon die Anwesenheit solcher großfamiliärer Strukturen in unseren Innenstädten wie eine Bedrohung, wie schleichende Islamisierung, wie das Ende des Abendlandes vorkommt; wie unermeßlich apokalyptischer muß einem libyschen Obergefreiten dann die – im wahrsten Sinne des Wortes sagenhafte! – Feuerwirkung der alliierten Luftstreitkräfte erscheinen?

Bürokratischer Staat versus Stammesgesellschaft

„Hier“ haben wir den bürokratischen Staat, „dort“ die Stammesgesellschaft. Nach Weber geht mit der Entwicklung des modernen Staates auch das Ende des „ständischen Verbandes“ einher, also bedroht die Bürokratie den Stamm und im Umkehrschluß der Stamm die Bürokratie. Jeder den anderen auf seine Weise. Das meint nicht den Stamm, der sich der Bürokratie unterordnet; das meint auch nicht den Stamm, der sich einer Bürokratie bedient, um sich selbst zu verwalten.

Es geht vielmehr um die Situation, in der die Machtfrage gestellt wird – siehe Libyen. Das heißt die Situation, in der das staatliche Gewaltmonopol die Loyalität zum Stamm bricht beziehungsweise die Loyalität zum Stamm in der Lage ist, sich über das Gewaltmonopol hinwegzusetzen. So wie uns die Energie einer archaischen Stammeskultur bedrohlich vorkommt, kann der Stammeskultur unsere technische, wissenschaftliche, ökonomische, politische Überlegenheit beängstigend vorkommen – zumal wir sie letztlich erst durch den Abschied von den archaischen Strukturen erlangen konnten.

Die Globalisierung hat zur Folge, daß so eine Feindschaft Grenzen überwindet. Es ist eben nicht mehr so, daß die Türken vor Wien stehen oder die Kreuzritter nach Jerusalem ziehen. Die jeweils andere Seite ist „hier“ wie „dort“ in vielfältigen (vornehmlich ökonomischen) Beziehungsformen zugegen. Also als Geschäftspartner, Arbeitgeber, Arbeitnehmer, Sozialhilfeempfänger, Entwicklungshelfer, Urlauber, natürlich auch als Missionar. Das heißt freilich nicht, dass die Bedrohung der jeweils anderen Struktur durch die eigene damit aufgehoben wäre. Der Kampf der Strukturen setzt sich unvermindert fort – nicht nur in Libyen.

La dignité japonaise et le réveil de l'homme européen

La dignité japonaise et le réveil de l’homme européen

Par Julien Langella

 Au royaume de la fleur et de l’acier, les rivières de feu ont tout emporté… Ou presque. Comme hier l’Occident sous la conduite américaine, au sortir de la Second Guerre mondiale, la vague meurtrière du tsunami n’a pas entamé l’âme des Japonais, fils des Bushi, moines de la voie de l’épée dont les vertus irriguent encore la nation du Soleil écarlate. « Parties sur quelle mer, quelle terre / je l’ignore. / Elles demeurent invisibles, / les nobles âmes / gardiennes du pays » (poême de l’impératrice Michiko [1]). L’âme du peuple japonais, elle, est éternelle : elle demeure plus que jamais visible au milieu du chaos. Elle nous rappelle, à tous les égards, l’âme européenne. Pour un Européen, la conduite actuelle des Japonais n’est pas si mystérieuse et impénétrable que les journalistes et les faiseurs d’opinion veulent bien le dire. Et pour cause : leurs anticorps sont aussi les nôtres…

Les Japonais donnent une « leçon de sang froid » aux Occidentaux selon le géographe Philippe Pelletier (Le Parisien [2], 16 mars). C’est ce que l’on peut lire dans la presse à propos du « fatalisme actif » de la société nippone (Le Point [3], 17 mars). Pour J-F Sabouret, chercheur au CNRS et spécialiste du Japon, « les Japonais sont formés, rompus à résister, à supporter à se taire ». A la question de savoir si les Japonais sont matérialistes, il répond qu’ils le sont « tout autant que nous » mais que leur « culture profonde ne l’est pas ». De plus, ils sont « viscéralement attachés à cette terre étroite, ils n’ont pas de pays de rechange ». Doit-on en conclure que notre « culture profonde », à nous autres Européens, ne nous arme pas assez contre un tel cataclysme ? Ce serait faire fausse route.

Bien qu’affectée par le cancer prométhéen répandu par la foi cartésienne en la « maîtrise » et en la « possession » de la nature, la « culture profonde » des Européens demeure tout autant armée que celle des Japonais pour faire face à des bouleversements inattendus. N’a-t-on pas hérité des vertus stoïciennes par l’entremise des Romains, premiers Empereurs d’Europe, qui avaient fait leur la vieille morale de Zénon de Citium [4] et la philosophie d’Epictète [5], qui se voulait efficace « comme un poignard » pour l’homme soumis aux tempêtes de la vie ? L’enkheiridion (le poignard) voué à transpercer les frontières des cénacles de lettrés pour irriguer et affermir les cœurs des candidats au vrai bonheur n’a t-il pas guidé celui des Césars ?

L’empereur philosophe Marc-Aurèle exprime la subtile quintessence de ce « fatalisme actif » dans ses Pensées [6] : « tout ce qui arrive est nécessaire et utile au monde universel dont tu fais partie (…) Le bien est ce que comporte la nature universelle et ce qui est propre à sa conservation. Or, ce qui conserve le monde, ce sont les transformations des éléments, aussi bien que celles de leurs combinaisons. Que cela te suffise et te serve de principes. Quant à ta soif de livres [comprendre par là la soif de connaissances scientifiques], rejette-la, afin de ne pas mourir en murmurant, mais véritablement apaisé et le cœur plein de gratitude envers les Dieux. (…) Tout faire, tout dire et tout penser en homme qui peut sortir à l’instant de la vie. (…) Si l’on envisage la mort en elle-même, et si on en écarte les fantômes dont elle s’est revêtue, il ne restera plus autre chose à penser, sinon qu’elle est une action naturelle. Or celui qui redoute une action naturelle est un enfant ». Et puisque l’on peut mourir à tout moment, il ne faut pas vivre ses derniers instants en épicurien et, à l’inverse, « tenir [sa vie] à l’écart de toute irréflexion, de toute aversion passionnée qui t’arracherait à l’empire de la raison et de tout ressentiment à l’égard du destin ». Maitrise de ses émotions, acceptation sereine du destin, de la mort et des cycles de la vie : si l’on gratte le vernis superficiel de la modernité, on se rend vite compte que ces vertus cardinales sont aussi européennes.

Pour Jean-Marie Bouissou, spécialiste du Japon, autre chose explique l’attitude japonaise : « un cataclysme n’est jamais la fin du monde, parce que la culture japonaise ne connait pas la fin du monde » (France 3 [7], 16 mars). Pour Alain de Benoist [8], les Japonais, « au lieu de le dramatiser, s’abandonnent au cours de la vie et respectent la volonté autonome du monde ». Mais ce naturalisme et sa vision cyclique des choses, antidote à l’angoisse millénariste de l’apocalypse, sont-ils si exotiques pour nous autres Européens ? Non, en rien. Les Grecs, dont nous descendons, voyaient « la progression du monde comme un cycle et ont donc une conception cyclique du temps » (Philippe Nemo, Qu’est-ce que l’Occident ? [9]). Lucilio Vanini [10], au 17ème siècle, exprimera la même chose à sa manière : « Achille assiégera Troie à nouveau ; les mêmes religions, les mêmes cérémonies renaîtront ; l’histoire humaine se répète ; il n’est rien qui n’ait déjà été ». Le libertin italien a raison d’évoquer l’Iliade, on peut notamment y lire : « comme naissent les feuilles, ainsi font les hommes : une génération naît à l’instant où une autre s’efface » (chant VI). C’est l’« Eternel retour » (Philippe Nemo). L’artiste polyvalent et animateur de radio Jacques Languirand explique [11] que « cette conception du temps cyclique est apaisante en ce qu’elle explique la répétition des gestes : il s’en dégage une grande sagesse ». Au 19ème siècle, le philosophe Gaston Bachelard [12] ajoutera son couplet à cette mélodie éternelle : « je ne vis pas dans l’infini, parce que dans l’infini on est pas chez soi ».

Mais s’il y a bien une chose dont les Européens peuvent se targuer de posséder en propre, et que les Japonais n’ont pas, c’est cette culture de l’effort individuel et héroïque, accompli par la personne humaine et glorifié comme tel, irréductible au groupe social auquel elle se rattache. Car il y a quelque chose qui ressemble à l’abolition de la personnalité dans la discipline sociale des Japonais, quelque chose qui apparait comme « grégaire » pour les fils d’Homère que nous sommes, habitués à voir glorifiée dans notre littérature « l’individualité enracinée, et non l’individualisme qui en est la perversion ». En effet, les romanciers européens « placent l’individualité des personnages au centre du récit, ce que l’on ne trouve dans la tradition d’aucune autre civilisation » (Dominique Venner [13]). Quant à la pensée grecque, avec Xénophon [14] entre autre, elle « croit dans le rôle des individualités dans la vie sociale et dans l’histoire » et sera concrétisée par les juristes romains qui « ont dessiné les frontières du mien et du tien », ayant ainsi « inventé l’homme lui-même, c’est-à-dire la personne humaine individuelle, libre, ayant une vie intérieure, un destin réductible à aucun autre ». Le mot « personne » lui-même vient du latin per-sona, du nom du masque équipé d’un porte-voix que portaient les acteurs au théâtre, ce qui donnera persona, c’est-à-dire « personnage » (Philippe Nemo, Histoire des idées politiques dans l’Antiquité et au Moyen-Âge [15]). Alors que pour H. Ten Kate [16], anthropologue suisse du 20ème siècle naissant, « l’un des caractères les plus typiques de l’âme japonaise est son impersonnalité » et le « tout-puissant esprit de troupeau ».  Or, face aux désastres, il faut aussi des héros, pas seulement des fourmis.

Mais ces « fourmis » ont une qualité décisive : leur homogénéité ethnique. Quand on observe à quel point notre société multiculturelle est multi-raciste et violente en « temps de paix », on n’ose imaginer le déchaînement de comportement tribaux et agressifs auquel on serait livré face à une telle catastrophe… Par ailleurs, il est des hommes comme Yukio Mishima [17] qui, fidèles à la voie des Samouraï, ont donné, par la mise scène de leur propre mort selon le rite traditionnel du seppuku, un exemple d’esthétisme et d’humanisme viril qui incarne le tragique européen de manière tellement soignée qu’ils n’ont rien à envier à leurs voisins de l’ouest.  Car ces fourmis savent se faire frelons. Par son acte grandiose, après avoir lancé son appel tonitruant au réveil de la race yamato, Mishima a, sans le savoir, rappelé aux Européens un pilier fondamental de leur identité, eux qui, d’Achille au Cid en passant par Lancelot, ont célébré plus que quiconque le devoir d’héroïsme. Puisse leur dignité actuelle dans l’adversité inciter les Européens à redevenir eux-mêmes. Et puisque le chemin est long et semé d’embuches, un bon guide s’impose :

« Agis sans mauvais gré, sans mépris de l’intérêt commun, sans irréflexion, sans tirer par côté. Qu’aucune recherche ne pare ta pensée. Parle peu, et ne t’ingère point dans de multiples affaires. En outre, que le Dieu qui est en toi protège un être mâle, vénérable, un citoyen, un Romain, un chef qui s’assigne à lui-même son poste, tel un homme enfin qui attendrait, sans lien qui le retienne, le signal pour sortir de la vie, n’ayant besoin ni de serment ni de personne pour témoin. C’est ainsi qu’on acquiert la sérénité, l’art de se passer de l’assistance d’autrui, l’art de se passer de la tranquillité que les autres procurent. Il faut donc être droit, et non pas redressé.

En moins de dix jours tu paraîtras un dieu à ceux qui maintenant te regardent comme un fauve ou un singe. »

Marc-Aurèle, Pensées pour moi-même. [6]

Julien Langella


Molodoi – Soleil et Acier :


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[1] poême de l’impératrice Michiko: http://www.amazon.fr/S%C3%A9-oto-chant-Imp%C3%A9ratrice-Michiko-Japon/dp/2915369062/ref=sr_1_2?ie=UTF8&s=books&qid=1300494868&sr=8-2

[2] Le Parisien: http://www.leparisien.fr/tsunami-pacifique/les-japonais-nous-donnent-une-lecon-de-sang-froid-16-03-2011-1361180.php

[3] Le Point: http://www.lepoint.fr/

[4] Zénon de Citium: http://fr.wikipedia.org/wiki/Z%C3%A9non_de_Citium

[5] Epictète: http://fr.wikipedia.org/wiki/%C3%89pict%C3%A8te

[6] Pensées: http://www.amazon.fr/Pens%C3%A9es-pour-moi-m%C3%AAme-Marc-Aur%C3%A8le/dp/2080700162/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1300589313&sr=8-1

[7] France 3: http://www.2424actu.fr/actualite/japon-un-calme-etonnant-du-peuple-japonnais-2300095/#read-2300095

[8] Pour Alain de Benoist: http://books.google.fr/books?id=jd-YQqAhS7sC&pg=PA566&lpg=PA566&dq=japon+homog%C3%A9n%C3%A9it%C3%A9+ethnique&source=bl&ots=h_iN2PErrj&sig=3-vMx-mVYZd5fj11DgUXQCE48HI&hl=fr&ei=6JKDTen-NYuF5AbmqL3BCA&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4&ved=0CCsQ6AEwAw#v=onepage&q=japon%20homog%C3%A9n%C3%A9it%C3%A9%20ethnique&f=false

[9] Qu’est-ce que l’Occident ?: http://www.amazon.fr/Quest-ce-que-lOccident-Philippe-Nemo/dp/2130546285/ref=sr_1_2?ie=UTF8&qid=1300576557&sr=8-2

[10] Lucilio Vanini: http://fr.wikipedia.org/wiki/Giulio_Cesare_Vanini

[11] Jacques Languirand explique: http://www.radio-canada.ca/par4/esp/temps.html

[12] Gaston Bachelard: http://fr.wikipedia.org/wiki/Gaston_Bachelard

[13] Dominique Venner: http://www.dominiquevenner.fr/#/la-bible-des-europeens/3228811

[14] Xénophon: http://fr.wikipedia.org/wiki/X%C3%A9nophon

[15] Histoire des idées politiques dans l’Antiquité et au Moyen-Âge: http://www.amazon.fr/Histoire-id%C3%A9es-politiques-lAntiquit%C3%A9-Moyen/dp/2130538169/ref=sr_1_4?ie=UTF8&qid=1300583654&sr=8-4

[16] pour H. Ten Kate: http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/bmsap_0037-8984_1908_num_9_1_7054?_Prescripts_Search_tabs1=standard&

[17] Yukio Mishima: http://www.theatrum-belli.com/archive/2006/07/19/mishima-la-renaissance-du-samourai.html

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Céline, le médecin invivable

Céline, le médecin invivable

 

par Jean-Yves NAU

 

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 

Voici un article de Jean-Yves Nau paru dans la Revue médicale Suisse des 23 février et 2 mars 2011. Vous pouvez télécharger l'article (format pdf) ici et . Merci à MF pour la communication de ce texte.

Quelques belles âmes plumitives (tricolores et souvent germanopratines) n’en finissent pas d’en découdre post mortem (c’est sacrément plus facile) avec les écrits du Dr Louis-Ferdinand Destouches ? Combien de temps encore se nourriront-elles de ce Céline, prénom emprunté à la mère de sa mère ? On tient régulièrement l’homme carbonisé. Et voici qu’il ne cesse de resurgir à l’air libre.

Dernière actualité le concernant dans une France où, décidément, les responsables gouvernementaux ne manquent aucune occasion de prêter leurs flancs aux fouets médiatiques : ces responsables entendaient «célébrer» l’œuvre du Dr Destouches. Aussitôt dit, aussitôt fait : tombereaux d’injures et rappels à l’essentiel… résurgence des vieux démons eugénistes ; démons comme toujours aussitôt confrontés aux génies de la créativité littéraire.

Céline ? On n’en sortira décidément jamais. «Célébrer» Céline ? Autant jeter des poignées de gros sel sur des milliers de plaies qui jamais ne cicatriseront. «Célébrer» ce docteur en médecine, écrivain de folie aux échos planétaires ? Qui ne voit là une erreur, une faute majeure, commise par le ministre français actuel de la Culture (Frédéric Mitterrand) ? C’est donc ainsi : on ne peut décidément pas laisser l’homme et son œuvre en paix. Et sans doute est-ce tant mieux.

Nous voici donc, une nouvelle fois, avec sur le marbre Louis-Ferdinand et la célébration contestée de sa naissance et de sa mort, de sa vie et de son œuvre. Célébrer Céline ? Il importe avant tout, ici, de se reporter aux écrits de l’un de ceux qui ont su l’autopsier au plus juste. Ainsi Henri Godard, dans les colonnes du Monde : «Doit-on, peut-on, célébrer Céline ? Les objections sont trop évidentes. Il a été l’homme d’un antisémitisme virulent qui, s’il n’était pas meurtrier, était d’une extrême violence verbale. Mais il est aussi l’auteur d’une œuvre romanesque dont il est devenu commun de dire qu’avec celle de Proust elle domine le roman français de la première moitié du XXe siècle (…) quatre volumes dans la Bibliothèque de la Pléiade)». Henri Godard : «Céline n’a réalisé que tard son désir d’écriture, publiant à 38 ans sous ce pseudonyme son premier roman, Voyage au bout de la nuit. Rien dans son milieu ne l’y prédestinait. Fils unique d’une mère qui tenait un petit commerce et d’un père employé subalterne dans une compagnie d’assurances, ses parents lui avaient fait quitter l’école après le certificat d’études. Le dur apprentissage de la vie dans la condition de commis au temps de la Belle Epoque joint à des lectures d’autodidacte n’avaient pas conduit Louis Destouches plus loin qu’un engagement de trois ans dans la cavalerie lorsque, en août 1914, la guerre vient bouleverser sa vie et les projets d’avenir de ses parents.»

Et Henri Godard de résumer à l’essentiel : une expérience du front qui ne dure que trois mois pour s’achever sur un fait d’héroïsme soldé par quelques sérieuses blessures. Puis l’homme en quête d’expérience sur trois continents. Puis l’homme, médecin dans un dispensaire de la région parisienne ; médecin qui entreprend «en trois ans de travail nocturne, de dire dans un roman qui ne ressemblera à aucun autre ce que la vie lui a appris». «Le livre fait l’effet d’une bombe. Il atteint des dizaines de milliers de lecteurs, les uns horrifiés de sa brutalité, les autres y trouvant exprimée, avec soulagement si ce n’est un sentiment de vengeance, la révolte qu’ils ne savaient pas toujours enfouie au plus profond d’eux-mêmes» écrit encore M. Godard.

La suite est connue, que nous rapporte ce légiste : «Du jour au lendemain écrivain reconnu, Céline met pourtant quatre ans à écrire un second roman, Mort à crédit, dans lequel il approfondit les intuitions que lui avait procurées le premier. Mais l’accueil est une déception. Ce semi-échec, joint à la découverte des réalités de l’URSS pendant l’été de 1936, cristallisa des sentiments peu à peu renforcés au cours des années précédentes, mais jusqu’alors encore sans virulence. L’année suivante, avec l’aggravation de la menace de guerre, dont il imputait la responsabilité aux juifs, Céline devint dans Bagatelles pour un massacre la voix la plus tonitruante de l’antisémitisme. Dans un second pamphlet, en 1938, il va jusqu’à prôner, toujours sur fond d’antisémitisme, une alliance avec Hitler. Après ces deux livres, il ne pouvait, la guerre venue, que se retrouver du côté des vainqueurs. Mais sa personnalité incontrôlable fait que les lettres qu’il envoie, pour qu’ils les publient, aux journaux collaborationnistes y détonnent tantôt par leurs critiques, tantôt par leurs outrances. Il se tient soigneusement à l’écart de la collaboration officielle.»

La suite, à bien des égards désastreuse, est peut-être moins connue. Question : quelle peut bien être la nature des liens entre des «exercices nocturnes» d’écriture et la pratique diurne de la médecine ; une médecine dans le sang et l’encre de laquelle cet invivable médecin n’a jamais cessé de puiser ?

Infâmes ou sublimes, les écrits du Dr Louis Ferdinand Destouches (1894-1961) n’ont rien perdu de leurs sombres éclats. A peine veut-on, un demi-siècle après sa mort, réanimer sa mémoire sous les ors de la République française que l’abcès, aussitôt, se collecte (Revue médicale suisse du 23 février). Céline revient, seul, comme toujours. Céline est là, à l’air libre ; Céline n’en finissant pas d’user de son invention, tatouée sur papier bible : ses trois points d’une infinie suspension. Trois points reliant au final Rabelais à Destouches, le rire joyeux au sarcastique, le corps jouissant au souffrant, la plume salvatrice à celle du désespoir radical.

Tout ou presque a été écrit sur Céline, sur son génie et ses possibles dimensions pathologiques. Les écrits sont plus rares pour ce qui est de l’intimité, chez lui, des rapports entre la pratique de l’écriture et celle de la médecine. C’est sans doute que l’affaire n’est pas des plus simples qui commence avec cette thèse hors du commun que Louis Ferdinand Destouches soutient en 1924 : La Vie et l’œuvre d’Ignace Philippe Semmelweis. Elle se poursuit avec la publication, l’année suivante de son seul ouvrage médical La quinine en thérapeutique édité par Douin et signé Docteur Louis Destouches (de Paris). Il y aura encore, en 1928, quelques articles dans La Presse médicale où il vante les méthodes de l’industriel américain Henry Ford et propose de créer des médecins-policiers d’entreprise, «vaste police médicale et sanitaire» chargée de convaincre les ouvriers «que la plupart des malades peuvent travailler» et que «l’assuré doit travailler le plus possible avec le moins d’interruption possible pour cause de maladie». Il n’est pas interdit d’avancer ici l’hypothèse de l’ironie. On a ajouté qu’il fut aussi, un moment, concepteur de documents publicitaires pour des spécialités pharmaceutiques.

Puis vint le Voyage au bout de la nuit (1932) rédigé en trois ans de travail nocturne ; puis le reste de l’œuvre, unique, immense objet de toutes les violences, de toutes les interprétations. Quelle part y a la médecine ? Sans doute majeure si l’on s’en tient à la place accordée aux corps irrémédiablement en souffrance. «Il s’agit de faire dire au corps ses ultimes révélations, tout comme on le souhaitait dans l’expérience clinique, écrit Philippe Destruel, docteur en littérature dans le remarquable dossier que Le Magazine Littéraire (daté de février) consacre à l’auteur maudit. La maladie va ponctuer le voyage initiatique du narrateur célinien, celui de la nuit, de la déchéance. La vérité de la maladie appelle une réponse que le médecin n’obtiendra jamais. Il devient alors non pas celui qui guérit, mais celui qui fait de l’affection morbide un processus d’accès à la conscience de la vie humaine, de l’abandon au monde, de la misère. Le médecin de l’écriture abandonne le masque social du démiurge malgré lui pour mêler la douleur de l’autre à l’imaginaire de l’écrivain.»

Dans le même dossier du Magazine Littéraire, Philippe Roussin (Centre de recherche sur les arts et le langage, Ecole des hautes études en sciences sociales) observe que, persuadé de son talent, Céline faisait prévaloir son statut de médecin de banlieue parisienne sur celui d’écrivain ; une manière d’affirmer un ancrage populaire et d’afficher son mépris pour les cercles littéraires. C’est ainsi, nous dit Philippe Roussin, qu’après la sortie du Voyage Céline accorda ses premiers entretiens à la presse (entre octobre 1932 et avril 1933) au dispensaire municipal de Clichy où il donnait des consultations. Les photographies le montrent alors en blouse blanche, entouré du personnel du dispensaire ; jamais à une table d’écrivain.

«Il adressait à des jurés du prix Goncourt des lettres sur papier à en-tête des services municipaux d’hygiène de la ville de Clichy, souligne Philippe Roussin. Un de ses premiers soutiens à l’Action française, Léon Daudet, écrivait du Voyage que "ce livre est celui d’un médecin, et d’un médecin de la banlieue de Paris où souffre et passe toute la clinique de la rue, de l’atelier, du taudis, de l’usine et du ruisseau".» Les choses s’inversèrent lorsqu’il lui fallut, après 1945, répondre de ses pamphlets antisémites. Le médecin se réclama alors l’écrivain, seule stratégie de défense pouvant avoir une chance de succès : on pardonne plus aisément à celui qui écrit qu’à celui qui agit. Et l’on sait jusqu’où, à cette époque, purent aller certains médecins.

Retour en France ; et en 1952 Féerie pour une autre fois, roman au centre duquel un narrateur est présenté comme «médecin assermenté», «médecin, anatomiste, hygiéniste», un «saint Vincent» écoutant «les plaintes de partout». Jusqu’à sa mort l’homme ne fut pas avare en entretiens. Autant d’occasions offertes de faire la part entre l’identité littéraire et l’identité médicale. Il déclarait, en octobre 1954 : «J’ai un don pour la littérature, mais pas de vocation pour elle. Ma seule vocation, c’est la médecine, pas la littérature.» Et encore : «Je ne suis pas un écrivain (...). Il m’est arrivé d’écrire ce qui me passait par la tête mais je ne veux être qu’un simple médecin de banlieue.» Ce qu’il fut, aussi.

Jean-Yves NAU
Revue Médicale Suisse, 23 février et 2 mars 2011

Photos : 1- Thèse de Doctorat de médecine de Céline
2-Philippe Ignace Semmelweis

 

Futurismo: Valentine de Saint-Point molto futurista, poco femminista

Futurismo: Valentine de Saint-Point molto futurista, poco femminista

Donna vera e genio puro, avanguardista e provocatrice fu autrice del “Manifesto delle Donne” e della “Lussuria”

Claudio Cabona

Ex: http://rinascita.eu/

valentine.jpgSe non ora quando? La donna e la sua dignità, il suo ruolo sociale. La posizione da assumere all’interno e nei confronti del sistema Italia. Dibattiti su dibattiti, manifestazioni, mobilitazioni in nome di una rinascita in gonnella, appelli infuocati al popolo rosa. Costruzione di una nuova identità femminile o starnazzo di gallinelle? La donna paragonata all’uomo, divisione fra sessi al centro di battaglie e rivendicazioni che sanciscono nuove superiorità o inferiorità?
“L’Umanità è mediocre. La maggioranza delle donne non è né superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Sono uguali. Meritano entrambe lo stesso disprezzo. Nel suo insieme, l’umanità non è mai stata altro che il terreno di coltura donde sono scaturiti i geni e gli eroi dei due sessi. Ma vi sono nell’umanità, come nella natura, momenti più propizi a questa fioritura... E’ assurdo dividere l’umanità in donne e uomini. Essa è composta solo di femminilità e di mascolinità”.
La femminilità e la mascolinità sono due elementi che separano e caratterizzano i due sessi, ma che in quest’epoca moderna sembrano essersi in parte persi, lasciando spazio ad un indebolimento dell’individuo che è sempre più costruzione e non realtà.
“Un individuo esclusivamente virile non è che un bruto; un individuo esclusivamente femminile non è che una femmina.
Per le collettività, e per i diversi momenti della storia umana, vale ciò che vale per gli individui. Noi viviamo alla fine di uno di questi periodi. Ciò che più manca alle donne, come agli uomini, è la virilità. Ogni donna deve possedere non solo virtù femminili, ma qualità virili, senza le quali non è che una femmina. L’uomo che possiede solo la forza maschia, senza l’intuizione, è un bruto. Ma nella fase di femminilità in cui viviamo, soltanto l’eccesso contrario è salutare: è il bruto che va proposto a modello”.
Il rinnovamento? Una nuova donna non moralizzatrice, ma guerriera, scultrice del proprio futuro. Un cambiamento che passa attraverso una riscoperta del potenziale rivoluzionario della femminilità che non deve essere un artificio creato e voluto dall’uomo, ma una nuova alba. Non bisogna conservare, ma distruggere antiche concezioni.
”Basta le donne di cui i soldati devono temere le braccia come fiori intrecciati sulle ginocchia la mattina della partenza; basta con le donne-infermiere che prolungano all’infinito la debolezza e la vecchiezza, che addomesticano gli uomini per i loro piaceri personali o i loro bisogni materiali!... Basta con la donna piovra del focolare, i cui tentacoli dissanguano gli uomini e anemizzano i bambini; basta con le donne bestialmente innamorate, che svuotano il Desiderio fin della forza di rinnovarsi!. Le donne sono le Erinni, le Amazzoni; le Semiramidi, le Giovanne d’Arco, le Jeanne Hachette; le Giuditte e le Calotte Corday; le Cleopatre e le Messaline; le guerriere che combattono con più ferocia dei maschi, le amanti che incitano, le distruttrici che, spezzando i più deboli, agevolano la selezione attraverso l’orgoglio e la disperazione, la disperazione che dà al cuore tutto il suo rendimento”.
Non può e non deve esservi differenza fra la sensualità di una femmina, il suo essere provocante e la sua inclinazione a diventare madre, pura e cristallina. La demarcazione fra “donna angelo” e “donna lussuriosa” è puramente maschilista e priva di significato. Il passato e il futuro si incrociano nei due grandi ruoli che la donna ricopre all’interno della società: amante e procreatrice di vita. Figure diverse, ma al contempo tasselli di uno stesso mosaico.
“La lussuria è una forza, perché distrugge i deboli ed eccita i forti a spendere le energie, e quindi a rinnovarle. Ogni popolo eroico è sensuale. La donna è per lui la più esaltante dei trofei.
La donna deve essere o madre, o amante. Le vere madri saranno sempre amanti mediocri, e le amanti, madri inadeguate per eccesso. Uguali di fronte alla vita, questi due tipi di donna si completano. La madre che accoglie un bimbo, con il passato fabbrica il futuro; l’amante dispensa il desiderio, che trascina verso il futuro”.
Il sentimento e l’accondiscendenza non possono ergersi a valori centrali della vita. L’energia femminile non solo si manifesta come ostacolo, ma anche luce che illumina strade di conquista dell’umana voglia di esistere.
“La Donna che con le sue lacrime e con lo sfoggio dei sentimenti trattiene l’uomo ai suoi piedi è inferiore alla ragazza che, per vantarsene, spinge il suo uomo a mantenere, pistola in pugno, il suo arrogante dominio sui bassifondi della città; quest’ultima, per lo meno, coltiva un’energia che potrà anche servire a cause migliori”.
Queste parole, non moraliste né tanto meno prettamente femministe, non furono di una persona qualsiasi. Appartennero ad una donna sì, ma unica, che rigettò tutte le definizioni, stracciando etichette e pregiudizi. Il suo verbo, ancora oggi, nonostante la sua visione del mondo sia stata coniata nel 1912, è ancora attuale e può insegnare molto a chi si pone domande sul “mondo rosa” e non solo. Avanguardista, provocatrice e futurista. Lei fu Valentine de Saint-Point (1875-1953), autrice del “Manifesto delle Donne” e della “Lussuria”. Contribuì, come poche intellettuali nella storia, all’emancipazione della donna sia dal punto di vista dei diritti che del pensiero, partecipando anche a vari movimenti di rivendicazione. Odiava le masse, le certezze, i dettami borghesi, amava la libertà di pensiero, l’essere femmina, l’essere futuro. Concludo con l’ultima parte del manifesto, momento più alto della poetica di una delle grandi donne del ‘900. La speranza è che femmine come Valentine esistano ancora oggi, perchè l’Italia ha bisogno di loro, di voi.
”Donne, troppo a lungo sviate dai moralismi e dai pregiudizi, ritornate al vostro sublime istinto, alla violenza, alla crudeltà.
Per la fatale decima del sangue, mentre gli uomini si battono nelle guerre e nelle lotte, fate figli, e di essi, in eroico sacrificio, date al Destino la parte che gli spetta. Non allevateli per voi, cioè per sminuirli, ma nella più vasta libertà, perché il loro rigoglio sia completo.
Invece di ridurre l’uomo alla schiavitù degli squallidi bisogni sentimentali, spingete i vostri figli e i vostri uomini a superare sé stessi. Voi li avete fatti. Voi potete tutto su di loro.
All’umanità dovete degli eroi. Dateglieli”.
 


08 Marzo 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=6928

jeudi, 24 mars 2011

Las verdaderas razones de Occidente para intervenir en Libia

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LAS VERDADERAS RAZONES DE OCCIDENTE PARA INTERVENIR EN LIBIA

Libia en crisis. Occidente pide invadir para apoderarse del petróleo y el gas
Crisis en Libia

Hipocresía y oro negro

Las pinzas que se cierran sobre Libia promueven un escenario abierto para que las potencias centrales se apropien de su riqueza petrolera.
 
Ex: http://elnomadeenlaciudad.blogspot.com/

Levantamientos en Libia, ni tan espontáneos ni tan ingenuos.

Por Diego Ghersi


Habrá mil maneras de explicar, y otras mil más de no entender, cómo fueque la oposición política de un país fue capaz en horas de atacar de igual a igual al poder militar de un Estado y confinar al gobierno a un radio de 50 kilómetros de la capital.

A diferencia de lo ocurrido en Túnez, Marruecos, Jordania, Yemen oEgipto, en Libia no hubo protestas pacíficas sino que las acciones incluyeron toma de cuarteles, armas, tanques y ataques al Ejército oficial.

La paridad militar es tan notoria que la única diferencia a favor de Muammar Kadaffi la hace el control del aire, cuestión que las fuerzas opositoras intentan equilibrar solicitando apoyo aéreo de combate al extranjero.

Es evidente que el Consejo Nacional Libio de Bengasi considera que con tal apoyo podrían imponerse a la fuerzas de Kadaffi por sí mismos sin necesidad de una invasión explícita de fuerzas multinacionales encabezadas por Estados Unidos. Por las dudas, Washington sigue concentrando su flota frente a las costas del país.

Es también evidente -por la magnitud de los choques- que Libia se encuentra en un escenario de guerra civil entre fuerzas equilibradas en disputa por el poder.

Cuesta entender cómo fue que una masa que protestaba pacíficamente según la prensa internacional hegemónica- adquirió en horas el exitoso vuelo táctico digno de un ejército entrenado, a menos que se abone la hipótesis de que las revueltas fueron coordinadas por cuadros militares y de inteligencia- seguramente extranjeros.

No es la primera vez en la historia que eso sucede: en Vietnam era tarea de la CIA y de los Boinas Verdes, en el Afganistán soviético era Bin Ladeny, de nuevo, la CIA.

La composición de las fuerzas interiores que se oponen y atacan a Muammar Kadaffi es conocida, compleja y de orden tribal.

Se sabe que Libia es una nación formada por diferentes tribus y que históricamente los manejos políticos al menos desde que Kadaffi llegara al poder- perjudicaron a unas y favorecieron a otras pero, fundamentalmente, desplazaron al orden tribal.

En el primigenio sistema político de Kadaffi -básicamente socialista- no había lugar para las tribus ni para los partidos políticos.

Sí lo había para comités y congresos populares, y los 40 años de la era Kadaffi con sus buenas y sus malas- no fueron suficientes para digerir la idea del fin del orden tribal que, con sus clanes y subdivisiones, fue la única institución que reguló durante siglos la sociedad en las zonas de Tripolitania, Fezzan y Cirenaica.

Aún así, articular una fuerza capaz de competir militarmente con un Estado no se logra en un segundo y tiene que haber sido organizada y plasmada durante largo tiempo, quizás como parte de otro plan desestabilizador que las circunstancias del efecto dominó norafricano aceleraron.

Las acciones militares terrestres fueron combinadas con los discursos generados por las grandes corporaciones periodísticas de Europa y deEstados Unidos funcionales a los intereses petroleros de los países centrales.

La contribución mediática utilizada para estrangular al gobierno de Libia es transparente: desprestigiar al gobierno de Kadaffi ante el mundo para allanar el camino de la intervención armada de fuerzas multinacionales amparadas por las Naciones Unidas.

La invasión militar extranjera apuntaría a barrer de la faz de la tierra todo residual apoyo al régimen.

Muchos analistas denunciaron en los últimos días la carencia de imágenes de los supuestos bombardeos en Tobruk; Bengasi o Trípoli. Tampoco se vieron los miles de muertos anunciados en los partes noticiosos.

El 22 de febrero, las noticias fijaban en el orden de 300 a 400 el número de fallecidos.

Al día siguiente, el canal Al Arabiya Arabic afirmaba que el gobierno de Kadaffi había causado 10 mil muertos y 50 mil heridos por bombardeos en Trípoli y Bengasi.

Pero no se vieron ni rastros de bombardeos, ni de edificios dañados, ni de los restos de los aviones supuestamente abandonados por pilotos que prefirieron desobedecer antes que proceder con el bombardeo ordenado.

Lo que sí se vio corroborado por Telesur y Al Jazera- fue gente que apoyaba a Kadaffi en la Plaza Verde. Telesur y Al Jazera, presentes en Trípoli, son cadenas de otra matriz ideológica y sus informes confrontan con los de la prensa hegemónica internacional.

La estrategia mediática no se detuvo simplemente en destrozar la figura del líder libio sino que intentó capitalizar como bonus las mentiras tendidas sobre el Presidente de Venezuela Hugo Chávez acusándolo falsamente y desde el principio- de brindar asilo en Caracas a Kadaffi, cuestión por la que por supuesto- nadie pidió disculpas posteriormente.

La campaña informativa contra Kadaffi ha cobrado importancia fundamental porque sobre los informes periodísticos dudosos se fundó ladeterminación del Consejo de Derechos Humanos de Naciones Unidas (ONU) para condenar a Libia y suspender del organismo al país africano.

Es más, antes de votar, el mismísimo secretario de la ONU, Ban Ki-Moon citó reportes de prensa acerca de asesinatos indiscriminados, incluidos algunos contra soldados que se negaron a disparar contra los manifestantes antigubernamentales.

A nadie se le ocurrió la idea de mandar veedores seguramente convencidos de que lo que sale publicado en los diarios es siempre la verdad.

Es más, los mismos reportes han sido suficientes para acusar a Kadaffi en el Tribunal Penal Internacional de La Haya.

Lo gracioso del caso es que la mismísima Canciller de Estados Unidos,Hillary Rodham Clinton, ha apoyado la comparecencia del líder libio ante ese estamento jurídico sin siquiera ruborizarse por el hecho de que su país jamás apoyó someterse a ese organismo judicial. Una verdadera vergüenza.

Pero los medios hegemónicos no han hecho más que explotar una gran ventaja, como en el caso de Saddam Hussein antes de la invasión de Irak, Muammar Kadaffi es indefendible desde el punto de vista del imaginario occidental.

Después de lo de Lockerbie, y de haberlo visto montar su carpa beduina en las puertas de la ONU, el impoluto hombre blanco europeo está listo para creer cualquier cosa que le cuenten acerca del líder libio y también aceptará que se le haga llover plomo desde buques y aviones de combate.

La ventaja es aún mayor porque Muammar Kadaffi no es indefendible solo por esas liviandades.

En efecto, el perfil revolucionario de Kadaffi empezó a cambiar en 1992 cuando firmó un tratado con Rusia que abrió el mercado petrolero libio a las nacientes mafias moscovitas.

Posteriormente, entre 1995 y 2006, firmó pactos políticos, financieros y comerciales con el FMI, el Banco Mundial y con las multinacionales de de la Unión Europea, Estados Unidos y China.

Gracias a estas conductas, los europeos decidieron reivindicarlo desde 1996 y además de recibirlo y homenajearlo, firmaron con él pactos de extradición de “terroristas”, de concesiones petroleras, de control de la migración africana y le levantaron los embargos de armas en octubre de 2004, cuestión que abrió las puertas a pertrechos de origen español, italiano, británico y alemán.

En su discurso del 31 aniversario de la Revolución, Kadaffi notificó al mundo que renunciaba al “comportamiento revolucionario” que hacía de Libia un Estado Rebelde debido a que explicó- no aceptar la legalidad internacional impuesta por Washington implicaría el fin del país.

Congraciarse con Occidente no alivió la situación del pueblo libio. Una radiografía de Libia tomada un minuto antes de la actual situación de revuelta mostraría un país que no tiene soberanía alimentaria -importa a las multinacionales europeas el 75 % de los alimentos que consume-, con una tasa de desempleo del 30 % y de analfabetismo en un 18 %. Ni que hablar de la extrema pobreza.

Son estas las verdaderas razones por las que Kadaffi es indefendible y son de mucho más peso que meras cuestiones de imagen.

Aún así, la prensa necesita explicaciones más sencillas para justificar la guerra ante sus ciudadanos y, además, los países centrales no pueden desprenderse tan fácil de un personaje al que antes adularon para favorecerse con sus negocios sin que su hipocresía los ponga en evidencia.

El cuadro de crisis interna que hoy se compone con cruentos combates es la oportunidad esperada por las naciones europeas, cuyoobjetivo principal es asegurar el suministro del petróleo y de gas a su Unión.

Y en este orden de cosas Estados Unidos se apoderaría de las fuentes y de la comercialización del fluido.

La situación pone en aprietos a los gobiernos progresistas del mundo: no se puede defender a Kadaffi pero tampoco se puede avalar la intervención armada internacional en un país soberano.

De hecho, los antecedentes son lapidarios: no ha servido de nada en Haití; ni en Irak; ni en Afganistán ni en Somalia, países donde sólo se ha cosechado el desastre.

Ante situaciones de debacle interna de un país cualquiera correspondería la actitud de silencio stampa y no injerencia en asuntos extranjeros.

Pero cuando las Naciones Unidas van en camino de autorizar una intervención armada liderada por Estados Unidos la cuestión cambia sustancialmente y requiere de la firme condena diplomática de los gobiernos para frenar el intento de saqueo de los poderosos.

Nada de eso está pasando. La creciente concentración de buques estadounidenses en el Mar Mediterráneo parece ser demasiado importante como para que no se produzca la intervención armada en Libia en cuanto todas las armas estén en posición.

Solo la voz en solitario de Hugo Chávez se escucha en otro sentido, probablemente porque -más que diplomático o político- es en el fondo un soldado galvanizado con la impronta característica de las tropas paracaidistas: sería de cobardes culpar de las muertes en el país magrebí al Gobierno de Kadaffi sin conocer lo que está pasando .

Chávez también se anima a denunciar la maniobra en ciernes: Estados Unidos “está distorsionando las cosas para justificar una invasión. Se frotan las manos por el petróleo libio. Sobre Libia se teje una campaña de mentiras".


La voz del líder bolivariano se torna incómoda porque no filtra diplomáticamente ninguna verdad que por otra parte nadie ignora aunque insistan en mirar para otro lado: Porqué no condenan a Israel cuando bombardea Faluya y mata a niños y mujeres?; Quién condena a Estados Unidos por matar a millones de inocentes en Irak, en Afganistán, en el mundo entero?”.

Lo de Faluya parecería un error porque Israel no bombardeó la ciudad iraquí pero, sin embargo, existen testimonios de que fuerzas de Israel tomaron parte de la batalla. Otro dato es que en Faluya se usaron proyectiles de uranio empobrecido que hoy causan mortalidad inusual en la población.

Aún así, la campaña de mentiras sobre Libia parece ser más eficiente porque ha creado el sentido común de que en Libia se está produciendo una masacre contra un pueblo indefenso que se manifestaba en paz por sus derechos.

Nadie se ha movido para verificarlo y mostrar las imágenes al mundo. Da la sensación de que es una realidad creada y tiene la extraordinaria virtud de que muchísima gente quiere creerla, le conviene económicamente creerla.

También es el presidente bolivariano el único que ha acercado una propuesta de paz al convocar a la comunidad mundial a no dejarse llevar por los tambores de la guerra y buscar una “fórmula política” que sugiere- podría comenzar con una comisión internacional de buena voluntad países amigos de Libia- enviada para evitar una guerra civil.

La interesante propuesta ha sido aceptada sólo por Kadaffi y rechazada por su oposición, el Consejo Nacional Libio de Bengasi.

Al respecto, Mustafá Gheriani, encargado de la prensa del Consejo Nacional opositor sostuvo que “Tenemos una posición muy clara: es demasiado tarde, se ha derramado demasiada sangre. Sin embargo, como señal de que el Consejo Nacional Libio no está interesado en salidas pacíficas, el 2 de marzo solicitó a las fuerzas internacionales que implementen apoyo de fuego aéreo estratégico contra Kadaffi. Las repercusiones al plan Chávez no son todo lo entusiastas que cabría esperar de una comunidad internacional ávida de paz.Desde París, el ministro francés de Relaciones Exteriores, Alain Juppé, rechazó la idea de Chávez y recalcó que cualquier mediación que permita al coronel Kadaffi sucederse a sí mismo evidentemente no es bienvenida“.

El ministro de Relaciones Exteriores italiano, Franco Frattini, estimó que“será muy difícil” que la comunidad internacional acepte la propuesta del presidente venezolano.

Desde Europa, solo los socialistas españoles han acompañado tibiamente la iniciativa bolivariana. La canciller española, Jiménez sostuvo que, a pesar de no conocer a fondo la propuesta venezolana, estaría bien si sirve para ayudar. Sería el colmo que un gobierno de corte socialista como el del PSOE español dijese algo diferente.

Mientras los enfrentamientos entre los leales a Kadaffi y los rebeldes se intensifican, el secretario general de la Liga árabe, Amir Musa, sostuvo que en su organización se estaba considerando el plan de paz del presidente venezolano.

Desde Washington la respuesta negativa al plan de Hugo Chávez llegó elípticamente de boca del propio Barack Obama quién reiteró que Estados Unidos está listo para actuar inmediatamente: Será una decisión que tomaremos junto con la comunidad internacional.

Philip Crowley, vocero del departamento de Estado de Estados Unidos,fue menos diplomático: No se necesita que una comisión internacional le diga al coronel Khadafi lo que tiene que hacer por el bien de su país, y la seguridad de su pueblo. Es claro que Estados Unidos no quiere salida pacífica.

En general se entiende la apatía: la propuesta viene de Chávez eterno postulante a ser el próximo blanco- y anularía un lucrativo negocio que la comunidad internacional ya cuenta en sus balances. Pero ¿y si Brasil apoyara la propuesta venezolana? ¿Y si Sudamérica en bloque la apoyara?

En ese sentido, algunas fuentes señalaban al ex presidente brasileño Luiz Inacio Lula Da Silva como un mediador de consenso internacional y, los países de la Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (ALBA) apoyaron la propuesta de paz.

Resulta interesante pasar revista a las opiniones tomadas de Reuters- que despierta la propuesta de Hugo Chávez entre los miembros del establishment mundial.

Chistophe Barret, analista, Credit Agricole CIB de Londres opina que el plan parece muy vago y no creo que sea considerado seriamente.

Samuel Ciszuk, analista de Oriente Medio, IHS Energy: No creo que otro líder relativamente extremista que es aliado de Kadaffi tenga una oportunidad de ser aceptado como mediador de paz. Es muy poco probable que funcione.

Olivier Jakob, de la firma de investigación suiza Petromatrix: Chávez no tiene mucha credibilidad, el único valor de esa propuesta sería que ofreciera una salida honorable para el clan Kadaffi.

Carsten Fritsch, analista de Commerzbank en Frankfurt: Es altamente improbable que una propuesta de paz de Chávez pueda funcionar. Tim Riddell, jefe de análisis técnico de ANZ en Singapur: Si sale de Chávez, puede no tener ningún grado de sustancia. Obviamente, estas gentes derrochan un optimismo contagioso.

El fondo de la cuestión no es el mismísimo Kadaffi sino lo que se vendría después de un traumático y en este estado de cosas casi seguro- derrocamiento del líder.

Y no hay que ser adivino para visualizar lo que se viene si el plan de paz fracasa: una invasión extranjera someterá a Libia a un baño de sangre concreto que las cadenas informativas del mundo ignorarán como enIrak, Afganistán o Gaza- y el Consejo de Seguridad de la ONU no se reunirá velozmente como lo ha hecho ahora para derrocar al líder libio.

En lo comercial, las potencias que secunden la invasión se repartirán el botín petrolero y dejarán a los libios -que hoy piden apoyo de fuego extranjero- en su inhóspito desierto para que lo transiten en camello y tribalmente como hace mil años, mientras sus recursos son esquilmados hasta el tuétano.

FUENTE: soydondenopienso - http://wp.me/poKd-5EG

Céline sous la faucheuse situationniste

Céline sous la faucheuse situationniste

par Eric Mazet

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

Tous les lâches sont romanesques et romantiques, ils s’inventent des vies à reculons...”
Féerie pour une autre fois.

Je pensais ne plus écrire sur Céline avant quelque temps, mais un éditeur m’envoie un livre avec ses compliments: L’Art de Céline et son temps, d’un certain Michel Bounan que je ne connais pas. Dans la même collection, dont la qualité de finition m’avait séduit, M. Bounan a déjà publié Incitation à l’autodéfense, titre quelque peu inquiétant par sa brutalité paranoïaque. N’étant pas un de ces céliniens médiatiques, mais plutôt un chercheur de dates pour notules, la courtoisie de l’envoi me flatte. Je me dois d’y répondre. Et puis la couverture, avec la lame XIII du tarot de Marseille, celle de la mort en marche, éveille mon attention. La première lame, celle du Bateleur, moins morbide, plus célinienne, aurait aussi bien présenté ce livre, puisqu’elle évoque autant Bagatelles que Mort à crédit, comme la lame nommée “Le Mat”, avec son fou en marche, canne à la main et baluchon sur l’épaule, accompagné d’un chat ou d’un chien, peut aussi bien illustrer Voyage, D’un château l’autre ou Rigodon.
La quatrième de couverture aguiche le lecteur ignorant: “La bonne question n’est pas de savoir comment un libertaire en vient à s’acoquiner avec des nazis, mais pourquoi ce genre de personnage croit bon de se déguiser en libertaire”. Je suis d’accord avec M. Bounan: si Céline était un nazi, alors, à la poubelle ! Qu’on n’en parle plus. Et M. Bounan le premier. J’ai autant de répulsion que lui, j’imagine, quand on me montre le visage du nazisme ou du racisme au cinéma. La vie quotidienne, fort heureusement, m’en préserve. Je me suis toujours méfié des majorités; sinon je ne serais pas venu à Céline. Mais je n’ai jamais cessé de prêcher les vertus de la tolérance, du respect des plus faibles, par simple souci d’équité. Nous sommes sans doute, M. Bounan et moi, d’accord là-dessus. Ce n’est déjà pas mal.
Pour le reste, je vais paraître à M. Bounan bien désuet, décevant, arriéré. Tous les prêcheurs politiques m’ennuient. D’où qu’ils viennent, les politiciens sont des charlatans, attachés à gamelle. Mais écoutons M. Bounan. Sa thèse est simple. Céline n’est qu’un prétexte, un appât, à peine un exemple. M. Bounan est un “situationniste” qui explique les origines de la Seconde guerre mondiale par le financement d’une secte, les nazis, par des entreprises capitalistes. Des provocateurs, nervis de ces banquiers, ont désigné les Juifs comme fauteurs de guerre, à seule fin de faire diversion. Céline est de ceux-là. Après-guerre, les mêmes responsables ont gardé le pouvoir, sont devenus les juges de leurs anciens nervis, et financent derechef des courants antisémites pour occulter leurs nouveaux crimes contre l’humanité. Céline ne fut qu’un agent provocateur à leur solde, par appât du gain, et les céliniens d’aujourd’hui sont tous suspects d’antisémitisme ou de révisionnisme. C’est un résumé de notre sombre XXe siècle, ficelé par un “situationniste” qui a choisi Céline comme marque commerciale, afin d’attirer le chaland.
Plus inspiré par la musique, la peinture et la poésie que par la politique, je trouve ce discours bien mécanique, abstrait, fallacieux. La logique paranoïaque est toujours impeccable, aussi attrayante que les poupées russes qui s’emboîtent. Je ne sais si M. Bounan est infirmier psychiatrique ou psychanalyste situationniste. Il est surtout du genre homo politicus. Dès lors, en littérature nos goûts et nos lectures divergent . Pour moi, Céline n’est pas plus libertaire qu’il n’est nazi. Son apport à la littérature, son défi, sa gageure, ne se situent pas à ce niveau. Donc, la question initiale, de mon point de vue, est caduque. Et comme M. Bounan l’a écrit page 61: “Une question fausse ne peut recevoir que des réponses absurdes”. Pour lui, Céline n’est qu’un provocateur antisémite, du début à la fin. Un écrivain politique, un menteur, un tricheur, obnubilé par l’argent. La thèse n’est pas nouvelle. On y retrouve Alméras, Bellosta, Dauphin, lus comme nouveaux évangélistes. Citations non contrôlées, lectures de seconde main, diffamations répétées.
M. Bounan croit-il vraiment qu’on quitte la sinécure d’une clinique à Rennes, et puis d’un poste international à la SDN, pour faire fortune dans un dispensaire de banlieue en se lançant dans un énorme roman? Le risque était grand... M. Bounan ne voit que recettes à la mode dans Voyage et dans Mort à crédit. Croit-il qu’un écrivain, uniquement motivé par l’appât du gain, passerait quatre années à écrire un premier roman, puis quatre années encore pour écrire le second, en offrant une révolution esthétique digne des plus grandes révolutions littéraires des siècles passés? On ne devient pas l’égal de Rabelais ou de Victor Hugo avec des recettes de bistrot.
M. Bounan s’encolère, congestionne, du fait que le docteur Destouches, dans son étude sur “L’Organisation sanitaire aux usines Ford” , recommande en 1929 aux mutilés ou aux malades de ne pas s’exclure de la société, de refuser d’être des chômeurs, de ne pas devenir des assistés, mais de continuer à travailler dans la mesure de leurs possibilités, aidés par une médecine préventive, sociale, adaptée, et non intimidante, sanctionnante, mandarine. M. Bounan s’oppose-t-il aujourd’hui à la réinsertion des handicapés dans le monde du travail? Cela le révolte encore quand Louis Destouches demande la création d’une “vaste police médicale”. Sans doute le mot “police” n’évoque-t-il pour M. Bounan que le slogan “CRS-SS”, slogan que Cohn-Bendit lui-même trouve aujourd’hui ridicule. M. Bounan qui a écrit un livre sur Le Temps du sida doit savoir que les plus menacés ont dû créer leur propre “police”, changer d’habitudes, de mentalité et d’attitude vis-à-vis de la sexualité. Lorsque Céline affirme dans Les Assurances sociales que “l’assuré doit travailler le plus possible, avec le moins d’interruption possible pour cause de maladie” , M. Bounan oublie de mentionner que Céline n’envisage cette phase qu’après une lutte plus efficace contre les maladies par une refonte de la médecine. Céline devançait par là les thèses de “l’anti-psychiatrie” qui choisit d’insérer le “malade” dans la société au lieu de l’exclure. Avec M. Bounan, on croirait lire le petit catéchisme d’un homéopathe fanatique vitupérant les généralistes ou les chirurgiens ayant parcouru l’Afrique comme le fit le Dr Destouches. Notre situationniste oublie que Clichy, à l’époque, c’était le tiers-monde. Que pour sortir du fatalisme de la maladie et de la misère, de l’alcoolisme et de la syphilis, il fallait se livrer à une “entreprise patiente de correction et de rectification intellectuelle”. Médicale, humaniste, sociale, évidemment, comme le souhaitait le docteur Destouches, et non pas répressive, policière, punitive, comme l’insinue M. Bounan. Ce texte a d’ailleurs été approuvé et défendu en 1928 devant la Société de médecine de Paris - et M. Bounan passe ce fait sous silence - par le Dr Georges Rosenthal qu’on a du mal à imaginer nazi.
Il faut se rappeler qu’en 1918 les Américains avaient envoyé en Bretagne la Mission Rockefeller pour lutter contre la tuberculose qui faisait cent cinquante mille morts par jour dans le monde. C’est là que Louis Destouches, embrigadé dans cette croisade, cette “éducation populaire”, apprit, devant un public d’ouvriers, à condamner l’alcoolisme, “principal pourvoyeur de la tuberculose”, et non chez on ne sait quel folliculaire antisémite dont les attaques seront tantôt dirigées contre l’alcool, tantôt contre les Juifs. Était-ce vouloir enrégimenter les poilus de 14 dans un monde totalitaire que de vouloir leur épargner un deuxième fléau mortel en 1918 en appelant à la création d’écoles d’ infirmières visiteuses qui se rendraient chez les malades? Tous ces projets avaient été formés outre-atlantique par les professeurs Alexander Bruno et Selskar Gunn, médecins de la mission Rockefeller. Était-ce tenir des discours policiers ou nazis que de demander la construction de dispensaires anti-tuberculeux, et de parler en 1919 “au nom de la Patrie si réprouvée, au nom de l’Avenir de notre race” comme le faisait alors le comité de la mission? C’était le langage d’une génération formée aux études latines. Ni dans les tranchées de Verdun ni dans les livres d’histoire, on n’usait des codes “politiquement correct”qui pallient l’inculture de nos critiques.

La suite très prochainement...

Eric MAZET
Le Bulletin célinien, n° 175, avril 1997, pp. 15-22.

Michel Bounan, L’art de Céline et son temps, Éd. Allia.
 
Céline sous la faucheuse situationniste (II)

 

 

Feminism & the Destruction of the West

Feminism & the Destruction of the West:
Steve Moxon’s The Woman Racket

Richard HOSTE

Ex: http://counter-currents.com/

Steve Moxon
The Woman Racket: The New Science Explaining How the Sexes Relate at Work, at Play and in Society
Charlottesville, Va.: Imprint Academic, 2008

womanracket.jpgMost of my readers would agree that the West’s modern political correctness regarding race and gender is an insult to the intelligence of anyone who has given any thought to human nature and its evolutionary source. So the triumph of the PC ideology needs an explanation. With regards to feminism, Steve Moxon thinks he has an answer. In The Woman Racket, he looks to evolutionary psychology to shed light on our prejudices and documents how they lead to misperceptions about the sexes and how that in turn leads to failed policy.

The Hatred of the Beta Male

First, there was asexual reproduction. One day, mother nature brought two proto-gametes together, and they (how?) ended up mixing. This process gave an advantage to the offspring by diluting replication errors (the majority of mutations are harmful). The two gametes were not exactly the same size and by natural selection eventually became polarized. The larger ones, being less numerous and harder to produce, became the “limiting factor” in reproduction. The proto-sperms, on the other hand, became numerous, competitive with one another for proto-eggs and “cheaper.”

This far-fetched story of the origins of sex explains gender differences. Little boys, like little sperm in abiogenesis, wrestle and compete in sports. As adults, mating with a female that has unfit genes costs less (or did, before the government or at least culture stepped in) than the equivalent mistake would for a female so they are less picky sexually. Eggs are expensive, sperm is cheap. That’s why we’re most horrified when women and children, the most genetically valuable, are killed in war.

The story gets even more interesting than that. For the species to survive, nature still wants those with the best genes to reproduce. Since the male world is where competition is, males have a wider distribution of talents. In numerous traits, the male bell curve has wider tails while females are clustered near the middle. People want the males who are at the bottom, or even the vast majority that aren’t alpha, out of the gene pool, and we have a subconscious contempt for them. Cultural norms enforce this hierarchy. There’s a Saturday Night Live skit where the difference between a man who gets a date and one who gets charged with sexual harassment is looks and charm. The male hierarchy is rigorously enforced by both sexes. This “good of the species (or at least race)” explanation goes further than Dawkins’s more simplistic selfish gene model in explaining why for example humans are so ready to submit to hierarchies even against their interests. The result is that while just about any woman can be sure to find male attention somewhere, there is no such consolation for low-ranking males.

Moxon challenges conventional wisdom that says it is women that are and have been historically disadvantaged. He wonders why men being the only ones allowed to engage in work, which for most of history was much more hellacious than the worst jobs today, is seen as an advantage. And even if being able to work is an advantage, up until the present era it was necessary for one person to stay home to manage the household. This is nature’s division of labor and the basis of primate life. In pre-historic times things were even worse for men. In some groups of hunter-gatherers 50% or more would be killed in violent combat while all women who were healthy enough could expect to survive to adulthood.

To ask whether men or women are “advantaged” is as meaningless as wondering if infants are advantaged relative to their grandparents. The sexes live in different worlds, and each is happier living a life more congruent with its respective nature. Trying to bridge them has been a disaster. In Britain the percentage of women engaged in full-time permanent work is no greater than it was 150 years ago. Moxon provides evidence that this is due to women’s choices rather than discrimination. In fact, in 1996 Riach and Rich sent out similar résumés to employers with only the sex of the applicant being different. ‘Emma’ got four times as many job offers as ‘Phillip.’ Women being less inclined to work is predicted from an evolutionary perspective. Since a woman’s mate value is based on her youth and beauty rather than status, working for any reason beyond getting the bare essentials for life is pointless.

Perception and Reality: Rape and Domestic Violence

There are two chapters in this book at the start of which the author makes extraordinary claims. The reader is eventually shocked to find that the evidence is there. First, false claims of rape are at least as common as the real thing. The Home Office in England investigated rape claims in 1999 and found that 45% were false charges; the woman retracted completely. This is only a low end number of rape charges that are false, since one would have to think that not every woman who lied eventually admitted it. Investigations in the UK, New Zealand, and the US show that police officers with experiences in rape cases believe that 50-80% of claims are false. Compare the media attention given to women who are raped compared to men who are wrongly convicted.

Studies show that the number of rapes in US male prisons dwarfs all cases on the outside. Yet, it’s a joke in our society, and some even see it as criminals getting their just desserts. It’s really a grotesque thing to laugh at, considering the AIDS epidemic in US prisons making a stint of any duration in jail a possible death sentence. Evolutionary psychology tells us why male rape is funny while a person making a joke about female rape is banished from respectable society. A man who rapes a woman is violating the rules of the male hierarchy by gaining a mate that his genes don’t merit, and our nature makes this objectionable to us.

The second shocking claim is that the majority of instances of domestic violence, even the serious stuff, is female on male. Men who aren’t psychopaths have a natural aversion to hitting women, while women have no aversion to hitting men. They can do so knowing that the man won’t hit back and that when the cops come they’ll be the ones believed no matter what. The cultural Marxists and feminists use our natural favoritism towards women to make men into an oppressor class. Reality says that so-called violence towards women isn’t part of some “patriarchy,” but largely a myth.

The War on the Family

Feminists demand “equality” only when it’s convenient for women. They complain about the lack of women CEOs and political leaders but never about the lack of female mechanics or plumbers. Women demand equal pay but after divorce should get 50% of what the man earns. All that aside, the government’s intrusion into family life in the name of feminism has been the greatest disaster of all. Moxon focuses on his native England but the same story could be told of any Western country.

In 2007, former Labor minister for welfare reform Frank Field calculated that a woman with two children working 16 hours a week for minimum wage receives after tax credit as much as she would if she was living with a man and they worked 116 hours a week between them. With these kinds of incentives for reckless and irresponsible behavior it’s not a wonder why the number of out-of-wedlock births in Western societies has multiplied in the last few decades but why most white children still end up in two parent households. Moxon says that human nature can’t be changed, but he’s too optimistic. Harpending and Cochran’s The 10,000 Year Explosion: How Civilization Accelerated Human Evolution shows us that evolution in civilized societies can happen very quickly. Each generation of Westerners is going to be less intelligent, less responsible, and less moral the longer the welfare state and feminism survive.

Family courts show the same bias against men that the rest of modern political life does. Women initiate 80-90% of divorces (with the financial incentives no doubt playing a part in the decision), but men are assumed to be the guilty party. The latter are responsible for paying child support but have no guarantee of seeing their own children. All of a sudden, equality goes out the window, and men are required to be providers for women who no longer want them. Judges have even ruled that men may be forced to pay for children that aren’t even theirs. In the US a man can at least get a prenuptial agreement, but in England they aren’t even enforceable in court. It bears repeating: after reading The Woman Racket and investigating feminism’s influence on the law and culture the reader won’t wonder why the modern family has been breaking apart but how it even survives at all.

Another White Man’s Disease

Moxon’s theory of women being favored, like many things, makes sense in the Western world but not universally. He says about Middle Eastern culture

The very different experience of Muslim and Hebraic cultures–where social practices are derived primarily from canonical text rather than the codification of biological imperatives–is the exception that proves the rule. Indeed a plausible argument could be made that the ‘patriarchal’ moral and legal codes deriving from the ‘religions of the book’ are an attempt to redress the imbalance revealed by the practice of ‘natural’ societies.

But doesn’t that seem backwards? Wouldn’t we expect that culture and religion would work with a group’s nature instead of “fixing imbalances?” Kevin MacDonald makes the case in his paper “What Makes Western Culture Unique?” that inherent racial differences are reflected in and reinforced by religious and cultural practices. Like with the question of race and IQ, it is more reasonable to assume differences than similarity in the kinds of societies we expect different groups to create. I wonder if Moxon really believes that Afghans or Saudis are inherently just as likely to fall for “The Woman Racket” and adopt society destroying feminism as Swedes are.

Racial differences can also help explain why no group of whites has reacted to incentives for irresponsibility the way black Americans have. In 2007 the black out-of-wedlock birth rate hit an all-time high of 72%. Africans are not only looser sexually but have different ideas about the obligations of men and women. Steve Sailer writes that in the West “feminists complain that men lock women out of the world of work. But in Africa, men have always ceded most of the world of work to women.” We see the same thing with regards to out-of-wedlock birth rate to a lesser extent with America’s growing Latino population. East Asians may have birth rates as low as the West, but you still don’t see Western style feminism or rampant anti-men discrimination. We all share certain qualities going back to the primordial ooze, but different environments have had plenty of time to tweak our differences since then. While there are pluses and minuses to each system, feminism seems to be like racial masochism: a curse that only affects whites.

Moxon may have been smart to avoid the racial issue here. For a mainstream book you have to pick your battles. It’s easier to get people to accept gender differences than it is to accept ones having to do with race. After all, many of us don’t have much contact with other races but we all have at least some experience with the opposite sex. We don’t know what the future holds but what’s certain is that the current system can’t last. With the IQ and productivity of nations falling due to immigration and differential birthrates and the rapid spread of inferior genes due to relaxation of selection and government subsidies the question isn’t if the collapse is coming but how soon.

Originally published at HBD Books, June 3, 2009.

00:10 Publié dans Livre, Sociologie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, sociologie, féminisme, etats-unis, steve moxon | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Urheimat: alle origini del Popolo Europeo

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Urheimat: alle origini del Popolo Europeo

Molteplici le teorie sulle origini etniche, addirittura c’è chi sostiene che gli Ittiti provengano dal popolo dei Chatti, stanziati in Europa tra Reno e Weser

Gianluca Padovan

Ex: http://rinascita.eu/ 

L’improbabile origine asiatica
La questione più dibattuta tra archeologi e linguisti è la sede originaria (dal tedesco Urheimat) dei cosiddetti “Indoeuropei”, popolo che tra il IV millennio a. e il I millennio a. sembra comparire, oltre che in Europa, anche in Asia e in Africa. Ma, inizialmente, si pensa che tale popolazione provenga dall’India e approdi in Europa foriera di cultura e tradizione: cosa mai avvenuta. Così pure si desidera vedere la provenienza di genti, che fanno fiorire culture sul suolo europeo, dalle steppe e dalle tundre dell’est e dai deserti di sudest, basandosi più che altro sui testi biblici e sulla propria religione. A mio avviso il concetto espresso nella frase “ex Oriente lux” è da riconsiderare e soprattutto da evitarne la pedissequa e acritica applicazione.
Alcuni ritengono che la patria originaria sia da ricercarsi nell’Asia Centrale, in un territorio compreso tra il Turkestan e il Pamir, altri nella cosiddetta Russia Europea, ovvero ad ovest degli Urali. Ma vi è chi ritiene che l’ “Urheimat” sia l’Europa del Nord. Oggi i più tendono a considerare che essa sia da collocarsi tra la Germania del Nord e l’Elba e la Vistola, fino alle steppe che vanno dal Danubio agli Urali, quasi in una sorta di compromesso. In buona sostanza la provenienza della luce culturale e sociale è ancora da definirsi e, sostanzialmente, le idee al proposito rimangono varie anche e soprattutto in campo accademico.
Ad esempio, uno dei luoghi comuni dell’Antropologia è l’origine asiatica degli “Indoeuropei”. E a sostegno della tesi della provenienza asiatica vi è la questione del cavallo. Si afferma che esso è addomesticato e allevato nelle grandi pianure dell’est e del sudest asiatico e da qui introdotto in Europa. In realtà il cavallo è già noto almeno fino dal paleolitico superiore, con attestazioni, ad esempio, in Scania (Svezia meridionale). Ma sulla questione si potrebbero leggere fiumi di parole sia pro che contro.
Calvert Watkins scrive: “Molti studiosi ritengono che la zona della steppa siberiana a nord e a est del Mar Nero sia stata, se non la ‘culla’ originaria degli Indoeuropei, almeno un’importante area di sosta negli spostamenti verso ovest nei Balcani e oltre, verso l’Anatolia e verso il sud e poi verso l’est nell’Iran e in India, a cominciare dalla metà del quinto millennio a.C. Questa è quella che viene chiamata dagli archeologi cultura Kurgan, dalla parola russa per i suoi caratteristici monumenti o tumuli sepolcrali” (Watkins C., Il proto-indoeuropeo, in Campanile E., Comrie B., Watkins C., Introduzione alla lingua e alla cultura degli Indoeuropei, Il Mulino, Bologna 2005, p. 49). Tali teorie sono basate anche sugli scritti dell’archeologa americana di origini lituane Marija Gimbutas.
Innanzitutto è probabilmente da ricercare in Europa il fenomeno del megalitismo, che ha lasciato sul territorio monumenti a tumulo che si perpetuano nel tempo e anche all’esterno dei confini continentali. L’argomento è più che noto ed è superfluo riprenderlo, ma un passo è doveroso riportarlo: “L’architettura territoriale neolitica realizza i suoi capolavori nelle regioni europee che costeggiano l’Atlantico e il Mare del Nord - la facciata atlantica europea - dal Portogallo alla Svezia. Gordon Childe ha avuto l’intuizione di rilevare che in Europa i grandi centri dell’architettura megalitica corrispondono alle regioni in cui le sopravvivenze paleolitiche sono più numerose e meglio attestate. Perciò c’è forse un rapporto, sconosciuto e mediato dal tempo, di educazione, atteggiamento e cultura tra i pittori delle caverne paleolitiche e i costruttori di monumenti megalitici. È significativo ricordare il profondo cambiamento di opinione, nella comunità archeologica, sulle origini delle culture megalitiche europee. In passato si pensava che derivassero dalle grandi civiltà urbane del Vicino Oriente. Attraverso i sistemi moderni di datazione al radiocarbonio Colin Renfrew ha potuto dimostrare che i manufatti europei risalgono a prima del 4000 a.C. e sono “creazioni autonome, uniche nel loro genere: i più antichi monumenti di pietra eretti al mondo”. Molte costruzioni furono cominciate nel V millennio a.C. e modificate fino al I millennio a.C.” (Benevolo L., Albrecht B., Le origini dell’architettura, Editori Laterza, Bari 2002, p. 97).
 
La forza culturale Europea
Così ricorda Romualdi: “L’espansione della cultura nordica nella Russia centrale e meridionale si lascia seguire attraverso la cultura megalitica di Volinia, quella del medio Dnepr e quella di Fatyanovo: tutte queste culture sono caratterizzate da ceramica globulare o cordata e da asce da battaglia. Esse invadono il territorio dei cacciatori ugro-finnici della ceramica a pettine, e premono su quello degli agricoltori della ceramica dipinta di Tripolje. Queste invasioni sono state appassionatamente negate dalla scuola archeologica sovietica di Marr e compagni, pei quali l’esistenza di una Urheimat indoeuropea era “un pregiudizio borghese, esattamente come la fede nell’esistenza di Dio” e per i quali le invasioni indoeuropee facevan parte della mitologia capitalistica” (Romualdi A., Gli Indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 1978, p. 29).
E ancora Romualdi sottolinea l’improbabilità di forti migrazioni da est verso ovest, apportatrici di caratteri culturali: “Ci si trova sempre di fronte alla vaga suggestione delle ‘orde indoeuropee irrompenti nelle steppe euroasiatiche’, contro la quale già Hermann Hirt aveva obiettato che a nessun popolo delle steppe è mai riuscito di diffondere lingue in Europa” (Ivi).
Herman Hirt, nel suo Die Indogermanen, afferma: “L’agricoltura può nutrire su uno stesso territorio assai più uomini dei nomadi delle steppe. È in grado di produrre forze sempre nuove che rafforzano e vivificano la prima corrente. L’assalto dei popoli delle steppe può abbattersi straordinariamente violento, può distruggere come una fiumana di lava ma, poiché non ha nulla dietro di sé, si riassorbe ben presto nella sabbia” (Hirt H., Die Indogermanen I, S. 190; in Romualdi A., op. cit., p. 70). Se qualcuno nutre dei dubbi, guardi che cos’hanno lasciato, ad esempio, gli Unni in Europa: solo un ricordo e per giunta negativo.
Fin dagli albori della storia in Asia e nell’Africa del Nord si incontrano Europei in quanto minoranze che riescono a imprimere una propria impronta alla storia locale. La lingua che diffondono è quella di una aristocrazia conquistatrice, probabilmente poco rispecchiante i multiformi aspetti della vita quotidiana, ma in grado di perdurare nel tempo.
 
Ittiti, Hittiti, Hatti o Chatti
Rimanendo cauti su traduzioni, trascrizioni, vocalizzazioni più o meno azzeccate, e interpretazioni, parrebbe che la terra di Hatti o di Chatti sia quella occupata dagli Ittiti, che verrebbero così scritti: Hittites, Héthéens, Hetiter, etc. Il territorio, o patria di origine o di semplice sviluppo, è stato localizzato nella penisola anatolica, ad est dell’attuale città di Ankara, antica Angora, capitale della Turchia, ed è la regione detta Hatti. La città principale è Hattusa, o Chattusa, vecchia Boğhazköy (“villaggio nella gola”), odierna Boğazkale. Ma la domanda canonica rimane comunque la seguente: da dove provengono gli Ittiti? Anche qui le ipotesi, ognuna con i suoi bravi dati a sostegno, sono varie. All’occhio di un profano come me sono tutte ugualmente interessanti e valide. Ma una mi ha colpito per la sua originalità e, senza che la si prenda troppo sul serio, la riporto semplicemente perché mi piace, invitando le persone competenti a rifletterci sopra. C’è chi sostiene che gli Ittiti provengano dal popolo dei Chatti, stanziati in Europa tra Reno e Weser. Alcuni linguisti sostengono che varie parole ittite derivino da una forma di linguaggio “antico-alto-tedesco” (Lehman J., Gli Ittiti, Garzanti, Milano 1997, p. 61). Fermo restando che la lingua ittita appartiene alla “famiglia indoeuropea” (meglio identificabile come Famiglia Europea), non basta l’assonanza dei nomi a fornire dati probanti: “Tuttavia non ci basiamo solo su questo. Theodor Bossert, una delle autorità dell’ittitologia, ha pubblicato nel suo Alt-Anatolien (Anatolia antica) una mappa in cui sono registrate tutte le località archeologiche dove sono state rinvenute divinità raffigurate su un toro o nell’atto di cavalcarlo. È una traccia lineare che dalla Siria, oltrepassando Boğhazköy, corre lungo il Danubio fino al Reno, piegando per una sua parte anche verso l’Italia. Un bellissimo esemplare di epoca romana, raffigurante questa divinità ittita con tutti i suoi attributi (fascio di saette e doppia ascia) a cavallo del toro, è stato trovato all’inizio del secolo a Heddernheim, che oggi è un quartiere di Francoforte sul Meno. Werner Speiser forse esagera, quando nel suo Vorderasiatische Kunst (Arte dell’Asia Anteriore) del 1952 sostiene che gli ittiti, con le loro teste e i lunghi nasi vigorosi, avevano un aspetto addirittura “falico” (cioè vestfalico); ma se si accetta la tesi di fondo c’è da riflettere. In definitiva anche i Galati dell’Asia Minore, cui scriveva l’apostolo Paolo, sono parenti dei celti nordeuropei” (Ibidem, pp. 74-75).
 
Caratteri distintivi
Leggendo nei vari testi e osservando le testimonianze della loro cultura possiamo vedere che gli Ittiti hanno la fronte alta e arrotondata, il naso dritto è senza l’angolo di attaccatura e i capelli sono tendenzialmente sciolti, lunghi e diritti. Possiamo ravvisarvi dei connotati “greci” come per esempio il naso? Attenzione: riferendosi agli Ittiti le iscrizioni egizie li descrivono aventi capelli chiari o probabilmente castano-chiari; inoltre c’è chi ha la barba, tagliata in varie fogge, verosimilmente a seconda della moda del momento. Per curiosità andiamo a vedere che cosa ci dice Tacito a proposito dei germanici Chatti, i quali sono stanziati a nordest del fiume Reno: “abitano il territorio che comincia dalla selva Ercinia, in luoghi non così pianeggianti e palustri come le altre regioni nelle quali si estende la Germania; infatti vi continuano i colli, che a poco a poco si fanno più rari, e la selva Ercinia continua insieme ai suoi Chatti e alla fine li mette al sicuro. La conformazione fisica è più resistente, solide le membra, truce l’aspetto, maggiore la forza d’animo. Possiedono - per essere dei Germani - molto raziocinio e abilità: mettono a capo delle truppe condottieri scelti, ubbidiscono ai comandanti, mantengono il loro posto nelle file dell’esercito; sanno riconoscere l’opportunità favorevole, ritardare gli attacchi, distribuire opportunamente le occupazioni della giornata e fortificarsi di notte; ascrivono la fortuna alle cose dubbie, e invece il valore alle cose sicure, e, cosa ben rara e concessa soltanto alla disciplina romana, ripongono maggior fiducia nel comandante che nell’esercito. La loro forza militare risiede interamente nella fanteria, che oltre alle armi caricano anche di arnesi da lavoro e vettovaglie: gli altri li vedi andare in battaglia, i Chatti in campagna militare. Rare presso di loro le scorrerie e scaramucce. Ottenere rapidamente la vittoria e altrettanto rapidamente ritirarsi è tipico del combattimento a cavallo: la velocità è connessa al timore, la ponderatezza invece alla costanza” (Tacito C., Germania, Risari E. (a cura di), Mondadori Editore, Milano 1991, 30, 1-3).
Tacito sottolinea quindi la capacità dei Chatti di possedere due cose non comuni tra Germani e Celti, che sono la ponderatezza, la costanza, la disciplina e la logistica. Inoltre spiega che dalla tribù dei Chatti, nel 38 a., si staccano i Batavi per andarsi a stabilire alla sinistra orografica del fiume Reno, quindi nel territorio occupato dai Romani, ma da questi “non subiscono l’umiliazione di pagare tributi, né sono oppressi dagli esattori; sono esenti da oneri di imposte e da contribuzioni straordinarie e tenuti in serbo soltanto per il combattimento; li si destina alla guerra come fossero armi da offesa e da difesa” (Ibidem, 29, 1).
 
Arii o Ariani.
Con il nome di Arii o di Ariani si designano comunemente le genti di lingua “indoeuropea” che dilagarono nelle attuali regioni dell’Iran e dell’India del nord. Taluni hanno sostenuto che si tratta di genti provenienti da nord o da est del Mar Nero, altri da settori ad ovest che oggi portano il nome di Romania e Ucraina. Nel corso del XIX sec. altri studiosi indicano invece come ariani i popoli di lingua europea, di razza bianca e in particolare quelli provenienti dalle regioni del Nord Europa.
Ad ogni buon conto non si è stabilita, o non si è voluta stabilire, con esattezza la loro terra d’origine, andando a negare l’esistenza di una cosiddetta “razza ariana”. Dagli Anni Trenta in avanti, e soprattutto a conclusione della Seconda guerra mondiale, si tende ad assimilare il termine di ariano con le teorizzazioni sulla razza e le formulazioni e le applicazioni delle cosiddette “leggi razziali”. Pertanto l’argomento viene accantonato come scomodo e inopportuno.
Ecco un’altra curiosità che ci viene dal passato tramite Tacito e ancora sui Germani: “Io, personalmente, condivido l’opinione di chi ritiene che le popolazioni della Germania non si siano mescolate con altre genti tramite matrimoni, e che quindi siano una stirpe a sé stante e pura, con una conformazione fisica propria. Da ciò deriva un aspetto simile in tutti, nonostante il gran numero di individui: occhi azzurri e torvi, capelli biondo-rossastri, corpi saldi e robusti, in grado però di costituire una massa d’urto: la loro capacità di sopportare prestazioni faticose è di gran lunga inferiore, e non sono avvezzi a tollerare la sete e il caldo; il clima e la configurazione del territorio li abituano infatti ad adattarsi al freddo e alla fame” (Ibidem, 4, 3).
In particolare, Tacito parla della numerosa tribù dei Suebi, costituita da più tribù: “Attraversa e divide il paese dei Suebi una catena continua di montagne, al di là della quale abitano numerose genti; tra di esse è ampiamente diffuso il nome di Lugi, applicato a molte tribù. Basterà qui ricordare le più forti: Harii, Helveconi, Manimi, Helisi, Nahanarvali” (Ibidem, 43, 2). Stando ad alcuni studiosi la catena montuosa è stata individuata nei Carpazi occidentali e i territori nelle odierne Slesia e Polonia, dalla Vistola all’Oder; inoltre si esprime perplessità sul fatto che fossero della tribù dei Suebi, propendendo per quella degli Slavi.
Vediamo ora cosa ci dice Tacito di una tribù in particolare, quella degli Harii: “Per tornare agli Harii, alla forza per la quale superano le popolazioni sopra elencate aggiungono un’aria truce, e accrescono l’innata ferocia con artifici e con la scelta del momento opportuno: neri gli scudi, tinti di scuro i corpi, scelgono per l’attacco le notti più buie: un esercito di spettri che incute terrore col suo aspetto tenebroso. Non c’è nemico in grado di fronteggiare quella vista tremenda e quasi infernale. Infatti in qualsiasi combattimento i primi a essere sconfitti sono gli occhi” (Ibidem, 43, 4).
Gli studi delle nostre origini e quindi delle popolazioni che abitarono il continente europeo servono allo sviluppo delle conoscenze, nel senso più ampio del termine. Questo porrà probabilmente dei limiti a quello che fu propugnato fin dall’Ottocento come “pangermanesimo”, a cui Stalin oppose, nella prima metà del secolo successivo, il suo ideale di “panslavismo”, dimenticando come gli Slavi siano gente di stirpe europea e non già asiatica. È auspicabile che tutto ciò ponga fine all’equivoco ottocentesco e novecentesco di credere che da altrove sia pervenuta la nostra cultura, definendola “indoeuropea”. Sarebbe un po’ come dire (mi si conceda il paragone) a persone che vivono onestamente del proprio lavoro che gli asini volano ed è bello vederli volare: a furia di ripeterlo, decennio dopo decennio, qualcuno per creduloneria, qualcuno per problemi psichici, altri per piaggeria, affermeranno di vedere gli asini volare.
Noi siamo Europei e la nostra cultura è a tutti gli effetti europea. Non ci credete? La storia si ripete sempre e non sono certo io a dirlo: basti pensare, ad esempio, al filosofo napoletano Giambattista Vico e alla sua teoria riguardo corsi e ricorsi storici. Quindi è necessario e bastante vedere cos’hanno fatto, nel bene e nel male, le genti europee in questi ultimi duemilacinquecento anni e da dove sono partite, dove sono giunte, cos’hanno fondato, cos’hanno costruito, quale sia il contributo sociale, nazionale e culturale che hanno ovunque lasciato. Reimpariamo a pensare con la nostra testa... da veri Europei.
 


11 Marzo 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=7010