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samedi, 25 décembre 2010

Lovecraft? Perchè no...

Lovecraft? Perchè no...

di Marco Iacona

Fonte: scandalizzareeundiritto

 

 

lovecraftqqqq.jpgÈ appena nata all’interno della facoltà di filosofia dell’Università di Milano, Antarès, rivista bimestrale “indipendente di antimodernismo”, ideata e curata da Andrea Marini e Andrea Scarabelli. Il sottotitolo dice già molto… In un ambiente sottoposto a censura ideologica, aggiunge Scarabelli, si sente la necessità di creare uno strumento attorno al quale costituire un’associazione studentesca che si occupi dei “problemi” del moderno, grazie anche a internet e alle possibilità offerte dai caffè letterari.

 

Il primo numero – anzi il numero zero – della rivista uscito nell’ottobre scorso in novanta copie per la distribuzione “interna” ed “esterna”, è completamente dedicato a Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), autore di narrativa fantastica fra i più singolari dei nostri anni. Un autore “assoluto”, per usare la terminologia di Michel Houellebecq che predilige la vita al di fuori della realtà, perché stanco del mondo e del suo contenuto. Lovecraft il gentiluomo, è probabilmente la scelta più azzeccata se si tiene conto, in profondità, del “significato” di Antarés e delle intenzioni dei due curatori. Leggiamo per capire il “manifesto” introduttivo del bimestrale (le firme sono quelle di Marini, Scarabelli e della “redazione”): «...l’opuscolo … si presenta come apice e coronamento di un percorso riflessivo, svolto dai membri del comitato centrale di Antarés intorno ai DOGMI della Modernità – intorno a quelle mitologie deputate dal Mondo Moderno a scandire la dignità di tutto l’esistente». E poi ancora: « Antarés invoca la molteplicità a discapito delle riduzioni. Reclama la molteplicità del pensiero e rifiuta che esso venga ridotto ad UNA sua modalità, vale a dire quella logico-discorsiva. Ammette la molteplicità dell’uomo e si oppone alla riduzione di quest’ultimo ad UNO dei suoi stati, vale a dire quello fisico e materiale. Ammette la molteplicità intrinseca alla storia delle idee e rifiuta ch’esse vengano ridotte a poche concettualità… Queste pagine intendono valorizzare – pensatori – sovente messi a tacere da cattedre ed accademie – che intravidero un DOPPIO volto della Modernità, sovente celato da materialismi, progressismi, analitiche etc., nonché intere regioni del pensiero consegnate all’oblio – in quanto non disponenti dei caratteri richiesti dalla scientificità e dall’esattezza del pensare moderno».

E infine: «Il progetto si muoverà … secondo topoi tematici, fulcri, a nostro avviso, di un sistema la cui crisi non può non preoccupare chi abbia a cuore una cultura continentale che deve, in misura crescente, fare i conti con un panorama tecno-scientifico sempre più onnicomprensivo e totalizzantesi. Ogni numero sarà dedicato ad una sfaccettatura del Mondo Moderno o a gruppi tematici di critiche allo stesso…». Pessimismo antropologico dunque, che si sposa alla perfezione con la parabola esistenziale di Lovecraft e del suo “disgusto” (per usare ancora le parole di Houellebecq) verso il mondo moderno; uno scrittore che riesce anche a far proprio un “sapere” scientifico e matematico, ma che vede la scienza come verità esclusivamente negativa, come ricorda Gianfranco de Turris.
Lovecraft è “vittima” di se stesso in quanto essere “reale” che odia il “reale” (per Houellebecq è un “masochista”), è profondamente razzista (“vittima” di un razzismo tipicamente “anglosassone”, in un mondo nel quale le coordinate culturali si sono incredibilmente moltiplicate), ed è fermamente convinto che l’essere umano – quello dotato di sensibilità autentica – perirà per mano degli scimpanzé (per l’esattezza di “scimpanzé bisunti”, ossia dei negri…). Un uomo tormentato (si legga la biografia…), il cui impegno nel mondo è meno che ridotto, ma un uomo che spinge i lettori, come altri autori dalla personalità e dal vissuto emblematici a una quasi emulazione… Non auguriamo, ovviamente, né all’“umanità” né agli autori di Antarés di subire o assumere, nel tempo, posizioni così “nette”, che lascino poco spazio alla luce dell’ottimismo. È anche vero, però, e da un versante opposto, che Lovecraft e gli altri antimoderni, pongono in discussione i dogmi (termine quanto mai appropriato), sui quali si fondano le società delicatamente totalitarie al cui interno ogni cosa è prevista secondo scale di “valori”, che possono legittimamente non soddisfare. E non è poco.
Se si assume un punto di vista estremo allora, fa piacere che ancora oggi ci sia chi non cedendo a quell’abitudine alla “moralità” che portò uomini e donne a scandalizzarsi per la morte violenta di Pier Paolo Pasolini, diriga i propri sforzi nella discussione dei principi del nostro vivere civile e della nostra società “fondata sul lavoro”. Ma l’errore esiziale – considerazione del tutto personale – è quello di cadere nell’abitudine (ancora una volta un’abitudine, ma di segno opposto alla prima), di “guardare” il mondo attraverso lenti colorate e di vederlo, dunque, sempre e solo di un unico colore. Che alcune università italiane, oggi, siano poco più che delle fogne (e i giovani le difendono!!), dei “comitati d’affari” per gruppi esclusivi e per famiglie prive di scrupoli è una verità fin troppo vera per essere negata, ma forse basterebbe Freud (e guarda caso Lovecraft non lo amava), per riflettere sul fatto che l’equazione modernità = schifezza non postula affatto l’esistenza di un’altra “realtà”, ove la “modernità” (nel senso però di attualità alla Sant’Agostino), sia invece piacevole, luminosa, armoniosa e quant’altro…
Forse, in alcune università (meno puzzolenti di altre) è proprio questo che si cerca di spiegare. Magari male, ma almeno si tenta… Facendo il verso a un “antievoliano” come Francesco Germinario potrei arrivare anche a concludere che con “Lovecraft non si va da nessuna parte…”, e che per dei giovani che stanno per affacciarsi sul “mondo moderno” i “valori” (seppur in negativo) che riempiono le esistenze di Lovecraft - malvagità ed egoismo - non sono proprio il massimo, o forse sono destinati, detti valori, a essere presto “traditi” (in senso bonario, ovviamente), o forse, essi stessi, “rischieranno” di essere frullati all’interno di un contenitore ove il malcontento e l’escapismo – non certo quello di Houdini ma quello, come dire, spirituale – la faranno da padroni per sempre… chissà, forse… speriamo di no dai…
La soluzione (la solita “benedetta” soluzione)? Né recitare una o due preghierine serali né leggere i romanzetti rosa della “Collezione Harmony”… sognare per sognare è preferibile la grande arte di chi accorda modernità e realtà come un direttore d’orchestra sposa una partitura del Settecento a un’orchestra dei giorni nostri: i grandi artisti, quelli che lasciano spazi liberi alla riflessione placida, seria o divertita (Giorgio Morandi, Jean Calogero, per citare due personalità che abbiamo “visitato” di recente). Per altro verso la grande tradizione laica (nel pensiero e nella fede), aperta al futuro e dalle scelte moderate (sempre). Infine, considerazione personale: una buona risata. Woody Allen il grande scettico (lo abbiamo detto, “scherzando” tempo fa a un amico: mille volte più “fascista” di un Clint Eastwood, oggi), Charlie Chaplin se si ha bisogno di una morale buona e mai sfacciatamente ottimista (a volte occorre dai…) e Stan Laurel che vale Tristan Tzara del quale, altra stranezza, solo in pochi conosco non solo le opere ma perfino la faccia. Anche loro percepiscono il “doppio volto” della modernità, e forse più di altri…

Detto questo, troviamo in Antarès una radice entusiasmante che metterà fiori e frutti. Il secondo numero, poi, (una portata molto ricca con Thoureau, Benjamin, Baudelaire, Evola, Daumal e Montale), promette davvero bene. Auguri!

 

 
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Hommage à Saint-Loup

Hommage à Saint-Loup

Pierre VIAL

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Il y a vingt ans aujourd’hui disparaissait Saint-Loup. En la mémoire de ce héros, nous publions un texte de Pierre Vial, L’Homme du Grand Midi, paru dans Rencontres avec Saint-Loup, publié par l’association des Amis de Saint-Loup. C’est du même ouvrage que sont extraits les illustrations de Marienne.

L’Homme du Grand Midi

europe-saint-loup.jpgJ’ai découvert Saint-Loup en décembre 1961. J’avais dix-huit ans et me trouvais en résidence non souhaitée, aux frais de la Ve République, pour incompatibilité d’humeur avec la politique qui était alors menée dans une Algérie qui n’avait plus que quelques mois à être française. On était à quelques jours du solstice d’hiver – mais je ne savais pas encore, à l’époque, ce qu’était un solstice d’hiver, et ce que cela pouvait signifier. Depuis j’ai appris à lire certains signes.

Lorsqu’on se retrouve en prison, pour avoir servi une cause déjà presque perdue, le désespoir guette. Saint-Loup m’en a préservé, en me faisant découvrir une autre dimension, proprement cosmique, à l’aventure dans laquelle je m’étais lancé. à corps et à cœur perdus, avec mes camarades du mouvement Jeune Nation. Brave petit militant nationaliste, croisé de la croix celtique, j’ai découvert avec Saint-Loup, et grâce à lui, que le combat, le vrai et éternel combat avait d’autres enjeux, et une toute autre ampleur, que l’avenir de quelques malheureux départements français au sud de la Méditerranée. En poète – car il était d’abord et avant tout un poète, c’est-à-dire un éveilleur – Saint-­Loup m’a entraîné sur la longue route qui mène au Grand Midi de Zarathoustra. Bref, il a fait de moi un païen, c’est-à-dire quelqu’un qui sait que le seul véritable enjeu, depuis deux mille ans, est de savoir si l’on appartient, mentalement, aux peuples de la forêt ou à cette tribu de gardiens de chèvres qui, dans son désert, s’est autoproclamée élue d’un dieu bizarre – « un méchant dieu », comme disait 1’’ami Gripari.

J’ai donc à l’égard de Saint-Loup la plus belle et la plus lourde des dettes – celle que l’on doit à qui nous a amené à dépouiller le vieil homme, à bénéficier de cette seconde naissance qu’est toute authentique initiation, au vrai et profond sens du terme. Oui, je fais partie de ceux qui ont découvert le signe éternel de toute vie, la roue, toujours tournante, du Soleil Invaincu.

Chaque livre de Saint-Loup est, à sa façon. un guide spirituel. Mais certains de ses ouvrages ont éveillé en moi un écho particulier. Je voudrais en évoquer plus particulièrement deux – sachant que bien d’autres seront célébrés par mes camarades.

Au temps où il s’appelait Marc Augier, Saint-Loup publia un petit livre, aujourd’hui très recherché, Les Skieurs de la Nuit. Le sous-titre précisait : Un raid de ski-camping en Laponie finlandaise. C’est le récit d’une aventure, vécue au solstice d’hiver 1938, qui entraîna deux Français au-delà du Cercle polaire. Le but ? « Il fallait,se souvient Marc Augier, dégager le sens de l’amour que je dois porter à telle ou telle conception de vie, déterminer le lieu où se situent les véritables richesses. »

Le titre du premier chapitre est, en soi, un manifeste : « Conseil aux campeurs pour la conquête du Graal. » Tout Saint-Loup est déjà là. En fondant en 1935, avec ses amis de la SFIO et du Syndicat national des instituteurs, les Auberges laïques de la Jeunesse, il avait en effet en tête bien autre chose que ce que nous appelons aujourd’hui « les loisirs » – terme dérisoire et même nauséabond, depuis qu’il a été pollué par Trigano.

Marc Augier s’en explique, en interpellant la bêtise bourgeoise : « Vous qui avez souri, souvent avec bienveillance, au spectacle de ces jeunes cohortes s’éloignant de la ville, sac au dos, solidement chaussées, sommairement vêtues et qui donnaient à partir de 1930 un visage absolument inédit aux routes françaises, pensiez-vous que ce spectacle était non pas le produit d’une fantaisie passagère, mais bel et bien un de ces faits en apparence tout à fait secondaires qui vont modifier toute une civilisation ? La chose est vraiment indiscutable. Ce départ spontané vers les grands espaces, plaines, mers, montagnes, ce recours au moyen de transport élémentaire comme la marche à pied, cet exode de la cité, c’est la grande réaction du XXe siècle contre les formes d’habitat et de vie perfectionnées devenues à la longue intolérables parce que privées de joies, d’émotions, de richesses naturelles. J’en puise la certitude en moi-même. À la veille de la guerre, dans les rues de New York ou de Paris, il m’arrivait soudain d’étouffer, d’avoir en l’espace d’une seconde la conscience aiguë de ma pauvreté sensorielle entre ces murs uniformément laids de la construction moderne, et particulièrement lorsqu’au volant de ma voiture j’étais prisonnier, immobilisé pendant de longues minutes, enserré par d’autres machines inhumaines qui distillaient dans l’air leurs poisons silencieux. Il m’arrivait de penser et de dire tout haut : « Il faut que ça change… cette vie ne peut pas durer » ».

Conquérir le Graal, donc. En partant à ski, sac au dos, pour mettre ses pas dans des traces millénaires. Car, rappelle Marc Augier, « au cours des migrations des peuples indo-européens vers les terres arctiques, le ski fut avant tout un instrument de voyage ». Et il ajoute : « En chaussant les skis de fond au nom d’un idéal nettement réactionnaire, j’ai cherché à laisser derrière moi, dans la neige, des traces nettes menant vers les hauts lieux où toute joie est solidement gagnée par ceux qui s’y aventurent ». En choisissant de monter, loin, vers le Nord, au temps béni du solstice d’hiver, Marc Augier fait un choix initiatique.

« L’homme retrouve à ces latitudes, à cette époque de l’année, des conditions de vie aussi voisines que possible des époques primitives. Comme nous sommes quelques-uns à savoir que l’homme occidental a tout perdu en se mettant de plus en plus à l’abri du combat élémentaire, seule garantie certaine pour la survivance de l’espèce, nous avons retiré une joie profonde de cette confrontation [...]. Les inspirés ont raison. La lumière vient du Nord… [...] Quand je me tourne vers le Nord, je sens, comme l’aiguille aimantée qui se fixe sur tel point et non tel autre point de l’espace, se rassembler les meilleures et les plus nobles forces qui sont en moi ».

Dans le grand Nord, Marc Augier rencontre des hommes qui n’ont pas encore été pollués par la civilisation des marchands, des banquiers et des professeurs de morale.

Les Lapons nomades baignent dans le chant du monde, vivent sans état d’âme un panthéisme tranquille, car ils sont : « en contact étroit avec tout un complexe de forces naturelles qui nous échappent complètement, soit que nos sens aient perdu leur acuité soit que notre esprit se soit engagé dans le domaine des valeurs fallacieuses. Toute la gamme des croyances lapones (nous disons aujourd’hui « superstitions » avec un orgueil que le spectacle de notre propre civilisation ne paraît pas justifier) révèle une richesse de sentiments, une sûreté dans le choix des valeurs du bien et du mal et, en définitive, une connaissance de Dieu et de l’homme qui me paraissent admirables. Ces valeurs religieuses sont infiniment plus vivantes et, partant, plus efficaces que les nôtres, parce qu’incluses dans la nature, tout à fait à portée des sens, s’exprimant au moyen d’un jeu de dangers, de châtiments et de récompenses fort précis, et riches de tout ce paganisme poétique et populaire auquel le christianisme n’a que trop faiblement emprunté, avant de se réfugier dans les pures abstractions de l’âme ».

Le Lapon manifeste une attitude respectueuse à l’égard des génies bienfaisants, les Uldra, qui vivent sous terre, et des génies malfaisants, les Stalo, qui vivent au fond des lacs. Il s’agit d’être en accord avec l’harmonie du monde :

« passant du monde invisible à l’univers matériel, le Lapon porte un respect et un amour tout particuliers aux bêtes. Il sait parfaitement qu’autrefois toutes les bêtes étaient douées de la parole et aussi les fleurs, les arbres de la taïga et les blocs erratiques… C’est pourquoi l’homme doit être bon pour les animaux, soigneux pour les arbres, respectueux des pierres sur lesquelles il pose le pied. »

C’est par les longues marches et les nuits sous la tente, le contact avec l’air, l’eau, la terre, le feu que Marc Augier a découvert cette grande santé qui a pour nom paganisme. On comprend quelle cohérence a marqué sa trajectoire, des Auberges de Jeunesse à l’armée européenne levée, au nom de Sparte, contre les apôtres du cosmopolitisme.

Après avoir traversé, en 1945,  le crépuscule des dieux. Marc Augier a choisi de vivre pour témoigner. Ainsi est né Saint-Loup, auteur prolifique, dont les livres ont joué, pour la génération à laquelle j’appartiens, un rôle décisif. Car en lisant Saint-Loup, bien des jeunes, dans les années 60, ont entendu un appel. Appel des cimes. Appel des sentiers sinuant au cœur des forêts. Appel des sources. Appel de ce Soleil Invaincu qui, malgré tous les inquisiteurs, a été, est et sera le signe de ralliement des garçons et des filles de notre peuple en lutte pour le seul droit qu’ils reconnaissent – celui du sol et du sang.

Cet enseignement, infiniment plus précieux, plus enrichissant, plus tonique que tous ceux dispensés dans les tristes et grises universités, Saint-Loup l’a placé au cœur de la plupart de ses livres. Mais avec une force toute particulière dans La Peau de l’Aurochs.

Ce livre est un roman initiatique, dans la grande tradition arthurienne : Saint-Loup est membre de ce compagnonnage qui, depuis des siècles, veille sur le Graal. Il conte l’histoire d’une communauté montagnarde, enracinée au pays d’Aoste, qui entre en résistance lorsque les prétoriens de César – un César dont les armées sont mécanisées – veulent lui imposer leur loi, la Loi unique dont rêvent tous les totalitarismes, de Moïse à George Bush. Les Valdotains, murés dans leur réduit montagnard, sont contraints, pour survivre, de retrouver les vieux principes élémentaires : se battre, se procurer de la nourriture, procréer. Face au froid, à la faim, à la nuit, à la solitude, réfugiés dans une grotte, protégés par le feu qu’il ne faut jamais laisser mourir, revenus à l’âge de pierre, ils retrouvent la grande santé : leur curé fait faire à sa religion le chemin inverse de celui qu’elle a effectué en deux millénaires et, revenant aux sources païennes, il redécouvre, du coup, les secrets de l’harmonie entre l’homme et la terre, entre le sang et le sol. En célébrant, sur un dolmen, le sacrifice rituel du bouquetin – animal sacré car sa chair a permis la survie de la communauté, il est symbole des forces de la terre maternelle et du ciel père, unis par et dans la montagne –, le curé retrouve spontanément les gestes et les mots qui calment le cœur des hommes, en paix avec eux-mêmes car unis au cosmos, intégrés – réintégrés – dans la grande roue de l’Éternel Retour.

De son côté, l’instituteur apprend aux enfants de nouvelles et drues générations qui ils sont, car la conscience de son identité est le plus précieux des biens : « Nos ancêtres les Salasses qui étaient de race celtique habitaient déjà les vallées du pays d’Aoste. » et le médecin retrouve la vertu des simples, les vieux secrets des femmes sages, des sourcières : la tisane des violettes contre les refroidissements, la graisse de marmotte fondue contre la pneumonie, la graisse de vipère pour faciliter la délivrance des femmes… Quant au paysan, il va s’agenouiller chaque soir sur ses terres ensemencées, aux approches du solstice d’hiver, et prie pour le retour de la la lumière.

Ainsi, fidèle à ses racines, la communauté montagnarde survit dans un isolement total, pendant plusieurs générations, en ne comptant que sur ses propres forces – et sur l’aide des anciens dieux. Jusqu’au jour où, César vaincu, la société marchande impose partout son « nouvel ordre mondial ». Et détruit, au nom de la morale et des Droits de l’homme, l’identité, maintenue jusqu’alors à grands périls, du Pays d’Aoste. Seul, un groupe de montagnards, fidèle à sa terre, choisit de gagner les hautes altitudes, pour retrouver le droit de vivre debout, dans un dépouillement spartiate, loin d’une « civilisation » frelatée qui pourrit tout ce qu’elle touche car y règne la loi du fric.

Avec La Peau de l’Aurochs, qui annonce son cycle romanesque des patries charnelles, Saint-Loup a fait œuvre de grand inspiré. Aux garçons et filles qui, fascinés par l’appel du paganisme, s’interrogent sur le meilleur guide pour découvrir l’éternelle âme païenne, il faut remettre comme un viatique, ce testament spirituel.

Aujourd’hui, Saint-Loup est parti vers le soleil.

Au revoir camarade. Du paradis des guerriers, où tu festoies aux côtés des porteurs d’épée de nos combats millénaires, adresse-nous, de tes bras dressés vers l’astre de vie, un fraternel salut. Nous en avons besoin pour continuer encore un peu la route. Avant de te rejoindre. Quand les dieux voudront.

Pierre Vial

Source : Club Acacias.

vendredi, 24 décembre 2010

L'Afrique réelle n°11 & 12

L'Afrique Réelle N°12 - Décembre 2010

Ex: http://bernardlugan.blogspot.com/ 

Editorial :
En Côte d’Ivoire, le premier tour des élections présidentielles avait fait apparaître un pays coupé en trois, la coalition Kru Lagunaires de M. Gbagbo totalisant 37% des voix, le parti Baoulé 25% et l’ensemble nordiste 33%. Au second tour, M. Ouattara l’a emporté après qu’eut été reconstituée autour de sa candidature l’alliance entre Baoulé et Nordistes qui avait jadis permis au président Houphouët-Boigny de gouverner. Dans un réflexe de survie, M. Gbagbo a alors fait un coup d’Etat et mis le pays en situation de quasi guerre civile. La « communauté internationale » est la grande responsable de ce gâchis pourtant prévisible. Après la partition du pays intervenue à la suite des évènements de 2002, elle a en effet voulu, au nom de la démocratie et de la « bonne gouvernance », contraindre au dialogue, à la réconciliation, à la réunification et au partage du pouvoir des populations qui n’avaient jamais eu de passé commun. Postulant que la paix allait sortir des urnes, elle a englouti des sommes considérables dans un processus électoral bancal. Le résultat de cette cécité ethnologique et politique est catastrophique.
Les positions des deux camps sont en effet inconciliables car elles sont ancrées sur des mentalités inscrites dans la longue durée. Pour les Kru du sud forestier, ensemble ethnique auquel appartient M. Gbagbo, les Nordistes forment un monde rattaché à l’univers du Sahel. Selon eux, ce vaste ensemble malinkédioula-mossi, rêve de reprendre vers le Sud une expansion bloquée durant la parenthèse coloniale. La coupure Nord-Sud entre le monde sahélien, ouvert et structuré en chefferies ou en royaumes d’une part, et le monde forestier littoral peuplé d’ethnies à la géopolitique cloisonnée d’autre part, est bien la grande réalité géopolitique régionale[1].
La priorité est désormais de tenter de circonscrire l’incendie afin d’éviter son extension à toute l’Afrique de l’Ouest, tant les imbrications ethniques y sont importantes. Le problème est que la question ivoirienne étant d’abord ethnique, sa résolution ne passe certainement pas par une artificielle recomposition démocratique à l’ « européenne », mais bien par une redéfinition de l’Etat. Comme il n’existe plus de fédérateur et que tous les dirigeants politiques sont discrédités, tout replâtrage faussement consensuel avec un gouvernement dit d’ « unité nationale », ne serait qu’une solution artificielle, fragile, provisoire et porteuse d’embrasements futurs. Dans ces conditions, et dans l’état actuel de la situation, la seule issue réaliste n’est-elle pas la reconnaissance de la partition entre des Nord pro-Ouattara et des Sud pro-Gbagbo ? Plus tard, peut-être, une nouvelle union pourrait naître, mais sur des bases solides, c'est-à-dire dans le cadre d’une confédération à définition clairement ethnique.
Dans l’immédiat, maître du pays Kru et du cordon littoral peuplé par ses alliés Akié, Abouré et autres Lagunaires, Laurent Gbagbo contrôle la Côte d’Ivoire « utile ». Grâce aux revenus du pétrole, du café, du cacao, des ports, appuyé sur l’armée et la gendarmerie, il va tenter de contraindre les acteurs économiques internationaux à composer avec lui. Jouant la carte nationaliste il va s’opposer avec virulence au « diktat » de l’ONU et accusera tout particulièrement la France, bouc émissaire idéal. Mais dans ce très périlleux jeu du « quitte ou double », il n’est pas certain qu’il ait toujours avec lui sa chance légendaire… Quant à Alassane Ouattara, chef de l’Etat légitime mais désarmé, il n’est encore que le « roi de Bourges » d’un Nord déshérité et il risque d’apparaître bientôt aux yeux des Ivoiriens comme l’homme de l’étranger. Le temps jouant contre lui, il est donc condamné à brusquer les évènements. En a-t-il seulement les moyens ?
Bernard Lugan

[1] Accrochés d’une manière pathétique à leurs vieilles croyances « new age » et post-marxiste, Jean-Loup Amselle, Jean-Pierre Chrétien et Elikia M’Bokolo du CNRS soutiennent
que les ethnies sont des créations coloniales. Plus encore selon Jean-Loup Amselle, la notion même de Sahel est le produit de la colonisation. Dans la même veine il
serait possible de soutenir que le phénomène des grandes marées en Bretagne est une conséquence de l’occupation allemande de 1940…
 2010

L'Afrique Réelle N°11 - Novembre 2010

SOMMAIRE :
Dossier : Les élections ivoiriennes
- Les peuples de Côte d'Ivoire
- La crise ivoirienne
- Les élections du 31 octobre 2010
Histoire : Origines de l'homme, adieu Afrique ?
Editorial de Bernard Lugan :
Le 31 octobre 2010, cinq années après la fin officielle du mandat du président Laurent Gbagbo, et après six reports successifs, les élections présidentielles ivoiriennes qui devaient mettre un terme à la situation de « ni guerre ni paix » prévalant dans le pays depuis la tentative de coup d’Etat de 2002, se sont enfin tenues. Organisées à grands frais par la communauté internationale, loin de permettre une sortie de crise, elles ont au contraire compliqué une situation politique aussi complexe qu’explosive.
Ce scrutin qui n’a rien résolu démontre une fois de plus que la démocratie africaine est d’abord une ethno mathématique. Sondage ethnique grandeur nature, ces élections ont ainsi confirmé que la Côte d’Ivoire est bien composée de trois ensembles ethniques coagulés lors de ces élections autour de trois leaders : Henri Konan Bédié qui avec  25% des voix n’a pas été capable de rassembler au-delà de ses seuls soutiens Baoulé ; Alassane Ouattara qui en obtenant 32,5% des voix a montré qu’il demeurait le chef incontesté des ethnies nordistes et Laurent Gbagbo, arrivé en tête avec un décevant 38,3% des suffrages.
Le président sortant a cependant fait la preuve qu’il était capable de rassembler au-delà de sa petite base ethnique Kru/Bété. C’est ainsi que les Akan non Baoulé ont largement voté pour lui. Son épouse, Simone est elle-même Abouré, petite tribu Akan dont territoire commence à Bassam et le chef d’état-major des Armées, le général Philippe Mangou est Ebrié ; quant aux Attié, vieux résistants au pouvoir colonial et à celui d’Houphouet-Boigny, ce sont de solides alliés. De plus, Laurent Gbagbo a montré qu’il est le seul candidat ayant un électorat éparpillé trans-ethnique.
Le second tour des élections est programmé pour le 21 novembre 2010 et il s’annonce serré. Durant la campagne, les passions vont être exacerbées, ce qui ne va pas favoriser la cicatrisation de la fracture ethnique ivoirienne.
Après l’actualité immédiate, le second dossier traité dans ce numéro 11 de l’Afrique Réelle nous conduit sur le long chemin de nos origines car l’idée selon laquelle toutes les populations de la planète seraient originaires d’Afrique est aujourd’hui  de plus en plus difficile à soutenir. Davantage acte de foi que véritable démonstration scientifique, cette quasi croyance obligée repose en fait sur deux postulats. Le premier est celui de l’hominisation dont on nous affirme qu’elle se serait faite en Afrique et uniquement en Afrique. Le second est adossé à un schéma diffusionniste selon lequel, ce serait à partir du continent africain que nos ancêtres auraient migré. Ils l’auraient quitté en deux fois, d’abord vers 2 millions d’années avec Homo erectus, puis, il y a environ  90 000 ans avec l’Homme moderne (théorie dite de l’ « Eve africaine »).
Or, ces deux postulats sont aujourd’hui considérablement affaiblis en raison de découvertes récentes dont nous faisons le point dans ce numéro. Mais au-delà de ces nouveautés, la question des origines de l’homme dépasse désormais la controverse scientifique car elle a été placée au cœur de l’entreprise de déstructuration mentale des Européens. Elle a en effet permis de faire entrer dans la tête des nantis coupables du vieux continent l’idée selon laquelle nous serions tous des Africains, de lointains immigrés en quelque sorte. Dans ces conditions, pourquoi vouloir limiter l’accès à notre sol à ces « cousins » venus aujourd’hui d’Afrique alors que nos ancêtres l’avaient fait avant eux il y a quelques dizaines de milliers d’années ?

Anche Mishima a volte ritorna nel futuro...

Anche Mishima a volte ritorna nel futuro...

di Errico Passaro

Fonte: secolo d'italia


mishimawwwwww.jpgYukio Mishima è un intramontabile della cultura mondiale, oggetto di ripubblicazioni a getto continuo, convegni di studio, rappresentazioni teatrali e altre forme di tributo. Un omaggio inconsueto ed inaspettato alla figura dello scrittore giapponese viene dal romanzo vincitore dell'ultimo Premio Urania, Lazarus di Alberto Cola (Mondadori, pp. 317, € 4,20).  
 

 

Cola ci porta in una Tokyo futuristica, dove gli scienziati del progetto Lazarus hanno "resuscitato" Mishima per farlo diventare vessillo di una parte politica, quella dei "nostalgici", nelle elezioni politiche alle porte; il simulacro dello scrittore, dotato del suo stesso corpo e dei suoi stessi ricordi, ma destinato ad una vita effimera come i replicanti di Blade Runner, si ritrova comparsa di una sofisticata messinscena, che arriva alla ricostruzione fedele del quartiere dove aveva vissuto la sua prima vita.

 

Mishima, tuttavia, sfugge al suo destino con l'aiuto della setta segreta dei Mistici, in un viaggio verso la "bella morte" intriso di atmosfere crepuscolari, fino ad un epilogo carico di una sovrumana serenità. Uno dei punti di forza del romanzo è la verosimiglianza dei personaggi. Su tutti svetta Gabriel, il Virgilio di Mishima nella sua nuova vita, dominato dal potere della Pulsazione, che gli consente di agire sulla mente degli altri, ma che lo lascia alla merce del Mostro dentro di lui, governabile solo a forza di dosi di droga: lo seguiamo per flashback nella sua formazione marziale e nella sua iniziazione al potere parapsicologico, fino alla sua trasformazione in «un ronin moderno, un samurai senza padrone… un uomo sull'onda… uno strumento senza fine». Intorno a Gabriel, ruotano antagonisti e comprimari: dalla parte dei "cattivi", Hitasura, padrone dello "zaibatzu" che gestisce il progetto Lazarus e che ingaggia Gabriel per recuperare il Mishima in fuga, e Yasuwara, il corrotto capitano della Polizia del Pensiero in combutta con Hitasura; dalla parte dei "buoni", solo per citare i principali, la tenutaria Madame Ho, l'allibratore Kano, Mama-San e Tori, le mentori di Gabriel nella Setta dei Mistici e, soprattutto, Miko, la compagna di casa non vedente di Gabriel, apparentemente indifesa, ma in realtà detentrice di un segreto che emergerà solo nel finale del romanzo. A parte, il "rigenerato" Mishima, «figlio dell'unione illecita tra illusione e tecnologia», spaesato, malinconico, esangue, diverso da quello spudorato e tonitruante consegnato alle cronache letterarie e politiche della storia reale, più vicino all'intimismo delle Confessioni di una maschera che alla belluinità di altre sue opere, un soggetto «attirato dal lato estetico di una sensibilità superiore», «perfetta fusione fra lotta e sacrificio, impeto e amore».

 

Una virtù del romanzo è, poi, la sua qualità stilistica. In Cola colpisce, soprattutto, il tratto preciso nella descrizione dei gesti, inusuale nella letteratura di genere; i suoi toni smussati; la tendenza all'introspezione, allo scavo psicologico, alla costruzione di una biografia credibile dei suoi attori. Un ulteriore pregio della narrazione di Cola è la ricostruzione del contesto futuro. La prima parte si svolge nella metropoli nipponica, sottoposta al controllo asfissiante dei rilevatori di onde cerebrali: davanti allo sguardo del lettore, si accavallano immagini di «una città sempre più puttana in cui è difficile conservare la memoria», fitta di grattacieli occupati abusivamente, bordelli, case di gioco, ring di sumo clandestini e tutta una serie di luoghi seminterrati, ambigui, formicolanti di un'umanità disumana, dove perfino gli alberi sono geneticamente modificati. La seconda parte del romanzo, invece, è ambientata fra campagna e mare, in un luogo che sembra anche un tempo diverso, aria pulita e lanterne invece che smog e neon. Il romanzo si segnala, ancora, per la sua attenzione al fattore sociale, di cui si fa portavoce Mishima stesso: «Vivevo in un Paese che era pieno di contraddizioni» dice «ed ero una delle sue espressioni».

Lo scrittore è costretto a vivere per una seconda volta ciò che, nella sua incarnazione naturale, aveva combattuto, prima, e rifiutato, poi, con l'estremo gesto del suicidio rituale: lo svilimento dei valori, il carrierismo sociale, l'arroganza della burocrazia, l'aggressività della speculazione economica, la corruzione della politica, che rendevano la sua amata-odiata Patria un mondo di relazioni inautentiche. Ma quello che è il vero tratto distintivo di Lazarus rispetto a tanti romanzi consimili e coetanei, anche non di filone, è la predominanza della riflessione filosofica, non di rado affidata a citazioni tratte dall'opera di Mishima. Tutta la vicenda umana dei protagonisti è impregnata di misticismo orientale e si svolge in uno stato di mezzo fra vita e morte, sogno e realtà, passato e presente; ma l'esperienza spirituale non rimane circoscritta alla prossimità con la dimensione sovrannaturale, ma si sostanzia in una serie di valori-guida cardinali: la "bellezza" e la "morte", come nell'etica e nell'estetica decadente; il dovere morale del giri («È la traccia che ci rende unici, che ci rende uomini…ciò che il giri richiede è lo spirito di un guerriero, cioè qualcosa di fiero e puro»); il koha («…la smania di affrontare prove spirituali di virilità») e il ninkyo («il codice d'onore personale»); la tensione al futuro («Quale futuro può attenderci se si vive nella continua nostalgia del passato?»), il potere dell'esempio («Ai miei tempi lottavo con la forza delle idee, e con l'azione dettata dall'esempio»), la forza dell'arte («La realtà trova sempre il modo di bloccare i tentativi dell'uomo di trasformare la vita in un attimo di poesia»), la critica al culto della memoria («La memoria è uno specchio capriccioso, perché le immagini riflesse ci illudono. È lo specchio degli inganni») e della vittoria («La sconfitta non è tale se è volta ad un ideale, e la si può tramutare in un seme di gloria futura»). Dopo tanti meritati complimenti, una sommessa critica: siamo sicuri che "rigenerare" un'icona non valga a distruggerla? Un mito, antico o moderno che sia, non vive forse della sua irraggiungibilità? Creare doppioni di personaggi archetipici non è come mettere in circolazione caricature dell'originale, parodie lontane anni-luce dal potere di attrazione e suggestione della matrice? Il romanzo sembra, invece, alludere ad un potere fascinatorio che, nel processo di duplicazione, non si perderebbe e continuerebbe a magnetizzare le masse. E di questo noi, nel nostro piccolo, ci permettiamo di dubitare.

 

 

 

 

 

 

 

 


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Die ungewöhnliche Beziehung von Ernst Jünger und Erich Mühsam

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Kreuzweiser Austausch
Die ungewöhnliche Beziehung von Ernst Jünger und Erich Mühsam

Von Lars-Broder Keil (Friedrichshagen)

Ex: http://www.friedrichshagener-dichterkreis.de/


"Mühsam lernte ich bei Ernst Niekisch kennen, den ich häufig aufsuchte. Ich glaube, auch Toller war an jenem Abend dabei. Sie kannten sich aus der Zeit der Münchener Räterepublik, mit der sich die Linke eine ähnliche Absurdität wie später die Rechte mit dem Kapp-Putsch leistete. Wir kamen in ein angeregtes Gespräch, Mühsam begleitete mich auf dem Heimwege. Er war Bohemien vom Schlage Peter Hilles, weltfremder Anarchist, verworren, kindlich-gutmütig. (...) Er redete in flatterndem Mantel wild, beinahe schreiend auf mich ein, so daß sich die Passanten nach der seltsamen Erscheinung umwandten, die an einen großen unbeholfenen Vogel erinnerte. Wir tauschten einige Briefe, bis kurz vor seiner Verhaftung; schreckliche Gerüchte sickerten bald über sein Schicksal durch." (1)
Diese Schilderung seiner ersten Begegnung mit Erich Mühsam (1878-1934), die um 1930 herum stattfand, hielt Ernst Jünger (1895-1998) am 24. August 1945 in seinem Tagebuch fest. Glaubt man Jüngers Eintrag, blieb es nicht bei dieser Begegnung. Es ist eine Beziehung, die ungewöhnlich, fast unwahrscheinlich anmutet: der linke Anarchist Erich Mühsam und der bis heute umstrittene konserverative Schriftsteller und Käferforscher Ernst Jünger.

Schwierige Spurensuche

Erich Mühsam wurde 1878 in Berlin geboren, wuchs aber in Lübeck auf. Nachdem er dort eine Glosse über den Direktor seiner Schule in einer SPD-Zeitung veröffentlicht hatte, flog er wegen "sozialistischer Umtriebe" von der Schule und begann eine Apothekerlehre. 1900 zog er nach Berlin, fand Anschluss an die Neue Gemeinschaft der Gebrüder Heinrich und Julius Hart sowie an die Literatur-Bohemeszene und freundete sich mit Gustav Landauer an. In Friedrichshagen arbeitete er ab 1902 für die anarchistische Zeitung "Armer Teufel", bis er 1904 zu seinen Wanderjahren durch Europa aufbrach. Diese führten ihn schließlich nach München, wo sich Mühsam ab 1909 niederließ. 1918 beteiligte er sich führend an der Gründung der Münchener Räterepublik und musste nach deren Niederschlagung ins Gefängnis, wo er bis Ende 1924 einsaß. Anschließend zog Mühsam wieder nach Berlin und gab dort die Monatzeitschrift "Fanal" heraus. 1933 von der SA verhaftet, wurde er nach schweren Misshandlungen 1934 im KZ Oranienburg ermordet.
Ernst Jünger wurde 1895 in Heidelberg geboren. Wie ein Großteil seiner Generation meldete er sich 1914 als Kriegsfreiwilliger. Er wurde mehrfach verwundet und ausgezeichnet. Mehr als das prägte ihn die Materialschlacht an der Front, die er in Büchern, wie "In Stahlgewittern" (1920), verarbeitete. Auffallend dabei: zum einen die nüchternen Schilderungen des Grauens, andererseits die Begeisterung für den militärischen Kampf. Dieser Stil sowie die Mitarbeit in nationalistischen und militanten Gruppierungen wie Zeitschriften brachten ihm den Ruf des demokratiefeindlichen Reaktionärs und Kriegsverherrlichers ein. Dabei war auch der junge Jünger, wie viele seiner Generation, jemand, der sich erst durch den Krieg verändert hatte und der auch ein Suchender war: "Mein Weltbild besitzt durchaus nicht mehr jene Sicherheit, wie sollte das auch möglich sein bei der Unsicherheit, die uns seit Jahren umgibt", schrieb er über seine Kriegserlebnisse im Buch "Der Kampf als inneres Erlebnis" (1922). Mitte der 20er-Jahre begann er Philosophie und Zoologie zu studieren, brach das Studium aber 1926 ab und lebte seitdem als Schriftsteller - unterbrochen durch seinen Militäreinsatz im zweiten Weltkrieg, den er unter anderem im Stab des Militärbefehlshabers in Paris verbrachte. 1944, nach dem missglückten Attentat auf Hitler, wurde Jünger aus der Armee entlassen. Der Autor zahlreicher Bücher, Tagebücher und Essays starb 1998 im Alter von 103 Jahren.
Leider sind die Briefe Mühsams an Jünger vernichtet - unter welchen Bedingungen dies geschah, soll zu einem späteren Zeitpunkt beschrieben werden. Daher lässt sich auch nichts über den Inhalt sagen. Neben dem etwas ausführlicheren Eintrag von 1945 tauchen nur wenige kurze Hinweise auf Mühsam in Jüngers Tagebüchern auf. Im Eintrag vom 10. September 1943 schrieb er über Mühsam, dass dieser "eine kindliche Neigung zu mir gefasst hatte" und dass man ihn "auf so schauerliche Weise ermordete". Am Ende findet sich die Einschätzung: "Er war einer der besten und gutmütigsten Menschen, denen ich begegnet bin." (2). Kurz erwähnte Jünger ihn noch am 20. Oktober 1972 und 20. Mai 1980 (3). Am 19. November 1989 notierte Jünger: "Hans Jürgen Frh. von der Wense (1894-1955). Ich lese in seinen Tagebüchern Notizen über die Novemberrevolution von 1918 und deren Folgen bis zur Niederschlagung der Münchner Räterepublik; sie erinnern mich an Gespräche mit Beteiligten wie Niekisch, Toller und Mühsam." (4)
Mühsam wiederum erwähnte weder in seinen Erinnerungen noch in Briefen seine Beziehung zu Jünger. Von der Bekanntschaft kündet lediglich der Eintrag im Notizkalender von 1930: "15.1. Begegnung mit Ernst Jünger bei Rudolf Schlichter" (5). Das Aussparen der Beziehung zu Jünger mag daran liegen, dass sie nur lose war und er ihr keine so große Bedeutung beigemesssen hat - was angesichts der verschiedenen Weltbilder der beiden nicht verwunderlich sein dürfte. Doch offenbar hinderte sie das nicht, Gespräche zu führen. Mehr Aufschluss könnte Mühsams Nachlass geben, doch der ist zu einem großen Teil zerstört. Chris Hirte, ein Mühsam-Biograf und -kenner, wundert sich über die Beziehung nicht. Zum einen habe sich Mühsam in seiner Zeitschrift "Fanal" ausführlich mit Kriegsliteratur befasst, und Jünger war einer der wichtigsten Vertreter. Zum anderen habe Mühsam viel Wert auf Kontakte quer durch alle Gruppierungen gelegt und mit diesen ausführlich kommuniziert, besonders gern mit prominenten Zeitgenossen, zu denen Jünger damals schon gehörte. Unter Mühsams Bekannten stammten laut Hirte viele aus dem bürgerlichen Lager. Ideologische Barriere gab es für den Anarchisten Mühsam hier offenbar nicht.
Auffallend an Jüngers knappen Überlieferungen der Kontakte ist der wohlwollende Ton, mit dem er über den "Friedrichshagener" Mühsam spricht. Daher scheint es interessant, das Klima zu beschreiben, das damals Treffen zwischen linken und rechten Intellektuellen möglich machte. Verzichtet wird, vor allem aus Platzgründen, auf eine Analyse der relevanten Werke Jüngers, die aber genannt werden sowie auf eine tiefere Analyse der nationalistischen Strömungen, die in der Beziehung eine Rolle spielen. Zu diesen gibt es eine erschöpfende Literatur.

Niekisch als Bindeglied der Beziehung

Wie in Jüngers Tagebuch angedeutet, war Ernst Niekisch (1889-1967) das Bindeglied in dieser ungewöhnlichen Beziehung. Niekisch, Sohn eines Feilenhauermeisters und in Schlesien geboren, las in seiner Jugendzeit neben Klassikern auch die Werke der Moderne von Gerhart Hauptmann, Henrik Ibsen, Frank Wedekind und Max Halbe, die zum Teil prägend für die "Friedrichshagener" waren. Er lernte Erich Mühsam zusammen mit Gustav Landauer 1918 während der Zeit der Räterepublik in München kennen, an der sich alle drei aktiv mitwirkten. Niekisch beschreibt Mühsam in dieser Zeit als sprudelnden, witzigen Geist, "ein guter Mensch, aber so ausgesprochen literarischer Bohemien, daß sich niemand ihn in einer würdigen Amtsposition vorstellen konnte" (6). Letztere Bemerkung zielt auf einen Versuch von Mühsam, sich selber als Volksbeauftragter für das Auswärtige im Kabinett der Räterepublik vorzuschlagen. Landauer war für Niekisch eine "geistig überlegene Persönlichkeit" (7), ein außerordentlicher und gedankenvoller Redner (8).
Die Zusammenarbeit lockerte sich mit dem Rücktritt von Niekisch vom Posten des Präsidenten des Zentralrats der Arbeiter-, Bauern- und Soldatenräte Bayerns. Trotzdem unterzeichnete er einen Aufruf zugunsten des seit 1919 inhaftierten Mühsam, der ärztliche Hilfe brauchte. Kurze Zeit später trafen sich beide wieder - in der Festungshaft. Dort zettelte Mühsam unter den Häftlingen einen Streik an, bei dem Essenreste auf die Gänge geworfen wurden. Niekisch, der angesichts der Lebensmittelknappheit dieser Zeit eine "schlechte Presse" für diese Aktion befürchtete, brach den Streik und säuberte am dritten Tag mit Hilfe anderer Häftlinge die Flure (9). Mühsam zeigte sich verbittert über die Streikbrecher und nannte Niekisch und dessen Umfeld in seinen Tagebüchern verächtlich die "Intellektuellen" (10).

Niekisch trat nach seiner Entlassung in den Schuldienst ein, war Landtagsabgeordneter der USPD und folgte im November 1922 dem Ruf in den Hauptvorstand des Deutschen Textilarbeiterverbandes nach Berlin, schied aber 1926 im Streit mit der SPD aus dem gewerkschaftlichen Verband aus und ging nach Dresden. Dort schloss er sich der Alten Sozialdemokratischen Partei (ASP) an und gab die Zeitschrift "Widerstand. Blätter für sozialistische und nationalrevolutionäre Politik" heraus.
Über diese Herausgeberschaft und die ASP bekam er zunehmend Kontakt zu bündischen Kreisen, zu reaktionären Gruppierungen, beispielsweise zum Jungdeutschen Orden, zu Konservativen, wie den ehemaligen Korpsstudenten Friedrich Hielscher, der zum Thema "Nietzsche und der Rechtsgedanke" promoviert hatte und sich später diffusen sozialrevolutionär-nationalistischen Tendenzen näherte, sowie zu bürgerlichen Intellektuellen, etwa zu Friedrich Georg Jünger, ein Bruder von Ernst Jünger (11).
Auf die Jünger-Brüder war Niekisch durch den Philosophen Alfred Baeumler gestoßen, der zugleich Mitglied des Kampfbundes für deutsche Kultur von Alfred Rosenberg war. Baeumler lobte Ernst Jünger als einen Mann, "der die technischen Tendenzen der Zeit in vollem Umfange begriffen habe" und nicht mehr in rückständiger Bürgerlichkeit stecke (12). Dies war wohl der Anlass, Jünger 1926 zur Mitarbeit am "Widerstand" aufzufordern, wie aus einem Brief Ernst Jüngers an seinen Bruder hervorgeht (13). 1927 erschien der erste Artikel.
Im Herbst des gleichen Jahres, so berichtet Niekisch in seinen Erinnerungen, sei er mit Baeumler nach Berlin gereist, der dann einen Besuch bei Jünger angeregt habe. Jünger habe beide freundlich in seiner Wohnung in der Nähe der Warschauer Brücke empfangen. "Wir tranken Kaffee und unterhielten uns über politische Vorgänge jener Tage", erinnert sich Niekisch (14).

Allerdings scheint er sich im Jahr geirrt zu haben, da Baeumler die Jüngers erst 1928 kennenlernte und auch die Briefe erst aus diesem Jahr stammen (15). Ob nun 1927 oder 1928, nach dem ersten Treffen entwickelte sich jedenfalls ein, laut Niekisch, freundschaftlicher Verkehr, gelegentlich schrieb Jünger für den "Widerstand" Aufsätze, und als Niekisch wieder nach Berlin zog, trafen sich beide, etwa bei einer Besprechung des Kreises "Neuer Nationalisten" mit dem Verleger Ernst Rowohlt oder bei Niekisch zu Hause. Bei einem dieser Besuche kam es dann zum Kontakt zwischen Mühsam und Jünger.
Jünger in Berlin

Rund sechs Jahre, von 1927 bis 1933, lebte Ernst Jünger in Berlin. Nach seinen Büchern über den Ersten Weltkrieg war er zum Hoffnungsträger und Wortführer der Gegner der Weimarer Republik im rechten Spektrum geworden.
Die unter dem Begriff "Neuer Nationalismus" zusammengefassten Gruppierungen bekannten sich einmütig zur Nation und einem wehrhaften Staat. Doch Jünger begann schnell, sich von den radikal-militanten Kreisen zu lösen. Wie schon die jungen Intellektuellen zur Jahrhundertwende zog Jünger das Geschehen der pulsierenden Hauptstadt an. Jünger versuchte sich in bohemhaftem Lebensstil, wohnte in möblierten Zimmern, wanderte nachts durch die Straßen, hielt seine Beobachtungen fest, nahm gelegentlich an Trinkfesten teil. Er suchte Kontakt zu Vertretern aller Couleur, zu Nationalisten und Rechten, beispielsweise zu Friedrich Hielscher und Otto Strasser, zu Linken, wie Bertolt Brecht, Erich Mühsam, Ernst Toller und zu Rudolf Schlichter, der Jünger 1929 und noch einmal 1937 porträtierte (16).
Der Maler, Zeichner und Schriftsteller Rudolf Schlichter (1890-1955), bei dem Mühsam laut seinem Notizkalender auch Jünger traf, erregte Anfang der 20er-Jahre mit seiner Plastik des an der Decke schwebenden "Preußischen Erzengels" in Uniform und Schweinskopf Aufsehen. Etwa 1927 wurde der kommunistische Künstler als genauer Zeichner der Berliner Halbwelt bekannt, war unter anderem mit George Grosz und Bert Brecht befreundet. Durch die Begegnung mit seiner späteren Frau Speedy wandte sich Schlichter jedoch dem Katholizismus und Nationalismus zu. In dieser Phase lernte er auch Ernst Jünger kennen, der den Maler sehr schätzte. Die erste Begegnung fand wahrscheinlich beim Verleger Rowohlt statt, der, wie Jünger notierte, "sich ein Vergnügen daraus machte, pyrotechnische Mischungen auszutüfteln, besonders an seinen Geburtstagen" (17).

Links-Rechts-Dialoge

Für die Weimarer Jahre war ein Wirrwarr von rechten und linken Gruppen, Bünden, intellektuellen Zirkeln und Sammlungsbewegungen kennzeichnend, die weniger in festen Organisationsformen oder gar Ortsverbänden agierten. Meist handelte es sich um Mitarbeiter einer Zeitschrift, die sich um den Herausgebe scharrten. Die Akteure waren oft junge, unzufriedene Kriegsteilnehmer, die nach einer Neuorientierung, einem "neuen politischen Leitbild eines nationalen Selbstbewusstseins" suchten - und zwar jenseits vom Parteiengezänk. (18). Die Frontgeneration der 1890-1905 Geborenen kritisierte und bekämpfte die Ideen des Liberalismus und des Parteiensystems. Sie stellten die Bindung an eine fast mystisch anmutende Nation in den Mittelpunkt, grenzten sich aber vom Nationenbegriff patriotischer Prägung ab.
Was bewegte die "rechten" Strömungen, die unter Begriffen wie Nationalrevolutionäre zusammengefasst wurden, zum gemeinsamen Vorgehen? Jürgen Danyel nannte auf einer Tagung der Evangelischen Akademie Berlin 1990 über den so genannten "Gegner"-Kreis drei wesentliche Handlungsanreize: Zum einen werden die Aktivitäten als Reaktion auf die Modernisierungprozesse der 20er-Jahre verstanden und auf die Erkenntnis, Anschluss an politische Massenbewegungen gewinnnen zu müssen. Allerdings waren die Vertreter des Nationalismus zumeist Einzelgänger und stolz auf ihre Isolierung. Geradezu mit Verachtung wiesen sie die Möglichkeit ab, sich von den großen politischen Strömungen tragen zu lassen. Sie sahen sich in Opposition, als Individualisten und auf dem Weg, für sich den Begriff Konservatismus neu zu definieren. Zweitens prägten die Strömungen das "Gemeinschaftserlebnis Krieg" und die revolutionären Nachkriegsauseinandersetzungen sowie das "Unvermögen zur sozialen Integration in eine ihnen fremde bürgerliche Welt". Drittens schließlich führte die nationale und soziale Problemlage Deutschlands nach 1918 zu einer Politisierung, verbunden mit dem Aufbegehren gegen die eigene bürgerliche Herkunft - gerade im letzten Punkt finden sich verblüffende Parallelen zu den "Friedrichshagener Dichtern" und den Motiven ihres Handelns um die Jahrhundertwende.
Die nationale Problematik bildete das Dach der oft gegensätzlichen Strömungen. Betont wurde der Charakter der "Bewegung", favorisiert eine "Verbindung von Nationalismus und Sozialismus", in der die Arbeiterschaft eine historische Trumpfkarte im Rahmen einer umfassenden Gesellschaftsveränderung werden sollte. "Rechte" wie "Linke" fanden auch eine gemeiname Basis in der Ablehnung des westlichen Imperialismus, dessen Hauptsymbol für sie der Versailler Vertrag war (19). Im Unterschied zum Marxismus bekannten sich die Nationalrevolutionäre, und besonders deren nationalbolschewistische Strömung, zu Nation und Staat (20).
In der außenpolitischen Betrachtung sympathisierten die Strömungen mit der nicht am Versailler Vertragswerk beteiligten Sowjetunion - mit einer häufig diffusen Zuneigung und Verklärung. So nutzte auch Jünger die Einladungen der "Gesellschaft zum Studium der russischen Planwirtschaft". Im Ergebnis entstand seine 1932 erscheinende theoretische Schrift "Der Arbeiter", die Unverständnis im rechten Lager und heftige Kontroversen auslöste.
Wechsel zwischen den Lagern und Kontakte waren nicht selten. In Gesprächszirkeln aller Art trafen sich offizielle und oppositionelle Kommunisten, sozialistische und konservative Intellektuelle, parteitreue bis parteifeindliche Nationalsozialisten. Bei allen Unterschieden, ja Hass zwischen den Flügeln, zog die gemeinsame Radikalität des Gefühls und des Denkens an.
Vor diesem Hintergrund sind auch die Kontakte zwischen Jünger und Mühsam zu sehen. Nach Ansicht des Jünger-Biographen Heimo Schwilk fühlte sich der nationalrevolutionäre Autor zu Personen hingezogen, die die herrschende Verhältnisse in Frage stellten, zu einem Radikalismus der Tat neigten, um aus der beengten Sphäre des Bürgerlichen auszubrechen. Auch Jünger verspürte früh diesen Drang, meldete sich als Jugendlicher in der Fremdenlegion, "ein früher, instiktiver Protest gegen die Mechanik der Zeit", nannte er diesen Schritt später. Eine mehr selbst-analytische Verarbeitung des ersten Ausbrechens lag jahrelang als unveröffentlichtes Manuskript in seinem Schreibtisch. Es trug den bezeichnenden Titel "Die letzte sentimentale Reise oder die Schule der Anarchie" (21) und wurde 1936 als "Afrikanische Spiele" veröffentlicht.
Mühsam wiederum suchte in seiner Vorstellung, die Regierung durch eine Revolution abzulösen, nach tatbereiten Leuten, um sie gegen die Weimarer Republik zu mobilisieren. Die meinte er offenbar auch unter den Vertretern der Nationalrevolutionäre zu finden, deren Wille zu Aktionen ihm näher lag, als das abwartende Verhalten der Funktionäre von SPD und KPD, die auf Parlamentarismus setzten, schätzt Mühsam-Forscher Hirte ein. Jünger zählte sich selbst zu den Nationalrevolutionären, bezeichnete sich öffentlich aber erst Anfang der 80er-Jahre so.
Das mag daran liegen, dass Jünger, der sich auf besondere Weise als elitärer Einzelkämpfer verstand, Distanz zu den Gruppen gewahrt hatte, weil er Zuordnung als Vereinnahmung verstand. Bereits als der "Arbeiter" erschien, hatte er sich aus dem aktiven Geschehen zurückgezogen, "in die Innerlichkeit", wie Niekisch das bezeichnete.
Trotzdem hielt er weiter Kontakt. Als das NS-Regime an die Macht kam, nahm Jünger beispielsweise Niekisch kurzzeitig bei sich auf und kümmerte sich nach dessen Verhaftung um die Niekisch-Familie.

Vernichtung der Mühsam-Briefe

Die Beschreibung der Kontakte zwischen Ernst Jünger und Ernst Niekisch hätte ergiebiger ausfallen können, wenn Jünger nicht so vorsichtig gewesen wäre. Als die Nationalsozialisten die Macht in Deutschland ergriffen und ihre Gegner zu verhaften begannen, vernichtete er in einer hektischen Aktion einen Teil seiner umfangreichen Briefsammlung und Tagebuchaufzeichnungen. Darunter auch die wenigen Briefe von Mühsam, die laut Jünger "harmlos waren wie der Mann selbst" und später die Briefe von Ernst Niekisch, bei dem Jünger Mühsam kennengelernt hatte. Mehrfach bedauerte er die Lücken, "die vor allem dadurch entstanden sind, daß ich in Anfällen von Nervosität Papiere verbrannt habe". Aber Jünger wusste um die Sprengwirkung, wenn sie bei ihm gefunden worden wären. "Wenn meine Bekannten durch mich Schwierigkeiten hatten, so galt das auch umgekehrt, es fand kreuzweis ein Austausch statt. Der Umgang mit Niekisch, Mühsam, Otto Strasser, Hofacker, Schulenburg, Heinrich von Stülpnagel und anderen warf ein ungünstiges Licht auf mich", schrieb er rückblickend in seinem Tagebuch am 24. August 1945. Wie recht er mit dieser Annahme hatte, musste Jünger kurze Zeit nach dem Vernichten der Briefe erfahren. Eines Abends, er saß in seiner Steglitzer Wohnung und las Beardsleys "Venus und Tannhäuser", klingelte es an der Tür. Zwei Gestapo-Beamte traten ein, überhörten Jüngers Frage nach den Ausweisen und begannen in den Zimmern nach Waffen und verbotenen Papieren zu wühlen. Jüngers Buch "Der Arbeiter" im Regal schien ihr Misstrauen zu fördern. Dann kamen sie zu ihrem Anliegen und fragten nach den Briefen von Erich Mühsam. Jünger reichte ihnen seine Briefmappe "H-M", in denen die Briefe Mühsams fehlten, aber nicht die von Hitler und Hess, und hielt die Reaktion der Beamten in seinem Tagebuch fest: "Sie begannen zu blättern, stießen dabei gleich auf einige Namen, die hoch im Kurs standen, und brachen ihr Unternehmen ab." (22)

Im nächsten Heft: Jünger und der Individualanarchismus von John Henry Mackay und Max Stirner

Quellen:

  1. Ernst Jünger: Die Hütte im Weinberg, Jahre der Okkupation, In: Strahlungen II., Verlag Klett-Cotta, Stuttgart, 1979, S. 516 f.)
  2. Ernst Jünger: Das zweite Pariser Tagebuch, In: Strahlungen II..., S. 146
  3. Ernst Jünger: Siebzig verweht II, Verlag Klett-Cotta, Stuttgart, 1981, S. 97 und S. 610ff.
  4. Ernst Jünger: Siebzig Verweht IV, Verlag, Stuttgart, 1981, S. 383
  5. Chris Hirte: "Erich Mühsam", Verlag Neues Leben Berlin, 1985, S. 419
  6. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben, Kiepenheuer & Witsch, Köln-Berlin, S. 43
  7. ebenda, S.68
  8. ebenda, S.78
  9. ebenda, S.96
  10. Erich Mühsam: Tagebücher 1910-1924, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1994, S.240f.
  11. Ernst Jünger in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt Verlag, S.41
  12. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben, S. 187
  13. Friedrich Georg Jünger: Briefwechsel mit Rudolf Schlichter, Ernst Niekisch und Gerhard Nebel, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart, 2001, S. 59
  14. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben..., S.187
  15. F.G. Jünger, S.59f.
  16. Horst Mühleisen: Ernst Jünger in Berlin, Frankfurter Buntbücher 20, S. 5
  17. Ernst Jünger und Rudolf Schlichter, Briefe 1935-1955, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart, 1997, S. 307f.
  18. Jürgen Danyel: Alternativen nationalen Denkens vor 1933, In: Der "Gegner"-Kreis im Jahre 1992/33, Evangelische Akademie Berlin, 1990, S. 76
  19. ebenda, S.69
  20. Das Projekt Ernst Jünger, In: Forum Wissenschaft, I/95, S. I ff.
  21. Ernst Jünger in Selbstzeugnissen..., S. 12
  22. Ernst Jünger: Die Hütte im Weinberg..., S. 516 f.

 

jeudi, 23 décembre 2010

Peter Scholl-Latour: La Turquie, grande puissance régionale

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La Turquie en marche pour devenir une grande puissance régionale face à une Europe affaiblie !

 

 

Entretien avec Peter SCHOLL-LATOUR

 

Propos recueillis par Bernhard TOMASCHITZ

 

Q. : Dr. Scholl-Latour, la Turquie s’affiche de plus en plus comme une puissance indépendante, consciente d’elle-même, de sa destinée et de son histoire ; elle s’affirme ainsi sur la scène internationale. A-t-elle les potentialités nécessaires pour devenir une grande puissance régionale au Proche-Orient ?

 

PSL : La Turquie possède indubitablement de telles potentialités : elle dispose d’une armée conventionnelle qui est probablement plus forte que la plupart des armées européennes ; qui plus est, une nouvelle islamisation s’est emparée de la Turquie, ce qui confère à l’Etat de nouvelles orientations géopolitiques. Il est possible que les Turcs et Erdogan n’aient pas encore reconnu les chances réelles dont ils disposent, des chances qui ne pourront être saisies si la Turquie s’associe trop étroitement à l’Europe. Lorsque, dans des conversations avec des Turcs, on mentionne le fait qu’ils sont les héritiers d’un grand empire et non pas l’appendice d’une Union Européenne qui marine dans le vague, on rencontre tout de suite leur approbation. Et, de fait, ce serait bien le rôle de la Turquie, et non pas d’une autre puissance, de créer un minimum d’ordre dans l’espace moyen-oriental qui menace actuellement de sombrer dans le chaos.

 

Q. : Quel est le rapport qu’entretient la Turquie avec ses voisins ?

 

PSL : Les Turcs ont bien sûr un rapport tendu avec l’Irak parce que dans le Nord de l’Irak, les Kurdes, qui y forment la population majoritaire de souche, sont devenus quasiment indépendants du gouvernement de Bagdad et que cette quasi indépendance pourrait constituer un précédent pour les Kurdes de Turquie. Mais jusqu’à présent les Kurdes d’Irak, et surtout leur leader Barzani, se sont comportés de manière très adéquate et très subtile. Par ailleurs, la Turquie a accompli un grand pas en avant en direction de la Syrie, avec laquelle elle cultivait une longue inimitié : aujourd’hui les rapports ente la Syrie et la Turquie sont bons. En revanche, les rapports avec Israël, qui, auparavant, étaient excellents sur les plans de la coopération militaire et technologique, se sont considérablement détériorés. Ce fut sans doute la grande erreur des Israéliens qui n’ont rien fait pour contrer cette évolution ; on constate dès lors qu’en Turquie, hommes politiques et hommes de la rue convergent dans des attitudes nettement anti-israéliennes.

 

Ensuite, et c’est l’essentiel pour la Turquie, il y a le Caucase et l’Asie centrale. Dans le Caucase, les Azéris, habitants de l’Azerbaïdjan, sont chiites alors que les Turcs sont sunnites. Mais les deux peuples sont purement turcs de souche et parlent des langues très similaires. La zone occupés par des peuples turcs (turcophones) comprend le Turkménistan, le Kazakhstan et s’étend à tout le territoire centre-asiatique jusqu’à la province occidentale de la Chine, peuplée d’Ouïghours, également locuteurs d’une langue turque. Ce sont tous ces facteurs-là qui font que la Turquie, sur le plan culturel comme sur le plan religieux, dispose d’un potentiel très important.

 

Q. : Vous venez de nous parler des Etats turcophones d’Asie centrale : dans quelle mesure les intérêts économiques jouent-ils un rôle dans l’accroissement possible de la puissance turque ?

 

PSL : Ce sont les Américains, les Russes, les Chinois et les Européens qui convoitent les richesses de ces régions. L’Asie centrale possède de riches gisements de pétrole et de gaz naturel et les dirigeants des Etats turcophones sont passés maîtres dans l’art stratégique. Le Kazakhstan a certes proposé la construction d’un système d’oléoducs et de gazoducs qui passerait par les pays du Caucase du Sud pour aboutir en Turquie et déboucher en Méditerranée, tout en contournant et la Russie et l’Iran mais, par ailleurs, les Kazakhs ont été suffisamment futés pour conclure des accords similaires avec les Russes.

 

Q. : Et quel rôle jouent les Turcs dans les Balkans ?

 

PSL : Dans les Balkans, nous n’avons pas très bien perçu le jeu des Turcs jusqu’ici. Ce jeu se joue bien entendu, avant tout, dans les Etats qui possèdent des populations musulmanes autochtones, notamment les Albanais, représentés également au Kosovo et en Macédoine où un tiers de la population est d’ethnie albanaise. La Macédoine, dans un tel contexte, connaît déjà des tensions entre les Slaves chrétiens orthodoxes et les Albanais musulmans et deviendra sans doute une poudrière dans l’avenir. La Turquie y avancent ses pions avec grande prudence, en se posant comme l’Etat protecteur et a contribué à une ré-islamisation de la Bosnie, alors que cette région de l’ex-Yougoslavie avait été, sous Tito, complètement détachée de l’orbe musulmane.

 

Conséquence : dans tout règlement interne des Balkans, nous devons désormais prendre la Turquie en considération et tenir compte de son point de vue.

 

Q. : Quels obstacles pourraient survenir qui freineraient la montée en puissance de la Turquie ?

 

PSL : Jusqu’ici le premier ministre turc Erdogan a déployé sa stratégie de manière très raffinée et a forgé des liens étroits entre son pays et l’Iran. Cette stratégie a ceci de remarquable que la Turquie est un pays essentiellement sunnite tandis que l’Iran est majoritairement chiite, ce qui avait conduit dans le passé à une longue inimitié. Aujourd’hui un rapprochement est en train de se produire et, chose curieuse, la Turquie et l’Iran ont, de concert avec le Brésil, cherché à aplanir le conflit qui oppose l’Occident à l’Iran au sujet de son projet atomique. Ni les Américains ni les Européens n’ont réagi !

 

Q. : La Turquie, membre de l’OTAN, se rapproche de l’Iran ; cela pourra-t-il conduire à une rupture avec les Etats-Unis et avec l’Occident en général ?

 

PSL : Il n’y a que deux Etats stables dans la région : la Turquie et l’Iran. Face à ces deux pôles de stabilité, le Pakistan est au bord du chaos et est fortement sollicité par la guerre en Afghanistan. Il est aussi intéressant de constater qu’à Kaboul, où je me suis encore rendu récemment, on discute du retrait des troupes de l’OTAN et des Américains. Le retrait des Américains devrait se passer dans un contexte digne, sans que la grande puissance d’Outre Atlantique ne perde la face comme ce fut le cas au Vietnam : or la seule puissance capable de gérer ce retrait de manière pacifique et honorable, c’est la Turquie, parce qu’elle est membre de l’OTAN tout en étant un pays musulman. Les soldats turcs stationnés en Afghanistan y jouissent d’une sympathie relative.

 

Q. : La Turquie veut devenir une plaque tournante dans la distribution d’énergie. Comment jugez-vous cette volonté ?

 

PSL : Je n’aime pas beaucoup cette théorie de la « plaque tournante ». L’Europe, qui en parle continuellement, veut constituer avec la Turquie une union économique et politique étroite, alors qu’il y aura bientôt cent millions de Turcs ! Que restera-t-il alors de l’Europe, avec sa population en plein déclin démographique ? Ensuite je crois que les Turcs se sont aperçu qu’une adhésion à l’UE ne va pas vraiment dans le sens de leurs intérêts.

 

Ensuite viennent les exigences européennes en matière de respect des droits de l’homme, tel que le prévoit la Charte européenne. Si elle respecte la teneur de cette Charte, la Turquie devra accorder aux quinze millions de Kurdes, qui vivent dans le pays, une autonomie culturelle et politique. Cela conduira à de formidables tensions, voire à une guerre civile sur le territoire turc. En conséquence, les Turcs se diront qu’il est plus raisonnable de ne pas adhérer pleinement à cette Union Européenne, qui exige d’eux tant de devoirs. Mis à part cela, la Turquie, si on la compare à d’autres Etats européens, est une grande puissance.

 

Q. : Comment perçoit-on la montée en puissance de la Turquie dans les Etats qui firent jadis partie de l’Empire ottoman ?

 

PSL : De manière très différente selon les Etats. En Irak, la question kurde handicape considérablement les rapport turco-irakiens, mais il faut prendre en considération que les Chiites forment désormais la majorité au sein de l’Etat irakien et que les Chiites d’Iran s’entendent bien, aujourd’hui, avec les Turcs. J’avais rappelé tout à l’heure l’ancienne inimitié qui opposait la Syrie à la Turquie parce que les Turcs avaient annexé en 1939 la région d’Iskenderum, dont la population était majoritairement arabe. La Syrie a oublié aujourd’hui cette querelle ancienne et cherche, auprès de la Turquie, une certaine protection face à Israël. Les relations avec l’Iran se sont considérablement améliorées et Ankara cherche maintenant à étendre la Ligue islamique au Pakistan. Mais c’est là un très vaste projet et on ne pourra vraiment le prendre en considération que si les problèmes de l’Afghanistan sont résolus.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ).  

Quand les Etats-Unis soutiennent l'indépendance du Sud-Soudan

Bernhard TOMASCHITZ :

Quand les Etats-Unis soutiennent l’indépendance du Sud-Soudan

 

south_sudan_map.gifLe 9 janvier prochain, les habitants des provinces méridionales du Soudan décideront, par le biais d’une consultation populaire, s’ils veulent vivre ou non dans leur propre Etat. Il n’y aura pas de surprise : on ne s’attend pas à autre chose qu’à un « oui » massif en faveur de l’indépendance car le Sud animiste et chrétien lutte depuis plusieurs décennies pour se détacher du Nord musulman. Ce n’est qu’en 2005 qu’il fut mis un terme aux violences par la signature d’un Accord de Paix général (APG) ; depuis lors, l’instabilité règne toujours dans cet Etat africain, le plus grand en surface de tout le Continent noir.

 

La consultation populaire, qui aura lieu tout au début de l’année 2011, ne concerne pas seulement le droit à l’autodétermination des peuples, car les provinces méridionales du Soudan constituent un véritable kaléidoscope de peuples et d’ethnies ; non, l’enjeu est plus vaste : il s’agit bien évidemment des matières premières, car les gisements de pétrole des ces provinces constituent 80% de tout le brut que retire le Soudan de son sol. Toutefois, le Nord ne perdrait pas, en cas d’indépendance du Sud, l’ensemble de ces 80% de pétrole extrait du sol soudanais, car l’APG prévoit un partage fifty/fifty des ressources pétrolières. Pourra-t-on maintenir un partage aussi rigoureusement équilibré en cas d’indépendance du Sud ? Rien n’est moins sûr. L’ « International Crisis Group », une boîte à penser pro-américaine, dont le siège est à Bruxelles, pense, qu’en cas de sécession définitive du Sud, la teneur des accords de paix subira des modifications substantielles, du simple fait que les ressources pétrolières seront les seules sources de revenu des provinces méridionales devenues indépendantes.

 

Depuis des années déjà, le régime islamiste de Khartoum est un partenaire étroit de la Chine, qui tente d’apaiser en Afrique sa fringale croissante de matières premières. En se déployant ainsi sur le Continent noir, la Chine heurte les intérêts américains en Afrique, où elle devient petit à petit un concurrent gênant. Jusque dans les années 80, c’était le géant pétrolier américain Chevron qui exploitait principalement l’or noir au Soudan, avant qu’il ne se retire à cause des effets négatifs de la guerre civile ; désormais, il est remplacé à la première place par la « China National Petroleum Corporation ». Cette entreprise pétrolière chinoise, qui appartient à l’Etat, possède 40% de la société soudanaise « Greater Nile Petroleum Operating ».

 

Le 23 décembre 2004, on pouvait lire les remarques suivantes dans le journal américain « Washington Post », généralement bien informé : « Les liens de la Chine avec le Soudan sont devenus particulièrement étroits, ce qui prouve que les liens économiques que tisse la Chine éveillent des soucis quant aux droits de l’homme en dehors de ses frontières, ce qui entraine une collision avec la politique suivie par les Etats-Unis et avec les intérêts économiques américains ». Par la suite, Washington a fait feu de tous bois pour affaiblir le Nord et, par ricochet, la Chine. Sur le plan politique, cette stratégie s’est exprimée par un soutien au SPLM (« Sudan People’s Liberation Movement »), le mouvement politique qui compte le plus dans les provinces méridionales du Soudan. Comme son nom l’indique, ce SPLM a eu un passé marxiste-léniniste, qu’il a pourtant bien vite abandonné à la fin de la Guerre Froide pour rejoindre le camp occidental et, par suite, pour obtenir le soutien de Washington.

 

Le Soudan, dans son ensemble, s’avère important dans la stratégie globale des Etats-Unis. Dans un rapport stratégique rédigé par l’instance d’aide au développement, l’USAID, on lit que le Soudan relève de « la plus haute priorité », parce ce pays africain est important dans la lutte contre le terrorisme, pour assurer la stabilité dans la région. Les chiffres sont également parlants : lors de l’année budgétaire 2009, l’USAID a dépensé au total quelque 420 millions de dollars « pour de l’aide humanitaire » au Soudan, surtout, bien entendu, au bénéfice des provinces du Sud. Il ne s’agit pas en priorité de distribuer des vivres à des populations menacées de famine ou de soutenir la construction ou la restauration d’infrastructures mais d’aider à mettre sur pied des structures politiques dignes d’un Etat. Voyons comment l’USAID voit les choses : cette instance estime qu’il y a là-bas « une possibilité inhabituelle de travailler avec de nouvelles entités gouvernementales, afin de soutenir un plan de réformes qui, s’il réussit, ira dans le sens des intérêts de la politique extérieure américaine dans la région, non seulement face à l’Iran, mais dans toute la Corne de l’Afrique ». En clair, si un Etat chrétien/animiste dans le Sud du Soudan émerge sur la scène internationale, il sera ipso facto une base d’appui dans le voisinage immédiat de la Somalie, posée comme « Etat failli » donnant asile à des islamistes. Pour Washington, se donner un tel satellite constituerait une aubaine formidable. Selon certaines sources, des conseillers militaires auraient déjà été déployés dans le Sud du Soudan.

 

On doit aussi constater que les fondations des partis américains, financées par de l’argent gouvernemental, comme l’ « International Republican Institute » (IRI) ou le « National Democratic Institute » (NDI) s’activent depuis assez longtemps au Soudan. L’IRI déclare travailler avec le gouvernement sud-soudanais semi-autonome à Juba, afin « d’augmenter sa capacité à gouverner efficacement ». A tout cela s’ajoutent divers programmes aux échelons nationaux, régionaux et locaux, où les participants sont familiarisés avec « les avantages de la démocratie libérale de modèle américain ».

 

Certes, les Américains sont bien conscients du fait que leurs partenaires du gouvernement sud-soudanais ne sont que des figurants peu fiables sur l’échiquier. Ce qui préoccupent surtout les Américains, c’est le peu d’expérience qu’ont ces Soudanais du Sud dans l’art de gouverner et leurs tendances, typiquement africaines, à succomber à la corruption. Ces déviances, les Américains les observent avec une certaine inquiétude. C’est aussi pour cette raison que l’USAID prévoit l’instauration de sept ministères-clefs, sur lesquels l’instance n’apporte guère de précisions, des ministères que les Américains prendront à leur charge, tandis qu’ils formeront aussi les futurs fonctionnaires de ce nouvel Etat appelé très bientôt à se constituer, afin que s’établisse un « gouvernement honnête et transparent » à Juba. Finalement, Washington veut éviter de se fabriquer une fois de plus un vassal qui, très vite, se détachera de la superpuissance du monde occidental.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°50/2010).     

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans?

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Friedrich-Wilhelm MOEWE :

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans ?

 

Que se passe-t-il actuellement dans les Balkans ? Une islamisation rampante sans qu’il n’y ait une véritable immigration. Il existe bel et bien une volonté politique d’installer un noyau dur islamisé dans les Balkans : c’est ce que nous apprennent les récentes révélations de documents secrets américains et de dépêches d’ambassades ; on y trouve bon nombre de notes sur les dirigeants turcs actuels, dont les ambitions ne sont guère modestes et qui visent clairement à avancer les pions de la Turquie non seulement en direction de l’Union Européenne mais aussi et surtout en direction des Balkans. Lorsque le ministre turc des affaires étrangères déclare son opinion et dit urbi et orbi qu’une nouvelle domination ottomane dans les Balkans profiterait à la région et que, simultanément, les minorités musulmanes balkaniques croissent en nombre, on peut dire, sans risque d’exagérer, que l’islam, sous la houlette turque, est en train de gagner du terrain dans les Balkans. D’où, il nous paraît légitime de poser la question : quelles sont les raisons qui font que ce soient justement les Balkans qui posent un problème récurrent en Europe et pour l’Europe ? Les problèmes n’ont pas seulement émergé après la seconde guerre mondiale car les turbulences ethniques et politiques agitaient depuis longtemps déjà la région, qui accumulait les difficultés. Les racines de la situation actuelle, pour laquelle il n’y a pratiquement aucune solution en vue sur la scène politique internationale, datent d’il y a quelques décennies. Il faut en chercher les prémisses dans les événements qui ont immédiatement suivi la fin de la dernière guerre mondiale : les pays des Balkans ont été « libérés » de manière atypique ; ils n’ont pas été libérés par les armées de l’un des grands vainqueurs mais se sont en quelque sorte « auto-libérés », par l’intermédiaire des mouvements de partisans de Josip Broz, dit « Tito », en Yougoslavie, et d’Enver Hoxha, en Albanie. Tito, qui avait du génie politique, qui était un stratège rusé, a réussit à consolider son pouvoir dans les Balkans en maintenant un certain équilibre ethno-religieux et en imposant un socialisme paternaliste, tout en se proclamant l’adepte d’une solidarité internationale avec les pays non alignés.

 

La Yougoslavie s’est effondrée après la fin du titisme et beaucoup de sang a coulé, alors que le reste de l’Europe centrale et orientale se transformait pacifiquement dans les années 90 du 20ème siècle, tandis que la question allemande trouvait sa solution dans une réunification pacifique.

 

Il y avait donc, après le communisme, une diversité religieuse et ethnique dans les Balkans, ce qui invitait les nations occidentales, elles-mêmes fort diversifiées dans leurs composantes, à se choisir des partenaires dans le processus d’intégration à l’UE et aux autres instances européennes. Les affinités électives, nées de l’histoire, entre peuples d’Europe centrale et peuples d’Europe orientale, avaient aussi des connotations religieuses : l’Allemagne et l’Autriche se sentaient plus proches de la Croatie ; la France et la Grande-Bretagne semblaient privilégier la Serbie. Les Bosniaques musulmans ont pu et peuvent toujours compter sur le soutien de la Turquie et des pays arabes, même si l’Autriche jouit en Bosnie d’un capital historique positif.

 

La crise balkanique, qui s’éternise, a montré que l’Europe eurocratique est incapable de faire la paix dans son environnement immédiat, ce qui a pour corollaire gênant de démontrer que les Etats-Unis sont « irremplaçables ».

 

Le Traité de paix de Dayton est considéré comme une sorte d’armistice ethno-religieux orchestré par les Etats-Unis, qui, à l’époque, s’étaient enthousiasmés pour le livre de Samuel Huntington, « The Clash of Civilizations » (« Le choc des civilisations »). Ce traité donne, d’une part, l’impression illusoire d’être systématique, d’avoir bétonné la séparation entre les ennemis irréductibles de la région, et, d’autre part, d’avoir voulu maintenir l’islam local sous contrôle. Ainsi, on a cru que la Fédération croato-musulmane en Bosnie-Herzégovine était une structure bien conçue et inévitable, où les musulmans allaient être placés sous le contrôle de catholiques croates intransigeants.

 

L’avenir n’a pas été aussi simple : la diplomatie internationale a commis bon nombre de bourdes depuis 2001. Ainsi, les Croates de Bosnie ont été considérablement affaiblis, au point de ne plus représenter ce qu’ils représentaient auparavant ; ensuite, la création de nouveaux Etats, comme le Monténégro et le Kosovo, qui sont tous deux des Etats à majorité musulmane réelle ou potentielle, constitue un nouvel élément contribuant à l’affaiblissement général des entités politiques non musulmanes de la région. La situation dans les Balkans n’a pas trouvé de solution et c’est là une invitation aux Turcs à restaurer les structures de feu l’Empire ottoman, puisque l’UE n’a ni stratégie ni projet pour la région et ses membres agissent de manière désordonnée et contradictoire. D’où il ne reste que deux facteurs d’ordre possibles dans les Balkans : d’une part, un islam promu par la Turquie et, d’autre part, une orthodoxie slave en phase de réorganisation. Reste à savoir si ces deux facteurs en lice se heurteront ou trouveront entre eux des intérêts convergents.

 

Force est de constater que seules des structures de domination très expérimentées, comme le furent celles des Ottomans ou des Habsbourg d’Autriche, ont pu gérer le paysage politique très fragmenté de l’Europe du Sud-Est. Tito a réussi, lui aussi, parce son idéologie communiste avait des allures impériales et que sa façon de procéder avait quelque chose de monarchique. L’UE, malgré tous ses efforts, pourra-t-elle obtenir des résultats ? Rien n’est moins sûr.

 

On peut observer très nettement une forte croissance de la population dans les régions traditionnellement habitées par des Musulmans, ce qui fait qu’aujourd’hui la Bosnie-Herzégovine, pour la première fois depuis plusieurs siècles d’histoire, possède désormais une majorité absolue musulmane. On n’en est pas encore vraiment conscient car le dernier recensement complet date de 1991. Que les Musulmans soient majoritaires maintenant ne fait toutefois aucun doute, vu les données crédibles qui sont avancées pour étayer ce fait. Le Monténégro est un autre Etat sur le point de devenir majoritairement musulman. Au Kosovo, ce sont les clivages religieux qui ont entrainé la guerre interethnique et c’est l’islam qui en est sorti vainqueur sans aucun doute possible. La Macédoine, elle aussi, a une population musulmane qui fait le tiers du total démographique du pays. Autre indicateur qu’il convient de remarquer : ce n’est pas qu’en Albanie que l’on rêve d’une Grande Albanie, mais aussi au Kosovo, où, pour atténuer l’effet négatif que pourrait avoir tout discours grand-albanais sur les Européens eurocratisés, on parle souvent d’ « Albanie naturelle ». Or tout Etat grand-albanais serait à domination musulmane et s’insèrerait parfaitement dans les plans d’hégémonie turque, de facture néo-ottomane.

 

Friedrich-Wilhelm MOEWE.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ). 

mardi, 21 décembre 2010

Réflexions éparses à la suite de l'excursion en Israël de certains "nationaux", "populistes" ou "identitaires" européens

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Réflexions éparses à la suite de l’excursion en Israël de certains « nationaux », « populistes » ou « identitaires » européens

Entretien avec Dimitri Severens

Q. : Dimitri Severens, vous participez depuis quelques années déjà aux travaux de l’école des cadres de « Synergies Européennes » dans les espaces régionaux wallon, flamand et bruxellois. Bon nombre de vos fréquentations vous bombardent de questions depuis quelques jours sur la position que vous prendrez personnellement face à ce voyage de « populistes » européens en Israël récemment, compte tenu aussi que vous avez co-organisé une série de causeries sur l’idéologie sioniste proprement dite, sur les origines peu connues du sionisme juif, sur le phénomène du post-sionisme dans l’historiographie israélienne contemporaine et, notamment, sur l’ouvrage de Shlomo Sand, intitulé « Comment fut inventé le peuple juif ? » ; vous avez également participé à des débats controversés, avec vos amis, sur le dernier livre de Guillaume Faye, « La nouvelle question juive ». Comment réagissez-vous à la donne nouvelle, à ce coup de théâtre, que constitue l’expédition des populistes sur la planète « Sion » ?

R. : Passionnés de géopolitique depuis les premières manifestations de nos cercles, les questions du Proche et du Moyen Orient nous interpellent continuellement : c’est évidemment là que « cela se passe », dans une zone-clef de la stratégie mondiale, qui est telle depuis des millénaires : Assyriens, Babyloniens, Perses et Romains, Byzantins et Sassanides, Ottomans et Séfévides s’y sont affrontés, sans compter les querelles entre tribus sémitiques et sectes religieuses qui ont toutes contribués à faire bouillonner ce chaudron, toujours prêt à exploser. Tout travail métapolitique ou géopolitique ne peut faire l’impasse sur les événements de cette région du monde. Mais force est de constater que ces questions de politique internationale, même si elles sont cruciales sur les plans historique et international, n’intéressent pas l’électeur autochtone moyen, incapable d’indiquer sur une carte muette les lieux où se déroulent les tragédies de cette aire de turbulences. Seuls ceux qui sont issus de la diaspora juive ou d’une immigration quelconque venue du monde arabo-musulman sont obnubilés par les événements de Palestine, commentés en priorité par une chaine comme Al-Jazeera, visible sur tous les écrans des salons de thé ou des baraques à pittas fréquentés par nos immigrés arabophones. Les autres, les Européens de souche, les autochtones ou ceux qui sont venus jadis d’Italie ou d’Espagne, s’en moquent comme de leur première culotte. Venir parler à nos concitoyens du Hamas ou du Likoud, d’intégrisme juif ou musulman, ne suscite que bâillements et gestes d’agacement. Par conséquent, nous avons affaire là à des questions qui n’intéressent aucune fraction de l’électorat habituel des formations dites « populistes » ou d’  « extrême droite ». C’est kif-kif bourricot pour l’électorat socialiste de base, soit dit en passant. Le salarié qui vote socialiste est totalement indifférent au sort des Palestiniens ou des colons sionistes. Si son parti soutient les uns ou les autres, il n’en a cure : c’est, pour l’encarté de base, une préoccupation d’intellos en mal d’exotisme, qui aiment se faire mousser avec des histoires bizarres auquel personne ne comprend rien.

Les problèmes concrets de la vie quotidienne hic et nunc

Ce qui intéresse l’électorat populaire, que ce soit celui des « volkspartijen » démocrates chrétiens ou sociaux démocrates ou celui des formations populistes, ce sont les problèmes concrets de la vie quotidienne hic et nunc. Aujourd’hui, en Flandre  —je ne parle pas de la Wallonie car aucun parti wallon n’était présent lors de la tournée des « populistes » en Israël—  les problèmes à résoudre sont ceux que posent l’inflation et la stagnation réelle des salaires. Le niveau de vie recule à vue d’œil dans le pays et de manière dramatique ! Le prix des denrées alimentaires, de l’énergie, des tarifs des polices d’assurance, des cotisations sociales, celles des indépendants comme celles des salariés, ne cessent d’augmenter, ce qui a évidemment pour corollaires et la réduction constante du pouvoir d’achat réel et l’augmentation des loyers, des frais d’entretien des bâtiments, etc. Ensuite, dans ce contexte déjà fort inquiétant, la précarité de l’emploi pèse sur tous comme une épée de Damoclès : des fermetures comme Opel à Anvers précipitent du jour au lendemain des centaines de familles dans la précarité, dans l’assistanat social et les oblige à brader leur éventuel patrimoine immobilier ; cet expédient les rend parfois dépendants de l’offre en logements sociaux ce qui, en conséquence, déstabilise les finances communales, déjà fort mises à mal dans les grandes agglomérations comme Bruxelles, qui subissent le poids d’une immigration dont l’apport fiscal demeure très faible, et même extrêmement faible. Enfin, last but not least, les inondations de ces dernières semaines démontrent à l’envi que les pouvoirs publics, aux mains des partis traditionnels, n’ont pas mené une politique optimale en matière de gestion du territoire ; pire : les pouvoirs communaux, régentés par d’affreux petits satrapes locaux, ont vendu des terrains pourris, situés généralement dans l’ancien lit des rivières ; l’urbanisation des mœurs et des mentalités, la disparition quasi complète des réflexes naturalistes et paysans, empêchent la plupart de nos contemporains de juger correctement de la valeur d’un terrain à bâtir. De sordides spéculateurs tablent sur cette ignorance due au déracinement.

Pourquoi les populistes, qui se disent redresseurs de tort, n’ont-ils pas réagi en réclamant des poursuites contre les édiles véreux et les promoteurs immobiliers sans scrupules, initiative qui leur aurait permis de glaner beaucoup de voix ? La solution à ces maux réels, qui frappent cruellement les gens de chez nous, doit-elle être recherchée chez les idéologues et théologiens du Shas israélien ou chez un quelconque paramilitaire issu d’une branche ou d’une autre du Likoud de Menahem Begin? Je ne le crois pas. Les cogitations et les agitations de ces figures proche-orientales n’apporteront aucun début de solution aux crues récurrentes de la Dendre ou de la Senne, rivières à cheval sur la frontière linguistique qui traverse, d’Ouest en Est, le territoire de l’Etat belge. L’habitant juif ou arabe de la Palestine actuelle se fiche tout autant de la Dendre et de la Senne que les naturels de l’axe Soignies/Hal se soucient des nappes phréatiques du bassin du Jourdain.

Pour un populisme responsable 

On savait qu’en Flandre, un populisme irréaliste, celui de la LDD, avait durement étrillé les scores des libéraux et ceux d’une autre formation populiste, à relents nationalistes. La lecture du livre-manifeste, qu’avait sorti de presse Jean-Marie De Decker juste avant d’engranger son solide paquet de voix, m’a vraiment laissé sur ma faim : on n’y trouve rien d’autres que les rouspétances stériles des piliers de bistrot et les acrimonies des chauffards qui s’insurgent parce qu’on ne leur permet plus de rouler à 200 à l’heure dans les agglomérations et aux abords des écoles. De Decker n’a fait qu’exploiter les pires travers égoïstes de notre peuple : mon bide, ma bière et ma toto. Il est temps qu’émerge un populisme responsable, prêt à affronter les vrais problèmes de la population, sans aller ce mêler de conflits exotiques, si complexes que seuls des spécialistes en relations internationales peuvent nous les expliquer, et sans sanctifier politiquement les paroles vindicatives des alcolos et des chauffards : tel est le défi à relever aujourd’hui, en toute urgence.

Pour qu’il y ait un populisme responsable, il faut que celui-ci abandonne toute fascination pour le mirage du néo-libéralisme : fabriquer, à la mode berlusconienne, une « Forza Flandria » avec les résidus du parti (néo)libéral de Guy Verhofstadt, champion en son temps d’un thatchérisme pur et dur, n’était pas une bonne idée. Une « Forza Flandria » avec les déçus des « volkspartijen » démocrates chrétiens et socialistes, voire avec les désillusionnés de « Groen », aurait été une meilleure idée : dans tous les cas de figure, d’ailleurs, il y avait là une bien plus grande réserve de voix potentielles ! Il aurait fallu un simple petit raisonnement arithmétique ! L’électorat populaire se méfie des libéraux comme de la peste, à juste titre, mais est beaucoup moins farouche à l’égard des populistes, en dépit de tous les matraquages médiatiques. Un médecin saint-gillois, qui avait figuré jadis, dans les années 80, sur une liste dite d’ « extrême droite », avait été recruté par les libéraux deux ou trois campagnes électorales plus tard : sa clientèle populaire, qui votait traditionnellement socialiste, l’avait suivi dans ses « errements » d’extrême droite ; devenu candidat libéral, il s’est vu rétorquer : « Docteur, pour les fachos, on veut bien voter, parce que c’est vous, mais pour les patrons, jamais de la vie, même si c’est pour vous faire plaisir ». Ils ont revoté pour Charles Picqué, qui a ainsi débauché, mine de rien, des voix d’ « extrême droite » ...

Néo-libéralisme et triomphe de la cupidité

Cette idéologie néo-libérale, née dans le sillage de Thatcher et de Reagan à la fin des années 70 du siècle précédent, est justement à l’origine des maux qui frappent aujourd’hui notre population laborieuse. Le triomphe de la cupidité, qu’elle a provoqué, a précarisé les populations et laissé libre cours aux pompes aspirantes que sont les grosses boîtes qui nous vendent de la bouffe, le secteur bancaire qui ne nous distribue plus de dividendes raisonnables, le secteur énergétique qui gonfle les prix de manière éhontée et les réseaux mutuellistes dévoyés qui pillent et rançonnent la population en toute impunité. La pratique du néo-libéralisme, c’est de déconstruire les garde-fous. Une fois ceux-ci démantelés, c’est le règne du « tout est permis », mais uniquement pour ceux qui en ont les moyens ; tout le reste se casse la figure et la société entre en déliquescence à grande vitesse. On pouvait deviner ce glissement fatidique dès le départ mais on n’a rien écouté, on n’a pas potassé, comme nous l’avons fait dans notre coin avec Georges Robert et Ange Sampieru, les travaux du MAUSS et ceux des économistes de la « régulation », on a laissé pourrir la situation et on se retrouve dans une précarité fort dangereuse, sur fond d’une crise qui n’en finit pas de s’étioler depuis le fatidique automne 2008 et depuis les crises islandaise, grecque et portugaise. L’Espagne et la Belgique sont désormais dans le collimateur des spéculateurs, qui veulent s’en mettre plein les poches, et qui obéiront aux injonctions déguisées de ceux qui entendent ruiner la zone euro et mettre hors jeu la monnaie européenne, au moment où Russes, Chinois, Indiens, Iraniens et Brésiliens souhaitent facturer leurs exportations de matières premières en euros. Quel discours tiennent les populistes en place contre ces dérives ou ces menaces ? Aucun ! Un contremaître dans un kibboutz de Cisjordanie leur apportera peut-être une solution qu’il leur dictera, tandis que la crosse de son M16 lui battra les fesses. Et si nos populistes s’étaient piqués d’être à « gauche », ils auraient peut-être été chercher de l’inspiration chez un harangueur de marché du Hamas. On patauge dans les apories.

L’objectif d’un parti populiste, dans une telle situation de crise, n’est pas de participer, répétons-le, à des débats médiatiques sur le Proche ou le Moyen Orient, mais de viser une seule et grande politique de défense du peuple : elle se concrétiserait dans une volonté clairement affirmée de maintenir les moyens financiers entre les mains de la population elle-même, plus exactement des familles qui la composent et sont les garantes de leur avenir. Toute saine politique devrait viser à résoudre en priorité ces problèmes-là et non pas à aller disserter sur les clivages idéologiques ou religieux qui opposent fractions et sectes chez des peuples exotiques qui n’ont nullement les mêmes traditions politiques que nous ni a fortiori la même histoire, qui ne vivent pas sur notre territoire et n’ont pas à en gérer les atouts et les inconvénients. Maintenir le pouvoir d’achat de nos familles et l’intégrité de nos patrimoines familiaux, aussi modestes soient-ils et surtout s’ils sont modestes, c’est bloquer, par des actes de volontarisme politique, les flux inacceptables qui partent de l’escarcelle de nos familles vers des instances privées, publiques ou semi-publiques qui fonctionnent, je l’ai déjà dit mais je le répète, comme des pompes aspirantes qui absorbent goulument nos héritages, nos épargnes, nos salaires et nos rentes.

Entreprises spoliatrices et nécessaire impôt de solidarité

Une saine politique populiste serait de contraindre les chaines de supermarchés à garder des prix aussi bas que possibles ou à compenser leurs bénéfices énormes par un impôt équilibrant à lever, non seulement sur leurs bénéfices, mais aussi sur les salaires assez plantureux de leur personnel : le faux socialisme nous dit que la caissière du supermarché ou le manœuvre qui y charge ou décharge les camions est un travailleur comme les autres. Non. C’est le ou la complice d’une vaste association de malfaiteurs, car c’est un méfait de spéculer sur les denrées alimentaires ou les biens de première nécessité. Ce faux travailleur, qui n’est « travailleur » que pour les faux socialistes, doit être tenu de verser un impôt de solidarité au bénéfice final de ceux que l’existence de son entreprise spoliatrice contraint à la précarité, parce qu’elle a ruiné le petit commerce de proximité ou parce qu’après avoir fait du dumping sur les denrées alimentaires, elle hausse les prix de manière éhontée et vertigineuse. De même, certaines entreprises néfastes, qui ont pullulé grâce au néo-libéralisme, comme les compagnies de téléphonie ou de télécommunications qui ont pompé des fortunes en vendant des cartes pour portables, c’est-à-dire du vent, ou des téléphones qui émettent toutes sortes de sonneries farfelues, donc des gadgets inutiles, doivent être mises au pas. C’est là l’une des pires escroqueries du siècle : il est normal que le cadre d’une telle entreprise paie un lourd impôt de solidarité. Mais le cadre ne doit pas être le seul à devoir payer : le technicien de surface qui fait briller les carrelages du quartier général d’une telle entreprise fait partie de la « bande » malfaisante. Lui aussi doit payer un impôt de solidarité pour son homologue qui travaille dans une entreprise utile et honnête et doit se contenter d’un salaire minable, véritable portion congrue.

Car il est temps de faire la distinction entre, d’une part, une entreprise utile à la société et dont les objectifs, même commerciaux, sont honnêtes, et, d’autre part, les entreprises nuisibles, néfastes et inutiles. Les critères ne doivent pas être économiques, car, s’ils le sont, ils mènent paradoxalement à une « mauvaise économie » : les critères pour faire la distinction entre bonnes et mauvaises entreprises doivent être éthiques, décidés par une commission éthique, formée par des philosophes ou des philologues. C’est une nécessité car laisser l’économie aux mains des économistes libéraux, c’est précipiter la société dans le « tout-économique », faire triompher la cupidité (Joseph E. Stiglitz), et donc créer et bétonner une « cacocratie », un pouvoir détenu par les mauvaises instances, par tout ce qui est mauvais au sein d’un peuple. Le secteur de l’énergie, qui est en train de ruiner nos familles, doit être directement visé, d’autant plus qu’il est aux mains d’un pays étranger qui ne nous a jamais voulu du bien. Un véritable pouvoir politique devrait exiger l’égalité de tous les clients du secteur énergétique dans l’ensemble de l’espace européen : pas question que nos familles paient leur énergie plus cher que celles d’un pays voisin. Une bonne tâche pour les populistes : appeler au boycott des factures énergétiques, toutes factures léonines, et organiser des manifestations devant leurs bâtiments et devant l’ambassade du pays qui se sucre sur notre dos par leur intermédiaire. Est-il aussi licite de constater que ce même secteur énergétique a acheté bon nombre de bâtiments abritant des ministères, comme le ministère de la justice par exemple, et fait chauffer ces bureaux au maximum, hiver comme été, y rendant l’atmosphère irrespirable ? Et pompe doublement le fric de ce ministère, qui pourrait l’affecter à des tâches plus urgentes ou à mieux payer son personnel, en imposant et un loyer et une facture énergétique astronomique ? Ne devrait-on pas dénoncer cette situation et réclamer l’expropriation de ces immeubles au bénéfice de la collectivité ?  Ce serait à coup sûr politiquement plus rentable que d’aller se balader en « Terre sainte » (et sans esprit de Croisade, qui plus est…).

La question de l’immigration

La question de l’immigration, qui a fait les choux gras de certains populismes, est certes une question réelle, qui appelle une solution rationnelle. Mais elle n’a jamais été abordée dans les termes qu’il fallait. D’abord, on en a fait une question de race. C’était probablement vrai mais chaque antiraciste spontané ou stipendié, et même chaque « raciste », du plus modéré au plus rabique, pouvait trouver son Poltomaltèque, son Syldave ou son M’Atuvu qui ne correspondait pas aux clichés que l’on véhiculait sur son ethnie. Après avoir remisé au placard les arguments sur la race, à la suite d’un fameux procès tenu en 2004, on a sorti un nouveau lapin blanc du chapeau du prestidigitateur populiste, en l’occurrence l’ennemi religieux. On a cru échapper ainsi à l’accusation de « racisme », quitte à accepter celle d’ « islamophobe ». En faisant joujou avec ce bâton d’explosif, on a fait, une fois de plus, dans l’argumentation de Prisunic, dans la mesure où l’on balayait bon nombre de réflexes religieux traditionnels inscrits dans nos propres références religieuses, des réflexes qu’il aurait fallu raviver et non refouler, et on s’alignait alors sur les pires idioties et platitudes de l’idéologie illuministe et anticléricale. Pour étayer un discours antireligieux, quel qu’il soit, on est quasiment contraint d’adopter une terminologie fallacieuse, où toute attitude traditionnelle, sur le plan moral, est décriée comme « moyenâgeuse ». Pour l’illuministe des 18ème et 19ème siècles, pour les incarnations de la figure romanesque de Monsieur Homais, le « moyen âge » est une ère d’obscurantisme : non, chez nous, cette époque est une époque de gloire et de prospérité, de liberté politique et de rayonnement culturel. Surtout en Flandre : et voilà que les populistes du plat pays singent les disciples les plus bornés de Voltaire et vitupèrent une époque historique où la Flandre, justement, a brillé de mille feux ! Pire : en embrayant sur les poncifs éculés des « Lumières », ces populistes flamands nient les fondements mêmes de leur idéologie populiste qui, comme toute les idéologies populistes des pays de langues germaniques ou slaves, est née en réaction contre l’idéologie des « Lumières » et de la révolution française.

Zbigniew Brzezinski ? Bernard Lewis ? Connais pas !

Ensuite, en optant pour des argumentaires antireligieux en matière d’immigration, on créait l’ambigüité en cherchant derechef l’alliance avec l’ennemi géopolitique de l’Europe, c’est-à-dire les Etats-Unis, pour combattre un phénomène qui n’est rien d’autre qu’un golem fabriqué par les Américains eux-mêmes : en effet, les analyses les plus fines de l’échiquier mondial concordent toutes pour dire que le fondamentalisme islamiste a été créé de toutes pièces par les services américains, dans un premier temps, pour combattre les Soviétiques en Afghanistan, puis, dans un second temps, pour semer un désordre permanent sur la masse continentale eurasiatique. Les « populistes » semblent ne jamais avoir entendu parler du stratégiste en chef Zbigniew Brzezinski, inventeur de cette alliance islamo-yankee. Alors que ses écrits constituent l’ABC de ce qu’il faut savoir en matière de politique internationale depuis quatre décennies au moins. Ensuite, n’importe quel étudiant de première année en relations internationales sait que les désordre entre la Méditerranée et le Golfe Persique ont été orchestrés depuis belle lurette, et pour durer le plus longtemps possible, par les services d’Outre Atlantique afin que cette région demeure dans le marasme permanent et n’utilise pas ses ressources propres, minérales et agricoles, pour assurer son envol. Les populistes n’ont donc jamais entendu parler de Brzezinski. Ils n’ont pas davantage entendu parler de l’orientaliste Bernard Lewis, principal organisateur de la balkanisation du Proche Orient. Participer à cette balkanisation en soutenant l’une ou l’autre faction, c’est dès lors perdre son temps. Car c’est à Londres et à Washington que les règles de cette balkanisation ont été et sont fixées : les mouvements populistes européens n’ont aucune possibilité, actuellement, d’en modifier le contenu. Aller quémander l’alliance américaine ou israélienne pour combattre le golem américain au Proche Orient ou dans les diasporas arabo-musulmanes d’Europe est par conséquent une formidable incongruité. Les services américains et même l’Etat d’Israël ont besoin de ce fondamentalisme pour 1) maintenir l’aire géopolitique du Machrek arabe dans un état de turbulence permanente et 2) pour maintenir intacte en Israël la mentalité obsidionale, qui est le ciment de l’Etat, sans lequel bon nombre d’Israéliens reviendraient en Europe ou choisiraient d’autres lieux de résidence : l’Australie, le Canada ou les Etats-Unis, enfin, 3) les tentatives de manipuler les masses juvéniles d’origine africaine ou arabo-musulmane dans les banlieues françaises notamment ou de manipuler la diaspora turque d’Allemagne fait bel et bien partie des stratégies tenues en réserve par le Pentagone pour faire danser l’Europe des politicards falots au son de ses flûtes. Le pataquès que commentent les populistes pèlerins d’aujourd’hui, c’est d’appeler le pyromane potentiel pour éteindre l’incendie qu’il a bien l’intention d’allumer !   

Il n’y a que deux façons, pour un populisme raisonnable, d’agir sur la scène politique intérieure et extérieure. Sur le plan intérieur, il faut lutter dans le pays contre les féodalités spoliatrices pour maintenir les patrimoines familiaux, seuls garants de l’identité sur le long terme. Sur le plan extérieur, il faut lutter sur la scène internationale pour affirmer l’Europe sans se mêler des querelles incompréhensibles, entre exotiques de tous poils et de toutes lubies, des querelles attisées hier par les services britanniques, aujourd’hui par leurs homologues américains.

Mafias et criminalités diasporiques

Et l’immigration dans tout cela, me direz-vous ? Faut-il ressortir du placard les arguments « racistes » (ou supposés tels), au risque de subir à nouveau les foudres alimentées par des lois scélérates ? Ou faut-il taper sur le clou de la différence religieuse pour aboutir aux mêmes apories que nos populistes en goguette sur les rives du Jourdain ? Ou, plus simplement, combattre non pas l’immigration mais toutes les formes, anciennes et nouvelles de criminalité organisée qui frappent l’Europe et s’immiscent insidieusement dans toutes les fibres de ses sociétés ? Lutter contre les criminalités diasporiques et les mafias, c’est tout bonnement s’aligner sur des recommandations précises formulées par l’UNESCO ou l’ONU : l’adversaire des populistes jetterait alors le masque. Il ne serait plus le démocrate autoproclamé qu’il prétend être avec tant d’emphase mais le cache-sexe de trafics hideux ; son discours se révèlerait pour ce qu’il est : un tissu de boniments et d’hypocrisies. On ne combattrait pas des hommes pour ce qu’ils sont ontologiquement au fond de leur être, c’est à dire de leur humanité car toute forme d’humanité est l’expression d’une race ou d’une autre. Il n’y a pas d’humanité non « racée » : Mobutu le savait bien, dès le début des années 70, quand il a lancé sa politique dite d’ « authenticité ». On ne combattrait pas non plus des hommes qui expriment la pulsion la plus humaine qui soit et qui est de nature religieuse ou métaphysique. On combattrait des personnes mal intentionnées qui ont chaviré dans la vénalité, dans l’illégalité, dans le crime et l’abjection. Et, avec l’agence Frontex, on fermerait les frontières à ces flux indésirables de comportements déviants : nous ne disons rien de plus, au fond, que les eurocrates qui viennent d’envoyer des gendarmes issus de toute l’Europe pour garder la frontière gréco-turque à hauteur d’Andrinople (Edirne). Reste à dire que ce ne sera pas une poignée de gendarmes, aussi bien formés soient-ils, qui arrêteront les flux ininterrompus qui se déversent dans le territoire de l’UE au départ de la Turquie. Ce sont des corps d’armée qu’il faut envoyer en Thrace, côté bulgare et côté grec, pour étanchéiser définitivement cette frontière poreuse et par là même dangereuse pour notre avenir, pour notre substance européenne.

Q. : Severens, vous critiquez les populistes qui s’en vont à Tel Aviv et à Jérusalem dans l’espoir d’obtenir Yahvé sait quelle bénédiction (au risquent d’encourir la malédiction d’Allah…) mais votre groupe a toujours soutenu Faye contre ses détracteurs, qu’ils appartiennent à l’établissement ou aux cénacles néodroitistes dont il est lui-même issu, même après la sortie de presse de « la nouvelle question juive » et vous avez vous-mêmes planché à qui mieux mieux sur la question sioniste… je ne suis pas entièrement satisfait de vos réponses. Toutes les ambigüités ne sont pas aplanies. Pouvez-vous me dire, si oui ou non, Faye a ouvert la voie dans laquelle viennent de s’engouffrer les populistes européens qui ont choisi de faire le pèlerinage à Jérusalem ? Pouvez-vous me dire si vos études sur le sionisme ont, elles aussi, contribué à cette étonnante évolution politique des populistes ?

R. : Pour ce qui concerne Faye, Robert Steuckers s’était fait notre porte-paroles lors d’un entretien qu’il avait accordé au journaliste allemand Andreas Thierry (version française ; cf. http://vouloir.hautetfort.com/ & http://euro-synergies.hautetfort.com/ ; sur ce dernier site figure également la version allemande  de cet entretien). En substance, Steuckers avait rappelé quelques éléments de la genèse du livre « La nouvelle question juive », notamment l’influence déterminante du géopolitologue français Alexandre Del Valle. Guillaume Faye avait été échaudé et écœuré par le pro-palestinisme caricatural qu’il avait trouvé dans certains milieux non conformistes français et plus précisément chez un néo-droitiste particulièrement bouffon, Arnaud Guyot-Jeannin, un factotum d’Alain de Benoist qui aime se pavaner à Télé-Téhéran pour y tenir des discours antisionistes ultra-simplifiés qui ne procèdent pas d’une analyse sérieuse de la situation mais qui relèvent d’affects psycho-pathologiques dérisoires. Tout pro-palestinisme de cet acabit est une voie de garage et une impasse, tout comme le néo-sionisme qu’amorcent certains populistes en sera une autre. Quant à nos analyses sur le sionisme, non encore publiées car la série de nos séminaires n’est pas encore close, elles sont tributaires du « post-sionisme », un mouvement critique, né en Israël même, et dont la qualité intellectuelle est indéniable. Ce post-sionisme, s’il n’est pas à proprement parlé un antisionisme, n’autorise aucun discours sioniste caricatural et permet de jeter un regard réellement critique sur les événements du Proche Orient, sans nier les droits des Palestiniens.

Le fondamentalisme islamiste : un golem américain

Faye, lors de la confection de son fameux livre sur la nouvelle question juive, était donc tributaire des analyses d’Alexandre Del Valle. Celui-ci avait commencé par démontrer avec brio, dans les années 90, que les fondamentalistes islamistes étaient une création de l’impérialisme américain. Logiquement, le raisonnement aurait dû demeurer le suivant : si le fondamentalisme islamiste est une création, c’est la puissance qui forge ce fondamentalisme, pour étayer ses stratégies, qui doit demeurer l’adversaire principal de tout ceux qui s’opposent à ce fondamentalisme parce qu’ils le trouvent dangereux. Si la puissance qui crée un danger précis, définissable, et l’alimente, cesse ensuite de le soutenir et de l’alimenter, le danger cesse ipso facto d’être un danger, sans pour autant que la puissance qui a fabriqué le golem avant de l’abandonner, elle, cesse d’en être un. Del Valle n’en est pas resté à ce raisonnement : rapidement, à ses yeux, le danger forgé par la puissance américaine a pris plus d’ampleur que cette dernière. Alors Del Valle a cherché des alliés parmi les autres ennemis de ce fondamentalisme, en l’occurrence dans les milieux de la droite sioniste. Une droite sioniste qui, par ailleurs, défend bec et ongles l’Etat sioniste hébreu, une autre création ou un autre allié de la puissance qui a décidé, un jour, de faire surgir sur l’échiquier eurasien et proche oriental le fondamentalisme islamique. Une droite sioniste qui, en défendant l’Etat d’Israël, accomplit bravement, comme un féal serviteur, la tâche qu’assignaient les Britanniques, dès 1839 (!), à un hypothétique Etat hébreu ou « foyer juif » ; c’est-à-dire le rôle géopolitique qui lui a été dévolu dès les années 50 du 20ème siècle : à l’aube de la quatrième décennie du 19ème siècle, les Anglais voulaient créer un verrou entre l’Anatolie turque et l’Egypte de Mehmet Ali, entre la partie anatolienne de l’Empire ottoman et le khédivat d’Egypte, plus tard, après 1945, entre la Syrie baathiste et l’Egypte nassérienne.

Et si Washington renouait subitement avec l’Iran ?

Une droite sioniste, ennemie du Fatah nationaliste palestinien, qui a quelque fois soutenu le Hamas pour déforcer Arafat et qui se retourne contre ce même Hamas, une fois le Fatah affaibli. Rien n’est simple, rien n’est réductible à un schéma binaire dans l’imbroglio du Levant. Del Valle, Faye et les populistes, qui firent récemment une tournée en Israël, commettent tous une lourde erreur d’analyse : ils schématisent sommairement une réalité d’une extraordinaire complexité, où ni l’Europe ni une puissance européenne qui compte, pas même la Russie, n’y maîtrise la situation ou y dispose de relais susceptibles de modifier à terme la donne. Seul l’Iran est capable de mobiliser des minorités chiites actives dans les montagnes du Liban. La France n’a plus de relais dans la région : elle y a été éliminée, en fait depuis l’invasion anglo-gaulliste de la Syrie et du Liban en avril 1941. L’Allemagne et l’Italie n’ont jamais pu y ancrer des relais. La Russie y avait pour allié le nationalisme arabe de mouture nassérienne, totalement déforcé depuis l’élimination de Saddam Hussein. La Belgique qui entendait régner sur Jérusalem, en souvenir des Croisades, n’a évidemment rien obtenu de son tuteur britannique dans les années 1945-50. Seule la Turquie, aujourd’hui inspirée par le néo-ottomanisme de Davutoglu, est en mesure de marquer des points dans cette région, plus encore que l’Iran soutenant les chiites libanais. Mais, à coup sûr, sa politique n’y sera pas pro-européenne : elle obéira sans jamais faillir à des critères géopolitiques turcs ou musulmans. Mieux : on sait que les Américains, aujourd’hui ennemis officiels de l’Iran, passent à ce titre pour des ennemis du fondamentalisme islamiste chiite. Pour les populistes en goguette sur les plages de Tel Aviv (où l’on aime danser au son du rock le plus métallique…), il n’y a jamais eu lieu de faire la distinction ente fondamentalistes chiites et sunnites : pour eux, c’est du pareil au même. Or des sources sûres nous avaient appris que lors des opérations au Sud-Liban contre le Hizbollah et lors du nettoyage israélien de Gaza, Egyptiens et Saoudiens avaient secrètement béni les soldats de Tsahal parce qu’ils liquidaient des suppôts des Frères Musulmans ou des complices des chiites perses. L’affaire ne s’expliquait pas par un schéma noir/blanc. Et voilà que l’affaire de « Wikileaks » démontre que les pires ennemis des chiites iraniens sont les Saoudiens sunnites et wahhabites qui incitent les Américains (et les Israéliens) à frapper l’Iran le plus vite possible, avant qu’il ne puisse réellement amorcer son programme nucléaire… Nos populistes vont-ils devenir de bons wahhabites pro-américains et secrètement pro-israéliens contre les méchants chiites iraniens et leurs complices du Hizbollah ? Pas si simple… On apprend aussi que l’Arabie saoudite, qui perd confiance en ses protecteurs américains, veut devenir une puissance nucléaire pour contrer les Perses chiites, tout comme le Pakistan avait voulu devenir une puissance nucléaire pour contrer son ennemi héréditaire indien. Cette perspective n’enchante pas Washington. Et des voix, comme celles de Robert Baer (ex-CIA), de Tritti Parsi ou de Barbara Slavin, s’élèvent depuis un an ou deux pour réclamer une révision de la politique américaine dans la région : pourquoi, demandent ces voix, ne pas reconstituer l’alliance irano-américaine, en laissant tomber les Saoudiens, dont le pétrole pourrait être aisément remplacé par celui d’Iran et celui de l’Afrique de l’Ouest, nouveau fournisseur de brut pour les Etats-Unis ? Quand Washington redeviendra pro-iranien, ce qui est une éventualité, que vont faire nos populistes ? Demander l’avis d’un ponte du Shas ? Qui les enverra paître car alors, on peut en être sûr, il y aura subitement des fondamentalistes juifs pour chanter l’antique alliance de Cyrus le Grand et des Hébreux contre les Babyloniens, tandis que le Hamas  et le Hizbollah disparaîtront, faute de soutiens extérieurs… Se mêler maladroitement, avec la bonne foi de l’ignorantin, des affaires du Proche et du Moyen Orient amène à devenir, très sûrement, un cocu magnifique. Il y en a qui, après leur retour de Palestine, se retrouveront tôt ou tard avec une véritable ramure de cervidé.

Faye ou Wilders, Fallaci, Laqueur ?  

Dans sa réponse à Andreas Thierry, Steuckers rappelait aussi le contexte familial dans lequel le travail de Del Valle avait émergé, c’est-à-dire le milieu militant pied-noir d’Algérie, de l’OAS, alliée aux pieds-noirs de confession israélite : cette alchimie n’est évidemment pas transposable ailleurs en Europe. Thierry, dans l’une de ses questions, accusait implicitement Faye d’avoir alimenté les tendances pro-israéliennes à l’œuvre dans diverses formations populistes allemandes, néerlandaises ou flamandes. Steuckers estimait, et j’estime avec lui, que c’est à tort, et que c’est toujours à tort, un an après, même dans le contexte de cette visite de nationaux-populistes à l’Etat d’Israël, qui soulève tant de vaguelettes dans le landernau. L’ouvrage de Faye n’a jamais été traduit, ni en entier ni en partie. L’initiative populiste n’a dès lors nullement été impulsée par Faye mais bien par le succès de Geert Wilders, qui a toujours tablé sur une hostilité au fondamentalisme islamique (voire à l’islam tout court), en s’alignant sur les positions américaines les plus radicales en la matière (et en prenant, pour cela, le coup de patte d’un éditorialiste de la revue britannique «The Economist ») et sur les cénacles sionistes les plus enragés. Autres sources d’inspiration plus plausibles que le livre de Faye : les écrits d’Oriana Fallaci et l’ouvrage de Walter Laqueur (« Die letzten Tage von Europa – Ein Kontinent verändert sein Gesicht »), où l’on trouve le fameux concept d’ « Eurabia ». Les populistes allemands et flamands, marginalisés par les boycotts et les « cordons sanitaires », jalousent le succès du Hollandais, souhaitent obtenir ses scores et aimeraient participer à des coalitions gouvernementales comme lui. D’où le désir fébrile de l’imiter. Et de sortir d’un isolement politique de longue date. Mais peut-on agir politiquement en imitant purement et simplement une personnalité issue d’un contexte politique foncièrement différent du sien ? La Flandre et la Hollande ont beau partager la même langue officielle, il n’en demeure pas moins que la matrice culturelle de la Flandre reste catholique ou post-catholique, tandis que celle de la Hollande demeure calviniste ou post-caliviniste, donc d’inspiration bibliste, et que ces deux substrats idéologico-religieux façonnent des mentalités différentes, qui ne sont pas transposables d’un contexte à l’autre. Il suffit d’avoir pratiqué Max Weber ou Werner Sombart pour le savoir.

Revenons au livre de Faye sur la nouvelle question juive. Nous lui reprochons de ne pas avoir abordé cette question en tenant compte des débats qui agitent Israël et la diaspora et qui sont d’un grand intérêt intellectuel (mais qui n’intéressent évidemment en rien nos concitoyens en tant qu’électeurs lambda). Ce débat tourne autour de ce qu’il convient désormais d’appeler le « post-sionisme ». Je renvoie à la conférence de Steuckers sur le livre de Shlomo Sand (http://euro-synergies.hautetfort.com/) et aux futurs textes que nous mettrons en ligne prochainement sur les questions sionistes et palestiniennes. Nous ne briguons pas les suffrages de nos concitoyens : nous sommes donc plus libres que les populistes excursionnistes au pays de l’ancien Royaume de Jérusalem de Godefroy de Bouillon. Nous pouvons nous permettre de consacrer de nombreuses heures et quelques études aux phénomènes qui agitent la planète loin de notre petite patrie. C’est d’ailleurs notre boulot de « métapolitologues ». Notre intérêt pour le Proche Orient ne date pas d’hier, vous vous en doutez bien. Benoit Ducarme avait recensé jadis le livre de l’historien israélien Colin Shindler sur l’histoire du mouvement sioniste de droite. Shindler avait étudié minutieusement l’itinéraire des militants sionistes, disciples de Vladimir Jabotinski, qui avaient abandonné les positions pro-britanniques de leur maître à penser pour entrer dans la clandestinité et fonder les groupes terroristes de l’Irgoun, du Lehi ou du « Stern Gang ». Nous avons décidé d’élargir notre recherche, d’aller au-delà des ouvrages de Sand et Shindler, de relire les travaux de Zeev Sternhell sur les origines du sionisme et de potasser ceux, plus critiques encore, de Benny Morris (notamment son excellente biographie de Glubb Pacha, commandant écossais de la garde royale transjordanienne en 1948) et d’Ilan Pappe sur la question palestinienne. Notons au passage que Zeev Sternhell a été molesté en son domicile par quelques nervis et qu’Ilan Pappe a été interdit de parole à Munich l’an passé. Il ne fait pas toujours bon d’être « post-sioniste ». Guillaume Faye, malheureusement, n’a pas consulté cette documentation du plus haut intérêt historique et culturel. Les populistes excursionnistes ne se sont pas davantage abreuvés à ces sources, n’ont pas bénéficié de ces lectures, rédigées en un langage clair et limpide, sans jargon inutile, disponibles en français ou en anglais.

Hourrah ! Faye a changé de sujet !

Mais qu’on se rassure, le bon camarade Faye a changé de sujet : pendant que les populistes perpétraient leurs tribulations sur la terre de Sion, il animait une émission de Radio Courtoisie sur la sexualité, en même tant que l’excellent Dr. Gérard Zwang, auteur du « Sexe de la femme » au début des années 70. Un livre sur la sexualité (machiste, hédoniste, truculente et à la hussarde) de notre bon vieux camarade Faye est actuellement sous presse, avec la bénédiction du grand sexologue Zwang : ce sera assurément plus passionnant à lire et à commenter que sa « nouvelle question juive ». Ouf ! Les choses entrent dans l’ordre : on retourne aux fondamentaux, au phallus et au callibistri (de rabelaisienne mémoire) ! 

Nous travaillons actuellement sur l’œuvre d’Arthur Koestler. Celle-ci, comme on le sait trop bien, a démontré avant tout le monde que le communisme ne pouvait déboucher que sur l’impasse et sur l’horreur. Après deux bonnes décennies consacrées à témoigner contre l’idéologie qu’il avait considérée d’abord comme le sel de sa jeunesse, Koestler s’est consacré à sa passion de toujours : les sciences. Il a dénoncé le réductionnisme et le ratomorphisme (la propension à vouloir formater les humains à la façon des rats de laboratoire). Cette approche des sciences, cette critique du réductionnisme et du ratomorphisme a considérablement influencé la « nouvelle droite » au début de sa trajectoire dans le « Paysage Intellectuel Français » (PIF). On oublie souvent l’histoire du jeune Koestler sioniste, qui fit trois séjours en Palestine : au début des années 20, dans les années 30 et à la fin des années 40. De ce sionisme vécu, Koestler a tiré un bilan négatif. De peuple polyglotte lié à l’histoire de l’Europe centrale, de l’Allemagne et de la Russie, les Juifs de Palestine, en s’imposant l’hébreu, langue nouvelle et artificielle, ont abandonné leurs atouts, leurs clefs d’accès à l’universalité et à l’Europe, pensait Koestler. Il prévoyait un solipsisme hébraïque sur le territoire d’Israël, une stérilisation des potentialités juives. Koestler avait ensuite réduit à néant le mythe sioniste en écrivant « La treizième tribu », qui démontrait que la plupart des juifs russes, polonais et roumains descendaient en fait des Khazars convertis au haut moyen âge et n’avaient aucune raison tangible de revendiquer l’ « alya », le retour à la terre de Sion, puisqu’aucun de leurs ancêtres véritables n’était vraiment issu de l’antique Judée romaine. Koestler est un classique de la littérature du 20ème siècle. Un classique apparemment oublié de Faye, qui combattit pourtant vigoureusement le réductionnisme, préalablement théorisé par Koestler dans « Le cheval dans la locomotive », et oublié des populistes aussi qui vont chercher de l’inspiration chez une fraction militante d’un peuple qui s’est auto-mutilée, pour se dégager définitivement de l’Europe et du monde, en s’inventant, dixit Shlomo Sand, des mythes bricolés sur le modèle romantique et non fondés dans les faits avérés de l’histoire. Les gesticulations populistes de ces dernières semaines sous le soleil de la Judée et de la Galilée rencontreront sans doute l’approbation d’une poignée de juifs allemands, belges ou autrichiens mais certainement pas de tous les ressortissants de la communauté israélite : en effet, les laïcs juifs de Bruxelles n’ont que faire de l’idéologie sioniste, c’est bien connu, comme d’ailleurs beaucoup de leurs homologues berlinois. Ils ont courageusement défendu les Palestiniens lors de la première intifada. La diaspora de notre pays n’est pas likoudiste ni a fortiori « shasiste » ou ne l’est que sur ses franges ou sur les franges de ses franges ; elle est, dans sa majorité, issue idéologiquement, comme l’était Koestler, des sociales démocraties centre-européennes et allemandes d’avant 1933, tout comme le noyau premier du travaillisme israélien d’ailleurs. Elle ne souhaite ni une likoudisation de la diaspora ni un basculement des médias dans le pro-palestinisme ni un accès des populistes au pouvoir ni une radicalisation des jeunes « Maroxellois » dans un sens fondamentaliste musulman ni un éclatement de la Belgique en deux ou trois nouvelles entités. Donc la gesticulation aura été inutile. Les populistes continueront à essuyer des fins de non recevoir. Et la majeure partie de la diaspora continuera tranquillement à voter pour les libéraux ou pour les socialistes (sauf, bien entendu, pour les islamo-socialistes de Philippe Moureaux).     

Q. : Et la Suisse, pays où viennent de se tenir deux referenda : l’un sur l’interdiction de construire des minarets, l’autre sur l’expulsion des criminels étrangers. Quels jugements posez-vous sur ces initiatives helvétiques ?

R. : D’abord il convient de rendre hommage aux institutions helvétiques, qui permettent de tenir compte de la diversité du peuplement de la confédération, une diversité qui n’est pas seulement linguistique mais aussi religieuse et régionale. Ces institutions sont généralement centrées sur le caractère propre d’un lieu géographiquement réduit, un lieu que l’on appelle le « canton ». Au niveau du canton comme à celui de la fédération, le peuple peut faire usage de l’instrument référendaire en décidant lui-même s’il y a lieu de le faire fonctionner ou non. Les referenda suisses ne sont pas décidés d’en haut, et imposés au peuple, mais émanent de pétitions populaires auxquelles les gouvernants ne peuvent se soustraire. Yvan Blot, dont on peut lire les textes sur http://www.polemia.com/, est celui qui, dans l’espace linguistique francophone, s’est révélé le meilleur défenseur de la démocratie de type suisse. Ami fidèle de Jean van der Taelen (1917-1996), l’un des co-fondateurs d’EROE (« Etudes, Recherches et Orientations Européennes »), Yvan Blot n’a jamais cessé de chanter les louanges des modes de fonctionnement véritablement démocratiques du Nord de l’Europe et de la zone alpine. Dans le même ordre d’idée, Steuckers, dans son exposé sur les travers de la partitocratie (cf. http://euro-synergies.hautetfort.com/ ), résumait les positions similaires de l’Espagnol Gonzalo Fernandez de la Mora, fondateur de la revue « Razon española », et de l’Italien Alessandro Campi, toutes dérivées d’une lecture attentive de Max Weber ou de Moshe Ostrogorsky. Force est de dire, aujourd’hui, avec Blot, que le système des votations référendaires en vigueur en Suisse est le seul modèle de démocratie valide et que ceux qui, en France ou en Belgique, se prétendent « démocrates », sans faire en sorte que les mêmes instruments référendaires soient introduits dans les règles constitutionnelles, sont effectivement des démocrates à faux nez, plus soucieux de commettre des escroqueries électorales que de défendre le peuple. L’instrument référendaire et le principe des votations dérivées d’actions pétitionnaires en Suisse servent à briser la logique purement parlementaire (et partitocratique) des décisions. Les partis sont des factions et aucun d’entre eux ne défend réellement les sentiments du peuple dans toute leur complexité et toutes leurs variantes. De même, l’addition de toutes les positions de tous les partis ne peut en aucun cas recouvrir l’ensemble des sentiments ancrés dans la mentalité du peuple. Pour que celle-ci s’exprime sans détours ni filtres inutiles, sur des grandes questions sociales, il faut le référendum, qui force les partis à s’aligner sur la volonté populaire. Sans referenda, ce sont au contraire les partis qui imposent des lignes de conduite au peuple, lignes de conduite souvent calquées sur des engouements idéologiques détachés du réel, s’autoproduisant en vase clos, à l’abri des turbulences réelles du monde. On doit évidemment constater que l’ensemble des partis, y compris nos populistes, se sont progressivement détachés du réel, en s’enfermant dans les petits jeux parlementaires et dans les compromissions, en s’adonnant à des joutes rhétoriques artificielles, qu’ils prennent petit à petit pour des réalités plus réelles que le réel, tout en oubliant le vrai réel. La situation est souvent navrante : quand on interpelle, sur un sujet ou un autre, un populiste élu, dans un parlement ou une assemblée régionale, avec un bon dossier bien ficelé sous le bras, bien réactualisé, il vous regarde généralement avec un air agacé et incrédule : il ne croit pas en la teneur de votre dossier, il ne croit plus à un monde en perpétuelle effervescence, il ne croit plus qu’au monde clos de son assemblée où ne se bousculent généralement plus que des histrions et des bas-de-plafond.

 L’affaire des minarets en Suisse

L’affaire des minarets a choqué les bonnes âmes habituées à raisonner non en termes de « realia » mais en  termes de « vœux pieux », de « blueprints ». Les mouvances écologiques ont lutté pour la préservation de la nature, et ce fut là une bonne chose ; elles oublient aussi, chez nous, qu’elles ont lutté pour la préservation des espaces urbains, pour mettre un terme à la construction effrénée et anarchique de tours de béton ou de clapiers hideux, qui défiguraient nos cités par leur gigantisme et leur irrespect des normes architecturales, des gabarits et des traditions urbanistiques. L’objectif des écolos, s’inscrivant dans le sillage de la révolte des étudiants en architecture de La Cambre, avait été de rendre les villes plus conviviales et de leur redonner cet aspect médiéval, non moderne. Les urbanistes se sont alors efforcés de préserver le caractère historique des quartiers ou de bâtir en tenant compte des héritages urbanistiques et des gabarits traditionnels. La Suisse possède dans ses traditions politiques des linéaments indéniables d’écologie : pour la préservation de ses paysages et de ses tissus urbains ou villageois. Or voilà qu’au nom des chimères immigrationnistes et intégrationnistes, on veut plaquer des éléments architecturaux exotiques et incongrus sur les paysages et les habitats helvétiques. Les gauches, qui ont professé l’écologisme à grands renforts de militantisme au cours de ces vingt ou trente dernières années, changent brusquement leur fusil d’épaule quand il s’agit de tolérer une agression particulièrement inesthétique à l’endroit des paysages ou des urbanismes au sein de la Confédération, une agression que l’on tolère parce qu’on a érigé l’immigration au rang de « vache sacrée », de fait de monde soustrait à toute critique rationnelle. Imposer des minarets, en lieu et place de clochers traditionnels, est évidemment une entorse à tous les principes urbanistiques inaugurés par les gauches écologistes au cours de ces trois dernières décennies. Seul un référendum pouvait trancher, puisque les partis, surtout ceux de gauche, étaient traversés par des courants contradictoires (où l’on était tout à la fois pour une écologie urbanistique traditionnelle ou contre elle, au bénéfice des minarets) : le peuple suisse a émis son avis. Les gouvernants doivent désormais le respecter.

Interculturalité confusionniste

La votation sur les minarets ouvre le débat sur la présence visible de l’islam sur le continent européen. En Belgique, on parle depuis quelques mois d’ « interculturalité », nouveau vocable jargonnant en vogue dans les milieux immigrationnistes et intégrationnistes, destiné à remplacer celui de « multiculturalisme », qui commence à lasser. Dans ce débat sur l’interculturalité, on a évoqué la possibilité de juxtaposer à côté des fêtes de la liturgie chrétienne les fêtes de la liturgie musulmane. Et d’accorder des congés à la carte. Inutile de préciser que cette pratique, si elle est votée, donnera lieu à un chaos inimaginable dans les entreprises privées ou publiques. Une société ne peut fonctionner que s’il n’y a qu’un seul calendrier, calqué sur une liturgie unique. Lorsque nous parlons de « liturgie », nous ne faisons pas nécessairement référence à la religion chrétienne. Nous employons le terme de « liturgie » au sens où l’entendait David Herbert Lawrence, dans son remarquable petit ouvrage intitulé « Apocalypse ». Pour Lawrence, qui veut débarrasser l’Angleterre de la mentalité marchande, de l’esprit victorien étriqué et de ses racines protestantes/puritaines, tout en renouant avec un certain paganisme, une « liturgie » est un cycle (le terme n’est pas innocent…) calqué sur les rythmes de la nature, qui reviennent régulièrement ; toute liturgie constitue dès lors un « temps cyclique » par opposition au « temps linéaire » des idéologies modernes, progressistes et révolutionnaires. La liturgie fondamentale de l’Europe est calquée sur le rythme des saisons sous nos latitudes, à quelques variantes près, entre un Nord soumis plus longtemps aux frimas hivernaux et un Sud au ciel plus clément. La christianisation a simplement plaqué ses fêtes sur cette liturgie, sans rien y changer de fondamental. Introduire une liturgie issue, ab initio, d’une zone subtropicale et désertique, et, qui plus est, fondée sur un calendrier lunaire plutôt que solaire, ne peut conduire qu’à la confusion totale. Celle de la fin des temps ou du Kali-Yuga, diront les penseurs traditionalistes… Le débat est ouvert : aurons-nous une interculturalité confusionniste, imposée de force, sans référendum, par des esprits brouillons, délirants et confus ou resterons-nous sagement dans notre bonne vieille liturgie pluriséculaire ? Dans le deuxième cas, il faudra malheureusement lutter en permanence pour qu’aucune entorse à son bon fonctionnement ne soit tolérée. Et pour revenir à nos populistes excursionnistes : vont-ils lutter pour abolir toute référence à la liturgie musulmane pour imposer à tous une liturgie juive, en croyant faire là œuvre utile et se dédouaner de toute accusation de « néo-nazisme », alors que jamais le judaïsme n’a cherché à faire du prosélytisme en la matière ?

Le référendum suisse sur l’expulsion des étrangers criminels

Parlons maintenant du deuxième référendum suisse : celui qui a sanctionné la volonté populaire de faire expulser les criminels étrangers. Le but de ce référendum était de garantir aux citoyens helvétiques la sécurité, d’éloigner de la société non pas des étrangers parce qu’ils sont étrangers, parce qu’ils appartiennent à une autre race, jugée supérieure ou inférieure, ou parce qu’ils pratiquent une autre religion que la majorité des Helvètes. Le citoyen helvétique a voté pour que l’on éloigne du pays tous ceux qui y pratiquent des activités délictueuses ou répréhensibles (meurtres, viols, braquages, narco-trafics, etc.). Pour faire place libre éventuellement à des étrangers qui respectent les lois de la Confédération, qui viennent y pratiquer des activités honnêtes et utiles à l’ensemble de la société : la plupart des Belges qui ont émigré en Suisse y ont d’ailleurs trouvé bon accueil, une convivialité sociale qui n’existe plus au Royaume d’Albert II, une ambiance de travail positive. Ce référendum a été jugé « xénophobe » par la plupart des médias : il ne l’est pas pour la simple et bonne raison qu’un éloignement des étrangers criminels fait automatiquement reculer la xénophobie, puisqu’alors il n’y a plus rien à reprocher aux étrangers en place. Les citoyens de bon sens n’ont rien contre le détenteur d’un passeport étranger qui se comporte loyalement dans le pays d’accueil. Bien au contraire ! Jadis les Suisses se débarrassaient de leurs garçons turbulents en les envoyant dans la Légion étrangère française ou en les invitant à émigrer en Amérique. Ils n’ont pas envie que ces Helvètes turbulents soient remplacés par des exotiques encore plus turbulents. Question de bon sens. La vigilance qui est de mise face à toute immigration ne peut se justifier par le racisme (ou ne le peut plus…) ou par une hostilité à une religion précise (sauf si elle cherche à enfreindre les règles de convivialité issues de la « liturgie » propre à une civilisation par l’action récurrente de fanatiques salafistes ou wahhabites qui veulent que la planète entière vive selon les critères de la péninsule arabique au 8ème siècle…) mais elle peut parfaitement se justifier quand elle entend mettre un holà à la criminalité qui pourrait en découler.

Par ailleurs, toute immigration, comme aux Etats-Unis ou au Canada, doit participer activement à la création de richesses matérielles ou noologiques au sein de l’Etat-hôte et ne jamais déséquilibrer les budgets sociaux du pays d’accueil, qui sont le fruit du travail politique de plusieurs générations de militants ouvriers ou syndicalistes. Dans ce cas, il y aurait une immigration pleinement acceptée et le fonctionnement politique et économique des pays d’accueil ne serait pas vicié par des facteurs indésirables parce que criminogènes.

 Ami Severens, merci d’avoir éclairé notre lanterne…     

 

  

Der Winter träumt die Schönheit des Frühlings

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Der Winter träumt die Schönheit des Frühlings

Die Schönheit bleibt
in unverfälschter Tiefe des Seins
in deren ewigwährendem Strom
das ferne Licht glitzert,
und die lebende Kraft versucht
aus den Gefahren unbekannter Tiefen hervorzugehen
aus endloser Schöpfung oder blendendem Zwielicht,
lange Streifen von hellem Rosa, oder Hellblau
der Götter Himmelsstufen, zur sinkenden Sonne führend,
erneuertes Leben und erhabene Nächte
glühen auf des Mondlichtes Zauberwegen,
das Reich des Blutes verstehend
durch die sonnigen Gärten der neuen Morgendämmerung,
die Seele fängt Feuer
durch die lodernde Röte des himmlischen Meeres
bevor sich die Dunkelheit erhebt, um die Sonne auszulöschen
und unsere eilenden Gefühle neu belebt.
Gefrorene Gänseblümchen bleiben zum Träumen zurück,
in ihrem kalten Winterschlaf,
von goldenem Glitzern des morgendlichen Taus,
der Wiederkehr der Wärme, und des Frühlings.

Xenia Sunic

Herzlichen dank für Ihre inspirierte Übersetzung, Christian S.

Ex: http://autonomotpol.wordpress.com/

The original and related:

THE WINTER DREAM OF THE SPRING BEAUTY

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Der Monismus und Bruno Wille

Der Monismus und Bruno Wille


von Erik Lehnert (Friedrichshagen)

Ex: http://www;friedrichshagener-dichterkreis.de/

Monismus%2.jpgMan muß es so hart sagen: Bruno Wille war weder ein originärer Denker noch ein Philosoph. Damit könnten seine Veröffentlichungen beiseite gelegt und die Person den Lokalhistorikern überlassen werden. Aber die Beschäftigung mit dem Denken Willes ist trotz alledem aufschlußreich. Was seine Schriften erinnernswert macht, ist die Tatsache, daß sie an den weltanschaulichen Auseinandersetzungen der Zeit teilgenommen und so den Zeitgeist gleichzeitig reflektiert, mitgeformt und bekämpft haben. Dabei war Wille Teil einer zeitbedingten Denkströmung, die sich, trotz "fortschrittlicher" Gesinnung, dem Materialismus der Zeit entgegenstellte, wenn auch oft mit zweifelhaften Positionen und Erfolgen. Wille läßt sich aber in einen ewigen Zusammenhang der Philosophie bringen. Er gehört, wenn auch lediglich rezipierend, zu den Bemühungen um eine einheitliche Weltanschauung, die das Denken von Anfang an begleiteten.

Der Monismus ist eines von jenen Schlagwörtern, denen keine eindeutige Definition mehr zukommt, die im Laufe ihrer Begriffsgeschichte manigfaltige Umdeutungen ertragen haben, die sie heute nicht mehr ohne weiteres anwendbar machen. Das griechische "monon", das Eine, ist die Wurzel des Monismus, das durch die Erweiterung zu einem "Ismus" den Charakter einer Lehre von der Einheit bekommt. Bei vielen "primitiven Kulturen" ist die Wahrnehmung monistisch: die Welt ist von Kräften regiert, denen alles unterworfen ist. Auch der Brahmanismus und der Taoismus sind von einem metaphysischen Monismus bestimmt. Das philosophische Ringen um eine solche Weltanschauung ist als Gegenstück und Ergänzung zum Dualismus ebenso alt wie die Philosophie selbst, der Begriff hingegen ist ein Kind der Aufklärung. Beide kommen menschlichen Grundbedürfnissen nach: Der Leib/Seele und Gott/Welt Dualismus ist die Folge des menschlichen Erwachsens aus seinem unbewußten Einssein mit Gott und der Welt (Sokrates). Seit dieser Erkenntnis ist das Gebot und Bestreben in der Welt, hinter der Vielheit die Einheit zu erkennnen (Platon). Der Monismus trägt der Tatsache Rechnung, daß das im Dualismus getrennte von einem einheitlichen verbindenden Prinzip regiert wird, das überhaupt erst die Wahrnehmung der Gegensätze begründet. "Der Dualismus ist eine psychologische Tatsache, aber der Monismus ist sein zureichender Grund. Der Dualismus ist nach alledem nur das vorletzte, der Monismus aber ist das letzte Wort der Philosophie." (Ludwig Stein) Der Begriff "Monismus" ist nicht zuletzt deshalb so belastet, weil seine erste Verwendung (in der Schulphilosophie Chr. Wolffs) in ablehnender Form erfolgte. Monisten sind danach Anhänger der Lehre, die besagt, daß nur eine Grundsubstanz, beispielsweise die Materie, existiert und die restlichen Erscheinungen bedingt. Als Monismus werden deshalb vereinfachend so unterschiedliche Anschauungen wie Materialismus und Idealismus bezeichnet, da beide die Welt aus einem Prinzip erklären. Eine weitere Abwertung erfuhr der philosophische Begriff durch die Verwendung bei Ernst Häckel, der ihn zu einem einseitigen Kampfbegriff popularisierte, um seine diesseitige, materialistisch-naturwissenschaftliche Weltanschauung zu verbreiten. Im "Deutschen Monistenbund" versammelten sich diejenigen, die die Materie oder die Energie (bzw. die Kraft) als die eine grundlegende Substanz ansahen. Seitdem ist der Begriff nicht mehr ohne umständliche Erläuterungen zu gebrauchen. Aber er zeigt beispielhaft ein menschliches Grundbedürfnis: die Gegensätze durch einen oftmals fragwürdigen, und nur selten "goldenen" Mittelweg zu überwinden. Insbesondere über die Problemlage der Jahrhundertwende im weitesten Sinne kann er uns Auskunft geben. Es gab ja nicht nur den Häckelschen Monismus, d.h. den wissenschaftlichen Materialismus. Der Begriff wurde in zahlreichen Ausdeutungen und Neudefinitionen zum Gegenstand des denkerischen Diskurses des Kaiserreichs. Es erschienen unzählige Bücher zum Thema: von Rosenthal "Die monistische Philosophie" (1880) bis Seidel "Das Wesen des Monismus" (1920). Einen Höhepunkt an wissenschaftlicher Intensität wie auch übler Polemik erlebte die Diskussion allerdings erst, nachdem Häckel den Begriff für sich entdeckt hatte - nun wurde die Geschichte des Monismus erforscht und seine zeitgenössischen Vertreter zu Wort gebeten, so daß sich scheinbar mehr als 16 verschiedene Arten des Monismus unterscheiden ließen. In der 1892 erstmals veröffentlichten und bis 1929 in 42 Auflagen verbreiteten "Einleitung in die Philosophie" von dem Berliner Philosophie-Professor Friedrich Paulsen heißt es: "Die Anschauung, der nach meiner Ansicht die Entwicklung des philosophischen Denkens zustrebt, die Richtung, in der die Wahrheit liegt, bezeichne ich mit dem Namen des idealistischen Monismus." Dieser soll die religiöse Weltanschauung (supranaturalistischen Dualismus) und die wissenschaftliche Naturerklärung (atomistischer Materialismus) einander verträglich machen.

Diesem Bemühen hat sich auch Bruno Wille angeschlossen, der dieses Modewort wohl zunächst, durch seinen Freund Bölsche vermittelt, von Häckel übernahm, es aber anders verwendete. Zuvor jedoch promovierte sich Wille nach einem Studium der Philosophie und Theologie 1888 über den "Phänomenalismus des Thomas Hobbes", einer besseren Hauptseminararbeit, und war seitdem als freier Schriftsteller tätig, dessen lyrisches und belletristisches Schaffen nicht ohne Grund vergessen ist. Sein organisatorisches Talent auf kulturellem und sozialpolitischem Gebiet ist hingegen unbestritten. Philosophie im akademischen Sinne hat Wille nicht betrieben, ihm ging es um Moral und Ethik, um eine Weltanschauung für den Menschen des Fortschrittzeitalters. Die Ansichten und Themen Willes variieren deshalb im Laufe seiner Publikationstätigkeit nur wenig. Die Situation seiner Zeit hatte Wille, wie im Grunde auch Häckel (dessen Schluß allerdings darin bestand, den Glauben an etwas Transzendentes ganz abzulehnen), erkannt: die Fortschritte auf dem Gebiet der Naturwissenschaften machten die christliche Religion scheinbar überflüssig, die Religion durfte keine eigene Geltungsebene mehr beanspruchen - es schien, als könne der Mensch sich selbst erlösen. Damit ging ein geistig-moralischer Verfall einher, die christliche Religion wurde als Heuchelei um der Konventionen Willen aufrechterhalten: man gab vor, an Erlösung und die zehn Gebote zu glauben und fand (und findet) doch im täglichen Leben genügend spitzfindige Ausreden. Die Religion befand sich also im Umbruch. Die Kirche konnte den Kampf gegen diesen Atheismus in den Augen der sozialreformerisch orientierten Vordenker nicht wirkungsvoll genug führen, so daß sich eine außerkirchliche Religiösität organisierte, zu der sich auch Wille zählte. Seine Beschäftigung mit religiösen Themen fand u.a. Ausdruck in seiner Tätigkeit als Lehrer und Sprecher der freireligiösen Gemeinde in Berlin. (Da wundert es einen auch nicht mehr, daß Wille Bruder der Loge "Zur aufgehenden Sonne" und Haupt einer "Allgemeinde" war.) Der theoretische Schluß aus der aktuellen Situation heraus war für Wille, da eine Ethik/Moral naturalistisch schwer zu begründen ist, vor allem die christliche Religion ihrer Besonderheit, der Erlöser und Herr Jesus Christus, zu berauben, um so einen vernüftigen Glauben zu erhalten: eine für jedermann verständliche Universalreligion, die die scheinbaren Unterschiede der Religionen überwindet und so das Menschengeschlecht beglückt. Vorbild hierfür ist indirekt der "Positivistische Katechismus" Auguste Comtes aus dem Jahre 1852 (und natürlich der Kult des "Höchsten Wesens" in der französischen Revolution). In Anlehnung an D.F. Strauß erklärt Wille die Evangelienberichte über Jesus zu Mythendichtungen. Jesus ist nur noch ein Gleichnis für das sittliche Streben des Menschen. In der monistischen Neulektüre der Bibel wird das Christentum zur Tradition, christliche Rituale und Symbole zu allgemein-menschheitlichen Mythen und Ideen. Auch aus der deutschen Mystik, insbesondere von Jakob Böhme, nimmt Wille das Material für seine Bemühungen. Man fühlt sich dabei zuweilen an die moderne Esoterik erinnert, die Mystik als eine esoterische Disziplin versteht, und dabei vergißt, daß das Ablegen der Selbstvergottung, durch das der Mensch erst in der Lage ist, Gott zu erkennen, das Wesen der Mystik ist ("Cogitor, ergo sum." Ich werde -von Gott- erkannt, deshalb bin ich. Franz v. Baader), und nicht eine Selbsterkenntnis oder ein sich Gehenlassen und "Einsfühlen" mit den Elementen. (Auch nicht "Teetrinken", wie es in unserem letzten Heft hieß.) Jesus hatte gesagt: "Ihr werdet die Wahrheit erkennen, und die Wahrheit wird euch frei machen." (Joh 8,32) In der "Philosophie der Befreiung durch das reine Mittel", Willes Auseinandersetzung mit Nietzsche und Stirner, heißt es programmatisch: "ein Jeder erarbeite mit Eifer seine eigene Erlösung". Der Übermensch Nietzsches wird zum freien Vernunftmenschen und Stirners Solipsismus hält Wille die "Menschheit" als moralische Kategorie entgegen. Eine merkwürdige Nähe Willes zu den nordamerikanischen "pragmatischen Idealisten" Emerson und Trine, bei denen insbesondere letztgenannter den Pantheismus als Universalreligion zur Selbsterlösung des Menschen predigte, zeichnet sich dort ab. Mit der Feststellung, daß "unsere Erlösung durch den Stellvertreter ... eigentlich unsere Selbsterlösung, wenn diese auch durch Christus bedingt wird" bedeute, kann Wille seine Nähe zum Buddhismus, der ja keine Erlösung in unserem christlichen Sinne kennt, nicht verleugnen. Ebenso ist Willes Abneigung gegen die Geheimlehre Helena Blavatskys, nur aus seiner unbewußten Nähe zu dieser zu verstehen. Sie propagierte eine innere Einheit der Religionen und ein monistisches Gott-Welt-Verständnis, konnte aber die Berechtigung der Naturwissenschaften nicht anerkennen. Willes Motto für seine Spielart des Monismus lautet im postum veröffentlichten Spätwerk "Der Ewige und seine Masken": "Im Ewigen verschmelzen alle Besonderheiten, Bestimmungen und Gegensätze zum Ganzen." Also eher ein Monopluralismus. Zunächst aber erhob Wille die Forderung Goethes "Materie nie ohne Geist" zum Programm, das als Selbstverständnis seiner Weltanschauung im "faustischen Monismus" gipfelt, um sich von den materialistischen Monisten zu unterscheiden, die auch Wille sehr schön als metaphysische Nihilisten entlarvt. "Faustischer Monismus" bedeutet praktisch, in Vorwegnahme der "faustischen Kultur" Spenglers, daß sich "dieser Gottmensch durch die Hingabe des männlichen Tatendranges...an das Reich der ewigen Werte" zeugt. Ein weiterer geistiger Vater, auf den sich Wille offen bezieht, ist Fechner, der als Begründer der Psychophysik, einer exakten Lehre der Abhängigkeiten zwischen Körper und Seele, den Weg für einen zumindest relativen Dualismus und damit relativen Monismus ebnete. "Ich sehe keinen andern Ausweg...als die ausnahmslos psycho-physische Deutung der Natur", sagt Wille deshalb gegen Häckel und dessen Verehrer. Wille hatte erkannt: um Monist sein zu können, muß man Metaphysiker sein, der "Materialismus ist philosophische Gedankenschwäche" (O. Spann). Vorbild wird deshalb auch die Philosophie Brunos, der einen monistischen Pantheismus lehrte, aber an der Transzendenz Gottes festhielt. Der "Giordano-Bruno-Bund" (1900-1908) war das Organisationsforum der idealistischen Monisten, die, um Einigung bemüht, "Naturwissenschaft, Philosophie, Kunst und Andacht harmonisch zusammmenschließen" wollten.

Die monistisch-pantheistische Frömmigkeit die Wille uns zeigt, ist ein ästhetisch geprägter Synkretismus, der Basis für eine einheitliche Ethik sein soll. Das ist problematisch und hat sich nicht in der Lage gezeigt, den Siegeszug des Materialismus aufzuhalten. Man wollte Religion, ohne konservativ oder gar reaktionär zu sein, das war das eigentliche Dilemma. Die Beweggründe, zu solch einer Weltanschauung zu gelangen, sind edler Natur. Es ist das Bestreben, die Entfremdung zwischen Religion und Kultur zu überwinden. Dabei fällt die alte Weisheit, daß der Mensch die Rolle eines "Mitstreiters, ja Mitwirkers Gottes" (Scheler) übernehmen muß, neu auf. Die Einheit ist also noch nicht da, sie muß erst errungen werden. Hegel: "Erst das Christentum hat durch die Lehre von der Menschwerdung Gottes und von der Gegenwart des Heiligen Geistes in der gläubigen Gemeinde dem menschlichen Bewußtsein eine vollkommen freie Beziehung zum Unendlichen gegeben und dadurch die begreifende Erkenntnis des Geistes in seiner absoluten Unendlichkeit möglich gemacht. Nur eine solche Erkenntnis verdient fortan den Namen einer philosophischen Betrachtung." Kierkegaard: "1800 Jahre ist es her, daß Christus lebte, er ist also vergessen / nur seine Lehre besteht: ja das heißt, man hat das Christentum abgeschafft."

Anmerkung: Das hier aus Platzgründen nur angerissene Thema soll in einem Vortrag im "Kulturhistorischen Verein Friedrichshagen" voraussichtlich im Oktober 1999 ausführlicher besprochen werden.

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lundi, 20 décembre 2010

Four Scenarios for the Coming Collapse of the American Empire

Four Scenarios for the Coming Collapse of the American Empire

Alfred W. McCoy

Ex: http://www.counter-currents.com/

The demise of the United States as the global superpower could come far more quickly than anyone imagines.

010909top2.jpgA soft landing for America 40 years from now?  Don’t bet on it.  The demise of the United States as the global superpower could come far more quickly than anyone imagines.  If Washington is dreaming of 2040 or 2050 as the end of the American Century, a more realistic assessment of domestic and global trends suggests that in 2025, just 15 years from now, it could all be over except for the shouting.

Despite the aura of omnipotence most empires project, a look at their history should remind us that they are fragile organisms. So delicate is their ecology of power that, when things start to go truly bad, empires regularly unravel with unholy speed: just a year for Portugal, two years for the Soviet Union, eight years for France, 11 years for the Ottomans, 17 years for Great Britain, and, in all likelihood, 22 years for the United States, counting from the crucial year 2003.

Future historians are likely to identify the Bush administration’s rash invasion of Iraq in that year as the start of America’s downfall. However, instead of the bloodshed that marked the end of so many past empires, with cities burning and civilians slaughtered, this twenty-first century imperial collapse could come relatively quietly through the invisible tendrils of economic collapse or cyberwarfare.

But have no doubt: when Washington’s global dominion finally ends, there will be painful daily reminders of what such a loss of power means for Americans in every walk of life. As a half-dozen European nations have discovered, imperial decline tends to have a remarkably demoralizing impact on a society, regularly bringing at least a generation of economic privation. As the economy cools, political temperatures rise, often sparking serious domestic unrest.

Available economic, educational, and military data indicate that, when it comes to U.S. global power, negative trends will aggregate rapidly by 2020 and are likely to reach a critical mass no later than 2030. The American Century, proclaimed so triumphantly at the start of World War II, will be tattered and fading by 2025, its eighth decade, and could be history by 2030.

Significantly, in 2008, the U.S. National Intelligence Council admitted for the first time that America’s global power was indeed on a declining trajectory. In one of its periodic futuristic reports, Global Trends 2025, the Council cited “the transfer of global wealth and economic power now under way, roughly from West to East” and “without precedent in modern history,” as the primary factor in the decline of the “United States’ relative strength — even in the military realm.” Like many in Washington, however, the Council’s analysts anticipated a very long, very soft landing for American global preeminence, and harbored the hope that somehow the U.S. would long “retain unique military capabilities… to project military power globally” for decades to come.

No such luck.  Under current projections, the United States will find itself in second place behind China (already the world’s second largest economy) in economic output around 2026, and behind India by 2050. Similarly, Chinese innovation is on a trajectory toward world leadership in applied science and military technology sometime between 2020 and 2030, just as America’s current supply of brilliant scientists and engineers retires, without adequate replacement by an ill-educated younger generation.

By 2020, according to current plans, the Pentagon will throw a military Hail Mary pass for a dying empire.  It will launch a lethal triple canopy of advanced aerospace robotics that represents Washington’s last best hope of retaining global power despite its waning economic influence. By that year, however, China’s global network of communications satellites, backed by the world’s most powerful supercomputers, will also be fully operational, providing Beijing with an independent platform for the weaponization of space and a powerful communications system for missile- or cyber-strikes into every quadrant of the globe.

Wrapped in imperial hubris, like Whitehall or Quai d’Orsay before, the White House still seems to imagine that American decline will be gradual, gentle, and partial. In his State of the Union address last January, President Obama offered the reassurance that “I do not accept second place for the United States of America.” A few days later, Vice President Biden ridiculed the very idea that “we are destined to fulfill [historian Paul] Kennedy’s prophecy that we are going to be a great nation that has failed because we lost control of our economy and overextended.” Similarly, writing in the November issue of the establishment journal Foreign Affairs, neo-liberal foreign policy guru Joseph Nye waved away talk of China’s economic and military rise, dismissing “misleading metaphors of organic decline” and denying that any deterioration in U.S. global power was underway.

Ordinary Americans, watching their jobs head overseas, have a more realistic view than their cosseted leaders. An opinion poll in August 2010 found that 65% of Americans believed the country was now “in a state of decline.”  Already, Australia and Turkey, traditional U.S. military allies, are using their American-manufactured weapons for joint air and naval maneuvers with China. Already, America’s closest economic partners are backing away from Washington’s opposition to China’s rigged currency rates. As the president flew back from his Asian tour last month, a gloomy New York Times headline summed the moment up this way: “Obama’s Economic View Is Rejected on World Stage, China, Britain and Germany Challenge U.S., Trade Talks With Seoul Fail, Too.”

Viewed historically, the question is not whether the United States will lose its unchallenged global power, but just how precipitous and wrenching the decline will be. In place of Washington’s wishful thinking, let’s use the National Intelligence Council’s own futuristic methodology to suggest four realistic scenarios for how, whether with a bang or a whimper, U.S. global power could reach its end in the 2020s (along with four accompanying assessments of just where we are today).  The future scenarios include: economic decline, oil shock, military misadventure, and World War III.  While these are hardly the only possibilities when it comes to American decline or even collapse, they offer a window into an onrushing future.

Economic Decline: Present Situation

Today, three main threats exist to America’s dominant position in the global economy: loss of economic clout thanks to a shrinking share of world trade, the decline of American technological innovation, and the end of the dollar’s privileged status as the global reserve currency.

By 2008, the United States had already fallen to number three in global merchandise exports, with just 11% of them compared to 12% for China and 16% for the European Union.  There is no reason to believe that this trend will reverse itself.

Similarly, American leadership in technological innovation is on the wane. In 2008, the U.S. was still number two behind Japan in worldwide patent applications with 232,000, but China was closing fast at 195,000, thanks to a blistering 400% increase since 2000.  A harbinger of further decline: in 2009 the U.S. hit rock bottom in ranking among the 40 nations surveyed by the Information Technology & Innovation Foundation when it came to “change” in “global innovation-based competitiveness” during the previous decade.  Adding substance to these statistics, in October China’s Defense Ministry unveiled the world’s fastest supercomputer, the Tianhe-1A, so powerful, said one U.S. expert, that it “blows away the existing No. 1 machine” in America.

Add to this clear evidence that the U.S. education system, that source of future scientists and innovators, has been falling behind its competitors. After leading the world for decades in 25- to 34-year-olds with university degrees, the country sank to 12th place in 2010.  The World Economic Forum ranked the United States at a mediocre 52nd among 139 nations in the quality of its university math and science instruction in 2010. Nearly half of all graduate students in the sciences in the U.S. are now foreigners, most of whom will be heading home, not staying here as once would have happened.  By 2025, in other words, the United States is likely to face a critical shortage of talented scientists.

Such negative trends are encouraging increasingly sharp criticism of the dollar’s role as the world’s reserve currency. “Other countries are no longer willing to buy into the idea that the U.S. knows best on economic policy,” observed Kenneth S. Rogoff, a former chief economist at the International Monetary Fund. In mid-2009, with the world’s central banks holding an astronomical $4 trillion in U.S. Treasury notes, Russian president Dimitri Medvedev insisted that it was time to end “the artificially maintained unipolar system” based on “one formerly strong reserve currency.”

Simultaneously, China’s central bank governor suggested that the future might lie with a global reserve currency “disconnected from individual nations” (that is, the U.S. dollar). Take these as signposts of a world to come, and of a possible attempt, as economist Michael Hudson has argued, “to hasten the bankruptcy of the U.S. financial-military world order.”

Economic Decline: Scenario 2020

After years of swelling deficits fed by incessant warfare in distant lands, in 2020, as long expected, the U.S. dollar finally loses its special status as the world’s reserve currency.  Suddenly, the cost of imports soars. Unable to pay for swelling deficits by selling now-devalued Treasury notes abroad, Washington is finally forced to slash its bloated military budget.  Under pressure at home and abroad, Washington slowly pulls U.S. forces back from hundreds of overseas bases to a continental perimeter.  By now, however, it is far too late.

statue_of_liberty_under_water.jpgFaced with a fading superpower incapable of paying the bills, China, India, Iran, Russia, and other powers, great and regional, provocatively challenge U.S. dominion over the oceans, space, and cyberspace.  Meanwhile, amid soaring prices, ever-rising unemployment, and a continuing decline in real wages, domestic divisions widen into violent clashes and divisive debates, often over remarkably irrelevant issues. Riding a political tide of disillusionment and despair, a far-right patriot captures the presidency with thundering rhetoric, demanding respect for American authority and threatening military retaliation or economic reprisal. The world pays next to no attention as the American Century ends in silence.

Oil Shock: Present Situation

One casualty of America’s waning economic power has been its lock on global oil supplies. Speeding by America’s gas-guzzling economy in the passing lane, China became the world’s number one energy consumer this summer, a position the U.S. had held for over a century.  Energy specialist Michael Klare has argued that this change means China will “set the pace in shaping our global future.”

By 2025, Iran and Russia will control almost half of the world’s natural gas supply, which will potentially give them enormous leverage over energy-starved Europe. Add petroleum reserves to the mix and, as the National Intelligence Council has warned, in just 15 years two countries, Russia and Iran, could “emerge as energy kingpins.”

Despite remarkable ingenuity, the major oil powers are now draining the big basins of petroleum reserves that are amenable to easy, cheap extraction. The real lesson of the Deepwater Horizon oil disaster in the Gulf of Mexico was not BP’s sloppy safety standards, but the simple fact everyone saw on “spillcam”: one of the corporate energy giants had little choice but to search for what Klare calls “tough oil” miles beneath the surface of the ocean to keep its profits up.

Compounding the problem, the Chinese and Indians have suddenly become far heavier energy consumers. Even if fossil fuel supplies were to remain constant (which they won’t), demand, and so costs, are almost certain to rise — and sharply at that.  Other developed nations are meeting this threat aggressively by plunging into experimental programs to develop alternative energy sources.  The United States has taken a different path, doing far too little to develop alternative sources while, in the last three decades, doubling its dependence on foreign oil imports.  Between 1973 and 2007, oil imports have risen from 36% of energy consumed in the U.S. to 66%.

Oil Shock: Scenario 2025

The United States remains so dependent upon foreign oil that a few adverse developments in the global energy market in 2025 spark an oil shock.  By comparison, it makes the 1973 oil shock (when prices quadrupled in just months) look like the proverbial molehill.  Angered at the dollar’s plummeting value, OPEC oil ministers, meeting in Riyadh, demand future energy payments in a “basket” of Yen, Yuan, and Euros.  That only hikes the cost of U.S. oil imports further.  At the same moment, while signing a new series of long-term delivery contracts with China, the Saudis stabilize their own foreign exchange reserves by switching to the Yuan.  Meanwhile, China pours countless billions into building a massive trans-Asia pipeline and funding Iran’s exploitation of the world largest natural gas field at South Pars in the Persian Gulf.

Concerned that the U.S. Navy might no longer be able to protect the oil tankers traveling from the Persian Gulf to fuel East Asia, a coalition of Tehran, Riyadh, and Abu Dhabi form an unexpected new Gulf alliance and affirm that China’s new fleet of swift aircraft carriers will henceforth patrol the Persian Gulf from a base on the Gulf of Oman.  Under heavy economic pressure, London agrees to cancel the U.S. lease on its Indian Ocean island base of Diego Garcia, while Canberra, pressured by the Chinese, informs Washington that the Seventh Fleet is no longer welcome to use Fremantle as a homeport, effectively evicting the U.S. Navy from the Indian Ocean.

With just a few strokes of the pen and some terse announcements, the “Carter Doctrine,” by which U.S. military power was to eternally protect the Persian Gulf, is laid to rest in 2025.  All the elements that long assured the United States limitless supplies of low-cost oil from that region — logistics, exchange rates, and naval power — evaporate. At this point, the U.S. can still cover only an insignificant 12% of its energy needs from its nascent alternative energy industry, and remains dependent on imported oil for half of its energy consumption.

The oil shock that follows hits the country like a hurricane, sending prices to startling heights, making travel a staggeringly expensive proposition, putting real wages (which had long been declining) into freefall, and rendering non-competitive whatever American exports remained. With thermostats dropping, gas prices climbing through the roof, and dollars flowing overseas in return for costly oil, the American economy is paralyzed. With long-fraying alliances at an end and fiscal pressures mounting, U.S. military forces finally begin a staged withdrawal from their overseas bases.

Within a few years, the U.S. is functionally bankrupt and the clock is ticking toward midnight on the American Century.

Military Misadventure: Present Situation

Counterintuitively, as their power wanes, empires often plunge into ill-advised military misadventures.  This phenomenon is known among historians of empire as “micro-militarism” and seems to involve psychologically compensatory efforts to salve the sting of retreat or defeat by occupying new territories, however briefly and catastrophically. These operations, irrational even from an imperial point of view, often yield hemorrhaging expenditures or humiliating defeats that only accelerate the loss of power.

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Embattled empires through the ages suffer an arrogance that drives them to plunge ever deeper into military misadventures until defeat becomes debacle. In 413 BCE, a weakened Athens sent 200 ships to be slaughtered in Sicily. In 1921, a dying imperial Spain dispatched 20,000 soldiers to be massacred by Berber guerrillas in Morocco. In 1956, a fading British Empire destroyed its prestige by attacking Suez. And in 2001 and 2003, the U.S. occupied Afghanistan and invaded Iraq. With the hubris that marks empires over the millennia, Washington has increased its troops in Afghanistan to 100,000, expanded the war into Pakistan, and extended its commitment to 2014 and beyond, courting disasters large and small in this guerilla-infested, nuclear-armed graveyard of empires.

Military Misadventure: Scenario 2014

So irrational, so unpredictable is “micro-militarism” that seemingly fanciful scenarios are soon outdone by actual events. With the U.S. military stretched thin from Somalia to the Philippines and tensions rising in Israel, Iran, and Korea, possible combinations for a disastrous military crisis abroad are multifold.

It’s mid-summer 2014 and a drawn-down U.S. garrison in embattled Kandahar in southern Afghanistan is suddenly, unexpectedly overrun by Taliban guerrillas, while U.S. aircraft are grounded by a blinding sandstorm. Heavy loses are taken and in retaliation, an embarrassed American war commander looses B-1 bombers and F-16 fighters to demolish whole neighborhoods of the city that are believed to be under Taliban control, while AC-130U “Spooky” gunships rake the rubble with devastating cannon fire.

Soon, mullahs are preaching jihad from mosques throughout the region, and Afghan Army units, long trained by American forces to turn the tide of the war, begin to desert en masse.  Taliban fighters then launch a series of remarkably sophisticated strikes aimed at U.S. garrisons across the country, sending American casualties soaring. In scenes reminiscent of Saigon in 1975, U.S. helicopters rescue American soldiers and civilians from rooftops in Kabul and Kandahar.

Meanwhile, angry at the endless, decades-long stalemate over Palestine, OPEC’s leaders impose a new oil embargo on the U.S. to protest its backing of Israel as well as the killing of untold numbers of Muslim civilians in its ongoing wars across the Greater Middle East. With gas prices soaring and refineries running dry, Washington makes its move, sending in Special Operations forces to seize oil ports in the Persian Gulf.  This, in turn, sparks a rash of suicide attacks and the sabotage of pipelines and oil wells. As black clouds billow skyward and diplomats rise at the U.N. to bitterly denounce American actions, commentators worldwide reach back into history to brand this “America’s Suez,” a telling reference to the 1956 debacle that marked the end of the British Empire.

World War III: Present Situation

In the summer of 2010, military tensions between the U.S. and China began to rise in the western Pacific, once considered an American “lake.”  Even a year earlier no one would have predicted such a development. As Washington played upon its alliance with London to appropriate much of Britain’s global power after World War II, so China is now using the profits from its export trade with the U.S. to fund what is likely to become a military challenge to American dominion over the waterways of Asia and the Pacific.

With its growing resources, Beijing is claiming a vast maritime arc from Korea to Indonesia long dominated by the U.S. Navy. In August, after Washington expressed a “national interest” in the South China Sea and conducted naval exercises there to reinforce that claim, Beijing’s official Global Times responded angrily, saying, “The U.S.-China wrestling match over the South China Sea issue has raised the stakes in deciding who the real future ruler of the planet will be.”

Amid growing tensions, the Pentagon reported that Beijing now holds “the capability to attack… [U.S.] aircraft carriers in the western Pacific Ocean” and target “nuclear forces throughout… the continental United States.” By developing “offensive nuclear, space, and cyber warfare capabilities,” China seems determined to vie for dominance of what the Pentagon calls “the information spectrum in all dimensions of the modern battlespace.” With ongoing development of the powerful Long March V booster rocket, as well as the launch of two satellites in January 2010 and another in July, for a total of five, Beijing signaled that the country was making rapid strides toward an “independent” network of 35 satellites for global positioning, communications, and reconnaissance capabilities by 2020.

To check China and extend its military position globally, Washington is intent on building a new digital network of air and space robotics, advanced cyberwarfare capabilities, and electronic surveillance.  Military planners expect this integrated system to envelop the Earth in a cyber-grid capable of blinding entire armies on the battlefield or taking out a single terrorist in field or favela. By 2020, if all goes according to plan, the Pentagon will launch a three-tiered shield of space drones — reaching from stratosphere to exosphere, armed with agile missiles, linked by a resilient modular satellite system, and operated through total telescopic surveillance.

Last April, the Pentagon made history.  It extended drone operations into the exosphere by quietly launching the X-37B unmanned space shuttle into a low orbit 255 miles above the planet.  The X-37B is the first in a new generation of unmanned vehicles that will mark the full weaponization of space, creating an arena for future warfare unlike anything that has gone before.

World War III: Scenario 2025

The technology of space and cyberwarfare is so new and untested that even the most outlandish scenarios may soon be superseded by a reality still hard to conceive. If we simply employ the sort of scenarios that the Air Force itself used in its 2009 Future Capabilities Game, however, we can gain “a better understanding of how air, space and cyberspace overlap in warfare,” and so begin to imagine how the next world war might actually be fought.

It’s 11:59 p.m. on Thanksgiving Thursday in 2025. While cyber-shoppers pound the portals of Best Buy for deep discounts on the latest home electronics from China, U.S. Air Force technicians at the Space Surveillance Telescope (SST) on Maui choke on their coffee as their panoramic screens suddenly blip to black. Thousands of miles away at the U.S. CyberCommand’s operations center in Texas, cyberwarriors soon detect malicious binaries that, though fired anonymously, show the distinctive digital fingerprints of China’s People’s Liberation Army.

The first overt strike is one nobody predicted. Chinese “malware” seizes control of the robotics aboard an unmanned solar-powered U.S. “Vulture” drone as it flies at 70,000 feet over the Tsushima Strait between Korea and Japan.  It suddenly fires all the rocket pods beneath its enormous 400-foot wingspan, sending dozens of lethal missiles plunging harmlessly into the Yellow Sea, effectively disarming this formidable weapon.

Determined to fight fire with fire, the White House authorizes a retaliatory strike.  Confident that its F-6 “Fractionated, Free-Flying” satellite system is impenetrable, Air Force commanders in California transmit robotic codes to the flotilla of X-37B space drones orbiting 250 miles above the Earth, ordering them to launch their “Triple Terminator” missiles at China’s 35 satellites. Zero response. In near panic, the Air Force launches its Falcon Hypersonic Cruise Vehicle into an arc 100 miles above the Pacific Ocean and then, just 20 minutes later, sends the computer codes to fire missiles at seven Chinese satellites in nearby orbits.  The launch codes are suddenly inoperative.

As the Chinese virus spreads uncontrollably through the F-6 satellite architecture, while those second-rate U.S. supercomputers fail to crack the malware’s devilishly complex code, GPS signals crucial to the navigation of U.S. ships and aircraft worldwide are compromised. Carrier fleets begin steaming in circles in the mid-Pacific. Fighter squadrons are grounded. Reaper drones fly aimlessly toward the horizon, crashing when their fuel is exhausted. Suddenly, the United States loses what the U.S. Air Force has long called “the ultimate high ground”: space. Within hours, the military power that had dominated the globe for nearly a century has been defeated in World War III without a single human casualty.

A New World Order?

Even if future events prove duller than these four scenarios suggest, every significant trend points toward a far more striking decline in American global power by 2025 than anything Washington now seems to be envisioning.

As allies worldwide begin to realign their policies to take cognizance of rising Asian powers, the cost of maintaining 800 or more overseas military bases will simply become unsustainable, finally forcing a staged withdrawal on a still-unwilling Washington. With both the U.S. and China in a race to weaponize space and cyberspace, tensions between the two powers are bound to rise, making military conflict by 2025 at least feasible, if hardly guaranteed.

Complicating matters even more, the economic, military, and technological trends outlined above will not operate in tidy isolation. As happened to European empires after World War II, such negative forces will undoubtedly prove synergistic.  They will combine in thoroughly unexpected ways, create crises for which Americans are remarkably unprepared, and threaten to spin the economy into a sudden downward spiral, consigning this country to a generation or more of economic misery.

As U.S. power recedes, the past offers a spectrum of possibilities for a future world order.  At one end of this spectrum, the rise of a new global superpower, however unlikely, cannot be ruled out. Yet both China and Russia evince self-referential cultures, recondite non-roman scripts, regional defense strategies, and underdeveloped legal systems, denying them key instruments for global dominion. At the moment then, no single superpower seems to be on the horizon likely to succeed the U.S.

In a dark, dystopian version of our global future, a coalition of transnational corporations, multilateral forces like NATO, and an international financial elite could conceivably forge a single, possibly unstable, supra-national nexus that would make it no longer meaningful to speak of national empires at all.  While denationalized corporations and multinational elites would assumedly rule such a world from secure urban enclaves, the multitudes would be relegated to urban and rural wastelands.

In Planet of Slums, Mike Davis offers at least a partial vision of such a world from the bottom up.  He argues that the billion people already packed into fetid favela-style slums worldwide (rising to two billion by 2030) will make “the ‘feral, failed cities’ of the Third World… the distinctive battlespace of the twenty-first century.” As darkness settles over some future super-favela, “the empire can deploy Orwellian technologies of repression” as “hornet-like helicopter gun-ships stalk enigmatic enemies in the narrow streets of the slum districts… Every morning the slums reply with suicide bombers and eloquent explosions.”

At a midpoint on the spectrum of possible futures, a new global oligopoly might emerge between 2020 and 2040, with rising powers China, Russia, India, and Brazil collaborating with receding powers like Britain, Germany, Japan, and the United States to enforce an ad hoc global dominion, akin to the loose alliance of European empires that ruled half of humanity circa 1900.

Another possibility: the rise of regional hegemons in a return to something reminiscent of the international system that operated before modern empires took shape. In this neo-Westphalian world order, with its endless vistas of micro-violence and unchecked exploitation, each hegemon would dominate its immediate region — Brasilia in South America, Washington in North America, Pretoria in southern Africa, and so on. Space, cyberspace, and the maritime deeps, removed from the control of the former planetary “policeman,” the United States, might even become a new global commons, controlled through an expanded U.N. Security Council or some ad hoc body.

All of these scenarios extrapolate existing trends into the future on the assumption that Americans, blinded by the arrogance of decades of historically unparalleled power, cannot or will not take steps to manage the unchecked erosion of their global position.

If America’s decline is in fact on a 22-year trajectory from 2003 to 2025, then we have already frittered away most of the first decade of that decline with wars that distracted us from long-term problems and, like water tossed onto desert sands, wasted trillions of desperately needed dollars.

If only 15 years remain, the odds of frittering them all away still remain high.  Congress and the president are now in gridlock; the American system is flooded with corporate money meant to jam up the works; and there is little suggestion that any issues of significance, including our wars, our bloated national security state, our starved education system, and our antiquated energy supplies, will be addressed with sufficient seriousness to assure the sort of soft landing that might maximize our country’s role and prosperity in a changing world.

Europe’s empires are gone and America’s imperium is going.  It seems increasingly doubtful that the United States will have anything like Britain’s success in shaping a succeeding world order that protects its interests, preserves its prosperity, and bears the imprint of its best values.

Source: http://www.alternet.org/world/149080/4_scenarios_for_the_coming_collapse_of_the_american_empire/?page=entire

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung*

von Erik Lehnert (Friedrichshagen)

Ex: http://www.friedrichshagener-dichterkreis.de/


Bruno-Wille-WDR-3.jpgDas Freidenkertum entstand im 17. Jahrhundert in England und gelangte im Laufe des 18. Jahrhunderts auf den europäischen Kontinent, v. a. nach Frankreich. Das ursprüngliche Ziel der Bewegung war die Religionsfreiheit. Das "freie Denken" sollte die Evidenz aller Gegenstände aus der Sache ableiten, nicht aus der Autorität. Erst im "eigentümlichen Freiheitsraum des 19. Jahrhunderts" (Friedrich Heer) vollzog sich innerhalb der Freidenkerbewegung ein Wandel: man organisierte sich, versuchte die ursprünglich elitäre Idee zu popularisieren und so politischen Einfluß auszuüben - man wollte das Denken allgemein von religiösen Vorstellungen befreien. Ein Resultat war, daß die Bezeichnung Freidenker, jetzt zu Recht, synonym für Atheisten gebraucht werden konnte. 1881 wurde der Deutsche Freidenker-Bund (DFB) durch Ludwig Büchner gegründet. 1905 bzw. 1908 folgten sozialdemokratische bzw. proletarische Abspaltungen, die sich 1927 vereinigten. Ihren Höhepunkt hatte die Bewegung am Anfang der 30er Jahre. Am Zweiten Weltkrieg zerbrach der Fortschrittsglaube, mit dem Einflußverlust (und der blutigen Unterdrückung) der Kirchen kam der Hauptfeind abhanden und die Naturwissenschaft stieß v. a. in der Atom- und Astrophysik an Grenzen, die einen weltanschaulichen Materialismus unglaubwürdig machen.

Nietzsche, ein ganz anders gearteter "freier Geist" (Im Nachlaß finden sich sogar "Die zehn Gebote des Freigeistes", von denen das zweite lautet: "Du sollst keine Politik treiben."), war bemüht, sich gegen die organisierten Freidenker abzugrenzen: "Sie gehören, kurz und schlimm, unter die Nivellierer, diese fälschlich genannten 'freien Geister' - als beredte und schreibfingrige Sklaven des demokratischen Geschmacks und seiner 'modernen Ideen'; allesamt Menschen ohne Einsamkeit, ohne eigne Einsamkeit, plumpe brave Burschen, welchen weder Mut noch achtbare Sitte abgesprochen werden soll, nur daß sie eben unfrei und zum Lachen oberflächlich sind, vor allem mit ihrem Grundhange, in den Formen der bisherigen alten Gesellschaft ungefähr die Ursache für alles menschliche Elend und Mißraten zu sehn: wobei die Wahrheit glücklich auf dem Kopf zu stehn kommt!" (Jenseits von Gut und Böse II, 44) Nicht die Umstände sondern die Unvollkommenheit des Menschen ist die Ursache. Ein "freier Geist" wie Nietzsche glaubt nicht einmal an die Wahrheit und demzufolge auch nicht an die Wissenschaft, die natürlich ebenfalls metaphysische Voraussetzungen hat. (Zur Genealogie der Moral III, 24)

Wille tritt erstmals im Oktober 1892 öffentlich im Zusammenhang mit dem DFB in Erscheinung. Er schreibt im Correspondenzblatt des Bundes: "was mich bisher vom Freidenker-Bunde zurückhielt, war die Meinung, hier werde das soziale Problem mit seinen bedeutsamen Konsequenzen für unsere Taktik, Moral und Pädagogik ungenügend oder unrichtig betrachtet und angefaßt." (1. Jg.,1892/93, S. 31) Bereits ein Jahr später übernimmt Wille die Redaktion des "Freidenkers" (bekommt dafür eine Aufwandsentschädigung von 300 Mark jährlich) und wird Vorstandsmitglied des DFB. Ab dem 1. März 1916 ist Wille Herausgeber der Zeitschrift und bleibt dies bis zur Einstellung des Erscheinens 1921. Rückblickend schreibt er 1920: "Zu den Geistesbewegungen, die ich mit besonderer Arbeitsamkeit fördere, gehört neben der Freireligiosität das Freidenkertum. Seit Anfang der neunziger Jahre gehöre ich zur Leitung des Deutschen Freidenkerbundes, redigiere dessen Blatt ("Der Freidenker") und habe auf vielen Kongressen des Bundes gewirkt, auch auf internationalen (Rom und München). Die anfangs im deutschen Freidenkertum vorherrschende Richtung des Materialisten Ludwig Büchner habe ich durch meine idealistische Weltanschauung ergänzt, damit das Freidenkertum sich nicht beschränke auf rationalistischen Volksaufkläricht."

Die Geschichte der Zeitschrift soll hier nicht das Thema sein. Obwohl diese sehr interessante Aufschlüsse über die Organisationstrukturen der freigeistigen Bewegungen etc. geben könnte, da der "Freidenker" im Laufe seines Bestehens zahlreiche Wandlungen vollzog, die sich u. a. in Zusammenschlüssen mit anderen Bünden und deren Zeitschriften zeigen. Die Zeitschrift erschien am 1. Juli 1892 erstmals als "Correspondenzblatt des Deutschen Freidenker-Bundes" und wurde mit der Ausgabe vom 1. Juli 1893 umbenannt in "Der Freidenker. Correspondenzblatt und Organ des Deutschen Freidenker-Bundes". Die Erscheinungsweise war bis zum 1. Juli 1894 vierwöchentlich, danach zweiwöchentlich. Die Verlagsorte wechselten oft, je nachdem welcher Ortsverband mit der Herausgabe betraut war. Von Mitte 1895 an war es für kurze Zeit Friedrichshagen (Berlin). In der Juniausgabe 1906, die rückblickend das 25jährige Jubiläum des Freidenkerbundes feiert, wird ein Ansteigen der Auflage der Bundeszeitschrift von 800 (1892) auf 3600 (1906) Exemplare verzeichnet.(14. Jg., 1906, S. 84-86).

In der September-Ausgabe des "Correspondenzblattes" erschien 1892 ein anonymer Beitrag: "Die Scheidung der Geister". (1. Jg., 1892/93, S. 19-22). Darin versucht der Autor den Idealismus vom Materialismus, der seiner Meinung nach einzig richtigen Weltanschauung, zu scheiden: "Hie Materialismus, dort Idealismus: es giebt keine Ueberbrückung." Die materialistische Position wird auf den Einzelnen und die Gesellschaft angwandt. Der bekannte Schluß lautet, daß alles Geschehen "dem Zwang äußerer und innerer Verhältnisse" unterliegt. Jede Handlung eines Menschen sei, durch seine soziale Lage oder weil ihm der freie Wille fehlt, determiniert. Dieser Beitrag löste eine interessante Debatte aus, die dem Verfasser Widersprüche in seiner Argumentation aufzeigte, insbesondere wie man politisch oder kulturell wertsetzend wirken wolle, wenn man keinen freien Willen hat. Wille beteiligt sich an dieser Diskussion und hebt lobend hervor, daß "die materialistische Geschichtsauffassung [...] den gebührenden Einzug" bei den Freidenkern gehalten hat. (1. Jg., 1892/93, S. 31f.). Wille ist der Auffassung, daß der Determinismus keinen Einschränkungen unterworfen ist und begründet das mit der Definition von Freiheit, als Möglichkeit, zu können was man will. Das Wollen ist allerdings motiviert, d. h. von einer oder mehreren auslösenden Ursachen abhängig bzw. determiniert. So artet die Diskussion in Wortklaubereien aus.
Wille stieß in einer Zeit zur Freidenkerbewegung, als diese an Einfluß verlor. Seit 1890 war den Arbeiterparteien die Versammlungsfreiheit wieder gewährt worden, so daß die Arbeiterschaft ihre eigenen Versammlungen besuchte. Der Gegensatz zwischen der Führung der Freidenker, die aus dem liberalen Bürgertum hervorging, und der Masse der Arbeiter trat jetzt deutlich zu Tage. Eine vermutlich von Wille auf dem Kölner Freidenkerkongreß 1894 eingebrachte Resolution sah zwar die Lösung der sozialen Frage als dringendes Problem, stellte die Wahl der Mittel jedoch dem Einzelnen frei. Der Gegensatz zur marxistischen Sozialdemokratie war offensichtlich. Hinzu kam der beginnende Einfluß Nietzsches und der verschiedener Ersatzreligionen, der nach und nach weite Teile der Bevölkerung erfaßte. Erst die Bestseller Haeckels, ermöglicht durch den "'pathologischen Zwischenzustand' einer philosopischen Anarchie" der Jahrhundertwende (Oswald Külpe), und die internationalen Freidenkerkongresse in Rom und Paris (1904/05) brachten einen neuen Aufschwung der Bewegung. Die Macht der Orthodoxie in der Arbeiterbewegung, die das Freidenkertum als bürgerliche Ideologie ablehnte, ging zunächst zurück. Später jedoch folgte die Auseinandersetzung mit dem 1908 in Eisenach gegründeten "Zentralverband Deutscher Freidenker", einer proletarischen Abspaltung. (Vgl. 16. Jg., 1908, S. 153-156). Wille versuchte sich insbesondere des Vorwurfs, der DFB sei unter seiner Federführung zunehmend sozialliberal und damit (in den Augen der Abspaltung) reaktionär geworden, zu erwehren. Anlaß war eine Äußerung von Wille, in der er ein Zusammengehen von Sozialdemokraten und linksliberalen Freisinnigen ("Linker Block" als sozialliberaler Übergang) in der Kulturpolitik gefordert hatte. (16. Jg., 1908, S. 21). Die Person Willes war oft Ziel solcher Art von Vorwürfen. (Vgl. 3. Jg., 1894/95, S. 3-5, 58-62). Wohl auch weil er kategorisch feststellte: "Parteifanatismus ist nicht minder wie religiöser Fanatismus ein Erbfeind des Freidenkertums." (Ebd. S. 58). Das sollte sich im Laufe der Geschichte bewahrheiten.

Was Freidenkertum seiner Meinung nach sei, schreibt Wille in einer Ausgabe der Zeitschrift "ohne Verbindlichkeit für unseren Bund". (15.Jg.,1907, S. 41f). Dem Namen nach (also bloß oberflächlich?) tritt Freidenkertum für "grundsätzlich freies Denken" und "für schrankenlose Entwicklung der höchsten Geisteskräfte in Persönlichkeit und Volksleben ein". Unterdrückung im geistigen Kampf wird abgelehnt, da die Wahrheit durch "ungehemmten Wettbewerb" (natürliche Zuchtwahl) hervortreten soll. Die Wahrheit müßte demzufolge stärker als die Lüge sein. Heißt es noch sehr frei, der Einzelne ist für die Bildung seiner Überzeugungen selbst verantwortlich, werden wenige Zeilen später letztlich dogmatisch "gewisse Weltanschauungen" abgelehnt: "Wer an ein höchstes Wesen glaubt, das als ein persönlicher Herrscher das Weltall regiert und den Menschen absolut gültige Vorschriften gegeben hat, kann kein Freidenker sein, da ihn seine Unterordnung unter die geglaubte Autorität zur Intoleranz verführt." Gemeint ist hier natürlich v.a. das Christentum, das durch eine "natürliche Weltanschauung" ersetzt werden soll. Damit meint Wille in jedem Fall einen Monismus, sei er nun "idealistisch, materialistisch oder mechanistisch". Der Freidenker kann nach Wille ruhig einer "religiösen Stimmung" nachgeben, da dies auch die alten Ägypter, Babylonier etc. getan hätten. Scheinbar fallen deren Ansichten nicht unter "gewisse" sondern unter "natürliche Weltanschauungen". Eine Unterscheidung, die Wille nicht erläutert. Religion sei nicht das "Glauben an übernatürliche Dinge" sondern: "Hingabe an das Höchste, das ein Mensch erlebt, gleichviel welche Begriffe er damit verbindet." Um den Einfluß der Bewegung zu erhöhen, schlägt Wille die Gründung eines Kartells aller mit den Freidenkern gleichgesinnten Geistesrichtungen vor. 1909 kam es dann tatsächlich zur Gründung des "Weimarer Kartells", in dem Monistenbund, "Bund freireligiöser Gemeinden" und DFB zusammenarbeiteten. Der DFB und der Bund bildeteten 1921 den "Volksbund für Geistesfreiheit" mit der monatlich erscheinenden Zeitschrift "Geistesfreiheit" statt des "Freidenkers" als Organ. Im Nachruf dieser Zeitschrift auf Willes Tod heißt es u. a., daß Wille sich "mit der Richtung des Volksbundes für Geistesfreiheit nicht befreunden" konnte. Aber: "In der Geschichte des Freidenkertums nimmt er eine hervorragende Stelle ein." (37. Jg.,1928, S. 147)
Wie oben angedeutet, sieht Wille die Entwicklung der Wahrheit (für ihn gleichbedeutend mit Wissenschaft) in Analogie zur Entwicklung der Wirtschaft. In beiden solle "freies Spiel der Kräfte" herrschen. Der positive Lauf, den die Wirtschaft seit dem Liberalismus genommen habe, zeige die Möglichkeiten, die in der Wissenschaft ruhen. Durch gleiche Bedingungen für alle soll brachliegendes geistiges Potential freigesetzt werden. (17. Jg.,1909, S. 17-19). Der Wirtschaftsliberalismus setzte tatsächlich ungeheure Energien frei, den notwendigen Konkurrenzkampf gewinnen jedoch die Stärkeren wie in der Natur auf Kosten der Schwachen (Monopolbildung). Eine andere interessante Frage schließt sich daran an: Gehören Darwinismus und Sozialismus zusammen? Bebel sagte ja, Haeckel nein. (2. Jg.,1893/94, S. 65-68) Also: Befördert die Selektionstheorie den Sozialismus oder widerspricht sie ihm? Haeckel bezog das darwinistische Prinzip auf den Einzelnen, Bebel auf die Gesellschaftsform. Auf den ersten Blick scheint eher der Liberalismus dem Darwinismus zu entsprechen, in dem sich der Tüchtigste o.ä. durch setzt. Wille führt dagegen an, daß es in der Natur Schutzbündnisse gebe. Ob aber, wie er behauptet, "gerade der Kampf ums Dasein [...] solche Solidarität" auch in der Menschheit herbeiführen wird, ist zweifelhaft, da Wille nur den Zusammenhalt innerhalb einer Klasse meint. Der Sozialismus nach seiner Definition "sucht die Existenz-Bedingungen nicht etwa durch Abtragung ihrer sonnigen Höhen, sondern durch Zuschüttung ihrer grauenvollen Schluchten zu nivellieren." Er ist davon überzeugt, daß sich die unzweckmäßigen Einrichtungen der Gesellschaft zurückbilden und sich die Volkswirtschaft den Bedürfnissen des Volkes anpaßt. Also kommt der Sozialismus zwangsläufig? Wozu braucht man dann den "Umstürzler" Wille? Die Widersprüche sind dem darwinistischen Dogmatismus geschuldet.

Mit seiner Kritik an Haeckels nationalökonomischer Einstellung zeigt Wille nur einen Teil der unterschiedlichen politischen Auffassungen, die im Freidenkertum nebeneinander existierten. Generell kann man für die Beiträge Willes im "Freidenker" sagen, daß er im wesentlichen die Themen seiner Bücher behandelt und teilweise wörtlich daraus zitiert. Weiterhin nahm er zu aktuellen Fragen in der Regel kurz Stellung und redigierte die Zeitschrift mit einem m. E. erstaunlich hohen Maß an Meinungsfreiheit - getreu dem idealistischen Motto: "Das Freidenkertum ist eine Methode, eine Art zu denken, weniger ein bestimmter Inhalt des Denkens; es betont weniger das Was, als das Wie." (3. Jg.,1894/95, S. 5)

* Anmerkung: Der Text stellt einen Auszug aus einem Vortrag dar, den der Autor am 26. März 2001 auf Einladung des Berliner Landesverbandes der Deutschen Freidenker im Rahmen der philosophisch-weltanschaulichen Gespräche zur 120jährigen Geschichte der Freidenker in Deutschland gehalten hat.

dimanche, 19 décembre 2010

Mouvements et résistances

Mouvements et résistances

Ex: http://www.mecanopolis.org/

A l’aube de la guerre civile généralisée en Europe, un bref constat semble nécessaire. Les forces dictatoriales contrôlant les processus qui fondent notre réalité quotidienne se sont récemment doté de nouveaux atouts. Des atouts qui, évidemment, ont été patiemment maturé en partie grâce à la distillation de propagandes diverses et variées. Le but recherché est (et a toujours été) le même : étendre l’Empire. De Jules César à David Rockefeller & consorts, les choses n’ont vraisemblablement que peu changé. Les moyens sont différents, mais le but reste le même.

Les moyens sont devenus suffisamment subtils pour entretenir un conditionnement social et mental permanent. Conséquence : L’extrême Majorité des revendications proposées par les collectifs, associations citoyennes, etc., sont en réalité voulues par et pour le système. La promesse de la « mondialisation heureuse » et sans-frontiériste a fait du chemin depuis Médecins Sans Frontières et Bernard Kouchner. Il ne s’agit plus seulement de se servir des maux de l’humanité pour introduire le droit d’ingérence (1) mais également de créer et/ou reprendre chaque combat pour étendre la globalisation de l’Empire.

Face aux quelques États rebelles persistants, Wikileaks (2), la CIA et les associations dites « de défense des droits de l’homme » (mais jamais des droits de l’homme *et du citoyen*), développent une propagande digne des heures les plus sombres de l’occident moderne. Pendant ce temps, la crise économique persiste et l’éclatement des Nations européennes s’active. Et ceci, au profit de l’euro-régionalisme, qui permet notamment la création de patrouilles policières et militaires binationales : A la frontière franco-espagnole (3), franco-allemande (4), etc. (645 soldats allemands d’ici 2012 en Alsace). Combien de temps avant que ces patrouilles ne deviennent intégralement européennes puis mondiales ? Mais surtout, combien de temps avant qu’elles disposent des derniers moyens technologiques à l’initiative de la Rand Corporation ? (5)

En parallèle, les « révolutions » menées par les différentes factions politiques se révèlent toutes plus naïves les unes que les autres : de la CNT à Attac, en passant par M. Mélenchon et son pseudo-combat contre le groupe le Siècle. Les prétendants au titre de « force d’opposition » ne manquent pas et recyclent continuellement les mêmes thèmes moraux : antifascisme, antiracisme, féminisme, anti-libéralisme, tiers-mondisme, etc. ; alibis de leur incapacité à proposer une véritable solution au problème. C’est pourtant le rôle que la « gauche » devrait jouer. Rôle qu’elle ne peut manifestement plus jouer, tant ses outils d’analyses sont à des années lumières de la réalité politique et sociale.

Un point commun à tous les prétendus opposants au système les réunit dans leur incompétence, celui de l’incapacité d’analyser la situation, et de se servir d’outils justes et limpides. Combien d’entre-eux appellent à la critique du libéralisme, sans jamais avoir pris conscience qu’il s’agit d’autre chose ? Le libéralisme n’a jamais appelé à la privatisation des biens publics ni à la mise en place d’une économie de marché mondialisée. Le libéralisme s’érige contre la surcharge législative qui est un étau pour l’homme. Dans un système libéral : les lois doivent êtres peu nombreuses, claires et connues. Soit tout le contraire de ce à quoi nous assistons : la normativité à tout prix.

Le néo-libéralisme quant à lui, qui n’a pour fonction que de coaliser les États alliés au système de domination mondiale, impose à ces derniers l’intégration des communautés et autres lobbys. Ces derniers donnent leur(s) avis, et cela à l’encontre du bien commun. En France, cela pose évidemment un problème constitutionnel, mais tout a été fait pour passer outre. En effet, la République est censée être indivisible et anticommunautaire, et ainsi garantir l’égalité de chaque citoyen et cela peu importe son origine, sa communauté ou ses possibles orientations personnelles. Mais, c’est exactement l’inverse qui se produit. Et l’Europe suit la même trame : Chaque lobby souhaite y imposer sa loi. Il y a donc une volonté farouche de poser des règles et des ordonnances là où il n’y en avait pas auparavant – ce qui est précisément l’inverse du libéralisme.

Comment expliquer que les forces d’oppositions persistent dans leur incompétente critique ? Leurs porte -paroles sont bien souvent issus du monde universitaire, que l’on sait être particulièrement reclus, voire sectaire. L’école des hautes études en sciences sociales (EHESS), et dont la création n’aurait pas été possible sans l’appui financier de la Fondation Rockefeller, forme nombre de ces chercheurs incapables de trouver le moindre début de solution aux problématiques actuelles. (6) Il n’y a donc rien d’étonnant à ce qu’ils ne puissent sérieusement analyser la situation – encore moins disposer d’outils d’analyse perspicaces. Alors il se recyclent en défenseurs d’un ordre moral, qui n’a aucun rapport avec les véritables valeurs de la gauche progressiste. Au contraire, ils adoptent une posture réactionnaire typiquement totalitaire sur le plan idéologique. Rappelons-leurs que les penseurs, politiciens et chercheurs sont là pour servir le bien commun et non pour fixer les règles à suivre. C’est en cela que le système peut être bien plus pernicieux que ce que l’on croit : Il se présente sous de multiples formes.

On ne peut donc rien attendre de ce système, ni des partis politiques. Les quelques authentiques opposants au système de domination ne seront jamais élus, et n’obtiendront jamais suffisamment de couverture médiatique pour instruire la population. Nous le savons. Que reste-il donc ? Que faire face à la gravité d’une telle situation ?

Il est temps de s’allier, de se réunir – non pas pour combattre un système imbattable – mais pour organiser une résistance active : celle de l’avenir, de la vie. Il est temps de se demander ce dont on a réellement besoin pour la vie, de s’organiser afin de ne pas avoir à subir la dictature à venir. Combien de temps avant qu’une police mondiale équipée des derniers nano-drones et autres futures armes nécro-technologiques, vienne s’occuper de chaque opposant réel au système ?

Peu de temps. Trop peu de temps. Il est inutile d’énumérer les nuisances produites par le système de domination mondiale, elles sont trop nombreuses, trop insidieuses, pour pouvoir en comprendre le sens. On pourrait même se demander si elles sont vraiment assimilables pour un esprit humain ? L’homme a son destin entre les mains, c’est donc à nous – personnes un minimum lucides – de montrer la voie : Ne plus avoir peur de revenir à la source de la vie humaine, avoir le courage de se libérer de l’aliénation matérialiste, retourner à ce qui est sain, vrai, assimilable même pour un enfant de 8 ans encore jeune et innocent.

Julien Teil, pour Mecanopolis

Notes :

(1) A ce propos, lire Impérialisme humanitaire de Jean Bricmont

(2) Article du NouvelObs et du Réseau Voltaire

(3) Police : la coopération franco-espagnole

(4) En Alsace, installation délicate mais symbolique de soldats allemands

(5) A la recherche du nouvel ennemi, 2001-2025 : Rudiments d’histoire contemporaine ; Pièces et Main d’œuvre

(6) Les sciences sociales françaises sous perfusion de la CIA, RéseauVoltaire


Europese Unie en India gaan gezamenlijke strijd tegen terrorisme opdrijven

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Europese Unie en India gaan gezamenlijke strijd tegen terrorisme opdrijven

       
BRUSSEL 10/12 (BELGA) = De Europese Unie en India gaan nauwer samenwerken
in de strijd tegen terrorisme. Dat hebben ze vrijdag beslist tijdens
een EU-India-top in Brussel. Een belangrijk deel van die ontmoeting
was ook gereserveerd voor gesprekken over het nakende
vrijhandelsakkoord tussen beide "strategische partners", dat in de lente van
2011 groen licht zou moeten krijgen.
"De aanslagen in Londen, Madrid en Bombay hebben bewezen dat
terrorisme geen rekening houdt met de grenzen en dat een gezamenlijke
aanpak nodig is", zei Europees Raadsvoorzitter Herman Van Rompuy, daarin
bijgetreden door de Indische premier Manmohan Singh.
De Europese Unie en India zijn samen goed voor ruim anderhalf
miljard inwoners. Om die te beschermen, willen ze hun gezamenlijke strijd
tegen terrorisme nu opdrijven. Ze denken daarbij aan nauwere
samenwerking van hun respectieve anti-terreurdiensten, maar ook aan
strengere internationale veiligheidsnormen voor vliegverkeer, striktere
identiteitscontroles en het droogleggen van de financiële bronnen van
terreurorganisaties.
Opsteker voor India is voorts dat de gezamenlijke mededeling andere
landen ook oproept "terroristen hun veilige uitvalsbasis te
ontnemen en alle terroristische infrastructuur op het grondgebied dat ze
controleren te ontmantelen". De verklaring noemt geen enkel land bij
naam, maar India verweet erfvijand Pakistan al vaker dat het
terroristen teveel vrij spel geeft. 
Als opkomende grootmacht is India voor de Europese Unie ook
economisch erg aantrekkelijk. "Er bestaat nog steeds een enorm onaangeboord
potentieel", benadrukte Commissie voorzitter Jose Manuel Barroso.
De huidige handel tussen beide partners bedraagt zo'n 52 miljard euro
per jaar, "maar dat is niet genoeg", vulde Van Rompuy aan.
Bedoeling is begin 2011 een grootschalig vrijhandelsakkoord af te
sluiten, dat zo'n 90 procent van alle in- en uitvoerrechten schrapt.
"We geven hiermee een duidelijk signaal voor globale openheid en
tegen protectionisme", benadrukte Barroso, verwijzend naar de
aanslepende economische malaise.
KNS/(PIM)/

Wetterleuchten in Asien - steigt die Kriegsgefahr?

Wetterleuchten in Asien – steigt die Kriegsgefahr?

Wolfgang Effenberger

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Genau vor 60 Jahren tobte vom 26. November bis 13. Dezember 1950 die Schlacht um den nordkoreanischen Changjin-Stausee. Chinesische Truppen waren überraschend über den Yalu-Fluss, den Grenzfluss zur Mandschurei, vorgedrungen und zwangen die US-Verbände zum hastigen Rückzug aus den nur Wochen zuvor gewonnenen Stellungen in Nordkorea. Der Angriff der etwa 300.000 Mann starken chinesischen »Freiwilligenarmee« endete mit einer der spektakulärsten Niederlagen des US-Militärs in seiner gesamten Geschichte. Um ein unter US-amerikanischem Einfluss vereinigtes Korea zu vermeiden, hatte China mit einer zunächst 300.000 Soldaten umfassenden »Freiwilligenarmee« Nordkorea zu unterstützen begonnen.

 

 

Es folgte ein sich lange hinziehendes Patt, das erst mit dem im Juli 1953 erklärten Waffenstillstand endete. Der Krieg hatte annähernd vier Millionen Menschen das Leben gekostet; die meisten davon waren koreanische Zivilisten. (1) Sechs Jahrzehnte nach den erbitterten Kämpfen amerikanischer und chinesischer Truppen streben die Spannungen auf der koreanischen Halbinsel offenbar wieder auf einen neuen Höhepunkt zu. Angeheizt durch einen sich zuspitzenden Großmachtkonflikt zwischen Washington und Beijing?

Die Ankunft einer US-Kriegsflotte im Gelben Meer unter Führung des atomgetriebenen Flugzeugträgers USS George Washington scheint eine weitere Eskalation der augenblicklichen Krise zu bestätigen. Den Marschbefehl erhielt die Flotte angeblich unmittelbar nach dem Beschuss der Insel Yeonpyeong durch Nordkorea am 23. November 2010. Für die meisten der westlichen Medien stand zweifelsfrei der Schuldige fest: Die unprovozierten Nordkoreaner hatten erneut den Waffenstillstand gebrochen und einen Bündnispartner der USA angegriffen. Pflichtgemäß berichtete ABC News von Präsident Obamas »Empörung« über die Provokation und dessen Willen, mit Südkorea »Schulter an Schulter zu stehen«. (2)

In der folgenden Flut von Artikeln und Medienberichten meldete sich auch Zbigniew Brzezinski zu Wort. Der alte Geostratege hatte als Jimmy Carters Sicherheitsberater die Mudschahedin bewaffnet, um die Sowjetunion in das afghanische Abenteuer zu locken. Nun sah er in dem Beschuss ein Zeichen dafür, »dass das nordkoreanische Regime einen Punkt des Wahnsinns erreicht hat«. Die rational kaum zu ergründenden Handlungen zeigen Brzezinski, »dass das Regime außer Kontrolle ist.« (3) So einfach scheint es aber nicht zu sein. Nur einen Tag vor der nordkoreanischen Provokation hatte Südkorea unter dem Codenamen »Hoguk« rund 70.000 Soldaten für ein Manöver mit »scharfem Schuss« in diesem umstrittenen Grenzgebiet zusammengezogen. An dieser jährlichen Militärübung nahmen Dutzende von südkoreanischen und US-Kriegsschiffen und rund 500 Flugzeuge teil. (4) Ursprünglich war auch die Teilnahme von US-Truppen geplant, die aber offenbar im letzten Augenblick absagten. (5) Anstatt unreflektiert auf Nordkorea zu verweisen, hätte eine verantwortliche Berichterstattung die Hintergründe aufhellen beziehungsweise eine neutrale Untersuchung for-dern müssen. Muss nicht auch das südkoreanische Manöver »Hoguk« in einem umstrittenen Grenzgebiet als Provokation angesehen werden? Die Insel Yeonpyeong liegt in unmittelbarer Nähe des nordkoreanischen Festlandes. Einseitig hatte Ende des Koreakrieges im Jahr 1953 US-General Mark Clark die umstrittene Grenzziehung zu Nordkoreas Nachteil festgelegt. Nordkorea hat diese Seegrenze nie anerkannt.

Nun scheint die Krise mit der überraschenden Dienstreise des Stabschefs der US-Armee, Admiral Mike Mullen, zu einem Besuch nach Seoul weitere Kreise zu ziehen.

Die Spannungen zwischen Nord- und Südkorea oszillieren im Weltmachtpoker. Bereits einige Tage vor Obamas Besuch in Japan demonstrierten Anfang November 2009 über 20.000 Japaner in Ginowan gegen den weiteren Ausbau der US-Militärstützpunkte und den Neubau eines der modernsten Einsatz- und Kampfführungszentren auf der Insel Okinawa – Fertigstellung bis 2013. Weiter verlangten sie die Schließung der in der Nähe ihrer Stadt gelegenen amerikanischen Marine-Corps-Futenma-Air-Base. Unter dem Beifall der Demonstranten rief der Bürgermeister von Ginowan, Yoichi Iha, dem japanischen Premierminister Yukio Hatoyama zu, Präsident Obama zu sagen, »dass Okinawa keine US-Basen mehr braucht.« Abschießend forderte der Bürgermeister vom Premier »eine tapfere Entscheidung zu treffen und mit der Last und Qual von Okinawa Schluss zu machen.« (6) Schon früher hatte die Opposition gegen die Anwesenheit einer strategisch bedeutenden US-Militärbasis in Japan Stellung bezogen. Sind doch von diesem »unsinkbaren Flugzeugträger der Vereinigten Staaten« China, Taiwan und Nordkorea leicht zu erreichen. Japan als östliches Einfallstor nach Eurasien.

Am Mittwoch hatte Clinton zusammen mit US-Verteidigungsminister Robert Gates bei einem ungewöhnlichen Besuch des innerkoreanischen Grenzorts Panmunjom schärfere Strafen gegen Pjöngjang verkündet, um dessen »nuklearen Bestrebungen Einhalt zu gebieten«.

Am 21. Juli besuchte US-Außenministerin Hillary Clinton zusammen mit US-Verteidigungsminister Robert Gates die entmilitarisierte Zone des innerkoreanischen Grenzorts Panmunjom. Dort verkündete sie schärfere Strafen gegen Pjöngjang, um dessen »nuklearen« Bestrebungen Einhalt zu gebieten. Der demonstrative Charakter dieses »Besuches« offenbarte auch das weitere Gepäck der US-Außenministerin: neue Wirtschaftsembargos gegen Nordkorea und die Ankündigung von der Zunahme der gemeinsamen Militärmanöver mit Südkorea in den kommenden Monaten. Das hatte der Pressesekretär des Pentagons, Jeff Morrell, bereits auf der Pressekonferenz am 14. Juli ausgeführt: »Auch werden gemeinsame Militärmanöver bei den Verhandlungen 2+2 [zwischen Nord- und Südkorea sowie China und den USA] zur Sprache gebracht. Zu denen gehören neue See- und Luftmanöver im japanischen Meer und Gelben Meer.« Weiter führte Morell aus: »All diese Manöver sind defensiver Natur, aber sie geben Nordkorea eine klare abschreckende Botschaft und demonstrieren unsere unerschütterliche Verpflichtung zur Verteidigung Südkoreas.« (7)

Von Seoul flog die US-Außenministerin nach Hanoi zur asiatischen Sicherheitskonferenz. Dort warf Hillary Clinton der Regierung in Pjöngjang ein »provokatives, gefährliches Verhalten« vor. Daraufhin kündigte ein Sprecher der nordkoreanischen Delegation eine »physische Antwort« an und sprach von »Kanonenbootdiplomatie« und einer Bedrohung der nationalen Souveränität. (8)

Nur drei Tage später kreuzten 20 Marineschiffe und 200 Kriegsflugzeuge aus Südkorea und den USA, darunter der eigens nach Korea geschickte Flugzeugträger »George Washington« vier Tage lang zwischen Südkorea und Japan. Weitere Militärübungen wurden für August geplant.

Mit der Verschärfung ihres Kurses reagieren die USA auf die schwache Resolution des Weltsicherheitsrats. Der hatte den Untergang der südkoreanischen Korvette »Cheonan« im März verurteilt, ohne den angeblichen Angreifer Nordkorea zu erwähnen.(9)

Peking hatte eine schärfere UN-Resolution verhindert und sich »tief besorgt« über die südkoreanisch-amerikanischen Manöver geäußert. Sie würden die Spannungen in der Region weiter anheizen.

Laut südkoreanischen Presseberichten haben die USA bereits seit Juni bei rund zehn Banken in Südostasien, Südeuropa und dem Nahen Osten heimlich etwa 100 Konten einfrieren lassen, über die Nordkorea angeblich illegale Geschäfte abwickeln soll. (10)

Warum heizt die US-Administration gerade jetzt das Koreaproblem an? Sollen hier die Chinesen gebunden werden, um mehr Handlungsfreiheit gegen den Iran zu bekommen?

Trotz – oder aufgrund? – aller wirtschaftlichen, politischen und militärischen Schwierigkeiten scheinen die USA an ihren globalen Plänen und der per Gesetz verankerten Seidenstraßenstrategie (11) festzuhalten. Die Stützpunkte im zentralen US-Militärkommando CENTCOM – vom kaspischen Raum bis zum Horn von Afrika – werden weiter ausgebaut. Ebenso wie im Osten Eurasien wird im Westen und zwar in Wiesbaden das Pendant zu Ginowan auf der Insel Okinawa gebaut.

Völlig unspektakulär war in der US-Armeezeitung Stars & Stripes am 20. Oktober 2009 vom Umzug des Hauptquartiers der US Army/Europe (USAREUR) von Heidelberg nach Wiesbaden zu lesen. (12) Auf dem dortigen US-Airfield Erbenheim soll bis 2013 das neue Europa-Hauptquartier der US Army entstehen. 68 Jahre nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges und nach elf US-Präsidenten seit Harry Truman (1945–1953) sollen von einem amphitheaterähnlichen Einsatz- und Kampfführungszentrum aus die militärischen Geschicke Europas gesteuert werden. Das 84 Millionen Dollar teure dreistöckige Zentrum wird auf ca. 26.500 Quadratmetern mit den neuesten Kommunikations- und Planungsgeräten ausgestattet und zur modernsten US-Militäreinrichtung in Europa ausgebaut. Den Grund für den Neubau erläuterte der Operationschef der USAREUR, Brigadegeneral David G. Perkins: »Bisher ist das Hauptquartier der USAREUR weder dazu ausgelegt, noch technisch oder personell so ausgestattet, dass es als Kriegsführungshauptquartier dienen könnte.« Welche neuen Kriege sollen von hier aus ab 2013 geführt werden?

 

Anmerkungen:

 

(1) R. J. Rummel: »Statistics of North Korean Democide Estimates, Calculations and Sources«, STATISTICS OF DEMOCIDE, Chapter 10, unter http://www.mega.nu/ampp/rummel/sod.chap10.htm [09.12.10]

(2) White House: »President Obama ›Outraged‹ by North Koreas Attack«, November 23, 2010, 12:32 PM, unter http://blogs.abcnews.com/politicalpunch/2010/11/white-hou...

(3) Zbigniew Brzezinski, »America and China’s first big test«, Financial Times, 23. November 2010.

(4) Gregory Elich: »Spiralling out of Control: The Risk of a New Korean War«, in Global Research vom 4. Dezember 2010

(5) Justin Raimondo: »Latest incident a provocation – but by whom?«, vom 24. November 2010, http://original.antiwar.com/justin/2010/11/23/korean-conu...

(6) Zitiert aus »Japanese protest US base before Obama visit« in yahoo news, http://news.yahoo.com/s/afp/20091108/wl_asia_afp/japanusd...

(7) http://german.irib.ir/analysen/kommentare/item/113405-hil...

(8) Martin Fritz: »US-Sanktionen gegen Nordkorea. Kalter Krieg wird heißer«, taz vom 23. Juli 2010, http://www.taz.de/1/politik/asien/artikel/1/kalter-krieg-... [09.12.10]

(9) Eine südkoreanische Untersuchung hatte ein Torpedo des Nordens als Ursache für den Tod von 46 Seeleuten identifiziert. Nordkorea bestreitet dies jedoch.

(10) Martin Fritz: »US-Sanktionen gegen Nordkorea. Kalter Krieg wird heißer«, taz vom 23. Juli 2010, http://www.taz.de/1/politik/asien/artikel/1/kalter-krieg-... [09.12.10]

(11) Seidenstraßen-Strategie-Gesetz

Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152-106th Congress)

Offizieller Titel: To amend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the economic and political independence of the countries of the South Caucasus and Central Asia.

Im Mai 2006 modifiziert:

Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749-109th Congress)

Offizieller Titel: A bill to update the Silk Road Strategy Act of 1999 to modify targeting of assistance in order to support the economic and political independence of the countries of Central Asia and the South Caucasus in recognition of political and economic changes in these regions since enactment of the original legislation.

(12) Mark Patton: »Contract awarded for Wiesbaden USAREUR center«, in: Stars and Stripes, European edition, 20. Oktober 2009, http://www.stripes.com/article.asp?section=104&articl...

 

Les combats d'un Uhlan

Les combats d’un Uhlan

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com/

uhlan.jpgLongtemps avant la glaciation de la liberté de pensée, les polémistes brillaient dans les journaux ou publiaient des pamphlets. Dorénavant, du fait de l’étroite surveillance des écrits dissidents et de la stérilisation marchande de la presse, les plumes les plus percutantes s’activent sur la Toile. C’est justement grâce à Internet que j’ai découvert André Waroch et ses articles explosifs. Je me félicite, aujourd’hui, que certains d’entre-eux constituent Les Larmes d’Europe.

Je m’attends que les articles d’André Waroch, Uhlan d’Europe Maxima, susciteront l’irritation, l’agacement, voire le mécontentement de ceux qui n’apprécient pas ses avis tranchés. Oui, Waroch ose – et sait – déplaire ! Je suis bien placé pour le savoir puisque je reçois régulièrement quelques courriels désobligeants volontiers dédaignés.

Les positions défendues par André Waroch sont loin d’être les miennes. Dès nos premiers échanges via Internet, je lui fis part de mes réticences, de mes divergences même, avec certaines de ses analyses. Pourquoi alors ai-je quand même accepté de le mettre en ligne (et de le préfacer) ? Tout simplement parce que je suis un homme libre, adversaire de tout dogmatisme et que je conçois, en outre, Europe Maxima comme un espace de confrontations intellectuelles, fussent-elles vives et polémiques. Il n’est pas anodin qu’on y lise en exergue sur la page d’accueil la belle citation de Dominique de Roux : Europe Maxima est le site où l’« on pourra s’exprimer avec la clarté de n’importe quelle pensée et de toute, à droite, à gauche, ailleurs, où l’on posera plus de questions qu’on n’en résoudra ». On a compris que j’exècre le conformisme ambiant, l’idéologie actuelle des « moutons de Panurge », le politiquement correct. Je partage souvent les dégoûts d’André Waroch envers notre hideuse société contemporaine.

Les Larmes d’Europe s’apparente donc à une Sturmgewehr indispensable aux combats métapolitiques. En dix articles, André Waroch esquisse sa vision du monde qu’il affine, rectifie et corrige par rapport à son premier ouvrage, France Terminus, un véritable abécédaire de la décadence (1). Il soutient que l’idéologie multiculturaliste marchande met désormais en péril l’homme européen. Conscient du risque d’extinction, Waroch s’y oppose de toutes ses forces à l’échéance et en appelle en un sursaut salvateur, d’où sa fougue et sa vindicte qu’il porte aux idoles médiatiques dominantes. En véritable tireur d’élite, il les vise et les abat d’un coup sûr. Au moment de l’affaire de mœurs de Frédéric Mitterrand, collatérale à l’affaire Polanski, Waroch se range immédiatement du côté des petites gens scandalisées par les multiples passe-droits que s’octroie une oligarchie vorace et sans foi. Il attaque aussi avec vigueur toute la clique de saltimbanques, d’acteurs de films abjects et de brailleurs de sons insanes qui encouragent les immigrés clandestins délinquants – les fameux « sans-papiers » – sans aller jusqu’à les héberger dans leurs cossus lofts du XVIe arrondissement, de Montmartre et du Lubéron ! Issu du peuple de France et vivant au quotidien les affres de la « cohabitation » multi-ethnique en banlieue francilienne, Waroch est bien plus habilité à traiter du terrible problème de l’immigration que tel ou tel footeux milliardaire ou chanteuse sans talent.

Outre le Neveu, André Waroch « flingue » magnifiquement Caroline Fourest qui, de Charlie Hebdo au Monde (soit d’une décadence l’autre !), symbolise à merveille l’idéal républicain hexagonal et les contradictions schizophréniques béantes de notre temps. Individualiste radicale et éclairée, Fourest promeut l’abolition de toutes les différences, de toutes les frontières, de tous les genres, bref, de toutes les spécificités essentielles qui donnent au monde sa complexité. Cette zélatrice de la théocratie totalitaire des droits de l’homme mérite pleinement d’être considérée comme la quintessence du « Quart-Monde de la pensée ».

Ces quelques convergences établies (il y en a d’autres !), je puis maintenant exposer mes différends avec notre chevau-léger. Je trouve par exemple que sa perception de l’islam est incomplète et maladroite. Un certain anti-islamisme en vigueur dans les milieux « identitaires » témoigne un aveuglement certain et d’une défaillance évidente de stratégie. Il est bien de contester les Quick hallal. Mais il aurait été plus judicieux de condamner l’existence même des fast foods en France et en Europe. On ne peut, à mon humble avis, refuser le tchador, le voile musulman ou la burqa quand on porte soi-même l’uniforme occidental qu’est le jean’s… Comme d’autres, plus ou moins inspirés, Waroch voit l’islam comme un vaste bloc, ignorant ou sous-estimant l’importance des tribus, des peuples, des États et des contentieux qu’ils engendrent. Les mahométans se réfèrent certes à l’Oumma comme les chrétiens se référaient jadis à la Chrétienté médiévale. On sait ce qu’est devenu l’œcumène euro-chrétien. Un même sort attend probablement l’Islam. André Waroch confond enfin islam et immigration. Or j’estime que le danger majeur pour le devenir des Européens reste le fait migratoire, l’islamisation indéniable du continent n’étant que l’effet immédiat de la « colonisation de l’Europe » contre quoi il faut se battre non pas en reprenant les thématiques de la Modernité laïque et décatie, mais en mettant en valeur nos principes d’enracinement, d’autochtonie et d’identité.

Les relations entre l’Europe et la Russie constituent un autre point d’achoppement. André Waroch est un russophile affirmé et voit, comme naguère Jean Cau dans son Discours de la décadence (2), dans la patrie de Poutine l’ultime recours des peuples autochtones d’Europe. Or il déclare aussi que la Russie et le monde orthodoxe forment une autre civilisation européenne, une civilisation jumelle mais distincte. Là encore, je reste dubitatif sur l’unité civilisationnelle de l’Orthodoxie. Moscou peut jouer de son nombre, mais il doit prendre en compte la susceptibilité des autres patriarcats dont ceux de Constantinople, d’Athènes, de Pec, de Bucarest ou, non reconnu, de Kiev. Par ailleurs, je persiste dans mon scepticisme au sujet d’une Russie, hypothétique sauveuse de l’Europe en déclin. Quand on consulte les essais de Jean-Robert Raviot (3), on constate que le Kremlin pourrait, un jour ou l’autre, se rallier à l’hyper-classe mondialiste. Qu’André Waroch se méfie des enthousiasmes à la fois géopolitistes et impolitiques !

Contre l’idéologie républicaine hexagonale, faut-il néanmoins revenir à une identité néo-gauloise ou celtique comme le souhaite Waroch le bien nommé ? Quand on retrace la généalogie de l’idée gauloise, on remarque qu’elle apparaît à la fin du XVIIIe siècle chez des nobles qui s’estimaient héritiers des conquérants francs sur les descendants des Gaulois. Si, malgré une très forte influence de l’Antiquité gréco-romaine, la Révolution ne s’inspire guère des Gaulois, ceux-ci retrouvent un regain d’intérêt sous le Second Empire d’un Napoléon III fasciné par Vercingétorix et le site possible d’Alésia, avant que la IIIe République en fasse quasiment ses maîtres tutélaires. Il s’agissait pour les républicains d’alors de se démarquer autant de Rome, matrice de la catholicité, que des Francs perçus comme trop germaniques : seuls les Gaulois montraient une compatibilité avec la laïcité, l’anticléricalisme et la « Revanche ». Certes, dans ces charmants lieux de convivialité, de « vivre-ensemble » et de fraternité que sont les « zones de non-droit », une population soi-disant « stigmatisée » et « victime du racisme institutionnel profond » n’hésite pas à qualifier les derniers Français de souche européenne de « Gaulois », de « Céfrans » ou  de « Fromage blanc »… Plutôt que de revenir à d’anciennes racines, il serait plus approprié de diffuser et de répandre une origine européenne commune, notre origine boréenne.

Rédigé au moment de la guerre de décembre 2008 – janvier 2009 entre le Hamas et Israël dans la Bande de Gaza, « Israël et la prophétie de Theodor Herzl » concerne l’interminable conflit israëlo-arabe. André Waroch n’a jamais caché son souhait d’une entente, voire d’une alliance, entre les « nationalistes » français et/ou européens et les sionistes (ou la communauté juive). Je crains qu’il fasse là fausse route. Je ne me définis pas comme nationaliste : le nationalisme procède de la Modernité et ne répond pas aux défis de notre époque fluide et mouvante. Waroch en est lui-même conscient puisqu’il observe le délitement irrémédiable de l’État-nation. Ensuite, on ne peut pas assimiler le sionisme au judaïsme et l’hostilité à Israël à de l’antisémitisme. Des juifs traditionalistes (Neturei Karta ou les Satmar) (4) dénient toute légitimité à l’État hébreux. A contrario, les sionistes les plus fanatiques se recrutent chez les fondamentalistes puritains étatsuniens qui n’en conservent pas moins une forte judéophobie. J’ai l’intime conviction qu’il existe – ou existera à terme – un accord tacite entre certaines franges de l’islam sunnite radical et Israël, car ils partagent la même haine de la civilisation européenne. Sur cette base négative minimale, Tel-Aviv entérinerait sa domination sur la Palestine et l’islam aurait le droit de conquérir notre Vieux Monde. Cela expliquerait pourquoi des groupes ultra-sionistes et les ligues de petite vertu n’ont jamais cessé de condamner tous les mouvements de résistance française et européenne, du raid sanglant au colloque du G.R.E.C.E. de décembre 1979 à l’attaque de la réunion – hommage à Saint-Loup en 1991 en passant par les condamnations judiciaires d’hommes politiques et historiens réfractaires au Diktat ambiant. En outre, comment peut-on être sioniste sur les rives du Jourdain et hostile au moindre patriotisme sur les berges de la Seine, du Tibre, de la Tamise ou de la Moskova ? C’est la raison pour laquelle le mot d’ordre « ni kippa, ni keffieh » reste d’actualité. Comme pour l’Europe, l’avenir du Proche-Orient ne passe ni par une fragmentation d’États minables, ni par le paradigme stato-national épuisé ou la solution fantaisiste d’une entité binationale. Seul, à mes yeux, un grand-espace régional s’étendant du Sinaï au sandjak perdu d’Alexandrette (Iskendenrun en turc) englobant le Liban, la Syrie, la Jordanie, la Palestine et Israël, résoudrait ce lancinant problème. On remarquera que cette vision s’inscrit dans la quête d’une troisième voie salutaire.

Or, dans son avant-propos, André Waroch se réclame du souverainisme européen. Ce serait une belle troisième voie au-delà d’une Europe des nations incapables de s’entendre sur l’essentiel, et de l’Europe de Bruxelles qui se singularise par une absence abyssale de volonté politique et une profusion de visages (présidences tournante semestrielle, du Conseil européen, de la Commission, de l’Euro-Groupe…) témoignant de leur impuissance congénitale. Il espère exposer ses idées sur ce point précis dans un prochain ouvrage et paraît pour l’instant en pleine recherche. Je puis lui annoncer dès à présent qu’il existe déjà une idée qui rejaillira tôt ou tard sous la pression d’événements terrifiants : c’est la notion traditionnelle, anti-moderne et post-moderne d’Empire ! Allez, Cher André Waroch, encore des efforts pour devenir un héraut gibelin, un Français d’Europe et un Gaulois d’Empire ! N’oubliez pas que « la vraie source des larmes n’est pas la tristesse, mais la grandeur (5) ». Il importera après, une fois ses larmes séchées, que l’Europe – notre Europe des peuples autochtones – s’arme.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : André Waroch, France Terminus, 2008, 64 p., format Word. Ouvrage seulement consultable sur demande gratuite à Europe Maxima.

2 : Jean Cau, Discours de la décadence, Copernic, 1978.

3 : Jean-Robert Raviot, Qui dirige la Russie ?, Lignes-de-Repères, 2007, et Démocratie à la russe. Pouvoir et contre-pouvoir en Russie, Ellipses, 2008.

4 : Issus d’une scission en 1938, les Neturei Karta sont des juifs ultra-orthodoxes qui entendent respecter scrupuleusement la halakha (loi religieuse orthodoxe juive). Estimant que seul le Messie a le droit de restaurer Israël, ils pratiquent un antisionisme militant souvent plus radical que celui des Satmar. Partageant le même antisionisme, les Satmar sont des juifs hassidiques issus de la Transylvanie au début du XXe siècle. Ils n’hésitent toutefois pas à vivre en Israël sans servir dans Tshahal, reconnaître le système judiciaire, payer des impôts ou accepter les aides sociales.

5 : Pierre Gripari, Reflets et réflexes, L’Âge d’Homme, 1983, p. 29.

André Waroch, Les Larmes d’Europe, Le Polémarque Éditions, 2010, préface de Georges Feltin-Tracol, 118 p., 12 € (frais de port de 4 €).

À commander par la Poste aux Éditions Le Polémarque, 29, rue des Jardiniers, 54 000 Nancy, France, accompagné d’un chèque bancaire à l’ordre de « Laurent Schang – Le Polémarque Éditions » ou par courriel à <lepolemarque@gmail.com>.


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The Return of Carl Schmitt

The Return of Carl Schmitt

 Scott Horton

 

"Woe unto him who has no enemy, for at the Last Judgment I shall be his enemy."
- Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus (1950)

 

Schmitt_nomos_de_la_terre-23a63.jpgA recent study points to 108 deaths in detention in the War on Terror, with a substantial part clearly linked to the Bush Administration’s controversial new coercive interrogation practices. Some of the most egregious cases involve the CIA. In this week’s New Yorker, Jane Mayer takes a close look at one case – that of Manadel al-Jamadi. Approximately two years ago, Jamadi died at the infamous Abu Ghraib prison near Baghdad. His death was quickly ruled a homicide, a CIA investigation found clear indicia of criminal wrongdoing, and with that the matter was placed in the hands of Paul McNulty – the U.S. Attorney for the Eastern District of Virginia and now the Bush Administration’s new nominee to serve as Deputy Attorney General. Since that time, from all appearances nothing has been done – the file has languished “in a Justice Department drawer,” in the words of one of Mayer’s informants.

Mayer, whose earlier writings have greatly contributed to the public understanding of the detainee abuse scandal, astutely recognizes the wide-ranging significance of the case. Justice in a homicide case is important enough, but this case raises another and potentially far more troublesome question: Has the Department of Justice been corrupted by its “torture memoranda”? Would a prosecution expose indelible links between the crime and the highest echelons of the Department of Justice? The question is not far-fetched. Indeed, its potential to rock the Bush Administration dwarfs that of the Plamegate scandal. As Marty Lederman established in a lengthy series of posts, the “torture memoranda” served a concrete double function: they overcame Agency objections that certain interrogation techniques violated the law (by furnishing an Attorney General opinion that they were lawful), and they offered effective impunity to CIA agents who uses these techniques. I caution that this is the function they were intended to serve. Whether memoranda of the Office of Legal Counsel can actually shield those who rely on them from prosecution is doubtful.

Let us assume that the techniques employed on Jamadi – including the likely fatal “Palestinian hanging” approach – were within the scope of the torture memoranda. Were charges to be brought against the agent who had custody of Jamadi and used the fatal technique, he would certainly plead the torture memoranda as an affirmative defense. Confronted with such claims, a truly independent prosecutor would have to consider the possibility that the authors of these memoranda counseled the use of lethal and unlawful techniques, and therefore face criminal culpability themselves. That, after all, is the teaching of United States v. Altstötter, the Nuremberg case brought against German Justice Department lawyers whose memoranda crafted the basis for implementation of the infamous “Night and Fog Decree.” Who can imagine Paul McNulty, now nominated to serve as Alberto Gonzales’ deputy, undertaking such an investigation of his boss? Hence, McNulty’s dilemma is understandable, but his failure to act should not be lightly dismissed.

Mayer’s article raises fair and compelling questions about McNulty’s handling of the Jamadi homicide case – and about the role of the Department of Justice in the investigation of detainee homicides generally.

But Mayer’s article is significant for another reason. It sheds new light on one of two of the “torture memoranda” which is not yet in the public domain, but has long been viewed as critical to understanding the inhumane practices that became commonplace in Iraq beginning in the fall of 2003.



A March [14], 2003, classified memo was “breathtaking,” the same source said. The document dismissed virtually all national and international laws regulating the treatment of prisoners, including war-crimes and assault statutes, and it was radical in its view that in wartime the President can fight enemies by whatever means he sees fit. According to the memo, Congress has no constitutional right to interfere with the President in his role as Commander-in-Chief, including making laws that limit the ways in which prisoners may be interrogated. Another classified Justice Department memo, issued in August, 2002, is said to authorize numerous “enhanced” interrogation techniques for the C.I.A. These two memos sanction such extreme measures that, even if the agency wanted to discipline or prosecute agents who stray beyond its own comfort level, the legal tools to do so may no longer exist. Like the torture memo, these documents are believed to have been signed by Jay Bybee, the former head of the Office of Legal Counsel, but written by a Justice Department lawyer, John Yoo, who is now a professor of law at Berkeley.



As has been noted in this space before, the March 14, 2003 Yoo memorandum has assumed a “Rosetta Stone” quality. It was transmitted to the Department of Defense as advice at a critical juncture – as the Iraq War moved off the drawing boards and into reality, and questions were repeatedly raised about how the Geneva Conventions were to be applied. But that's not all. Mayer's article now suggests the existence of other advice which explicitly addressed the situation in Iraq:

By the summer of 2003, the insurgency against the U.S. occupation of Iraq had grown into a confounding and lethal insurrection, and the Pentagon and the White House were pressing C.I.A. agents and members of the Special Forces to get the kind of intelligence needed to crush it. On orders from Secretary of Defense Donald Rumsfeld, General Geoffrey Miller, who had overseen coercive interrogations of terrorist suspects at Guantánamo, imposed similar methods at Abu Ghraib. In October of that year, however—a month before Jamadi’s death—the Justice Department’s Office of Legal Counsel issued an opinion stating that Iraqi insurgents were covered by the Geneva Conventions, which require the humane treatment of prisoners and forbid coercive interrogations. The ruling reversed an earlier interpretation, which had concluded, erroneously, that Iraqi insurgents were not protected by international law.



SCHMITT_HamletHecuba_MED.gifDocuments which have circulated in connection with the Fay/Jones and Taguba Reports made clear that following the issuance of high-level legal advice outside normal Department of Defense channels, command authorities in Iraq no longer considered the Geneva Conventions to restrain them in their handling of detainees. Internal email traffic among military intelligence units is consistent: Once you label the insurgent detainees as “terrorists,” “they have no rights, Geneva or otherwise.” It seems highly improbable that officers carefully trained in the Geneva rules would suddenly discard them on their own initiative. To the contrary, it is reasonably clear that instructions to that effect were transmitted from a very high source. The Yoo memoranda are critical to understanding what happened, and the March 14, 2003 combined with the initial OLC advice concerning treatment of insurgents in Iraq are likely the most significant pieces of the puzzle not yet in place.

But where exactly did Yoo come up with the analysis that led to the purported conclusions that the Executive was not restrained by the Geneva Conventions and similar international instruments in its conduct of the war in Iraq? Yoo’s public arguments and statements suggest the strong influence of one thinker: Carl Schmitt.

The Friend/Foe Paradigm
Perhaps the most significant German international law scholar of the era between the wars, Schmitt was obsessed with what he viewed as the inherent weakness of liberal democracy. He considered liberalism, particularly as manifested in the Weimar Constitution, to be inadequate to the task of protecting state and society menaced by the great evil of Communism. This led him to ridicule international humanitarian law in a tone and with words almost identical to those recently employed by Yoo and several of his colleagues.


Beyond this, Yoo’s prescription for solving the “dilemma” is also taken straight from the Schmittian playbook. According to Schmitt, the norms of international law respecting armed conflict reflect the romantic illusions of an age of chivalry. They are “unrealistic” as applied to modern ideological warfare against an enemy not constrained by notions of a nation-state, adopting terrorist methods and fighting with irregular formations that hardly equate to traditional armies. (Schmitt is, of course, concerned with the Soviet Union here; he appears prepared to accept that the Geneva and Hague rules would apply on the Western Front in dealing with countries such as Britain and the United States). For Schmitt, the key to successful prosecution of warfare against such a foe is demonization. The enemy must be seen as absolute. He must be stripped of all legal rights, of whatever nature. The Executive must be free to use whatever tools he can find to fight and vanquish this foe. And conversely, the power to prosecute the war must be vested without reservation in the Executive – in the words of Reich Ministerial Director Franz Schlegelberger (eerily echoed in a brief submission by Bush Administration Solicitor General Paul D. Clement), “in time of war, the Executive is constituted the sole leader, sole legislator, sole judge.” (I take the liberty of substituting Yoo’s word, Executive; for Schmitt or Schlegelberger, the word would, of course, have been Führer). In Schmitt’s classic formulation: “a total war calls for a total enemy.” This is not to say that in Schmitt’s view the enemy was somehow “morally evil or aesthetically unpleasing;” it sufficed that he was “the other, the outsider, something different and alien.” These thoughts are developed throughout Schmitt’s work, but particularly in Der Begriff des Politischen (1927), Frieden oder Pazifismus (1933) and Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937).

A Practical Guide to Evasion of the Geneva Conventions
Given this philosophical predisposition, how was a lawyer then to evade the application of the Geneva and Hague Conventions? Here an answer can be drawn not from Schmitt’s academic works, but from a series of determinations by the German General Staff which quite transparently reflected the influence of the then-Prussian State Councilor Carl Schmitt. A careful review of the original materials shows that the following rationales were advanced for decisions not to apply or to restrict the application of the Geneva Conventions of 1929 and the Hague Convention of 1907 during the Second World War:




(1) Particularly on the Eastern Front, the conflict was a nonconventional sort of warfare being waged against a “barbaric” enemy which engaged in “terrorist” practices, and which itself did not observe the law of armed conflict.
(2) Individual combatants who engaged in “terrorist” practices, or who fought in military formations engaged in such practices, were not entitled to protections under international humanitarian law, and the adjudicatory provisions of the Geneva Conventions could therefore be avoided together with the substantive protections.
(3) The Geneva and Hague Conventions were “obsolete” and ill-suited to the sort of ideologically driven warfare in which the Nazis were engaged on the Eastern Front, though they might have limited application with respect to the Western Allies.
(4) Application of the Geneva Conventions was not in the enlightened self-interest of Germany because its enemies would not reciprocate such conduct by treating German prisoners in a humane fashion.
(5) Construction of international law should be driven in the first instance by a clear understanding of the national interest as determined by the executive. To this end niggling, hypertechnical interpretations of the Conventions that disregarded the plain text, international practice and even Germany’s prior practice in order to justify their nonapplication were entirely appropriate.
(6) In any event, the rules of international law were subordinated to the military interests of the German state and to the law as determined and stated by the German Führer.


The similarity between these rationalizations and those offered by John Yoo in his hitherto published Justice Department memoranda and books and articles is staggering. It is of course possible that John Yoo came upon all of this on his own, like a scholar laboring in some parallel universe unaware of the work of others. Possible. But not probable.

It is more likely that Yoo’s work is a faithful, through crude and occasionally flawed interpretation of Schmitt. I say "crude" principally because Schmitt expresses from the outset the severest moral reservations about his concept of "demonization." It is, he fears, subject to "high political manipulation" which "must at all costs be avoided." The use of this technique, he writes, may only be available when "the survival of the people is at stake." Der Begriff des Politischen, pp. 20-33. Yoo expresses no comparable hesitation, preferring simply to place all confidence in the Executive, and justifying this implausibly in the writings of the Founding Fathers.

But Yoo's conclusions are rendered even more inexplicable by another point. After World War II was over and the full horror of what the Axis Powers had done was apparent, a consensus was reached to overhaul the Geneva Conventions with the express intention of repudiating the German evasions of the Conventions listed above. So, while these positions may have been arguable with respect to the two 1929 Geneva Conventions, they hardly could be invoked with respect to the 1949 Conventions. But Yoo continues to cite them, oblivious to the shifts in text and commentary that occurred in 1949.

So how does Yoo come by the work of Carl Schmitt, and why does he fail to acknowledge it in his publications? Yoo is currently a scholar in residence at the American Enterprise Institute, the center stage of the American Neoconservative movement. That movement traces itself back to Leo Strauss, the political philosopher who lived and taught for many years in Chicago. Though a Jew forced to flee Nazi Germany, Strauss was a lifelong admirer of Carl Schmitt, a scholar and teacher of his works. Moreover, Strauss’ early work in Germany played a key role in development of the Begriff des Politischen, and Schmitt’s intercession helped Strauss obtain a key scholarship that made his escape from Germany possible. Though arrested by the Americans and accused of complicity in Nazi crimes, Schmitt achieved a partial rehabilitation late in his life - thanks in large part to Leo Strauss. Indeed, Schmitt emerged as an essential part of the Neocon canon, and his work – including all the relatively obscure works cited here – were translated into English and published by the University of Chicago Press (also Yoo’s publisher). It is therefore hardly plausible to suggest that Yoo would be unfamiliar with the writings of Carl Schmitt. On the other hand, it is easy to surmise why he would fail to acknowledge his reliance on such a highly stigmatized writer. After all, Schmitt was a notorious antisemite best known for crafting the legal cover for Hitler's Machtergreifung.

Why Carl Schmitt Hates America
Carl Schmitt was a rational man, but he was marked by a hatred of America that bordered on the irrational. He viewed American articulations of international law as fraught with hypocrisy, and saw in American practice in the late nineteenth and early twentieth centuries a menacing new form of imperialism (“this form of imperialism… presents a particular threat to a people forced in a defensive posture, like we Germans; it presents us with the greater threat of military occupation and economic exploitation” he writes in 1932 – at a time of almost unprecedented American isolationism)(Die USA und die völkerrechtlichen Formen des modernen Imperialismus, p. 365). He saw in the peculiarly American notion of consensus-democracy an unsustainable foolishness, and in the Jeffersonian vision of small government with a maximum space for individual freedom a threat to his peculiar Catholic values.

Today, President Bush has again defended his indefensible treatment of detainees and claimed for himself rights that all his predecessors firmly disavowed. As president, he has cast aside the values of George Washington, Abraham Lincoln and Dwight Eisenhower – values on which the country was founded and built – and embraced instead those of Carl Schmitt, the lawyer who prostituted his genius to the cause of Fascism and fervently prayed for America’s destruction. What a great irony.

John Yoo and his colleagues present their critique of international humanitarian law as a validation of the sovereigntist tradition of the American Founding Fathers. That such claims can be taken seriously reflects a failure of critical thought in contemporary America. Yoo’s views on international humanitarian law have absolutely nothing to do with the Founding Fathers. They are a cheap, discredited Middle European import from the twenties and thirties. Viewed this way, it becomes increasingly clear where they would lead us.

samedi, 18 décembre 2010

Pèlerinage en Israël de mouvements nationalistes européens: quel intérêt?

Pèlerinage en Israël de mouvements nationalistes européens: quel intérêt?

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

wilders_klagemauer.jpgIl n’est pas dans nos habitudes de nous immiscer dans les stratégies de mouvements européens avec lesquels nous entretenons d’excellentes relations.

Filip Dewinter, leader du Vlaams Belang, Heinz-Christian Strache, Président du Fpöe autrichien, et des représentants allemands et suédois se sont rendus récemment en délégation en Israël, suscitant pour le moins quelques interrogations. Reçus à la Knesset, déposant une gerbe au Mur des Lamentations, se rendant à la frontière séparant l’Etat hébreu des territoires palestiniens, visitant une escadrille de chasse, ils exprimèrent leur soutien à Israël, « avant-garde de l’Occident dans la lutte contre l’islamisation ». De fait, ils furent reçus par des partisans du Grand Israël, dont le rabbin Nissim Zeev, député du mouvement extrémiste Shas, perçus par leurs adversaires comme étant l’« extrême droite raciste ».

Leurs motivations procèdent de l’espoir qu’un tel pèlerinage pourrait leur donner, dans leurs pays respectifs, une sorte de respectabilité et neutraliserait des médias et des lobbys très hostiles.

Cela nous paraît être une pure chimère.

Dans le prochain numéro de Rivarol, j’analyse dans un long article les raisons de ce pèlerinage, dévoile qui est à l’origine de cette démarche et décris l’environnement des mouvements concernés, notamment en Allemagne, où le terrorisme intellectuel est particulièrement contraignant.

Quel intérêt les Européens ont-ils à se mêler des affaires du Proche-Orient ? Les Palestiniens, les Iraniens et même les Talibans ne portent aucune responsabilité dans l’invasion que subissent la France et l’Europe. On a pourtant pu entendre un des membres de la délégation déclarer : « Israël est le poste avancé de l’Ouest libre, nous devons unir nos forces et combattre ensemble l’islamisme ici (en Israël) et chez nous (en Europe) ». Il se trompe.

C’est ici, sur notre terre d’Europe, et non en Israël, que nous devons mener la nécessaire Reconquista en rassemblant toutes les forces de la Résistance nationale et européenne ! De plus, nos soldats n’ont pas vocation à mourir, ni pour Washington, ni pour Tel Aviv. Et puis, n’oublions pas la responsabilité écrasante de lobbys qui, tout en défendant sans restriction Israël, ont toujours soutenu et encouragé l’immigration musulmane en France et en Europe.

Robert Spieler, Délégué général de la Nouvelle Droite Populaire

Entretien avec l'historien israélien Shlomo Sand

Shlomo-Sand.jpg

Archives - 2008

Entretien avec l'historien israélien Shlomo Sand: "Le peuple juif n'existe pas"

Ex: http://www.egaliteetreconciliation.fr 

En Israël, où il a été publié au printemps, le livre a trouvé un excellent écho du côté des journalistes, et notamment auprès du quotidien Haaretz. Un accueil qui n’a que peu surpris Shlomo Sand. « Plus que les gens de gauche et les orthodoxes, qui ont plutôt un regard bienveillant sur mon travail, affirme-t-il, mon livre va déranger ces juifs qui vivent à Paris, à New York, et pensent que l’Etat d’Israël leur appartient davantage qu’à mon collègue arabe israélien. »

Pourquoi avoir choisi ce titre, qui sonne comme une provocation ?

Au début je craignais un peu cet effet provocant mais, en fait, le titre reflète parfaitement le contenu de mon livre. Et puis, je crois que ce n’est pas le seul cas d’invention d’un peuple. Je pense par exemple qu’à la fin du XIXe siècle, on a inventé le peuple français. Le peuple français n’existe pas en tant que tel depuis plus de 500 ans, comme on a alors essayé de le faire croire.

Le peuple juif, c’est encore plus compliqué, parce qu’on le considère comme un peuple très ancien, qui a cheminé de par le monde pendant 2000 ans, avant de retourner chez lui. Je crois au contraire que le peuple juif a été inventé.

Quand je dis peuple juif, j’utilise le sens moderne du mot peuple. Quand on évoque aujourd’hui le peuple français, on parle d’une communauté qui a une langue commune, des pratiques, des normes culturelles et laïques communes. Donc je ne pense pas que l’on puisse dire qu’il y a un peuple juif au sens moderne du terme. Je ne crois pas qu’il y a 500 ans, les juifs de Kiev et ceux de Marrakech avaient ces pratiques, ces normes culturelles communes. Ils avaient une chose importante en commun : une croyance, une foi commune, des rituels religieux communs. Mais si les seules affinités entre des groupes humains sont de nature religieuse, j’appelle cela une communauté religieuse et non un peuple.

Est-ce que vous savez par exemple que durant le Moyen Age, on a utilisé l’expression « peuple chrétien » ? Pourtant, aujourd’hui, aucun historien ne parlerait de « peuple chrétien ». Avec la même logique, je ne pense pas qu’on puisse parler de peuple juif.

Je ne le pense pas en outre parce que les origines historiques des juifs sont très variées. Je ne crois pas en effet que les juifs ont été exilés par les Romains en l’an 70.

Je me souviens, il y a quelques années, alors que je m’interrogeais sur l’histoire du judaïsme, d’avoir ressenti un véritable choc : tout le monde est d’avis que l’exil du peuple juif est l’élément fondateur de l’histoire du judaïsme, et pourtant, cela paraît incroyable, mais il n’y a pas un livre de recherche consacré à cet exil. Il est pourtant considéré comme l’« événement » qui a créé la diaspora, l’exil permanent de 2000 ans. Rendez-vous compte : tout le monde « sait » que le peuple juif a été exilé mais personne n’a fait de recherche, ou n’a en tout cas écrit un livre pour faire savoir si c’est vrai ou non.

Avec mes recherches, j’ai découvert que c’est dans le patrimoine spirituel chrétien, au IIIe siècle, que le mythe du déracinement et de l’expulsion a été entretenu, avant d’infiltrer plus tard la tradition juive. Et que le judaïsme n’adopte cette notion d’exil permanent.

L’instrumentalisation de la mémoire

Sur ce point, vous évoquez dans votre ouvrage la notion de « mémoire greffée ».

 

 

 

« Greffée » est un mot un peu fort. Mais vous savez, si vous et moi n’étions pas allés à l’école, nous ne connaîtrions pas l’existence de Louis XVI. Pour parler de la Révolution française, cette mémoire des noms de Danton et de Robespierre, vous ne l’avez pas reçue spontanément mais dans une structure, à l’école, dans le cadre d’un savoir que quelqu’un a créé et organisé pour vous le transmettre. Quelqu’un a décidé que vous deviez connaître x et pas y. Je ne trouve pas cela forcément critiquable. Chaque mémoire collective est une mémoire greffée, dans le sens où quelqu’un a décidé de la transmettre à d’autres.

Je ne parle pas ici de conspiration mais c’est cela l’éducation moderne. C’est-à-dire que ce n’est pas quelque chose qui coule de père en fils. La mémoire greffée, c’est la mémoire que l’éducation nationale a décidé que vous deviez recevoir.

Si vous aviez vécu en France dans les années 50, en tant qu’écolier, que lycéen, vous auriez su très peu de chose sur la Shoah. En revanche, dans les années 90, chaque lycéen a une notion de ce qu’est la Shoah. Mémoire greffée n’implique donc pas qu’il s’agisse nécessairement d’un mensonge.

Vous dites néanmoins que les autorités israéliennes ont « greffé » une mémoire pour justifier l’existence d’Israël.

Il faut comprendre que transmettre une mémoire, créer une mémoire, ou façonner une mémoire, une conscience du passé, cela a pour finalité d’être instrumentalisé, dans le sens où cela doit servir un intérêt, particulier ou collectif. Chaque mémoire collective, étatique, nationale, est instrumentalisée. Même la mémoire personnelle, qui est certes beaucoup plus spontanée et qui ne peut pas être dominée aussi facilement, est instrumentalisée : vous faites une bêtise, cela rentre dans votre expérience, et vous ne refaites pas la même. Toute mémoire nationale est instrumentalisée. Car sinon, pourquoi la mémoriserait-on ?

Le point central des mémoires nationales, c’est qu’elles sont instrumentalisées pour servir la nation. En tant qu’historien, je pense que la nation est une invention très moderne. Je ne crois pas qu’il y a 500 ans, il y avait une nation française. Et il n’y avait pas de nation juive. Donc je crois que ceux qui ont voulu façonner une nation juive israélienne ont commencé par réfléchir sur ce passé, en l’instrumentalisant pour faire émerger une dimension de continuité.

Dans le cas du sionisme, il fallait s’investir lourdement car il fallait acquérir une terre qui ne nous appartenait pas. Il fallait une histoire forte, une légitimité historique. Mais au final, cela demeure absurde.

Il y a dix ans, je n’avais pas ces idées, ce savoir que j’ai mis dans ce livre. Mais comme citoyen israélien je trouvais déjà fou que quelqu’un qui était sur une terre il y a deux mille ans puisse prétendre avoir des droits historiques sur cette même terre. Ou alors il faudrait faire sortir tous les Blancs des Etats-Unis, faire rentrer les Arabes en Espagne, etc. Je ne pensais pas que j’eusse, moi, juif israélien, un droit historique sur la terre de Palestine. Après tout, pourquoi deux mille ans oui et mille non ?

Mais je pensais cependant que j’appartenais à ce peuple, parti il y a deux mille ans, qui a erré, erré... qui est arrivé à Moscou, a fait demi-tour et est rentré chez lui. En faisant ce livre, je me suis rendu compte que cela aussi, c’était un mythe, qui est devenu une légende.

D’un point de vue politique cependant, ce livre n’est pas très radical. Je n’essaie pas de détruire l’Etat d’Israël. J’affirme que la légitimité idéologique et historique sur laquelle se fonde aujourd’hui l’existence d’Israël est fausse.

« Il n’y a pas de droit historique des juifs sur la terre de Palestine »

Vous citez néanmoins Arthur Koestler, qui disait à propos de son ouvrage La Treizième Tribu : « Je n’ignore pas qu’on pourrait l’interpréter [le livre] avec malveillance comme une négation du droit à l’existence de l’Etat d’Israël. » Cette remarque ne s’applique-t-elle pas à votre livre ?

 

 

 

Certes. Vous savez, j’essaie d’être un historien mais je suis aussi un citoyen, et un homme qui pense politiquement. D’un point de vue historique, je vous dis aussi : non, il n’y a pas de droit historique des juifs sur la terre de Palestine, qu’ils soient de Jérusalem ou d’ailleurs.

Mais je dis aussi, d’un point de vue plus politique : vous ne pouvez réparer une tragédie en créant une autre tragédie. Nier l’existence d’Israël, cela veut dire préparer une nouvelle tragédie pour les juifs israéliens. Il y a des processus historiques que l’on ne peut pas changer.

On ne peut donc pas éliminer Israël par la force mais on peut changer Israël. Une chose est importante : pour donner la chance à Israël d’exister, la condition est double : réparer, dans la mesure du possible, la tragédie palestinienne. Et créer en Israël un Etat démocratique. Le minimum pour définir un Etat démocratique est de dire qu’il appartient à l’ensemble de ses citoyens. C’est la base : on ne dira jamais par exemple que l’Etat français appartient uniquement aux catholiques.

L’Etat d’Israël se définit pourtant comme l’Etat du peuple juif. Pour vous donner un exemple, ça veut dire que l’Etat d’Israël appartient davantage à Alain Finkielkraut, citoyen français, qu’à un collègue qui travaille avec moi à l’université de Tel-Aviv, qui est originaire de Nazareth, qui est citoyen israélien mais qui est arabe. Lui ne peut pas se définir comme juif, donc l’Etat d’Israël ne lui appartient pas. Mais il est israélien, point. Il ne devrait pas être contraint de chanter un hymne national qui contient les paroles « Nous les juifs ». La vérité, c’est qu’il n’a pas d’Etat.

On doit davantage parler de ce problème de démocratie, pour espérer conserver l’Etat Israël. Pas parce qu’il serait éternel, mais parce qu’il existe, même s’il existe mal. Cette existence crée de facto le doit des juifs israéliens de vivre là-bas. Mais pas d’être raciste, et ségrégationniste : cet Etat n’a pas le droit d’exister comme ça.

D’un autre côté, je demande à tout le monde, aux pays arabes et aux Palestiniens de reconnaître l’Etat d’Israël. Mais seulement l’Etat des Israéliens, pas l’Etat des juifs !

Les tragédies d’hier ne vous donnent pas le droit d’opprimer un peuple aujourd’hui. Je crois que la Shoah, les pogroms, que tout ce qu’ont subi les juifs au XXe siècle nous donne droit à une exception : que l’Etat d’Israël demeure, et continue à offrir un refuge pour les juifs qui sont pourchassés à cause de leurs origines ou de leur foi. Mais dans le même temps, Israël doit devenir l’Etat de ses citoyens. Et pas celui d’Alain Finkielkraut, qui demeure toutefois le bienvenu s’il se sent menacé, bien sûr.

Dans la suite de la citation d’Arthur Koestler que vous proposez, celui-ci justifie l’existence de l’Etat d’Israël en ces termes : « Mais ce droit n’est pas fondé sur les origines hypothétiques des juifs ni sur l’alliance mythologique entre Abraham et Dieu ; il est fondé sur la législation internationale, et précisément sur la décision prise par les Nations unies en 1947. »

Ce que vous dites, vous, c’est qu’en 1947, l’ONU s’est trompée ?

Pas exactement. Peut-être le partage des terres était-il injuste : il y avait 1,3 million de Palestiniens et 600.000 juifs, et pourtant on a fait moitié-moitié. Plus juste aurait été pour vous donner un exemple, et élargir nos horizons, de créer un Etat juif... aux Sudètes. En 1945, les Tchèques ont chassé 3 millions d’Allemands des Sudètes, qui sont restées « vides » quelques mois. Le plus juste aurait été de donner les Sudètes à tous les réfugiés juifs en Europe. Pourquoi aller ennuyer une population qui n’avait rien à voir avec la tragédie juive ? Les Palestiniens n’étaient pas coupables de ce que les Européens avaient fait. Si quelqu’un avait dû payer le prix de la tragédie, ça aurait dû être les Européens, et évidemment les Allemands. Mais pas les Palestiniens.

En outre, il faut bien voir qu’en 1947, ceux qui ont voté pour la création de l’Etat juif n’ont pas pensé que la définition pour y être accepté serait aussi exclusive, c’est-à-dire nécessairement avoir une mère juive. On était au lendemain de la Shoah, l’idée était simplement d’offrir un refuge.

Une « victoire » de Hitler ?

Dans votre livre, vous posez la question suivante : « Les juifs seraient-ils unis et distingués par les "liens" de sang ? », avant d’en conclure que « Hitler, écrasé militairement en 1945, aurait en fin de compte remporté la victoire au plan conceptuel et mental dans l’Etat "juif" ? » Qu’avez-vous essayé de démontrer ?

 

 

 

Vous savez, la majorité des Israéliens croient que, génétiquement, ils sont de la même origine. C’est absolument incroyable. C’est une victoire de Hitler. Lui a cherché au niveau du sang. Nous, nous parlons de gènes. Mais c’est pareil. C’est un cauchemar pour moi de vivre dans une société qui se définit, du point de vue de l’identité nationale, sur des bases biologiques. Hitler a gagné dans le sens où c’est lui qui a insufflé la croyance que les juifs sont une race, un « peuple-race ». Et trop de gens en Israël, trop de juifs, ici, à Paris, croient vraiment que les juifs sont un « peuple-race ». Il n’y a donc pas seulement les antisémites, il y a aussi ces juifs qui eux-mêmes se considèrent comme une race à part.

Dans mon livre, une chose importante que j’ai essayé de montrer est que, du point de vue historique, je dis bien historique, car je ne m’occupe pas ici de religion, les juifs ne sont pas des juifs. Ce sont des Berbères, des Arabes, des Français, des Gaulois, etc. J’ai essayé de montrer que cette vision essentialiste, profonde, que les sionistes partagent avec les antisémites, cette pensée qu’il y a une origine spéciale pour les juifs, cette pensée est fausse. Il y a au contraire une richesse extraordinaire, une diversité d’origines fabuleuse. J’ai essayé de montrer ça avec des matériaux historiques. Sur ce point, la politique a nourri mes recherches, de même que la recherche a nourri ma position politique.

Un de vos chapitres évoque à ce propos l’énigme que constituent pour vous les juifs d’Europe de l’Est.

Au début du XXe siècle, 80% des juifs dans le monde résidaient en Europe de l’Est. D’où viennent-ils ? Comment expliquer cette présence massive de juifs croyants en Europe de l’Est ? On ne peut pas expliquer cela par l’émigration de Palestine, ni de Rome, ni même d’Allemagne. Les premiers signes de l’existence des juifs en Europe datent du XIIIe siècle. Et justement, un peu avant, au XIIe siècle, le grand royaume de Khazar (judaïsé entre le VIIIe et le IXe siècle) a complètement disparu. Avec les grandes conquêtes mongoles, il est probable qu’une grande partie de cette population judaïsée a dû s’exiler. C’est un début d’explication.

L’histoire officielle sioniste affirme qu’ils ont émigré d’Allemagne. Mais en Allemagne, au XIIIe siècle, il y avait très peu de juifs. Comment se fait-il alors que, dès le XVIIe siècle, un demi-million de juifs résident en Europe de l’Est ? À partir de travaux historiques et linguistiques, j’ai essayé de montrer que l’origine des juifs d’Europe de l’Est n’est pas seulement due à une poussée démographique, comme on le dit aussi. Leur origine est khazar mais aussi slave. Car ce royaume de Khazar a dominé beaucoup de peuples slaves, et, à certaines époques, a adopté le yiddish, qui était la langue de la bourgeoisie germanique qui a existé en Lituanie, en Pologne, etc.

On en revient à la thèse de base de mon livre, un élément que j’ai essayé de démontrer, avec succès je pense : c’est qu’entre le IIe siècle av. J.-C. et le IIIe siècle apr. J.-C., le monothéisme juif était la première religion prosélyte. C’était quelque chose de parfaitement connu, notamment des spécialistes des religions de la fin du XIXe siècle, comme Ernest Renan.

À partir de la seconde partie du XXe siècle pourtant, on a tout « bloqué ». On croit tout d’un coup que le judaïsme a toujours été une religion fermée, comme une secte qui repousserait le converti. Ce n’est pas vrai, ce n’est pas juste du point de vue historique.

Zeev Sternhell, dans son livre célèbre Aux origines d’Israël, considère que le sionisme a évacué la dimension socialiste pour se résumer à une révolution nationale. Etes-vous d’accord avec lui ?

 

 

Le sionisme, c’est un mouvement national. Je ne dis pas que c’est bien, ou pas bien, car je ne suis pas anti-national. Ce n’est pas la nation qui a créé le sionisme, c’est l’inverse. Définir cela comme une révolution fonctionne du point de vue des individus, mais ne m’intéresse pas beaucoup. Parce que je me demandece qu’est une révolution. De plus, parler de révolution nationale en France, c’est un peu compliqué car ces termes étaient employés en 1940 pour désigner un phénomène historique pas très sympathique.

Quant à opposer révolution nationale et révolution socialiste au sein du sionisme, je ne crois pas que cela soit juste. Dès le début, le socialisme était un instrument très important pour réaliser le but national. Donc, ce n’est pas quelque chose qui, soudain, n’aurait plus fonctionné. Dès le début, l’idée de communautarisme, l’idée des kibboutz, a servi à une colonisation. C’est-à-dire que, dès le début, l’égalité n’était pas entre tous les êtres humains, l’égalité était seulement entre les juifs, qui colonisent une terre.

L’idée nationale, dans la modernité, a toujours dû être liée à une autre idée. En l’occurrence, pour le XXe siècle, la démocratie ou le socialisme. Tout le monde s’est servi des idées égalitaristes socio-économiques pour bâtir une nation. Le sionisme n’est pas exceptionnel en cela. On peut citer l’exemple du FLN algérien et de beaucoup d’autres mouvements du tiers-monde.

Le sionisme est exceptionnel uniquement parce que, pour se réaliser, il doit coloniser une terre.

 

Rob Riemens Kampf gegen Geert Wilders

Rob Riemens Kampf gegen Geert Wilders

Wie der holländische Geistesaristokrat Rob Riemen gegen den Rechtspopulisten Geert Wilders und das Böse kämpft.
Rob%20Riemen.jpgDie moderne Kultur, so klagte einst der italienische Philosoph Julius Evola, beschränke sich nicht darauf, „die aktivistische Orientierung des Lebens abzuspiegeln“. Sie peitsche den menschlichen Aktivismus sogar noch auf, weil sie in ihm etwas sehe, „was sein soll, weil es gut ist, so zu sein“. Und er stellte fest, man sei heute an einem Punkt angelangt, „wo für diejenigen, die noch nicht ganz jene antiken Überlieferungen vergessen haben, auf denen unser wahrer Geistesadel beruhte, sich eine genaue Rechenschaftsablegung über die Lage unter Beziehung eines überlegenen Gesichtspunktes gebieterisch aufdrängt. Unsere ,moderne’ Welt erkennt nur mehr die zeitverhaftete Wirklichkeit an.

Jede transzendente Schau gilt ihr als ,überwunden’.“

So stand es 1933 in dem nationalkonservativen Hamburger Organ „Deutsches Volkstum“, das zuletzt als „Halbmonatsschrift für das Deutsche Geistesleben“ firmierte. Zwei Jahre später erkundete Evola (1898 – 1974) in seinem Hauptwerk „Revolte gegen die moderne Welt“ schon den Begriff des kriegerischen Adels. 1941 verkündete der abtrünnige Katholik „Die arische Lehre von Kampf und Sieg“ und setzte 1943 in „Grundrisse der faschistischen Rassenlehre“ Geistesadel und rassische Identität vollends in eins. Für den Mussolini-Freund war dies eher ein ins Sakrale gewendeter Archaismus als Hitlerei, dessen gedankliche Dürftigkeit er, der sich in besseren Traditionen des deutschen Kulturpessimismus zu Hause wähnte, distanziert gegenüber stand. Aber Heinrich Himmler, Reichsführer der SS, verschlang Evolas esoterische Wirrnisse; sie waren mit den Verbrechen der Nazis zumindest kompatibel.

Um „Adel des Geistes“, wie es Rob Riemen, der Gründer des Tilburger Thinktanks Nexus, im Untertitel seines gleichnamigen Traktates tut, „ein vergessenes Ideal“ zu nennen, braucht es also schon eine gehörige Portion Geschichtsvergessenheit, Selbstbewusstsein oder Naivität. Vielleicht aber auch alles drei – und einen mächtigen Dekontaminator. In Riemens Fall übernimmt Thomas Mann die Rolle des Kammerjägers, ein Schriftsteller, den er so sehr bewundert, dass er von ihm gleich den Titel seines ganzen Buches übernimmt. „Adel des Geistes“ hießen auch die „Sechzehn Versuche zum Problem der Humanität“, mit denen Mann 1945 in Aufsätzen zu Goethe, Kleist, Wagner und Tolstoi einen Humanismus zu rehabilitieren versuchte, den Krieg und Nationalsozialismus ruiniert hatten.

Riemens Ehrgeiz ist dabei ebenso überhistorisch wie aktuell. Sein Traum von einem neuen, aus der Kontemplation wachsenden Geistesadel richtet sich gegen die Vergötzung animalischer Ideale, wie er sie in der heutigen Gesellschaft verkörpert sieht. „Alles ist erlaubt. Sinn ist etwas Unbekanntes; an seine Stelle tritt der Zweck. ,Spaß’ und ,Genuss’ ersetzen das Bewusstsein für Gut und Böse. Da das Bleibende nicht existiert, muss alles sofort passieren, neu und schnell sein.“ Für ihn gibt es keinen Zweifel: „Es ist dieser Nihilismus der Massengesellschaft, der die Kultur, das Bindegewebe der Gesellschaft, wie Krebs angreift und zerstört.“ Und so kämpft er, zum Teil mit Formulierungen, die geradewegs von Julius Evola stammen könnten, gegen den „Totalitarismus der Taliban“ und jedes Verständnis für die „gewalttätige mittelalterliche Theokratie“, die ihn hervorgebracht hat. Im Unterschied zu Evola jedoch verfolgt er einen strikt antifaschistischen Kurs.

In dem soeben erschienenen Essay „Die ewige Wiederkehr des Faschismus“ („De eeuwige terugkeer van het fascisme“, Uitgeverij Atlas) attackiert er den holländischen Rechtspopulisten Geert Wilders und dessen Freiheitspartei, mehr noch aber die Umstände, die die Wahlerfolge des Islamkritikers möglich gemacht haben. Er lamentiert über bürgerliche Parteien, die ihre Ideen verleugnen, über Intellektuelle, die sich dem Nihilismus hingeben, über Universitäten, die in ihrem Bildungsauftrag versagen, über die Gier der Wirtschaft und die Willfährigkeit der Medien. Kurz: das geistige Vakuum, in dem Faschismus gedeihen kann. Ein Wort, das für Wilders zu hoch gegriffen sein mag, gemessen an Riemens übrigen hochtönenden Entwürfen aber seinen Sinn hat.

Nichts von den Diagnosen, die er in „Adel des Geistes“ stellt, ist per se falsch – und trotzdem stimmt etwas Grundsätzliches mit ihnen nicht. Denn wenn die Rettung unseres Zeitalters in der Besinnung auf die Werte der Alten liegt, wie konnte Evola ihnen dann einen so offenkundig antihumanistischen Auftrag abgewinnen? Warum klingt, was Riemen zu sagen hat, so fatal nach zahnlos bundespräsidialen Sonntagspredigten und vatikanischem Geschwätz?

Rob Riemen, 1962 geboren, und damit ein Jahr älter als Geert Wilders, ist eine weltläufige Erscheinung. Sein 1994 drei Jahre nach dem „Nexus Journal“ gegründetes Amsterdamer Nexus Institut bringt, wie er erklärt, „führende Intellektuelle, Künstler, Diplomaten und andere Entscheidungsträger zusammen und lässt sie über die Fragen nachdenken und sprechen, die wirklich von Bedeutung sind. Wie sollen wir leben? Wie können wir unsere Zukunft gestalten? Können wir aus der Vergangenheit lernen? Welche Werte und Ideen sind wichtig?“

Die Abgründe, die Riemens dem Individuum und dem Gewissen verpflichteten Denken von Evolas heidnischem Kraut-und-Rüben-Gebräu trennen, sind schnell benannt. Der Gral, den Julius Evola 1934 in „Das Mysterium des Grals“ beschwor, ist ein anderer als derjenige, den Thomas Mann 1924 im „Zauberberg“ suchte und von dem Riemen schreibt, es sei „nicht der Kelch von Jesu Letztem Abendmahl, sondern ein Geheimnis, ein Rätsel. Es ist das ewige Geheimnis, das der Mensch für sich selbst ist, es sind die unbeantwortbaren Fragen des menschlichen Seins. Nur dann, wenn der Mensch diese ewigen Fragen seiner Existenz respektiert, bleibt er empfänglich für die lebensgebenden Werte und für die Bedeutungen, ohne die es keine menschliche Würde geben kann.“

Und doch gibt es zwischen Riemens aufklärerischem und Evolas antiaufklärerischem Denken, das unter Neonazis und Darkwave-Jüngern höchste Popularität genießt, Verbindendes, einen Ekel wider alles Massenkulturelle, der Evola in den sechziger Jahren zu einem einflussreichen Pasolini von rechts machte – und Riemen heute zum Zeremonienmeister einer hochkulturellen Selbstberuhigung. Er hat das Eremitische des Stefan-Georgelnden Männerbundes Castrum Peregrini in der Amsterdamer Herengracht öffentlichkeitswirksam beerbt.

Erst vor drei Wochen veranstaltete der studierte Theologe an der Tilburger Universität eine Konferenz über die Gespenster von Nationalismus, Antisemitismus und Populismus. Mario Vargas Llosa hielt die Eröffnungsrede. Im Juni mietete er das Amsterdamer Concertgebouw, um über „What is Next for the West? Superman meets Beethoven“ zu debattieren. Diesmal referierte sein Lehrmeister, der Universalgelehrte George Steiner, der der amerikanischen Originalausgabe von „Nobility Of Spirit“ ein Vorwort beisteuerte, das in der deutschen Ausgabe erstaunlicherweise fehlt. Und im vergangenen Februar lud er Daniel Barenboim ein, um über „Die Ethik der Ästhetik“ zu sprechen.

Unter Namen von Weltrang macht es Riemen nicht mehr. Darin liegt auch sein Talent als Fundraiser. Es gibt, wie die Liste der Sprecher und Autoren auf www.nexus-instituut.nl zeigt, wenig bedeutende Denker, die in den letzten Jahren nicht die Wege von Nexus gekreuzt hätten, insofern sie nicht unter Riemens Nihilismus-Verdikt fallen. Denn er sucht nach einem Geist, der in der Lage ist, die dunklen Triebkräfte der Gesellschaft zu zähmen, einer Bildung, die sie vor der Barbarei bewahrt, und einer Elite, die das als Entität imaginierte Böse in Schach hält. Es ist die Idee, politiklos Politik machen zu können.

Die Vorstellung, am künstlerischen Wesen könne die Welt genesen, hat am virtuosesten Friedrich Schiller in seinen „Briefen über die ästhetische Erziehung des Menschen“ formuliert. „Alle Verbesserung im Politischen soll von Veredlung des Charakters ausgehen“, heißt es mit Blick auf die Französische Revolution, „aber wie kann sich unter den Einflüssen einer barbarischen Staatsverfassung der Charakter veredeln? Man müsste also zu diesem Zwecke ein Werkzeug aufsuchen, welches der Staat nicht hergibt, und Quellen dazu eröffnen, die sich bei aller politischen Verderbnis rein und lauter erhalten.“ Und weiter: „Den Stoff zwar wird er von der Gegenwart nehmen, aber die Form von einer edleren Zeit, ja, jenseits aller Zeit, von der absoluten, unwandelbaren Einheit seines Wesens entlehnen.“

Der Mensch, sagt Rob Riemen mit Gracián, „ist ein Barbar, wenn er nicht über das einzige Wissen verfügt, das für seine Würde zählt: dass er sich in den Tugenden und geistigen Werten üben muss, die ein harmonisches Miteinander des Menschen ermöglichen.“

Es geht um „Erhebung aus dem, was der Mensch auch ist: eine blinde Kraft.“ Und er folgert: „Adel des Geistes ist das zeitlose Kulturideal.“ Das wiederum ist George Steiner, weichgespült – weil ohne das dialektische Bewusstsein, mit dem Steiner daran erinnert, dass „die Barbarei des 20. Jahrhunderts im Kernland der europäischen Kultur ausgebrochen“ sei. „Die Todeslager wurden nicht in der Wüste Gobi noch in Äquatorialafrika errichtet.“

Solange Riemen Geistesaristokratie nicht in einen sozialen Kontext stellt und dabei sicher auch Unverträglichkeiten entdeckt, solange führt das Ideal des großen Einzelnen nur zu einer überholten Idee von Märtyrertum. Es ist absurd, in Leone Ginzburg, dem Mitbegründer des Turiner Einaudi Verlags und Ehemann von Natalia Ginzburg, der 1944 im römischen Gefängnis Regina Coeli zu Tode gefoltert wurde, nur den sokratisch Wahrheitsliebenden zu sehen und nicht auch den liberalen Sozialisten, der mit dem Partito d’Azione eine Vorstellung davon hatte, wie Italien auszusehen hätte. Im Namen metaphysischer, von keinem postmodernen Zweifel angekränkelter Überzeugungen ignoriert Riemen das Wechselverhältnis von individueller Moral und Politik, immer auf dem Sprung heraus aus seiner Zeit, hin zu ewigen Werten, zur Natur der Dinge und zum Wesen des Menschen. Als wäre es nicht unsere vornehmste Aufgabe, gegen die Erfahrung, dass alles vermeintlich Unwandelbare eben doch auch ganz anders sein könnte, etwas Humanes zu definieren.

 

 

A Serious Case: Guillaume Faye's Archeofuturism

A Serious Case:
Guillaume Faye’s Archeofuturism

F. Roger Devlin

Ex: http://www.counter-currents.com/

Guillaume Faye,
Archeofuturism: European Visions of the Post-Catastrophic Age
Arktos Media Ltd., 2010

“The modern world is like a train full
of ammunition running in the fog.”
—Robert Ardrey

Most thought described as “conservative” is a kind of political hygienics: it takes its bearings by what is natural, normal, or best in the social order. One hazard of its focus on right order is to leave us unprepared in extraordinary situations. Thus, we all know otherwise intelligent conservatives who would continue, even as blood was running in the streets, to talk of the need for electing fiscally responsible Republicans to office. The best treatment for this sort of blindness is a crash course in political pathology such as the book under review.

Author Guillaume Faye was for many years a luminary of Alain de Benoist’s Group for the Research and Study of European Civilization. Beginning from the principle “no Lenin without Marx,” Benoist conceived his activities as part of a Gramscian (or Cochinian) strategy to undermine the hegemony of liberalism. In the early 1980s, remembers Faye, each issue of his journal Eléments was “an ideological barrage that sparked outraged reviews from the mainstream press,” and people sat up and took notice of the Colloques parisiens his organization sponsored. The well-educated men of this “New Right,” as it came to be called, looked down on the young Front National as a “microscopic group of good-for-nothings,” and even barred “that pirate-faced old soldier” Jean-Marie Le Pen from their meetings.

Yet within a few years the tables were turned, as dissatisfied New Rightists flocked to the Front. Any misgivings they had about Le Pen’s vulgarity were outweighed by the impression that his organization was where something was happening. Faye, too, eventually concluded that the New Right had become a mere literary salon: “from 1986 I began to feel that a clique spirit and literary pagan romanticism were prevailing over historical will. . . . In order to prove effective, ideological and cultural action must be supported by concrete political forces which it integrates and extends.”

Archeofuturism marks the author’s return to the political arena after an absence of twelve years. Its first chapter is devoted to a friendly critique of his former colleagues. For example, he finds in New Right publications an overemphasis upon folkloric aspects of European heritage such as “Breton bonnets” and “Scandinavian woodcarvings.” Such charming but innocuous traditions have their equivalents among all peoples on earth. Faye would rather maintain “the creative primacy of Western civilization” represented by our tradition of scientific research, philosophy and engineering, as well as our unparalleled artistic and literary “high” culture.

Faye also considers the New Right wedded to a faulty political paradigm in which “America”—conceived narrowly as the Hollywood/Wall Street/Foggy Bottom axis—is the enemy. This way of thinking is well-expressed in the title of Benoist’s book Europe-Third World: the Same Struggle. Benoist invites the entire non-American world (even Muslims!) to “a fruitful exchange of dialogue among parties clearly situated in relation to one another.” In other words: multiculturalism with one place at the table reserved for White Europeans. Faye rightly dismisses this as “a Disneyland dream.”

Starting from what Faye considers a correct Nietzschean assessment of primitive Christianity as an egalitarian, leveling and ethno-masochistic movement, the New Right launched an ill-considered attack on the folk Catholicism of ordinary Frenchmen. Meanwhile, they ignored their proper target: a return to the “bolshevism of antiquity” among the high clergy, marked by immigrationism and self-ethnophobia. This is the tendency some have called the “degermanization of Christianity.” The New Right would have done better to ally itself with Catholic traditionalists in combating it rather than alienating its natural allies.

Lastly, while the New Right professed admiration for the German jurist Carl Schmitt, it never made any practical application of his Ernstfall concept: the “serious case” which cannot be met within the normal framework of constitutional law. When Hannibal is at the gates of Rome, when the Royal Guards mutiny—no appeal can be made to law. Such contingencies can only be met with the virtue of prudence, i.e., the ability to make sound judgments about what to do in particular cases.

This blind spot may be fatal, for Faye is convinced that the liberal regime is driving Western civilization toward an Ernstfall the like of which the world has never seen. He describes it as a “convergence of catastrophes.” Elements include: the failure of multiracialism, the disintegration of family structures, disruption in the transmission of cultural knowledge and social disciplines, the replacement of folk culture by the passive consumption of industrially produced “mass culture,” increasing crime and drug use, the decay of community, anti-natalism, nuclear proliferation and the re-emergence of viral and microbial diseases resistant to antibiotics, public debt, and the privileging of speculative profits, i.e., the construction of our economy atop the stilts of investor confidence rather than upon the solid ground of production.

Furthermore, liberal ideology has propounded a utopian ideal of universal “development,” whereby every last African hellhole is supposed to become an affluent, tolerant, democratic, and efficient consumerist society. The nations of the South were won over to this project, dazzled by the deceptive prospect of economic growth. They set in motion a process of industrialization that has devastated the natural environment, undermined their traditional cultures, and created social chaos, including urban jungles like Calcutta and Lagos. Resentment at the broken promise of “development” runs deep; the resurgence of religious fanaticism is one of its expressions.

Under the banner of “inclusion,” the liberal regime is now importing legions of immigrants who will function as the “fifth column” of an aggressive South. “The ethnic war in France has already started,” writes Faye in 1998, seven years before les émeutes des banlieues.

These are the lines of catastrophe which Faye expects to converge in about the second decade of this century. His prophecy is reminiscent of Andrei Amalrik’s 1969 essay Will the Soviet Union Survive Until 1984?—which, of course, proved uncannily accurate. Still, the wise reader will not want to overstress Faye’s time frame; much is clear about the crisis we face, but not even the angels in heaven know the day or the hour.

The author emphasizes that the impending meltdown presents us with opportunities: “When people have their backs against the wall and are suffering piercing pains, they easily change their opinions.” The stormy century of iron and fire that awaits us will make people accept what is currently unacceptable. The right today must position itself to be perceived as “the alternative” when the inevitable crisis hits. This means discrediting leftist pseudo-dissent, which is merely a demand for the intensification of official ideology and praxis. It also means acquiring the monopoly over alternative thought: not by imposing a party-line, but by uniting all healthy forces on a European level and abandoning provincial disputes and narrow doctrines.

Faye’s book is intended as “a sort of mental training for the post-catastrophic world.” The title Archeofuturism refers to the principles appropriate to reconstructing our civilization. “Archaic” must be understood according to the root sense of the Greek noun archè: both “foundation” and “beginning.” The archai are anthropological values which “create and are unchangeable;” they refer to the central notion of “order.”

Such foundational values include:

the distinction of sex roles; the transmission of ethnic and folk traditions; spirituality and priestly organization; visible and structuring social hierarchies; the worship of ancestors; rites and tests of initiation; the re-establishment of organic communities (from the family to the folk); the de-individualization of marriage [and] an end to the confusion between eroticism and conjugality; the prestige of the warrior caste; inequality of social status—not the unjust and frustrating implicit inequality we find today in egalitarian utopias, but explicit and legitimated inequalities; duties that match rights, hence a rigorous justice that gives people a sense of responsibility; a definition of peoples—and of all established groups or social bodies—as diachronic communities of destiny rather than synchronic masses of individual atoms.

Faye calls these “the values of justice.” We need not doubt they will return once the hallucinations of equality and individual emancipation have dissipated, for they follow from human nature itself.

The real danger is that we may end up having them imposed on us by Islam rather than reasserting them ourselves from our own historical memory. For Islam is the symbolic banner of Southern revanchisme, and the mindset of the South remains archaic. It takes for granted the primacy of force, the legitimacy of conquest, ethnic exclusivity, aggressive religiosity, machismo, and a worship of leaders and hierarchic order. Muslim employment of liberal cant—complaints of “discrimination” and “intolerance”—are the merest fig leaf for a Machiavellian “strategy of the fox” against Europe. In order to oppose the invaders, we must revert to an archaic mindset ourselves, abandoning the demobilizing handicap of “modern” humanitarianism.

Faye is perhaps at his best explaining the behavior and motivations of the “petty, inglorious princes who pretend to be governing us.” For example, he notes the increasing importance of “consultation” in French political life; authorities “consult” representatives of various approved interest groups, such as labor unions and non-White ethnic blocs, and then formulate policy on the basis of the lowest common denominator of agreement between them. The real point of this, of course, is to avoid the risks and responsibilities of actual leadership. (Try to imagine De Gaulle behaving this way.) But it is presented to the public as a wonderful new way of “modernizing democracy.”

A related symptom is the rise of negative legitimization, or what the author calls the “big bad wolf tactic”:

Politicians no longer say, “Vote for us, because we’ve got the right solutions and we’ll improve your living conditions.” That is positive legitimization. Instead they say (implicitly) “Vote for us, since even though we’re a bunch of good-for-nothings, bunglers and bullies, at least we will protect you from fascism.”

Four years after these words were written Le Pen made the presidential run-offs and, sure enough, all the bien pensants showed up at the polls with clothespins on their noses to support the crook Chirac!

Egalitarian reform serves as a convenient pretext for the elites to enact measures whose practical effect is to entrench their own position. Thus, they have sabotaged the French educational system by eliminating selectivity and discipline. But it is only these which give the talented outsider an honest chance against the untalented insider. As Pareto put it: the more rigorous the (rationally planned) selection in a social system, the greater the turnover in the elite. Without objective standards, on what grounds can one argue against elite self-perpetuation?

But the regime’s most breathtaking hypocrisy is found in its demonization of the National Front. The Front has broken the tacit ground-rules of the managerial regime by “engaging in politics where it has been agreed that one should only engage in business”; it has sought popular trust with a view to implementing a program, where the established parties “communicate” and maneuver with a view to re-election. Timid careerists denounce the Front as a threat to the Republic because they fear it as a threat to themselves.

Faye considers the National Front a genuinely revolutionary party. Yet he apparently has never been a member, and is not really a French nationalist. In his view, Le Pen’s romantic and backward-looking devotion to the French state embodies a great deal of latent Jacobinism. It is this state, after all, which has “naturalized” millions of Afro-Asiatic “youths” who do not see themselves as French at all. Moreover, a nation state, even run on patriotic principles, would be an entity too small to defend the French ethnos effectively in the contemporary world. Would a federal European state be any more capable of doing so? “I believe it would,” says Faye, “provided it is exactly the opposite of the European state currently being built.”

Those who believe that an imperial and federal European state would “kill France” are confusing the political sphere with the ethno-cultural one. The disappearance of the Parisian regime would in no way threaten the vigor and identity of the people of France. Moreover, a European federal state would breathe new life into autonomous regions: Brittany, Normandy, Provence, etc.

The European Union is a ghastly bureaucratic mess, but it is also one of the “forces in being.” Why turn our backs on it or work to destroy it when we can instead hijack it and turn it to our own purposes? Faye calls for the transformation of the EU into “a genuinely democratic and no longer bureaucratic European government with a real parliament and a strong and decisive central power.” He describes this position as European Nationalism, and dreams of a Eurosiberian Federation extending from Brest to the Bering Strait.

While Faye disagrees with Benoist’s interpretation of America as an enemy (hostes), he continues to view her as a rival and opponent (inimicus). This American reviewer does not grasp why the case for including a chastened post-imperial United States in a Northern Federation would be any weaker than the case for including Russia.

The Eurosiberian Federation is to be characterized by a two-tier economy. The elite (20% of the population) will continue to live according to the techno-scientific economic model based on ongoing innovation. They would form part of a global exchange network of about one billion people, including the elites of other civilizational blocs. As Faye notes, “the essence of technological science is not connected to egalitarian modernity, but has its roots in the ethno-cultural heritage of Europe, and particularly ancient Greece.”

Among the first exploits of this new elite shall be exploring the “explosive possibilities of genetic engineering.” These include inter-species hybrids, man-animal chimeras, semi-artificial “biolithic” creatures, and decerebrated human clones. Faye is utterly contemptuous of moral or religious scruples in this domain, which he oddly attributes to the ideology of liberal modernity more than to Christianity.

The remainder of humanity would live in archaic, neo-traditional communities. The techno-scientific portion of humanity would be under no obligation to help (i.e., “develop”) everybody else. Nor would they have any right to interfere in their affairs.

In sum, for the elite: promethean achievement, linear time and futuristic technology; for the rest: neo-feudalism, cyclic time and timeless, “archaic” values.

But it is not clear how the elite could avoid “interfering” in the affairs of people they are supposed to govern. Moreover, how would the elite perpetuate itself? It seems clear that Faye does not intend a hereditary aristocracy. Perhaps there is some sort of test or initiatory ordeal for prospective members. But then families would be divided between the classes, which would involve many difficulties. In the fictional portrayal of his ideal future society which closes the book, Faye refers in passing to something called “the Party.” This reviewer would need to hear a lot more about this shadowy organization before signing on to Faye’s proposals. The two-tiered economy is altogether the least satisfactorily worked out part of the book.

Yet the author is aware that men never get what they plan for: somewhat grandiloquently, he calls this heterotelia. And he distinguishes “worldview” (an idea of civilization as a goal and some values) from “ideology” and “doctrine” (applications to society and what tactics to use). So we can follow him for the first mile.

Archeofuturism should have a bracing effect on anyone more accustomed to reading the despondent Cassandras of paleoconservatism. “Realism,” he reminds us, “is often disheartened fatalism.”

Those who blame others, enemies and the political climate for their own failures do not deserve to win. For it is in the logic of things for enemies to oppress you and circumstances to prove hostile. The mistake lies in exorcising reality by adopting the morals of intention as opposed to those of consequences.

We must reject the pretext that radical thought would be “persecuted” by the system. The system is foolish. Its censorship is as far from stringent as it is clumsy, striking only at mythic acts of provocation and ideological tactlessness. Talent always prevails over censorship, when it is accompanied by daring and intelligence. A right wing movement can only prove successful through the virtue of courage.

There is no excuse for being taken by surprise when the liberal regime disregards its own principals in order to fight us (as the British establishment is doing with the BNP). Of course we should publicize and ridicule their inconsistencies, but it is silly to be indignant over them: repression simply means that the regime recognizes us as an Ernstfall, a mortal threat, and that is precisely what a serious right ought to be. Attempts to shut us down are symptoms of growing success and should strengthen our resolve.

Actualidad de Werner Sombart

Archives- 1968

Actualidad de Werner Sombart

 

AEI/ Un gran financiero norteamerica­na, batió su propio “record” conclu­yendo en cinco minutos, por teléfo­no, cinco grandes contratos que le proporcionaron una ganancia supe­rior al millón de dolores.

(De los periódicos) 

Werner_Sombart_vor_1930.jpgLa noticia del apresurado y dichoso financiero yanqui, nos trae al re­cuerdo la figura del gran economis­ta alemán profesor Werner Sombart, que ejerció docencia, justamente sonada, como profesor de Economía Política, en la Uni­versidad de Berlín, y cuya obra es una ver­dadera pena que aun no haya sido tra­ducida —que sepamos— al castellano.

Para Werner Sombart, el alma del bur­gués capitalista moderno recuerda el alma del niño a través de un singularísimo pa­recido. El niño, dice, posee cuatro valores fundamentales, que inspiran y dominan su vida toda. 

a) El tamaño, que se manifiesta en su admiración hacia el hombre adulto y más aun hacia el gigante. El burgués moderno —nos referimos siempre a la gran burgue­sía capitalista, especie tal vez a extinguir en este mundo supersónico que ha heredado la tragedia de la economía liberal— estima asimismo el tamaño en cifras o en es­fuerzo. Tener “éxito” en su lenguaje sig­nifica sobrepasar siempre a los demás, aunque en su vida interior, si es que la tiene, no se diferencia en nada de ellos. ¿Ha visto usted en casa de mister X, el Rembrandt que vale 200.000 dólares? ¿Ha contemplado el yate del presidente, que se encuentra desde esta mañana en el puerto, y cuyo valor sobrepasa el millón?…

b) La rapidez de movimientos, tradu­cida en el niño en el juego, en el carrusel, en no saber estarse quieto. Rodar a 120 por hora, tomar el avión más rápido, con­cluir un negocio por teléfono, no reposar, batir “records” financieros de ganancia constituye para el burgués moderno ilu­sión idéntica.

c) La novedad. El niño deja un juguete por otro, comienza un trabajo y lo aban­dona también, por otro, a su vez aban­donado. El hombre de empresa moderno hace lo mismo llamando a esto “sensa­ción”. Si los bailes, en los negocios, en la moda, en los inventos, lo que hoy es “sensacional” mañana se transforma en antigualla, como sucede con los modelos de los coches. Se vive angustiosamente al día, hasta que el corazón falle…

d) El sentimiento de “su poderío”. El niño arranca las patas a las moscas, des­troza nidos, destruye todos sus juguetes… El empresario que “manda” sobre 10.000 trabajadores se encuentra orgulloso de su poder, como el niño que ve a su perro obedecerle a una señal. El especulador afortunado en bolsa o enriquecido por el estraperlo se siente orgulloso de su safio poderío mirando por encima del hombro al prójimo. No existe en él caridad, como generalmente no existe caridad en el niño. Si analizamos este sentimiento veremos que en el fondo es una confesión invo­luntaria e inconsciente de debilidad: “Om­ina crudelitas ex infrimitate”, supo decir nuestro Séneca. 

EL CAPITALISMO MODERNO

Para el genial autor de “El capitalismo moderno”, un hombre grande, natural e interiormente, no concedería nunca un particular valor al poderío externo. El poder no presenta ningún atractivo sin­gular para Sigfrido, pero resulta irresisti­ble para Mimo. Una generación verdade­ramente grande, a la que preocupan los problemas fundamentales del alma huma­na, no se sentirá “engrandecida” ante unos inventos técnicos y no les concederá más que una relativa importancia, la impor­tancia que merecen como elementos del poder externo. En nuestra época resulta tristemente sintomático el que algunos po­líticos, que sólo han sabido sumir al mun­do en el estupor y en la sangre, se deno­minen asimismo como “grandes”.

Para Sombart, el capitalismo burgués que tiene como objetivo la acumulación indefinida e ilimitada de la ganancia, se ha visto hasta nuestros días, pues hoy el concepto se halla en plena crisis aunque su derrumbamiento no sea tal vez inmediato, favorecido por las circunstancias siguien­tes:

1) Por el desenvolvimiento de la téc­nica.

2) Por la bolsa moderna, creación del espíritu sionista, por medio de la cual se rea­bra a través de sus formas exteriores la tendencia hacia el infinito, que caracteriza al capitalismo burgués en su incesante ca­rrera tras el beneficio. 

Estos procesos encuentran apoyo en los siguientes aspectos: 

a) La influencia que los sionistas comen­zaron a ejercer sobre la vida económica europea, con su tendencia hacia la ganan­cia ilimitada, animados por el resentimien­to que, como sabemos, juega tan gran pa­pel en la vida moderna, según Max Scheler nos ha magníficamente demostrado, y por las enseñanzas de su propia religión, que los hace actuar en el capitalismo mo­derno como catalizadores.

b) En el relajamiento de las restric­ciones que la moral y las costumbres im­ponían en sus comienzos al espíritu capi­talista de indudable tinte puritano en la aguda y profunda tesis de Weber. Relaja­miento consecutivo a la debilitación de los principios religiosos y a las normas de ho­nor entre tos pueblos cristianos.

c) La inmigración o expatriamiento de sujetos económicos activos y bien dotados, que en el suelo extraño no se consideran ya ligados con ninguna obligación y es­crúpulo. Nos hallamos así, de nuevo ante el interrogante que se plantea el maestro.

¿Qué nos reserva el porvenir? Los que ven que el gigante desencadenado que lla­mamos capitalismo es un destructor de la naturaleza de los hombres, esperan que llegará un día en que pueda ser de nuevo encadenado, rechazándole hasta los lími­tes franqueados. Para obtener este resul­tado se ha creído encontrar un medio en la persuasión moral. Para Sombart, las tendencias de este género se encuentran aproadas hacia un lamentable fracaso. Para el autor de “El burgués”, el capita­lismo que ha roto las cadenas de hierro de las más antiguas religiones hará saltar en un instante los hilos que le tiendan es­tos optimistas. Todo lo que se pueda hacer en tanto que las fuerzas del gigante que­den intactas, consiste en tomar medidas susceptibles de proteger a los hombres, a su vida y a sus bienes, a fin de extinguir como en un servicio de incendios las brasas que caigan sobre las chozas de nuestra civili­zación. El mismo Sombart señala como sintomático el declive del espíritu capita­lista en uno de sus feudos más intocables: Inglaterra, y esto lo decía en 1924…

El saber lo que sucederá el día en que el espíritu capitalista pierda la fuerza que todavía presenta no interesa particular­mente a Sombart. El gigante, transforma­do en ciego, será quizá condenado, y cual nuevo Sisifó arrastra el carro de la civi­lización democrática. Quizá, escribe, asis­tamos nosotros al crepúsculo de los dio­ses, y el oro sea arrojado a las aguas del Rhin, erigiéndose en trueque valores más altos.

¿Quién podrá decirlo? El mañana, esa cosa que llamamos Historia, quizá. Por ello, más que Juicios, “a priori”, preferimos aquí dar testimonios. Lo que pasa, y lo que pue­da pasar en la ex dulce Francia, funda­mentalmente burguesa y con sentido de la proporción hasta ahora, podrá ser un gran indicio histórico. 

José Mª. CASTROVIEJO

ABC, 19 de junio de 1968.

vendredi, 17 décembre 2010

La disparition des Etats-Unis en tant que superpuissance mondiale

La disparition des Etats-Unis en tant que superpuissance mondiale

Ex: http://www.mecanopolis.org/

Un atterrissage en douceur pour les Etats-Unis d’ici quarante ans ? N’y pensez pas ! La disparition des Etats-Unis en tant que superpuissance mondiale pourrait survenir bien plus vite que ce que l’on imagine. Si Washington rêve de 2040 ou de 2050 comme date de fin pour le « Siècle Américain », une estimation plus réaliste des tendances aux Etats-Unis et dans le monde laisse penser qu’en 2025, exactement dans 15 ans, tout pourrait être pratiquement terminé.

 [1]

Malgré l’aura d’omnipotence que la plupart des empires projètent, un regard sur leur histoire devrait nous rappeler que ce sont des organismes fragiles. L’écologie de leur pouvoir est si délicate que lorsque les choses commencent à aller vraiment mal, les empires se désagrègent généralement à une vitesse incroyable : juste une année pour le Portugal, deux années pour l’Union Soviétique, 8 pour la France, 11 pour les Ottomans, 17 pour la Grande-Bretagne et, selon toute vraisemblance, 22 ans pour les Etats-Unis, à partir de la cruciale année 2003.

Les futurs historiens identifieront probablement l’invasion irréfléchie de l’Irak par l’administration de George W. Bush, cette année-là, comme le commencement de la chute de l’Amérique. Cependant, à la place du bain de sang qui a marqué la fin de tant d’empires du passé, avec des villes qui brûlent et des civils massacrés, cet effondrement impérial du 21ème siècle pourrait survenir de façon relativement discrète, par les circonvolutions invisibles de l’effondrement économique ou de la guerre cybernétique.

Mais n’ayez aucun doute : lorsque la domination mondiale de Washington prendra irrémédiablement fin, il y aura des souvenirs quotidiens douloureux de ce qu’une telle perte de pouvoir signifie pour les Américains de tous les milieux. A l’instar de ce qu’une demi-douzaine de nations européennes ont découvert, le déclin impérial tend à avoir un impact remarquablement démoralisant sur une société, apportant ordinairement des privations économiques pendant au moins une génération. Au fur et à mesure que l’économie se refroidit, la température politique monte, déclenchant souvent de sérieux troubles.

Les données économiques, éducatives et militaires disponibles indiquent, pour ce qui est de la puissance mondiale des Etats-Unis, que les tendances négatives s’accumuleront rapidement d’ici à 2020 et atteindront probablement une masse critique au plus tard en 2030. Le Siècle Américain, proclamé si triomphalement au commencement de la Deuxième Guerre Mondiale, sera réduit à néant et s’éteindra d’ici à 2025, dans sa huitième décennie, et pourrait être relégué définitivement au passé d’ici 2030.

Fait révélateur, en 2008, la Commission Nationale Américaine des Renseignements [US National Intelligence Council] a admis pour la première fois que la puissance globale des Etats-Unis suivait vraiment une trajectoire déclinante. Dans l’un de ses rapports périodiques sur le futur, Global Trends 2025 [Tendances Mondiales 2025], cette commission a cité « le transfert brutal de la richesse mondiale et de la puissance économique, actuellement en cours, de l’Ouest vers l’Est », et « sans précédent dans l’histoire moderne », comme premier facteur du déclin de la « force relative des Etats-Unis – même dans le domaine militaire ». Toutefois, comme beaucoup à Washington, les analystes de cette commission ont anticipé un atterrissage très en douceur et très long de la prééminence mondiale américaine, et ils ont nourri l’espoir que d’une façon ou d’une autre les Etats-Unis « garderaient longtemps une capacité militaire unique… afin de projeter leur puissance militaire sur le monde » pour les décennies à venir.

Pas la moindre chance ! Selon les projections actuelles, les Etats-Unis se retrouveront en deuxième position derrière la Chine (déjà deuxième économie mondiale) en terme de production économique, aux alentours de 2026, et derrière l’Inde d’ici à 2050. De même, l’innovation chinoise suit une trajectoire qui conduira la Chine au leadership mondial en science appliquée et en technologie militaire entre 2020 et 2030, juste au moment où les nombreux scientifiques et ingénieurs brillants de l’Amérique actuelle prendront leur retraite, sans pouvoir être adéquatement remplacés à cause d’une nouvelle génération mal instruite.

D’ici 2020, selon les prévisions actuelles, le Pentagone se lancera dans un va-tout militaire d’un empire mourrant. Il lancera une triple couverture spatiale létale, constituée de robotique avancée et qui représente le dernier meilleur espoir de Washington de maintenir son statut de puissance mondiale, malgré son influence économique déclinante. Toutefois, dès cette année-là, le réseau mondial de satellites de communication de la Chine, soutenu par les super-ordinateurs les plus puissants du monde, sera également entièrement opérationnel, procurant à Pékin une plate-forme indépendante pour la militarisation de l’espace et un puissant système de communication pour ses missiles – ou attaques cybernétiques – dans tous les endroits de la planète.

Enveloppée dans sa prétention démesurée impériale, comme Whitehall ou le Quai d’Orsay avant elle, la Maison Blanche semble toujours imaginer que le déclin américain sera progressif, modéré et partiel. Dans son Adresse à l’Union en janvier dernier, le Président Barack Obama a donné la garantie qu’il « n’accepte pas la deuxième place pour les Etats-Unis d’Amérique ». Quelques jours plus tard, le Vice-président Joseph Biden, a tourné en dérision l’idée même que « nous sommes destinés à réaliser la prophétie de [l’historien Paul] Kennedy, selon laquelle nous serons une grande nation qui aura échoué parce que nous avons perdu le contrôle de notre économie et que nous nous sommes trop agrandis ». De la même manière, Joseph Nye, le gourou néolibéral en politique étrangère, s’exprimant dans le numéro de novembre du journal institutionnel Foreign Affairs, a balayé toute idée d’essor économique et militaire de la Chine, rejetant « les métaphores trompeuses de déclin organique » et niant qu’une détérioration de la puissance globale des Etats-Unis était en cours.

Les Américains ordinaires, voyant leurs emplois se délocaliser à l’étranger, ont une vision plus réaliste que leurs dirigeants qui, eux, sont bien protégés. Un sondage d’opinion d’août 2010 a mis en évidence que 65% des Américains pensaient que leur pays était désormais « en état de déclin ». Déjà, l’Australie et la Turquie, des alliés militaires traditionnels des Etats-Unis, utilisent leurs armes fabriquées en Amérique pour des manœuvres aériennes et navales conjointes avec la Chine. Déjà, les partenaires économiques les plus proches des Etats-Unis s’éloignent de la position de Washington et se tournent vers la devise chinoise, dont les taux sont manipulés. Alors que le président [Obama] revenait d’Asie le mois dernier, un gros titre sinistre du New York Times résumait ainsi le moment fort de son voyage : « Sur La Scène Mondiale, La Vision Economique d’Obama Est Rejetée, La Chine, La Grande-Bretagne Et L’Allemagne Contestent Les USA, Les Pourparlers Commerciaux Avec Séoul Ont Egalement Echoué ».

D’un point de vue historique, la question n’est pas de savoir si les Etats-Unis perdront leur puissance globale incontestée, mais juste à quelle vitesse et avec quelle brutalité se produira leur déclin. A la place des désirs irréalistes de Washington, prenons la propre méthodologie du National Intelligence Council pour décrypter l’avenir, afin de suggérer quatre scénarios réalistes (accompagnés de quatre évaluations associées de leur situation actuelle) sur la manière, que ce soit avec fracas ou dans un murmure, dont la puissance globale des Etats-Unis pourrait toucher à sa fin dans les années 2020. Ces scénarios futuristes comprennent : le déclin économique, le choc pétrolier, la mésaventure militaire et la Troisième Guerre Mondiale. Même si ces scénarios sont loin d’être les seules possibilités en matière de déclin – voire même d’effondrement – américain, ils offrent une fenêtre sur un futur qui arrive au pas de charge.

Le déclin économique

La situation actuelle

Aujourd’hui, trois menaces principales existent vis-à-vis de la position dominante des Etats-Unis dans l’économie mondiale : la perte de l’influence économique grâce à une part du commerce mondial qui se rétrécit, le déclin de l’innovation technologique américaine et la fin du statut privilégié du dollar en tant que devise de réserve mondiale.

Dès 2008, les Etats-Unis sont déjà tombés au troisième rang mondial pour les exportations, avec 11% des exportations mondiales, comparés à 12% pour la Chine et 16% pour l’Union Européenne. Il n’y a aucune raison de croire que cette tendance va s’inverser.

De la même façon, le leadership américain dans l’innovation technologique est sur le déclin. En 2008, les Etats-Unis étaient encore numéro deux derrière le Japon en matière de dépôts de brevets, avec 232.000, mais la Chine se rapprochait très vite avec 195.000 brevets, grâce à une augmentation foudroyante de 400% depuis l’an 2000. Un signe annonciateur d’un déclin supplémentaire : en 2009, les Etats-Unis sont tombés au plus bas, au cours de la décennie précédente, parmi les 40 pays étudiés par la Fondation pour l’Innovation et l’Information Technologique, en termes de « changement » dans la « compétitivité mondiale en matière d’innovation ». Ajoutant du corps à ces statistiques, en octobre dernier, le Ministère de la Défense chinois a dévoilé le super-ordinateur le plus rapide du monde, le Tianhe-1 A, si puissant, selon un expert américain, qu’il « fait voler en éclat les performances de l’actuelle machine n°1 » aux Etats-Unis.

Ajoutez à cette preuve limpide que le système éducatif américain, qui constitue la source des futurs scientifiques et innovateurs, est passé derrière ses concurrents. Après avoir été à la tête du monde pendant des décennies sur la tranche d’âge des 25-34 ans possédant un diplôme universitaire, ce pays a sombré à la douzième place en 2010. Le Forum Economique Mondial, la même année, a classé les Etats-Unis à une médiocre 52ème place sur 139 pays, en ce qui concerne la qualité de ses universités de mathématiques et d’instruction scientifique. Près de la moitié de tous les diplômés en sciences aux Etats-Unis sont désormais des étrangers, dont la plupart rentreront chez eux, et ne resteront pas aux Etats-Unis comme cela se passait autrefois. Autrement dit, d’ici 2025, les Etats-Unis se retrouveront probablement face à une pénurie de scientifiques de talent.

De telles tendances négatives encouragent la critique acerbe croissante sur le rôle du dollar en tant que devise de réserve mondiale. « Les autres pays ne veulent plus adhérer à l’idée que les Etats-Unis savent mieux que les autres en matière de politique économique », a observé Kenneth S. Rogoff, ancien chef économiste au FMI. A la mi-2009, avec les banques centrales qui détenaient un montant astronomique de 4.000 milliards de dollars en bons du trésor américain, le Président russe Dimitri Medvedev a insisté sur le fait qu’il était temps de mettre fin au « système unipolaire artificiellement maintenu » et basé sur « une devise de réserve qui avait été forte dans le passé ».

Simultanément, le gouverneur de la banque centrale chinoise a laissé entendre que l’avenir pourrait reposer sur une devise de réserve mondiale « déconnectée des nations individuelles » (c’est-à-dire, le dollar américain). Prenez tout ceci comme des indications du monde à venir et comme une tentative possible, ainsi que l’a soutenu l’économiste Michael Hudson, « d’accélérer la banqueroute de l’ordre mondial militaro-financier des Etats-Unis ».

Un scénario pour 2020

Après des années de déficits croissants, nourris par des guerres incessantes dans des pays lointains, en 2020, comme l’on s’y attend depuis longtemps, le dollar américain perd finalement son statut spécial de devise de réserve mondiale. Soudain, le coût des importations monte en flèche. Incapable de payer des déficits allant crescendo en vendant des bons du Trésor à présent dévalués, Washington est finalement obligé de réduire considérablement son budget militaire boursouflé. Sous la pression de ses citoyens et de l’étranger, Washington retire les forces américaines de centaines de bases à l’étranger qui se replient sur un périmètre continental. Cependant, il est désormais bien trop tard.

Face à une superpuissance qui s’éteint et qui est incapable de payer ses factures, la Chine, l’Inde, l’Iran, la Russie et d’autres puissances, grandes ou régionales, défient et provoquent la domination des Etats-Unis sur les océans, dans l’espace et le cyberespace. Pendant ce temps, en pleine inflation, avec un chômage qui croit sans cesse et une baisse continue des salaires réels, les divisions intérieures s’étendent en violents clashs et en débats diviseurs, souvent sur des questions remarquablement hors sujet. Surfant sur une vague politique de désillusion et de désespoir, un patriote d’extrême-droite capture la présidence avec une rhétorique assourdissante, exigeant le respect de l’autorité américaine et proférant des menaces de représailles militaires ou économiques. Le monde ne prête quasiment pas attention alors que le Siècle Américain se termine en silence.

Le choc pétrolier

La situation actuelle

Une victime collatérale de la puissance économique déclinante de l’Amérique a été son verrouillage des approvisionnements en pétrole. Accélérant et dépassant l’économie américaine gourmande en pétrole, la Chine est devenue cet été le premier consommateur mondial d’énergie, une position détenue par les Etats-Unis depuis plus d’un siècle. Le spécialiste [américain] de l’énergie Michael Klare a exposé que ce changement signifie que la Chine « donnera le rythme pour façonner notre avenir mondial ».

D’ici 2025, la Russie et l’Iran contrôleront près de la moitié des réserves mondiales de gaz naturel, ce qui leur octroiera potentiellement un énorme effet de levier sur une Europe affamée d’énergie. Ajoutez les réserves pétrolières à ce mélange, ainsi que le National Intelligence Council a prévenu, et dans juste 15 ans, deux pays, la Russie et l’Iran, pourraient « émerger comme les chevilles ouvrières de l’énergie ».

Malgré leur ingéniosité remarquable, les principales puissances pétrolières vident actuellement les grands bassins de réserves pétrolières qui s’avèrent être des extractions faciles et bon marché. La véritable leçon du désastre pétrolier de « Deepwater Horizon » dans le Golfe du Mexique n’était pas les normes de sécurité laxistes de BP, mais le simple fait que tout le monde ne voyait que le « spectacle de la marée noire » : l’un des géants de l’énergie n’avait pas beaucoup d’autre choix que de chercher ce que Klare appelle du « pétrole coriace », à des kilomètres sous la surface de l’océan, pour maintenir la croissance de ses profits.

Aggravant le problème, les Chinois et les Indiens sont soudainement devenus des consommateurs d’énergie beaucoup plus gourmands. Même si les approvisionnements en pétrole devaient rester constants (ce qui ne sera pas le cas), la demande, et donc les coûts, est quasiment assurée de monter – et, qui plus est, brutalement. D’autres pays développés répondent agressivement à cette menace en se plongeant dans des programmes expérimentaux pour développer des sources énergétiques alternatives. Les Etats-Unis ont pris une voie différente, faisant bien trop peu pour développer des sources énergétiques alternatives, tandis qu’au cours des dix dernières années, ils ont doublé leur dépendance sur les importations du pétrole provenant de l’étranger. Entre 1973 et 2007, les importations de pétrole [aux Etats-Unis] sont passées de 36% de toute l’énergie consommée aux Etats-Unis à 66%.

Un scénario pour 2025

Les Etats-Unis sont restés si dépendants du pétrole étranger que quelques événements défavorables sur le marché mondial de l’énergie déclenchent en 2025 un choc pétrolier. En comparaison, le choc pétrolier de 1973 (lorsque les prix ont quadruplé en quelques mois) ressemble à un avatar. En colère face à la valeur du dollar qui s’envole, les ministres du pétrole de l’OPEP, se réunissant en Arabie Saoudite, exigent les futurs paiements énergétiques dans un « panier de devises », constitué de yen, de yuan et d’euro. Cela ne fait qu’augmenter un peu plus le coût des importations pétrolières américaines. En même temps, tandis qu’ils signent une nouvelle série de contrats de livraison à long-terme avec la Chine, les Saoudiens stabilisent leurs propres réserves de devises en passant au yuan. Pendant ce temps, la Chine déverse d’innombrables milliards pour construire un énorme pipeline à travers l’Asie et finance l’exploitation par l’Iran du plus grand champ gazier au monde, à South Pars, dans le Golfe Persique.

Inquiets que l’US Navy pourrait ne plus être en mesure de protéger les bateaux-citernes naviguant depuis le Golfe Persique pour alimenter l’Asie Orientale, une coalition entre Téhéran, Riyad et Abu-Dhabi forme une nouvelle alliance inattendue du Golfe et décrète que la nouvelle flotte chinoise de porte-avions rapides patrouillera dorénavant dans le Golfe Persique, depuis une base dans le Golfe d’Oman. Sous de fortes pressions économiques, Londres accepte d’annuler le bail des Américains sur la base de Diego Garcia, située sur son île de l’Océan Indien, tandis que Canberra, contrainte par les Chinois, informe Washington que sa Septième Flotte n’est plus la bienvenue à Fremantle, son port d’attache, évinçant de fait l’US Navy de l’Océan Indien.

En quelques traits de plume et quelques annonces laconiques, la « Doctrine Carter », selon laquelle la puissance militaire étasunienne devait éternellement protéger le Golfe Persique, est enterrée en 2025. Tous les éléments qui ont assuré pendant longtemps aux Etats-Unis des approvisionnements illimités en pétrole bon marché depuis cette région – logistique, taux de change et puissance navale – se sont évaporés. A ce stade, les Etats-Unis ne peuvent encore couvrir que 12% de leurs besoins énergétiques par leur industrie d’énergie alternative naissante, et ils restent dépendants du pétrole importé pour la moitié de leur consommation d’énergie.

Le choc pétrolier qui s’ensuit frappe le pays comme un ouragan, envoyant les prix vers de nouveaux sommets, rendant les voyages une option incroyablement coûteuse, provoquant la chute-libre des salaires réels (depuis longtemps en déclin) et rendant non-compétitif ce qui reste des exportations américaines. Avec des thermostats qui chutent, le prix des carburants qui bat tous les records et les dollars qui coulent à flot vers l’étranger en échange d’un pétrole coûteux, l’économie américaine est paralysée. Avec des alliances en bout de course qui s’effilochent depuis longtemps et des pressions fiscales croissantes, les forces militaires américaines commencent finalement un retrait graduel de leurs bases à l’étranger.

En quelques années, les Etats-Unis sont fonctionnellement en faillite et le compte à rebours à commencé vers le crépuscule du Siècle Américain.

La mésaventure militaire

La situation actuelle

Contrairement à l’intuition, tandis que leur puissance s’éteint, les empires plongent souvent dans des mésaventures militaires inconsidérées. Ce phénomène, connu des historiens spécialistes des empires sous le nom de « micro-militarisme », semble impliquer des efforts de compensation psychologique pour soulager la douleur de la retraite ou de la défaite en occupant de nouveaux territoires, pourtant de façon brève et catastrophique. Ces opérations, irrationnelles même d’un point de vue impérial, produisent souvent une hémorragie de dépenses ou de défaites humiliantes qui ne font qu’accélérer la perte de puissance.

A travers les âges, les empires assaillis souffrent d’une arrogance qui les conduit à plonger encore plus profond dans les mésaventures militaires, jusqu’à ce que la défaite devienne une débâcle. En 413 av. J.-C., Athènes, affaiblie, envoya 200 vaisseaux se faire massacrer en Sicile. En 1921, l’Espagne impériale mourante envoya 20.000 soldats se faire massacrer par les guérillas berbères au Maroc. En 1956, l’empire britannique déclinant détruisit son prestige en attaquant Suez. Et, en 2001 et en 2003, les Etats-Unis ont occupé l’Afghanistan et envahi l’Irak. Avec la prétention démesurée qui marque les empires au fil des millénaires, Washington a augmenté à 100.000 le nombre de ses soldats en Afghanistan, étendu la guerre au Pakistan et étendu son engagement jusqu’en 2014 et plus, recherchant les désastres, petits et grands, dans ce cimetière nucléarisé des empires, infesté par les guérillas.

Un scénario pour 2014

Le « micro-militarisme » est si irrationnel et imprévisible que les scénarios en apparence fantaisistes sont vite surpassés par les évènements réels. Avec l’armée américaine étirée et clairsemée de la Somalie aux Philippines et les tensions qui montent en Israël, en Iran et en Corée, les combinaisons possibles pour une crise militaire désastreuse sont multiformes.

Nous sommes au milieu de l’été 2014 au sud de l’Afghanistan et une garnison américaine réduite, dans Kandahar assailli, est soudainement et de façon inattendue prise d’assaut par les guérillas Taliban, tandis que les avions américains sont cloués au sol par une tempête de sable aveuglante. De lourdes pertes sont encaissées et, en représailles, un commandant militaire américain embarrassé lâche ses bombardiers B-1 et ses avions de combat F-16 pour démolir tout un quartier de la ville que l’on pense être sous contrôle Taliban, tandis que des hélicoptères de combat AC-130 U « Spooky » ratissent les décombres avec des tirs dévastateurs.

Très vite, les Mollahs prêchent le djihad dans toutes les mosquées de la région, et les unités de l’armée afghane, entraînées depuis longtemps par les forces américaines pour renverser le cours de la guerre, commencent à déserter massivement. Les combattants Talibans lancent alors dans tout le pays une série de frappes remarquablement sophistiquées sur les garnisons américaines, faisant monter en flèche les pertes américaines. Dans des scènes qui rappellent Saigon en 1975, les hélicoptères américains portent secours aux soldats et aux civils américains depuis les toits de Kaboul et de Kandahar.

Pendant ce temps, en colère contre l’impasse interminable qui dure depuis des dizaines d’années à propos de la Palestine, les dirigeants de l’OPEP imposent un nouvel embargo pétrolier contre les Etats-Unis pour protester contre leur soutien à Israël, ainsi que contre le massacre d’un nombre considérable de civils musulmans dans leur guerre en cours dans tout le Grand Moyen-Orient. Avec le prix des carburants qui monte en flèche et ses raffineries qui s’assèchent, Washington prend ses dispositions en envoyant les forces des Opérations Spéciales saisir les ports pétroliers du Golfe Persique. En retour, cela déclenche un emballement des attaques-suicides et le sabotage des pipelines et des puits de pétrole. Tandis que des nuages noirs s’élèvent en tourbillons vers le ciel et que les diplomates se soulèvent à l’ONU pour dénoncer catégoriquement les actions américaines, les commentateurs dans le monde entier remontent dans l’histoire pour appeler cela le « Suez de l’Amérique », une référence éloquente à la débâcle de 1956 qui a marqué la fin de l’Empire Britannique.

La Troisième Guerre Mondiale

La situation actuelle

Au cours de l’été 2010, les tensions militaires entre les Etats-Unis et la Chine ont commencé à croître dans le Pacifique occidental, considéré autrefois comme un « lac » américain. Même un an plus tôt, personne n’aurait prédit un tel développement. De la même manière que Washington a exploité son alliance avec Londres pour s’approprier une grande part de la puissance mondiale de la Grande-Bretagne après la Deuxième Guerre Mondiale, la Chine utilise à présent les profits générés par ses exportations avec les Etats-Unis pour financer ce qui risque probablement de devenir un défi militaire à la domination américaine sur les voies navigables de l’Asie et du Pacifique.

Avec ses ressources croissantes, Pékin revendique un vaste arc maritime, de la Corée à l’Indonésie, dominé pendant longtemps par l’US Navy. En août, après que Washington eut exprimé un « intérêt national » dans la Mer de Chine méridionale et conduit des exercices navals pour renforcer cette revendication, le Global Times, organe officiel de Pékin, a répondu avec colère, en disant : « Le match de lutte entre les Etats-Unis et la Chine sur la question de la Mer de Chine méridionale a fait monter les enchères pour décider quel sera le futur dirigeant de la planète. »

Au milieu des tensions croissantes, le Pentagone a rapporté que Pékin détient à présent « la capacité d’attaquer… les porte-avions [américains] dans l’Océan Pacifique occidental » et de diriger « des forces nucléaires vers l’ensemble… des Etats-Unis continentaux. » En développant « des capacités offensives nucléaires, spatiales et de guerre cybernétique », la Chine semble déterminée à rivaliser pour la domination de ce que le pentagone appelle « le spectre d’information dans toutes les dimensions de l’espace de combat moderne ». Avec le développement en cours de la puissante fusée d’appoint Long March V, de même que le lancement de deux satellites en janvier 2010 et d’un autre en juillet dernier, pour un total de cinq [déjà mis sur orbite], Pékin a lancé le signal que le pays faisait des progrès rapides en direction d’un réseau « indépendant » de 35 satellites pour le positionnement, les communications et les capacités de reconnaissance mondiales, qui verra le jour d’ici 2020.

Pour contrôler la Chine et étendre mondialement sa position militaire, Washington a l’intention de construire un nouveau réseau numérique de robotique aérienne et spatiale, de capacités avancées de guerre cybernétique et de surveillance électronique. Les planificateurs militaires espèrent que ce système enveloppera la Terre dans un quadrillage cybernétique capable de rendre aveugles des armées entières sur le champ de bataille ou d’isoler un simple terroriste dans un champ ou une favela. D’ici 2020, si tout fonctionne selon son plan, le Pentagone lancera un bouclier à trois niveaux de drones spatiaux – pouvant atteindre l’exosphère depuis la stratosphère, armés de missiles agiles, reliés par un système modulaire de satellites élastique et opérant au moyen d’une surveillance totale par télescope.

En avril dernier, le Pentagone est entré dans l’histoire. Il a étendu les opérations de drones à l’exosphère en lançant discrètement la navette spatiale non habitée X-37 B, la plaçant en orbite basse au-dessus de la planète. Le X-37 B est le premier d’une nouvelle génération de véhicules non-habités qui marqueront la militarisation complète de l’espace, créant une arène pour les futures guerres, contrairement à tout ce qui a été fait auparavant.

Un scénario pour 2025

La technologie de la guerre spatiale et cybernétique est tellement nouvelle et non-testée que même les scénarios les plus bizarres pourraient bientôt être dépassés par une réalité encore difficile à concevoir. Toutefois, si nous employons simplement le type de scénarios que l’US Air Force a elle-même utilisés dans son 2009 Future Capabilities Game, nous pouvons obtenir « une meilleure compréhension sur la manière dont l’air, l’espace et le cyberespace coïncident dans l’art de la guerre » ; et, commencez alors à imaginer comment la prochaine guerre mondiale pourrait réellement être livrée !

Il est 23h59 en ce jeudi de Thanksgiving 2025. Tandis que les foules se pressent dans les cyberboutiques et qu’elles martèlent les portails de Best Buy pour des gros discounts sur les derniers appareils électroniques domestiques provenant de Chine, les techniciens de l’US Air Force, au Télescope Spatial de Surveillance de Maui [Hawaï], toussent sur leur café tandis que leurs écrans panoramiques deviennent soudainement noirs. A des milliers de kilomètres, au centre de commandement cybernétique au Texas, les combattants cybernétiques détectent rapidement des codes binaires malicieux qui, bien que lancés de façon anonyme, montrent l’empreinte numérique distincte de l’Armée de Libération Populaire de Chine.

Cette première attaque ouverte n’avait été prévue par personne. Le « programme malicieux » prend le contrôle de la robotique à bord d’un drone américain à propulsion solaire, le « Vulture », alors qu’il vole à 70.000 pieds au-dessus du Détroit de Tsushima, entre la Corée et le Japon. Il tire soudain tous les modules de fusées qui se trouvent en dessous de son envergure gigantesque de 135 mètres, envoyant des douzaines de missiles létaux plonger de façon inoffensive dans la Mer Jaune, désarmant ainsi efficacement cette arme terrible.

Déterminé à répondre coup pour coup, la Maison Blanche autorise une frappe de rétorsion. Confiant que son système de satellites F-6, « fractionné et en vol libre » est impénétrable, les commandants de l’Air Force en Californie transmettent les codes robotiques à la flottille de drones spatiaux X-37 B qui orbitent à 450 kilomètres au-dessus de la Terre, leur ordonnant de lancer leurs missiles « triple terminator » sur les 35 satellites chinois. Aucune réponse. Proche de la panique, l’US Air Force lance son véhicule de croisière hypersonique Falcon dans un arc de 160 kilomètres au-dessus de l’Océan Pacifique et ensuite, juste 20 minutes plus tard, envoie les codes informatiques pour tirer les missiles contre sept satellites chinois en orbite basse. Les codes de lancement sont soudainement inopérants.

Au fur et à mesure que le virus chinois se répand irrésistiblement à travers l’architecture des satellites F-6 et que ces super-ordinateurs américains de deuxième classe ne parviennent pas à cracker le code diablement complexe du programme malicieux, les signaux GPS, cruciaux pour la navigation des navires et des avions américains dans le monde entier, sont compromis. Les flottes de porte-avions commencent à tourner en rond au milieu du Pacifique. Des escadrons d’avions de combat sont cloués au sol. Les drones moissonneurs volent sans but vers l’horizon, se crashant lorsque leur carburant est épuisé. Soudain, les Etats-Unis perdent ce que l’US Air Force a longtemps appelé « le terrain élevé de combat ultime » : l’espace. En quelques heures, la puissance mondiale qui a dominé la planète pendant près d’un siècle a été vaincue dans la Troisième Guerre Mondiale sans causer la moindre victime humaine.

Un nouvel ordre mondial ?

Même si les événements futurs s’avèrent plus ternes que ce que suggèrent ces quatre scénarios, toutes les tendances importantes pointent vers un déclin beaucoup plus saisissant de la puissance américaine d’ici 2025 que tout ce que Washington semble maintenant envisager.

Alors que les alliés [des Etats-Unis] dans le monde entier commencent à réaligner leurs politiques pour rencontrer les puissances asiatiques montantes, le coût de maintien des 800 bases militaires ou plus à l’étranger deviendra tout simplement insoutenable, forçant finalement Washington à se retirer graduellement à contre-cœur. Avec la Chine et les Etats-Unis qui se trouvent dans une course à la militarisation de l’espace et du cyberespace, les tensions entre les deux puissances vont sûrement monter, rendant un conflit militaire d’ici 2025 au moins plausible, voire quasiment garanti.

Pour compliquer un peu plus les choses, les tendances économiques, militaires et technologiques exposées brièvement ci-dessus n’agiront pas de manière clairement isolée. Comme cela s’est produit pour les empires européens après la Deuxième Guerre Mondiale, de telles forces négatives se révèleront sans aucun doute synergiques. Elles se combineront de façon complètement inattendue, créeront des crises pour lesquelles les Américains ne sont absolument pas préparés et menaceront d’envoyer l’économie dans une spirale descendante soudaine, reléguant ce pays dans la misère économique, pendant une génération ou plus.

Tandis que la puissance américaine s’estompe, le passé offre un éventail de possibilités pour un futur ordre mondial. A un bout de ce spectre, la montée d’une nouvelle superpuissance mondiale, même si elle est improbable, ne peut pas être écartée. Toutefois, la Chine et la Russie manifestent toutes deux des cultures autoréférentielles, des écritures abstruses non-romaines, des stratégies de défense régionales et des systèmes légaux sous-développés, leur contestant les instruments clés pour la domination mondiale. Alors, dans ce cas, aucune superpuissance de semble pouvoir succéder aux Etats-Unis.

Dans une version noire contre-utopique de notre futur mondial, il est concevable qu’une coalition d’entreprises transnationales, de forces multilatérales comme l’OTAN et d’une élite financière internationale puisse élaborer un réseau supranational instable qui ne donnerait plus aucun sens à l’idée même d’empires nationaux. Tandis que des entreprises dénationalisées et des élites multinationales dirigeraient de façon usurpée un tel monde depuis des enclaves urbaines sécurisées, les multitudes seraient reléguées dans des terres, rurales ou urbaines, laissées à l’abandon.

Dans Planet of Slums [planète bidonvilles], Mike Davis offre au moins une vision partielle du bas vers le haut d’un tel monde. Son argument est que le milliard de personnes (deux milliards d’ici 2030) déjà entassées dans des bidonvilles fétides de type favelas autour du monde, feront « les villes sauvages et en faillite du Tiers Monde […] l’espace de combat caractéristique du 21ème siècle ». Alors que l’obscurité s’installe sur quelques super-favelas futures, « l’empire peut déployer des technologies orwelliennes de répression », tandis que « les hélicoptères de combats de type hornet chassent des ennemis énigmatiques dans les rues étroites des bas-quartiers… Tous les matins, les bidonvilles répliquent par des attentats-suicides et des explosions éloquentes ».

Au milieu de ce spectre de futurs possibles, un nouvel oligopole pourrait émerger entre 2020 et 2040, avec les puissances montantes chinoise, russe, indienne et brésilienne collaborant avec des puissances en déclin comme la Grande-Bretagne, l’Allemagne, le Japon et les Etats-Unis, en vue d’imposer une domination globale ad hoc, semblable à l’alliance approximative des empires européens qui ont dirigé la moitié de l’humanité aux alentours de 1900.

Une autre possibilité : la montée d’hégémons régionaux dans un retour à quelque chose rappelant le système international en œuvre avant que les empires modernes ne se forment. Dans cet ordre mondial néo-westphalien, avec ses perspectives sans fin de micro-violence et d’exploitation incontrôlée, chaque hégémon dominerait sa région immédiate – le Brésil en Amérique du Sud, Washington en Amérique du Nord, Pretoria en Afrique méridionale, etc. L’espace, le cyberespace et les profondeurs maritimes, retirés du contrôle de l’ancien « gendarme » planétaire, les Etats-Unis, pourraient même devenir des nouvelles parties communes mondiales, contrôlées au moyen d’un Conseil de Sécurité onusien élargi ou d’une autre institution ad hoc.

Tous ces scénarios extrapolent des tendances futuristes existantes, sur la supposition que les Américains, aveuglés par l’arrogance de décennies de puissance sans précédent historique, ne peuvent pas prendre ou ne prendront pas les mesures pour gérer l’érosion incontrôlée de leur position mondiale.

Si le déclin de l’Amérique suit en fait une trajectoire de 22 années entre 2003 et 2025, alors les Américains ont déjà gaspillé la plus grande partie de la première décade de ce déclin avec des guerres qui les ont détournés des problèmes à long-terme et, de la même manière que l’eau est bue rapidement par les sables du désert, des trillions de dollars terriblement nécessaires gaspillés.

S’il reste seulement 15 ans, les risques de les gaspiller tous reste toujours élevé. Le Congrès et le président [des Etats-Unis] sont à présent dans une impasse ; le système américain est submergé par l’argent des grandes entreprises qui bloquent les usines ; et peu de choses laissent penser que toute question d’importance, y compris les guerres américaines, l’Etat national sécuritaire bouffi de l’Amérique, son système éducatif démuni et ses approvisionnements énergétiques archaïques, sera traitée avec assez de sérieux pour assurer la sorte d’atterrissage en douceur qui pourrait maximiser le rôle et la prospérité des Etats-Unis dans un monde en changement.

Les empires d’Europe sont révolus et le pouvoir suprême des Etats-Unis se poursuit. Il semble de plus en plus improbable que les Etats-Unis obtiendront quelque chose qui ressemble de près ou de loin à la réussite de la Grande-Bretagne, pour façonner un ordre mondial réussi qui protège leurs intérêts, préserve leur prospérité et porte la marque de leurs meilleures valeurs.

Alfred W. McCoy

Traduction : Questions Critiques [2]

Alfred W McCoy est professeur d’histoire à l’Université de Wisconsin-Madison. Auteur régulier pour TomDispatch, il préside également le projet “Empires in transition”, un groupe de travail mondial de 140 historiens, provenant d’universités issues de quatre continents.

 

 


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[2] Questions Critiques: http://questionscritiques.free.fr/edito/AsiaTimesOnline/Alfred_McCoy_Etats-Unis_declin_siecle_americain_071210.htm

Cavalcare la crisi

Cavalcare la crisi

di Stefano Zecchi - Marco Iacona

Fonte: scandalizzareeundiritto

p138.jpg-Evola ha costruito gran parte delle sue riflessioni attorno al concetto di crisi. Lei crede che ciò lo allontani da una cultura italiana che nella sua generalità, nel XX secolo, non ha partorito grandi opere su questo tema? 

«Il tema della crisi è un argomento che ha impegnato buona parte della cultura europea e in questo senso Evola si pone come serio interlocutore. In Italia però, nonostante sia ben conosciuta, la cultura della crisi non viene tematizzata perché domina l’idealismo, quello crociano e quello gentiliano. Si pensi al disconoscimento da parte di Croce del valore di un libro famosissimo come Der Untergang des Abendlandes oppure alle ricerche e alle conferenze in tema di crisi di Husserl o alle tematiche heideggeriane. Ecco, alla sua domanda risponderei di sì, Evola si pone al di fuori della cultura filosofica dominante. Certo poi gioca a suo sfavore la collocazione politica che aumenta il distacco della sua ricerca filosofica dalla restante parte della cultura italiana».               

-Perché ha scritto il saggio introduttivo alla V edizione di Cavalcare la tigre (Stefano Zecchi, Evola, o una filosofia della responsabilità contro il nichilismo, Mediterranee 1995)?

«Fu Gianfranco de Turris ad offrirmi quest’opportunità ed io accetti volentieri. Penso che Cavalcare la tigre sia un testo importante. Evola mostra i limiti della modernità nel momento in cui è trionfante e nel momento in cui esprimersi contro di essa era né più e né meno che un’eresia. Il libro s’incrociava anche con i miei studi, nonostante le tematiche svolte fossero assai diverse. La conoscenza di Cavalcare la tigre era fondamentale perché fondamentale era per me la proposta di un angolo di visuale sul tema della modernità e sul concetto di crisi».

 -Cavalcare la tigre esce agli inizi degli anni Sessanta. Qual è il clima culturale italiano di quel periodo?

«È il clima più ostile possibile nei confronti di una critica alla modernità! La cultura di destra era sotterranea quindi non aveva voce all’interno del dibattito culturale; la cultura laico-liberale e quella comunista si sviluppavano invece su prospettive totalmente diverse da una critica all’idea di modernità. Ma non era solo Evola ad essere bistrattato, si pensi a come erano stati trattati Heidegger e Husserl, cioè gli esponenti di una filosofia che usciva fuori da prospettive diciamo così à la page. Di più, in Italia si stava  instaurando, costruita con grande meticolosità, l’egemonia culturale della sinistra, quindi Evola come altri grandi pensatori europei era posto ai margini del dibattito culturale».       

-Cosa pensa dell’interesse in negativo di Evola per gli esistenzialisti?

«Credo che Evola per certi aspetti abbia visto giusto. La critica evoliana agli esistenzialisti per qualche verso mi sembra analoga alla critica fatta da Henry Miller ai surrealisti. Miller scrisse la Lettera aperta ai surrealisti (che si trova nel volume Max e i fagociti bianchi) accusandoli di intellettualismo e di incapacità di toccare a fondo i temi che essi stessi avevano sollevato. Evola mi dà l’idea di sviluppare una critica, diciamo così, metodologicamente analoga a quella di Miller perché mette in evidenza la mistificazione e le ambiguità di un pensiero esistenziale che in realtà non arriva a porre i veri temi dell’esistenza. Un pensiero che resta come una forma superficiale di interrogazione dell’essere umano».

-Lei scrive che Cavalcare la tigre «può essere letto come un manuale di sopravvivenza» «da chi crede che la società moderna porti al disastro personale e sociale, culturale e politico». Ma in quanto strumento di “salvezza” secondo lei Cavalcare la tigre è davvero efficace?

«Paradossalmente le tematiche evoliane, o comunque se non Evola il clima culturale a cui Evola appartiene sono ben più attuali oggi. Con la perdita dell’enfasi sull’idea di sviluppo e di progresso c’è maggior attenzione ai temi della crisi, e quindi i punti che Evola ha toccato sono di maggiore attualità. Ecco, le critiche di Evola (come alcune cose dette da Heidegger e da Husserl) proprio per questa perdita del valore teoretico ed etico del progresso oggi ritornano. Devo dire però che Cavalcare la tigre ci anche ha dato una mano ad attraversare un deserto: così siamo arrivati all’oggi potendo dire che per fortuna i tempi sono molto diversi».

-Lei mostra qualche affinità col pensiero di Evola...

«Io non sono un “evoliano”, il mio pensiero si sviluppa in modo diverso, sebbene, come dicevo, alcuni aspetti della critica della modernità ritornino nei miei libri. Ricordo ad esempio che quando scrissi un libro come La Bellezza (1990) soltanto il termine “bellezza” venne considerato offensivo nei riguardi della modernità».

-Parafrasando il titolo di un suo libro degli anni Novanta (Stefano Zecchi, Sillabario del nuovo millennio, Mondadori 1993), secondo lei Evola potrebbe essere un pensatore capace di decrittare il nuovo millennio?

«Sicuramente sì. Evola è uno dei grandi pensatori del nostro secolo collocabile, come ho detto più volte, all’interno del filone della crisi. Piuttosto, ripeto, su di lui ha giocato negativamente l’esperienza politica e il fatto che la cultura egemone fosse legata al dibattito politico italiano. Penso che Evola paghi un prezzo che col passare del tempo sarà sempre meno salato».

-Un’ultima domanda. Lei ha scritto di televisione e conosce i mezzi di comunicazione. Potremmo fare un parallelo fra Evola e Pasolini dicendo che si tratta di due autori che si sono opposti al potere trionfante dei moderni mezzi di comunicazione?

«Beh, in Evola c’è anche una sorta di filo moralistico, secondo il quale qualunque fenomeno moderno conduce alla massificazione. In Pasolini invece, a parte il tema moralistico, c’e un’accettazione e perfino un utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Pasolini è più disponibile perché la sua è una critica ad una modernità dimentica degli aspetti originari dell’esistenza, della dimensione rurale e di quella operaia. Pasolini usa cinema, televisione e giornali ed esercita sul campo le sue critiche. Ritengo invece che Evola non avrebbe mai voluto sporcarsi gli abiti inserendosi fra i protagonisti dei più moderni mezzi di comunicazione».

 

 

 

 

 


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