jeudi, 21 novembre 2013
Pietro Barcellona: il potere della parola e l'illusoria strategia dei diritti
di Alessandro Lattarulo
Ex: http://www.ariannaeditrice.it
È arduo cercare di sintetizzare il pensiero di Pietro Barcellona, recentemente scomparso, anche semplicemente mossi dalla pretesa di riannodare i fili del ragionamento intessuto negli ultimi anni. Difficile perché nell’epoca degli specialismi, dei tecnicismi, l’opera dell’intellettuale siciliano si è distinta per una sempre più spiccata apertura verso la complessità del presente, al fine di abbracciarlo non più solamente mediante la chiave interpretativa giuridico-politica, aderente alla propria formazione accademica, ma con ripetute esplorazioni nella psicanalisi, nella teologia, nella filosofia. La contaminazione dei saperi, d’altronde, come ineludibile sforzo per chiunque non si accontenti delle decodificazioni gestite dai mass-media, è la frontiera estrema di resistenza al pensiero omologante che inaridisce le fonti della conoscenza e della riflessione dell’uomo sul suo essere in società.
Incanalata entro questa visione delle turbolenze che rendono questo torno di tempo sempre più etichettato come “di crisi”, la parola, sulla quale Barcellona è ritornato anche nella sua ultima monografia, Parolepotere (Castelvecchi, Roma, 2013), è la trincea dalla quale organizzare una resistenza contro l’onnipotenza della Tecnica – metafora ma anche dispositivo narcotizzante dei vincitori –, nella consapevolezza che dietro il lessico vi sia l’arcano del potere. Non solamente nella misura in cui la parola venga forgiata continuamente dai vincitori, per quanto temporanei, che si arrogano il diritto di riscrivere la storia, quanto e soprattutto affinché la pur necessaria riduzione della complessità non si trasformi in un’operazione volta a oggettivare il dato di realtà. Questa operazione, infatti, non soltanto rappresenta la meschina rimozione di tutte quelle forme di sapere che non abbaino raggiunto la lucidità concettuale del discorso dei vincitori, benché contengano depositi di sapienza che potrebbero essere d’ausilio a una rilettura multilaterale delle vicende umane, ma segnala anche una residua possibilità di ancoraggio a un protagonismo del soggetto contro la mistificazione, o forse ossessione, scientista dell’attribuzione al mondo di una modalità di funzionamento fondata su leggi oggettive e non, viceversa, su azioni consapevoli e intenzionali.
In questo cul de sac, le residue possibilità di trasformazione sociale sono affidate alla parola poetica, perché è il poeta che, come il folle nella declinazione erasmiana, destruttura il discorso e rimodula, a uso proprio e della comunità, il linguaggio attraverso cui provare a rappresentare il mondo. Il poeta, come scrive Barcellona, «inaugura sempre un nuovo uso delle parole, o addirittura crea vocaboli che innovano radicalmente l’ordine del discorso» (ibidem, p. 27). La parola poetica, insomma, anticipa i cambiamenti nelle prassi, non semplicemente in maniera oracolare, ma (ri)accompagnando l’uomo lungo il sentiero del dubbio dell’interrogazione esistenziale e di senso. La parola poetica, cioè, al di là del suo incasellamento in un’inclinazione più spiccatamente civile o intimistica, opera proprio per far capire quel quid al quale il discorso convenzionale, dialogico o narrativo, non giunge. In questo sforzo, di carattere prettamente soggettivo come in tutte le arti asemantiche, che, a differenza per esempio della musica, corrono il rischio di avere una “scadenza” per la fruizione più ravvicinata nel tempo, vi è chi ha interpretato uno degli snodi più rilevanti tra il Barcellona ateo e comunista e il Barcellona in dialogo con l’anima e con Dio degli ultimi anni. Con l’usuale, saccente, pretesa, di periodizzare la vita altrui, quasi che la stessa non costituisca comunque un unicum, benché arricchito da nuove ricalibrazioni del pensiero, dalla coltivazione di domande sempre più pressanti. Eppure in Barcellona immutata è rimasta la tensione (e il malessere per la calante aspirazione comune) alla rappresentazione di un universo simbolico soggettivo e collettivo, in grado di restituire “senso” a quest’era post-ideologica con una grande narrazione (cfr. L’oracolo di Delfi e l’isola della capre, Marietti, Genova-Milano, 2009).
Le grandi narrazioni, lungi dal costituire un’anticaglia cestinata dalla “fine della storia” teorizzata da Fukuyama, sono la palestra entro la quale esercitare il conflitto sociale e coltivare gli interrogativi. La palestra, cioè, nella quale ricercare una narrazione comune non già per ingabbiare e omologare ruoli, appiattire status, narcotizzare passioni, ma della quale ridisegnare continuamente il perimetro mediante la forza antagonista della parola, per dare vita a sempre nuove catene significanti. Appunto per non macerare nell’ovvio, nel dominio dell’oggettività, ma per riscoprire la dimensione misterica dell’esistente. In fondo, anche il formidabile strumento della parola non è onnipotente, ma nasce all’interno di uno spazio che i greci ritennero di definire “anima”.
L’indagine sull’anima ha avuto, nell’ultimo quindicennio della produzione barcelloniana – fatta anche di poesia e di pittura –, appunto lo scopo di restituire alla parola la funzione simbolica di relazione emotiva con la “cosa”, liberandola dalla gabbia d’acciaio in cui la stessa, trasformata in strumento di ordinamento del reale, ha finito per chiudere il mondo dell’accadere, deformando il “dire” da creazione/scoperta di figure e forme in un pre-dire non autenticamente creativo ma adattivo alla sfera del fare così come organizzata dalle logiche della produzione e riproduzione seriale tipiche dell’economia capitalistica (cfr. La parola perduta, Dedalo, Bari, 2007).
Il punto è che, dinanzi alla potenza ineffabile della Tecnica postulata da Severino, che sembra delineare un orizzonte in cui il ribaltamento della datità si configura come difficilmente scardinabile anche con gli esperimenti di mobilitazione collettiva pienamente sbocciati nel Novecento, come i partiti, i sindacati, ecc., diventa cardinale immaginare e sperimentare un lessico mentale che viaggi su frequenze differenti da quelle del lessico del mondo. Questa, come già accennato, è una delle residue possibilità di resistenza alla costruzione di paradigmi interpretativi della realtà schiacciati sull’accondiscendenza ossequiosa a una presentificazione assoluta che non soltanto cancella ogni labile legame con la memoria e la sua rielaborazione, ma occupa, con brutale violenza, anche l’orizzonte, per definire il futuro a propria immagine.
Il paradigma del post-umano utilizzato da Barcellona quale cartina di tornasole della tragedia nichilistica dell’Occidente trova proprio nella fine della parola, nella sua riduzione a segno, secondo quanto codificato dalla Scienza e dalla Tecnica, il prosciugamento nefasto della percezione del tempo che ci fonda come Uomini.
Privati della parola o, peggio, contratto il virus del letteralismo, che riduce le parole alla loro lettera, rendendole incapaci di veicolare l’enigma che interroga, che trattiene nello spazio ermeneutico, che coinvolge nella dimensione semantica, diviene quasi inevitabile lo scivolamento nel fondamentalismo. Se infatti la lettera esaurisce il significato della parola, riducendola a segno, la verità rimane interamente dentro la lettera. Non può che essere solamente in essa. Ragion per cui, chi possiede la lettera possiede la verità. La grande presunzione degli uomini è il possesso esclusivo della Verità. Ma la verità, che sta solamente nello spirito e non nella lettera della parola, non può in alcun modo essere posseduta. Tutt’al più è la verità che ci possiede, debellando le nostre resistenze, il salutare e continuo interrogarsi. Il letteralismo è dunque fondamentalista perché pensa che sia stata pronunciata l’ultima parola, mentre persino nella profezia l’ultima parola non è mai detta (cfr. Il suicidio dell’Europa, Dedalo, Bari, 2005). La storia, concepita come unità dell’essere e del non essere delle cose, sta al fondamento della cultura greco-cristiana. Ma è proprio questo fondamento a imporre la distruzione di tutti gli dei immutabili che questa cultura ha costruito e quindi ogni pretesa di ritrovare una bussola di riferimento per la propria anima in un’autenticità costruita attraverso una declinazione del trascendente eccessivamente schiacciata sulla religione. Ovviamente, ciò non impone di condividere che l’uomo greco abbia introdotto una deviazione nel corso naturale degli eventi, a seguito della quale si è prodotta una contrapposizione tra Io e Mondo, fra rappresentazione e realtà, “duplicando” l’esperienza fra “mondo della coscienza” e “mondo dell’esperienza”. Ma non soltanto perché l’accadere sia qualcosa che sfugge alla nostra pretesa di controllo, quanto perché questa tensione, lacerante, pone la vita che si sa, che si interroga sul perché, come un mistero che sfugge alle derive scientiste o alle più tradizionali riduzioni a meccanismi auto-riflessivi. La vita è altro. È oltre. È oltre quella bio-politica «divenuta effettivamente la forma della prevalente rappresentazione del rapporto tra l’io, il potere e la singolarizzazione, [che] funziona sia sul versante del soggettivismo ermeneutico sia su quello dello scientismo neo-naturalista come ragione sufficiente di ogni prospettazione teorica» (Diritto senza società, Dedalo, Bari, 2003, p. 125).
In Gesù di Nazareth che, dodicenne, discute con i Dottori della Legge denudandone le pretese di verità nascoste dietro il comodo rifugio del letteralismo, vi è insomma una dimensione paradigmatica di riscoperta della temporalità come dimensione necessaria all’umano per destituire di pretesa di validità eterna l’idea che l’origine, di qualsiasi natura, sia anche il compimento, una rivelazione apocalittica che ha già proiettato la proprio potenza nel tempo, fino a decadere. Questa prospettiva è ferale, perché abolendo lo scarto tra un “prima” e un “dopo”, elabora una narrazione post-umana, senza decorso, senza soggetto, in cui, mancando lo spazio tra il tempo del prima e il tempo del poi, tutto è già consumato e non c’è più niente che resta fuori (Il furto dell’anima, con T. Garufi, Dedalo, Bari, 2008). Ma il Dio di Barcellona, che richiama l‘uomo al dovere di interrogarsi sul mistero, è un’interrogazione quotidiana, anche se ha, quasi luteranamente, una componente di predestinazione, di pre-scelta ultra-razionale. Ma si rivela sicuramente una strategia per l’anima al fine di sfuggire all’assordante assedio del Nulla (L’ineludibile questione di Dio, con F. Ventorino, Marietti, Genova-Milano, 2009, p. 94).
In fondo l’avvicinamento al sacro, se non mosso da ragioni esclusivamente strumentali, da una morbosa curiosità di natura para-scientifica, proprio per la distinzione che istituisce con il profano, implica «la costituzione di una soggettività consapevole della distinzione tra necessità e libertà», che si istituisce in uno “spazio esterno”, che rinvia a premesse metafisiche (Elogio del discorso inutile, Dedalo, Bari, 2010, p. 58). Queste non rappresentano la banale e regressiva negazione del metodo scientifico-deduttivo, quanto piuttosto, nella ricerca dell’arché (l’origine) che precede l’esistenza umana, di quelle premesse che attengono alla sfera creativo-decisionale degli esseri umani. E la sfera creativa transita non solamente attraverso l’istituzione (o, spesso, irreggimentazione) in meccanismi sociali attinti da un passato mitizzato, ma dalla mai conclusa ricerca dell’inconscio. L’inconscio, del resto, è un principio sovversivo, non si lascia afferrare, benché, come teorizzato dallo psocanalista lacaniano Massimo Recalcati, particolarmente apprezzato da Barcellona, è la sua estinzione nella civiltà dominata dal discorso del capitalista a provocare un disagio incommensurabile, figurativamente evocato, riprendendo una nota espressione heideggeriana, come tempo in cui “il deserto cresce”. Il nostro tempo, ha infatti scritto Recalcati, è drammaticamente antagonista dell’esperienza del soggetto dell’inconscio freudiano perché questa è esperienza dell’incommensurabile, del desiderio come differenza, mentre ciò che oggi sembra dominare il grande Altro del campo sociale è l’impero del numero, della cifra quantitativa. È, detto altrimenti, il tempo del trionfo iperpositivista dell’oggettività (dalla cui evocazione siamo partiti), che tende a considerare l’inconscio non come parte di noi, ma quale residuo di un arcaismo superstizioso e irrazionale. È un tempo, il nostro, in cui il pensiero “lungo” come elemento di incontro con il caos, con l’imprevisto, ha ceduto alla maniacalizzazione dell’esperienza, ossia della sua agitazione perpetua, della sua intossicazione per eccesso di stimolazioni, che rende impraticabile il concetto di esperienza, dissolvendola nella tendenza compulsiva all’“agire” (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano, 2010, p. 7).
A un agire serializzato che Barcellona, analizzando la crisi in corso, ha interpretato come soppressione del Super-Io sociale di freudiana memoria e con la sua sostituzione da parte della figura di un “Padre ipnotico”, che produce, come proiezione delle pulsioni, folle passivizzate e gregarie, che si illudono di rivestire un protagonismo sociale inedito semplicemente lasciandosi fascinare dalle degenerazioni giustizialiste che soddisfano il bisogno sadico-persecutorio di uccidere il capro espiatorio, ovviamente riproducendolo ossessivamente e individuandolo in singoli o in tipologie collettive (si pensi agli immigrati) (P. Barcellona, Passaggio d’epoca, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 14).
In una sorta di nuova “guerra a bassa intensità” combattuta da tutti contro tutti, il Barcellona giurista e filosofo del diritto si è cimentato a viso aperto contro la strategia dei diritti quale panacea di ogni male. Si è violentemente scagliato contro l’irenismo di certo neo-giusnaturalismo ma anche di certo neo-costituzionalismo, sia reattivamente alle dinamiche sociali concretamente dispiegatesi negli ultimi decenni, sia per più profonde ragioni teoretiche.
L’impatto della strategia dei diritti, sempre più individuali, sulla cultura diffusa, ha infatti spostato l’attenzione pubblica dai problemi collettivi, che riguardano il potere e le sue radici, la democrazia, alle vicende dei singoli, attribuendo, di pari passo alla calante capacità delle agenzie di socializzazione politica di fungere da mediatrici tra la base e i vertici delle istituzioni, ai giudici il ruolo di custodi delle aspettative di giustizia. Queste, in sostanza, come peraltro mirabilmente ricostruito da Alessandro Pizzorno (Il potere dei giudici, Laterza, Roma-Bari, 1998), hanno finito con il far cortocircuitare il ricorso ai Tribunali come extrema ratio, diventando invece strategia politica in prima battuta. Ma la politica, come noto sin dalla definizione aristotelica di uomo come “animale politico”, assume pienezza di significato nella relazionalità, non nell’individualità di un rapporto costruito, pur in punta di diritto, con il Terzo (il Giudice) senza coinvolgere gli altri cittadini. Beninteso, si tratta di una conquista, anche politica (ma proprio perché è stata collettiva), frutto dell’evoluzione del rapporto tra cittadino e regnanti all’interno di regimi che, in tante parti del pianeta, hanno perso la chiave della perpetuazione dei propri privilegi per via esclusivamente dinastica. E, beninteso, il ricorso a una corte costituisce pur sempre un presidio in difesa del più debole qualora il potere si regga su basi apertamente o nascostamente dispotico-repressive. La questione vera, allora, non risiede nel soffocamento delle istanze di giustizia in nome di abborracciati riferimenti al primato della politica, peraltro largamente revocato in dubbio dalle capacità egemoniche esercitate dalla finanza. Il nodo cruciale, sul quale Barcellona si sofferma, è invece la natura positiva (posita, cioè posta artificialmente, creata, sottinteso: dall’uomo) del diritto non per una questione di posizionamento scolastico tra differenti correnti, quanto al fine di ricordare che tutti i diritti, anche quelli “giustamente” diventati inviolabili, abbiano una natura umana, una radice conflittuale e che quindi, vadano preservati politicamente, oltre che auto-legittimati a posteriori da altro diritto o dalla produzione giurisprudenziale.
In questo senso, per esempio, alla dissennata teoria sistemica di Luhmann, che certifica la morte del soggetto e l’esaltazione dell’individuo, oltre ad assecondare la frammentazione del pensiero e della conoscenza individuando veri e propri compartimenti quasi stagni dell’agire, Barcellona recupera dalla nota teoria dell’agire comunicativo di Habermas la speranza di reagire al processo di desostanzializzazione e di rimettere in campo il tema della trascendenza e dell’ontologia, anche se l’obiettivo del filosofo tedesco fallisce egualmente nella misura in cui, mediante la parola, il linguaggio si accontenti (o forse dovremmo scrivere pretenda) di fondare una teoria consensuale della verità, in questo modo limitandosi a legittimare discorsivamente le norme, dando vita a un esito la cui validità euristica appare debolmente inserita nel quadro di una ricerca cooperativa della verità, ma poco disposta, in quest’ottimismo della volontà che anima l’epigono della “Scuola di Francoforte”, a cimentarsi con la tragedia, il conflitto, la guerra (Il declino dello Stato, Dedalo, 1998, p. 224).
Accettando che il Diritto, come Soggetto ordinante, istituisca la Società, Oggetto ordinato, e renda gli uomini esseri sociali o quanto meno ne favorisca la socialità, resta comunque inevasa la domanda sul “che cosa”, “da che cosa”, si origini il Diritto. La Modernità tutta è cioè attraversata dal dualismo fra diritto e società, fra la pretesa di auto-fondazione del diritto moderno e la sua assenza di fondamento, risolte, non con troppa originalità rispetto ai secoli passati, da Carl Schmitt definendo sovrano, e quindi tutore-facitore del diritto, colui che riseca a imporsi nello stato di eccezione, a emergere dal caos per dare a quest’ultimo forma/ordine hobbesiani, definendo il campo in maniera polemica tra amico e nemico. A questa visione implicitamente gladiatoria del nesso tra diritto e politica la scienza giuridica ha sostituito i concetti giuridici, che testimoniano il passaggio dall’astrazione all’astrattezza, con ciò, tuttavia, giungendo ad approdi di eccessiva decontestualizzazione dei concetti stessi, ovvero slegando tali concetti dal contesto vitale nel quale sono stati istituiti, al fine di renderli astorici, espressivi non di un processo (di per sé mutevole) ma di una sorta di ragione universale cui la storia stessa deve essere riportata. Ma dietro l’angolo vi sono gli eccessi del modello liberale, che identifica la democrazia con una serie di diritti soggettivi (a partire da quello di proprietà) e con le tecniche di selezione dei governanti. Con limiti prettamente imposti dalla natura linguistica-temporale del vincolo sociale, della costituzione storico-sociale degli individui umani. Ma l’alto livello di astrazione cui si è giunti rischia, dinanzi alle crisi, dinanzi allo scoramento per l’emersione delle crepe di una democrazia costituzionale incompiuta, come nel caso dell’Italia, di ribaltarsi nella più poderosa arma contro la formalizzazione di diritti e, quale passo a ciò aderente, verso la revoca degli stessi. Prima di ogni modello normativo, invece, vi sono (dovrebbero esservi) le prassi, le pratiche umane che strutturano i campi del sapere rispetto alle strategie di potere di ciascun gruppo sociale dominato da quell’individualismo senza soggettività che riporta, senza requie, il detentore dei diritti nei ranghi dei ruoli formalizzati secondo logiche del possesso, la cui radice costituisce una illusoria autonomia dell’individuo. Illusoria verso il raggiungimento di una pienezza in quanto uomo, e illusoria, sotto il profilo sociale, perché garantita, nell’ordine economico dominante, solamente dall’eguaglianza dinanzi al diritto, piuttosto che da un’azione per dare all’eguaglianza anche un tratto sostanziale. Possibile, del resto, solamente attivandosi collettivamente.
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dimanche, 10 novembre 2013
Gramsci : ce que le socialisme moderne peut apprendre du penseur italien
Gramsci : ce que le socialisme moderne peut apprendre du penseur italien
par Kévin Victoire
Ex: http://ragemag.fr
Si aujourd’hui encore les militants ou théoriciens anticapitalistes se battent pour revendiquer l’héritage de Lénine, Trotsky, Mao ou Rosa Luxemburg, trop ignorent encore le co-fondateur du Parti communiste italien : Antonio Gramsci. Théoricien socialiste de la première moitié du XXe siècle, Gramsci a produit une œuvre de grande envergure, qui plus est en pleine période de crise du socialisme. Le bloc soviétique chute, la conscience de classe s’affaiblit : Gramsci est un homme qui a usé de sa plume dans un contexte complexe pour un penseur de la gauche radicale, le tout derrière les barreaux d’une prison fasciste. Peut-être est-il alors nécessaire aujourd’hui plus que jamais de le redécouvrir ?
Alors que le Parti Socialiste a enfin réussi à reconquérir le pouvoir, il n’a paradoxalement jamais semblé recueillir aussi peu d’adhésion auprès des Français. Dans le même temps, commentateurs politiques et intellectuels s’inquiètent à raison d’une nouvelle et dangereuse lepénisation des esprits, permettant à l’extrême droite de gagner du terrain. Si, à notre époque, il paraît naturel d’essayer d’arriver au pouvoir en combattant sur le terrain des valeurs, cette idée a vu le jour avec le révolutionnaire Antonio Gramsci. Si l’on souhaite donner des clefs de lecture pour comprendre la situation politique actuelle, il peut être intéressant de se pencher sur la vie et la pensée du communiste italien.
Gramsci le révolutionnaire
Né en 1860, Antonio Gramsci publie dans des revues socialistes alors qu’il n’est encore qu’étudiant en philosophie à l’Université de Turin. Il tient par la suite une rubrique culturelle et politique dans une revue proche du Parti socialiste italien (PSI). A l’époque, il côtoie le jeune Benito Mussolini alors membre du Parti socialiste. Très rapidement, le futur révolutionnaire se lie au mouvement ouvrier et prend part aux insurrections ouvrières turinoises de 1915 et 1917. Il participe par la suite au mouvement « conseilliste », y défendant la création de conseils d’ouvriers dans les entreprises. Le 21 janvier 1921, le PSI connaît le même sort que la majorité des autres partis socialistes européenne, à savoir une scission avec son aile gauche et la création du Parti communiste italien (PCI). Antonio est de l’aventure et prend même la tête du Parti en 1925. Cependant, celle-ci tourne court, puisqu’il est arrêté en 1926 par le régime fasciste et condamné pour conspiration. Il décède quelques jours après sa sortie de prison en 1937. Si au moment de son incarcération le révolutionnaire a déjà beaucoup écrit, c’est dans sa cellule qu’il élabore ce qui deviendra par la suite le « gramscisme ». Il consigne, en effet, l’essentiel de sa théorie dans ses Cahiers de Prison- comprenant trente-trois fascicules- qui sont recueillis par sa belle-sœur. Ceux-ci connaissent par la suite un grand écho au sein du PCI, surtout à grâce Palmiro Togliatti, puis dans le reste de l’Europe et du monde.
Praxis contre matérialisme
Au départ, une question obsède le penseur : pourquoi la révolution ouvrière a pu fonctionner en Russie en 1917, alors qu’elle a échoué en Allemagne, à Turin et dans bon nombre de pays européens ? La réponse, l’Italien finit par l’obtenir en analysant les différences historiques et culturelles qui existent entre ces différentes sociétés.
« Au départ, une question obsède le penseur : pourquoi la révolution ouvrière a pu fonctionner en Russie en 1917, alors qu’elle a échoué en Allemagne, à Turin et dans bon nombre de pays européens ? »
Communiste, Gramsci s’intéresse naturellement à Marx et à la dialectique matérialiste. Italien, il est aussi très influencé par Croce, penseur le plus respecté en Italie à cette époque, et par Machiavel. Il retient l’historicisme du premier, tandis qu’il voit dans le second le fondateur de la science politique. C’est par la rencontre de ces trois pensées que Gramsci fonde une nouvelle forme de matérialisme, la « philosophie de la praxis ». Contrairement au matérialisme historique où les évènements historiques sont déterminés par les rapports sociaux (et la lutte des classes), dans la vision gramsciste, le contexte socio-historique détermine totalement les idées. En effet, celles-ci découlent de la relation entre l’activité humaine pratique (ou « praxis ») et les processus socio-historiques objectifs dont elle fait partie. Les relations sociales entre les individus remplacent ainsi les rapports sociaux, c’est-à-dire les modes de production.
La philosophie de la praxis est donc une relecture marxiste qui se situe au-delà de la confrontation entre le matérialisme marxiste et l’idéalisme hégélien, ce qui s’oppose à la vision marxiste orthodoxe, notamment de Boukharine, Plekhanov et Lénine, dont Gramsci est pourtant un admirateur. Selon lui, ces derniers ne s’éloignent pas du dogmatisme religieux critiqué par le philosophe allemand. Il les accuse de réduire la pensée de Marx à l’analyse d’une histoire naturelle coupée de l’histoire humaine. Utilisant l’exemple russe, où le capitalisme n’avait pas atteint une forme mature avant la révolution bolchévique, il en vient alors à rejeter toutes formes de déterminisme économique et à conclure que les changements culturels et économiques naissent d’un processus historique où il est impossible de dire quel élément précède l’autre. Finalement plus que les moyens de production ou les idées, c’est la volonté humaine qui prédomine toutes sociétés.
Cette liberté vis-à-vis du matérialisme permet au turinois d’adoption de se détacher de l’analyse en terme d’« infrastructure » (organisation économique de la société) et de « superstructure » (organisation juridique, politique et idéologique de la société). Chez Marx et ses disciples, l’infrastructure influence la superstructure qui à son tour définit toutes les formes de conscience existant à une époque donnée. Gramsci substitue ces deux notions par celles de « société politique », qui est le lieu où évoluent les institutions politiques et où elles exercent leur contrôle, et de « société civile » (terme repris à Hegel), où s’exercent les domaines culturels, intellectuels et religieux. Si le penseur admet que ces deux sphères se recoupent en pratique, selon lui leur compréhension est essentielle.
En analysant les sociétés, Gramsci comprend que si elles se maintiennent dans le temps, c’est autant par le contrôle par la force de l’État (ou de la société politique) que par le consentement de la population. Ce dernier est obtenu par l’adhésion à la société civile. Ainsi, pour qu’une révolution aboutisse, il faut contrôler à la fois la société politique et la société civile. Dans cette optique, si la Révolution russe de 1917 aboutit, c’est parce que, pour lui, la société civile y est très peu développée, si bien qu’une fois l’appareil étatique obtenu, le consentement de la population s’obtient aisément. Mais dans les sociétés occidentales où la société civile est plus dense, les choses sont plus compliquées. La Révolution française de 1789 passe d’abord par le consentement de la bourgeoisie et d’une partie de l’aristocratie, grâce à la diffusion de la philosophie des Lumières qui dominent culturellement par la « révolution des esprits » qu’elle a mené. C’est ainsi que né le concept essentiel d’ « hégémonie culturelle ».
Dans l’optique de prendre le contrôle de la société civile, gagner l’hégémonie culturelle devient primordial pour le penseur. Gramsci l’explique clairement quand il dit que « chaque révolution a été précédée par un travail intense de critique sociale, de pénétration et de diffusion culturelle ». Il développe ainsi une dialectique du consentement et de la coercition et théorise la « révolution par étapes » qui est une véritable « guerre de position ». La violence n’est donc pas nécessaire pour mener et gagner une révolution, le vrai enjeu étant de transformer les consciences en menant et remportant une bataille culturelle. En faisant cela, le révolutionnaire obtient un pouvoir symbolique précédent le vrai pouvoir politique. Gramsci écrit alors : « Un groupe social peut et même doit être dirigeant dès avant de conquérir le pouvoir gouvernemental : c’est une des conditions essentielles pour la conquête même du pouvoir ». En d’autres termes, pour mener à bien sa révolution, la classe prolétaire doit voir ses intérêts de classe devenir majoritaire au sein de la population.
Cependant, cette hégémonie ne née pas d’elle-même parce que la conscience de classe n’est pas forcément naturelle, ni les idées liées à celle-ci et leur diffusion. C’est pourquoi Gramsci fait émerger une classe sociale spécifique qui se distingue des travailleurs : l’intellectuel qui travaille au service du parti et organise l’unité de classe. Comme Machiavel, il assigne donc une tâche spécifique à l’intellectuel qui doit détruire les valeurs de la société capitaliste et traditionnelle. Dans le même temps, le parti joue le rôle du « prince moderne » et unifie ce qui a tendance à se disperser à l’état naturel tout en dotant la classe contestataire d’une « volonté collective ». Les intellectuels sont « organiques » et se séparent en deux catégories. D’une part, on a l’intellectuel théoricien — qu’il nomme « traditionnel » quand il appartient à la classe dominante en déclin — qui effectue une action générale sur la société civile. D’autre part, on a l’intellectuel spécialisé qui n’opère que sur un domaine précis. L’intellectuel traditionnel a un rôle essentiel dans la société, car il permet le maintien de l’ordre établi mais peut aussi le renverser s’il bascule du côté de la classe contestataire.
Gramsci distingue aussi le parti politique du parti idéologique dans lequel il s’inclut. L’intérêt du parti politique se situe dans sa structure hiérarchisée presque militaire où l’action va de haut en bas en s’alimentant d’abord par le bas. Le parti idéologique comprend en plus le cercle d’influence du parti politique et permet sa diffusion culturelle. Par sa structure et par le biais de ses intellectuels organiques, le Parti politique sert donc d’appareil devant aider la classe contestataire à s’ériger en classe dominante en menant une révolution culturelle.
Nous vivons une époque de crises : crise morale, économique, sociale ou encore intellectuelle — ce serait donc un climat idéal pour instaurer un vrai changement. Encore faudrait-il que ceux qui rêvent de transformer réellement la société soient capables de faire porter leurs voix. Dans ce contexte, redécouvrir Gramsci semble donc essentiel : ses apports théoriques ne servent, pour la plupart d’entre eux, que la pratique. Pour l’intellectuel enfermé, le jour où une structure révolutionnaire réussira à conquérir la société civile, le changement sera proche.
Jean-Marc Piotte, sociologue, philosophe et politologue marxiste est enseignant à l’Université de Montréal. Il a réalisé une thèse sur la pensée d’Antonio Gramsci.
Comment expliquez-vous que Gramsci n’occupe aujourd’hui pas la même place que Lénine ou Rosa Luxemburg chez les marxistes ?
Pour Lénine la raison est très simple : il a participé à la Révolution soviétique d’octobre 1917. Pour Rosa Luxemburg, c’est un peu plus complexe. Elle a eu beaucoup d’influence grâce à son opposition avec Lénine à l’époque en développant une pensée plutôt proche de la pensée anarchiste. Gramsci, ses textes n’ont été connu que très tard après sa sortie de prison. Cependant, sa réflexion a été un éclairage sur le fonctionnement de la politique et son lien avec la culture pour beaucoup de gens. Il a aussi été un pionnier sur le rôle des intellectuels.
Gramsci est désormais cité par de nombreux courants de pensée : pourquoi ?
Ses Cahiers de Prison sont obtenus à partir de textes très disparates qu’il arrive à obtenir en prison, ce sont des réflexions consignées dans un journal intime intellectuel, ce n’est pas un texte avec une orientation très claire… De ce fait, divers auteurs peuvent s’aider de Gramsci. Mais finalement, sa grande force c’est d’avoir réfléchi au rôle de la culture dans l’action politique et ça va plus loin que la simple pensée marxiste. Son but était de comprendre comment par la culture, il était possible de rallier la classe ouvrière à la révolution.
En quoi Gramsci peut encore être utile à la gauche aujourd’hui ?
Tout simplement parce que Gramsci réfléchit au problème fondamental de l’adhésion des classes populaires à la révolution. Par exemple, quand on voit qu’en France une part importante de la classe ouvrière qui votait pour les communistes vote aujourd’hui pour le FN on voit en quoi Gramsci serait utile. Ses écrits permettraient une réflexion sur les moyens de briser cela en reprenant l’hégémonie culturelle. Cette réflexion est d’ailleurs essentielle à mon avis si la gauche veut un jour renverser la tendance et venir à bout du capitalisme.
Boîte noire
- L’intégrale des œuvres de Gramsci ;
- Gramsci sur le portail français du marxisme ;
- La pensée politique de Gramsci par Jean-Marc Piotte ;
- Lordon et Todd : Les intellectuels vont devoir parler au peuple ;
- RAGEMAG s’est intéressé à la bataille culturelle sur les réseaux sociaux ;
- RAGEMAG vous a déjà parlé de Pasolini.
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dimanche, 03 novembre 2013
Les leçons de Peter Koslowski face à la post-modernité
Les leçons de Peter Koslowski face à la post-modernité
par Jacques-Henri Doellmans
Peter Koslowski, jeune philosophe allemand né en 1952, est professeur de philosophie et d'économie politique à l'Université de Witten/Herdecke, président de l'Institut CIVITAS, Directeur de l'Institut de Recherches en Philosophie de l'Université de Hanovre. Son objectif est de déployer une critique fondée de la modernité et de tous ses avatars institutionalisés (en politique comme en économie). Ses arguments, solidement étayés, ne sont pas d'une lecture facile. Rien de son œuvre, déjà considérable, n'a été traduit et nous, francophones, avons peu de chances de trouver bientôt en librairie des traductions de ce philosophe traditionnel et catholique d'aujourd'hui, tant la rigueur de ses arguments ruine les assises de la pensée néo-gnosticiste, libérale et permissive dominante, surtout dans les rédactions parisiennes!
Koslowski est également un philosophe prolixe, dont l'éventail des préoccupations est vaste: de la philosophie à la pratique de l'économie, de l'éthique à l'esthétique et de la métaphysique aux questions religieuses. Koslowski est toutefois un philosophe incarné: la réflexion doit servir à organiser la vie réelle pour le bien de nos prochains, à gommer les dysfonctionnements qui l'affectent. Pour atteindre cet optimum pratique, elle doit être interdisciplinaire, éviter l'impasse des spécialisations trop exigües, produits d'une pensée trop analytique et pas assez organique.
Pour la rédaction d'un article, l'interdisciplinarité préconisée par Koslowski fait problème, dans la mesure où elle ferait allègrement sauter les limites qui me sont imparties. Bornons-nous, ici, à évoquer la présentation critique que nous donne Koslowki de la “postmodernité” et des phénomènes dits “postmodernes”.
La “modernité” a d'abord été chrétienne, dans le sens où les chrétiens de l'antiquité tardive se désignaient par l'adjectif moderni, pour se distinguer des païens qu'ils appelaient les antiqui. Dans cette acception, la modernité correspond au saeculum de Saint-Augustin, soit le temps entre la Chute et l'Accomplissement, sur lequel l'homme n'a pas de prise, seul Dieu étant maître du temps. Cette conception se heurte à celle des gnostiques, constate Koslowski, qui protestent contre l'impuissance de l'homme à exercer un quelconque pouvoir sur le temps et la mort. Le gnosticisme —qu'on ne confondra pas avec ce que Koslowski appelle “la vraie gnose”— prétendra qu'en nommant le temps (ou des segments précis et définis du temps), l'homme parviendra à exercer sa puissance sur le temps et sur l'histoire. Par “nommer le temps”, par le fait de donner des noms à des périodes circonscrites du temps, l'homme gnostique a la prétention d'exercer une certaine maîtrise sur ce flux qui lui échappe. La division du temps en “ères” antique, médiévale et moderne donne l'illusion d'une marche en avant vers une maîtrise de plus en plus assurée et complète sur le temps. Telle est la logique gnostique, qui se répétera, nous allons le voir, dans les “grands récits” de Hegel et de Marx, mais en dehors de toute référence à Dieu ou au Fils de Dieu incarné dans la chair des hommes.
Parallèlement à cette volonté d'arracher à Dieu la maîtrise du temps, le gnosticisme, surtout dans sa version docétiste, nie le caractère historique de la vie de Jésus, rejette le fait qu'il soit réellement devenu homme et chair. Le gnosticisme spiritualise et dés-historise l'Incarnation du Christ et introduit de la sorte une anthropologie désincarnée, que refusera l'Eglise. Ce refus de l'Eglise permet d'éviter l'écueil de l'escapisme vers des empyrées irréelles, de déboucher dans l'affabulation phantasmagorique et spiritualiste. L'Incarnation revalorise le corps réel de l'homme, puisque le Christ a partagé cette condition. Cette revalorisation implique, par le biais de la caritas active, une mission sociale pour l'homme politique chrétien et conduit à affirmer une religion qui tient pleinement compte de la communauté humaine (paroissiale, urbaine, régionale, nationale, continentale ou écouménique). L'homme a dès lors un rôle à jouer dans le drame du saeculum, mais non pas un rôle de pur sujet autonome et arbitraire. Si les gnostiques de l'antiquité avaient nié toute valeur au monde en refusant l'Incarnation, l'avatar moderne du gnosticisme idolâtrera le monde, tout en le désacralisant; le monde n'aura plus de valeur qu'en tant que matériau, que masse de matières premières, mises à la totale disposition de l'homme, jetées en pâture à son arbitraire le plus complet. Le gnosticisme moderne débouche ainsi sur la “faisabilité” totale et sur la catastrophe écologique.
Si le premier concept de modernité était celui de la chrétienté imbriquée dans le saeculum (selon Saint-Augustin), la deuxième acception du terme “modernité” est celle de la philosophie des Lumières, dans ses seuls avatars progressistes. Koslowski s'insurge contre la démarche de Jürgen Habermas qui a érigé, au cours de ces deux dernières décennies, ces “Lumières progressistes” au rang de seul projet valable de la modernité. Habermas perpétue ainsi la superstition du progressisme des gauches et jette un soupçon permanent sur tout ce qui ne relève pas de ces “Lumières progressistes”. L'idée d'un progrès matériel et technique infini provient du premier principe (galiléen) de la thermodynamique, qui veut que l'énergie se maintient en toutes circonstances et s'éparpille sans jamais se perdre au travers du monde. Dans une telle optique, l'accroissement de complexité, et non la diminution de complexité ou la régression, est la “normalité” des temps modernes. Mais, à partir de 1875, émerge le second principe de la thermodynamique, qui constate la déperdition de l'énergie, ce qui permet d'envisager la décadence, le déclin, la mort des systèmes, la finitude des ressources naturelles. Le projet moderne de dominer entièrement la nature s'effondre: l'homme gnostique/moderne ne prendra donc pas la place de Dieu, il ne sera pas, à la place de Dieu, le maître du temps. Dans ce sens, la postmodernité commence en 1875, comme le notait déjà Toynbee, mais ce fait de la déperdition n'est pas pris en compte par les idéologies politiques dominantes. Partis, idéologues, décideurs politiques agissent encore et toujours comme si ce second principe de la thermodynamique n'avait jamais été énoncé.
Pourtant, malgré les 122 ans qui se sont écoulés depuis 1875, l'usage du vocable “postmoderne” est venu bien plus tard et révèle l'existence d'un autre débat, parti du constat de l'effondrement de ce que Jean-François Lyotard appelait les “grands récits”. Pour Lyotard, les “grands récits” sont représentés par les doctrines de Hegel et de Marx. Ils participent, selon Koslowski, d'une “immanentisation radicale” et d'une “historicisation” de Dieu, où l'histoire du monde devient synonyme de la marche en avant de l'absolu, libérant l'homme de sa prison mondaine et de son enveloppe charnelle. Pour Marx, cette marche en avant de l'absolu équivaut à l'émancipation de l'homme, qui, en bout de course, ne sera plus exploité par l'homme ni assujetti au donné naturel. Lyotard déclarera caducs ces deux “grands récits”, expressions d'un avatar contemporain du filon gnostique.
A la suite de cette caducité proclamée par Lyotard, le philosophe allemand Odo Marquard embraye sur cette idée et annonce le remplacement des deux “grands récits” de la modernité européenne par une myriade de “petits récits”, qu'il appelle (erronément) des “mythes”. Le marxisme, l'idéalisme hégélien et le christianisme, dans l'optique de Marquard, sont “redimensionnés” et deviennent des “petits récits”, à côté d'autres “petits récits” (notamment ceux du “New Age”), auquel il octroie la même valeur. C'est le règne de la “polymythie”, écrit Koslowski, que Marquard érige au rang d'obligation éthique. Le jeu de la concurrence entre ces “mythes”, que Koslowski nomme plus justement des “fables”, devient la catégorie fondamentale du réel. La concurrence et l'affrontement entre les “petits récits”, le débat de tous avec tous, le jeu stérile des discussions aimables non assorties de décisions constituent la variante anarcho-libérale de la postmodernité, conclut Koslowski. Ce néo-polythéisme et cet engouement naïf pour les débats entre tous et n'importe qui dévoile vite ses insuffisances car: 1) La vie est unique et ne peut pas être inscrite exclusivement sous le signe du jeu, sans tomber dans l'aberration, ni sous le signe de la discussion perpétuelle, ce qui serait sans issue; 2) Totaliser ce type de jeu est une aberration, car s'il est totalisé, il perd automatiquement son caractère ludique; 3) Cette polymythie, théorisée par Marquard, se méprend sur le caractère intrinsèque des “grands récits”; contrairement aux “petits récits”, alignés par Marquard, ils ne sont pas des “fables” ou de sympathiques “historiettes”, mais un “mélange hybride d'histoire et de philosophie spéculative”, qui est “spéculation dogmatique” et ne se laisse pas impliquer dans des “débats” ou des “jeux discursifs”, si ce n'est par intérêt stratégique ponctuel. La polymythie de Marquard n'affirme rien, ne souhaite même pas maintenir les différences qui distinguent les “petits récits” les uns des autres, mais a pour seul effet de mélanger tous les genres et d'estomper les limites entre toutes les catégories. Les ratiocinations évoquant une hypothétique “pluralité” qui serait indépassable ne conduisent qu'à renoncer à toute hiérarchisation des valeurs et s'avèrent pure accumulation de fables et d'affabulations sans fondement ni épaisseur.
Après la “polymythie” de Marquard, le second volet de l'offensive postmoderne en philosophie est représentée par le filon “déconstructiviste”. En annonçant la fin des “grands récits”, Lyotard a jeté les bases d'une vaste entreprise de “déconstruction” de toutes les institutions, instances, initiatives, que ces “grands récits” avaient générées au fil du temps et imposées aux sociétés humaines. Procédant effectivement de cette “spéculation dogmatique” assimilable à un néo-gnosticisme, les “grands récits” ont été “constructivistes” —ils relevaient de ce que Joseph de Maistre appelait “l'esprit de fabrication”— et ont installé, dit Koslowski, des “cages d'acier” pour y enfermer les hommes et, aussi, les mettre à l'abri de tout appel de l'Absolu. Ces “cages d'acier” doivent être démantelées, ce qui légitime la théorie et la pratique de la “déconstruction”, du moins jusqu'à un certain point. Si déconstruire les cages d'acier est une nécessité pour tous ceux qui veulent une restauration des valeurs (traditionnelles), faire du “déconstructivisme” une fin en soi est un errement de plus de la modernité. Toujours hostile aux avatars du gnosticisme antique, à l'instar du penseur conservateur Erich Voegelin, Koslowski rappelle que pour les gnoses extrêmes, le réel est toujours “faux”, “inauthentique”, “erratique”, etc. et, derrière lui, se trouvent le “surnaturel”, le “tout-autre”, l'“inattendu”, le “nouveau”, l'“étranger”, toujours plus “vrais” que le réel. Pour Lyotard et Derrida, le philosophe doit toujours placer ce “tout-autre” au centre de ses préoccupations, lui octroyer d'office toute la place, au détriment du réel, toujours considéré comme insuffisant et imparfait, dépourvu de valeur. Lyotard veut privilégier les “discontinuités” et les “hétérogénéités” contre les “continuités” et les “homogénéités”, car elles témoignent du caractère “déchiré” du monde, dans lequel jamais aucun ordre ne peut se déployer. L'idée d'ordre —et non seulement la “cage d'acier”— est un danger pour les déconstructivistes et non pas la chance qui s'offre à l'homme de s'accomplir au service des autres, de la Cité, du prochain, etc.
Pour Koslowski, cette logique “anarchisante” dérive de Georges Bataille, récemment “redécouvert” par la “nouvelle droite”. Bataille, notamment dans La littérature et le mal, explique que la souveraineté consiste à accroître la liberté jusqu'à obtenir un “être-pour-soi” absolu, car toute activité consistant à maintenir l'ordre est signe d'escalavage, d'une “conscience d'esclave”, servile à l'égard de l'“objectivité”. L'homme ne peut être souverain, pour Bataille, que s'il se libère du langage et de la vie, donc s'il est capable de s'auto-détruire. Le moi de Bataille renonce de façon absolue à défendre et à maintenir la vie (laquelle n'a pas de valeur comme le monde n'avait pas de valeur pour les gnostiques de la fin de l'antiquité, qui refusaient le mystère de l'Incarnation). L'apologie du “gaspillage”, antonyme total de la “conservation”, et la “mystique du moi” chez Bataille débouchent donc sur une “mystique de la mort”. En ce sens, elle surprivilégie la dispersio des mystiques médiévaux, lui accorde un statut ontologique, sans affirmer en contre-partie l'unio mystica.
Telle est la critique qu'adresse Koslowski à la philosophie postmoderne. Elle ne s'est pas contenté de “déconstruire” les structures imposées par la modernité, elle n'a pas rétabli l'unio mystica, elle a généralisé un “déconstructivisme” athée et nihiliste, qui ne débouche sur rien d'autre que la mort, comme le prouve l'œuvre de Bataille. Mais si Koslowski s'insurge contre le refus du réel qui part du gnosticisme pour aboutir au déconstructivisme de Derrida, que propose-t-il pour ré-ancrer la philosophie dans le réel, et pour dégager de ce ré-ancrage une philosophie politique pratique et une économie qui permette de donner à chacun son dû?
Dans un débat qui l'opposait à Claus Offe, politologue allemand visant à maintenir une démocratie de facture moderne, Koslowski indiquait les pistes à suivre pour se dégager de l'impasse moderne. Offe avait constaté que les processus de modernisation, en s'amplifiant, en démultipliant les différenciations, en accélérant outrancièrement les prestations des systèmes et sous-systèmes, confisquaient aux structures et aux institutions de la modernité le caractère normatif de cette même modernité. Différenciations et accélérations finissent par empêcher la modernité d'être émancipatrice, alors qu'au départ son éthique foncière visait justement l'émancipation totale (i.e.: échapper à la prison du réel pour les gnostiques, s'émanciper de la tyrannie du donné naturel chez Marx). Pour réintroduire au centre des préoccupations de nos contemporains cette idée d'émancipation, Offe prône l'arrêt des accumulations, différenciations et accélérations, soit une “option nulle”. Offe veut la modernité sans progrès, parce que le progrès fini par générer des structures gigantesques, incontrôlables et non démocratiques. Il réconcilie ainsi la gauche post-industrielle et les paléo-conservateurs, du moins ceux qui se contentent de ce constat somme toute assez facile. Effectivement, constate Koslowski, Offe démontre à juste titre qu'une accumulation incessante de différenciations diminue la vitalité et la robustesse de la société, surtout si les sous-systèmes du système sont chacun monofonctionnels et s'avèrent incapables de régler des problèmes complexes, chevauchant plusieurs types de compétences. Si les principes de vérité, de justice et de beauté s'éloignent les uns des autres par suite du processus de différenciation, nous aurons, comme l'avait prévu Max Weber, une vérité injuste et laide, une justice fausse et laide et une esthétique immorale et fausse. De même, le divorce entre économie, politique et solidarité, conduit à une économie impolitique et non solidaire, à une politique anti-économique et non solidaire, à une solidarité anti-économique et impolitique. Ces différenciations infécondes de la modernité doivent être dépassées grâce à une pratique de l'“interpénétration” générale, conduisant à une polyfonctionalité des institutions dans lesquelles les individus seront organiquement imbriqués, car l'individu n'est pas seulement une unité économique, par exemple, mais est simultanément ouvrier d'usine, artiste amateur, père de famille, etc. Chaque institution doit pouvoir répondre tout de suite, sans médiation inutile, à chacune des facettes de la personnalité de ce “père-artiste-ouvrier”. Offe considère que l'“interpénétration” pourrait porter atteinte au principe de la séparation des pouvoirs. Koslowski rétorque que cette séparation des pouvoirs serait d'autant plus vivante avec des institutions polyfonctionnelles et plus robustes, taillées à la mesure d'hommes réels et complexes. L'“option nulle” est un constat d'échec. L'effondrement de la modernité politique et des espoirs qu'elle a fait naître provoque la déprime. Un monde à l'enseigne de l'“option nulle” est un monde sans perspective d'avenir. Un système qui ne peut plus croître, s'atrophie.
Pour Koslowski, c'est le matérialisme, donc la pensée économiciste, —la sphère de l'économie dans laquelle la modernité matérialiste avait placé tous ses espoirs— qui est contrainte d'adopter l'“option nulle”. Comme cette pensée a fait l'impasse sur la culture, la religion, l'art et la science, elle est incapable de générer des développements dans ces domaines et d'y susciter des effets de compensation, pourtant essentiels à l'équilibre humain et social. L'impasse, le sur-place du domaine socio-économique doit être un appel à investir des énergies créatrices et des générosités dans les dimensions religieuses, artistiques et scientifiques, conclut Koslowski.
Telle est bien son intention et Koslowski ne se contente pas d'émettre le vœu d'une économie plus conforme aux principes de conservation et d'équilibre des philosophies non modernes. Deux livres très denses témoignent de sa volonté de sauver l'économie et le social de la stagnation et du déclin induits par l'“option nulle”, constatée par Offe, un politologue déçu de la modernité mais qui veut à tout prix la sauver, en dépit de ses échecs patents. Dans cette optique, Koslowski a écrit Wirtschaft als Kultur (1989) et Die Ordnung der Wirtschaft (1994) (réf. infra). Ces deux ouvrages sont si fondamentaux que nous serons contraints d'y revenir: retenons, ici, que Koslowski, dans Wirtschaft als Kultur, part du constat que les réserves naturelles de la planète s'épuisent, qu'elles sont limitées, que cette limite doit être prise en compte dans toutes nos actions, qu'elle implique ipso facto que le progrès accumulatif illimité est une impossibilité pratique. A ce progressisme qui avait structuré toute la pensée moderne, Koslowski oppose les idées d'une “justice” et d'une “réciprocité” dans les échanges entre l'homme et la nature. Ensuite, il plaide pour une réinsertion de la pensée économique dans une culture plus globale, laissant une large place à l'éthique du devoir. Il esquisse ensuite les contours de l'Etat social postmoderne, qui doit être “subsidiaire” et prévoir une solidarité en tous sens entre les générations. Cet Etat postmoderne et subsidiaire doit participer, de concert avec ses homologues, à la restauration d'un marché intérieur européen, prélude à la naissance d'une “nation européenne”, capable d'organiser ses différences ethniques et culturelles sans sombrer dans le nivellement des valeurs qu'un certain discours sur la “multiculturalité” appelle de ses vœux (Koslowski se montre très sévère à l'égard de cet engouement pour la “multiculture”).
Dans Die Ordnung der Wirtschaft, ouvrage très solidement charpenté, Koslowski jette les bases d'un néo-aristotélisme, où s'allient “philosophie pratique” et “économie éthique-politique”. Cette alliance part d'une “interpénétration” et d'une “compénétration” des rationalités éthique, économique et politique. Ainsi, la “bonne politique” est celle qui ne répond pas seulement aux impératifs politiques (conservation du pouvoir, évitement des conflits), mais vise le bien commun et la couverture optimale de tous les besoins vitaux. Les structures économiques, toujours selon cette logique néo-aristotélicienne, doivent également répondre à des critères politiques et éthiques. Quant à l'éthique, elle ne saurait être ni anti-économique ni anti-politique. Cette volonté de ne pas valoriser un domaine d'activité humaine au détriment d'une autre postule de recombiner ce que la modernité avait voulu penser séparément. La philosophie pratique d'Aristote entend également conserver les liens d'amitié politique (philia politike) entre les citoyens et les communautés de citoyens, qui fondent le sens du devoir et de la réciprocité. Koslowski relie ce principe cardinal de la pensée politique aristotélicienne aux travaux de la nouvelle école communautarienne américaine (A. MacIntyre, M. Walzer, Ch. Taylor, etc.). Le néoaristotélisme met l'accent sur le retour indispensable de la vertu grecque de phronesis: l'intelligence pratique, capable de discerner ce qui est bon et utile pour la Cité, dans le contexte propre de cette Cité. En effet, la rationalité pure, sur laquelle l'hypermodernité avait parié, exclut le contexte. L'application de cette rationalité décontextualisante dans le domaine de l'économie a conduit à une impasse voire à des catastrophes: une rationalité économique réelle et globale exige une immersion herméneutique dans le tissu social, où se conjuguent actions économiques et politiques. Enfin, le réel est le fondement premier de la philosophie pratique et non le “discours” ou l'“agir communicationnel” (cher à Habermas ou à Apel), car tout ne procède pas de l'agir et du parler: l'Etre transcende l'action et ses déterminations précèdent l'acte de parler ou de discourir.
La pensée philosophique et économique de Koslowski constitue une réponse aux épreuves que nous a infligées la modernité: elle représente la facette positive, le complément constructif, de sa critique de la modernité gnosticiste. Elle est un chantier vers lequel nous allons immanquablement devoir retourner. Puisse cette modeste introduction éveiller l'attention du public francophone pour cette œuvre qui n'a pas encore été découverte en France et qui complèterait celles de Taylor, MacIntyre, Spaemann, déjà traduites.
Bibliographie:
- Peter KOSLOWSKI, «Sein-lassen-können als Überwindung des Modernismus. Kommentar zu Claus Offe», in Peter KOSLOWSKI, Robert SPAEMANN, Reinhard LÖW, Moderne oder Postmoderne?, Acta Humaniora/VCH, Weinheim, 1986.
- Peter KOSLOWSKI, Wirtschaft als Kultur. Wirtschaftskultur und Wirtschaftsethik in der Postmoderne, Edition Passagen, Wien, 1989.
- Peter KOSLOWSKI, Die Prüfungen der Neuzeit. Über Postmodernität. Philosophie der Geschichte, Metaphysik, Gnosis, Edition Passagen, Wien, 1989.
- Peter KOSLOWSKI, «Supermoderne oder Postmoderne? Dekonstruktion und Mystik in den zwei Postmodernen», in Günther EIFLER, Otto SAAME (Hrsg.), Postmoderne. Anspruche einer neuen Epoche. Eine interdisziplinäre Erörterung, Edition Passagen, Wien, 1990.
- Peter KOSLOWSKI, Die Ordnung der Wirtschaft, Mohr/Siebeck, Tübingen, 1994.
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samedi, 02 novembre 2013
Types de civilisation et paramètres géopolitiques
Types de civilisation et paramètres géopolitiques
Esquisses historiosophiques
par Vladimir Wiedemann
INTRODUCTION
Le boom géopolitique, qui a gagné ces dix dernières années l’espace opérationnel de la pensée politologique russe, rappelle, dans un certain sens, le boom du marxisme au début de ce siècle.
Il est très curieux qu’aujourd'hui en Russie la géopolitique ne soit pas encore une discipline scientifique spécialisée, mais ne constitue qu'un nouveau symbole de croyance qui a donné les réponses à toutes les questions que l’on se posait depuis longtemps, y compris les questions à caractère spirituel que l'on n'avait jamais abordées avec le marxisme. Dans notre article, nous n’avons pas pour objectif de révéler les parallèles ultérieurs entre l’influence du marxisme et de la géopolitique sur la mythologie de la conscience populaire en Russie. Notre objectif est plutôt de dégager la nouvelle inclinaison de la pensée géopolitique russe en particulier (non dans le sens du symbole de croyance) vers la grande objectivité factuelle en ce qui concerne le discours général de la géopolitique et en particulier en tant que science spécialisée.
En géopolitique, il y a une idée standard, la notion/l’idée qu'il existe dans l’histoire deux types fondamentaux de civilisation : la thalasso-civilisation (civilisation maritime) et la civilisation tellurique (la civilisation continentale). Dans le monde règne, pour ainsi dire, une situation générale, mais comme on le sait, l’essentiel de tout processus est toujours dissimulé par des détails, et ce sont ces détails en particulier, qui, à notre avis, s'imposent aux esprits, souvent au détriment de « l’inviolabilité » du paradigme métaphysique fondamental, où tout est blanc ou noir (c'est le cas pour la thèse, fort répandue, qui souligne le contraste fondamental entre thalassocratie et tellurocratie, notamment dans une variante plus concrète: entre l’atlantisme et l’eurasisme. En fait, l’image de l’opposition des civilisations dans le monde est excessivement complexe et paradoxalement très dynamique (en l'occurrence, plutôt agir/fonctionner avec des codes binaires et non deux codes).
Même la logique élémentaire suggère que le type le plus universel de civilisation apparaîtra où l’on aura atteint l’union la plus harmonieuse des « vents » marins et continentaux de l’histoire, et avec cela sans perdre leur contrôle.
Plus concrètement, ce sont les différences —mais en même temps les similitudes— entre les différents types de civilisations qui nous exposent l’histoire des puissances coloniales. En fait, ici nous pouvons observer les formes les plus diverses de colonisation de l'espace habitable, la colonisation maritime comme la colonisation continentale. Nous allons aborder des exemples concrets.
L’ANTIQUITE
Déjà, dès les débuts de l’histoire, on voit des peuples accomplir des expansions maritimes et continentales. Ainsi, la colonisation de la Palestine par l’antique peuple d'Israël est un bon exemple d’expansion continentale et son soulèvement contre le « peuple de la mer » est un des prototypes du conflit historique entre thalassocratie et tellurocratie. En outre, la puissance assyrienne illustre très bien l’impérialisme continental et la puissance phénicienne s’illustre sur la mer. Mais il faut ajouter que pour asseoir n’importe quelle puissance assez consolidée, il est nécessaire de contrôler les réseaux de communications correspondants : les réseaux maritimes, continentaux et autres. Pendant l’Antiquité, c’étaient, avant tout, les voies fluviales qui assuraient le pouvoir sur le continent, et, par après, petit à petit, l’importance des voies terrestres a également augmenté. Le pouvoir de la thalassocratie était déterminé par le contrôle des zones de navigation côtière, à laquelle s’ajouteront plus tard les détroits et les courants marins. Depuis des temps immémoriaux, les rivières relient la mer aux profondeurs du continent, les cultures côtières et continentales.
La Grèce, en tant qu’exemple d’une authentique universalité, est un cas particulier : la civilisation grecque a commencé par être maritime (c’était une civilisation de police côtière et insulaire), et au fil du temps, elle devint la force continentale la plus puissante. Avant tout, nous voulons ici parler de l’expansion coloniale terrestre de l’hellénisme vers l’Est, et ce, jusqu’aux profondeurs continentales de l’Asie centrale. L’Empire romain a lui aussi connu ce type de civilisation universelle : la flotte romaine ne valait pas moins sur la mer Méditerranée que les légionnaires romains ne l’étaient sur les étendues continentales de l’Europe, de l’Asie et de l’Afrique. Par la suite, Byzance applique cette même tradition géopolitique des « deux composantes » (la symphonie de la Mer et de la Terre).
MOYEN AGE
Avec le début du Moyen Âge commençait une nouvelle étape de l’opposition géopolitique des peuples et des civilisations. L’espace de l’Empire romain, en tant que civilisation universelle de l’Antiquité, s’est exposé à une expansion coloniale prolongée autant sur terre que sur mer, ce qui entraîna, dans chaque cas, l’apparition de formes particulières de cultures nouvelles. « Les peuples de la mer » de l’Europe du Moyen Âge sont des conquérants normands-varègues, qui s’étaient emparé de l’Empire suite à des encerclements militaires. Partis en campagne depuis les étendues de l’Europe du Nord (baltique) s’imposèrent sur le « front occidental » atlantique depuis l’Angleterre jusqu’à l’Afrique du Nord et l’Italie du Sud ; alors que les Varègues, sur le « front oriental », affirmèrent leur pouvoir le long de toute la route continentale des Varègues et des Grecs, de la Baltique à la mer Noire, et jusqu’à Constantinople elle-même.
C’est ainsi que l’Europe donna lieu à plusieurs genres de cultures coloniales aux tendances géopolitiques différentes. C’est alors au tour de Venise, héritière originale de Byzance, de devenir, et pour longtemps, le type de thalassocratie le plus authentique. Les célèbres Croisades, continuation de la tradition des invasions normandes, furent l’instrument de la politique de Venise, qui avait pour objectif final un contrôle géopolitique total des bassins de la Méditerranée orientale et de la Mer Noire. Byzance fut la seule, de par sa nature, à être la plus thalassocratique, attitude qui fut cependant déterminée, non pas par un refus de son élite politique pour les principes de l’universalisme antique, mais héritée de circonstances bien concrètes : la perte d’une grande partie du territoire (en tant que facteur « continental ») suite aux expansions arabe et turque.
La colonisation arabe, à son tour, est un exemple à l’opposé de l’hellénisme; elle est la transformation de l’espace civilisationnel du tellurocratique profond (continentalisme d’Arabie) à l’universel. De même, la colonisation arabe s’est propagée autant par voies terrestres (du Maroc à l’Asie centrale) que par voies maritimes (de célèbres navigateurs arabes n’ont pas été que des concurrents sérieux pour les Vénitiens, ils ont aussi contrôlé presque tout le bassin de l’Océan Indien). Et il faut attendre l’invasion mongole, la tellurocratie la plus radicale du Moyen Âge, pour voir la fin de l’universalisme arabe.
Par la suite, la colonisation turque était elle aussi, de par sa nature, tellurocratique, vu sa propre prétention à l’universalisme. Si les Mongols, dont les territoires côtiers conquis ne relevaient pas de l’universalisme civilisationnel, s’étaient de nouveau retirés dans les profondeurs du continent, c’était de la faute des Turcs, issus de ces mêmes profondeurs, qui, historiquement, avaient conservé leur accès à la mer et qui avaient tenté de s’approprier/d’imiter la tradition de l’universalisme géopolitique des Arabes et des Byzantins. Toute fois, l’Empire d’Osman resta davantage une puissance tellurocratique. L’avantage de conserver ce statut géopolitique (et en même temps par contrainte technique pour un développement adéquat de l’universalisme ottoman) a servi de circonstance pour que la Sublime Porte se concentre considérablement sur sa politique extérieure pour s’opposer à la tellurocratie européenne la plus fondamentale du Moyen Âge, le Saint Empire romain germanique (conflit au-delà du bassin danubien).
Le Saint Empire romain germanique fut le résultat d’une expansion coloniale germanique en Europe. Cette expansion avait un caractère double : elle était maritime et terrestre. Nous avons déjà parlé d’une thalassocratie germanique antique (les invasions normandes). À l’origine, les Goths, et ensuite les Francs, constituaient la tellurocratie germanique. Initialement, la nation de Charlemagne était une puissance très continentale, où le pouvoir tellurocratique assurait le contrôle sur les bassins des voies fluviales les plus importantes du Nord-Ouest de l’Europe (y compris les embouchures et les courants moyens du Danube). Malgré la tentative de la Rome latine d’introduire en Allemagne par les terres « le virus » de l’universalisme antique (Charlemagne proclamé Empereur romain), l’Etat de Carolingiens resta fidèle à ses principes tellurocratiques, ce qui, plus tard confirma sa division par Charlemagne lui-même en trois parties qui correspondaient en fait, aux trois « bassins de contrôle » : la France, la Germanie et l’Italie du Nord. Par la suite (Xe siècle), la Germanie et l’Italie du Nord constituaient la partie principale du nouvel Etat européen, qui nominalement, issus des traditions impériales des Romains et des Carolingiens, celles du Saint Empire romain germanique.
La colonisation germanique sur le pourtour de la Baltique possédait principalement un caractère thalassocratique, issu des traditions des troupes de Normands et de Varègues et s’est maintenue lors de la Ligue hanséatique des villes. En ce qui concerne les territoires baltes germanisés, ils n’ont jamais été officiellement repris dans l’Empire germanique médiéval bien qu’ils en dépendaient politiquement. La flotte hanséatique opérait de la même manière sur la Baltique et les mers du Nord que les Vénitiens sur la Méditerranée. L’Europe, située entre les mers du Nord et du Sud, était dirigée par l’élite tellurocratique germanique qui menait une implantation coloniale successive dans les profondeurs du continent vers l’Est, jusqu’aux frontières de la sphère d’influence géopolitique de la Russie.
L’ancienne Russie fut une variante très originale de l’universalisme géopolitique et s’institua surtout une élite thalassocratique (la Russie varègue) qui se retrouva au beau milieu d’un entourage hautement tellurocratique (khanat Khazar et Empire germanique). Suite à l’invasion mongole, la Russie s’est divisée en trois composantes : la Russie occidentale (Kiev), la Russie orientale (Moscou) et la Russie du Nord (Novgorod). La Russie occidentale qui s’est retrouvée enclavée dans les tenailles germano-turco-mongoles, perdit la possibilité d’une expansion coloniale propre et qui s’est transformée en périphérie, en confins, géopolitiques (Ukraine). La Russie orientale, dont l’accès à la mer fut coupé par les Tataro-Mongols, prit les traits typiques d’une puissance tellurocratique (le pouvoir des grands Princes moscovites s’est basé sur le contrôle des sources et des courants moyens d’une série de rivières importantes du massif de la Russie ancienne), et, jusqu’au XVIe siècle, la Russie du Nord conserva ses traits universalistes anciens (thalasso-tellurocratique) rappelant d’une certaine manière l’Empire germanique : un commerce maritime (sur les mers Baltique et Blanche) ajouté à une assimilation systématique des nouveaux espaces continentaux à l’Est, jusqu’à la "ceinture de pierre" (Oural).
L’unification des Russies de Novgorod et de Moscou fut un puissant stimulant pour le développement de l’universalisme géopolitique russe spécifique, historiquement exprimée dans l’idée de la Troisième Rome. Suite à l’accès de l’Etat russe aux mers Baltique et Blanche au Nord-Ouest, et de même aux mers Noire et Caspienne au Sud-Est, fut introduite dans la politique russe l’intuition thalassocratique avec une force particulière, déployée par Pierre le Grand. En même temps, la colonisation russe continua dans les espaces continentaux internes, et de cette manière, la combinaison harmonieuse des vecteurs "thalasso" et "telluro" dans la politique coloniale russe mena à la création d’un empire universel sans précédent de par son échelle, un réseau géopolitique qui est paradoxalement exprimé dans la formule : « Moscou, le port aux cinq mers ».
LES TEMPS MODERNES
Les grandes découvertes géographiques des 15ième et 16ième siècles ont entraîné une expansion coloniale mondiale des nations européennes : le monde entier devient l’objectif de leurs stratégies géopolitiques. Nous observons ici, avant tout, l’établissement de deux puissances coloniales universalistes : l’Espagne et le Portugal. L’universalisme latin, incarné par ces deux puissances, possédait trois composantes historiques : l’universalisme impériale antique de Rome (Eglise romaine), les gènes tellurocratiques de l’aristocratie espagnole (issue des traditions de la colonisation terrestre de la Germanie antique et des Goths occidentaux), et le thalassocratisme méditerranéen (vénitien) apporté par les croisés, les templiers qui s’y étaient réfugiés après le début de la répression de l’Ordre en Europe au 14ième siècle et qui, par la suite, ont activement participé au projet de colonisation de l’Amérique. Christophe Colomb (un Génois d’origine) représenta le thalassocratisme méditerranéen.
Il faut attirer une nouvelle fois l’attention sur le fait que, malgré une flotte mondiale plus puissante en ce temps-là, l’Espagne ne se transforma pas en puissance thalassocratique avec une stratégie géopolitique logique propre au vrai thalassocratisme. La colonisation espagnole de l’Amérique portait surtout le caractère d’une colonisation continentale et elle n’était pas seulement la mise en œuvre des régions côtières clefs. À cet égard, la colonisation portugaise des côtes d’Amérique, d’Afrique et d’Asie fut la plus thalassocratique. Ce sont justement les Portugais qui se sont les premiers heurtés aux intérêts de la nouvelle thalassocratie européenne, c'est-à-dire la Hollande, qui est entrée dans l’arène mondiale de l’époque des Temps Modernes.
La thalassocratie hollandaise, malgré la situation continentale des Néerlandais, est, si l’on peut s’exprimer ainsi, la plus classique. Au 17ième siècle, Amsterdam devint la nouvelle Venise d’Europe. La colonisation hollandaise visait, avant tout, le contrôle des voies marchandes maritimes et des points stratégiques le long des côtes de l’Afrique du Nord jusqu’au Japon y compris ainsi que le long des côtes de l’Amérique du Nord et centrale. Les points stratégiques pour soutenir la politique coloniale hollandaise : Nieuw Amsterdam (qui deviendra plus tard New York), le Cap (l’extrémité sud de l’Afrique, position-clef sur la route maritime de l’Europe à l’Océan Indien), Java (contrôle sur l’archipel indonésien et les détroits de la route maritime de l’Inde à la Chine).
La stratégie coloniale hollandaise fut appliquée ultérieurement avec succès par la Grande-Bretagne et, avant tout, contre la Hollande elle-même dans la lutte pour la primauté mondiale sur les océans. C’est ainsi que la Grande Bretagne s’empare de Nieuw Amsterdam et continue la colonisation entreprise par les Hollandais des côtes orientales de l’Amérique du Nord (Nouvelle Angleterre) ; s’empare d’une série de péninsules clefs dans les Caraïbes et de territoires côtiers de l’Amérique centrale ; s’implante en Afrique du Sud (tire le verrou à Cape Town, etc) ; s’introduit dans l’Océan Indien, assurant le contrôle sur les côtes d’Afrique orientale (prise de Zanzibar, etc) et s’implante en Inde et en Malaisie (routes maritimes entre l’Inde et la Chine) et enfin, en Chine même (Hong Kong).
La colonisation britannique est typiquement thalassocratique quand elle ne se passe pas au plus profond des continents (l’Australie est intensément colonisée sur ses côtes, c’est le caractère thalassocratique, mais dans le cas de l’Inde, on parle non seulement de colonisation civilisationnelle mais aussi politique – voir l'accord entre la Grande Bretagne et le Grand Moghol. À cet égard, l’histoire de l’assimilation de l’Amérique du Nord fut tout aussi exemplaire. Là, la colonisation thalassocratique britannique se limitait, strictement parlant, aux zones côtières de la Nouvelle Angleterre, alors que les étendues intérieures du continent nord-américain avaient d’abord été occupés par les Espagnols (Californie, Texas) et les Français (Louisiane). Dans les territoires plus intérieurs encore, les Etats-Unis se sont constitués plus spécialement, avec pour matériel humain, les descendants des colons germaniques (jusqu’à la création des Etats-Unis, ils constituaient la moitié de la population du pays) et les immigrants d’Europe occidentale à la mentalité « européenne ».
La tradition géopolitique américaine contient, ainsi, des éléments contradictoires qui constituent en même temps les prémisses d’un universalisme propre à l’Amérique. Jusqu’à présent, les Etats-Unis restent dominés par l’élite thalassocratique d’origine anglo-hollandaise dont le fondement politico-spirituel est constitué par l'atlantisme. Cependant, il existe aussi une forte « opposition continentale » contre l’atlantisme, représentée par les « patriotes », les fondamentalistes-nativistes, auxquels on peut également ajouter les Indiens. Certes, pour finir, les Etats-Unis imitèrent la stratégie géopolitique de la Grande Bretagne qui comprenait la dernière structure néo-coloniale propre, sortant du cadre du véritable atlantisme.
Les autres voies de la colonisation. La victoire historique de la flotte britannique sur l’Espagne marqua un renforcement de la position géopolitique de la nouvelle thalassocratie anglo-saxonne, et dans le monde romain (latin), un nouveau projet universaliste vit le jour, l’universalisme français.
La colonisation française est, d’une certaine mesure, le cumul, la réunion, des types de colonisation espagnole (continentale) et portugaise (maritime). D’une part, les Français se sont assidûment battus pour le contrôle des détroits et des péninsules, suivant ainsi une logique purement thalassocratique. Pendant ce temps, leur implantation était plus continentale que celle des Anglais. À part la Louisiane et le Québec en Amérique du Nord, les Français maîtrisèrent un immense espace continental en Afrique. Cependant, la France manquait de forces propres pour mener cette double tâche et asseoir son impérialisme universel auquel Napoléon aspirait jusqu'à la folie.
La colonisation allemande fut encore moins thalassocratique et plus tellurocratique que celle de la France. Jusqu’à la fin du 19ième siècle, l’Allemagne ne se décida pas à mener une politique de colonisation d’outre-mer et Bismarck, plongé dans des incertitudes, ne donna pas son accord pour la création d’un espace colonial germanique. Les pressentiments de Bismarck se révélèrent vrais : en principe, cette politique n’apporta aucun succès à l’Allemagne. Le colonialisme d’outre-mer italien et belge avait aussi un caractère très continental ; il consistait en l’occupation et l’exploitation de régions délimitées en Afrique (Congo, Libye, Erythrée).
Le colonialisme russe était loin d’être d’outre-mer, il était très continental ; et ce n’est qu’après la Deuxième Guerre Mondiale qu’en Russie (URSS), qu’apparurent des points d’appui stratégiques en dehors de l’Eurasie : en Amérique (Cuba, Nicaragua) et en Afrique (Egypte, Somalie, Libye, Ethiopie, Angola, etc). aujourd'hui, tous ces pays sont pratiquement déchirés. Mais, il existe un colonialisme continental encore plus fondamental, c’est celui de type turco-mongol (de Gengis Khan) qui s’est manifesté historiquement au sein des territoires de Gengis Khan et de ses descendants : la Chine Han, la Horde d’or, l’Etat de Timour, l’empire des Grands Mongols.
Le colonialisme chinois (non pas le colonialisme mongolo-han mais plutôt khano-confucéen) est plus penché vers l’universalisme tel que par exemple une colonisation chinoise active des côtes et des péninsules en Asie du Sud-Est et un développement important de la navigation côtière. Pendant ce temps, la colonisation continentale des vastes régions de l’Asie médiévale et centrale maintient la Chine en tant que puissance tellurocratique principalement. Le colonialisme japonais lui aussi avait un caractère double, et même radicalement double. Ce radicalisme était dû à deux vecteurs opposés : un vecteur tellurocratique visant une colonisation des régions intérieures du continent (Mandchourie, Mongolie, Tibet) et un autre thalassocratique, fondé sur une colonisation très thalassocratique de tout le bassin de l’Océan Pacifique.
Après la Deuxième Guerre Mondiale, les conditions générales de la réalité géopolitique se sont essentiellement transformées en rapport avec le progrès important des nouvelles formes visant à s’assurer une communication mondiale. Les voies de communications fluviales et terrestres du monde ont été ébranlées par l’aviation et, plus tard, par l’astronautique. L’introduction du facteur « aérien » dans la géopolitique amena la notion « d’aérocratie ». Les possibilités techniques actuelles permettent déjà, en principe, de ne pas dépendre (au niveau militaire) de l’aviation pour autant que les satellites armés dirigés à partir d’un tableau de commandes pourraient pratiquement assurer une extinction totale de n’importe quel objectif sur n’importe quel point de la planète. Pour mettre hors service la logistique d’un adversaire, il n’est plus nécessaire de transférer les grandes ressources humaines et techniques vers de vastes étendues, il suffit de mettre hors service son système énergétique, d’éliminer « avec précision » les nœuds stratégiques du gouvernement.
A l’heure actuelle, les Etats-Unis se révèlent être la principale force aérienne au monde et forment une alliance étroite avec la Grande Bretagne et l’OTAN. Le porte-avions symbolise au mieux l’union stratégique entre la mer et l’air. Néanmoins, vu les possibilités d’observation constante par satellite, l’avantage de la mobilité des porte-avions (ils sont les moins vulnérables lors d’offensives à l’étranger) face aux aérodromes stationnaires se relativise sensiblement.
Vladimir WIEDEMANN.
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jeudi, 31 octobre 2013
Nietzsche fenomenologo del quotidiano
Scolari, Paolo, Nietzsche fenomenologo del quotidiano
Ex: http://recensionifilosofiche.info
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mercredi, 30 octobre 2013
Il diritto negato alla tradizione
Dopo quello che abbiamo definito il falso mito del diritto alla cultura, forse suscitando l’orrore di qualcuno, ci occupiamo dell’autentico mito di un diritto negato, un diritto che può avere diversi nomi ma che qui definiremo, semplicemente, diritto alla tradizione.
Hic et nunc il termine tradizione viene assunto nella sua pura semplicità che lo rimanda, direttamente, al patrimonio simbolico e culturale trasmesso di generazione in generazione. L’Italia è un Paese di tradizioni interrotte, di culture locali che in forza di una serie di con-cause hanno cessato di essere trasmesse di Padre in Figlio, di Madre in Figlia. I tratti comuni di queste culture erano l’oralità e il dialetto (lingue sì, ma non codificate e dunque legate al vitalismo delle comunutà parlanti), e tutte manifestavano sia lo scopo di produrre la massima autonomia del singolo nella sfera produttiva, sia la qualità che, curiosamente ma nemmeno troppo, Alan W. Watts assegna al Taoismo, l’antico sistema metafisico, etico e infine religioso della Cina, nel suo celebre lavoro “Il Tao. La via dell’acqua che scorre”: “L’antica filosofia del Tao segue in modo abile ed intelligente il corso, la corrente e le venature dei fenomeni naturali, considerando la vita umana come un’integrale caratteristica del processo del mondo”. Diversa, quindi, dalla scienza occidentale che “ha posto l’accento sull’atteggiamento di oggettività – un freddo, calcolatore e distaccato atteggiamento per mezzo del quale appare che i fenomeni naturali, incluso l’organismo umano, non sono altro che meccanismi”.
Le tradizioni interrotte d’Italia erano culture in cui la sapienza si scambiava con la saggezza, in un gioco caleidoscopico di empirismo, produzione fiabesca, pragmatismo, originalità. Erano, anche, confini difficilmente superabili dal Potere, persino da quello religioso che doveva, sovente, scendere a patti con le tradizioni pre-esistenti e con le credenze ataviche delle comunità. Erano veri e propri anticorpi sociali alle pretese di “dominio” che le istituzioni del tempo coltivavano nei confronti dei propri sottoposti, emblemi di un’alterità che tracciava una demarcazione netta tra chi esercitava il potere e chi poteva ribellarvisi.
Perché e come queste tradizioni sono state interrotte e rescisse? Chi o cosa minacciavano concretamente?
La loro eliminazione era naturaliter funzionale all’affermazione dello Stato nazionale, di quella moderna unità linguistica e storica che si affermò – ancorché incompiutamente – attraverso la scuola, la guerra e, infine, attraverso la televisione, lo strumento di comunicazione, manipolazione e persuasione più potente che sia mai apparso sulla scena della storia.
Il 9 dicembre 1973, dalle colonne del Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini lanciava uno storico monito dal carattere profetico: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata”. L’articolo prosegue: “Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo”.
La soppressione delle culture popolari era anche un atavico obiettivo di coloro che professavano l’affermazione definitiva di una nuova fede, quella nella scienza. Oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che nessuna verità scientifica è inconfutabile, che nulla di quanto è scientifico può non essere superato. Ciononostante, attribuiamo alla scienza un valore dogmatico. Ciononostante, abbiamo elevato la scienza a nuova religione, con i suoi riti, i suoi sacerdoti e i suoi anatemi, pagando questo scotto con la perdita di bio-diversità culturale, la disumanizzazione del lavoro, l’iper-medicalizzazione, il costante tentativo di superamento dell’ultima etica possibile, l’etica della vita o bio-etica.
Attraverso il mito della sapere scientifico, passate le co-scienze per la “spada” della televisione , siamo giunti a una nuova ortodossia del pensiero che ci avvolge da ogni lato, offrendoci risposte ma risparmiandoci domande: un nuovo totalitarismo a cui le tradizioni locali avrebbero contrapposto un anarco-liberismo del pensiero, basato sulla trasmissione “selvatica” di ciò che agli invidui spetta loro non in virtù di un inconsistente diritto sociale alla redistribuzione del reddito ma di un diritto naturale alla trasmissione di simboli – mai davvero assimilati alla cultura ufficiale, nemmeno da quella religiosa – e al loro recepimento.
Il processo di nazionalizzazione e costruzione della nazione, giustificato da un presunto “riscatto” delle masse dall’ignoranza da cui sarebbero state afflitte, si manifesta oggi come un processo di giustificazione dello Stato e dei processi persuasivi di potere, manipolazione e controllo sulle coscienze. Quanto poco efficace sia questo processo nel creare uomini liberi, lo testimonia l’analfabetismo di ritorno a cui la maggior parte della popolazione, dopo essere stata privata della sua iniziazione al sapere locale, viene condannata. Ma siamo sicuri che si tratti davvero di analfabetismo di ritorno, o forse l’unico alfabetismo che interessa alle istituzioni scolastiche è quello di instillare, nelle anime giovani, niente più che “Miti”, mere credenze e principi prodotti sotto l’egida della certezza scientifica e certificati dal complesso militare-industriale?
Può una società massificata, in cui il sapere e la cultura delle masse non sono argini all’esercizio del potere ma sue dirette emanazioni, essere davvero una società di uomini liberi?
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mardi, 29 octobre 2013
Spengler e l’anima russa
Spengler e l’anima russa
La Russia antica e la “pseudomorfosi” illuminista
Nel Tramonto dell’Occidente[1], Oswald Spengler si sofferma ampiamente sulle peculiarità dell’anima russa. Tale analisi è collocata nella seconda parte dell’opera, che si intitola “Prospettive della storia mondiale”[2], la prima parte essendo dedicata a “Forma e realtà”, ove delinea la sua visione ciclica della storia, definisce l’“anima” di ogni civiltà, con le famose fasi, l’una ascendente (Kultur) e l’altra discendente (Zivilisation) di ogni ciclo storico, per poi tracciare una morfologia comparata delle civiltà che offre un grande scenario di macrostoria [3].
Altrettanto interessante e stimolante è l’applicazione del metodo comparativo spengleriano per studiare e decifrare l’affinità morfologica che connette interiormente la lingua delle forme di tutti i domini interni ad una data civiltà, dall’arte alla matematica alla geometria, al pensiero filosofico e al linguaggio delle forme della vita economica, essa stessa espressione di una data “anima”, ossia di un “sentimento del mondo” che contraddistingue un certo tipo di sensibilità.
In questa prospettiva, anche i fatti politici, assumono il valore di potenti simboli; per Spengler occorre saper cogliere che cosa significa il loro apparire, l’ “anima” di cui essi sono espressione.
Pseudomorfosi
Nella seconda parte dell’opera, l’Autore colloca lo studio dell’anima russa nel capitolo sulle pseudomorfosi storiche ed è partendo da questa categoria spengleriana che si può comprendere il suo modo di descrivere il mondo russo.
Per spiegare la pseudomorfosi, Spengler parte da una nozione di mineralogia. Egli attinge ad un fenomeno naturale per spiegare e definire un fenomeno storico, in ciò accogliendo un procedimento di osservazione scientifico-naturalistico tipico di Goethe, al quale esplicitamente si richiama nella prima parte della sua opera.
“Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua si infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupate. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo ad altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contraddice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto le specie esteriori di un altro. E’ ciò che i mineralogisti chiamano pseudomorfosi” [4].
Dalla nozione di mineralogia passa quindi alle pseudomorfosi storiche.
“Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione, ma nemmeno alla perfetta coscienza di sé stessa. Tutto ciò che emerge dalle profondità di una giovane animità va a fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e invece dell’adergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per la costrizione che ancora si subisce da parte di una realtà lontana nel tempo”[5].
Di questo fenomeno Spengler ci offre vari esempi quali la civiltà araba – che egli fa risalire, come sentimento del mondo, al III secolo a.C. – che fu costretta e soffocata nelle forme di una civiltà straniera, quale quella macedone col suo relativo dominio (impresa di Alessandro Magno e civiltà ellenistica).
Non è questa la sede per esaminare la pseudomorfosi araba, perché tale tema ci porterebbe lontano, considerando la peculiarità della visione storica spengleriana, rispetto allo specialismo della storiografia occidentale del suo tempo con la quale egli polemizza e argomenta in modo approfondito.
Altra pseudomorfosi è quella che inizia con la battaglia di Azio del 31 a. C.
“Qui non si trattò di una lotta per la supremazia della romanità o dell’ellenismo; una lotta del genere era stata già combattuta a Canne e a Ama, ove ad Annibale toccò il destino tragico di battersi non per la sua patria bensì per l’ellenismo. Ad Azio la nascente civiltà araba si trovò di fronte alla civilizzazione antica senescente. Si doveva decidere il trionfo dello spirito apollineo o di quello magico, degli dei o del Dio, del principato o del califfato. La vittoria di Antonio avrebbe liberato l’anima magica; invece la sua sconfitta ebbe per conseguenza che sul paesaggio di tale anima si riaffermarono le rigide, disanimate strutture del periodo imperiale”[6].
Pseudomorfosi russa
Un ulteriore esempio di pseudomorfosi ce lo offre la Russia di Pietro il Grande. L’anima russa originaria si esprime nelle saghe di Kiev riguardanti il principe Vladimiro (verso il 1000 d. C.) con la sua Tavola Rotonda e l’eroe popolare Ilja di Muros. Qui il pensatore tedesco coglie l’immensa differenza fra anima russa e anima faustina (ossia quella europea tesa verso l’infinito e simboleggiata dalle cattedrali gotiche) nel divario che intercorre fra tali poemi slavi e quelli sincronici – rispetto ad essi – della saga di Malthus e dei Nibelunghi del periodo delle invasioni “nella forma dell’epica di Ildebrando”[7].
Il periodo “merovingio” russo (ossia il periodo aurorale) inizia con la liberazione dal dominio tartaro di Ivan III (1480) e si sviluppa attraverso gli ultimi Rurik e i primi Romanov fino a Pietro il Grande (1689-1725). Esso corrisponde al periodo che va, in Francia, da Clodoveo(465-511) fino alla battaglia di Testry (687) con la quale i Carolingi si assicurano il potere effettivo. Spengler coglie qui un’affinità morfologica.
“A questo periodo moscovita delle grandi stirpi bojare e dei patriarchi, durante il quale un partito della Vecchia Russia lottò continuamente contro gli amici della civiltà occidentale, segue, con la fondazione di Pietroburgo (1703) la pseudomorfosi, la quale impose all’anima russa primitiva le forme straniere dell’alto Barocco, poi quelle dell’illuminismo e infine quelle del diciannovesimo secolo. Pietro il Grande fu fatale per la civiltà russa. Si pensi alla sua corrispondenza “sincronica”, a Carlomagno, che metodicamente e con tutte le sue energie attuò ciò che Carlo Martello pochi anni prima aveva scongiurato con la sua vittoria sugli Arabi; il sopravvento dello spirito mauro-bizantino”[8].
Nella visione spengleriana, Pietro il Grande impone alla Russia una forma che non le è congeniale, che è lontana dallo spirito contadino, antico, mistico e religioso della Vecchia Russia. Carlomagno avrebbe mutuato in Occidente una forma mauro-bizantina (l’Impero, la struttura gerarchizzata sul modello romano-orientale) che non sarebbe stata congeniale all’Europa dell’alto Medio Evo (adopero questa periodizzazione per farmi intendere, anche se essa non è affatto spengleriana).
Qui lo studioso tedesco introduce una riflessione che è di rilievo centrale e che contribuisce a far comprendere anche la storia della Russia contemporanea.
“Lo zarismo primitivo di Mosca è l’unica forma che ancor oggi sia conforme alla natura russa, ma esso a Pietroburgo fu falsato nella forma dinastica propria all’Europa occidentale. La tendenza verso il Sud sacro, verso Bisanzio e Gerusalemme, profondamente radicata in tutte le anime greco-ortodosse, si trasformò in una diplomazia mondana, in uno sguardo rivolto verso l’Occidente … Furono importate arti e scienze tarde, l’illuminismo, l’etica sociale, il materialismo cosmopolita, benché in questo primo periodo del ciclo russo la religione fosse l’unica lingua nella quale ognuno comprendeva se stesso e comprendeva il mondo” [9].
Questa imposizione di un modello straniero generò un sentimento di odio “davvero apocalittico” contro l’Europa, intendendo con tale termine tutto quanto non era russo, anche Roma e Atene, insomma l’Occidente nella varietà ed anche nell’antichità delle sue manifestazioni.”La prima condizione a che il sentimento nazionale russo si liberi è odiare Pietroburgo con tutto il cuore e con tutta l’anima” scriveva Aksakoff a Dostoevskij.
In altri termini, Mosca è sacra, Pietroburgo è Satana e Pietro il Grande, in una leggenda popolare, viene presentato come l’Anticristo[10].
Tolstoi e Dostoevskij
Per Spengler, se si vogliono comprendere i due grandi interpreti della pseudomorfosi russa, occorre vedere in Dostoevskij il contadino, in Tolstoi l’uomo cosmopolita.
“L’uno non poté mai liberarsi interiormente dalla campagna, l’altro la campagna, malgrado ogni suo disperato sforzo, non riusci mai a ritrovarla”[11].
Qui la lettura di Spengler diviene dirompente e innovativa, con tratti tipici da “rivoluzione conservatrice”.
Egli considera, infatti, Tolstoi come la Russia del passato e Dostoevskij come simbolo della Russia dell’avvenire, il che equivale a dire che l’anima contadina antica della Russia, l’anima legata al sentimento delle radici e delle tradizioni, rappresenta l’avvenire, mentre lo spirito cosmopolita e illuminista, di stampo occidentale moderno, è destinato a tramontare.
Peraltro, questa spirito cosmopolita era profondamente divorato da un odio viscerale contro un’Europa moderna da cui non poteva liberarsi, essendovi profondamente legato. In altri termini, una sorta di amore/odio verso l’Europa.
“Tolstoi odiò potentemente l’Europa da cui non poteva liberarsi. Egli l’odiò in sé stesso e odiò se stesso. Per questo fu il padre del bolscevismo[12]..
Dostoevskij, al contrario, non nutrì un tale odio ma un fervido amore per tutto ciò che è occidentale, nel senso delle antiche radici culturali dell’Europa.
“Un simile odio Dostoevskij non lo conobbe. Egli nutrì un amore altrettanto fervido per tutto quello che è occidentale. “Io ho due patrie, la Russia e L’Europa”[13]. Questa affermazione dello scrittore russo è molto sintomatica delle sue inclinazioni. Spengler passa poi a citare un brano del romanzo I Fratelli Karamazov che è molto eloquente circa quello che lo scrittore russo intende per richiamo interiore verso l’Europa.
“Partirò per l’Europa – dice Ivan Karamazov al fratello Alioscia – io so di non andare che verso un cimitero, ma so anche che questo cimitero mi è caro, che è il più caro di tutti i cimiteri. I nostri sacri morti sono seppelliti là, ogni pietra delle loro tombe parla di una vita passata così fervida, di una fede così appassionata nelle azioni che hanno compiute, nelle loro verità, nelle loro lotte e nelle loro conoscenze che io, lo so di già, mi prosternerò per baciare quelle pietre e per piangere su di esse”[14]
L’Europa, per Dostoevskij, è quella delle radici antiche, della memoria storica, dell’identità, degli avi, delle antiche fedi e delle antiche lotte. In altri termini, l’Europa non è quella dell’illuminismo cui guardava Pietro il Grande, ma esattamente il contrario.
Mentre Tolstoi si muove nell’ottica dell’economia politica e dell’etica sociale, in una dimensione intellettualistica, tipicamente occidentale e moderna, Dostoevskij era al di là delle categorie occidentali, comprese quelle di rivoluzione e di conservatorismo.
“Per lui fra conservatorismo e rivoluzione – scrive Spengler – non vi era differenza alcuna: entrambi erano per lui fenomeni occidentali. Lo sguardo di una tale anima si librava di là da tutto quanto è sociale. Le cose di questo mondo gli apparivano così insignificanti, che egli non dette alcuna importanza al tentativo di migliorarle. Nessuna vera ragione vuole migliorare il mondo dei fatti. Come ogni vero Russo, Dostoevskij un tale mondo non lo nota affatto: gli uomini come lui vivono in un secondo mondo, in un mondo metafisico esistente di là da esso. Che cosa hanno a che vedere i tormenti di un’anima col comunismo?” [15]
Spengler conclude asserendo che “il Russo autentico è un discepolo di Dostoevskij benché non lo abbia letto, anzi proprio perché non sa leggere. Lui stesso è un pezzo di Dostoevskij”[16]
Per Spengler il cristianesimo sociale di Tolstoi era intriso di marxismo; Tolstoi parlava di Cristo ma intendeva Marx, mentre “al cristianesimo di Dostoevskij appartiene invece il millennio che viene”[17]
L’analisi spengleriana si proietta nel futuro, anticipando di circa un secolo gli sviluppi della storia russa, in un momento storico in cui trionfava il bolscevismo e tutto sembrava andare in direzione contraria. Il punto è capire cosa intenda Spengler per “cristianesimo di Dostoevskij”. Lo studioso tedesco ha fatto riferimento a questa vocazione mistica che trascende il mondo dei fenomeni, dei fatti, ai quali l’anima russa non attribuisce un valore decisivo, il mondo metafisico essendo l’oggetto di interesse centrale e prioritario.
“L’immensa differenza fra anima faustiana e anima russa si tradisce già nel suono di certe parole. Il termine russo per cielo è njèbo ed è negativo nel suo n. L’uomo d’Occidente volge il suo sguardo verso l’alto, mentre il Russo fissa i lontani orizzonti. Occorre dunque vedere la differenza dell’impulso verso la profondità dell’uno e dell’altro nel fatto che nel primo esso è una passione di penetrare da ogni lato nello spazio infinito, nel secondo è un esteriorizzarsi fino a che l’elemento impersonale nell’uomo si faccia uno con la pianura senza fine…La mistica russa non ha nulla di quel fervore, proprio al gotico, a Rembrandt, a Beethoven, che si porta verso l’alto e che può svilupparsi fino ad un giubilo che invade il cielo. Qui Dio non è la profondità azzurra delle altezze. L’amore mistico russo è quello della pianura, quello verso fratelli che subiscono lo stesso giogo, sempre nella direzione terrestre; è quello per i poveri animali tormentati che vagano sulla terra, per le piante, mai per gli uccelli, per le nubi e per le stelle” [18].
Il cristianesimo russo-ortodosso è, dunque, per Spengler, un misticismo della Madre Terra, dell’immensa pianura, degli spazi sconfinati.
Fra Spengler e Steiner
Introduco qui alcune mie riflessioni. Questa pianura sconfinata è geograficamente - e simbolicamente - un ponte fra Oriente e Occidente. La Russia è una terra che sente storicamente il richiamo di Bisanzio, ossia dell’Impero Romano d’Oriente, come ho dimostrato nei miei contributi su Toynbee e su Zolla ed il loro modo di intendere l’anima russa e i suoi archetipi.
La Russia risente, però, anche di influssi spirituali e culturali spiccatamente orientali.
Un fenomeno che merita di essere osservato con attenzione è quello dell’attuale diffusione del buddhismo in Russia (di cui abbiamo testimonianze e riscontri anche qui in Italia presso i centri buddhisti frequentati dai russi provenienti direttamente dalla loro terra), particolarmente di quello tibetano che, nella sua iconografia e nel suo simbolismo, è segnato da figure luminose, da un senso di chiarità e di Luce spirituale che tradisce anche antiche influenze iraniche, come Filippani Ronconi ha evidenziato in Zarathustra e il Mazdeismo [19].
Questa “mistica della Luce” (adopero qui tale termine in un senso lato, non tecnico) si incontra necessariamente col misticismo della Madre Terra, con propensioni tipiche dell’anima slava.
È a questo punto che va considerata la previsione di Rudolf Steiner, secondo il quale in Russia rinascerà la religione di Zarathustra[20] , ossia una nuova mistica della Luce ed un nuovo sentimento del mondo, quello della lotta fra Luce e Tenebre nella storia, nella dimensione terrena, in forme adatte ad un ben diverso contesto storico, etnico e geografico rispetto a quello in cui maturò la riforma spirituale del Profeta iranico. Nella morfologia delle civiltà di Steiner la civiltà russa sarebbe la sesta civiltà – quella del futuro – dopo le prime cinque (Indiana, Iranica, Egizio-Caldaica-Babilonese, greco-romana, anglo-tedesca) che nel loro susseguirsi denotano una sorta di movimento pendolare da est ad ovest e poi di nuovo verso est. Una tale previsione sulla rinascita della religione di Zarathustra può avere una sua plausibilità ove si consideri appunto la posizione di ponte che la terra russa ha fra Oriente e Occidente e quindi simbolicamente di collegamento, di raccordo spirituale e culturale.
Il bolscevismo aveva significato, per un arco di 70 anni, una interruzione nella comunicazione spirituale fra Oriente e Occidente, un blocco materialistico, nel che può vedersi l’azione di influenze non meramente profane, secondo quella dimensione di profondità della storia che è tipica del “metodo tradizionale”di cui Evola ha parlato ampiamente in Rivolta contro il mondo moderno e sul quale chi scrive è tornato ampiamente ne I Misteri del Sole.
Un tale culto della Luce, ove un domani dovesse diffondersi, dovrà necessariamente innestarsi sul “sentimento della pianura” costitutivo dell’anima russa, per dirla con Spengler, e cogliere nella Madre Terra – la “Santa Madre Russia” – il teatro di una lotta fra Luce e Tenebre, fra Verità e Menzogna, fra elevazione dello spirito e demonìa della materia e dell’economia.
Si colgono, in definitiva, i primi segni premonitori – dal Buddhismo al rilancio dell’Ortodossia – dell’affiorare graduale di una nuova “forma spirituale” che ha profonde connessioni col risveglio del sentimento nazionale russo, di un forte senso delle proprie tradizioni e della propria identità che si esprime oggi nella linea politica di Putin e nel suo rilancio del ruolo di grande potenza della Russia, della sua proiezione mediterranea, del suo interagire e fare blocco con le nazioni del BRICS.
La stessa legislazione contraria alla propaganda dei gay, il rifiuto di Putin a dare i bambini russi in adozione alle coppie gay in Occidente, il forte richiamo alla tradizione religiosa russo-ortodossa, l’opposizione al “politicamente corretto”, sono tutti fatti politici sintomatici di un risveglio dell’anima russa, quella antica, interpretata e sentita da Dostoevskij.
I fatti politici, come diceva Spengler, vanno letti nella loro valenza simbolica, cogliendo i fermenti profondi di cui essi sono espressione e cercando d’intuire e anticipare le linee di tendenza che essi prefigurano.
[1] L’opera è del 1917 in prima edizione; la traduzione che ho consultato e studiato fa riferimento alla seconda edizione del 1923.
[2] O.Spengler, Il Tramonto dell’Occidente, Guanda, Parma, 1991, p. 653 ss.
[3] Id., op.cit., p. 89 ss.
[4] Id., op.cit., p.927.
[5] Id., op.cit., pp.927-928
[6] Id., op .cit., pp. 930-931.
[7] Id., op.cit., p.932.
[8] Id., op.cit., p.932.
[9] Id., op.cit., pp.932-933.
[10] Id., op.cit., p. 934.
[11] Id., op.cit., p.934.
[12] Id., op.cit., p. 936.
[13] Id., op.cit., p. 936
[14] Id., op.cit., p.936.
[15] Id., op.cit., p.937.
[16] Id., op.cit., p. 939.
[17] Id., op.cit., p.939.
[18] Id., op.cit., nt.178, pp.1459-1460.
[19] P. Filippani Ronconi, Zarathustra e il Mazdeismo, Irradiazioni, Roma, 2007.
[20] R. Steiner, Miti e Misteri dell’ Egitto rispetto alle forze spirituali attive nel presente, Antroposofica, Milano, 2000.
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lundi, 28 octobre 2013
L'AUCTORITAS
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jeudi, 24 octobre 2013
Dugin und Heidegger
Dugin und Heidegger
von David Beetschen
Ex: http://www.blauenarzisse.de
Alexander Dugins „Vierte politische Theorie“ sorgte für kontroverse Debatten. Um den Kern seiner propagierten authentischen Existenz zu erfassen, muss man sich mit Heideggers Seinsfrage auseinandersetzen.
Treffend hat Markus Willinger in seinem Artikel über „Dugins Alternative“ erwähnt, dass der Kern der Theorie nicht klar herausgeschält wird. Insbesondere umschreibt er nicht genau die Basis, auf der das Subjekt der vierten politischen Theorie gründet.
Das Sammelbecken der antiliberalen Strömungen
Die vierte politische Theorie ist als Sammelbecken konzipiert für alle Menschen, die sich gegen Globalisierung und Amerikanismus wenden, der als Leitkultur fungiert. Um dies zu verwirklichen, versucht diese Theorie die Kräfte zu bündeln, also die Menschen, die sich für die zweite und dritte politische Theorie einsetzen, wie auch für alle anderen antiliberalen Strömungen.
Dies bedeutet aber nicht, dass die vierte politische Theorie ein Synkretismus der ersten drei darstellt, oder lediglich eine gegenaufklärerische Bewegung. Die vierte politische Theorie darf nicht mit einer der anderen verwechselt werden, insbesondere nicht mit der zweiten oder dritten.
Die Theorie schält die positiven Aspekte der anderen drei Theorien heraus: beim Liberalismus die „Freiheit“, dahingehend, dass man keine Tyrannei will. Bei der zweiten den Aspekt der Solidarität und bei der dritten die von Rassismus, Chauvinismus und Xenophobie befreite Idee des Ethnos. Ein wichtiger Punkt ist, dass Dugin selbst dazu aufruft, antifaschistische und antikommunistische Ressentiments beiseite zu legen, da diese nichts anderes seien als Instrumente in den Händen der Liberalen.
Das Subjekt der vierten politischen Theorie
Die vierte politische Theorie hat als neues politisches Subjekt nach dem Individuum, der Klasse, der Rasse und dem Staat eine Heideggersche Kategorie erhalten. Hierzu soll der Terminus „Dasein“ genutzt werden, der von Heidegger in seiner Fundamentalontologie anstelle von „Mensch“ gebraucht wird, um sich von der traditionellen Philosophie und ihren Vorurteilen abzugrenzen.
So soll „Dasein“ der Philosophie die Möglichkeit bieten, an die unmittelbaren Lebenserfahrungen des Einzelnen anzuknüpfen. Um sich insbesondere von Kants Erkenntnistheorie abzugrenzen, ging Heidegger nicht von einem „erkennenden Subjekt“ aus, sondern von einem „verstehenden Dasein“.
Nach der Definition von „Dasein“ soll hier nun nicht die ganze Fundamentalontologie Heideggers ausgebreitet, sondern direkt das aufgegriffen werden, was für die vierte politische Theorie wichtig ist und dies ist Heideggers „Man“. Dieses „Man“ bildet den Lebenshintergrund des Daseins, in allen kulturellen, gesellschaftlichen und geschichtlichen Aspekten, in die das „Dasein“ durch die „Geworfenheit“ eingebettet ist.
„Dasein“ und „eigentliches Sein“
Dieser Lebenshintergrund in Form der Kultur gibt dem Menschen gewisse Möglichkeiten, die er ohne sie nicht hätte. Jedoch kann die Kultur das Denken und Handeln des Daseins vorbestimmen, ohne dass ihm dies wirklich bewusst wird, wodurch es bestimmten Verhaltensmustern und Weltanschauungen ausgesetzt ist. Heidegger nannte diese Situation des Ausgeliefertseins „uneigentliche Existenz“.
Diesen Zustand konstatiert Heidegger als Ausgangspunkt, in welchen der durchschnittliche Mensch hineingeboren wird. Die Vorherbestimmung der kulturellen und gesellschaftlichen Verhaltensangebote nimmt dem „Dasein“ sein „eigentliches Sein“ weg. Wer ihm das wegnimmt, sind „die Anderen“, wobei hier keine spezifische Person gemeint ist, sondern das „Dasein“ in seiner Alltäglichkeit als „Man“.
Folgender Satz soll die Idee dahinter vergegenwärtigen: „Wir genießen und vergnügen uns, wie man genießt; wir lesen, sehen und urteilen über Literatur und Kunst, wie man urteilt; wir ziehen uns aber auch vom ‚großen Haufen‘ zurück, wie man sich zurückzieht.“ Diese Überlegungen brachten Heidegger dazu, folgenden radikalen Schluss zu ziehen: „Jeder ist der Andere und Keiner er selbst.“
Möglichkeit des authentischen Lebens
Als Gegenkonzept zur Fremdbestimmung des Daseins führt Heidegger das „eigentliche Selbstsein“ ins Feld, das eine „existenzielle“ Modifikation des „Man“ sei. Hierfür stellt er dem „Man“ die „Jemeinigkeit“ (dies ist jenseits von ich und wir) entgegen, wobei er nach einem möglichen Weg für ein authentisches Leben sucht, dem Weg vom „eigentlichen Selbst-sein-können“.
Um diesen Weg zu finden, macht Heidegger eine Analyse des Verhaltens des Daseins in Bezug auf seine Existenzialien. Diese umriss er bei einer phänomenologischen Analyse des Daseins, um dessen Struktur und Verhalten geistig zu begegnen. So sind nach ihm die Existenzialien des Daseins:
- Die „Geworfenheit“ – der Mensch ist in sein kulturelles Überlieferungsgeschehen hineingeworfen;
- Der „Entwurf“ – Das Dasein versteht die Welt, ergreift Möglichkeiten darin oder ergreift sie nicht;
- Die Verfallenheit an die Welt – Das Dasein ist „bei“ den Gegenständen und Personen, die ihm als unmittelbarer Orientierungspunkt dienen.
Durch die Verbindung dieser drei Punkte in einer Einheit erkennt Heidegger das „Sein von Dasein“ und definiert es als „Sich-vorweg-schon-sein-in-(der-Welt) als Sein-bei (innerweltlich begegnendem Seienden)“. Nun definiert Heidegger, daraus ableitend, die Possibilitäten, die sich als eigentliche Existenz erweisen und kommt dabei auf zwei verschiedene Lösungen, die in Bezug auf seine Zeitlehre stehen. Hierfür ist ein anderer Terminus sehr wichtig, die „Sorge“, was die Heideggersche Abkürzung für das „Sein des Daseins“ ist.
Die Bestimmung des Daseins
Diese Sorge hat jedoch weder mit der Besorgnis etwas zu tun, noch mit der Sorglosigkeit, sondern ist eine Seinsweise des Menschen, die primär im praktischen Umgang mit seiner Umwelt liegt, worauf er auch eine theoretische Erfassung derselben vornehmen kann, aber nicht bloß im erkennenden Anschauen derselben endet.
Heidegger versucht nun, die Bestimmung des Daseins als ein „Sein zum Tode“ hin genauer zu betrachten. Er kommt dabei zum Schluss, dass die Zeitlichkeit des Daseins ihm erst die Möglichkeit biete, sich auf den Tod hin einzustellen, wobei er schlussendlich subsumiert: „Zeitlichkeit ist der Sinn der Sorge.“ Diesen Sinn findet er in drei Ekstasen, die er in Bezug auf die „Sorge“ ordnet:
- „Schon-sein-in-der-Welt“ = Gewesenheit;
- „Sein-bei“ = Gegenwart;
- „Sich-vorweg-sein“ = Zukunft.
Hiermit wurde nun die Basis gelegt, um das „eigentliche Selbst-sein-können“ zu finden und auf die beiden Lösungen zu stoßen, die Heidegger so darstellte:
- Die erste Möglichkeit liegt in der zeitlichen Ekstase des Zukünftigen, auf das sich das „Dasein“ hin „entwirft“, durch die Ausrichtung des Lebens auf von ihm selbst geprüfte und als erstrebenswert erachtete Interessen.
- Die zweite Möglichkeit fußt auf der zeitlichen Ekstase der „Gewesenheit“, wobei sich das „Dasein“ seine Idole in der Vergangenheit sucht und die vergangene Möglichkeit des „eigentlichen Selbst-sein-können“ nicht nachmacht, sondern wiederholt, worin nun die Chance für das gegenwärtige Dasein liegt, selber das „eigentliche Selbst-sein-können“ auszuleben.
Die Fremdbestimmung des Daseins überwinden
An diesem Punkte setzt die vierte politische Theorie ein, die genau darum besorgt ist, dass dem Menschen die Möglichkeit bleibt, das „eigentliche Selbst-sein-können“ zu entfalten, indem der Mensch die Taten der gewesenen „Helden“ wiederholen kann. Um die Worte Dugins zu benutzen, steht die vierte politische Theorie für „Dasein“ ein, um ihm die Chance auf eine authentische Existenz zu gewähren, um die letzten Überbleibsel zu retten, „which makes man an existential being.“
Aus diesen Betrachtungen leitet sich ab, dass die Welt multipolar werden muss und die unipolare Hegemonie des Amerikanismus abschütteln sollte. Ja, sie muss die Kultur der „Fremdbestimmung des Daseins“ überwinden, wenn sie die „connection to the roots of …being“ wiederfinden will. Hier erscheint auch wieder die Vision Eurasien, wenn die Forderung nach dem Schmittschen „Großraum“ auftaucht. In diesen Großräumen könnten sich die Kulturen souverän selbständig organisieren, verteilt auf die Kontinente, fern aber von jedem Imperialismus.
Der Feind ist der Liberalismus, nicht eine andere traditionelle Kultur
Auch die Religionen, insbesondere in Form der Schule der Integralen Tradition, spielen eine essentielle Rolle für die Theorie, da auf der Grundlage der „inneren Einheit der Religionen“ eine Basis für ein inner– und außereurasisches Verständnis für die anderen Glaubensgemeinschaften gelegt wird. Es gibt keine Feindschaft mit Juden oder Moslems, sondern der Liberalismus wird als gemeinsamer Gegenspieler aufgefasst, der die Kulturen bedroht. Dies ist sicher ein wesentlicher Unterschied zu den identitären Blöcken, die gerne offen gegen den Islam auftreten.
Die vierte politische Theorie ist nicht als Dogma aufzufassen, sondern als eine Einladung Dugins an die oben genannten Gruppen, sich in der Bewegung einzufinden und konstruktive Kritik daran zu üben. So ist Dugins Buch The Fourth Political Theory nicht die Konzeption eines abgeschlossenen Systems, sondern ein Stein des Anstoßes, eine Frage, die Dugin gekonnt in den Raum stellt.
Anm. d. Red.: Alexander Geljewitsch Dugin wurde am 7. Januar 1962 in Moskau als Sohn eines sowjetischen Drei-Sterne-Generals und einer Ärztin geboren. Er spricht neun Sprachen, besitzt einen Doktortitel in Geschichts– und einen in Politikwissenschaft, ist verheiratet, hat zwei Kinder und gehört den Altorthodoxen an. Als Professor besitzt er einen Lehrstuhl für die Soziologie der internationalen Beziehungen an der Moskauer Staatsuniversität und fungiert seit längerer Zeit als Berater Putins in geopolitischen Fragen.
Beispiele bestehender Gruppierungen, die sich auf Dugins Theorie beziehen: Global Revolutionary Alliance, New Resistance, Eurasian Youth Union, International Eurasian Movement, Journal of Eurasian affairs, Eurasian Artists Association.
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mercredi, 23 octobre 2013
Herbert Marcuse and the Tolerance of Repression
Herbert Marcuse and the Tolerance of Repression 1
by Keith Preston
Ex: http://www.attackthesystem.com
“I am not bound to defend liberal notions of tolerance.” –Left-wing anarchist activist to the author
The rise of the New Left is typically considered to have its origins in the student rebellions of the late 1960s and early 1970s when the war in Vietnam was at its height and cultural transformation was taking place in Western countries with dizzying rapidity. Yet scholars have long recognized that the intellectual roots of the New Left were created several decades earlier through the efforts of the thinkers associated with the Institute for Social Research (commonly known as the “Frankfurt School”) to reconsider the essence of Marxist theory following the failure of the working classes of Western Europe to produce a socialist revolution as orthodox Marxism had predicted.
The support shown for their respective national states by the European working classes, and indeed by the Socialist parties of Europe themselves, during the Great War which had broken out in 1914 had generated a crisis of faith for Marxist theoreticians. Marx had taught that the working classes had no country of their own and that the natural loyalties of the workers were not to their nations but to their socioeconomic class and its material interests. Marxism predicted a class revolution that would transcend national and cultural boundaries and regarded such concepts as national identity and cultural traditions as nothing more than hollow concepts generated by the broader ideological superstructure of capitalism (and feudalism before it) that served to legitimize the established mode of production. Yet the patriotic fervor shown by the workers during the war, the failure of the workers to carry out a class revolution even after the collapse of capitalism during the interwar era, and the rise of fascism during the same period all indicated that something was amiss concerning Marxist orthodoxy. The thinkers of the Frankfurt School sought to reconsider Marxism in light of these events without jettisoning the core precepts of Marxism, such as its critique of the political economy of capitalism, alienation, and the material basis of ideological hegemony.
The Institute attracted many genuine and interesting scholars some of whom were luminaries of the unique and fascinating German intellectual culture of the era of the Weimar Republic. Among these were Max Horkheimer, Theodor Adorno, Otto Kirchheimer, Franz Neumann, and Erich Fromm. But the thinker associated with the Institute who would ultimately have the greatest influence was the philosopher and political theorist Herbert Marcuse (1898-1979). The reach of Marcuse’s influence is indicated by the fact that during the student uprisings in France during 1968, which very nearly toppled the regime of Charles De Gaulle, graffiti would appear on public buildings with the slogan: “Marx, Mao, Marcuse.” Arguably, there was no intellectual who had a greater impact on the development of the New Left than Marcuse.
When the Nazis came to power in 1933, Marcuse and other members of the Frankfurt School immigrated to the United States and reestablished the Institute at Columbia University in New York City. Marcuse became a United States citizen in 1940 and during World War Two was employed by the Office of War Information, Office of Strategic Services (the forerunner to the Central Intelligence Agency), and the U.S. Department of State. Throughout the 1950s and 1960s, Marcuse was a professor of political theory at Columbia, Harvard, Brandeis, and the University of California at San Diego. During his time in academia, Marcuse continued the efforts to revise Marxism in light of the conditions of an industrially advanced mid-twentieth century society. One of his most influential works was an effort to synthesize Marx and Freud, Eros and Civilization, published in 1955, and One Dimensional Man, a critique of the consumer culture of the postwar era and the integration of the traditional working classes into the consumer culture generated by capitalism. Both of these works became major texts for the student activists of the New Left.
Because of his legacy as an intellectual godfather of the New Left and the radical social movements of the 1960s and 1970s generally, Marcuse is not surprisingly a rather polarizing figure in contemporary intellectual discourse regarding those fields where his thinking has gained tremendous influence. Much of the curriculum of the humanities departments in Western universities is essentially derived from the thought of Marcuse and his contemporaries, particularly in sociology, anthropology, gender studies, ethnic studies, and studies of sexuality, but also in history, psychology, and literature. It is quite certain that if Marcuse and his fellow scholars from the Frankfurt School, such as Adorno and Horkheimer, were still alive today they would no doubt be regarded as god-like figures by contemporary leftist academics and students. From the other end of the political spectrum, many partisans of the political right, traditionalists, religious fundamentalists, nationalists, and social conservatives regard Marcuse as the personification of evil. Because the legacy of Marcuse’s work is so controversial and polarizing, it is important to develop a rational understanding of what his most influential ideas actually were.
Although he remained a Marxist until his death, Marcuse was never an apologist for the totalitarian regimes that had emerged in Communist countries. Indeed, he wrote in defense of dissidents who were subject to repression under those regimes, such as the East German dissident Rudolph Bahro. Marcuse considered orthodox Marxism as lacking concern for the individual and criticized what he regarded as the insufficiently libertarian character of Marxism. Like many associated with the New Left, he often expressed a preference for the writings of the younger Marx, which have a humanistic orientation inspired by the idealism of nineteenth century utopian socialism, as opposed to the turgid and ideologically rigid writings of the elder Marx. The thinkers of the Frankfurt School had also been influenced by the Weberian critique of the massive growth of bureaucracy in modern societies and strongly criticized the hyper-bureaucratic tendencies of both capitalist and communist countries as they were during the Cold War period.
Marcuse regarded the consumer culture that emerged during the postwar economic boom as representing a form of social control produced and maintained by capitalism. According to Marcuse, capitalist productivity had grown to the level where the industrial proletariat was no longer the impoverished wage slaves of Marx’s era. Economic growth, technological expansion, and the successes of labor reform movements in Western countries, had allowed the working classes to achieve a middle class standard of living and become integrated into the wider institutional framework of capitalism. Consequently, workers in advanced industrial societies no longer held any revolutionary potential and had become loyal subjects of the state in the same manner as the historic bourgeoisie before them. This by itself is not an original or even particularly insightful observation. However, Marcuse did not believe that the rising living standards and institutional integration of the working classes represented an absence of exploitation. Rather, Marcuse felt that the consumer culture made available by affluent industrial societies had multiple deleterious effects.
First, consumer culture had the effect of “buying off” the workers by offering them a lifestyle of relative comfort and material goods in exchange for their continuing loyalty to capitalism and indifference to struggles for social and political change. Second, consumer culture created a kind of a false consciousness among the public at large through the use of the advertising industry and mass media generally to inculcate the values of consumerism and to essentially create unnecessary wants and perceived needs among the population. The effect of this is that people were working more than they really needed to sustain themselves in order to achieve the values associated with consumer culture. This created not only the psychological damaging “rat race” lifestyle of the competitive capitalist workforce and marketplace, but generated excessive waste (demonstrated by such phenomena as “planned obsolescence,” for example), environmental destruction, and even imperialist war for the conquest of newer capitalist markets, access to material resources, and the thwarting of movements for self-determination or social change in underdeveloped parts of the world. Third, Marcuse saw a relationship between the domination of consumer culture and the outlandishly repressive sexual mores of the 1950s era (where the term “pregnant” was banned from American television, for instance). According to Marcuse, the consumerist ethos generated by capitalism expected the individual to experience pleasure through material acquisition and consumption rather than through sexual expression or participation. The worker was expected to forgo sex in favor of work and channel libidinal drives into consumerist drives. Material consumption was the worker’s reward for avoiding erotic pleasure. For this reason, Marcuse regarded sexual expression and participation (what he famously called “polymorphous perversity”) as a potential force for the subversion of the capitalist system. As the sexual revolution grew in the 1960s, student radicals would champion this view with the slogan “make love, not war.”
As the working class had ceased to be a revolutionary force, Marcuse began to look to other social groups as potentially viable catalysts for radical social and political change. These included the array of the traditionally subordinated, excluded, or marginalized such as racial minorities, feminists, homosexuals, and young people, along with privileged and educated critics of the status quo such as radical intellectuals. Marcuse personally outlined and developed much of the intellectual foundation of the radical movements of the 1960s and exerted much personal influence on leading figures in these movements. The Black Panther figure Angela Davis and the Youth International Party (“Yippie”) founder and “Chicago Seven” defendant Abbie Hoffman had both been students of Marcuse while he taught at Brandeis. However, it would be a mistake to regard Marcuse as having somehow been a leader or founder of these movements. Marcuse did not so much serve as a radical leader during the upheavals of the 1960s and 1970s as much as he was an interpreter of social and political currents that were then emerging and a scholar who provided ideas with which discontented thinkers and activists could identify. It is often argued by some on the political right that the thinkers of the Frankfurt School hatched a nefarious plot to destroy Western civilization through the seizure and subversion of cultural institutions. This theory suggests that radical Marxists came to believe that they must first control institutions that disseminate ideas such as education and entertainment in order to remove the false consciousness previously inculcated in the masses by capitalist domination over these institutions before the masses can achieve the level of radical consciousness necessary to carry out a socialist revolution. Those on the right with an inclination towards anti-Semitism will also point out that most of the luminaries of the Frankfurt School, such as Marcuse, were ethnic Jews.
Yet the cultural revolution of the 1960s and 1970s was the product of a convergence of a vast array of forces. The feminist revolution, for instance, had as much to do with the integration of women into the industrial workforce during World War Two while the men were absent fighting the war and the need for an ever greater pool of skilled workers in an expanding industrial economy during a time of tremendous technological advancement and population growth as it does with the ambitions of far left radicals. The real fuel behind the growth of the youth and student movements of the 1960s was likely the war in Vietnam and the desire of many young people of conscription age to avoid death and dismemberment in a foolish war in which they had no stake. The sexual revolution was made possible in large part by the invention of the birth control pill and the mass production of penicillin which reduced the health and social risks associated with sexual activity. The racial revolution of the era was rooted in centuries old conflicts and struggles that had been given new impetus by growing awareness of the excesses which occurred during the Nazi period. The heightened interest in environmental conservation, concerns for populations with serious disadvantages (such as the disabled or mentally ill), increased emphasis on personal fulfillment and physical and psychological health, and concern for social and political rights beyond those of a purely material nature all reflect the achievements and ambitions of an affluent, post-scarcity society where basic material needs are largely met. Suffice to say that the transformation of an entire civilization in the space of a decade can hardly be attributed to the machinations of a handful of European radicals forty years earlier.
There is actually much of value in the work of the Frankfurt School scholars. They are to be commended for their honest confrontation with some of the failings and weaknesses of Marxist orthodoxy even while many of their fellow Marxists continued to cling uncritically to an outmoded doctrine. Marcuse and his colleagues are to be respected for their skepticism regarding the authoritarian communist states when many of their contemporaries, such as Jean Paul Sartre, embraced regimes of this type with appalling naivete. The critique of consumer culture and the “culture industry” offered by Marcuse, Horkheimer, and others may itself be one-dimensional and lacking in nuance at times, but it does raise valid and penetrating questions about a society that has become so relentlessly media-driven and oriented towards fads and fashions in such a “bread and circuses” manner. However, while Marcuse was neither a god nor a devil, but merely a scholar and thinker whose ideas were both somewhat prescient and reflective of the currents of his time, there is an aspect to his thought that has left a genuinely pernicious influence. In 1965, Marcuse published an essay titled, “Repressive Tolerance,” which foreshadows very clearly the direction in which left-wing opinion and practice has developed since that time.
The essay is essentially an argument against the Western liberal tradition rooted in the thinking of Locke, with its Socratic and Scholastic precedents, which came into political reality in the nineteenth century and which was a monumental achievement for civilization. In this essay, Marcuse regurgitates the conventional Marxist line that freedom of opinion and speech in a liberal state is a bourgeois sham that only masks capitalist hegemony and domination. Of course, there is some truth to this claim. As Marcuse said:
But with the concentration of economic and political power and the integration of opposites in a society which uses technology as an instrument of domination, effective dissent is blocked where it could freely emerge; in the formation of opinion, in information and communication, in speech and assembly. Under the rule of monopolistic media – themselves the mere instruments of economic and political power – a mentality is created for which right and wrong, true and false are predefined wherever they affect the vital interests of the society. This is, prior to all expression and communication, a matter of semantics: the blocking of effective dissent, of the recognition of that which is not of the Establishment which begins in the language that is publicized and administered. The meaning of words is rigidly stabilized. Rational persuasion, persuasion to the opposite is all but precluded.
Marcuse proceeds from this observation not to advocate for institutional or economic structures that might make the practical and material means of communication or expression more readily available to more varied or dissenting points of view but to attack liberal conceptions of tolerance altogether.
These background limitations of tolerance are normally prior to the explicit and judicial limitations as defined by the courts, custom, governments, etc. (for example, “clear and present danger”, threat to national security, heresy). Within the framework of such a social structure, tolerance can be safely practiced and proclaimed. It is of two kinds: (i) the passive toleration of entrenched and established attitudes and ideas even if their damaging effect on man and nature is evident, and (2) the active, official tolerance granted to the Right as well as to the Left, to movements of aggression as well as to movements of peace, to the party of hate as well as to that of humanity. I call this non-partisan tolerance “abstract” or “pure” inasmuch as it refrains from taking sides – but in doing so it actually protects the already established machinery of discrimination.
This statement reflects the by now quite familiar leftist claim that non-leftist opinions are being offered from a position of privilege or hegemony and are therefore by definition unworthy of being heard. Marcuse argues that tolerance has a higher purpose:
The telos [goal] of tolerance is truth. It is clear from the historical record that the authentic spokesmen of tolerance had more and other truth in mind than that of propositional logic and academic theory. John Stuart Mill speaks of the truth which is persecuted in history and which does not triumph over persecution by virtue of its “inherent power”, which in fact has no inherent power “against the dungeon and the stake”. And he enumerates the “truths” which were cruelly and successfully liquidated in the dungeons and at the stake: that of Arnold of Brescia, of Fra Dolcino, of Savonarola, of the Albigensians, Waldensians, Lollards, and Hussites. Tolerance is first and foremost for the sake of the heretics – the historical road toward humanitas appears as heresy: target of persecution by the powers that be. Heresy by itself, however, is no token of truth.
This statement on its face might be beyond reproach were it not for its implicit suggestion that only leftists and those favored by leftists can ever rightly be considered among the ranks of the unjustly “persecuted” or among those who have truth to tell. Marcuse goes on to offer his own version of “tolerance” in opposition to conventional, empirical, value neutral notions of tolerance of the kind associated with the liberal tradition.
Liberating tolerance, then, would mean intolerance against movements from the Right and toleration of movements from the Left. As to the scope of this tolerance and intolerance: … it would extend to the stage of action as well as of discussion and propaganda, of deed as well as of word. The traditional criterion of clear and present danger seems no longer adequate to a stage where the whole society is in the situation of the theater audience when somebody cries: “fire”. It is a situation in which the total catastrophe could be triggered off any moment, not only by a technical error, but also by a rational miscalculation of risks, or by a rash speech of one of the leaders. In past and different circumstances, the speeches of the Fascist and Nazi leaders were the immediate prologue to the massacre. The distance between the propaganda and the action, between the organization and its release on the people had become too short. But the spreading of the word could have been stopped before it was too late: if democratic tolerance had been withdrawn when the future leaders started their campaign, mankind would have had a chance of avoiding Auschwitz and a World War.
The whole post-fascist period is one of clear and present danger. Consequently, true pacification requires the withdrawal of tolerance before the deed, at the stage of communication in word, print, and picture. Such extreme suspension of the right of free speech and free assembly is indeed justified only if the whole of society is in extreme danger. I maintain that our society is in such an emergency situation, and that it has become the normal state of affairs.
Here Marcuse is clearly stating that he is not simply advocating “intolerance” of non-leftist opinion in the sense of offering criticism, rebuttal, counterargument, or even shaming, shunning, or ostracism. What he is calling for is the full fledged state repression of non-leftist opinion or expression. Nor is this repression to be limited to right-wing movements with an explicitly authoritarian agenda that aims to subvert the liberal society. Marcuse makes this very clear in a 1968 postscript to the original 1965 essay:
Given this situation, I suggested in “Repressive Tolerance” the practice of discriminating tolerance in an inverse direction, as a means of shifting the balance between Right and Left by restraining the liberty of the Right, thus counteracting the pervasive inequality of freedom (unequal opportunity of access to the means of democratic persuasion) and strengthening the oppressed against the oppressed. Tolerance would be restricted with respect to movements of a demonstrably aggressive or destructive character (destructive of the prospects for peace, justice, and freedom for all). Such discrimination would also be applied to movements opposing the extension of social legislation to the poor, weak, disabled. As against the virulent denunciations that such a policy would do away with the sacred liberalistic principle of equality for “the other side”, I maintain that there are issues where either there is no “other side” in any more than a formalistic sense, or where “the other side” is demonstrably “regressive” and impedes possible improvement of the human condition. To tolerate propaganda for inhumanity vitiates the goals not only of liberalism but of every progressive political philosophy.
If the choice were between genuine democracy and dictatorship, democracy would certainly be preferable. But democracy does not prevail. The radical critics of the existing political process are thus readily denounced as advocating an “elitism”, a dictatorship of intellectuals as an alternative. What we have in fact is government, representative government by a non-intellectual minority of politicians, generals, and businessmen. The record of this “elite” is not very promising, and political prerogatives for the intelligentsia may not necessarily be worse for the society as a whole.
In this passage Marcuse is very clearly advocating totalitarian controls over political speech and expression that is the mirror image of the Stalinist states that he otherwise criticized for their excessive bureaucratization, economism, and repression of criticism from the Left. Marcuse makes it perfectly clear that not only perceived fascists and neo-nazis would be subject to repression under his model regime but so would even those who question the expansion of the welfare state (thereby contradicting Marcuse’s criticism of bureaucracy). Marcuse states this elsewhere in “Repressive Tolerance.”
Surely, no government can be expected to foster its own subversion, but in a democracy such a right is vested in the people (i.e. in the majority of the people). This means that the ways should not be blocked on which a subversive majority could develop, and if they are blocked by organized repression and indoctrination, their reopening may require apparently undemocratic means. They would include the withdrawal of toleration of speech and assembly from groups and movements which promote aggressive policies, armament, chauvinism, discrimination on the grounds of race and religion, or which oppose the extension of public services, social security, medical care, etc”
Marcuse’s liberatory socialism is in fact to be a totalitarian bureaucracy where those who criticize leftist orthodoxy in apparently even the slightest way are to be subject to state repression. This is precisely the attitude that the authoritarian Left demonstrates at the present time. Such views are becoming increasingly entrenched in mainstream institutions and in the state under the guise of so-called “political correctness.” Indeed, much of the mainstream “anarchist” movement reflects Marcuse’s thinking perfectly. These “anarchists” ostensibly criticize statism, bureaucracy, capitalism, consumerism, imperialism, war, and repression, and advocate for all of the popular “social justice” causes of the day. “Tolerance” has ostensibly become the ultimate virtue for such people. Yet underneath this “tolerance” is a visceral and often violent hostility to those who dissent from leftist orthodoxy on any number of questions in even a peripheral or moderate way. Indeed, the prevalence of this leftist intolerance within the various anarchist milieus has become the principle obstacle to the growth of a larger and more effective anarchist movement.
A functional anarchist, libertarian, or anti-state movement must first and foremost reclaim the liberal tradition of authentic tolerance of the kind that insists that decent regard for other people and a fair hearing for contending points of view on which no one ultimately has the last word must be balanced with the promulgation of ideological principles no matter how much one believes these principles to be “true.” A functional and productive anarchist movement must recognize and give a seat at the table to all of the contending schools of anarchism, including non-leftist ones, and embrace those from overlapping ideologies where there is common ground. A serious anarchist movement must address points of view offered by the opposition in an objective manner that recognizes and concedes valid issues others may raise even in the face of ideological disagreement. Lastly, a genuine anarchist movement must realize that there is no issue that is so taboo that is should be taken off the table as a fitting subject for discussion and debate. Only when anarchists embrace these values will they be worthy of the name.
Sources:
William S. Lind. The Origins of Political Correctness. Accuracy in Academica. 2000. Archived at http://www.academia.org/the-origins-of-political-correctness/. Accessed on May 12, 2013.
Herbert Marcuse. Repressive Tolerance. 1965, 1968. Archived at http://www.marcuse.org/herbert/pubs/60spubs/65repressivetolerance.htm Accessed on May 12, 2013.
Martin Jay. The Dialectical Imagination: A History of the Frankfurt School and the Institute of Social Research. University of California Press, 1966.
http://en.wikipedia.org/wiki/Herbert_Marcuse – cite_note-marcuse.org-9
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La mitología de la modernidad
por Dalmacio Negro
Ex: http://paginatransversal.wordpress.com
Minorías organizadas en lobbies reivindican como conquistas democráticas las cosas más absurdas.
El estado de naturaleza, la doctrina de la soberanía político-jurídica, el contractualismo, el Estado, la Sociedad, y el ciudadano como el hombre perfecto son los grandes mitos que subyacen en el subsuelo de las constituciones modernas, cajas de Pandora del artificialismo imperante en las relaciones humanas.
1.- Luís Díez del Corral observó hace tiempo en La función del mito clásico en la literatura contemporánea, que los mitos clásicos habían perdido su expresividad originaria y Manfred Frak dedicó más tarde algunos libros a “la nueva mitología” de la modernidad. El libro del jurista italiano Danilo Castellano Constitución y constitucionalismo, una espléndida síntesis, breve y muy clara, sobre la naturaleza del constitucionalismo nacido de las revoluciones modernas y sus vicisitudes, sugiere que el constitucionalismo descansa en doctrinas que operan como mitos.
2.- La tendencia más característica del pensamiento moderno interrumpió la mayor de las revoluciones imaginables: la desacralización del mundo que llevaba a cabo el cristianismo. La cultura de la civilización occidental, incluida la resurrección de la mitología, en este caso artificialista -una manera de desacralizar que, al prescindir de su causa, aniquila la vida natural-, tiene la impronta de esa desacralización o desdivinización de la Naturaleza, que suele describirse como secularización, palabra que, si significa algo, es la tendencia a la politización de la vida.
Aparte de hechos como el cambio en la imagen del mundo con los descubrimientos, etc., contribuyeron en el plano intelectual a la nueva mitologización la influencia de la Pólis griega de la mano del humanismo, según la tesis, que se pasa demasiado por alto, del alemán Paul Joachimsen, el suizo Werner Naef o el español Álvaro d’Ors; la del gnosticismo según Voegelin y la reducción del poder a sus connotaciones inmanentistas, de lo que dio Maquiavelo fe notarial. La Reforma protestante les dejó libre el campo al separar la razón (eine Hure, una prostituta según Lutero), de fe, rompiendo la relación entre este mundo y el sobrenatural, del que, como reafirmó el gran teólogo Urs von Balthasar, depende el mundo natural.
Los fundadores de la ciencia moderna estaban convencidos de que Dios había ordenado racionalmente la Creación, siendo posible por tanto conocer mediante la razón las leyes que la gobiernan. Sin embargo fue fundamental el auge de la ciencia, a pesar de haberla hecho posible la desacralización de la Naturaleza, que ahuyentó las creencias ancestrales en signos, fuerzas, seres misteriosos y supersticiones, para reactivar las explicaciones mitológicas: las ideas tienen consecuencias y una de las más peligrosas puede ser su divulgación, como gustaba sugerir Leo Strauss y la ciencia se divulgó como un medio de emancipación del mundo natural de su dependencia del sobrenatural. Algo parecido ha ocurrido con la teoría de la relatividad de Einstein. Al popularizarse la idea, ha contribuido poderosamente a difundir la creencia en que no hay verdades objetivas, impulsando el relativismo moral tan de moda.
3.- La conocida tesis de René Girard de que existe una lucha permanente entre el polémico logos griego de Heráclito y el logos del evangelio de San Juan, resume muy bien el proceso desencadenado en el mundo moderno, en el que se habría impuesto el logos naturalista, de naturaleza mítica. La teología, como fuente de la verdad del orden universal, era considerada el saber supremo en la jerarquía de los saberes. Pero la metafísica empezó a separarse de ella y ante el fracaso de la teodicea (“justificación de Dios”) de la metafísica racionalista, incapaz de demostrar la existencia de Dios, se empezó a poner la fe en la ciencia natural. Separado este mundo del sobrenatural por la Reforma,la ciencia da por lo menos certezas y seguridad acerca de las cosas terrenas.
Esa tendencia del pensamiento moderno impulsada por la metafísica armada con la ciencia, devino una creencia colectiva en la época romántica caracterizada por la revalorización, a la verdad un tanto inconsciente, de la mitología en la que se inserta el constitucionalismo.
4.- Decía Cassirer al comienzo de su libro El mito del Estado: «la preponderancia del pensamiento mítico sobre el racional en algunos de nuestros sistemas políticos modernos es manifiesta». Cassirer se quedó corto al decir “algunos”, seguramente porque el libro vio la luz en 1946. Él mismo afirma casi a continuación que «en la vida práctica y social del hombre, la derrota del pensamiento racional parece ser completa e irrevocable. En este dominio, el hombre moderno parece que tuviera que olvidar todo lo que aprendió en el desarrollo de su vida intelectual. Se le induce a que regrese a las primeras fases rudimentarias de la cultura humana. En este punto, remachaba Cassirer, el pensamiento racional y el científico confiesan abiertamente su fracaso; se rinden a su más peligroso enemigo».
El progreso del pensamiento mítico a partir de esa fecha, evidencia la claudicación del pensamiento racional y el científico. Es más, este último, en su degeneración ideológica, el cientificismo, produce continuamente infinidad de nuevos mitos. Recientemente, los mitos de las “ideologías de la estupidez” (A. Glucksmann), entre ellas las bioideologías, intelectualmente endebles pero muy poderosas dada la debilitación del pensamiento por el auge de esa estupidez que había detectado ya Robert Musil; por la destrucción del sentido común denunciada por Alfred N. Whitehead; por ”el oscurecimiento de la inteligencia” advertido por Michele Federico Sciacca; por la “derrota del pensamiento” constatada por Alain Finkielkraut;… En fin, por la infantilización diagnosticada por Tocqueville como una pandemia a la que es propensa la democracia y fomentan las oligarquías para afirmar su poder.
Los mitos que alberga el modo de pensamiento ideológico, dominan hoy el panorama de las ideas, entre ellas las políticas, jurídicas y sociales. Según el sociólogo Peter Berger, nuestra época es una de las más crédulas que han existido. Sin duda por la apariencia de cientificidad de que se revisten ideas de las que se aprovechan minorías para hacer su negocio.
5.- El profesor Castellano busca el lazo común entre los tres constitucionalismos que distingue: dos europeos, el constitucionalismo “continental” a la francesa y el “insular” inglés, y el extraeuropeo “estadounidense”. No obstante, existe una diferencia entre los anglosajones y el francés: y este último pretende desde su origen ser algo así como la cuadratura del círculo de la mitología política moderna, cosa que no pretenden los otros, más enraizados en la realidad meta-antropológica (von Balthasar), que en la visión meta-física moderna.
Los sistemas políticos que imitan el constitucionalismo a la francesa son prácticamente míticos. De ahí su naturaleza intrínsecamente revolucionaria, pues la Gran Revolución aspiraba a recomenzar la historia partiendo del Año Cero (1789), en contraste con los otros dos, que, menos metafísicos y antiteológicos, eran conservadores, como sentenció Macauley, en tanto no partían del Derecho -la Legislación- como un instrumento revolucionario, sino de la libertad como un presupuesto meta-antropológico cuya protección es, justamente, la razón de ser del Derecho.
En efecto, el verdadero sujeto del constitucionalismo continental no es el hombre libre sino, igual que en la Pólis,el ciudadano, una creación legal en tanto miembro de una comunidad artificial, la estatal.
6.- ¿Cuál es el fundamento intelectual del constitucionalismo? La lógica de la vida colectiva y del orden social es el Derecho de manera parecida a como lo es la Matemática en el orden de la naturaleza. Pero mientras aquella es práctica, empírica, puesto que pertenece al mundo de la libertad, la de la Matemática es teórica, deductiva, puesto que su mundo es el de la necesidad. El Derecho es por tanto el fundamento de los órdenes humanos concretos, en contraste con lo que llama Castellano «la tesis de la geometría legal», según la cual, «el derecho no es el elemento ordenador de la comunidad política (y, por tanto, bajo un cierto prisma preexistente a ella), sino que nacería con el Estado, que -a su vez- se generaría por el contrato social». Esta es la clave del constitucionalismo continental, que instrumentaliza el Derecho poniéndolo al servicio de la política estatal, una política distinta de la sometida al Derecho. De ahí el auge de la politización a través de la Legislación.
7.- El jusnaturalismo racionalista, que fundamenta el constitucionalismo, continuaba formalmente la tradición medieval de la omnipotentia iuris. Pero mientras el antiguo Derecho Natural se asienta como indica su nombre en la naturaleza de las cosas y en la costumbre, el nuevo descansa en la concepción puramente meta-física que excluye la teología (Grocio, Alberigo Gentile, Hobbes…). La anterior omnipotentia iuris, que pervive como un residuo, descansaba en la tradición del Derecho Natural para la que el orden cósmico es congruente con la naturaleza humana. La moderna se rige por el ingenuo jusnaturalismo racionalista, causa del artificialismo político, social, jurídico y moral, pues no se atiene a lo natural, tal como lo muestran las costumbres y la experiencia, sino a la recta ratio. Ésta construye el orden social como un producto abstracto al que ha de adaptarse la naturaleza humana.
8.- ¿Por qué es ingenuo este derecho natural?
En primer lugar, porque al ser puramente racional, “teórico”, su contenido queda a merced de la voluntad, con lo que su racionalidad depende de la coincidencia o no con la realidad empírica, con las costumbres, los usos y las tradiciones de la conducta. En segundo lugar, porque descansa en el mito del contractualismo político, liberador de otro mito, el del estado de naturaleza. Éste es un mito bíblico, pero en el sentido del mito como una forma de expresar la realidad. Idea que, vulgarizada, impulsó el romanticismo. «Para los verdaderos románticos, dice Cassirer, no podía existir una diferencia señalada entre la realidad y el mito; cabía ahí tan poco como entre poesía y verdad».
9.- Hobbes convirtió el estado de naturaleza caída del que hablaban los Padres de la Iglesia en el mito fundacional que justifica otro gran mito: el del contrato político, que, a pesar de la critica de Hume, dio origen a una interminable serie de mitos como el del poder constituyente, al que dedica Castellano un capítulo. Hume no pudo tampoco impedir que su neurótico amigo, el calvinista Rousseau, radicalizase el contractualismo. Hobbes se había contentado con distinguir lo Político y lo Social como el Estado y la Sociedad que, en cierto modo, se limitaban entre sí, puesto que la moral seguía dependiendo de la Iglesia. Rousseau los unificó en un sólo contrato, el contrato social, para acabar con la Iglesia y restaurar el estado de naturaleza, que en su opinión no era cainita como suponía Hobbes, sino todo lo contrario. La supresión o superación del dualismo hobbesiano, será una obsesión desde el romanticismo .
10.- Una consecuencia de la Gran Revolución es la consideración de la revolución como fuente de legitimidad, pues su idea central consistía en garantizar los Derechos del hombre y del ciudadano frente al despotismo monárquico. Mientras los otros dos constitucionalismos se contentaban con garantizar las libertades naturales mediante el Derecho, el francés trasladó el derecho divino de los reyes en el que se apoyaba la no menos mítica soberanía estatal al ciudadano. El ciudadano es el mito clave del constitucionalismo, cuya causa final consiste en la potenciación de la ciudadanía aunque vaya en detrimento de la libertad, pues el ciudadano no es el hombre libre por naturaleza sino una construcción legal, que reserva la ciudadanía para unos pocos, la burguesía revolucionaria triunfante, el tercer estado de Sieyés, una clase económica.
11.- El socialismo se enfrentó a esta situación fáctica, manifiestamente injusta, reivindicando no la igualdad formal, legal inherente a la libertad política, sino la igualación material de todos para establecer la ciudadanía universal. No se opone, pues, al espíritu burgués sino que quiere extenderlo a todas las clases: la verdadera democracia consiste en que participen todos como ciudadanos de las comodidades, placeres y bienestar de la burguesía. Algo así como una clase media universal de espíritu bourgeois. En su versión pacifista, el “socialismo evolutivo” (Bernstein), que prefiere la revolución legal a la revolución violenta, pacta con el odiado capitalismo, igual que había pactado antes la monarquía con la burguesía para afirmar su poder. La socialdemocracia es un capitalismo estatista que identifica el progreso y la democracia con el aburguesamiento universal .
12.- El ciudadano de la Pólis griega combinado por Rousseau con el creyente calvinista de su Ginebra natal -el propio Rousseau- aderezado con la visión de la vida campesina, es la figura central del constitucionalismo. El mito del ciudadano unirá luego los tres constitucionalismos bajo la rúbrica, anota Danilo Castellano, del pluralismo de la ideología de los derechos humanos, más que mítica supersticiosa, si creer en los derechos humanos es, al decir de MacIntyre, como la creencia en las brujas y los unicornios. Las ideologías, llevadas por su lógica y por la demagogia, al instalar como su principio el derecho a la autodeterminación individual, han llegado así al punto en que, sin quererlo, disuelven los órdenes políticos fundados en el constitucionalismo, abstractos por su concepción pero concretos gracias a la presión del poder político.
Ha surgido así un nuevo estado de naturaleza de guerra de todos contra todos fundado en el artificialismo, en el que minorías organizadas en lobbies reivindican como conquistas democráticas las cosas más absurdas. Entre ellas, están alcanzando una gran intensidad política las relacionadas con la “cuestión antropológica”, la última producción de la ideología de la emancipación. Este artificioso estado de naturaleza necesita sin duda de un nuevo constitucionalismo que contenga la destrucción del Estado, de la democracia, de la Sociedad, y, en último análisis, de la cultura y la civilización.
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mardi, 22 octobre 2013
Clément Rosset: Faits divers...
Faits divers...
Les Presses universitaires de France viennent de publier Faits divers, un recueil de textes de Clément Rosset. Philosophe du réel tragique et joyeux, Clément Rosset est notamment l'auteur de La philosophie tragique (PUF, 1960), Logique du pire (PUF, 1971), L'Anti-nature (PUF, 1973) , Le réel et son double (Gallimard, 1976), La Force majeure (Éditions de Minuit, 1983) ou de Principes de sagesse et de folie (Éditions de Minuit, 1991).
" Gilles Deleuze, les vampires, Emil Cioran, Samuel Beckett, le dandysme, Friedrich Nietzsche, Raymond Roussel, Casanova, Arthur Schopenhauer, Jean-Luc Godard, Goscinny & Uderzo, Jean-Paul Sartre, Hugo von Hofmannsthal. Le réel, le double, l’illusion, le tragique, la joie, la musique, la philosophie, la politique, le péché, l’enseignement. Faits divers sont les miscellanées de Clément Rosset : le répertoire désordonné et jubilatoire de ses passions et de ses dégoûts, de ses intérêts et de ses bâillements, de ses tocades et de ses coups de sang – ainsi que de la prodigieuse liberté de ton et de pensée avec laquelle il les exprime et les pense. Un des philosophes, un des écrivains les plus singuliers de notre temps revisite les coulisses de son œuvre. Et vous êtes invités. "
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vendredi, 18 octobre 2013
Les aléas de la liberté de conscience
Les aléas de la liberté de conscience
Refuser l’objection de conscience face aux réformes sociétales, c’est en revenir au principe totalitaire selon lequel l’État a toujours raison.
Le développement récent des réformes “sociétales” — c’est-à-dire concernant les moeurs, l’éthique, la liberté individuelle, la famille, le couple et les comportements — rend plus légitime encore qu’auparavant un questionnement sur la liberté de conscience et même sur l’objection de conscience. Car tout cela ressort au domaine de l’infiniment discutable, concerne l’intime et les convictions profondes sur ce qu’est un humain, ce qu’il lui faut, ce qu’il doit rechercher.
On peut avoir l’impression que nous sommes justement arrivés au bon moment de l’Histoire pour défendre la liberté de conscience. C’est le nazisme qui en est l’occasion. Voir ces bourreaux qui ont obéi comme des fantassins aveugles à des ordres barbares et qui se trouvaient capables, des dizaines d’années après, de légitimer encore leur allégeance, cela nous a révulsés au point de nous inciter à toujours défendre la conscience individuelle. La hantise du bourreau fidèle aux ordres a même suscité chez nous une méfiance instinctive du côté institutionnel des choses, à ce point que les groupes les plus conformistes se prétendent indépendants d’esprit. Nous vivons à une époque où tout le monde se prend pour Antigone.
Il est donc assez déconcertant de voir les réponses données à ceux qui en appellent à la liberté de conscience, et même à l’objection de conscience, face aux réformes sociétales dont le gouvernement actuel semble s’être fait une spécialité, et particulièrement face au mariage homosexuel. On leur rétorque qu’ils ne sont pas républicains, car allant à l’encontre de l’égalité républicaine, et aussi homophobes, évidemment. Nantis de ces tares rédhibitoires, ils n’ont évidemment pas droit à la décision individuelle, à vrai dire ils n’ont même pas de conscience, puisqu’ils s’opposent à la seule vérité sociopolitique.
Autrement dit, nous retournons subrepticement à ce que le combat antitotalitaire avait réussi à démanteler : le positivisme — c’est-à-dire l’idée selon laquelle l’État a toujours raison, parce qu’il est l’État. Dans notre cas, il faudrait plutôt dire : ce qui est consacré républicain (progressiste, égalitariste, émancipateur) a toujours raison.
Il faut bien rappeler que la conscience personnelle, celle d’Antigone, celle de l’objection de conscience, représente exactement le contraire du positivisme. Elle présuppose, si elle existe ou plutôt si elle est légitimée (car elle existe même si personne ne la reconnaît), qu’aucune instance supérieure ne peut prétendre avoir toujours raison. Et que le dernier mot, toujours particulier et relatif, revient à la conscience personnelle — ce qui suppose évidemment que l’être humain soit une personne et non un individu programmé par l’État, formaté par l’École.
C’est seulement dans ce cadre que la liberté de conscience existe : si l’idéal républicain, passe au second rang, après la conscience personnelle — autrement dit, si l’on imagine que le progressisme tout-puissant peut être jugé ! Faute de quoi nous en revenons au positivisme, qui était la tare principale des deux totalitarismes, donc du nazisme contre lequel nous ne cessons de lutter.
On ne peut pas porter les antifascistes sur le bouclier de la gloire et ne pas permettre aux maires de récuser le mariage gay en leur âme et conscience. Si la conscience d’Antigone existe et si elle doit être révérée, ce n’est pas seulement pour lutter contre le nazisme et contre les dictateurs exotiques. C’est aussi pour juger les croyances de notre République et dénoncer ses excès, ses abandons, ses lois scélérates. La conscience d’Antigone n’est pas un outil qu’on saisit quand cela nous arrange — pour fustiger Papon ou crier haro sur les accusés des tribunaux internationaux, complices de gouvernements criminels. Et qu’on mettrait sous le boisseau, réclamant dès lors l’obéissance absolue, quand cela nous sied — devant l’égalité républicaine, devant la souveraineté de la pensée d’État. Brandir une théorie pour ses adversaires et la décréter inepte dès qu’elle s’applique à soi : c’est la spécialité des imbéciles, et des idéologues.
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vendredi, 11 octobre 2013
Le communautarisme selon Costanzo Preve
Le communautarisme selon Costanzo Preve
par Georges FELTIN-TRACOL
Né en Italie en 1943 de parents italo-arméniens, Costanzo Preve est très tôt attiré par la philosophie et l’histoire. Étudiant à Paris, il suit les cours de Louis Althusser et fréquente Gilbert Mury et Roger Garaudy. Le jeune Preve ne cache pas sa sensibilité marxiste. Enseignant la philosophie au lycée de 1967 à 2002, il prend sa carte au P.C.I. en 1973 avant de rejoindre en 1975 la mouvance gauchiste (Lotta Continua, Democrazia Proletaria), puis, ensuite, le Parti de la Refondation communiste. il abandonne tout militantisme à partir de 1991. Les prises de position de certains de ses « camarades » révolutionnaires en faveur de l’intervention occidentale contre l’Irak l’invitent à réfléchir si bien qu’en 2004, il adhère le Camp anti-impérialiste et collabore à des revues d’opinions très variées, de Comunismo e Comunità à Italicum en passant par Krisis, Eurasia, Comunità e Resistenza ou Bandiera rossa…
Auteur prolifique, Costanzo Preve n’a pour l’heure que deux ouvrages traduits en français dont l’un, effectué par son ami Yves Branca qui en assume aussi la présentation, est un Éloge du communautarisme. Bien que préfacé par Michel Maffesoli, l’observateur attentif des nouvelles tribus, des communautés spontanées du temps de la Toile numérique et de la « post-modernité » exubérante, il ne faut pas se méprendre sur son sens. Homme de « gauche » (les guillemets ont leur importance), Costanzo Preve n’est pas un théoricien communautarien, ni un communautariste comme l’entendent les vierges effarouchées décaties de la République hexagonale outragée (qui le mérite bien d’ailleurs)… Son point de vue ne se confond pas « avec les partisans de ces quatre formes pathologiques de communautarisme, qui sont à rejeter résolument et sans remords (p. 27) », à savoir les communautés locales et provinciales, le « communautarisme organiciste », le nationalisme et le fascisme, et le communautarisme ethnique fossoyeur des États-nations. Cet Éloge se veut principalement une réflexion philosophique et historique sur la notion de communauté à l’heure du triomphe du libéralisme. Sa démarche s’appuie sur de solides références intellectuelles : Aristote, Hegel et Marx. D’après ce dernier, « son affirmation de la “ lutte des classes ” est indéniable, mais à ses yeux, la lutte des classes n’était qu’un moyen pour arriver à une fin : la communauté précisément (p. 28) ».
Avec la modernité et la fin de la société holiste, comment l’individu peut-il s’insérer dans des communautés sans que celles-ci ne deviennent pour lui des cadres d’aliénation ? Telle est la problématique que pose l’auteur avec une évidente sincérité. « Tout éloge véritable qui n’est pas une adulation hypocrite ne doit pas dissimuler les défauts de son propre objet; c’est, au contraire, s’il les met en évidence qu’il mérite le titre d’ “ éloge ” (p. 29). »
Communautés natales contre communautarisme artificiel
Après bien d’autres, Costanzo Preve affirme que « l’homme est par nature un être social et communautaire, ou plus précisément un être naturel générique (p. 212) ». Or, « dans la tradition occidentale, l’idée de communauté (ou plus exactement de communauté politique démocratique) naît avec l’élément potentiellement dissolvant qui lui est conjoint, c’est-à-dire l’individu libre et pensant, lequel pense souvent à l’encontre des membres de sa communauté même (p. 30) ». Il précise même : « Si nous entendons sortir d’un enfermement provincial et voulons adhérer à un processus historique d’universalisation humaine qui soit autre chose que son actuelle parodie, laquelle universalise uniquement la forme-marchandise qui uniformise tous les êtres humains selon le seul modèle du producteur et du consommateur manipulé, nous ne pouvons éviter la question cruciale de ce qui peut être le meilleur point de départ d’un dialogue entre les communautés et les civilisations du monde. Ce ne saurait être l’individu isolé, l’individu – atome, qualifié quelquefois tout simplement de “ multiculturel ”, comme si un atome multiculturel pouvait cesser d’être un atome; mais seulement un individu social, ce qui signifie : un individu dans une communauté. Dès lors, je ne vois pas pourquoi l’on ne pourrait appeler “ communautarisme ” le point de vue de l’individu situé dans une communauté, fût-ce, cela va de soi, d’une manière critique et anticonformiste (p. 29). » En dépit de ses défauts, « la communauté est le seul lieu où l’homme contemporain puisse réaliser conjointement sa double nature rationnelle et sociale (p. 239) », d’où son souhait d’un communautarisme universaliste et progressif, car « la solidarité et la liberté sont l’une et l’autre nécessaires (p. 240) ». L’auteur relève toutefois que le processus de modernité n’arrive pas à éliminer la forme communautaire en tant que donnée permanente. Il peut l’écarter, l’exclure, la contenir, mais pas l’effacer. C’est la raison pour laquelle « le capitalisme tend à détruire et à dissoudre les communautés souveraines, pour créer à la place des communautés factices (p. 225) ». Le Système vomit l’enracinement tout en encensant simultanément une soi-disant culture gay élaborée par d’une nouvelle communauté dont la consistance historique serait tout aussi probante que celles des Bretons, des Basques ou des Corses.
Si le Système valorise des communautés nouvelles à l’appartenance subjective incertaine (à quand des quotas légaux aux élections pour les philatélistes, les ramasseurs de champignons ou les porteurs de lunettes ?), il n’hésite pas, le cas échéant, à fomenter « l’ethnicisation et la régionalisation des conflits [qui] forment par conséquent des terrains d’intervention et d’intrusion contre les peuples et les nations (p. 50) ». Contre ce dévoiement pernicieux, Costanzo Preve qui juge vaines les recherches en faveur d’une troisième voie sérieuse, lie son « communautarisme » à l’idéal communiste. « On peut définir le communisme, brièvement, comme une forme radicale et extrême de communautarisme (p. 73). » Mieux, ce communisme s’épanouit au sein d’un ensemble collectif d’ordre civique. « La politique est une propriété indivise de la communauté toute entière (p. 68). » Un marxisme bien compris devient de la sorte un facteur d’épanouissement. Par conséquent, « oubliez tout ce que vous avez cru savoir sur Marx et le marxisme ! (p. 154) », car « Marx s’est trouvé incorporé dans un appareil idéologique qui ne fut d’abord que politique et syndical, mais qui devint ensuite véritablement étatique et géopolitique (p. 154) ». L’auteur réhabilite la conception marxiste de la nation et mentionne Otto Bauer, les austro-marxistes ainsi que Staline. « L’idée de nation faisait partie intégrante de la tradition marxiste et socialiste (p. 198). »
Costanzo Preve témoigne son attachement à la nation qui lui paraît la communauté la plus appropriée pour le partage d’un destin commun. Le Système agresse sans cesse l’idée nationale. L’auteur note que « le nouveau cycle de guerres qui s’est ouvert par la honteuse dissolution du communisme historique réel du XXe siècle (qu’il faut appeler ainsi pour le distinguer du communisme utopico-scientifique de Marx – cet oxymore étant évidemment volontaire) a pour logique la formation d’un Nouvel Ordre Mondial (pp. 38 – 39) ». Pis, « le monde actuel, qui se présente sous le mensonge d’une démocratie libérale fondée sur la religion universaliste des droits de l’homme, est en réalité un totalitarisme de l’économie, géré par une oligarchie politique qui se légitime moyennant des référendums périodiques, lesquels supposent la totale impuissance des opposants en fait de projet. La dictature de l’économie ne se présente plus sous la forme de celle, ridiculement faible et instable, de personnages politiques solitaires et charismatiques comme Mussolini, Hitler, Franco, Peron, Staline ou Tito, mais désormais sous la forme infiniment plus puissante de la dictature de forces et de grandeurs rigoureusement anonymes et impersonnelles, et partant invincibles : les “ marchés ”, la “ productivité ”, la “ concurrence internationale ”, le “ vieillissement de la population ”, l’« impossibilité de sauvegarder le système de la sécurité sociale et des retraites », etc. Si la forme personnelle et dilettante des vieilles dictatures politiques charismatiques s’est révélée une espèce fragile d’un point de vue darwiniste, la nouvelle forme “ professionnelle ” de la dictature systémique et impersonnelle de quantités économiques affranchies de tout “ anthropomorphisme ” paraît plus stable (p. 55) ».
La démocratie subvertie par le mondialisme
L’auteur souligne enfin que « la démocratie ne garantit pas la justesse de la décision; bien au contraire, avalisant de son autorité des choix criminels, elle est pire encore que la tyrannie, parce que celle-ci, en tant qu’origine constante de décisions arbitraires et criminelles, est au moins facile à démasquer, tandis qu’en démocratie, le style “ vertueux ” et légal des décisions prises à la majorité réussit le plus souvent à cacher la nature homicide de certains choix sous le rideau de fumée des formes institutionnellement corrects (p. 67) ». La célébration irréfléchie de la démocratie moderne individuelle, voire individualiste, bouleverse l’agencement géopolitique planétaire. « Le monde précédent, qu’il s’agit de détruire, est celui du droit international des relations entre États souverains, celui de la négociation entre sphères d’intérêts et d’influence, le monde du droit de chaque nation, peuple et civilisation à choisir souverainement ses propres formes de développement économique et civil (p. 39). » Le Nouvel Ordre Mondial prépare désormais « l’inclusion subalterne de tous les peuples et nations du monde dans un unique modèle de capitalisme libéral, où ce qui sera le plus défendu, même et surtout par les armes, sera moins l’entrée que, justement, la sortie (p. 39) ». Il favorise l’éclatement des États en privilégiant les communautarismes subjectifs, volontaires ou par affinité. « Cent ou cent cinquante États souverains dans le monde sont à la fois trop, et trop peu, pour la construction d’un Nouvel Ordre Mondial. Trop, parce qu’il y en a au moins une trentaine qui sont pourvus d’une certaine consistance et autonomie économique et militaire, ce qui complique les manèges pour arriver au contrôle géostratégique de la planète. Mais en même temps peu, parce que si l’on vise un contrôle géopolitique et militaire plus commode, l’idéal n’est pas le nombre actuel des États; ce serait un panorama de mille ou deux mille États plus petits, et donc plus faibles militairement, plus vulnérables au chantage économique, formés par la désagrégation programmée et militairement accélérée des anciens États nationaux divisés comme une mosaïque selon l’autonomie de toutes les prétendues “ ethnies ” qui sont présentes sur leur territoire (pp. 49 – 50). »
Dans cette nouvelle configuration pré-totalitaire apparaît la figure utilitaire du terroriste qui « représente un ennemi idéal, parce qu’étant par nature sans territoire propre, il semble avoir été fait exprès pour les forces qui veulent précisément “ déterritorialiser ” le monde entier, en ruinant l’indépendance des peuples et des nations et la souveraineté des États. Pour ces forces, le monde doit être transformé en une sorte d’« espace lisse », sans frontières, adéquat à la rapide fluidité des investissements des capitaux et de la spéculation financière, il faut donc qu’il n’y ait plus de “ territoires ” pourvus d’une souveraineté nationale et économique indépendante (p. 47) ».
Il existe bien entendu d’autres formes de pression totalitaires. Par exemple, « l’agitation permanente de la bannière de l’antifascisme en l’absence complète de fascisme, ou de celle de l’anticommunisme sans plus de communisme, doit être interprété comme le symptôme d’un déficit de légitimation idéale de la société contemporaine (p. 91) ». Attention quand même aux contresens éventuels. Costanzo Preve ne se rallie pas à l’« extrême droite ». Il affirme plutôt que « l’antifascisme ne fut pas seulement un phénomène historiquement légitime, ce qui est évidente, mais un moment lumineux de l’histoire européenne et internationale (p. 190) ». Il souligne que « Auschwitz est injustifiable, mais l’extermination technologique de la population d’Hiroshima et de Nagasaki l’est tout autant, tout comme l’anéantissement de Dresde, à quelques semaines de la fin de la guerre, dont les auteurs furent récompensés par des médailles, au lieu d’être enfermés dans des prisons spéciales. Treize millions d’Allemands furent déportés par des décisions prises à froid et sans aucune raison stratégique, la guerre étant terminée, à partir de terres allemandes comme la Prusse et la Silésie. Au cours de leur transfert, il y eut plus de deux millions de morts, auxquels s’ajoutèrent un million sept cent mille Allemands qu’après la fin de la guerre, en pleine reprise de la surproduction alimentaire, on laissera mourir de faim dans les camps de concentration français et américains (pp. 192 – 193) ».
Un communautarisme des Lumières ?
Sous les coups violents du Nouvel Ordre Mondial, la société européenne se transforme, contrainte et forcée. Dénigrées, contestées, méprisées, les vieilles communautés traditionnelles sont remplacées par des communautés artificielles de production et de consommation marchande. Costanzo Preve décrit avec minutie les ravages planétaires de l’hybris capitaliste. Si « le capitalisme aime habiller les jeunes gens et à leur imposer par là, au travers de nouvelles modes factices, des profils d’identification pseudo-communautaire. Cela se fait surtout par le phénomène du branding, c’est-à-dire du lancement de marques. […] Il est de règle que le capitalisme, non content d’habiller le corps des jeunes déshabille celui des femmes. D’où sa frénésie contre l’islam, dont l’hostilité s’étend jusqu’au foulard le plus discret, mais aussi son irrésistible pulsion vers les minijupes et les showgirls très dévêtues des jeux télévisés (pp. 216 – 217) ». Il perçoit en outre que « le capitalisme ne vise […] pas à faire de vieillards une communauté séparée, mais cherche plutôt à réaliser leur complète ségrégation (p. 219) » parce que « dans l’imaginaire capitaliste, la mort elle-même paraît obscène, parce qu’elle interrompt définitivement la consommation (p. 218) ». Le Système fait assimiler implicitement le vieillissement, la vieillesse avec la disparition physique… Quant à une métastase de ce capitalisme mortifère, le féminisme, ses revendications font que « pour la première fois dans l’histoire de l’humanité, la figure asexuée de l’entrepreneur réalise le rêve (ou plutôt le cauchemar) du pur androgyne (p. 224) ». Le capitalisme illimité dévalue tout, y compris et surtout les valeurs. Favorise-t-il donc un état complet d’anarchie globale ? Nullement ! Le champ de ruines spirituel, moral et sociologique assure le renforcement de la caste dirigeante parmi laquelle le « peuple juif qui de fait est aujourd’hui investi du sacerdoce lévitique globalisé du monde impérial américain, dans lequel la Shoah devra remplacer (ce n’est qu’une question de temps) la Croix comme le Croissant, l’une et l’autre peu adaptés à l’intégrale libéralisation des mœurs que comporte l’absolue souveraineté de la marchandise (p. 194) ».
Preve n’est pas négationniste. Il observe cependant que dans le Nouvel Ordre Mondial, « la sacralisation de ce droit absolu à la possession de tous est obtenue par une nouvelle religion, qui se substitue à la Croix comme au Croissant, la religion de la Shoah, dans laquelle Auschwitz, détaché de son contexte historique, est érigé en principe universel abstrait exigeant d’abolir le droit international “ de sorte que cela ne puisse plus jamais arriver dans l’avenir ” – tandis que Hiroshima, et ce n’est pas un hasard, a seulement été “ déploré ”, et non pas criminalisé comme Auschwitz, et continue d’être brandi comme une menace toujours possible contre les “ nouveaux Hitler ”… (pp. 116 – 117) ».
Suite à ses propos qu’on peut sciemment mal interpréter, Costanzo Preve pourrait faire l’objet d’attaques perfides alors qu’il se réclame de l’héritage des Lumières. Pour lui, « l’État est en fait l’organe qui réalise le programme de la modernité des Lumières, mais selon une interprétation communautaire et non point individualiste (p. 145) ». L’« idéologie des Lumières » ne forme pas un bloc monolithique. Si, en France, elle est progressiste, on ignore souvent qu’en Allemagne ou en Angleterre, elle présente un important versant conservateur. Preve cherche-t-il soit une nouvelle synthèse post-moderne, soit une réactivation d’un « conservatisme lumineux » ? Il se déclare ainsi « favorable au mariage des prêtes catholiques (dont le mariage des popes orthodoxes et des pasteurs protestants constitueraient des précédents historiques), à l’ordination sacerdotale des femmes dans la confession catholique et à de pleins droits civils pour les gays et lesbiennes (mais dans les formes du P.A.C.S., non dans celle du “ mariage ”, qui est inutilement provocatrice) (p. 124) ». Il approuve dans le même temps la place historique de l’Église catholique même s’il ignore le rôle majeur joué par le christianisme celtique dans la réévangélisation de l’Europe de l’Ouest au Haut – Moyen Âge. Mutatis mutandis, le christianisme celtique, s’il s’était maintenu, fortifié et développé, aurait été probablement le pendant occidental de l’Orthodoxie et permis la constitution à terme d’Églises catholiques européennes autocéphales aptes à résister aux assauts de la modernité. Au contraire, du fait d’une centralisation romaine continue, l’Église catholique a accepté sa sécularisation.
Pour preuve irréfragable, Costanzo Preve rappelle que « le théologien Joseph Ratzinger, qui est devenu pape, a du reste posé lui-même d’une manière extrêmement intelligente la question du bilan de la pensée des Lumières dans son débat avec Jürgen Habermas, où il a soutenu que les Lumières n’avaient pas été seulement bonnes, mais providentielles, parce que leur intervention historique avait “ corrigé ” les erreurs et même, dans certains cas, les crimes de l’Église. […] Il […] semble [à Preve] qu’il serait encore plus sot d’être plus traditionaliste et catholique que Joseph Ratzinger (p. 131) ». De pareils propos confirment l’argumentaire sédévacantiste.
Son appréciation sur Ratzinger est-elle vraiment sérieuse et fondée ? Catholique, Benoît XVI peut l’être dans l’acception d’« universel ». L’Église romaine a toujours cherché à au moins superviser les pouvoirs temporels. Au XXe siècle, un penseur catholique de renom, Jacques Maritain, défend une supranationalité papiste de dimension européenne, occidentale, voire atlantiste. On retrouve cette influence dans l’encyclique Caritas in veritate du 7 juillet 2009. Se référant à une conception dévoyée de la subsidiarité, le souverain pontife énonce que « le développement intégral des peuples et la collaboration internationale exigent que soit institué un degré supérieur d’organisation à l’échelle internationale de type subsidiaire pour la gouvernance de la mondialisation (paragraphe 67) ». Il ajoute qu’« il est urgent que soit mise en place une véritable Autorité politique mondiale […]. Cette Autorité devra […] être reconnue par tous, jouir d’un pouvoir effectif pour assurer à chacun la sécurité, le respect de la justice et des droits. Elle devra évidemment posséder la faculté de faire respecter ses décisions par les différentes parties, ainsi que les mesures coordonnées adoptées par les divers forums internationaux (paragraphe 67) ». Il apparaît clairement que le Vatican est dorénavant un relais sûr du Nouvel Ordre Mondial. À la décharge de Costanzo Preve, son Éloge a été publié en 2007 et il ne pouvait pas deviner la portée mondialiste de ce texte. Benoît XVI n’est pas traditionaliste. N’oublions jamais que le véritable catholicisme traditionnel, communautaire et sacral qui rayonnait à l’époque médiévale fut assassiné par l’incurie pontificale, la Réforme protestante et sa consœur honteuse, la Contre-Réforme catholique !
Nonobstant ces quelques critiques, cet Éloge du communautarisme demeure une belle réflexion sur une question déterminante pour les prochaines décennies : les communautés humaines natives résisteront-elles au XXIe siècle ?
Georges Feltin-Tracol
• Costanzo Preve, Éloge du communautarisme. Aristote – Hegel – Marx, préface de Michel Maffesoli, Krisis, 2012, 267 p., 23 €.
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lundi, 07 octobre 2013
Julius Evola y Hakim Bey
por Juan Manuel Garayalde – Bajo los Hielos –
Ex: http://paginatransversal.wordpress.com
Charla dictada el día 16 de Diciembre de 2004 en el Centro de Estudios Evolianos, Buenos Aires, Argentina.
I – Anarquismo Mítico y Filosófico
Como todo pensamiento político, el anarquismo ha tenido diferentes puntos de vista. Una importante cantidad de intelectuales sitúan al nacimiento del anarquismo en el siglo XIX, cuando podemos hallar en la Metamorfosis de Ovidio, una mención a un sistema político de similares características que se lo hallaría en el inicio de una Edad de Oro, donde no habría leyes, jueces ni nada que se le parezca para sancionar a los ciudadanos, puesto que entre ellos existía una visión del mundo similar. Asimismo, no podemos olvidar a las comunidades anarquistas como los seguidores del Patriarca Gnóstico Carpócrates de Alejandría que fundó comunidades cristianas en el norte de Africa y en España en el siglo II. Diferente al anarquismo filosófico del siglo XIX, que sitúa al anarquismo al final de la historia humana, como un proceso evolutivo, tal como fue formulado de manera similar el paraíso comunista de Karl Marx.
Dentro de esta corriente del siglo XIX, se destacaron autores como William Godwin, Proudhon, Max Stirner, Bakunin, etc.. Stirner, el más importante exponente del individualismo anarquista, fue en contra no sólo del Estado, sino en contra de la Sociedad; fue mas lejos que cualquier pensador anarquista convirtiendo al hombre en el Absoluto, la nada creadora, en ser belicoso por naturaleza que lucha por la propiedad de si mismo, la “propiedad del único”, rechazando al Estado, la burguesía, las instituciones sociales y educativas, la familia, las leyes. Destruir las ilusiones para descubrirse a sí mismo y ser dueño de sí mismo.
Su principal obra, “El único y su propiedad”, fue recibida con hostilidad por Karl Marx, quien lo ve como una amenaza a todo su materialismo dialéctico, a lo que se dedicará con esmero a refutar sus ideas. Así, el anarquismo filosófico comienza a verse como amenaza al marxismo.
Posteriormente, será Bakunin el que desafiará el crecimiento del comunismo. Este pensador anarquista, marcará la diferencia con los otros, puesto que si dicho movimiento logró cierta presencia en la lucha social, será gracias a él. Es impensable el sindicalismo anarquista sin Bakunin (recordemos a FORJA en la historia Argentina, y la famosa “Semana Trágica” de 1919). Europa quizás nunca habría presenciado un movimiento político anarquista organizado, sino hubiese sido por la labor activa de Bakunin.
II – Anarquismo, Liberalismo y Socialismo
El surgimiento del anarquismo filosófico, está enlazado a la crisis social post-medieval. La burguesía comienza a establecer relaciones con las viejas aristocracias, en tanto se demolían los gremios y asociaciones que protegían a los pequeños productores. Ante el crecimiento del comercio y las manufacturas, los viejos gremios medievales eran una traba a ese nuevo desarrollo. Los pequeños artesanos y productores agrícolas, comenzaban a quedar desamparados ante el crecimiento de la competencia, en tanto crecían los derechos monopolistas en manos de grandes compañías industriales, agrícolas y comerciales.
Surgieron en esa época de transición dos corrientes de protesta: el Liberalismo Radical, que pretendía reformas parlamentarias para frenar el poder del Estado, y el Anarquismo. Los liberales (Locke) consideraban a la propiedad como un derecho natural, y le legaban la responsabilidad al Estado para que protegiera la misma de ataques internos y externos, permitiendo así el libre intercambio de mercaderías. Los anarquistas en cambio, decían que el Estado protege la propiedad de los ricos, y que las leyes favorecen la concentración de la propiedad. Para los anarquistas, se debía crear una sociedad igualitaria de productores pequeños y económicamente autónomos, libres de privilegios o distinciones clasistas, donde el Estado sería innecesario.
Se considera al Anarquismo una ampliación radical del Liberalismo. Esto significa, que tiene mas similitudes con el Liberalismo que con el Socialismo. Sin embargo, con este último hubo alianzas, siendo que lo único en que coincidían era en la estrategia revolucionaria contra el poder burgués. Durante el siglo XX, el anarquismo participó en dos importante acontecimientos: la Revolución Rusa de 1917 y la Guerra Civil Española de 1936. En ambas, el enemigo principal que se les manifestó, fueron los comunistas, los que llegaron a hacer ejecuciones en masa de militantes anarquistas.
El anarquismo tuvo su primera gran derrota cuando Marx se adueña de la Primera Internacional, luego de acalorados debates con Bakunin. Dicha hegemonía se mantuvo hasta 1991, con la desintegración de la URSS. Desde entonces, surgirán nuevas corriente del pensamiento anarquista, pero de todas ellas, la que aquí queremos rescatar por su nueva orientación, es el anarquismo ontológico, que tiene al británico Peter Lamborn Wilson, mas conocido como Hakim Bey como su principal exponente.
III – El Anarquismo Ontológico de Hakim Bey
Se torna dificultoso poder definir el concepto del anarquismo ontológico, puesto que es una forma de encarar la realidad, donde no se necesitan teorías que cierren en si mismas, sino acciones que tienden a despojar al hombre de preconceptos modernos. El anarquismo ontológico es un desafío abierto a la sociedad actual, donde el Yo es puesto a prueba, para ver si es capaz de cuestionarse ciertos comportamientos y pensamientos que se manifiestan mecánicamente. Su lenguaje principal, es lo que Hakim Bey denomina el “terrorismo poético”, una forma brusca pero profunda de rechazar las convenciones de toda sociedad organizada en torno a ilusiones.
Ante la crisis espiritual que afecta principalmente a Occidente, propone Hakim Bey un nomadismo psíquico, un retorno al paleolítico, siendo mas realista que simbólico este último concepto. Como él dice, “se busca la transmutación de la cultura basura en oro contestatario”. Su frase principal es “El Caos nunca murió”, donde para él, seria el espacio donde la libertad se vive a pleno, en tanto que ve al Orden como la presentación de una serie de estructuras políticas, sociales, culturales, educativas, policiales; en sí, límites impuestos a la mente que debe poseer una naturaleza de libertad plena. Ese Orden actual, no hace más que aprisionar al hombre poniéndole por encima, leyes de una civilización que se detiene en el tiempo, para congelar y matar el Espíritu.
Bey nos dice que el Caos es derrotado por dioses jóvenes, moralistas, por sacerdotes y banqueros, señores que quieren siervos y no hombres libres. Seguidor de grupos sufíes no muy ortodoxos, plantea la jihad espiritual, la rebelión contra la civilización moderna.
El modelo social de lucha que plantea Hakim Bey, es la de la pandilla, del grupo de salteadores que tiene su propia ley. Ese es el sentido del paleolítico, la banda de cazadores y recolectores que erraban por los bosques y desiertos de una tierra antigua sin dioses tiranos.
Hace pocos años, se estrenó una película, en la cual, uno de sus realizadores, estuvo influido por los escritos de este autor. La película se llamaba “El Club de la Pelea” donde se describe un hombre sumiso al sistema económico y moral, que se le plantea una ruptura mental que lo lleva a crear un mundo real donde podía estar fuera del sistema atacándolo, burlándose del mismo continuamente.
Esto nos lleva a estudiar el aporte que consideramos el mas interesante de la obra de Hakim Bey: el concepto de TAZ, es decir, la Zona Temporalmente Autónoma.
IV – Zona Temporalmente Autónoma (TAZ)
Existe una coincidencia semántica con el pensador tradicionalista italiano, Julius Evola: Ambos autores utilizan el término “rebelión” como forma de reacción ante los síntomas de la decadencia espiritual y material del Hombre.
Para Hakim Bey, el planteo de una Revolución, implica un proceso de transformaciones donde se va de una situación caótica a un nuevo Orden, pero, un Orden al fin. El escritor nos dice: “¿Cómo es que todo mundo puesto patas arriba siempre termina por enderezarse? ¿Por qué siempre a toda revolución sigue una reacción, como una temporada en el infierno?” (1). De esta manera, un Orden dentro del Kali Yuga, implicaría retornar a una forma de conservadurismo decadente. Implica la frustración de ideales revolucionarios iniciales, ante las reacciones naturales de los que quieren volver las cosas a su cause normal, saliendo del CAOS.
H.B. utiliza los términos de “rebelión”, “revuelta” e “insurrección”, que implicaría “un momento que salta por encima del tiempo, que viola la “ley” de la historia”. En este caso, estamos muy cercanos al concepto evoliano del “idealismo mágico”.
Redondeando estas ideas: en tanto la Revolución es un proceso que va del CAOS a un Orden determinado, la rebelión que plantea H.B. es temporal: es un acto extra-ordinario, que busca cambiar el mundo y no adaptarse a él, que busca vivir la utopía y no conformarse con un Orden a medias.
Pero, si no hay un Orden determinado a crearse por parte de los anarquistas ontológicos, ¿de dónde parte la rebelión y a dónde retorna la misma una vez desatada? Allí H.B. nos habla de la TAZ, las Zonas Temporalmente Autónomas, que es un lugar físico que permite justamente un desarrollo de la libertad interior. Hay que aclarar, que la TAZ no es un concepto abstracto, sino real e histórico .. aunque esta siempre quiso manifestarse por fuera de la Historia.
Uno de los ejemplos que trata H.B., es la utopía pirata. Menciona fundamentalmente el período comprendido entre el siglo XVI y XVII. En América, la zona del Caribe es muy conocida por su historia de piratas, y el autor nos habla de la famosa Isla de la Tortuga que fue el refugio de los barcos piratas y de todo delincuente que transitó esos rumbos alejados de la civilización. Era una isla al norte de Haití, de 180 km. Cuadrados, con un mar rodeado de tiburones. En dicha isla, no existía ninguna autoridad, leyes, códigos de comercio, impuestos, y todo aquello a lo que hoy estamos sometidos para poder pertenecer a un determinado sistema social. Ellos supieron crear un sistema por fuera del Sistema, o sea, un anti-sistema, el CAOS, el lugar donde un anarquismo ontológico podía encontrar cause para su desarrollo. Si hablamos de la gente que componía los barcos piratas, hallaremos que eran de distintas razas: negros, blancos, asiáticos; distintas religiones, diferente educación y clase social de la cual quedaron desheredados: todos estaban en pie de igualdad, pero no una igualdad colectivista, sino guerrera.
Esta TAZ, esa Zona Temporalmente Autónoma que fue la Isla de la Tortuga, no duro muchos años; y esa es justamente la característica de la TAZ, su limitación en el tiempo, que según H.B. como mucho, puede durar la vida de una persona, no mas de eso, puesto que el Sistema ira en su búsqueda para destruirla. Veamos como el autor define la TAZ:
“El TAZ es como una revuelta que no se engancha con el Estado, una operación guerrillera que libera un área – de tierra, de tiempo, de imaginación- y entonces se autodisuelve para reconstruirse en cualquier otro lugar o tiempo, antes de que el Estado pueda aplastarla”. (2)
Es la estrategia de la barricada, que cuando esta viene a ser destruida, es abandonada, y levantada en otro lugar. Es el ámbito de la Internet, donde uno ingresa para criticar el sistema a través de una página web, y cuando esta cae, vuelve a aparecer en otro lugar.
Pero, sigamos con los ejemplos históricos que H.B. utiliza para describir su concepto de TAZ. En este caso, citamos un párrafo completo, con el objetivo de que puedan apreciar todos los elementos vulgares, artísticos, esotéricos, poéticos del pensador, que parece mezclar la realidad con la fantasía, con la utopía y con lo oculto. Esta forma de escribir, que como hemos dicho anteriormente, él ha definido como “terrorismo poético”:
“Por tanto, de entre los experimentos del periodo de Entreguerras me concentraré si no en la alocada república de Fiume, que es mucho menos conocida, y no se organizó para perdurar.”
“Gabriele D’Annunzio, poeta decadente, artista, músico, esteta, mujeriego, atrevido pionero aeronáutico, mago negro, genio y canalla, emergió de la I Guerra Mundial como un héroe con un pequeño ejército a sus órdenes: los “Arditi”. A falta de aventuras, decidió capturar la ciudad de Fiume en Yugoslavia y entregársela a Italia. Después de una ceremonia necromántica junto a su querida en un cementerio de Venecia partió a la conquista de Fiume, y triunfó sin mayores problemas. Sin embargo Italia rechazó su generosa oferta; el primer ministro lo tachó de loco.”
“En un arrebato, D’Annunzio decidió declarar la independencia y comprobar por cuanto tiempo podría salirse con la suya. Junto a uno de sus amigos anarquistas escribió la Constitución, que declaraba la música como el fundamento central del Estado. Los miembros de la marina (desertores y anarcosindicalistas marítimos de Milán) se autodenominaron los Uscochi, en honor de los desaparecidos piratas que una vez vivieron en islas cercanas a la costa saqueando barcos venecianos y otomanos. Los mudemos Uscochi triunfaron en algunos golpes salvajes: las ricas naves italianas dieron de pronto un futuro a la república: dinero en las arcas! Artistas, bohemios, aventureros, anarquistas (D’Annunzio mantenía correspondencia con Malatesta) fugitivos y expatriados, homosexuales, dandis militares (el uniforme era negro con la calavera y los huesos pirata; robada más tarde por las SS) y reformistas chalados de toda índole (incluyendo a budistas, teósofos y vedantistas) empezaron a presentarse en Fiume en manadas. La fiesta nunca acababa. Cada mañana D’Annunzio leía poesía y manifiestos desde el balcón; cada noche un concierto, después fuegos artificiales. Esto constituía toda la actividad del gobierno. Dieciocho meses más tarde, cuando se acabaron el vino y el dinero y la flota italiana se presentó, porfió y voleó unos cuantos proyectiles al palacio municipal, nadie tenia ya fuerzas para resistir.”
(…). En algunos aspectos fue la última de las utopías piratas (o el único ejemplo moderno); en otros aspectos quizás, fue muy posiblemente la primera TAZ moderna.” (3)
V – La TAZ en la Historia Argentina
Llegados a este punto, nos preguntamos: ¿puede hallarse un ejemplo de la TAZ en nuestra historia argentina? ¿Pudo haber hallado H.B. un ejemplo para aportar a su trabajo?. La respuesta es afirmativa, y ello lo encontramos nada mas y nada menos, que en nuestra obra cumbre de la literatura argentina: El Martín Fierro.
Esta obra, cuyo protagonista es una creación del autor, representa la confrontación entre la “Civilización” y la “Barbarie”, y forzando un poco los términos, entre la Modernidad y la Tradición. El tiempo en que se desarrolla este poema guachesco es durante el período de la organización nacional, entendido este como la adaptación de un país de carácter católico, libre y guerrero, al sistema constitucional liberal, laico, de desacralización del poder político en post de las ideologías que apuntalaron, reforzaron a la Modernidad.
Martín Fierro es el arquetipo de la “Barbarie”; el Hombre que no acepta una “Civilización” ajena a su cultura, que quiere obligarle a adoptar una nueva forma de vida, a riesgo de perderla si no obedece. Por tal motivo, Martín Fierro huye más allá de la frontera sur, a vivir con los indios. Leemos en esta obra:
“Yo sé que los caciques
amparan a los cristianos,
y que los tratan de “hermanos”
Cuando se van por su gusto
A que andar pasando sustos …
Alcemos el poncho y vamos”.
La Frontera, las tolderías, son la TAZ que supo existir en la Argentina. Allí, los hombres que estaban fuera de la ley, encontraron la libertad: fueron quienes desertaban del nuevo ejército constitucional, ladrones de ganado, asesinos, esclavos, muchachos jóvenes que huían de sus casas optando por la libertad que se vivía mas allá de la frontera. También existieron ejemplos de mujeres que cautivas de los indios, tuvieron familia, y que al regresar a la civilización, no pudieron acostumbrarse y regresaron con los indios. Martín Fierro nos describe la vida libre, hasta holgazana de vivir con los indios:
“Allá no hay que trabajar
Vive uno como un señor
De cuando en cuando un malón
Y si de él sale con vida
Lo pasa echado panza arriba
Mirando dar güelta el sol.”
Lo cierto es, que no existía mucha diferencia entre la toldería y el medio rural. La diferencia comenzó a ampliarse a medida que crecían las leyes y la coerción y se perdía la libertad que el gaucho conocía. La frontera pasa a convertirse no solo en una válvula de escape para las tensiones sociales, sino también, para las existenciales.
Pero del arquetipo, pasemos también a un ejemplo concreto, a un hombre que la literatura retrató varias veces en novelas, cuentos y obras de teatro, a lo que se le sumará muchos relatos acerca del lugar que utilizó para escapar de la “civilización”. Este hombre que hemos elegido al azar, se llamó Cervando Cardozo, conocido como Calandria por su hermosa voz para el canto. Fue un gaucho que nació en 1839 y fallece -muerto por la policía- en 1879. Tuvo una vida como cualquiera de su tiempo, pero a diferencia que decidió luchar cuando la institucionalización política del país comenzó a querer robarle su libertad. Él se incorpora a la última montonera de la historia nacional, la comandada por el caudillo entrerriano Ricardo López Jordán, al que la historia oficial, lo acusa de haber participado en asesinar al caudillo Justo J. de Urquiza, quién para entonces, era el principal responsable de las transformaciones políticas del país. Calandria peleará junto a López Jordán, y al ser derrotado su levantamiento, es obligado a incorporarse a un ejército de frontera. Calandria no acepta, y deserta. Nace así su vida de matrero, que la vivirá dentro de la provincia de Entre Ríos en la denominada Selva de Montiel, donde las fuerzas policiales jamás podrían capturarlo.
Aquí nos adentramos a una nueva TAZ: el monte. En muchas tradiciones, los bosques representan lugares prohibidos, donde abundan espíritus, criaturas fantásticas, y en donde se corría peligro de hallar una muerte horrenda. Uno de los ejemplos mas conocidos por todos, son los bosques de Sherwood donde encontraron refugio varios “fuera de la ley” que luego seguirían al famoso Roobin Hood.
En nuestra tierra, los montes representaban el lugar donde los gauchos matreros se escondían, donde hechiceros, curanderos, brujas, opas y deformes tenían su guarida. Es también el sitio donde los aquelarres se realizaban, que bien expresados están en nuestras canciones populares; por ejemplo en La Salamanca de Arturo Dávalos, dice su estribillo: “Y en las noches de luna se puede sentir, / a Mandinga y los diablos cantar”, o Bailarín de los Montes de Peteco Carabajal, en su estribillo también dice: “Soy bailarín de los montes / nacido en la Salamanca”.
Aquí haremos una breve profundización de este tema de La Salamanca: originalmente, la leyenda parte de España, de la región de Salamanca. Allí, se encontraban las famosas cuevas donde alquimistas, magos, kabbalistas, gnósticos, y otros, se reunían en secreto para eludir las persecuciones de la Inquisición. Como allí se efectuaban todo tipo de enseñanzas de carácter iniciático, quedo una leyenda negativa impulsada desde el clero católico de la época, donde allí se invocaba al demonio; y es por eso, que todo el proceso del que ingresa a la Salamanca hasta llegar frente al Diablo, es de carácter iniciático .. pero, hacia lo inferior. Es por eso, que se dice, que en la actualidad, hay dos entradas a la Salamanca con resultados diferentes, uno de ascenso y otro de descenso. La Salamanca, es para la TAZ argentina, el modelo de iniciación, en tanto se logre hallar “la otra puerta”.
Retomando, la Selva de Montiel (llamada así, por lo impenetrable de la misma) fue el refugio de muchos, como Calandria, que se resistieron al cambio, a perder su libertad y apego a la tradición a causa – como dice un motivo popular entrerriano – de la reja del arado, de la división de la tierra y del alambrado. Estos matreros conservaron en pequeña escala parte de la figura que representaron en otro momento los Caudillos, puesto que tenían un respeto y comprensión hacia los pobladores, y estos terminaban siendo cómplices silenciosos de las aventuras de estos outsiders.
Cito aquí, un párrafo de la obra de teatro “Calandria” de Martiniano Leguizamón, estrenada en 1896. En este fragmento que leeré, habla el gaucho matrero frente a la tumba de su Madre:
“¡Triste destino el mío! …. ¡Sin un rancho, sin familia, sin un día de reposo! … ¡Tendré al fin que entregarme vensido a mis perseguidores! … Y ¿pa qué? ¿Por salvar el número uno? … ¿Por el placer de vivir? … ¡No, si la libertad que me ofrecen no had ser más que una carnada! No; no agarro. ¡Qué me van a perdonar las mil diabluras que le he jugao a la polesía! ¡Me he reído tanto de ella y la he burlao tan fiero! … (Riendo) ¡La verdá que esto es como dice el refrán: andar el mundo al revés, el sorro corriendo al perro y el ladrón detrás del jues! … ¡Bah … si el que no nació pa el cielo al ñudo mira pa arriba!” (4)
Calandria no fue el único de estos gauchos matreros. Nuestro Atahualpa Yupanqui fue un gaucho matrero en los años ´30. Luego de una fallida revolución radical en la que participó, huyo a Entre Ríos y se ocultó en la Selva de Montiel. Fue en esa época que compuso la canción “Sin caballo y en Montiel”.
Pero avancemos más en esta construcción de la TAZ en nuestra tierra. Si el gaucho matrero es una representación, en pequeña escala, del Caudillo, ¿dónde podemos hallar una figura de tal magnitud que cuadre con el modelo del anarquismo ontológico?. Podremos hallar verdaderas sorpresas en nuestra historia nacional. Una de ellas, es la del joven Juan Facundo Quiroga, el “Tigre de los Llanos”, que por las descripciones que se hicieron sobre su persona, nos atrevemos a decir que fue uno de los primeros líderes anarcas que hubo en nuestra historia nacional.
Sarmiento, que conoció a Quiroga en su etapa juvenil -no ya la adulta donde se comenzaría a preocuparse por la forma organizativa que debía lograrse con la Confederación Argentina-, en su “Facundo”, entre el odio y la admiración escribe estas palabras sobre Quiroga:
“Toda la vida publica de Quiroga me parece resumida en estos datos. Veo en ellos el hombre grande, el hombre genio a su pesar, sin saberlo él, el César, el Tamerlán, el Mahoma. Ha nacido así, y no es culpa suya; se abajará en las escalas sociales para mandar, para dominar, para combatir el poder de la ciudad, la partida de la policía. Si le ofrecen una plaza en los ejércitos la desdeñará, porque no tiene paciencia para aguardar los ascensos, porque hay mucha sujeción, muchas trabas puestas a la independencia individual, hay generales que pesan sobre él, hay una casaca que oprime el cuerpo y una táctica que regla los pasos ¡todo es insufrible!. La vida de a caballo, la vida de peligros y emociones fuertes han acerado su espíritu y endurecido su corazón; tiene odio invencible, instintivo, contra las leyes que lo han perseguido, contra los jueces que lo han condenado, contra toda esa sociedad y esa organización de que se ha sustraído desde la infancia y que lo mira con prevención y menosprecio. (…) Facundo es un tipo de barbarie primitiva; no conoció sujeción de ningún género; su cólera era la de las fieras …” (5)
Y como todo anarca, Quiroga no era de los hombres que querían sentarse en un escritorio a gobernar lo que mucho le había costado conseguir. Sus batallas nunca finalizaron. Citamos nuevamente a Sarmiento:
“Quiroga, en su larga carrera, jamás se ha encargado del gobierno organizado, que abandonaba siempre a otros. Momento grande y espectable para los pueblos es siempre aquel en que una mano vigorosa se apodera de sus destinos. Las instituciones se afirman o ceden su lugar a otras nuevas más fecundas en resultados, o más confortables con las ideas que predominan. (…)
“No así cuando predomina una fuerza extraña a la civilización, cuando Atila se apodera de Roma, o Tamerlán recorre las llanuras asiáticas; los escombros quedan, pero en vano iría después a removerlos la mano de la filosofía para buscar debajo de ellos las plantas vigorosas que nacieran con el abono nutritivo de la sangre humana. Facundo, genio bárbaro, se apodera de su país; las tradiciones de gobierno desaparecen, las formas se degradan, las leyes son un juguete en manos torpes; y en medio de esta destrucción efectuada por las pisadas de los caballos, nada se sustituye, nada se establece”. (6)
Aquí se ven con claridad los conceptos de H.B. de psiquismo nómade y de un retorno al paleolítico.
VI – Anarquismo Ontológico y Tradición
Hasta aquí, hemos trazado un paralelismo entre el concepto de la TAZ de H.B. y nuestra historia nacional. Nuestra tarea a continuación es ver a donde nos puede llevar el anarquismo ontológico.
Esta postura, la creemos positiva para el impulso de un Nihilismo Activo, que consistirá en construir bases de acción que son la TAZ: su acción es decontructora, de rechazo a los valores y estructuras de pensamiento de la Modernidad. El anarquismo ontológico ha sabido descubrir en la historia a los outsiders del sistema, y este tema, es una eterna preocupación de la filosofía política contemporánea. Por ejemplo, uno de los pensadores mas importantes del neoliberalismo, Robert Nozick, (7) recientemente fallecido, nos habla de un estado de naturaleza donde paso a paso se va construyendo el Estado Liberal ideal para la sociedad actual. Nos habla de una Asociación de Protección Dominante, donde unos trabajan y otros toman el papel de defender a la comunidad de los agresores externos. De allí, se pasa al Estado Ultramínimo, que tiene como objetivo, justamente, incorporar a los outsiders .. a los fuera de la ley. Supuestamente, para Nozick, los outsiders se integrarían a la sociedad al ofrecerles protección gratuita para que puedan vivir en paz, lo que denominó principio de compensación. Dicho intento teórico fracaso, sobrándonos ejemplos reales para comprobarlo históricamente. El anarca no necesita que nadie lo proteja. El es libre de vivir y morir en su propia Ley. (8)
El Anarquismo Ontológico ha tenido una importante repercusión en los jóvenes, y esta idea de la TAZ hasta fue llevada al cine. La película “El Club de la Pelea” con Eduard Norton y Brad Pitt como actores principales, nos presenta la atmósfera de una generación de jóvenes sin ideales, con futuro incierto y, sobre todo, la revelación absoluta de su propia soledad en el mundo. Allí, como en Doctor Jekill y Mister Hyde, hay un hombre que no se atreve a liberarse de sus propias cadenas, a vivir el mundo sin tratar de controlarlo.
Una película como el Club de la Pelea nos muestra que estamos solos, que no hay nadie allá afuera con los brazos abiertos esperándonos. Uno de los personajes de esta película, Tyler Durden, en su discurso donde inaugura su TAZ, el Club de la Pelea, viviendo en un edificio abandonado en ruinas y rodeado de jóvenes rebeldes, dice: Veo en el Club a los hombres más listos y fuertes, veo tanto potencial y veo que se desperdicia. Dios mío, una generación vendiendo gasolina, sirviendo mesas, esclavos de cuello blanco y todos esos anuncios que promueven el desear autos y ropas con marcas de un tipo que nos dicta cómo debemos vernos. Hacemos trabajos odiosos para comprar lo innecesario, hijos en medio de la Historia sin propósito ni lugar…
Como nos dice con certeza H.B.: “El capitalismo, que afirma producir el Orden mediante la reproducción del deseo, de hecho se origina en la producción de la escasez, y sólo puede reproducirse en la insatisfacción, la negación y la alienación.” (9)
Y, en ese Club de la Pelea, los que lo integran, justamente, aprenden a pelear y no a huir … aprenden a reconciliarse con su propio pasado, a vencer el miedo y la angustiosa realidad materialista; y en el fondo, siempre manifestándose una lucha existencial.
Julius Evola, en su obra “El Arco y la Clava”, en oposición a ciertos movimientos juveniles modernos, describe una nueva orientación denominada anarquismo de derecha: aquí, nos habla de muchachos que no pierden su idealismo luego de pasar los 30 años. Jóvenes con un entusiasmo e impulso desmesurados, “con una entrega incondicionada, de un desapego respecto de la existencia burguesa y de los intereses puramente materiales y egoístas” (10). Una generación que puede hallarse en el presente, que asuman valores como el coraje, la lealtad, el desprecio a la mentira, “la incapacidad de traicionar, la superioridad ante cualquier mezquino egoísmo y ante cualquier bajo interés” (11); todos valores que están por encima del “bien” y del “mal”, que no caen en un plano moral, sino ontológico. Es mantenerse de pie con principios inmerso en un clima social desfavorable, agresivo; capaz de luchar por una causa perdida con una fuerza y energía sobrenatural, que termina inspirando el terror en sus rivales, y entre estos quizás, uno que logre despertar ante lo que creyó como una amenaza. Pocos hombres como estos, serían capaces de detener ejércitos en algún acantilado de la antigua Grecia, o, en los tiempos que hoy vivimos, tomar una Isla del Atlántico Sur sin matar ningún civil o soldado enemigo.
Pero, a diferencia de H.B., la TAZ, el anarquismo ontológico sólo puede ser considerado como una estrategia para la aceleración de los tiempos; pero, dentro de esa TAZ, deberán recrearse los principios de una Orden, que deberá reconstruir el mundo arrasado basándose en los principios de la Tradición Primordial.
Lo que nos separará siempre de la postura anarquista frente a la tradicional, es la aspiración de edificar un Estado Orgánico, Tradicional, y a confrontar un igualitarismo de proclama con las Jerarquías Espirituales. Como en un tiempo estuvieron unidos el Socialismo y el Anarquismo en la estrategia revolucionaria, en el presente, el Anarquismo Ontológico sigue el mismo camino postulado por el pensador italiano Julius Evola, de cabalgar el tigre, de controlar el proceso de decadencia para estar presentes el día en que el Tiempo se detenga. Quizás, cuando llegue ese día, ambas posturas estén unidas en la tarea de construir una nueva Civilización que sea inicio de una nueva Era.
En similitud el caso argentino, sin un Juan Facundo Quiroga que comenzó a desafiar la autoridad iluminista del Partido Unitario, en los años ´20 del siglo XIX, sumergiendo al país en la anarquía junto con otros Caudillos, no hubiese llegado una década mas tarde, un Juan Manuel de Rosas a comenzar a edificar la Santa Confederación Argentina: ambos son parte del Ser y del Devenir; ambos parte de la “Barbarie” en oposición al anti – espíritu alienante de la “Civilización”. El anarca y el Soberano Gibelino terminan juntos trayendo el alma del Desierto a las ciudades sin Luz interior.
No queremos concluir esta exposición sin volver a retrotraernos a nuestra tradición folclórica, a la TAZ que intentó resistir el avance de la Modernidad. Hoy, aquí reunidos, hemos conformado una TAZ. Y cuando cada uno de nosotros se haya marchado y las luces de este lugar se apaguen, la TAZ se disolverá para luego crearse en otros lugares. El espíritu rebelde del Martín Fierro, está en nosotros viviendo a través de todos estos años.
Concluimos con un fragmento de un poema con el cual nos identificamos, dedicado al gaucho Calandria, que murió peleando en su propia ley y soñando permanecer por siempre libre en su Selva de Montiel:
“En mí se ha reencarnado el alma de un matrero,
como la de Calandria, el errabundo aquél,
que amaba la espesura, igual que el puma fiero,
y que amplió las leyendas del bravío Montiel”
* * *
Notas:
(1) Hakim Bey. TAZ. Zona Temporalmente Autónoma. http://www.merzmail.net/zona.htm
(2) Hakim Bey. Ob. Cit.
(3) Idem.
(4) Leguizamón, Martiniano. Calandria. Del Viejo Tiempo. Edit. Solar/Hachette – Buenos Aires 1961. P..47.
(5) Sarmiento, Domingo F. Facundo. Civilización y Barbarie. Ed. Calpe – Madrid, 1924. p.106-107.
(6) Sarmiento, Domingo F. Ob. Cit. p. 123.
(7) Nozick, Robert. Anarquia, Estado y Utopía. FCE – Buenos Aires, 1991.
(8) Existe una diferencia entre el anarquismo (los “ismos”) y el anarca, concepción que esta mas cercana a la filosofía de Max Stirner. El escritor mexicano José Luis Ontiveros, nos da una explicación del mismo: “El anarca es un autoexiliado de la sociedad. El anarca es, también, un solitario, que cree en el valor incondicional y absoluto de los actos. A diferencia del anarquista, el anarca ha dejado de confiar en la bondad natural del ser humano, y en utopías y fórmulas filantrópicas que salven o rediman a la humanidad. Su ser se funda, en el sentido original de la voz griega anarchos “sin mando”, pero su autoridad individualista reconoce principios como la disciplina y la moral de la guerra, su combate se libra contra cuando menos dos o tres enemigos, su ámbito es el bosque, el fuego, la montaña en donde el hombre debe abandonar la máscara de la sociabilidad, para retornar a la experiencia primigenia, al ser que se otorga a sí mismo la voluntad”. Ontiveros, José Luis. Apología a la Barbarie. Ediciones Barbarroja – España 1992. p. 38.
(9) Hakim Bey. Ob. Cit.
(10) Evola, Julius. El Arco y la Clava. Editorial Heracles – Buenos Aires 1999. p. 244.
(11) Evola, Julius. Ob. Cit. p. 245.
Fuente: Bajo los Hielos
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samedi, 05 octobre 2013
Qual è il vero significato delle «Favola delle api» di Bernard Mandeville?
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Il successo, la ricchezza, la potenza degli individui e delle nazioni, si possono ottenere con la pratica intransigente della virtù; oppure l’egoismo, l’inganno e la violenza sono gli ingredienti necessari per raggiungerle e conservarle?
Bella domanda; domanda impertinente. E impertinente, infatti - anzi, sommamente impertinente, per non dire irritante - è «La favola delle api» di Bernard Mandeville (1670-1733), un medico di origine olandese trasferitosi in Inghilterra, che trasse la sua opera filosofica più famosa da quella che era, in origine, una poesia: «The Grumbling Hive: or, Knaves Turn’d Honest», che, dopo un processo di gestazione e rielaborazione durato quasi cinque lustri, vide infine la luce a Londra, nel 1729, con il titolo definitivo di «The Fable of the Bees: or, Private Vices, Public Benefits».
Per farsi un’idea della spregiudicatezza del tono adottato dall’Autore, basterà riportare qui la conclusione (da: B. Mandeville, «La favola delle api», traduzione dall’inglese di Maria Goretti, Firenze, Casa Editrice Felice Le Monnier, 1969, XXXI, vv. 409-433, pp. 54-55):
«Lasciate, quindi, le lamentele! Soltanto gli sciocchi si sforzano di fare del grande alveare del mondo un alveare onesto. Godere delle gioie della terra, essere rinomati nella guerra, e ancora vivere in pace, sena grandi vizi è soltanto utopia vana, esistente solo nell’immaginazione. È necessario che la frode, il lusso e la vanità sussistano, se noi vogliamo averne in benefici: allo stesso modo la fame è certo un terribile tormento, ma come digerire e prosperare senza di essa? Non dobbiamo il vino alla vigna, magra, brutta, contorta? La stessa, se i polloni sono lasciati stare, soffoca altre piante e diviene solo legna da bruciare; ma se i rami sono pareggiati e tagliati, subito diviene fecondo e ci dà la benedizione del suo nobile frutto: allo stesso modo il vizio risulta beneficio, purché sia rattenuto e nettato del superfluo dalla Giustizia; anzi, qualora un popolo voglia essere grande, il vizio è necessario in uno Stato come la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. La sua pura virtù non può rendere mai una nazione celebre e gloriosa; coloro che vorrebbero far rivivere l’età dell’oro debbono accettare con la virtù il cibo dei porci.»
Ce n’è abbastanza per mettere tremendamente a disagio il lettore, tanto più se questi appartiene alla specie degli ipocriti, abituati a predicare bene e razzolare male, ma niente affatto disposti a vedersi smascherati così brutalmente dal primo venuto; e Dio sa se, nella Londra e nell’Inghilterra dei primi decenni del Settecento, in piena espansione commerciale e finanziaria, e già in procinto di varare, con mezzo secolo di anticipo sul resto del continente, la propria rivoluzione industriale, una tale specie umana non era ampiamente diffusa e generosamente rappresentata sia nella società civile, che nelle istituzioni e nel Parlamento.
Mai come in questo caso, infatti, per comprendere il senso di uno scritto filosofico – che pure ci sottopone una questione di portata universale – è necessario contestualizzarlo: perché si rischierebbe di non comprendere i veri termini della questione, o, peggio, di fraintenderli completamente, se non si tenesse presente a quale genere di pubblico aveva l’ardire di rivolgersi il suo autore; vale a dire, quale razza di farisei ipocriti aveva deciso di prendere di mira e di sferzare senza troppi complimenti.
Un Paese in piena espansione, dunque; un Paese che si stava giocando, e che stava vincendo, niente meno che la grande partita per il controllo dei traffici internazionali, forte della marina più agguerrita e numerosa del mondo; un Paese governato con un singolare miscuglio d’intraprendenza, audacia, fortuna e assoluta mancanza di scrupoli, unite a una buona dose d’improntitudine; le cui banche stavano allungando i loro tentacoli sul mondo, le cui navi stavano saccheggiando le materie prime dei cinque continenti, le cui merci ad alto costo stavano invadendo i mercati del globo terracqueo, e le cui dottrine politiche liberali e costituzionali si stavano diffondendo con pari successo, magari al rombo dei cannoni, e preparavano il terreno per potersi poi imporre, con la calma, ma con piglio sicuro, uno dopo l’altro in tutti i Paesi del mondo, presentando sé stesso come modello inarrivabile di benessere, di progresso, di civiltà.
Ma ci piace dare la parola al filosofo Emanuele Riverso, abbastanza recentemente scomparso, per la chiarezza e la lucidità del quadro che sa tratteggiare sia della società inglese, sia del modo in cui fu accolto il capolavoro di Mandeville (da: E. Riverso, «Forme culturali e paradigmi umani. Le tappe del pensiero filosofico e pedagogico nella cultura occidentale», Roma, Edizioni Borla, 1988, vol. 2, pp. 304-305):
«L’opera suscitò un putiferio, perché fu accusata di essere una esaltazione o descrizione cinica del vizio. In realtà essa lacerava quel velo di autocompiacimento»e di auto-approvazione morale che gli scrittori dotti, i pubblicisti politici e gli autori di orientamento religioso distendevano sulla società del tempo, creando la buona coscienza in quanti spregiudicatamente si dedicavano alle speculazioni ed agli affari, sconvolgendo le antiche strutture rurali, urbane, produttive, commerciali e morali e creando masse di diseredati, di frustrati, di angosciati, che si addensavano intorno ai centri urbani e presso i nuovi centri minerari e industriali.
Mandeville volle soltanto spiegare che l’enorme prosperità globale dell’Inghilterra del tempo non poteva essere considerata come un premio o la conseguenza di una benedizione divina (secondo la tesi puritana e calvinista in genere che faceva della prosperità materiale un segno di benedizione e di predestinazione), ma nasceva dal cumulo e dall’interazione di attività e intenzioni individuali che, singolarmente prese, e dal punto di vista cristiano,non potevano essere considerate altro che vizi: i vizi privati (avidità, egoismo, spregiudicatezza, avarizia, lussuria) nel contesto libertario dell’Inghilterra dell’epoca, davano luogo a un dinamismo globale, che nel suo insieme produceva ricchezza e prosperità. Era una tesi realistica, l’esame realistico di una società che, al di sotto delle dichiarazioni ufficiali conformi ai valori cristiani, si andava adattando a valori nuovi di profitto, di ricchezza, di dominio e di prestigio economico. Non era meglio esaminare il fatto sociale per quello che realmente era anziché utilizzare finzioni ed ipotesi normative? Non era meglio tener conto delle reali intenzioni delle persone, quando si doveva procedere a iniziative pubbliche, e mettere da parte le ipocrisie, per ordinare in modo più efficace le azioni di governo?
Scrittori, ecclesiastici, moralisti e letterati reagirono violentemente allo scritto di Mandeville, accusandolo di essere un difensore del vizio. Uno di loro, John Dennis, disse di lui che “il vizio e la lussuria hanno trovato un campione e difensore che mai prima avevano trovato; un altro, William Law, disse che l’intento di Mandeville era quello di “liberare l’uomo dalla SAGACIA dei moralisti dal dominio della virtù e ricollocarlo nei diritti e privilegi della brutalità; di richiamarlo dalle vertiginose altezze della dignità razionale e della rassomiglianza con gli Angeli, per farlo andare nell’erba o a rotolarsi nel fango” (in “Remarks upon a Late Book, entituled, The Fable of the Bees, London 1726, p. 6).
Come si presenta oggi, l’opera di Mandeville, che è una delle più significative della storia del pensiero del settecento, comprende una prefazione, una composizione poetica in trenta strofe intitolata “L’alveare brontolone” o “Gli schiavi divenuti onesti”, in cui descrive la vita inglese del settecento con le assurdità, le angosce, gli sconvolgimenti, gli egoismi, la spietatezza tipici del tempo in cui andavano maturando le condizioni per la prima rivoluzione industriale. Segue una breve Introduzione ed una “Ricerca sulla natura della società”. La sua conclusione era che “né le qualità amichevoli e gli affetti gentili che sono naturali agli uomini, né le virtù reali che egli è capace di acquisire mediante la ragione e l’abnegazione, sono il fondamento della società; ma ciò che chiamiamo Male in questo mondo, tanto morale che naturale, è il grande principio che ci rende creature sociali, la solida base, la vita ed il sostegno di tutti i commerci e le attività senza eccezione: è lì che dobbiamo cercar la vera origine di tutte le arti e le scienze e nel momento in ci il Male cessa, la società so deve impoverite, se non dissolversi” (Mandeville, “The Fable of the Bees”, Pelican 1970, p. 370).»
Ammirevole franchezza, dunque; alla quale non ci sentiamo di aggiungere se non che il trionfo del male nelle attività economiche non è una condizione fatale e necessaria, ma il risultato di un certo modello di economia (e di politica): perché una cosa è, ad esempio, una organizzazione economica, giuridica e sociale che, come quella medievale e pre-moderna, proibisce o scoraggia l’usura e che fonda, con il Banco dei Paschi di Siena, la prima banca non speculativa del mondo; e un’altra cosa, e ben diversa, è una organizzazione economica, giuridica e sociale, come quella del nascente capitalismo inglese, che innalza la più spietata concorrenza al rango di legge ineluttabile e universale, che indica il profitto quale unico criterio di misura della bontà di una determinata iniziativa, che fonda la prima grande banca speculativa del mondo.
Insomma: non è un fatto di natura che lo sviluppo dell’economia si fondi sull’egoismo, sulla brutalità, sul cinismo: non qualunque tipo di economia porta a tali esiti, o non nella stessa misura; si tratta, invece, di una caratteristica specifica di un determinati modello di economia, quello basato sullo strapotere finanziario, sulla massimizzazione dei profitti ad ogni costo, sulla riduzione e la degradazione dell’uomo e del lavoro in una merce come qualunque altra. E non è certo un caso se, mezzo secolo dopo che era apparso lo “scandaloso” apologo di Mandeville, l’economista Adam Smith avrebbe teorizzato che dalla somma degli egoismi individuali discende, misteriosamente, anche la prosperità collettiva; e avrebbe tirato in ballo, con pochissimo rigore logico, una non meglio specificata “mano invisibile” per illustrare tale concetto. Perché nella cultura inglese, e specialmente in quella di matrice calvinista, è sempre stata vivissimo il bisogno di drappeggiare il nudo e crudo perseguimento dell’interesse individuale, squisitamente egoistico, di belle formule miranti a dimostrare che non c’è alcuna contraddizione con l’esigenza del bene comune. Non aveva John Locke posto la proprietà privata fra i diritti NATURALI dell’uomo? Ogni azione egoistica dell’individuo, purché questi sia formalmente timorato di Dio (il Dio dei puritani), trova sempre la sua giustificazione e perfino la sua glorificazione, in nome del progresso e del benessere collettivi. Così, ad esempio, gli “Highlanders” scozzesi, e con loro gli ultimi giacobiti, venivano massacrati fino all’ultimo sangue, perché anche le aree più “arretrate” delle Isole Britanniche si aprissero agli incomparabili vantaggi della modernità, del commercio e dell’industria; così i Pellerossa del Nord America venivano irretiti in trattati menzogneri, ingannati e, infine, braccati come bestie feroci, a maggior gloria dei Padri pellegrini e del manifesto destino civilizzatore dei coloni britannici.
La cultura nordamericana ha ereditato in pieno questa tendenza all’autocompiacimento ipocrita e non ha saputo nemmeno sbarazzarsi dell’ormai logoro paravento religioso: basta ascoltare il discorso di insediamento di un qualsiasi presidente degli Stati Uniti; basta udire le invocazioni a Dio affinché benedica l’America, nel momento in cui essa si appresta a perpetrare delle ingiustificabili guerre di aggressione, con la scusa di voler diffondere la democrazia e la libertà di commercio (cioè la libertà d’imporre un commercio ineguale, a tutto svantaggio degli altri), per udire la stesa nota falsa e stridente, per avvertire immediatamente la stessa sfacciata ipocrisia che si nascondeva dietro i bei discorsi di un William Pitt il Vecchio durante la guerra dei Sette Anni.
Non la sfrontatezza di Mandeville nel celebrare il vizio, dunque, ma la sua aspra sincerità nel mostrare «di lacrime grondi e di che sangue» la formula del successo economico e politico, è la cifra giusta per comprendere la «Favola delle api»; anche se permane – perché negarlo? – una vaga sensazione di ambiguità circa le sue reali intenzioni. Così come ci si è chiesti, infatti, sino a che punto George Berkeley aborrisca da quel libero pensiero che aggredisce con argomenti così pericolosamente simili a quelli dei suoi avversari, ci si può chiedere - e la domanda non è indiscreta - fino a che punto Mandeville abbia voluto davvero indossare i panni severi del moralista. Tuttavia, perché fare il processo alle intenzioni? È più importante che almeno una voce, nell’Inghilterra del XVIII secolo, abbia avuto la franchezza di scoprire gli altarini d’una classe dirigente cinica e falsa...
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mardi, 01 octobre 2013
L’amour du monde plutôt que l’amour de dieu
Pierre LE VIGAN
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vendredi, 27 septembre 2013
L’eredità romano-bizantina della Russia nel pensiero di Arnold Toynbee
L’eredità romano-bizantina della Russia nel pensiero di Arnold Toynbee
Preambolo
La recentissima iniziativa diplomatica di Vladimir Putin in relazione alla crisi siriana ha riproposto e rilanciato il ruolo internazionale della Russia, dopo un ventennio di declino seguìto allo smembramento ed al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.
In precedenza, con varie scelte di politica interna (l’azione penale contro le Femen, la lotta contro l’oligarchia affaristico-finanziaria, la polemica e l’opposizione al modello occidentale delle adozioni da parte dei gay), Putin si era posto come esponente di un modello alternativo rispetto a quello del “politicamente corretto” di matrice statunitense, differenziandosi anche da altri esponenti della classe dirigente russa che esprimono un atteggiamento più filo-occidentale.
Nella attuale crisi siriana, la Russia esprime ed afferma una visione geopolitica multipolare che si è concretizzata nell’esito del G-20 di S. Pietroburgo, in cui la sua opposizione all’intervento militare USA in Siria ha coagulato intorno a sé i paesi del BRICS (Brasile, India, Cina, Sudafrica, oltre alla Russia stessa). Il presidente russo ha però compreso che non era sufficiente limitarsi a dire no alla guerra nel teatro siriano, ma occorreva mettere in campo un’iniziativa diplomatica che sottraesse ad Obama il pretesto delle armi chimiche per un intervento bellico ammantato da giustificazioni “umanitarie” e legato, in realtà, ad un preciso disegno geopolitico di smembramento e destabilizzazione delle guide politiche “forti” del mondo arabo e dell’area mediorientale in particolare, in moda da garantirsi il controllo delle fonti energetiche (compreso il grande bacino di gas presente nel sottosuolo del Mediterraneo orientale) e consolidare la supremazia militare e politica di Israele.
Questo rilancio del ruolo internazionale della Russia sia rispetto agli USA, sia rispetto al dialogo euro-mediterraneo, unitamente alla riaffermazione di una diversità culturale russa rispetto ad un occidente americanizzato, sollecita una riflessione sulle radici storico-culturali della Russia e sulla possibilità di riscoprire una koiné culturale euro-russa che investe le origini storiche di questa Nazione e la sua diversità rispetto al modello di un Occidente che graviti sul modello americano.
La diffusione e il rilancio della teoria politica “euroasiatica” (espressa in Italia dalla rivista Eurasia e che vanta illustri precedenti teorici) e la recentissima enucleazione del progetto “Eu-Rus” rendono tale riflessione ancora più attuale e necessaria.
A tale riguardo è molto pertinente considerare un saggio dello storico inglese Arnold Toynbee (Londra 1889-York 1975), dal titolo Civilisation on trial (Oxford, 1948), pubblicato poi in traduzione italiana per le edizioni Bompiani nel 1949 e poi riedito tre volte, fino all’ultima edizione del 2003. Il saggio appare quindi in piena epoca staliniana, quando l’URSS sembrava l’antagonista dell’Occidente nello scenario della “guerra fredda”.
In questo libro – che è un classico della storia comparata e che pur risente fortemente del momento storico in cui viene scritto (il passaggio all’era atomica, la supremazia militare ed economica americana), lo storico inglese si interroga sulle radici remote e sull’ eredità bizantina della Russia, illuminandone una dimensione profonda che, nel contesto storico in cui venne teorizzata, denota la capacità di trascendere le apparenze e identificare le “costanti” della storia.
Toynbee divise la sua attività fra gli incarichi accademici e quelli politico-istituzionali. Fu docente di storia bizantina all’Università di Londra (e questo è un aspetto importante per capire il saggio di cui ci occupiamo) e docente di storia internazionale alla London School of Economics. Egli fece parte di numerose delegazioni inglesi all’estero e fu direttore del Royal Insitute of International Affairs. La sua opera maggiore è A Study of History (Londra-Oxford, 1934-1961) in 12 volumi, ma ricordiamo anche L’eredità di Annibale, pubblicato in Italia da Einaudi, in cui approfondisce le linee guida della politica estera di Roma antica e le conseguenze devastanti della guerra annibalica; siamo in presenza di uno storico famoso la cui opera spazia da Bisanzio a Roma antica, da Annibale alle civiltà orientali, offrendo al lettore un grande scenario d’insieme. Egli unisce lo studio della storia all’esperienza diplomatica ed alla conoscenza della realtà contemporanea.
L’eredità bizantina della Russia
In Civiltà al paragone Toynbee dedica un‘ intero capitolo al tema dell’eredità bizantina della Russia e lo apre con la citazione di una massima di Orazio: “Naturam espellas furca, tamen usque recurret” (“Allontana pure la natura; tuttavia essa ritornerà”).
“Quando tentiamo di rinnegare il passato - scrive lo storico inglese - quest’ultimo ha, come Orazio ben sapeva, un suo modo sornione di tornare fra noi, sottilmente travestito”. Egli non crede quindi alle affermazioni del regime di Stalin secondo cui la Russia avrebbe compiuto un taglio netto col suo passato. In realtà, le radici di un popolo possono manifestarsi in forme nuove, adattate al mutato contesto storico, ma è falso ed illusorio pretendere di cancellare il passato.
Nel decimo secolo d.C. i Russi scelgono deliberatamente – secondo Toynbee – di abbracciare il Cristianesimo ortodosso orientale. Essi avrebbero potuto seguire l’esempio dei loro vicini di sud-est, i Kazars delle steppe – che si convertirono al Giudaismo (v. op.cit., p. 242) – o quello dei Bulgari Bianchi, lungo il Volga, che si convertirono all’Islam nel decimo secolo. Essi preferirono invece accogliere il modello religioso di Bisanzio.
Dopo la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453 e la scomparsa degli ultimi resti dell’Impero Romano d’Oriente, il principato di Mosca assunse in piena coscienza dai Greci l’eredità di Bisanzio.
Nel 1472 il Gran Duca di Mosca, Ivan III, sposò Zoe Paleològos, nipote dell’ultimo imperatore greco di Costantinopoli, ultimo greco a portare la corona dell’Impero Romano d’Oriente. Tale scelta riveste un senso simbolico ben preciso, indicando l’accoglimento e la riproposizione di un archetipo imperiale, come evidenziato da Elémire Zolla.
Nel 1547, Ivan IV (“il Terribile”) “si incoronò Zar, ovvero – scrive Toynbee – Imperatore Romano d’Oriente. Sebbene il titolo fosse vacante, quel gesto di attribuirselo era audace, considerando che nel passato i principi russi erano stati sudditi ecclesiatici di un Metropolita di Mosca o di Kiev, il quale a sua volta era sottoposto al Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, prelato politicamente dipendente dall’Imperatore Greco di Costantinopoli, di cui ora il Granduca Moscovita assumeva titolo, dignità e prerogative”.
Nel 1589 fu compiuto l’ultimo e significativo passo, quando il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, a quel tempo in stato di sudditanza ai Turchi, fu costretto, durante una sua visita a Mosca, a innalzare il Metropolita di Mosca, già suo subordinato, alla dignità di Patriarca indipendente. Per quanto il patriarcato ecumenico greco abbia mantenuto, nel corso dei secoli fino ad oggi, la posizione di primus inter pares fra i capi delle Chiese ortodosse (le quali, unite nella dottrina e nella liturgia, sono però indipendenti l’una dall’altra come governo), tuttavia la Chiesa ortodossa russa divenne, dal momento del riconoscimento della sua indipendenza, la più importante delle Chiese ortodosse, essendo la più forte come numero di fedeli ed anche perché l’unica a godere dell’appoggio di un forte Stato sovrano.
Tale assunzione dell’eredità bizantina non fu un fatto accidentale né il frutto di forze storiche impersonali; secondo lo storico inglese i Russi sapevano benissimo quale ruolo storico avessero scelto di assumere. La loro linea di “grande politica” fu esposta nel sedicesimo secolo con efficace e sintetica chiarezza dal monaco Teofilo di Pakov al Gran Duca Basilio III di Mosca, che regnò fra il terzo e il quarto Ivan (quindi nella prima metà del ‘500):
“La Chiesa dell’antica Roma è caduta a causa della sua eresia; le porte della seconda Roma, Costantinopoli, sono state abbattute dall’ascia dei Turchi infedeli; ma la Chiesa di Mosca, la Chiesa della Nuova Roma, splende più radiosa del sole nell’intero universo… Due Rome sono cadute, ma la Terza è incrollabile; una quarta non vi può essere” .
È significativa questa identificazione esplicita di Mosca con la terza Roma, a indicare l’assunzione, in una nuova forma, dell’ideale romano dell’Imperium, ossia la unificazione di un mosaico di etnie diverse in una entità politica sovranazionale, che è – nella forma storica russa – anche l’autorità da cui dipende quella religiosa ortodossa, così come in precedenza il Patriarca ecumenico di Costantinopoli dipendeva dall’Imperatore di Bisanzio.
In questo messaggio del monaco Teofilo si coglie, inoltre, un esplicito riferimento allo scisma del 1054 d.C. fra le Chiese ortodosse orientali e quella cattolica di Roma, considerata eretica (Toynbee ricorda, al riguardo, la famosa disputa teologica sul “filioque” nel testo del Credo in latino).
Lo storico inglese si chiede perché crollò la Costantinopoli bizantina e perché invece la Mosca bizantina sopravvisse. Egli reputa di trovare la risposta ad entrambi gli enigmi storici in quella che egli chiama “l’istituzione bizantina dello Stato totalitario”, intendendo per tale lo Stato – Impero che esercita il controllo su ogni aspetto della vita dei sudditi. L’ingerenza dello Stato nella vita della Chiesa e la mancanza di autonomia e di libertà di quest’ultima sarebbero state le cause dell’inaridimento delle capacità creative della civiltà bizantina, soprattutto dopo la restaurazione dell’impero di Bisanzio da parte di Leone il Siriano, due generazioni prima della restaurazione dell’Impero d’Occidente da parte di Carlo Magno (restaurazione che Toynbee, da buon inglese fedele ad un’impostazione di preminenza “talassocratica”, considera come un fortunoso fallimento).
La stessa istituzione dello Stato totalitario sarebbe stata invece all’origine della potenza e della continuità storica della Russia, sia perché ne assicurava l’unità interna, sia anche perché tale unità consentiva alla Russia, unitamente alla sua remota posizione geografica rispetto a Bisanzio, di non essere coinvolta nel disfacimento dell’impero bizantino e di restare l’unico Stato sovrano e forte che professasse il cristianesimo ortodosso orientale.
Tale configurazione politica e religiosa implica però che i Russi, nel corso dei secoli, abbiano riferito a se stessi, secondo lo storico inglese, quella primogenitura e supremazia culturale che noi occidentali ci attribuiamo quali eredi della civiltà greco-romana e – secondo Toynbee – anche quali eredi di Israele e dell’Antico Testamento (ma qui il tema si fa più complesso e discusso, perché il cristianesimo occidentale si afferma storicamente in quanto si romanizza e diviene cattolicesimo romano che è fenomeno ben diverso dalla corrente cristiana di Pietro e della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme).
Pertanto in tutti i momenti storici in cui vi sia un conflitto, una divergenza di vedute fra l’Occidente e la Russia, per i Russi l’Occidente ha sempre torto e la Russia, quale erede di Bisanzio, ha sempre ragione. Tale antagonismo si manifesta per la prima volta in modo plastico con lo scisma del 1054 fra le Chiese ortodosse orientali e quella di Roma ma è una costante che si sviluppa in tutto il corso della storia russa, seppure con alterne vicende ed oscillazioni, dovute ad una componente filo-occidentale che pur è presente, talvolta, con Pietro il Grande e con la sua edificazione di san Pietroburgo, la più occidentale delle città russe.
Questo Stato totalitario ha avuto due riformulazioni innovative, una appunto con Pietro il Grande e l’altra con Lenin nel 1917. Agli occhi di Toynbee, il comunismo sovietico si configura come una sorta di nuova religione laicizzata e terrestrizzata, di nuova chiesa, ma la Russia nella sua sostanza, resta pur sempre uno Stato-Impero totalitario – nel senso specificato in precedenza - che raccoglie l’eredità simbolica e politico-religiosa dell’Impero Romano d’Oriente. Ciò equivale a vedere – e in questo il suo sguardo era acuto – il comunismo come una sovrastruttura ideologica, come fenomeno di superficie rispetto alla struttura dell’anima russa, rovesciando così l’impostazione del materialismo storico. In quel momento epocale in cui scrive, Toynbee vede un grande dilemma presentarsi davanti alla Russia: se integrarsi nell’Occidente (che egli vede come sinonimo di una civiltà di impronta anche anglosassone e quindi, implicitamente, nel quadro euro-americano) oppure delineare un suo modello alternativo anti-occidentale. La conclusione dello storico inglese – impressionante per la sua lungimiranza – è che la Russia, come anima, come indole del suo popolo, sarà sempre la “santa Russia” e Mosca sarà sempre la “terza Roma”. Tamen usque recurret.
Considerazioni critiche
L’eredità bizantina della Russia è, in ultima analisi l’eredità romana, la visione imperiale come unità sovrannazionale nella diversità, visione geopolitica dei grandi spazi e della grande politica, ivi compresa la proiezione mediterranea, perché un Impero necessita sempre di un suo sbocco sul mare come grande via di comunicazione.
Tale retaggio romano (lo Czar ha una sua precisa assonanza fonetica con il Caesar romano, come già notava Elémire Zolla in Archetipi, ove evidenzia anche la componente fortemente germanica della dinastia dei Romanov) è la base, il fondamento della koiné culturale con l’Europa occidentale ed è anche la linea di demarcazione, di profonda distinzione rispetto agli USA.
In altri termini, la Russia è Europa, mentre gli USA risalgono ad un meticciato di impronta culturale protestante e calvinista che è tutta’altra cosa in termini di visione della vita e del mondo, nonché di modello di civiltà.
La teoria del blocco continentale russo-germanico – sostenuta, negli anni ’20 del Novecento dal gruppo degli intellettuali di Amburgo nell’ambito del filone della “rivoluzione conservatrice” – e la visione “euroasiatica” affermata da Karl Haushofer trovano il loro fondamento in questi precedenti storico-culturali, senza la conoscenza dei quali non si comprende la storia contemporanea della Russia, la sua proiezione mediterranea, la sua vocazione ad un ruolo di grande potenza nello scacchiere mondiale.
Sta a noi europei – ed a noi italiani, in particolare, per la specificità della nostra storia e delle nostre origini – ritrovare e diffondere la consapevolezza delle radici comuni euro-russe nella prospettiva auspicabile di un blocco continentale euro-russo che sia un modello distinto e alternativo rispetto a quello “occidentale” di impronta statunitense, sia sul piano politico ma soprattutto su quello “culturale”.
In questa ottica, gioveranno anche altri ulteriori approfondimenti teorico-culturali su temi affini, quali il pensiero di Spengler sull’anima russa, la lettura spengleriana della dicotomia Tolstoj-Dostojevski come simbolo di un’ambivalenza russa, il contributo di Zolla sul rapporto fra la Russia e gli archetipi che essa riprende e sviluppa, l’elaborazione culturale della Konservative Revolution sul rapporto russo-germanico.
Il presente contributo è solo l’inizio di uno studio storico-culturale più ampio.
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jeudi, 26 septembre 2013
Land und Meer – Amerikas Ringen mit Europa
Land und Meer – Amerikas Ringen mit Europa
Negative Dialektik: Karl Marx
In der Marx’schen Bestandsaufnahme des „Bonapartismus“ und in der Prognose einer „negativen Aufhebung des Kapitalismus auf kapitalistischer Grundlage“ fand die historische Substanz der französischen und deutschen Staatsmacht und die Kooperation von Kredit- und Industriekapital im 19. Jahrhundert Aufmerksamkeit. Das Kreditkapital konnte nach Marx die Herkunft aus dem Wucher- und Spekulationskapital nicht verleugnen. Es trieb zwar die industrielle Akkumulation über die nationalen Reserven hinaus, indem es im Weltmaßstab die brachliegenden Gelder mobilisierte, trotzdem fand es wiederholt Gefallen an Raub, Piraterie, Diebstahl und Betrug. Der Weltmarkt und die Weltmeere wiesen unzählige Schlupfwinkel auf. Gelegenheiten boten sich, wenn „faule Papiere“ angeboten wurden, Aktien, Schuldscheine, Anrechte, Fonds, die irgendwann aufflogen, waren sie doch nur teilweise durch „Werte“, Geld, Gold, Rohstoffe, Immobilien, Industrieanlagen, gedeckt. Hier ließen sich Milliarden von Dollar verdienen. Schon deshalb war das Kreditkapital daran interessiert, einen internationalen „Raum“, Markt oder Niederlassungen zu finden, die nicht von den nationalen Staaten kontrolliert werden konnten. Überhaupt lehnte der „Internationalismus“ dieses Kapitals den Staat oder die Staatskontrolle ab. Es selbst wollte „frei“ und „ungebunden“ auftrumpfen und umgekehrt die staatlichen Eingriffe und Begrenzungen beeinflussen oder festlegen. Deshalb beteiligte sich das Kreditkapital an den neuartigen Staatsgründungen in Frankreich, Europa und Nordamerika. Die bonapartistische Diktatur in Frankreich würde diesem Staat Aussehen und Farbe verleihen.
Der bonapartistische Staat gab die selbstherrliche Form des Absolutismus auf, nutzte jedoch dessen Machtapparate von Polizei und Militär, um die Veränderungen in Gesellschaft und Staat abzusichern. Dieser neuartige Staatstyp entwickelte neue Methoden von Herrschaft, die er aus den Operationen aus Handel, Kredit, Spekulation erschloß und die er mit der Stabilität des Militärabsolutismus verband. Er verstand sich als Einrichtung, über Konjunkturpolitik, Staatsaufträge, Investitionen, die Überproduktions- bzw. Spekulationskrisen und die Massenarbeitslosigkeit zu bekämpfen. Der Staat sollte für die Risiken und Schulden der Machenschaften und Spekulationen aufkommen. Die „Verselbständigung“ der Macht von Kapital und Staat durch eine Präsidialdiktatur bzw. durch eine konstitutionelle Monarchie benötigte neben den alten Machtzentren die neuen Institutionen von Wirtschafts- und Sozialpolitik. Diese kooperierten eng mit der Privatökonomie, mit dem Bankkapital und mit den staatlichen Aufgaben, um die unterschiedlichen sozialen Schichten unter Aufsicht zu halten. Außerdem war dieser neuartige Staat auf politische Bündnisse, Kooperationen der Klassenfraktionen oder auf identische Massenparteien angewiesen. Sie sollten propagandistisch die Klassen auf „Masse“, „Volk“ oder den „Untertanen“ vereinigen. Die Propaganda dieser neuartigen „Partei“ machte Anleihen bei den Religionen bzw. bildete nach deren Vorbild eine „politische Religion“ heraus. Ein Präsident nutzte die neuen Formen von Propaganda und Selbstdarstellung, und er gründete eine Massenpartei, um sich über Wahlkampf und Inszenierung in die Funktion und Rolle eines zivilen „Ersatzkaisers“ zu bringen. Gewerkschaften und sozialistische Parteien sollten durch „utopische Ideale“ übertrumpft und durch die Polizei ausgeschaltet werden. Vor allem in Frankreich und in USA erlangte dieser „Demokratietyp“ politische Anerkennung. Die „negative Aufhebung“ des Kapitalismus mobilisierte diese „bonapartistischen Auftritte“ von Skandal, Medien, Sicherheits- und Militärpolitik, um über den Staat eine Regelung von Wirtschaft und Gesellschaft anzustreben. Es galt außerdem, die Massen ideologisch einzubinden und die finanzpolitischen Ziele des Bank- und Finanzkapitals aufzunehmen. Trotzdem errichteten die alten „Klassen“ aus Staatsapparat, Militär und Grundeigentum gegen diese Interventionen in Wirtschaft und Staat Hindernisse.
Indessen hatten die USA in ihrem bonapartistischen „System“ der „Transformationen“ und der „Aufhebung“ nicht die historischen Blockaden Europas. Als Präsidialmacht unter dem Einfluß von zwei identischen Großparteien wurde der „bonapartistische Putsch“ bei jeder Präsidentenwahl wiederholt und friedlich erledigt. Dadurch verliefen die Interventionen des Finanzkapitals nach einem einfachen Muster. Sie finanzierten die aufwendigen Wahlkämpfe. Der „Präsident“ lief nicht aus dem Ruder, wenn er auf ihre Geldspenden und Ratschläge angewiesen war. Sie sorgten dafür, daß die entstehende Großmacht die Handelswege und Finanzoperationen deckte und zugleich über die Flotte und das Militär den Zugriff auf die Weltrohstoffe sicherte. Hier wirkte eine Weltmacht, die die Weltmeere und Kontinente beherrschen wollte und die den europäischen Imperialismus überall zurückdrängte. Über die Handels- und Menschenrechte, über Militärstützpunkte und abhängige Regierungen oder über die Stärke der Wirtschaft und des „Dollars“ ließen sich alle Grenzen öffnen. Die „inszenierte Demokratie“ von Wahlen und Parteien war den bonapartistischen Manövern in Europa überlegen. In den USA entstand ein dynamischer Kapitalismus, der die Staatseingriffe für seine Operationen nutzte. Für Marx war diese vorerst letzte Form von Kapitalismus keine Alternative zum Sozialismus. Der nordamerikanische Kapitalismus würde zu keinem Zeitpunkt den bonapartistischen Aufbau von Staatsmacht und potentieller Diktatur abschütteln können. Ähnlich wie im europäischen „Bonapartismus“ lagen ihm die „Explosionen“ von Krisen, Kriegen, Armut, Arbeitslosigkeit, Chaos und Selbstzerstörung zugrunde. Nur mit „Ausnahmegesetzen“ ließen sich derartige Deformationen bekämpfen.
Die USA konnten nach Marx den europäischen Kapitalismus und die einzelnen Mächte übertrumpfen, trotzdem ließ sich die immanente „Negativität“ nicht positiv aufheben. Der alte Revolutionär Marx konnte sich nicht vorstellen, daß die sozialistische Arbeiterbewegung scheitern würde, deshalb erhob er die „Pariser Kommune“ zum Symbol des kommunistischen Manifests. Der „bonapartistische Staat“ mußte zerschlagen werden. Die Rücknahme der Funktionen des Staates in die Selbstverwaltung der Produzenten ermöglichte erst die Einrichtung der sozialen Demokratie und die Garantien der politischen Freiheit. Marx skizzierte in den Analysen der „bonapartistischen Form“ von Staat und Kapital die Kriege und Diktaturen im 20. Jahrhundert. Allerdings ließ seine „dialektische Sicht“ nicht zu, sich einzugestehen, daß ein „realhistorischer Sozialismus“ in Europa die traditionellen Herrschaftsformen aufnahm und radikalisierte und gegen Nordamerika sich nicht behaupten konnte. Die USA und nicht die Arbeiterklasse würden jedoch Europa vor dem „Untergang“ retten.
Zur Theorie des Finanzkapitals: Rudolf Hilferding
Die sozialdemokratischen Analytiker des Finanzkapitals, etwa Rudolf Hilferding und Otto Bauer, berücksichtigten die Veränderungen in den Funktionen des Kreditkapitals, die sich unmittelbar auf die kapitalistische Produktion auswirkten. Das Industriekapital wurde durch die Kooperation mit den Kreditbanken in die Lage versetzt, die eigenen Verwertungs- und Kapitalgrenzen zu übersteigen. Das brachliegende Geld der Gesellschaft wurde durch diese Banken aufgenommen und als Fremdkapital den Einzelbetrieben zur Verfügung gestellt. Sie investierten in die neuen Technologien. Das Finanzkapital absorbierte als ökonomische und politische Macht das Industriekapital. Kartelle und „Syndikate“ entstanden, die als konzentrierte Betriebe oder zentrale Einheiten einzelne Industriebranchen überspannten. Partiell mauserte es sich zum „Weltkapital“, wenn es die Herrschaft über einzelne Rohstoffe, Währungen oder Staaten antrat. Der „moderne Imperialismus“ beruhte deshalb auf Rüstung, Kolonialismus und Militarismus. Daneben repräsentierte er die Geldmacht, den Reichtum und den Anschein von Demokratie und Medienmacht. Zugleich war das Kapital versucht, die Staatseliten unter Kontrolle zu nehmen, um die Staatsverschuldung, die Währungspolitik und die Rüstungswirtschaft unter Aufsicht zu halten. Das gelang nur bedingt, denn die Militärs und Rüstungspolitiker ließen sich als „alte Klassen“ auf die verschiedenen Ansätze von Einflußnahme und „Korruption“ nur bedingt ein. Sie verfolgten durchaus eigene Interessen.
Die wachsende Arbeitslosigkeit und die Existenz der alten Klassen machten zugleich auch politische Maßnahmen notwendig, die Macht von Kapital und Staat ideologisch und politisch abzusichern bzw. die Kritik der sozialdemokratischen Opposition abzuschwächen und zu überspielen. Das „Ideologische“ erlangte für das Finanzkapital neben der Finanzspekulation eine neue Bedeutung. Für die sozialdemokratischen Theoretiker gab es die Konkurrenz und die Kombinationen des alten Staates mit dem Finanzkapital. Neben der Planung und Organisation des Kapitalismus stritt man in Fragen von Flottenbau und Kolonialpolitik. Zugleich wurden Tendenzen zur Selbstzerstörung und Krieg durch Militärbündnisse und den Aufmarsch der kontinentalen Armeen sichtbar. Aufrüstung und Kriegsvorbereitung stärkten die alten Eliten und gaben dem Finanzkapital neue Potentiale der Einflußnahme. Die Sozialpolitik zwang zur Integration von SPD und Zentrum in den Staatsapparat. Hier lag die politische Chance der Sozialdemokratie, gegen die alten Eliten und das Finanzkapital eine neue Ordnung einzuführen. Das Finanzkapital in Deutschland war zugleich daran interessiert, politische Parteien zu unterstützen, die dem Krieg und der Rüstung zugewandt waren und mit den alten Klassen kooperieren konnten. In der Kriegswirtschaft klappte die Zusammenarbeit mit den Gewerkschaften. Nach 1918 wurden die gegenrevolutionären Kräfte, Parteien, Freikorps und Vereinigungen unterstützt.
Im Selbstverständnis des Finanzkapitals verkörperte der entstehende Nationalsozialismus die politische Chance, ideologisch und politisch die eigene Macht gegenüber den Staatseliten und der Linksopposition zu stärken. Die Notwendigkeit einer Vermittlung von Ökonomie und Ideologie war in Deutschland genauso gegeben wie in den USA. Deshalb befand sich das „Finanzkapital“ Europas in einem Übergang zu „freien Formen“ der Herrschaft, die die Bindung an die alten europäischen Mächte abstreifen würden. Die Zerschlagung des alten Staates schuf die Voraussetzungen für die finanzkapitalistischen Initiativen, entweder die bestehende Demokratie zu kooptieren oder eine Diktatur zu favorisieren. In Deutschland wurden die Experimente der Notverordnungsdiktaturen nach 1933 ersetzt durch die Kooperation mit der NSdAP. Die „große Koalition“ von Gewerkschaften, SPD und Zentrumspartei, die eine Militärdiktatur tragen sollte, barg die Risiken einer „sozialistischen Planwirtschaft“ gegen das Finanzkapital. Die Nazis versprachen eine massive Aufrüstung und waren für die Wirtschaftseliten leichter handhabbar. Sie sollten sich irren. In Zentraleuropa blieben vorerst die Wege der USA verschlossen. Der Ballast der Vergangenheit drängte zu diktatorischen Lösungen. Der „organisierte Kapitalismus“ öffnete sich nicht dem Rechtsstaat und bildete keinen Übergang zum Sozialismus. Hilferding als Wirtschaftspolitiker mußte seinen theoretischen Irrtum einsehen. Die Kooperation des Medienkapitals mit dem Finanzkapital und der Einsatz einer Propaganda- und „völkischen“ Partei bewiesen ihm, daß gegen die gespaltene Arbeiterbewegung eine neuartige, politische Front die Bedingungen von Politik festlegte und zur totalen Macht strebte. Die Beziehungen der SPD und der Gewerkschaften zum Finanzkapital bargen die Gefahr, daß die sozialistische Arbeiterbewegung zurückgedrängt und ausgeschaltet wurde.
Die Bonapartismusanalyse und die Bestimmungen der „negativen Aufhebung“ des Kapitals, die Marx vorgelegt hatte, wurden durch Hilferding ergänzt: die Koexistenz von Rüstung, Medien und Finanzspekulationen lief darauf zu, das Volk neu zu „ordnen“ und über die Propaganda und die Staatsmacht zu kontrollieren. Damit wurden die wichtigsten Voraussetzungen für Kriegsvorbereitung erfüllt. Das US-amerikanische Finanzkapital hatte nach Hilferding Anteil an der Kredit- und Pleitepolitik während der Weltwirtschaftskrise in Deutschland. Hier stand es allerdings in Konkurrenz zur deutschen Variante der Finanzoperationen. Es besaß jedoch andere Ausmaße und Möglichkeiten und sicherte sich weltweit ab. Außerdem wurde es in USA nicht gezwungen, in den politischen Radikalismus zu investieren. Die zwei identischen Volks- und Medienparteien in USA erfüllten ihre politische Aufgabe, ohne in offen totalitäre Ziele überzuleiten. Der „Sozialismus“ in Gestalt einer Partei und Gewerkschaft konnte in den Vereinigten Staaten keine sozialen Grundlagen gewinnen. Das Finanzkapital mußte sich nicht wie in Europa um überbrachte Herrschaftstraditionen, radikale Parteien oder sozialistische Gewerkschaften kehren. Es konnte sich weiterhin „frei“ entwickeln. Der europäische Bonapartismus, Faschismus oder Nationalsozialismus konnten die kontinentalen Bindungen nicht abwerfen. Die USA als Imperium und Seemacht dagegen waren von allen Fesseln der Tradition entbunden. Sie zeigten sich offen für die vielfältigen Experimente in der Machttechnik und in der Inszenierung von Politik.
Revolution und Tradition: die Wiedergeburt der russischen Großmacht
Georgij Plechanov entwarf in seiner Schrift „das Jahr in der Heimat“ von 1917/18 ein Bild des „Roten Oktobers“, das die Differenz des russischen Bolschewismus zum „Westen“ und zu den Menschewiki herausstellte und zugleich die russischen Grundmuster von „Staatlichkeit“ im Bolschewismus unterstrich. Ähnlich argumentierte Karl Kautsky zum gleichen Zeitpunkt in seiner Skizze über „Terrorismus und Kommunismus“. Die bolschewistischen Theoretiker um W. I. Lenin, N. Bucharin, Leo Trotzki und später J W. Stalin lösten sich in ihren Theorien von Partei und Revolution nicht von der russischen Tradition despotischer und asiatischer Macht. Die bolschewistische „Revolution“ würde diese historischen Grundlagen aktualisieren und den Methoden der bonapartistischen Herrschaft anpassen und überbieten. In der Parteiauffassung wurde eine Elitekonzeption vertreten, die sich am politischen Gegner aus dem Staatsapparat und an der Tradition der terroristischen Staatsgewalt der „großen Zaren“ messen wollte. Die bolschewistischen Berufsrevolutionäre waren überzeugt, daß das russische Volk in der Mehrzahl die vorkapitalistischen Verhältnissen nicht aufgegeben hatte. Eine revolutionäre Diktatur konnte das Wagnis auf sich nehmen, dieses Volk hineinzunehmen in Aufgaben einer forcierten Industrialisierung und Umwälzung der Gesellschaft. Es ließ sich von oben über Terror und Propaganda zur „werktätigen“ Masse vereinen. Die Revolutionäre distanzierten sich von den archaischen Völkern Rußlands und setzten auf eine umfassende Staatsgewalt, die vielen Völker den unterschiedlichen Formen von Zwangsarbeit und einer „großrussischen Vision“ zu unterwerfen. Über Partei, Massenorganisationen, Propaganda, Bildung, Militär und Polizei wurde die Gesellschaft „verstaatlicht“, eine Zielsetzung, die der „bonapartistische Staat“ im Westen kaum erfüllen konnte. Die Parteiavantgarden würden dieses Volk über Terror und Disziplin einspannen in die „historischen“ Aufgaben, das rückständige und hoffnungslose Rußland in das industrielle Zeitalter zu wuchten. Es würde nur eine „Partei“ geben, die als Massenpartei auf ein Machtzentrum konzentriert wäre, ein Machtzentrum, das die Ziele von Politik und „Transformation“ diktierte. Dieses Zentralbüro war faktisch als eine „Verschwörung“ gegen Staat und Volk anzusehen. Es besetzte jedoch den Staat über eine allmächtige Geheimpolizei und sorgte über sie für die Koordination der unterschiedlichen Staatsaufgaben. Zugleich besetzten diese „Verschwörer“ die Gesellschaft, indem neben dieser „Sozialpolizei“ Massenorganisationen als die Übersetzer der Propaganda und der Umerziehung dienten. Der Machtaufbau konditionierte neben der despotischen Herrschaft die Elemente von Mafia oder der kriminellen Banden aus den kaukasischen Gebieten zur Staats- und Machtstruktur.
Die alten Klassen hatten sich bis 1917 den Aktivitäten des ausländischen Kapitals unterworfen, vorsichtig die russische Wirtschaft der ursprünglichen Akkumulation des Kapitals zu öffnen. Der westliche Imperialismus hatte seine finanzielle und industrielle Macht genutzt, die Bodenschätze in Besitz zu nehmen, Industriezentren zu schaffen und Rußland in Abhängigkeit zu bringen. Im Ersten Weltkrieg wurde dieses Land in die Kriegskoalition mit den Westmächten gegen das deutsche Kaiserreich gezwungen. Für das westliche Finanzkapital brachte es ein riesiges Blutopfer. Aus diesen Gründen bemühten sich die Bolschewiki nach 1917, diesen staatlichen Überbau und die Keimformen der „westlichen Klassen“ und ihrer Gesinnung zu zerstören. Der alte Macht- und Staatsapparat mußte zerschlagen werden, schon um die anstehenden Umwälzungen nach russischen Maßstäben durchzuführen. Außerdem mußten alle Ansätze des westeuropäischen Rechtsstaates und der Konstitution aufgelöst werden. Alle Bindungen an den „Westen“ wurden zertrümmert. Eine Diktatur als Kombination einer traditionell asiatischen Macht und des Planstaates würde das historische Werk des industriellen Fortschritts vollenden. Aller Widerstand im Volke mußte über einen permanenten Krieg gegen die „Volksfeinde“ gebrochen werden. Zum „Feind“ wurden jede Form von Widerspruch, Liberalismus und Sozialdemokratie genauso gerechnet wie die westlichen Einflüsse im „jüdischen Bolschewismus/Trotzkismus“ oder die archaischen Relikte des alten Rußland.
Terror und Propaganda wurden zur „Produktivkraft“ erhoben und galten als das gesellschaftliche Mittel, über Zwangsmaßnahmen jede Opposition einzuschüchtern und die Jugend in die freiwerdenden Positionen einzubinden. Die Willkür im Terror folgte einer asiatischen Herrschaftstechnik wie sie auch schon das Handeln Ivans des Schrecklichen kennzeichnete, alle potentiellen Ansätze von Fraktion, Cliquen und Klüngel, Schlamperei, Bürokratismus oder Widerstand zu zerschlagen und Chaos und Angst zu schüren, um darüber die Hingabe der Massen an den „großen Führer“ zu erreichen. Stalin bewies später über Zwang und Massenterror seine „Unfehlbarkeit“ als gottgleicher Herrscher über Leben und Tod und ließ sich von seinem Volk durch Paraden, Aufmärsche, Prozessionen und Kulte feiern, die an die Huldigungen für „Alexander des Großen“ durch sein Volk und seine Krieger erinnerten. Eine „kulturellen Revolution“ als die Mischung von Terror und Propaganda zerstörte jede „proletarische“ oder bäuerliche Eigenständigkeit und verfolgte das Ziel, eine absolute Unterwerfung zu erzwingen. Die revolutionäre Diktatur umwarb die Jugend und erneuerte die Gesellschaft durch einen permanent durch tschekistische Säuberungen herbeigeführten Generationenaustausch. Riesige Produktionsschlachten und Technikkriege mußten in der Zukunft bestanden werden. Mit dieser Mobilisierung konnten die russischen Partisanen und die Rote Armee der deutschen Wehrmacht widerstehen. Millionen Soldaten wurden in diesen Kriegen geopfert. Das revolutionäre Rußland würde das Symbol der europäischen Landmacht stellen und sich gegen die USA nach 1945 positionieren. Es profilierte sich als die letzte europäische Großmacht.
Das Religiöse wurde vorerst von der russischen Orthodoxie gelöst und eingebunden in eine „politische Religion“, die gleichzeitig die Arbeitsethik mit Patriotismus, Disziplin, Gehorsam und Unterwerfung verbinden mußte. Außerdem mußte sie so etwas bieten wie Weltanschauung und Parteilichkeit. Der Marxismus – Leninismus setzte die Distanzierung zur Tradition, die von Marx und der europäischen Sozialdemokratie eingeleitet wurde, nicht fort. Die bolschewistische Ideologie blieb in der russischen Tradition von Despotie und theologischer „Parteilichkeit“ befangen. Deshalb radikalisierte und inspirierte diese Ideologie das Revolutionsdenken in Asien, vor allem in China und beeindruckte das konservative Denken in Deutschland und Westeuropa.
Der russische Bolschewismus als Staatsmacht enthielt bonapartistische und faschistische Elemente, behauptete in den dreißiger Jahren auch Leo Trotzkij. Als „Transformationssystem“ von Partei und Propaganda kopierte der Stalin’sche Bolschewismus den bonapartistischen Staat und übertraf ihn. Als Terrorapparat, Geheimpolizei, Zwangsarbeit, Massenmord, Säuberung und Liquidation der Revolutionskader von 1917 war er auf die uralten Herrschaftstechniken asiatischer Despoten ausgerichtet. Die Anlage der riesigen Arbeitslager und einer Militärindustrie außerhalb der zivilen Produktion nahm die nationalsozialistischen Konzentrationslager vorweg, gab ihnen jedoch über die Zwangsarbeit eine andere Funktion. Die bolschewistische Macht bekämpfte die westlichen Ideen von Freiheit und Sozialismus. Die USA wurden zum Hauptfeind. Der Stalin’sche Terrorstaat überbot die europäischen Traditionen von Absolutismus und Militärmacht und verknüpfte sie mit den asiatischen Zielen, Massen zu zügeln und zum Einsatz zu bringen. Das bolschewistische Rußland bildete eine Landmacht, deren Wurzeln fernöstliche Traditionen aufnahm, zugleich ließ es sich vom Nationalsozialismus beeindrucken. Die ursprüngliche Akkumulation des Kapitals und die industrielle Revolution wurden über die Staatswirtschaft und Rüstungsindustrie geregelt. Ein „permanenter Kriegskommunismus“ schaffte sogar den Anschluß an das westliche Technikniveau, war allerdings der Konkurrenz mit der kapitalistischen Produktivität nicht gewachsen. Die Reformen stießen an die Grenzen von Mentalität und Tradition. Irgendwann wirkte der innere Bürgerkrieg kontraproduktiv. Die Planwirtschaft brach zusammen. Die „Partei“ unter Michail Gorbatschow beendete erst 1989 das bolschewistische Experiment.
Konservative Reaktionen auf Krieg und Revolution: Max Weber
Inwieweit die konservativen Soziologen und Verfassungsrechtler Marx, Hilferding, Lenin, Trotzki oder Stalin gelesen hatten, läßt sich schwer nachweisen. Sie nahmen jedoch Themen auf, die von den marxistischen Theoretikern angesprochen wurden und die sich historisch aufdrängten. Die Synthese von Militärabsolutismus, „Bonapartismus“ und Tradition beschäftigte die konservativen Denker intensiv. Das Zusammenspiel von Industrie-, Finanzkapital und Staat bildete ein wichtiges Thema. Die Kombination von Religion und Zwang in der modernen Variante von Terror und Propaganda fand Aufmerksamkeit. Die ideologische Mobilmachung, um eine gespaltene Gesellschaft neu zu gestalten oder zu gewaltigen, historischen Aufgaben aufzurufen, beschäftigte die konservativen Denker. Die Umwandlungen und Funktionen der Religion in den modernen Ideologien ergaben sich aus dieser Thematik. Die Ereignisse in Rußland 1905 und 1917 oder in Deutschland nach 1914 im Weltkrieg wurden zur Kenntnis genommen und in einer Neuformulierung konservativer Werte umgesetzt. Wollte der Konservatismus gegenüber Liberalismus, Sozialismus oder Kommunismus an Bedeutung zurückgewinnen, mußte er „revolutioniert“ und aktualisiert werden. Davon waren die politischen Konservativen wie Oswald Spengler, Max Weber, Werner Sombart, Hans Freyer, Carl Schmitt überzeugt. Die bolschewistischen und faschistischen bzw. nationalsozialistischen Umwälzungen als Folgen von Krieg und Bürgerkrieg beeindruckten die konservativen Denker, weil diese politischen Umbrüche über Staat und „Partei“ die konservativen Ziele und Vorstellungen neu bewerteten. Die Völker wurden über Ideologie und Propaganda neu geformt und in kurzer Zeit zu Krieg und großen Leistungen angespornt. Die alten „Strukturen“ von Macht und Volk wurden reaktiviert und neu gruppiert. Die Konservativen lehnten zwar die Methoden einer „Kollektivierung“ des Volkes oder die totale Mobilmachung ab, trotzdem beunruhigte sie die Flexibilität und Umsetzbarkeit einer Ideologie, die die konservativen Traditionen aufzunehmen und auszubeuten schien.
Oswald Spengler entdeckte die Grundtendenz der europäischen, westlichen Gesellschaft im Übergang der Demokratie in den „Cäsarismus“. Diese Transformation war nach seiner Überzeugung angelegt im Parlamentarismus und in der Parteienherrschaft. Sie fand ihren Rückhalt in Kriegswirtschaft, Militär und Staatsplanung. Sie bildeten als Organisation und Hierarchie den Boden für die Heraufkunft der neuen Cäsaren. Diese nutzten primär ihre Sonderstellung im Partei- oder Staatapparat, um zur absoluten Herrschaft zu gelangen. Zugleich setzten sie die neuen Medien als Boulevar- und Massenzeitung, als Demonstration und Kundgebung ein, um sich als einmalige Führer und Politiker vorzustellen und durchzusetzen. Über „Führerkulte“ und über eine verengte bzw. „künstliche“ Weltsicht wurden die „Massen“ auf die Diktatur als die „Lösung“ aller Fragen von Krieg und Frieden eingeschworen. Sie wurden vom zukünftigen Diktator poltisch gefügt und geordnet. Die Definition der Massen über Propaganda, Reklame, Illusionen und ihre Reduktion auf Gehorsam und Pflicht, auf den Massencharakter, auf den „Fellachen“, wurden von Spengler als Voraussetzung angesehen, die bestehende Demokratie in eine Diktatur überzuleiten. Ein Polizei- und Staatsterror verfestigte diese Grundlagen des entstehenden Führermacht. Die Bedeutung des „Geldes“ und die „Fetischisierung“ aller Beziehungen durch Geldgeschäfte bzw. die Rolle der Banken in der Politik erlangten in einer demokratischen Republik Bedeutung, die sich offen zeigte für derartige Machenschaften. Politik, Parteien, Führerpersönlichkeiten wurden finanziert und eigebunden in Privatinteressen. Eine entstehende Diktatur äußerte sich im Aufbau der Parteien und in den Einflußnahmen der Wirtschaft auf Staat und Politik. Sie leitete eine Endphase von Gesellschaft ein, die außerhalb der Diktatur keine Kräfte besaß, sich zu erneuern oder gar zu demokratisieren.
Für Spengler erfüllte eine derartige Staatsmacht den historischen Auftrag, die westliche Zivilisation endgültig zu zerstören. Sie folgte einer „Wiederkehr“, die die Potenz enthielt, große Kulturen zu schaffen und verschwinden zu lassen. Das neue Europa folgte hier dem historischen Auftrag der Selbstzertrümmerung des antiken Griechenlands und der römischen Kultur. Spengler übertrug die Stimmungen und die Kriegsbegeisterung des Kaiserreichs auf seine Weltsicht. Nicht im obersten Kriegsherrn, im Monarchen, erblickte er den zukünftigen Diktator. Er würde seine „Mission“ und seine „Realität“ aus den Aktivitäten des Generalstabs oder der Parteien herausfinden. Diese Apparate mobilisierten und lenkten die „Massen“ gleichsam für den Krieg oder den Frieden. Sie benötigten die Befehlsgewalt, die in letzter Konsequenz von einem Diktator ausgehen mußte.
Spengler zeigte sich in seinen Untergangsvisionen als Philosoph und Metaphysiker, der den „Naturalismus“, den „Pantheismus“ von Johann W. Goethe und die Lebensphilosophie Friedrich Nietzsche in der Interpretation von Georg Simmel übersetzte. Religionen und Ideologien folgten der Tendenz zum letzten „Cäsar“. Sie bargen keinerlei Geheimnis der Widerwehr oder des Neuanfangs. Der Ausdruck der Schwäche und der Sklavenseele konnte in ihnen entdeckt werden. Als „Sozialismus“, „Liberalismus“ oder „Konservatismus“ nahmen die Ideologien als Übertragung religiöser Gefühle die Interessen nach Diktatur oder Alleinherrschaft auf. Die Gesellschaft interpretierte Spengler als „Pflanze“, als „Organ“, als „Lebewesen“, das die Stadien der Entwicklung und des Alters, Zerfalls, des Todes durchmachte und nun im „Abendland“ an den Endpunkt des „Absterbens“ gelangte. Den „Cäsarismus“ interpretierte er als Lebensgefühl, als Fatalität der grauen „Massen“, die durch den modernen Industrialismus und durch die „Lebenswelten“ von Organisation, Fabrik, Büro, Militär und Propaganda entwurzelt wurden und die sich nach Führung und Befehl sehnten. Ein wissenschaftlicher und soziologischer Zugang zum Weltgeschehen blieb Spengler fremd.
Max Weber, angeregt durch die Kant’sche Philosophie und durch den französischen Positivismus, war angetan von einer „objektiven“ Sichtweise der aktuellen Veränderungen in „Wirtschaft und Gesellschaft“. Ihren inneren Maßstab und Dynamik wollte er erkunden und zugleich die Triebkräfte als Herrschaftsformen und religiöse Motive herausfinden. Er betonte in seinem Hauptwerk, durchaus beeinflußt von den geschichtsphilosophischen Thesen Spenglers, nicht zufällig die Koexistenz der unterschiedlichen Herrschaftsformen in Industrie und Staatsverwaltung. Allerdings weigerte er sich, den Prognosen des “Untergangs des Abendlandes“ zu folgen. In den modernen Demokratie existierte der Widerspruch alter Herrschaftsformen mit den Ansätzen rationaler Arbeitsteilung. Vor allem die protestantische Religion und die ihr entsprechenden Ideologien und Parteien blockierten die soziale Stagnation und schufen in Krisensituationen Auswege und Neuanfänge.
In seinen Studien über die „russische Revolution“ und über die „protestantischen Sekten in Amerika“ stieß er auf die „Produktivität“ von Religion oder religiös aufgeladener Ideologie. In Rußland gelang es den unterschiedlichen Fraktionen der Sozialdemokratie das Volk zu spalten und vom Zarismus und der alten Gesellschaft zu trennen. Unter neuen Vorzeichen wurde die „Größe“ Rußlands propagiert. Wurde diese soziale Umwälzung weiterhin organisiert und gefestigt, würde die sozialdemokratische Ideologie die Ziele einer kulturellen und industriellen Veränderung aufnehmen, ohne die „russischen Werte“ anzutasten. Rußland würde sich über eine Revolution erneuern können und zur Weltmacht aufsteigen. In USA zeigte sich der Protestantismus offen für wirtschaftliche Ziele und Aufgaben. Die Siedler nahmen Entbehrungen auf sich, um das Land zu besetzen und zu bebauen und eine neue Gesellschaft zu errichten. Weber vermutete sogar einen inneren Zusammenhang zwischen Sozialdemokratie und Protestantismus. Das „antike Judentum“ schien nach Weber seit historischen Zeiten eng verbunden mit dem Geschäftsleben und mit der finanziellen Spekulation. Den Bezug zur produktiven Arbeit bestritt er, obwohl er zugeben mußte, daß in dieser Ursprungsreligion viele Reformansätze des Christentums enthalten waren. Werner Sombart dagegen interpretierte im Judentum die Ursachen und Motive einer kapitalistischen Gesinnung. Für ihn enthielt die jüdische Religion die wirklichen Werte und Quellen des kapitalistischen Aufbruchs in der Welt.
Die „Koexistenz der Herrschaftsformen“ bildete den produktiven Rückhalt einer sich wirtschaftlich verändernden Gesellschaft. Weber wußte, daß eine rationale Arbeitsteilung nicht ausreichte, um die Produktivität zu steigern. Das Management mußte sich um die innere Organisation, den „Betriebsfrieden“ und die mentale Zusammenarbeit in der Belegschaft kümmern. Die unterschiedlichen Methoden von Aufsicht und Fürsprache mußten aufeinander abgestimmt sein. Vertrauen mußte über eine Verantwortungsethik der Betriebsführer hergestellt werden. Patriarchalische Herrschaftsverhältnisse existierten gleichzeitig in Familie, Handwerk, Bauernschaft, Bürokratie, Parteien und Armee, obwohl rationale Ansprüche und Rechtsformen vorhanden waren und oft dominierten. Im Kontext der „charismatischen Herrschaft“ wurde das Religiöse, Prophetische oder das Priesterhafte der Generäle, Agitatoren oder Politiker angesprochen. Sie zeigten sich als Meister in der Propaganda, in politischen Mobilisierungen und Parteipolitik, wenn es sich um „Schicksalsfragen“ handelte, es um Krieg und Frieden ging oder hervorragende Leistungen erwartet wurden. Die charismatischen Führer mobilisierten Sehnsüchte, Hoffnungen und Ängste in den Massen und Gefolgschaften. Die Führer wurden zur Inkarnation von Idee und Ziel. Dadurch erreichten sie ihre „Verkörperung“ in jedem Einzelnen und fügten sie zur Masse. Über eine derartige Führerschaft und durch die Übersetzungskunst in einer inszenierten Medienwirklichkeit ließen sich Massen begeistern und Abstand nehmen von allen Bedenken und Vorurteilen. Derartige „Führer“ schienen nach Weber notwendig zu sein, um eine Gesellschaft aus der Stagnation zu bringen. Er hegte wohl nicht die Befürchtung, daß diese Generäle, Manager oder Agitatoren Ambitionen gewinnen konnten, sich zum Diktator küren zu lassen.
Das Religiöse fand zugleich die Fortsetzung in der „Arbeitsethik“ und in der allgemeinen Moral. Das Gebet als Arbeit fortzusetzen und Verantwortung zu übernehmen, fußte auf den Geboten und einem religiös geführten Leben. Arbeits- und Freizeit verschmolzen zu einer Haltung, die die Ansprüche von Leistung, Fleiß und Obhut aufnahm. Das Religiöse enthielt die Bereitschaft, den Aufgaben der Arbeit und des Staates Folge zu leisten. Eine derartige Übersetzung der religiös motivierten Verantwortung sollte auf den rationalen Rechtsstaat, seine Verwaltung und Vertreter übertragen werden. Das Religiöse als ethischer Anspruch war für die kapitalistische Industriegesellschaft Grundlage und Voraussetzung der Arbeitsleistung und der Disziplin. Sobald der christlich protestantische Einfluß zurückgedrängt würde, mußten die politischen Ideologien diesen Auftrag übernehmen, sollte eine industriell verfaßte Gesellschaft nicht zusammenbrechen. Diese Aussagen von Weber formulierten nur bedingt einen Widerspruch zum Marxismus, denn auch hier bestand ein Nachdenken darüber, daß die Religion moralische Aufgaben übernahm, die bei wachsender Aufklärung durch das gesellschaftliche Bewußtsein abgelöst werden mußten. Herbert Marcuse und Franz Borkenau verfolgten die Anstrengungen im „Sowjetmarxismus“ bzw. Marxismus – Leninismus, Arbeitsethik und Disziplin in die „Herzen“ der werktätigen Massen zu verplanzen. Dieser Ideologie erreichte zu keinem Zeitpunkt die Glaubwürdigkeit und die „innere Mission“ der protestantischen Ethik oder des politischen Protestantismus.
In den Religionsstudien hinterließ Weber den Eindruck, daß Katholizismus, russische Orthodoxie, Judentum und Islam einen archaischen, statischen Aufbau aufwiesen. Ihre Rituale befestigten die alten Machtformen von Selbstherrschaft, Feudalismus, Zarismus und orientalischer Despotie. Sie sorgten für die Unterwerfung der Gläubigen oder für die Herrscher- und Staatskulte. Der Arbeitszwang mußte von außen durch den Staat oder durch die lokalen Herrscher auf dem Lande erzwungen werden. Er besaß keinerlei innere Anreize. Schon deshalb seien die Sklavenarbeit oder die Arbeit unter feudalen und despotischen Herrschaftsbedingungen nicht produktiv. Die Hierarchie und „Bürokratie“ der institutionell verfaßten Religionen wurden Vorbild für die Staatlichkeit oder für die Rechtsordnung von traditioneller Herrschaft. Nichts wies darauf, daß diese Religionen sich den Veränderungen oder gar den kapitalistischen Ansprüchen öffneten. Der Status quo, Stabilität von Herrschaft und die Stagnation bildeten das Maß, wonach diese Religionen sich ausrichteten. Volksreligionen wie der Protestantismus, die auf Hierarchie verzichteten, sich im Volk verankerten und sich sogar gegen die bestehende Macht kehrten, entwickelten eine neue Ethik und eine neue Auffassung von Fleiß, Arbeit und Hingabe. Nicht zufällig wurden die USA von primär protestantischen Sekten besiedelt und entstand dort eine „protestantische Großmacht“. Max Weber, der 1920 starb, konnte den entstehenden Faschismus nicht beobachten, der den Katholizismus politisieren würde. Die Offenheit eines politischen Protestantismus zu Rassismus und zu totalitären Bewegungen und Zielen blieb ihm in letzter Konsequenz verborgen. Die Kopie und Weiterentwicklung der russischen Orthodoxie in die Staats- und Führerkulte des Bolschewismus wurden erst nach 1917 sichtbar. Der Zionismus als ein politischer Anspruch des Judentums auf einen eigenen Volksstaat war nach 1945 in der Gründung des Staates Israel erfolgreich. Die Politisierung und Radikalisierung des Islam sind Produkt des Zweiten Weltkrieges, der Entkolonialisierung und der Befreiungskriege nach 1945. Derartige Veränderungskräfte in den traditionellen Religionen konnten von Weber nicht beachtet werden.
Konservativer Existenzialismus: Carl Schmitt
Bei Carl Schmitt waren die marxistischen Impressionen eindeutig, denn seine Kritik der „Romantik“, des „Liberalismus“ oder des „Parlamentarismus“ bzw. seine „Theorie des Politischen“ enthielten marxistische Ansätze, die zu seiner Zeit in Deutschland oder Rußland diskutiert wurden. Schmitt nahm diese Eindrücke nur als Impuls auf und ging darüber hinaus. Alle genannten Themen wurden katholisch, theologisch, religiös, geopolitisch und existentiell aufgelegt. Die Bewertung der Religionen, primär der Gegensatz des Katholizismus zum Protestantismus, reagierte auf das Weber’sche Lob der protestantischen Ethik. Die Bestimmung des modernen Staates zwischen Tradition und Diktatur nahm die marxistische Staatskritik auf, historisierte und mystifizierte sie zugleich. Im Zweiten Weltkrieg befaßte Schmitt sich nach dem Kriegseintritt der USA 1941 und zum Zeitpunkt der deutschen Niederlagen im Ostfeldzug mit der Besetzung Zentraleuropas durch die nordamerikanische Großmacht. Dadurch thematisierte er die Differenz der freien, finanzkapitalistischen Herrschaft in Nordamerika zur europäischen Staatsmacht, die zu diesen Zeitpunkt von der bolschewistischen bzw. nationalsozialistischen Diktatur bestimmt wurde. In einer Legende über „Land und Meer“ radikalisierte er die Widersprüche der zwei staatlichenr Mächte, indem er sie zu den „Idealtypen“ von Land- und Seemächten zuspitzte. Die USA als protestantische Großmacht wurde nach den Gesichtspunkten des „Feindes“ vorgestellt. Wir wollen an dieer Stelle die einzelnen Schritte skizzieren.
Einzelne Schriften von Carl Schmitt lasen sich wie Kommentare zu den Veröffentlichungen von W. I. Lenin. Der „Begriff des Politischen“ enthält Fragestellungen, die Lenin in „Was tun?“ und in den Schriften über den „Imperialismus“ und des Kriegskommunismus aufgeworfen hatte. Die Erörterungen über „Verfassungsfragen“ und über die „geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus“ schienen den Lenin’schen Konzeptionen von „Staat und Revolution“ und den Programmschriften nach der Oktoberrevolution entnommen zu sein. Lenins Polemiken gegen den „Linksradikalismus als Kinderkrankheiten des Kommunismus“ wurden in der Schmitt’schen Kritik der „politischen Romantik“ übertragen. Die „politische Theologie“ schien sich auf die Leninsche „Parteilichkeit“ zu stützen. Der revolutionäre Bolschewismus entwickelte Ideen und Werte, die als Kommentare und Folien im Konservatismus Schmitt’scher Prägung, verändert und anders interpretiert, neu auftauchten. Eine unmittelbare Nähe zwischen dem revolutionären Bolschewismus und dem konservativen Aufbruch in Deutschland kann nur schwer am Beispiel von Zitaten nachgewiesen werden. Beide Richtungen waren jedoch gezwungen, sich gegen den „Westen“ und hier vor allem gegen die USA zu profilieren, die die entwickelte Form des Finanzkapitals vorstellten. Deshalb entstanden die parallelen Themen über den „Feind“.
Vom Bolschewismus übernahm Schmitt den existentiellen Feindbegriff bereits in den zwanziger Jahren. Der „Feind“ als das Prinzip der grundlegenden Gegnerschaft und einer anderen Ordnung wurde als ein konstituierender Begriff der eigenen Konzeption verstanden. Er mußte als Gegenentwurf und radikale Gegenposition zur eigenen Ordnung verstanden werden. Der „Feind“ war stets präsent und bedrohte als Zweifel oder Unsicherheit das eigene Denken und die bestehende Moral. Schmitt verlangte eine radikale Distanz zu „fremden“ Werten und eine fundamentale Anklage der feindlichen Ideologie. Der „Volksfeind“ und „Verräter“ wurde als die Inkarnation des Bösen, der Hinterlist, der Lüge, der Heimtücke und der Feindschaft kommentiert. Der Abweichler und Doppelzüngler zeige seine Gefährlichkeit in der scheinbaren Treue zu den Zielen der eigenen Ordnung, die in Wirklichkeit in Frage gestellt würden. Die Unsicherheiten oder die „revolutionäre Ungeduld“ des Linksradikalismus oder „Trotzkismus“ verrieten den „Feind“ als unsicheren Kandidaten, Zweifler oder Zyniker. Schmitt projizierte diesen Begriff einer heimtückischen und zugleich absoluten Feindschaft auf die Romantik, den Liberalismus, Sozialismus und auf die parlamentarische Demokratie. Die „politische Romantik“ gab sich sensibel, feierte Stimmungen, relativierte die Prinzipien und war unfähig, eindeutig Position zu beziehen. Der Liberalismus verkündete Freiheit und Gleichheit und blieb trotzdem dem Terror zugewandt. Nur über ihn gelinge die Nivellierung der Gesellschaft und die Gleichmacherei. Der Sozialismus verkündete das Paradies auf Erden, verfolgte schöne Utopien und endete in Diktatur und Terror. Der Parlamentarismus sicherte den Parteieliten den Zugriff auf die Staatsmacht und machte den Staat zur „Beute“ für eine Minderheit von Aufsteigern. Er garantierte Minderheiten die Macht im Staat. Aus dem Versprechen der liberalen Freiheit wurde das Gegenteil herausgelesen: die absolute Macht liberaler Eliten. Die Quellen der modernen Ideologie wurden offengelegt: die Ketzerei, die Meuterei, die protestantischen Reformation, das Revolutionäre, die der Gottesordnung des Katholizismus ihr Widerwort entgegenschleuderten und die Welt in die Unsicherheiten und in das „Bodenlose“ rissen.
Der „Feind“ verkörpere das Andere und Fremde, das keinerlei Bezug zu den eigenen Werten aufwies. Für Schmitt war die theologische Notwendigkeit des Bösen und des Außenseiters gegeben, um deutlich zu machen, daß die Stabilität eines souveränen Staates stets gefährdet sei, falls die feindlichen Übertragungen und Ziele nicht bemerkt und nicht bestimmt werden könnten. Diese primär katholisch religiösen Festlegungen und Eindeutigkeiten mußten auch von Atheisten erkannt werden, wollten sie nicht den stabilen Machtzustand dem „Feind“ opfern. Dieser stelle permanent die Machtfrage und symbolisierte selbst Macht als ein gegensätzliches Prinzip. Er konnte den Staat neu gestalten, allerdings nach dem Primat einer fremden Ordnung. Nach Schmitt bedrohte der positive Rechtsstaat bereits die souveräne Staatsmacht, denn er relativierte und liberalisierte eine Ordnung, die auf Ausnahme, Souveränität oder Tradition aufgebaut sein mußte.
Als Gegenbild zum „Feind“, der bewußt in das Teuflische und das Bösartige verzerrt und mythologisiert wurde, wäre der „Freund“ zu sehen, der seine Substanz in der Souveränität und Unabhängigkeit des Staates und in der Entscheidungskraft großer Politiker und Staatslenker entwickele. Diese Aufrichtigkeit und Offenheit entlehnte Schmitt der katholischen Tradition. Gegen Webers Soziologie einer protestantisch inspirierten Ethik und Ökonomie wollte Schmitt die katholischen Tugenden von Treue, Autorität, Hierarchie, Gebundenheit, Selbstvertrauen, Standhaftigkeit stellen. In der Politik und im Staat waren Eliten gefragt, die zu ihrer Sache eindeutig standen und die keinerlei Kompromisse eingingen. Diese Eindeutigkeit und Entschlossenheit sollte eine Alternative zu den schwankenden und korrupten, liberalen Eliten abgeben.
Land und Meer symbolisierten nach Schmitt diesen Widerspruch zwischen Freund und Feind. Sie fanden ihr Material in den Seemächten England und USA und in den europäischen Landstaaten, in Deutschland und Rußland. Diese geopolitische Bestimmung, die das Meer gleichsetzte mit Handel, Spekulation, Geld, Medien, Manipulation und Finanzmacht und im Land die Stabilität und die feste Ordnung erblickte, behauptete die Differenz von Tradition und Bodenlosigkeit. Die USA fußten auf einem weitgehend geschichtslosen Kontinent. Hier hatten sie eine finanzkapitalistische und liberale Ordnung errichtet. England vollzog bereits im 16. und 17. Jahrhundert als Empire und Kolonialmacht eine elementare Wendung vom Land zum Meer. Diese Seemacht löste sich radikal von allen kontinentalen Bindungen, so jedenfalls Schmitt. Deutschland dagegen blieb über das Militär, die Staatsmacht und das Volk an die Tradition gebunden und hatte die finanzkapitalistischen und liberalen Ziele in der Weimarer Republik abgelehnt und überwunden.
Land und Meer wurden als feindliche Kräfte gesehen. Dieser existentielle Gegensatz wurde sichtbar im Staatsaufbau und im politischen System. Der absolute Fortschrittsglaube, die Technikfaszination, die Inszenierung von Leben und Politik, die Vormacht der Medien mußten als Kennzeichen einer Hinwendung der Mächte zum Meer gesehen werden. Dem entsprach der Glaube an die Menschheit, an die Jugend und eine unendliche Freiheit, Ansprüche, die die Gottesfurcht genauso ignorierten wie die natürlichen Grenzen von Krankheit, Elend, Krieg und Tod. Der alle Bindungen aufgebende und wurzellose Mensch werde zum Idealbild erhoben. Der industrielle Fortschritt werde alle Grenzen einreißen und den Menschen gottgleich gestalten. Eine grenzenlose Freiheit und die Universalität von Recht und Gerechtigkeit würden versprochen. Dagegen setzten die Landmächte auf Bescheidenheit und die Geborgenheit in einem sorgenden Staat. Die Menschen als Volk und Familie konnten sich behaupten und Großartiges leisten, verließen sie nicht die historischen Grundlagen ihrer natürlichen Existenz. Schon deshalb war eine staatliche Ordnung notwendig, die die Entwurzelungen und Selbstzerstörungen der sozialen Verhältnisse und der Gesellschaft nicht zuließ. An dieses Maß von Lenkung und Aufsicht wurde das Recht orientiert. Es sollte bewahren und hegen und den Menschen vor den eigenen Illusionen schützen. Es durfte nicht der Bereicherung, der Beliebigkeit, der Implosion oder der Kriminalität dienen.
Das Religiöse wurde bei Schmitt nicht allein durch die Hineinnahme katholischer Tugenden und die Stabilität einer Gottesordnung betont. Er verfolgte sogar eine katholische Bodenmystik, indem er die Erde zum Gestalter des Menschen, zu seinem Antlitz oder zum Hort der Tradition, zur Heimat und Ort der Verwurzelung machte, alles Hinweise, die das Bodenlose, die Vertreibung, die Entwurzelung das Heimatlose, die Arbeitslosigkeit, das Elend, den Zerfall aller sozialen Bindungen zur Drohkulisse verfestigten, die als Charakterbild der Seemächte entworfen wurde. Schmitt verabscheute die Blutmystik des nationalsozialistischen Rassismus, der die europäische Koexistenz der Rassen und Völker auflöste und zum Rassenkrieg aufrief. Der Boden umfaßte für Schmitt die Heimat, die Tradition, die Religion und hier den Katholizismus und den souveränen Staat, der die Unabhängigkeit und die Unversehrtheit des Volkes behütete. Solch ein Staat und solch eine Gesellschaft konnte nicht demokratisch konstituiert sein. Er folgte als souveräner und hierarchischer Staat der permanenten „Ausnahme“, um Bedrohung und Krieg vom Volk abzuwehren. Er verkörperte die europäische Tradition von Absolutismus und Militärdiktatur. Im „Partisanen“ feierte dieses konservative Prinzip eine späte Anerkennung. Er würde die Seemächte in Asien, Afrika, Lateinamerika besiegen und den Landstaat auf der Grundlage der traditionellen Religionen oder der davon abgeleiteten Ideologien neu begründen.
Zur magischen Begriffswelt und zum Negativspiegel dieser „gottgewollten Ordnung“ zählten der Protestantismus und das Judentum, während das orthodoxe Christentum eher die Normen und die Stärke des Katholizismus aufwies. Der Protestant war bodenlos. Er gefiel sich als der typische Eroberer, der fremde Länder und Kontinente besetzte, andere Völker okkupierte und nach seinem Vorbild umerzog. Auf fremden Boden errichtete er ohne Bedenken seine Industrie, die Großbauten und eine Farmwirtschaft, die die einheimischen Bauern vertrieb oder versklavte. Der protestantische Okkupant unterstützte den industriellen Fortschritt und war allen finanzkapitalistischen Operationen zugetan. Er machte den Boden zum Objekt der Arbeit oder der Spekulation. Er kümmerte sich nicht um den Bestand der Natur. Volk und Nation als Staat und Ordnung wurden der Dynamik der Technik und der industriellen Produktion unterworfen. Der Protestantismus fand seinen materiellen Rückhalt bei den Seemächten und er inspirierte die modernen Ideologien von Liberalismus und Sozialismus. Ähnlich wie dem Judentum seien den Protestanten die Spekulation und die finanzkapitalistischen Manöver eigen, alles Methoden und Machenschaften, die die Tradition auflösten und zerstörten. In beiden Religionen lauere nach Schmitt der „Antichrist“. Ob er mit dieser Kritik des Protestantismus zugleich den Nationalsozialismus als den Zerstörer der Tradition meinte, kann aus den Texten nicht erschlossen werden.
Die Seemächte England und die USA standen mit Deutschland im Krieg und würden Zentraleuropa besetzen. Ihre Okkupation kam einer Revolution gleich, denn sie würden politisch die bestehende „Tradition“ von Staat, Volk und Armee zerschlagen. Die Individualisierung werde mit dem Aufbau einer Massengesellschaft verbunden, die jeden Subjektcharakter aufgegeben habe. Die Ziele des Liberalismus und der parlamentarischen Demokratie lägen darin, Volksinteressen zu ignorieren und zugleich die Massen als Publikum, Konsumenten oder Zuschauer zu isolieren. Die politische Macht solle den liberalen Eliten in Parteien und Staat übertragen werden. Über die „Amerikanisierung“ der deutschen Gesellschaft würden die Seemächte in Deutschland und auf dem europäischen Kontinent Einzug halten und eine radikale Umwertung aller Werte einleiten. Die deutsche Tradition in Ethik, Recht, Sprache, Universität, Literatur und Wissenschaft würde verschwinden und mit ihnen die Staatsidee und die Tugenden der Landmächte.
Schmitt diskutierte zu Beginn der vierziger Jahre des 20. Jahrhunderts eine „theologische Begründung“ der zwei Staaten, des Rechtsstaates und des souveränen Staates. Die Besetzung Deutschlands durch die USA erfordere die prinzipielle Feindbestimmung, denn die Niederlage der deutschen Zentralmacht werde den Sieg der Seemacht in Europa begründen. Die Negation der europäischen Tradition von Staat und Verfassung komme der Infragestellung der europäischen Geschichte gleich. Der Sieg der Bürgerlichkeit und des Liberalismus über den „Soldaten“ werde die katholische Substanz von Staatlichkeit und Ordnung zerschlagen. Die Seemächte verträten einen psychologischen Imperialismus, der die Widerstandskraft der europäischen Völker zerstöre und sie den Postulaten der Individualität unterwerfe. Deshalb sei die Besetzung und die Pazifizierung gleichzusetzen mit einer Strafexpedition gegen das deutsche Volk. Es werde nicht etwa nur umerzogen, es werde psychologisch neu verfaßt und bestimmt. Deshalb könne der Zweite Weltkrieg als eine Art „Kreuzzug“ angesehen werden, der die europäischen Landmächte endgültig unter die Kontrolle der Seemächte genommen habe.
Ende und Anfang: die Legende vom „Zusammenbruch“ einer Kultur
Die Thesen von Carl Schmitt über die Besetzung Europas durch die Seemächte England und die USA scheinen auf einen „Untergang“ oder einen „absoluten Zerfall“ des alten Europas hinzuweisen. Aber gab es historisch so etwas wie Zerfall und Untergang? Entstanden aus einem Zusammenbruch nicht neue Kräfte und Akteure, die das „Ende“ mit dem neuen Anfang synthetisierten? Kamen die „Seemächte“, die derartig negativ vorgestellt wurden, nicht aus Europa oder wiesen europäische Kräfte auf, die einst die eigene Macht bestimmt hatten? Brachten die Siegermächte über die NS – Diktatur nicht Frieden und das „Neubeginnen“ einer demokratischen Kultur? War es nicht richtig die deutsche Kriegsmacht und eine Diktatur zu zerschlagen, die millionenfachen Tod und Leid über Europa gebracht hatten? Hatte nicht die NS – Diktatur den Deutschen die kulturelle Tradition und die Würde genommen?
Fragen über Fragen tauchen bei der Lektüre der Schriften von Carl Schmitt über „Land und Meer“ auf. Eine Gesellschaft gewann so etwas wie einen inneren Subjektcharakter, wenn Institutionen, Religionen, Eliten, Parteien, Verbände, Initiativen, Stimmungen, Millieus vorhanden waren, die „Übersetzungsarbeit“ leisteten und aus einem vermeintlichen Ende einen Neuanfang ertrotzten. In den beiden Deutschlands agierten neben den Besatzungsmächten die Kirchen, die entstehenden Parteien, Gewerkschaften und Einzelpersonen, die so etwas vorstellten wie eine „Alternative“ zur Diktatur. Der Katholizismus als Glaube, Apparat, Heiliger Stuhl, Priester, Laien und Mönche gehörten dazu. Der politische Katholizismus begründete im Westen über die Christdemokratie demokratische Parteien und setzte sich bewußt von den „klerikalfaschistischen Diktaturen“ unter General Franco und Salazar auf der iberischen Halbinsel ab. Schmitt sprach in seinen Thesen das katholische Prinzip als potentielles Gesellschaftssubjekt an und idealisierte es gegen den politischen Protestantismus und den Liberalismus. Gab es zur westlichen Demokratie Alternativen, die nicht auf einer absoluten Macht oder Diktatur beharrten? Schmitt war von der ideologischen Fiktion der westlichen Demokratie überzeugt. Sie verdeckte lediglich die Machtrealität von Minderheiten und Cliquen.
Es ist undenkbar, daß Schmitt mit seinen Thesen über „Land und Meer“ eine Verteidigungsschrift der „nationalsozialistischen Diktatur“ verfaßte. Ohne es offen auszusprechen, schien für Schmitt die NS-Ideologie Bezüge zum politischen Protestantismus und zum germanischen Heidentum zu besitzen. Die Eröffnung der vielen Kriegsfronten bis hinein nach Nordafrika, Rußland, Atlantikküste und Norwegen, der Völker- und Massenmord innerhalb des Kriegsgeschehens oder die Belastung der Kampfkraft der Wehrmacht durch ideologische Ziele bewiesen die Maßlosigkeit einer Kriegsführung. Die deutsche Landmacht verhielt sich wie „das Seeungeheuer“, das Schmitt spukhaft vorgestellt hatte. Dieses Fabelwesen riskierte alles auf einmal, ohne eine „festen Rückhalt“ von Taktik und Kompromißfrieden vorweisen zu können. Die Lehren Preußens als Land- und Zentralmacht zwischen Rußland und England waren längst vergessen. Fürst Bismarck und seine Politik des Ausgleichs zwischen Ost und West wurden von den NS-Expansionisten in ein „Alles oder Nichts“ verbogen. Eine deutsche Diplomatie gab es nicht. Der deutsche Landdrachen führte einen Seekrieg, indem er die moderne Technik, die Panzerwaffe, Geschütze, Flugzeuge, Kesselschlachten einsetzte, ohne den technologischen Vorsprung halten oder den eroberten „Raum“ absichern zu können. Alle „Siege“ gingen verloren. Die Gegner zogen gleich und überrundeten die deutschen Armeen, die sich aufsplitterten und keinerlei Reserven hatten. Der Luftraum wurde zum Kampfgebiet der angloamerikanischen Bombengeschwader. Das „Meer“ erreichte den Himmel über Berlin. Die deutschen Städte, das Hinterland, wurden zur Front und in Schutt und Asche gelegt. Schmitt konnte die NS-Diktatur nicht gleichsetzen mit der souveränen und umsichtigen, europäischen Landmacht
Das bolschewistische Rußland als die letzte europäische Landmacht würde der konservative Schmitt kaum zum Beispiel oder zum Beleg der Stabilität erheben. Die Einheit von Volk, Armee, Staat und Partei im „Großen Vaterländischen Krieg“ würde zwar seiner Beschreibung der souveränen Landmacht entsprechen. Der Bolschewismus/Stalinismus wurde von ihm auf eine sozialistische Utopie reduziert, die sich nicht vom Herrschaftsprinzip des Liberalismus entfernt hatte. Der Bolschewismus blieb ihm fremd und unheimlich und er beachtete die Nähe zur russischen Orthodoxie nicht. Er ließ sich nicht nach den Maßgaben des Katholizismus sezieren. Schmitt übersah, daß nach 1945 ein mächtiges „volksdemokratisches China“ aufsteigen würde, das die europäischen Erbschaften von Staatlichkeit, Produktivität, Gehorsam, Volkseinheit und Führungswillen übernehmen würde. Schmitt hoffte sicherlich darauf, daß die Besetzung Westeuropas durch die USA scheitern würde. Die nordamerikanische Seemacht würde mit Rußland in Hader geraten. Nach einem erneuten Krieg oder der Konstellation von Labilität und Gegnerschaft würden beide Mächte so geschwächt sein, daß eine „katholische Befreiung“ die europäischen Nationen und Völker neu vereinen konnte. Jetzt war die Zeit gekommen, die katholischen Tugenden in eine europäische Staatsmacht zu übersetzen, die sich radikal vom Mafiastaat Italiens oder der iberischen Diktaturen unterscheiden würde.
Schmitt verfolgte in den späteren Schriften andere Visionen. Die russische Großmacht konnte an den inneren Widersprüchen von Tradition, Willkür und industrieller Revolution scheitern. Die Seemacht USA werde die Kräfte der Selbstzerstörung nicht bändigen können. Sie seien im Liberalismus enthalten, und sie seien angelegt in den Menschen- und Bürgerrechten. Schmitt sprach in seinen Schriften wiederholt von der Heimtücke des „Humanitarismus“. Dieser stürze als Versprechen und Ideal das menschliche Sein in die Beliebigkeiten einer wurzellosen und isolierten Existenz. Die Auflösung aller Bindungen in Familie, Gesellschaft und Staat, die Vereinsamung und die Gleichgültigkeit schüfen Verzweiflung, neue Abhängigkeiten und Krankheiten. Der „psychologische Imperialismus“ der liberalen Gesellschaft kehre die Vorstellungen von Freiheit und Würde in ihr Gegenteil: in die Ratlosigkeit, Abhängigkeit und Einsamkeit. Die Konsequenzen der finanzkapitalistischen Ökonomie wurden in der wachsenden Dynamik oder Rastlosigkeit und in der Ausgrenzung durch Armut und Arbeitslosigkeit gesehen. Die Medien könnten diese Wirklichkeit nicht überspielen. Kriege schüfen keinerlei Ausweg. In dieser psychologischen Wüste würden die Werte des Katholizismus zu einer Neudefinition von Staatlichkeit und sozialer Stabilität führen. Schmitt konnte die Realität einer katholischen Einwanderung aus Lateinamerika, Südeuropa, Asien und den Philippinen in die USA nicht überblicken. Er konnte nicht ahnen, daß die protestantische Ostküste oder der mittlere Westen vom Katholizismus, Islam, Taoismus und Buddhismus eingerahmt wurden und in eine Minderheit gerieten. Die Religionskriege der Welt als „Kampf der Kulturen“ erlangten in der nordamerikanischen Innenpolitik ihr Spiegelbild. Der Protestantismus mußte sich auf das Judentum stützen, um als Macht zu überleben. Schmitt zweifelte jedoch nicht daran, daß das protestantische Nordamerika langfristig an seinen eigenen Widersprüchen zugrunde gehen würde.
Die „Kritische Theorie“ nahm über Max Horkheimer und Theodor W. Adorno diese Idee des „psychologischen Imperialismus“ auf. Ob in der „Dialektik der Aufklärung“ oder im „Autoritären Staat“ die Schmittschen Prognosen direkt verarbeitet wurden, läßt sich kaum nachweisen. In diesen Texten wurde der Gedanke wie bei Schmitt entwickelt, daß die eindeutige Siegermacht im Zweiten Weltkrieg, die USA, den Virus von Zerfall und Zerwürfnis in sich bargen. Die grundlegenden Strukturmerkmale von Demokratie und Staatlichkeit wiesen Widersprüche auf, die kaum zu beheben waren. Die genannten Schriften der „Kritischen Theorie“ folgten einem Konzept des „Untergangs“ und nahmen nach den Marx’schen Vorgaben eine Sichtweise der „negativen Dialektik“ auf. Die Formen und der Absolutheitsanspruch von Herrschaft wurden im „autoritären Staat“ der USA aus den bonapartistischen, faschistischen, nationalsozialistischen und bolschewistischen Diktaturen übersetzt. Offener Terror, Zwang, Willkür, die Repressionsorgane des Staates, waren nicht mehr notwendig, blieben trotzdem hochgerüstet, wenn die soziale Gliederung einer Gesellschaft auf „Massen“, „Konsumenten“, „Publikum“ reduziert wurde und jeder Bürger den Maßgaben der Reklame oder der politischen Inszenierung genügte. Die Ausgestoßenen und Außenseiter gerieten unter die Obhut der Psychologie oder der Polizeidienste. Alle waren frei. Jeder war sein eigener Polizist und Kontrolleur. Jeder spielte sich selbst als eine jeweils andere Kopie von Konsumsymbolen und Markenzeichen. Eine derartige Macht der Inszenierung und Manipulation gab langfristig die Widerstandskraft und die Ethik der Selbstbehauptung auf. Sie besaß keinerlei Kraft und Subjektcharakter, die sozialen Beziehungen neu zu formen. Die kulturelle und religiöse Reproduktion gelang nicht mehr. Die orientierungslosen Bürger verzweifelten. Eine derartige Gesellschaft wurde Objekt der Einwanderer oder genügte den Ambitionen fremder Religionen und Mächte. Sie ließ sich in fremde Einflußsphären und „Zonen“ spalten, könnte heute die Interpretation fortgesetzt werden.
In der „Theorie des Partisanen“ lenkte Schmitt den Blick nach außen. Als Seemacht übernahmen die USA die Aufgaben und das Erbe des europäischen Imperialismus, um gegen Rußland und China den „Status quo“ in der Welt zu wahren und die Expansion dieser Mächte zu vermeiden. Die USA übertrugen nicht die liberalen „Freiheitsprinzipien“ auf die Einflußzonen oder abhängigen Staaten. Demokratie und Volkssouveränität erlangten gegenüber den unterschiedlichen Militärdiktaturen kaum Bedeutung. „Demokratisiert“ im liberalen Sinn wurden die ehemaligen Kriegsgegner in Europa und Japan und zugleich über Verträge und Stützpunkte „besetzt“. Pufferstaaten wie Südkorea, Formosa, Pakistan, Südvietnam oder wie die Frontstaaten in Nahost, soweit sie unter nordamerikanischer „Hegemonie“ standen, bildeten im Kern Militärdiktaturen oder Despotien, die auf einen inneren und äußeren Kriegszustand festgeschrieben wurden. Plötzlich koexistierte die liberale Idee mit den Vorstellungen despotischer Macht und der Herrschaft von Cliquen und Minoritäten. Gegen eine derartige Festschreibung von Macht entstand in der Jugend der Widerwillen und das oppositionelle Widerwort. Dieser Mißmut der Jugend formte sich zu einer existentiellen Opposition, die in den Untergrund und in den Partisanenkampf getrieben wurde, waren die Mächtigen zu keinerlei Zugeständnissen bereit. Der „Partisan“ verkörperte deshalb gleichzeitig ein antiliberales, antiwestlichen und antiamerikanisches Prinzip, das mit den neuen Vorstellungen von Tradition, Religion und Ideologie zusammenkam. Es wiederholte sich eine Konstellation von Radikalität, die Plachanov und Kautsky für den „Bolschwismus“ beschrieben hatten. Ernst Bloch und Karl Kautsky hatten in der revolutionären Auslegung der Religion bei Thomas Müntzer im Mittelalter eine ähnliche Politisierung beobachtet. Der Übergang des Religiösen in eine Revolutionsideologie erhob den Veränderungswillen zum Glauben und zu einem fundamentalistischen Engagement der Kämpfer und Partisanen.
Der „Partisan“ kombinierte die antiwestliche Kritik mit einer neuen Interpretation von Tradition und Religion und bildete zum westlichen Imperialismus eine Gegenmacht und ein Gegenprinzip von Staatlichkeit und Recht. Er kam aus dem „Land“. Er verteidigte die „Heimat“ gegen eine Intervention äußerer Mächte. Das „Bodenständige“, „Kontinentale“ war ihm eigen. In ihm wurde die Landmacht neu geboren. Die Werte einer statischen Religion oder einer entsprechend abgeleiteten Ideologie wurden durch ihn zur Legitimation einer staatlichen Ordnung erhoben. Der „Partisan“ bildete bei Schmitt eine „Chiffre“, denn der Gegner zu Liberalismus und politischen Protestantismus wurde aus den bisher statischen Religionen geformt, die die Tradition mit Stabilität und Radikalität verbanden. Neben dem Katholizismus oder der orthodoxen Kirchen würde sich der Islam in seiner Region zum revolutionären Pathos gegen die westlichen Seemächte politisieren lassen. So jedenfalls ließ sich das Aufkommen des „Partisanen“ in der Welt nach Schmitt als Gegenkraft und Widerstand zur „westlichen Zivilisation“ interpretieren.
Eine neue, weltpolitische Situation entstand mit der Auflösung der Sowjetunion. Schmitt konnte sie nicht mehr erleben. Er starb 1985. Der Kollaps des bolschewistischen Rußlands und des sozialistischen Lagers von 1989 schuf eine neue Konstellation. Hier sorgten die westlichen Mächte, die USA und die oberen russischen Machteliten aus Partei, Armee, Staat und Geheimpolizei für eine weiche Landung. Niemand hatte Interesse daran, daß dieser ökonomische und moralische Zusammenbruch einer Großmacht von Bürgerkrieg, Chaos, Unruhen, Elend, Versorgungs- und Produktionskrisen begleitet wurde. Ein neuer Krieg der politischen Lager und Systeme wurde vermieden. Die westlichen Seemächte übertrugen vorsichtig ihre Interessen und politischen Formen auf die soziale Schichten und die ehemaligen Machteliten, die bereit waren, den Despotismus und die Willkür des alten Rußlands abzuwerfen und die offen waren für die „westlichen Errungenschaften“, wurde der Lebensstandard gesichert und erhöht, fanden diese Eliten Anerkennung und Auskommen in der neuen Wirtschaft und Staat. Alte Machtstrukturen wurden mit den neuen Ansätzen einer pluralistischen Demokratie verbunden. Der demokratische Neuanfang kooptierte alte Machtformen, um eine soziale Revolution und eine kompromißfreie Demokratisierung zu vermeiden. Anders als in West- und Zentraleuropa nach 1945 sicherten die USA im Osten die Machtstabilität, setzten Pflöcke der Einflußnahme, ohne diese gerantieren zu können. Rußland blieb eine Landmacht.
Das russische Beispiel wäre auf alle anderen Staaten übertragbar. Keine demokratische Macht und keine Diktatur lösten sich in Unruhen und Verzweiflung auf. Die USA etwa würden bei der Gefahr von „Kollaps“ die Fürsprecher in China, in Japan, in Europa und Rußland finden, denn alle diese Staaten und „Systeme“ würden einen Bürgerkrieg oder Chaos auf einem kontinentalen Raum unterbinden wollen. Aus dem „politischen Protestantismus“, aus dem „politischen Katholizismus“ und aus den unterschiedlichen „ethnischen Kulturen“ konnten neue Kräfte entstehen, die den „Zusammensturz“ der bisherigen Staatsmacht positiv beerben würden. Gesellschaften konnten nicht zusammenbrechen, solange die Bürger um ihr politisches Mandat und um ihr Existenzrecht kämpften. Im Widerstand formten sich neue „Subjekte“.
Bei Marx entwickelte sich ein „Proletariat“, das die Erbschaft des Kapitalismus übernehmen sollte. Hilferding war überzeugt, daß die „Gewerkschaften“ den Zusammenbruch einer Gesellschaft positiv umkehren würden. Max Weber würde dem „politischen Protestantismus“ zutrauen, einen Neuanfang im Staat und Gesellschaft zu finden. In Rußland wurde das „werktätigen Volk“ und seine Kontrollorgane, die allmächtige Partei und Geheimpolizei, durch die „Bürger“ abgelöst. Allerdings stieß die „Verwestlichung“ der Demokratie auf die russischen Gegenreaktionen einer Präsidialmacht. Trotzdem fiel Rußland nicht in das „Nichts“ von Unregierbarkeit oder Bürgerkrieg und die Völker entwickelten so etwas wie einen Willen, aus der despotischen Tradition herauszufinden.
Es würde große Schwierigkeiten bereiten, die „inszenierte Demokratie“ und den Machtanspruch finanzkapitalistischer Kreise in USA abzuschütteln, trotzdem war den Religionen und den unterschiedlichen Völkern und Ethnien in diesem Bundesstaat die Widerstandskraft zuzutrauen, eine Demokratie nach den Maßstäben des amerikanischen und europäischen Freiheitskampfes zu errichten. Das Finanzkapital als eine negative Macht konnte Krisen, Zusammenbrüche, Chaos, Bankrotte hervorrufen. Es konnte den Lebenswillen der Menschen nicht zersprengen. Allerdings mußte jeder politischer Neuanfang ausscheren aus der finanzkapitalistischen Politik von Inszenierung, Manipulation und der faktischen Macht von Minderheiten. Das System der Medienkontrolle durch die großen „Imperien“ der Verlage oder der „Mafia“ mußte zerschlagen werden.
Carl Schmitt war in seiner Schrift über „Land und Meer“ zu Beginn der vierziger Jahre zu sehr befangen durch die Kriegsereignisse und die Negativsicht des Liberalismus. Diese Einschätzungen eigneten sich nicht, dem modernen Nordamerika jede Zukunft abzusprechen. Selbst der „Untergang“ des Römischen Reiches fand nicht statt, denn eine subtile Fortsetzung des „Imperiums“ war im katholischen Christentum, im Reich Karl des Großen und in der europäischen Kultur zu beobachten. Schmitt eignete sich im Laufe der Jahre den „protestantischen Optimismus“ von Max Weber an und übertrug ihn auf den Idealtyp von „Katholizismus“. Dadurch löste er sich von den düsteren Prognosen eines Oswald Spengler.
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mercredi, 25 septembre 2013
On the Essence of War
On the Essence of War
By Guillaume Faye
Translated by Greg Johnson
Ex: http://www.counter-currents.com/
We have read all the commentaries, pro and con, on punitive strikes against the Assad regime in Syria. (As of this writing, nothing has happened yet.) The pacifists who have become warmongers (the French Greens), the anti-Atlanticists who have aligned with Washington (the French Socialist Party), the Atlanticists who eschew the label (the British Parliament), and other strange cross-positions present us with an opportunity to reflect: What is war? War, that is to say the use of armed force between sovereign political units—as distinct from private violence[1]—has always been poorly understood, even in the minds of its protagonists. For example, the recent book on the outbreak of the First World War (1914–1918), an absolute disaster for Europe (Europe’s Last Summer: What Caused the First World War? by historian David Fromkin, a professor at Boston University), shows that this race into the abyss was produced not by any rational political calculation, and contrary to the interests of the belligerents, by a kind of agitated autonomous mechanism, which we can call “warmongering.” A mechanism that some will call tautological, irrational, “crazy.” No actor really wanted to “attack the other,” but more or less all wanted to fight to varying degrees, without any clear shared goals of the confrontation. Fromkin shows that long before the tragic sequence of events of Europe’s last happy summer, disparate forces wanted war for various reasons. And this is true of all future belligerents. Let us dive into history. The best historians of the Roman Empire[2] note that its wars of conquest in the pre-Imperial period obeyed neither a desire for economic hegemony (which already existed), nor a defensive engagement against the pacified Barbarians, nor a politico-cultural Roman imperialism (which too was imposed by soft power, without legions). The historian of Gaul, Jean-Louis Brunaux notes that Caesar himself, in his famous Commentaries, never logically explained the reasons for his engagement, particularly against the Belgians, northern Gauls (Celto-Germanics) who in no way threatened Rome, which required lethal operations condemned by the Senate for their strategic uselessness.[3] Nor could Augustus three generations later justify the loss of Varus’ three legions recklessly sent into Germany against the “traitor” Hermann (Arminius).[4]
History offers countless similar examples: wars or military operations that do not follow a rational logic, and whose goals could have been achieved by fundamentally easier means. The Marxist School (war = economic imperialism) or geopolitical school (war = securing control of space) or nationalist school (war = defending the national stock) are not wrong but do not answer the question: Why war? Because, according to Aristotelian reasoning, “Why pursue a goal the hard way when we could take an easier way?” Talleyrand thought, in this regard, that France could have easily dominated Europe through diplomacy, economic and cultural influence, and demography without—and much more securely than by—the bloody Napoleonic Wars, which propelled England and Germany to the top. As a rule, intra-European wars have not benefitted any of the protagonists but have weakened the whole continent. What, then, is war? The answer to this question is found not in political science but in human ethology. Robert Ardrey, Konrad Lorenz, and many others saw that the branch of primates called Homo sapiens was the most aggressive species, including in intraspecific matters. Violence in all its forms, is at the center of genetic impulses of the human species. It is impossible to escape. “Anti-violence” religions and moralities only confirm this disposition by opposition. War would be, in the words of Martin Heidegger about technology, “a process without a subject.” That is to say, a behavior that (a) escapes rational and volitional causality in the sense of Aristotle and Descartes, and (b) ignores factual consequences.
The essence of war is, therefore, not found on the level of logical thinking (e.g., should we invest or not in a particular energy source?) but on the level of the illogical, on the frontiers of the paleocortex and neocortex. The essence of war is endogenous; it contains its own justification within itself. I make war because it is war, and one must make war. We must show our strength. When the Americans—and, on a lower level, the French—engage in military expeditions, it is less a matter of calculation (the same would be achieved at lower cost and, worse, the result contradicts the objective) than of a drive. A need—not animal, but very human!—to use force, to prove to yourself that you exist. Vilfredo Pareto has quite correctly seen two levels in human behavior: actions and their justifications, with a disconnect between the two. Thus the essence of war lies in itself. This is not the case of other human activities such as agriculture, industry, animal husbandry, botany, computer science, technology research, architecture, art, medicine and surgery, astronomy, etc., which, to use Aristotelian categories, “have their causes and goals outside of their own essence.”[5] And what most resembles war as a self-sufficient human activity? It is religion, of course.
War, like religion, with which it is often associated (in that religion is theological or ideological), produces its own ambiance self-sufficiently. It emanates from a gratuity. It enhances and stimulates as it destroys. It is a joint factor of creation and devastation. It came out of the human need to have enemies at any cost, even without objective reason. This is why religions and ideologies of peace and harmony have never managed to impose their views and have, themselves, been the source of wars. It is that ideas expressed by man do not necessarily correspond to his nature, and it is the latter that is essential in the end.[6] Human nature is not correlated with human culture and ideas: it is the dominant infrastructure. Should we all embrace pacifism? History, of course, is not just war, but war is the fuel of history. War inspires artists, filmmakers, and novelists. Without it, that would historians talk about? Even proponents of the “end of history” show themselves to be warmongers. We deplore it, but we adore it. Feminist scholars have written that if societies were not chauvinistic and dominated by bellicose males, there would be no war but only negotiations. Genetic error: in higher vertebrates, females are as warlike as the males, even more so.
The paradox of war is that it may have an aspect of “creative destruction” (to use the famous category of Schumpeter), especially in economic matters. In addition, in techno-economic history from the earliest times to the present day, military technology has always been a major cause of civilian innovations. In fact, conflict and the presence of an enemy creates a state of happiness and desire in the private sphere (because it gives meaning to life), just as in the public sphere, war initiates a collective happiness, a mobilization, a rupture with the daily grind, a fascinating event. For better or for worse. So what to do? We cannot abolish the act of war. It is in our genome as a libidinal drive. War is part of the pleasure principle. It is tasty, attractive, cruel, dangerous, and creative. We must simply try to regulate it, direct it, somehow dominate it rather than do away with it.
The worst thing is either to refuse or to seek war at all costs. Those facing Islamic jihad who refuse to fight back will be wiped out. Like those who deceive themselves about the enemy—for example, proponents of strikes against the Syrian regime. Everything fits in the Aristotelian mesotes, the “mean”: courage lies between between cowardice and rashness, between fear and recklessness. That is why any nation that disarms and renounces military power is just as foolish as those who abuse it. War, like all pleasures, must be disciplined.
Notes
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Der Tod des “Behemoth”
Geheimtipp
Bei der Rezeption der politikwissenschaftlichen Theoriegeschichte nach 1968 kam niemand an den Gutachten und Theorieentwürfen von Carl Schmitt vorbei. Dieser Grenzgänger zwischen bürgerlicher Demokratie und Diktatur hatte durchaus Berührungspunkte mit Karl Marx und W. I. Lenin. Allein sich zu bemühen, einen „Begriff des Politischen“ im Zeitalter der Krisen, Revolutionen und Weltkriege zu entwerfen, der den Ausnahmestaat oder „Sondergesetze“ zum Inhalt hatte, erinnerte an die vielfältigen, marxistischen Diskussionen über den Charakter und das Ziel der „Diktatur des Proletariats“. Schon deshalb gehörte Carl Schmitt zur geheimnisvollen „Theoriegeschichte“, die in den sechziger und siebziger Jahren im Zentrum der akademischen und politischen Diskussionen stand.
Die Übergänge und Umbrüche einer Studentenrevolte, die die unterschiedlichen, historischen Ideologien aktualisiert hatte, nahm irgendwann die vielfältigen Themen der „Diktatur“ im Marxismus auf und aktualisierte sie. Die Massnahmen der Reformuniversität und die Bildungspolitik einer Sozialliberalen Koalition lenkten zu Beginn der siebziger Jahre die Diskussionen auf die Realität des Bildungs-, Sozial- und „Notstandsstaates“. Der dissidente Marxismus, den die jüdische Emigration nach 1945 an die westdeutschen Universitäten, vor allem nach Frankfurt/Main und an die FU gebracht hatte, beeinflusste die einzelnen Exponenten der Studentenbewegung und ihrer Nachgänger, sich mit der Bedeutung der Marx’schen Kapitaltheorie und mit den „politischen Schriften“ des Marxismus zu befassen. Es entstand nach 1970 ein Interesse an der theoretischen „Rekonstruktion“ des Marxismus von Marx, Lenin, Trotzki, Stalin u. a.. Eine Marxismusrenaissance öffnete den Blick für die europäische Sozialgeschichte des 19. Und 20. Jahrhunderts.
Diese Theoriewendungen erklärten sich aus der Radikalisierung einer Studentenrevolte, die sich sehr bald zwischen den Extremen des illegalen Partisanenkrieges der RAF und des sozialdemokratischen Reformismus bzw. der kommunistischen „Realpolitik“ der DDR und der neu zugelassenen DKP auflöste. Ein derartige Kampf der „Linien“ fand sein Echo im inneruniversitären Streit zwischen den unterschiedlichen Theoriefraktionen des Neomarxismus, der Kulturtheorie und der „bürgerlichen Soziologie“. Er wurde zwischen den „alten Professoren“ und den neuen Dozenten, Assistenten und „Zeitprofessoren“ ausgetragen und gehörte zugleich zu den Streitpunkten der Studenten und Assistenten, die sich den unterschiedlichen kommunistischen Gruppen angeschlossen hatten. Die Reformuniversität hatte die Ziele einer „Kulturrevolution“ und Studentenrevolte in die Lehre und Forschung übersetzt und dadurch entschärft und entpolitisiert. Dem „theoretischen Radikalismus“ wurde die Praxis und die „revolutionäre Aktion“ genommen. Er fand Platz in den theoretischen Disputen und Streitigkeiten der unterschiedlichen „Kader“ an der Universität und verlor im akademischen und studentischen Milieu trotzdem die Schärfe, zur „politischen Entscheidung“ zu drängen. Dieser Radikalismus, der für die Sozialwissenschaften bisher vollkommen fremd war, befruchtete und „ideologisierte“ die sozialwissenschaftliche Debatten in den unterschiedlichen „Fachbereichen“ der westdeutschen Universitäten und der FU.
Die entstehende „Massenuniversität“ nahm die Widersprüche der Gesellschaft und des geteilten Europas auf. Die neuen Lehrkräfte hatten den wachsenden Zugang von Studenten pädagogisch zu „verarbeiten“ und sie erweiterten das Lehrangebot durch die skizzierten, neuen Themen. Über den „Marxismus“ nahm zugleich die Propaganda und die „grosse Ideologieindustrie“ der DDR Einfluss auf die Sozialwissenschaften. Die unzähligen „Kapitalkurse“ wurden ergänzt durch die Themen der Sozialpsychologie, der Familiensoziologie, der Sozialgeschichte, des „Faschismus in seiner Epoche“, der Staatstheorie und durch die DDR – Forschung bzw. durch den „Systemvergleich“. Die Gegenüberstellung der Marx’schen Staatsauffassung mit der Max Weber’schen Herrschaftssoziologie öffnete die Diskussionen hin zu W. I. Lenins „Staat und Revolution“ und zu Antonio Gramscis Interpretation von Machiavelli und der Sicht des „virtu“ und der „Hegemonia“, die die Legitimation von Opposition und Staat begründen sollten. Plötzlich wurden die Arbeiten von Carl Schmitt entdeckt und interessant, der zwar als Parteigänger der Militärdiktatur und der NS – Herrschaft galt und durch Georg Lukacs, Herbert Marcuse und Karl Löwith den Makel des Zerstörers der Demokratie und der „Vernunft“ erhalten hatte, trotzdem in seiner Charakterisierung des demokratischen „Parlamentarismus“, des „Politischen“ und der Fragen der „Legitimation“ von Staat und Opposition die Fragen ansprach, die durch Marx, Lenin und Gramsci nicht gelöst wurden: Wie gelang es der Staatsmacht oder einer „Führerpartei“, die Massen für die eigenen Ziele zu gewinnen und zu begeistern? Inwieweit gehörten die Feindmobilisierung, die „Ausnahmegesetze“ und die „Entscheidungsfähigkeit“ einer Regierung zur Grundlage der modernen „Staatlichkeit“? Konnte eine „ausserparlamentarische Opposition“ eine hegemoniale „Macht“ in den jungen Generationen entfalten und sich in einer „feindlich gesinnten Gesellschaft“ durchsetzen?
Radikalität und Faschismus
Aber nicht nur von der marxistischen Staatstheorie her wurde auf Carl Schmitt aufmerksam gemacht. Ralf Dahrendorf und Jürgen Habermas, die die soziologische Zwischengeneration zwischen der „jüdischen Emigration“, den ehemaligen „Wehrmachtsoffizieren“ und Professoren an der Universität, dem „Widerstand“, der soziologischen „Klassik“ und den neuen Dozenten verkörperten, diskutierten in den sechziger Jahren die westeuropäische und die deutsche Demokratiegeschichte. Habermas benutzte in seiner Darstellung von „Strukturwandel der Öffentlichkeit“ sogar die Schmitt’sche Parlamentarismuskritik und inspirierte eine rebellische Studentenschaft in ihrer Kritik der Parteienpolitik des Bundestages, der Medienkonzerne und der Rolle des Springerkonzerns in der Öffentlichkeit und der Gesellschaft. Über Schmitt wurde die Demokratiekritik radikalisiert und sie gewann in diesen Kreisen eine „anarchistische“ Interpretation. Habermas vollzog als „Vorbild“ und Ideengeber der Revolte im Juni 1967 deshalb einen Positionswechsel, indem er die Frage des „Linksfaschismus“ in die Debatte warf und von der Zerstörung der Errungenschaften der „europäischen Rationalität“ durch die unterschiedlichen Fraktionen der Studentenrevolte warnte.
Rudi Dutschke war für ihn ein typischer Vertreter des Neoanarchismus und des „Linksfaschismus“. Habermas wandte sich schnell dem Hegel’schen Staatsidealismus zu und benannte die „Notwendigkeit“ der Kommunikation und des sozialen Ausgleichs als Ausdruck des „positiven Rechts“ und der progressiven „Staatlichkeit“. Von Carl Schmitt wechselte er zum Rechtspositivismus von Hans Kelsen, dem theoretischen Gegner von Schmitt. Habermas entsprach dadurch dem Zeitgeist, die Politik der Sozialliberalen Koalition mit dem Auftrag der westlichen Zivilisation zu verbinden, sich gegen den „Extremismus“, gegen den östlichen „Sozialismus“ und gegen die faschistische bzw. nationalsozialistische Vergangenheit zu behaupten. Carl Schmitt stand plötzlich bei den „Marxisten“, bei der „Kritischen Theorie“ und innerhalb der „bürgerlichen Soziologie“ im Mittelpunkt der Auseinandersetzung.
Carl Schmitts Werk schien eine Parallelität in den Arbeiten von W. I. Lenin zu besitzen Dieser hatte in „Was tun“ und in der Schrift über den „Imperialismus“ den bolschewistischen Politikbegriff gegen die Sozialdemokratie und gegen den Liberalismus entworfen. Eine „Verfassungslehre“ wurde in den Schriften über „Staat und Revolution“ und über die Notwendigkeit des „Kriegskommunismus“ sichtbar. Die Schriften und Polemiken über den „Linksradikalismus“ als „Kinderkrankheit des Kommunismus“ enthielten Fragestellungen der Kritik der „politischen Romantik“ und der „Theologie“ bei Carl Schmitt. Lenin arbeitete situativ und interpretierte jeweils den Stand der sozialen Revolution oder der Transformation der Diktatur nach den Massgaben einer Ideologie, die als Weltanschauung theologische und religiöse Merkmale besass. Ähnlich ging Carl Schmitt vor, indem er die unterschiedlichen Umbrüche von Staat und Gesellschaft, des Kaiserreichs, der Militärdiktatur nach 1916, der Revolution und der Konterrevolution zwischen 1918 und 1923, der Weimarer Republik, der Notverordnungsdiktaturen 1930/1933, der Hitlerdiktatur 1933/1945, der Besatzungsdiktatur 1945/49 und der Bundesrepublik ab 1949 interpretierte, analysierte und „repräsentierte“. Als Gutachter und Jurist und als Vertreter des Ausnahmestaates rechtfertigte Schmitt jeweils die autoritären Eingriffe des zentralen Staates, die die Entscheidungsgewalt und die Souveränität des Staates begründen sollten.
Lenin und Schmitt waren durchaus vergleichbar. Lenin setzte sich für die zentrale Macht einer Diktatur und eines Planstaates ein, der sich allerdings aus der asiatischen Tradition des russischen Zarismus und des Polizeiterrors ableiten liess. Carl Schmitt begründete als katholischer „Konterrevolutionär“ den Ausnahmestaat und die Militärdiktatur, die jeweils den Bürgerkrieg beenden oder über die zentrale Entscheidungsgewalt in der Gesellschaft verfügen sollten. Schmitt diskutierte das geltende Recht als Machtfaktor. Für Lenin bildeten die zentralistische Partei und das hierarchische Entscheidungsprinzip von oben nach unten den Ausgangspunkt, Staat und Gesellschaft als Medium der Intervention der Berufsrevolutionäre einzuschätzen. Der Katholik Schmitt näherte sich ab 1933 dem nationalsozialistischen Führerstaat an und war von den Werten der NS – Ideologie beeindruckt. Nach Nikolai Berdjajev und nach Ernst Nolte inspirierte die bolschewistische Revolution und Politik den europäischen Faschismus und beeindruckte über Hans Rosenberg und Joseph Goebbels den Nationalsozialismus. Schmitt als Vertreter der katholischen Ordnungsprinzipien dieser Zeit verringerte durch seine Begeisterung für die NS – Ideologie die Distanz zum atheistischen Bolschewismus. Er blieb jedoch misstrauisch gegenüber dem „jüdischen Bolschewismus“. Wichtig war für ihn die „Diktatur“ als Ordnungsfaktor und Garant der sozialen und politischen Stabilität gegen die Entscheidungsunfähigkeit der parlamentarischen Demokratie und des Parteienstaates.
Die historischen Umbrüche und die juristische Anpassung Carl Schmitts an die neuen Aufgaben des Staates liessen sich mit der Gabe Lenins vergleichen, die politische Taktik der Bolschewiki auf die politische Lage zu orientieren. Ein derartiger Realitätssinn hatte vorerst nichts mit Opportunismus zu tun. Die „Verfassungslehre“, die Schriften über die „politische Romantik“, den „Parlamentarismus“ und die „Diktatur“, über den „Begriff des Politischen“, über die „Raumrevolution“ und über den „Nomos der Erde“ enthielten wie bei Lenin Ansätze einer modernen „Staatsphilosophie“, die vergleichbar wären mit den Arbeiten von Thomas Hobbes, Machiavelli, Hegel, Marx und Kelsen. Schmitt dachte über seine Zeit hinaus und entdeckte in Staat und Verfassung Tendenzen, die in die Zukunft wiesen. Schmitt argumentierte jedoch äusserst subtil „theologisch“ oder „ideologisch“. Als Advokat berief er sich auf die juristische Sprache und deutete die Gesetzeslage bzw. die Machtfaktoren, die in Recht und Verfassung sichtbar wurden.
Carl Schmitt als Ideologe und Wissenschaftler
Carl Schmitt hatte nach 1943 bereits deutlich gemacht, wie er sich selbst sehen wollte, welche Bedeutung und welche Grenzen er hatte. Nach seiner Überzeugung würde die deutsche Landmacht den „Weltbürgerkrieg“ verlieren und andere Verfassungsordnungen aus USA oder sogar aus Russland würden die deutsche Rechts- und Verfassungstradition überwinden und eine neue Politik und neues Verfassungsrecht begründen. Schmitt blieb bewusst, dass die neuen Welt- und Besatzungsmächte ihn zur Verantwortung ziehen würden. Er bereitete sich auf eine innere Emigration, auf einen „Prozess“ oder auf eine Haftzeit vor, denn er hatte in seinen Kommentaren und Rechtsgutachten drei gravierende Fehler gemacht, die das „universalistische Recht“ des Westens oder die „Prinzipien“ der Diktatur des Proletariats ihm ankreiden würden. Er hatte 1934 den Mord an seinen konservativen Freunden, General v. Schleicher, Edgar Jung und Klausner in der Schrift „Der Führer schützt das Recht“ gerechtfertigt. Sie wurden bei den Aktionen von GESTAPO unnd SS im „Röhmputsch“ umgebracht. Auf einem Kongress gegen das „Judentum in den Rechtswissenschaften“, den er in Berlin an der Universität organisiert hatte, hatte er 1936 den jüdischen Rechtsgelehrten jegliche Kapazität und Konsistenz abgesprochen und sie aus der deutschen Rechtstradion ausgeschlossen. Fast zum gleichen Zeitpunkt rechtfertigte er den „Führerbefehl“ und wollte ihn in das Strafgesetzbuch des Reiches aufnehmen, um den inneren „Feind“ direkt zu bekämpfen und zu liquidieren. Der Jurist Schmitt hatte die pure Willkür und den Staatsterror zum Prinzip des Führerstaates erhoben.
Jetzt, 1943, vollzog er einen Rückzieher und bereitete seine Verteidigung gegen die westlichen oder östlichen Ankläger vor. Nach seiner Überzeugung war der „wissenschaftliche Jurist“ kein „Theologe“ und kein „Philosoph“. Allerdings war er auch keine „blosse Funktion“ des „gesetzten Sollens“. Er wehrte sich gegen eine „subalterne Instrumentalisierung“. Gegen den philosophishen und theologischen Anspruch und gegen die Unterwerfung des Juristen zum „Funktionsträger“ und „Staatsdiener“ wollte er sich als „Wissenschaftler der Jurispondenz“ behaupten. Hier lag seine „geistige Existenz“. Er musste sich als Denker und Wissenschaftler bewähren, obwohl die unterschiedlichen Ordnungen, Machtwechsel und Staaten unterschiedliche Anforderungen an ihn stellten. In diesen „wechselnden Situationen“ wollte und musste er die Grundlagen eines „rationalen Menschseins“ definieren und feststellen. Die „Prinzipien des Rechts“ mussten in den Umbrüchen vom Kaiserreich zur Weimarer Republik, von dieser Republik zur NS Diktatur und von der Diktatur zur Bundesrepublik bewahrt werden. Zu diesen „Prinzipien“ zählte Schmitt die gegenseitige Achtung und Anerkennung des Juristen und Wissenschaftler als „Person“. Der „Sinn für Logik“, die „Folgerichtigkeit der Begriffe und Institutionen“, der „Sinn für Reziprozität“ und für das „Minimum eines geordneten Verfahrens“ und einen „due process of law“, ohne den es kein Recht geben würde, sollten weitere Kriterien der objektiven Rechtsanwendung sein. Es kam ihm darauf an, den „unzerstörbaren Kern des Rechts“ zu erhalten. Darin lag die „Würde“ des Juristen, dieses „Minimum“ in allen Systemen und Staaten einzuklagen. (Carl Schmitt, in: „verfassungsrechtliche Aufsätze, Berlin 1985 (3. Auflage), S. 385, 442)
Schmitt selbst stellte sich als ein „situativer Denker“ vor, der je nach Lage, den Staat beriet und Gutachten anfertigte, jedoch auf „Objektivität“ und „Rechtsausgleich“ bestand. Dabei wollte er den „unzerstörbaren Kern des Rechts“ einhalten und sich je nach Institution um den rechtslogischen „Begriff“ und um die „Wiederholbarkeit“ und „Logik“ des Verfahrens kümmern. Neben der opportunistischen Anpassung an den Zeitgeit und die Macht des Staates musste der Jurist seine „geistige Existenz“ und seinen „Anspruch des Rechtsgelehrten“ verteidigen. Schmitt konnte, wurden diese Zeilen auf den juristischen Stand angewandt, als Exponent seiner Generation und der juristischen Wissenschaften erklärt werden. Der Seinsgrund seines Denkens entsprach dem politischen Wechsel und den unterschiedlichen Situationen. Trotzdem mussten die Widerstände nachweisbar sein, die der Jurist gegen die Willkür und den Staatsterror entwickeln würde. Mit vielen anderen Wissenschaftlern, Ideologen, Philosophen und Juristen genügte er jedoch dem Karriereangeboten der unterschiedlichen Staatsformen und wollte sich der jeweiligen Staatsmacht andienen. Zugleich musste er die unterschiedlichen Wendungen vor seinen wissenschaftlichen und moralischen Ansprüchen legitimieren, verarbeiten und interpretieren.
In den Arbeiten von Reinhard Mehring: „Carl Schmitt, Aufstieg und Fall, eine Biographie“, München 2009, Bernd Rüthers, Carl Schmitt im Dritten Reich, München 1990 und Heinrich Meier: „Die Lehre Carl Schmitts“, Stuttgart 1994, wurde dieser Selbstbespiegelung widersprochen. Allerdings wurde Carl Schmitt in Nürnberg nach 1945 freigesprochen. Ossip K. Flechtheim, amerikanischer Ankläger, Offizier und später Professor an der Freien Universität, zugleich Mentor und Beschützer des SDS, redete später davon, dass ein „Voltaire“ nicht in die Strafanstalt geschickt werden konnte. Schmitt wurde allerdings von der Lehrtätigkeit an einer Universität ferngehalten. Jacob Taubes, Philosophieprofessor und Religionswissenschaftler an der FU, nahm zu diesem konservativen Theoretiker und Juristen Schmitt Kontakte auf, um mit ihm die „Raumrevolution“ der Zukunft und die „Theorie des Partisanen“ zu diskutieren. Derartige Ideen erreichten den Republikanischen Club und den SDS.
Carl Schmitt erschliesst sich uns heute als Charakter und Generationstyp durch die soziale Herkunft, durch den sozialen Aufstieg, durch das Milieu und durch die Institutionen, in denen er sich bewegte und arbeitete. Die Verbindungen zum wohlhabenden Onkel und später zu den Vorgesetzten, Lehrern und Professoren gaben ihm Impulse und Orientierung. Die Freundes- und Kollegenkreise und der Einfluss der Mentoren und Ideengeber bezeichneten die Situation und den sozialen Hintergrund von Aufstieg. Sie wurden bis auf Ausnahmen bei jedem Karriereschritt ausgetauscht und durch neue Kreise und Verbindungen ersetzt. Die Institution der Universität, des Staates oder des Militärkommandos, der Verbindungen oder der „Partei“ wiesen Hindernisse und Potentiale auf, die Schmitt jeweils erkennen musste, um sich behaupten zu können. Er musste allerdings seine Intelligenz, zugleich seine Anpassungsfähigkeit und seinen juristischen Geist als Gutachter und Textschreiber unter Beweis stellen. Primär durch Leistung, durch „geniale Ideen“, Fleiss und Beweisführungen, durch Anpassung und Subsumtion unter Personen und Ideen fand er die Anerkennung seiner Vorgesetzten und seiner Förderer und konnte dadurch den Weg nach oben nehmen. Diese Nähe zu den informellen Hierarchien und Entscheidungsträgern und die Leistungsfähigkeit des Juristen Schmitt erklärten den Aufstieg als Fachberater und Wissenschaftler, der als Gutachter bei den unterschiedlichen Gremien, Stabsstellen und später Regierungen oder Ministerien auftrat und als Porfessor Anerkennung finden konnte. Sowohl die kleinbürgerliche Herkunft und die künstlerische Begabung erzeugten bei Schmitt den „Willen“ und eine spielerische Bereitschaft, die unterschiedlichen sozialen und funktionalen Barrieren zu überwinden. Der „Drang“ in eine andere Schicht aufzusteigen, „richtiges Geld“ zu verdienen und zu Wohlstand zu gelangen, beschrieb eine wichtige Seite des Charakters dieses Juristen. Seine Intellektuellität und die Begabung, vor allem sein künstlerisches Talent, gaben ihm die Fähigkeit, Texte zu formulieren und Ideen zu entwickeln, die gut juristisch fundiert waren und hinausgigen über die Fachsprache oder die gängigen Dispute.
Diese Selbstbehauptung war typisch für Carl Schmitt. Dadurch entsprach er einer Zeitfigur, einem Typus von Juristen und Experten, einer bestimmten Physiognomie und „Maske“, die innerhalb der deutschen Intelligenz zwischen 1914 und 1945 und nach dem „Zeitbruch“ tausendfach zu finden war. Seine Begeisterung für die NS- Diktatur kam aus der Überzeugung einer funktionalen Intelligenz, dass die „nationale Revolution“ und die Ausschaltung der „Marxisten“ und „Juden“ den Weg an Universität und Staat für sie selbst freigab, in neue und lukrative Funktionen zu kommen. Ausserdem war er von der Durchschlagkraft dieser Führerdiktatur überzeugt, die eine Neuordnung Deutschlands und Europas einleiten würde. Die NS – Ideologie begeisterte und trug das Ziel, für eine längere Periode die neue Macht zu sichern. Dieser „Kulturbruch“ bzw. politische „Umsturz“ und die Öffnung der Staats-, Kultur- und Wissenschaftsapparate nach 1933 machten auch Carl Schmitt blind, das „Hintergründige“, das „Extreme“, den „Vernichtungswillen“, den Niedergang dieser Führerdiktatur oder die Niederlage im Krieg überhaupt zu bedenken. Er redete im NS – Jargon und steigerte sogar den Antisemitismus in die Überzeugung, dass ihm vorerst nichts passieren konnte. Er wurde deshalb zum willfähigen Diener dieser Diktatur, die zugleich die Grundlage seines Erfolgs abgeben sollte. Erst als die SS Professoren aus dem „Schwarzen Korps“ und der „Sicherheitsdienste“ ihm die Grenzen zeigten, und er an seinen „konservativen Katholizismus“ und an seine „Judenfreundlichkeit“ in „Weimar“ erinnert wurde, wurde er vorsichtig und er kehrte zurück zum subtilen und feinfühligen Opportunismus seiner frühen Jahre. Der juristische, wissenschaftliche Ansatz erlangte erneut ein Primat.
Die genialen Visionen, die Carl Schmitt entwickelte, kamen aus diesen Zeitbrüchen nach 1918 und nach 1942. Diese Weitsichten gaben ihm die Grösse der historischen Staatsphilosophen. Als Vertreter der Militärdiktatur setzte er auf einen zentralen Staat, der die eindeutige Befehlsgewalt über einen Generalstab oder über einen Präsidenten aufwies. Er kritisierte den Liberalismus und Parlamentarismus als Methode der Zersplitterung, des Zerfalls, der Relativierung, der Geheimdiplomatie und der Machenschaften der Cliquen und Klüngel und er hatte das Thema der „politischen Romantik“ und der „Lage des Parlamentarismus“ gefunden. Die Diktatur als Entscheidungsgewalt und Definitionsmacht des inneren und äusseren Feindes erlaubten ihm, eine „allgemeine Verfassungslehre“ und den „Begriffs des Politischen“ allgemein zu definieren. Schmitt nahm durch diese Schriften den Niedergang der Weimarer Republik vorweg. Nach der Niederlage der Wehrmacht in Stalingrad 1942 und nach der Landung der Westalliierten in Marokko und Sizilien wandte er sich der Thematik der „Landnahme“ zu. Die NS- Diktatur würde zerschlagen werden. Europa und vor allem Deutschland würde in der Zukunft von den Seemächten USA und England bestimmt werden. Sie würden die Grundlagen von Politik, Verfassung und Recht legen. Der „Nomos“ und die Theorie der „Raumrevolution“ erblickten das Licht der Welt.
Die Diktatur in der bürgerlichen Demokratie
Carl Schmitt musste primär als Jurist, Advokat und zugleich als ein moderner Denker gesehen werden, dessen Analysen noch heute aktuell sind, weil sie richtige Fragen aufwerfen. Dadurch bestätigte er die „Politisierung“ der Sozialwissenschaften. Ihre juristische Erschliessung konnte zwar ideologische Einflüsse nicht überwinden, trotzdem enthielt sie objektivierende Ansprüche und zeigte sich als Mittel und Methode, den Zustand von Staatsmacht, Recht und Verfassung zu ergründen. Wer würde sich in den Machtkämpfen durchsetzen? Worin lag das Ziel des Staates? Würde die finanzkapitalistische Weltmacht USA über die NS – Raummacht oder den realen „Sozialismus“ Russlands triumphieren oder würden nach dem weltpolitischen Sieg der USA neue Machtzentren, etwa in China sich herausbilden, die das Völkerrecht oder die internationale Raumpolitik umdefinieren würden?
Die theoretishen Denktraditionen und Vorbilder dieses Juristen sind deshalb zu benennen. Sie gipfelten nicht etwa nur in den Bezügen zu Machiavelli oder zum spanischen Konterrevolutionär Donosso Cortes. Schmitt entwickelte eine feinfühlige Marxismuskritik, die sich auf Max Stirner und auf die Lebensphilosophie von Soren Kierkegaard bezog. Schmitt übernahm die Kritik am „massiven Rationalismus“ der materialistischen Theorie, die alles Denken als Funktion und „Emanation vitaler Vorgänge“ auffasste. Durch diesen Rückzug auf logische, mathematische, naturwissenschaftliche und ökonomische „Gesetze“ und Vorgänge in der Gesellschaft schlug dieser Materialismus in eine „irrationale Geschichtsauffassung“ um. Sie blendete wichtige politische, humane und soziale Zusammenhänge aus. Sie wurde zu einem sinnlosen „Funktionalismus“, der alles zu erklären schien, trotzdem aktuelle und konkrete Zeitgeschichte nicht aufnehmen und deuten konnte. Selbst Georges Sorel mit seinem Gespür für mythologische Vorgänge in der Gesellschaft durch das weite Spektrum von Gewalt und Macht fand bei Schmitt keine Anerkennung, solange er an der Marxschen Theorie des „Klassenkampfes“ festhielt.
Schmitt gewichtete die Kriegspolitik des internationalen „Finanzkapitals“ vor 1914 und nach 1918, das auf Eroberung, Herrschaft, Unterwerfung, Vormacht und Diktatur drängte, mit Geld operierte und manipulierte, um die „Fremdherrschaft“ und die „Unterdrückung“ der Völker in Europa einzuleiten. Die deutsche und europäische Kultur sollte nach Schmitt im I. Weltkrieg und durch den Versailler Vertrag zerschlagen und grundlegend umgewertet werden. In dieser historischen Kriegserklärung entstand eine „Feindschaft“, die so einfach nicht zu erkennen war und deshalb verharmlost wurde, jedoch gegen die deutsche und europäische Substanz von Kultur, Recht, Verfassung und Staat gerichtet war. Dieser „Feindbegriff“ würde das „Wesen einer Epoche“ bestimmen. Er besass einen politischen Anspruch von dominierender Macht und Herrschaft. Dieser „Feind“ verfolgte das Ziel, den Willen des deutschen Staates zu brechen und das Volk und die Eliten zu zermürben. Er unterminierte den Widerstandswillen. Er war enthalten in den unterschiedlichen Ideologien. Gab sich unerkennbar, verschleierte und verdrängte den Anspruch auf Vormacht. Nicht die Ökonomie als „Funktion“ und Grundlage von Gesellschaft war wichtig, sondern die Feindbestimmung wurde bedeutsam und liess sich über das Völkerrecht, internationale Verträge und politische Auflagen und Bündnisse entschlüsseln. Schmitt hatte sein Thema und seinen Ansatz gefunden, über die Rechts- und Staatsanalyse den „Feindbegriff“ zu thematisieren und zu ergründen.
Machiavelli wurde dadurch zu einem Vordenker und Vorbild für ihn, denn er bestimmte die Staatstypen über den stattfindenden Bürgerkrieg in Norditalien des späten Mittelalters. Daraus ergab sich, daß die Stadtrepubliken sich jeweils nur als Diktaturen, „oligarchische Demokratien“ oder Herrschaftsformen erhalten konnten, in denen bestimmte Familien, Parteien, Machtgruppen oder Geheimgesellschaften dominierten. Allerdings benötigten derartige „Republiken“ oder „Diktaturen“ die Anerkennung durch das Volk, wollten sie „Kontinuität“ bewahren und sich längere Zeit gegen die Feinde behaupten. Eine derartige „Legitimation“ wurde über die Propaganda und die Mobilisierung des Volkes gegen vermeintliche oder echte Feinde erreicht. Der Staat als „Fürst“ oder „Macht“ musste die zentrale Entscheidungsgewalt gegenüber den demokratischen Gruppen und Institutionen behaupten und er erlangte eine unbedingte Souveränität, konnte er ein Gleichgewicht im potentiellen Bürgerkrieg herstellen und über die Ausnahmesituation verfügen. Der entstehende, moderne Staat liess sich nicht aus einem „Gottesgnadentum“, dem Auftrag der christlichen Religion oder einer überhistorischen Mission der Fürsten, Könige oder „Familien“ ableiten. Der Staat liess sich auch nicht aus den Aufgaben eines „Weltgeistes“ erklären. Er wurde nicht über das positive Recht definiert, das als abstraktes Postulat Gerechtigkeit und den „ewigen Frieden“ herstellen würde. Der „amtierende Staat“ war auf keinen Fall der „Überbau“ der ökonomischen und kapitalistischen Entwicklung. Er folgte dem Auftrag, sich gegen den „Feind“ zu behaupten, der seine Grundlagen zerstören und das Volk in Elend und Not treiben würde. „Feindschaft“ zeigte sich als „Kulturbegriff der Umwertung und der Dekadenz“. Sie würde Wirtschaft und Handel, Staat und Politik zersetzen, zerstören und in den Ruin treiben. Sie unterminierte den Stolz und der Widerstandwillen der Eliten und Völker.
Hier folgte Schmitt den Überzeugungen von Max Weber. Eine Analyse der vorherrschenden Herrschaftsformen, die sich aus der „Tradition“, dem rationalen Aufbau von Wirtschaft und und Staatsbürokratie ergaben und dem charismatischen, mystischen Führungsansprüchen historischer Persönlichkeiten folgten, liessen sich nur bedingt ökonomisch, psychologisch, religionswissenschaftlich oder soziologisch erklären. Sie benötigten die „Machtanalyse“ über Recht und Verfassung. Bei dieser Vorgehensweise wurde deutlich, dass Schmitt seine Ideen wie ein Dramaturg in die historischen Vorbilder, Hobbes, Machiavelli, Hegel, Weber u. a. projizierte, um sie in seinem Sinn erfolgreich zu zitieren. In dieser Vorgehensweise unterschied er sich kaum von anderen Wissenschaftlern. Er gab jedoch dadurch zu erkennen, dass er selbst einen „Weltplan“ anerkannte, der nicht über die idealistische Philosophie, nicht über eine Utopie oder das positive Recht begründet werden konnte. Er war enthalten in den Zielen der feindlichen Weltmacht, die als Leviathan die Landmacht Behemoth besiegen wollte.
Nach Schmitt wurde die „bürgerliche Gesellschaft“ über die nordamerikanische Unabhängigkeit und über die Französische Revolution begründet. Sie wurde schnell in die Abhängigkeit zur Geldaristrokratie gebracht und enthielt keinerlei Ziel, Wahrheit, Leidenschaft oder Heldentum. Sie bewegte sich je nach „Lage“ zwischen den sozialistischen Ideen und der politischen Reaktion, akzeptierte die Geldmanipulationen, verkam in den entscheidungslosen Diskussionen zur labilen, schwachen Macht und zerredete jedes Engagement, jede Entscheidung und zerstörte dadurch die „Staatlichkeit“. Der „demokratische Staat“ zeigte sich offen für derartige Manipulationen und leitete über den Parlamentarismus die Selbstaufgabe der bürgerlichen Gesellschaft ein. Die Mittelklassen lösten sich auf. An der Spitze agierten die Milliardäre der Finanzspekulation. Unten verkam das pauperisierte Volk in Dekadenz, Kriminalität und Armut.
Dagegen behauptete die „Theologie“ der Gegenrevolution den Schöpfungsgedanken und die Hierarchie einer katholischen Ordnung, die die Einheit der Welt und die „Menschgeltung“ nach christlichen Werten restaurieren wollte. Das biologische Mass des Menschen wurde anerkannt, jedoch durch das Gottesgebot gehegt. Eine derartige Ordnung besass keinen „rationalen Aufbau“, folgte nicht dem „Profit“, sondern besaß eine menschliche, katholische Disposition. Reformation, Atheismus, Utopismus und Liberalismus lieferten die Gesellschaft an die Interessen der Geldaristrokratie und der Spekulanten aus, die ihre „Demokratie“ als potentielle und unfassbare „Diktatur“ einrichteten. Die Lobbygruppen der Geldmanager bestimmten Parteien und Regierung.
Schmitt sympathisierte mit der „katholischen Reaktion“ eines Donosso Cortes und machte deutlich, dass er die bürgerliche Ordnung primär als eine Art „Verschwörung“ betrachtete. Er konnte diese einseitige Festlegung über die Verfassung, das geltende Recht und das Strafgesetzbuch belegen. Die Ausnahmegesetze sicherten der „politischen Klasse“ die Macht. Trotzdem blieb bedenklich, eine juristische Staatssicht des „Liberalismus“ als eine pure Manipulation oder Verschwörung zu sehen. Schmitts „Theologie“ kannte als Alternative zur „bürgerlichen Demokratie“ die Militär- oder Präsidialdiktatur, weil der Soldat oder der Beamte fähiger und toleranter zu sein schien als der liberale Macher und Manipulateur. Das machiavelistische „Virtu“ wurde durch Schmitt als Verantwortungsethik, Kapazität, Überzeugung und Willen übersetzt und einer bestimmten Schicht und Religion zugeschrieben. Schmitt wurde bestätigt bei der Reichswehr oder bei den katholischen Reichskanzlern der Weimarer Republik. Sogar das Bündnis zwischen Wehrmacht, NSdAP, Industrie und konservativer Staatsbürokratie schien noch diesen „Willen“ zu enthalten. Er zersprang bereits mit dem Machtantritt Hitlers 1933 und nach 1939 und 1941 in dem Augenblick, wo der Krieg in einen totalen Technikkrieg gesteigert und der Terror gegen den „inneren Feind“ forciert wurde.
Die Analyse von Marx über die bürgerliche Gesellschaft im Bürgerkrieg in Frankreich und Nordamerika kam zu ähnlichen Resultaten wie Schmitt. Sie enthielt über die staatliche Zentralbürokratie, Verfassung und Recht die innere Tendenz zur Diktatur. Marx analysierte die Rolle des Finanzkapitals in Frankreich und USA und kam zum Ergebnis, dass dieses „Kapital“ als Geld- und Zentralmacht den zentralen Staat über den „Präsidenten“ fügen und kontrollieren wollte. Es finanzierte die aufwendigen Wahlkämpfe und es unterstützte die Regierungen, sich gegen demokratische Kontrollen abzusichern. Es finanzierte die Rüstung und war an Kriegen interessiert, um Raum und Markt für die Finanzspekulationen zu erweitern. Das Finanzkapital nahm die Währungen, die Rohstoffe, die Industrie, die Immobilien, den Handel zum Objekt und verwandelte sie in die Derivate, Aktien oder Anleihen. Nur als internationale Macht konnte es sich behaupten und bildete gegenüber dem Nationalstaat einen internationale, staatsähnliche Macht, die die Bedingungen von Wirtschaft und Politik diktieren würde. Nach Marx enthielt das Finanzkapital sozialistische Prinzipien der Planung, der Zentralisation, der Arbeits- und Konjunkturpolitik, um sie allerdings „privat“ umzusetzen. Dadurch wurde es zur Macht der Zerstörung und zum „Feind“ gesellschaftlicher Ziele, um über Zerstörungen neue Methoden und Mittel des „Aufbaus“ und der Spekulation zu finden. Krieg und Chaos waren in diesem finanzkapitalistischen System vorgegeben. Es bedeutete die „negative Aufhebung“ des Kapitalismus auf „kapitalistischer Grundlage“ und war an Diktatur und Krieg interessiert. Es zerstörte die „bürgerliche Gesellschaft“ und zielte auf die „soziale Paralyse“ und den Polizeistaat, denn diese Politikformen erleichterte die Regentschaft der wenigen Milliardäre über die Masse der Völker. Für Marx bildete allerdings die „proletarische Revolution“ und die „Diktatur des Proletariats“ als „Negation der Negation“ die Alternative.
Lenin dachte ähnlich wie Schmitt und Marx über die demokratische Republik. In seiner Imperialismusschrift und den Vorarbeiten dazu diskutierte er die Rolle der Banken und des Finanzkapitals bei der Organisierung der Monopole und Trust. Ihr Einfluss auf den Staat und die imperialistische Kriegspolitik wurde unterstrichen. Die „Fäulnis“ und die „Dekadenz“ der politischen Eliten war für Lenin Anlass, nach seiner Rückkehr im April 1917 nach Petrograd auf den bolschewistischen Aufstand zu drängen. Er hatte keinerlei Bedenken, sich die Durchfahrt von der Schweiz nach Russland durch Deutschland durch den deutschen Generalstab „gewähren“ zu lassen. Die „Provisorische Regierung“ und ihre Parteien zeigten sich unfähig, den Krieg mit Deutschland zu beenden, obwohl die Arbeiter und die unzähligen Bauernsoldaten kriegsmüde waren und desertierten. Das Entente – Kapital und hier wieder die finanzkapitalistischen Investoren der Kriegsindustrie bestanden auf der Kriegsbereitschaft Russlands, um die deutschen Truppen in einem Zweifrontenkrieg endgültig niederzuringen. Der „bolschewistische Sturm“ auf das Winterschloss hatte die symbolische Kraft, die bürgerliche Regierung auszuschalten und zu verhaften und die Auflösung der Front einzuleiten und Frieden mit Deutschland zu schliessen. Die Oktoberrevolution fand lediglich in zwei, drei Grosstädten statt, hatte jedoch das Echo im weiten Land, in den unzähligen Landumverteilungen und in den Streiks der Arbeiter. Die „Fäulnis“ hatte die herrschenden Eliten machtunfähig gemacht. Der republikanische Staat wurde durch die Revolutionäre zerschlagen und ersetzt durch die unterschiedlichen Initiativen, eine „Rote Armee“ zu fügen, die „Tscheka“ einzusetzen und eine kriegskommunistische Umverteilung und soziale „Reproduktion“ zu organisieren. Die Bolschewiki wollten im entstehenden Bürgerkrieg eine organisatorische und waffentechnische Überlegenheit erreichen. Aus diesen „Organen“ entstand eine neue Variante der asiatischen „Staatlichkeit“.
Das „Revolutionäre“ dieser Oktoberrevolution stammte aus dem wachsenden Chaos. Die Organisationskraft der Bolschewiki, die zentrale Propaganda und der Einsatz der „Produktivkraft“ des Terrors gegen Sozialdemokratie, Liberalismus, Konservatismus und das „alte Russland“ nahmen diesen revolutionären Schwung auf. Die „Massen“ folgten einem „Glauben“ der Erlösung. „Stenka Razin“ erlebte eine historische „Auferstehung“. Lenin interpretierte diese Eigendynamik einer Revolution und zog erst dann die Notbremse, als die Selbstzerstörung der Revolution einsetzte. Schmitt, der sicherlich die Leninschriften kannte, verglich die Situation seit 1929 in Deutschland mit dem Jahr 1917 in Russland, so die Vermutung. Nach Lenins Überzeugung waren die wachsende „Fäulnis“ und die „Selbstparalyse“ einer Gesellschaft Bestandteil der Profitsucht der finanzkapitalistischen Milliardäre und ihrer Zuhälter. „Fäulnis“ bezeichnete den Gegensatz zur Verantwortungsethik oder zum „virtu“ einer produktiven Machtelite. Eine fatale Gesinnung der Mächtigen steckte die ganze Gesellschaft an und trieb sie in die Lethargie und in den inneren Zerfall. „Revolution“ bedeutete Erneuerung und den radikalen „Austausch“ der Eliten, die nun aus den unverbrauchten, jungen Generationen kamen.
Der Triumph des „Leviathan“
Schmitt unterschied in seiner Kritik des Völkerrechts und des Varsailer Vertrages generell zwischen der Landmacht Behemoth und der Seemacht Leviathan. Für ihn gab es zwei grundverschiedene Rechtssysteme, die jeweils bei der europäischen Landmacht angesiedelt waren und die ihre Wurzeln in der Seemacht Englands oder der USA hatten. In der Landmacht, so seine These, wurzelt alles Recht auf einem „bodenhaften Urgrund“, in dem Raum und Recht, Ordnung und Ortung zusammentrafen. Die Seemacht kannte keine festen Beziehungen. Je nach Macht und Situation wurde das Recht umgeschrieben und es diente den Mächtigen als eine vorläufige Legitimation, bis die nachfolgenden Mächtigen ihr neues Recht verkündeten. Vor allem in der Auseinandersetzung mit Thomas Hobbes begründete Schmitt dieses doppelte Weltrecht.
Der Völkerbund und das Völkerrecht schrieben nach 1918 den Versailer Vertrag fest und sicherten den bestehenden „Besitzstand“. Im Völkerbund wurde nicht Recht oder Gerechtigkeit vertreten, sondern die historische Entwicklung und die bestehende Machthierarchie zwischen den Staaten und Völker festgeschrieben. Es wurden Verträge geschlossen, die bei nächster Gelegenheit gebrochen wurden. Die Souveränitätsansprüche der Mittelmächte und Russlands wurden eingeschränkt und das Völkerrecht fragmentiert und in Ost- und Zentraleuropa in eine Vielzahl von Sonderzonen und Gebietsforderungen aufgelöst. Die Eigenstaatlichkeit wurde durch internationale Verträge relativiert und zugleich durch die Forderung der Freiheit der Meere und der Rohstoffe der Zugriff der Seemächte gestärkt. Die Gültigkeit des Völkerrechts kannte keinerlei Rechtslogik und war nicht einer allgemeinen Moral verpflichtet, sondern fügte sich dem Gewohnheitsrecht oder wurde von der us – amerikanischen Grossmacht je nach Situation interpretiert. Die Moroedoktrin, die die Freiheit des Handels einklagte und die Freiheits- und Menschenrechte gegen den katholischen Imperialismus Spaniens und Portugal einforderte, wurde nach 1918 auf Europa übertragen und sollte den Landmächten Deutschland und Russland die Souveränität nehmen und ein vages Interventionsrecht begründen.
Die Landmächte sollten ihre innerstaatliche Souveränität verlieren und sollten von aussen durch das Völkerrercht begründet werden. Der demokratische Willen der Völker wurde dadurch ignoriert oder aufgelöst und den Seemächten ein politischer Eingriff garantiert. Über internationale Verträge oder Bündnisse, Absprachen, Abkommen wurde das natioanle Recht ausgehöhlt und den einzelnen Staaten die Souveränität genommen. Internationale Gremien, durchaus anonym, nicht durch Wahlen legitimiert, unkontrolliert, übernahmen die Aufgabe, sich in die inneren, nationalen Belange der Einzelstaaten einzumischen. So entstand eine bürokratische Diktatur, die im Auftrag des internationalen Finanzkapitals agierte, jedoch vollkommen unabhängig war von der demokratischen Kontrolle der Völker und Wähler. Selbst die nationalen Regierungen hatten ihren Direktiven zu folgen. Es fällt auf, dass Schmitt die Vorbehalten gegen den westlichen Liberalismus und das Finanzkapital auf die Staatsform und den „Imperialismus“ der Seemächte übertrug. Allerdings schien ihm die strikte Analyse der Vertragsformen und des Völkerrechts Recht zu geben, obwohl die positive und negative Idealisierung dieser zwei Staatstypen sichtbar war.
Nach 1939 nahm Schmitt diese Kritik aus den zwanziger Jahren auf. Jetzt reduzierte er die bisherige „Weltgeschichte“ auf eine Geschichte des Kampfes der Seemächte gegen die Landmächte. Die Welt zerfiel in zwei Lager, die jeweils unterschiedliche Wirtschaftsformen, Gesellschaftstypen, Staatsstrukturen und Rechtsnormen aufwiesen. 1941 kommentierte Schmitt die Atlanticcharta, die durch den amerikanischen Präsidenten Roosevelt und den englischen Premier Churchill aufgestellt wurde und die eindeutig gegen die NS – Diktatur in Deutschland gerichtet war, die sich jedoch auf Russland und später auf China übertragen liess. Schmitt veröffentlichte bei Reclam in Leipzig drei Aufsätze zu diesem Thema: „Das Meer gegen das Land“, „das neue Problem der westlichen Hemisphäre“ und „Land und Meer“. Die alliierten Konferenzen in Casablanca, 1943 und in Teheran und Yalta, 1945, die die bedingungslose Kapitulation Deutschlands festschrieben, schienen ihn zu bestätigen. Die USA würden Westeuropa und Deutschland besetzen und in einer „Landnahme“ rechtlich und politisch umwälzen und nach dem Vorbild der USA gestalten. Nicht primär Europa wurde von dieser Umwälzung betroffen. Die ganze Welt sollt nach der Perspektive des Leviathans geordnet werden. In der „Marinerundschau“ vom August 1943 gab Carl Schmitt dieser weltpolitischen Tendenz in dem Aufsatz über „die letzte globale Linie“ Ausdruck.
Es interessiert, ob nicht die Landmächte Deutschland und Russland, die ihre Verfassungen der NS – Diktatur geöffnet hatten bzw. der bolschewistischen „Revolution“ keinen Widerstand entgegensetzen konnten, ob diese Landmächte, die als Rechts- und Verfassungsstaaten sich dem politischen Massnahmestaat unterwarfen, ob diese Landmächte nicht notwendig ersetzt werden mussten durch das nordamerikanische Prinzip von Verfassung und Politik. Bei Schmitt klingt wiederum eine „Verschwörung“ an. Deutschland und Russland als Militärmächte, Planstaaten und Diktaturen konnten ihre Ambitionen von „Raumpolitik“ und „Weltmacht“ nur über den Massenterror und durch den totalen Krieg eröffnen und scheiterten letztlich an der USA bzw. an der Taktik, Russland gegen Deutschland in Front zu bringen. Nach 1945 wurde auf West- und Zenraleuropa das amerikanische Prinzip von Politik, Medienmacht, Demokratie und Verfassung übertragen. Es garantierte den Zugriff der nordamerikanischen Grossmacht auf die Innenpolitik der europäischen „Volksparteien“ und Staaten. Nach 1989 wurde Russland und Osteuropa diesem Prinzip unterworfen. Widerstand würde entweder in Fernost, in China oder in den islamischen Republiken entstehen, die die Wurzeln der Landmacht konservierten. Daneben entstand im Volk die Idee des „Partisanen“, sich gegen die wachsende Dekadenz, gegen die Armut, das Verbrechen und die Willkür zu wehren. Schmitt erinnerte in diesen Überlegungen an Marx, der eine „negative Dialektik“ kannte, die seiner Utopie des Fortschritts widersprach. Negative Zuspitzungen von Krisen, Chaos und Krieg kannten den Widerspruch und den Widerstand, die sich zusammenführen liessen aus den Resten von Tradition und Überlebenswillen der einzelnen Eliten und Völker.
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mardi, 24 septembre 2013
A 70 años de la muerte de Simone Weil
Mailer Mattié*
Instituto Simone Weil/CEPRID
Ex: http://paginatransversal.wordpress.comEl 18 de julio de 1943, un mes antes de morir, Simone Weil escribió desde Londres a sus padres que se encontraban en Nueva York:
Tengo una especie de certeza interior creciente de que hay en mí un depósito de oro puro que es para transmitirlo. Pero la experiencia y la observación de mis contemporáneos me persuade cada vez más de que no hay nadie para recibirlo. Es un bloque macizo. Lo que se añade se hace bloque con el resto. A medida que crece el bloque, deviene más compacto. No puedo distribuirlo en trocitos pequeños. Para recibirlo haría falta un esfuerzo. Y un esfuerzo ¡es tan cansado!
Aquí Weil señala tres requisitos a su parecer imprescindibles para acercarse a la comprensión de su pensamiento: ese bloque compacto de oro puro. Ciertamente, es necesario un importante esfuerzo intelectual el cual, sin embargo, resultaría del todo insuficiente si no podemos acceder a la verdad sobre el mundo social en el que vivimos y si no contamos con determinadas experiencias; es decir, con determinadas referencias de aprendizaje.
¿A qué se refería en realidad Simone Weil? ¿Qué era aquello que impedía a sus contemporáneos comprender sus propuestas?
Con gran probabilidad, es posible que aludiera a dos de los rasgos que caracterizan la existencia humana en la sociedad moderna: ignorar la experiencia histórica que constituye el pasado y aceptar la distorsión del conocimiento que creemos tener sobre la realidad. El pasado, en efecto, ha sido borrado por el progreso, arrasado por el desarrollo del Estado y de la economía, destruido por la industrialización. Las ideologías y el pensamiento académico, por otra parte, han secuestrado la verdad al adscribirla a los dogmas heredados del siglo XIX.
Sería legítimo, entonces, preguntarnos sobre nuestras propias posibilidades de llegar a contar al menos en parte con esas referencias, puesto que ahora nos encontramos en disposición de dar testimonio real de los errores y el fracaso de las formas de organización social sustentadas en las ideologías del progreso económico. Somos testigos desde finales del siglo pasado, además, de la determinación y autonomía de la emergencia de la invalorable riqueza de saberes –que apenas la ciencia está comenzando a validar- contenida en las antiguas culturas y cosmovisiones de muchos pueblos originarios, sobrevivientes del exterminio en los territorios andinos o amazónicos, por ejemplo.
Asimismo, nos devuelven la verdad del pasado los recientes –aunque aún escasos- estudios que intentan revelar la realidad social que constituyó la Alta Edad Media en Europa, oculta en la falsa e interesada definición del Feudalismo y en la interpretación lineal que simplifica la historia, entre los cuales podemos destacar la obra del filósofo e historiador Félix Rodrigo Mora en referencia a la península Ibérica: Tiempo, Historia y Sublimidad en el Románico Rural, publicada en 2012. La crisis de las ideologías, por otra parte, anima el verdadero conocimiento, incluyendo la recuperación del pensamiento de autores importantes que fueron condenados al olvido porque sus criterios comprometían seriamente la solidez de las ideas dominantes. Es el caso, por ejemplo, de la obra de Silvio Gesell escrita a principios del siglo XX sobre la función del dinero en los sistemas económicos y el lugar que la moneda podría desempeñar en un proceso de transformación social. Planteamiento que ha servido de inspiración al matemático estadounidense Charles Eisenstein para proponer una transición hacia la economía del don en su libro Sacred Economics. Gift and Society in the Age of Transition, publicado en 2010.
Simone Weil fue, ciertamente, una tenaz observadora del mundo social, cualidad que la condujo siempre a desconfiar de las teorías y de las interpretaciones a priori. Una actitud, además, que contribuyó indudablemente a impregnar su corta vida de la intensidad que nos asombra. Exploró también el pasado, al encontrar absurdo enfrentarlo al porvenir. Halló así en la experiencia histórica que había constituido la sociedad occitana del sur de Francia en el siglo XIII –destruida sin piedad por la fuerza incipiente del Estado- los fundamentos para elaborar el núcleo de lo que sería su gran obra, Echar Raíces: la noción de las necesidades terrenales del cuerpo y del alma. A la luz de la mirada occitana, en efecto, advirtió el júbilo de la vida convivencial, basada en la obediencia voluntaria a jerarquías legítimas (no al Estado, cuya autoridad aunque sea legal no es necesariamente legítima) y en la satisfacción de las necesidades vitales. Un espacio colectivo que encuentra su justo equilibrio en la estrategia que consiste en juntar los contrarios -libertad y subordinación consentida, castigo y honor, soledad y vida social, trabajo individual y colectivo, propiedad común y personal-, para sustentar así el arraigo de las personas en un territorio, en la cultura, en la comunidad. Es lo mismo que el pueblo kichwa y el pueblo aymara llaman Sumak Kawsay o Suma Qamaña –el Buen Vivir que es convivir-; eso que el pueblo mapuche nombra Kyme Mogen y el pueblo guaraní Teko Kaui, siguiendo el mandato original de construir la tierra sin mal; en fin, aquello que para los pueblos amazónicos significa Volver a la Maloca, valorando el saber ancestral: es decir, regresar a la complementariedad comunitaria donde lo individual emerge en equilibrio con la colectividad; a la vida en armonía con los ciclos de la naturaleza y del cosmos; a la autosuficiencia; a la paz y a la reciprocidad entre lo sagrado y lo terrenal.
Simone Weil, por tanto, consideró la destrucción del pasado el mayor de los crímenes.
En ausencia de convivencialidad, al contrario, Weil observó que la sociedad se convierte en el reino de la fuerza y de la necesidad. Cuando la sociedad es el mal, cuando la puerta está cerrada al bien –afirmó-, el mundo se torna inhabitable. Los medios que deberían servir a la satisfacción de las necesidades se han transformado en fines, tal como sucede con la economía, con el sistema político, con la educación, con la medicina y con la alimentación industrial. Si esta metamorfosis ha tenido lugar, entonces en la sociedad impera la necesidad.
Una realidad que nos impone, en consecuencia, la obligación absoluta y universal como seres sociales de intentar limitar el mal. Es decir, la obligación absoluta de amar, desear y crear medios orientados a la satisfacción de las necesidades humanas. Medios –según Weil- que solo pueden ser creados a través de lo espiritual, de aquello que ella misma llamó sobrenatural: solo a través del orden divino del universo puede el ser humano impedir que la sociedad lo destruya. En la sociedad moderna –expresó- el orgullo por la técnica –por el progreso- ha permitido olvidar que existe un orden divino del universo.
En ausencia de espiritualidad –afirmó-, no es posible construir una sociedad que impida la destrucción del alma humana.
Lo espiritual en Weil –algo que siempre parece tan difícil de precisar-, la fuente de luz, lo que debería guiar nuestra conducta social, representa la diferencia entre el comportamiento humano y el comportamiento animal: una diferencia infinitamente pequeña que es, no obstante, una condición de nuestra inteligencia -en espera aún de rigurosa definición científica que la concrete-. El papel de lo infinitamente pequeño es infinitamente grande, señaló en una oportunidad Louis Pasteur.
Es a partir de la influencia de esta ínfima diferencia, entones, que es posible limitar el mal en la sociedad, porque esa condición de nuestra inteligencia es justamente la fuente del bien: es decir, es la fuente de la belleza, de la verdad, de la justicia, de la legitimidad y lo que nos permite subordinar la vida a las obligaciones. La misma influencia, pues, que debemos explorar en la experiencia del pasado: en el medioevo cristiano –señaló Weil-, pero también en todas aquellas civilizaciones donde lo espiritual ha ocupado un lugar central y hacia donde toda la vida social se orientaba. Precisar sus manifestaciones concretas, sus metaxu: los bienes que satisfacen nuestras necesidades e imprimen júbilo a la vida social.
*Mailer Mattié es economista y escritora. Este artículo es una colaboración para el Instituto Simone Weil de Valle de Bravo en México y el CEPRID de Madrid.
Fuente: CEPRID
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lundi, 23 septembre 2013
René Guénon and Eric Voegelin on the Degeneration of Right Order
René Guénon and Eric Voegelin on the Degeneration of Right Order
Ex: http://www.brusselsjournal.com
I. Introduction. No area of Western history is quite as recondite as that of the Diadochic empires, the successor-kingdoms that sprang up in the wake of Alexander the Great’s meteoric campaigns (334 – 323 BC) to subdue the world under militaristic Hellenism. One knows that the unity of Alexander’s Imperium, ever tenuous and improvisatory, broke down immediately on his death, when his “companions” fell to bellicose squabbling over bleeding chunks of the whole. Of Ptolemy’s Macedonian Egypt, one knows something – largely because the realm’s newly built Greek metropolis, Alexandria, became culturally the most important polis in the Mediterranean world, even after Octavian conquered Cleopatra and organized her Macedonian rump-state into Rome’s emergent world-federation. To transit from historical fair-certainty to historical incertitude, however, requires only that one switch focus from the Ptolemaic kingdom in the Nile Delta to the Seleucid... Indeed, to the Seleucid what? For Seleucus’ prize in the wars of the successors stretched in geographic space from Syria and Cilicia, and associated insular territories, eastward through portions of Mesopotamia and Asia Minor into the hinterlands of Parthia and Bactria. The Seleucid kingdom’s borders, as distinct from those of the more stable Ptolemaic kingdom in Egypt, remained, like the Heraclitean river, in constant flux; moreover, the Seleucid kingdom steadily withdrew in the direction of the sunrise, sacrificing its westerly regions for the defensibility of its easterly keeps, until in its last act, as the remnant Greco-Bactrian principality, it attempted to perpetuate itself against political mortality by an exodus-through-conquest from Central Asia across the Hindu Kush into Northern India.
One progresses, it seems, from obscurity to super-obscurity, as one might progress from Antioch, a polity known more or less in the annals of Western history (it served Seleucus for a capital city), to Pushkalavati, a polity all but unknown in those annals. These murky events in half-legendary places nevertheless issued in archeologically and literarily documentable consequences. When the Maurya emperor Ashoka (304 – 232 BC) converted to Buddhism around 250 BC and established it as his state religion, for example, he had to promulgate his policy in the northwest provinces of his expansive kingdom in Greek as well as in the indigenous languages. As late the First Century BC, Greek communities – if not actual poleis – still existed in what would today be Pakistan and Afghanistan, the original name of whose second largest city, Alexandria, corrupted itself over the centuries into the barbarism Kandahar. A post-Bactrian dux bellorum, Strato II, controlled a territory in the Indus Valley as late as 10 BC. Under the Seleucids and their heirs, the canons of Greek art influenced local sculpture and painting. The Bamiyan Buddhas, completed around 500 and dynamited by the Taliban in 2001, still reflected stylistic elements of Hellenistic statuary. Finally, it was through the Seleucid kingdom and its sequelae that India and the Mediterranean came into significant communication with one another so that Brahmanism and Buddhism might be known and studied by the Greek-speaking scholars of the Serapeum and something of the dialectical method might be adopted by Hindu philosophy.
This précis of Hellenistic penetration into the Near East and Central Asia in the great age of competing empires that consummated itself in the ascendancy of Rome in the West is by way of introduction to a modest comparative study of René Guénon’s Spiritual Authority & Temporal Power (1929) and Eric Voegelin’s Ecumenic Age (1974), the fourth volume of his five-volume Order and History (incipit 1956, with Israel and Revelation). The “Bactrian” chapter of the Alexandrian Drang nach Osten provides an important object of study in both books. Voegelin (1901 – 1985) could not, of course, have been known to Guénon (1886 – 1951) and it seems relatively unlikely that this particular book by Guénon would have been known to Voegelin, who, however, might have been familiar with The Crisis of the Modern Age (1927) and The Reign of Quantity & the Signs of the Times (1945); Spiritual Authority is something of a sequel to The Crisis, whose topics The Reign of Quantity revisits. Of interest is that Guénon and Voegelin, while quite different in the style of their thinking, nevertheless identify in the phenomenon of the Bactrian episode (including its Indian prequel) the same historical and spiritual significances and see in closely similar ways the relevance of that episode to an understanding of the modern phase of Western history. It goes almost without saying that for both Guénon and Voegelin, modernity is a disorderly and corrupt period in which the dominant elites have betrayed the hard-earned wisdom of philosophy and revelation and believe themselves anointed to remake a wicked world into a rational paradise liberated from superstition and bigotry, a project necessarily entailing the destruction of tradition. Modernity is “Gnostic,” in Voegelin’s term. Gnosticism designates a markedly low order of mental activity, in spiteful rebellion against the difficulties entailed by a contrasting openness to and participation in reality. Following chronology, it is natural to begin with Guénon.
II. Guénon. A student of comparative religion, Guénon took lively interest in Hinduism, Brahmanism, and Buddhism. The Hindu scriptures especially provided him with a rich symbolism, which he found that he could instructively put in parallel with, among other vocabularies, that of the Platonic lexicon. Spiritual Authority & Temporal power draws on Guénon’s knowledge of the Vedas and related documents – a propensity that can at first stymie a reader uninitiated in the specialist vocabulary. (I put myself in the category.) However, Spiritual Authority repays readerly perseverance; the references to Plato give context to the exploration of caste not as an item of sociological but rather as one of metaphysical importance. A central political-philosophical question, who should govern, as Guénon points out, is shared by Hindu religious speculation and Platonic discourse. Guénon declares the topic of his essay to be “principles that, because they stand outside of time, can be said to possess as it were a permanent actuality.” Respecting the debate about the fundamental legitimacy of temporal offices, Guénon asserts, “the most striking thing is that nobody, on either side, seems concerned to place these questions on their ground or to distinguish in a precise way between the essential and the accidental, between necessary principles and contingent circumstances.” The petulant habit of deliberately ignoring first things by itself merely provides “a fresh example [so writes Guénon] of the confusion reigning today in all domains that we consider to be eminently characteristic of the modern world for reasons already explained in our previous works.” Guénon’s phrase for the Twentieth-Century contemporaneity of his book is “the modern deviation.”
Where Voegelin stands out as above all an exegete of symbols, Guénon strikes one as rather more a modern mythopoeic thinker who takes symbols as his main stuff of purveyance, but this is not to say that he lacks analytical ability. Rather, Guénon grasps that symbols and myths – while they might be, as Voegelin would later call them, compact – articulate reality more fully and more truly than the clichés of modern reductive thinking and that therefore one best wrests intoxicated minds from the drug of those clichés by jerking them around (rhetorically, of course) so as to get them to face and contemplate the symbols in their numinous fullness. It belongs to Guénon’s suasory strategy that the strangeness of Hindu or even European Medieval symbols can fascinate the modern subject even when, as usual, that subject diametrically misunderstands them. Get their attention, Guénon seems to say – interrupt the trance; explanations can come later. Guénon’s unblushing references to a primordial tradition, “as old as the world,” can cause him, in the case of a superficial reader, to resemble a Theosophist or a spiritualist. It is worth remembering that the hard-headed Guénon wrote studies exposing Theosophy as a “pseudo-religion” and spiritualism as mountebank hocus-pocus. But if modernity were a “deviation,” then from what would it have deviated? Although Guénon’s first chapter in Spiritual Authority bears the title “Authority and Hierarchy,” the actual topics are caste and hierarchy, two of the range of first principles that modernity has insouciantly rejected.
Caste and authority relate to one another in complex ways. Modernity bristles at one or the other of the two terms with equal righteousness, but whereas traditionalists and reactionaries acknowledge the necessity of authority, they too might nevertheless feel aversion to caste, as it has manifested itself in India since the Muslim conquest. Guénon reminds his sympathetic but possibly skeptical readers that the existing caste-system of the British Raj of his time is itself a latter-day deviation and quite as acute a one as any aspect of the Western deviation into modernity. Guénon finds the true definition of caste in the Sanskrit etymologies. Accordingly, “The principle of the institution of castes, so completely misunderstood by Westerners, is nothing else but the differing natures of human individuals; it establishes among them a hierarchy the incomprehension of which only brings disorder and confusion, and it is precisely this incomprehension that is implied in the ‘egalitarian’ theory so dear to the modern world.” Additionally, “The words used to designate caste in India signify nothing but ‘individual nature,’ implying all the characteristics attaching to the ‘specific’ human nature that [differentiates] individuals from each other.” Finally, “One could say that the distinction between castes… constitutes a veritable natural classification to which the distribution of social functions necessarily corresponds.” Guénon also asserts that caste, even in the moment when it appears, suggests a fallen condition, “a rupture of the primordial unity” by which “the spiritual power and the temporal power appear separate from one another.” The assertion will disturb no one familiar with the Platonic relation between the realm of the ideas and the realm of social action; or with the Augustinian distinction between the City of God and the City of Man.
In classical Indian society, the roles of authority on the one hand and of power on the other fell respectively to the Brahmins, or the priestly caste, and the Kshatriyas, or the warrior caste. What is at first a harmonious functional distinction becomes, however, in the course of time, “opposition and rivalry,” or so Guénon states. The functionaries of the two castes yield to their baser instincts; they commence a struggle for absolute domination in the society. The struggle finds its outcome “in total confusion, negation, and the overthrow of all hierarchy.” Long before the climax, the real functions of the two castes have lapsed in desuetude. “As for the priesthood, its essential function is the conservation and transmission of the traditional doctrine, in which every regular social organization finds its fundamental principles.” In rivalry with the warrior caste, the priesthood abandons “its proper attribute,” which is “wisdom.” As for the warrior caste, its essential function is active policing of right order within the society, including the maintenance of the priesthood, and defense of the society against external predation. In rivalry with the priesthood, the warrior caste repudiates its guidance under wisdom, whereupon its virtues (heroism, nobility, rectitude) become unintelligible. The rebellious warrior caste claims that no power exists superior to its own, a boast brutally plausible once the community has lost sight of transcendence and “where knowledge is denied any value.”
In addressing the phenomenon of “insubordination,” which as he says modernity instantiates in extremis, Guénon in fact has a particular historical episode in mind, which he treats in the chapters of Spiritual Authority called “The Revolt of the Kshatriyas” and “Usurpations of Royalty and their Consequences.” Guénon cites no dates and names no names, but the episode in question belongs to the career of the Bactrian Greeks in India. A few facts will help to vivify Guénon’s purely abstract account. I take the facts from The Greeks in Bactria and India (1951) by William Woodthorpe Tarn. The chronology runs from the late Third Century to the middle Second Century BC. The main players on the Greco-Bactrian side of the drama are Demetrius I (reigned 200 – 190 or 180 BC); two of his sons, Demetrius II (reigned 175 – 170 BC) and Apollodotus (reigned 174 – 165 BC); and a general, Menander, who soon acquired kingship (reigned 155 – 130 BC). The two sons of the first Demetrius just mentioned, and their sons and grandsons, and Menander, ruled over Indian territories exclusively, the Bactrian Kingdom itself having succumbed by degrees to nomadic invaders (the Yueh-chi) during this period, ceasing to exist after 130 BC. The main players on the Indian side of the drama are the Maurya emperors, who were Buddhists, and their usurper-successors the Sunga emperors, beginning with Pushyamitra (reigned 185 – 149), who were Brahmins. Demetrius II, Apollodotus, and Menander were likely by profession also Buddhists.
When Demetrius I with his sons and Menander as generals invaded India, he was both responding opportunistically to events in Indian politics and acting on the ambition-provoking model of concupiscential militarism, as established by Alexander and the successors. As for Pushyamitra – when he deposed the last Maurya emperor by assassination, he merely continued a long-simmering civil conflict between Brahmins and Buddhists that had been begun by Chandragupta, the first Maurya emperor, who climbed to power by promoting the Buddhist Kshatriyas against the Brahmin overlord class. Tarn notes that in this period “the Brahman was the natural enemy of the Greek,” whom the priestly class categorized under the caste system as Kshatriyas. The corollary of priestly ire against the Greeks was Buddhist (that is, Kshatriya) interest in Greek military support against the Sunga dynasts. Tarn writes, “Both Apollodotus and Menander on their coins… called themselves Soter, ‘the Saviour.’” The discussion will return to the numerous implications of these details in the section on Voegelin, to follow. At this point, we will switch focus back to Guénon and Spiritual Authority.
In the chapter on “The Revolt of the Kshatriyas,” Guénon writes, “Among almost all peoples and throughout diverse epochs – and with mounting frequency as we approach our times – the wielders of temporal power have tried… to free themselves of all superior authority, claiming to hold their power alone, and so to separate completely the spiritual from the temporal.” When the office of the purely temporal order “becomes predominant over that representing the spiritual authority,” Guénon argues, the result will be social chaos masquerading as order under blatantly “anti-metaphysical doctrines.” A doctrine qualifies as “anti-metaphysical” for Guénon when it “denies the immutable by placing… being entirely in the world of ‘becoming.’” To deny first or transcendent principles is equivalent to submitting unconditionally to what Guénon dubs “succession.” The sequence of names in the Bactro-Indian “Who’s Who” – Chandragupta, Pushyamitra, Demetrius, Apollodotus, Menander, and Eucratides – suggests the resounding vanity of mere “succession.” Guénon reminds his readers that: “Modern ‘evolutionist’ theories… are not the only examples of this error that consists in placing all reality in ‘becoming’”; rather, “theories of this kind have existed since antiquity, notably among the Greeks, and also in certain schools of Buddhism.” Let it be noted that Guénon criticizes only the political Buddhism of the Indian Time of Troubles, not the original Buddhism of the Gautama, which “never denied… the permanent and immutable principle of… being.” Guénon implicitly also criticizes the politicized Brahmanism of the same Time of Troubles, which, entangling itself in grossly temporal affairs, forfeited its legitimacy under the law of spiritual immutability.
“Immutable being” is the same as reality; it is a verbal symbol of reality taken as the inalterable nature of the totality of things. To rebel against immutable being is therefore to rebel against reality, with inevitable consequences, the same in every case. As Guénon writes, the Revolt of the Kshatriyas “overshot its mark.” The immediate victors “were not able to stop it at the precise point where they could have reaped advantage from what they had set in motion.” The denial of “Atman,” the Brahmanic First Principle, led to the denial of caste, which led to the usurpation of offices by individuals unsuited to exercise them. It fell out that the Kshatriyas, in dispossessing the Brahmins, made themselves vulnerable to rebellious dispossession by the classes formerly arranged beneath them in the social hierarchy. “The denial of caste opened the door to [one and] every usurpation, and men of the lowest caste, the Shudras, were not long in taking advantage of it.” In fact, “the denial of caste” created a power-crisis in the Indus Valley and adjacent areas that eventually drew in, first, the Persians, then Alexander himself, and then in their turn the Bactrians, who were Alexander’s epigones of the nth degree, and finally a wave of nomadic destroyer-invaders. A familiar theme in Indian politics, foreign occupation, has a history that begins long before the British Empire. Northern India had Greco-Bactrian rulers from the time of Demetrius II, Apollodotus, and Menander until the time of Julius Caesar in the West.
Guénon insists that the Revolt of the Kshatriyas with its aftermath provides only an instance of a general pattern, pedagogically useful in its starkness whose essential features appear, however, in other instances. In the chapter in Spiritual Authority on “Usurpations of Royalty and their Consequences,” Guénon writes of “an incontestable analogy… between the social organization of India and that of the Western Middle Ages,” adding that “the castes of the one and the classes of the other” reveal how “all institutions presenting a truly traditional character rest on the same natural foundations.” Similarly, the Western Middle Ages know parallel experiences to the Revolt of the Kshatriyas. “Long before the ‘humanists’ of the Renaissance, the ‘jurists’ of Philip the Fair were already the real precursors of modern secularism; and it is to this period, that is, the beginning of the Fourteenth Century, that we must in reality trace the rupture of the Western world from its own tradition.” Even before Louis IV, Philip pursued the policy of consolidating all power in France in the kingship. Guénon writes that, “Temporal ‘centralization’ is generally the sign of an opposition to spiritual authority, the influence of which governments try to neutralize in order to substitute their own.”
The analyst may follow the line from Philip in France through the Protestants in Northern Europe, with their national churches, to the secular revolutionary movements that ensue from the Jacobin usurpation of national power in France in the events of 1789 and beyond that to the political-ideological chaos of the Twentieth Century.
III. Voegelin. The fourth volume of Order and History bears the title The Ecumenic Age. The term ecumene functions centrally in Voegelin’s theory that the order of history emerges through the history of order, that is, as successive differentiations of consciousness and the concomitant increases in noetic clarity. But what is the ecumene and what is meant by The Ecumenic Age? Etymologically, the word ecumene refers to any organized district (the English word economy shares the same Greek root); by the time of the historian Polybius (200 – 118 BC), however, ecumene, which Polybius uses, had come to mean any – or rather the – geographical area over which rival empires or empire-builders might compete. Since by Polybius’ day this geographical area included everything that Alexander had conquered or tried to conquer in the East and everything that Rome had conquered in the West through the Third Punic War, the word effectively meant the known world, from Spain and Gaul to Bactria and India. In one of Voegelin’s several definitions in The Ecumenic Age, the ecumene arises when “empire as an enterprise of institutionalized power” becomes (in the phrase) “separated from the organization of a concrete society,” as happened for the first time in the case of Achamaenid expansion beyond the boundaries of the traditional Persian state in the Sixth Century BC. Persian conquests in the Greek field soon enough produced a reaction in the form of Alexander, who subdued Persia on his way to India; on Alexander’s death, as we have noted, his generals tried to wrest his conquests for themselves – the result being the Diadochic kingdoms. Voegelin writes that, “The new empires [beginning with Persia] apparently are not organized societies at all, but organizational shells that will expand indefinitely to engulf former concrete societies.” The ecumene may additionally be defined as, “the fatality of a power vacuum that attracted, and even sucked into itself, unused organizational force from outside”; and which therefore “originated in circumstances beyond control rather than in deliberate planning.”
Again in The Ecumenic Age, Voegelin writes how, in distinction to the polis, which organizes itself on the lines of a subject, the ecumene “is an object of organization rather than a subject.” This geographical-political phenomenon of the ecumene appears moreover not as “an entity given once and for all as an object for exploration,” the way the earth was given to Eratosthenes or Strabo; “it rather was something,” Voegelin writes, “that increased or diminished correlative with the expansion or contraction of imperial power” radiating from an “imperial center.” Working up to a striking phrase, “The ecumene… was not a subject of order but an object of conquest and organization; it was a graveyard of societies, including those of the conquerors, rather than a society in its own right” (emphasis added). As for the Ecumenic Age – it is the datable period, beginning with Persian expansion and ending with the disintegration of the Roman Empire in the West during which, amidst the destruction of the traditional, concrete societies, the actors of the drama forgot how to heed received wisdom while the victims of their agency had to rethink basic questions about the meaning of existence. In this way, ironically, “the Ecumenic was the age in which the great religions had their origin, and above all Christianity,” but including Buddhism, which had a Greek phase.
It will perhaps have begun to be apparent why Voegelin should take an interest in the Bactrian episode. The Bactrian episode runs its course at the farthest end of the Western ecumene, as defined by the imperial expansions of Darius and Alexander; and in the campaign of Demetrius and his sons it replicates in miniature the concupiscential exodus that Darius and Alexander enacted in setting forth to subdue the world. In the Bactrian episode, the Western ecumene comes into contact with the Indian and the Chinese ecumenes. This contact affected India more than the West, and China hardly at all, but the episode remains instructive. “In the wake of Alexander’s campaign in the Punjab,” Voegelin writes, “the scene of imperial foundations expands to India.” In exploring the significance of the Bactrian episode, Voegelin promises to “refrain from drawing the all-too-obvious parallels with the phenomenon of imperial retreat and expansion we can observe in our own time,” a statement that naturally directs readerly attention to those very parallels. Concerning Chandragupta, whom we have already encountered in our discussion of Guénon’s Spiritual Authority, Voegelin records that, “Among other Indian princes he had come to the camp of Alexander at Patala, 325 B.C.” When the last Macedonian governor departed the Punjab in 317, the ambitious prince “established himself in the new power vacuum with the help of the northwestern tribes and then descended on the kingdom of Maghada,” whose ruling dynasts he ruthlessly exterminated – man, woman, and child. Chandragupta with deft diplomacy avoided conflict when Alexander’s successor Seleucus revisited “Asia.” Concluding a treaty to fix the frontier, Chandragupta received from Seleucus one of the Macedonian’s daughters for a princess-bride; Seleucus received from Chandragupta a squadron of war-elephants.
What seemed a brilliant stroke of self-interested negotiation on the Indian’s part illustrates, in fact, Voegelin’s contention: The ecumene, despite its weird ontology, has the real power to draw in those who inhabit its periphery. The attraction exerted itself reciprocally: Indians were drawn into the Seleucid and Bactrian spheres and Seleucids and Bactrians were drawn into the Indian sphere; every conqueror-usurper generated his own conqueror-usurper, and the degeneration reached its nadir in barbarian incursions and desertification of whole provinces. In Voegelin’s description, “When a general of the last Maurya ruler, Pushyamitra Sunga, assassinated his master… an imperial power vacuum was created, comparable to the earlier one, after the death of Alexander”; and “as the earlier vacuum had attracted the Maurya Chandragupta, so the present one invited Demetrius, the king of Bactria, to conquering action.” Demetrius found success in his venture partly because of the Brahmin-Buddhist split; he could appeal to the Kshatriya caste as their Soter – their “liberator” or “savior” – against the Brahmin caste. Saving and liberating belong, in Voegelin’s analysis, to a “new symbolism of the Ecumenic Age,” with the codicil that its newness equates to its degeneracy. “An age of ecumenic imperialism throws up of necessity… the curious phenomenon which is today called ‘liberation,’ i.e., the replacement of an obnoxious imperial ruler by another one who is a shade less obnoxious.”
Voegelin’s account points up the existential ironies of the Bactrian episode – naturally, because he is dealing in historical specifics – more than Guénon’s account. Demetrius having conquered India, the Seleucids saw in his absence from Bactria the ripe opportunity to reincorporate that former province. Antiochus IV sent Eucratides to complete the task; when Demetrius returned from his Indian triumph to confront the invader, he succumbed in the engagement. Voegelin speculates that Eucratides, who came with only a small army, found crucial support among the Macedonian faction in Bactria that resented Demetrius’ policy of fusion with the native Bactrians. Voegelin characterizes Eucratides as “another Savior, this time of Macedonians and Greeks from a ruler who favored the native barbarians.” While Bactria reverted temporarily to the by-now-much-truncated Seleucid kingdom, northern India found itself under Greek domination in the kingdom of Menander, who, consolidating the work of Demetrius and his sons, declared independence. In a final blow of absurdity, the Parthians invaded the re-Seleucized Bactria and Eucratides fell battling them in 159 BC.
The sequence of events that constitutes the Bactrian episode resembles the plot of one of those operas of the Late Baroque or Early Classical periods, like the Zoroastre (1749) of Jean-Philippe Rameau or the Mitridate (1770) of Wolfgang Mozart: It has five acts, plays for three hours, and boasts so many characters that the audience can hardly keep track of them while struggling to extract the meaning. The spectators leave the performance feeling dazed and disoriented. We recall that the Bactrian episode is merely a recapitulation, and to some extent an anticipation, in miniature, of the entirety of the Ecumenic Age. Voegelin writes: “During the Ecumenic Age itself… the violent diminution, destruction, and disappearance of older societies, as well as the embarrassing search, by the conquering powers, for the identity of their foundations, was the bewildering experience that engendered the ‘ecumene’ as the hitherto unsuspected subject of the historical process.” Overlooking Voegelin’s use of the term “subject” in this sentence (one of his few lapses in ambiguity) while remembering that the ecumene is an object rather than a subject it is worth examining the paradoxes that stem from the question, already posed, how to define the Polybian lexeme. “For,” as Voegelin writes, “the ecumene was not a society in concretely organized existence, but the telos of a conquest to be perpetrated.” In addition, “one could not conquer the non-existent ecumene without destroying the existent societies, and one could not destroy them without becoming aware that the new imperial society, established by destructive conquest, was just as destructible as the societies now conquered.”
The instigators of concupiscential conquest think no such thoughts; in abandoning wisdom for the purely pragmatic adventure of the conquistador they bring about the divorce in their home societies between wisdom and action – the very same divorce whose exemplar Guénon discovers in the Revolt of Kshatriyas. Voegelin’s way of describing this spiteful repudiation of wisdom and even of knowledge is the formula, “humanity contracted to its libidinous self.” Such humanity condemns itself to endure the reduction of being to becoming – to the endless and meaningless temporal succession that it instigates. And what is most wicked is that it drags the rest of humanity along with it. Voegelin sketches a phenomenology of the conqueror: “These imperial entrepreneurs of the Ecumenic Age understood the meaning of life as success… in the expansion of their power” and in no other way; worse – and tellingly – they experienced any checks against their ambitions as instances of outrageous “victimization.” They and their rhetorical sycophants also invented “the games by which the power-self makes itself the fictitious master of history,” for example, as a “Savior.” Who does think the thoughts that lead to the identification of the ecumene as existentially meaningless and intolerable?
The answer to the question of who thinks those thoughts is, obviously, the ecumene’s non-sympathetic survivors, who, however, avoid thinking of themselves in selfishly victimary terms. They are those who remember wisdom or at least remember that such a thing as wisdom exists and may be sought for even in the spiritual desert of wrecked civilizations. The meaning of history, and therefore the meaning of human existence, emerges only by exodus from the ecumene; this will be a spiritual exodus aimed at reclaiming wisdom and restoring transcendence, either to the society, should it be extant, or for the sake of a new society not yet founded, which might arise from the wreckage and accord itself with reality. Indeed, in Voegelin’s words, “the relation between the concupiscential and the spiritual exodus is the great issue of the Ecumenic Age.”
IV. Guénon, Voegelin, and the Modern Crisis. Responding to the Siren Song of the ecumene to conquer and possess it qualifies as Voegelin’s privative exodus in at least two senses. Pragmatically, the conqueror in going forth leaves home; he generally leaves it, moreover, with the cream of the young men and a significant portion of the collective wealth in the forms of his provisions and armaments. Very likely he leaves behind him a vacuum of confusion, and a fat opportunity for mischief. Philosophically or metaphysically, the conqueror in going forth demonstratively exempts himself from the wisdom that, like his homeland, he leaves behind; under the pomp and color of his banners he declares himself indeed the prime mover of reality, a gesture of hubris in the highest degree. For in declaring himself such, he declares nothing less than the abolition of reality, as though it were his prerogative to guarantee what is possible and what is not and so to make patent his success before it occurs. Homer knew this at the beginning of the polis civilization. Agamemnon goes forth to conquer but brings about only the reduction to rubble of the heroic world, including his own murdered corpse; Odysseus, involuntarily alienated from home, struggles back to purge his household of uninvited mischief-makers. One sign of the rebellion against reality by the conquistadors of the Ecumenic Age, which entails the abolition of actually existing “concrete societies,” is their insistence on auto-apotheosis, as when Seleucus or Demetrius or Menander identifies himself on his coinage with Helios Aniketos, “The Unvanquished Sun,” or the equivalent. To paraphrase Voegelin: The ecumene is not only a graveyard of societies, but it is also a graveyard of the Helioi Aniketoi; and thus, amid the debris left by their late passage, of their innumerable victims.
In its dumb absurdity, the myriad of tombs affirms reality against concupiscential insouciance by pointing back to the violated wisdom as its cause. Guénon in Spiritual Authority puts it this way: “All that is, in whatever mode it may be, necessarily participates in universal principles, and nothing exists except by participating in these principles, which are eternal and immutable essences contained in the permanent actuality of the divine Intellect; consequently, one can say that all things, however contingent they may be in themselves, express or represent these principles in their own manner and according to their own order of existence, for other wise they would only be a pure nothingness.” Voegelin would recognize in Guénon’s balanced phrases one of the essential differentiations of consciousness with which his Order and History is concerned. The concupiscential campaigner can begin in only one way, by blanking out the knowledge of his own contingency; and if anyone should remind him of his contingency, he must blank out that person. He would not be stymied, or as he sees it, victimized.
Voegelin argues generally that differentiations of consciousness are irreversible, that they remain available after they occur; but he admits into his theory the concession that “diremptions” and “derailments” can also prevail during which the old symbols of wisdom no longer effectively signify and new symbols have not yet achieved full articulation. When Christianity emerges against the background of meaningless imperial succession, for example, it includes in its peculiar differentiations all the previous differentiations achieved in revelation and philosophy, from Moses to Plato. Nevertheless between the decline of philosophy and the consolidation of Christianity, there falls a long, anxiety-ridden stretch of ad hoc syncretism, thaumaturgy, Gnosticism, orgiastic enthusiasm, and general disorientation. The mental disorder of such things is the spiritual counterpart of the destruction of concrete societies under the ecumenic empires. People can for a time repudiate or lose touch with the luminous articulations that, formerly, reconciled them to reality; they either die off or recover something of clairvoyance. It happens that in The Ecumenic Age, Voegelin repeatedly references one of the earliest of the Western, reality-reconciling articulations, the one in respect of which the “Saviors” of the Ecumenic wars behaved with conspicuous heedlessness. Anaximander (610 – 546 BC, a contemporary of the Buddha) wrote: “The origin (arche) of things is the Apeiron… It is necessary for things to perish into that from which they were born; for they pay one another penalty for their injustice (adikia) according to the ordinance of Time.” Whether it is the Kshatriyas repudiating the Brahmins or Alexander repudiating Aristotle – payment of the Anximandrian “penalty” falls due and the interest on the debt begins to build up.
Both Guénon in Spiritual Authority and Voegelin in The Ecumenic Age take care to avoid topicality. Guénon writes of his intention “to remain exclusively in the domain of principles, which allows us to remain aloof from all those discussions, polemics, and quarrels of school or party in which we have no wish to be involved, directly or indirectly, in any way or to any degree.” In Voegelin’s terminology, Guénon’s authorship, at least where it concerns Spiritual Authority, corresponds to the positive exodus by which the man in search of wisdom withdraws in contemplation from the endless pragmatic exodus of the ecumene. Guénon adds, however, that “we leave everyone free to draw from these conclusions whatever application may be deemed suitable for particular cases.” Voegelin is less strict than Guénon in this respect, but in The Ecumenic Age he does mainly isolate his topical asides in his introductory and concluding chapters. These asides are nevertheless provocative, wherever they occur in the text. One will be sufficient to indicate the meaning of the Bactrian episode, which occupies the structural center of The Ecumenic Age, with respect to the modern crisis. We have previously cited Voegelin’s remark on “the games by which the power-self makes itself the fictitious master of history.” In a brief continuation of the same remark, Voegelin adds that those games “are still played today.”
It will undoubtedly have impressed those who have followed the argument so far that, simply at the level of descriptive phraseology, many of Guénon’s constructions and Voegelin’s suggest their own application to the contemporary state of affairs in the incipient Twenty-First Century. Guénon in Spiritual Authority mentions the origins of étatisme, with its relentless centralization of political power, in Fourteenth Century France. Voegelin in The Ecumenic Age refers to the ecumenic empires as “organizational shells that will expand indefinitely to engulf former concrete societies.” The centripetal and centrifugal movements might seem opposite to one another and therefore non-compossible, but they are in fact simultaneous and complementary. They describe in structural terms the libidinous process by which the bearers of “moral apocalypse” – that is, the Gnostic reformers of society – progressively obliterate the concrete societies that come under their imperial-entrepreneurial sway. Whether it is the arrogantly self-aggrandizing Federal Government in the United States of America or the inhumanly bureaucratic Brussels Parliament of the European Union in Western Europe, the attitude of the reigning elites towards the world is none other than the attitude of the auto-apotheotic conquistador toward the ecumene.
The goal of the new concupiscential exodus does not end with conquest, however; it has the jurisdictional goal beyond conquest of what it calls transformation or “change” but what can only be experienced by those who do not elect it as annihilation in the mode of total undifferentiation.
The point of view of the resistors is the true one: The mantra of “change,” so dear to the Left, is Newspeak (“disorder,” writes Guénon, “is nothing but change reduced to itself”); and the celebratory invocation by the Left of “difference” or “diversity” is likewise Newspeak. It requires only a smidgen of acuity to notice that the endless parade of “diverse people” who witness on behalf of “change” all say the same thing and tell the same stereotyped story; the “diversity” of the propagandists never exceeds the categories of skin-color, number of skin-piercings, peculiarity of dress, or deflected erotic interest because mentally they are all already completely assimilated to the narrow gnosis on the basis of which the regime claims its legitimacy. The succession of speakers in the lecture-calendar replicates in small the meaningless temporal succession of titled eminences in the ecumene. One might also notice that the ceaseless doctrinal self-justification of the modern rebellious elites resembles the soteriological propaganda of the ancient ecumenic campaigners; for in annihilating tradition the regime through its spokesmen claims to be engaging in a vast program of salvation or redemption. For ten years they have been redeeming the place formerly called Bactria.
The difference between the “Saviors” of the Ecumenic Age and those of today consists in this: Whereas the men of the Alexandrian succession did not intend to wreck the societies that they left behind and whereas that wreckage came about as an unintended side effect of campaigning elsewhere (“backwash,” in modern jargon); the modern “Saviors” by distinction explicitly intend to wreck the societies from which they have treacherously defected. That is their main motivation. They say so unashamedly, over and over. They have captured education from the kindergartens to the doctoral programs and they train new cohorts every year to carry out the project of calling forth a new ecumene and perpetrating Ausratiertung on everything in it. To convince themselves and others that their toxic whimsies stand free of any ethical or practical limitation, they have developed a baroque anti-epistemology that they call, appropriately, Deconstruction which would obliterate logic itself and even knowledge. This makes their obsession with “change” all the more pernicious. In Spiritual Authority, Guénon reminds his readers that, “Change would be impossible without a principle from which it proceeds and which, by the very fact that it is the principle of change, cannot itself be subject to change.” In a parallel comment, Guénon adds that, “Action, which belongs to the world of change, cannot have its principle in itself.” Yet the modern “Saviors,” through their “Action Committees,” invariably claim to be champions of principle. We all live in Bactria now and may not fire back.
The Gnostic rebellion against reality denies limitations, but it is, of course, subject to them because it is subject to reality; the rebellion is moreover radically maladapted to reality (denying logic and repudiating knowledge are bad bets in the Darwinian game) and it will eventually have to pay its penalty to Anaximander’s “Unlimited.” Or, we might say, to God. When the rebellion will reach its limit, however, only God knows. The instruments of torture with which O’Brien threatens Smith in 1984 are old and rusty; the regime has been in place for a long time, dragging the whole of Anglo-Saxon humanity with it into the Big-Brother nightmare. In The Ecumenic Age, Voegelin has these wise words: “A ‘modern age’ in which the thinkers who ought to be philosophers prefer the role of imperial entrepreneurs will have to go through many convulsions before it has got rid of itself, together with the arrogance of its revolt, and found the way back to the dialogue of mankind with its humility.”
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dimanche, 22 septembre 2013
Technopol und Maschinen-Ideologien
Robert Steuckers:
Technopol und Maschinen-Ideologien
Analyse: Neil POSTMAN, Das Technopol. Die Macht der Technologien und die Entmündigung der Gesellschaft, S. Fischer Verlag, 1991, 221 S., ISBN 3-10-062413-0.
Neil Postman, zeitgenößischer amerikanischer Denker und Soziolog, ist hauptsächlich für seine Bücher über die Fernsehen-Gefahren bei Kindern bekannt. In seinem Buch Das Technopol klagt er den Technizismus an, wobei er nicht die Technik als solche ablehnt, sondern die Mißbräuche davon. In seiner Einleitung, spricht Postman eine deutliche Sprache: Die Technik ist zwar dem Menschen freundlich, sie erleichtert ihm das Leben, aber hat auch dunkle Seiten. Postman: «Ihre Geschenke sind mit hohen Kosten verbunden. Um es dramatisch zu formulieren: man kann gegen die Technik den Vorwurf erheben, daß ihr unkontrolliertes Wachstum die Lebensquellen der Menschheit zerstört. Sie schafft eine Kultur ohne moralische Grundlage. Sie untergräbt bestimmte geistige Prozesse und gesellschaftliche Beziehungen, die das menschliche Leben lebenswert machen» (S. 10). Weiter legt Postman aus, was die Maschinen-Ideologien eigentlich sind und welche Gefahren sie auch in sich tragen. Postman macht uns darauf aufmerksam, das gewisse Technologien unsichtbar sein können: so Postman: «Management, ähnlich der Statistik, des IQ-Messung, der Notengebung oder der Meinungsforschung, funktionniert genau wie eine Technologie. Gewiß, es besteht nicht aus mechanischen Teilen. Es besteht aus Prozeduren und Regeln, die Verhalten standardisieren sollen. Aber wir können ein solches Prozeduren- und Regelsystem als eine Verfahrensweise oder eine Technik bezeichnen; und von einer solchen Technik haben wir nichts zu befürchten, es sei denn, sie macht sich, wie so viele unserer Maschinen, selbstständig. Und das ist der springende Punkt. Unter dem Technopol neigen wir zu der Annahme, daß wir unsere Ziele nur erreichen können, wenn wir den Verfahrensweisen (und den Apparaten) Autonomie geben.
Diese Vorstellung ist um so gefährlicher, als sie niemand mit vernünftigen Gründen gegen den rationalen Einsatz von Verfahren und Techniken stellen kann, mit denen sich bestimmte Vorhaben verwirklichen lassen. (...) Die Kontroverse betrifft den Triumph des Verfahrens, seine Erhöhung zu etwas Heiligem, wodurch verhindert wird, daß auch andere Verfahrensweisen eine Chance bekommen» (S. 153-154). Weiter warnt uns Postman von einer unheimlichen Gefahr, d. h. die Gefahr der Entleerung der Symbole. Wenn traditionnelle oder religiöse Symbole beliebig manipuliert oder verhöhnt werden, als ob sie mechanische Teilchen wären, entleeren sie sich. Hauptschuldige daran ist die Werbung, die einen ständig größeren Einfluß über unseres tägliche Denken ausübt und die die Jugend schlimm verblödet, so daß sie alles im Schnelltempo eines Werbungsspot verstehen will. Um Waren zu verkaufen, manipulieren die Werbeleute gut bekannte politische, staatliche oder religiöse Symbole. Diese werden dann gefährlich banalisiert oder lächerlich gemacht, dienen nur noch das interressierte Verkaufen, verlieren jedes Mysterium, werden nicht mehr mit Andacht respektiert. So verlieren ein Volk oder eine Kultur ihren Rückengrat, erleben einen problematischen Sinnverlust, der die ganze Gemeinschaft im verheerenden Untergang stoßen. Postmans Bücher sind wichtig, weil sie uns ganz sachlich auf zeitgenößischen Problemen aufmerksam machen, ohne eine peinlich apokalyptische Sprache zu verwenden. Zum Beispiel ist Postman klar bewußt, daß die Technik lebenswichtig für den Menschen ist, denunziert aber ohne unnötige Pathos die gefährliche Autonomisierung von technischen Verfahren. Postman plädiert nicht für eine irrationale Technophobie. Schmittianer werden in seiner Analyse der unsichtbaren Technologien, wie das Management, eine tagtägliche Quelle der Delegitimierung und Legalisierung der politischen Gemeinschaften. Politisch gesehen, könnten die soziologischen Argumente und Analysen von Postman eine nützliche Illustration der Legalität/Legitimität-Problematik sein (Robert STEUCKERS).
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samedi, 21 septembre 2013
Misopaedia and the Insolence of Gay Monarchy
Misopaedia and the Insolence of Gay Monarchy
Ex: http://www.brusselsjournal.com
Today’s issue of depreciating childhood dovetails perfectly with my previous installment on infantilizing adults: both are reflecting a loss of the sense of maturity and responsibility in our Western culture. For instance, today every newborn is burdened with a four to six figure number of debt depending on his or her whereabouts ( cf. David Willets; “The Pinch – How the Baby Boomers took their Children’s Future-and why they should give it back”, Atlantic Books London: 2010, p.259, 269). Now the first dramatic example of instrumentalizing childhood was the Bohemian version of the Dreyfus affair. In Prague it was the Jewish cobbler Leopold Hilsener who was falsely accused of ritual murder. A little Christian girl called Anezka Hruzova had been found dead on the 1.4.1899 in Polna. And it was the first Czech president after gaining independence in 1921, Professor T.G. Masaryk, who made is name with the revision of the court indictment finally exonerating Hilsener. Nevertheless since then the West is drifting towards a gradual and not merely symbolical - think of child rape and “pedophilia”- reversal of the Abrahamic abolition of child sacrifice.
Now let’s ask a few questions: Who afforded homosexuals the privilege to be addressed as gay by the rest of us like royals? Or: if fathers are supposed to be gay by definition, what is left for their children? What kind of sacrifices children are expected to make for same-sex parents? Children, Sir Elton John deplored to his merit, raised by gay couples have to make do without the devotion of a loving mother. Right to the point, for anyone who has grown up close to homosexual adolescents, knows that we used to call them spoiled “mothers boys”. Ironically this might be very bad news indeed if future gays are supposed to be raised without mothers. Could the homosexual avant-garde become extinct within a few generations after gay marriage has gone mainstream? After all some kind of trepidation must be behind the hard-nosed implementation of homosexual education from cradle to grave in most EU countries
Surely growing up without a mother in a homosexual household is an unfathomable disadvantage since there is strong evidence that only women have a natural capability of unselfish love, essential for raising children. It is for this reason that gay parenting is set to become an unprecedented social experiment with unknown outcome. Nobody can possibly know for sure the unintended consequences - despite phony liberal social science studies to the contrary (Nelson Lund: “A social experiment without science behind it”, WSJ). Over at the Weekly Standard the editors are pointing out that neither benefits nor risks are backed by any “science” since there are simply no samples available, large enough for statistical significance.
Time will tell. But why, for heaven’s sake, would anybody with his right mind take such risks for our society? The only reason that comes to mind is that same-sex couples might on average be “greener” than straight ones because of their prohibitive costs of having and raising children - benefiting in turn our earths “carbon footprint”. Not that I would seriously buy into that. Yet with regards to the risks we know a lot more, specifically about the dismal effect of absent fathers in families run by single mothers. These dysfunctional families have a track record of well above average rates of depression, suicide attempts, educational failure and even increased criminal records with their offspring. The lack of a mother might be expected to elicit even more dramatic effects, particularly enhanced levels of violence. For it is common sense that the weakening of parental authority increases the level of violence in families with a strong tendency to be transferred to the next generation.
Now late Pope Benedict XVI, defending traditional marriage in his last Christmas address, referred the Chief Rabbi of Paris Gilles Bernheim. He is the author of a brilliant paper focusing on the dangers of same-sex parenting. Bernheim’s paper “Homosexual Marriage, Parenting and Adoption” was translated into English immediately after the Pope’s mentioning and attracted considerable international attention. Bernheim believes “that it is a matter of the greatest importance to make clear the true implications of the negation of sexual difference” and that the argument of equality in favor of same-sex marriage does not stand up to scrutiny.
He does not adduce the biblical prohibition of homosexuality in Leviticus because the issue for him is only homosexual parenting and the well-being of children according. He tells us: “What is at stake is the risk of irreversibly scrambling genealogies, as well as legal and social statuses (the child-as-subject becoming child-as-object) and identities— a confusion that would be harmful to society as a whole and that would lose sight of the general interest in seeking the advantage of a tiny minority.” With this in mind the Chief Rabbi points to the absurdity of heterosexual couples who reject marriage demonstrating alongside homosexual activists for the introduction of same sex marriage. The only reasonable explanation for this political solidarity is that both aim at the abolition of traditional marriage.
The rabbi then confronts the spurious claim that homosexuals could be loving parents as much as heterosexuals. For this completely misses the point, reducing the “parental bond to its affective and educative aspects”, overlooking that “the parent–child bond is a psychological vector of fundamental importance for the child’s sense of identity…For the child establishes his (her) own identity only by a process of differentiation, which presupposes that he (she) knows whom he (she) resembles. Thus he (she) needs to know that he (she) issues from the love and the union between a man, his (her) father, and a woman, his (her) mother, thanks to the sexual difference between them. Even adopted children know that they originate from the love and the desire of their parents, even when these are not their biological parents.”
Thus same sex parenting lacks the stimulus based on parental difference to develop the child’s identity and the reassurance of recognizing a place in its genealogy. The generational chain alone guarantees each individual a place in the world in which he or she lives knowing where he or she came from. The categorical error lies in the concept of homosexual parenting as constructed upon gender or the sexuality of two individuals instead of actual parental sex creating offspring. Thus homosexual parenting is a fiction: “The term “parent” is not neutral; it involves sexual difference. To accept the term “homosexual parenting” is to strip the word “parent” of its intrinsic bodily, biological, and fleshly meaning.” There is no right to a child for children are not objects of rights but their subjects, another categorical error of same-sex advocacy. The fallacy of instrumentalization or the disregard of the child’s personality and needs as already present in the Pro-Choice abortion stance. Yet it develops its full traumatic potential only in gay parenting: “This absence allows adults demanding rights to avoid asking about the rights of the child, what the child might need, and whether the child might prefer having a father and mother instead of two parents of the same sex. This is a case where our carelessness borders on cynicism. The right of the child is radically different from the right to the child. The former right is fundamental. It consists in particular in giving the child a family in which he (she) will have the best chance to have the best life.”
Yet it gets worse with homosexual adoption, neglecting the vulnerability that is involved, for same sex adoption thus risks aggravating the “trauma of the abandoned child, for the generational chain would be doubly broken: first in the reality of the child’s abandonment, and second, symbolically, in the fact of the homosexuality of the adoptive parents. Do we have the right to ask a child who has already been wounded by his past to adapt to the affective situation of his parents, a situation that is very different at once from that of the great majority of other children and from what the child aspires to rediscover? Is it the adopted child’s responsibility to adapt to the affective life choices of his or her parents?”
The unintended consequence of imposing gender equality on everyone is that people keep looking inside for difference – reaching into the abyss of instincts and loneliness. The result will be probably more private violence. The irony here is that having dispensed of religion as exalted inwardness people in search of guidance end up with lowering replacements. Tocqueville once held against Rousseau: „In ages of equality…the feelings of each man are turned to himself alone. It is in ages of inequality that public spirit runs high, for only by transforming society can each man transform his own personal relations“(Ph. Rieff “The Triumph of the Therapeutic,” 1976, p.58). Once egalitarian individualism has sapped its virtues, democracy breaks the chain of coherence that held the members of the community together.
On a different note it is important to recognize that with the popular LGBT movement the transgressive spirit of modern disruptive revolutions makes an unwelcome return. Just as previous revolutions launched attacks in their particular way against the church (French Revolution), the nation (Russian Revolution) or the Jewish foundation of civil society (Nazi-Revolution) the sexual revolution starting in 1968 is bound to globalize what the Nazi’s started but could not finish: the destruction of the Judeo-Christian civilization based on the family as we know it.
However the transgressive impulses that would become modern LGBT rage first emerged during the fin-de-siècle decadence with a mix of feminism, homosexuality, anarchism and anti-Semitism. It is no surprise that the lowering impulses emanating from unleashed sexual and violent instincts at the close of the romantic era collided with the oldest codes of human civilizations which is Jewish Law - hence anti-Semitism. Trilling observed that this sensualist turn was reflected in the lowering of the meaning of the word pleasure to “a strictly physical sense” in the Oxford English Dictionary at the time. By contrast James Joyce (Molly in Ulysses), Boris Pasternak (Lara in Dr Zhivago) and William Butler Yeat’s Maud, Trilling tells us, “were among the last devotees of the European cult of Woman…” That is why the emergence of suffragettes is matched by women losing their privileged position of attracting admiration and the longing for pleasure. The object of male desire turned to “innocent youth” (cf. Keats Lamia and his dialectics of pleasure, see Trilling:”Beyond Culture”, London: 1955, p.65). Hence the lockstep rise of homosexuality and pedophilia was epitomized with Oscar Wilde’s “Dorian Grey” – the man who never gets old.
The Victorians could not make up their mind whether children were angels or monsters. Yet Freud and Kafka tackled this problem. They were in this sense the last prophets of the Enlightenment. Their works mark a major Rousseau-an pivot towards the youth cult depreciating maturity and age wisdom. By mimicking the innocence of children Kafka expanded the Rousseau-an vision of the “noble savage” to children: the fatal enlightened prejudice that humans are innocent in general and society is to blame for any evil. Kafka thus spoke of children as the ideal reformers. Freud would theorize about formative early childhood rendering adulthood as cast into predetermined Greek tragedy. Thus Kafka and Freud shared the folly of German historicism and idealism by collapsing any longue durée or traditional view in a new myth of immediacy weakening the power of institutions. The other side of this coin was that Freud, following German idealism, in 1897 declared confessions of female rape victims as (childhood) fantasies, denying their reality. Previously he had understood those abuses as caused by seduction of children by grown-ups as we understand them today.
This Freudian switch to the unconscious amounted to a quiet but sweeping rehabilitation of male rapists of the fin-de-siècle decadence leading up to the First World War. Interwar existentialism was another attempt to reclaim the innocence of childhood by grown-ups, just living for the moment. Eventually the 1968 adoration of spontaneity and pedophiles of the Jimmy Savile format is just another extension. Today the dialectic between infantilizing and paternalistic big government is a self-enforcing circuit, weakening the “ego” by strengthening the “id” and “super-ego” in the manner of divide et impera of old.
It was Fjodor Dostoyevsky who in his influential 1864 Notes from Underground first sensed this transgressive turn in European culture, propelled by abundant materialism. His first person account of a miserable clerk, who hates all purposeful work or drudging away just for “specious goods of pleasure” and who rejects sacrificing his human dignity and freedom. Dostoyevsky’s was a polemic response to the utopian but acquisitive novel “What is to be done” by Nikolai Chernyshevski, that later inspired Lenin’ eponymous work of 1902 that kindled the first revolutionary disorder of 1905. This unnamed clerk as anti-Hero is the ancestor of a contemporary still popular tribe of outcasts devoted to alternative lifestyle. He is the prototype of the antagonistic bohemian type that over the last two centuries emerged equally enthusiastic from the left as from the right radical fringes such as the failed artist Adolf Hitler. Hatred of the bourgeoisie is the lifeblood of modern extremism and unified shortly in 1939 even Hitler and Stalin into war allies against the bourgeois West.
The list of anti-bourgeois activist is endless and a few examples may suffice: Jean Jacques Rousseau, Karl Marx, Friedrich Nietzsche, Richard Wagner, Oscar Wilde, George Lukasz, Wilhelm Reich, Martin Heidegger, Hannah Arendt, Herbert Marcuse, the Black Panthers, Rudi Dutschke and, more recently, Danny Cohn-Bendit (Green MEP) and Judith Butler (University of Berkeley Philosopher) - the latter being intellectual grandchildren of the Nazi philosopher Martin Heidegger and his mistress Hannah Arendt. Whereas Heidegger was a philanderer, Cohn-Bendit joined the student revolt of 1968, later working in a Frankfurt/Main Kindergarten as a confessing pedophile – a clientele that belonged to the founders of the German Green Party. Judith Butler, a radical chic self-hating Jewess, represents the international queer community and the BDS movement fighting the state of Israel.
From an actual film, titled “Hannah Arendt”, by the German director Margarethe von Trotta you may grasp how postmodern anti-Semitism of the liberal persuasion emerged from its hard-right wing Nazi predecessor. The post-WW II existentialist philosopher Hannah Arendt was fascinated not only by her lover Martin Heidegger but also by the dissimulating Nazi clerk of the Holocaust Adolf Eichmann who’s 1961 trial in Jerusalem she was commissioned to report for the “New Yorker” magazine. Heidegger’s philosophical existentialism was the expanded version and culmination of Germany’s historicism and it’s infatuation with “kairos” (Greek for the moment) - the closest thing to a fundamental rejection of the meta-historical Jewish law reflecting immutable human nature. This ideological conflict is at the heart of Heidegger’s lifelong refusal of an apology to the victims of the Holocaust. After all his philosophy had been the leaven of violent activism in the 1930ies re-staged in the 1968 student revolution.
The key here is Heidegger’s concept of parousia which denotes spontaneous action or the secular presence of the holy redeemer or still more remotely the second coming of Christ. In the periods of transition as in the 1920ies and 1960ies this concept was shared by radical right and left wing groups springing from an anti-authoritarian impulse against their father’s war generation - with commanding right extremism after WW I and commanding left extremism after WW II. This reflects the deeper truth that hatred of the middle class or bourgeoisie unites left and right radicals, bohemians and petit bourgeois. The concept has been perfectly expressed by Franz Kafka in fin-de-siècle Prague. As a schoolboy Franz used to be accompanied by the family cook on his way to German primary school, which was not far away from the family villa near the old Town Hall of Prague. The cook bullied unruly Franz as “little Ravachol”, after the nom-de-guerre of the notorious anarchist Francois Königstein who was guillotined in 1892.
Anarchism has been widespread at the time - with roughly thousand reported attempts of assassination in Europe and 500 in America in 1892 alone – reflecting the growing rancor of the ruffled socialist crowds. Kafka early on read most of the anarchists such as Proudhon, Stirner, Bakunin, Kropotkin and also Leo Tolstoy. He even attended anarchist circles at “Zum Kanonenkreuz” in Prague in 1910, a formidable contrast to his boring job as clerk with the Bohemian labor accident insurance. Kafka was pretty much driven by the left prejudice that society is always evil and thus became familiar with the likes of Erich Mühsam, Arthur Holitscher and the Viennese anarchist Rudolf Grossman. Falling short of joining in anarchist action, the dream of a great rebellion had settled deep in his imagination.
The popularity of Kafka as the foremost novelist of the 20th century rests for a good measure on his lifelong antagonism to his father Hermann, a wealthy business man in whole sale lingerie but he also, contributing to Kafka’s paranoia, served as . With the famous letter to his father Kafka set the tone for the central issue of the coming totalitarian century featuring unprecedented dictators and galore male perpetrators. It was Theodore W. Adorno who in his “Dialectic of the Enlightenment”, written in 1944 with Max Horkheimer in the Californian exile, put the authoritarian personality at the center of the Third Reich. All the same for Kafka his father was a God-like, all powerful authority, representing the epicenter of all repressions the son had to endure. This is perfectly epitomized in the following quote from the famous letter to his father: “Sometimes I imagine the map of the world spread out flat and you stretched out diagonally across it. And what I feel then is that only those territories come into question for my life that either are not covered by you or are not within your reach. And, in keeping with the conception that I have of your magnitude, these are not many and not very comforting territories, and above all marriage is not among them.”
It was Philip Rieff who observed that Adorno, just like adolescent Kafka, is liable of generalizations not borne out by the facts when he identifies the authoritarian head of the petit bourgeoisie family as the main culprit of totalitarianism that ended with the Holocaust. Both geniuses are guilty of reducing the whole of civilizational repression to a family affair. However it served perfectly as the postwar screenplay for the anti-authoritarian revolt that continued with the sexual revolution which is still with us. And since homosexuality according to psychoanalysis stems from the unresolved conflict between son and father it follows that a wave of “coming out” was to be expected as a result of the war experience.
It might be quite appropriate to conclude that the gender reductionism of the Frankfurt School actually propelled the student revolt. And with last year’s bestowal to Judith Butler of the Theodore Adorno - Prize the present same-sex revolt in sync with the BDS movement against Israel has been catalyzed again. In a similar fashion the anti-authoritarian revolt of 1968 accomplished its march through the institutions by marginalizing the father and elevating the mother. The best explanation for both is offered by Philip Rieff’s first sociological law, applicable to all public life, which says “there are no aggressions except as transgressions”.
In the same-sex campaign of our day returns the suppressed father with more than a whiff of authoritarianism that marks the implementation of same-sex policies within Western society: the combination of a repressive political order with a permissive moral order. Only in this way we may speak of soft totalitarianism that marks LGBT and the greens as well (cf. Jonah Goldberg “Liberal Fascism”, 2007). In addition our traditional interdictory system of moral restraint is just as much lowered as the social cost for supporting and medically facilitating same-sex families compared to traditional ones is increased. This can only accelerate the breakdown of our overstretched welfare systems in the West. It definitely sends the wrong signal and it might well increase the risk of dictatorship in a Europe that is already beginning to disintegrate under the burden of the financial crisis.
Already the European bureaucrats seem to resort to this panacea of political repression with moral slackness towards ascending elites such as the LGBT crowd. The penchant for the bohemian has always been a feature of major turning points in Western history that between them shared a disgust for the bourgeoisie: the French Revolution of Robespierre, Lenin’s Russian revolutions of 1905 and 1917, Nazi-Berlin of 1934 with Ernst Röhm’s proletarian-homosexual revolt and also at the beginning and the end of the fascist experiment in Fiume 1920 and Salo 1944, orchestrated by the Italian Röhm, Gabriele D’Annunzio serving his duce Mussolini.
The openly homosexual late Italian film director Pierre Paolo Pasolini made this the motive of his film “The 120 Days of Sodom” of 1975 with echoes to the eponymous enlightenment work of Marquis de Sade. It shows sadomasochistic orgies coalescing with political despotism in the Republic of Salo on the Garda Lake in 1944, the last refuge of Mussolini. D’Annunzio had a lesbian lover and wrote obscene prose, the sweeteners that in turn called for Mussolini brandishing the cane. All of this gives us a fair measure of the true modernity not only of the communists, but also of the fascists and Nazis. They are still “sexy” and looking back we can see why. The female types were very popular indeed with feminists in the 1970ies as Susan Sontag has demonstrated in her essay “Fascinating Fascism. For more than a decade the late Sontag had been the star of the post-1968 intellectual New York after being married to Philip Rieff for a decade in the 1950ies.
The dynamics of Western triumphalism heated up in the decadence of fin-de-siècle and exploded in two World Wars are revealing in terms of the sexual imagination. In 1789 as in the 1920ies and 30ies it was ripe with sadomasochism, which is basically the lowering of sexual pleasure to pain of any kind confirming the close link between liberated sex and violence. Thus it has been historically evident that in homosexual sodomy pain usually commands love and not the other way round. This feature raises serious doubts over the concept of homosexuals parenting. That much we have learned about the experience of sodomy from the theorizing and practicing sadomasochist Michel Foucault.
Turning the screw a bit further are those shocking KZ porno’s which are just another sexual augmentation as for instance shown in the movie “The Night Porter” with Charlotte Rampling’s erotic submission to her Nazi tormentor. All this explains why in postwar Germany and beyond we saw a self-destructive gay turn, born out of its predecessor, the collectivist Nazi death cult - or in other words: the last triumph of Ernst Röhm. The post-war homosexual death cult was detectable in the plunging of the gay community into the horror of an AIDS epidemic despite all attempts to respect privacy and protect them against spreading the infection. After a first shock with a sense of repentance most gay people ignored the warnings and preventive measures as far as I can tell from personal experience. I headed an institute in the 1980ies and 90ies dedicated to HIV prevention in Hamburg.
Since the late nineteenth century Germany has been leading the West in terms of secularization with the first homosexual think tank being established by Magnus Hirschfield in Berlin before the turn of the century, when German was still the lingua franca of the scientific community. The artistic cliques of Berlin, Vienna and Munich had just unleashed the first shot of the sexual revolution, which - interrupted by two World Wars except for the roaring twenties in Berlin - gathered full steam with the student revolt of 1968. We seem to have reached the pinnacle today with the victorious same-sex marriage campaign all over the Anglo-sphere, which rings the death knell for conservatives of the Edmund Burke persuasion. Any significance of his “Reflections on the Revolution in France” or of natural law and English common sense for that matter is being vanishing under the final blow of the combined forces of radical NGO advocacy and authoritarian EU bureaucracy.
A hint of the tribulations ahead of us might be taken from the insolence of the “gay”-label monopoly. Quietly indulged by the rest of us without any controversy as far as I am aware, the homosexual community has successfully engineered gaiety - or in proper Gramscian terms: has accomplished cultural hegemony for their politically extremely efficient sodomy networks – probably the strongest version of nepotism in modern Western political history. It has undermined the church first, followed by the media, the universities, the military and now government. With literally no opposition to speak of anymore in academic and media elites this miracle might be explained by manipulated gay victimology: the dominant mainstream account of the persecution of homosexuals by the Nazis, putting them next to the Jews and Gypsies.
This narrative is at best misleading if not outright offensive. For the Jews and Gypsies, by contrast to the homosexual network behind Ernst Röhm, could never have challenged Hitler’s leadership. According to Wikipedia Röhm and Hitler were so close and modern that they addressed each other as du (the German intimate pronoun), the only top Nazi that Hitler addressed as such. In turn, Röhm was the only Nazi who dared address Hitler as "Adolf," rather than "mein Führer”, “My leader”). For the time being Hitler’s person is still unpopular but all positive attributes of his Nazi celebrity are alive and kicking: sexual escapism (Hermann Göring's cross-dressing), smoking bans, the colonoscopy fad, health fetishism, vegetarianism, Asian medicine, animal worship, nuclear power-phobia and last not least anti-Semitism.
In contrast to the presently unassailable gays, the Jews and Israel, with the Holocaust in living memory, are again anything but unassailable. Rather they are increasingly becoming targeted by anti-Semites in Europe. The situation begins to resemble the 1880ies when anti-Semitism first got traction in Europe. Experience holds: when the mores are loosening the Jews ought to take care and start packing. They are doing this right now by the ten-thousands in France and Scandinavia. Jews in continental Europe are advised not to risk their life by publicly displaying their religious credentials. It is not difficult to imagine what the next worldwide export from advanced secular Germany will be. First of all we will certainly see gay lord majors in Western big cities as we already have in Germany’s Berlin and Hamburg among others. And I reckon the German fin-de-siècle invention of nudism will be spreading around the still remotely puritan Anglo sphere. And then triple marriages and what have you will follow.
And this is how the almost unassailable LGBT machine succeeds: You won’t see meaningful controversy in the mainstream media on same-sex marriage, just appeasement as with the Nazi transgressions. The homosexual presumption of being nothing but gay results in putting themselves in the pole position of the pleasure seeking crowds of the sexual revolution, proudly displayed with their spiritual militancy in the vulgar “gay pride” parading in the West and beyond. Exalted gays, still relying on the image of anti-heroes are taking exception to the quotidian human drudgery that Dostoyevsky’s clerk despised - insinuating in childish manner to the rest of us “I have more life than you”. With this they are already attracting heterosexuals curious to share the experience of Berlin darkrooms.
The term “gay” emerged first in England at the close of the 19th century. It was remarkable for lacking any semblance of restraint and has set the homosexuals on a slippery slope. Hence in the 1920ies Berlin was somehow the European capital of debauchery where the urban bohemians flocked. And history, not remembered, tends to repeat itself. Berlin today is again becoming the world hub for sex tourism, proud particularly of it’s more than two dozens of “dark rooms”, an Eldorado of transgressive gay culture. Berlin’s prestigious but also slightly vulgar national newspaper “Die Welt” recently published a book review on the new “Knigge for dark rooms”. The original baron Adolph Knigge wrote a venerable book on what was considered good manners of gentlemen in the 18th century. It is s fair measure of the lowering of Berlin’s cultural reputation to compare the old “Knigge” with the new, a book on codes for transgressive sex addicts.
Whereas in the 1990ies I could still discuss anything with my homosexual friends, today this seems to be impossible in Germany and most of Europe. Meanwhile anyone is excluded from polite society who dares to oppose same sex marriage even if in favor of civic unions. The public climate has turned Orwellian and as a result the whole West all of a sudden miraculously is on the verge of submitting to the pressure of gay advocacy – something unimaginable a decade ago. Homosexuals presently are commanding the public imagination in the West. They are the newest market, kindling the “animal spirits” of otherwise exhausted and overstuffed consumers. It serves as a marginal cultural addition – something new a fad that may pass. Certainly ushering in new markets the gay “wedding culture” offers new consumption opportunities. Homosexuals are also track blazers to other lowering subcultures in Western society opening up opportunities of direct-marketing to prison populations.
For this newest Berlin hype people hop on a plane for a weekend trip as far away as Montreal or Tel Aviv. In Israel the gay pride parades in particular amount to what Philip Rieff called an “assault upon the enabling human gaiety, and its dignity: upon the high life in sacred order, and the necessary dread of ascending in it (Rieff, Feeling intellect, p. 363)”. Despite the stunning and sweeping success of gay campaigning in all segments of our society, gay advocacy does not show any sign of content or gratitude. “Every trespass increases the probability of yet another trespass. The ‘domino theory’ of morality is correct. I think”. (Philip Rieff: The Feeling Intellect, Sentences, University of Chicago Press: 1990, p.368) This is why despite all what has been granted to the LGBT radicals, we still have to put up with offending metropolitan gay-pride parades even in the Holy City of Jerusalem.
Interestingly Tel Aviv and Beirut, with the odd war and terrorist assaults between them, are today competing for international gay tourism which, given that gays earn and spend more than heterosexuals, seems to be very lucrative. With the fading of religion, in Europe much faster than in America, the lowering of the interdictory rules has made progress to the point where it splits in non-binding relative “values”, subject to variable individual choices. We know from history what might happens next: the proverbial strong man will emerge and will enforce those accidental values with brutal power, smashing whatever is left of gaiety to smithereens. The inability of post-modern elites to defend our interdictory culture and moral demand system with indisputable limits is dangerous because it threatens our freedom.
Plato knew a thing about this:
„The goddess of limit, my dear Philebus, seeing insolence and all manner of wickedness breaking loose from all limit in point of pleasure and self-indulgence, established the limit of law and order, of limited being; and you say this restraint was the death of pleasure: I say it was the saving of it.” (Philebus, 26c.)
What gay advocacy has in common with previous revolutionary upheavals, apart from living for the moment, is that it doesn’t seem to respect any limits, buttressing their fondness of transgression for its own sake. Kafka’s story on the metamorphosis of Gregor Samsa is about the terror we feel in the presence of the seemingly inexorable progression of a lowering in sacred order, similar to modern movies with humans beings attacked by insects or monsters – all of which represent a lower order. After the gay abolition of restraint comes inevitably the abyss of pain. If you read de Sade and most of the transgressive literature of the 19th century up to Huysmans you will find this kind of terror and pain: the manna of same sex experiences. The main purpose of post-War gay advocacy has been to remove any interdicts or restraint on pleasure posed by religion or precious traditional custom and habit. What we learn from Plato about gay culture is this: not elevating but lowering of limits is the true death of gaiety.
One more remarkable difference between the decadence of old compared to the present. The pioneering bohemians in the 19th century cherished transgressions but still appreciated those limits they attempted to trespass (cf. George Bataille). Today’s LGBT advocacy groups put up endless fights to remove even the remotest barriers between what used to be polite society or bourgeois culture and the remainder of underground freaks or gender subcultures. Same-sex marriage is a case in point for the very reason that it aims at leveling any differences with heterosexuals if only to commit adultery and promiscuity with a good conscience. It has to be said that the passion of homosexual eroticism is not love but pain. With gays, Trilling notes in “Beyond Culture” (New York: Harcourt 1963, p.57-87), authority of pleasure is thought in pain, achieved through cultivation of lowering violence. Trilling shows in abundance how any interdictory rules were invariably and constantly denounced as “bourgeois” or “repressive” in the most influential literary enterprises.
To be fair, modern heterosexual spirituality is equally fundamentally Rousseau-an as can be observed in TV junk such as “Big Brother” or “Jungle Camp”. It is caught up with instincts, mad for holy fools and fond of the sordid and the disgusting rather than the pleasing and noble. This perverse fundamentalism of cherishing any lowering experience has long captivated the liberal imagination. Liberals don’t realize the paradox that any transgressive mode is an ultimate longing for limiting authority. It is a nostalgic search of the sacred order. Yet alas! Liberal prophets such as Wilhelm Reich, Theodore W. Adorno, Herbert Marcuse and Michel Foucault have succeeded in triumphant lowering and demoralization of Western institutions such as nation, church, military and family, first targeted by Sigmund Freud as repressive modern institutions. But Freud in contrast to his successors at least acknowledged the imperative of repression for any civilization. Yet to no avail. The postmodern prophets of the anti-authoritarian persuasion pressed for ever more lowering of discipline which then has been marketed as alternative life-style.
Freud’s most serious flaw was to reduce the fundamental question of sacred order to the parent question, framing it in his deceptively accessible therapeutic arrangements. But meta-psychologically he obscured the universal status of the question of moral vertical order. It was for this very reason that the death of Satan was far more consequential than the death of God. For the sense of sinful transgression or of lowering or raising moral standards has been completely lost. It has generated an aesthetic without evil as happened with the cult of liberal honesty and the modern therapeutic arrangement. This is why even serious transgressions such as rape and child abused are not anymore recognized as evil. This is the essence of LGBT culture.
The successful abolition of evil has blindfolded the straight public into indulging the destruction of their still sacramental concept of marriage. Everything is on the same level in this world of “comic ugliness and lustered nothingness” (Wallace Stevens “Esthetique du Mal”, in Collected Poems, New York: Alfred Knopf, 1976, 313-26). The dynamics of homosexual emancipation, as with female emancipation before, is under the spell of Freud’s “primary process”: never to be satisfied, for its endless nostalgia for “the place in which to be is not enough to be” (ibid Stevens). Thus don’t fool yourself into believing after sanctioning same-sex marriage the trouble will be over. Far from it the LGBT machine will go on. We will probably see demands for the abolition of incest or the normalization of pedophilia and lots more debasement.
It is an interesting observation that homosexuals emerged in the bourgeois culture in the 19th century as connoisseurs of the arts, gourmets and highbrow intellectuals not publicly living out their sexual orientation. What was irritating some is the combination of aesthetics refinement with at times profane even brutal sexuality. This is famously also a feature of the emerging modern art in fin-de-siècle Europe.
As we have seen in 1968: the apostles of anti-culture invited violence as emancipatory means and pathetic indiscipline: ”Under such shifting conditions, all justifications exposed as ideologies, the discipline necessary for collective existence must become more entirely outward than ever before in our history.” This externalization or “coming out” is unsustainable for the reasons mentioned above and may collapse sooner or later. At some point heterosexuals might not be able to cope with the double whopper of transgression and aggression. Philip Rieff argues: scientists produce new facts but gay orgiasts produce new experiences. This will be the modern dialectic between progressive technologists like the contraceptive pill or fertility and insemination doctors on one side and regressive sensualists of the LGBT persuasion on the other. As a result we will get more disoriented science and less moral guidance rooted in a culture of religious interdicts. This dynamic has already overwhelmed the universities which are meant to protect our culture.
Rieff asserts;
"If a past has no authority, then it is dead, however expensive its artifacts. There can be no culture without living authority, right and proper demands superior to competing immediacies, not reducible to nor identical with power, which is the successful assertion of one's own immediacy over another's."
Power grabs and assertion of immediacies are the one thing that LGBT advocacy understands. It reflects the intricate dynamics between transgression and aggression which was anticipated by the Roman emperor Hadrian, one of the supreme monsters of Jewish history, as Simon Sebag Montefiori tells us in his monumental new biography of Jerusalem: “In 130 C.E., the emperor visited Jerusalem, accompanied by his young lover Antinous, and decided to abolish the city, even down to its very name. He ordered a new city to be built on the site of the old one, to be named Aelia Capitolina, after his own family and Jupiter Capitolinus (the god most associated with the empire), and he banned circumcision, the sign of God’s covenant with the Jews, on pain of death” (Phoenix, London 2012, p.160). The same significance accrues to the abolition of traditional marriage and the construction of a new same-sex Jupiter cult. Lord Carey, the former Archbishop of Canterbury, has put it succinctly “Marriage precedes both the state and the church, and neither of these institutions have the right to redefine it in such a fundamental way.”
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